Storia di un esule: L'evoluzione della poesia dell'esilio di Ovidio dai Tristia alle Epistulae ex Ponto 3515133712, 9783515133715

Quando il poeta latino Publio Ovidio Nasone fu condannato all'esilio dall'imperatore Augusto, la sua vita subì

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Italian Pages 242 [246] Year 2022

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Table of contents :
Premessa
Sommario
Introduzione: Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio
1. Desinere, compescere, ingenio imperare: Ovidio e il problema della fine
2. Storia di un esule: closure e narrazione
3. Evoluzione della poesia, temporalità dell’esilio
4. Tempo dell’esilio, tempo dell’impero: Ovidio, Augusto e i pericoli della chiusura
Capitolo 1: Tristia 1–2 e il carattere incompiuto dell’esilio di Ovidio
1. Tristia 1 come liber: limite e continuazione
1.1 Totus libellus: l’unità di trist. 1
1.2 Quaerenti plura legendum: annunci editoriali e poesia che continua
2. La fine che non è fine
2.1 Vita, morte, metamorfosi: un modello narrativo per l’esilio
2.2 Vita, morte, metamorfosi: trist. 1.3 e l’inizio dell’esilio
3. Intermezzo: lo spazio del poeta in viaggio
4. Citraque necem tua constitit ira: Augusto, la clementia e il potere ‘incompiuto’
Capitolo 2: Tristia 3–5 e la poetica dell’addizione
1. Ovidio, l’esilio e il rischio dell’eternità
2. Ai confini del liber: inizi e fini in trist. 3–5
2.1 Fine del viaggio: fine dei Tristia? Chiusura e imperfezione in trist. 3.1 e 3.14
2.2 Fuochi che salvano, morti che vivono: trist. 4.1 e 4.10
2.3 E infine, l’assenza di fine: trist. 5.1 e 5.14
3. Tempo intermedio, tempo ciclico, tempo eterno in trist. 3–5
3.1 Seconde metà, nuovi inizi: trist. 3.2
3.2 L’epilogo impossibile: trist. 3.7–8
3.3 La mora di Medea esule: trist. 3.9
3.4 Tempi difficili: cicli temporali e (in)finitezza dell’esilio in trist. 3.10–13
3.5 Variazioni su morte e vecchiaia: trist. 4.6 e 4.8
3.6 Città assediate e cerchi che stringono: trist. 5.10
Capitolo 3: Epistolarità, comunicazione, chiusura dai Tristia alle Epistulae ex Ponto
1. Una questione di lettere
2. Elegia epistolare, epistola elegiaca: evoluzione delle forme e strategie di comunicazione dai Tristia alle Epistulae ex Ponto
2.1 Vade, liber: trist. 1.1 e l’epistolarità dei Tristia
2.2 La Musa incatenata: nome degli amici e funzione elegiaca nei Tristia
3. Ripetitività ciclica e mora epistolare: Epistulae ex Ponto 1–3
3.1 Ianua clausa: la collezione di epistole tra chiusura e apertura
3.2 Le longae morae del poeta epistolografo
4. Quae iam finis erit?: Pont. 4 e la fine in dissolvenza
Epilogo
Bibliografia
Principali edizioni e commenti di Tristia, Ibis ed Epistulae ex Ponto
Altre opere citate
Indici
Indice dei passi citati
Indice dei nomi e delle cose notevoli
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Storia di un esule: L'evoluzione della poesia dell'esilio di Ovidio dai Tristia alle Epistulae ex Ponto
 3515133712, 9783515133715

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Edoardo Galfré

Storia di un esule L’evoluzione della poesia dell’esilio di Ovidio dai Tristia alle Epistulae ex Ponto

Klassische Philologie Franz Steiner Verlag

Palingenesia | 135

Palingenesia Schriftenreihe für Klassische Altertumswissenschaft Begründet von Rudolf Stark Herausgegeben von Christoph Schubert Band 135

Storia di un esule L’evoluzione della poesia dell’esilio di Ovidio dai Tristia alle Epistulae ex Ponto Edoardo Galfré

Franz Steiner Verlag

Gedruckt mit freundlicher Unterstützung der Geschwister Boehringer Ingelheim Stiftung für Geisteswissenschaften in Ingelheim am Rhein

Coverabbildung: Phönix aus einem byzantinischen Mosaik aus Antiochia am Orontes, jetzt im Louvre (Paris) © akg-images / Erich Lessing Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über abrufbar. Dieses Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist unzulässig und strafbar. © Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2023 Layout und Herstellung durch den Verlag Druck: Memminger MedienCentrum, Memmingen Gedruckt auf säurefreiem, alterungsbeständigem Papier. Printed in Germany. ISBN 978-3-515-13371-5 (Print) ISBN 978-3-515-13376-0 (E-Book)

Alla mia famiglia

Premessa Questo lavoro costituisce una versione rivista della mia tesi di dottorato (Tesi di Per­ fezionamento) in Scienze dell’Antichità discussa presso la Scuola Normale Superiore di Pisa nel febbraio 2019. Di quest’ultima è stata mantenuta la struttura originaria e sono state eliminate due sezioni presentate ad altrettanti convegni e pubblicate sin­ golarmente (Galfré 2019 e Galfré 2020); Galfré 2021 consiste invece in una traduzione inglese – con qualche aggiunta – di parti dei capp. 1 e 2. Il volume si pone come proposta di interpretazione complessiva della poesia dell’esi­ lio di Ovidio, in particolare delle due collezioni Tristia ed Epistulae ex Ponto. Di esse si offre una lettura diacronica, il cui obiettivo è lo studio del modo in cui la poesia dell’esule a Tomi evolve nel corso del tempo e della misura in cui la dimensione del tempo viene tematizzata e svolge dunque un ruolo in queste opere. La premessa per questo genere di analisi è data dal riconoscimento del fatto che, in virtù della circo­ stanza del tutto straordinaria della condanna, il poeta relegato offre ai suoi lettori una serie di raccolte prodotte in successione, per le quali viene da un lato enfatizzata l’appartenenza a un medesimo corpus ben riconoscibile, dall’altro problematizzato il rapporto fra autore e opera quanto alla possibilità di porre un limite al corpus stesso. L’approccio è latamente narratologico e parte dalla considerazione, in particolare, di un tema caro agli studi di narratologia, la cosiddetta ‘chiusura poetica’ (poetic closure). La ‘storia’ dell’esule Ovidio non è dunque da intendersi come la ricostruzione storica (o storiografica) delle vicende legate a questa fase della sua biografia, bensì come l’in­ dagine, svolta appunto seguendo la successione cronologica delle suddette raccolte, di un aspetto specificamente letterario che a mio avviso caratterizza le opere dell’esilio di Ovidio in modo particolarmente rilevante. L’elaborazione, la stesura e la revisione del lavoro hanno tratto profitto dal sostegno, manifestato in forme diverse e tuttavia parimenti cruciali, di molte persone verso cui mi sento debitore perlomeno di un ringraziamento. Prima e più importante guida nel corso dei miei anni a Pisa è stato Gianpiero Ro­ sati, che non soltanto ha seguito la produzione di questo e di altri studi (spesso nati nel contesto o a margine dei seminari frequentati alla Scuola Normale), ma ha influito più di ogni altro sulla formazione degli ambiti in cui si è finora mossa la mia attività di ricerca; è bello per me constatare che tutto ciò è avvenuto con naturalezza, senza sforzi eccessivi né particolari ansie, in un rapporto in cui hanno sempre pesato più i

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Premessa

fatti che le parole. Nei medesimi anni, Andrea Giardina, con cui ho spesso condiviso i miei interessi ovidiani, ha impersonato ai miei occhi la figura di un docente che in tutto aderisce ai canoni del grande maestro. Le migliorie necessarie a rendere questo studio pubblicabile sono altresì giunte dai membri della commissione di fronte alla quale ho discusso la tesi, in particolare da Emanuele Berti, Mario Labate e Alessandro Schiesaro, che ha poi incoraggiato i successivi sviluppi della pubblicazione. La serie più ampia e preziosa di osservazioni e critiche su cui si è basata la mia revisione post­dottorale si deve a Mario Citroni, i cui apporti sono stati per me addirittura più cospicui di quanto possano far intuire i rimandi bibliografici nelle note di questo libro. Dal momento che qua e là ho consapevolmente deciso di non modificare argomenti o interpretazioni di fronte a cui le persone fin qui citate hanno sollevato forse più di un sopracciglio, tengo a precisare che rimango l’unico responsabile di quanto offrono le pagine che seguono. La discussione di dottorato, di cui questo lavoro è stato oggetto, ha rappresentato anche il suggello – ma non la fine ultima! – dei dieci anni esatti che ho trascorso a Pisa in compagnia di alcune fra le persone che reputo più care. Le nomino e ringrazio in or­ dine rigorosamente alfabetico: Martina Bottacchiari, Margherita Fantoli, Carlo Ferra­ ri, Arianna Gullo, Francesco Morosi, Ilaria Morresi, Emilio Rosamilia, Silvia Speriani, Anna Zago. Molto da imparare e condividere c’è stato inoltre con i compagni di studio e perfezionamento Francesco Busti, Francesco Cannizzaro, Vincenzo Casapulla, Anna Maria Cimino, Francesca Econimo, Adalberto Magnavacca, Marta Perilli. Fra le amici­ zie che dagli anni pisani durano e si rafforzano nel tempo annovero Elisabetta Manca, Andrea Mitridate, Marcello Reggiani e Marco Signori. Se penso ai momenti in cui questo studio ha rispettivamente ricevuto lo spunto iniziale e intrapreso la via della stampa, questi si sono svolti lontano dalla Toscana. Una serie di idee all’apparenza promettenti nonché i primi tentativi di metterle per iscritto sono il frutto di un soggiorno di ricerca presso la University of California Los Angeles e di una serie di discussioni con Francesca Martelli. La fase di revisione ha invece avuto interamente luogo in Germania, a Erlangen, dove Christoph Schubert mi sta quotidia­ namente insegnando che cosa significa essere allo stesso tempo un buon didatta e un ottimo filologo; a lui sono molto grato per aver letto e corretto l’intero manoscritto e per aver accettato di pubblicarlo nella collana da lui diretta. Restano coloro a cui è dedicato questo libro: ai miei genitori, Bruno e Chiara, devo la libertà di cui si sono giovate tutte le mie scelte. Mia sorella Mariasole mi ricorda che cos’è la dedizione. Mia moglie Annalisa è la persona al cui solo pensiero, ovunque io sia, mi sentirò sempre a casa. Erlangen, giugno 2022

Premessa

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Nota critica: Nel presente lavoro, il testo di Tristia ed Epistulae ex Ponto cui faccio rife­ rimento è in generale quello stabilito da Owen 1915, ma le edizioni più recenti (in part., quella di Hall 1995 per i Tristia, di Richmond 1990 per le ex Ponto) saranno tenute in considerazione, nonché talvolta preferite, nella segnalazione delle varianti e delle pro­ poste congetturali; per l’Ibis seguirò il testo e la numerazione dei versi di La Penna 1957.

Sommario Introduzione Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Desinere, compescere, ingenio imperare: Ovidio e il problema della fine . . . . . . . . 2. Storia di un esule: closure e narrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Evoluzione della poesia, temporalità dell’esilio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Tempo dell’esilio, tempo dell’impero: Ovidio, Augusto e i pericoli della chiusura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Capitolo 1 Tristia 1–2 e il carattere incompiuto dell’esilio di Ovidio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Tristia 1 come liber: limite e continuazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1 Totus libellus: l’unità di trist. 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2 Quaerenti plura legendum: annunci editoriali e poesia che continua . . . . . . 2. La fine che non è fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1 Vita, morte, metamorfosi: un modello narrativo per l’esilio . . . . . . . . . . . . . . . 2.2 Vita, morte, metamorfosi: trist. 1.3 e l’inizio dell’esilio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Intermezzo: lo spazio del poeta in viaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Citraque necem tua constitit ira: Augusto, la clementia e il potere ‘incompiuto’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Capitolo 2 Tristia 3–5 e la poetica dell’addizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 1. Ovidio, l’esilio e il rischio dell’eternità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 2. Ai confini del liber: inizi e fini in trist. 3–5 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 2.1 Fine del viaggio: fine dei Tristia? Chiusura e imperfezione in trist. 3.1 e 3.14 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 2.2 Fuochi che salvano, morti che vivono: trist. 4.1 e 4.10 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 2.3 E infine, l’assenza di fine: trist. 5.1 e 5.14 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 3. Tempo intermedio, tempo ciclico, tempo eterno in trist. 3–5 . . . . . . . . . . . . . . . . 103 3.1 Seconde metà, nuovi inizi: trist. 3.2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 3.2 L’epilogo impossibile: trist. 3.7–8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 3.3 La mora di Medea esule: trist. 3.9 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114

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Indice dei passi citati

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Tempi difficili: cicli temporali e (in)finitezza dell’esilio in trist. 3.10–13 . . . . . 120 Variazioni su morte e vecchiaia: trist. 4.6 e 4.8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 Città assediate e cerchi che stringono: trist. 5.10 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

Capitolo 3 Epistolarità, comunicazione, chiusura dai Tristia alle Epistulae ex Ponto . . . . . 146 1. Una questione di lettere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 2. Elegia epistolare, epistola elegiaca: evoluzione delle forme e strategie di comunicazione dai Tristia alle Epistulae ex Ponto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150 2.1 Vade, liber: trist. 1.1 e l’epistolarità dei Tristia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 2.2 La Musa incatenata: nome degli amici e funzione elegiaca nei Tristia . . . . . . 164 3. Ripetitività ciclica e mora epistolare: Epistulae ex Ponto 1–3 . . . . . . . . . . . . . . . . . 170 3.1 Ianua clausa: la collezione di epistole tra chiusura e apertura . . . . . . . . . . . . . 170 3.2 Le longae morae del poeta epistolografo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180 4. Quae iam finis erit?: Pont. 4 e la fine in dissolvenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 195 Epilogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216 Principali edizioni e commenti di Tristia, Ibis ed Epistulae ex Ponto . . . . . . . . . . 216 Altre opere citate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217 Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 230 Indice dei passi citati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 230 Indice dei nomi e delle cose notevoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240

Introduzione Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio 1. Desinere, compescere, ingenio imperare: Ovidio e il problema della fine Al termine di una delle sue Controversiae, dedicata all’esame di una causa de vi a pro­ posito di un nonno che si è reso responsabile del sequestro di un nipote al fine di proteggerlo dalle sospette intenzioni della matrigna, Seneca il Vecchio spende alcune parole sullo stile di uno dei retori intervenuti in quella occasione, Vozieno Montano (contr. 9.5.15 ss.). A fronte dell’acutezza di ingenium che gli si riconosce, c’è in partico­ lare un difetto che, a dire dello stesso Seneca, rischia di compromettere le pur note­ voli doti di questo oratore, ed è l’uso di ripetere il medesimo concetto più e più volte in forma appena variata (ivi, 17): habet hoc Montanus vitium: sententias suas repetendo corrumpit; dum non est contentus unam rem semel bene dicere, efficit ne bene dixerit. In considerazione di questo aspetto del suo stile, continua Seneca, «e di altre caratte­ ristiche in virtù delle quali un oratore può sembrare simile a un poeta» (propter alia quibus orator potest poetae similis videri), un altro retore del suo tempo, Scauro, usava definire Montano «l’Ovidio degli oratori» (inter oratores Ovidium), dal momento che, come risulta, «nemmeno Ovidio sa abbandonare un concetto ben espresso» (nam et Ovidius nescit quod bene cessit relinquere). Allo stesso Scauro va del resto ricondotta una definizione piuttosto curiosa, speculare rispetto a quella appena vista, la classificazione come ‘Montaniana’ di una serie di passi ovidiani in cui appare maggiormente visibile il difetto ora descritto, fra i quali Seneca annovera il ‘lamento di Ecuba’ (met. 13.503 ss.).1

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Su tutto questo passo è da vedere Berti 2007, pp. 304 ss., che riporta e discute la bibliografia prece­ dente (fra cui si distingue Mantovanelli 2000); cfr. il rifiuto, espresso a p. 306 n. 1, della provoca­ toria ipotesi di O. Zwierlein, che vorrebbe identificare nei Montaniana una serie di interpolazioni alle Metamorfosi riconducibili al poeta di età tiberiana Giulio Montano. Quanto al vitium di cui si parla nel nostro passo, si tratta del procedimento della paraphrasis (earundem rerum iteratio, come dice Seneca), su cui cfr. anche Fronto p. 154 v. d. H., eandem sententiam milliens alio atque alio amictu

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

Montano come Ovidio, Ovidio come Montano: ingegni acutissimi, incapaci tuttavia di «smettere» (aiebat autem Scaurus rem veram: non minus magnam virtutem esse scire dicere quam scire desinere). In un altro, più noto passo delle Controversiae Seneca parla anche dello stile di Ovi­ dio declamatore (2.2.8 ss.): alla scuola di Arellio Fusco il futuro poeta ha dato ancora una volta prova di grande talento (habebat ille comptum et decens et amabile ingenium), ma secondo un gusto e un’inclinazione che già allora avvicinavano la sua oratoria allo stile della poesia (oratio eius iam tum nihil aliud poterat videri quam solutum carmen). Nel declamare soprattutto suasoriae, del resto, il giovane Ovidio dimostrava un uso più contenuto delle parole, a differenza di ciò che avrebbe fatto nei propri carmi, nei quali secondo Seneca il poeta si sarebbe addirittura compiaciuto di difetti della cui presenza era perfettamente consapevole (ivi, 12, in quibus [carminibus] non ignoravit vitia sua sed amavit); lo dimostra il celebre episodio qui menzionato, la ‘sfida’ tra Ovidio e i suoi amici a proposito dei tre versi che quelli avrebbero voluto eliminare, ma che il poeta riuscì a conservare manifestando una notevole autocoscienza critica.2 Seneca ne conclude che una caratteristica tipica della poesia ovidiana, che come vediamo sem­ bra tuttavia rappresentare l’espressione di un gusto diffuso nell’oratoria della prima età imperiale, è propriamente rappresentata dalla incapacità, o per meglio dire dalla non­ volontà, di «frenare» la propria licentia, di imporre un limite cioè a una ‘esuberanza’ retorica e stilistica che può a buon diritto essere giudicata un vero e proprio difetto (ex quo apparet summi ingenii viro non iudicium defuisse ad compescendam licentiam carminum suorum sed animum). Su questa stessa linea si collocano anche i giudizi di Quintiliano a proposito della programmatica indisponibilità a «governare» il proprio ingenium dimostrata da Ovidio fin da una delle sue prime prove poetiche, la Medea.3 Accostandosi a questa serie di osservazioni, l’interprete moderno può riconoscere alcune caratteristiche della poesia di Ovidio cui negli studi recenti non si è più dispo­ sti ad attribuire, per l’appunto, quel carattere ‘difettoso’ che, forse anche sulla scia dei giudizi degli stessi Seneca e Quintiliano, era un tempo loro assegnato da chi riscontra­ va nella produzione del nostro autore un’eccessiva presenza della retorica e di alcuni evidenti retaggi derivati dalle pratiche della declamazione.4 A fronte della indomabile licentia riconosciuta a Ovidio nei passi ora riportati, un’espansione del linguaggio e dell’espressione i cui effetti possono essere in sostanza ricondotti a due caratteristi­ che tracciabili nei diversi livelli di cui il testo si compone, ripetitività (earundem rerum iteratio) e indisponibilità alla conclusione (scire desinere; ad compescendam licentiam;

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indutam – una movenza retorica emblematicamente presente, come argomenta Frontone, nel pro­ emio del Bellum civile di Lucano. Cfr. ancora Berti 2007, pp. 211 s. e 291 ss.; sull’intero passo, si veda ora anche Berti 2016. Cfr. Quint. inst. 10.1.88, lascivus quidem in herois quoque Ovidius et nimium amator ingenii sui; ivi, 98, Ovidi Medea videtur mihi ostendere quantum ille vir praestare potuerit si ingenio suo imperare quam indulgere maluisset. Ovidio e la retorica: cfr. in generale Hardie 2002a, pp. 36 ss. (con bibliografia).

Desinere, compescere, ingenio imperare: Ovidio e il problema della fine

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ingenio suo imperare), sembra oggi al contrario costituire uno spunto critico senz’altro promettente il riconoscimento del fatto che la poesia di Ovidio appare segnata da «a drive to repetition that undermines teleology and closure».5 Del resto, se da un lato queste peculiarità possono essere variamente registrate in tutte le opere che compon­ gono l’arco della lunga e variegata carriera poetica di Ovidio, nonché nell’interazione e soprattutto nella continuità tra di esse,6 la serie di raccolte con cui questa parabola (infine) si conclude, le opere dell’esilio, costituiscono senza dubbio la più esplicita e autocosciente espressione di entrambe le caratteristiche ora individuate. Può essere interessante, in effetti, notare che in Tristia, Ibis ed Epistulae ex Ponto il poeta esule fornisce un’idea delle (difettose) peculiarità che contraddistinguono questa ultima fase della sua produzione anche e soprattutto nei termini di quei vitia di cui parlano Seneca e Quintiliano: da un lato, la ripetizione del gesto poetico7 che si traduce nella iterazione dei medesimi contenuti;8 dall’altro, e di conseguenza, la tendenza a com­ promettere la possibilità di assistere a un movimento cui il lettore sia autorizzato ad attribuire un carattere sostanzialmente e inequivocabilmente conclusivo.9 Ripetitivi­ tà e non­finitezza potrebbero così veramente costituire due grossolani difetti, rilevati dall’autore stesso, di una poesia nata nelle peculiari condizioni dell’esilio e investita di una specifica funzione pragmatica e persuasiva; allo stesso tempo, è a mio avviso intrigante pensare che, in questo modo, la poesia dell’ultimo Ovidio sembra in grado di restituirci alcuni aspetti tipici dell’intera produzione di questo autore riconosciuti come tali già in antichità. In questo lavoro mi propongo di offrire un esame delle opere dell’esilio di Ovidio (le raccolte di Tristia e di Epistulae ex Ponto, mentre l’Ibis fungerà piuttosto da punto di partenza, come vedremo) considerando la presenza e l’effettività delle categorie che abbiamo enucleato: teleologia e ripetizione, chiusura e apertura, finalità e infinitezza costituiranno i punti di riferimento critico nel corso della trattazione. L’analisi di que­ sti aspetti della produzione esilica di Ovidio, d’altra parte, sarà svolta nel modo che

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Barchiesi – Hardie 2010, p. 60. Sulla ripetizione nelle Metamorfosi è da vedere la recente raccolta curata da Fulkerson – Stover 2016; sul carattere programmatico del referre aliter idem (ars 2.128) si fonda lo studio di Sharrock 1994; su chiusura (intesa soprattutto come ‘compiutezza’) e Metamorfosi, cfr. in part. Theodorakopoulos 1999. Ovidio orgogliosamente rivendica il ‘diritto’ alla licentia poetica in am. 3.12.41, exit in immensum fecunda licentia vatum (da leggere con Rosati 1979, pp. 133 ss.). Continuità dei testi in Ovidio: cfr. Barchiesi 1986, pp. 102 ss. Cfr. trist. 2.3, cur modo damnatas repeto, mea crimina, Musas? Cfr. Pont. 3.7.1, verba mihi desunt eadem tam saepe roganti; 3.9.1, quod sit in his eadem sententia, Brute, libellis … (una formulazione particolarmente accostabile all’eandem sententiam milliens alio atque alio amictu indutam del passo frontoniano sopra citato); cfr. inoltre Ib. 63 s., haec tibi natali facito Ianique kalendis / non mentituro quilibet ore legat (secondo le intenzioni del poeta, Ibis dovrà ascoltare l’infinita serie di maledizioni almeno due volte l’anno). Cfr. trist. 5.1.29 s., et quota fortunae pars est in carmine nostrae? / felix, qui patitur quae numerare potest!; Ib. 639 ss., pauca quidem, fateor … postmodo plura leges; Pont. 1.2.27, fine carent lacrimae.

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

considero più idoneo alla loro più efficace valutazione, seguendo cioè lo sviluppo di queste raccolte nel corso del tempo, l’evoluzione diacronica di una poesia troppo spes­ so considerata secondo un’ottica essenzialmente, genuinamente sincronica. Esaminare la non­finitezza, il sofferto eppure costante superamento di un punto apparentemente individuabile come ‘conclusivo’ significherà soprattutto mettere a fuoco gli effetti via via generati sui (primi) lettori da una serie di raccolte prodotte man mano, inviate libro dopo libro, nel corso dei lunghi, interminabili anni trascorsi dal poeta nella remota lo­ calità pontica. Seguire la storia dell’esule Ovidio riprodotta letterariamente può aiuta­ re insomma a comprendere che l’esperienza dell’esilio non ha semplicemente messo in crisi la produttività e l’originalità di un autore che proprio alla poesia sceglie di affidare la speranza di ottenere il perdono; questa medesima scelta ha anche posto il nostro autore di fronte alla circostanza di non potersi più riconoscere come unico e indiscu­ tibile artefice della durata di una fase poetica la cui conclusione appare intimamente connessa a una decisione, quella di terminare la condanna, che sarebbe spettato ad altri intraprendere. Si può affermare che la ripetitività e l’assenza di fine riscontrabili nelle opere dell’esilio di Ovidio costituiscono due caratteristiche che il poeta lamenta nel tentativo, che potremmo a buon diritto giudicare struggente, di mostrare la dege­ nerazione e l’affievolimento cui l’esilio ha costretto la sua ispirazione poetica;10 d’altra parte, è interessante intuire fin d’ora che di questi difetti riconosciuti ai carmi composti a Tomi il poeta finisce per indicare soprattutto Augusto quale inopinato responsabile. Per cominciare, nelle pagine che seguono provvederò a collocare la tipologia di ana­ lisi cui intendo sottoporre le opere ovidiane dell’esilio nel contesto di una cornice più ampia, sfruttando in particolare alcuni spunti derivati dagli studi di carattere narratolo­ gico, nonché svolgendo alcune osservazioni introduttive sulla dimensione temporale che definisce e determina l’evoluzione di queste medesime raccolte. 2. Storia di un esule: closure e narrazione Studiare il carattere non­finito delle opere dell’esilio di Ovidio, e quindi il consapevole riconoscimento della ripetitività di forme e contenuti, significa anche seguire le tracce di una tipologia di analisi nata nel contesto degli studi di narratologia. Sulla base di alcuni lavori apparsi nel corso degli anni Sessanta, che pur nella diversità di imposta­ zione e materia hanno contribuito in modo decisivo a ritagliare i contorni dell’approc­ cio in questione,11 si deve soprattutto a Don Fowler il merito di aver sottoposto all’at­ tenzione degli antichisti la necessità e l’opportunità di studiare la fine (closure) delle opere letterarie, l’insieme cioè di quelle strategie attraverso cui un autore segnala ai 10 11

Sul fatto che questa lamentela costituisca una ‘posa’ del poeta condannato, importanti considera­ zioni in Williams 1994, pp. 50 ss. Mi riferisco in part. a Eco 1962 [19672]; Kermode 1966; Herrnstein Smith 1968.

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propri lettori il progressivo avvicinamento, e infine il completo raggiungimento, di una conclusione che sulla base dell’evoluzione dei contenuti dell’opera risulta giudicabile come più o meno soddisfacente, più o meno pertinente rispetto alle attese generate nel corso della lettura.12 Un’analisi di carattere narratologico non può prescindere dal­ la considerazione del momento conclusivo che funge da suggello della storia narrata, la cui sezione finale rende possibile valutare «the degree to which narratees come to see that end as satisfyingly final, answering any remaining questions and resolving any tensions».13 Come i lavori menzionati dimostrano, tuttavia, lo studio della closure risul­ ta estendibile anche ai generi non direttamente correlati a un intento espressamente narrativo, rivelandosi anzi uno strumento utile a una migliore comprensione dei dif­ ferenti livelli su cui si articola un testo (singolo componimento, serie di carmi, libro poetico, raccolta complessiva), nonché alla risoluzione di problemi affatto rilevanti in materia di micro­ e di macrofilologia.14 Analizzare le opere dell’esilio di Ovidio in termini di closure permette a mio avviso di rintracciare una prospettiva utile a una più precisa definizione di alcuni aspetti pe­ culiari e insieme cruciali di questa parte della sua vasta opera. Una domanda posta da Niklas Holzberg fornisce in questo senso uno stimolante spunto di avvio: The basic question that anyone interpreting Ovid’s elegies of exile has to answer is, how deeply did the peculiar situation in which the poet wrote influence the matter and manner of this poetry?15

È chiaro infatti che l’individuazione delle particolarità di questa poesia – una poesia che l’autore non avrebbe mai composto, se non si fosse trovato nella necessità di far­ lo, ma che tuttavia dimostra di intrattenere un legame indissolubile con le precedenti

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Per una serie di definizioni di «closure» si veda Fowler 1989, p. 78 (ma l’intero articolo offre una vasta rassegna delle variegate problematiche generate da questo tipo di studio, nonché una cospi­ cua serie di esempi ricavati dalle letterature greca e latina); cfr. quindi Fowler 1997 (entrambi questi lavori sono poi inclusi in Fowler 2000, pp. 239 ss. e 284 ss.). De Jong 2014, p. 90; cfr. p. 91: «the term open­endedness is also used to refer to narratives of which the interpretation is ambiguous» (segue l’esempio dell’Eneide, celebre caso di fine non­fine per cui si veda soprattutto Hardie 1997, pp. 142 ss.). Cfr. ancora Fowler 1989, pp. 82 ss. (= Fowler 2000, pp. 246 ss.) sulla distinzione tra «infratextual closure» (ad esempio, la fine del singolo libro, «which is the closest analogy to the chapter in the modern novel») e «supertextual closure» (la serie di opere di uno stesso autore in quanto corpus). È quasi il caso di dire che questa serie di osservazioni si è riflessa nella nutrita serie di contributi specifici che analizzano questi aspetti, con risultati spesso importanti, nelle opere della classicità greco­latina: sulla closure nelle opere della letteratura classica, si vedano le raccolte di saggi curate da Roberts – Dunn – Fowler 1997 e Grewing – Acosta­Hughes – Kirichenko 2013. La considerazione dell’opera di uno stesso autore in quanto corpus si è sviluppata nell’importante filone di studi a proposito delle ‘carriere letterarie/poetiche’, per cui cfr. Hardie – Moore 2010. Holzberg 2002, p. 196.

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fasi della sua produzione16 – non può certo limitarsi al livello dei contenuti; allo stes­ so tempo, sembra ormai giunto il momento di andare oltre l’analisi in queste opere del processo di trasfigurazione della vicenda autobiografica nel mezzo e nel mondo letterario costruito dall’esule a Tomi.17 Se c’è un’acquisizione che questi studi hanno ormai reso patrimonio diffuso, del resto, essa consiste proprio nel riconoscimento del­ la circostanza per cui, fatte salve le appartenenze generiche, anche le opere dell’esilio offrono una narrazione, si fanno cioè portavoci di un’istanza narrativa che è possibile seguire attraverso l’intero corso delle raccolte composte e inviate da Ovidio esule.18 La ‘narratività’ di Tristia ed ex Ponto sembra infatti un ingrediente attivo non soltanto nelle singole elegie in cui questo intento appare maggiormente visibile (in trist. 3.9 Ovidio racconta l’eziologia del nome di Tomi; in trist. 4.4 e Pont. 3.2 è la volta della fabula di Ifigenia fra i Tauri, svoltasi non lontano dalle rive del Ponto) e nemmeno nelle sezioni di queste raccolte in cui la rappresentazione delle vicende autobiografiche si svolge sulla falsariga di quelle degli eroi dell’epica (penso in particolare al momento iniziale dell’intera vicenda, il racconto del viaggio verso Tomi contenuto in trist. 1); un certo grado di narratività coinvolge più in generale il racconto di un’esperienza autobiografi­ ca che risulta affidato alla apparentemente ininterrotta aggiunta dei ‘capitoli’ di questa vicenda nei diversi libri progressivamente composti e inviati a Roma, nel corso di un tempo biografico che si riflette sul tempo poetico.19 L’inedita circostanza di composizione delle raccolte dell’esilio, in virtù della quale la loro pubblicazione può appunto essere descritta come progressiva, non ha ancora ricevuto, a mio avviso, l’attenzione che merita. Il sistema di composizione cui si è già fatto cenno, quello del ‘libro dopo libro’, può accostare questa fase della produzione ovidiana alla progressiva formazione del corpus di altri autori, primi fra tutti – signi­

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Questa osservazione è svolta ovviamente al netto della ben nota, e insostenibile, Fiktionsthese (Ovidio non fu mai condannato all’esilio) esposta in part. da Fitton Brown 1985; per una rassegna critica, cfr. Seibert 2014, pp. 48 ss. Per un’ottima panoramica introduttiva, cfr. Lechi 1993; buone osservazioni anche in Holzberg 1997. Fra gli studi più recenti, un’applicazione invero piuttosto estesa delle categorie della narratologia alle opere dell’esilio di Ovidio (‘Zeit und Diegese’, ‘Erzählsituation’, ‘Fokalisierung’, ‘Erzähler­ funktionen’) offre Seibert 2014, pp. 108 ss., un’analisi che è tuttavia frutto di un’impostazione trop­ po rigida e in generale poco produttiva: cfr. a questo proposito le condivisibili critiche sollevate da Merli 2017. L’approccio narratologico al genere elegiaco ha ricevuto un importante impulso in Liveley – Salzman­Mitchell 2008 (dove E. Tola parla dei Tristia nei termini genettiani di «story», pp. 52 s.). È interessante constatare che l’atto del narrare nelle opere dell’esilio è costretto anche – soprattut­ to – a qualche (auto)­censura: cfr. Pont. 2.2.59, lingua, sile: non est ultra narrabile quicquam (in un passo in cui il poeta indugia intorno alla vera natura dell’error causa della condanna e, limitando la propria narrazione e rendendola di fatto incompleta, esaspera a maggior ragione la curiosità dei lettori); in Pont. 2.7.33 s. l’esule afferma che la quantità dei propri mala è tale da poter riempire una Iliade: il carattere ‘narrativo’, esteso nel tempo, delle raccolte dell’esilio finisce per rendere epica (lunga) ed elegia (breve) più simili del previsto; cfr. infra, p. 215 per il parallelo con Prop. 2.1.14.

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ficativamente – i poeti dell’elegia erotica.20 È interessante notare che per Ovidio esso rappresenta da un lato l’espressione per certi versi estrema di una cronica predilezione per l’addendum (il terzo libro dell’Ars a seguito dei primi due, i Remedia dopo l’Ars, le Heroides doppie a integrazione delle Heroides singole, etc.); d’altra parte, la continua addizione dei singoli ‘costituenti’ delle raccolte dell’esilio (i singoli libri, con la parziale eccezione di Pont. 1–3, su cui ci soffermeremo) introduce una sostanziale novità anche nel panorama delle opere del nostro autore: l’unico caso confrontabile potrebbe in questo senso risultare la prima edizione degli Amores, se non fosse che – al di là delle enormi difficoltà critico­filologiche che questo tema presuppone – di quest’opera il poeta provvide a una riedizione ‘fatta e finita’ in tre libri.21 C’è tuttavia un aspetto che, necessariamente privo di precedenti, distingue le collezioni dell’esilio da qualsiasi al­ tra opera ‘progressiva’ ovidiana (e non solo) – ed è il fatto che a giustificare l’aggiunta non sembra questa volta soltanto l’intento di assecondare le attese di un pubblico af­ fezionato, ma anche e soprattutto l’urgente bisogno di mantenere con quel pubblico un contatto che l’esilio finirebbe inevitabilmente per distruggere.22 A rendere le opere dell’esilio di Ovidio davvero uniche risulta così la progressività della composizione di una poesia sorta da una necessità pratica, che di questa necessità segue l’estendersi in un tempo inopinatamente crescente, il cui inizio e la cui (sospirata) fine non sono presentati come esclusivo appannaggio del poeta – non lo sono di fatto quasi per nulla. La ‘storia’ dell’esilio di Ovidio costituisce un inedito caso di narrazione a puntate la cui conclusione non è nota né ai lettori né tantomeno all’autore.23 20

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Si pensi ad es. a un autore come Properzio, la cui carriera prende avvio dal singolo Monobiblos e la cui collezione si amplia progressivamente mediante l’aggiunta dei vari libri: al carattere ‘crescente’ e non­finito dell’elegia erotica farò più volte riferimento nel corso del lavoro, prima di approfon­ dire questo aspetto nelle pagine conclusive (dove si menzionerà anche la bibliografia, fiorita in anni recenti, su narrazione e tempo nell’elegia d’amore). Una certa attenzione al carattere tempo­ ralmente esteso della pubblicazione dei Tristia dedica Martelli 2013, pp. 147 s. (nel contesto di uno studio importante che citeremo più volte). Meriterebbe forse una trattazione sistematica, alla luce dell’approccio qui seguito, la consistenza di questo principio compositivo in autori di età successi­ va quali Marziale e lo Stazio delle Silvae, per i quali il modello di ‘poeta­editore’ rappresentato da Ovidio, e in particolare dall’Ovidio dell’esilio, appare per molti aspetti decisivo: cfr. Citroni 1995 (un lavoro cui farò altrettanto ricorso), pp. 475 ss. Bibliografia specifica infra, p. 81 n. 16. Cfr. Citroni 1986, p.  124: «il problema non era infatti soltanto l’atteggiamento che nei riguardi di queste elegie avrebbe assunto Augusto, […] ma anche l’atteggiamento che avrebbe assunto il pubblico. Ovidio sa di avere a Roma un pubblico affezionato: ma dopo la condanna, i suoi lettori avranno il coraggio di manifestargli simpatia e solidarietà? […] Ovidio sa che in questo caso af­ frontare il momento della pubblicazione significa affrontare un impatto ben più duro e rischioso di quanto non fosse avvenuto finora». Una serie di buone osservazioni sul peculiare rapporto fra autore, testo e lettore che la poesia dell’esilio di Ovidio mette in campo, anticipando in questo senso approcci moderni al problema dell’autorialità, offre ora Wessels 2021, pp. 119 ss., che tuttavia nega la presenza di una dimensione narrativa nei Tristia: «in den Tristien […] es gibt keine Ereignisse, keine Erzählung in Raum und Zeit» (p. 120). Sull’intreccio fra le tre dimensioni programmaticamente rintracciabile in trist. 1.1 è da vedere Mordine 2010.

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

I vantaggi offerti da una lettura diacronica della poesia tomitana di Ovidio realizzata secondo questi presupposti – una lettura che intende cioè ripercorrere e seguire i vari ‘capitoli’ della narrazione dell’esilio rappresentati dai libri che man mano accrescono le dimensioni dei Tristia e delle ex Ponto – può pertanto tradursi nello studio degli effetti che una poesia fatta di addenda è in grado di suscitare nel lettore tanto antico quanto moderno. Soprattutto, essa si propone di dare nuovo significato alla riconosciuta inca­ pacità di desinere di cui Ovidio fa mostra anche a Tomi – e che a fronte della parallela indisponibilità alla chiusura manifestata dal princeps assume, più che del difetto retori­ co, i tratti della resistenza poetica. 3. Evoluzione della poesia, temporalità dell’esilio Per riassumere quanto detto fin qui, nel presente studio intendo seguire l’evoluzione della poesia dell’esilio di Ovidio esaminando il modo in cui ogni progressiva aggiunta alla serie di libri già composti e congedati risulta da un lato resa necessaria dall’esten­ sione del tempo della condanna e insieme giustificata da una speranza  – quella del perdono – che evidentemente il poeta relegato continuava ad avere buoni motivi per non abbandonare del tutto; dall’altro, il ripetuto gesto di aggiungere nuove raccolte suscita l’effetto per cui la poesia composta dall’esule durante gli anni trascorsi a Tomi sembra programmaticamente rifuggire, secondo una modalità inedita anche per lo stesso Ovidio, dal conseguimento di una fine, dalla possibilità cioè di interrompere il dialogo con i lettori, pur aspirando continuamente – ed è su questo contrasto che varrà soprattutto la pena di riflettere – al raggiungimento di una conclusione, che vorrebbe idealmente coincidere con il termine della condanna. Analizzando le singole raccolte, sarà interessante rintracciare una buona parte del loro ‘dramma’ proprio nella ripetuta necessità, da parte del poeta condannato, di vedere allontanarsi – come già Tantalo con l’acqua e i frutti – i presupposti della compiutezza, la possibilità di conseguire un punto terminale pur sempre desiderato, la cui cronica irraggiungibilità determina al contrario l’essenza di una poesia che l’esilio finisce per rendere costitutivamente non­ finita, non­compiuta.24

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È importante rilevare fin d’ora (ma si tratta di un aspetto che in vario modo emergerà anche nel cor­ so della trattazione) che l’eterna incompiutezza del desiderio nutrito dal poeta in esilio a maggior ragione associa la sua esperienza – nonché la poesia che quella esperienza descrive e trasfigura – a quella tipica dell’amante (si pensi al caso emblematico di Narciso), la cui perenne insoddisfazione compromette «any final determination» (Rimell 2006, p. 4). Sull’esperienza erotica analizzata in termini di «desire» si veda anche Hardie 2002b, in part. pp. 30 ss. In entrambi gli studi menzionati si trovano del resto interessanti associazioni fra prime e ultima fase della produzione ovidiana rea­ lizzate in questa prospettiva, che mi pare si renda infine in grado di superare l’approccio, divenuto ormai ‘tradizionale’, di un lavoro quale Nagle 1980 – il confronto cioè fra elegia erotica ed elegia dell’esilio in termini di ruoli e personae, nonché di werbende Dichtung.

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Sarà parimenti necessario, d’altronde, descrivere l’evoluzione nel tempo delle rac­ colte dell’esilio tenendo conto anche dei mutamenti che questa poesia subisce nell’ar­ co dei quasi dieci anni coperti da Tristia ed ex Ponto: a proposito delle tendenze ‘sin­ croniche’ cui facevo cenno, mi pare che la critica su queste opere tenda troppo spesso a trascurare – al di là naturalmente del generico richiamo ai riferimenti cronologici di base – il fatto che, quando Ovidio inviò a Roma il suo primo libro di elegie tristi, non poteva certo immaginare che nel giro di qualche anno, quando ancora si sarebbe trova­ to a dover scontare la condanna, avrebbe inviato una collezione di epistole poetiche.25 Uno dei presupposti da cui questo studio intende prendere le mosse è costituito anche dalla necessità di seguire la trasformazione di una dinamica letteraria che si estende nell’arco di un tempo, la cui durata è tuttavia, come già osservato, non direttamente sottoposta al controllo dell’autore – il quale anzi cerca, attraverso la propria stessa po­ esia, di influenzare quella durata, sollecitandone l’esaurimento. L’urgenza del con­ tatto con il pubblico di Roma, che per l’esule sarebbe grave perdere, si coniuga così al bisogno di stimolare le attenzioni di quel pubblico attraverso la continua innovazione di forme e contenuti – una innovazione di cui pure il poeta lamenta la totale assenza nei tristi e monotoni carmi tomitani. In questo lavoro mi propongo di mettere in di­ scussione l’idea che quella dell’esilio vada considerata, nel contesto della carriera di Ovidio, come una fase poetica a sé stante caratterizzata da una omogeneità in grado di fissarla in un ‘blocco’ privo di movimento interno.26 Come è ormai sufficientemente emerso da quanto osservato finora, l’analisi che in­ tendo perseguire comporterà la valutazione critica nelle opere dell’ultimo Ovidio di una categoria appunto decisiva, ancora una volta, negli studi di carattere narratologi­ co – la categoria del tempo.27 L’esame dell’evoluzione diacronica della poesia dell’esi­ 25

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Fra gli studi complessivi sulle opere dell’esilio di Ovidio, uno sguardo tutto sommato attento alle dinamiche evolutive di questa produzione ha offerto Evans 1983, un lavoro superato per molti aspetti. Interessante Claassen 2008, pp. 10 ss. (che riprende Claassen 1986), dove si trova una sud­ divisione della poesia ovidiana dell’esilio in cinque fasi cronologiche distinte (e dove si esprime «the need to examine the exilic oeuvre in chronologically defined periods, that is, diachronically, rather than as an entity that sprang into being as a result of some long­term plan in the poet’s mind») – una suddivisione un po’ troppo artificiale, cui andrà preferito un approccio che con­ sideri la produzione di queste raccolte più nei termini di un ‘flusso continuo’ che in quelli di una serie di momenti rigidamente separati (cfr. in questo senso i buoni spunti nelle già citate pagine di Martelli 2013, pp. 147 s.; un accenno anche in Knox 2016, p. 186). Così, lo studio della teleologia di queste opere non dovrà trasformarsi in teleologismo, la preventiva considerazione cioè del loro carattere di raccolte concepite fin dall’inizio come ‘ultime’ (un rischio in cui sembra cadere p. es. Korenjak 2005). Emblematica in questo senso la valutazione che delle opere dell’esilio si trova ancora in uno studio recente quale Beck 2014, pp. 100 s. Per la considerazione delle opere dell’esilio di Ovidio in quanto «Einheit», cfr. Chwalek 1996, pp. 65 ss. contra Claassen 1986. Ai diversi modi in cui l’approccio avanzato in questo studio si distingue dal vasto e importante Wulfram 2008 farò cenno nel corso del lavoro: cfr. in part. infra, pp. 147 ss. Uno studio complessivo sul tempo nei testi narrativi della grecità è costituito dalla raccolta curata da De Jong – Nünlist 2007; cfr. più in generale De Jong 2014, pp. 73 ss.

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

lio si tradurrà nello studio della temporalità dell’esilio stesso, e dei suoi effetti provocati tanto sulle percezioni del poeta relegato quanto sulla poesia che quegli effetti registra e cerca, per lo più invano, di dominare. È bene pertanto anticipare qui alcuni aspetti legati a questo tema che avremo modo di sviluppare meglio nel corso del lavoro, ma che credo utile chiarire fin da subito alla luce della bibliografia specifica.28 In due importanti lavori sulle opere dell’esilio di Ovidio, Stephen Hinds ha giusta­ mente osservato che, da un poeta autore di due ampi poemi costitutivamente legati alla dimensione e alla organizzazione del tempo nella doppia concezione lineare e ci­ clica, le Metamorfosi e i Fasti, sarebbe strano non attendersi che un’attenzione partico­ lare venga rivolta a questa stessa dimensione nelle raccolte elegiache successive alla relegazione.29 Queste raccolte si collocano infatti per l’autore in un frangente biografico che risulta temporalmente assai ben individuato, un tempo cioè che viene dopo la tre­ menda catastrofe della condanna30 e che per il poeta ha finito per segnare «a watershed in universal time itself».31 Non sarà un caso se, dopo l’enfatica tematizzazione del tem­ po nei proemi delle due opere sopra menzionate (met. 1.4, ad mea perpetuum deducite tempora carmen; fast. 1.1 s., tempora cum causis … canam), l’elemento temporale tro­ va una presenza anche nei primi versi dell’elegia proemiale dei Tristia, connotato que­ sta volta come specifico ‘tempo dell’esilio’ (trist. 1.1.4, infelix habitum temporis huius habe, riferito al liber).32 A partire da queste premesse, Hinds dimostra che nelle opere dell’esilio l’organizzazione del tempo che aveva presieduto alle due grandiose costru­ zioni di Metamorfosi e Fasti va incontro a una inesorabile crisi e a una completa disso­ luzione, compromettendo da un lato quelle medesime costruzioni (l’esilio impedisce a Ovidio di ultimare entrambi i poemi)33 e caratterizzando dall’altro una poesia, quella 28

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Su narrazione e tempo nei Tristia, una serie di penetranti osservazioni – meritevoli di approfondi­ mento e soprattutto di estensione all’intera produzione dell’esilio – si trova in Videau­Delibes 1991, pp. 519 ss., dove si parla della «chronologie» la quale «ne fait que dilater un instant intermédiaire […]. Le sentiment de l’écoulement et celui de la stagnation sont éprouvés simultanément: la tem­ poralité de l’exil allie les contraires» (su ‘dilatazione’ e ‘ripetitività’, ‘fissità’ e carattere ‘interme­ dio’ del tempo dell’esilio intendiamo riflettere nel presente studio); «l’écriture des Tristes est un compromis entre la logique de l’enchaînement narratif et la fragmentation liée à un mètre et à une pratique traditionnelle du recueil élégiaque». Ma di frammentazione temporale e iterazione nei Tristia parla soprattutto Tola 2008, nel quadro di un’analisi che a mio avviso non esaurisce la com­ plessità del tema: cfr. Galfré 2021, pp. 57 s. (i cui contenuti sostanzialmente ripropongo in queste pagine e più avanti nel lavoro). Hinds 1999, p. 53: «each of the two great poems of Ovid’s middle period can be read as a kind of attempt to organize time: diachronic time structuring a history of the universe in the case of the Metamorphoses, synchronic or recurrent time structuring the Roman calendar in the case of the Fasti […]. What this means for the exile poetry is that mentions of time in these books have the potential to carry a certain Ovidian literary­historical freight (alike for author and for readers), a certain susceptibility to be measured against previous Ovidian characterizations of time». Ivi, p. 48: «after the catastrophe of 8 CE». Hinds 2005, p. 207. Cfr. Hinds 1999, pp. 53 s. Sul «new preface» alle Metamorfosi presentato in trist. 1.7.33 ss. è da vedere già Hinds 1985, pp. 25 ss.

Evoluzione della poesia, temporalità dell’esilio

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appunto dell’esilio, che offre una rappresentazione del tempo segnata dalla «meas­ urelessness», dall’impossibilità cioè di rintracciare i riferimenti temporali consueti e propri dell’esperienza – esistenziale e poetica – dell’autore precedente l’esilio.34 In questo contesto, un ruolo del tutto peculiare, nonché assai rappresentativo, è giocato dall’Ibis, «a poem cursed by ‘bad timing’, diachronically, synchronically, intradiegeti­ cally, extradiegetically»:35 come emerge fin dal primo verso, anche la poesia dell’Ibis si colloca con una certa precisione a seguito della ‘catastrofe’ della condanna (tempus ad hoc lustris bis iam mihi quinque peractis …) e si presenta come una serie di ingiurie che non conosce una fine (v. 241, tempus in immensum), non potendo materialmente contenere tutte le maledizioni che il poeta vorrebbe rivolgere all’anonimo nemico, per le quali ci sarà addirittura bisogno di un secondo scritto annunciato per il futuro (vv. 53 s.; 643 s.).36 L’infinità delle arai che sono e saranno rivolte al nemico si riflette nella (relativa) infinità del tempo in cui esse verranno ‘pronunciate’ – in due giorni specifici ogni anno, come si anticipava: il primo di gennaio e il giorno del compleanno di Ibis, l’infausto dies Alliensis (vv. 65 s.). «In the perverse world of Ovid’s exile, it is this elegy, and not the Fasti, which is marked out for recurrent, annual performance»;37 il singolare poemetto riprende e stravolge il tempo ciclico, e civico, dell’opera calendaria­ le, e insieme si colloca, come già le Metamorfosi, su una ideale linea temporale continua e progressiva destinata tuttavia all’eternità, alla non­finitezza – una inedita tipologia di carmen perpetuum.38 È interessante a mio avviso valutare fino a che punto e secondo quale prospettiva è possibile estendere questa serie di osservazioni alla intera produzione dell’esilio di Ovidio, facendo dunque dell’Ibis una sorta di caso­studio in grado di rivelarci un ap­ proccio da seguire. Mantenendo sullo sfondo le idee appena esposte, è importante a mio avviso notare un aspetto che nei lavori menzionati non è certo ignorato, ma non sembra ricevere la rilevanza dovuta. Se da un lato pare infatti essenziale individuare nella «measurelessness», nell’ossessiva e addirittura alienante a­temporalità, una caratteristica che segna l’esperienza soggettiva del poeta relegato, la cui percezione dello scorrere del tempo è più volte descritta come stravolta nel corso dei lunghi anni

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Si vedano a questo proposito le illuminanti analisi di elegie quali trist. 5.10, 3.12 e 4.10 in Hinds 2005, pp. 214 ss. – elegie su cui dovremo a nostra volta soffermarci; alle pp. 225 ss. lo studioso afferma che nelle Epistulae ex Ponto si assiste a un «partial reengagement with the structures of Roman civic and social time», un’osservazione che discuteremo infra, p. 203. Sulla «timelessness» come caratteristica dell’esperienza psicologica dell’esule spende alcune importanti osservazioni anche Williams 2002, pp. 354 ss. Hinds 1999, p. 67. L’Ibis è la parte delle opere esiliche di Ovidio che a mio avviso ha maggiormente beneficiato della critica più recente: cfr. in part. gli studi complessivi (entrambi utili anche per il discorso svolto qui) di Williams 1996 e Schiesaro 2011. Su questi versi, cfr. infra, p. 42. Hinds 1999, p. 67. Su questo punto è da vedere Williams 1996, p. 90.

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

dell’esilio,39 è altrettanto fondamentale ricordare che anche le opere dell’esilio, alla pari delle Metamorfosi (perlomeno nella loro versione ‘pre­esilica’), possiedono un telos, un obiettivo temporalmente ben definito che informa di sé e determina tutta la pro­ duzione di Ovidio a Tomi: il momento del ritorno del poeta a Roma. A fronte della «timelessness» che pure sembra determinare – ironia della sorte – gli ultimi anni del poeta dei Tempora, vale la pena di considerare questa poesia come pure intrinseca­ mente delimitata ai suoi estremi da due frangenti temporali fissi e immediatamente individuabili: da un lato, la passata catastrofe della condanna, di cui si diceva; dall’altro, il futuro richiamo, la cui continua e instancabile attesa da parte del poeta costituisce la prima e imprescindibile ragione di scrittura. La poesia praticata da Ovidio a Tomi si pone pertanto lungo un ideale segmento che, a partire dal momento ‘fondativo’ di questa stessa produzione, la dies della condanna, tende verso il raggiungimento di un punto terminale, destinato a segnare la fine tanto dell’esperienza biografica dell’esi­ lio quanto della poesia triste che ne è (e allora ne sarà stata) espressione ‘diretta’. Si tratta pertanto di riconoscere anche nelle opere dell’ultimo Ovidio una rappresenta­ zione lineare del tempo che appunto riproduce nella sostanza la struttura del poema metamorfico, concepito entro la cornice delimitata prima(que) ab origine mundi … ad mea tempora (met. 1.3 s.).40 Come sappiamo, tuttavia, i tempora corrispondenti alla fine dell’esilio e alla riabilita­ zione di Ovidio a Roma non sembrano aver trovato modo di concretizzarsi, prima che nella poesia del nostro autore, anche e soprattutto nella sua stessa biografia: il punto 39

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Notevoli in questo senso soprattutto le elegie trist. 4.6 e 5.10, su cui cfr. infra, pp. 138 ss. e 143 ss. Sulla percezione soggettiva del tempo nei Tristia è da vedere anche Giordano 1991; di «Subjektivierung der Zeitempfindung, die die ‘eigene’ Zeit gegen die ‘allgemeine’ Zeit stellt» parla Wolkenhauer 2011, p. 325 (a proposito di trist. 5.10), osservando del resto che nelle opere dell’esilio di Ovidio «der Verlust von Heimat und der voluptates urbis implizieren [sic] den Verlust städtischer Zeitstruktu­ ren» (p. 324); cfr. inoltre Feeney 2007, p. 211: «for Ovid in exile, the usual contours even of natural time are blurred and become increasingly meaningless; especially, Ovid’s banishment to the very fringe of the Roman world has made his participation in Roman time tenuous […]. His estrange­ ment from the city threatens to put him outside Roman time as well as Roman place». In questo senso, l’esperienza dell’esule Ovidio precorre la condizione psicologica del carcerato moderno, il cui rinnovamento morale «remains hidden under the daily experience of uniformity and seem­ ingly illimitable temporal extension of no­time, of u­chrony» (Fludernik 2019, p. 14, nell’ambito di una discussione delle teorie foucaultiane sulla prigione). Al di là della cornice annunciata a inizio poema, e relativamente rispettata alle sue ‘estremità’, il trattamento del tempo nelle Metamorfosi è in realtà – com’è noto – ben più complesso di quanto possa sembrare dalle osservazioni qui svolte, che necessariamente presuppongono qualche sem­ plificazione; per una serie di utili spunti, non soltanto sulle Metamorfosi, si veda Schiesaro 1997, pp. 98 ss.: «[…] le Metamorfosi finiscono per situarsi in un non­tempo, un presente senza confini in cui l’analogia e la contiguità prendono il posto di un’affidabile successione causale o cronologi­ ca. La paratassi diventa il principio ordinatore delle Metamorfosi; ma la paratassi è intrinsecamente aliena ai concetti di ordine e gerarchia, di causalità e successione, tutte espressioni di pensiero ‘forte’ che sono tutelate dal rigore sintattico dell’ipotassi. […] le Metamorfosi complicano e con­ fondono a tal punto la linearità temporale che non esiterei a definire ‘cubista’ il loro trattamento del tempo».

Evoluzione della poesia, temporalità dell’esilio

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terminale del segmento di cui si è detto, ideale limite dell’esilio e del relativo carmen (cfr. trist. 5.1.35 s., ‘quis tibi, Naso, modus lacrimosi carminis?’ inquis: / idem, fortunae qui modus huius erit), diviene la meta pur sempre agognata e tuttavia mai realmente con­ seguita. Il costante – e frustrante – differimento di quel traguardo finisce così per in­ fluenzare la poesia dell’esule, la cui prolungata permanenza a Tomi lo costringe a pro­ lungare una produzione che egli vorrebbe senz’altro avere la possibilità di terminare. Come anticipato, il prolungamento della poesia prodotta da Ovidio in terra pontica si manifesta con particolare evidenza nella regolare e cadenzata composizione della serie di raccolte che il poeta progressivamente invia ai propri lettori di Roma nel tentativo di rimanere in contatto con quel pubblico che aveva determinato il suo successo – un ge­ sto che tuttavia risulta insieme interpretabile come la cifra di una scansione temporale (che in altre epoche e in altre letterature avrebbe forse assunto la forma del diario di memorie)41 cui l’esule non può e non vuole rinunciare. Alla configurazione lineare del tempo dell’esilio che abbiamo illustrato se ne sovrappone dunque un’altra, una rappre­ sentazione che questa volta, in virtù appunto del progressivo e ininterrotto invio dei libelli che si susseguono a intervalli estremamente regolari,42 dimostra di possedere un andamento ciclico, e sembra dunque idealmente avvicinarsi all’altro poema grande dell’Ovidio ‘maturo’, i Fasti: d’altronde, come è stato notato, i libri composti dall’esule a Tomi possono essere considerati un proseguimento imprevisto e insieme obbligato del poema calendariale lasciato notoriamente incompiuto.43 I due modelli temporali che Ovidio ha sperimentato nei poemi maggiori finiscono dunque per rappresentare due direttrici che nella poesia dell’esilio, più che subire una sostanziale dissoluzione in favore di una inesorabile atemporalità, sembrano parados­ salmente convivere nella costruzione di un sistema complesso, che in fondo deriva dalla circostanza del tutto straordinaria nella quale Ovidio si trova a comporre e a pra­ ticare questo tipo di poesia.44 Come cercherò di mostrare nel corso della trattazione, la 41 42 43 44

Che – come mi fa notare Mario Citroni – è tuttavia forma chiusa su se stessa, a differenza della poesia dell’esule, intrinsecamente votata all’apertura, ciò che qui vedremo in part. a proposito delle ex Ponto: cfr. infra, pp. 173 ss. Cfr. Hutchinson 2017, p. 81 («the reader can hardly fail to be struck by the sequence of years mar­ ked out in the successive books of exile poems, from Tristia 4 on») e infra, pp. 127 s. Cfr. Feeney 1992, p. 19: «the unfinished Fasti he [= Ovid] turns into the obverse of the self­asserti­ ve exile poetry, so that its failure to reach its goal stands as an actualisation of one of its main the­ matic preoccupations, becoming a mute reproach to the constraints set upon the poet’s speech». Sulla possibile convivenza dei due sistemi temporali ora descritti entro il medesimo gruppo sociale e culturale si veda ancora Feeney 2007, p. 3, il quale – a proposito del doppio trattamento del tempo nelle due opere maggiori di Ovidio – ricorda che «these two categories are not watertight in sepa­ ration, since time’s arrow and time’s cycle are never completely independent in the apprehension of time» (p. 169). Quanto al confronto con l’Ibis, i Tristia e le ex Ponto prevedono pertanto da un lato la medesima compresenza del doppio movimento temporale registrato nel poemetto; dall’al­ tro, l’infinità del tempo annunciata dal poeta a proposito della futura estensione delle maledizioni all’indirizzo del nemico è il risultato cui l’esule non vorrebbe far pervenire la propria lacrimevole poesia (perché infinita non deve essere, nelle sue speranze, la condanna alla relegazione), ma si

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

compresenza dei due modelli risulta particolarmente visibile nello speciale rapporto che in queste opere l’autore istituisce tra l’idea del limite, la fine cui il poeta aspira a giungere in quanto non più esule, e l’opposta esigenza rappresentata dalla continua­ zione cui egli è puntualmente costretto proprio in virtù della sostanziale incapacità, o meglio impossibilità, di raggiungere quel momento conclusivo. Potremmo di conse­ guenza parlare, come appunto faremo, anche di un contrasto fra la struttura di per sé ‘chiusa’ di ogni liber (e del blocco di libri rappresentato da Pont. 1–3), unità a sé stanti che l’autore concepisce, elabora e dispone singolarmente, e il carattere ‘aperto’ delle più ampie raccolte (Tristia ed Epistulae ex Ponto), per le quali il poeta non sembra in grado di rintracciare una vera conclusione, dal momento che ogni apparente chiusura risulta regolarmente smentita da una successiva aggiunta.45 Il modello del tempo linea­ re che idealmente governa l’intera fase della produzione dell’esilio (una fase destinata a finire come terminate sono altre fasi nell’arco della lunga carriera poetica di Ovidio) è così riprodotto a livello dei singoli libri – o gruppi di libri – confezionati e spediti a Roma, una riproduzione che tuttavia continua a ripetersi, innescando un movimento potenzialmente infinito. Si configura in questo senso un’ulteriore espressione del con­ trasto che abbiamo individuato, manifestata nella contrapposizione tra la ‘volontà di chiusura’ nutrita dal poeta in esilio, la cui speranza si mostra ogni volta idealmente pro­ iettata verso la fine dell’esperienza tomitana e della poesia che la accompagna, e quello che definirei il ‘rischio dell’eternità’, il rischio cioè, percepito dall’esule, che il ripetuto gesto conclusivo riproposto in ogni singola raccolta rappresenti una fine inesorabil­ mente disattesa, dissolta nell’eterna ripetizione di quel medesimo gesto. 4. Tempo dell’esilio, tempo dell’impero: Ovidio, Augusto e i pericoli della chiusura In un recente saggio su inizi e fini in letteratura augustea, Elena Giusti mostra che gli esordi ‘apocalittici’ di opere quali le Georgiche e l’Eneide di Virgilio (l’immagine di un Mars impius che imperversa in tutto il mondo al termine di georg. 1 e la tempesta che colpisce i Troiani in Aen. 1), le Odi di Orazio (il diluvio universale di carm. 1.2), le Metamorfosi di Ovidio (il doppio evento catastrofico rappresentato, ancora una volta, dal

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tratta di una condizione cui il poeta è costretto, suo malgrado, ad approssimarsi via via. Sull’iden­ tificazione fra Ovidio e Ibis, cfr. Rimell 2015, pp. 307 ss. È bene anticipare che questa dinamica costituisce l’espressione di una sorta di crisi del callima­ chismo non priva di importanti conseguenze per la letteratura successiva: come vedremo, i singoli libri sembrano spesso rispettare la struttura sapientemente costruita propria del liber di matrice ellenistica, visibile soprattutto, fra l’altro, nei puntuali rimandi fra componimenti iniziali e finali (nonché intermedi) delle singole raccolte; in esilio Ovidio sperimenta tuttavia la difficoltà di ‘bi­ lanciare’ l’opera complessiva (la raccolta di libri), perennemente crescente in virtù della crescente durata dell’esilio.

Tempo dell’esilio, tempo dell’impero: Ovidio, Augusto e i pericoli della chiusura

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diluvio universale di met. 1 e dallo sconvolgimento di cielo e terra causato da Fetonte in met. 2) evocano, in misura più o meno esplicita, il dramma delle guerre civili ormai trascorse.46 La meditazione sulla netta, irrevocabile cesura rappresentata dalla fine dei conflitti fra concittadini, una cesura che ha insieme segnato l’inizio di una nuova era, accomuna i maggiori prodotti della letteratura di un’epoca profondamente segnata da una straordinaria commistione di speranze e timori, attese e incertezze del futuro. In questo contesto, è interessante valutare – come molta critica ha fatto – il modo in cui i diversi autori augustei si impegnano a definire i riferimenti temporali in cui questa nuova Età dell’Oro intende collocarsi, e soprattutto la durata – il destino – che biso­ gnerà ritenere assegnati a questo tempo. È importante considerare un suggestivo para­ dosso che Giusti enuclea a proposito dell’essenza stessa di un’epoca che i nostri autori mostrano di concepire come ‘aurea’, affrontando tuttavia nel frattempo «the difficul­ ties faced in devising an eschatological system that could be universally applicable»: The system that they [= in particolare, Virgilio e Orazio] opt for wavers between, on the one hand, what we may recognise to be a «linear» conception of time encapsulated in the myth of Rome’s eternal golden age, and, on the other, the old cyclical models, according to which the golden age is simply happening again […].47

La ‘scelta’ fra il modello lineare di un eterno imperium sine fine (Verg. Aen. 1.279) e la ciclica alternanza di una dinamica svolta in termini di ‘rise and fall’ (Ov. met. 15.420 ss.) si rivela in ultima analisi una decisione da cui i poeti rifuggono, distribuendo nelle loro opere segnali dell’una come dell’altra preferenza (o sospetto).48 Quel che è certo, gli autori della nostra epoca non possono evitare di produrre, nella differenza delle ri­ spettive opere, una rappresentazione – per quanto suscettibile di interpretazioni anche contrastanti – del tempo dell’impero.49

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Giusti 2021. Ivi, p. 311; rimando a questo stesso saggio per le indicazioni bibliografiche del caso. Su Giove come garante «of Rome’s limitless expanse and duration» nell’Eneide, la cui prospettiva è tuttavia da integrarsi nel contesto del poema, nel quale «most readers want to find a vantage point of comfort, and it is therefore tempting to construct a ‘high’ Stoic position in the portrayal of Jupiter, yet his participation in the narrative means that it is never easy […]», cfr. in generale Feeney 1991, pp. 137 ss.; Schiesaro 1997, pp. 101 ss. si sofferma anche sul ruolo che nella meditazione dei nostri autori ha giocato la riforma del calendario intrapresa da Giulio Cesare e perfezionata da Augusto: «è proprio perché esiste un ben ordinato ‘tempo di Augusto’ (e prima di Cesare) che la manipolazione sperimentale del tempo in poesia acquista un significato dirompente. […] Nella promessa virgiliana di un imperium sine fine o nell’Epodo 16 di Orazio, si può leggere anche la speranza che la renovatio augustea abbia interrotto la legge dei cicli cosmici e che la forza vitale del principe abbia avviato un movimento sine fine in grado di evitare la katastrophe rigeneratrice. Due o tre generazioni dopo che queste speranze erano state formulate (ma certo: con esitazioni, con dubbi) il loro fascino, già ambiguo, è in gran parte svaporato, non sa resistere alla forza di una decostruzione impietosa». Per una bibliografia aggiornata sull’idea della translatio imperii in antichità, cfr. ora Borgna 2018, pp. 159 s., nell’ambito di una convincente rivalutazione della posizione e delle finalità dell’opera

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Per uno studio diacronico della poesia dell’esilio di Ovidio

Come già ricordato nel paragrafo precedente, il modo in cui la poesia dell’esilio di Ovidio comincia – e continua – risulta di fatto legato all’evento ‘catastrofico’ della con­ danna: se dunque anche i Tristia ci presentano fin dall’inizio la raffigurazione di un tempo che ha segnato un punto di non ritorno (e non manca l’esplicito rimando al modello eneadico, riprodotto nell’incipit ‘apocalittico’ che vede il poeta in balia della tempesta), la cesura di cui si parla è costituita dallo stravolgimento della singola bio­ grafia di un privato cittadino cui viene tuttavia concessa l’opportunità – non deside­ rata – di verificare con i propri occhi l’estensione dei limiti dell’impero. Questi sono innanzitutto i limiti spaziali di cui il nostro poeta ha parlato nei versi finali delle Metamorfosi, dove era proclamata la futura diffusione dell’opera appena compiuta nello spazio dominato da Roma (15.877 s., quaque patet domitis Romana potentia terris, / ore legar populi), laddove in esilio – in una terra in cui il dominio di Roma è giunto molto parzialmente, almeno all’apparenza – a Ovidio non è di conseguenza dato di trovare alcun libro né di produrne lui stesso secondo le modalità consuete (cfr. trist. 3.14.37 ss., non hic librorum, per quos inviter alarque, / copia: pro libris arcus et arma sonant. / nullus in hac terra, recitem si carmina, cuius / intellecturis auribus utar, adest).50 Se dunque per un verso la poesia tomitana di Ovidio mette in discussione non soltanto l’estensio­ ne nello spazio che il poema metamorfico si è rivelato in grado di coprire, ma anche il dominio spazialmente esteso che Roma è in grado di garantire ai poeti e alla loro fama, è interessante d’altra parte valutare anche il modo in cui la produzione ovidiana dell’esilio istituisce un collegamento fra i limiti temporali di poesia triste e impero. Come il poeta in esilio, anche Augusto si trova in effetti a dover affrontare, nei me­ desimi anni in cui Ovidio è relegato, problemi di (temuta) ‘chiusura’ e di (auspicata) ‘non­finitezza’ – nella fattispecie, i limiti del principato, la continuità della dinastia. Le due direttrici temporali su cui vediamo infine evolversi le raccolte di Ovidio a Tomi – linearità e finalità di una poesia diretta verso un telos, ciclicità e ripetizione di una po­ esia perennemente incapace di raggiungerlo – caratterizzano per molti aspetti anche

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dello storico di età augustea Pompeo Trogo, autore di una storia universale a lungo considerata ‘anti­romana’; su questi temi, cfr. anche la raccolta curata da Cresci – Gazzano 2018 (dove si con­ sulteranno utilmente i contributi di G. Cresci Marrone e di G. Traina). Citerò più volte, nel corso del lavoro, bibliografia specifica su questi temi; fra gli studi più recenti dedicati all’analisi del rapporto fra l’esilio (non soltanto di Ovidio) e l’impero, dopo Habinek 1998 (cfr. pp. 151 ss.), è da vedere Rimell 2015: cfr. in part. le pp. 28 ss., dove si parla di ‘apertura’ e ‘chiu­ sura’ dello spazio e del tempo dell’impero (importanti osservazioni sul ‘movimento dell’impero’ a p. 54: «empire constructs (its own) safe places by penetrating enclosures; it grows upwards and outwards by digging underground. This spatial paradox has its temporal twin: foundation is about reiterating permanence; it is an ongoing, transformative exercise in establishing the same»), men­ tre d’altro canto «the exilic condition […] is an apt context, literal or metaphorical, for the life of an artist, so that in a basic way Roman literary self­consciousness and the meditation of exilic iden­ tity merge: through exile, separation becomes desire, alienation rebirth» (pp. 32 s.). Su spazialità ed esilio, cfr. anche Schmitzer 2010; più in generale, su spazio (imperiale) e letteratura, cfr. ora le raccolte di saggi curate da Rimell – Asper 2017 e Fitzgerald – Spentzou 2018. Sullo spazio occupato dal poeta in viaggio verso Tomi mi soffermo infra, pp. 55 ss.

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il movimento della complessa politica dinastica del princeps negli ultimi anni del suo operato terreno, quando la ricerca del successore è finalizzata all’assegnazione di un carattere duraturo e continuato alla nuova costruzione politica – e Ovidio fa in tem­ po ad assistere, dalla lontana località pontica, anche e proprio al primo ‘passaggio di consegne’ fra principes nello scarto di due generazioni (padre­figlio).51 Forse non è da trascurare il fatto che una buona parte della ciclica ripetitività delle raccolte dell’esilio, un movimento causato dalla inopinata estensione del tempo della condanna, è deter­ minata anche dalla ripetitiva ciclicità cui il principato al contrario aspira, un’ambizio­ ne all’eternità che Ovidio cerca di presentare come già conseguita, ma che risulta pur sempre sottoposta alla prova dei fatti. La serie di trionfi reali o soltanto presagiti di cui, seguendo spunti già praticati nell’elegia giovanile, Ovidio offre puntuali descrizioni nel corso dei Tristia e delle ex Ponto rappresentano importanti momenti in cui appare particolarmente evidente la sinergia fra una poesia che si ripete e una domus – quella imperiale – che si sforza a tutti i costi di rendersi ‘ripetitiva’, ‘estendibile’ nella ciclica successione dei suoi membri.52 In Pont. 2.8 l’esule dichiara di aver appena ricevuto dal nobile amico Cotta Massimo una serie di tre statuette raffiguranti altrettanti dei: Augusto, Tiberio, Livia (vv. 1 ss., redditus est nobis Caesar cum Caesare nuper, / quos mihi misisti, Maxime Cotta, deos; / utque tuum munus numerum, quem debet, haberet, / est ibi Caesaribus Livia iuncta suis). Ringraziando Cotta per il graditissimo dono, il poeta afferma di essere sostanzialmente tornato a Roma, dal momento che può ora osservare direttamente il volto delle divini­ tà, e in particolare di Augusto il quale, essendo a sua volta ‘figura’ di Roma, permette al poeta di rivedere la città (vv. 19 s., hunc ego cum spectem, videor mihi cernere Romam: / nam patriae faciem sustinet ille suae).53 Contemplando l’immagine del princeps, Ovidio nota tuttavia che l’aspetto del volto è corrucciato: Augusto è naturalmente tuttora adi­ rato con lui (vv. 21 s., fallor an irati mihi sunt in imagine vultus, / torvaque nescioquid forma minantis habet?). Segue una cinquantina di versi interamente occupati da una lunga e articolata preghiera all’indirizzo delle tre statuette: la supplica è sapientemente strut­ turata e organicamente calibrata, prevedendo l’invocazione innanzitutto di Augusto (vv. 23 ss., vir immenso maior virtutibus orbe), quindi in subordine di Tiberio (vv. 37 ss.) e di Livia (vv. 43 ss.), prima di concludersi con una coda indirizzata alla triade (vv. 51 ss.,

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Per una ricostruzione del cruciale frangente storico in cui si colloca l’esilio di Ovidio, oltre al clas­ sico Syme 1978, cfr. Millar 1993; Osgood 2013. Per il rapporto tra poesia e politica in Ovidio esule (valutabile anche attraverso il confronto tra le notizie fornite dalle fonti storiche, non ultime le Res Gestae, e lo svolgimento delle medesime notizie da parte del nostro autore) si consulteranno utilmente Walde 2008; Williams 2009. Su «incompetence and sarcasm» nella poesia celebrativa di Ovidio, cfr. Heyworth 2016, pp. 250 ss. Cfr. Galfré 2020 (con bibliografia). Per un’analisi di Pont. 2.8 attenta al rapporto fra rappresentazione artistica e rappresentazione poe­ tica è da vedere Hardie 2002b, pp. 318 ss.; su questa epistola si veda inoltre Claassen 2016, pp. 71 s.; sul tipo di imagines descritte da Ovidio, cfr. Cadario 2019.

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adnuite, o! timidis, mitissima numina, votis). Tiberio e Livia sono invocati attraverso un’apostrofe che ne rende immediatamente chiara la relazione con Augusto (a Caesare proxime Caesar; conveniens ingenti nupta marito), mentre in ciascuna delle tre mini­ sezioni dedicate alle singole statuette si esplicitano i rapporti familiari che uniscono i membri della domus in un legame interconnesso e indissolubile.54 La preghiera di Ovi­ dio è pertanto costruita secondo una struttura che da un lato minuziosamente, quasi ‘scientificamente’ enfatizza il movimento lineare tracciato dalla successione cronologi­ ca della discendenza di Augusto (padre­figlio­nipoti), di cui il testo segue appunto la gradualità (v. 34, magno … gradu), il progressivo evolversi e la futura continuazione; dall’altro, lo stile dell’invocazione impone all’orante di sviluppare la propria supplica secondo una serie di ‘cerchi’ in sé conchiusi, al cui centro è ogni volta collocato un diverso membro della domus, rispetto al quale si chiarisce la rete di rapporti che lo de­ finisce rispetto al resto della famiglia – innanzitutto ad Augusto. La struttura del testo di Ovidio si fa specchio della struttura del principato: linearità e ciclicità interagiscono creando un movimento a spirale, che idealmente rappresenta il procedere nel tempo di una dinastia votata all’eternità nella ripetizione. Al termine della preghiera, l’aspetto delle statuette appare migliorato: Ovidio non vorrebbe sbagliarsi, ma il volto di Augusto sembra ora accondiscendere alle suppliche ricevute (vv. 71 ss.): aut ego me fallo nimiaque cupidine ludor, / aut spes exilii commodioris adest. / nam minus et minus est facies in imagine tristis, / visaque sunt dictis adnuere ora meis (l’adnuere del v. 74 risponde all’adnuite del v. 51). La poesia dell’esilio di Ovidio dimostra di conservare qualche traccia di quel potere ‘plastico’ di cui hanno dato prova le Metamorfosi, in grado di descrivere il processo di (inattesa) trasformazione di corpi e statue;55 ma perché l’effetto sia completo, a Tomi l’esule sperimenta la necessità di un 54

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Versi rivolti ad Augusto: dopo il patriae nomen e gli altri dei, la preghiera si svolge (nell’ordine) in nome di Livia, di Tiberio, dei nipoti (Germanico e Druso minore: v. 33, perque tuos, vel avo dignos, vel patre nepotes, dove è da notare la sequenza cronologicamente precisissima avo­patre­nepotes); versi rivolti a Tiberio: sono menzionati pater e mater, mentre a lui Ovidio augura di «rimanere figlio a lungo» (v. 42); versi rivolti a Livia: l’esule auspica la buona salute del marito, del figlio e dei nipoti (v. 45, sic tibi vir sospes, sic sint cum prole nepotes; ancora una volta, la struttura del verso rispetta la discendenza: vir­prole­nepotes), menzionando infine le nurus e i pronipoti tutti (v. 46, cumque bonis nuribus quod peperere nurus; segue al v. seguente un riferimento alla morte di Druso maggiore in Germania, che tocca ora a Tiberio, fraterni funeris ultor, vendicare). Su questo passo, cfr. Seager 2013, p. 45. È bene non dimenticare il contesto epistolare che fa da cornice all’invocazio­ ne: l’esule si rivolge direttamente ai membri della domus imperiale, ma allo stesso tempo fornisce a Cotta un buon esempio del tipo di supplica che potrebbe (dovrebbe) essere lui a pronunciare per conto dell’amico in disgrazia. Per il carattere paradigmatico che in questo senso è attribuibile all’episodio di Pigmalione, cfr. Ro­ sati 1983, pp. 58 ss.; Hardie 2002b, pp. 186 ss. Anche in trist. 1.2 la supplica rivolta dall’esule in balia della tempesta all’indirizzo degli dei del mare e del cielo, cui Ovidio chiede di risparmiarlo, si con­ clude con la constatazione del fatto che, a seguito della preghiera, il clima è migliorato (vv. 107 s., fallor, an incipiunt gravidae vanescere nubes, / victaque mutati frangitur unda maris?): la descrizione dei mutamenti di cui il poeta registra il verificarsi nel corso stesso del carme costituisce un proce­ dimento tipico della cosiddetta poesia mimetica; cfr. ancora Hardie 2002b, pp. 321 s.

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passaggio ulteriore: l’augurio è che alla metamorfosi dell’immagine di Augusto pos­ sa corrispondere il reale affievolimento della sua collera, per cui c’è bisogno di una nuova, breve ma sostanziale, integrazione alla preghiera: vv. 75 s., vera precor fiant timidae praesagia mentis, / iustaque quamvis est, sit minor ira dei. Pont. 2.8 si presenta così come una miniatura dell’intento che governa l’intera produzione dell’esilio: nel continuo, ciclico sviluppo di una poesia che cresce ripetendosi, il poeta opera in vista del telos rappresentato dal perdono – la metamorfosi, quella di Augusto, che Ovidio avrebbe forse narrato più volentieri.

Capitolo 1 Tristia 1–2 e il carattere incompiuto dell’esilio di Ovidio 1. Tristia 1 come liber: limite e continuazione 1.1 Totus libellus: l’unità di trist. 1 Il primo libro di elegie dei Tristia costituisce un’unità poetica in sé conchiusa, costruita secondo una tradizione risalente all’età ellenistica ed ereditata dai poeti latini dell’età tardo­repubblicana (Catullo e i neoteroi) e quindi augustea.1 Il primo e l’ultimo compo­ nimento della raccolta tracciano con chiarezza i confini del parvus liber (1.1.1) o libellus (1.11.1), presentandone rispettivamente la lettura come atto da compiersi (lo segnalano gli indicativi futuri che costellano il primo componimento e che descrivono fra l’altro la reazione delle varie tipologie di pubblico di fronte al nuovo libro appena giunto a Roma) e come atto infine compiuto (1.11.1, littera quaecumque est … tibi lecta).2 La caratterizzazione della raccolta come liber in senso ‘catulliano’ emerge fin dai pri­ mi versi dell’elegia proemiale, che appunto si pongono in dialogo diretto col carme 1 di Catullo.3 Com’è noto, nei primi due versi della dedica a Cornelio Nepote, cui dono lepidum novum libellum arida modo pumice expolitum?

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Una buona panoramica sulle origini del formato­libro e sui problemi connessi alla scarsità dei dati materiali in nostro possesso fornisce Santirocco 1980, pp. 45 ss.; per l’influenza della poesia elleni­ stica sugli autori latini quanto all’impiego e allo sfruttamento del libro poetico si veda in generale Hutchinson 2008. Cfr. Evans 1983, p. 32, dove si afferma che trist. 1 «is a poetic collection which Ovid planned accor­ ding to Augustan practice. A liber […] with prologue and epilogue, its elegies are arranged […] according to a definite artistic scheme». Cfr. Citroni 1986, p. 125; Williams 1992, pp. 181 ss.; Mordine 2010, p. 527.

Tristia 1 come liber: limite e continuazione

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Catullo non si limitava alla descrizione fisica del libretto appena fabbricato, ma faceva di quella descrizione una dichiarazione di poetica, al punto che l’aspetto esteriore del libro presentato al pubblico diventava immagine del tipo di poesia in esso praticata: una poesia segnata dalla leggerezza dei contenuti (lepidum) e dalla raffinatezza del­ la forma (expolitum), una combinazione che si presentava come una novità (novum) nel panorama letterario contemporaneo, opera di un poeta che altri avrebbero non impropriamente definito neoteros.4 La medesima affinità tra forma e contenuto ave­ va mostrato un altro dei cosiddetti ‘poeti nuovi’, Cinna, quando dalla Bitinia aveva portato in dono a un amico (forse a Catullo stesso) una copia finemente confezio­ nata dell’opera di Arato (fr. 11.3 C., [carmina] levis in aridulo malvae descripta libello), il cui aspetto esteriore si rendeva segno più che evidente di quella λεπτότης che già il contemporaneo Callimaco aveva rintracciato nei versi del poeta degli astri (HE 1297– 1300 = AP 9.507). Secondo il medesimo principio, un analogo valore programmatico andrà ora rico­ nosciuto all’aspetto fisico che al proprio liber assegna Ovidio all’inizio della raccolta di poesia triste: un liber che si caratterizza in studiata, ostentata opposizione rispetto ai libretti neoterici, dimostrando un aspetto tutt’altro che raffinato (vv. 3 ss., vade, sed incultus …); un liber che, a differenza di quello catulliano, nessuna pietra pomice ha reso expolitus (v. 11, nec fragili geminae poliantur pumice frontes); un liber che esibisce in ogni sua parte, titulus charta frons, sciatteria e trascuratezza.5 La serie di negazioni attra­ verso le quali si realizza la descrizione del manufatto ai vv. 5 ss. va letta come esplicita risposta al programma poetico neoterico e, insieme, al callimachismo che esso aveva fatto proprio, un callimachismo che nella poesia ovidiana dell’esilio, come alcune re­ centi analisi hanno messo in luce, va incontro a una progressiva e inarrestabile rifun­ 4

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Su questo punto, cfr. p. es. Copley 1951 = 2007, pp. 28 s. La definizione di Catullo e della sua cerchia come ‘poeti nuovi’ si basa su Cic. ad Att. 7.2.1 (τῶν νεωτέρων) e orat. 161 (poetae novi): su questi pas­ si, e più in generale sulle caratteristiche della cerchia, cfr. Lyne 1978; Johnson 2007 (con ulteriore bibliografia). È difficile credere che la raccolta catulliana pervenuta fino a noi, data la sua lunghez­ za, abbia costituito un unico liber (quello presentato nel c. 1), che sembra più opportuno giudicare il risultato di un arrangiamento successivo: la questione è oggetto di un annoso dibattito, di cui offre una panoramica Skinner 2007 (p. 49: «in the next 150 years we may finally see a satisfactory resolution of die Catullfrage. Or not»). Si potrebbe ancora confrontare l’«aridità» attribuita in Catullo alla pietra pomice (arida … pumice), in Cinna al materiale scrittorio (aridulo … libello), altro segno di pulizia e raffinatezza, con l’«umidità» del liber ovidiano bagnato di lacrime (v. 13, neve liturarum pudeat …). Quanto alle ragioni di una simile presentazione, è interessante considerare il fatto che, mentre per Catullo l’aspetto esteriore del libro appariva come l’immagine di una scelta poetica meditata e consapevo­ le, l’aspetto del liber ovidiano è piuttosto ricondotto al carattere del tempus dell’esilio (v. 4, temporis huius; v. 6, luctibus; v. 10, fortunae … meae): l’indirizzo poetico intrapreso da Ovidio, di cui il liber si rende icona, si rivela eccezionalmente condizionato dalle circostanze in cui il poeta si è venuto a trovare contro la propria volontà, a seguito di un improvviso mutamento della propria sorte; la nuova scelta poetica risulta cioè esclusivamente dettata dalla circostanza biografica, in un accordo fra poesia e vita che trova il proprio modello nella poetica dell’elegia: su questo punto, cfr. in part. Lechi 1993, pp. 8 ss.

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zionalizzazione, in corrispondenza con l’emergere di esigenze poetiche e di necessità stilistiche che risultano incompatibili con una tradizione che aveva fino allora segnato la gran parte della produzione poetica latina.6 Come si accennava, è bene tuttavia osservare che, nonostante la descrizione del liber ovidiano si realizzi in opposizione rispetto a quelle dei raffinati libretti neoterici, nella costruzione della sua prima raccolta di poesie tristi il poeta esule ha allo stesso tempo evidentemente conservato il modello formale di presentazione dei componi­ menti costituito dal libellus neoterico, un modello che fra gli altri avevano in seguito adottato i poeti elegiaci: si pensi in particolare al Monobiblos attraverso cui Properzio si era presentato al suo pubblico e che gli aveva guadagnato il favore di Mecenate.7 Anche Ovidio inaugura la nuova stagione della sua produzione con un monobiblos intitolato Tristia, che si presenta come scritto durante il travagliato viaggio in mare verso il luogo dell’esilio.8 I primi versi di trist. 1.1 si contraddistinguono dunque per l’annuncio di un apparente ribaltamento dei principi poetici neoterici sostanzialmente smentito dalla costruzione del libro stesso, che riproduce il formato del tradizionale liber catulliano ed elegiaco­augusteo. Proprio il tema del viaggio, cui è dedicato un buon numero delle undici elegie che compongono il libro, contribuisce a rafforzare il senso di unità di trist. 1. Il racconto della traversata e della tempesta (o delle tempeste?) che l’esule è costretto ad affronta­ re – un racconto realizzato secondo un’originale riconversione dei modelli letterari che la critica ha saputo riconoscere e apprezzare9 – è svolto a intervalli nel corso del libro: a esso sono dedicate la seconda, la quarta, la decima e l’undicesima elegia.10 Questo

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Su questo aspetto, e sul ruolo determinante dell’Ovidio dell’esilio nello sviluppo di alcune tenden­ ze di per sé contrarie a una poetica rigorosamente callimachea e però destinate ad ampia fortuna nella letteratura di età imperiale, sono da vedere le lucide osservazioni di Merli 2013, pp. 16 ss. Uno degli elementi su cui agisce questa trasformazione coinvolge proprio il formato­libro e il formato­ collezione: sul doppio movimento di ‘chiusura’ (del singolo libro) e ‘apertura’ (dell’opera comples­ siva), cfr. quanto già affermato supra, p. 26. Sui problemi connessi alla natura del Monobiblos properziano si vedano in generale Manuwald 2006, pp. 220 ss.; Heyworth 2012, pp. 227 ss. Sulla centralità della figura di Catullo per gli sviluppi formali dell’elegia latina, cfr. Miller 2007, pp. 401 ss. Che il titolo originale della prima raccolta fosse proprio Tristia si ricava dalla medesima elegia proemiale (v. 67): cfr. Schröder 1999, p. 88; gli stessi primi versi del componimento, in cui è con­ tenuta la descrizione fisica del liber, si spiegano senz’altro anche come immediata ‘giustificazione’ del titolo: cfr. v. 4, infelix habitum temporis huius habe; v. 9, felices ornent haec instrumenta libellos. La singolarità del titolo Tristia colpiva gli editori di un tempo: cfr. Owen 1889, pp. viii ss. («illud autem admirabile mihi semper visum est, adiectivum simplex nude positum inscriptionis loco sta­ re»), che proponeva un confronto con il titolo Μέλη < Μέλεα (?) attestato per Callimaco. Osser­ vazioni sul titolo Tristia si trovano in Wulfram 2008, pp. 282 s.; Barchiesi – Hardie 2010, p. 68 (che vi intravedono un riferimento a Gallo). Elegie della tempesta e modelli letterari: cfr. Kröner 1970; Griffin 1985; Klodt 1996; Bate 2004; Tola 2004, pp. 159 ss.; Ingleheart 2006; Degl’Innocenti Pierini 2008, pp. 46 ss. Cfr. Froesch 1976, p. 24: «die elf Elegien des Buches sind wohl auf der Reise oder Zwischenaufent­ halten entstanden […], und das Buch wurde dann als in sich geschlossenes Ganzes noch vor

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sfondo comune che emerge dai singoli componimenti menzionati finisce tuttavia per influenzare, nella lettura sequenziale o anche retrospettiva, l’interpretazione e la lettu­ ra di alcune espressioni utilizzate nelle restanti elegie che compongono il libro, secon­ do quell’effetto ‘sintagmatico’ che è stato studiato a proposito di altri testi.11 In trist. 1.5, per esempio, un’elegia che il poeta inizialmente indirizza a un singolo amico rimastogli fedele,12 si fa ricorso al tema tradizionale della fides dimostrata nelle avversità come occasione di fama; se infatti a Ovidio non fosse capitata la disgrazia della condanna, la lealtà dell’amico sarebbe rimasta ignota (vv. 17 s.): si tamen haec navis vento ferretur amico, ignoraretur forsitan ista fides.

La navis di cui si parla è naturalmente, in primo luogo, metafora della vita del poe­ ta, secondo l’immagine, anch’essa comune e diffusa, del corso dell’esistenza come navigazione;13 ma il lettore che è appena venuto a conoscenza, leggendo la preceden­ te trist. 1.4, delle difficoltà nelle quali si trova l’autentica nave dell’esule (haec navis, quella su cui Ovidio sta scrivendo; cfr. 1.4.23 s., dum loquor … increpuit quantis viribus unda latus!) non potrà che associare alla metafora il pensiero della circostanza ‘reale’ di cui l’esule dà notizia: i venti che stanno conducendo l’imbarcazione del poeta sono, in effetti, tutt’altro che «amici» (1.2.25, inter utrumque fremunt immani murmure venti; cfr. 1.4.5).14 Allo stesso modo, anche la lamentela espressa dal poeta in trist. 1.8.35 s. e rivolta a un amico che, rinunciando a consolarlo prima della partenza, non ha rispettato il vincolo dell’amicizia assume una pregnanza diversa se collocata entro la cornice del liber. C’è il rischio che le parole e le promesse, lamenta il poeta, siano state consegnate ai venti e sommerse dai flutti:

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der Ankunft in Tomi […] geschickt» (enfasi mia). Fra le più recenti discussioni della struttura di trist. 1 si distingue Wulfram 2008, pp. 310 ss. Per una definizione, cfr. soprattutto Barchiesi 1994, pp. 69 s. Sull’opportunità di dividere l’elegia in due componimenti distinti anche in virtù dello scarto nella destinazione, cfr. da ultimo Ursini 2015, pp. 357 ss. Sul significato e la provenienza di questo immaginario nelle opere dell’esilio di Ovidio, cfr. in part. le acute riflessioni di Cucchiarelli 1997; ampia rassegna di passi in Di Giovine 2020, pp. 85 ss. Sulla sovrapposizione fra metafora e racconto della navigazione in trist. 1, importanti osservazioni in Videau­Delibes 1991, pp.  99 ss. In trist.  1.5 la metafora prosegue al v. 36, dove l’immagine del naufragio indica la disgrazia subita dal poeta (et date naufragio litora tuta meo): i litora verso cui al contrario è diretto il poeta sono stati definiti fera a 1.2.83. La metafora della vita come navigazione è utilizzata già a 1.1.85, et mea cumba semel vasta percussa procella e, in riferimento alle vicende di un amico, a 1.9.42; cfr. inoltre la formulazione di trist. 3.4.16, haec mea per placidas cumba cucurrit aquas.

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cunctane in aerios 15 abierunt irrita ventos? cunctane Lethaeis mersa feruntur aquis?

Ovidio sta qui utilizzando le parole che nel carme 64 di Catullo Arianna abbandonata rivolgeva a Teseo (v. 142, quae [= le promesse di matrimonio] cuncta aerii discerpunt irrita venti): in quel passo l’espressione proverbiale del ‘dare le parole al vento’ acquistava un significato particolarmente circostanziato in virtù del fatto che Teseo, prendendo il largo, aveva letteralmente consegnato al vento, oltre che le promesse, la propria stessa nave (cfr. vv. 58 s., immemor at iuvenis fugiens pellit vada remis, / irrita ventosae linquens promissa procellae). L’associazione, che nel testo di Catullo rima­ neva a un livello soltanto implicito, era stata sfruttata da Ovidio in una serie di passi nei quali il valore metaforico dell’espressione veniva esplicitamente collegato al sen­ so concreto attraverso la figura retorica della sillessi.16 Ora, nel componimento rivolto all’amico che, come già Teseo, ha ‘abbandonato’ l’esule (gli epiteti fallax, v. 11 e dure, v. 14 vanno chiaramente ricondotti al medesimo modello della relicta, che l’esule sta qui riconvertendo),17 anche i venti e le acque che hanno spazzato via le promesse di amicizia acquisiscono una fisionomia piuttosto concreta se il lettore tiene a mente il fatto che questo come gli altri componimenti del libro sono stati composti dall’esule in mezzo alla tempesta: la procella di Catull. 64.59, alla quale Teseo aveva abbandonato i suoi promissa, trova una controparte nella burrasca che sta ora affliggendo il poeta in mare – con la differenza sostanziale, e paradossale, che questa volta è stato l’abbando­ nato Ovidio ad abbandonare la patria.18 Il contesto marino e selvaggio entro cui il poeta si colloca mentre scrive viene del resto suggerito dai successivi vv. 39 s., in cui ancora una volta la tradizionale deduzione per cui l’amico insensibile viene detto partorito dagli scogli e dalle montagne (motivo topico a partire da Il. 16.33 ss.) è adattata alla specifica posizione dell’esule: sed scopulis, Ponti quos haec habet ora Sinistri, / inque feris Scythiae Sarmaticisque iugis. Anche qui il deittico si fa per il lettore segnale di rimando

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La congettura di Riese aerios va preferita al tràdito aequoreos sulla base del confronto con Catull. 30.10 e, ancor di più, con il passo del c. 64 che cito nel testo: cfr. Luck 1967–77 ad loc.; la congettura è accolta da Hall 1995. Cfr. in part. am. 1.7.15 s., talis periuri promissaque velaque Thesei / flevit praecipites Cressa tulisse Notos; altri paralleli, più o meno direttamente connessi al mito di Arianna e in ultima analisi ri­ conducibili al modello della herois relicta, sono raccolti in McKeown 1989 ad loc.; per il topos, cfr. Barchiesi 1992 ad her. 2.25; sulla sillessi come figura retorica particolarmente sfruttata nelle Metamorfosi, cfr. Rosati 1983, p. 154 («una sorta di tic stilistico ovidiano»); Kenney 2002, pp. 45 ss. Nagle 1980, pp. 40 s. raccoglie alcuni paralleli fra l’Ovidio dell’esilio e Catullo nel trattamento del tema dell’amicitia; sul rapporto fra Heroides e Tristia è da vedere Rosenmeyer 1997. Nel distico ovidiano va colto un rimando anche a Catull. 70.4, in vento et rapida scribere oportet aqua, detto delle promesse di Lesbia: «scrivere nel vento e nell’acqua» è del resto ciò che sta fa­ cendo Ovidio in trist. 1 (cfr. 1.11.3 s., haec me … scribentem mediis Hadria vidit aquis; 7, quod facerem versus inter fera murmura ponti).

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alla cornice, contribuendo a collocare il singolo componimento all’interno di un dise­ gno percepito come unitario. Il tema del viaggio che fa da cornice al libro finisce insomma per influenzare il let­ tore nell’interpretazione di alcune immagini e metafore marine utilizzate dal poeta in trist. 1, che risultano ravvivate e rese più pertinenti se inserite in quel contesto; ne consegue che sotto il segno di quell’immaginario il liber acquista in unità e compat­ tezza. A suggello di tale costruzione, nell’ultimo componimento il poeta rende infine pienamente esplicito il comune background entro cui il libro è stato composto: ogni littera – da intendersi non certo come «epistola», dal momento che il libro non è una Briefsammlung, ma come «lettera» dell’alfabeto19 – è stata composta durante il difficile tempo del viaggio (vv. 1 s., littera quaecumque est toto tibi lecta libello, / est mihi sollicito tempore facta viae). È importante soffermarsi sull’espressione toto … libello utilizzata al v. 1: il libro che si avvia a conclusione è presentato nella sua interezza e il poeta, dopo il contatto con il pubblico ottenuto nell’elegia proemiale, torna a rivolgersi a quello stesso pubblico nella posizione estrema occupata dall’ultimo componimento. All’espressione utilizzata dall’esule in questa elegia, e infine all’elegia tutta, andrà per­ tanto senz’altro attribuito un valore paratestuale:20 come già all’inizio, il poeta torna a osservare il prodotto della propria fatica da una posizione esterna, seguendo in que­ sto alcuni importanti modelli oraziani. Se l’influenza di epist. 1.20, il componimento in cui Orazio congedava il proprio libro di epistole, è stata riconosciuta e analizzata per trist. 1.1 in un decisivo studio di Mario Citroni,21 al primo distico di trist. 1.11 bisognerà piuttosto accostare il verso con cui lo stesso Orazio chiudeva il primo libro dei suoi Sermones (1.10.92): i, puer, atque meo citus haec subscribe libello.

La parola con cui termina il libro di Satire, appunto «libretto», si pone come una «sorta di sphragís autoreferenziale, parola rassicurante che vale la realizzazione di un

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Su questo punto, e più in generale sul carattere ‘epistolare’ dei Tristia, cfr. infra, pp. 155 ss.; l’equi­ voco si trova in Ingleheart 2010, p. 7, che del resto enfatizza la misura in cui trist. 1.11 «consistently foregrounds epistolary features», salvo riconoscere (n. 40) che «Ovid plays, however, on littera as both ‘epistle’ and ‘letter of the alphabet’ […], and the balancing libello stresses that these letters are collected in book form». Per la corretta interpretazione di littera in trist. 1.11.1, cfr. Luck 1967–77 ad loc.: «wohl ‘Buchstabe’, nicht ‘Brief ’»; l’immagine avrà un seguito diretto in trist. 3.1.54, et quatitur trepido littera nostra metu, un verso pronunciato dal liber personificato, le cui ‘membra’ sono giocosamente costituite dai «caratteri» che lo compongono (nel distico successivo si citano poi la charta e i pedes): sullo stretto rapporto istituito fra trist. 3.1 e i ‘paratesti’ di trist. 1, cfr. ancora infra, pp. 78 ss. Sul concetto di «paratesto» applicato alla letteratura latina si veda la stimolante raccolta di saggi curata da Jansen 2014 (la stessa studiosa si sofferma sull’opera di Ovidio, con particolare attenzione alla produzione dell’esilio, alle pp. 262 ss.). Citroni 1986, pp. 122 ss.

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desiderio, il raggiungimento di un lieto explicit».22 Anche in trist. 1.11 il totus libellus, di cui sono addirittura contate le singole lettere (littera quaecumque), si presenta come prodotto terminato e conchiuso, di cui il lettore ha avuto un’esperienza, oltre che intel­ lettuale, autenticamente materiale. 1.2 Quaerenti plura legendum: annunci editoriali e poesia che continua A fronte di questa impressione di unitarietà e di singolarità trasmessa dal ‘monobiblos’ ovidiano, che come abbiamo visto trae forza dalla cornice riverberandosi su tutti i com­ ponimenti contenuti all’interno, è possibile rintracciare nello stesso libro altri spunti e altri segnali che inducono il lettore a presagire, al contrario, una continuazione, l’idea cioè che questa raccolta di poesie tristi che ora giunge a Roma sia concepita dall’autore come la prima di una serie, il capitolo iniziale di una nuova fase di produzio­ ne poetica; il liber ‘catulliano­augusteo’ in sé compiuto manifesterebbe dunque in que­ sto senso un certo grado di incompiutezza, lasciando intravedere futuri complementi al di là dei confini sopra individuati. Nell’ultimo distico del componimento proemiale il poeta esorta il libro a partire, dal momento che la strada fino a Roma è lunga (v. 127, longa via est, propera); eppure Ovidio non ha ancora raggiunto il limite ultimo dell’orbis, quella terra remota che gli è stata assegnata come destinazione dell’esilio: il futuro habitabitur, a proposito del luogo che l’esule appunto «abiterà», invita il lettore a considerare la posizione non definitiva dalla quale il poeta ha composto il liber.23 In un importante saggio su trist. 1, Stephen Hinds ha messo bene in evidenza il doppio percorso, la doppia ‘rotta’ che il nuovo libro presuppone: dal punto dello spazio in cui avviene il congedo dell’auto­ re dal libro, autore e libro proseguono un tracciato opposto, l’uno verso Tomi, l’altro verso Roma.24 Questo congedo avvenuto in anticipo, prima che l’esule sia ancora ve­ ramente tale, induce il lettore a domandarsi se il poeta non invierà altre notizie una volta giunto a destinazione. È il poeta stesso a lasciare intuire ciò che avverrà, che cosa egli stesso, e di conseguenza i suoi lettori, dovranno aspettarsi: nell’ultimo compo­ nimento del libro, che come si è detto il poeta induce il lettore a credere scritto nel

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Cucchiarelli 2007, p. 176: il termine indicante il libellus nella sua interezza giunge a conclusione e ‘raccolta’ delle diverse chartae che il poeta ha nominato nel corso del libro; sugli effetti di ‘chiusura’ in sat. 1 è da vedere Gowers 2009. Così credo a differenza di Wulfram 2008, p. 291, per cui «der Hinweis auf das Ende der bewohnba­ ren Welt […] gibt dem Ganzen einen Anstrich unumkehrbarer Endgültigkeit». Cfr. Hinds 1985, p. 13. Questa situazione risulta particolarmente chiara se si considera la posizione del poeta in trist. 1.10, l’elegia in cui Ovidio rende conto delle tappe del proprio viaggio parlando del doppio itinerario, tuttora in corso, seguito da se stesso per terra (cfr. v. 23, nam mihi Bistonios placuit pede carpere campos) e dalla propria nave in procinto di attraversare il Bosforo (cfr. vv. 13 s., nunc quoque tuta, precor, vasti secet ostia Ponti, / quasque petit, Getici litoris intret aquas).

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corso della tempesta in mezzo al mare, Ovidio è in grado di formulare una previsione su ciò che troverà una volta sbarcato a destinazione (vv.  25 s., attigero portum, portu terrebor ab ipso: / plus habet infesta terra timoris aqua; vv. 31 s., barbara pars laeva est avidaeque adsueta rapinae, / quam cruor et caedes bellaque semper habent), anticipando effettivamente ciò di cui il lettore ricaverà ampia informazione nei libri successivi, in particolare da trist. 3 in avanti.25 La fine stessa del libro, che si conclude con l’immagine del poeta che viene a patti con la tempesta, facendo coincidere la fine della scrittura con la  – inevitabile  – fine della rappresentazione poetica e dunque della medesima tempesta (vv. 43 s., vincat hiems hominem; sed eodem tempore, quaeso, / ipse modum statuam carminis, illa sui),26 genera nel lettore un senso di suspense, dal momento che non è dato sapere se il poeta sia infine riuscito a raggiungere la terra dell’esilio e se il suo viaggio sia terminato alla meta prevista. La difficoltà di mettere fine al primo liber di Tristia e di presentarlo come una raccol­ ta compiuta in ogni sua parte emerge già al termine dell’elegia proemiale, su cui con­ viene soffermarsi ancora: essa costituisce infatti, com’è evidente, l’elegia composta per ultima e collocata in apertura in qualità di presentazione del libro nel suo complesso. Dopo aver descritto l’incontro della nuova silloge con i fratres (v. 107), le altre opere di Ovidio disposte sullo scaffale di casa, e aver illustrato il modo in cui il libro dei Tristia dovrà comportarsi nei confronti dei tre libri dell’Ars, causa della condanna, il poeta vorrebbe aggiungere altri mandata (vv. 123 ss.): plura quidem mandare tibi, si quaeris, habebam, sed vereor tardae causa fuisse viae. et si quae subeunt tecum, liber, omnia ferres, sarcina laturo magna futurus eras.

Ovidio si dichiara cioè costretto a imporre un limite alle proprie raccomandazioni e a mettere di conseguenza fine al libro per il doppio motivo secondo cui, in caso con­ trario, il libro tarderebbe a raggiungere Roma e, d’altra parte, sarebbe un peso troppo grande per chi dovrà farsene fisicamente carico nel trasporto: due immagini decisa­ mente interessanti, sulle quali torneremo. Vorrei per il momento concentrarmi su

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Interessante a questo proposito anche un verso come trist. 1.2.85: il poeta prega gli dei di favorire la sua navigazione «perché io veda gli abitanti di Tomi, collocati in chissà quale mondo» (nescioquo videam positos ut in orbe Tomitas) – un’informazione che manca, prima che all’autore di trist. 1, anche e soprattutto al suo lettore (su questo passo si veda anche infra, p. 57). Se si considera del resto che quella della navigazione è una frequente metafora per il corso dell’opera letteraria, la cui fine può essere pertanto associata al ‘raggiungimento del porto’ (cfr. p. es. Ov. rem. 811 s.), il fatto che al termine di trist. 1 il poeta non abbia ancora raggiunto il porto (attigero portum …) potrebbe costituire un buon indizio del carattere incompiuto del libro stesso. Su questa coincidenza, cfr. Lechi 1993, p. 19; l’immagine si pone come ostentato closural element del libro. Un parallelo interessante è offerto da her. 18.203 s. (da vedere con Rosati 1996 ad loc.), desino, parce queri; sed ut et mare finiat iram, / accedant, quaeso, fac tua vota meis.

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questa esplicita dichiarazione di conclusione ‘forzata’: il poeta decide di congedare il libro pur avendo, a ben vedere, plura da dire, così numerosi appaiono i pensieri (quae subeunt) che il poeta fa mostra di faticare a contenere. L’espressione utilizzata in questi versi, plura  … si quaeris, habebam, ne ricorda un’altra, ben nota alla critica, impiegata all’inizio della medesima elegia: ai vv. 21 s. il poeta aveva esortato il libro a non dire, una volta entrato in contatto con il pubblico di Roma, più di quanto fosse necessario (ne, quae non opus est, forte loquare, cave); come si ricava dai versi successivi, il libro non dovrà cioè incaricarsi di prendere le difese del poeta dal momento che, non appena esso giungerà a Roma e sarà riconosciuto come opera di Ovidio, al lettore non potrà che venire in mente la recentissima condanna inflitta all’esule, che sarà senz’altro identificato come colpevole (vv. 23 s., protinus admonitus repetet mea crimina lector, / et peragar populi publicus ore reus).27 Invitando il proprio liber a mantenere il silenzio, il poeta aggiunge un’osservazione che, per quanto apparentemente limpida nella sua formulazione, ha messo a dura prova gli interpreti, che hanno fra l’altro proposto vari aggiustamenti al testo al fine di ottenere un signi­ ficato più soddisfacente. Mi riferisco al secondo emistichio del v. 21, tradizionalmente stampato come frase parentetica, quaerenti plura legendum.28 All’emistichio ha dedicato un affascinante contributo Sergio Casali, analizzando in particolare l’«attitudine» che dal proprio lettore Ovidio idealmente presuppone, l’immagine di lettore ideale che le opere dell’esilio sembrano delineare ai fini di un corretto processo interpretativo.29 A proposito della nostra espressione, Casali giustamente nota il fatto che il testo gioca sulla doppia dipendenza dell’accusativo plura da entrambi i verbi che lo inquadrano (e proprio per questo ogni tentativo di correzione finisce per annullare una tensione del significato cui è impossibile rinunciare): «chi vuole saperne di più deve leggere di più».30 A partire da questa precisazione, è necessario comprendere l’autentico si­

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Un’inattesa realizzazione dell’ore legar populi di met. 15.878: cfr. Martelli 2013, pp.  152 ss. Si veda inoltre Hardie 2002b, p. 306 per un commento sulla «very attenuated form of the nominal survival, in the absence of the living person, of which Ovid had boasted at the end of the Metamorphoses». I più recenti editori dei Tristia correggono o sospettano il testo dei mss. Luck: quaerent si plura legentes; André in app.: «an negandum?»; Hall: atque ita te cautus quaerenti plura legendum […] dato. Il distico è preso in esame nel denso e documentato contributo di Ursini 2017 (cui rimando per tutte le ulteriori congetture avanzate a partire dalla fine dell’Ottocento), che propone di leggere teque dabis tacitus quaerenti plura legendum sulla base di Mart. 12.2.15. Per una difesa del testo tràdito si veda Huskey 2005, che intende l’invito a «cercare di più» come un riferimento alla densità allu­ siva del nostro testo (e della poesia ovidiana in generale). Casali 1997, p. 80: lo studioso si propone di esaminare «the disposition which the reader must bring to bear to Ovid’s exilic works», vale a dire «the way in which the text explicitly or implicitly shapes his ideal reader, and gives him indications as to how to read the new works which gradually reach Rome from Pontus». Per l’ammissibile dipendenza dell’accusativo dal gerundio al posto della più consueta costruzione col gerundivo (plura legenda), cfr. gli esempi e la bibliografia forniti ivi, p. 108 n. 7, cui è da ag­ giungere la lista che si trova in Pinkster 2015, p. 291. Una serie di esempi lucreziani in Bailey 1947, I pp. 103 s.

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gnificato dell’invito a «leggere di più», un invito che secondo Casali corrisponde a un’esortazione da parte del poeta a rintracciare un significato ulteriore nelle sue parole, senza limitarsi «at the superficial certainties of the text».31 Ovidio vorrebbe cioè che il suo lettore ideale si sforzasse di cogliere nel testo una serie di spunti e di allusioni che evidentemente il poeta non ha la possibilità, nella condizione di esule in cui si trova, di affermare in modo compiutamente inequivoco. Esaminando più da vicino il contesto entro cui si colloca l’invito a (plura) legere per chi quaerit plura, vorrei qui proporre un’interpretazione diversa dell’espressione. Contrariamente all’approccio seguito da Casali, partirei piuttosto dalla considerazione di una lettura tutt’altro che ‘ideale’, quella cioè di chi – come chi scrive – ha già letto il resto della produzione ovidiana dell’esilio, e quindi ha di fatto già letto di più. Si potrebbe tentare di approfittare di una simile posizione privilegiata, cercando al tem­ po stesso di immedesimarsi in uno dei primi lettori del singolo monobiblos:32 che cosa potranno voler sapere di più costoro nel contesto dei primi versi inviati da un poeta notoriamente e recentemente condannato? Come anticipavo, l’espressione in esame è riecheggiata nelle parole finali dell’elegia, rivolte direttamente al libro (quaerenti plura legendum ~ plura … si quaeris, habebam); l’esule sembra insomma avere in serbo «più cose» da dire, che ora tuttavia fa mostra di non poter ‘contenere’ nel liber: ma quali cose? Ritornando al contesto della prima espressione, appare evidente il le­ game con i crimina (v. 23): immaginando l’accoglienza della nuova opera da parte del populus di Roma, suo pubblico privilegiato, il poeta sta anticipando la possibilità, evi­ dentemente assai concreta, che quel pubblico assuma un atteggiamento diffidente nei confronti dello scritto di colui che ormai è publicus reus. Sono proprio questi crimina a costituire l’argomento su cui il libro è chiamato a non spendere parola (v. 25, tu cave defendas): a «difendere» il poeta penserà infatti un altro liber – nella fattispecie, il se­ condo dei Tristia. Ciò che il lettore è chiamato a «leggere in più» rispetto al singolo libro ora giunto a Roma potrebbe non essere altro che un liber alter dei Tristia, che conterrà proprio quei temi, i crimina,33 e quella (auto)difesa del poeta che sono ora decisamente esclusi dalla cornice ‘limitata’ del primo parvus liber. A conferma di questa proposta interpretativa, è interessante il confronto con un al­ tro passo all’interno della produzione dell’esilio in cui Ovidio utilizza un’espressione analoga nell’ideale rimando a un suo scritto che ci si deve attendere come successivo. Negli ultimi versi dell’Ibis (639 ss.) il poeta, che ha appena riempito circa seicento ver­ 31 32 33

Casali 1997, p. 82. Cfr. Sharrock 2018, p. 20 sull’oscillante interesse della critica contemporanea per il ‘lettore origina­ le’ ovvero il ‘lettore moderno’, entrambi i quali vanno riconosciuti come costruzioni ipotetiche. Così sarà annunciato fin dal v. 3 del nuovo libro: cur modo damnatas repeto, mea crimina, Musas?; Ciccarelli 2003, p. 33 nota nei primi versi di trist. 2 la presenza certo non casuale di un «lessico giu­ ridico» (oltre a crimina, si considerino anche il verbo damnare e il sostantivo poena), che si spiega senz’altro come anticipazione dei contenuti del libro stesso. Cfr. infra, p. 65 n. 92 per un commento sulla serrata cronologia di pubblicazione di trist. 1–2.

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si con ogni sorta di ingiuria e maledizione all’indirizzo dell’anonimo nemico, decide «per il momento» di fermarsi, di dare cioè un limite al libellus (haec tibi tantisper subito sint missa libello,  / immemores ne nos esse querare tui); Ovidio ironicamente afferma che gli insulti finora accumulati sono pochi, ma prega gli dei perché realizzino più di quanto il poeta ha loro richiesto (pauca quidem, fateor; sed di dent plura rogatis / multiplicentque suo vota favore mea). Ci sarà comunque spazio per questi plura in uno scritto che viene fin d’ora annunciato: come già ai vv. 53 s., il poeta anticipa la composizione di una seconda opera che questa volta utilizzerà il giambo, l’autentico metro dell’invet­ tiva (vv. 643 s.):34 postmodo plura leges et nomen habentia verum et pede quo debent acria bella geri.

Nel secondo scritto a lui dedicato il nemico di Ovidio «leggerà di più», proprio come i lettori della prima raccolta di Tristia potranno ricavare più informazioni circa i crimina, di cui il primo libro non parla, leggendo trist. 2.35 È interessante del resto confrontare non soltanto la singola espressione, il fatto di plura legere, ma la movenza, che è la stessa, con la quale si concludono tanto l’Ibis quanto trist. 1.1: alla condizione per cui l’opera in corso viene presentata come ‘incompleta’ fa immediatamente seguito l’aggiunta di una frase correttiva in cui si trova, nel caso di trist. 1.1, la giustificazione dell’incompiutezza; nel caso dell’Ibis, l’augurio (e però allo stesso tempo l’annuncio, nel distico successivo) di un completamento futuro: trist. 1.1.123 s. plura quidem mandare tibi, si quaeris, habebam; sed vereor tardae causa fuisse viae.

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Sulle «tentazioni giambiche» dell’esule è da vedere il lavoro di Degl’Innocenti Pierini 2003; sul particolare effetto sortito da questo annuncio finale si vedano le osservazioni di Williams 1996, p. 16; Schiesaro 2011, pp. 89 ss. I due passi sono accostati in Schiesaro 2011, pp. 136 s. nell’ambito di una lucida illustrazione del «frenzied pursuit of ‘more’» rintracciabile nell’Ibis; un interessante parallelo catulliano per i plura dell’Ibis offre Battistella 2019, pp.  52 s. Quanto all’annuncio di inizio poemetto, si considerino i vv. 61 s., et, quoniam qui sis nondum quaerentibus edo, / Ibidis interea tu quoque nomen habe: an­ che i lettori dell’Ibis «chiedono» di più, vorrebbero cioè sapere, fin dall’inizio, chi è Ibis – ciò che scopriranno tuttavia soltanto nell’opera in giambi annunciata per il futuro. Molto significativa appare in questo contesto l’insoddisfazione per il senso del nostro distico di trist. 1.1 espressa da Ursini 2017, pp. 517 s.: «appare infatti inverosimile che il poeta, proprio nel momento in cui sta invitando il liber alla massima riservatezza, esorti viceversa i lettori appunto a ‘leggere’ per ‘sapere di più’ […] proprio di quegli argomenti che il liber dovrebbe invece ‘tacere’ […], per non dire che le risposte che il lettore sarebbe qui invitato a cercare di fatto poi non si trovano – testo alla mano – nel primo libro dei Tristia (né, se non in misura assai marginale, altrove in Ovidio)» (enfasi mia); i lettori saranno appunto chiamati a cercare le risposte nel secondo libro, ma questo naturalmente non significa che tutti i dubbi verranno risolti: cfr. infra, p. 43 n. 38.

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Ibis 641 s. pauca quidem, fateor; sed di dent plura rogatis multiplicentque suo vota favore mea.

Un ulteriore elemento di vicinanza tra i due passi è inoltre dato dal tema della fretta, che è in parte presentato proprio come il motivo dell’incompiutezza: il libellus conte­ nente l’Ibis è detto subitus (v. 639), un aggettivo in cui si mescolano e si sovrappongono il significato di «affrettato, composto senza cura» e quello di «estemporaneo, compo­ sto tutto d’un fiato»;36 al termine di trist. 1.1 l’esule parimenti invita il liber ad «affrettar­ si» (v. 127, longa via est, propera): un primo segnale di quella poetica della festinatio cui sarà consegnata veste teorica in alcuni ben noti passi delle ex Ponto.37 Qui tuttavia, più che sulla fretta della composizione, l’attenzione mi pare focalizzata proprio su quell’in­ compiutezza di cui si diceva, e che si fa segno, come accennavo, di una prosecuzione che al libro sembra riservata fin dall’inizio. Nello specifico caso di trist. 1, sembra dunque possibile giungere a una conclusione importante: gli indizi raccolti inducono a sospettare che Ovidio, al momento dell’in­ vio del suo primo libro di elegie tristi, avesse già concepito – né sembra difficile cre­ derlo – un progetto poetico che fin dall’inizio includeva l’elegia di autodifesa, il tema dei crimina che risulta programmaticamente escluso da trist.  1,38 e verosimilmente, stando in particolare ai suggerimenti presenti nell’ultimo componimento della silloge e alla conclusione abrupta del libro stesso, anche un’altra serie di elegie che questa volta sarebbero state inviate dal luogo dell’esilio, e avrebbero dato notizia dell’effetti­ vo raggiungimento di quell’orbis ultimus verso cui il poeta si è finora presentato come soltanto diretto. A fronte dell’apparente (e ostentata) ‘compiutezza’ del totus libellus, in 36 37 38

Cfr. La Penna 1957 ad loc.: «forse effettivamente la composizione dell’Ibis non ha preso ad Ovidio né molto tempo né molta cura»; per il doppio significato di subitus, cfr. OLD, s. v., nn. 4 («sud­ denly formed or created») e 5 («made or prepared in a hurry, improvised, rough and ready»). Festinatio nella poesia ovidiana dell’esilio: cfr. Merli 2013, pp. 57 ss. Indicativo in questo senso appare anche il distico 1.2.95 s., et iubet et merui; nec, quae damnaverit ille, / crimina defendi fasque piumque puto: di fronte agli dei invocati nel corso della tempesta, il poeta non reputa giusto difendere i crimina; nei versi successivi, tuttavia, si allude alla distinzione tra facinus ed error che costituirà un argomento centrale nell’autodifesa di trist. 2 (1.2.99, si me meus abstulit error ~ 2.109, qua me malus abstulit error), ma è significativo che Ovidio faccia appello a una conoscenza da parte degli dei (a culpa facinus scitis abesse mea. / immo ita, si scitis …) che è esattamente quella che manca ai lettori. Una mossa analoga in 1.3.37 ss. (quod vos scitis), ancora una volta nel contesto di una preghiera rivolta agli dei; così in 1.9.59 ss. si fa riferimento alla con­ sapevolezza del singolo interlocutore (vita tamen tibi nota mea est: scis artibus illis / auctoris mores abstinuisse sui; / scis vetus hoc iuveni lusum mihi carmen …), cui viene chiesto di scusare i crimina del poeta altrimenti (per ora) indifendibili (ergo ut defendi nullo mea posse colore, / sic excusari crimina posse puto). È interessante constatare che anche dopo la lettura di trist. 2, a ben vedere, i lettori non avranno molte più informazioni circa i (veri) crimina del poeta; questa ‘conoscenza’ dei fatti, continuamente allusa e insieme disattesa, contribuisce alla creazione di quella figura di «lettore paranoide» che è stata individuata come inevitabile prodotto delle elegie composte a Tomi (e di trist. 2 in particolare): cfr. Barchiesi 1993, pp. 158 s.

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trist. 1 è così possibile rintracciare i segnali di una continuazione, che pare opportuno intendere come implicito annuncio, all’indirizzo dei lettori, di future aggiunte che essi dovranno a buon diritto attendersi. 2. La fine che non è fine 2.1 Vita, morte, metamorfosi: un modello narrativo per l’esilio Una doppia tensione risulta dunque percorrere il primo liber di elegie tristi dall’inizio alla fine: da un lato, esso appare rigidamente delimitato entro confini ben visibili, sul modello del libretto neoterico­elegiaco e non solo, e a un senso di unitarietà e di com­ pattezza contribuiscono tanto le osservazioni svolte nei componimenti paratestuali, il primo e l’ultimo, quanto il contenuto prevalente, il tema del viaggio in mare. Allo stes­ so tempo, una serie di elementi lasciati in sospeso, e soprattutto gli accenni a discorsi che i lettori percepiscono come rimandati (quaerenti plura legendum), attribuiscono al liber un carattere aperto e incompiuto, che lascia presagire una continuazione della poesia dell’esule, un supplemento destinato presto ad accompagnare il singolo libro finora inviato. L’ambiguo rapporto fra senso di chiusura e annuncio di continuazione sembra del resto caratterizzare anche altri aspetti e altre immagini che più in generale Ovidio im­ piega per la prima volta in trist. 1 e che tornerà a impiegare con costanza nel seguito del­ la produzione dell’esilio: ad esempio, l’onnipresente metafora dell’esilio come morte, una delle cui prime formulazioni esplicite è quella di trist. 1.4.26 s., vos [scil. i numina ponti] animam saevae fessam subducite morti, / si modo, qui periit, non periisse potest.39 Il paradosso generato dall’immagine di un morto non morto, che l’allitterazione contri­ buisce a sottolineare, è simbolo di una poesia che sembra finita eppure continua, di un poeta che non cessa di svolgere un canto che è puntualmente presentato come l’ulti­ mo.40 Si tratta di un’immagine che a mio avviso aiuta a comprendere una caratteristica importante della poesia ovidiana dell’esilio, come in particolare vedremo a proposito delle successive raccolte dei Tristia prima della svolta segnata dalle Epistulae: esse si ca­

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Cfr. già 1.2.71 s., nec tamen, ut cuncti miserum servare velitis, / quod periit, salvum iam caput esse potest; l’elegia 1.3 è del resto interamente fondata sull’immagine della partenza da Roma come rito funebre, un’immagine che ovviamente presuppone quella dell’esilio come morte (cfr. vv. 21 s., quocumque aspiceres, luctus gemitusque sonabant, / formaque non taciti funeris intus erat): cfr. Videau­ Delibes 1991, pp. 357 ss. (con bibliografia); su questa elegia si veda infra, pp. 48 ss. Sulla metafora della ‘morte dell’autore’ si sofferma ora Wessels 2021, che fra l’altro nota (a proposi­ to dei Tristia): «der Dichter, der seine Kunst vollenden will, muss sterben» (p. 119, enfasi nell’ori­ ginale); il carattere non compiuto della poesia dell’esilio di Ovidio è illustrato in effetti proprio dal fatto che l’autore continua a smentire, attraverso la pubblicazione delle diverse raccolte, l’annuncio della propria morte.

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ratterizzano infatti come raccolte via via giustapposte, collocate l’una di seguito all’al­ tra non in virtù di un disegno preordinato, ma a causa della durata sempre crescente dell’esilio, alla quale il poeta continua a sperare che venga infine assegnato un limite. L’assenza di limite alla condanna provoca la fuoriuscita dai limiti di una poesia che vor­ rebbe terminare e però è costretta a proseguire, di una poesia che risulterà impossibile ‘contenere’ entro uno o più libri secondo un progetto poetico sapientemente calibrato alla maniera neoterico­elegiaca nonché oraziana – in ultima analisi, callimachea – e che al contrario si presenterà pur sempre, a ogni nuova aggiunta, come intrinsecamen­ te parziale. La metafora dell’esilio come morte, che puntualmente l’esule traduce in un’immagine di sopravvivenza anche forzata, costituisce in questo senso un’icona del carattere eternamente incompiuto della poesia dell’esilio;41 ma procediamo con ordine e vediamo sotto quale forma in trist. 1 si sviluppa fin dall’inizio questo rapporto fra limite e continuazione, fra chiusura definitiva e inevitabile proseguimento. C’è un’altra immagine, suggerita in modo più o meno esplicito nel corso della prima silloge di poesia triste, che compendia in sé e descrive la caratteristica che abbiamo ri­ conosciuto al liber in quanto raccolta: un’associazione che si traduce in metafora della condizione dell’esule e che funge infine da modello per così dire ‘narrativo’ sulla cui matrice si articola il racconto dell’esperienza biografica del poeta – il modello della metamorfosi. Come alcuni recenti studi hanno messo bene in luce, il fenomeno del­ la metamorfosi, al quale Ovidio ha dedicato il poema maggiore, si caratterizza proprio in virtù del suo statuto ambiguo, dovuto al fatto che il personaggio trasformato speri­ menta il passaggio a una condizione che si colloca a un livello intermedio fra la vita e la morte:42 se infatti, da un lato, la trasformazione è il più delle volte causa di sofferenza anche violenta, subita dal personaggio di turno non di rado anche come punizione più o meno meritata di una colpa, giudicata infine una forma di annullamento se non di autentica morte;43 d’altro canto, è pure evidente che, secondo il principio del nihil interit esposto da Pitagora nell’ultimo libro del poema, il mutamento è anche e soprattutto conservazione della vita, che anziché annullarsi è preservata sotto una specie differen­ te, perdurando nel proprio rinnovamento (met. 15.252 ss., nec species sua cuique manet, rerumque novatrix / ex aliis alias reparat natura figuras, / nec perit in toto quicquam, mihi credite, mundo, / sed variat faciemque novat, nascique vocatur / incipere esse aliud, quam

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Il carattere di nuova apertura a fronte di una fine soltanto apparente sembra del resto un elemento che più in generale determina l’essenza stessa dell’esilio come esperienza, in particolar modo nel contesto culturale romano, segnato dal mito fondativo dell’esule Enea; cfr. su questo punto Rimell 2015, p. 282: «[…] Roman exile, as it relates to Roman origins and identity, is characteristically double: it is always both loss and transformation, both death and rebirth». Emblematico in questo senso l’epilogo dell’episodio di Mirra, la cui preghiera agli dei si svolge nei seguenti termini (met. 10.485 ss.): sed ne violem vivosque superstes / mortuaque extinctos, ambobus pellite regnis / mutataeque mihi vitamque necemque negate. Su violenza, corporeità e punizione nelle Metamorfosi si veda in generale Segal 2005.

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quod fuit ante, morique / desinere illud idem).44 I singoli personaggi trasformati prose­ guono la propria esistenza sotto la nuova forma acquisita, conservando in misura più o meno evidente – in molti casi soltanto nel nome – la traccia del passato. L’ambiguità del fenomeno metamorfico è in ultima istanza dovuta al fatto che «any and every in­ stance of metamorphosis results in a state that is neither life nor death, but something in between».45 La poesia dell’esilio di Ovidio si presenta fin da subito, né ci si potrebbe aspettare al­ trimenti, come intimamente legata a un evento, la condanna, che ha segnato una cesura nella vita del poeta, il quale decide ora di ripresentarsi al suo pubblico di lettori con una serie di raccolte di poesia elegiaca breve o ‘soggettiva’. Tale cesura, netta e irrevocabile, non è tuttavia risultata in un annientamento, ma ha permesso una forma di conser­ vazione da parte dell’esule: l’imperatore Augusto, artefice unico della condanna, ha risparmiato la vita del poeta. Questo aspetto ‘declinato’ della condanna, il suo carattere perentorio eppure non definitivo, è ripetutamente menzionato da Ovidio come prova della clemenza del princeps, cui viene offerta la possibilità di manifestare ulteriormente la propria mitezza richiamando il poeta dall’esilio; ma si tratta di una possibilità che lascia intuire uno spazio all’interno del quale il poeta ha libero gioco, vedendosi conti­ nuamente prospettata l’eventualità del ritorno o, in alternativa, di una riduzione della pena. Sarebbe interessante conoscere il contenuto di quei tristia verba (trist. 2.133) at­ traverso cui Augusto condannò senza processo il poeta all’esilio, al fine di cogliere fino a che punto l’imperatore giudicasse definitiva la condanna;46 quel che è certo, le opere dell’esilio di Ovidio nascono in primo luogo entro quello spazio infinitesimo concesso dalla possibilità di fare ritorno, uno spazio di sopravvivenza destinato a prolungarsi sempre più, e così a prolungare, a suo danno, la speranza dell’esule. Il modello narrativo della metamorfosi si pone in questo senso come efficace pa­ radigma in grado di descrivere l’evento altrettanto ambiguo e ‘incompiuto’ della con­ danna: limite e apertura, cesura e continuazione, morte e sopravvivenza risultano ca­ tegorie opposte che possono aiutare a definire non soltanto il carattere della condanna subita da Ovidio, ma soprattutto la natura della poesia prodotta a seguito e a proposito

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Sulla problematica contraddizione ‘teorica’ dovuta al fatto che «il mondo della metamorfosi mi­ tologica di Ovidio è un mondo dove processi miracolosi e bizzarri portano a stati di alterazione permanente, laddove un messaggio centrale di Pitagora è che nel mondo tutto ininterrottamente continua a cambiare», cfr. Hardie 2015, p. 487 (con bibliografia). Hardie 2002b, pp. 81 s.; sulle ambiguità interpretative generate dal fenomeno metamorfico nel po­ ema ovidiano, cfr. anche Feldherr 2002. È significativo il fatto che ai tristia verba di Augusto il poeta risponda con verba altrettanto tristia, con un’opera cioè intitolata Tristia: sul gioco di parole, cfr. Ingleheart 2010 ad loc.; sull’associazione fra poeta e princeps in questo passo, cfr. Habinek 1998, pp. 155 s. Sul tipo di condanna subita da Ovidio, e sulla natura dei verba dell’imperatore, cfr. Thibault 1964, pp. 5 ss. e infra, p. 67; sulla «one­ sided nature of the evidence» a proposito dei termini della condanna, cfr. inoltre McGowan 2009, p. 40.

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di quella condanna.47 Ci sono sostanzialmente due forme entro cui quel modello appa­ re particolarmente attivo: in primo luogo, la metamorfosi fornisce al poeta un lessico, un vocabolario che Ovidio ha fatto proprio nel poema maggiore e che ora riconverte nella descrizione dell’esperienza autobiografica. Questa riconversione accompagna e integra quella di altri linguaggi e di altri lessici: primo fra tutti, quello dell’elegia ero­ tica, rispetto al quale il linguaggio della metamorfosi non di rado si identifica. Com’è noto, infatti, nel poema delle mutatae formae la descrizione della trasformazione ‘reale’ dei personaggi si realizza spesso attraverso un processo di oggettivizzazione di quelle metafore che i poeti dell’elegia erotica avevano impiegato nel racconto della propria esperienza amorosa (mi riferisco in particolare all’immaginario della Liebeskrankheit, la ‘malattia d’amore’ che causa pallore, magrezza, consunzione fisica, irrigidimento); nelle opere dell’esilio, quel medesimo vocabolario è reimpiegato nella descrizione del­ la metamorfosi concretamente fisica che il poeta attribuisce al proprio corpo, una tra­ sformazione la cui ‘oggettività’ va misurata, oltre che con i modelli elegiaci del passato, proprio nel confronto con i modelli metamorfici del poema epico.48 Ma accanto al reimpiego di un certo lessico, è utile considerare anche il modo in cui il modello narrativo della metamorfosi, quale si è ora descritto, fornisca al poeta esule una retorica, le cui potenzialità Ovidio continua a sfruttare, e a perfezionare, nel corso dell’intera produzione dell’esilio. Lo ‘spazio d’azione’ di cui si diceva, all’interno del quale il poeta condannato può continuare a svolgere la propria attività poetica pur a seguito della cesura rappresentata dalla condanna, finisce naturalmente per coinvol­ gere tutti coloro che in diverso modo entrano nel raggio d’azione di quella poesia, i destinatari cui Ovidio si rivolge. Nei loro confronti, ancora una volta, risulta da un lato marcato il ‘limite’, l’interruzione di un rapporto che a seconda dei casi si dimostra più o meno stretto; allo stesso tempo, nello spazio del singolo carme, il poeta spesso individua l’occasione per cui a quel rapporto è consegnata la possibilità di continuare a sussistere, fatte salve le precauzioni che l’esule si affretta a motivare.49 Entro quest’ot­ 47

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Una serie di osservazioni utili a questo proposito si trova in Tola 2004, un lavoro che parte dalla constatazione nelle opere dell’esilio di Ovidio di una «dialectique tensionnelle» tra «fluidité et fixation» (p. 6); la studiosa descrive la poetica di Tristia ed ex Ponto in termini di «métamorphose», basata su «deux directions contradictoires: celle du mouvement et de la fixation qui rejaillissent sur les modalités mêmes d’une écriture faite de fluctuation, de continuités et de ruptures, voire de continuité et de discontinuité» (p. 42); ne risulta una poetica della «ondoyance» che trova nell’im­ magine dell’acqua e più in generale dell’«élément liquide» la sua espressione più caratteristica (cfr. pp. 65 ss.). Ottimi spunti circa esilio, metamorfosi e infinitezza della poesia fornisce ora Haas 2020. Lessico e immaginario dell’elegia erotica nelle Metamorfosi: cfr. p. es. Knox 1986, pp. 9 ss.; Pavlock 2009, pp. 14 ss. Sulla metafora come espediente narrativo nel poema si vedano le importanti pagine di Pianezzola 1999, pp. 29 ss., e cfr. inoltre, sulla distinzione tra metafora e similitudine, von Glinski 2012, pp. 10 ss. Lessico della Liebeskrankheit nelle opere dell’esilio: cfr. Nagle 1980, pp. 61 ss.; Helzle 2003, p. 240 (su Pont. 1.10); una prospettiva in parte diversa offre Claassen 2008, pp. 111 ss. Sulle dinamiche dell’amicitia nelle opere dell’esilio di Ovidio, che individuano uno scarto nella tradizionale rappresentazione del rapporto amichevole in virtù della ‘interferenza’ provocata dal «terzo personaggio», l’imperatore, si sofferma utilmente Citroni Marchetti 2000b, pp. 317 ss.

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tica, il fine pratico riconosciuto ai carmi dell’esilio è perseguito mediante il doppio momento ora individuato, quello della cesura e della continuazione, che finisce per delineare un andamento retorico ricorrente, uno schema persuasivo che sta alla base di molta parte della produzione esilica di Ovidio. All’apparente ‘chiusura’ cui danno voce i versi del poeta a Tomi, che lamentano la fine, l’assenza, l’irrimediabile perdita di una condizione passata, corrisponde un movimento di ‘apertura’, in virtù del quale l’esule lascia intravedere ai propri destinatari la possibilità di intervenire in suo favore. Si tratta di un duplice movimento che percorre la produzione dell’esilio a diversi livelli, dal singolo carme alla singola raccolta all’intero corpus: ma è pure intuibile, al tempo stesso, come questa dinamica possa trovare una più compiuta espressione nella forma dell’epistola poetica, cui l’esule infine perviene nelle Epistulae ex Ponto. Essa si presenta infatti, nella sua ripetizione all’interno della raccolta, come forma ostinatamente ‘chiu­ sa’, in grado di trattare un discorso intimo nell’arco del suo svolgimento, efficacemente ‘delimitato’ dalle topiche formule iniziali e finali; eppure, secondo l’immagine diffusa nei testi antichi e fatta propria anche dalla teoria retorica, l’epistola è sempre parte di un dialogo potenzialmente infinito, frammento di un continuum destinato a rinnovarsi nello scambio che essa presuppone. Il doppio movimento di apparente chiusura e di sempre nuova apertura che caratterizza l’epistola in quanto forma di comunicazione si rivela dunque, a mio avviso, la più consapevole espressione di un’esigenza retorica particolarmente cara al poeta in esilio; sarà proprio questo uno degli aspetti di cui trat­ teremo nell’ultimo capitolo. 2.2 Vita, morte, metamorfosi: trist. 1.3 e l’inizio dell’esilio È tuttavia interessante constatare che il modello narrativo della metamorfosi, nella sua doppia valenza lessicale e retorica che si diceva, appare sfruttato fin dall’elegia per mol­ ti aspetti fondativa dell’esperienza esilica del nostro autore, che non per caso è anche fra le più lette e studiate dell’intero corpus: trist. 1.3, il cosiddetto ‘addio a Roma’. Vorrei dunque brevemente ripercorrere questo testo secondo la prospettiva appena esposta. Nei primi versi dell’elegia, dove il poeta rievoca il proprio stato d’animo vissuto nel­ la notte precedente la partenza,50 il senso di inoperosità e di torpore che lo affligge viene descritto per mezzo di una serie di immagini ‘metamorfiche’ (vv. 5 ss.): iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar finibus extremae iusserat Ausoniae. 50

L’elegia si pone dunque come flashback, una sospensione del presente narrativo che presuppone il poeta in viaggio: nella sequenza iniziale di trist. 1, dove alla prima descrizione della tempesta (1.2) si fa seguire il racconto della notte infelice (1.3), Ovidio sta chiaramente ripercorrendo il modello offerto dall’Eneide: su questo modello si vedano soprattutto Huskey 2002; Degl’Innocenti Pierini 2007; Putnam 2010.

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nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi: torpuerant longa pectora nostra mora. non mihi servorum, comites non cura legendi, non aptae profugo vestis opisve fuit. non aliter stupui, quam qui Iovis ignibus ictus vivit et est vitae nescius ipse suae.

La condizione ambigua, la posizione ‘intermedia’ del poeta condannato all’esilio tro­ vano un’espressione piuttosto efficace nell’immagine ossimorica del ‘morto vivente’, di un vivo che non sa di vivere, evocata al v. 12, diretta conseguenza del Blitzschlag sca­ gliato da Giove­Augusto:51 una condizione che nel suo esito finale differenzia il destino del poeta da quello di Fetonte, cui pure Ovidio si è richiamato nell’elegia proemiale della raccolta (vv. 79 s., vitaret caelum Phaethon, si viveret, et quos / optarat stulte, tangere nollet equos);52 il fulmine dell’imperatore, simbolo dell’inappellabile cesura nella bio­ grafia del nostro autore, non lo ha annientato, ma gli ha anzi permesso di conservare un principio vitale che ora egli è in grado di raccontare. Allo stesso tempo, la ‘paralisi’ del poeta condannato è descritta per mezzo di due verbi, torpeo e stupeo, indicanti uno stato psicofisico che nelle Metamorfosi è spesso evocato nella descrizione della fase di passaggio, della realizzazione, da parte del personaggio in corso di trasformazione, della propria inesorabile caduta in uno stato appunto limbico e incerto.53 La ‘metamorfosi’ del poeta in trist. 1.3 è stata resa oggetto di una recente analisi di Bartolo A. Natoli, che si è utilmente soffermato sui numerosi paralleli tra il nostro testo e le Metamorfosi, interpretabili come segnali della volontà da parte del neo­esule di de­ scrivere il proprio stato mentale nei termini di quella «wavering identity» che in pas­ sato è stata notoriamente individuata come tratto tipico dei personaggi che popolano

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Sull’immaginario del Blitzschlag sono da vedere Martin 2004, pp. 41 ss.; Di Giovine 2020, pp. 73 ss. Come ricorda l’etimologia di Serv. Aen. 3.172 (proprie attonitus dicitur, cui casus vicini fulminis et sonitus tonitruum dant stuporem), l’aggettivo attonitus indica propriamente la condizione descritta da Ovidio nel nostro passo, e infatti così il poeta si dice altrove nei Tristia (cfr. p. es. trist. 1.5.3), mentre nelle Epistulae ex Ponto «the exile has, perhaps not surprisingly, ceased to be attonitus» (Claassen 2008, p. 129). Sul valore programmatico di questa associazione, cfr. Graf 2002, p. 114: «the first exempla in the collection of the Tristia are Phaëthon, victim of Jupiter’s wrath, and Icarus […] – excellent images for the poet who had envisioned himself, in the sphragis of his Metamorphoses, flying high and wide, and having left a work that would survive the wrath of Jupiter»; Putnam 2001, pp. 185 s. ri­ corda che nelle Metamorfosi il destino di Fetonte è quello di un esule: cfr. 2.323 s., quem procul a patria diverso maximus orbe / excipit Eridanus … Cfr. met. 1.548 (torpor), 5.196 (torpetis), 13.541 (torpet, senza metamorfosi); 3.418 (adstupet, senza metamorfosi), 5.205 (stupet), 5.509 (stupuit, senza metamorfosi), 10.64 (stupuit), 15.553 (stupuit, senza metamorfosi). Per una classificazione di questo lessico come «vocabulary of surprise», cfr. Anderson 1963; su stupore e meraviglia come tratti essenziali del poema ovidiano, cfr. Rosati 1983, pp. 95 ss.

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il poema delle forme mutevoli.54 In particolare, rifacendosi al lessico e all’immaginario del proprio poema maggiore, Ovidio vorrebbe rappresentare se stesso come parimenti afflitto dalla duplice conseguenza che nelle Metamorfosi colpisce i personaggi trasfor­ mati: la perdita della parola e la contemporanea separazione dalla comunità. Allusions to Callisto, Philomela, Dryope, and Actaeon are deployed throughout Tristia 1.3 to emphasize particular aspects of the exile’s impending loss of speech and community. […] having lost his ability to speak and his connection to community, the exile must spend the rest of the Tristia and the Epistulae ex Ponto attempting to find his voice again and to reconnect with his community.55

Vale la pena di sviluppare ulteriormente alcuni degli spunti offerti da questa analisi. Il modo attraverso cui l’esule descrive la propria progressiva perdita della capacità di parola, infatti, contiene un paradosso al suo stesso interno, dal momento che a narrarla è lo stesso poeta che si autorappresenta come incapace di parlare. A questo proposito va naturalmente fatta salva quella distinzione fra Ovidio­autore e Ovidio­personaggio che rappresenta un’acquisizione ormai radicata negli studi sulla poesia dell’esilio ed elegiaca in generale, ma che a mio avviso non sembra opportuno adottare in maniera troppo rigida.56 Se è vero, da un lato, che la persona dell’autore di cui trattano le nostre raccolte va considerata come una costruzione letteraria la cui effettiva consistenza ‘re­ ale’ non sarà molto diversa rispetto a quella dei personaggi di cui parla il mito (e cui l’Ovidio dell’esilio associa continuamente se stesso e il proprio caso biografico), d’al­ tro canto è pur vero che l’identificazione completa tra autore e personaggio su cui si regge tutta la poesia ovidiana dell’esilio genera continue (e cruciali) sovrapposizioni fra l’una e l’altra sfera, diciamo fra ‘storia’ e ‘letteratura’ – e sono sovrapposizioni che all’autore interessa generare. Come insegnano gli studi cosiddetti reader-oriented, è la mente del lettore che spesso è incapace di tenere distinti i due piani, e su questa ‘inca­ pacità’ del lettore gioca spesso la studiata strategia dell’autore.57 54

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Natoli 2017, pp.  85 ss.; il concetto di «wavering identity» risale a Fränkel 1945, che al contrario partiva dalla constatazione di questo stato psicologico nei personaggi delle Metamorfosi e lo ricon­ duceva allo spirito del tempo in cui visse Ovidio, lacerato dal passaggio dalla civiltà pagana a quella cristiana; per una critica a questa impostazione, si veda ancora Rosati 1983, pp. 95 ss. La categoria psicologica elaborata da Fränkel era già richiamata, a proposito di trist.  1.3, da Doblhofer 1980, p. 87 = 1987, pp. 91 s. («Ich­Spaltung»); su melancolia, mania e depressione nelle opere dell’esilio, cfr. Williams 1996, pp. 112 ss. Natoli 2017, p. 105. Per una formulazione, cfr. p. es. Holzberg 1997, pp. 4 s.; sulla costruzione dell’esule come perso­ naggio letterario si veda soprattutto Lechi 1993; sul concetto di persona e sulla sua applicazione all’Ovidio dell’esilio si sofferma ampiamente Seibert 2014, pp. 55 ss. Per un’ampia panoramica sulle reader-oriented theories, cfr. Rabinowitz 1995, senza dimenticare le importanti avvertenze che si trovano in Conte 1991, pp. 3 ss.; sulla ‘cooperazione’ del lettore nell’at­ to interpretativo, si veda in generale Eco 1979. Sulla biographical fallacy generata da trist. 1.1 (iden­ tificazione del poeta con il proprio libro, che produce «the propensity of readers to conflate an author with his fictions»), cfr. Mordine 2010, p. 525.

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Per venire allo specifico caso di trist. 1.3, il lettore è posto di fronte a una serie di pia­ ni testuali che potrebbe risultare addirittura vertiginosa: il racconto dell’ultima notte a Roma è infatti svolto all’interno di un ricordo a sua volta espresso dal protagonista del racconto stesso nel quadro di un’opera composta da quel medesimo protagonista, che ne è dunque anche l’autore. Anziché sancire una «loss of speech», l’elegia potreb­ be al contrario farsi testimonianza di un ‘esubero di parola’, che si realizza attraverso una tecnica di racconto nel racconto non molto dissimile rispetto a quella così spesso impiegata dal loquace narratore delle Metamorfosi. Più che sulla perdita del gesto locu­ torio, mi interessa soffermarmi sulla forma di conser vazione che l’elegia mette in atto, quella forma di sopravvivenza che anche nelle Metamorfosi costituisce il puntuale esito delle trasformazioni, di per sé radicali, dei personaggi, e che spetta solitamente al narratore – intra­ o extradiegetico – imporre all’attenzione dei lettori. Anche il narrato­ re di trist. 1.3, introducendo la propria rievocazione, non evita di menzionare il legame temporale che unisce il momento presente del ricordo al momento passato dell’episo­ dio e che dunque conser va una traccia di quel passato (vv. 1 ss.): cum subit illius tristissima noctis imago, qua mihi supremum tempus in urbe fuit, cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui, labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.

È interessante rilevare in questi primi, densissimi versi il contrasto fra limite e conti­ nuazione che abbiamo individuato come elemento generativo della poesia dell’esilio di Ovidio: se infatti da un lato l’elegia intende farsi espressione di un supremum tempus (v. 2), dell’ultimo momento trascorso dal poeta a Roma (e il «tempo ultimo» va inter­ pretato anche e soprattutto come «tempo della morte»), il nesso di matrice eziologica nunc quoque, così frequente nelle Metamorfosi,58 fa immediato riferimento a un altro piano temporale, quello presente in cui ‘avviene’ il ricordo: è così subito possibile con­ statare che al supremum tempus della partenza ha fatto seguito un altro tempo, quello in cui si collocano e si sviluppano il gesto mnemonico del poeta e, in ultima analisi, la poesia stessa posteriore alla condanna.59 58 59

Su impiego e significato dell’espressione, cfr. Myers 1994, pp.  66 s.: «it is the equivalent of the Greek εἰσέτι καὶ νῦν, ἔτι νῦν, and similar expressions, which stress the continuation of the custom or landmark being described up to the present time» (enfasi mia). Hardie 2002b, p. 287 individua nell’elegia quella «opposition between past presence and present absence that defines the exile poetry as a whole», e che costituisce un’ulteriore espressione di quella ‘presenza/assenza’ che caratterizza anche le storie dei personaggi delle Metamorfosi. Ma sul passaggio illustrato, e sul significato del nunc quoque nella nostra elegia, si vedano le ottime osservazioni di Putnam 2010, p. 84, che sottolinea anche l’importanza della transizione dalla notte al giorno ravvisabile nei primi versi di trist. 1.3: «in reversing the Catullan progress from lux to nox, which is to say from light to dark, life to death, Ovid uses irony to vivify his own situation by having night, the dark moment of his metaphorical death and obsequies, be followed by light, which is to say the constancy of living a continuous form of death as an exile».

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In questi medesimi versi si rende dunque palese anche quella sorta di cortocircuito dovuto alla sovrapposizione fra personaggio e narratore di cui si diceva, una sovrap­ posizione favorita dall’uso dei pronomi/aggettivi di prima persona: fra il mihi del v. 2 e il meis del v. 4 (riferito quest’ultimo agli occhi del poeta da cui tuttora sgorgano le lacrime)60 c’è naturalmente identità di referenza, ma è un’identità che si realizza at­ traverso un impercettibile passaggio dal piano (passato) della erzählte Zeit al piano (presente) della Erzählzeit, i cui ‘attori’ appunto si identificano. Se dunque da un lato il lettore è posto di fronte a un’immagine di chiusura, la fine del tempo trascorso a Roma dal protagonista del racconto (qua mihi supremum tempus in urbe fuit), il medesimo lettore pure constata che quel protagonista è ‘sopravvissuto’ nel narratore (labitur ex oculis nunc quoque gutta meis). Lo scarto temporale messo in atto nei primi versi di trist. 1.3 si fa dunque infine espressione di un’immagine di sopravvivenza, favorendo piuttosto un’idea di conservazione e di prosecuzione. Non è tuttavia questo l’unico punto in cui, all’interno della nostra elegia, è possibile assistere al passaggio ora descritto, in virtù del quale l’apparente, inappellabile chiusura della morte si trasforma in effettiva continuazione e conservazione della vita. La dina­ mica, che si potrebbe appunto definire ‘metamorfica’, è riprodotta anche al termine del nostro testo e ha per protagonista l’altra presenza fondamentale nel doloroso racconto dell’addio a Roma, la moglie del poeta. La riproposizione di questa stessa dinamica avviene dopo che nel corso dell’intera elegia alla figura della uxor sono stati attribuiti gesti e parole letteralmente ‘speculari’ rispetto a quelli del marito protagonista: così è stato fin dalla sua prima apparizione, quando al pianto di Ovidio la donna ha rispo­ sto con un pianto addirittura più intenso (v. 17, uxor amans flentem flens acrius ipsa tenebat);61 così, a seguito della preghiera pronunciata dall’esule all’indirizzo degli dei capitolini, il poeta si accorge che la moglie ne sta pronunciando a sua volta – anzi, più di lui, ancora una volta (v. 41, hac prece adoravi superos ego, pluribus uxor); ed è ancora attraverso l’impiego del medesimo aggettivo in poliptoto che Ovidio lamenta la neces­ sità di separarsi da lei per sempre (v. 63, uxor in aeternum vivo mihi viva negatur). La specularità fra i coniugi62 raggiunge infine la sua più esplicita espressione nelle parole 60 61

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Una condizione paragonabile a quella dei protagonisti delle metamorfosi per ‘liquefazione’ nar­ rate nel poema maggiore: cfr. soprattutto il caso di Niobe (6.310 ss., flet tamen … ibi fixa cacumine montis / liquitur, et lacrimas etiam nunc marmora manant). Immagine questa, come numerose altre nella rappresentazione dell’addio, ricalcata sul modello elegiaco delle Heroides: cfr. Rosati 1999, p. 790 n. 18, che riconosce anche l’«effetto iconico tramite poliptoto a ponte della cesura». Il medesimo poliptoto è anche in Cicerone esule (ad Q. fr. 1.3.1): cfr. Degl’Innocenti Pierini 1998, pp. 101 ss. Potrebbe essere proprio questo un ulteriore tratto di vicinanza fra l’elegia dei Tristia e l’epistola di Laodamia a Protesilao, per cui si veda lo stesso Rosati 1999: il verso finale di her. 13, si tibi cura mei, sit tibi cura tui, è infatti interpretabile come simbolo del ‘rispecchiamento’ fra i due sposi. Ma ai fini del nostro discorso, anche il «tema dell’incompiuto» (p. 794) che accomuna le due scene di addio acquista un significato assai rilevante: nonostante esso si faccia simbolo, nella storia mitica, della prematura interruzione del legame coniugale, i verba lasciati imperfecta da Ovidio al momento del

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della moglie stessa – che, in quanto anch’essi tristia verba (v. 80), finiscono per anti­ cipare la natura, e il nome stesso, della poesia che di lì a poco il marito comincerà a produrre (vv. 81 ss.): ‘non potes avelli: simul hinc, simul ibimus’ inquit, te sequar et coniunx exulis exul ero. et mihi facta via est, et me capit ultima tellus: accedam profugae sarcina parva rati. te iubet e patria discedere Caesaris ira, me pietas: pietas haec mihi Caesar erit.’

Come si vede, la raffigurazione dei gesti e delle parole della moglie è retoricamente fondata sulla ripetizione, che vuole anzi farsi segno di una simultaneità (simul … simul) appunto di gesti e parole.63 Questa simultaneità si riflette anche sulla dinamica metamorfica del passaggio dalla morte alla vita che nella nostra elegia coinvolge, insie­ me con Ovidio, anche la fida coniunx. Veniamo dunque al finale dell’elegia. È importante notare, innanzitutto, che la pos­ sibilità di raccontare l’epilogo dell’episodio è data al poeta solamente a prezzo di un nuovo sottile scarto ‘identitario’, per cui il narratore­Ovidio prende nuovamente il po­ sto del personaggio­Ovidio, che ai vv. 89 s. è letteralmente uscito di scena (egredior); il definitivo allontanamento del protagonista da casa gli impedirebbe infatti di conoscere il seguito, la reazione della moglie alla sua partenza, ma la voce del narratore torna a farsi sentire nel narratur del v. 91.64 L’apparentemente insignificante nota alessandrina si rivela al contrario il mezzo decisivo che permette al poeta di introdurre una seconda narrazione, il sequel dell’episodio, la cui collocazione temporale è di nuovo posta in relazione al presente della cornice: lo dimostrano gli infiniti perfetti, in dipendenza dal medesimo narratur, che occupano i versi successivi. La continuazione della storia diventa così di per sé indice del mancato carattere conclusivo che pure sembrava doves­

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saluto trovano ora la loro continuazione in un’opera poetica che fa dell’incompiutezza (nel senso di ‘prosecuzione’ a seguito di un’apparente conclusione) una delle sue principali caratteristiche. Su questo punto bene Videau­Delibes 1991, p. 26; cfr. parimenti Pont. 1.4.53 ss., et narrare meos flenti flens ipse labores, / sperato numquam conloquioque frui, / turaque Caesaribus cum coniuge Caesare digna, / dis veris, memori debita ferre manu. Si tratta ancora una volta di una tecnica che Ovidio ha già sfruttato nelle Heroides (lo segnala Ro­ sati 1999, p. 792), dove ugualmente il poeta gioca sull’intreccio fra i differenti piani temporali corri­ spondenti al passato narrato dalle eroine, il presente della scrittura e il futuro delle vicende mitiche di cui lettori e autore (ma non le eroine) sono già a conoscenza: su questo fondamentale aspetto della raccolta, cfr. soprattutto Barchiesi 1987, spec. pp. 64 ss. («la competenza narrativa del lettore lo pone in uno stato di superiorità ironica rispetto alla limitata visuale del personaggio che dice io»); Rosati 2005. Il passaggio al presente del narratore sancito dal narratur di v. 91 è riconosciuto da Videau­Delibes 1991, p. 26, che tuttavia, anziché considerarlo conseguenza dello studiato intrec­ cio tra i differenti piani temporali e identitari su cui si fonda l’elegia, ritiene necessario pensare a un’informazione che Ovidio avrebbe effettivamente ricevuto da uno degli amici cui si rivolge in trist. 1.

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se essere riservato, a inizio elegia, al supremum tempus del poeta a Roma; in virtù della coincidenza fra autore, narratore e personaggio, la voce del poeta può dare seguito a una poesia che, pur nuova e inedita, sembra ostinatamente votata alla prosecuzione. Descrivendo dunque la reazione della moglie a seguito della propria partenza, una reazione che ancora una volta prevede i gesti canonici fissati dal modello della sposa fedele e infelice (svenimento, spargimento della polvere sul capo, preghiere agli dei, pianto inconsolabile), il poeta conclude con una fondamentale eccezione, sottraendo cioè alla circostanza specifica il gesto ultimo in grado di suggellare quella medesima fe­ deltà, il suicidio della donna incapace di vivere in assenza del proprio uomo (vv. 99 ss.): et voluisse mori, moriendo ponere sensus, respectuque tamen non periisse mei. vivat et absentem, quoniam sic fata tulerunt, vivat ut65 auxilio sublevet usque suo.

Anche la potenziale morte della moglie si trasforma in sopravvivenza: l’elegia si chiude con un’immagine di vita­in­morte che si ricollega a quella, riferita al poeta stesso, che abbiamo visto aprire il nostro testo. Esso risulta così inquadrato dalla doppia afferma­ zione di un’istanza vitale che contrasta, e infine smentisce, il tono lugubre e il tema funebre che dominano trist.  1.3. Questa istanza vitale, fatta emergere attraverso una dinamica che abbiamo definito ‘metamorfica’, si fa simbolo di una poesia che qui, in questa elegia, afferma senz’altro il proprio inizio, cominciando a delineare quei ruoli di cui l’esule intende investire i suoi protagonisti: nell’ultimo distico ora citato, la soprav­ vivenza della moglie è esplicitamente resa funzionale all’attività di auxilium nella quale il poeta vorrà vederla impegnata; la particella usque dell’ultimo verso indica il carattere durativo e continuato che l’aiuto della moglie, così come quello degli amici, dovran­ no dimostrare di possedere nel corso dell’esperienza esilica di Ovidio, e dunque della poesia che di quella esperienza seguirà lo svolgersi nel tempo.66 L’impegno a garantire un aiuto ‘continuativo’ cui l’esule esorta la moglie (e gli amici) accompagna l’intento alla prosecuzione che il poeta dichiara per se stesso, una prosecuzione cui, come ve­

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vivat et codd. : vivat ut Salmasius. Per un valore analogo affidato alla particella, cfr. trist. 2.145, ipse licet sperare vetes, sperabimus usque: alla possibile ‘chiusura’ imposta da Augusto Ovidio risponde con un’ostinata affermazione di ‘pro­ secuzione nella durata’ (per il ‘tempo della speranza’ entro cui si colloca la poesia dell’esilio di Ovi­ dio, cfr. infra, p. 73). In trist. 4.3, elegia che si pone in diretta continuità rispetto al finale di trist. 1.3, sarà nuovamente ribadito il legame fra continuazione della vita e continuazione dell’affetto nutrito dalla moglie per il poeta: v. 20, teque remota procul, si modo vivit, amat; il tempo della sofferenza per la coniunx si estende ‘in parallelo’ al tempo dei mala subiti da Ovidio (e dunque al tempo dei Tristia): v. 36, tempus et a nostris exige triste malis; il contesto rimane quello della vita che prosegue contrariamente alla (apparente) volontà dell’esule: vv. 39 s., atque utinam lugenda tibi non vita, sed esset / mors mea …

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dremo, Ovidio è sollecitato dalla natura della condanna subita: rinunciarvi significhe­ rebbe compromettere la metamorfosi, accettando il silenzio di una morte autentica. 3. Intermezzo: lo spazio del poeta in viaggio Prima di procedere con l’esame del rapporto fra limite e continuazione in relazione alla tipologia di condanna subita da Ovidio, tuttavia, vale la pena di considerare un ulte­ riore aspetto del ‘movimento metamorfico’ che presiede alla descrizione del passaggio del poeta allo stato di esule, un passaggio che vediamo innanzitutto svolgersi nella pri­ ma raccolta di poesia triste, ma che continuerà ad avere un’importanza decisiva lungo l’intero arco della produzione dell’esilio. Ciò è dovuto al fatto che, proprio in virtù del tipo di condanna inflittagli (su cui infine ci soffermeremo), il poeta non può e non vuole attribuire alla propria metamorfosi quel carattere definitivo che pure sembrava dovesse essere attribuito a molte delle trasformazioni descritte nel poema maggiore, e che però veniva infine smentito dal principio dell’eterno movimento esposto da Pi­ tagora nell’ultimo libro. Mi interessa ora soffermarmi, in buona sostanza, su quel ca­ rattere «intermedio» che segna il fenomeno metamorfico nella misura in cui – come abbiamo visto – pone il soggetto nell’ambiguità di uno stato indefinito, e perciò ancora una volta ‘incompiuto’; la continuazione della vita e della poesia che abbiamo visto determinare la metamorfosi del poeta condannato è una prosecuzione che l’esule non vorrebbe eterna, perché eterno non deve essere, nella speranza e nell’attesa di Ovidio, quel medesimo stato di esule che in trist. 1 egli sta progressivamente raggiungendo. È bene dunque constatare fin da subito che l’istanza alla continuazione sopra esaminata è accompagnata da un’altrettanto fondamentale istanza alla provvisorietà, da un so­ stanziale desiderio di contingenza. A proposito dello statuto ambiguo fra morte e vita descritto nei versi incipitari di trist. 1.3, è interessante il fatto che, più in generale, nella sua prima raccolta di poesia triste Ovidio indichi la propria posizione come di fatto ‘intermedia’, una collocazio­ ne spaziale che programmaticamente si fa simbolo del passaggio a una nuova dimen­ sione esistenziale e poetica: l’intero libro è per l’appunto composto mediis … aquis (trist. 1.11.4); il poeta ha scritto i suoi versi inter fera murmura ponti (ivi, v. 7). Come abbiamo già notato, l’immagine della tempesta e dei marosi che domina il libro, e che si realizza attraverso la riconversione dei modelli epici, è metafora del turbamento in­ teriore del poeta, dei flutti che angustiano il suo animo: ipse ego nunc miror tantis animique marisque / fluctibus ingenium non cecidisse meum (trist. 1.11.9 s.); cumque sit hibernis agitatum fluctibus aequor, / pectora sunt ipso turbidiora mari (ivi, vv. 33 s.).67 Si può a 67

Tola 2004, pp. 201 ss. discute la valenza metaforica del tema del naufragio, riconoscendo nel moti­ vo «une valeur réflexive, visant à enrichir la réception poétique et symbolique de l’‘historique’ de Nason».

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mio avviso compiere un passo ulteriore a questo proposito: l’ambientazione marina del primo libro dei Tristia, a metà strada fra Roma e il luogo cui l’esule è stato destinato, riproduce infatti a livello narrativo la posizione ambigua, lo stato intermedio e ‘limbi­ co’ metaforicamente assunti dal poeta a seguito della condanna. L’analisi dello spazio occupato dal poeta­protagonista di trist. 1 può dunque costituire uno strumento utile all’individuazione di quella posizione intermedia, di fatto provvisoria e suscettibile di mutamento, che caratterizza più in generale l’esperienza esilica di Ovidio. In mezzo ai flutti dell’Adriatico, nell’itinerario verso Tomi, il poeta intravede an­ cora l’Italia, punto di partenza del suo viaggio, che gli è ora preclusa (trist. 1.4.19 s., nam procul Illyriis laeva de parte relictis / interdicta mihi cernitur Italia); il poeta osserva che, nella confusione generata dalla tempesta, i venti rischiano di ricondurlo in pa­ tria, disobbedendo così al divieto di Augusto (vv. 17 s., quod nisi mutatas emiserit Aeolus auras, / in loca iam nobis non adeunda ferar). Non resta che pregarli di assecondare la volontà dell’imperatore; ma Ovidio non nasconde che il timore di tornare indietro, cui lo inducono i venti contrari, è in realtà anche un desiderio (vv. 21 ss.): desinat in vetitas, quaeso, contendere terras, et mecum magno pareat aura deo. dum loquor, et timeo pariter cupioque repelli, increpuit quantis viribus unda latus!

In un’elegia precedente, trist. 1.2, il poeta rivolge ai rapidi … venti il medesimo invito, che sa di paradosso: l’esule li prega di condurlo al luogo della propria condanna, sot­ traendolo infine a quella posizione provvisoria in cui attualmente si trova (vv. 91 s.): ferte – quid hic facio? – rapidi mea carbasa venti: / Ausonios fines cur mea vela volunt68? La domanda, quasi stizzita, quid hic facio? rimanda ancora una volta al carattere tem­ poraneo e incerto della collocazione spaziale del poeta in mare; ma nel pur definitivo e immutabile tragitto verso la terra dell’esilio c’è ancora la possibilità di immaginare un viaggio diverso, una deviazione nella trama prescritta che potrebbe stravolgere il movimento, già segnato, del protagonista e ricondurlo a quella terra italica da cui è costretto ad allontanarsi: un naufragio che risponderebbe forse ai canoni dell’epica (i viaggi di eroi quali Ulisse o Enea sono fatti di deviazioni), ma non alla volontà del dio irato artefice della condanna (vv. 93 s., noluit hoc Caesar: quid, quem fugat ille, tenetis? / aspiciat vultus Pontica terra meos).69

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Al posto di volunt, Hall 1995 preferisce la variante, parimenti attestata dai codici, vident. La posizione di supremazia del magnus Caesar rispetto agli altri dei, i quali non possono che asse­ condare la sua decisione, è già enfatizzata all’inizio dell’elegia (vv. 3 ss.), quando Ovidio si rende conto di non poter godere, a differenza dei suoi antecedenti mitici, della protezione di alcun dio. Nell’espressione quid hic facio? va segnalata ancora una volta la deissi, che in trist. 1 si fa rimando alla cornice narrativa del viaggio: cfr. supra, pp. 36 s. e ancora trist. 1.10.45, haec … insula.

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Nei versi precedenti a questi, indicando la meta cui egli dovrà infine pervenire, Ovi­ dio elenca, sotto forma di paradossale Priamel, una serie di possibili destinazioni che in effetti sarebbe ancora possibile raggiungere dal punto dello spazio in cui si trova: Atene, le città dell’Asia, Alessandria in Egitto (vv. 77 ss., nec peto, quas quondam petii studiosus, Athenas, / oppida non Asiae, non loca visa prius, / non ut Alexandri claram delatus ad urbem / delicias videam, Nile iocose, tuas). Il luogo a lui destinato è un altro, chiaro e ben fissato: in tre distici successivi il poeta formula tre differenti definizioni della meta verso cui è diretto, la «terra sarmatica» (v. 82) ovvero i fera litora della riva sinistra del Ponto (v. 83) ovvero «gli abitanti di Tomi» (v. 85).70 I verbi che accompagnano la triplice indicazione sono disposti in studiata sequenza: essi descrivono il progressivo avvicinamento della nave alla costa nonché, infine, il contatto visivo che l’esule avrà degli ‘ospiti’ (vv. 81 ss.): quod faciles opto ventos (quis credere possit?) Sarmatis est tellus, quam mea vela petunt. obligor, ut tangam Laevi fera litora Ponti, quodque sit a patria tam fuga tarda, queror. nescioquo videam positos ut in orbe Tomitas, exilem facio per mea vota viam.

La nave del poeta dovrà insomma prima semplicemente «dirigersi verso», quindi «toccare» le sponde del Mar Nero, perché l’esule infine «veda» la gente di Tomi. Come si può notare, nella sezione di testo in esame il verbo video è utilizzato più vol­ te: il poeta non visiterà i loca visa prius (v. 78) né sta pregando i venti di portarlo a «ve­ dere» (vv. 79 s., ut … videam) le bellezze di Alessandria. In un’epistola delle ex Ponto, in cui è contenuto un possibile riferimento al viaggio in Grecia cui si allude anche nel nostro passo, l’esule rammenterà la straordinaria esperienza condivisa col destinatario Macro menzionando le varie località che i due hanno «visto» (Pont. 2.10.21 ss., te duce magnificas Asiae perspeximus urbes; / Trinacris est oculis te duce visa meis. / vidimus Aetnaea caelum splendescere flamma […] et quota pars haec sunt rerum, quas vidimus ambo). Lungi dal concedersi un viaggio di piacere,71 l’esule è ora costretto a visitare luoghi molto meno graditi; ma il desiderio di – o piuttosto la condanna a – «vede­ re» i luoghi più lontani, gli anfratti più esotici dell’impero, costituisce un elemento che accomuna Ovidio a quell’eroe che «di molti uomini vide le città», il protagonista dell’Odissea (Od. 1.3, πολλῶν δ’ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα). A proposito di viaggi epici, si è naturalmente scritto molto sull’associazione che in particolare in trist. 1 Ovidio instaura fra la propria esperienza autobiografica e la figura 70 71

Cfr. Wulfram 2008, p. 317 per un’osservazione sulla triplice indicazione geografica, che presenta al lettore la città di Tomi «zoomartig immer näher vor Augen». Atene e le città dell’Asia come apprezzate mete turistiche: cfr. p.  es. Hor. carm. 1.7; epist. 1.11; Prop. 1.6; etc.

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mitica di Ulisse: essa costituisce infatti, insieme ad altri, uno dei principali referenti letterari sulla cui falsariga l’esule modella il racconto del proprio viaggio in mare.72 Se da un lato il contatto tra i due protagonisti avviene in termini di associazione, è tuttavia interessante notare che, nello sviluppo di questa associazione nel corso del libro, fra Ovidio e Ulisse sono più le differenze che le somiglianze. Questo fatto dipende chiara­ mente, in primo luogo, da una scelta retorica operata dall’esule: al fine di sottolineare la gravità del proprio stato, Ovidio si impegna a dimostrare in quanti e quali modi la propria disgrazia superi addirittura quelle dell’eroe polytlas per eccellenza. Al di là del topos, tuttavia, il confronto con Ulisse in trist. 1 non si limita a costituire un ingegnoso divertissement letterario, ma rappresenta uno strumento attraverso il quale il poeta rie­ sce a mettere in luce alcuni tratti peculiari della propria esperienza di esule. La differenza fra Ovidio e Ulisse si misura anche e soprattutto in termini spaziali:73 il primo elemento di scarto nella lunga e articolata synkrisis che occupa l’ultima sezio­ ne di trist. 1.5 è infatti costituito dalla diversa scala di grandezza attribuibile agli sposta­ menti dei due personaggi (vv. 57 ss.): pro duce Neritio docti mala nostra poetae scribite: Neritio nam mala plura tuli. ille brevi spatio multis erravit in annis inter Dulichias Iliacasque domos: nos freta sideribus totis distantia mensos sors tulit in Geticos Sarmaticosque sinus.

È significativo il fatto che lo «spazio» occupato da Ulisse nei suoi spostamenti, e quin­ di da Omero nel racconto di quelle stesse avventure, sia detto breve, in paradossale opposizione cioè rispetto alla lunghezza di norma attribuita all’epica, una caratteristica che contraddistingue il genere, in senso non di rado polemico, negli autori di poesia appunto breve.74 Il poeta in esilio sta sopravanzando il segmento di spazio entro cui si sono svolte le vicende di Ulisse, un segmento che tuttavia risulta qui abilmente ridi­ mensionato: sostenere che Ulisse si sia mosso «fra Dulichio e Troia» significa oblite­ rare tutta la cospicua serie di episodi occorsi nel Mediterraneo occidentale.75 Quella di

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Si tratta della cosiddetta Odysseus-Rolle del poeta in esilio, per la quale si vedano p. es., nella varietà dei differenti approcci, Rahn 1958, pp.  115 ss.; Drucker 1977, pp.  87 ss.; Citroni Marchetti 2000a; McGowan 2009, pp. 177 ss.; Seibert 2014, pp. 215 ss.; Möller 2020. Si vedano a questo proposito le utili osservazioni di Seibert 2014, pp. 231 ss. (‘Rom und Räume’), che parla fra l’altro dello «Zwischenraum» entro cui si svolge il viaggio dei due personaggi a con­ fronto. Sul dialogo instaurato da questi versi con Omero è da vedere in generale Hinds 1998, pp. 42 ss.; sulla «antiepische Rhetorik» della synkrisis con Ulisse, cfr. Möller 2020, p. 63; sul (paradossale) accostamento di elegia ed epica in termini di ‘lunghezza’, cfr. i passi citati infra, p. 215. Sul modo in cui del resto Ovidio «conveniently imposes his own interpretation on the Homeric portrayal of Odysseus» nel nostro passo, cfr. Williams 1994, p. 109.

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Ovidio è tuttavia una mossa poetica che per certi versi ricorda l’analogo trattamento riservato all’Eneide nelle Metamorfosi: il tentativo cioè di ‘inglobare’ l’opera precedente attraverso una scelta tematica che mette in risalto ciò che da quell’opera manca, sfrut­ tando il ‘taglio’ che il modello, selezionando la materia del canto, ha necessariamente operato nel continuum delle storie mitiche. Nel carme dell’esilio l’universo geografico dell’Odissea appare così soltanto una piccola parte del più ampio raggio spaziale entro cui si svolge la vicenda del poeta in disgrazia, misurato su una distanza addirittura ce­ leste (sideribus totis).76 La volontà di superamento nei confronti del poema omerico è del resto enfati­ camente annunciata fin dal primo distico della synkrisis, dove l’esule esorta i poeti a cantare i mala plura da lui sofferti. L’espressione è di per sé significativa, e potrebbe nascondere un rimando programmaticamente allusivo: il sospetto è che Ovidio, nel duplice e marcato impiego del sostantivo mala (mala nostra, mala plura), abbia inge­ gnosamente ‘traslitterato’ l’avverbio μάλα – identico anche nella prosodia – che nel pri­ mo verso dell’Odissea accompagnava il neutro (avverbiale anch’esso) πολλὰ, il «molto vagare» del protagonista (ὅς μάλα πολλὰ / πλάγχθη). L’espressione μάλα πολλὰ del te­ sto greco è ripresa, in una sorta di assonanza interlinguistica, nel mala plura del carme ovidiano, laddove il grado semplice dell’aggettivo­avverbio πολλὰ è significativamen­ te sostituito dal grado comparativo plura.77 Nel ‘proemio’ alla synkrisis contenuto nei vv. 57 s. di trist. 1.5 Ovidio risulta così il protagonista di una storia di sofferenza che fin dall’inizio si presenta come inaudita, addirittura superiore a quella dell’eroe omerico campione di patimenti. Tornando tuttavia allo spazio occupato dai due personaggi a confronto, qualche os­ servazione merita anche l’epiteto Neritius impiegato da Ovidio in riferimento a Ulisse. L’allusione – di per sé dotta, come docti devono essere i poeti che vorranno comporre il poema su Ovidio – è rivolta al Neriton, il monte di Itaca. Prima di Ovidio, il referente geografico si trova menzionato in Virgilio, non però come rilievo bensì come isola a sé stante, definita tuttavia a sua volta «alta di rocce» (Aen. 3.270 ss., iam medio apparet fluctu nemorosa Zacynthos / Dulichiumque Sameque et Neritos ardua saxis. / effugimus scopulos Ithacae, Laertia regna …).78 La serie di isole su cui si estende il regno di Ulisse, 76 77

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Sulla struttura di questi versi, che visivamente riproducono la differenza ‘spaziale’, si veda ancora Seibert 2014, p. 234. La medesima mossa di ‘inglobamento’ è ravvisabile in Pont. 1.4.27 ss., dove il confronto è con Giasone (e le Argonautiche di Apollonio): et brevius, quam nos, ille peregit iter. Nel proemio dell’Odissea sono comunque menzionati anche i «molti mali» (v. 4, πολλὰ δ’ὅ γ’ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα); com’è noto, la sequenza πολλὰ­πολλῶν­πολλὰ di questi versi, oltre a una serie di altri elementi, è direttamente ripresa in Verg. Aen. 1.3 ss. (multum­multa); aspera multa / pertulit è la ‘traduzione’ fornita da Hor. epist. 1.2.21 s. Sulla possibilità che Ovidio, qui e altrove, abbia in mente il proemio dell’Odissea, cfr. Luck 1967–77 ad trist. 3.2.7 s. Il comparativo plura distingue la formulazione ovidiana anche dal passo di Teognide in cui è forse ravvisabile l’origine del motivo ‘soffrire come / più di Ulisse’: cfr. Citroni Marchetti 2000a. Cfr. Horsfall 2006 ad loc. per l’alternanza monte/isola e la differenza di genere (femminile/neu­ tro).

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più volte menzionata da Ovidio, è ripetuta anche nella nostra sezione di trist. 1.5 (v. 67, nec mihi Dulichium domus est Ithaceve Samosve, un verso che segue appunto la definizio­ ne di Ulisse quale dux Neritius e la menzione di Dulichio al v. 60).79 Su tutti questi passi ha influito, più o meno direttamente, il celebre brano dell’Odissea in cui il protagonista si presenta ad Alcinoo, in apertura di libro nono (vv. 19 ss.): εἴμ’ Ὀδυσεὺς Λαερτιάδης, ὃς πᾶσι δόλοισιν ἀνθρώποισι μέλω, καί μευ κλέος οὐρανὸν ἵκει. ναιετάω δ’ Ἰθάκην εὐδείελον⋅ ἐν δ’ ὄρος αὐτῇ, Νήριτον εἰνοσίφυλλον, ἀριπρεπές⋅ ἀμφὶ δὲ νῆσοι πολλαὶ ναιετάουσι μάλα σχεδὸν ἀλλήλῃσι, Δουλίχιόν τε Σάμη τε καὶ ὑλήεσσα Ζάκυνθος.

I diversi toponimi menzionati nel passo omerico rispettano una gerarchia abbastanza strutturata: l’eroe abita Itaca, che di per sé è «ben visibile» (εὐδείελον); il monte Ne­ riton, che vi si trova sopra, spicca esso stesso per la sua altezza (ἀριπρεπές). Seguono le «molte isole» che circondano Itaca, tanto inferiori all’isola principale quanto «vicine l’una all’altra» (μάλα σχεδὸν ἀλλήλῃσι): la vicinanza risulta enfatizzata dallo stile elen­ catorio attraverso cui il poeta le nomina, utilizzando le particelle correlative τε … τε καί. Se da un lato Virgilio, nel passo menzionato dell’Eneide, sembra mantenere viva la gerarchia menzionando prima la serie di isole minori (correlate anch’esse tramite una sequenza -que … -que et), quindi attribuendo agli scogli di Itaca la definizione di Laertia regna, nel nostro brano di trist. 1.5 l’ordine gerarchico appare del tutto trascurato: la menzione di Itaca rientra nella serie del v. 67 (nec … -ve -ve), mentre al v. 60 è piuttosto Dulichio a indicare uno dei due estremi entro cui si svolge il viaggio di Ulisse. Nel nostro passo, l’eroe omerico risulta possedere non una, bensì numerose patrie: egli è paradossalmente a «casa» non soltanto su isole diverse (nec mihi Dulichium domus est Ithaceve Samosve), ma addirittura nel luogo geograficamente e ‘ideologicamente’ più lontano, la nemica Ilio (inter Dulichias Iliacasque domos). In trist. 1.5 la figura di Ulisse è quella dell’eroe cosmopolita, cittadino di un ‘cosmo’ la cui ampiezza risulta tuttavia ridimensionata nel confronto con lo spazio in cui si muove il poeta esule. Nel brano dell’Odissea appena citato, il maggiore spicco attribuito a Itaca e al mon­ te Neriton si basava in particolare sulla loro visibilità a distanza: l’aggettivo ἀριπρεπές è composto del prefisso aumentativo ἀρι­ (probabilmente il medesimo di ἄριστος)80 e la radice del verbo πρέπω, «distinguersi»; la descrizione che Odisseo presenta ad Alcinoo sembra ancora una volta seguire il progressivo avvicinamento all’isola dal ma­

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Cfr. inoltre her. 1.87 (Dulichii Samiique et quos tulit alta Zacynthos); met. 13.711 s. (et iam Dulichios portus Ithacenque Samenque / Neritiasque domos, regnum fallacis Ulixis; anche Ovidio sembra qui considerare Nerito un’isola a parte); l’aggettivo Neritius risulta introdotto da Ovidio (sette occor­ renze). Cfr. Chantraine 1968, s. v.

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re.81 Nei passi riportati Virgilio e Ovidio hanno recepito questa caratterizzazione nella menzione dell’«altezza» fra gli epiteti variamente attribuiti alle isole odissiache (Verg. Aen. 3.271, Neritos ardua saxis; Ov. her. 1.87, alta Zacynthos). In trist. 1.5, tuttavia, un altro luogo e un’altra patria risultano dotati dell’attributo dell’altezza: non le numerose isole dimora di Ulisse, bensì la città da cui Ovidio è stato esiliato (vv. 69 s.): sed quae de septem totum circumspicit orbem montibus, imperii Roma deumque locus.

È interessante osservare che alla connotazione per così dire passiva riferita all’altez­ za del monte in Omero, notevole in quanto capace di «essere visto» a distanza (così come la stessa Itaca εὐδείελον), fa riscontro una città, Roma, che dall’alto dei sette montes è in grado di «vedere» essa stessa tutto il mondo: in virtù della presenza di Augusto essa è rappresentata come una sorta di nuovo Olimpo, sede degli dei (deumque locus).82 Nella doppia specificazione imperii e deum, il locus che corrisponde a Roma sembra in­ somma includere tanto la terra quanto il cielo. Indicando questa città come propria domus, Ovidio propone qui una declinazione affatto diversa di ‘cosmopolitismo’: non più la capacità di avere molte dimore, qual è la caratteristica di Ulisse, ma la circostanza per cui esiste una sola dimora che corrisponde al mondo, all’universo intero; all’immagine di una patria ‘frastagliata’ quale quella suggerita dalle «molte isole» di Ulisse si oppo­ ne la figura unitaria di una città il cui impero abbraccia, e controlla, il totum … orbem. L’idea di Roma capace di «guardare» il mondo dall’alto dei suoi sette colli costitu­ isce un’efficace rappresentazione del dominio militare stabilito dalla città imperiale; lo spazio dell’impero modifica e gerarchizza la geografia del territorio, secondo una verticalizzazione dei rapporti che corrisponde alla disposizione piramidale della so­ cietà augustea: la capacità di circumspicere il globo è del resto la medesima che viene riconosciuta ad Augusto, Giove terrestre, in trist. 2.215 ss. (utque deos caelumque simul sublime tuenti / non vacat exiguis rebus adesse Iovi, / de te pendentem sic dum circumspicis orbem, / effugiunt curas inferiora tuas). L’associazione fra urbs e orbis, particolarmente appetibile in virtù della vicinanza fonetica fra i due sostantivi, è utilizzata più volte, e variamente declinata, dai poeti augustei, laddove l’immagine dell’orbis in urbe, della

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Cfr. Di Benedetto 2010 ad loc. La capacità di «vedere» dall’alto è attribuita a Giove in met. 1.163 (quae pater ut summa vidit Saturnius arce), in un passo che prelude all’associazione fra Giove e Augusto (vv. 200 ss.), secondo un’equivalenza (sede celeste di Giove = casa di Augusto sul Palatino) ampiamente sfruttata nelle elegie dell’esilio fin da trist. 1.1.69 ss. I sette monti da cui Roma guarda il mondo (per cui cfr. anche trist. 3.7.51 s.) declinano in senso apparentemente positivo, e allo stesso tempo superano, l’imma­ gine dei tre monti sovrapposti dai Giganti nel loro assalto al cielo (cfr. ancora met. 1.151 ss.). L’idea secondo cui la città di Roma ‘torreggia’ sul resto del mondo ha un antecedente importante nella formulazione di Verg. ecl. 1.24 s. (verum haec tantum alias inter caput extulit urbes / quantum lenta solent inter viburna cupressi), direttamente ripresa da Silio Italico nella descrizione dell’espansione romana sull’orbis (1.29 ss.).

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città che ‘contiene’ il mondo, presuppone un ulteriore stravolgimento delle coordinate e delle gerarchie spaziali.83 Il nostro passo di trist. 1.5 propone tuttavia una rappresenta­ zione significativamente diversa: se l’idea della città in grado di ‘abbracciare’ il mondo può farsi rassicurante simbolo di accoglienza nonché segno di benessere,84 quella di una città che guarda l’intero mondo dall’alto veicola piuttosto un senso di sinistra e inquietante volontà di controllo. Nelle Metamorfosi, la combinazione fra posizione ele­ vata e sguardo che domina è sfruttata da Ovidio nella caratterizzazione di un mostro affatto crudele, Argo: seduto sulla cima di un monte, egli scruta a distanza ogni cosa (1.666 s., ipse procul montis sublime cacumen / occupat, unde sedens partes speculatur in omnes).85 L’attività di Argo si svolge nei termini di una continua e inesorabile statio (v. 627, cetera [scil. lumina] servabant atque in statione manebant), la posa da «sentinel­ la» che in trist. 2.219 è ancora una volta attribuita ad Augusto (imperii … statione).86 All’immagine dell’abbraccio universale in grado di accogliere tutte le gentes è preferita qui l’idea della continua sorveglianza di Roma sull’orbis, uno sguardo da Grande Fra­ tello in grado di tenere sotto controllo ogni cosa. Nel suo viaggio verso Tomi, l’esule percorre un ampio segmento del mondo con­ quistato.87 Nel doppio distico già menzionato, in cui il breve spazio occupato dalle av­ venture di Ulisse è confrontato col ben più largo tratto percorso da Ovidio, ciò che distingue i due personaggi non è soltanto l’ampiezza del tragitto, ma anche la modalità

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Sull’associazione paronomastica, cfr. Hardie 1986, pp. 365 s., dove si osserva che l’identificazione della città con l’universo, un’immagine che sfrutta alcune speculazioni della filosofia soprattut­ to stoica, rappresenta una «mythical or mystical equation […] which has no essential link with empirical reality», ma si presenta come un concetto «readily available to the Roman imperialist as a mystifying pretext»; cfr. anche Rimell 2015, p. 31. A ben vedere, la relazione tra urbs e orbis ha radici più antiche e costitutive a Roma, se orbis è in effetti definito il cerchio tracciato dall’aratro del fondatore Romolo: cfr. Bettini 2012, pp. 83 s. Ciò che emerge p. es. da un passo quale ars 1.173 s. (cfr. Pont. 2.1.23 s.); per la sovrapposizione fra urbs e orbis, cfr. inoltre fast. 1.85 s. (altro sguardo di Giove dall’alto) e 2.683 s., passi da leggere con Labate 2010, pp. 158 ss. Nella tradizione, Argo è il πανόπτης, l’«onnivedente»: Serv. Aen. 7.790, cui Iuno Argum, oculatum omnibus membris, […] quem Graeci panopten appellant, custodem apposuit; cfr. Aeschl. suppl. 303 s.; Plaut. Aul. 555, Argus … qui oculeus totus fuit (dove la neoconiazione oculeus vuole probabilmente riprodurre appunto πανόπτης: Maclennan – Stockert 2016 ad loc.). Sul «panoptikon» come «the oldest dream of the oldest sovereign», cfr. la citazione da M. Foucault in Rimell 2015, p. 74; un approccio foucaultiano alle opere dal Ponto propone anche Rosati 2020, spec. p. 105. La metafora, di derivazione militare, è significativamente impiegata dal medesimo Augusto in una lettera indirizzata al nipote Gaio Cesare il 23 settembre dell’1 d. C. (cfr. Gell. 15.7.3 = Aug. epist. 22 Malc., stationem meam). L’immagine della sorveglianza del princeps sul mondo sarà variamente sfruttata nella letteratura di età imperiale: cfr. Lucan. 1.45 (statione peracta, di Nerone destinato all’apoteosi); in ad Pol. 7, Seneca parla della vigilia dell’imperatore che garantisce il «sonno» dei sudditi, paragonando l’attività del Caesar a quella delle stelle quae inrequieta semper cursus suos explicant. Sulla «possessio maris» come emblema «for empire’s militaristic, space­invading might, and for what is envisaged as either the morally suspect or scientifically exciting advance of imperial knowl­ edge and technology», cfr. Rimell 2018, p. 261.

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secondo cui si svolge il viaggio: se al movimento dell’eroe omerico è riconosciuto un carattere casuale ed erratico (ille brevi spatio multis erravit in annis), Ovidio si auto­ rappresenta nell’atto razionale di «misurare» la distanza percorsa (nos freta sideribus totis distantia mensos). L’azione del metiri appartiene ancora una volta al lessico della conquista: si tratta del gesto di dividere e di ripartire il territorio sottomesso (cfr. p. es. Liv. 31.4.2).88 Misurando la distanza percorsa in mare sulla base delle stelle (freta sideribus totis distantia), Ovidio sembra mettere a frutto le acquisizioni intellettuali degli astronomi elogiati in fast. 1.297 ss. (cfr. v. 305, admovere oculis distantia sidera nostris), autori di una conquista del cielo affatto diversa rispetto a quella, disordinata e violenta, tentata dai Giganti (v. 307, sic petitur caelum, non ut ferat Ossan Olympus …). D’altro canto, l’attribuzione del proprio esilio al caso, quale si trova nella formulazione del v. 62 (sors tulit in Geticos Sarmaticosque sinus), avvicina la necessità per Ovidio di allontanar­ si da Roma a quella dei pastori espropriati delle Bucoliche, vittime di una sfortunata e ingiusta assegnazione di terre (cfr. ecl. 9.5, nunc victi, tristes, quoniam fors omnia versat; anche Ovidio si definisce victus al v. 66):89 il viaggio del poeta ai confini del mondo ricorda quello che lo sconsolato Melibeo intravede per sé e per i propri compagni al termine di ecl. 1 (vv. 64 ss., at nos hinc alii sitientis ibimus Afros, / pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen / et penitus toto divisos orbe Britannos). A partire dalle numerose differenze che dunque separano l’esperienza dell’esule Ovidio da quella dell’antecedente mitico Ulisse, andrà allora chiarita la particolare na­ tura dell’esilio vissuto e rappresentato da Ovidio in questo suo primo esperimento di poesia triste, nel racconto, letterariamente trasfigurato, del progressivo avvicinamento alla terra pontica. Navigare in un mare «misurato» e percorrere un lungo segmento di terra sotto lo sguardo ‘imperiale’ di Roma vittoriosa appare un’esperienza assai diver­ sa rispetto all’incerta e difficoltosa peregrinazione di Ulisse alla ricerca di una patria apparentemente introvabile e in balia di un potere divino in parte favorevole, in parte contrario (vv. 75 ss., dove si menziona il sostegno di Atena in suo favore).90 Il viaggio in mare di Ovidio si distingue dall’errabonda traiettoria di Ulisse e risulta al contrario la diretta e inesorabile realizzazione della volontà dell’unico vero dio adirato (vv. 81 ss.): 88

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Il medesimo gesto è evocato da Turno in Aen. 12.359 s.: il troiano Eumede «misura» col proprio cadavere la terra che avrebbe misurato dopo averla conquistata (en agros et quam bello, Troiane, petisti / Hesperiam metire iacens); il suo destino riproduce così quello del padre Dolone, cui era a sua volta stato impedito di svolgere un altro gesto tipico della prassi militare romana, quello dello speculator (cfr. v. 349), lo ‘spionaggio’ che abbiamo visto in riferimento allo sguardo di Roma sul mondo. In termini assai simili si erano effettivamente lamentati i coloni italici vittime delle confische ot­ tavianee; cfr. Appian. bell. civ. 5.12.49: «allora venivano a gruppi a Roma, i giovani e i vecchi e le donne con i piccoli, nel foro e presso i templi, e si lamentavano dicendo che essi non avevano commesso nulla di male per cui, essendo Italici, dovessero essere spogliati della terra e dei focolari domestici come nemici conquistati (οἷα δορίληπτοι)» [trad. E. Gabba]; per l’influenza delle Bucoliche sulla poesia dell’esilio di Ovidio, cfr. Putnam 2010, passim. Cfr. già trist. 1.2.9 s.

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denique quaesitos tetigit tamen ille Penates, quaeque diu petiit, contigit arva tamen; at mihi perpetuo patria tellure carendum est, ni fuerit laesi mollior ira dei.

La synkrisis si rivela infine basata su uno scarto che individua due differenti tipologie di movimento in uno spazio diversamente concepito: il νόστος di Ulisse si configura infatti come ricerca (quaesitos, petiit) di una patria perduta e ‘introvabile’, raggiunta infine al termine del lungo peregrinare (diu); «ritrovare la patria» per Ovidio non significa tuttavia mettersi nell’ottica di una lunga ricerca geografica in uno spazio di per sé dominato da quella medesima patria: ci si potrebbe chiedere come possa Ovidio essersi realmente allontanato da Roma, se Roma si identifica col mondo.91 Più che au­ tentica separazione nello spazio geografico, l’exilium del poeta è la condizione imposta da un potere unico e assoluto, in grado di rendere eterna (perpetuo) quella medesima condizione, il cui mutamento non si basa sulla resistenza al continuo movimento in uno spazio ignoto, bensì sulla imponderabile eventualità ‘esterna’ che a mutare sia uni­ camente l’ira del deus laesus Augusto. 4. Citraque necem tua constitit ira: Augusto, la clementia e il potere ‘incompiuto’ È proprio nella possibilità di questo mutamento che la nuova poesia triste di Ovidio rintraccia il proprio senso ultimo. Passiamo dunque ora senz’altro a trist. 2, l’elegia­ lettera incentrata sui crimina, cercando di tirare le somme di quanto visto finora: vorrei mostrare, in particolare, che quegli aspetti ‘fondativi’ della poesia dell’esule individuati fin qui (contrasto fra limite e continuazione, a vantaggio di quest’ultima; posizione intermedia, cioè provvisoria) trovano la propria origine – la causa eziologica – nella ti­ pologia di condanna subita che il poeta descrive a partire da trist. 2, libro che in questo senso svolge un ruolo davvero complementare rispetto alla prima silloge di Tristia. Il legame che così si instaura fra il gesto compiuto dall’imperatore (ovviamente, secondo la rappresentazione del poeta) e la poesia che è frutto di quel gesto può cominciare a farci intuire quale problematico rapporto queste opere stabiliscano fra autorità politica e autorialità poetica, una distinzione che mai come qui rischia di annullarsi del tutto.

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Sul problematico rapporto fra lo spazio dell’impero e lo spazio dell’esilio si vedano le buone osser­ vazioni di Rimell 2015, pp. 277 ss.; Bhatt 2018, pp. 215 ss.

Citraque necem tua constitit ira: Augusto, la clementia e il potere ‘incompiuto’

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In primo luogo, che l’elegia di autodifesa dovesse realmente occupare un libro con­ cepito fin dall’inizio come secondo sembrano suggerire gli stessi primi versi di trist. 2 (vv. 1 ss.):92 quid mihi vobiscum est, infelix cura, libelli, ingenio perii qui miser ipse meo? cur modo damnatas repeto, mea crimina, Musas? an semel est poenam commeruisse parum?

La critica non ha mancato di notare la differenza di questo incipit rispetto al congedo di trist. 1.1: mentre là si parlava di liber, è qui la volta dei libelli, al plurale.93 In questi versi Ovidio sta naturalmente parlando dell’insieme delle sue opere, chiedendosi per quale insana follia abbia deciso di continuare a comporre poesia, dal momento che proprio al suo ingenium va attribuita la causa della condanna, come spiegherà il seguito del componimento. I libelli, tuttavia, sono significativamente definiti infelix cura, una «passione infelice»; l’aggettivo infelix è già stato impiegato al v. 4 di trist. 1.1 (infelix habitum temporis huius habe): il suo utilizzo non può non essere inteso anche come ‘parafrasi’ del titolo Tristia, di fronte al quale il lettore del primo componimento della nuova raccolta ha ricevuto un’immediata chiarificazione: Tristia = infelix (liber). Allo stesso modo, anche il secondo libro di poesia triste si colloca sotto il segno della infelicitas, nell’ambito cioè della raccolta che reca il titolo Tristia: i libelli che costituiscono l’infelix cura del poeta sono innanzitutto quelli che nel loro stesso nome portano il se­ gno della tristezza. L’«infelice passione» dell’esule continua ora in un secondo libro di Tristia: i vv. 3 s. insistono sul concetto della ripetizione (cfr. repeto) e il poeta si chiede se non sia stato sufficiente meritare la condanna «una volta» (semel). Poco più avanti, ai vv. 15 ss., i verbi refero, repetit, redit rafforzano l’idea della coazione a ripetere cui il poeta si sente vincolato, nella speranza, questa volta, che la poesia funga da rimedio ai suoi mali; ma l’immagine della naufraga puppis che torna al largo fra le onde (v. 18), immagine di per sé piuttosto tradizionale in contesti analoghi, riconduce necessaria­ mente il pensiero alla nave di cui il poeta ha dato ampio conto in trist. 1, la propria, a bordo della quale egli ha affermato di aver composto l’intero primo libro (la clausola 92

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Su questo punto si veda Rimell 2015, p. 288. La pubblicazione di trist. 2 è comunemente fatta risalire al 9 d. C. e precederebbe il disastro di Varo in Germania: riferimenti in Ingleheart 2010, pp. 4 s. Come si anticipava, l’aggiunta dell’autodifesa al singolo libro costituito da trist. 1 deve essere imma­ ginata come molto rapida, tanto che si potrebbe anche ammettere l’idea che trist. 1–2 siano giunti a Roma insieme, nonostante il poeta si sforzi di farci credere che trist. 1 sia stato composto durante il viaggio (cominciato negli ultimi mesi dell’8: ma cfr. ora Hutchinson 2017, pp. 80 ss., che postdata condanna e partenza al 9), mentre in trist. 2 Ovidio sembra avere ormai raggiunto la terra tomitana: sull’avanzamento nella ‘trama’ dei Tristia presupposto da trist. 2.185 ss., nonché più in generale sulla cronologia dei Tristia, cfr. anche infra, pp. 80 n. 14 e 127 s. Cfr. Citroni 1986, pp. 130 s.; sul particolare esordio di trist. 2 e sull’apostrofe ‘ritardata’ ad Augusto, cfr. Ingleheart 2009, p. 124; sui plausibili riferimenti a Gallo contenuti in questo esordio, cfr. Bar­ chiesi – Hardie 2010, pp. 66 s.

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del pentametro, puppis aquas, è fra l’altro la stessa di trist. 1.10.48): secondo la frequente metafora dell’opera poetica come nave, potrebbe essere questo un segnale del fatto che la ‘navigazione’ dei Tristia sta appunto ricominciando.94 I primi versi di trist. 2 giocano insomma sul doppio significato della ripetizione che il poeta sta ora compiendo: ripe­ tizione del gesto poetico tout court, dopo la condanna subita proprio a causa dei carmina; ripresa e proseguimento dei Tristia, in un secondo libro cui è affidato il compito di attenuare l’ira del princeps.95 Ora, la composizione del libellus di autodifesa indirizzato ad Augusto costituisce un cimento poetico sorto dalla possibilità, che Ovidio avrà evidentemente giudicato ab­ bastanza concreta, di modificare l’atteggiamento del princeps nei propri confronti, di­ minuendo la ‘durezza’ dell’ira Caesaris (vv. 27 s.: his precor exemplis tua nunc, mitissime Caesar, / fiat ab ingenio mollior ira meo). L’operazione si pone come una sorta di sfida non priva di una connotazione decisamente combattiva, dal momento che essa do­ vrebbe idealmente mutare la posizione dell’esule dallo stato di ‘sconfitta’ in cui attual­ mente versa (a inizio libro Ovidio è il victus gladiator del v. 17, ora tuttavia costretto a tornare a combattere nell’arena, secondo un’immagine che sviluppa un importante spunto oraziano)96 a uno stato di autentica ‘vittoria’ su Augusto, che a fine tirata è pre­ sentato nell’atto, immaginato per il futuro, di arrendersi di fronte alla lunga durata della pena inflitta (v. 576, cum longo poenae tempore victus eris).97 È importante a questo punto osservare che, secondo uno spunto argomentativo cui l’esule continuerà a ricorrere anche nelle raccolte successive, la possibilità di mutare l’atteggiamento di Augusto è presentata come l’inevitabile conseguenza del provvedi­ mento attraverso cui il princeps ha condannato il poeta all’esilio: Ovidio vuole cioè di­ mostrare che l’eventualità del perdono risulta insita nella tipologia stessa di condanna inflitta, la cui mitezza ha sorprendentemente superato le attese del poeta. Mi sembra

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Ingleheart 2010 ad loc. intuisce l’utilizzo della metafora, che tuttavia ricollega al ‘naufragio’ dell’Ars: se c’è tuttavia una naufraga puppis, cioè un libro poetico, che ha già letteralmente navigato in ac­ que tumidae, questo è appunto trist. 1. Forse non è da trascurare un altro doppio significato, quello rintracciabile proprio in libellus/libelli, un termine del lessico giuridico (in generale, «petizione»): cfr. Suet. Aug. 53.2 per una battuta rivolta da Augusto a un tale che sibi libellum porrigere dubitaret. Sul doppio significato (libri di po­ esia vs. libretti di accusa) gioca Orazio in sat. 1.4.66 e 70 (su cui cfr. Keane 2006, p. 79); cfr. inoltre Freudenburg 2001, p. 67 n. 85 sullo «strong legal coloring» dell’espressione subscribe libello con cui si conclude proprio sat. 1 («besides a Catullan ‘little book’, a libellus was also a formal, legal complaint»). L’atteggiamento di Ovidio in trist. 2 può essere associato a quello di un delatore (cfr. Barchiesi 1993, p. 173), anche se il poeta enfaticamente tace i nomi dei contemporanei (vv. 467 s.); in questo contesto, è significativo che il poeta ricordi la propria passata attività di giudice centumvir (vv. 93 s.). Cfr. Hor. epist. 1.1.2 ss. Sull’impiego di un «antagonistic, militaristic language» in trist. 2, cfr. Ingleheart 2010 ad loc. Il carattere ‘competitivo’ della tortura, considerata nei termini di una lotta tra vittima e carnefice, è efficacemente illustrato da Foucault 1975, p. 45.

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utile riportare innanzitutto il passo di trist. 2 in cui Ovidio si sofferma su questo risvol­ to mite e inaspettato, in certa misura ‘trattenuto’, della condanna (vv. 121 ss.): corruit haec igitur Musis accepta sub uno sed non exiguo crimine lapsa domus. atque ea sic lapsa est, ut surgere, si modo laesi ematuruerit Caesaris ira, queat. cuius in eventu98 poenae clementia tanta est, venerit ut nostro lenior illa metu. vita data est, citraque necem tua constitit ira, o princeps parce viribus use tuis! insuper accedunt, te non adimente, paternae, tamquam vita parum muneris esset, opes. nec mea decreto damnasti facta senatus, nec mea selecto iudice iussa fuga est. tristibus invectus verbis (ita principe dignum) ultus es offensas, ut decet, ipse tuas. adde quod edictum, quamvis immite minaxque, attamen in poenae nomine lene fuit: quippe relegatus, non exul, dicor in illo, privaque fortunae sunt ibi verba meae.

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La critica si è naturalmente molto interrogata sulla natura giuridica della condanna subita da Ovidio, che sembra assumere i tratti di un provvedimento del tutto privato da parte di Augusto, senza l’intervento ufficiale del senato; molto discutere ha fatto inol­ tre il termine edictum impiegato dal poeta al v. 135: si tratta di un autentico «documen­ to» prodotto dal princeps o è piuttosto da intendersi come «sentenza» pronunciata a voce? In effetti il poeta ricorda qui il rimprovero verbale subito (tristia verba), ma l’uso dei verbi al tempo presente ai vv. 137 s. indurrebbe a immaginare uno scritto su cui sono riportati i termini della condanna (dicor, sunt ibi verba).99 Al di là dell’effettiva valenza giuridica del provvedimento, che i pochi e volutamen­ te criptici accenni dell’esule non permettono infine di definire con certezza, punterei piuttosto l’attenzione sullo sfruttamento retorico cui il poeta sottopone il carattere pe­ culiare della condanna subita. Importa infatti notare che essa si pone come decisione provvisoria, cui il poeta attribuisce esplicitamente una durata: la domus di Ovidio è caduta certo in disgrazia, ma in modo tale che ha ora la possibilità di risorgere dalla ro­ vina (ea sic lapsa est, ut surgere … queat); questo può avvenire a patto che l’ira Caesaris «giunga a maturazione» (si modo laesi / ematuruerit Caesaris ira): il verbo ematuresco, 98 99

eventu codd. : electu Palmer. Così da ultimo Hutchinson 2017, p. 76: «the banishment of a well­known figure was a public ac­ tion, justified in an official and strongly­worded edictum».

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di per sé rarissimo e mai utilizzato prima di questo passo, suggerisce l’idea di un pro­ cesso in corso, destinato a evolversi e a mutare; l’ira di Augusto, da cui è scaturita la relegazione, non è presentata come fatto compiuto, bensì come sentimento in diveni­ re, suscettibile di ‘movimento’.100 In corrispondenza di ciò, anche l’efficacia persuasiva dell’esule non è concepita come immediata: l’effetto antidotico della poesia attraverso cui Ovidio intende mitigare quell’ira è consapevolmente misurato sulla lunga durata (cfr. vv. 181 s., parce, pater patriae, nec nominis immemor huius / olim placandi spem mihi tolle tui), al punto che l’esule propone addirittura, qui e altrove, una sorta di ‘gradazio­ ne del perdono’, tale per cui il ritorno in patria si configura solamente come l’ultimo, finale approdo in un ideale progressivo riavvicinamento dell’esule a Roma (vv. 575 ss.: non ut in Ausoniam redeam, nisi forsitan olim, / cum longo poenae tempore victus eris; / tutius exilium pauloque quietius oro …).101 Al carattere temporaneo dell’ira mostrata da Augusto si accompagna un altro tratto della condanna che nel nostro passo il poeta presenta come quasi miracoloso: a dispet­ to delle attese, la poena inflitta è risultata molto più mite, dal momento che a mitigarla è intervenuta la clementia (vv. 125 s., cuius in eventu poenae clementia tanta est, / venerit ut nostro lenior illa metu). Il poeta ha evitato il castigo peggiore, la condanna a morte, grazie all’uso ‘trattenuto’ che il princeps ha fatto delle sue vires (v. 128, o princeps parce viribus use tuis!); l’ira di Augusto, di per sé in grado di annientare il poeta, si è così vista ‘frenata’, arrestandosi «al di qua» dell’esito finale, appunto la pena capitale, cui la sua potenza l’avrebbe inevitabilmente condotta (v. 127, citraque necem tua constitit ira).102 L’immagine di un Augusto che «risparmia le forze» ponendo un limite alla sua poten­ za si giustifica come spunto celebrativo all’indirizzo della sua clemenza; essa tuttavia finisce per attivare un’associazione forse non del tutto lusinghiera: nelle Metamorfosi, Giove aveva inutilmente cercato di trattenere le proprie forze nel goffo tentativo di risparmiare Semele, che su suggerimento di Giunone gli aveva chiesto di manifestare nell’amplesso tutta la sua potenza (cfr. 3.302, qua tamen usque potest, vires sibi demere 100 Cfr. Pont. 2.7.79, spes quoque posse mora mitescere Caesaris iram. L’utilizzo dei verbi incoativi sembra rimandare al lessico della medicina e, nella fattispecie, della guarigione (cura delle passioni); per l’uso di maturo (nel senso di mitesco, come sembra più immediato intendere nel nostro passo) in riferimento all’ira, cfr. Serv. Aen. 1.137, quo modo dicimus ‘matura iracundiam tuam’, id est ‘mitiga’; si tratta del medesimo verbo utilizzato in trist. 4.6.15, hoc [scil. tempus] etiam saevas paulatim mitigat iras, dove l’allusione all’ira di Augusto non è esplicita, ma intuibile. 101 Il motivo torna con una certa frequenza nei libri successivi: cfr. trist. 3.1.75 s., forsitan et nobis olim minus asper et illi / evictus longo tempore Caesar erit (dove sono da notare ancora una volta il ricor­ so alla metafora della vittoria e l’utilizzo del verbo composto in e- a indicare il processo dell’azio­ ne); 4.4.47 s., forsitan hanc ipsam, vivam modo, finiet olim,  / tempore cum fuerit lenior ira, fugam. In altri passi, la riduzione parziale della pena è meno favorevolmente giudicata come un rimedio soltanto apparente alle sofferenze dell’esule: cfr. trist. 5.2.21 s., detrahat ut multum, multum restabit acerbi, / parsque meae poenae totius instar erit. 102 A questo arresto dell’ira di Augusto potrebbe associarsi il modo in cui, in un passo dei Tristia, Ovidio descrive la propria colpa involontaria, un errore «al di qua del crimine»: trist. 5.8.23, peccavi citra scelus.

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temptat …); ma per quanto il dio si fosse armato di un levius fulmen dotato di una mi­ nore efficacia (vv. 305 s., est aliud levius fulmen, cui dextra Cyclopum / saevitiae flammaeque minus, minus addidit irae), il corpo mortale di Semele non era comunque riuscito a sopravvivere. Anche l’Ovidio dell’esilio si trova a fare i conti con la incommensurabile potenza di un fulmen cui pure è paradossalmente riconosciuta una sostanziale e de­ cisiva mitezza (fin da trist. 1.1.72 ss., venit in hoc illa fulmen ab arce caput. / esse quidem memini mitissima sedibus illis / numina …; 1.2.61, mitissima Caesaris ira).103 La paradossale immagine dell’ira mite di Augusto non si limita però a costituire la bizzarra, o provocatoria, trovata del poeta panegirista: nelle opere dell’esilio Ovi­ dio deve certo affrontare il difficile compito di elogiare la mitezza del sovrano mentre sconta una condanna che ne ha semmai manifestato la severità e l’intransigenza; ma l’insistenza sul carattere ‘trattenuto’ della pena, quale abbiamo visto nel passo riporta­ to, si rivela un utile strumento attraverso cui il poeta giustifica la propria stessa decisio­ ne di continuare a comporre versi durante l’amaro tempo dell’esilio: la possibilità per l’esule di continuare a scrivere e a nutrire la speranza del perdono dipende (o è fatta dipendere) precisamente dal fatto che la condanna inflitta da Augusto non ha avuto un carattere definitivo, ma ha anzi rivelato una natura per così dire ‘incompiuta’ proprio a causa di quell’impiego trattenuto del potere di cui pure l’imperatore disponeva.104 In conseguenza di ciò, Ovidio si pone ora in una posizione intermedia nella misura in cui, punito in modo soltanto ‘parziale’, è in grado di offrire all’imperatore l’occasione per manifestare appieno la sua capacità di perdono (vv. 31 s.): sed nisi peccassem, quid tu concedere posses? / materiam veniae sors tibi nostra dedit. Augusto dispone ora della materia veniae: un sostantivo, materia, più comunemente utilizzato in poesia in riferimen­ to al «materiale grezzo» a disposizione del poeta che si accinge a comporre l’opera letteraria.105 Lo stato incompiuto e ‘malleabile’ della condanna ha fornito materia tanto all’imperatore Augusto quanto al poeta Ovidio: l’opera di entrambi è tuttora in corso

I versi sul levius fulmen di Giove, che con ogni probabilità è innovazione ovidiana (Barchiesi 2007 ad loc.; cfr. già D’Ippolito 1962, p. 300 e ora Pontiggia 2018, p. 170 n. 2), sono significativamente ci­ tati da Sen. nat. quaest. 2.44 in un passo in cui l’immagine ovidiana è considerata allegorica rispetto alla differente intensità delle pene che i potenti devono infliggere a chi ha commesso una colpa più o meno grave: voluerunt admonere eos quibus adversus peccata hominum fulminandum est non eodem modo omnia esse percutienda: quaedam stringi debere, quaedam elidi [effligi Leo] ac distringi, quaedam admoneri. 104 Cfr. la formulazione di un passo come Pont. 1.7.45 ss., quaque ego permisi, quaque est res passa, pepercit, / usus et est modice fulminis igne sui. / nec vitam nec opes nec ademit posse reverti, / si sua per vestras victa sit ira preces (quest’ultima specificazione dipende dal particolare contesto delle ex Ponto, dove Ovidio fa appello alla mediazione offerta dai destinatari delle lettere, mentre in trist. 2 la possibilità di ‘guarire’ il princeps è più o meno esplicitamente attribuita dal poeta a se stesso). 105 Il sostantivo è particolarmente utilizzato da Ovidio: cfr. McKeown 1989 ad am. 1.1.1–2; è bene ricor­ dare l’uso tecnico da parte di Hor. ars 38, dove indica «the subject chosen by the writer, the task he is undertaking» (Brink 1971 ad loc.). 103

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di svolgimento, dovendo in entrambi i casi trovare compimento nell’ideale concessio­ ne/conseguimento del perdono. È importante osservare che l’incompiutezza della condanna inflitta da Augusto non è certo attribuita – né sarebbe stato utile o possibile attribuirla – a una défaillance dell’imperatore nell’esercizio del potere assoluto; Ovidio la presenta anzi come de­ cisione consapevole assunta in virtù di una caratteristica fondamentale dell’operato politico augusteo manifestata non soltanto in questa occasione: l’esercizio della clementia.106 Il gesto attraverso cui il princeps ha «tenuto a freno» il proprio potere illi­ mitato è infatti parimenti rievocato nella sezione iniziale di trist. 2 in riferimento alla mancata punizione dei nemici a seguito della vittoria nelle guerre civili (vv. 41 ss., nec te quisquam moderatius umquam  / imperii potuit frena tenere sui.  / tu veniam parti superatae saepe dedisti, / non concessurus quam tibi victor erat).107 La concessione della venia alla parte sconfitta costituisce lo strumento dello scarto, il mezzo attraverso cui Ottaviano è stato in grado di mettere fine alla lunga serie delle guerre civili stabilendo allo stesso tempo il fondamentale dislivello fra se stesso e i vinti. La posizione di pre­ minenza incontrastata infine raggiunta dal princeps si è paradossalmente resa possibile proprio grazie alla limitazione dello smisurato imperium ottenuto a seguito della vit­ toria militare, una limitazione del potere che si è tradotta nella cessazione della striscia di sangue e vendette che aveva segnato l’azione dei protagonisti della scena politica nei decenni precedenti. L’idea del freno e del limite che caratterizza questo particolare aspetto dell’operato politico di Augusto risulta del resto insito nel significato stesso della clementia intesa come arma politica decisiva nella storia e nella riflessione teorica romana, in parti­ colare misura nel passaggio al regime imperiale. Il concetto di clementia, che è stata efficacemente definita la «virtù del compromesso politico»,108 contiene un paradosso al suo stesso interno, dal momento che comporta l’imposizione di un limite a un po­ tere di per sé illimitato (cfr. Sen. clem. 1.11.2, haec est in maxima potestate verissima animi temperantia); l’idea del ‘temperamento’ è altresì inclusa nelle definizioni di clementia quale moderatio e lenitas.109 La limitazione del potere assoluto attraverso la clementia si 106 Sulla clementia di Augusto nelle opere dell’esilio di Ovidio, cfr. in part. Lechi 1988; Ciccarelli 2001. Su clementia ed esilio è importante quanto afferma Bhatt 2018, pp. 218 ss., che discute la doppia va­ lenza dell’exilium a Roma come soluzione sostitutiva rispetto alla pena («Roman exilium did not originate as a legal punishment») ovvero come punizione a tutti gli effetti, adottata in particolare a partire dall’età imperiale: l’esilio insomma «was not simply a punishment but a means of expres­ sion, specifically the expression of imperial power and/or virtue». 107 Sul lessico delle guerre civili presente in questi versi, cfr. Ingleheart 2010 ad loc.; che Ovidio abbia qui in mente il contesto delle guerre civili è reso inoltre evidente dai versi immediatamente succes­ sivi. 108 Borgo 1985, p. 63; su clementia, cfr. inoltre Griffin 2003; Dowling 2006; Braund 2009, pp. 30 ss. 109 Cfr. ancora Sen. clem. 2.3 per una serie di definizioni del concetto in senso schiettamente politico: è interessante fra l’altro l’enunciazione dell’idea comune per cui hoc … clementiam esse, quae se flectit citra id quod merito constitui posset, dove va notato l’impiego della medesima preposizione citra di

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risolve tuttavia, paradossalmente, nel conseguimento di un potere ancora più vasto, dal momento che soltanto chi si trova in una posizione di superiorità è in grado di godere della libertà di risparmiare il colpevole. In età imperiale essa è pertanto prerogativa del princeps, l’unico in grado di sopravanzare la legge mediante un atto di grazia di per sé illegale.110 Se dunque la clementia si traduce in un gesto auto­limitante compiuto da chi detie­ ne un potere senza limite, essa risulta allo stesso tempo in grado di imporre un limite esterno alla logica, umana e non divina, del risarcimento come necessaria conseguenza del predominio: ancora una volta, il gesto del ‘porre fine’ si collega alla manifestazione di un potere unico e incontrastato.111 Si diceva appunto che la clementia mostrata da Augusto al termine delle guerre civili contribuì non poco al rafforzamento della sua posizione di princeps;112 l’associazione fra clementia e fine delle guerre è in qualche caso resa esplicita nelle fonti storiografiche: a proposito di Giulio Cesare, Floro ricorda che attraverso l’esercizio della clemenza egli riuscì a compensare la violenza della guerra a seguito delle vittorie di Farsalo, Tapso e Munda (2.13(4.2).90, hic aliquando finis armis fuit; reliqua pax incruenta pensatumque clementia bellum), salvo suscitare l’odio di co­ loro che aveva perdonato proprio in virtù di quel potere superiore derivato dalla pos­ sibilità di elargire benefici (ivi, 92, clementiam principis vicit invidia, gravisque erat liberis ipsa beneficiorum potentia). Valutando l’immensa portata storica del successo di Otta­ viano ad Azio, Velleio Patercolo definisce la vittoria «clementissima» e osserva che la lenitas del vincitore in quell’occasione dimostrò quale «limite» egli avrebbe parimenti imposto alle vittorie precedenti se solo gli fosse stato possibile (2.86.2, victoria vero fuit clementissima … ex qua lenitate ducis colligi potuit, quem ‘modum’ [add. Watt] aut initio triumviratus sui aut in campis Philippiis, si ei licuisset, victoriae suae facturus fuerit). La capacità di ‘mettere fine’ che la clementia comporta emerge poi anche nell’eser­ cizio del potere assoluto da parte del buon princeps: il celebre episodio riportato da Seneca nel De clementia a proposito di Augusto e della sua decisione, maturata a se­ guito del confronto con la moglie Livia, di risparmiare il congiurato Cinna si apre con una serie di domande pronunciate dall’imperatore in un combattuto monologo; fra

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trist. 2.127; l’idea del ‘freno’ appare del resto in una delle più antiche definizioni di clementia, Cic. inv. 2.164 (clementia, per quam animi temere in odium … concitati comitate retinentur), dove essa figura come virtù morale. Sul rapporto fra clementia e iustitia, buone osservazioni in Braund 2009, pp. 40 ss.; l’opposizione fra la clementia e il ius è implicita nell’impiego della prima già in età repubblicana: cfr. il caso dei soldati ribelli narrato in Liv. 28.25.13, i quali non possono che affidarsi imperatoris vel iustae irae vel non desperandae clementiae. L’argomentazione di trist. 2 comincia proprio con il riconoscimento della ‘giustezza’ dell’ira di Augusto (v. 29, illa quidem iusta est), ma la richiesta del poeta – qui e altrove – è quella di andare al di là dell’aspetto puramente legale attraverso un atto di perdono; cfr. Pont. 2.8.76, iustaque quamvis est, sit minor ira dei. Per un’analisi del lessico giuridico nell’Ovidio dell’esilio, cfr. McGowan 2009, pp. 121 ss. «Mettere fine a qualcosa è un chiaro significante di potere»: Barchiesi 1994, p. 277. Del tema discute diffusamente Dowling 2006, pp. 29 ss.

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le altre, Augusto si chiede quando mai avranno fine le condanne (1.9.5, quis finis erit suppliciorum? quis sanguinis?); perdonando Cinna, sarà lui stesso a terminare la serie di attentati alla sua persona (ivi, 12, nullis amplius insidiis ab ullo petitus est).113 Al contrario, il vizio opposto alla clementia, la saevitia, si distingue per l’impossibilità di mantenersi entro certi limiti, essendo anzi destinato a crescere all’infinito (ivi, 25.2, hoc est quare vel maxime abominanda sit saevitia, quod excedit fines primum solitos, deinde humanos, nova supplicia conquirit, ingenium advocat ‹ut› instrumenta excogitet per quae varietur atque extendatur dolor, delectatur malis hominum …).114 Alla luce dei passi raccolti possiamo dunque affermare che la virtù imperiale della clementia, associata alla propria singola persona da Cesare prima e da Augusto poi nel cruciale processo di trasformazione della res publica in regime autocratico,115 si carat­ terizza per un duplice rapporto con l’idea di ‘limite’: essa consiste infatti da un lato nella decisione ‘soggettiva’ da parte del princeps di porre un freno all’infinito potere a sua disposizione, avendo la possibilità di manifestare un potere ancora più grande nel rinunciare al pieno dispiegamento della sua potentia, che è per definizione maxima; d’altro canto, porre un limite allo smisurato potere di cui il principe dispone significa interrompere la logica della compensazione che è caratteristica propria del ius, rispetto al quale l’imperatore si rivela superiore. Nell’elegia di autodifesa indirizzata all’impera­ tore, Ovidio si impegna a dimostrare la piena soddisfazione del primo requisito da par­ te di Augusto, che ha manifestato clemenza nell’infliggere al poeta una condanna che si è mantenuta «al di qua» del limite estremo, la pena capitale; allo stesso tempo, le opere dell’esilio si pongono idealmente in attesa della manifestazione dell’altro limite ‘oggettivo’ che la clementia è in grado di imporre, la determinazione della fine tout court alla condanna. In altre parole, se la mitezza del princeps si è finora manifestata nella sua funzione di trattenimento, essa deve ancora dare prova, nell’ottica del poeta condanna­ to e risparmiato insieme, dell’ulteriore potere conclusivo che è teoricamente in grado di esprimere: prima di quel momento, l’esercizio della clementia da parte di Augusto si rivelerà in ultima analisi pur sempre ‘incompiuto’, un’incompiutezza determinata dalla mancata disponibilità a ‘compiere’, a concludere. Come si accennava nelle pagine introduttive, l’esperienza biografica e poetica di Ovidio esule è pertanto geometricamente rappresentabile come un segmento, che l’autodifesa di trist.  2 e il seguito della produzione tomitana vorrebbero dimostrare delimitato ai suoi estremi dalla duplice manifestazione della clemenza del princeps: la 113 114 115

La domanda di Augusto nel passo senecano richiama la medesima domanda posta da Giove a Giunone al termine dell’Eneide (12.793, quae iam finis erit, coniunx?). Con la conseguenza, argomenta Seneca, che a imporre un limite alla crudeltà del tiranno provve­ deranno le trame nascoste dei congiurati o la sollevazione dei cittadini (ivi, 3). In questo consiste appunto, insieme al fatto di applicarla su cittadini romani anziché sui nemi­ ci esterni, il decisivo scarto operato in primo luogo da Cesare nell’impiego della clementia; cfr. Braund 2009, pp. 34 s.: «his first crucial shift was to establish clementia as a personal benefaction rather than a benefaction of the Roman state».

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punizione ‘trattenuta’, che ha creato le condizioni perché Ovidio possa ora continuare a scrivere, e il futuro, definitivo perdono, in grado di portare a termine condanna e scrittura. Come vedremo nei prossimi capitoli, la progressiva crescita della produzione ovidiana dell’esilio, che si manifesta nella continua aggiunta di nuovi libri, rappresenta il graduale movimento lungo questo segmento, nell’ideale tensione verso il raggiungi­ mento della fine – un limite che, presente e mai raggiunto, rappresenta l’imprescindi­ bile forza motrice di questa poesia. Questo complesso di temi e di istanze emerge talvolta in modo piuttosto evidente nel corso delle raccolte esiliche. In trist. 3.5 Ovidio si rivolge a un amico che, pur av­ vicinatosi al poeta in tempi abbastanza recenti, ha manifestato un affetto esemplare;116 desiderando informarlo circa il proprio attuale stato d’animo, l’esule afferma di nutrire una certa speranza nella possibilità di placare i tristia numina di Augusto (vv. 23 ss.), una speranza che l’amico è chiamato ad alimentare adoperandosi anch’egli per il me­ desimo fine (vv. 29 s., quaeque tibi linguae est facundia, confer in illud, / ut doceas votum posse valere meum). A favorire le attese del poeta è del resto la natura stessa dell’ira di Augusto: secondo l’argomentazione dell’esule, quanto più potente è colui che conce­ pisce un sentimento di collera, tanto più spiccata si rivela la sua propensione a placarlo (v. 31, quo quisque est maior, magis est placabilis irae). Segue una serie di exempla tratti dal mondo animale, dal mito e dalla storia: se da un lato il nobile leone si accontenta di prostrare il nemico, gli animali feroci di minore prestigio infieriscono sul cadavere del vinto (vv. 33 ss., corpora magnanimo satis est prostrasse leoni, / pugna suum finem, cum iacet hostis, habet; / at lupus et turpes instant morientibus ursi / et quaecumque minor nobilitate fera). Ancora una volta, la capacità di sapersi frenare e, insieme, di saper imporre un limite alla propria potenza è caratteristica di chi è magnanimus – di chi, nell’eserci­ zio del potere assoluto, dà prova di clementia (cfr. vv. 39 s., dove è citato un doppio caso di clemenza dimostrata da Alessandro); al contrario, caratteristica della crudeltà è non poter fermare l’istinto all’offesa, anche di fronte a una supremazia ormai indiscutibil­ mente ottenuta (instant morientibus). Mentre Augusto è pertanto chiamato a ‘termina­ re’ la propria collera, il poeta esule si colloca in una dimensione di attesa (vv. 23 s., si tamen interea quid in his ego perditus oris … quaeris agam …; v. 27, seu temere expecto): il tempo della speranza (cfr. v. 43, denique non possum nullam sperare salutem) è da un lato giustificato dal carattere non finito dell’ira del princeps e, dall’altro, dà adito a una poesia che si pone in uno spazio intermedio, nell’attesa che la condizione del poeta in esilio muti in corrispondenza del mutato atteggiamento di Augusto (vv. 53 s., spes igitur superest facturum ut molliat ipse / mutati poenam condicione loci).117 116 117

Sulla base del v. 18 dell’elegia (scis carum veri nominis esse loco), l’amico è stato identificato nel Caro cui è indirizzata Pont. 4.13. Molto indicativo anche un passo come trist.  4.4.45 ss. (in parte già citato supra, p.  68 n.  101): il poeta ricorda che il deus Augusto gli ha risparmiato vita e ricchezze, ciò che è addotto come prova dell’involontarietà del peccatum che pure egli ha commesso; la buona disposizione così manifesta­

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Tristia 1–2 e il carattere incompiuto dell’esilio di Ovidio

A fronte del carattere incompiuto della clementia di Augusto, la poesia dell’esule di­ mostra infatti una tenace e notevolissima indisponibilità alla conclusione: essa finisce insomma per seguire il processo di ‘maturazione’ di quell’ira di cui è invocato l’esau­ rimento, che l’esule vorrebbe favorire proprio attraverso la poesia prodotta nel tempo intermedio dell’attesa. Alla luce del carattere incompiuto della clementia di Augusto, vale ora la pena di continuare a esaminare questo aspetto ‘inconcludente’ della poesia dell’esilio di Ovidio, quale emerge – in particolare – nelle raccolte via via prodotte nei lunghi anni trascorsi a Tomi.

ta dal princeps induce Ovidio a immaginare che, quando sarà il momento, l’imperatore metterà fine anche all’esilio (forsitan hanc ipsam, vivam modo, finiet olim, / tempore cum fuerit lenior ira, fugam); per il momento, l’esule si limita a chiedere di essere trasferito in un luogo più tranquillo (nunc precor hinc alio iubeat discedere …) – preghiera che, considerata la sua clementia, forse Augusto esau­ direbbe, se qualcuno (come ad esempio l’anonimo interlocutore dell’elegia, da identificarsi molto probabilmente con Messalino) se ne facesse diretto portavoce presso di lui. Che l’elegia erotica, e quindi quella dell’esilio, si fondino sulla continua alternanza fra speranza e disillusione è quanto persuasivamente dimostra Fulkerson 2018; sull’inno a Spes di Pont. 1.6.29 ss., e più in generale sul tempo dell’attesa nelle ex Ponto, cfr. infra, p. 190.

Capitolo 2 Tristia 3–5 e la poetica dell’addizione 1. Ovidio, l’esilio e il rischio dell’eternità Le attese generate nei lettori dall’improvvisa fine di trist. 1, e dagli accenni accumula­ ti nell’ultimo componimento di quella raccolta a ciò che il poeta immagina di poter trovare e vedere una volta sbarcato a Tomi, risultano infine soddisfatte dall’invio dei successivi libri dei Tristia, composti nell’arco di circa tre anni (10–12 d. C.). A cadenza dunque sorprendentemente regolare, una cadenza che il poeta enfatizza in ognuno dei libri inviati annualmente, Ovidio segue l’estendersi del proprio tempo in esilio esten­ dendo i confini dell’opera alla quale è affidato il compito di descrivere quel tempo e, possibilmente, di favorirne la conclusione.1 Riprendendo dunque le categorie enucleate nel capitolo precedente, è bene os­ servare innanzitutto che ogni nuova raccolta riproduce quella dinamica fra limite e continuazione che abbiamo descritto a proposito di trist.  1: secondo la medesima prospettiva, esaminerò ora il modo in cui i libri 3–5 dei Tristia mettono in scena un ripetuto scarto fra apparente chiusura e necessaria prosecuzione, a cominciare dai componimenti ‘paratestuali’ delle varie raccolte.2 È importante tuttavia anticipare fin da subito una differenza niente affatto trascurabile, che anzi permette di cogliere un aspetto centrale di questa seconda fase nell’evoluzione della poesia dell’esilio di Ovi­ dio: se in trist. 1 lo scarto ‘metamorfico’ fra limite e continuazione segnava l’inizio tout court della nuova tipologia poetica praticata dal poeta condannato, rappresentandone 1 2

Un buon esempio di quella «poetic simultaneity» di cui parla, a proposito dei Fasti, Volk 1997; sull’idea della ‘crescita’ progressiva dei Tristia, e sull’importante modello rappresentato dall’elegia erotica anche sotto questo aspetto, cfr. infra, p. 88 n. 32. Questi presupposti lasciano intuire la differenza dell’approccio qui seguito rispetto alla premessa di Videau­Delibes 1991, p. 12, la cui scelta dei soli Tristia quali oggetto del suo ampio lavoro vor­ rebbe dipendere dal fatto che «les Tristes sont composés par Ovide comme une unité détachée et finie» (enfasi mia).

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Tristia 3–5 e la poetica dell’addizione

dunque la difficile ma decisiva sopravvivenza a seguito della potentissima cesura costi­ tuita dalla condanna, la sopravvivenza che si ri­attualizza – e si ritualizza – in trist. 3–5 perde progressivamente, e necessariamente, quella forza ‘contrastiva’ dimostrata nel suo primo manifestarsi. In altre parole, nelle successive raccolte di Tristia l’istanza alla continuazione, che informa di sé la poesia di Ovidio esule garantendone la costante presenza a Roma, rischia inesorabilmente di tradursi, e infine senz’altro si traduce, in ostinata e frustrante ripetizione, esaurendo così via via il contrasto tra fine e nuovo inizio – un contrasto in grado di sprigionare la forza dell’inedito – nell’automatismo di un movimento circolare e prevedibile.3 La ripetitività cui il poeta è costretto dalla circostanza biografica viene quindi da un lato enfatizzata proprio al fine di riaffermare, com’è ovvio, tutta la gravosità di quella ripetizione, cui l’autore rinuncerebbe volentie­ ri, ma rende dall’altro sempre più urgente l’escogitazione di una nuova ‘cesura’, di un nuovo punto di non ritorno in grado di riattribuire nuova forza al contrasto fra limite e continuazione – impresa ardua, che come vedremo Ovidio tenterà di realizzare nel passaggio alle Epistulae, opera nuova e non nuova insieme. In trist. 3–5, la trasformazione – un’ulteriore metamorfosi? – della continuazione in ripetizione comporta così una serie di conseguenze sia nella descrizione dell’espe­ rienza biografica dell’esilio da parte del poeta sia nella concezione stessa dell’opera poetica in corso di svolgimento. Il movimento ciclico ora descritto, infatti, finisce per porsi in aperto contrasto, e tuttavia paradossalmente a convivere, con l’altro movimen­ to temporale che abbiamo visto emergere nella rappresentazione del tipo di condanna subita, il modello lineare del ‘segmento’: nel tempo dell’attesa a Tomi, il poeta è infatti senz’altro proiettato verso il punto terminale, il telos dell’esilio; ma la ripetizione insita nel movimento ciclico di cui si è detto rischia di compromettere l’esistenza stessa di un telos, e di generare al contrario una poesia infinita, che fa dell’eterno ritorno la propria unica, ineludibile dimensione temporale.4 Mentre dunque da un lato il tempo dell’attesa continua a crescere, e di conseguenza crescono i Tristia, il poeta sembra avvertire in misura sempre maggiore quello che ho definito il ‘rischio dell’eternità’ – il rischio cioè di constatare, infine, che il movimen­ to progressivo dell’opera di poesia triste si è cristallizzato in un movimento ripetitivo cui sarà impossibile mettere fine. Si tratta naturalmente di un’eternità molto diversa rispetto a quella che Ovidio ha preannunciato per sé e per la propria poesia al termine delle Metamorfosi; ma alla differenza non può non contribuire quello stravolgimen­ to del rapporto gerarchico fra autorialità poetica e autorità politica cui abbiamo già

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La ripetizione come tratto caratterizzante della poesia di Ovidio, e delle Metamorfosi in particolare, è presa in esame dalla già citata raccolta curata da Fulkerson – Stover 2016. Della struttura aperta dei Tristia rispetto a quella dell’epica, alla cui «Grundstruktur» in rapporto al trattamento dell’ira / clemenza divina pure essi si indirizzano, nonché rispetto alle norme aristo­ teliche sulla compiutezza dell’opera poetica parla Bretzigheimer 1991, pp. 57 s.

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accennato.5 Appare infatti decisivo mettere in evidenza il fatto che l’eternità di cui il poeta esule teme il rischio è, prima di tutto, l’eternità della condanna cui Augusto lo ha costretto; le opere dell’esilio di Ovidio, intimamente legate alla fortuna del loro autore (cfr. trist. 1.1.10), risultano di conseguenza inesorabilmente sottoposte alla decisione e alla volontà – in una parola, alla ‘autori(ali)tà’ – di colui che, attraverso la condanna, ne ha causato l’esistenza stessa. Il potere che l’imperatore esercita sull’autore e, quindi, sull’opera letteraria nata nel contesto marcato dell’esilio si esprime anche e soprattut­ to (o meglio, l’autore vuole che si esprima, nel contrasto di ‘competenze’ che così ne risulta) nella possibilità di una fine che l’opera riesca eventualmente a raggiungere. L’annuale invio di un liber di Tristia a Roma assume pertanto un significato complesso, che vale la pena di descrivere in tutta la sua drammatica contraddizione: è ogni volta un liber che afferma la sopravvivenza, esistenziale e poetica, di un autore in difficoltà, capace di colmare la distanza che lo separa dal suo pubblico e indisposto a rinunciare al potere persuasivo della propria poesia; ma, allo stesso tempo, è anche un liber che puntualmente dimostra il sostanziale fallimento dell’intenzione ‘conclusiva’ affidata a quelli che lo hanno preceduto, e che infine ratifica la schiacciante superiorità del vero potere che ne ha reso necessaria l’aggiunta. 2. Ai confini del liber: inizi e fini in trist. 3–5 La dinamica instaurata nei Tristia fra limite e continuazione – fra l’illusione della fine, frutto anche della speranza che Ovidio continua a nutrire nella sempre frustrata attesa del perdono, e la necessità della prosecuzione, cui il poeta è costretto dal prolungarsi del suo tempo in esilio – appare particolarmente attiva, com’è da attendersi, nei com­ ponimenti più esposti di ogni collezione, il primo e l’ultimo.6 In questa prima parte 5

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Sul complesso rapporto fra sopravvivenza poetica e potere politico rintracciabile negli ultimi versi delle Metamorfosi si veda p. es. Barchiesi 1997, pp. 194 ss., dove fra l’altro si nota che «the last word, vivam, connects with the distant proem in nova, closing the poem in a circularity of glorious rebirth, a continual transformation of the poet in his own book» (enfasi mia); come vedremo, la ‘circolarità’ dei Tristia si traduce sì – in diretta continuità rispetto alle Metamorfosi – in ripetuta riaffermazione della vita, ma si tratta di una ripetizione che al poeta è imposta dalla continua, ‘circolare’ riaffermazione della condanna. Sul problematico rapporto fra poeta e principe in ter­ mini di incontro­scontro fra i rispettivi ‘poteri’ (letterario e politico) nonché sull’interpretazione dell’atteggiamento di Ovidio in senso ‘pro­’ ovvero ‘anti­augusteo’ si fonda gran parte della critica, anche recente, sulle opere dell’esilio, in particolare dopo l’importante lavoro di Barchiesi 1994; cfr. in part. McGowan 2009; Rosati 2012; Claassen 2016. Un tipo di analisi che si rifà alle già citate riflessioni sul concetto di ‘paratesto’ nella letteratura latina proposte in Jansen 2014. Wulfram 2008, pp. 362 ss. presenta un simile approccio nella sua discussione di trist. 3–5 (e quindi dei Tristia in generale; a proposito dei componimenti iniziali e finali delle diverse raccolte si parla di «metamedialer Diskurs»), i cui presupposti e i cui risultati si distinguono tuttavia in modo piuttosto evidente da quanto intendo mostrare a mia volta: esa­ minando infatti quei fattori «die das Quintett der Tristien­Bücher untereinander verknüpfen»,

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del capitolo vorrei allora osservare il modo in cui, nelle elegie proemiale e conclusiva di ciascuno degli ultimi tre libri nonché nell’interazione fra di esse, il poeta giustifichi da un lato la nuova raccolta regolarmente proposta ai lettori e, dall’altro, induca ogni volta a credere che si tratti infine dell’ultima che i medesimi lettori sono autorizzati ad attendersi; allo stesso tempo, tuttavia, è altrettanto interessante constatare che la chiu­ sura cui l’esule sembra puntualmente condurre il proprio libro e dunque, a un livello superiore, la collezione di poesia triste appare fondamentalmente disattesa nei suoi stessi presupposti: come abbiamo visto nel caso di trist. 1, sembra possibile rintraccia­ re ogni volta quei ‘segnali della continuazione’ che, a fronte dell’apparente carattere conclusivo di ciascun liber, lasciano presagire, in misura più o meno evidente, la futura addizione. In trist. 3–5 va insomma rilevato il delicato rapporto, determinato dalla stra­ ordinaria circostanza dell’esilio, fra le strategie editoriali e le necessità biografiche di un autore che, nonostante la disgrazia, non intende rinunciare al continuo dialogo col suo pubblico. 2.1 Fine del viaggio: fine dei Tristia? Chiusura e imperfezione in trist. 3.1 e 3.14 Il terzo libro dei Tristia si apre con un’elegia in cui la voce del poeta in esilio lascia spazio a quella del liber stesso, che dalla remota località in cui Ovidio lo ha congedato è appena giunto a Roma. Come è stato più volte notato dalla critica, e in particolare da Carole Newlands in un apprezzato saggio,7 il componimento si ricollega esplicita­ mente a trist. 1.1 e ne costituisce il «sequel»,8 il capitolo successivo nell’ideale romanzo dell’esilio: le raccomandazioni rivolte dal poeta al liber nell’elegia di esordio dei Tristia trovano effettiva realizzazione in ciò che il liber afferma in trist. 3.1;9 per mezzo del liber di poesia triste il poeta è così riuscito nell’intento di svolgere il doppio viaggio prean­ nunciato in trist. 1.1: giungere alla terra dell’esilio e insieme tornare a Roma. A riprova dello stretto legame fra le due elegie menzionate si potrà citare il primo verso di trist. 3.1, missus in hanc venio timide10 liber exulis urbem. Esso risponde, concet­

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Wulfram enfatizza il carattere ‘compiuto’ della collezione («Die Vollendung eines Epistelbuchcor­ pus», come recita il titolo della sezione), proponendo per i Tristia la definizione di «sukzessiv­dia­ chrones Gedichtbuchcorpus» che manifesta una struttura unitaria nonostante (!) la composizione ‘a tappe’ («trotz seiner Entstehung in Etappen», p. 378). Newlands 1997; sul modello costituito da Hor. epist. 1.20, cfr. già Citroni 1986, pp. 121 ss. Così anche Hardie 2002b, p. 299. Cfr. p. es., fin da subito, i vv. 3 ss., dove il libro invita il lettore a non vergognarsi di fronte a lui, dal momento che i suoi versi non insegnano ad amare – al contrario dell’Ars, un opus che il poeta ora condanna: si tratta delle parole che in trist. 1.1 Ovidio ha esortato il libro a pronunciare una volta giunto a Roma (1.1.67, inspice ~ 3.1.9, inspice; 1.1.68, opus ~ 3.1.8, opus). Priva di giustificazioni evidenti la correzione di Hall in miseri.

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tualmente e ritmicamente, al primo verso di trist. 1.1, parve, – nec invideo – sine me, liber, ibis in urbem: al futuro ibis di quest’ultimo verso fa eco il costrutto missus … venio del componimento più recente, mentre alla parola­chiave liber viene riservata la medesi­ ma posizione nell’esametro; così l’ultima parola del verso, (in) urbem, costituisce in entrambi i casi la meta – rispettivamente – indicata dal poeta e raggiunta dal libro, la città da cui la persona fisica dell’esule è bandita, ma non il liber­intermediario, che ne garantisce ora la presenza.11 A questo proposito, è importante notare che il primo verso di trist. 3.1, e di conse­ guenza l’intero componimento, sanciscono, insieme con la fine del viaggio, la chiusura di un cerchio: la poesia che in trist. 1 ha avuto il suo avvio, lasciando presagire ai lettori una continuazione, sembra in effetti rintracciare ora il suo completamento – un com­ pletamento che, a dispetto del carattere triste anche di questi versi,12 risponde positi­ vamente all’intenzione manifestata dal poeta nella prima raccolta, quella di tornare a Roma per mezzo del suo libro (trist. 1.1.16, contingam certe quo licet illa pede: il medesi­ mo gioco sul doppio significato di pes è riprodotto in trist. 3.1.11 s. e 25 s.).13 Sembra possibile, d’altronde, indagare ulteriormente la corrispondenza fra i due componimenti incipitari: i numerosi paralleli fra i due testi non si esauriscono infatti in una serie di brillanti rimandi inter­ e intratestuali, ma finiscono per mettere in atto un vero e proprio gioco ‘illusionistico’. È l’impressione che si ricava se si nota che il se­ quel rappresentato da trist. 3.1, e dalla nuova collezione così introdotta, tende in realtà ad annullare qualsiasi accenno alla propria ‘posteriorità’ rispetto a trist. 1.1, per favorire al contrario l’idea che il liber finalmente giunto a Roma sia esattamente lo stesso liber a suo tempo inviato in trist. 1.1. Vale la pena cioè di osservare che l’evidente con­ tinuità stabilita fra le due collezioni nei rispettivi componimenti proemiali si traduce nell’affermazione della loro completa identità, a dispetto del fatto che le due elegie in esame introducono due differenti collezioni giunte a Roma in due momenti diversi. È importante a mio avviso non trascurare il sottile paradosso che questo fatto genera, la compresenza cioè di un’idea progressiva favorita dall’oggettivo accrescimento della raccolta di Tristia mediante l’aggiunta di un nuovo libro, e allo stesso tempo dell’idea che questo nuovo libro sia in realtà lo stesso già pervenuto a destinazione. Vediamo ciò che risulta dall’interazione fra queste due opposte dinamiche. Abbiamo già menzionato alcune delle puntuali corrispondenze fra trist. 3.1 e trist. 1.1; a queste va senz’altro aggiunta la riproposizione della descrizione dell’aspetto fisico 11

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Sull’identificazione fra autore e libro, e sulla presenza del poeta a Roma mediante il liber, sono da vedere ancora le pagine di Hardie 2002b, pp. 297 ss.; sull’interazione fra i due versi incipitari, cfr. il commento di Citroni 1986, p. 122 n. 18: «il primo verso di III 1 allude chiaramente all’attacco di I 1 […] ponendo esplicitamente fin dall’inizio il proemio del libro III come continuazione del proemio del libro I» (enfasi mia); Wulfram 2008, p. 363. Sul rapporto fra le due elegie, cfr. anche Wessels 2021, pp. 120 s. Cfr. trist. 3.1.6, infelix; 9, triste. Sul pun verbale, cfr. fra gli altri Lechi 1993, pp. 12 s.

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del liber di poesia triste che ha già occupato i primi versi del componimento più an­ tico: in trist. 3.1.13 ss. sono nuovamente elencate, questa volta da parte del liber stesso, le medesime caratteristiche materiali già presentate in trist. 1.1.3 ss. – ciò che favorisce l’impressione ora accennata circa la sovrapposizione, la ‘identificazione’ dei due libelli. Il distico conclusivo della descrizione di trist. 3.1, tuttavia, aggiunge un elemento assen­ te nella precedente elegia (vv. 17 s.): siqua videbuntur casu non dicta Latine, in qua scribebat, barbara terra fuit.

Il lettore che ha al suo attivo la lettura di trist. 1 ricorderà di aver lasciato il poeta in balia della tempesta che lo ha afflitto fino al termine della raccolta. In trist. 1.11 i timori del poeta a proposito dei rischi che avrebbe corso una volta sbarcato a Tomi erano previsti per il futuro (vv. 25 ss., attigero portum, portu terrebor ab ipso: / plus habet infesta terra timoris aqua […] barbara pars laeva est avidaeque adsueta rapinae …); ma la barbara terra di Tomi è ora, in trist. 3.1, la sede in cui il libro afferma di essere stato composto: il lettore ne ricava l’informazione, tanto preziosa quanto implicita, che il viaggio del poe­ ta in mare è infine terminato – ciò che è avvenuto nello spazio intermedio fra i due libri, vale a dire in trist. 2.14 La nuova raccolta costituita da trist. 3 conterrà così le prime ri­ flessioni svolte dal poeta venuto a contatto con la terra del suo esilio: fra le altre, il tema dell’imbarbarimento del linguaggio, che nel distico citato compare per la prima volta, sarà ripreso e sviluppato nell’ultimo componimento della silloge (cfr. trist. 3.14.49 s.). Un discorso analogo può essere svolto a proposito del distico costituito da trist. 3.1.25 s.: ricevuta l’accoglienza di un anonimo cittadino, il libro si dichiara pronto a seguirlo per le vie di Roma, nonostante la stanchezza accumulata nel corso del lungo viaggio dall’estre­ mità del mondo (duc age, namque sequar, quamvis terraque marique / longinquo referam lassus ab orbe pedem). Il longinquus orbis menzionato dal libro può essere accostato all’ultimus orbis di trist. 1.1.127 s., il mondo estremo di Tomi che allora il poeta indicava come meta futura del suo viaggio in corso e che ora l’esule ha definitivamente raggiunto. Il componimento proemiale di trist. 3 manifesta dunque, rispetto a trist. 1.1, una con­ tinuità che si esprime a un doppio livello, la cui compresenza apparentemente contrad­ dittoria si rivela in realtà funzionale al complesso intento del poeta: la volontà di creare uno specifico seguito alla prima raccolta di elegie tristi, una volontà di cui è possibile individuare le tracce al termine dello stesso primo libro, risulta nella proposta di un nuovo liber che da un lato dovrà informare i lettori circa l’evoluzione della vicenda

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In trist. 2.185 ss. il poeta si presenta come già pervenuto a Tomi (cfr. in particolare i deittici 195, hac e 199 s., haec … terra); il particolare statuto di trist. 2, dove il poeta provvisoriamente ‘abbandona’ il pubblico di lettori generici per rivolgersi in via privilegiata ad Augusto, comporta da un lato la relativa perdita delle coordinate spaziali in cui Ovidio si colloca rispetto a trist. 1, ma è interessante constatare che il libro non si sottrae alla dinamica temporale progressiva che coinvolge i Tristia in quanto opera complessiva.

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biografica del poeta, la conclusione del viaggio e le (prime) notizie dalla barbara terra dell’esilio – la continuazione della storia che il lettore stava aspettando, anche in virtù degli accenni all’arrivo e alla condizione della terra pontica già presenti in trist. 2.185 ss.; dall’altro, l’espediente del discorso diretto affidato al liber favorisce l’illusoria identifi­ cazione fra le due collezioni, ciò che al contrario genera un’impressione di chiusura: il viaggio del liber cominciato nella prima raccolta è appunto giunto a termine, come informa quel medesimo liber all’inizio della nuova collezione; ai lettori che intendano farlo non resta che accoglierlo e conservarlo in città in sostituzione della persona fisica del poeta relegato.15 Vale la pena di approfondire il ragionamento a proposito del rapporto fra alterità e uguaglianza che introduce la nuova raccolta di poesia triste. Il gioco illusionistico dato dall’apparente identificazione fra trist. 1 e trist. 3 risulta naturalmente smentito a priori dall’oggettiva alterità del liber più recente; ma l’impressione di uguaglianza, di ‘sovrapposizione’ fra le due raccolte è frutto di un pensiero soltanto apparentemente ingenuo: il senso di chiusura di cui si diceva, favorito dall’idea che il medesimo libro allora inviato sia ora giunto a destinazione, agisce infatti a un ulteriore livello del te­ sto, il livello dell’opera complessiva di poesia intitolata Tristia. Lo stretto legame fra i due componimenti proemiali finisce insomma per convogliare l’attenzione verso fatti di struttura e di bilanciamento delle raccolte poetiche – secondo una sensibilità non estranea alla poesia augustea, e in particolare alle opere dello stesso Ovidio: l’idea che la ripresa delle parole e dei temi dell’esordio avvicini la conclusione dell’opera, e che dunque trist. 3.1 sia da considerarsi il componimento introduttivo dell’ultimo libro della collezione. Il termine del viaggio per il libro da un lato, per il poeta dall’altro corrisponderebbe così anche al termine della raccolta di libri che avrà a questo punto narrato l’intera vicenda del poeta in esilio, il viaggio e la barbara terra. A sostegno di questa idea va del resto menzionato un altro aspetto, il fatto che a es­ sere così introdotto sia proprio il terzo libro dei Tristia. Su tre libri si era infatti infine assestata, tanto per cominciare, la seconda edizione degli Amores, il cui terzo libro ri­ sultava significativamente introdotto da un’elegia in cui era preannunciata l’imminente svolta verso un altro genere poetico, la tragedia – annuncio puntualmente ripreso nel congedo di am. 3.15. Il lettore affezionato della poesia di Ovidio potrebbe pensare che anche sotto questo aspetto vada misurata la riconversione, nell’opera di poesia triste, della (prima)16 opera di poesia lieta. Ma soprattutto, fatto ancor più rilevante, tre sono 15 16

Sul fondamentale atto della ricezione rappresentato in trist. 3.1, cfr. Newlands 1997, p. 63: «indeed, the poem begins and ends with manus in a prominent position at the end of the first and last cou­ plet». La riedizione degli Amores in tre libri è in ogni caso posteriore alla Medea, a (forse non tutte) le Heroides e, come sembra, all’Ars: lo dimostra, all’apparenza, am. 2.18. La questione circa la doppia edizione degli Amores, e relative datazioni, è notoriamente oggetto di un ampio e potenzialmen­ te infinito dibattito, non privo di posizioni estreme assunte dagli studiosi: cfr. Holzberg 1997 per l’ipotesi che non siano mai esistite una ‘prima’ e una ‘seconda’ edizione, e che la notizia fornita da

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i libri dell’Ars, l’opera formalmente ed esplicitamente giudicata causa della condanna: non sarà da ritenersi infondata l’idea che i tre libri di Tristia ora completati possano finalmente sostituire i tre libri­figli ‘diseredati’ dal poeta­padre.17 È utile a questo punto passare alla considerazione anche di trist. 3.14, il componi­ mento conclusivo di trist.  3  – e quindi di tutti i Tristia? L’insistenza sul numero tre appare particolarmente marcata in questa elegia: rivolgendosi a un amico bibliotecario (forse Igino, il responsabile della biblioteca palatina),18 il poeta gli chiede di impegnarsi a mantenere in città il corpus delle sue opere, che sostituisce il ‘corpo’ fisico del poeta relegato (v. 8, quaque potes, retine corpus in urbe meum);19 alle opere del poeta andranno naturalmente sottratti i libri dell’Ars (cfr. vv. 5 s., exceptis … solis / Artibus), i tre figli degeneri che hanno condotto il padre alla rovina (vv. 17 ss.): tres mihi sunt nati contagia nostra secuti: cetera fac curae sit tibi turba palam. sunt quoque mutatae, ter quinque volumina, formae, carmina de domini funere rapta sui. […] hoc quoque nescioquid nostris appone libellis, diverso missum quod tibi ab orbe venit.

La richiesta di accogliere hoc quoque, cioè trist. 3, fra le opere dell’autore all’interno di una biblioteca dipende innanzitutto, ancora una volta, da quanto accaduto in trist. 3.1, nei cui ultimi versi è descritta la mancata accoglienza del liber nelle biblioteche pub­ bliche della città: dopo essere entrato in quella costruita da Augusto sul Palatino, il libro aveva cercato i fratres, a eccezione dell’Ars (vv. 65 s., quaerebam fratres, exceptis scilicet illis, / quos suus optaret non genuisse pater); ma il custos aveva presto provveduto a cacciarlo fuori (vv. 67 s.). Dal momento che nemmeno le altre due biblioteche erano state disposte ad accoglierlo, il libro era stato costretto a chiedere «nel frattempo» (v. 79, interea) ospitalità ai privati cittadini (v. 80, privato liceat delituisse loco). Il cu-

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Ovidio nell’epigramma introduttivo vada interpretata nell’ambito di un raffinato gioco letterario (la tesi è ulteriormente sviluppata in Bretzigheimer 2001). Adottando tuttavia la posizione preva­ lente (per cui cfr. da ultimo Harrison 2017), vedremo infra, pp. 95 ss. come Ovidio sembri tenere conto, nei Tristia, anche della prima edizione in cinque libri. L’elaborazione di questo punto, e più in generale la considerazione dei rapporti fra Ovidio e il ‘lettore affezionato’ instaurati anche nelle opere dell’esilio, traggono beneficio dalle fondamentali pagine di Citroni 1995, pp. 442 ss. Sull’identificazione, e sulla possibilità che a lui si riferisca Ovidio anche in trist. 3.1, cfr. Luck 1967– 77, II p. 227. Sull’idea del «Gesamtwerk» presupposta in questo e in altri passi delle opere dell’esilio, cfr. Ko­ renjak 2005, p. 229; è importante a mio avviso osservare che, a fronte della tendenza di Ovidio esule (e non solo) a rappresentare la propria opera poetica come un corpus unitario, questo corpus appare regolarmente suscettibile di nuove aggiunte, mettendo così ogni volta in discussione l’im­ pressione della sua ‘compiutezza’.

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stos responsabile della cacciata del libro dalla biblioteca palatina in trist. 3.1 potrebbe essere lo stesso cultor et antistes ora apostrofato in trist. 3.14: il primo e l’ultimo com­ ponimento del libro rappresenterebbero così gli estremi di un arco temporale in cui la posizione del libro è (auspicabilmente) mutata. Dalla repulsa di trist. 3.1.81 si è passati alla richiesta della «aggiunta» formulata in trist. 3.14.25 (appone: il gesto della ‘colloca­ zione a scaffale’), processo avvenuto nello spazio entro cui si è esaurito il tempo della provvisoria accoglienza privata di trist. 3.1. Il mutamento della condizione del liber da rifugiato ad accolto nella biblioteca, un mutamento occorso a seguito della lettura dei carmi composti in un frangente di difficoltà estrema (cfr. trist.  3.14.29 s.), delimita il libro e lo completa, sancendone la fine nel congedo rivolto all’amico bibliotecario.20 L’accenno ai tre libri dell’Ars, ai quindici delle Metamorfosi e, più in generale, all’in­ tero corpus dei libri­nati del poeta­pater nei versi sopra menzionati non si rifà tuttavia soltanto al piccolo episodio narrato in trist. 3.1, ma anche a ciò che il poeta ha già af­ fermato in trist. 1.1. Nella sezione finale di quell’elegia, il poeta ha infatti immaginato l’arrivo del liber – cioè trist. 1 – nel penetrale di casa propria e, ancora una volta, l’in­ contro con i fratres (vv. 105 ss.). Le evidenti riprese verbali da quei versi in trist. 3.14 contribuiscono a stabilire un legame molto stretto fra la prima elegia del primo libro e l’ultima elegia del terzo. Oltre al lessico delle relazioni familiari sfruttato in entrambi i testi (e anche in trist. 3.1), la distinzione fra i tre libri dell’Ars e la cetera turba degli altri libri che possono mostrarsi palam è espressa nei medesimi termini (cfr. trist. 1.1.109 ss., cetera turba palam titulos ostendet apertos […] tres procul obscura latitantes parte videbis ~ trist. 3.14.17 s., tres mihi sunt nati contagia nostra secuti: / cetera fac curae sit tibi turba palam); fra gli altri, in entrambi i passi si distinguono i quindici libri delle Metamorfosi, definiti attraverso il medesimo verso ‘formulare’ (trist. 1.1.117 = 3.14.19). La ri­ proposizione delle stesse immagini e delle medesime espressioni individua in trist. 3.14 la chiusura di ciò che trist. 1.1 ha avviato: i tre libri di Tristia, ora completati, possono finalmente sostituire, nello spazio fisico dello scaffale, i tre figli ‘parricidi’ che hanno provocato la disgrazia del loro autore.21 Ancora una volta, si impone il confronto con la situazione offerta dalla seconda edi­ zione degli Amores. Alla coppia di elegie formata da am. 3.1 e 3.15 è possibile riconoscere una funzione analoga a quella che abbiamo ora individuato per trist. 3.1 e 3.14: le due elegie dell’opera giovanile rappresentavano da un lato i confini del singolo terzo libro, 20 21

Wulfram 2008, p. 370 privilegia una lettura dei due componimenti che tiene conto della fabula più che dell’intreccio: «für den Buchleser entsteht […] der Eindruck, als wisse das Dichter­Ich in trist. 3, 14 noch nicht, was dem liber in trist. 3, 1 widerfahren sollte». È possibile individuare un’ulteriore evoluzione nel passaggio dallo scaffale domestico del poeta in trist. 1.1 alla dimora dei privati cittadini in trist. 3.1 allo scaffale della biblioteca pubblica in trist. 3.14: un lungo percorso che si fa metafora della lenta (ri)­accoglienza delle opere di Ovidio a Roma a seguito della condanna. Sulla ripetizione del numero tre già in trist. 1.1 (in riferimento ai tre libri­ figli dell’Ars) si veda l’osservazione di Mordine 2010, p. 543 n. 67 a proposito di un possibile ironico rimando all’augusteo ius trium liberorum.

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di cui si metteva in evidenza l’estensione in uno spazio di tempo limitato fin dall’inizio (cfr. am. 3.1.67 ss., exiguum vati concede, Tragoedia, tempus …); dall’altro, l’intera opera intitolata Amores terminava insieme col terzo libro: congedata Venere, il poeta si rivol­ geva infatti alla pratica di una poesia più impegnata.22 Anche i componimenti che de­ limitano il terzo libro dei Tristia si fanno espressione di un’evoluzione interna al libro avvenuta in un arco di tempo definito dall’interea di trist. 3.1.79, il tempo necessario a che il liber di elegie tristi, dopo l’accesso negato alle biblioteche pubbliche in trist. 3.1, si guadagni il passaggio dalle plebeiae manus dei privati cittadini al posto sullo scaffale della biblioteca governata dal sanctus antistes; una volta guadagnato quel posto, la so­ stituzione dei tre libri dell’Ars sarà completa, e completata potrà ritenersi, forse, anche la composizione dei Tristia.23 O forse no. Come già avvenuto proprio in trist. 1, l’apparente chiusura cui le elegie iniziale e finale di trist. 3 sembrano condurre non soltanto il singolo terzo libro, ma l’intera collezione di Tristia – una chiusura intuibile sulla base, da un lato, del comples­ so rapporto intrecciato fra queste due elegie e trist. 1.1; dall’altro, del confronto con le collezioni di poesia lieta, Amores e Ars – lascia spazio a un senso di incompiutezza in grado di far nuovamente presagire al lettore dei Tristia la possibilità che questa poesia non sia affatto terminata, ma che sia anzi legittimo attendersi una prosecuzione, i cui modi e le cui forme rimangono questa volta drammaticamente incerti. Negli ultimi versi di trist. 3.14, come abbiamo già accennato, Ovidio afferma di trovarsi circondato dalle bellicose popolazioni barbare della zona, una vicinanza che sembra esercitare un influsso negativo sul suo linguaggio, rischiando addirittura di sottrargli la capacità di parlare (vv. 45 ss.): dicere saepe aliquid conanti (turpe fateri) verba mihi desunt dedidicique loqui. Threicio Scythicoque fere circumsonor ore, et videor Geticis scribere posse modis.

La possibilità qui soltanto presagita dal poeta, l’essere cioè in grado di scrivere in ritmo getico, appare tanto poco credibile per l’interprete odierno quanto irresistibilmente intrigante per il lettore che, giunto al termine di trist. 3, non può ancora sapere se e so­

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Ciò che del resto stava già facendo prima che Cupido lo colpisse con la propria freccia: am. 1.1.1 s.; cfr. anche 2.1.11 ss., ausus eram, memini, caelestia dicere bella …; sulla novità di questa posa nel rap­ porto con la tradizione elegiaca, cfr. Labate 1984, pp. 15 ss. Sulla possibilità che trist. 3 fosse originariamente concepito come ultimo libro dei Tristia, cfr. an­ cora Citroni 1995, pp. 454 s.: «non escluderei che scrivendo questo epilogo [cioè trist. 3.14], con il quale sancisce per il suo «editore», e davanti al suo pubblico, l’aggiunta della nuova opera elegiaca al corpus dei suoi scritti, Ovidio mettesse in conto l’eventualità di non scrivere altri libri di Tristia: questa elegia […] poteva intanto costituire un buon epilogo per l’intera opera».

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prattutto che cosa Ovidio invierà la prossima volta.24 Gli stessi versi citati, d’altronde, sono un buon esempio del modo in cui questa nuova poesia ‘barbara’ potrà suonare alle orecchie del lettore romano.25 Al di là dell’effettiva competenza in lingua getica che l’autore sarà in grado di dimostrare, è l’eventualità stessa di una possibile ulteriore ‘ag­ giunta’ a costituire l’implicito annuncio della prosecuzione (videor … scribere posse), e a generare nel lettore l’attesa di qualcosa che seguirà anche trist. 3. In fondo, il parallelo con gli Amores sopra esaminato potrebbe sì indurre a considerare questo come l’ultimo libro dei Tristia, ma non impedisce di credere che, ora come allora, altra poesia seguirà, seppur di altro genere: la svolta allora indirizzata alla tragedia sembra ora puntare a una tipologia poetica del tutto inedita, i Getici modi di un poeta ‘imbarbarito’. D’altro canto, queste medesime considerazioni in chiusura di libro rappresentano un’eloquente prova del fatto che il poeta esule non ha affatto ottenuto (ancora) quanto richiesto in trist. 2, libro che a sua volta si concludeva con la preghiera rivolta ad Augu­ sto perché concedesse al poeta un tutius exilium pauloque quietius (v. 577): la minacciosa presenza delle popolazioni barbare, la vicinanza di arcus et arma (v. 38), l’assenza di un luogo riparato in cui comporre (v. 41, non quo secedam locus est) rendono la condizione descritta dal poeta in trist. 3.14 tutt’altro che «sicura» e «tranquilla» (cfr. v. 52, sortis et excusa condicione meae).26 Se dunque il componimento finale del terzo libro, come abbiamo visto, stabilisce un ideale punto di conclusione rispetto a trist. 1.1, esso confer­ ma allo stesso tempo la perdurante validità delle richieste formulate in trist. 2 e rende pertanto il fine ultimo della poesia finora prodotta dall’esule decisamente incompiuto. Secondo questa prospettiva, è interessante constatare che nella medesima elegia Ovidio torna a parlare dell’incompiutezza delle Metamorfosi: i vv. 19 ss. di trist. 3.14 ri­ prendono, talvolta alla lettera, quanto già affermato in trist. 1.7.27 Il lettore è così riman­ dato all’epigramma che nell’elegia del primo libro il poeta aveva comunicato dover essere la necessaria aggiunta al poema delle forme mutevoli, di cui era così resa nota l’involontaria imperfezione (vv. 35 ss.):

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Com’è noto, l’annuncio implicato da questi versi troverà il proprio compimento in Pont. 4.13, dove Ovidio annuncerà l’avvenuta composizione del libellus in lingua getica (vv. 19 s.): nonostante la plausibile falsità della notizia, che in ogni caso ha suscitato un vivace dibattito fra gli studiosi, si tratta di un ulteriore mezzo di continuità stabilita dal poeta fra le proprie opere; per alcune sugge­ stive interpretazioni della notizia, cfr. Barchiesi 1994, pp. 27 ss.; Williams 1994, pp. 91 ss. Cfr. ancora Barchiesi 1994, p. 27 per un’osservazione analoga a proposito di trist. 5.12.57 s., un distico in cui Ovidio afferma di aver ormai imparato a parlare getico e sarmatico. Sui rimandi a trist. 2 contenuti in trist. 3.1, una serie di spunti interessanti ancora in Newlands 1997, passim (a p. 75 si suggerisce l’idea che trist. 3.1 «forms the peroration to Tr. 2, the final, climatic part of the defence in which the lawyer appeals to the audience’s emotions by presenting the grief­ struck family»). Cfr. in part. il v. 20, carmina de domini funere rapta sui, che ripete trist. 1.7.38, sed quasi de domini funere rapta sui; si confrontino inoltre trist. 3.14.22, certius a summa nomen habere manu e trist. 1.7.28, nesciet his summam siquis abesse manum; su trist. 1.7 e sul suo rapporto con le Metamorfosi, decisivo Hinds 1985, pp. 21 ss.

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‘orba parente suo quicumque volumina tangis, his saltem vestra detur in urbe locus. quoque magis faveas, haec non sunt edita ab ipso, sed quasi de domini funere rapta sui. quicquid in his igitur vitii rude carmen habebit, emendaturus, si licuisset, eram.’

Gli orba parente suo … volumina di cui si parla nell’epigramma, i libri di Metamorfosi, trovano un referente più ampio in trist. 3.14.15 s. (hanc [= la stirps haec progeniesque del verso precedente] tibi commendo, quae quo magis orba parente est, / hoc tibi tutori sarcina maior erit), dove si parla della totalità dei libelli di Ovidio, e in particolare dei nuovi libri ‘orfani’ nati dopo la ‘morte’ del loro autore – i libri di Tristia, ora affidati alla tutela dell’amico bibliotecario. A lui, così come a tutti gli anonimi lectores amici apostrofati in trist. 3.1, il poeta chiede ciò che nell’epigramma di trist. 1.7 aveva chiesto per le Metamorfosi, un posto in città (his saltem vestra detur in urbe locus: cfr. trist. 3.1.80, privato liceat delituisse loco). Allo stesso modo, la presenza di errori nelle Metamorfosi, per cui in trist. 1.7 si chiedeva la venia dei lettori consapevoli della condanna subita dall’autore (v. 31, et veniam pro laude peto), risuona ora nel timore di aver inserito in trist. 3, accan­ to alle parole latine, anche dei Pontica verba: nell’ultimo distico del libro il poeta non può che chiedere nuovamente scusa (v. 51, qualemcumque igitur venia dignare libellum). Come si vede, al libellus costituito da trist. 3 – ma si può pensare a tutta la serie di Tristia finora composti, libri che risentono dei difetti compositivi dovuti alle circo­ stanze estreme in cui il poeta si trova a scriverli – vengono attribuiti i medesimi ‘segnali dell’incompiutezza’ già riconosciuti al poema metamorfico, rievocati proprio nell’ele­ gia finale di trist. 3.28 Se tuttavia nel caso delle Metamorfosi si trattava di un’incompiu­ tezza involontaria dovuta al brusco strappo provocato dalla condanna, l’incompiu­ tezza dei Tristia si rende la cifra che intrinsecamente ne caratterizza la composizione: un’incessante serie di raccolte che fanno mostra dei propri difetti e delle proprie man­ canze, fino a che qualcuno non torni a concedere al poeta la possibilità di comporre, finalmente, poesia davvero ‘ri­finita’ in ogni sua parte. 2.2 Fuochi che salvano, morti che vivono: trist. 4.1 e 4.10 Appare pertanto a maggior ragione significativo che la medesima sorte toccata alle Metamorfosi secondo la rievocazione di trist. 1.7 – in particolare, il tentativo di distruzione

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Di una simile ‘incompiutezza formale’ suggerita dalla descrizione del liber disadorno in trist. 1.1 parla Mordine 2010, p. 528.

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affidato alle fiamme e l’inopinato salvataggio dovuto all’esistenza di più copie29 – venga ripresa in entrambe le elegie iniziale e finale di trist. 4, il libro che, l’anno seguente, dà puntualmente seguito alla collezione di Tristia finora inviati. Negli ultimi versi di trist. 4.1, il poeta lamenta il fatto che i vulnera subiti sembrano non invecchiare mai (v. 97, corque vetusta meum, tamquam nova, vulnera sentit [v. l. novit]):30 l’eterno rinnova­ mento dei dolori dell’esilio, la cui durata ha subito un’ulteriore estensione, sembra im­ prigionare Ovidio in una dimensione temporale ciclica, inducendolo a dare vecchia­ nuova espressione a quei dolori mediante il nuovo libro che risulta così annunciato.31 Il ricorrente pensiero del casus, della rovinosa «caduta», produce di conseguenza un atteggiamento ambivalente dell’esule nei confronti della propria attività poetica (vv. 99 ss.): cum vice mutata, qui sim fuerimque, recordor, et, tulerit quo me casus et unde, subit, saepe manus demens, studiis irata sibique, misit in arsuros carmina nostra focos. atque, ea de multis quoniam non multa supersunt, cum venia facito, quisquis es, ista legas.

La venia che anche qui il poeta torna a chiedere ai suoi lettori dipende dal fatto che i carmina raccolti in questa ulteriore aggiunta ai Tristia risultano l’insieme di un casuale salvataggio dalle fiamme cui Ovidio ha destinato molti altri versi ora distrutti. Il ge­ sto (auto)­annientante del poeta nei confronti dei carmina dell’esilio si pone in aperto contrasto rispetto alla funzione consolatoria che alla propria Musa, come ora vedremo, egli ha riconosciuto nella prima parte di questa stessa elegia; il desiderio di annullare la propria attività poetica e di attribuire a essa un limite – gesto che appunto ripete quello già praticato nei confronti delle Metamorfosi distrutte e salvate insieme – risulta tutta­ via sopravanzato dalla più forte quanto combattuta istanza alla prosecuzione: ciò che si fa specchio dell’ambiguo rapporto di odio­amore che l’esule intrattiene con la poesia, giudicata insieme causa della disgrazia e motivo di consolazione. Fra le ragioni che avevano spinto il poeta a dare fuoco al proprio maius opus c’era anche il fatto che esso risultava adhuc crescens (trist. 1.7.22), vale a dire privo di quella summa manus in grado

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Sul modello biografico virgiliano qui presupposto (l’ordine di dare alle fiamme l’Eneide incompiu­ ta), cfr. Hinds 1985, p. 22; Barchiesi – Hardie 2010, pp. 62 s. Fra le due lezioni alternative mi sembra preferibile sentit (così Hall), considerati la poco plausibile cacofonia della sequenza nova-novit e il parallelo offerto da trist. 1.1.81, me quoque, quae sensi, fateor Iovis arma timere: la ferita provocata dal fulmen di Giove­Augusto è tuttora fresca nella percezione del poeta, all’inizio del quarto come del primo libro; cfr. inoltre trist. 3.8.14, et, quem sensisti, rite precare deum. La variante novit potrebbe essere stata suggerita da trist. 4.6.27, nec tam nota mihi, quam sunt, mala nostra fuerunt, nel contesto di un passo concettualmente molto vicino. Sul modello, qui presupposto, dei supplizi eterni inflitti ai celebri dannati degli Inferi (in particola­ re Tizio­Prometeo), cfr. infra, p. 136 n. 144.

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di renderlo definitivamente ‘compiuto’; ma l’idea di una ‘crescita’ progressiva risulta ora il principio che informa di sé i Tristia, i libri­figli perennemente ‘incompiuti’ che continuano a «crescere» non tanto in rifinitura formale (un’esigenza ormai apparen­ temente accantonata), quanto in numero e in aggiunta: un sistema di composizione cui l’esule è costretto dalla circostanza biografica che ne determina l’opera.32 Da trist. 4.10.61 ss., versi che seguono la menzione di Corinna e quindi degli Amores, veniamo a sapere che la consegna al fuoco dei carmi poco riusciti costituisce una pratica che Ovidio ha seguito fin dagli anni giovanili (multa quidem scripsi, sed, quae vitiosa putavi, / emendaturis ignibus ipse dedi); al momento della condanna, inoltre, il poeta, adirato contro i propri stessi carmina, ha deciso di bruciare quaedam placitura (vv. 63 s.). Quanto all’opera di elegia erotica, va forse rintracciato un certo grado di iro­ nia nell’implicito collegamento tra il fuoco (reale) che brucia i carmi vitiosa e il fuoco (metaforico) che ha ‘bruciato’ il poeta­amante (v. 67, cum tamen hic essem minimoque accenderer igni …; cfr. anche il v. 45, saepe suos solitus recitare Propertius ignes): gli ignes del poeta innamorato sono serviti ad alimentare, più che a distruggere, i libri che hanno dato voce alle passioni dell’amans.33 Il quarto libro dei Tristia si è aperto con il riconoscimento in questi libelli di quel carattere ‘vizioso’ che in altri tempi ne avrebbe garantito l’eliminazione (4.1.1 s., siqua meis fuerint, ut erunt, vitiosa libellis, / excusata suo tempore, lector, habe);34 il distico fa eco ai versi con cui si è (appena) concluso il libro precedente (3.14.52, sortis et excusa condicione meae), una ripetizione che marca l’inizio del nuovo ciclo di carmi tristi frustrando l’apparente conclusione cui sembrava essere giunta la collezione dei Tristia. Così, l’immagine del fuoco cui vengono con­ segnati i carmina vitiosa del poeta prima e dopo la condanna viene riproposta a più riprese nelle elegie paratestuali ora menzionate: la rete di rimandi induce a pensare che questo fuoco cui il poeta continuamente affida i propri versi, più che eliminarli per sempre, sortisca l’effetto opposto, continuando anzi a salvarne abbastanza da ri­

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Vale ancora una volta la pena di richiamare il parallelo offerto dai Fasti e dalla loro composizione progressiva e simultanea rispetto al passaggio del tempo sancito dal calendario: cfr. 2.1, cum carmine crescit et annus con Volk 1997. Si tratta di un principio poetico­compositivo non estraneo al ge­ nere erotico: cfr. in part. Verg. ecl. 10.54 (le parole di Gallo), crescent illae [scil. le arbores], crescetis, amores; cfr. infra, pp. 212 ss. per alcuni spunti sul confronto fra l’Ovidio dell’esilio e Properzio quanto all’idea della fine non­fine dell’opera letteraria. All’idea della ‘crescita’ dell’opera poetica in corso è attribuita una sfumatura parzialmente diversa in Pont. 3.9.21 s., scribentem iuvat ipse labor minuitque laborem, / cumque suo crescens pectore fervet opus. Questo gioco non impedisce che nella notizia fornita da Ovidio possa essere rintracciato un fondo di verità: si può immaginare che i carmi di Amores dati alle fiamme siano quelli non inclusi nella seconda edizione in tre libri. Il multa quidem scripsi del v. 61 potrebbe in ogni caso «suffice[s] for all of Ovid’s work between the Amores and the Metamorphoses» (Fredericks 1976, p. 144); un sot­ tinteso ironico all’affermazione del poeta circa le potenzialità correttive del fuoco riconosce Luck 1967–77 ad loc. Sul doppio significato dell’aggettivo vitiosus («imperfetto», ma anche «perverso»), cfr. l’osserva­ zione di Barchiesi 1994, p. 29.

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empire nuovi libelli di poesia ‘difettosa’.35 Dal fuoco del rogo funebre, Ovidio afferma sempre in trist.  4.10, potrebbero del resto essersi salvate le umbrae dei suoi genitori (vv. 85 s., si tamen extinctis aliquid nisi nomina restant, / et gracilis structos effugit umbra rogos  …); allo stesso modo, nell’orgoglioso finale dell’elegia­sphragis, il poeta preannuncia la propria sopravvivenza dopo la morte (v. 130, protinus ut moriar, non ero, terra, tuus): una sopravvivenza favorita anche dai carmi tristi dell’esilio (cfr. v. 112, tristia … carmine fata levo), sopravvissuti essi per primi al fuoco che avrebbe dovuto senz’altro distruggerli.36 Accanto all’immagine del fuoco (falso) distruttore dei carmina, è possibile rintrac­ ciare altri punti di contatto fra prima e ultima elegia di trist. 4: ancora una volta, a questi rimandi che ‘circondano’ il libro andrà attribuita una funzione che abbiamo ormai im­ parato a riconoscere, la delimitazione del libro che in questo modo guadagna in unità e (apparente) chiusura. In trist. 4 è infatti possibile riconoscere un nuovo percorso che il libro – e, insieme con esso, l’autore – svolge nell’arco della sua ‘durata’, dall’inizio alla fine: se in trist. 3 abbiamo assistito al problematico tragitto del liber che, una volta giun­ to a Roma dal Ponto, non ha potuto inizialmente raggiungere la meta ultima prevista per sé (lo scaffale della biblioteca pubblica), salvo ottenerla al termine della silloge nell’appello all’antistes, in trist. 4 il tragitto del liber è sostituito dal viaggio compiuto dalle divinità tutelari della poesia, le Muse.37 Il nuovo libro si apre per l’appunto con l’esaltazione, da parte del poeta esule, del potere terapeutico e consolatorio della poe­ sia, in grado di ridurre la percezione delle fatiche e dei pericoli nei quali egli è costretto a vivere (trist. 4.1.19 ss., me quoque Musa levat Ponti loca iussa petentem:38 / sola comes nostrae perstitit illa fugae; / sola nec insidias, Sinti nec militis ensem, / nec mare nec ventos barbariamque timet).39 La capacità di levare le pene dell’esilio che soltanto la Musa può offrire è ribadita più tardi ai vv. 49 s.:

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Per un commento sulla ‘inutilità’ del fuoco distruttore di trist. 1.7 si veda Casali 2016, p. 58 (e n. 54 per bibliografia sul collegamento fra i quaedam placitura di trist. 4.10.63 e le Metamorfosi ‘bruciate’ di trist. 1.7). L’immagine del fuoco distruttore torna anche in trist. 5.12.61 ss., scribimus et scriptos absumimus igne libellos: / exitus est studii parva favilla mei … – ciò che desta una certa impressione detto al termine di un libro che sarà ormai il quinto di una (lunga) serie. Sul ruolo della Musa nella poesia dell’esilio, cfr. le osservazioni di Fitzgerald 2020, p. 164. Questo verso potrebbe nascondere una difficoltà testuale, che Lachmann cercava di risolvere con­ getturando tenentem al posto del tràdito petentem: non ci sono dubbi, infatti, che a questo punto dei Tristia il poeta abbia ormai raggiunto Tomi; cfr. però i vv. 59 ss.: […] mala, quae toto patior iactatus in orbe, / dum miser Euxini litora laeva peto. / nec tamen, ut veni, levior fortuna malorum est … Sem­ bra che Ovidio, all’inizio del quarto libro dei Tristia, voglia in qualche modo ‘riassumere’ gli spazi occupati nei libri precedenti, il viaggio e la barbara terra: cfr. anche i vv. 21 s. (citati qui di seguito) e 51 s. (partim pelago partim … terra / vel rate … vel pede, con allusione al doppio viaggio descritto in trist. 1.10). Questi versi sono preceduti da un elenco di exempla che vorrebbero dimostrare la capacità del can­ to di alleviare le fatiche e le sofferenze; le attività elencate si distinguono per la loro ‘estensione’ nel tempo (si noti in particolare l’uso di verbi quali mollit, v. 6; trahit, v. 8, ripetuto ai vv. 13 e 17; mulcet,

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iure deas igitur veneror mala nostra levantes, sollicitae comites ex Helicone fugae.

Uniche compagne dell’esilio, le Muse hanno lasciato la sede dell’Elicona per sostenere il poeta nella sua sventura, raggiungendolo là dove egli sta scontando la condanna. Se si torna ora all’elegia finale del libro, la celebre ‘autobiografia’ poetica dell’esule enfaticamente concepita secondo un modello sfragistico che ne rende di per sé eviden­ te il valore conclusivo,40 l’elogio della Musa (al singolare) contenuto negli ultimi versi comprende, fra l’altro, un’osservazione dall’alto significato poetologico (vv. 119 s.): tu dux et comes es, tu nos abducis ab Histro, in medioque mihi das Helicone locum.

Il posizionamento dell’esule sul monte sacro alle Muse giunge al termine del racconto di una vita dedicata alla poesia, i cui esordi avevano tuttavia rischiato di allontanare il poeta da una vocazione che, secondo le parole del padre, si sarebbe rivelata uno studium inutile (v. 21) – giudizio severo, a seguito del quale il giovane Ovidio aveva tempo­ raneamente «abbandonato l’Elicona» (vv. 23 s., motus eram dictis, totoque Helicone relicto / scribere temptabam verba soluta modis); assecondata infine quella vocazione, il poeta adesso si trova, condottovi dalla Musa, su quel medesimo Elicona da cui le Muse si sono mosse a inizio libro al fine di «sollevare» il poeta in disgrazia. La posi­ zione raggiunta dall’esule ‘tratto in salvo’ risulta poeticamente assai connotata: si tratta del luogo in cui, prima di Ovidio, le Muse hanno condotto Callimaco all’inizio degli Aitia, permettendogli così di formulare le sue domande «sugli antichissimi eroi e sui beati».41 Il grandioso elogio della Musa con cui si conclude trist. 4.10 sancisce dunque

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v. 12; attenuasse, v. 16): a esse fa riscontro l’attività poetica dell’esule, parimenti ‘estesa’ mediante l’aggiunta del nuovo libro di Tristia. Sul motivo della poesia come «Selbsttröstung» è da vedere soprattutto Stroh 1981 (trist. 4.1 è discussa alle pp. 2661 ss.). Cfr. in part. le ottime osservazioni di Fairweather 1987, p. 181: la studiosa ne esamina la corrispon­ denza con il finale delle Georgiche e, soprattutto, con Prop. 4.11, l’elegia ‘autobiografica’ di Cornelia; di quattro libri si componeva anche l’opera di Gallo, tanto che «one would give much to know whether Gallus, too, concluded his fourth book with an apologia» (ivi, n. 9). Sul carattere sfragi­ stico di trist. 4.10, cfr. anche Ciccarelli 1997; sulla possibilità che con trist. 4 (come già con trist. 3) dovessero terminare tutti i Tristia, cfr. Luck 1967–77, II p. 231; Evans 1983, p. 87; Citroni 1995, p. 455; contra, Holzberg 2002, p. 186. Il carattere ‘riassuntivo’ di trist. 4.10 rispetto all’intera carriera poetica ovidiana è ampiamente esaminato da Casali 2016, che rileva la sorprendente circostanza per cui nella nostra elegia Ovidio si presenta come poeta esclusivamente erotico. Sui rapporti fra Ovidio e Virgilio in termini di carriera poetica dovuti alla possibile allusione in trist. 4.10.1 al cosiddetto ‘pre­proemio’ dell’Eneide, cfr. Farrell 2004, pp. 48 ss. (un’ipotesi che naturalmente presuppone la conoscenza del pre­proemio da parte di Ovidio, negata da chi lo ritiene un testo post­ovidiano, nonché dipendente – fra gli altri – dallo stesso passo di trist. 4.10.1, come p. es. Gamberale 1991). Così informa l’anonimo autore di AP 7.42, l’epigramma che costituisce una delle principali testi­ monianze circa l’episodio (il testo del ‘sogno’ negli Aitia è lacunoso); cfr. in part. i vv. 5 s., εὖτέ μιν ἐκ Λιβύης ἀναείρας [scil. l’ὄνειαρ di v. 1] εἰς Ἑλικῶνα / ἤγαγες ἐν μέσσαις Πιερίδεσσι φέρων; su questo episodio, cfr. soprattutto Cameron 1995, pp.  369 ss.; Gullo 2015 ad loc. Fra le riprese

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l’ideale termine di un viaggio poetico – la discesa delle Muse ex Helicone annunciata a inizio libro e la collocazione del poeta in medio Helicone menzionato alla fine, che a sua volta suggella l’itinerario di un’autobiografia poetica durante la quale Ovidio ha corso il rischio di vedersi completamente precluso il monte sacro;42 attraverso questo viaggio l’esule è finalmente riuscito a fuggire dal luogo dell’esilio (tu nos abducis ab Histro), sfruttando i poteri di una tradizione letteraria in grado di contravvenire alla volontà di chi si è finora dimostrato tutt’altro che disposto a «condurre via» il poeta da Tomi. Vi sono poi altri elementi che contribuiscono a enfatizzare il carattere conclusivo dei versi finali di trist. 4.10: lo fanno senza dubbio i numerosi rimandi, ben individuati dalla critica, all’epilogo delle Metamorfosi.43 Particolarmente evidente appare la riscrit­ tura dell’ultimo verso del poema (si quid habent veri vatum praesagia, vivam) in trist. 4.10.129 s., si quid habent igitur vatum praesagia veri, / protinus ut moriar, non ero, terra, tuus; così il presente legor di trist. 4.10.128 risponde al futuro legar di met. 15.878, mentre l’altro verbo al presente del medesimo v. 128, dicor, richiama il parimenti ‘conclusivo’ dicar di Hor. carm. 3.30.10.44 Si può aggiungere che l’ultimo distico della nostra elegia, in cui si ringrazia il lector affezionato (sive favore tuli, sive hanc ego carmine famam, / iure tibi grates, candide lector, ago), oltre a riprendere il tema della fama ancora una volta da met. 15.878, si ricollega al primo distico di trist. 4, che come abbiamo visto conteneva un appello al lector perché perdonasse i vizi dei libelli composti in esilio.45 Come si può notare, il senso di chiusura convogliato da tutti questi elementi al ter­ mine di trist. 4.10 sembra assumere un significato ben più ampio rispetto al singolo contesto rappresentato dalla collezione dei Tristia: il ringraziamento alla Musa, che pure trae spunto dalla constatazione delle difficoltà dell’esilio riaffermando il potere sublimante della poesia rispetto alla triste contingenza del presente tomitano, si amplia e ‘straborda’ in un brano che coinvolge l’esperienza di Ovidio come poeta tout court; lo dimostrano il riferimento generalizzato all’ullum … opus del v. 124, nonché il con­ fronto – ancora una volta senza il rimando a un’opera o a un genere specifici – con i

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latine, cfr. Prop. 2.34.32 (notizia sul sogno di Callimaco) e 3.3.1 (un analogo sogno di Properzio stesso), senza naturalmente dimenticare il sogno di Ennio negli Annales (vv. 2–11 Sk., su cui cfr. Lucr. 1.117 s.). Il richiamo a Callimaco in trist. 4.10.119 s. è riconosciuto da Luck 1967–77 ad loc.; cfr. inoltre Fairweather 1987, pp. 192 s., dove fra l’altro si ricorda che «Callimachus returned to the subject of Helicon in the epilogue to the fourth and last book of the Aitia (fr. 112 Pf.)»: la doppia menzione dell’Elicona in trist. 4.1 e 4.10 potrebbe dunque fare eco alla doppia presenza del luogo sacro alle Muse all’inizio e alla fine degli Aitia. Si noti a questo punto il significato specifico che andrà attribuito alla doppia occorrenza del ver­ bo levare in trist. 4.1.19 e 49 (non soltanto «consolare, ri­sollevare», ma propriamente «sollevare, innalzare») alla luce della ‘ascesa’ di trist. 4.10, dove il verbo è fra l’altro nuovamente utilizzato al v. 112 (tristia, quo possum, carmine fata levo). Su questo punto si vedano i recenti Martelli 2013, pp. 167 ss. e Casali 2016, pp. 58 s. Già richiamato in am. 3.15.8, Paelignae dicar gloria gentis ego; sul significato del presente in sostitu­ zione del futuro, cfr. infra. Il sostantivo fama ricorre già al v. 122 di trist. 4.10, verso che include inoltre un’osservazione sul nomen del poeta (cfr. ancora infra), cui è da associare il nomen … indelebile di met. 15.876.

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magnos … poetas vissuti nella medesima epoca, rispetto ai quali Ovidio non ha nulla da invidiare quanto a gloria poetica e fama presso i lettori di tutto il mondo (vv. 125 ss.).46 La conclusione di trist. 4.10, elegia a sua volta conclusiva del libro di Tristia che la con­ tiene, sembra pertanto costituire il suggello, più che del singolo libro o della singola opera, dell’intera (auto)­biografia poetica del nostro autore, della ‘vita in versi’ che è stata appunto rievocata nel corso del nostro stesso testo indirizzato alla posteritas (v. 2). Sembrerebbe a questo punto difficile rintracciare anche in trist. 4.10, come già acca­ duto per i false endings degli altri libri dei Tristia, quei segnali della continuazione che potrebbero indurre ancora una volta il lettore a pensare che la poesia del nostro autore non sia affatto conclusa: ricevuto il ringraziamento nell’ultimo distico dell’elegia, il lector affezionato di Ovidio può essere portato a credere che queste siano davvero le ul­ time parole a lui rivolte dal poeta che ha tanto amato e seguito. C’è tuttavia un aspetto del brano in esame che, in questa prospettiva, varrebbe forse la pena di non trascurare: elogiando appunto la Musa requies e medicina dei mali dell’esilio (v. 118), Ovidio ha affermato che grazie a lei è riuscito a ottenere un sublime … nomen mentre era ancora in vita – cosa rarissima, dal momento che di solito, come ha riconosciuto ad esempio Properzio,47 la fama e l’apprezzamento per le virtù si ottengono soltanto dopo la morte (vv. 121 s.): tu mihi, quod rarum est, vivo sublime dedisti nomen, ab exequiis quod dare fama solet.

Il perfetto dedisti impiegato dal poeta nell’esametro potrebbe da un lato spiegarsi, come abbiamo già accennato, quale rimando allusivo all’epilogo delle Metamorfosi, in cui era sancita l’indistruttibilità del nomen del poeta per il futuro (cfr. 15.876, nomenque erit indelebile nostrum): la Musa potrebbe «aver dato» fama al poeta da vivo proprio attra­ verso il maius opus metamorfico, che ora è retrospettivamente richiamato. Eppure, c’è un’altra possibile spiegazione in grado di rendere conto del perfetto: Ovidio parla della propria fama conquistata da vivo proprio perché ora, in esilio, egli non è più vivo, ma sta appunto parlando ‘da dopo morto’, ab exequiis. Al di là dell’onnipresente imma­ gine, già presa in esame nel capitolo precedente, dell’esilio come morte, la prospettiva del poeta che parla dal proprio stesso tumulo è resa evidente fin dal primo verso di

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Questa ‘generalizzazione’ nei versi conclusivi di trist. 4.10 non compromette il fatto che nel corso della medesima autobiografia Ovidio si è presentato soprattutto come poeta d’amore – ciò che acutamente osserva il già citato Casali 2016, che pure non trascura i rimandi alle Metamorfosi pre­ senti, in particolare evidenza, nei versi finali dell’elegia. Prop. 3.1.21 s. (passo su cui è contrastivamente modellato il nostro di Ovidio); altre attestazioni del topos includono Hor. carm. 3.24.31 s.; epist. 2.1.12; Ov. am. 1.15.39; Pont. 3.4.73 s. Il motivo è tradizio­ nale almeno da Pind. paean. 2.55 s.; alla medesima idea per cui Ovidio ha ottenuto un nomen già da vivo il poeta ricorrerà anche in Pont. 4.16.3 s., l’ultima elegia dell’ultimo (?) libro ovidiano.

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trist. 4.10: ille ego qui fuerim …48 Essa aiuta ad attribuire un significato più preciso anche a quei verbi al presente impiegati al v. 128 che abbiamo visto riecheggiare i me­ desimi verbi coniugati al futuro nei passi sfragistici sopra menzionati (dicor ~ dicar; legor ~ legar): nella prospettiva di chi ora si trova nella condizione allora soltanto pre­ sagita («sarò detto», «sarò letto» – vale a dire, una volta morto), il poeta­defunto può constatare al presente l’effettiva realizzazione di quegli auspici.49 L’espediente del poeta parlante dopo morto rimane tuttavia necessariamente, e vo­ lutamente, imperfetto: un’incompiutezza che possiamo ricondurre al paradosso insito nell’immagine dell’esilio come ‘morte non­morte’ ora richiamato, la cui rilevanza per la poetica dell’esilio abbiamo già avuto modo di segnalare. Nella nostra elegia, il poeta si presenta da un lato come già morto (ciò che gli permette di constatare il succes­ so dei praesagia altrove formulati circa la propria sopravvivenza post mortem), ma è paradossalmente un morto che afferma di stare tuttora vivendo. Fra gli altri verbi al futuro ‘riconvertiti’ al presente non può infatti essere ignorato il vivo di v. 115 (ergo quod vivo durisque laboribus obsto …), che riproduce e ‘attualizza’ il vivam conclusivo delle Metamorfosi nel punto in cui, in trist. 4.10, termina il racconto degli eventi autobiogra­ fici e si apre l’elogio finale indirizzato alla Musa: una sopravvivenza (poetica) dopo la morte dell’esilio, ma allo stesso tempo una vita (reale) che effettivamente continua.50 La (auto)­biografia dell’esule si chiude così straordinariamente – quod rarum est – con la sorprendente constatazione di una vita che prosegue, laddove la narrazione dei fat­ ti biografici è costretta a interrompersi senza giungere alla conclusione che tradizio­ nalmente suggella ogni biografia, poetica e no: il racconto della morte. Come già in trist.  1.3, anche in questo caso il sottile scarto fra il piano del personaggio­Ovidio e quello del narratore­Ovidio dà luogo a un cortocircuito in cui apparente chiusura (rap­ presentata dalla morte) ed effettiva prosecuzione (nell’immagine della vita che conti­

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Sulla ricorrenza della formula nell’epigrafia funeraria, cfr. Ciccarelli 1997, pp. 64 s. (anche l’ultimo distico dell’elegia, che contiene l’appello e il ringraziamento al lector = viator, ricalca modelli epi­ grafici). Fredericks 1976, p. 143 considera l’associazione fra esilio e morte come spiegazione del fatto che l’autobiografia si conclude appunto con il riferimento all’esilio: «accordingly, he also di­ vides the poem into halves, each dealing with the demarcations of that career: its beginning in the events leading up to his decision to become a poet, and its end in his exile (early in the Tristia Ovid indicates that exile caused his ‘death’ as a poet)»; questo significa però trascurare l’intera sezione finale dell’elegia, dove si parla di vita (come ora vedremo). Sulla distinzione fra poeta e personag­ gio in trist. 4.10, in cui «c’est Ovide qui parle de Nason mort à la postérité, mais qui instaure une sorte de double registre où résonnent tour à tour les dires sur l’un et sur l’autre», cfr. Viarre 1993, p. 267. Cfr. Martelli 2013, p. 170. Ai vv. 109 s. Ovidio dà notizia dell’arrivo in terra sarmatica (tacta mihi tandem longis erroribus acto / iuncta pharetratis Sarmatis ora Getis); i due distici successivi, che concludono il racconto della bio­ grafia giunta ormai al presente, vedono il poeta impegnato nella composizione dei Tristia (vv. 111 s., hic ego … tristia, quo possum, carmine fata levo).

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nua) interagiscono per allontanare, una volta di più, l’impressione che da parte del no­ stro autore, e a proposito del nostro autore, sia stata veramente detta l’ultima parola.51 2.3 E infine, l’assenza di fine: trist. 5.1 e 5.14 E l’ultima parola, in effetti, non è detta: nel distico introduttivo di trist. 5 il poeta, rivol­ gendosi ancora una volta al lettore affezionato, rimarca con una certa enfasi il luogo da cui l’ulteriore nuovo libellus è stato inviato, la costa getica (1.1 s.):52 hunc quoque de Getico, nostri studiose, libellum litore praemissis quattuor adde meis.

Dopo l’ascesa all’Elicona sancita nei versi finali del libro precedente, la liberante fan­ tasia poetica grazie a cui Ovidio era riuscito ad abbandonare la terra del proprio esilio, il poeta di trist. 5 è decisamente tornato a parlare dalla bellicosa regione dove Augusto lo ha relegato.53 Il nuovo libro di poesia ‘getica’ si pone immediatamente di seguito ai quattro finora inviati, libri qui citati nella loro costituzione come raccolta (praemissis quattuor … meis), di cui il quinto addendum costituisce ora un’ulteriore integrazione, un’aggiunta (adde) che il lettore è materialmente invitato a realizzare disponendo l’ul­ timo arrivo di fianco ai quattro già collezionati.54 Il preciso riferimento ai quattro libri già inviati e l’esplicita esortazione all’aggiunta del quinto mostrano che, fin dal primo distico di trist. 5.1, il poeta non soltanto tema­ tizza il discorso circa il carattere ‘additivo’ delle collezioni di poesia triste che abbiamo riconosciuto come tratto caratteristico anche dei libri precedenti, ma direi che in que­ sta elegia ne offre una significativa e consapevole teorizzazione, che varrà senz’altro

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Per un confronto fra poesia e potere in termini di ‘ultima parola’, si veda in part. McGowan 2009, pp. 203 ss.: «in Ovid’s particular case, the art of poetry provides the exile with the power to speak after death and always gives him the last word». A proposito di questo distico, Wulfram 2008, p. 376 nota che l’indicazione fornita da Ovidio al lettore si spiega se si considera che «Ovid hatte mit trist.  4, 10 die Tradition der σφραγίς […] aufgegriffen und dadurch einen ‘versiegelnden’ Abschluß signalisiert, mit dem nun das äußerlich unveränderte Weitermachen in einen gewissen Widerspruch gerät»: questa ‘contraddizione’ co­ stituisce tuttavia l’esatto motivo, a mio avviso, per cui l’idea dei Tristia in quanto «Einheit» ‘com­ piuta’ si rende problematica. Casali 2016, pp.  42 s. riconosce in trist.  5.1 un «ripensamento, se non un pentimento, quasi una ritrattazione» di trist. 4.10: nell’elegia più recente, infatti, Ovidio si rammarica della propria ap­ partenenza al canone dei poeti erotici rivendicata al contrario con orgoglio nell’autobiografia (cfr. 4.10.51 ss. ~ 5.1.15 ss.); il lusor amorum (4.10.1) ~ Amoris (5.1.22) torna ora a fare riferimento all’Ars come causa della sua condanna – un riferimento che rimaneva incerto, eppure implicito, nella definizione di se stesso quale «cantore dei teneri amori» all’inizio di trist. 4.10. A questo invito all’aggiunta come segnale editoriale indirizzato al lettore contribuisce naturalmen­ te la formula hunc quoque, ripetuta al v. 3 (hic quoque talis erit …), per cui si rimanda a Citroni 1995, pp. 455 s. (e p. 467 n. 21 per la suggestiva ipotesi di un’origine focilidea della formula).

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la pena di esaminare nel dettaglio. L’elegia incipitaria di trist. 5 si distingue appunto per l’esplicitazione di questa caratteristica dei Tristia – ma le future Epistulae non saranno esenti da una diversa declinazione di questo medesimo tratto: la progressiva aggiunta dei diversi libri che abbiamo seguito dà infine voce (in questo che, in effetti, è l’ultimo libro dei Tristia; ma non l’ultimo libro inviato dal Ponto) a quella che vorrei definire una poetica dell’addizione fondata sul principio dell’aggiunta in quanto prodot­ to della continuazione cui questa poesia è costitutivamente costretta.55 In trist. 5.1, come vedremo, Ovidio stabilisce, per la prima volta in modo tanto lucido, un legame indissolubile fra poesia e condanna in termini di durata, informando i suoi lettori – fra i quali è naturalmente incluso l’imperatore – circa il fatto che la progressiva estensione della relegazione a Tomi ha prodotto e continuerà a produrre la parallela e concomi­ tante prosecuzione della poesia del relegato. Nella nostra elegia si parla dunque anche di fine – il modus che forse qualche lettore, Ovidio sospetta, potrebbe voler vedere assegnato ai Tristia – nonché di poesia futura (nuovamente lieta) che il poeta fin d’ora preannuncia, ma la cui realizzazione è inevitabilmente sottoposta all’inveramento del tanto sospirato richiamo.56 La poesia di Ovidio a Tomi si rivela insomma poesia dell’esilio in senso pieno e connotato: è la poesia che ‘copre’ l’esilio nella sua durata, e dall’esilio ricava non soltanto i contenuti, ma anche i tempi – ultima metamorfosi di un poeta che alla dimensione temporale (della poesia, della città, del mondo) ha sempre riservato una speciale considerazione. La volontà di conferire un fondamento teorico alla propria produzione di poesia triste – che del resto, giunta ormai al quinto libro, ha eguagliato il numero di libri di cui si componevano gli Amores nella loro prima edizione, che era stata anche la prima raccolta attraverso cui Ovidio si era fatto conoscere al pubblico57 – appare visibile fin dai versi iniziali di trist. 5.1 cui, dopo il distico introduttivo, tocca presentare un nuovo

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La necessità di una teorizzazione in questo punto dei Tristia dipende forse dalla particolare urgen­ za di giustificare l’ulteriore aggiunta dopo trist. 4.10, sul cui carattere evidentemente conclusivo ci siamo soffermati supra, p. 90. È significativo che, nel generale discredito riservato in passato dalla critica alle opere dell’esilio di Ovidio, trist. 5 veniva considerato una raccolta di elegie di ‘scarto’ pubblicate dall’autore già proiettato verso le Epistulae (sul carattere di ‘supplemento’ manifestato dall’ultimo libro dei Tristia, cfr. anche Luck 1967–77, II p.  277): quest’idea mostra una curiosa affinità con ciò che afferma Ovidio stesso a proposito del fatto che le sue raccolte costituiscono il casuale risultato del salvataggio dalla distruzione cui i carmina dell’esilio sarebbero in ogni caso destinati (cfr. trist. 4.1.101 ss.; 5.12.61 ss., passi discussi supra, pp. 87 ss.). Mi sembra più proficuo pen­ sare che la teorizzazione di trist. 5.1 sancisca invece un tratto caratterizzante di queste raccolte pre­ sente fin dall’inizio, l’eterna prosecuzione cui la poesia dell’esule è costretta in virtù del perdurare della condanna; sulla ‘costrizione alla scrittura’ percepita dall’esule si possono confrontare passi come trist. 4.1.29, vis me tenet ipsa sacrorum; Pont. 1.5.10, scribimus invita vixque coacta manu. Sugli specimina di poesia futura inseriti da Ovidio nelle elegie di Tomi sono da vedere le importanti pagine di Labate 1987, pp. 103 ss. Importa ricordare qui che, secondo un’ipotesi di fatto indimostrabile, c’è una buona probabilità che anche la prima edizione degli Amores in cinque libri sia stata pubblicata ‘libro dopo libro’: cfr. McKeown 1987, pp. 76 s.; Casali 2016, p. 38.

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libro poetico che di fatto non si differenzia da quelli finora inviati. In questi versi il poeta riprende allora l’associazione fra carattere triste della propria fortuna e carattere triste della poesia che di quella fortuna è espressione, un’associazione che era già attiva in trist. 1.1 (cfr. v. 10, fortunae memorem te decet esse meae) nonché in trist. 3.1 (cfr. v. 5, haec domini fortuna mei est …), senza tuttavia più utilizzare, in trist. 5.1, l’espediente del liber incultus che rispecchia lo stato del poeta in disgrazia, ma instaurando questa volta un dialogo diretto col lettore, cui viene così sottoposta una breve ma chiara descrizione della parabola biografica e poetica dell’autore – ciò che prosegue direttamente, come si accennava, dall’elegia finale del libro precedente, di cui trist. 5.1 si presenta come im­ mediata integrazione (vv. 3 ss.): hic quoque talis erit, qualis fortuna poetae: invenies toto carmine dulce nihil. flebilis ut noster status est, ita flebile carmen, materiae scripto conveniente suae. integer et laetus laeta et iuvenalia lusi: illa tamen nunc me composuisse piget. ut cecidi, subiti perago praeconia casus, sumque argumenti conditor ipse mei.

La poetica della nuova elegia triste di Ovidio è definita secondo i medesimi termini che erano serviti a definire la vecchia elegia lieta, qui esplicitamente richiamata: anche all’inizio degli Amores Ovidio si preoccupava infatti di adeguare la forma poetica al contenuto dei suoi carmi, e la forma elegiaca infine ‘stabilizzatasi’ a seguito dell’in­ tervento di Cupido si rendeva espressione del contenuto erotico cui il poeta era stato costretto;58 così ora, in esilio, il flebile carmen elegiaco si adegua al flebilis status del poe­ ta, una corrispondenza forse a maggior ragione opportuna in virtù del carattere origi­ nariamente ed etimologicamente lamentoso dell’elegia.59 Allo stesso modo, l’esplicita identificazione fra poeta e soggetto della poesia, parimenti ribadita nel passo citato (sumque argumenti conditor ipse mei), richiama una definizione che al poeta degli Amores aveva attribuito Tragedia nell’elegia incipitaria dell’ultimo libro (3.1.15 s.): et prior ‘ecquis erit’ dixit ‘tibi finis amandi, o argumenti lente poeta tui?’

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Cfr. in part. am. 1.1.2, materia conveniente modis ~ trist. 5.1.6, materiae scripto conveniente suae; 48, tibia funeribus convenit ista meis. Sul ribaltamento del rapporto fra poesia e vita nell’elegia degli Amores, e sul recupero della priorità attribuita alla vita sulla poesia nei carmi dell’esilio (con particolare riferimento al nostro passo di trist. 5.1), cfr. Labate 1987, pp. 92 s. Origini dell’elegia come lamento: cfr. Hor. ars 75 s. Sul recupero del carattere etimologico dell’ele­ gia da parte di Ovidio a Tomi, cfr. Lechi 1978, p. 2.

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La domanda bruscamente formulata da Tragedia, insieme con l’aggettivo lente rivolto al poeta, costituiva negli Amores un’esortazione drammatizzata attraverso cui Ovidio, come abbiamo già ricordato, annunciava ai lettori l’imminente svolta verso un altro ge­ nere poetico, una svolta che avrebbe quindi necessariamente sancito la chiusura della fase poetica costituita dall’opera di elegia erotica, il finis amandi cui Tragedia appunto invitava il poeta degli Amores e che trovava realizzazione entro la fine del medesimo terzo libro (l’originario quinto?).60 La domanda che allora il poeta si era sentito rivol­ gere da Tragedia è la medesima che ora, all’inizio di trist. 5.1, il poeta attribuisce a un anonimo interlocutore, figura del lettore che si trova di fronte all’ennesima appendice da aggiungere ai Tristia (vv. 35): ‘quis tibi, Naso, modus lacrimosi carminis?’ inquis.

La differente risposta alla stessa domanda, che è invece ripetuta nei medesimi termini ora come allora, si fa espressione di tutto lo scarto che caratterizza l’opera di poesia tri­ ste ora in corso rispetto all’opera di poesia lieta giovanile: ed è uno scarto che si gioca sulla possibilità, nonché sulla convenienza, di attribuire una fine a queste due tipolo­ gie poetiche, definite in termini così simili, eppure frutto di due circostanze biografi­ che opposte (letizia vs. tristezza). Se infatti l’esortazione a rintracciare un finis all’opera di elegia erotica che Ovidio aveva ricevuto in am. 3.1 risultava nell’effettiva decisione di terminare gli Amores (ciò che era annunciato dal poeta alla fine della medesima elegia: 3.1.69 s., teneri properentur Amores, / dum vacat: a tergo grandius urguet opus), il parallelo invito ad assegnare un modus al lacrimosum carmen formulato dall’anonimo lettore di trist. 5.1 sortisce una replica affatto diversa (vv. 35 ss.): ‘quis tibi, Naso, modus lacrimosi carminis?’ inquis; idem, fortunae qui modus huius erit. quod querar, illa mihi pleno de fonte ministrat, nec mea sunt, fati verba sed ista mei. at mihi si cara patriam cum coniuge reddas, sint vultus hilares, simque quod ante fui. lenior invicti si sit mihi Caesaris ira, carmina laetitiae iam tibi plena dabo.

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Che il dittico ‘paratestuale’ costituito dalle elegie am. 3.1 e 3.15 costituisse la cornice dell’originario quinto libro della prima edizione degli Amores è ipotesi prevalente fra gli studiosi; cfr. in part. Citroni 1995, p. 445, secondo cui am. 3.1 «appartiene certamente alla prima edizione […] era cer­ tamente l’elegia proemiale dell’ultimo libro (il V) della prima edizione» (ampia rassegna degli studi a p. 468 n. 24). Ai fini del nostro discorso, importa più che altro rilevare che le due elegie menzionate delimitano l’ultimo libro degli Amores, anche se il puntuale richiamo del distico cita­ to di am. 3.1 (= 5.1 in origine) nella ‘corrispondente’ trist. 5.1 potrebbe aggiungere argomenti all’ori­ ginaria collocazione di am. 3.1 quale incipit di am. 5.

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Il modus della poesia triste dell’esilio è fatto corrispondere, in via esclusiva e inequivo­ cabile (idem), al modus della fortuna del poeta, vale a dire alla conclusione del proprio stato di esule. Questa intima corrispondenza rafforza da un lato il legame fra poesia e vita già asserito nei versi (e nei libri) precedenti, dimostrando ancora una volta l’affi­ nità fra le poetiche delle due tipologie elegiache, triste e lieta;61 d’altro canto, essa si rende testimonianza dell’intrinseca e costitutiva differenza fra una poesia, quella degli Amores, cui la libera iniziativa dell’autore era in grado di fissare un limite e, al contrario, una poesia, quella dei Tristia, cui è impossibile mettere fine in assenza del requisito fondamentale, il perdono. È importante notare che – a ben vedere – anche in trist. 5.1 il poeta si dichiara disposto, se ottenesse il richiamo, a mutare l’andamento dei propri carmi (carmina laetitiae iam tibi plena dabo; ma non sarà la stessa laetitia di prima: quod probet ipse canam, v. 45), proprio come negli Amores egli aveva dichiarato la propria buona disposizione a passare a un genere affatto diverso rispetto a quello allora prati­ cato; ma se la grande versatilità compositiva aveva allora permesso a Ovidio di mutare effettivamente corso al proprio canto, l’impossibilità di farlo ora non dipende dalla mancanza dei requisiti poetici necessari, bensì dall’impedimento costituito dalla con­ danna e dal non mutato atteggiamento di Augusto nei confronti dell’esule. La mancata ‘guarigione’ della Caesaris ira, che non mostra segni di evoluzione, produce un effetto immediato sulla poesia dell’esule, che vede inesorabilmente moltiplicarsi i propri mala e quindi prolungarsi la ‘trama’ del proprio esilio (vv. 29 ss.): et quota fortunae pars est in carmine nostrae? felix, qui patitur quae numerare potest! quot frutices silvae, quot flavas Thybris harenas, mollia quot Martis gramina campus habet, tot mala pertulimus, quorum medicina quiesque nulla nisi in studio est Pieridumque mora.

Il carmen dell’esilio è presentato come perennemente deficitario: ogni libro può con­ tenere necessariamente soltanto una (piccola) pars dei dolori dell’esule, che è impos­ sibile numerare proprio come impossibile è stato finora «contare» definitivamente gli anni dell’esilio e i libri dei Tristia, entrambi sempre crescenti. Così, la poesia prodotta

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O per meglio dire, fra la poetica dell’elegia triste di Ovidio e la poetica dell’elegia (lieta?) di un autore come Properzio: cfr. infra, pp. 212 ss. Una delle sconcertanti novità introdotte da Ovidio ri­ spetto alla tradizione dell’elegia erotica soggettiva era costituita precisamente dal fatto che il poeta riuscisse a contemplare la pratica di altri generi oltre a quello appunto elegiaco e che, soprattutto, potesse mettere fine all’elegia d’amore: cfr. Labate 1984, pp. 25 ss. Per l’uso di modus in contesto erotico si vedano i passi di Verg. ecl. 2.68, quis enim modus adsit amori? e soprattutto 10.28, ecquis erit modus? (una domanda che dunque, prima che a Ovidio nella doppia occorrenza, è già stata posta a Gallo agli esordi dell’elegia latina).

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a Tomi è presentata in questi versi come una mora,62 una perpetua e frustrante «atte­ sa» volta a occupare un tempo che, nella speranza dell’esule, si pone nella prospet­ tiva di una fine, ma che, considerata l’inflessibilità dell’ira del princeps, tende sempre più minacciosamente a rivelarsi eterno, non­finito. Che l’esule concepisca la propria produzione tomitana come ‘intermedia’, presupponendo quindi – o piuttosto auspi­ cando – la conclusione che presto o tardi giungerà (ma ciò non dipende da lui, questa volta), è quanto dimostra il seguito della risposta rivolta all’anonimo interlocutore di trist. 5.1; al v. 47 Ovidio gli chiede di che cosa altro dovrebbero mai trattare i libelli nella presente circostanza: interea nostri quid agant, nisi triste, libelli?

L’avverbio di tempo interea, che abbiamo già rintracciato e che torneremo a segnalare altrove, costituisce la migliore indicazione circa il carattere provvisorio che Ovidio vorrebbe attribuire alla propria produzione tomitana: essa si sviluppa «nel frattem­ po», nell’attesa cioè che l’ira di Augusto si plachi e permetta a Ovidio di accantonare i t/Tristia una volta per tutte. Considerato dunque il carattere (relativamente) incompiuto che l’esule definitiva­ mente sancisce per i Tristia nella nostra elegia, non si potrà che riscontrare una certa (grande) ironia nel fatto che trist. 5, in effetti, è l’ultimo libro di quest’opera – ciò che naturalmente i primi lettori della silloge non potevano sapere, anzi: sulla base delle indicazioni suggerite in trist. 5.1, una vera e propria teorizzazione, come abbiamo visto, dell’addizione come principio cardine della nuova poesia triste di Ovidio, non sarebbe stato difficile immaginare altri (tanti) libri che avrebbero presto accresciuto un’opera­ monstrum per i canoni dell’elegia soggettiva.63 I Tristia si attestano così su cinque libri, pareggiando il computo della prima edizione degli Amores, forse addirittura ‘citandola’ nei rimandi ad am. 3.1 già 5.1 – e il lettore sensibile ai ripetuti accenni alla ‘viziosità’ di queste elegie non si sarebbe mai atteso una seconda edizione in tre libri anche dei Tristia.64 La conclusione dei Tristia, nuovo potentissimo colpo di scena messo in atto da Ovidio agli occhi del lettore affezionato, comprometterà tuttavia solamente in parte quanto enfaticamente annunciato in trist. 5.1: la poesia triste non è finita, ma continue­ rà nelle Epistulae ex Ponto, indossando una veste vecchia e nuova insieme. Il quinto libro, e in particolare la sua elegia proemiale, sanciscono così allo stesso tempo, una 62

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Il nesso medicina quiesque del v. 33 fa nuovamente eco al componimento finale del libro precedente: cfr. trist. 4.10.118 (rivolto alla Musa), tu curae requies, tu medicina venis. Quanto alla menzione dei canonici ‘oggetti incomputabili’ ai vv. 31 s. (paralleli e bibliografia in Galfré 2017, pp. 200 s.), istruttivo ancora il confronto con la serie di ‘oggetti inesauribili’ (fra cui sono le lacrime in amore) in Verg. ecl. 10.29 s. Ma non per quelli dell’elegia ‘oggettiva’ (didascalica) rappresentata dai Fasti: sui Tristia come ‘prosecuzione’ dell’incompiuta opera calendariale, cfr. supra, p. 25. Una non­attesa forse subito smentita: la prossima pubblicazione di Ovidio sarà infatti costituita da una raccolta di epistole poetiche in tre libri.

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volta di più, il limite dei Tristia, ma la prosecuzione potenzialmente infinita del lacrimosum carmen dell’esilio. Converrà a questo punto gettare uno sguardo anche su trist. 5.14, l’elegia conclusi­ va dell’ultimo libro dei Tristia. Il componimento, indirizzato alla moglie, torna a fare ricorso a tutta la serie di motivi sfragistici già impiegati in trist. 4.10 e testi relativi (epi­ logo delle Metamorfosi, Hor. carm. 3.30, etc.), ma questi motivi sono ora, a sorpresa, applicati non primariamente alla futura sopravvivenza del poeta, bensì a quella della moglie, che attraverso l’opera dell’esule ha ormai ottenuto fama eterna (vv. 1 ss.):65 quanta tibi dederim nostris monumenta [Hor. carm. 3.30.1] libellis, o mihi me coniunx carior, ipsa vides. detrahat auctori multum fortuna licebit, tu tamen ingenio [Ov. trist. 4.10.126] clara ferere [met. 15.876] meo; dumque legar [am. 1.15.38; met. 15.878],66 mecum pariter tua fama [ibid.; trist. 4.10.126] legetur, nec potes in maestos omnis [Hor. carm. 3.30.6] abire rogos; […] perpetui fructum donavi nominis [Ov. met. 15.876; trist. 4.10.122] idque, quo dare nil potui munere maius, habes.

Come si vede, l’elegia è un ostentato collage di testi sfragistici, ciò che ne potenzia il carattere conclusivo, rendendola un (apparente) ‘super­finale’.67 Il poeta parla dei libelli (v. 1), considerando quindi i Tristia nel loro complesso, nei quali ha reso celebre la moglie, cui è così consegnato un dono più prezioso di qualsiasi ricchezza materiale (v. 14, munere; cfr. anche i vv. 11 s., non ego divitias dando tibi plura dedissem: / nil feret ad Manes divitis umbra suos): Ovidio sta qui sfruttando un argomento proprio dell’elegia erotica, la rivendicazione del munus poetico offerto dal poeta amante alla donna amata (cfr. p. es. Prop. 2.8.11, munera quanta dedi vel qualia carmina feci!; un verso che sem­ bra qui riecheggiato proprio nelle prime parole dell’elegia: quanta tibi dederim …). L’associazione fra questo motivo elegiaco e il vocabolario della sphragis, qui straordi­ nariamente applicato all’oggetto della poesia anziché al soggetto, produce un’inedita sovrapposizione tra le figure della moglie e del poeta: la coniunx ha ottenuto fama eter­

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Su trist. 5.14, e sul «merging of identities that takes place in this poem between author and addres­ see», è da vedere Martelli 2013, pp. 174 ss.; sul ruolo di questa elegia e sulla ‘non­fine’ che essa im­ plica, cfr. Bretzigheimer 1991, p. 58; cfr. inoltre Holzberg 2002, p. 187, dove si definisce la quantità di elegie del libro, 14, come un numero ‘manchevole’: «Ovid may have wanted to signal, by ‘leaving out’ an elegy, that his ‘epistolary novel’ was open­ended». Segnalo i paralleli principali nel testo fra parentesi quadre. Cfr. inoltre trist. 3.7.52; sull’effetto di chiusura prodotto da questa elegia nel contesto di trist. 3 si veda infra, pp. 108 ss. «An excess of concluding gestures can generate the structure of an open ending»: Barchiesi 1997, p. 195.

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na certo perché eterna sarà la fama dei libelli (mecum pariter tua fama legetur), ma il testo insiste sul guadagno, in termini di sopravvivenza futura, che soprattutto la moglie ha ricavato, mentre il destino parimenti luminoso del poeta è lasciato sullo sfondo, anzi decisamente messo in dubbio. Nei primi versi dell’elegia si parla piuttosto della fortuna avversa (v. 3) e del casus (v. 7) che hanno colpito l’esule, mentre la gloria prospettata alla coniunx è immaginata svilupparsi nonostante la disgrazia del marito (detrahat auctori … licebit, / tu tamen …; v. 7 s., cumque viri casu possis miseranda videri, / invenies aliquas, quae, quod es, esse velint). La presentazione di un simile quadro nei versi iniziali del componimento trova ra­ gione nel seguito dell’elegia: la moglie­‘poetessa’ che ha già ottenuto fama grazie ai libelli del marito è l’autrice di un’opera tutta da scrivere – opera che, se portata a termi­ ne, riuscirà a contraccambiare il munus di Ovidio. Ai vv. 15 ss. il poeta avvisa la moglie circa il fatto che il grande onore ricevuto le ha consegnato anche un onere (ad te non parvi venit honoris onus): alla donna tocca infatti ancora dimostrare di essere degna del munus, ciò che potrà fare soltanto se continuerà a sostenere il marito condannato.68 Si tratta di un virtuoso intendimento che tuttora dimostra di possedere ampio margine di espressione (vv. 23 s.): area de nostra nunc est tibi facta ruina: conspicuum virtus hic tua ponat opus.

Il distico è aperto e chiuso da due termini del lessico (meta)letterario, in particolare ovidiano: l’area entro la quale può e deve svilupparsi l’opus della moglie­poetessa è lo «spazio» che altrove ha definito l’estensione dell’«opera» letteraria.69 Al termine del libro, e di tutti i Tristia, questo spazio si presenta come ancora ampiamente libe­

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Si tratta della strategia che Ovidio metterà sistematicamente in campo nelle Epistulae ex Ponto (lo vedremo infra, pp. 187 ss.), il cui carattere costitutivamente ‘incompiuto’ dipenderà esattamente dal fatto che la responsabilità di ‘compiere’ quanto richiesto dal poeta spetterà in primo luogo ai desti­ natari delle singole lettere, che dovrebbero saper ricambiare la fiducia assegnata loro dall’esule per mezzo dell’epistola: per un’associazione fra epistola e munus nel contesto socio­culturale romano della tarda Repubblica e della prima età imperiale si veda Wilcox 2002. Per l’uso di area, cfr. in part. am. 3.1.26 (le parole di Tragedia a Ovidio circa l’eventualità di praticare il più ‘vasto’ genere tragico), ‘haec animo’ dices ‘area digna [v. l. facta] meo est’ – invito puntualmen­ te colto alla fine del medesimo libro: am. 3.15.18, pulsanda est nostris area maior equis; cfr. inoltre ars 1.39, hic modus, haec nostro signabitur area curru; fast. 4.9, nunc teritur nostris area maior equis. In riferimento alla moglie, il sostantivo è già utilizzato in trist. 4.3.84, et patet in laudes area lata tuas, in un’elegia i cui versi finali anticipano per molti aspetti trist. 5.14 (dopo che la prima parte ha ‘prose­ guito’ trist. 1.3: cfr. supra, p. 54 n. 66): quanto al lessico metaletterario riferito alla coniunx, cfr. 4.3.73, materiamque tuis tristem virtutibus imple; si confronti inoltre 4.3.81 s., dat tibi nostra locum tituli fortuna, caputque / conspicuum pietas qua tua tollat, habet con l’appena citato 5.14.24, conspicuum virtus hic tua ponat opus. Il discorso alla moglie­poetessa­personaggio letterario avrà infine un ulte­ riore seguito in Pont. 3.1.43 ss., magna tibi imposita est nostris persona libellis … hanc cave degeneres: ut sint praeconia nostra / vera, vide famae quod tuearis opus (lezione giustamente difesa da Larosa 2013 ad loc. contro la congettura onus proposta da Heinsius e accettata da Richmond).

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ro: l’opus tuttora imperfetto della moglie di Ovidio rende di fatto incompiuta l’opera dell’esule, che come abbiamo visto aveva rintracciato il proprio inizio ideale nell’invito a garantire auxilium rivolto alla moglie scampata alla morte in trist. 1.3.102 – un aiuto ‘continuativo’ che tuttora non ha ottenuto i frutti sperati, e non deve dunque a maggior ragione cessare. Negli ultimi versi di trist. 5.14 Ovidio chiede alla moglie di comportarsi come già al termine dell’elegia di addio: non serve morire, come le eroine fedeli del mito, ma basta continuare a conservare affetto e fedeltà (vv. 41 ss.): morte nihil opus est pro me, sed amore fideque: non ex difficili fama petenda tibi est. nec te credideris, quia non facis, ista moneri: vela damus, quamvis remige puppis eat. qui monet ut facias, quod iam facis, ille monendo laudat et hortatu comprobat acta suo.

L’immagine della nave che non soltanto è ben avviata, ma che addirittura riceve la spinta del poeta (vela damus) perché proceda più spedita si fa simbolo di un’opera letteraria che non soltanto non ha raggiunto alcun ‘porto’ (cioè alcuna fine), ma che al contrario si trova nel bel mezzo del proprio corso – anzi, è rimasta all’inizio: la puppis bisognosa della spinta di vele e remi evocata dal poeta in questi versi presenta fattezze fin troppo simili a quelle della nave dell’esule in trist. 1, che aveva saputo muoversi sulle acque dell’Egeo in modo del tutto analogo (cfr. 1.10.3 s., sive opus est velis, minimam bene currit ad auram; / sive opus est remo, remige carpit iter).70 Poco importa se a viag­ giare sulla nave di trist. 5.14 è questa volta la moglie: nel paradossale mondo di Tomi, a ‘comporre’ l’opera non è soltanto il poeta (anzi, quasi per nulla), ma sono tutti coloro che, favorendo l’accorciarsi o determinando il prolungarsi della condanna (la moglie, gli amici, l’imperatore …), divengono autori e poeti essi stessi.

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Più in generale, l’immagine delle vele è solitamente impiegata in poesia a significare l’inizio o il proseguimento dell’opera letteraria: cfr. p. es. Prop. 3.9.3 s. e 35 (rivolti a Mecenate, che vorrebbe vedere il poeta dedicarsi a generi più impegnativi), quid me scribendi tam vastum mittis in aequor? / non sunt apta meae grandia vela rati […] non ego velifera tumidum mare findo carina …; ars 3.26, conveniunt cumbae vela minora meae; fast. 3.790, et des ingenio vela secunda meo (su cui cfr. Barchiesi 1994, p. 181: «il progresso di un poema può essere identificato con un viaggio per mare»); 4.730, habent ventos iam mea vela suos. Così Ovidio ha utilizzato la metafora della navigazione per segna­ lare l’inizio dell’opera: fast. 1.4, et timidae derige navis iter; e la fine del viaggio in mare ha altrove sancito l’explicit: rem. 811 s., hoc opus exegi: fessae date serta carinae! / contigimus portus, quo mihi cursus erat. Sulla navigazione come metafora dell’opera, cfr. già supra, p. 66.

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3. Tempo intermedio, tempo ciclico, tempo eterno in trist. 3–5 L’impossibilità di mettere fine al lacrimosum carmen dell’esilio in assenza del richia­ mo, un’istanza di cui Ovidio rende il lettore esplicitamente informato nell’ultimo libro dei Tristia, costituisce una consapevolezza cui, come abbiamo cercato di mostrare, il poeta giunge per gradi, nello sviluppo cioè di una poesia che, intimamente legata alla circostanza biografica, definisce progressivamente la propria natura: da un lato, infatti, l’urgenza del contatto con il pubblico di Roma, e naturalmente con Augusto, invita il poeta a una produzione serrata e continua, nel tentativo di colmare una distanza da cui Ovidio si sente minacciato; dall’altro, soltanto nel corso di questa produzione – di cui appunto l’autore conosce l’inizio, ma il cui explicit è sottoposto a condizioni esor­ bitanti rispetto alle sue facoltà – all’esule è paradossalmente possibile riconoscere, e sottoporre al lettore, alcuni tratti salienti che caratterizzano queste stesse raccolte. I Tristia paiono in questo senso una collezione davvero peculiare in virtù del loro carat­ tere di opera ‘in movimento’ (e non soltanto perché ai suoi libri si richiede, ogni volta, di colmare lo spazio fra Tomi e Roma), di poesia che definisce se stessa, per l’appunto, in corso d’opera;71 ma soprattutto, come in parte si è visto, la definizione progressiva delle sue caratteristiche porta la produzione dell’esule Ovidio a stabilire un legame indissolubile con la dimensione temporale entro la quale essa si sviluppa. Nelle raccolte di Tristia via via prodotte, sembra dunque importante considerare la riflessione del poeta sul tempo dell’esilio: il discorso svolto finora sul carattere aperto e non concluso di queste raccolte, che si manifesta in particolare nei componimen­ ti paratestuali, va accompagnato all’esame del modo in cui nel corpo dei diversi libri Ovidio si pone nei confronti del carattere parimenti incompiuto della condanna, e del modo in cui – in particolare – l’autore muta la propria considerazione di quel ‘tempo dell’attesa’ che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, originariamente colloca la produzione dell’esilio in una dimensione temporale intermedia, concepita come di­ retta verso un telos che ne segnerà la conclusione. La natura continuamente sfuggente di questo telos, tuttavia, e allo stesso tempo l’affermazione di un’istanza alla ripetizione che segna l’invio di ciascun libro, finiscono piuttosto per costringere progressivamen­ te l’autore nelle maglie di un movimento temporale ciclico, capace di compromettere l’esistenza stessa del telos, rendendo vana l’attesa. Saranno dunque prese in considerazione, nell’ordine in cui compaiono all’interno delle diverse raccolte, alcune elegie di trist. 3–5 in cui risulta maggiormente sviluppata questa riflessione sul tempo dell’esilio, caratterizzato da limiti disattesi e da cicli che si

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Sul concetto di ‘opera in movimento’ converrà rimandare ancora una volta a Eco 1962 = 1992/201610, pp. 45 ss., dove la definizione è elaborata a proposito di una particolare tipologia di opere ‘aperte’ nel panorama musicale, artistico e letterario contemporaneo che manifestano la «capacità di assu­ mere diverse impreviste strutture fisicamente inattuate» e che presuppongono un completamento dato dalla sempre differente interpretazione del fruitore.

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ripetono. Come già nella prima parte di questo capitolo, non saranno trascurati fatti di struttura e di costituzione dei libri: la meditazione sul tempo percepito e vissuto dall’esule a Tomi va di pari passo, infatti, col tempo della lettura, con la considerazione cioè dei particolari effetti che questa stessa riflessione genera sul lettore – su colui che, seguendo lo svolgersi della ‘narrazione’ dell’esule, finisce per condividerne istanze e dinamiche. 3.1 Seconde metà, nuovi inizi: trist. 3.2 Al secondo componimento di trist. 3, il vecchio­nuovo libellus giunto a Roma dal Pon­ to, è assegnato un ruolo importante: a esso tocca infatti chiarire la novità della presente raccolta di poesia triste e determinare lo scarto rispetto a quanto i lettori di Ovidio hanno già letto nella prima silloge incentrata sul viaggio. Se la lettura di trist. 3.1, un componimento che come abbiamo visto coscientemente e programmaticamente ri­ manda a trist. 1.1, può generare un effetto di sovrapposizione fra le due raccolte, al pun­ to da suscitare l’illusione che si tratti del medesimo liber di cui è ora possibile udire la voce diretta, trist. 3.2 pone il lettore di fronte all’avanzamento della trama e all’effettivo conseguimento da parte del poeta esule di quella posizione che in trist. 1.11 si presen­ tava come futura (v. 25, attigero portum, portu terrebor ab ipso): adesso il poeta non soltanto è sbarcato, ma alle difficoltà del viaggio in mare può aggiungere l’aggravante costituita dalla inopinata mancanza di porti in terra pontica (3.2.11 s., ultima nunc patior, nec me mare portubus orbum / perdere, diversae nec potuere viae). Le diversae viae di cui si parla hanno un referente preciso nel doppio viaggio, per terra e per mare, il cui itine­ rario Ovidio ha dettagliato in trist. 1.10 (cfr. v. 46, duplici … viae; v. 49, loca … diversa), dove era espresso l’augurio che entrambi gli itinera terminassero con successo – e che ciò sia effettivamente avvenuto il lettore apprende ai vv. 7 s. di trist. 3.2 (plurima sed pelago terraque pericula passum / ustus ab assiduo frigore Pontus habet).72 Qualche parola merita dunque l’incipit della nostra elegia: la particella ergo con cui essa si apre rende efficacemente l’idea della prosecuzione di un discorso avviato altro­ ve (v. 1, ergo erat in fatis Scythiam quoque visere nostris) – nella fattispecie, in trist. 1.3.61, dove era nominata per la prima volta la lontanissima Scizia come meta del viaggio dell’esule in partenza (Scythia est, quo mittimur).73 Oltre a ciò, la formulazione del pri­ mo emistichio, ergo erat in fatis, riproduce ritmicamente e fonicamente l’incipit di una celebre satira oraziana, in cui il poeta elogiava l’amenità del fondo in Sabina ricevuto in dono da Mecenate – ciò che costituiva il coronamento dei suoi desideri (2.6.1, hoc erat 72 73

Diversae viae: per il nesso, cfr. Catull. 46.9 ss., o dulces comitum valete coetus, / longe quos simul a domo profectos / diversae varie viae reportant, con evidente allusione ai nostoi degli eroi omerici. Su ergo, Luck 1967–77 ad loc. cita una definizione di E. Norden: la particella esprime «den Abschluß einer langen, unausgesprochenen Gedankenreihe» (seguono paralleli in poesia augustea).

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in votis …):74 alla descrizione delle bellezze dell’agognata regione, che occupa i primi versi della satira, fa riscontro il desolante aspetto della terra cui Ovidio è approdato, di cui il lettore di trist. 3 ricaverà ampia informazione soprattutto nel seguito della raccolta (le elegie 10 e 12, su cui ci soffermeremo, sono rispettivamente dedicate alla descrizione del paesaggio pontico in inverno e in primavera), ma di cui in trist. 3.2 sono introdotti i primi accenni (cfr. v. 8, ustus ab assiduo frigore Pontus). Anche l’apostrofe a Mercurio, cui Orazio rivolgeva un’unica richiesta ulteriore, quella di rendere quel terreno di sua proprietà (vv. 4 s., nil amplius oro, / Maia nate, nisi ut propria haec mihi munera faxis), trova una controparte nella stizzita apostrofe alle Muse e ad Apollo, cui Ovidio ora rin­ faccia di non avergli recato alcun aiuto (vv. 3 s., nec vos, Pierides, nec stirps Letoia, vestro / docta sacerdoti turba tulistis opem; cfr. anche v. 27, di, quos experior nimium constanter iniquos); al termine di una delle elegie appena menzionate, del resto, l’esule formulerà una preghiera del tutto opposta rispetto a quella di Orazio: la richiesta di non ottenere il luogo dell’esilio come dimora perpetua, bensì come sede temporanea (trist. 3.12.53 s., di, facite ut Caesar non hic penetrale domumque, / hospitium poenae sed velit esse meae). La prima apparizione del locus amoenus sabino nella poesia di Orazio diventa così un riferimento importante per Ovidio nella prima presentazione del locus horridus ponti­ co realizzata in trist. 3.75 Alcuni dei versi di trist. 3.2 ora menzionati rimandano tuttavia ad altri intertesti. Le fatiche e i patimenti sofferti «per terra e per mare» riconducono il lettore alle vicende dell’eroe che, insieme con il ‘predecessore’ greco Ulisse, ha rappresentato un modello fondamentale per l’esule già in trist. 1, Enea: in particolare, il v. 15 della nostra elegia, dum tamen et terris dubius iactabar et undis, appare evidentemente ricalcato su Aen. 1.3, multum ille et terris iactatus et alto.76 Se però in trist. 1 il modello eneadico pareva giu­ stificato dall’analogia della situazione in cui versava il poeta in balia della tempesta, ci si potrebbe chiedere quale significato vada attribuito all’allusione a Enea (e a Virgilio) nella nostra elegia. La frase subordinata che contiene il rimando all’eroe virgiliano è 74 75

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Cfr. Pont. 1.7.56, sed fuit in fatis hoc quoque, credo, meis; per un’intuizione del modello oraziano, cfr. Bömer 1958 ad fast. 1.481. Il confronto con Orazio prosegue nei primi versi dell’elegia successiva, una epistula indirizzata alla moglie: cfr. trist. 3.3.5 ss., quem mihi nunc animum dira regione iacenti / inter Sauromatas esse Getasque putes? (un’interrogativa che potrebbe contrastivamente richiamare Hor. sat. 2.6.16 s., ergo ubi me in montes et in arcem ex urbe removi, / quid prius inlustrem saturis musaque pedestri? La ‘ri­ mozione’ di Ovidio dall’urbs dipende naturalmente da tutt’altra causa)  / nec caelum patior, nec aquis adsuevimus istis, / terraque nescioquo non placet ipsa modo. / non domus apta satis …; per una descrizione del fundus sabino di Orazio, cfr. anche epist. 1.16.1 ss.; sul passo di trist. 3.12.53 s., cfr. infra, p. 130. Cfr. già il v. 7, plurima sed pelago terraque pericula passum; non va trascurato, per quest’ultimo verso, il precedente di Catull. 101 (v. 1, multas per gentes et multa per aequora vectus), cui potrebbe essere ricondotta la posizione finale del participio; al medesimo carme catulliano sembra del resto allude­ re l’uso del verbo manare al v. 20 (nil nisi flere libet, nec nostro parcior imber / lumine, de verna quam nive manat aqua; cfr. Catull. 101.9, accipe fraterno multum manantia fletu); sulla presenza di Catullo nei Tristia, cfr. Bonvicini 2000; Ziogas 2017.

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declinata al passato (dum … iactabar): il viaggio epico del poeta in esilio è infatti giun­ to a termine, come Ovidio tiene a precisare con una certa enfasi sfruttando un intero distico (vv. 17 s., ut via finita est et opus requievit eundi, / et poenae tellus est mihi tacta meae …). L’utilizzo del sostantivo opus induce a pensare che, oltre a parlare del termi­ ne dell’esperienza biografica costituita dal viaggio in mare, l’esule voglia alludere al ter­ mine del viaggio poetico costituito dal primo libro dei Tristia, secondo la già osservata metafora della composizione come navigazione e dell’opera letteraria come nave.77 È importante ricordare che anche nell’Eneide c’è un punto in cui risultano coincide­ re il termine di un viaggio effettivo, quello del protagonista, e la conclusione di almeno una parte del ‘viaggio’ poetico dell’autore, che allo stesso tempo prevede l’immediato inizio della sua seconda metà: si tratta del libro settimo del poema, nei cui versi iniziali (dopo l’episodio ‘ritardato’ della morte di Caieta) è contenuto il proemio al mezzo, che introduce la parte ‘iliadica’ del poema incentrata sugli horrida bella (v. 41). Alla sezione in cui sono descritti l’approdo dei Troiani sulle sponde del Tevere e il segnale costituito dalla frase pronunciata da Iulo (v. 116, heus, etiam mensas consumimus!) segue il riconoscimento da parte di Enea della fine dei lunghi labores affrontati nel corso del viaggio (vv. 117 s., ea vox audita laborum / prima tulit finem; e cfr. anche 128 s., haec erat illa fames, haec nos suprema manebat,  / exitiis positura modum). Il termine dei pati­ menti qui annunciato da Enea, cui corrisponde il termine della prima metà del poema, sarà immediatamente scongiurato dall’inizio delle ostilità favorito da Giunone, che si affretterà ad architettare le ben note morae in grado di ritardare l’esito della vicenda (7.315, at trahere atque moras tantis licet addere rebus).78 È interessante constatare che anche per l’esule Ovidio il termine della narrazione del viaggio coincide con l’inizio di una nuova (parte di) impresa poetica, un nuovo libro di elegie che intende dimostrare quanto illusoria sia da considerare la fine delle sofferenze patite nel viaggio. A seguito di quel labor, che per quanto gravoso era anzi stato in grado di mantenere attiva la mente del poeta (trist. 3.2.15 s., dum tamen et terris dubius iactabar et undis, / fallebat curas aegraque corda labor), all’esule si prospetta ora l’inizio di una nuova fase il cui elemento dominante è individuato in un lungo pianto ininterrotto (vv. 19 s., nil nisi flere libet, nec nostro parcior imber / lumine, de verna quam nive manat aqua). Rispetto a Enea, che per quanto costretto a intraprendere la dura guerra contro gli Italici ha infine raggiunto la terra tanto sospirata, Ovidio ha compiuto un tragitto opposto che lo ha condotto alle estremità del mondo, nel punto più lontano da Roma (vv. 21 s., Roma domusque subit desideriumque locorum, / quicquid et amissa

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Per l’utilizzo del sostantivo via al termine di un viaggio letterale e letterario, cfr. Hor. sat. 1.5.104, Brundisium longae finis chartaeque viaeque est. Sul ruolo delle morae nell’Eneide e, più in generale, nell’epica latina è da vedere Hardie 1997, pp. 145 s.: «the whole of the last half of the Aeneid is a tale of divinely engineered delay to Jupiter’s plan that Trojans and Italians should live in peace together». Sulla simbologia metaletteraria legata al tema del viaggio in poesia epica e non solo, cfr. in part. Harrison 2007.

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restat in urbe mei). La cesura biografica costituita dalla fine del viaggio, che sul modello virgiliano si riflette in una cesura anche letteraria (l’inizio di un nuovo libro di poesia, a imitazione dell’inizio della seconda metà dell’Eneide), induce il lettore a constatare l’apertura di un nuovo capitolo nel racconto dell’esilio, anzi l’inizio dell’esilio vero e proprio. trist. 3.2 ci invita dunque a cogliere, subito dopo il proemio della nuova raccolta, la manifestazione di quella sottile dialettica tra fine e inizio che costituisce un elemento cruciale nella poetica dell’esilio di Ovidio. Il terzo libro di elegie tristi viene infatti in­ contro a un’attesa che il lettore ha concepito fin dalla prima raccolta dei Tristia, nella quale il poeta ha strategicamente accumulato gli indizi di una continuazione dell’opera in corso che diventava dunque legittimo attendersi: come si concluderà il viaggio del poeta, il cui racconto è bruscamente interrotto al termine del libro? Riuscirà l’esule a toccare le coste della terra che gli è stata destinata e a constatare l’effettiva desolazione di quella regione, finora solamente presagita? La prosecuzione del racconto dell’esilio, introdotta da trist. 3.2 dopo gli accenni inclusi nell’elegia proemiale di questa raccolta, si realizza in virtù dello scampato pericolo del viaggio, il cui felice esito è tuttavia ora paradossalmente presentato come un danno per il poeta, che avrebbe preferito essere inghiottito dalla tempesta (vv. 25 s., cur ego tot gladios fugi totiensque minata / obruit infelix nulla procella caput?); in corrispondenza di ciò, la nostra elegia si chiude con una preghiera agli dei perché affrettino i fata del poeta, permettendogli così di terminare le sofferenze (vv. 29 s., exstimulate, precor, cessantia fata meique / interitus clausas esse vetate fores; cfr. già vv. 23 s.). È significativo che la prosecuzione del racconto dell’esilio si apra con la più conclusiva delle immagini, quella appunto della morte del suo autore. La po­ esia dell’esilio di Ovidio, e i Tristia in modo particolare, sono tuttavia interamente fon­ dati sul ripetuto fallimento del poeta nel rintracciare quella fine – dello stato di esule e quindi dell’opera letteraria che ne tratta la vicenda – continuamente prospettata e mai realmente conseguita. La chiusura delle interitus fores evocata al termine di trist. 3.2 si fa dunque indice della impraticabilità di una soluzione conclusiva che determinerebbe anche la fine della poesia dell’esule, la quale è al contrario costretta a seguire il lentis­ simo e potenzialmente infinito processo di ‘scioglimento’ delle facoltà psicofisiche del suo autore: nil nisi flere libet. 3.2 L’epilogo impossibile: trist. 3.7–8 La continua relazione instaurata tra l’idea della fine e la necessità del proseguimento, e il conseguente posizionamento dell’opera dell’esule in uno spazio di tempo indica­ to come ‘intermedio’, appaiono particolarmente visibili in trist.  3.8. Stando all’asset­ to testuale tramandato dalla maggioranza dei manoscritti, questa elegia si colloca in apertura della seconda metà del libro, composto da quattordici componimenti, una posizione di sicuro rilievo; se tuttavia si accetta la divisione di trist. 3.4 in due elegie

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distinte, ammessa ormai dalla maggior parte degli editori, ne risulterebbe modificata la struttura del liber, con il conseguente collocamento di trist. 3.7 al centro esatto della raccolta. In entrambi i casi, il passaggio fra trist. 3.7 e 3.8, un passaggio sulla cui studiata dinamica vogliamo ora soffermarci, appare di per sé rilevante nell’economia comples­ siva di trist. 3.79 trist. 3.7, un’epistola indirizzata alla giovane poetessa Perilla, si configura come me­ ditazione sul ruolo e sul potere della poesia: Ovidio esorta la discepola a non abbando­ nare l’attività poetica a seguito della condanna del maestro – continui pure a comporre, ma non siano versi di didascalica erotica (vv. 29 s.). L’ingenium, qui inteso come fonte dell’ispirazione poetica, è infatti presentato come l’unico mezzo in grado di rendere immortali coloro che lo coltivano (vv. 43 s.). Su questa nota di orgoglioso ottimismo il poeta conclude ritornando al proprio caso: seppur privato della possibilità di disporre dei propri affetti e dei propri beni, l’esule possiede l’ingenium, su cui l’imperatore non ha potere (vv. 47 s., ingenio tamen ipse meo comitorque fruorque: / Caesar in hoc potuit iuris habere nihil); ne consegue una serie di osservazioni che, oltrepassando la ‘rilettura’ del finale di met. 15 proposta in trist. 1,80 si ricollega direttamente all’epilogo del poema maggiore (vv. 49 ss.): quilibet hanc saevo vitam mihi finiat ense, me tamen extincto fama superstes erit, dumque suis victrix septem de montibus orbem prospiciet domitum Martia Roma, legar. tu quoque, quam studii maneat felicior usus, effuge venturos, qua potes usque, rogos!

Come già in met. 15.873 ss. (illa dies … incerti spatium mihi finiat aevi: / parte tamen meliore mei super alta perennis / astra ferar), la morte del poeta è considerata una fine soltanto apparente, dal momento che la fama ne garantirà la sopravvivenza anche in seguito (fama superstes; cfr. am. 1.15.7, fama perennis). In questo senso, è interessante rilevare lo scarto per cui la (minima) prerogativa che allora era riconosciuta alla morte, vale a dire il potere sul corpo materiale (quae nil nisi corporis huius / ius habet), risulta 79

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La serie di argomenti a favore della divisione di trist. 3.4 si trova in Ursini 2015, pp. 367 ss.; alla prin­ cipale ragione comunemente addotta, la differenza di destinazione delle due parti (la prima a un singolo amico, la seconda a un gruppo di amici), ragione di per sé non sufficiente perlomeno nei Tristia, se ne possono aggiungere altre: in particolare, i vv. 45 s. sembrano costituire un’appropriata conclusione dell’elegia, ricordando altre chiuse analoghe (cfr. in particolare quella di trist. 5.3, con una simile esortazione a mantenere vivo il nome del poeta), mentre la notazione astronomica dei vv. 47 s. rappresenta una tipologia di incipit abbastanza consueto (cfr. almeno quelli di trist. 3.2 e 4.3). Che trist. 3.8 segni l’inizio della seconda metà del libro riconosce La Penna 2018, pp. 350 s., ritenendo «certa» la divisione di 3.4: «un effetto probabile della divisione è la collocazione cen­ trale, quindi onorevole, dell’elegia per Perilla (7)»; su trist. 3.7 in quanto «Mitte des 3. Buches», e più in generale per un’interpretazione complessiva dell’elegia, cfr. Möller 2013. Su cui rimando nuovamente a Hinds 1985, pp. 21 ss.

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ora pericolosamente trasferita ad Augusto e al suo potere incapace di scalfire l’ingenium del poeta (Caesar in hoc potuit iuris habere nihil). L’impercettibile ma significativa riscrittura del grandioso epilogo nei versi finali di trist.  3.7 coinvolge anche l’imma­ gine di Roma conquistatrice: nell’elegia, Ovidio recupera la subordinata temporale introdotta dal dum già utilizzata da Orazio in carm. 3.30.8 s. (dum Capitolium / scandet cum tacita virgine pontifex), laddove le Metamorfosi parlavano di una estensione nello spazio (v. 877, quaque patet domitis Romana potentia terris), rendendo implicitamen­ te l’idea che la fama del poeta riuscirà a sopravanzare persino la durata del dominio, temporalmente limitato, di Roma sul mondo.81 L’immagine evocata all’interno della subordinata, lo sguardo di Roma sull’orbis conquistato, è già stata impiegata altrove nei Tristia: come abbiamo visto, essa compare in trist. 1.5 (vv. 69 s., sed quae de septem totum circumspicit orbem / montibus, imperii Roma deumque locus), ma in trist. 2.217 la si utilizzava, all’interno di una subordinata temporale parimenti retta dal dum, a proposi­ to di Augusto (de te pendentem sic dum circumspicis orbem). Lo sguardo di Roma, cioè di Augusto, sull’orbis non impedisce che le opere di Ovidio, anche i Tristia, siano rese oggetto di lettura (legar, in diretta continuità con met. 15.878, ore legar populi): si tratta di una constatazione che, a metà libro, idealmente risponde al divieto di ingresso nelle biblioteche pubbliche di Roma di cui il liber è risultato vittima nell’elegia proemiale della raccolta. È importante a mio avviso notare proprio l’effetto di chiusura che gli ultimi versi di trist. 3.7 sembrano produrre, un effetto chiaramente amplificato dal rimando alla se­ zione conclusiva delle Metamorfosi e più in generale favorito dal carattere sfragistico dell’esortazione a Perilla. Secondo una dinamica sintagmatica qui particolarmente evidente, tuttavia, l’esordio di trist.  3.8 propone al lettore un’immediata smentita di quei poteri che alla poesia venivano assegnati nell’epistola alla discepola, e insieme una ricollocazione gerarchica di quelle prerogative al di sotto del potere imperiale. Nei primi versi della nuova elegia l’esule si lancia in una fantasia poetica dichiarando di voler ottenere, come già Trittolemo Medea Perseo Dedalo, la possibilità di volare, riu­ scendo così a raggiungere la patria e a rivedere i propri cari. La volontà di evasione, espressa in questi versi attraverso il rimando alle storie del mito, si ricollega diretta­ mente alla fuga dalla materialità resa possibile dalla poesia di cui Ovidio ha parlato nel precedente componimento (cfr. in part. 3.7.54, effuge  / 3.8.4, fugiens). È interessante tuttavia osservare che la lista di personaggi mitici dei vv. 1–6 è condotta secondo un andamento che ricorda le topiche recusationes poetiche: l’anafora del nunc ego potreb­ be valere come sottile variazione del non ego occasionalmente presente in quei contesti (cfr. p. es. Prop. 2.1.19); in più, Ovidio potrebbe qui voler giocare sulla identificazione 81

Sull’uso del dum in contesto analogo, cfr. anche l’importante precedente di Verg. Aen. 9.448 s., dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum / accolet imperiumque pater Romanus habebit; sulla novità della formulazione ovidiana rispetto a Virgilio e Orazio si sofferma Theodorakopoulos 1999, p. 147 (ma cfr. già Rosati 1979, pp. 119 ss.).

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fra autore e contenuto dell’opera (il poeta ‘è’ il personaggio nella misura in cui ne fa l’oggetto del proprio canto) parimenti diffusa nell’ambito di analoghe dichiarazioni programmatiche (cfr. la posa da Giove saettante assunta da Ovidio in am. 2.1.15 s.). Ciò che qui interessa sottolineare è tuttavia il fatto che l’andamento recusatorio di questi primi versi dell’elegia contribuisce a marcare il carattere ‘incipitario’ del componimen­ to stesso, una sorta di proemio al mezzo che introduce la seconda metà del libro poeti­ co dopo la ‘chiusura’ di trist. 3.7. L’impossibilità di ‘essere’ i personaggi mitici menzionati, e insieme di renderli og­ getto del canto, è riconosciuta ai vv. 11 s. nell’improvviso e brusco ritorno del poeta alla cruda realtà dell’esilio, che rende vani i vota puerilia riservati al fantastico (e irreale) mondo della letteratura.82 La realtà dell’esilio vuole che a concedere la possibilità di volare sia un dio la cui presenza si è rivelata affatto concreta (vv. 13 ss.: si semel optandum est, Augusti numen adora, / et, quem sensisti, rite precare deum. / ille tibi pennasque potest currusque volucres / tradere: det reditum, protinus ales eris). Il poeta finisce così per rap­ presentare come decisamente vincolata a un potere terreno quell’aspirazione all’im­ mortalità orgogliosamente professata nel finale di trist. 3.7: il conseguimento di quella dimensione ‘aerea’ icasticamente raffigurata per mezzo dell’immagine oraziana del poeta­uccello (cfr. carm. 2.20.10, album mutor in alitem …) è subordinata per Ovidio all’ottenimento del perdono (det reditum, protinus ales eris).83 È un fatto dunque che, finché Augusto non concederà il ritorno, Ovidio non avrà la possibilità di raggiungere quello stato ‘epilogico’, quella posizione ‘terminale’ provvisoriamente (ma illusoria­ mente) rivendicati nell’epistola a Perilla. Segnando un nuovo inizio dopo l’altisonante chiusa ‘metamorfica’ della lettera alla giovane poetessa, trist. 3.8 mostra che, a differen­ za delle Metamorfosi, non è il poeta a decidere quando la propria nuova poesia potrà finire; in assenza del gesto conclusivo compiuto da Augusto, la decisione di concedere il reditus, il poeta non può pervenire all’autentica sublimazione poetica, non potendo cioè materialmente terminare l’opera di poesia triste attualmente in corso. Se dunque la prima parte di trist. 3.8 manifesta l’impossibilità per il poeta di mettere fine alla propria poesia senza l’intervento esterno dell’imperatore, la cui figura divina è a sua volta presentata come il necessario oggetto di questa poesia che continua (si semel optandum est, Augusti numen adora / et … rite precare deum), la seconda parte

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Su questo e numerosi altri passi, tratti anche e soprattutto dalle opere dell’esilio, in cui Ovidio riflette sul carattere fittizio del mondo della letteratura, cfr. l’ampia rassegna di Rosati 1979. I primi versi di trist. 3.8 sembrano del resto rifarsi da vicino all’ode conclusiva di carm. 2, dove Ora­ zio confronta il proprio ‘volo’ a quello di Icaro (v. 13 s., iam Daedaleo tutior Icaro / visam gementis litora Bosphori) e menziona, fra gli altri, il Colchus quale futuro conoscitore della sua poesia. La previsione enunciata dal poeta dei Carmina, per cui la sua fama si estenderà fino ai confini del mondo, risulta ora fin troppo concretamente impersonata da Ovidio esule in terra pontica, laddo­ ve alla visionaria ‘evasione’ di Orazio dagli angusti limiti spaziali risponde il desiderio di rivedere la città­patria espresso da Ovidio (vv. 7 ss.); interessanti in questo senso i vv. 4 s. dell’ode: invidiaque maior / urbis relinquam …, su cui cfr. Harrison 2018, p. 236 (inversione del paradigma odissiaco).

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del componimento offre altri spunti utili alla comprensione del rapporto che Ovidio immagina fra la propria attuale produzione poetica triste e la dimensione temporale entro la quale essa si colloca. Il reditus cui il poeta ha fatto cenno, che come abbiamo visto assume la funzione di punto terminale e ‘sublimante’, non può tuttavia costituire fin d’ora l’oggetto di quelle suppliche e di quei vota che l’esule ha indicato come ne­ cessario contenuto dei propri versi; se questa fosse la richiesta ora, essa risulterebbe troppo indiscreta (vv. 17 ss.): si precer hoc (neque enim possum maiora rogare) ne mea sint, timeo, vota modesta parum. forsitan hoc olim, cum iam satiaverit iram, tum quoque sollicita mente rogandus erit. quod minus84 interea est instar mihi muneris ampli, ex his me iubeat quolibet ire locis.

Secondo un argomento persuasivo utilizzato anche in altri passi genericamente assimi­ labili a questo nella poesia dell’esilio (uno per tutti, il finale di trist. 2), Ovidio sceglie di negoziare con Augusto una soluzione che prevede un riavvicinamento graduale del poeta a Roma: il ritorno definitivo costituisce infatti il culmine delle richieste cui l’esu­ le può aspirare (neque enim possum maiora rogare) – ciò che al momento non sembra evidentemente possibile attendersi. Prima che questa richiesta diventi praticabile, e possa essere dunque resa oggetto credibile dei versi del poeta, c’è tuttavia un tem­ po intermedio (interea) all’interno del quale risulta possibile formulare richieste ‘minori’, meno ambiziose e meno tacciabili di arroganza (modesta parum), e però allo stesso tempo meno immediatamente suscettibili di rifiuto da parte di Augusto. Il gra­ duale riavvicinamento del poeta a Roma andrà così di pari passo a un altro processo parimenti descritto come graduale, la progressiva rimarginazione della ‘ferita’ causata dal poeta all’imperatore e il lento maturare di quell’ira che ha indotto Augusto alla condanna – un’evoluzione egualmente bisognosa di tempo (cum iam satiaverit iram). L’utilizzo del verbo satio risulta qui particolarmente interessante: esso fa riferimento al traguardo conclusivo cui perverrà l’evolversi della passione di cui Augusto risulta preda,85 un traguardo conseguibile tuttavia soltanto a prezzo di gravi sofferenze per la vittima, come sa chi nelle Metamorfosi ha allo stesso modo subito la vendetta di un dio, Atteone (cfr. 3.249 ss.): undique circumstant mersisque in corpore rostris dilacerant falsi dominum sub imagine cervi, 84 85

minus codd. pl. : nimis F edd. recc.; forse tamen (cfr. Pont. 4.9.71)? Cfr. supra, p. 68 n. 100: satio può essere efficacemente confrontato con i verbi utilizzati in trist. 2 per descrivere il medesimo processo di ‘affievolimento’ della collera di Augusto nel corso del tempo (ematuresco, mitesco); il verbo è significativamente impiegato anche in trist. 3.11, un’elegia rivolta a un nemico: il passo è analizzato infra, p. 133.

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nec nisi finita per plurima vulnera vita ira pharetratae fertur satiata Dianae.

Il parallelo di Atteone, cui l’esule ha esplicitamente associato se stesso in trist. 2.105 s., mostra che la sazietà dell’ira divina corrisponde al raggiungimento di una fine ‘specula­ re’ che a sua volta coinvolge l’oggetto di quell’ira: nel caso del malcapitato cacciatore, è la fine della sua stessa vita a ‘colmare’ la collera della dea Diana (ira … satiata). Si trat­ ta di un parallelo inquietante per l’esule Ovidio, che lascia intravedere la drammatica possibilità che il poeta non assista vivo al completamento di quel processo di cui pure attende e auspica l’adempimento; eppure, nei versi finali di trist. 3.8 l’esule lamenta il fatto che Augusto ha deciso di non troncare la vita del poeta per mezzo di una soluzio­ ne drastica (vv. 39 s., tantus amor necis est, querar ut cum Caesaris ira, / quod non offensas vindicet ense suas) – un invito invero affatto provocatorio a imitare il gesto di Diana su Atteone, dal momento che la ‘vendetta’ del princeps, come già ampiamente illustrato in trist. 2, risulta al momento priva di quel carattere conclusivo che la renderebbe effetti­ vamente compiuta. Esiste tuttavia un’altra possibilità ‘conclusiva’ per l’esule: la fine speculare che coin­ volgerà il poeta nel momento in cui sarà giunto a compimento il processo di matura­ zione dell’ira satiata di Augusto potrebbe limitarsi a costituire la fine dell’opera lette­ raria che racconta di quel processo e che ne segue (e vorrebbe favorirne) l’evoluzione. La speranza di Ovidio è quella di raggiungere infine il satis conclusivo che segna il termine, oltre che della storia narrata, degli sforzi del poeta che la narra. Il modello virgiliano appare ancora una volta particolarmente significativo: già la prima opera del grande predecessore, le Bucoliche, utilizzava l’idea della ‘sazietà’ come segnale di chiu­ sura (cfr. 10.77, ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae: si tratta dell’ultimo verso della raccolta), stabilendo un parallelo stringente fra il termine del pascolo e la fine dell’opera di poesia pastorale.86 Quanto all’Eneide, abbiamo già accennato al fatto che la fine della vicenda appare continuamente ritardata dalla indisponibilità di Giunone a saziare la propria collera (cfr. 5.608, necdum antiquum saturata dolorem). Persuasa da Giove a non opporsi al volere del fato, la Saturnia87 decide infine di cedere di fronte

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Cfr. v. 70, haec sat erit, divae, vestrum cecinisse poetam; nell’ultimo verso, all’idea della sazietà si uni­ sce l’immagine della sera (venit Hesperus), altro tipico closural element: cfr. Hardie 1997, pp. 144 s.; un’immagine analoga chiude anche il terzo componimento della raccolta: cfr. 3.111, claudite iam rivos, pueri: sat prata biberunt. In ecl. 10, l’idea della non­sazietà è contrastivamente attribuita all’amo­ re cantato da Gallo: vv. 29 s., nec lacrimis crudelis Amor […] / nec cytiso saturantur apes … Per il collegamento paretimologico di Saturnus con il verbo saturo, cfr. Cic. nat. deor. 2.64 e 3.62; Virgilio sfrutta più volte quello che, nel contesto del poema, si pone come gioco etimologico κατ’ ἀντίφρασιν (la Saturnia è l’in-saziabile): si veda su questo O’Hara 2017, pp. 68 s.; Michalopoulos 2001, pp. 154 s. su Ov. met. 9.176–8. Sul ruolo di Giunone nell’Eneide, cfr. l’osservazione di Hardie 1992, p. 70: «we might see in Jupiter a male principle of stability and closure opposed to a Juno aiming at an indefinite deferral of Aeneas’ goal».

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al compromesso e di permettere alla vicenda (e al poema stesso) di raggiungere il suo scioglimento – non prima però che sia lasciato spazio al coronamento di un’altra ira, quella del protagonista Enea sul nemico Turno (cfr. 12.946 s., furiis accensus et ira / terribilis): ulteriore parallelo forse non del tutto rassicurante per Ovidio, dal momento che quella di Turno è pur sempre una fine cruenta e soprattutto ‘esilica’ (v. 952, vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras).88 trist. 3.8 risulta dunque parimenti utile alla comprensione di alcuni tratti essenziali dell’opera di poesia triste: quest’ultima si colloca infatti all’interno di una dimensione temporanea, nell’attesa del compimento di un processo esteso nel tempo, che l’opera insieme segue e cerca di accelerare. La condizione temporale che segna l’esperienza dell’esule si posiziona a metà strada fra il momento iniziale della condanna e il vagheg­ giato punto terminale corrispondente alla fine dell’esilio, che il poeta naturalmente spera possa non coincidere con quello della morte – una speranza destinata ad affievo­ lirsi nel corso dei lunghi anni trascorsi a Tomi.89 Il tempo dell’attesa (interea), scandito dalla continua e necessaria aggiunta delle varie raccolte poetiche progressivamente in­ viate a Roma, rischia tuttavia – come vedremo – di assumere i tratti di un tempo eter­ no, senza confini, quando meno immediatamente visibile all’esule risulta il momento della fine (v. 24): ei mihi, perpetuus corpora languor habet. Il rischio dell’eternità, di quella relativa assenza di limiti temporali che aveva caratterizzato il perpetuum carmen metamorfico (met. 1.4), è il continuo e sempre più concreto timore di un poeta che, questa volta, vorrebbe che il carmen dell’esilio fosse tutt’altro che perpetuum.90

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La descrizione della morte di Turno al penultimo verso del poema (ast illi solvuntur frigore membra) allude del resto a una sensazione fisica spesso lamentata dall’esule (per l’uso di solvo, cfr. p. es. Pont. 1.4.17 ss.; si veda in generale la stessa descrizione di trist. 3.8.29 ss., quique per autumnum percussis frigore primo / est color in foliis, quae nova laesit hiems, / is mea membra tenet …; fra le altre descrizioni del ‘mal d’esilio’, cfr. Pont. 1.10.3 ss.); sull’ira di Enea al termine dell’Eneide, cfr. Davis 2016. In trist.  3.3.59 ss. il poeta guarda con orrore alla possibilità che anche dopo la morte la sua om­ bra continui a vagare in territorio pontico (inter Sarmaticas Romana vagabitur umbras,  / perque feros Manes hospita semper erit), una possibilità contemplata sulla base delle teorie di Pitagora, cui Ovidio ha riservato ampio spazio in met. 15 (l’augurio opposto, quello cioè che l’anima muoia insieme col corpo, è espresso da Ovidio in termini lucreziani: cfr. Mastandrea 2011); si veda inoltre trist. 5.7.23 s., atque utinam vivat, non et moriatur in illis, / absit ab invisis et [v. l. ut] tamen umbra locis. Cfr. trist.  5.4.17, nec fore perpetuam sperat sibi numinis iram [scil. Naso]. Il primo significato di perpetuum in met. 1.4 è quello di «continuo», laddove il telos del poema è contemporaneamente indicato nell’ad mea … tempora dello stesso verso, «ma nel contesto di un proemio ricco di auto­ coscienza letteraria non può mancare l’anfibologia «eterno, destinato a durare»: questo secondo tema sarà ripreso nell’epilogo, tutto incentrato sull’idea di fama imperitura» (Barchiesi 2005 ad loc.).

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3.3 La mora di Medea esule: trist. 3.9 Anche l’elegia eziologica trist. 3.9 è in grado di fornirci qualche spunto a proposito del tempo ‘narrativo’ dei Tristia, del modo cioè in cui l’esule sembra concepire la propria opera di poesia triste nell’ambito di quel tempo dell’attesa che abbiamo visto caratte­ rizzare le raccolte progressivamente composte a Tomi. Una delle maggiori difficoltà del poeta in esilio consiste infatti proprio nella necessità di ‘riempire’ quel tempo, nel bisogno di proseguire il racconto dell’esilio cercando insieme, attraverso l’opera di per­ suasione rivolta ai destinatari, di ridurne la durata e di affrettarne la conclusione, senza tuttavia essere in grado di decidere quando l’opera potrà finalmente terminare – pre­ rogativa, quest’ultima, riservata all’auctoritas politica, i cui poteri sul prodotto lettera­ rio rischiano sempre più chiaramente di sopravanzare quelli del poeta auctor dei suoi versi. In trist. 3.9 l’esule affronta il problema in termini di tecnica narrativa, a partire dal racconto dell’origine cruenta del nome della cittadina pontica in cui è ora costretto a scontare la propria pena: ‘Tomi’ va infatti ricollegato al greco τέμνω, «tagliare» e si ri­ ferisce allo smembramento del fratello Absirto realizzato da Medea nel corso della sua fuga dalla Colchide, che Ovidio immagina avvenuto proprio nel luogo dove sarebbe sorta la città (vv. 33 s., inde Tomis dictus locus hic, quia fertur in illo / membra soror fratris consecuisse sui). In due importanti lavori sulla poesia ovidiana dell’esilio, Ellen Oliensis e Stephen Hinds hanno proposto un’interpretazione ‘attualizzante’ di trist.  3.9 mostrando il modo in cui ai personaggi protagonisti del racconto mitico, Medea e Absirto, possano essere rispettivamente sovrapposte le figure di Augusto (il ‘carnefice’) e Ovidio stesso (la ‘vittima’), una sovrapposizione che il poeta sembra in certa misura suggerire anche attraverso la collocazione dell’elegia all’interno del libro.91 Seguendo la prospettiva del parallelo fra i due piani temporali, è importante a mio avviso valorizzare il carattere eziologico assegnato al componimento: come sa chi ha dedicato un’intera opera a que­ sto genere poetico, il racconto delle causae prevede l’individuazione del momento fon­ dante che rappresenta l’origine di un culto o di una usanza (in questo caso, di un nome), cui va ricondotta la traccia che di quell’evento è sopravvissuta fino al tempo presente.92 In questo senso, può essere utile notare che anche la poesia dell’esilio di Ovidio possie­ de un momento ‘fondativo’, quella dies della sventura che i lettori dei Tristia possono ricostruire soltanto in parte attraverso i criptici riferimenti del poeta (cfr. trist. 2.109 s., illa nostra die, qua me malus abstulit error, / parva quidem periit, sed sine labe domus). 91

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Oliensis 1997, pp. 186 ss.; Hinds 2007, pp. 196 ss. Cfr. già Schubert 1990, p. 157: «Trist. 3,9 erschöpft sich nicht in der Erzählung eines aitiologischen Mythos, sondern reflektiert auch die Gegenwart des Dichters. Insofern ist es legitim, zu fragen, ob sich darin auch Ovids Schicksal spiegelt und sich vielleicht gar Chiffren finden lassen […] in dem Sinne, daß Analogien zwischen dem Kaiser und Medea sowie zwischen Ovid und Absyrtus bestehen». Un procedimento che può non di rado creare «as many explanatory problems as it solves» (Fee­ ney 2007, p. 160, con bibliografia).

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La menzione della dies da cui hanno tratto origine tutti i mali del poeta contribuisce ad associare la parabola dell’esule al topico paradigma tragico noto come ἀρχὴ κακῶν, dif­ fusamente impiegato dallo stesso Ovidio soprattutto nelle Heroides, ma già sfruttato da Virgilio nel celebre episodio di Didone nell’Eneide, del quale era naturalmente implica­ ta la funzione eziologica rispetto alla rivalità storica fra Roma e Cartagine.93 Se dunque in trist. 3.9 è possibile ravvisare un inquietante parallelo fra la coppia Medea­Absirto e quella formata da Augusto e Ovidio, all’episodio di estrema violenza da cui ha tratto origine il nome del locus dell’esilio va fatto corrispondere il momento principe della condanna, la prima dies che ha violentemente segnato, oltre che l’esperienza biografi­ ca del poeta, lo sviluppo della poesia che da allora continua a procedere ininterrotta. Potrebbe valere qualcosa ricordare, a questo proposito, che un’immagine di smembra­ mento è stata impiegata da Ovidio anche in trist. 1.3, l’elegia che secondo la cronologia degli eventi – la fabula – occupa la prima posizione nel romanzo dell’esilio: lo strappo delle membra che l’esule ha metaforicamente percepito (vv. 73 s., dividor haud aliter, quam si mea membra relinquam, / et pars abrumpi corpore visa suo est) trova riscontro nell’effettivo sparagmos subito da Absirto per mano dell’impia sorella (trist. 3.9.27 s., atque ita divellit divulsaque membra per agros / dissipat in multis invenienda locis). Così, se il nome di Tomi trae la propria origine ab Absyrti caede (v. 6), la poesia triste dell’esu­ le procede ab Ovidi fuga:94 formalmente, dalla dies della condanna, i cui precisi contor­ ni sono tuttavia volutamente sfumati dal poeta; nel concreto, dalla dies della partenza, la tristissima noctis imago da cui cominciano i Tristia.95 trist. 3.9 può dunque contribuire al racconto dell’eziologia dell’esilio, aiutandoci soprattutto a focalizzare l’importanza del momento fondativo della condanna come spunto generativo – come causa – della poesia praticata dall’esule. C’è tuttavia da no­ tare che, al di là del parallelo cui si accennava, è possibile cimentarsi in altre associa­ zioni fra i personaggi menzionati nell’elegia e i protagonisti del racconto dell’esilio.96 In particolare, sulla scorta di una precisa declinazione del paradigma mitico in oggetto, sembra abbastanza evidente, nell’elegia, la caratterizzazione di Medea come esule, per quanto la fuga dell’eroina sia naturalmente da ricondurre alla consapevole scelta di abbandonare il padre e la patria (vv. 7 ss.):

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Verg. Aen. 4.169 s., ille dies primus leti primusque malorum / causa fuit; cfr. p. es. Ov. her. 5.33 ss. (illa dies fatum miserae mihi dixit …), 7.93 s. (illa dies nocuit …, con chiara allusione al passo virgiliano: cfr. Piazzi 2007 ad loc.), 12.32 (illa fuit mentis prima ruina meae). Cfr. Pont. 4.13.42, primaque tam miserae causa fuere fugae [scil. carmina]. Cfr. Fucecchi 2019, p. 96, dove a proposito della presenza del mito argonautico nell’Ovidio dell’esi­ lio si nota che «in questo inizio di una nuova fase della vita e della produzione dell’autore non potevano mancare riferimenti al mito inaugurale dell’età eroica». Cfr. del resto quanto osservato da Oliensis 1997, p.  188: «this superabundance means that the poem supports several interpretations but endorses none in particular; every interpretation breaks down over what it cannot accommodate».

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Tristia 3–5 e la poetica dell’addizione

nam rate, quae cura pugnacis facta Minervae per non temptatas prima cucurrit aquas, impia desertum fugiens Medea parentem dicitur his remos applicuisse vadis.

In questi primi versi del racconto Medea è visualizzata singolarmente, al punto da sem­ brare l’unica passeggera della nave Argo, la prima ratis della storia; anche nel seguito dell’elegia, al di là del vago accenno ai Minyae al v. 13 e alla praesentia dello sfortunato fratello (v. 23), l’eroina appare del tutto isolata: soprattutto, non è fatta alcuna menzio­ ne di Giasone, l’uomo al cui seguito Medea sta fuggendo. La fuga da un membro della propria famiglia in cui l’eroina è impegnata, l’esito incerto del tragitto (per non temptatas … aquas),97 l’approdo a una terra ignota permettono di associare la vicenda di Me­ dea a quella di altre eroine esuli del mito, prima fra tutte, ancora una volta, Didone: nonostante le differenti motivazioni alla base della fuga, anche la futura regina di Car­ tagine è costretta a scappare dal fratello e ad approdare, esule, a una terra sconosciuta, come emerge dalla trattazione della vicenda proposta da Ovidio in her. 7.115 ss. (exul agor cineresque viri patriamque relinquo, / et feror in duras hoste sequente vias; / applicor ignotis fratrique elapsa fretoque …).98 In trist. 3.9, anche Medea è a suo modo indiretta fondatrice di una città, perlomeno responsabile del nome che essa avrebbe ereditato a seguito dell’efferato delitto da lei commesso (v. 5, vetus … nomen, positaque antiquius urbe).99 Rimanendo tuttavia alle Heroides, è la medesima Medea autrice dell’epistola a Giasone a descrivere la propria condizione come un autentico esilio (12.109 s., proditus est genitor, regnum patriamque reliqui, / munus in exilio quodlibet esse tuli), riferendosi in particolare al frangente della propria storia in cui essa è colta anche in trist. 3.9.100

Su Argo prima ratis in trist. 3.9 si veda ancora Fucecchi 2019, pp. 96 ss. Questi versi ripetono il racconto di Verg. Aen. 1.340 ss.: imperium Dido Tyria regit urbe profecta / germanum fugiens etc.; per la volontà dell’eroina ovidiana di assimilare il proprio destino a quello dello stesso Enea, cfr. la n. di Piazzi 2007 ad loc. (che fra l’altro stampa applicor his oris per il tràdito applicor ignotis). 99 Mito di fondazione in associazione a un fratricidio: la storia dell’origine di Tomi potrebbe non essere molto diversa da quella di Roma, e sembra infatti possibile rintracciare, in trist. 3.9, qual­ che richiamo verbale al racconto dell’uccisione di Remo in fast. 4.837 ss. (sul trattamento della vicenda nei Fasti si veda in generale Stok 1991): cfr. in part. trist. 3.9.25, ignari ~ fast. 4.841, ignorans; trist. 3.9.30, sanguineum ~ fast. 4.844, sanguinulentus. 100 La caratterizzazione di Medea come φυγάς è del resto ampiamente sfruttata da Euripide nella tra­ gedia omonima: cfr. Battistella 2007, secondo cui il modello della Medea esule è di per sé attivo negli stessi versi citati di her. 7, l’epistola di Didone. Sul distico di her. 12 sono da vedere anche Rosati 1989a; Bessone 1997 ad loc. Ricordo che Medea exul è il titolo attribuito al dramma di Ennio in alcune fonti indirette: si discute se esso identifichi un’altra tragedia rispetto alla Medea (ampia bibliografia in Manuwald 2012, p. 187; Falcone 2016, pp. 31 s., dove si ritiene poco probabile l’ipotesi dei due drammi); lo stesso titolo introduce Hyg. fab. 26, che riferisce le vicende posteriori alla fuga dell’eroina da Corinto. Su Medea esule in Ovidio, cfr. Arcellaschi 1990, pp. 287 ss. 97 98

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Se dunque anche Medea è esule, sembra possibile stabilire, nella nostra elegia, un parallelo fra la sua figura e, anziché quella del ‘carnefice’ Augusto, proprio quella del parimenti esule Ovidio. D’altronde, la menzione di Minerva quale divinità ‘autrice’ della nave Argo (v. 7) rimanda il lettore dei Tristia a una precedente elegia dell’esilio, trist. 1.10, in cui il poeta ha parlato della tutela che alla sua nave garantiva proprio Mi­ nerva, dal cui elmo essa prendeva anche il nome (vv. 1 s., est mihi, sitque precor, flavae tutela Minervae, / navis et a picta casside nomen habet).101 La nave di Medea (cioè degli Argonauti), costruita sotto gli auspici di Minerva e capace di solcare acque non mai praticate (nella fattispecie, quelle del Ponto), si rivela assai simile alla nave dell’esule: quella effettiva, a bordo della quale il poeta ha raggiunto la terra del proprio esilio; e an­ che quella poetica, simbolo di un’opera nuova, che ha portato il poeta a intraprendere i sentieri mai battuti di un tipo di poesia senza precedenti.102 Quest’ultima osservazione a proposito della nave dell’esule, metaforicamente in­ tesa come simbolo dell’opera letteraria in corso, suggerisce d’altronde la possibilità di un confronto fra la vicenda mitica narrata nell’elegia e l’operazione poetica dell’esule a un livello più generale; del resto, abbiamo già notato che la posa eziologica assunta dal poeta in trist. 3.9 può essere accostata al gesto attraverso cui Ovidio individua nella dies della condanna l’origine prima dei propri mali, rintracciando in essa il fondamento della nuova poesia triste. C’è tuttavia un altro aspetto del racconto di trist. 3.9 in grado di dirci qualcosa a proposito del modo in cui Ovidio concepisce la funzione di questa stessa poesia nella circostanza biografica che ne segna il contenuto. A questo scopo è interessante osservare che nel racconto dell’episodio fornito dall’esule si insiste in modo piuttosto evidente sul vero proposito che spinge Medea a commettere l’atroce delitto, un proposito che il lettore è agevolmente portato a credere puntualmente conseguito: ritardare il padre lanciato all’inseguimento. Si tratta di ciò che innanzitutto la stessa Medea individua come necessità stringente in una battuta pronunciata in discorso diretto (vv. 19 s., ergo ubi prospexit venientia vela, ‘tenemur, / et pater est aliqua fraude morandus’ ait). Nel penultimo distico dell’elegia, che di per sé corrisponde agli ultimi versi dell’episodio prima del ritorno al tempo del presente tomitano, tocca quindi al narratore esplicitare il fine che ha guidato il gesto di Medea (vv. 29 ss.): neu pater ignoret, scopulo proponit in alto pallentesque manus sanguineumque caput,

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Cfr. Schubert 1990, p. 158; Fucecchi 2019, p. 99. Al verso per non temptatas prima cucurrit aquas va naturalmente riconosciuta una risonanza calli­ machea. Sulla rilevanza della figura di Medea esule per l’esule Ovidio si veda ancora Arcellaschi 1990, pp. 241 ss.: «[…] Médée, et avec elle aussi tous ceux qui l’entourent, fournissent au poète une mine inépuisable de comparaisons et d’images qui l’aident à traduire son désarroi et, peut­être encore, à supporter son sort sans trop d’amertume» (un giudizio in realtà esagerato).

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ut genitor luctuque novo tardetur et, artus dum legit extinctos, triste moretur iter.

La rilevanza assegnata al ritardo procurato da Medea al padre non è una novità di Ovi­ dio, che in trist. 3.9, in accordo con la circostanza biografica e quindi l’esigenza poetica, introduce una serie di dettagli meno diffusi ma non estranei al mito in questione, a cominciare dalla località stessa in cui, secondo una delle versioni, sarebbe avvenuto l’assassinio di Absirto.103 Il dettaglio dello smembramento del fratello finalizzato a ritar­ dare l’inseguimento del genitore si trova in un frammento adespoto citato da Cicerone in nat. deor. 3.67:104 atque eadem Medea patrem patriamque fugiens, ‘postquam pater adpropinquat iamque paene ut conprehendatur parat, puerum interea obtruncat membraque articulatim dividit perque agros passim dispergit corpus: id ea gratia, ut, dum nati dissipatos artus captaret parens, ipsa interea effugeret, illum ut maeror tardaret sequi, sibi salutem ut familiari pareret parricidio’.105

La vicinanza del testo di Ovidio a questo frammento sembra confermata, oltre che dal dettaglio del procurato ritardo, dalle espressioni per(que) agros (cfr. v. 27) e salutem (cfr.

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I tragici greci sembrano conoscere solamente la versione per cui l’assassinio avviene all’interno del palazzo di Eeta (cfr. Soph. fr. 343 Radt; Eur. Med. 1334); Apollonio (cfr. 4.445 ss.) lo colloca invece nel corso della fuga di Medea con gli Argonauti dallo stesso Absirto che li insegue (a compiere materialmente l’assassinio è fra l’altro Giasone), ma in corrispondenza dell’arcipelago di isole che avrebbero preso il nome di Ἀψυρτίδες, localizzabili nella fascia nord­orientale del mar Adriatico (cfr. Hunter 2015 ad 4.480–1); cfr. parimenti Hyg. fab. 23. Già in Apollonio (e forse in Accio, il cui dramma Medea sive Argonautae ricalca da vicino il modello ellenistico: cfr. D’Antò 1980, pp. 360 s.) è dunque presente il racconto di un’eziologia, che tuttavia non ha niente a che vedere con quella proposta da Ovidio, di cui si trova una testimonianza in Apollodoro (bibl. 1.9.24, τὰ σωθέντα τοῦ παιδὸς μέλη θάψας [scil. Αἰήτης] τὸν τόπον προσηγόρευσε Τόμους): l’origine del nome di Tomi da τέμνω non è pertanto da ritenersi invenzione ovidiana, per quanto essa risulti una variante senza dubbio meno nota. 104 La versione secondo cui il padre Eeta, e non il fratello Absirto (ancora fanciullo), si sarebbe lan­ ciato all’inseguimento di Medea, che a sua volta aveva caricato il fratello con sé sulla nave e lo avrebbe poi smembrato per rallentare il padre, è testimoniata anche in Ferecide (3 F 32a–b Jacoby, ἐπεὶ δὲ ἐδιώχθησαν, σφάξαι καὶ μελίσαντας ἐκβαλεῖν εἰς τὸν ποταμόν: il Danubio?), oltre che sempre in Apollodoro (bibl. 1.9.24, συναθροίζων δὲ Αἰήτης τὰ τοῦ παιδὸς μέλη τῆς διώξεως ὑστέρησε). Il frammento citato da Cicerone è stato giustamente messo in relazione ad Accio: cfr. in part. Falcone 2016, pp. 188 ss. (con ulteriore bibliografia). 105 Cicerone fa riferimento alla medesima versione in Manil. 22, dove alla fuga di Medea dal Ponto è paragonata quella di Mitridate: ut ex eodem Ponto Medea illa quondam profugisse dicitur, quam praedicant in fuga fratris sui membra in eis locis qua se parens persequeretur dissipavisse, ut eorum conlectio dispersa maerorque patrius celeritatem persequendi retardaret.

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v. 24, causa salutis), ma è l’intera costruzione sintattica degli ultimi tre versi del brano a far sospettare una ripresa diretta (ut, dum … artus captaret parens, / … effugeret, illum ut maeror tardaret sequi ~ vv. 31 s., ut genitor luctuque … tardetur et, artus / dum legit …, triste moretur iter).106 In entrambi i testi la sospensione del percorso imposta da Medea al padre si coniuga alla menzione della profonda tristezza che segna il pietoso gesto di Eeta (maeror ~ luctu, triste), costretto a raccogliere (legit nel testo di Ovidio) i membra dispersi del figlio. È importante notare, a questo punto, che  – nell’ideale continuum narrativo rap­ presentato dal racconto dell’episodio in questione (la prosecuzione del frammento ciceroniano?) – il ritardo che Medea impone al padre finisce inevitabilmente, secon­ do il più o meno perspicuo disegno del poeta­narratore, per coinvolgere i lettori (o gli ascoltatori/spettatori) che, insieme con Eeta, sono costretti essi stessi a ‘fermarsi’, essendo loro parimenti imposta una sosta nell’avanzamento della trama, un brusco rallentamento del concitato ritmo narrativo che ha finora segnato l’episodio: che ne sarà dell’inseguimento di Eeta? Riuscirà il padre a raggiungere gli Argonauti e la figlia in fuga, nonostante l’inopinato ritardo? Quanto durerà la mora di Eeta sul luogo del­ lo smembramento?107 Né il frammento riportato in Cicerone né trist. 3.9, che curiosa­ mente sospendono il racconto nel medesimo punto, sono in grado di rispondere alle legittime domande del lettore, il quale, in corrispondenza della sospensione dell’inse­ guimento da parte di Eeta, viene a sua volta posto nella condizione di dover senz’altro sospendere la lettura. In trist. 3.9 Medea compie dunque un gesto rilevante non soltanto nell’economia della trama dell’episodio di cui è protagonista (e nell’economia del resoconto eziologi­ co, che individua nel suo gesto la causa del nome di Tomi), ma – a un livello ulteriore – anche nel contesto della strategia narrativa adottata dal poeta nel breve spazio di que­ sta elegia. L’espediente narrativo della mora, del ‘ritardo’ provocato allo scioglimento della trama e dunque al lettore, rappresentava d’altronde – come abbiamo detto – un elemento decisivo già nell’Eneide. Nel ben più limitato orizzonte del componimento eziologico dell’esule, alla mora andrà riconosciuta una funzione analoga e insieme di­ versa: come Medea ai danni del padre, anche il narratore di trist. 3.9 costringe i suoi let­ tori a ‘fermarsi’ a Tomi, sottraendo loro la possibilità di conoscere l’esito della vicenda

106 L’esposizione della testa e delle mani insanguinate (v. 30) sembra invece a tutti gli effetti un’aggiun­ ta ovidiana, con chiaro riferimento al destino di Cicerone: cfr. Oliensis 1997, p. 189; Hinds 2007, pp. 203 ss. Per un puntuale confronto tra il frammento e trist. 3.9 si veda Degl’Innocenti Pierini 1980, p. 149. 107 Secondo la corrispondente versione mitica, Eeta decide a questo punto di cambiare rotta per sep­ pellire i resti del figlio, affidando infine ai suoi uomini la prosecuzione delle ricerche (cfr. Apollod. bibl. 1.9.24): nel seguito dell’episodio, la mora ‘tomitana’ segna così per il padre la conclusione dell’inseguimento; può essere utile inoltre ricordare che l’assassinio di Absirto potrebbe essere stato l’atto conclusivo della Medea di Accio (il frammento riportato in Cicerone come resoconto finale pronunciato da un messaggero? Cfr. ancora Degl’Innocenti Pierini 1980, p. 153).

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mitica oggetto della narrazione; se dunque Virgilio sfruttava le morae provocate dalla dea ostile al protagonista come strumento in grado di prolungare la trama, Ovidio si associa a Medea nel parimenti riuscito tentativo di ritardarla, finendo però così di fatto per interromperla prima della fine. Ci si potrebbe quindi chiedere se alla mora di Medea in trist. 3.9 non sia possibile attribuire un significato che vada al di là della sua funzione limitata al racconto della vicenda mitica di cui l’elegia offre un segmento, coinvolgendo al contrario la ‘narrazio­ ne’ di un’altra vicenda, quella del poeta esule che la racconta.108 Il carattere di excursus che l’elegia di fatto possiede rispetto alla ‘trama’ dell’opera in cui si trova – il racconto dell’esilio – potrebbe indurre a considerarla essa stessa una mora, una deviazione dal principale focus del poeta narratore della propria esperienza autobiografica. Per tor­ nare al penultimo distico, come acutamente nota ancora Oliensis, il ritardo del triste iter cui Eeta è costretto nell’atto di «raccogliere» i resti del figlio (v. 32, dum legit) corrisponde in questo senso al ritardo dei lettori costretti a sospendere l’iter dei Tristia nell’atto di «leggere» il cruento episodio.109 L’associazione fra la protagonista del rac­ conto di trist. 3.9, Medea, e il protagonista del più ampio racconto dell’esilio oggetto dei Tristia, il narratore Ovidio, offre così ancora una volta la possibilità di individuare nel gesto ritardante e, dunque, ‘inconcludente’ una caratteristica fondamentale di que­ sta poesia, che si presenta come caratterizzata da una costitutiva tendenza al continuo differimento e alla perenne incompiutezza. Al di là del singolo carme rappresentato da trist. 3.9, è la poesia di Ovidio a Tomi a costituire infatti una mora (cfr. trist. 5.1.34, passo discusso supra, pp. 98 s.), una lunga attesa del momento conclusivo che soltanto Augusto potrà sancire e il cui ‘ritardo’ è causa della continuazione di questa poesia. Ai lettori è così proposta una serie di elegie e di raccolte che ogni volta rendono vane le aspettative di una fine, e che anzi si confi­ gurano come i disiecta membra di un poeta che non è più unico padrone della vicenda narrata e che, come Medea con Eeta, costringe ogni volta i lettori a sospendere e a ricominciare, a tardare e a proseguire il triste iter della lettura. 3.4 Tempi difficili: cicli temporali e (in)finitezza dell’esilio in trist. 3.10–13 Nella nostra discussione del contrasto fra limite e continuazione come elemento cen­ trale nella costituzione dell’opera di poesia triste di Ovidio, abbiamo visto che il tempo 108 In questa direzione sembra puntare Tola 2004, p. 278: «Médée, directement liée à la ville de l’exil d’Ovide, permet au poète de mettre en relief, à travers le plan mythique, l’imaginaire d’une frag­ mentation du narrateur». 109 Oliensis 1997, p. 188: «in the light produced by the conjunction of the verb legere and the adjective triste, the ‘sad journey’ is revealed to be the reader’s journey through the Tristia, which suggests that we should identify Ovid chiefly with Medea, the escape artist who has left these dead pieces behind for us to read».

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intermedio dell’attesa si configura come la dimensione continua entro cui il poeta in­ tende collocare i propri versi dell’esilio: a fronte del momento ‘fondativo’ che ha dato origine alla circostanza biografica e, di conseguenza, all’opera poetica dell’esule – la dies primigenia della condanna – la posizione assunta da Ovidio nelle elegie prodotte a Tomi è, in generale, una posizione di attesa e di speranza continuamente proiettata verso la fine della propria esperienza di esule. Nelle raccolte progressivamente inviate a Roma, tuttavia, il poeta dimostra di essere pienamente consapevole di un rischio, esistenziale e poetico insieme, che la propria stessa condanna ha implicato fin dall’ini­ zio – perché è un rischio insito nella tipologia di provvedimento intrapreso da Augusto contro Ovidio: il rischio, in buona sostanza, di vedere prolungarsi un tempo ostinata­ mente concepito – perlomeno dall’esule, ma non senza ragioni – come ‘intermedio’ e dunque provvisorio, e però inesorabilmente tendente a trasformarsi in un tempo eterno, senza fine, destinato fino all’ultimo ad accompagnare il poeta e a determinare i contenuti, oltre che più in generale il tono, della sua poesia. Come anticipato, questo contrasto che informa l’intera produzione dell’esilio può essere altrimenti descritto come una contrapposizione fra le due tradizionali concezioni del tempo parimenti at­ tive in antichità e non solo, il tempo lineare e il tempo ciclico: a una sostanziale idea progressiva che presuppone la passata cesura nella biografia del poeta e tuttavia il fu­ turo risanamento di quello strappo l’esule è sempre più drammaticamente costretto a contrapporre il timore di aver raggiunto una condizione, quella di esule a Tomi, defi­ nitiva e incapace di mutamento, il cui unico movimento è rappresentato dal continuo senso di ripetizione  – un movimento appunto ciclico, un eterno ritorno  – di cui le collezioni di elegie tristi, all’apparenza sempre uguali a se stesse, sono il prodotto più evidente. Vorrei ora mostrare in che modo questo contrasto può essere rintracciato in una sequenza di componimenti del terzo libro dei Tristia, le elegie 10–13. Le elegie 10 e 12 forniscono, nel contesto della prima raccolta interamente composta a Tomi, la prima delle numerose (e celebri) descrizioni della desolante terra dell’esi­ lio, nella sua versione invernale (10) e in quella primaverile (12). I due componimenti sono stati resi oggetto di numerose analisi, in alcune delle quali si è notoriamente vo­ luto insistere sulla poca affidabilità delle descrizioni presentate da Ovidio, indizio che ha addirittura indotto a dubitare della credibilità dell’esilio tout court. Al di là della Fiktionsthese e dei rapporti con i modelli letterari, vorrei piuttosto puntare l’attenzione su un aspetto di questi testi che forse non ha ricevuto la dovuta attenzione,110 ma che si inserisce nel contesto del più ampio discorso che stiamo svolgendo sul trattamento del tempo nell’opera dell’ultimo Ovidio. Se si leggono i primi versi di trist. 3.10, siquis adhuc istic meminit Nasonis adempti, et superest sine me nomen in urbe meum,

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Un’importante eccezione è costituita da Hinds 2005 (cfr. in part. pp. 213 ss. e supra, pp. 22 s.); buoni spunti anche in Williams 2002, p. 356.

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suppositum stellis numquam tangentibus aequor me sciat in media vivere barbaria,

si può notare che l’eterna contrapposizione fra Roma e il territorio pontico si realizza anche in termini temporali. Le due realtà geografiche, a ognuna delle quali è dedicato un distico, sono infatti accompagnate da altrettanti avverbi di tempo: all’adhuc (v. 1) riferito all’istic, cioè Roma, risponde il numquam che al v. 3 descrive la posizione fissa dell’Orsa, la costellazione visibile a Tomi che, come Ovidio ricorda anche altrove, non tramonta mai sotto l’orizzonte, costituendo per questo un riferimento importante per chi naviga.111 La speranza che qualcuno conservi «ancora» memoria dell’esule nella città presuppone il passaggio di un certo lasso temporale dal momento in cui il poeta ha lasciato la patria, e il timore di Ovidio è esattamente quello di scoprire che non sopravvive alcun ricordo di sé a causa dell’ormai prolungata assenza (superest sine me nomen … meum). Se dunque a Roma allo scorrere del tempo è attribuito il potere di mutare le persone e le cose, oltre che i ricordi, l’immagine della costellazione per sem­ pre destinata a non toccare le acque del mare veicola al contrario un’idea di ostinata staticità – o piuttosto, di inesorabile atemporalità. Il paesaggio di Tomi – la geografia dell’esilio – risponde così a una caratteristica che più in generale segna l’esperienza psicologica dell’esule, la percezione soggettiva e distorta delle determinazioni tempo­ rali, che vedremo costituire un tema cruciale anche nelle successive raccolte di Tristia. Ma non è tutto. L’immagine atemporale dell’Orsa destinata a non toccare le acque in eterno trova in realtà una ragione ben precisa nel mito che ne sta alla base, di cui Ovidio ha reso ampio conto in met. 2: si tratta della storia di Callisto (la ursa Erimanthis menzionata già in trist. 1.4.1), punita in questi termini da una Giunone al culmine della sua ira (met. 2.527 ss.): at vos si laesae tangit contemptus alumnae, gurgite caeruleo Septem prohibete triones, sideraque in caelo, stupri mercede, recepta pellite, ne puro tingatur in aequore paelex.

È naturalmente assai significativo che la geografia dell’esilio di Ovidio si ponga sotto il segno di una costellazione che costituisce la residua traccia di una punizione eter­

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Per la costellazione dell’Orsa, cfr. già trist. 3.4b.47 s.; in trist. 4.3.1 ss. sono citate le due Orse (magna minorque ferae) capaci di «governare» le diverse rotte marine in quanto utraque sicca: a esse Ovidio chiede di volgere lo sguardo alla moglie e di comunicargli se gli è ancora fedele, salvo poi rispondersi (affermativamente) da solo, dal momento che le stelle non possono parlare (vv. 15 s., quodque polo fixae nequeunt tibi dicere flammae, / non mentitura tu tibi voce refer): la ‘fissità’ della costellazione si traduce qui in ‘incomunicabilità’, un tratto caratterizzante dell’esperienza esilica di Ovidio.

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na inflitta a una vittima innocente da parte di una divinità adirata.112 L’impossibilità di tangere aequor cui l’Orsa è condannata associa inoltre il destino di Callisto a quello di altri celebri dannati dell’antichità, in particolare Tantalo.113 La menzione del dettaglio astronomico all’inizio di trist. 3.10 diventa dunque il primo inquietante segno di quel ‘rischio dell’eternità’ da cui il condannato Ovidio, costretto ora a vivere in media … barbaria (v. 4), risulta intrinsecamente minacciato. Se poi si prosegue la lettura dell’elegia ‘dell’inverno’, altri elementi del paesaggio to­ mitano contribuiscono a questa impressione di attutita atemporalità, che ovviamente partecipa del più generale intento di trasmettere un’immagine incredibile e ‘spettaco­ lare’ a lettori che non avranno potuto vantare la diretta esperienza di quei territori.114 È importante notare che questa apparente assenza di tempo si manifesta soprattutto nel carattere perpetuo, nell’aspetto eterno – si tenga presente la posizione fissa dell’Orsa con cui si è aperta l’elegia – che viene attribuito agli elementi rilevati nella descrizione del poeta. Una volta imbiancata dalle prime nevi, la terra di Tomi si rassegna a divenire preda di uno strato di ghiaccio perenne (vv. 13 s.): nix iacet, et iactam, ne sol pluviaeque resolvant, indurat Boreas perpetuamque facit.

Oltre all’aggettivo perpetuam, anche il doppio gioco fonico (iacet … iactam; sol … resolvant) – figure di suono fondate appunto sulla ripetizione – compongono un’imma­ gine di caparbia immobilità,115 a sua volta rafforzata dalla personificazione del vento settentrionale Borea, cui nella formulazione del poeta viene addirittura attribuita la ‘volontà’ di ghiacciare il terreno allo scopo di scongiurare l’azione di scioglimento pro­ dotta dal sole e dalla pioggia (ne sol pluviaeque resolvant, / indurat Boreas). Il risultato è la permanenza della neve per un tempo lunghissimo (vv. 15 s., ergo ubi delicuit nondum prior, altera venit, / et solet in multis bima manere locis), una permanenza che implica la completa perdita dei riferimenti temporali consueti.116 Così, la medesima impressione di immobilità è trasmessa dall’uso del notevole numero di verbi statici: oltre agli stessi

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Sul valore simbolico della costellazione in trist. 1.3.48 si sofferma Natoli 2017, p. 101: «the constella­ tion, which is most visible throughout the night, signals the arrival of the exile’s day of relegation, a day on which he, like Callisto, would undergo metamorphic speech loss». Cfr. la descrizione della pena in Hom. Od. 11.582 ss. Su questo aspetto mi sono soffermato in Galfré 2017, pp. 192 ss., cui rimando anche per l’ulteriore bibliografia. Immagine senz’altro banalizzata dalla congettura di Hall nix intacta iacet, che elimina l’efficace cop­ pia di verbi (una sorta di ‘falso poliptoto’). L’assenza di mutamenti temporali provocata dalla permanenza dell’inverno è già presente nel prin­ cipale testo­modello per Ovidio in trist. 3.10, la descrizione della Scizia di Verg. georg. 3.349 ss. (per cui si vedano soprattutto Besslich 1972; Evans 1975); si considerino in particolare i vv. 356 ss., dove all’uso della ripetizione andrà riconosciuta una funzione analoga: semper hiems, semper spirantes frigora Cauri; / tum Sol pallentis haud umquam discutit umbras, / nec cum invectus equis altum petit aethera, nec cum / praecipitem Oceani rubro lavit aequore currum.

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iaceo (v. 13) e maneo (v. 16), si aggiungano almeno consisto (vv. 23 e 37), concresco (vv. 25 e 32), sto (v. 47) e haereo (v. 49), cui va unito l’inmotas riferito alle aquas al v. 38. Alla staticità del paesaggio dominato dal freddo si contrappone il movimento dei barbari, cui in inverno è data la possibilità di attraversare il Danubio ghiacciato (vv. 53 s., protinus aequato siccis Aquilonibus Histro / invehitur celeri barbarus hostis equo); la presenza di questi popoli è tuttavia talmente vicina e minacciosa che, il poeta osserva, il timore di una loro incursione impedisce ai contadini tomitani di vivere in pace anche quando i barbari non ci sono (vv. 69 ss.): tunc quoque, cum pax est, trepidant formidine belli, nec quisquam presso vomere sulcat humum. aut videt aut metuit locus hic, quem non videt, hostem: cessat iners rigido terra relicta situ.

L’alternanza di frangenti temporali sostanzialmente opposti (pax vs. belli) produce uno scarto minimo nelle condizioni di vita degli abitanti; la ripetizione contrastiva del medesimo verbo (aut videt aut … quem non videt) descrive una realtà che è sì (debol­ mente) segnata da una certa scansione cronologica, il cui svolgimento non determina tuttavia alcun mutamento sostanziale nella quotidianità dei cittadini di Tomi, prigio­ nieri di un timore continuo e ininterrotto, generato dall’immaginazione quando non dalla realtà effettiva. Un’analoga impressione si ricava dall’elegia immediatamente collegata a questa, trist. 3.12, dove si descrive il ritorno della primavera. Il vivace quadro di inizio compo­ nimento, frigora iam Zephyri minuunt, annoque peracto †longior antiquis visa Maeotis hiems†117 impositamque sibi qui non bene pertulit Hellen, tempora nocturnis aequa diurna facit. iam violam puerique legunt hilaresque puellae …,

richiama ben noti precedenti di Frühlingsgedichte, soprattutto oraziani: il frigora iam Zephyri minuunt di inizio elegia sembra indicare il proprio modello immediato nel frigora mitescunt Zephyris di carm. 4.7.9.118 A partire dal v. 14 della nostra elegia, tuttavia, si rende palese lo scarto realizzato da Ovidio rispetto alla topica proposta dal sottogenere 117

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Nonostante le difese del testo tràdito tentate da Owen 1914, pp. 27 ss. e Schulze 1919, il verso è da considerarsi corrotto in quanto ametrico (per la nutrita serie di proposte congetturali, cfr. Hall in app.). Non mi pare sia ancora stata valutata l’ipotesi che si tratti di una glossa caduta a testo («agli antichi sembrava = gli antichi credevano che l’inverno meotide fosse più lungo»); per il frequente uso di antiqui (Romani) nelle glosse a margine in un manoscritto guelferbitano dei Tristia, cfr. Carmassi 2017, pp. 815 s. Così p.  es. Fedeli 2008, p.  562. Cfr. inoltre Catull. 46.2 s., iam caeli furor aequinoctialis  / iocundis Zephyri silescit auris; Hor. carm. 1.4.

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poetico che pure qui è richiamato: il nuovo rigoglio della natura in primavera, frutto della ciclica rivoluzione delle stagioni, appare infatti lontano dalle coste del Ponto (nam procul a Getico litore vitis abest, un verso ripetuto praticamente identico, in una sorta di sconsolata litania, al successivo pentametro: nam procul a Geticis finibus arbor abest), e dal v. 17 in avanti il lettore infine comprende che la felice descrizione del ritor­ no della bella stagione contenuta nei versi precedenti si riferiva all’aspetto che la natura è tornata a possedere non a Tomi, bensì – ancora una volta – istic, cioè a Roma. La prima metà dell’elegia è così occupata da una descrizione in absentia della primavera che Ovidio avrebbe visto e vissuto in patria, nella sua manifestazione tanto naturale (vv. 1–16) quanto civile (vv. 17–24),119 e si conclude con un makarismos all’indirizzo di coloro che possono godere liberamente della città (vv. 25 s., o quantum et quotiens non est numerare beatum, / non interdicta cui licet urbe frui!). Estromesso dal tempo civile della capitale, l’esule può dunque godere soltanto par­ zialmente del ciclico rinnovamento del tempo naturale, come risulta dai versi in cui, finalmente, si parla della primavera a Tomi (vv. 27 ss.): at mihi sentitur nix verno sole soluta, quaeque lacu durae non fodiantur aquae: nec mare concrescit glacie, nec, ut ante, per Histrum stridula Sauromates plaustra bubulcus agit.

La descrizione della nuova stagione si realizza, assai significativamente, attraverso il reimpiego di materiale ‘vecchio’: il poeta ripete cioè, limitandosi a negarle, quelle ca­ ratteristiche che due elegie prima hanno dominato la descrizione della stagione op­ posta, e fra queste è compreso il medesimo gioco fonico della clausola sole soluta, in diretta continuità rispetto al sol … resolvant di trist. 3.10.13. Ci si potrebbe chiedere se la differenza consista semplicemente nel fatto che le due sillabe ripetute, diversamente che nel verso dell’elegia precedente, differiscono ora nella quantità prosodica: come il debole sole di Tomi è riuscito soltanto a sciogliere la neve descritta in trist. 3.10 (ma non a far crescere fiori e alberi), così il poeta, fra le scarse possibilità offerte dal paesaggio pontico, si è limitato a ‘sciogliere’ una sillaba già impiegata allora.120 Anche alla preci­ sazione ut ante del v. 29 andrà riconosciuto un significato strutturalmente pregnante: il confronto non è semplicemente con «la stagione di prima», cioè l’inverno, ma soprat­ tutto con «l’elegia di prima», trist. 3.10, e il v. 30 del nuovo componimento rielabora in­

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Sulla grande novità introdotta a questo proposito dalla riforma del calendario intrapresa da Cesare, per cui «only after 1 January 45 B. C. E. was it for the first time feasible in the Mediterranean world to have the civil and natural years in harmony under the same standard of representation», si ve­ dano le osservazioni di Feeney 2007, pp. 193 ss.; nonostante ciò, quella fra tempo naturale e tempo civile rimane un’opposizione cruciale nella percezione romana e non solo: cfr. ivi, pp. 202 ss. 120 Cfr. OLD, s. v. «solvo», n. 11d: «(in prosody) to resolve (a syllable)».

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fatti il v. 34 del vecchio. La ripetizione, seppur realizzata ‘in negativo’, sembra insomma costituire l’unica cifra in grado di descrivere lo spazio e il tempo dell’esilio. Ed è proprio questo senso di ripetizione, di mutamento atteso eppure soltanto ap­ parente, che diventa a mio avviso un efficace segnale di quel più ampio timore nutrito dal poeta in esilio che abbiamo più volte anticipato: il timore di una condanna che, a dispetto delle attese, si conferma puntualmente – e ossessivamente – uguale a se stessa, svelando sempre più chiaramente l’inquietante possibilità che alla speranza di un mu­ tamento della pena l’esule debba sostituire la certezza di aver conseguito una posizione definitiva e dunque eterna. Nella percezione del poeta, di cui le descrizioni di trist. 3.10 e 12 risultano espressione, le differenze stagionali paiono sfumare, e infine annullarsi, nel contesto di una registrazione invero affatto precisa del processo temporale: l’avan­ zamento ciclico del tempo, determinato appunto dal passaggio delle stagioni, si fa tut­ tavia simbolo, per l’esule, del ciclico rinnovamento della pena, e alla constatazione del mutamento che il tempo comporta  – o dovrebbe comportare  – sulla natura e sugli uomini si sostituisce la considerazione di ciò che il tempo, pur scorrendo, non riesce a mutare.121 Riprendendo dunque per un attimo il confronto con il testo che di trist. 3.12 pare il modello più immediato, Hor. carm. 4.7, è piuttosto interessante notare che in Ovidio assistiamo a un significativo spostamento e a una sostanziale rifunzionalizzazione del carattere oppositivo che costituisce il consueto impianto retorico del Frühlingsgedicht: la contrapposizione non è più fra stagione bella e stagione brutta, realizzata celebran­ do la tanto attesa ciclica vittoria della prima sulla seconda (diffugere nives …), ma si trasforma nella contrapposizione fra stagione bella a Roma e stagione bella, o meglio non­brutta, a Tomi. L’opposizione dei tempi della natura si traduce dunque, nel car­ me dell’esilio, in opposizione fra luoghi, mentre allo scarto temporale prodotto dal susseguirsi delle stagioni viene riservato un ruolo marginale, che finisce per rafforzare l’idea che a Tomi il tempo susciti effetti molto diversi rispetto a quelli cui sono abituati a rispondere i cittadini di Roma. A questo rilevante stravolgimento della struttura abi­ tualmente sfruttata nel sottogenere poetico in questione si accompagna la rifunziona­ lizzazione delle immagini che lo caratterizzano: così, l’immagine dei fiumi che tornano regolarmente a scorrere all’interno dei propri alvei (Hor. carm. 4.7.3 s., et decrescentia ripas / flumina praetereunt) è riattualizzata da Ovidio nell’osservazione per cui ora i barbari non possono più attraversare il Danubio.

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Come vedremo meglio qui di seguito, in esilio Ovidio non è tanto costretto a fare i conti con una ‘assenza di tempo’ (di «standstill» parla Hinds 2005, p. 213) quanto piuttosto con l’impossibilità di mutare la propria condizione nel corso del tempo che pure trascorre: all’idea del ‘blocco tem­ porale’ percepito dall’esule a Tomi preferirei dunque l’immagine del ciclo temporale, che implica l’eterno ritorno delle medesime condizioni pur nel continuo passaggio di un tempo sempre uguale a se stesso.

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Ma c’è un altro aspetto del carme oraziano che vale la pena di richiamare, non tanto per dimostrare l’influenza di carm. 4.7 su trist. 3.12 nello specifico, ma soprattutto per individuare un elemento di questa e di altre elegie ovidiane rilevante per il discorso più generale che stiamo qui svolgendo. Nella terza strofa dell’ode citata, Orazio propone infatti un’efficace rappresentazione dell’eterno ciclo delle stagioni, che si susseguono l’una all’altra senza soluzione di continuità (vv. 9 ss.): frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas interitura, simul pomifer autumnus fruges effuderit, et mox bruma recurrit iners.

L’idea della ripetitività e della cadenzata ricorrenza delle quattro stagioni diventa nell’ode il termine di confronto per la vicissitudine esistenziale degli uomini, sottopo­ sta a una legge temporale invero assai diversa rispetto a quella cui obbediscono i ritmi della natura: a differenza delle stagioni, il cui eterno ritorno ne garantisce il perpetuo rinnovamento, l’uomo è invece destinato a morire e, una volta morto, a scomparire del tutto (vv. 13 ss., damna tamen celeres reparant caelestia lunae: / nos ubi decidimus / quo pius Aeneas, quo dives Tullus et Ancus, / pulvis et umbra sumus). Il tempo ciclico della natura, in grado di rimediare ai damna causati dalla propria stessa continua corruzio­ ne, risulta così nettamente contrapposto al tempo dell’uomo, che si configura come inesorabilmente indirizzato verso quel punto terminale al quale nessuno potrà mai sfuggire.122 Per l’Ovidio dell’esilio, una buona parte della condanna consiste esattamente nel dover registrare, anziché il sospirato raggiungimento di quel punto terminale che Ora­ zio indicava come inevitabile, il completamento di un nuovo ciclo stagionale, che rego­ larmente incrementa il numero degli anni di relegazione. È importante a questo punto osservare che Ovidio ci consente di seguire l’evoluzione cronologica, e di tracciare dunque la datazione, delle sue raccolte tomitane proprio grazie all’indicazione ‘pro­ gressiva’ dell’anno di esilio in corso, di cui il poeta annota il passaggio in ciascuno dei libri (o gruppi di libri) che pubblica, da trist. 3 in avanti: così, se in trist. 3.12 leggiamo la descrizione della prima primavera trascorsa dal poeta a Tomi (la primavera dell’an­ no 10, con ogni verosimiglianza), in trist. 4.7 sarà la volta della seconda (vv. 1 s., bis me

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Si noti la studiata contrapposizione fra il reparant del v. 13, appena citato, e il non … restituet dei vv. 23 s., riferito alle molte doti del destinatario Torquato (genus, facundia, pietas), che pure non saranno in grado di «restituirlo» alla vita. Sul significato dei damna … caelestia, oltre che più in generale sul senso delle due strofe citate, si veda l’ampia rassegna di Fedeli 2008, in part. pp. 566 ss., cui si accompagni la n. di Thomas 2011 ad loc.: «the sense of seasonal, rather than simply monthly, change suggests a broader set of celestial renewals, particularly of the loss associated with winter and the renewal that comes with spring and summer».

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sol adiit gelidae post frigora brumae, / bisque suum tacto Pisce peregit iter),123 mentre in trist. 5.10 si parla del terzo inverno (vv. 1 s., ut sumus in Ponto, ter frigore constitit Hister, / facta est Euxini dura ter unda maris); nella raccolta unitaria costituita da Pont. 1–3, pub­ blicata nel 13, troviamo riferimenti al quarto autunno (1.8.28, quattuor autumnos Pleias orta facit) e al quarto inverno (1.2.26, cumque meo fato quarta fatigat hiems); in Pont. 4 il computo troverà la cifra per noi definitiva di sei estati (10.1 s., haec mihi Cimmerio bis tertia ducitur aestas / litore pellitos inter agenda Getas) e di sei inverni (13.39 s., sed me iam, Care, nivali / sexta relegatum bruma sub axe videt).124 Questa serie di riferimenti disseminati dall’esule in ogni singola raccolta può essere interpretata come la più co­ spicua traccia di quella paradossale compresenza dei due modelli temporali, lineare e ciclico, cui abbiamo accennato in sede introduttiva: se infatti da un lato la numerazione progressiva degli anni presuppone idealmente un sistema di computazione ‘lineare’ (anno primo, secondo, terzo …), il ripetuto ricorso a questo medesimo computo con­ tribuisce dall’altro ad associare l’andamento della poesia esilica al ritmo ciclico delle stagioni, che il poeta finisce per essere costretto a seguire e a registrare suo malgrado: superando la netta distinzione fra tempo della natura e tempo dell’uomo proposta da Orazio in carm. 4.7, Ovidio dimostra, unico fra i mortali, di saper sorprendentemente contravvenire alla norma, essendo in grado – nonostante il proprio volere, che sarebbe appunto quello di rintracciare un modus al proprio canto triste – di sopravvivere con­ tinuamente a se stesso. Anche nella poesia dell’Ovidio dell’esilio assistiamo dunque a un analogo contrasto fra ritmo ciclico del tempo stagionale e tensione verso un punto intravisto come con­ clusivo, ma il significato e il valore di questa opposizione risultano del tutto stravolti rispetto al modo in cui il contrasto era espresso nella citata ode oraziana: paradossal­ mente, il punto terminale che il poeta dei Carmina indicava a Torquato come inevi­ tabile per l’uomo, cui era così sottratta la possibilità di «sperare l’immortalità» (v. 7, immortalia ne speres), è esattamente ciò che il poeta in esilio si augura di conseguire al più presto – sebbene, perlomeno in prima istanza, la fine auspicata da Ovidio sia naturalmente quella dell’esilio; ma non mancano i momenti in cui, al culmine della disperazione, l’esule vede nella morte fisica, che seguirà la morte civile rappresentata dall’esilio stesso, l’unica possibile soluzione alle proprie sofferenze (cfr. trist. 4.6.49 s., passo discusso infra, p. 140). D’altro canto, l’eterno ciclo delle stagioni, che in Orazio rappresentava un modello temporale riservato alla natura e precluso all’uomo, diventa la dimensione nella quale l’esule e la propria poesia finiscono per essere intrappolati,

Cfr. anche trist. 4.6.19 s., ut patria careo, bis frugibus area trita est, / dissiluit nudo pressa bis uva pede; su questa elegia si veda infra, pp. 138 ss. 124 Cfr. Wheeler – Goold 1988, pp. xxxiv s.; Korenjak 2005, p. 56; Hutchinson 2017, p. 81 (nell’ambito di una rivalutazione della cronologia dell’esilio a partire da una nuova iscrizione a proposito delle leggi de maritandis ordinibus e Papia Poppaea). 123

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una ricorrenza che si rende segno del carattere sempre più pericolosamente definitivo, perché appunto eterno, della condanna. È su questo contrasto che si conclude anche trist. 3.12, su cui infine ritorniamo. Dopo i versi sopra citati in cui è descritto l’aspetto, invero non entusiasmante, della terra pon­ tica in primavera, Ovidio continua immaginando che, con l’arrivo della bella stagione e dunque la ripresa della navigazione, qualche viaggiatore approdi anche a Tomi; ai pochissimi ospiti provenienti dall’Italia l’esule sarà felice di chiedere conto della si­ tuazione e delle novità più importanti, augurandosi di poter ricevere la notizia di un nuovo trionfo celebrato dalla casa imperiale (vv. 45 ss.).125 Il gradito visitatore, afferma Ovidio, sarà dunque ospite nella sua casa (v. 50, ille meae domui protinus hospes erit) … Ma a questo punto l’esule si interrompe: la ricostruzione della scenetta ora ripercorsa lo ha inavvertitamente portato a definire sua domus quella in cui sta trascorrendo gli anni dell’esilio. È possibile del resto comprendere la genesi del lapsus: la descrizione dell’esule è infatti costruita sulla falsariga delle scene di accoglienza dell’epica, come dimostra in particolare il verso ‘formulare’ in cui il poeta preannuncia le domande che rivolgerà all’ospite approdato in Ponti litore (vv. 33 s.): sedulus occurram nautae, dictaque salute, quid veniat, quaeram, quisve quibusve locis.

Il verso riproduce la serie di domande che soprattutto nell’Odissea accompagnano il primo incontro di vari personaggi, in particolare l’accoglienza di uno ξένος, e che sono ora fatte proprie dall’esule di fronte all’hospes pontico.126 In un simile contesto, l’invito ad accedere alla dimora dell’ospitante costituisce il consueto passaggio che solitamen­ te fa seguito alla risposta che lo straniero ha saputo fornire a quelle domande, come accade in Aen. 8.112 ss.: dove, dopo che Enea ha replicato alla canonica serie di interro­ gativi rivoltigli da Pallante (v. 114, qui genus? unde domo? pacemne huc fertis an arma?), è invitato a entrare in casa in qualità di hospes (v. 123, nostris succede penatibus hospes). Così anche Ovidio, una volta superata l’identificazione (v. 43, quisquis is est, che trova una precisa corrispondenza nel quicumque es di Aen. 8.122), individua nell’accoglienza presso la propria dimora la naturale prosecuzione dell’incontro. L’improvvisa interruzione della scena che conclude l’elegia rintraccia tuttavia un cortocircuito nella ricostruzione dell’esule: lo straniero che il poeta dovrebbe accoglie­

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In questi versi è contenuto un prudentissimo accenno al terribile disastro subito dalle legioni di Varo a Teutoburgo l’anno precedente, a seguito del quale Tiberio è ora impegnato proprio in Ger­ mania; questo primo augurio dell’esule troverà il suo seguito in trist. 4.2, dove il trionfo sulla Ger­ mania sarà nuovamente (soltanto) preannunciato con maggiore fiducia. Fra le varie espressioni della formula, cfr. in part. Od. 19.104 s., l’inizio del dialogo fra Penelope e Odisseo sotto mentite spoglie: ξεῖνε, … τίς πόθεν εἶς ἀνδρῶν; πόθι τοι πόλις ἠδὲ τοκῆες; cfr. Fedeli 2016, pp. 382 ss. per una raccolta delle attestazioni della formula nel confronto con Prop. 1.22.1 s., qualis et unde genus, qui sint mihi, Tulle, Penates, / quaeris …

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re proviene infatti dall’Italia, ed è dunque per l’italico Ovidio tutt’altro che straniero.127 Di contro, è tutt’al più Ovidio a volersi considerare hospes in terra pontica – a meno che l’imperatore non abbia deciso che quella deve essere la sua nuova casa (vv. 51 ss.): ei mihi, iamne domus Scythico Nasonis in orbe est? iamque suum mihi dat pro Lare poena locum?128 di, facite ut Caesar non hic penetrale domumque, hospitium poenae sed velit esse meae.

Più che offrire ospitalità all’anonimo viaggiatore approdato a Tomi, Ovidio vorrebbe che la sua residenza tomitana fosse essa stessa un hospitium per sé, un luogo di pas­ saggio temporaneo commisurato alla durata, immaginata come destinata un giorno a terminare, della poena. Per questo motivo l’esule si affretta a contraddire quanto troppo frettolosamente affermato al v. 50, dove egli parlava della propria domus, luogo di abita­ zione permanente, in terra d’esilio. L’opposizione fra domus e hospitium nei versi citati si fa dunque espressione, ancora una volta, del timore che segna l’esperienza tomitana di Ovidio nel suo complesso: il timore che per l’imperatore sia diventato definitivo ciò che l’esule vorrebbe continuare a considerare provvisorio.129 Si tratta di un timore concreto, di cui l’esule è pienamente consapevole: lo dimostra il v. 51 ora menzionato, dove il nome del poeta, che nel contesto di questi versi sembra figurare come la ripro­ duzione di una sorta di ‘indirizzo’ dell’esule (la domus Nasonis, che qualsiasi abitante di Tomi saprebbe indicare), è minacciosamente racchiuso – propriamente ‘circondato’ – dal nome del luogo, Scythico … in orbe, la cui circolarità rappresenta la compiutezza di un universo perfettamente chiuso, di cui sarà molto difficile, nonostante gli sforzi, infrangere i confini. *** Veniamo ora all’elegia che separa i due componimenti finora analizzati, trist. 3.11: sospi­ rata fine dell’esilio e rischio dell’eternità, e relativo contrasto, continuano a costituire due riferimenti essenziali per la poesia dell’esule, in un componimento soltanto appa­ rentemente slegato, a differenza dei due che lo circondano, dalla descrizione del tempo

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La trasposizione dei vv. 41 s. dopo il v. 36, risalente a Wilamowitz e accolta dagli editori più recenti, restituisce senz’altro la più plausibile sequenza della sezione in esame. Il cortocircuito in questione è in parte generato dal doppio significato del termine hospes (che, come l’italiano «ospite», può indicare tanto l’ospitante quanto l’ospitato): cfr. Rimell 2015, pp. 313 s. per un commento sul doppio significato del sostantivo in Ibis 579 s. Il verso è stato emendato dagli editori più recenti secondo una proposta di Withof: iamque [iamne] tuum mihi das pro Lare, Ponte, locum [solum]? Cfr. analogamente trist. 4.4.85 s., versi che seguono il resoconto dell’episodio di Ifigenia fra i Tauri e dei sacrifici umani praticati nella regione: aque mea terra prope sunt funebria sacra, / si modo Nasoni barbara terra sua est.

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dell’esilio.130 L’elegia è rivolta a un anonimo nemico del poeta che, a Roma, continua ad accusarlo e, incurante delle sofferenze che l’esule è già costretto a patire, insiste nel «toccarne nuovamente le ferite» (v. 19, vulnera cruda retractet). Come la critica non ha mancato di rilevare, questo componimento – insieme con le altre elegie rivolte ai ‘ne­ mici’ dell’esule contenute nei libri successivi – si pone in un’ideale linea di continuità e di evoluzione rispetto all’Ibis, la lunghissima invettiva a sé stante la cui datazione è tra­ dizionalmente considerata coeva alla fase di produzione corrispondente a Tristia 3–5.131 Il legame fra trist. 3.11 e l’Ibis è dato anche e soprattutto dalla particolare considera­ zione riservata al tempo nei due componimenti. Se – come ha notato ancora una volta Stephen Hinds – l’Ibis si caratterizza per essere un «big plot (or unplot) of suffering, unstructured, open­ended and incalculable»,132 un infinito catalogo di sofferenze san­ cite per l’eternità (particolare pregnanza assume in questo senso il v. 241, tempus in immensum lacrimas tibi movimus istas, il ‘decreto’ che Ovidio immagina pronunciato da una delle Parche al momento della nascita di Ibis), questo anelito all’infinità del tempo aggressivamente concepito dall’esule trova una plausibile causa scatenante nel­ la ‘non­finitezza’ del gesto accusatorio assunto dal nemico in trist. 3.11, come si evince dal primo distico dell’elegia (vv. 1 s., quisquis es,133 insultes qui casibus, improbe, nostris, / meque reum dempto fine cruentus agas …). All’assenza di una fine per le calunnie dell’improbus farà eco l’infinita serie di malanni augurati al nemico nell’Ibis.134

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Di questa elegia offre una ricca e stimolante analisi Rimell 2015, pp. 295 ss., che si sofferma in par­ ticolare sull’episodio di Perillo e Falaride al centro del componimento (cfr. infra, p. 133 n. 138): la studiosa intende mostrare la sovrapponibilità tra le figure di Ovidio e del nemico cui l’elegia è indirizzata (una mossa che prelude all’Ibis), una sovrapponibilità che si traduce nel rischio, per il nemico apparentemente al sicuro, di essere inesorabilmente attratto nel vortice del male subito dal poeta, subendolo a sua volta; questa dinamica è espressione della messa in discussione della «safety» costituita dall’apparente senso di «homeliness» di cui gode chi, a differenza del poeta, può vantare il privilegio di essere rimasto a Roma. Sui rapporti fra l’Ibis e le altre elegie rivolte ai nemici, cfr. Williams 1996, pp. 19 ss., dove fra l’altro si nota che «Ibis emerges as a typological embodiment of all that the poet’s various enemies in the Tristia cumulatively represent». Hinds 1999, p. 65. quisquis es Heinsius : si quis es codd.; cfr. v. 56, quisquis is es; Ibis 9, quisquis is est; Luck 1967–77 ad loc. Questa osservazione naturalmente presuppone che il nemico di trist. 3.11 e il nemico dell’Ibis siano la stessa persona  – possibilità certo plausibile ma indimostrabile proprio in virtù della studiata strategia di anonimato perseguita dall’esule in questo e in altri casi. Come si vedrà nel seguito, tuttavia, c’è almeno un personaggio cui il lettore di entrambe le elegie non può evitare di pensare, nonostante la (fin troppo) ostentata dimostrazione di estraneità data dal fatto, fra l’altro, che se ne parla in terza persona: l’imperatore Augusto. Su questo punto si veda soprattutto Schiesaro 2011, il cui ampio saggio si apre con la seguente domanda: «could Ibis really be anyone but Augustus?». Il primo verso della nostra elegia si ricollega direttamente a quanto il poeta ha affermato al termine di trist. 2, dove si giudicava poco credibile la possibilità che qualche cittadino volesse accanirsi contro il poeta già ‘abbattuto’ (vv. 571 s., nec mihi credibile est, quemquam insultasse iacenti, / gratia candori si qua relata meo est); cfr. inoltre Pont. 4.3.27 s., vix equidem credo: subito [v. l. sed et] insultare iacenti / te mihi nec verbis parcere fama refert.

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Nella nostra elegia, la dinamica fra limite e continuazione si manifesta dunque nell’opposizione fra la richiesta di una fine delle accuse rivolta dall’esule al nemico e l’indisponibilità, da parte del nemico, a mettere fine a quelle accuse. A inizio com­ ponimento il poeta si chiede appunto a quale ulteriore livello di crudeltà può ancora spingersi l’ira dell’avversario (vv. 5 s., quis gradus ulterior, quo se tua porrigat ira, / restat? quidve meis cernis abesse malis?); l’esule sta già infatti soffrendo abbastanza, e i vv. 7 ss. sono di conseguenza occupati da un cospicuo elenco dei mali dell’esilio, che si con­ clude con la constatazione che, se anche Ovidio non dovesse soffrire nulla fuorché l’ira di Augusto (ma così non è, considerati appunto tutti i mala ‘collaterali’ elencati nei versi precedenti), questo sarebbe già sufficiente (vv. 17 s., ut mala nulla feram nisi nudam Caesaris iram, / nuda parum est nobis Caesaris ira mali?). Questa osservazione è ribadita anche al termine del componimento, dove l’esule ripete il secondo emistichio del pentametro appena citato affermando che la collera dell’imperatore trascina con sé ogni altra sofferenza (v. 72, omne trahit secum Caesaris ira malum). Il nesso Caesaris ira, in unione col sostantivo malum/mala, diventa così una sorta di refrain, una com­ binazione che nell’elegia torna almeno tre volte, ai vv. 17, 18 e 72; la doppia occorrenza nel distico 17 s. appare a maggior ragione significativa, dal momento che essa chiude la pericope di testo ora individuata, l’elenco dei mala del poeta in esilio, che si è aperta, come abbiamo visto, con la domanda rivolta al nemico a proposito del gradus ulterior verso cui può ancora spingersi la sua ira, incapace di considerare la ‘compiutezza’ già raggiunta dai mala del poeta in esilio (vv. 5 s.). Come si può notare, le due figure del nemico e del Caesar sono sì tenute cautamente distinte, ma rischiano inesorabilmente di sovrapporsi, ed è una sovrapposizione che sembra generarsi proprio in virtù della contraddittoria dinamica temporale stabilita dall’interazione delle due irae, quella di Augusto e quella del nemico: da un lato, l’ira Caesaris è infatti giudicata il non plus ultra dei mala subiti dal poeta; ma c’è qualcuno in grado di sopravanzare quel limite e di estendere ulteriormente la propria collera (quo se tua porrigat ira) – chi se non Augusto stesso? Il lettore di trist. 2 non faticherà a ricordare che le opere dell’esilio di Ovidio seguono appunto lo svolgimento, l’estensione dell’ira dell’imperatore, il cui limite non si è ancora manifestato e costituisce per questo oggetto di attesa per il poeta. Se c’è un’ira in grado di espandersi e di prolungare la propria ‘durata’, questa è appunto l’ira Caesaris; e se c’è un gradus ulterior verso cui ha saputo estendersi l’ira Caesaris, questo è insieme lo spazio occupato ora dal componimento dell’esule, oltre che dal libro di Tristia – e dalla collezione tutta – in corso di svolgimento.135 135

È interessante seguire lo sviluppo di questi temi e di queste immagini nelle elegie rivolte ai nemici (o allo stesso nemico?) nei libri successivi: in trist. 4.9, sarà l’ira del poeta a «estendersi» fino al nemico, se costui non si pentirà dei torti inflitti (vv.  9 s., sim licet extremum, sicut sum, missus in orbem, / nostra suas istinc porriget ira manus); l’assenza di limiti spaziali e temporali caratteriz­ zerà questa volta la ferocissima vendetta dell’esule (vv. 19 ss., nostra per immensas ibunt praeconia gentes …; vv. 25 s., nec tua te sontem tantummodo saecula norint: / perpetuae crimen posteritatis eris) – affermazioni che ancora una volta preludono, o rimandano, alla non­finitezza dell’Ibis (è quasi il

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Lo stretto legame, per non dire la completa sovrapposizione, fra l’imperatore e il nemico prosegue anche nei versi successivi; a questa sovrapposizione Ovidio oppone, come ora vedremo, la propria attività di poeta esule, che si sforza di tenere dietro alla non­finitezza, all’assenza di limite manifestate dalle presunte accuse del nemico – e allo stesso tempo, dalla perdurante collera di Augusto. La richiesta rivolta dal poeta al nemico, quella di placare l’accanimento finora dimostrato, si svolge in termini assai simili a quelli finora utilizzati da Ovidio nei ripetuti appelli rivolti all’imperatore; ai vv. 35 s. della nostra elegia il poeta esorta l’avversario a «saziare» il proprio cuore di fronte alla gravità delle pene che l’esilio comporta: pendimus en profugi (satia tua pectora) poenas exilioque graves exiliique loco.

Si tratta del medesimo verbo che, come abbiamo visto, in trist. 3.8 l’esule ha utilizzato per indicare il processo di ‘maturazione’, di (auspicabilmente) progressiva guarigione dell’ira di Augusto (v. 19, forsitan hoc olim, cum iam satiaverit iram …): come si dice­ va, un processo esteso nel tempo, la cui durata l’esule vorrebbe accorciare per mezzo dei propri versi.136 All’anonimo nemico ora il poeta rivolge il medesimo invito, simile in tutto tranne che nella forma verbale: uno stizzito e diretto imperativo al posto della più cauta costruzione subordinata utilizzata nella precedente elegia.137 Il verbo satio non è tuttavia l’unico elemento, in questi versi, capace di associare im­ peratore e nemico: qualche osservazione meriterà a questo proposito anche il distico successivo a quello appena citato (vv. 37 s.): carnifici fortuna potest mea flenda videri: et tamen est uno iudice mersa parum.

L’insensibilità del nemico di Ovidio è qui ribadita per mezzo dell’argomento per cui la condizione dell’esule è talmente miserevole da poter suscitare la compassione persino di un carnifex – seguiranno nei versi successivi gli exempla di Busiride e Falaride, ca­ nonici paradigmi di crudeltà tirannica.138 Ci si potrebbe tuttavia chiedere fin da subito se l’esule non abbia in mente una particolare figura in grado di rispondere alle carat­

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caso di ricordare che anche in trist. 4.9 Augusto è nominato in terza persona: cfr. v. 11). In trist. 5.8, il nemico e il princeps condividono la capacità di costituire il limite ultimo, l’estremità rispettivamen­ te più ‘bassa’ (vv. 1 s., non adeo cecidi, quamvis abiectus, ut infra / te quoque sim, inferius quo nihil esse potest) e più ‘alta’ (vv. 27 s., scilicet ut non est per vim superabilis ulli, / molle cor ad timidas sic habet ille preces) – due posizioni la cui totale divergenza le rende tanto più pericolosamente affini. Cfr. supra, pp. 111 ss.; per l’idea della ‘sazietà’, del raggiungimento cioè della soddisfazione neces­ saria all’imposizione di un limite all’ostilità dimostrata, cfr. anche il v. 57 della nostra elegia: utque sitim nostro possis explere cruore. Interessante il confronto con met. 6.282a, corque ferum satia (Niobe a Latona) = 9.178a (Ercole a Giunone, significativamente apostrofata Saturnia al v. 176). Paradigmi che, ancora una volta, sembrano stimolare un confronto tra il racconto mitico e la realtà biografica dell’esule: l’episodio di Perillo e Falaride, in particolare, è la storia di un artista ucciso

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teristiche del carnifex – non un tiranno fra i tanti, ma l’unico vero responsabile della condanna. Ovidio affermerebbe così che il proprio destino è tanto crudele da riuscire a commuovere persino Augusto: il paradosso era già sfruttato nelle Metamorfosi, quando Diomede, rievocando i danni subiti dai Greci nei nostoi da Troia, giungeva al punto di affermare che il loro destino avrebbe fatto piangere persino Priamo, l’acerrimo nemico (14.474, Graecia tum potuit Priamo quoque flenda videri). Anche adesso, addirittura il carnifex Augusto, il ‘nemico’, riesce a commuoversi di fronte alla disgraziata fortuna di Ovidio: o forse no. Il pentametro del distico citato chiude il ragionamento descrivendo lo sconsiderato atteggiamento del nemico (quello cui è formalmente indirizzata l’elegia, si intende): a suo giudizio (uno iudice), la sorte del poeta è poco grave – così si giustifica l’insistenza dei suoi atti ostili. Eppure, l’unus iudex che la poesia dell’esilio conosce è proprio Augusto: come siamo informati in trist. 2, è stato proprio l’imperatore che, al momento della condanna, non ha selezio­ nato una corte giudiziaria formalmente eletta (v. 132, nec mea selecto iudice iussa fuga est); ne consegue che, nei carmi ovidiani dell’esilio, la qualifica di iudex – rigorosamen­ te al singolare – è spesso riferita al solo Augusto.139 Ancora una volta, le figure di im­ peratore e nemico tendono ad avvicinarsi, se non a sovrapporsi, generando una serie di associazioni ‘involontarie’ nel lettore, che non può che basarsi – nella difficoltosa interpretazione dei versi del poeta, resa tale dall’anonimato, dai criptici accenni, dal detto non detto – sui (pochi) dati circa la condanna ricavati finora dalla lettura dei Tristia: chi può essere il iudex che ritiene tuttora insufficiente (mersa parum) la pena subita dal poeta? Chi colui che non è disposto a satiare la propria collera e a imporre un limite a questa pena?140 Così, i termini attraverso cui in trist. 3.11 il poeta descrive la ‘insaziabilità’ dimostrata dall’anonimo nemico, la cui indisponibilità a terminare la propria ira e le proprie in­ famanti accuse è resa oggetto della lamentela del poeta e insieme della richiesta di un atto di limitazione di quelle accuse, riproducono gli assai simili, benché naturalmen­

dal proprio stesso prodotto artistico (significativamente definito artes … suas al v. 42); cfr. ancora Rimell 2015, p. 304. 139 Cfr. trist. 1.2.64, culpa mea est ipso iudice morte minor; 5.11.22, tuta suo iudice causa mea est (al v. 9 di questa elegia, dedicata alla confutazione di un tale che insulta la moglie di Ovidio definendola exulis uxor, il sostantivo è riferito al diffamatore: fallitur iste tamen, quo iudice nominor exul; come in trist. 3.11, l’attribuzione del medesimo termine all’imperatore e al nemico genera una sorta di studiata sovrapposizione, che nel caso di trist. 5.11 è rafforzata dall’effettiva ripetizione del costrutto all’ablativo ai vv. 9 e 22). 140 È interessante che, nel seguito dell’elegia, al nemico venga poi effettivamente riconosciuta la capa­ cità di compatire l’esule per i mala subiti (vv. 59 s., tot mala sum fugiens tellure, tot aequore passus, / te quoque ut auditis posse dolere putem). La condoglianza del nemico è immaginata avvenire dopo la lettura (auditis: una recitatio? Cfr. i ripetuti accenni alla volontà, frustrata, di recitare i propri carmi da parte di Ovidio a Tomi: trist. 3.14.39; 4.1.89) dei libri di Tristia finora inviati, dove sono appunto descritti i mala sofferti per terra e per mare (cfr. p. es. trist. 3.2.7, plurima sed pelago terraque pericula passum): l’esito cui l’esule vorrebbe far pervenire lo stesso Augusto.

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te più cauti e meno diretti, inviti alla ‘sazietà’ altrove rivolti direttamente ad Augusto. L’elegia è costruita secondo un impianto che da un lato prevede l’ostentata distinzione fra nemico e imperatore, ma è una distinzione che tende infine a promuoverne l’asso­ ciazione: come il nemico, anche Augusto non sembra ancora disposto a mettere fine alla propria collera; come il nemico, anche Augusto corre il rischio di riprodurre il gesto dei più crudeli tiranni che la storia abbia conosciuto (vv. 39 ss., saevior es tristi Busiride, saevior illo, / qui falsum lento torruit igne bovem …). Se dunque da un lato l’imperatore­‘nemico’ non manifesta l’intenzione di porre fine all’ira nei confronti dell’esule, nemmeno l’esule si dimostra disposto a terminare il proprio lamento – vale a dire, la propria opera di poesia triste: è importante così sottolineare la corrispondenza fra la doppia assenza di limite individuabile qui come altrove, che parimenti coinvolge vittima e ‘carnefice’. Al v. 19, che abbiamo già menzio­ nato, Ovidio lamenta la presenza dell’aliquis che nuovamente apre le sue ferite (et tamen est aliquis, qui vulnera cruda retractet); l’idea della ripetizione generata dal prefisso re-, una ripetizione che appunto impedisce il raggiungimento di un limite conclusivo, è ribadita anche al v. 63, dove il poeta supplica il nemico in termini analoghi (ergo quicumque es, rescindere crimina noli).141 In questi versi, Ovidio esorta il nemico a non fare ciò che altrove il poeta invita se stesso a non fare (facendolo così tuttavia, almeno in parte): riaprire i vulnera di Augusto rievocando i crimina commessi (cfr. soprattutto il celebre passo di trist. 2.207 ss., perdiderint cum me duo crimina, carmen et error, / alterius facti culpa silenda mihi: / nam non sum tanti, renovem ut tua vulnera, Caesar …).142 Alla costante conferma della condanna, cui l’imperatore non mette fine, fa riscontro il continuo rinnovamento della poesia che tratta di quella condanna, un rinnovamen­ to rappresentato dalle collezioni progressivamente inviate da Tomi; il verbo retracto utilizzato al v. 19 della nostra elegia si distingue per il significato metaletterario che lo caratterizza: è la ‘ritrattazione’ dell’opera poetica, una ritrattazione che nelle elegie dell’esilio sembra costitutivamente configurarsi come aggiunta, trattazione ripetu­ 141

Entrambi i versi giocano sulla metafora, ampiamente utilizzata dall’esule, della condanna come ferita fisica (su cui fornisce ora una rassegna Di Giovine 2020, pp. 45 ss.): a esplicitare l’immagine Ovidio utilizza, al v. 19, il sostantivo vulnera; al v. 63, il verbo rescindo: cfr. OLD, s. v., n. 2b: «to cut or tear open (wounds or sim., affected parts of the body)». Cfr. comunque anche i vv. 64 ss., deque gravi duras vulnere tolle manus; / utque meae famam tenuent oblivia culpae, / facta cicatricem ducere nostra sine. 142 Molto indicativo, in questo senso, un passo come trist. 4.4.41 s., neve retractando nondum coeuntia rumpam / vulnera: Ovidio non vuole rievocare l’error per evitare di riaprire la (propria) ferita, ma naturalmente si tratta di ciò che ha appena fatto; cfr. inoltre Pont. 1.6.21 s. (nec breve nec tutum, peccati quae sit origo / scribere: tractari vulnera nostra timent), in un passo che lascia ambiguo il referente dei vulnera (sono quelli del poeta o quelli provocati dal poeta ad Augusto? Il distico successivo non risolve il dubbio); cfr. analogamente Pont. 2.2.57 s., vulneris id genus est quod, cum sanabile non sit, / non contrectari tutius esse puto. Come dimostrano questi passi, il lessico della medicina e della cura dei vulnera è alternativamente associato dall’esule alla propria persona e a quella di Augusto: questo parallelismo è tanto più interessante in quanto include ‘vittima’ e ‘carnefice’ nel medesimo processo temporalmente esteso cui tengono dietro le opere dell’esilio.

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ta – ‘re­trattazione’, si potrebbe dire.143 ‘Ritrattare’ continuamente i vulnera cruda, con tutto il rischio che ciò comporta, è il mezzo che Ovidio utilizza nell’attesa che, col tem­ po, quei vulnera finalmente si rimarginino – quelli altrui prima che i propri.144 *** Infine, alcune brevi osservazioni su trist.  3.13. Il penultimo componimento del libro parla, assai significativamente, di fine mancata e di limiti disattesi: si tratta dell’anti­ genethliakon, il componimento in cui il poeta paradossalmente lamenta l’arrivo del proprio dies natalis, laddove egli avrebbe preferito che ai propri anni fosse imposto un termine (v. 3, debueras illis inposuisse modum). L’elegia si pone così come appropriata (quasi)­chiusura di un libro in cui il poeta ha descritto il ciclo delle stagioni nel con­ testo nuovo dell’esilio;145 essa si ricollega però anche al filone dei carmi di invettiva contro i nemici: il compleanno del nemico occuperà una posizione privilegiata anche nell’Ibis.146 Il ritorno del compleanno per l’esule si rende espressione di quella dinamica temporale ciclica dalla quale, come abbiamo visto, il poeta vorrebbe fuggire, sentendo­ si tuttavia inesorabilmente implicato in essa. Rivolgendosi direttamente al dies, Ovidio gli dice che avrebbe fatto meglio a non seguirlo anche a Tomi: l’ultima sua venuta sa­ rebbe dovuta occorrere in patria (vv. 5 ss., si tibi cura mei, vel si pudor ullus inesset, / non ultra patriam me sequerere meam, / quoque loco primum tibi sum male cognitus infans, / illo temptasses ultimus esse mihi). Il vocabolario del ‘limite’ viene qui utilizzato nel contesto di una serie di frasi condizionali, ipotesi dell’irrealtà che denunciano ancora

Per il senso di ‘re­trattazione’ (aggiunta più che rifacimento), cfr. p. es. Hor. carm. 2.1.37 s., sed ne relictis, Musa procax, iocis / Ceae retractes munera neniae …; sulla ‘revisione’ come gesto carat­ teristico della poesia ovidiana, cfr. in generale Martelli 2013, un lavoro da cui il presente studio si distingue nella considerazione dell’addizione, prima che della revisione, come gesto peculiare, nella fattispecie, della poesia dell’esilio di Ovidio. 144 Allo stesso aggettivo cruda, riferito ai vulnera, va riconosciuto un significato anche e soprattutto temporale: cfr. OLD, s. v., n. 6: «unimpaired by the passing of time, thriving»; l’atto ostile del nemico (e di Augusto) nei confronti dell’esule consiste nel rendere eternamente «recenti» le fe­ rite, impedendone la guarigione definitiva (per il nesso, cfr. analogamente Pont. 1.3.16). Come già accennato supra, p. 123 nell’associazione con Tantalo, la condanna del poeta assume così i tratti dei supplizi eterni riservati ai celebri dannati dell’antichità (i veterum tormenta virorum sanciti per il nemico in Ib. 189; per l’eternità di questi supplizi, cfr. v. 195, nec mortis poenas mors altera finiet huius; il carattere sempre «nuovo» del dolore del poeta è esplicitamente affermato in trist. 3.6.30; 4.1.97): soprattutto, il destino dell’esule richiama in questo senso il caso di Tizio­Prometeo (per la cui pena è da vedere il passo di Verg. Aen. 6.595 ss.), cui Ovidio associa esplicitamente se stesso in Pont. 1.2.39 s. Sul paradigma di Prometeo nelle opere dell’esilio di Ovidio è da vedere Citroni Marchetti 1999, pp. 112 ss. 145 In particolare, sul passaggio da trist.  3.12 a 3.13 è da vedere l’osservazione di Hinds 2005, p.  218: «if the calendar retains any force here, it is only as a fleeting principle to bind together the time­ cancelling poetry of anti­spring and anti­birthday in the closural movement of another Ovidian book from exile». 146 Sul significato del compleanno di Ibis, cfr. in part. Hinds 1999, pp. 66 s. 143

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una volta la trasgressione del tanto sospirato modus cui il poeta vorrebbe far giungere il proprio esilio. Così, al secondo verso dell’elegia il nesso ad sua … tempora – riferito all’arrivo del supervacuus … natalis – individua tutto lo scarto che caratterizza il nuovo corso della poesia ovidiana: esso si pone come marcata parodia dell’ad mea tempora di met. 1.4, i «miei tempi» che costituivano il limite ultimo nel quale il perpetuum carmen metamorfico avrebbe trovato il suo telos; in esilio, il poeta non è più padrone dei propri ‘tempi’, né biografici né poetici. Sconsolato e sarcastico insieme risulta anche il finale dell’elegia: rispettando la con­ suetudine della festa, quella cioè di esprimere un augurio, il poeta dà voce a un deside­ rio affatto paradossale (vv. 25 ss.): si tamen est aliquid nobis hac luce petendum, in loca ne redeas amplius ista precor, dum me terrarum pars paene novissima, Pontus, Euxinus falso nomine dictus, habet.

Ovidio, che nei versi precedenti ha lamentato il ritorno tout court del compleanno, chiede ora al dies di non tornare più in loca  … ista  – ma se il poeta dovesse essere richiamato a Roma? La subordinata temporale introdotta dal dum individua infatti, qui come altrove, il carattere provvisorio del tempo dell’esilio, la sua natura di tempo intermedio destinato, nelle speranze dell’esule, a terminare. E se così fosse – o meglio, quando così sarà – il compleanno potrà tornare, e la festa sarà di nuovo quella di sem­ pre: ma l’opera in cui verrà celebrata non si chiamerà più Tristia (cfr. v. 10, tu quoque dixisses tristis in urbe ‘vale’; vv. 19 s., non ita sum positus, nec sunt ea tempora nobis, / adventu possim laetus ut esse tuo).147 3.5 Variazioni su morte e vecchiaia: trist. 4.6 e 4.8 La meditazione sul tempo dell’esilio prosegue anche in trist. 4, il libro composto nel corso del secondo anno di relegazione a Tomi. In questa silloge, l’importanza asse­ gnata alla dimensione temporale entro cui si collocano vita e poesia del nostro autore emerge se si considera l’elegia conclusiva del libro, la lunga e articolata autobiografia poetica. A ben vedere, tuttavia, è l’intera seconda metà della raccolta, in particolare, a condividere una considerazione del tutto speciale per i tempora dell’esilio: le elegie

147 È interessante osservare che, a dispetto della richiesta del poeta, il dies natalis tornerà in trist. 5.5, l’elegia che celebra il compleanno della moglie: cfr. Hinds 2005, p. 204. In trist. 5.3 è invece la volta della festa di Bacco celebrata dai poeti. Nella ricorrenza dei tempi dell’anno sancita dal calendario romano, è importante considerare lo stretto legame instaurato fra tempo e luogo: in trist. 3.13, il ritorno del compleanno non è più associato per Ovidio al luogo in cui egli vorrebbe celebrarlo; cfr. Feeney 2007, p. 211.

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6–10 ripetono, appunto, il sostantivo tempus nel giro dei primi tre distici, talvolta in posizione di assoluto rilievo.148 Questo risponde all’esortazione che il poeta ha rivolto al lettore nel primo distico del libro stesso, l’invito cioè a giustificare i difetti dei libelli considerandone il tempus, la «circostanza» della composizione (4.1.1 s., siqua meis fuerint, ut erunt, vitiosa libellis, / excusata suo tempore, lector, habe): il lettore di trist. 4 potrà di fatto formarsi un’idea più precisa di questo tempus leggendo le elegie che com­ pongono la nuova raccolta. Collocata in apertura della seconda metà del libro, trist. 4.6 attribuisce al tema del tempo una presenza addirittura ossessiva nel racconto dell’esperienza vissuta dall’esu­ le a Tomi.149 I primi sedici versi dell’elegia contengono un lunghissimo elenco, scandito dalle molteplici anafore (tempore, tempus, hoc), volto a illustrare il potere di mutamen­ to che il tempo esercita sulle cose: sugli animali, sulla natura, sugli oggetti inanimati, sui sentimenti umani. In particolare, Ovidio afferma, il tempo è in grado di attenuare (v. 18), di «rendere più sottile» tanto l’istinto degli animali più feroci (vv. 1 ss.) quanto la durezza delle pietre (v. 14), nonché le saevae irae e i luctus degli uomini (vv. 15 s.) – eccettuati, a quanto pare, la (saeva) ira di Augusto e, di conseguenza, i luctus dell’esule Ovidio, cui i Tristia stanno dando voce (vv. 17 s., cuncta potest igitur tacito pede lapsa vetustas  / praeterquam curas attenuare meas). Nella soggettiva percezione del poeta relegato, il tempo dell’esilio manifesta, qui come altrove, un andamento del tutto pe­ culiare: ancora una volta, non si tratta di un’assenza di tempo, bensì di un processo temporale di cui il poeta registra puntualmente l’avanzare, e che tuttavia si dimostra contrario alle sue aspettative e alle sue speranze; Ovidio vede insomma inesorabilmen­ te compromettersi, suo malgrado, quel punto terminale verso cui la poesia triste vor­ rebbe, ma non può, decisamente tendere. Il distico immediatamente successivo all’elenco menzionato, che come abbiamo vi­ sto è culminato nell’osservazione per cui la vetustas non ha potere ‘attenuativo’ sulle curae dell’esule, registra l’attuale ammontare del tempo trascorso dal poeta lontano da Roma (vv. 19 s.): ut patria careo, bis frugibus area trita est, / dissiluit nudo pressa bis uva pede. Al tempo ciclico del ritmo stagionale, la cui ripetizione si rende simbolo della conferma assegnata alla condanna, risponde un’altra doppia direttrice temporale che coinvolge, da un lato, i mala dell’esilio; dall’altro, il progressivo decadimento biologico del poeta in vecchiaia. Questi due fenomeni in divenire si collocano su una medesima linea temporale – una linea appunto orizzontale, che si distingue e allo stesso tempo si sovrappone al ‘cerchio’ descritto dal passaggio delle stagioni e dal conseguente ripro­ 148 Con parziale eccezione di trist. 4.8, il cui tempora di v. 1 indica le «tempie» ormai canute del poeta invecchiato – un’indicazione, appunto, temporale: il gioco sul doppio significato di tempora è at­ tivo anche in trist. 5.3.2 s. In trist. 4.8.1 s. la descrizione del progressivo incanutire del poeta sembra richiamare un processo metamorfico: iam mea cycneas imitantur tempora plumas (la storia di Cigno è narrata in met. 2.367 ss.), / inficit et nigras alba senecta comas (una trasformazione inversa rispetto a quelle del corvo e della cornacchia narrate in met. 2.534 ss.). 149 Su questa elegia, buone osservazioni in Williams 2002, pp. 354 ss. (con ulteriore bibliografia).

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porsi delle attività proprie di ciascun tempo dell’anno – ma instaurano una dinamica uguale e contraria: essi procedono linearmente, ma è un processo la cui simultaneità produce una tensione opposta, dal momento che, se da un lato i mala crescono in in­ tensità e ‘rigoglio’, il poeta invecchia e deperisce. Come già affermato nell’elegia proe­ miale della raccolta (cfr. 4.1.97), in trist. 4.6 il poeta torna a menzionare la paradossale circostanza per cui, nonostante lo scorrere del tempo, i dolori del presente superano quelli del passato, in un progressivo incremento che sembra procedere al contrario rispetto al naturale svolgimento dei fenomeni della natura (vv. 21 ss.): nec quaesita tamen spatio patientia longo est, mensque mali sensum nostra recentis habet. […] tristior est etiam praesens aerumna priore: ut sit enim sibi par, crevit et aucta mora est. nec tam nota mihi, quam sunt, mala nostra fuerunt: nunc magis hoc, quo sunt cognitiora, gravant.

Il poeta afferma che, se anche fosse rimasta la stessa (la condizione del relegato, in ef­ fetti, non ha subito modifiche), la aerumna del presente è «più triste» di prima, perché è cresciuta con l’attesa (mora). È interessante osservare che alla «crescita» (crevit et aucta … est) dell’afflizione percepita dal poeta è corrisposta – e continuerà a corri­ spondere – la crescita dei Tristia (tristior), l’opera che dà voce alla mora dell’esule (e dei lettori), al tempo dell’attesa che spera, finora invano, in una fine. Allo stato sempre più florido dei mala fa riscontro la crescente vecchiaia del poeta: le vires recentes del v. 29, le «forze nuove» che all’esule piacerebbe contrapporre al suo dolore, sono piuttosto quelle del mal d’esilio, che al v. 22 è stato appunto definito recens. Al contrario, il poeta dichiara che il proprio corpo sta andando incontro a un’autentica dissoluzione ‘metamorfica’ (vv. 39 ss.): credite, deficio, nostroque a corpore quantum / auguror, accedunt tempora parva malis. / nam neque sunt vires, nec qui color esse solebat: / vix habeo tenuem, quae tegat ossa, cutem.150 Si scopre così, nei versi finali dell’elegia, che il corpo dell’esule sta di fatto subendo quella corruzione cui la forza del tempo – o della vetustas, come è stato detto al v. 17 – sottopone ogni cosa (si confronti l’attenuasse del v. 18 con la tenuem … cutem del v. 42), una dinamica temporale che sembra appunto risparmiare soltanto gli affanni del poeta.151 In un simile quadro, nel quale ai dolori del 150 151

Sul lessico della Liebeskrankheit utilizzato in questo e in altri passi, cfr. Helzle 2003, p. 240 (comm. ad Pont. 1.10); sull’interazione fra questo lessico e quello ‘metamorfico’ nelle opere dell’esilio, cfr. supra, p. 47. In realtà, a ben vedere, fra i vari elementi riportati nella lista di exempla con cui si apre l’elegia sono menzionati anche i prodotti della natura, che il tempo fa piuttosto «maturare» (vv.  9 ss.), così come ha fatto «crescere» i mala. La serie di esempi iniziali, che sembra apparentemente conce­ pita in opposizione rispetto alla situazione dell’esule (si noti l’enfatico praeterquam del v. 18, che appunto ‘estrapola’ il caso di Ovidio rispetto alla consuetudine), descrive pertanto due differenti

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corpo si aggiungono quelli, più intensi perché all’apparenza meno (de)finibili, della mente (cfr. vv. 43 s., corpore sed mens est aegro magis aegra, malique / in circumspectu stat sine fine sui), c’è spazio per una speranza che di fatto sancisce la definitiva sconfitta di chi preferirebbe vedere tutt’altra ‘fine’ (vv. 49 s.): una tamen spes est, quae me soletur in istis, haec fore morte mea non diuturna mala.

A consolare il poeta è, come abbiamo visto anche altrove, l’attesa di un limite, il pen­ siero cioè che ai dolori procurati dall’esilio, nonché di conseguenza alla poesia che quei dolori esprime ed elabora, sarà sottratta, in un modo o nell’altro, la possibilità di durare in eterno (diuturna): e se a produrre questo limite non sarà Augusto con il perdono, ci penserà la morte – quella cui l’esule, per il momento, è riuscito pur sempre a sottrarsi.152 *** L’incredibile esperienza biografica vissuta da Ovidio in esilio è il tema anche di trist.  4.8, elegia in cui continuano i lamenti a proposito della difficoltà di affrontare le durezze della relegazione in età ormai avanzata. In questo componimento, la condanna subita è descritta come un evento che di fatto ha stravolto il corso, già segnato, della vita del poeta, compromettendo in particolare la fine, il limite naturale dell’esistenza rappresentato da una morte raggiunta a seguito delle fatiche della giovinezza e del me­ ritato riposo della vecchiaia (vv. 5 ss.): nunc erat, ut posito deberem fine laborum / vivere, me nullo sollicitante metu […] haec mea sic quondam peragi speraverat aetas; / hos ego sic annos ponere dignus eram. / non ita dis visum est, qui me terraque marique / actum Sarmaticis exposuere locis. L’evento rappresentato dalla condanna ha tradito le aspettative del poeta; nella formulazione di questi versi, esso ha tuttavia paradossalmente permesso a Ovidio di evitare una fine già segnata, e ha dato nuovo significato ai termini di quella fine: la conclusione cui sarebbe dovuta giungere la aetas del poeta (per-agi, dove il pre­ fisso per- esprime la compiutezza del processo biografico) è stata scongiurata dall’atti­

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espressioni del potere del tempo di cui anche l’esule finisce per riscontrare l’(insperato) effetto: la maturazione dei mala e la consunzione del proprio corpo – laddove, come abbiamo visto, Ovidio preferirebbe che a ‘maturare’ e quindi a ‘consumarsi’ fosse l’ira del princeps (cfr. v. 15). L’elegia avrà un seguito nella successiva trist. 5.2, dove il poeta dichiara apparentemente concluso lo sviluppo metamorfico del proprio corpo: vv. 3 ss., corpusque … sufficit, atque ipso vexatum induruit usu (Ovidio ha insomma subito una trasformazione in pietra: per l’uso di induresco in riferimento a metamorfosi, cfr. ThlL VII.1, s. v., p. 1271.42 ss.); ma la conclusione del processo non ha comunque comportato la fine né della vita né della poesia del nostro autore, smentendo dunque i tempora parva presentiti in trist. 4.6.40. D’altro canto, i dolori dell’animo crescono col tempo, contrariamente alle attese (vv. 7 ss., dove si noti l’impiego del medesimo lessico temporale di trist. 4.6: mens tamen aegra iacet, nec tempore robora sumpsit, / affectusque animi, qui fuit ante, manet. / quaeque mora spatioque suo coitura putavi / vulnera non aliter quam modo facta dolent. / scilicet exiguis prodest annosa vetustas; / grandibus accedunt tempore damna malis).

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vazione di un nuovo e imprevisto seguito nel racconto della sua esistenza (me … actum), mentre gli dei – cioè Augusto – hanno riportato alla vista (ex-posuere) colui che avrebbe altrimenti abbandonato la scena (annos ponere). Come al solito, l’esilio ha significato per Ovidio il ‘tradimento’ di un limite, la continuazione di una storia che ha disatteso la fine prevista.153 Se dunque in trist. 4.6 l’esule si dichiara proiettato verso il conseguimento del limite conclusivo dell’esilio (la morte, se non il perdono), trist. 4.8 guarda piuttosto allo scon­ giuramento, provocato dalla condanna, del limite che il poeta attendeva per sé e per la propria vita prima di essere bandito: le due elegie formano dunque un dittico che ben individua lo spazio all’interno del quale vediamo svilupparsi la poesia dell’esilio, il segmento tracciabile fra le due ‘cesure’ rappresentate dalla iniziale condanna, che ha prodotto una continuazione della vita e della poesia del nostro autore, e dalla fine dell’esilio, la cui attesa si sta tuttavia facendo a tal punto prolungata che, in assenza di un intervento da parte del princeps, ‘fine dell’esilio’ rischia di doversi necessariamente identificare con ‘(definitiva) morte del poeta’. Continuazione della vita e continuazione della poesia, come abbiamo visto altrove, costituiscono infatti un tutt’uno anche in trist. 4.8.154 Ai vv. 17 ss. Ovidio utilizza una serie di immagini che mostrano il trattamento cui dovrebbe essere riservato ciò che è ormai vecchio – che si tratti di oggetti (navi), animali (cavalli), uomini (soldati): in cava ducuntur quassae navalia puppes, ne temere in mediis dissoluantur aquis; ne cadat et multas palmas inhonestet adeptus, languidus in pratis gramina carpit equus; miles ubi emeritis non est satis utilis annis,

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La condanna sembra anzi aver attivato, come afferma Ovidio, un movimento contrario per cui i tempi di giovinezza e vecchiaia paiono essersi invertiti: cfr. vv. 31 s., fata repugnarunt, quae, cum mihi tempora prima / mollia praebuerint, posteriora gravant – laddove a risultare «leggeri» sareb­ bero dovuti essere gli ultimi anni (vv. 7 s., quaeque meae semper placuerunt otia menti / carpere et in studiis molliter esse meis). La mollitia del poeta in giovinezza, nonché la repulsione per i labores e la predilezione per gli otia, sono naturalmente rappresentate dalla sua produzione erotica giovanile – ciò che emergerà dalla successiva elegia autobiografica: cfr. 4.10.37 ss., nec patiens corpus, nec mens fuit apta labori […] et petere Aoniae suadebant tuta sorores / otia, iudicio semper amata meo; 65 s., molle Cupidineis nec inexpugnabile telis / cor mihi, quodque levis causa moveret, erat. Interessanti in questo senso i vv. 35 s., dove è descritta la «rovina» del ‘piccolo carro’ del poeta a poca distanza dalla meta finale (nec procul a metis, quas paene tenere videbar, / curriculo gravis est facta ruina meo). Nell’Ars, la metafora della corsa del carro indica lo ‘spazio’ occupato dall’opera, i limiti entro cui intende muoversi il poeta (cfr. 1.39 s., hic modus, haec nostro signabitur area curru; / haec erit admissa meta terenda rota): nel contesto dei Tristia, la rovina del carro ormai prossimo al traguardo potrebbe figurare come immagine dell’incompiutezza di Metamorfosi e Fasti; ma l’inci­ dente ha comunque indotto il poeta a continuare la corsa componendo appunto i Tristia, l’opera che ‘prosegue’ i poemi maggiori lasciati incompiuti conferendo loro nuovo significato: si veda in questo senso la (ennesima) riscrittura del finale (che tuttavia finisce per perdere il suo statuto ap­ punto di ‘finale’) delle Metamorfosi in trist. 4.8.45 ss.

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ponit ad antiquos, quae tulit, arma Lares. sic igitur, tarda vires minuente senecta, me quoque donari iam rude tempus erat.

Nell’ultimo distico, Ovidio indossa per un momento le vesti del gladiatore cui, al ter­ mine del servizio, viene consegnata (o meglio, dovrebbe essere consegnata) la rudis, il bastoncino di legno simbolo del congedo. L’immagine è un’ostentata ripresa dei cele­ bri versi incipitari della prima epistola di Orazio (epist. 1.1.2, spectatum satis et donatum iam rude), dove il poeta, rivolgendosi a Mecenate, adduceva appunto la vecchiaia come motivo della propria decisione di abbandonare la poesia, cui il potente patrono avrebbe voluto spingerlo ancora.155 Dal medesimo passo sono tratti anche altri due de­ gli esempi utilizzati da Ovidio nei versi citati: l’immagine del cavallo stanco infine libe­ rato per evitare che «disonori» i premi già vinti riproduce il consiglio che Orazio si sentiva rivolgere da un anonimo personaggio, forse la propria coscienza (vv. 8 s., ‘solve senescentem mature sanus equum, ne / peccet ad extremum ridendus et ilia ducat’), men­ tre il quadretto del soldato emerito che appende le armi in casa propria è una diretta variazione del Veianio oraziano (vv. 4 s., Veianius armis / Herculis ad postem fixis latet abditus agro), cui il poeta associava se stesso nella risoluzione di «deporre» la pratica di versus e ludicra (v. 10). La rudis ricevuta da Orazio prima dell’inizio delle Epistulae, simbolo dell’abbandono della ‘vera’ poesia rappresentata dalle Odi (cui tuttavia sarà in seguito aggiunto un quarto libro),156 è ciò che Ovidio non ha mai ricevuto in virtù della condanna – la quale non ha permesso alla ‘sua’ nave di ritirarsi dai marosi, come si è visto in trist. 1; ha impedito che la sua poesia, a differenza dell’equus, rimanesse senza macchia (cfr. v. 33, sine labe); e soprattutto ha fatto dell’esule anche un soldato, considerata la continua minaccia rappresentata dai barbari della regione, come il poeta ha spiegato, fra l’altro, nell’elegia proemiale di trist. 4 (cfr. vv. 71 ss.).157 Il mancato confe­ rimento a Ovidio di quel congedo che aveva segnato un limite per la poesia di Orazio – limite contraddittorio, come si è detto, e comunque provvisorio, come si sarebbe infine rivelato – si traduce ora nell’impossibilità per l’esule di condurre un’esistenza che in trist. 4.8 viene descritta, non a caso, secondo l’ideale di vita cui proprio Orazio aveva dato voce nelle sue opere, e in particolare nelle Epistulae (vv. 25 ss.):

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Sul genere epistolare come «Alterswerk», cfr. Korenjak 2005, pp.  55 ss. Non si tratta dell’unica ripresa dell’immagine oraziana nella poesia dell’esilio: cfr. trist.  2.17; Pont.  1.5.37 s. Le numerose reminiscenze oraziane in trist. 4.8 sono ampiamente esaminate da Wulfram 2008, pp. 393 ss. C’è naturalmente da rintracciare un sottile paradosso nel fatto che Orazio affermi di aver abban­ donato la poesia all’inizio della nuova opera, appunto, di poesia ‘pedestre’: cfr. Cucchiarelli 2010, p. 291. Cfr. Pont. 1.8.7, deque tot expulsis sum miles in exule solus, e numerosi altri passi. La presenza de­ gli arma – ciò che Ovidio presenta come una novità per sé e per la propria poesia – nelle opere dell’esilio complica la natura generica di queste raccolte, che offrono un’inedita commistione di epica ed elegia; cfr. Barchiesi 1994, pp. 5 ss.; Williams 2002, pp. 350 ss.

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tempus erat nec me peregrinum ducere caelum, nec siccam Getico fonte levare sitim, sed modo, quos habui, vacuos secedere in hortos, nunc hominum visu rursus et urbe frui. sic animo quondam non divinante futura optabam placide vivere posse senex.

Il tipo di vita che l’esule avrebbe voluto condurre in vecchiaia è espresso attraverso l’allusione a un tipo di poesia che aveva segnato l’ultimo stadio della (felice) carriera di Orazio, ma sono vita, poesia e carriera che Ovidio non potrà, almeno per il momento, mai condividere.158 Al posto del congedo, che all’inizio di epist. 1 Orazio significativa­ mente rivolgeva al potente Mecenate, Ovidio ha ricevuto una condanna che implica un allontanamento fisico affatto diverso, e che non soltanto gli impedisce di volgere (momentaneamente) le spalle al potere, ma gli impone di proseguire un tipo di poesia che egli vorrebbe, se potesse, volentieri abbandonare. 3.6 Città assediate e cerchi che stringono: trist. 5.10 Concludo la rassegna sui libri 3–5 dei Tristia prendendo in considerazione trist. 5.10, un’elegia che si apre con una nuova meditazione sulla percezione che il poeta ha del tempo a Tomi, proseguendo così in particolare i componimenti dei libri precedenti in cui questo tema è emerso in modo più evidente: trist. 3.10, 3.12 e 4.6.159 L’arrivo del terzo inverno, la cui registrazione si inserisce nel già illustrato conteggio degli anni di esilio in corso (vv. 1 s., ut sumus in Ponto, ter frigore constitit Hister, / facta est Euxini dura ter unda maris), induce il poeta a riflettere sul fatto che il tempo sembra essere trascorso molto più lentamente, un ‘rallentamento’ che paradossalmente si traduce per Ovidio nella sensazione che siano trascorsi, dalla sua partenza da Roma, molti più anni di quelli effettivi – precisamente dieci, gli anni della guerra di Troia (vv. 3 s., at mihi iam videor patria procul esse tot annis, / Dardana quot Graio Troia sub hoste fuit). Il contrasto su cui si giocano questi versi è dato ancora una volta dallo scontro tra un’idea di progressione, cui si deve l’enfatica menzione del terzo inverno in sede incipitaria e che suggerisce il mantenimento di un certo controllo sullo scorrere del tempo dell’esilio, e una perce­ zione soggettiva del flusso temporale che rischia di compromettere quel medesimo controllo e che induce il poeta a credere che la natura abbia per lui straordinariamente mutato leggi (v. 9, scilicet in nobis rerum natura novata est). Si tratta di un contrasto che 158 159

Sull’ideale di vita espresso da Orazio in epist. 1 si consulteranno utilmente, fra gli altri, Kilpatrick 1986; Traina 1991; Ferri 1993, pp. 59 ss.; McCarter 2015. Sul trattamento del tempo in trist. 5.10, cfr. in particolare Evans 1983, pp. 99 s.; Hinds 2005, pp. 214 s.; Amann 2006, pp. 241 ss.; Tola 2008, pp. 61 s.; Wolkenhauer 2011, pp. 324 ss.

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è possibile rintracciare nella giustapposizione, all’interno del medesimo verso, di due verbi affatto opposti: v. 5, stare putes, adeo procedunt tempora tarde. A partire da queste considerazioni, l’elegia si sviluppa in una direzione apparen­ temente diversa: dal v. 15 in avanti il poeta propone una drammatica eppure vivace descrizione delle condizioni di vita degli abitanti di Tomi (e dunque di se stesso), con­ tinuamente minacciati dagli attacchi dei barbari esterni (v. 15, innumerae circa gentes fera bella minantur) e dai modi violenti di quelli che vivono in città, mescolati ai ‘civili’ abitanti greci (vv. 27 s., et tamen intus / mixta facit Graecis barbara turba metum). La riflessione sul tempo dei primi versi dell’elegia scivola nella rappresentazione dello spazio che occupa il corpo centrale del componimento, e l’osservazione circa l’assedio di Troia svolta a proposito dei dieci anni che all’esule pare di avere ormai trascorso a Tomi trova una concretizzazione piuttosto straordinaria nell’immagine della stessa Tomi stretta d’assedio dalle gentes barbare.160 Il poeta si autorappresenta come costretto a rimanere chiuso all’interno della cinta muraria della città, una barriera che tuttavia si rivela piuttosto permeabile all’intrusione esterna (vv. 21 s., saepe intra muros clausis venientia portis / per medias legimus noxia tela vias).161 Vale la pena di riflettere su questa immagine di chiusura determinata dal pur malsi­ curo tracciato circolare delle mura di Tomi: la sezione centrale del nostro testo sembra appunto fondata sul contrasto fra interno ed esterno, come dimostrano le numerose indicazioni affidate agli avverbi e alle preposizioni di luogo (cfr. circa, v. 15; extra, v. 17; intra, v. 21; intus, v. 27).162 Lo spazio chiuso della città, all’interno del quale il poeta è co­ stretto a vivere senza possibilità di uscita (a causa delle sfavorevoli condizioni esterne, ma anche a causa della costrizione sancita dalla condanna), è uno spazio soffocante e claustrofobico, in cui l’esule vede continuamente messi in discussione i propri riferi­ menti culturali e identitari (cfr. v. 37, barbarus hic ego sum, qui non intellegor ulli …).163 Questa sensazione di straniamento percepita nel chiuso circolo delle mura di Tomi fa il paio con la parimenti straniante percezione soggettiva del tempo che abbiamo visto descritta nei primi versi dell’elegia: al cerchio tracciato dalla cinta muraria della città, che intrappola e costringe il poeta esule, fa riscontro il movimento parimenti circolare del tempo stagionale cui allude il ritorno dell’inverno menzionato nel primo distico 160 Gli abitanti greci di Tomi vestono bracae persiane (vv. 33 s., hos quoque, qui geniti Graia creduntur ab urbe, / pro patrio cultu Persica braca tegit): ciò che contribuisce a suggerire una certa caratteriz­ zazione orientale, ‘troiana’ di Tomi; la compresenza di greci e barbari, d’altronde, potrebbe non distinguersi molto dalla percezione di Troia come città familiare ed estranea insieme – un dissidio fondamentale nella costituzione dell’identità romana: cfr. Giardina 1997, pp. 62 ss. 161 Sulla «lack of any firm boundary between the Tomitans and the external enemy», che si riflette nell’assenza di divisione fra greci e barbari all’interno della città «in a form of cultural hybridiza­ tion which ultimately threatens Ovid himself», insiste Williams 2002, p. 349. 162 Cfr. a questo proposito Chwalek 1996, pp. 74 ss. 163 Si confronti l’inquietante quadro fornito in Pont. 1.2.17 s., dove il poeta paragona i ripetuti attacchi dei nemici barbari alla ‘ronda’ del lupo intorno all’insicuro spazio chiuso dell’ovile (his eques instructus perterrita moenia lustrat / more lupi clausas circumeuntis oves).

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del componimento. Si tratta del movimento temporale ciclico che, alla pari del luogo, ha ormai ‘intrappolato’ l’esule in un automatismo inestricabile, nella chiusura di un circuito spazio­temporale da cui sembra davvero impossibile svincolarsi. Il feroce con­ trasto fra le due espressioni del tempo, lineare e ciclico, che abbiamo finora visto carat­ terizzare le raccolte dei Tristia è visibilmente attivo anche in trist. 5.10, dove la ‘conta’ lineare del corrispettivo anno di esilio si coniuga alla considerazione del ritorno di una condizione non mai mutata: anziché rintracciare la conclusione, il modus dell’esilio ottenuto per mezzo del perdono, il punto terminale pur sempre agognato (quello di cui il poeta ha parlato all’inizio di questo stesso libro: cfr. trist. 5.1.36), l’esule finisce per assistere a tutt’altro tipo di ‘chiusura’ – la chiusura perfetta di quel moto circolare che lo imprigiona nella definitiva dimensione di relegato a Tomi. Oltre che un luogo, Ovidio è condannato ad abitare anche un tempo. Non sarà allora un caso se negli ultimi versi dell’elegia la morte torna a costituire l’unica soluzione che sarebbe veramente (stata) in grado di spezzare l’eternità del tem­ po riservato alla condanna (vv. 45 s., o duram Lachesin, quae tam grave sidus habenti / fila dedit vitae non breviora meae!; vv. 51 s., quid loquor, a! demens? ipsam quoque perdere vitam / Caesaris offenso numine dignus eram): una morte cui tuttavia, ancora una volta, il poeta è stato sottratto, tanto dal fato quanto da Augusto  – e questa sottrazione è ora vissuta come ulteriore ragione di sofferenza. Il distico finale del componimento, dove Ovidio rimprovera se stesso per aver insinuato di non meritare un tale luogo per l’esilio (avrebbe anzi meritato la condanna capitale!), contiene tutto il paradosso per cui il limite esistenziale sancito dalla morte avrebbe evitato all’esule di subire il ben peggiore supplizio già toccato a Tantalo e a Prometeo: l’eterna, ‘circolare’ sofferenza di una condanna senza fine.

Capitolo 3 Epistolarità, comunicazione, chiusura dai Tristia alle Epistulae ex Ponto 1. Una questione di lettere L’assenza di modus che accomuna poesia e condanna di cui Ovidio ha parlato nell’ele­ gia proemiale dell’ultimo libro dei Tristia si traduce, attraverso un gesto che si collo­ ca a metà strada fra la conferma di quell’annuncio e la sua contemporanea smentita, nella fine dei Tristia e nell’inizio della seconda opera dell’esilio, le Epistulae ex Ponto. In quest’ultimo capitolo cercheremo dunque di valutare in che modo gli aspetti della poesia ovidiana dell’esilio su cui si è finora appuntata la nostra attenzione – il contrasto fra limite e continuazione; la temporalità dell’esilio; l’opposizione fra tempo lineare (provvisorio) e tempo ciclico (eterno) – trovino, se la trovano, una ulteriore declina­ zione, e come questa declinazione si distingua, se si distingue, da quella dei Tristia. Prima di procedere con questa indagine sembra tuttavia necessario, per non dire inevitabile, affrontare un problema di cui mi pare di poter ritenere che la critica, so­ prattutto recente, sulla produzione esilica di Ovidio sia, tutto sommato, perfettamente consapevole; eppure, allo stesso tempo, è interessante notare come i termini di que­ sta problematica tendano tuttora a sfuggire, se non a essere completamente – talvolta ‘programmaticamente’ – trascurati: la differenza fra i Tristia e le ex Ponto, con la con­ seguente incerta considerazione della natura epistolare di queste opere, in particolare della prima. Può essere utile cominciare dalla seguente osservazione di Peter Green: The Epistulae ex Ponto […] mark several distinct changes in Ovid’s exilic poetry. To begin with (a point seldom stressed, and not so simplistic as it might appear) they are not the Tristia, and it is tempting, even if ultimately frustrating, to ask ourselves why not.1

1

Green 20052, p. 293 (ad Pont. 1.1).

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Il senso di frustrazione di cui parla Green può ben descrivere il sentimento di chi, a un primo sguardo, approcci questo tema; si può forse credere, in aggiunta, che questa percezione sia esattamente quella che Ovidio ha avuto cura di ottenere dai suoi lettori. L’incertezza di lettori e critica a questo proposito può del resto certamente essere considerata il frutto della compresenza di elementi di continuità ed elementi di rottu­ ra rintracciabili nella più recente opera rispetto alla più antica, una compresenza che appare più prudente non mortificare, né in un senso né nell’altro. La poesia cui danno voce le Epistulae nasce infatti come espressione delle medesime circostanze biografi­ che in cui continua a trovarsi il poeta in esilio, cui anzi si pone la difficoltà di continuare ad avvicinare i suoi lettori nella sostanziale necessità di proseguire i medesimi lamenti e le medesime richieste (con qualche piccolo grande accorgimento, come vedremo); è importante però osservare che questa ‘costrizione al proseguimento’ si traduce nella elaborazione di una novità, che nello sviluppo diacronico della poesia ovidiana a Tomi produce inevitabilmente una cesura – una cesura che forse, come abbiamo anticipa­ to, funge per il nostro autore da parziale rimedio alla prevedibilità di un automatismo divenuto tale a causa della inopinata (e imprevedibile) continuazione della condanna. Trascurare la presenza e i termini di questa cesura rischia allora di produrre un dop­ pio effetto negativo: sminuire appunto, da un lato, la portata innovativa delle ex Ponto; dall’altro, e più gravemente, appiattire la varietà e il magmatico sperimentalismo di forme e contenuti da cui retrospettivamente constatiamo essere caratterizzati i Tristia, un’opera di complessa definizione proprio in ragione della difficoltà di attribuirle una ‘appartenenza’ anche generica.2 Uno dei principali prodotti dell’approccio ‘unitario’ alle opere dell’esilio di Ovidio di cui ha dato prova la critica – considerarle appunto ‘in blocco’, come si diceva – è costituito dalla tendenza a trattare anche i componimenti dei Tristia, tutti i compo­ nimenti dei Tristia, come epistole: è ciò che, in particolare, si riscontra in quei lavori che mettono a confronto la prima opera dell’esilio di Ovidio con altre opere, ovidiane e no, la cui natura epistolare – fatte salve le dovute specificazioni, di cui non possiamo qui rendere conto – appare un dato indiscutibile, non fosse altro per il fatto che è loro assegnato il titolo di Epistulae.3 Fra gli studi più evidentemente (e dettagliatamente) 2

3

Del resto, la collocazione delle stesse Epistulae all’interno di categorie troppo ristrette pare altret­ tanto rischioso e poco produttivo; che l’epistola rappresenti un genere è tema dibattuto: cfr. Gibson 2013 su «generic mobility» e «chameleon­like qualities» dell’epistula. Come si vedrà, in questo lavoro considero il formato epistolare in quanto espressione di una modalità comunicativa, non tanto la sua costituzione in quanto ‘genere letterario’. Sul genus epistulare, cfr. anche Ebbeler 2010. Cfr. in part. Rosenmeyer 1997 (confronto fra Heroides e Tristia), che parla della epistolarità dei Tristia sulla base della «flexibility of the letter form that led Ovid, who had boasted of his origi­ nality in inventing the format for his Heroides […], to further exploration of the genre in his let­ ters from ex ile» (p. 31; è interessante in questo senso, nonché assai indicativa, la programmatica esclusione delle ex Ponto dalla trattazione: cfr. p. 52 n. 6); Ingleheart 2009 (presenza di Orazio in trist. 2), p. 123 nota che «in writing collections of verse epistles in his own persona, Ovid provides the first response to the novel project of [Horace’s] Epistles, which offer a significant in­

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schierati in questo senso si distingue l’ampia trattazione – già più volte menzionata nei capitoli precedenti – di Hartmut Wulfram all’interno di un volume dedicato al ‘libro di epistole in versi’ in quanto genere della letteratura latina (Das römische Versepistelbuch. Eine Gattungsanalyse). L’obiettivo di Wulfram è dimostrare che le collezioni dell’esi­ lio fanno di Ovidio il «continuatore» («Fortsetzer») della tipologia poetica – una vera e propria «Gattungstradition»4 – inaugurata da Orazio nelle Epistulae; quest’o­ pera si porrebbe infatti per l’esule come «ein ‘strukturell­diskursives’ Vorbild» per un formato di collezione (prevalentemente) epistolare nel quale «eine […] immer gleichbleibende ‘auktoriale’ Ich­persona mit einer Vielzahl von realen (oder wenigstens ‘potenziell realen’) Freunden kommuniziert».5 Si tratta di ciò che Wulfram mostra a proposito delle ex Ponto prima di trattare i Tristia – una disposizione della materia interessante di per sé, che tuttavia finisce per compromettere un approccio ‘lineare’ alle collezioni dell’esilio (una lettura dei singoli libri / gruppi di libri ‘dall’inizio alla fine’) in più punti pure persuasivamente proposto.6 Quanto ai Tristia, da un lato si ar­ gomenta – addirittura mediante il ricorso a rilievi di carattere statistico – la variabile e crescente ‘densità’ di componimenti indirizzati a singoli destinatari («‘individuelle Mitteilungen’») nell’arco dei cinque libri; dall’altro, rifacendosi a una definizione larga del concetto di epistola – quella cioè di epistolarità («Brieflichkeit») – si trae infine la seguente conclusione: Obgleich […] in den Tristien­Büchern ein beachtlicher (tendenziell abnehmender) Pro­ zentsatz von formal ‘monologischen’ oder ‘überindividuellen Mitteilungen’ zu konsta­ tieren ist, gilt bei der Frage nach der «gattungshaften Dominante im Bezugssystem des Textes», d. h. im ‘sukzessiv­diachronen Gedichtbuchcorpus’ trist. 1–5 insgesamt, daß der Leser dieses – zumal bei linearer Lektüre – als ein Quintett von poetischen Epistelbüchern wahrnehmen muß.7

È esattamente questa ‘costrizione all’incasellamento’ l’operazione cui i Tristia sem­ brano in ultima analisi sottrarsi, laddove simili definizioni comportano una sovrap­ posizione a mio parere rischiosa tra ‘formato’ e ‘carattere’ epistolare (o epistolarità) e una valutazione troppo meccanica – o troppo frettolosa – di alcune delle più evidenti

4 5 6 7

tertext throughout the Tristia and Epistulae ex Ponto. The evident generic relationship invites Ovid’s readers to explore broader similarities between the poets […]»; anche Natoli 2017, p. 124 considera «each one of the poems in both Tristia and Epistulae ex Ponto [is set up] as a poetic epistle to friends and family of the exile in Rome», salvo riconoscere che «the progression of epistolar y form from the Tristia to the Epistulae ex Ponto dramatizes the increasing immediacy of the exile’s condition»: i fatti appaiono più complessi (in tutte le citazioni, l’enfasi è mia). Sulla genuinità del titolo ‘Epistulae’ per Orazio, cfr. Ferri 2007, p. 121 n. 1 e soprattutto Citroni 2017, p. 61 n. 4; il medesimo titolo per le Heroides è confermato da Ov. ars 3.345. Cfr. Wulfram 2008, p. 220. Ivi, p. 255. Cfr. ad es. p. 241 su Pont. 1–3; p. 268 su Pont. 4; p. 325 su trist. 1. Wulfram 2008, p. 383; l’espressione virgolettata è citazione da H. R. Jauss.

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riprese dal modello oraziano. Anche limitare la qualifica di epistole a quelle elegie dei Tristia che sono indirizzate a un singolo, per quanto anonimo, interlocutore appare una scelta che merita più cautela di quanta se ne sia talvolta impiegata.8 Negli studi menzionati, risulta sostanzialmente trascurato uno spunto che a suo tempo ha al contrario fornito Stephen Hinds in un saggio su trist. 1 già più volte citato, spunto che mi pare tuttora insuperato nonché, tuttavia, bisognoso di approfondimen­ to – ed è il seguente:9 The poems of Tristia 1 are in a practical sense epistles in that they have to be sent, in real life, over a distance to Rome […]. But in terms of internal, literary format, the typical elegy in Tristia 1 (or Tristia 3 or 4) is no more (or less) an epistle than any personal poem whatso­ ever with a named or implied addressee […]. What we see starting here, increasing in Tristia 5, and culminating in the switch from books of Tristia to a new collection of Epistulae ex Ponto with named addressees, is a belated assimilation of the internal, literary format of the exile poetry to the external, real­life fact of its always being written for posting. In effect, then, it is only in poems written long after Tristia 1 that this book’s epistolary programme has its internal as well as its external consequences fully worked out.

Dire che «la tipica elegia» dei Tristia «non è, né più né meno, un’epistola» rispetto a qualsiasi componimento rivolto a un preciso destinatario (anche se non nominato) appare a sua volta un’affermazione che a prima vista non tiene conto del fatto che al­ cune elegie dei Tristia sono a tutti gli effetti delle epistole – dal momento che, ancora una volta, così esse si auto­definiscono.10 La distinzione che Hinds propone tra «senso pratico» e «formato letterario» coglie tuttavia senza dubbio nel segno, e proprio a questo aspetto sarà dedicata una parte della trattazione che segue; riconoscere la pre­ senza o meno di ‘epistole’ nei Tristia, senza tuttavia attribuire alle elegie di quest’opera la preventiva qualifica di lettere, appare a mio avviso un buon metodo attraverso cui si rende possibile, fra l’altro, descrivere con una certa precisione l’evoluzione di una dinamica letteraria nel tempo.11

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È il caso di Roussel 2008, che tratta alla pari di Heroides ed ex Ponto «une trentaine environ» di componimenti dei Tristia che «évoquent, plus ou moins précisément, un destinataire à qui la pièce est adressée» (p. 37). Hinds 1985, p. 16 (cfr. p. 30 n. 14: «John Henderson helped me to clarify this point»). E d’altra parte sono introdotte e concluse dalle consuete formule. Sulla ‘necessità’ del formato epistolare per il poeta in esilio, e sul confronto con la tipologia di Anrede ‘semplice’ presente in Pro­ perzio, cfr. già Lechi 1978, p. 8: «nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto la comunicazione non può es­ sere rappresentata se non per mezzo dell’epistola, con la specifica formula introduttiva: deve cioè essere segnalato formalmente che il ‘discorso rivolto ad un interlocutore’ si svolge solo attraverso la mediazione della lettera, unica possibilità, per l’esiliato lontano da Roma, di tenersi in contatto con i suoi sodales» – una formulazione che a sua volta ricade nella generalizzazione opposta. Sulla necessità di distinguere le due raccolte dell’esilio, e sulla tendenza della critica «a trattare Tristia ed Epistulae ex Ponto come un corpus indistinto, senza considerare che la prima raccolta non utilizza la forma epistolare in maniera sistematica», si veda anche la recente osservazione di For­

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Epistolarità, comunicazione, chiusura dai Tristia alle Epistulae ex Ponto

Per venire dunque all’approccio che governerà la presente discussione, si comincerà dalla messa a fuoco di alcuni punti essenziali a proposito di Pont. 1.1, il ‘paratesto’ che introduce la nuova opera giunta a Roma dal Ponto: da questo testo emergono infatti piuttosto chiaramente due elementi di sicura novità rispetto ai Tristia, l’impiego si­ stematico dell’epistula e l’esplicitazione dei nomi dei destinatari. A partire da questa doppia innovazione, che in Pont. 1.1 è fatta coincidere in modo del tutto inatteso per i lettori delle opere – della (singola) opera – che l’esule ha finora composto, si cercherà di rintracciare, nei Tristia, il progressivo emergere di ciascuna delle due istanze consi­ derate: la sperimentazione, da un lato, della forma epistolare come una delle modalità di Anrede presenti nella prima collezione; il desiderio di nominare gli amici, espresso in modo sempre più urgente in corrispondenza del riconoscimento di una funzione propria dell’elegia, di cui anche i Tristia – opera che in questo senso esprime un carat­ tere che definirei ‘meta­elegiaco’ – vorrebbero, ma non possono, farsi portavoce. 2. Elegia epistolare, epistola elegiaca: evoluzione delle forme e strategie di comunicazione dai Tristia alle Epistulae ex Ponto Le Epistulae ex Ponto di Ovidio, i cui primi tre libri costituiscono una raccolta unitaria inviata a Roma nel corso dell’anno 13 d. C. (il quarto anno di esilio del poeta a Tomi), si aprono con un’epistola indirizzata a Bruto. La destinazione esclusiva del testo, anzi dell’intero opus, che individua nel singolo personaggio menzionato l’interlocutore pri­ vilegiato dell’autore, costituisce un’acquisizione di cui il lettore entra in possesso sol­ tanto al secondo distico, dove compare appunto per la prima volta il nome di Bruto; il primo distico, che comincia piuttosto con l’enfatica dichiarazione del nome di Ovidio, è rivolto a un ‘tu’ che il lettore generico delle opere finora inviate dall’esule potrebbe a buon diritto ritenere indirizzato a sé (vv. 1 s.): Naso Tomitanae iam non novus incola terrae hoc tibi de Getico litore mittit opus.

L’esordio della nuova opera si pone in diretta continuità rispetto all’incipit dell’ultimo libro inviato, trist. 5: il primo distico di quella silloge (hunc quoque de Getico, nostri studiose, libellum / litore praemissis quattuor adde meis), rivolto appunto al generico lettore studiosus delle opere di Ovidio, appare evidentemente riecheggiato all’inizio di Pont. 1.1, dove la provenienza dell’opus dalla regione pontica è espressa allo stesso modo (de Getico litore). Allo stesso tempo, non passa inosservato lo scarto tra il libellum di trist. 5.1.1 e appunto l’opus di Pont. 1.1.2: d’altronde, che si tratti di un’opera altra nero 2014, p. 97 n. 1; cfr. inoltre Videau­Delibes 1991, p. 12: «les Pontiques, à la manière des Héroïdes, ne sont que des lettres, tandis que seules quelques élégies des Tristes adoptent cette forme»; buone osservazioni anche in Claassen 1999, pp. 114 ss.

Elegia epistolare, epistola elegiaca

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rispetto ai Tristia il lettore ha già appreso prima di leggere il primo distico, leggen­ do cioè il titolo.12 La definizione dell’esule quale «abitante non nuovo della terra di Tomi» (Tomitanae iam non novus incola terrae) si ricollega invece a un’affermazione che Ovidio ha svolto nell’elegia proemiale del penultimo libro, trist. 4, dove al termine di un quadro a dire il vero non del tutto rassicurante delle condizioni di vita del luogo ha parlato di se stesso quale, ai tempi, «nuovo abitante» di Tomi (v. 85, hic ego sollicitae lateo novus incola sedis).13 Quando, giunto al v. 3, il lettore generico scopre con sorpresa che il tibi del verso precedente presuppone un referente più preciso di quanto avrebbe fatto credere il con­ fronto con gli incipit degli ultimi ‘numeri’ dei Tristia, la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera veramente diversa e innovativa è in certo modo stemperata da una serie di ul­ teriori rimandi ‘incipitari’ ai differenti libri della collezione sotto il cui titolo Ovidio ha finora raccolto i libelli dell’esilio – rimandi che, dopo quelli a trist. 4.1 e 5.1 contenuti nel primo distico, si collocano secondo un’ideale linea regressiva, dai più recenti ai più an­ tichi libri dei Tristia. La richiesta, rivolta a Bruto, di accogliere e ospitare (letteralmente, ancora una volta, di «nascondere») i libri peregrini delle ex Ponto, nonché l’osservazio­ ne a proposito del timore nutrito dai medesimi libelli nel gesto di avvicinare i publica monumenta, le biblioteche pubbliche (vv. 3 ss.), riprendono direttamente trist. 3.1 e il tormentato itinerario attraverso la città realizzato e narrato in prima persona dal terzo liber dei Tristia;14 ai vv. 7 s., invece, la riproduzione in discorso diretto delle raccomanda­ zioni pronunciate dal poeta ai medesimi libri della nuova opera (a, quotiens dixi: ‘certe 12

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Cfr. infra, p. 154 per alcune osservazioni su Pont. 1.1.17, rebus idem, titulo differt. Assumendo che il titolo completo della nuova collezione debba necessariamente essere ‘Epistulae ex Ponto’, dicitura ricavabile dalla combinazione di quanto tramandano i manoscritti (ex Ponto, Epistularum, de Ponto: cfr. Schröder 1999, pp. 87 ss.; Wulfram 2008, p. 235), si segnala che i principali editori moderni (così p. es. Owen, Richmond) seguono parte della tradizione recando come titolatura il sempli­ ce ‘ex Ponto’ (libri quattuor, liber primus, etc.): nella lettura sequenziale dei libri inviati da Tomi, Pont. 1 può essere a stento definito «il primo libro dal Ponto», mentre la definizione della colle­ zione come «libri dal Ponto» tende a maggior ragione ad annullare la differenza rispetto ai Tristia, libri a loro volta già inviati ex Ponto (cfr. trist. 5.2.1, ecquid, ubi e Ponto nova venit epistula, palles …?; Pont. 2.5.9, missaque ab Euxino legeres cum carmina Ponto, dove il riferimento è ai Tristia); lo stesso discorso vale per il titolo, un tempo abbastanza diffuso in edizioni e commenti, ‘Pontica’ (e relative traduzioni: Pontiche, Pontiques …), che invererebbe il timore espresso dal poeta in trist. 3.14.49 s., timeo ne … in[que] meis scriptis Pontica verba legas. Manoscritti ed editori moderni esaltano così inavvertitamente, a prezzo tuttavia di un sottile controsenso, lo stretto legame fra le due raccolte istituito da Ovidio nei primi versi di Pont. 1.1. A rimanere «nascosti» sono ora al contrario i libelli delle ex Ponto, detti peregrini al v. 3 (cfr. vv. 9 s., non tamen accedunt, sed, ut aspicis ipse, latere / sub Lare privato tutius esse putant); se dunque in Pont. 1.1 Ovidio è un incola ormai non più novus di Tomi, sono i libri a presentarsi – ammesso che Bruto li accolga in casa propria – come «nuovi abitanti» di Roma. Una buona osservazione a questo proposito in Tissol 2014, p. 53: «now in Ex P. 1.1 O. personifies his peregrini libelli (3) and takes up, so to speak, where Tr. 3.1 leaves off»; c’è tuttavia da dire che, come si è visto, già nel distico iniziale Ovidio ha «ripreso da dove ha lasciato», nella fattispecie da trist.  5.1, l’elegia introduttiva del libro più recente; in più, trist.  3.1 ha già avuto un seguito in trist. 3.14: cfr. supra, pp. 82 s.

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nil turpe docetis: / ite, patet castis versibus ille locus!’) riproduce per molti aspetti l’esorta­ zione che in trist. 1.1 il poeta ha rivolto al singolo libro in partenza, invitato a manifestare preventivamente la propria differenza rispetto all’Ars (vv. 67 s., ‘inspice’ dic ‘titulum: non sum praeceptor amoris; / quas meruit, poenas iam dedit illud opus’). Se, come abbiamo vi­ sto, il componimento conclusivo di trist. 5 e quindi di tutti i Tristia, trist. 5.14, aveva accu­ mulato nei propri versi iniziali una serie di rimandi sfragistici utili a fare di quel testo un (apparente) ‘iper­finale’, Pont. 1.1 – il componimento che rende trist. 5.14 l’elegia davvero conclusiva dei Tristia, ma che allo stesso tempo si pone come il diretto proseguimento della medesima poesia triste di Ovidio – sembra concentrare nei primi distici una serie di allusioni incipitarie che finiscono per rendere l’epistola a Bruto un (parimenti appa­ rente) ‘iper­inizio’, un componimento che riassume e prosegue i Tristia, e che tuttavia dai Tristia si distingue, inaugurando un’opera nuova e insieme non­nuova. La sensazione di una novità solamente relativa prosegue nel distico formato dai vv. 11 s. della nostra epistola, dove il poeta riprende l’immagine della libreria già uti­ lizzata in trist. 1.1 – ma questa volta è lo scaffale di Bruto, mentre allora si trattava del penetrale di casa dello stesso Ovidio: il destinatario è chiamato a collocare i tre libri di Epistulae appena giunti nello spazio lasciato vuoto dai tre dell’Ars (quaeris ubi hos possis nullo componere laeso? / qua steterant Artes, pars vacat illa tibi). L’esplicitazione del carattere sostitutivo della nuova collezione rispetto all’opera causa della condanna rappresenta un ulteriore passaggio rispetto a quanto già avvenuto, in particolare, in trist. 3.14: come si è visto nel capitolo precedente, anche in quel componimento Ovidio escludeva i tres nati, i tre libri dell’Ars, dal novero delle opere di cui il cultor et antistes avrebbe dovuto prendersi cura, lasciando intendere che i tre libri dei Tristia fino allora composti sarebbero risultati dei buoni sostituti; in più, l’invito ad «aggiungere» alla serie collocata a scaffale il più recente prodotto della fatica dell’autore, già formulato in quella medesima elegia (trist. 3.14.25, hoc quoque nescioquid nostris appone libellis) e poi ripetuto al lettore affezionato all’inizio di trist. 5.1 (vv. 1 s., hunc quoque … libellum  /  … praemissis quattuor adde meis), torna puntualmente anche nell’epistola a Bruto, cui viene chiesto di «unire» il nuovo ‘blocco’ costituito da Pont. 1–3 alle opere del poeta (Pont. 1.1.21, quicquid id est, adiunge meis).15 Se dunque da un lato il carattere ‘additivo’ della poesia dell’esilio di Ovidio trova nelle ex Ponto una nuova, ulteriore conferma, dando così seguito a quella ‘poetica dell’addizione’ cui nell’elegia proemiale dell’ultimo libro dei Tristia è stata consegnata veste teorica, l’idea che Pont. 1–3 debba­ no precisamente sostituire ars 1–3 appare più problematica, e lascia aperta una doppia possibilità: o Bruto non ha collezionato i Tristia, rischiando tuttavia di risultare un lettore tutt’altro che studiosus delle opere di Ovidio, un lettore anzi infedele, dal mo­ mento che lo spazio vuoto lasciato dall’Ars dovrebbe essere ormai abbondantemente coperto dai cinque libri della prima opera dell’esilio; oppure, c’è da credere, il «vuo­

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Cfr. Citroni 1995, pp. 456 s.

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to» (pars vacat) creatosi nello scaffale delle opere di Ovidio a seguito della condanna è un vuoto che a ben vedere fatica a riempirsi, esso corrisponde anzi a un horror vacui da parte dell’autore che richiama continuamente il lettore alla possibilità di accogliere nuovi arrivi e nuove aggiunte: uno spazio che si rigenera costantemente, rendendo potenzialmente infinita – una volta di più – la produzione triste di un autore che non sa, e non può, mettere fine alla sua opera.16 Dopo aver individuato la nutrita serie di rimandi alle più rilevanti elegie paratestuali dei Tristia inclusi nei primi versi del nuovo ‘paratesto’ costituito da Pont. 1.1, possiamo ora passare a valutare ciò che lo stesso Ovidio afferma a proposito della stretta affinità che il lettore è invitato a notare fra la prima e la seconda opera dell’esilio – ciò che i molteplici rimandi sopra individuati hanno già aiutato a intuire, pur nell’inevitabile constatazione di qualche differenza di fatto molto visibile. Cominciando la lettura del­ la nuova collezione, infatti, i lettori delle opere che il poeta ha fino a questo momento inviato dal Ponto (Ibis compreso) – lettori avvezzi alla ripetuta e frustrante circostanza per cui l’esule si è sempre dichiarato costretto a tacere i nomi degli amici, dei nemici e dei conoscenti cui pure si è rivolto – si sono imbattuti in una prima, evidente novità, rappresentata dal fatto che al v. 3 è comparso il nome di Bruto. La seconda novità, cui a dire il vero il lettore è ancora una volta introdotto preliminarmente, fin dal titolo, è costituita dal fatto che ai nuovi componimenti giunti a Roma è stata assegnata una forma ben precisa e (si presuppone) immediatamente riconoscibile, la forma dell’epistula: i nomi degli amici, finalmente rivelati, saranno esplicitati in quanto destinatari di testi che si presentano costruiti secondo un medesimo formato, quello epistolare. Sarà dunque lecito attendersi una serie di componimenti indirizzati ciascuno a un singo­ lo destinatario, inquadrati dalle consuete formule di saluto iniziali e finali, contenenti informazioni connesse allo speciale rapporto che intercorre fra chi scrive e chi riceve: le caratteristiche che insomma definiscono quella speciale tipologia di scritto che è il testo epistolare.17

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L’immagine del vuoto che non si riempie qui suggerita farebbe in questo modo il paio con quella del fuoco che non distrugge, per cui cfr. supra, pp. 88 s. L’idea del ‘riempimento di un vuoto’ appare in ogni caso relativamente frequente in sede incipitaria o proemiale, con allusione più o meno scoperta allo ‘spazio’ occupato dall’opera letteraria così introdotta: cfr. p. es. Ov. am. 1.1.26, uror et in vacuo pectore regnat Amor (per la cui corretta interpretazione si veda Labate 1984, p. 20 n. 10; il verso sembra a sua volta richiamare Prop. 1.1.34, et nullo vacuus tempore defit Amor, ma l’aggettivo ha qui piuttosto il significato di «inattivo, inoperoso»: cfr. Fedeli 1980 ad loc.). Interessante anche Verg. georg. 3.3 s., cetera, quae vacuas tenuissent carmine mentes, / omnia iam vulgata, dove a vacuas andrà attribuito il medesimo significato di «libere, vuote» (vale a dire, «disposte all’ascolto») che l’aggettivo ha in Lucr. 1.50 s., vacuas auris … adhibe (il parallelo è citato dagli Scholia Veronensia), pace Thomas 1988 ad loc. Significativamente, in trist. 1.1.93 è Augusto a dover essere vacuus nel mo­ mento in cui gli si sottoporrà il nuovo libro del condannato Ovidio. Per una panoramica sulle caratteristiche dell’epistolografia antica si vedano p. es. Thraede 1970; Cugusi 1983; Rosenmeyer 2001; Trapp 2003, pp. 1 ss.; Gibson – Morrison 2007.

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La doppia novità ora accennata è limpidamente illustrata dallo stesso poeta in Pont. 1.1.17 s. (rebus idem, titulo differt; et epistula cui sit / non occultato nomine missa docet), una spiegazione che viene incontro alla giustificata curiosità che il poeta, facendo mostra di rispondere a una legittima domanda che potrebbe essergli rivolta (v. 13, roges fortasse), attribuisce a Bruto e di conseguenza al più ampio spettro dei suoi lettori, cui è sottoposta un’opera che manifesta un esplicito carattere di novitas (novitate … sub ipsa).18 Allo stesso tempo, tuttavia, in questi medesimi versi Ovidio parla del rappor­ to che lega la nuova collezione di epistole alla precedente opera dell’esilio, i Tristia, rispetto a cui è dichiarata non soltanto la conservazione di un tono appunto triste (v. 16, non minus hoc illo triste, quod ante dedi: nell’aggettivo triste andrà evidentemente riconosciuto un preciso rimando al titolo della precedente raccolta), ma anche – ed è questa la ragione della «tristezza» che parimenti caratterizza quest’opera – l’identità delle res, cioè dei contenuti (v. 17, rebus idem).19 Alla negazione della differenza rispetto ai Tristia, resa appunto attraverso la litote non minus … triste, che negando il rapporto comparativo fra le due opere ne afferma al contrario l’uguaglianza, il lettore è in realtà preparato fin dal primo verso: la già menzionata auto­definizione di Ovidio quale abi­ tante non novus (un’altra litote) di Tomi, svolta in riferimento al sofferto permanere della qualità di esule per il poeta, si pone in un contrasto piuttosto marcato rispetto alla rivendicazione di novità che pure questi versi contengono.20 Vale la pena di riflettere più a fondo, come si anticipava, su questo contrasto pro­ grammaticamente istituito nel componimento di esordio delle ex Ponto, al fine di co­ gliere l’autentica portata innovativa della nuova opera dell’esule a Tomi, e insieme gli elementi di continuità rispetto ai Tristia, che in effetti, come si è detto, le affermazio­ ni del poeta fanno credere ben presenti. La duplice novità che abbiamo individuato (esplicitazione dei nomi; sistematico impiego della forma epistolare) non è natural­ mente sfuggita alla critica, ma l’impressione è che non si sia ancora giunti a definire compiutamente, da un lato, il fatto che le novità che caratterizzano le Epistulae sono il frutto di una evoluzione delle forme e delle modalità comunicative che coinvolge in

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Sul principio della novitas Ovidio ha fondato l’intero poema metamorfico: in nova fert animus …; su questo aspetto del maius opus, cfr. p. es. Myers 1994, p. 80; Nelis 2009, p. 250. Lascia interdetti l’affermazione di Wulfram 2008, pp. 383 s., per cui «Ovid selbst erklärt ja rückbli­ ckend die Tristien indirekt zu Briefen, wenn er betont, daß sich die Epistulae ex Ponto von diesen nicht etwa hinsichtlich ihres ‘Stoffes’ oder ihres ‘Wesens’ unterschieden, sondern lediglich einen anderen Buchtitel aufwiesen»: non è possibile infatti a mio avviso intravedere nel rebus idem un riferimento al formato né al carattere epistolare dei Tristia, mentre proprio il mutamento di tito­ lo – cui in antichità spesso si deve l’immediata qualifica del genere o comunque della tipologia letteraria – dovrebbe almeno indurre il sospetto di uno scarto formale. Tissol 2014 ad loc., che cor­ rettamente intende le res come «subject­matter», opportunamente rimanda alla celebre (non)­ distinzione fra Sermones ed Epistulae oraziane tracciata da Porfirione (Flacci epistularum libri titulo tantum dissimiles a sermonum sunt. nam et metrum etc.). Sui primi versi di Pont. 1.1 si vedano in generale le buone osservazioni di Galasso 2009, pp. 194 s.

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particolare la prima opera dell’esilio;21 dall’altro, considerati i ‘precedenti’ nei Tristia dei due elementi menzionati (desiderio di nominare gli amici, mantenuti tuttavia rigo­ rosamente anonimi; emergenza progressivamente più marcata della forma epistolare), il fatto che la coincidenza della doppia istanza non avvenga prima di Pont. 1.1: in altre parole, mi interessa mostrare che le Epistulae ex Ponto nascono dalla inedita interazio­ ne fra due ‘urgenze’ del poeta in esilio (nominare gli amici; a questo fine, utilizzare l’epistula) che nei Tristia paiono tenute sostanzialmente distinte, eppure emergono via via in modo sempre più evidente. Lo studio dell’evoluzione e della trasformazione nel tempo della poesia triste di Ovidio impone di trattare anche questo aspetto, che per certi versi costituisce la più rilevante espressione del cambiamento cui è sottoposta anche la poesia di questa fase nella lunga e variegata carriera poetica del nostro autore: tenteremo dunque di chiarire alcuni punti, cominciando dal carattere epistolare dei Tristia. 2.1 Vade, liber: trist. 1.1 e l’epistolarità dei Tristia Nel componimento proemiale di trist. 1, il poeta in viaggio mette in scena l’invio del parvus liber (v. 1, parve, – nec invideo – sine me, liber, ibis in urbem), mandato a Roma come sostituto dell’autore, che da Roma è stato allontanato (vv. 15 s., vade, liber, verbisque meis loca grata saluta: / contingam certe quo licet illa pede). Il gesto attraverso cui il poeta, per l’appunto, invia la collezione di elegie si realizza attraverso il ricorso a una serie di motivi topici diffusi nei testi epistolari, ampiamente utilizzati dallo stesso Ovidio in particolare nelle Heroides: fra questi, l’immagine delle lacrime che bagna­ no e macchiano lo scritto (vv. 13 s., neve liturarum pudeat: qui viderit illas, / de lacrimis factas sentiet22 esse meis), motivo notoriamente impiegato già da Properzio nell’elegia­ epistola di Aretusa, considerata il ‘prototipo’ delle Heroides,23 e l’idea della sarcina, del

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È bene isolare a questo proposito Davisson 1985, un lavoro meritorio e pionieristico (che tornere­ mo a menzionare), dove si riconosce lo speciale statuto dell’ultimo libro dei Tristia, che «clearly marks a transition between the preceding four books and the four books of the Epistulae ex Ponto»; al netto del fatto che gli elementi di evoluzione dalla prima alla seconda opera dell’esilio non sono confinabili a trist. 5, ma come vedremo coinvolgono almeno i due libri precedenti (ciò cui Davisson non sembra attribuire il dovuto peso), è interessante sottolineare il modo in cui vengono posti i termini del problema, che mi pare rimangano attuali (pp. 238 s.): «our legitimate interest in the individual addressees of the exile poetry should not divert our attention from other epistolary characteristics. Differences between Ovid’s earlier, less epistolary poems and later, more epistolary poems have sometimes been ignored […] [Some surveys […] emphasize the earlier poems at the expense of the later poems and hence do not fully discuss certain changes in Ovid’s technique.] […] The validity of the term epistula and the functions of various epistolary devices have been investigated less thoroughly for Ovid’s exile poems than for his Heroides and Horace’s Epistles». v. l. sentiat (Owen). Cfr. Prop. 4.3.3 s.; il motivo è riproposto in her. 3.3 s.; 11.1 s.; 15.97 s.

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«peso» che l’oggetto inviato eserciterà su chi dovrà fisicamente condurlo a destinazio­ ne (vv. 125 s., et si quae subeunt tecum, liber, omnia ferres, / sarcina laturo magna futurus eras), immagine utilizzata fra l’altro da Orazio nell’epistola al ‘corriere’ Vinnio.24 Più in generale, l’attenzione alla materialità dello scritto (dimostrata appunto dall’im­ piego delle immagini ora menzionate) e lo sfruttamento del medesimo scritto come intermediario fra l’autore e il destinatario – che nel caso di trist. 1 non si identifica tuttavia con un singolo, bensì con la totalità del pubblico di Roma – consegnano al componimento proemiale del primo liber dei Tristia, e di conseguenza alla silloge nella sua interezza, un carattere che potremmo latamente definire epistolare.25 Come acutamente notava Stephen Hinds nel saggio sopra menzionato, l’epistolarità dei Tristia è una caratteristica che nasce dall’intrinseca necessità dell’invio cui questi libri sono costitutivamente legati, nonché dal fatto che fra autore e interlocutori – il rapporto che dà ragione dell’esistenza stessa di queste opere, che nascono appunto dal bisogno di mantenere il contatto con chi ha la possibilità di aiutare il poeta a migliora­ re la propria condizione – intercorre una distanza nello spazio cui può rimediare soltanto il mezzo rappresentato dal testo scritto. Appare tuttavia decisivo notare – ed è su questo punto che si gioca l’equivoco talvolta riscontrabile negli studi sulle opere dell’esilio di Ovidio – che il carattere ‘epistolare’ ora riconosciuto alla poesia prodotta dall’esule a Tomi, l’epistolarità dei Tristia in quanto collezione di libri ‘nati per l’invio’, e in questo senso manifestata nell’impiego di motivi e immagini tratti dalla letteratura di esplicito stampo epistolare, non implica affatto – almeno all’inizio, per esempio in trist. 1.1 – il ricorso alla forma dell’epistola nella costituzione dei singoli componimenti inclusi in queste stesse collezioni; è importante cioè osservare che, a fronte dell’invio cui è sottoposto ciascun liber composto da Ovidio a Tomi, nei singoli componimenti dei Tristia l’esule non utilizza l’epistola come unica ed esclusiva forma di destinazione,

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Cfr. Hor. epist. 1.13.6, si te forte meae gravis uret sarcina chartae; è bene notare che nel testo oraziano la sarcina non è costituita dalla lettera, bensì dai signata volumina (v. 2) che Vinnio è chiamato a portare ad Augusto, comunemente identificati con i primi tre libri delle Odi: così in trist. 1.1 è il liber di Tristia a dover essere trasportato e a rischiare di «pesare» sulle spalle del corriere. Sul particolare statuto dell’epistola a Vinnio, che presuppone una doppia ‘intermediazione’ (quella rappresentata dall’epistola e quella rappresentata da Vinnio stesso, a sua volta intermediario fra Orazio e Augusto), complicando il dialogo così instaurato dall’autore nei confronti del princeps, cfr. soprattutto Ferri 1993, pp.  67 ss. L’immagine della sarcina è presente, nuovamente, anche in Prop. 4.3.46, nelle Heroides (cfr. p. es. 3.68) e in trist. 1.3.84: in questi passi essa indica il peso (non) costituito dalla donna che vorrebbe seguire il proprio amato; la medesima qualifica è attribuita da Ovidio a se stesso in trist. 5.6.5. Seppur non compiutamente espresso, questo punto è presupposto in Mordine 2010, p. 524 (dove si parla genericamente di «epistolary nature» dei Tristia) e soprattutto p. 528 (dove le funzioni dell’epistola sono attribuite al «bookroll» che è trist. 1). La serie di paralleli con l’Orazio delle Epistulae e la menzione della topica ora accennata costituiscono il fulcro dell’argomentazione di Wulfram 2008, pp. 279 ss. (in part. pp. 297 ss.) a dimostrazione dell’appartenenza di trist. 1.1, e quin­ di di tutti i Tristia, alla Gattung epistolare – una tesi che, come già detto e come si vedrà meglio qui di seguito, riteniamo del tutto insostenibile.

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di Anrede – anzi, numerose elegie dei Tristia non manifestano alcuno specifico desti­ natario, non possiedono cioè un interlocutore indicabile come privilegiato, per quan­ to anonimo. La forma epistolare progressivamente sperimentata, in particolare, negli ultimi tre libri dei Tristia appare così una possibilità fra le altre, laddove la novità delle Epistulae ex Ponto è costituita precisamente dal fatto che questa possibilità è selezio­ nata come unica ed esclusiva, e su di essa è modellata la totalità dei componimenti inclusi nell’opera più recente.26 È questo il motivo, ad esempio, per cui appare impossibile attribuire il significato di «lettera = epistola» al littera di trist.  1.11.1 (littera quaecumque est toto tibi lecta libello), dove invece il poeta, nel componimento conclusivo del primo libro, indirizza l’attenzione dei lettori ai ‘costituenti’ del totus libellus (appunto i «caratteri»), raccolti insieme nell’oggetto unitario rappresentato dal liber stesso;27 la medesima osservazio­ ne può valere per il littera di trist. 3.1.54 (et quatitur trepido littera nostra metu: un verso che anzi a mio avviso si ricollega esplicitamente a trist. 1.11.1), dove lo ‘stesso’ liber, che questa volta parla in prima persona, gioca sulla propria personificazione individuando nelle «lettere» (cioè, ancora una volta, nei «caratteri») le sue ‘membra’ – e così, nel distico seguente, la charta è il ‘volto’ che impallidisce e i pedes sono tanto i ‘piedi’ del liber umanizzato quanto i ‘piedi’ metrici dei versi che lo compongono. Fra i due com­ ponimenti ora citati, d’altra parte, si svolge l’ampia autodifesa dell’esule, che da sola oc­ cupa l’intero spazio di trist. 2: alla lunga elegia andranno senz’altro riconosciute alcune caratteristiche che fanno di essa un testo vicino ai modi dell’epistola (in particolare, la destinazione esclusiva ad Augusto, che tuttavia è avviata soltanto al v. 27, mentre fino ai distici immediatamente precedenti se ne parla in terza persona; e, inoltre, lo stretto rapporto che lega questo testo all’importante precedente costituito da Hor. epist. 2.1);28 ma è importante osservare che, fatta salva l’unicità di trist. 2 nel panorama della produ­ zione esilica di Ovidio, questa modalità di Anrede così sperimentata, in un testo diretta­ mente rivolto all’artefice primo della condanna e, di conseguenza, primo destinatario dei testi prodotti dall’esule al fine di ottenere la revoca della relegazione, costituisce una tipologia di approccio che sarà significativamente esclusa dalle Epistulae, dove la delicata strategia del poeta prevederà la mediazione – sollecitata appunto dall’epistola, strumento della negoziazione – operata da un agente intermedio (il destinatario ‘for­ male’ dell’epistola) chiamato a intercedere per Ovidio presso Augusto.29 26 27 28 29

Fatte salve le dovute (e volute) eccezioni, sulle quali torneremo: cfr. infra, pp. 191 ss. su Pont. 3.6 e 3.7, due componimenti che in diverso modo si distinguono dal programma della collezione. Come vedremo, questa caratteristica subirà un processo di ‘dissoluzione’ in Pont. 4. Sul significato di questo verso, e dell’intera elegia, nell’economia di trist. 1, cfr. supra, pp. 37 s. (con bibliografia). Nessuno dei componimenti di trist. 1 si auto­qualifica come «epistola»; interessante l’uso di opus in trist. 1.9.2 (qui legis hoc nobis non inimicus opus). Sui rapporti fra trist. 2 e Hor. epist. 2.1, cfr. in part. Barchiesi 1993; Ingleheart 2009. Ciò che corrisponde, per molti aspetti, alla situazione presentata in Hor. epist. 1.13; è interessante inoltre notare che c’è un unico altro testo, all’interno della produzione dell’esilio di Ovidio, che

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Quanto ai libri 3–5 dei Tristia, il progressivo ‘stabilizzarsi’ della forma epistolare ap­ pare meritevole di qualche osservazione. Nel terzo libro, a due componimenti è espli­ citamente attribuita la qualifica, rispettivamente, di haec … epistula (3.3.1) e di littera (3.7.2): nel primo caso, si tratta di un testo indirizzato alla moglie – ciò che il lettore scopre al v. 15 – ed è presente, nell’ultimo distico, la formula di saluto tipicamente epi­ stolare (vv. 87 s., accipe supremo dictum mihi forsitan ore, / quod, tibi qui mittit, non habet ipse, ‘vale’). Più interessante il caso di trist. 3.7: l’epistola a Perilla, cui è consegnata una posizione di assoluto rilievo nel contesto della raccolta, è introdotta da un’apostrofe indirizzata alla lettera medesima, il cui ruolo di intermediazione è esplicito nella sua definizione quale ministra (vade salutatum, subito perarata, Perillam, / littera, sermonis fida ministra mei). L’invito ad «andare a salutare» espresso dal poeta in esordio può essere significativamente confrontato con l’analoga esortazione che in trist. 1.1 Ovidio ha rivolto al liber di elegie, chiamato a farsi portavoce dei verba del poeta (v. 15, vade, liber, verbisque meis loca grata saluta). In trist. 3.7 assistiamo dunque per la prima volta allo scarto per cui al singolo componimento viene espressamente attribuito quel ruolo, propriamente ‘epistolare’, che sta all’origine dei Tristia in quanto poesia di me­ diazione, e che tuttavia inizialmente, come abbiamo visto, è affidato alle raccolte più che alle elegie in esse contenute: trist. 3.7 si rende così il primo, isolato segnale di una scelta poetica che tornerà ad affacciarsi soltanto in trist. 5, prima della svolta segnata dalle ex Ponto. Passando al quarto libro, l’impiego del sostantivo littera in trist. 4.4.22 desta qual­ che incertezza: il componimento si è aperto secondo una tipologia di apostrofe che lo accomuna all’elegia immediatamente successiva (si tratta del dittico con ogni ve­ rosimiglianza indirizzato, rispettivamente, a Messalino e a Cotta Massimo, i figli di Messalla);30 la relativa estraneità di questo approccio ai modi propri dell’epistula in­ duce a dubitare che al littera del v. 22 possa essere attribuito il significato, appunto, di «lettera = epistola», per quanto nel distico successivo si faccia riferimento al fatto che lo scritto dell’esule sostanzialmente riproduce la conversazione orale che egli usava intrattenere con il destinatario quando si trovava a Roma (nec nova, quod tecum loquor, est iniuria nostra, / incolumis cum quo saepe locutus eram).31 Il fatto che, come si afferma nel nostro verso, la littera del poeta non sia stata sottoposta al controllo del destinatario (non fuit arbitrii littera nostra tui), un’affermazione che di per sé anticipa un decisivo risvolto della strategia messa in campo nelle ex Ponto, fa tuttavia parte della serie di giustificazioni addotte dal poeta per aver reso il destinatario riconoscibile, positis pro

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risulta paragonabile a trist. 2 quanto a lunghezza e destinazione singola – ed è l’Ibis: cfr. Schiesaro 2011, p. 80. Sulla tipologia di apostrofe che caratterizza le due elegie mi sono soffermato in Galfré 2019, cui rimando per una trattazione più esaustiva. Un topos epistolare, sintetizzato nella celebre definizione di Cic. Phil. 2.7, amicorum conloquia absentium.

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nomine signis (v. 7): sembra pertanto più appropriato intendere la littera del v. 22 come espressione di questi signa, un signum essa stessa, in un’accezione che ancora una volta avvicina il sostantivo al significato di «carattere, segno grafico» tracciato appunto dal poeta, che il destinatario (apparentemente) rivelato non ha avuto il potere di frenare né ha ora quello di cancellare.32 Il significato di «lettera = epistola» è invece senz’altro attribuibile a littera in trist. 4.7.23: il poeta si sta infatti lamentando per il fatto che l’amico cui è indirizzata l’elegia non ha ancora inviato nemmeno una lettera al poeta in esilio, il quale si spinge a sperare – a parziale giustificazione dell’amico – che egli abbia al contrario mandato molte lettere, ma che l’enorme distanza fra Roma e il Ponto ne abbia precluso l’arrivo a destinazione. L’aspetto interessante di questa elegia risiede nel fatto che lo scambio epistolare di cui si parla – e di cui è descritta l’effettiva dimensione spaziale, il lun­ go e tortuoso tragitto che i messaggi scambiati fra Ovidio e gli amici sono chiamati a percorrere (vv. 21 s., innumeri montes inter me teque viaeque / fluminaque et campi nec freta pauca iacent)33 – è uno scambio presentato come esterno e concomitante alla composizione dei Tristia: il poeta si raffigura nell’azione ripetuta di aprire le numerose lettere ricevute, nessuna delle quali reca il nome sperato (vv.  7 s., cur, quotiens alicui chartae sua vincula dempsi, / illam speravi nomen habere tuum?). Anche nelle ex Ponto il lettore ricaverà notizia di messaggi, anche in prosa, scambiati fra il poeta e i destinatari al di fuori della collezione; ma, nell’opera più recente, la lettera (in versi) che Ovidio scrive e include all’interno della raccolta si presenta più di una volta come parte di quello scambio, un frammento del dialogo intrattenuto fra i due interlocutori che il poeta decide di rendere pubblico attraverso l’inclusione nell’opera poetica (un’inclu­ sione presentata come onorevole per i destinatari).34 In trist. 4.7 si tratta invece di uno 32

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La difficoltà di intendere il sostantivo nel nostro passo produce non per caso una certa differenza nelle traduzioni, che oscillano fra il significato specifico di «epistola» (per quanto, in italiano e in altre lingue, il doppio senso di «lettera» permanga – e aiuti forse a camuffare il dubbio; cfr. p. es. Wheeler – Goold: «for my letter was not under your control»; Green: «my letter came indepen­ dent of your will») e quello più generico di «scritto» (Luck: «von dir hing es nicht ab, daß ich dir schrieb»; Lechi: «su quel che ho scritto tu non avevi potere di controllo»; Leto: «non soggetto al tuo arbitrio fu quello che io scrissi»). L’uso generico (metonimico) di littera come «scritto» è ampiamente attestato nelle opere dell’esilio (e in particolare nei Tristia): cfr. trist. 2.344 e 566, 3.1.15, 4.1.92 e 96, 5.1.43, 5.3.54; Ibis 4; Pont. 4.2.24 (dove, trattandosi delle ex Ponto, potrebbe comunque avere il significato di «epistola»), 4.14.26 (dove Ovidio si riferisce anche ai Tristia), 4.15.34 (ambi­ guo). Questi versi richiamano importanti precedenti oraziani: si confronti ancora una volta l’epistola a Vinnio (epist. 1.13), dove si accenna alle tortuosità del viaggio che il destinatario dovrà affrontare prima di giungere a Roma (v. 10, viribus uteris per clivos flumina lamas): un percorso che è anche quello dell’epistola, che, c’è da immaginare, Orazio intende obliquamente indirizzata allo stesso Augusto. Come esempi si possono citare Pont. 1.9 (risposta di Ovidio all’epistula di Cotta Massimo circa la morte di Celso); 4.2 (lettera poetica che per la prima volta rende pubblico lo scambio epistolare fra Ovidio e Severo, finora avvenuto privatamente e in prosa); 4.8 (risposta di Ovidio a una littera di Suillio).

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scambio che non esiste (ancora): il poeta spera di ricevere una lettera dall’amico, ma ci si potrebbe chiedere se l’elegia in cui è data voce a questo desiderio sia in effetti un’epistola. Il distico introduttivo, in cui si fa riferimento alla seconda primavera tra­ scorsa dal poeta a Tomi, continua il tema del tempo ampiamente sviluppato nell’elegia precedente, così che l’annosa leggerezza dell’amico lamentata da Ovidio in trist. 4.7 si presenta come uno degli aspetti negativi provocati dal lungo e lento scorrere del tempo in esilio (cfr. v. 3, tempore tam longo); l’amico – o meglio gli amici, dal momento che l’anonimato produce l’effetto per cui tutti i conoscenti di Ovidio che non hanno ancora mandato lettere al poeta sono i potenziali destinatari di questo testo, sentendosi necessariamente coinvolti nel richiamo – sono esortati a ‘sconfiggere’ tempo e spazio (vv. 23 ss., mille potest causis a te quae littera saepe / missa sit in nostras rara venire manus; / mille tamen causas scribendo vince frequenter, / excusem ne te semper, amice, mihi), le due dimensioni entro le quali allo scambio epistolare è data la possibilità di definirsi e di svilupparsi.35 Il quinto e ultimo libro dei Tristia presenta un ulteriore sviluppo di questo quadro.36 La funzione di intermediazione riconosciuta al singolo componimento che abbiamo visto costituire la novità dell’epistola a Perilla in trist.  3 si manifesta nuovamente in trist. 5.4, che così si apre (vv. 1 ss.): litore ab Euxino Nasonis epistula veni, lassaque facta mari lassaque facta via, qui mihi flens dixit ‘tu, cui licet, aspice Romam: heu quanto melior sors tua sorte mea est!’ flens quoque me scripsit: nec qua signabar, ad os est ante, sed ad madidas gemma relata genas.

È interessante il fatto che questi versi, pronunciati dalla diretta voce dell’epistula, si pongono come un’ostentata riscrittura, da un lato, di trist. 3.1 (dove il discorso era pa­ rimenti affidato allo scritto; cfr. inoltre 3.1.25 s., quamvis terraque marique / longinquo

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Cfr. Kennedy 2002, p. 221: «epistolary discourse must manipulate both space and time in order to overcome these barriers so as to make communication relevant rather than anachronistic at the moment when the letter is read». La sempre più marcata presenza della forma epistolare in trist. 5 è visibile dal notevole numero di componimenti che si auto­qualificano come epistulae, superiore a quello degli altri libri (cfr. Davisson 1985, p. 242): cfr. 5.4 (litore ab Euxino Nasonis epistula veni), 5.7 (quam legis, ex illa tibi venit epistula terra, / latus ubi aequoreis additur Hister aquis), 5.13 (vv. 33 s., accipe quo semper finitur epistula verbo, / … ‘vale’; l’elegia si è inoltre aperta con la tipica formula di saluto). Interessante il caso di 5.2 (ecquid, ubi e Ponto nova venit epistula, palles …?): il poeta non esplicita il destinatario, che dovrebbe comunque essere la moglie, e a partire dal v. 47 si rivolge poi direttamente ad Au­ gusto (l’elegia, a mio avviso, non è da dividere, pace Ursini 2015, pp. 372 ss.: i vv. 45 ss. realizzano la preghiera preparata dai vv. 43 s., ipse sacram, quamvis invitus, ad aram / confugiam: nullas summovet ara manus); una situazione per certi versi paragonabile presenteranno epistole come Pont. 2.8 e 4.8. Su trist. 5.4, 5.7 e 5.11–13 mi soffermo nel testo.

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referam lassus ab orbe pedem ~ 5.4.2, lassaque facta mari lassaque facta via; il motivo topico del pianto durante la scrittura svolto in 3.1.15 s. e 5.4.5 s.); dall’altro, ancor prima, di trist. 1.1 (oltre al medesimo motivo delle lacrime, cfr. soprattutto la ‘riproposizione’ dell’incipit: 1.1.1 s., parve … liber, ibis in urbem: / ei mihi, quod domino non licet ire tuo! ~ 5.4.3 s., tu, cui licet, aspice Romam: / heu quanto melior sors tua sorte mea est!). Come già avvenuto in trist. 3.7, tuttavia, il singolo componimento crucialmente sostituisce – o meglio, si sovrappone, e in un certo senso raddoppia – il liber nel ruolo di mediatore e di portavoce del poeta, assumendo le funzioni inizialmente attribuite alla raccolta di Tristia: in trist. 5, questa ‘sostituzione’ del componimento rispetto alla collezione non è più ormai un fatto isolato, e prelude anzi alla situazione offerta dalle ex Ponto, dove infine la singola lettera assumerà definitivamente le funzioni di mediatrice a scapito del liber, la cui relativa perdita di centralità è dimostrata dal fatto (impensabile nei Tristia) che il poeta ne invia tre in una volta. La raccolta costituita da trist. 5 rappresenta così un ibrido piuttosto straordinario, un laboratorio in cui vediamo il poeta sviluppare spunti ricavati da ciò che ha già scritto e inviato, e insieme introdurne altri, destinati a susci­ tare novità di peso: una buona prova di quel carattere ‘progressivo’ di una poesia in continuo movimento, qual è la produzione dell’esilio di Ovidio. Non sarà a questo punto un caso se le ultime tre elegie di trist. 5 prima della (pecu­ liare) sphragis rappresentata dal componimento finale indirizzato alla moglie mostrano un analogo sfruttamento della forma epistolare in quanto strumento di comunicazione privilegiato del poeta in esilio – ciò che ancora una volta può essere interpretato come segnale ‘editoriale’ all’indirizzo dei lettori, che trovano conferma (e anticipazione) di ciò che sarà di lì a breve. trist. 5.11 non include le consuete formule di apertura tipi­ che dell’epistola, ma si presenta come una replica da parte del poeta a una littera della moglie, nella quale la donna si è lamentata del fatto che un non meglio identificato nescioquis l’ha offesa chiamandola «moglie di un esule» (vv. 1 s., quod te nescioquis per iurgia dixerit esse / exulis uxorem, littera questa tua est): come si vede, il testo costituisce un frammento, sfuggito all’intimità dello scambio fra i coniugi, di un dialogo epistolare che è già cominciato (e, possiamo supporre, è destinato a continuare) al di fuori della collezione pubblica – una mossa che come detto tornerà a essere ‘inscenata’ nelle ex Ponto.37 Si tratta della medesima situazione già presentata da trist. 5.7, che si è invece

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Negli ultimi versi dell’elegia il poeta apostrofa, dopo Augusto, direttamente il diffamatore (vv. 29 s., at tu fortunam, cuius vocor exul ab ore, / nomine mendaci parce gravare meam), rendendo così palese la finzione costituita da un’epistola inclusa in un libro poetico che anche il diffamatore può, anzi deve, leggere: ciò che naturalmente varrà anche per le ex Ponto. Quanto alla novità di trist. 5.11, si può confrontare la ricezione del messaggio scritto dalla moglie con l’assenza di specificazioni circa la provenienza delle notizie sui nemici dell’esule a Roma riscontrabile nelle altre elegie dei Tristia sullo stesso tema (cfr. 3.11, 4.9, 5.8; l’esule si mantiene generico anche in Pont. 4.3.28, fama refert); come si è visto, d’altronde, il modo in cui nei Tristia Ovidio viene a conoscenza dei fatti accaduti in patria è inizialmente affidato alla superiore coscienza narrativa dell’autore: cfr. trist. 1.3.91, narratur con le osservazioni svolte supra, p. 53.

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aperta con una formula di saluto epistolare: anche qui Ovidio fa mostra di rispondere, in questo caso, a una serie di domande ricevute da un amico – «come sempre»: an­ cora una volta, è un dialogo iniziato da tempo – circa le condizioni di vita e le attività quotidiane del poeta a Tomi (vv. 5 ss., scilicet, ut semper, quid agam, carissime, quaeris, / quamvis hoc vel me scire tacente potes … turba Tomitanae quae sit regionis et inter / quos habitem mores, discere cura tibi est?).38 Può essere utile confrontare il modo in cui, in un’elegia di trist. 1, il poeta coglieva l’occasione per proporre una simile rassegna dei mali dell’esilio (1.5.45 s.): scire meos casus siquis desiderat omnes … Alla possibilità, pre­ sentata allora come ipotetica, che «qualcuno» volesse conoscere i casus dell’esule si contrappone ora la certezza delle domande ricevute dal singolo amico cui l’esule sta rispondendo: una differenza sottile nei contenuti (anche se in trist. 1 erano i mali del viaggio per mare, confrontati con quelli di Ulisse, mentre ora si tratta di barbari, armi, guerra), un’evoluzione rilevante nella forma.39 Anche trist. 5.12, senza formule, costituisce una lettera che il poeta invia all’amico di turno in risposta a uno scritto ricevuto (cfr. vv. 1 ss., scribis ut oblectem studio lacrimabile tempus, / ne pereant turpi pectora nostra situ. / difficile est quod, amice, mones …).40 Quanto al penultimo componimento del libro, trist. 5.13, il tema è all’apparenza lo stesso di trist. 4.7: l’esule si lamenta per il fatto che un amico non gli manda lettere – e ancora una volta ricorre alla parziale giustificazione rintracciata nella possibilità che la grande distanza abbia causato la perdita dei messaggi (vv. 15 s., pluribus accusem, fieri nisi possit, ut ad me / littera non veniat, missa sit illa tamen).41 A differenza dell’elegia precedente, tuttavia, è interessante notare che l’amico incostante viene qui rimproverato non tanto

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È interessante notare che l’amico che ha rivolto a Ovidio queste domande sembra fin qui non avere letto i Tristia, dove avrebbe trovato dovizia di particolari, appunto, sulle condizioni di vita dell’esule a Tomi: ma è chiaro che la singolarità istituita dall’epistola individuale, che si pone come comunicazione ad personam, si rivela anche uno strumento attraverso cui il poeta può ripetere, potenzialmente all’infinito, i medesimi contenuti; cfr. infra, pp.  170 ss. su ripetizione e chiusura nelle ex Ponto. Sulla ‘realtà’ delle domande ricevute e, più in generale, dello scambio epistolare che qui e altrove il poeta afferma di intrattenere con gli interlocutori, poco importa che si tratti di finzione (per quanto non sia affatto impossibile – lo crederei anzi sicuro – pensare che l’esule in effetti ricevesse lettere da moglie e amici); allo stesso modo, appare superfluo sforzarsi di individuare i destinatari che anche in trist. 5, conformemente alla lex di trist. 5.9 (per cui cfr. infra, p. 169 n. 56), rimangono anonimi. Ciò che mi interessa rilevare, in questo paragrafo e in quanto segue, è invece la novità che la forma epistolare introduce nella generale evoluzione delle strategie comunicative adottate dal poeta nel corso dell’esilio. Il verbo con cui si apre l’elegia, scribis, appropriatamente introduce il tema della lettera, che è ap­ punto quello della scrittura, la difficoltà di comporre poesia in esilio. Ai vv. 15 s. va rilevata un’ironia che mi pare finora sfuggita ai commentatori: Ovidio afferma che, nelle medesime condizioni, nem­ meno Socrate avrebbe saputo scrivere alcunché (ille senex, dictus sapiens ab Apolline, nullum / scribere in hoc casu sustinuisset opus) – ciò che in effetti Socrate non ha fatto (cfr. p. es. Cic. de orat. 3.60 sulla circostanza per cui il filosofo ateniese non lasciò alcuno scritto). Il legame fra i due testi è inoltre rafforzato da una ripresa letterale: cfr. trist. 4.7.11a = 5.13.19a, quod precor, esse liquet (segue in entrambi i luoghi una serie di adynata).

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per il fatto di non aver ancora inviato nulla, bensì per il fatto di aver inviato troppo poco (v. 11, quod tua me raro solatur epistula, peccas); lo scambio epistolare fra Ovidio e l’amico sembra cioè già sussistere, ciò che costituisce un sottile ma non trascurabi­ le miglioramento della situazione di trist. 4.7 e, allo stesso tempo, è in linea con ciò che abbiamo rilevato a proposito delle altre epistole di trist. 5, il fatto cioè che il testo dell’esule si collochi all’interno di un flusso epistolare già esistente, per quanto debole. Oltre a ciò, forse non è da considerarsi un caso se, come ha notato Mary Davisson, trist. 5.13 è la più ‘epistolare’ delle elegie dei Tristia:42 il fatto che questo breve componi­ mento mostri, addirittura ostenti caratteristiche proprie dell’epistula (formule di aper­ tura e di chiusura; ruolo sostitutivo della lettera rispetto alla conversazione orale; e, in fondo, il fatto che sia un’epistola che parla di epistole, riflettendo su se stessa e sulle proprie funzioni) può essere infatti ricollegato alla sua posizione di ultima elegia pri­ ma della sphragis che mette fine ai cinque libri della prima opera dell’esilio di Ovidio, annunciando così, in certa misura, la prossima svolta delle ex Ponto. Può essere utile a questo proposito riportare i versi finali del componimento (vv. 27 ss.): utque solebamus consumere longa loquendo tempora, sermoni deficiente die, sic ferat ac referat tacitas nunc littera voces, et peragant linguae charta manusque vices. quod fore ne nimium videar diffidere, sitque versibus hoc paucis admonuisse satis, accipe quo semper finitur epistula verbo, (atque meis distent ut tua fata!) ‘vale’.

La fine del testo rappresentato dal singolo componimento è esplicitamente preparata e ‘pronunciata’ (accipe quo … finitur … ‘vale’), e il poeta è costretto a una certa acro­ bazia sintattica per far sì che, appunto, il saluto finale sia esattamente l’ultima parola della lettera; ma la fine dell’epistola – collocata in prossimità della fine dei Tristia – pre­ lude in realtà alla continuazione dello scambio epistolare fra l’esule e l’amico, anzi lo sollecita:43 così, si può pensare, essa allo stesso tempo prelude alla continuazione della poesia di Ovidio, la poesia epistolare delle ex Ponto. Alla lettera rappresentata da trist. 5.13, almeno così l’esule spera, farà seguito la lunga serie di altre lettere che costi­ 42

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Davisson 1985, p.  240; sul ruolo dell’elegia nel contesto di trist.  5, cfr. anche l’osservazione di p. 242: «5.13 will prove to be an appropriate penultimate poem if we can establish that it conspi­ cuously combines a number of epistolary devices used earlier and anticipates the techniques of the ex Ponto». Si può confrontare il precedente rappresentato, nei Tristia, da 3.3.85 ss., scribere plura libet, sed vox mihi fessa loquendo / dictandi vires siccaque lingua negat. / accipe supremo dictum mihi forsitan ore, / quod, tibi qui mittit, non habet ipse, ‘vale’: una volta di più, al sospetto della fine paventata dall’esule si contrappone il proseguimento della conversazione con la moglie nei componimenti successivi. Sulla dinamica fine/continuazione istituita dall’epistola, cfr. infra, pp. 185 ss.

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tuiranno l’ininterrotto dialogo fra i due amici – e, insieme, la lunga serie di lettere che costituirà la nuova collezione di elegie tomitane: sic ferat ac referat tacitas nunc littera voces … Un verso che ha il suono della dichiarazione programmatica,44 anticipando la novità che, di qui a poco, ai lettori di Roma giungerà dal Ponto. 2.2 La Musa incatenata: nome degli amici e funzione elegiaca nei Tristia Dedichiamo ora qualche osservazione all’esame di quell’altro filone evolutivo in virtù del quale, come abbiamo anticipato, accanto al progressivo emergere della forma epi­ stolare nei Tristia assistiamo al graduale intensificarsi della volontà, espressa dall’esule, di nominare i propri amici. Ciò che qui interessa studiare è, nuovamente, l’evoluzione di questa particolare istanza nei più recenti libri della prima opera dell’esilio, un’evo­ luzione che risulta procedere parallelamente, e però indipendentemente, dalla con­ temporanea sperimentazione della forma epistolare; i componimenti che prenderemo ora in esame non mostrano infatti di per sé alcun legame privilegiato con le modalità proprie dell’epistola (essi non si qualificano come tali né utilizzano le formule consue­ te), ma riflettono su quell’istanza celebrativa che l’elegia in quanto genere sarebbe chiamata ad assecondare, e che il poeta in esilio è tuttavia costretto a disattendere. I passi dei Tristia in cui Ovidio esprime il desiderio di nominare gli amici rimastigli fedeli sono in sostanza tre, uno per ognuno degli ultimi libri della collezione: come detto, in essi è riscontrabile una progressiva intensificazione del desiderio annunciato, attraverso l’utilizzo di un particolare lessico, il ricorso ad alcune immagini specifiche e il rimando allusivo ai poeti del passato. Si comincia dai vv. 63 ss. di trist. 3.4b.45 In questi versi il poeta si rivolge agli amici, il cui ricordo, al pari di quello della coniunx, rimane vivo nei pectora dell’esule (vos quoque pectoribus nostris haeretis, amici); il desiderio del poeta sarebbe proprio quello di nominarli uno per uno (dicere quos cupio nomine quemque suo), ma un timor … cautus trattiene l’esule dall’officium: Ovidio teme infatti che essi non vogliano «essere posti» nei suoi versi (et ipsos / in nostro poni carmine nolle puto), a differenza di un tempo, quando il gesto rappresentava un motivo di orgoglio (grati … instar honoris); dal mo­ mento che la cosa non è più così sicura (quod quoniam est anceps), il poeta parlerà fra sé agli amici e li manterrà nascosti (latitantes), ma chiede comunque loro di continuare a serbare, in segreto, l’affetto nei suoi confronti (occulte siquis amabat, amet).

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A patto di attuare una leggera forzatura del senso di referat nel nostro passo: Ovidio sta infatti par­ lando del dialogo fra sé e l’amico, e le tacitae voces «portate e riportate» (dalle rispettive epistole) sono quelle di entrambi; nelle ex Ponto sarà il solo Ovidio ad affidare e ri­affidare continuamente la propria voce alle lettere incluse nella collezione: sull’assenza di repliche nelle ex Ponto (ciò che a prima vista avvicina quest’opera alle Heroides singole), cfr. infra, pp. 175 s. Sulla divisione di trist. 3.4 in due componimenti distinti, cfr. supra, p. 108 n. 79.

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La seconda occasione nella quale Ovidio esprime il desiderio di nominare, questa volta, un singolo amico si trova in trist. 4.5. Dopo l’allocuzione dei primi versi il poeta, spinto dal grande entusiasmo derivato dall’elogio, fa mostra di essersi quasi lasciato sfuggire il nome dell’amico (vv. 9 s.: temporis oblitum dum me rapit impetus huius, / excidit heu nomen quam mihi paene tuum!), un’enunciazione che ha la funzione di suscitare nel lettore un’impressione di immediatezza nella scrittura, la quale avviene (o meglio, avverrebbe) senza filtri: all’esule è necessario un intervento di auto­censura allo scopo di frenare l’istinto, che lo indurrebbe a una stesura, per l’appunto, ‘di getto’. Nonostante l’elegia sia costruita secondo il modello formale dell’invocazione religiosa e della pre­ ghiera, la mossa risulta senz’altro accostabile ad analoghe enunciazioni proprie della scrittura epistolare: in virtù dell’idea comune secondo la quale essa rappresenta una forma di dialogo a distanza e si avvicina quindi ai modi della conversazione ordinaria, l’epistola riproduce l’immediatezza del parlato, che impedisce di ‘cancellare’ quanto ormai enunciato; in trist. 4.5 Ovidio riesce a frenarsi appena in tempo, salvaguardando così l’anonimato dell’amico.46 L’impetus da cui Ovidio, nel passo di trist. 4.5, viene quasi sopraffatto suggerisce tut­ tavia un accostamento ulteriore: esso ci consegna infatti l’immagine di un poeta ispi­ rato, impegnato in questo caso nell’elogio eternante di un amico fedele, che vorrebbe ricevere il segno di riconoscenza e ottenere così un motivo di lode (vv. 11 s.: tu tamen agnoscis tactusque cupidine laudis, / ‘ille ego sum!’ cuperes dicere posse palam). Il lessico del desiderio qui attribuito all’amico (cupidine, cuperes) è lo stesso che nel precedente passo di trist. 3.4b il poeta attribuiva a se stesso (cupio, v. 64); ne deriva l’idea di una doppia tensione, uno sforzo delle due parti – poeta e laudandus – verso il medesimo obiettivo, destinato tuttavia a non essere mai raggiunto. L’immagine del poeta appas­ sionato, che rapito dall’impeto rischia di perdere contatto con il tempus, la «circostan­ za» che determina l’opera in corso di svolgimento (v. 9, temporis oblitum dum me rapit impetus huius; e si confronti anche l’intempestivus … honor del v. 16), può a mio avviso essere efficacemente accostata, in particolare, a un noto precedente virgiliano: nelle Georgiche, Virgilio segnalava l’inesorabile fuga del tempo, che il poeta rischiava di trascurare a causa dell’amor per gli argomenti trattati (3.284 s.): sed fugit interea, fugit inreparabile tempus, singula dum capti circumvectamur amore.

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L’espressione di trist. 4.5.10 viene appunto riutilizzata in Pont. 3.6.1 (Naso suo – posuit nomen quam paene! – sodali), una (non)­epistola indirizzata a un amico che non vuole farsi nominare dall’esule: l’esclamazione si colloca nello ‘spazio’ fisico abitualmente occupato, in una lettera, dal nome del destinatario; cfr. infra, pp. 191 s. su questo componimento. Sulla struttura ‘innica’ di trist. 4.5 riman­ do ancora una volta a Galfré 2019; in quest’elegia, a sua volta, si potrebbe dire che l’esclamazione occupi lo spazio riservato all’enunciazione del nome della divinità secondo le forme della preghie­ ra e dell’inno religioso.

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Epistolarità, comunicazione, chiusura dai Tristia alle Epistulae ex Ponto

Nel confronto fra i due passi c’è naturalmente da notare la differente accezione proprio di tempus: in Virgilio il riferimento è al tempo in senso lato, mentre in Ovidio è – fin da trist. 1.1.4 – lo specifico tempo dell’esilio (temporis … huius) a impedire al poeta di assecondare lo slancio poetico. È tuttavia la formulazione sintattica, e in particolare la subordinata temporale introdotta dal dum, a suggerire il rimando allusivo: dimentichi della circostanza e dell’urgenza in diverso modo dettata dall’opera che stanno compo­ nendo (per Virgilio, l’urgenza didascalica di procedere nell’incalzante somministra­ zione dei precetti; per Ovidio, la necessità di tacere il nome dell’amico in un carme dell’esilio), entrambi i poeti riconoscono il pericolo derivato dall’eventuale scelta di indulgere all’ispirazione (all’impetus ovidiano corrisponde l’amor virgiliano, e i rispet­ tivi effetti ‘trascinanti’ sui due poeti sono espressi dai verbi rapit e capti), un danno che si ripercuoterebbe sull’opera stessa oggetto del loro impegno.47 Ulteriori spunti in questo senso provengono dal terzo e ultimo passo dei Tristia in cui l’esule dà voce al desiderio di nominare il laudandus, un desiderio che appare or­ mai sempre più esasperato: l’elegia trist. 5.9 è interamente occupata dall’espressione del rammarico del poeta per il fatto di non poter «porre» il nome dell’amico nei suoi car­ mi. La lunga serie di congiuntivi irreali che occupa la prima e l’ultima parte del com­ ponimento (o tua si sineres in nostris nomina poni / carminibus, positus quam mihi saepe fores! / te canerem solum …) rappresenta – come in trist. 4.5 – una frustrante celebrazio­ ne mancata e allo stesso tempo indica quali sarebbero i vantaggi, in termini di fama e di sopravvivenza, di cui il laudandus potrebbe giovarsi se solo permettesse all’esule di fare il suo nome (vv. 7 ss.: te praesens mitem nosset, te serior aetas, / scripta vetustatem si modo nostra ferunt, / nec tibi cessaret doctus bene dicere lector: / hic te servato vate maneret honor). In questi versi vediamo espressa, in forma ancora ipotetica, la funzione eternante della poesia – una poesia che nella fattispecie si caratterizza come poesia celebrativa, recuperando una funzione propria dell’elegia già erotica – che, appoggiandosi a una serie di osservazioni svolte in particolare dall’Orazio di carm. 4, Ovidio più tardi teo­ rizzerà in un significativo brano rivolto a Germanico (Pont. 4.8.31 ss.).48

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L’ardente passione dell’ispirazione poetica viene ripetutamente riconosciuta dal poeta didaskalos delle Georgiche: cfr. 2.476 (ingenti percussus amore), oltre che il seguito del passo ora menzionato (3.291 s.: sed me Parnasi deserta per ardua dulcis / raptat amor); in questi passi, il modello di Virgilio è in primo luogo Lucrezio, che aveva descritto la propria ambizione poetica in termini analoghi: cfr. 1.922 ss., sed acri / percussit thyrso laudis spes magna meum cor / et simul incussit suavem mi in pectus amorem / Musarum (con la laudis spes di questo passo si può confrontare la cupido laudis, attribuita all’amico, di trist. 4.5.11): cfr. Piazzi 2011 ad loc. La connotazione bacchica dell’ispirazione, cui il poeta non riesce a resistere, costituisce inoltre il tema di Hor. carm. 3.25, dove è sottolineato il «rischio» dell’abbandono al dio (vv. 18 s.: dulce periculum est, / o Lenaee, sequi deum; cfr. inoltre il rapis del v. 1, lo stesso verbo utilizzato da Ovidio): sull’ispirazione bacchica in Orazio si vedano in particolare Schiesaro 2009; Heyworth 2016, pp. 253 ss. È interessante confrontare, in particolare, il carattere ipotetico dell’espressione scripta vetustatem si modo nostra ferunt (un tipo di formulazione accostabile, in ultima analisi, al si quid mea carmina possunt di Verg. Aen.  9.446, per la cui differenza con la tipologia espressa, invece, da Orazio in

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Vorrei però concentrarmi in particolare sui vv. 25 ss. di trist. 5.9, che sviluppano ul­ teriormente l’immagine del poeta ispirato ricavata dai precedenti passi ora esaminati. In quest’ultimo caso, infatti, l’irrequietezza e l’incapacità di trattenersi, che nei brani di trist. 3.4b e 4.5 erano attribuite dal poeta a se stesso e – nel secondo caso – al laudandus desideroso di vedersi nominato, vengono ora assegnate a un terzo personaggio, la Musa Talia: è lei ora a non sapersi «contenere» (vv. 25 s.: nunc quoque se, quamvis est iussa quiescere, quin te / nominet invitum, vix mea Musa tenet) e a concepire un deside­ rio tanto ardente quanto censurato (v. 32: per titulum vetiti nominis ire cupit). L’ardente desiderio della Musa viene associato, in una doppia ed elaborata similitudine di stam­ po epico, a quello di un cane da caccia che, annusate le tracce di una preda, è trattenuto dal guinzaglio (ciò cui corrisponde il vincta riferito a Talia) e a quello di un cavallo da corsa che smania dietro la barriera di partenza ancora chiusa (ciò cui corrisponde l’inclusa; vv. 27 ss.): utque canem pavidae nactum vestigia cervae latrantem frustra copula dura tenet, utque fores nondum reserati carceris acer nunc pede, nunc ipsa fronte lacessit equus, sic mea lege data49 vincta atque inclusa Thalia per titulum vetiti nominis ire cupit.

A sottolineare la potenza del desiderio che incalza la sua Musa Ovidio utilizza due immagini di nobile ascendenza. L’immagine del cane smanioso tenuto al guinzaglio compariva infatti in Ennio, forse come similitudine dei soldati desiderosi di combat­ tere (ann. 332 ss. Sk.: veluti [si] quando vinclis venatica velox / apta dolet si forte ‹feras› ex nare sagaci / sensit, voce sua nictit ululatque ibi acute): al vinclis enniano risponde il vincta del nostro passo.50 Per l’immagine del cavallo parimenti bramoso di correre, d’altra parte, mi sembra che il modello principale vada ricercato in alcuni passi lucreziani in

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carm. 3.30 si veda Hardie 1994 ad loc.) con la lapidaria certezza dell’emistichio scripta ferunt annos di Pont. 4.8.51; su Pont. 4.8 sono da vedere soprattutto Galasso 2008a; Rosati 2012; Audano 2015. Quanto ai rapporti fra trist. 5.9 e la tradizione dell’elegia erotica, si considerino i seguenti confron­ ti: trist. 5.9.4, crevisset ~ Verg. ecl. 10.54; trist. 5.9.4, pagina ~ Prop. 3.24(25).37; trist. 5.9.5, tota … in urbe ~ Prop. 2.26.22, 2.32.24, Ov. am. 2.4.47, 3.1.21; sulla fama garantita dai carmina e sulla soprav­ vivenza dei nomina degli amanti, cfr. Ov. am. 1.3. Su trist. 5.9, si veda il commento di Martelli 2013, p. 185 n. 90: «this sentiment [scil. la volontà di celebrare l’amico tenuto anonimo] is elaborated on with almost erotic fervour» (enfasi mia). Vana la correzione di Hall in lege tua (cfr. Hall 1990, p. 96). Per una contestualizzazione del frammento, cfr. Skutsch 1985 ad loc. Una similitudine analoga, il cui modello principale è tuttavia Il. 22.188 ss. (Achille insegue Ettore come un cane insegue un cerbiat­ to), si trova in Verg. Aen. 12.749 ss. (inclusum veluti si quando flumine nanctus / cervom aut puniceae saeptum formidine pinnae / venator cursu canis et latratibus instat), che Ovidio sembra riecheggiare, più che per il concetto, per la scelta del lessico (cfr. nanctus cervom … canis ~ canem … nactum vestigia cervae; latratibus ~ latrantem; inclusum ~ inclusa); cfr. anche Lucr. 1.404 ss. con Schiesaro 2011, p. 82 n. 1.

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cui si menziona la vis equina: si pensi in particolare a 2.263 ss., dove è descritta la vis cupida dei cavalli all’apertura dei cancelli, quando vorrebbero essere già più avanti nella corsa di quanto non sono (nonne vides etiam patefactis tempore puncto / carceribus non posse tamen prorumpere equorum / vim cupidam tam de subito quam mens avet ipsa?).51 Attraverso la doppia similitudine animale si descrive pertanto il desiderio nutrito dal­ la Musa ovidiana, un desiderio che oppone un movimento nello spazio, un’apertura verso l’esterno (reserati carceris, ire cupit), allo stato di chiusura in cui essa si trova at­ tualmente costretta (tenet, vincta, inclusa).52 La poesia ovidiana sembra voler ambire agli spazi di libertà già conquistati e praticati dai due autori cui sono riconducibili le similitudini utilizzate, Ennio e Lucrezio: il verbo reserati utilizzato da Ovidio al v. 29 richiama il celebre nos ausi reserare (ann. 210 Sk.), l’orgogliosa rivendicazione di novità della propria poesia cui Ennio dava espressione nel proemio del settimo libro degli Annales,53 mentre il desiderio di «infrangere le barriere» ricorda l’analogo decisivo ge­ sto compiuto dall’Epicuro lucreziano (cfr. 1.66 ss.: primum Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus primusque obsistere contra … effringere ut arta / naturae primus portarum claustra cupiret).54 Si tratta ancora una volta del desiderio proprio del poeta ispirato, cui piace ‘muoversi’ nello spazio infinito e dare libero corso alla propria ispira­ zione; in questo senso, anche all’espressione utilizzata dall’esule al v. 32, per titulum … ire cupit, andrà riconosciuto un significato poeticamente carico: il sintagma ire per e al­ tri simili risultano infatti piuttosto frequenti in simili contesti di dichiarazione poetica e di rivendicazione programmatica.55 Il passo di trist. 5.9 si dimostra pertanto, più di quanto sia parso finora, decisamente ricco di spunti poetologici e programmatici, che sviluppano una serie di enunciazioni già svolte dall’esule nei libri precedenti; in particolare, sembra che al tipo di poesia di

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Luck 1967–77 ad loc. segnala due paralleli greci per l’immagine del cavallo bramoso prima della corsa o della battaglia; cfr. inoltre Lucr. 4.987 ss., un passo in cui vengono menzionati i cavalli e i cani e vengono descritte le loro smanie durante il sonno, che riproducono quelle che essi nutrono da svegli. L’immagine del cavallo la cui brama viene tenuta a freno è utilizzata da Ovidio anche in Pont. 3.9.26 (et cupidi cursus frena retentat equi), dove al gesto del ‘frenare’ viene associato l’atto del corrigere. Per il nesso vincta atque inclusa, cfr. anche Cic. fr. poet. 10.5 C., saepta atque inclusa cavernis (detto della divina mens di Giove). Un ampio dibattito fra gli studiosi ha generato, com’è noto, il complemento oggetto che con più probabilità andrà integrato al reserare enniano; Skutsch 1985 ad loc. si esprime a favore di fores, ipo­ tesi suffragata dal confronto con Plat. Phaedr. 245a e più in generale dall’idea delle Μουσῶν θύραι, divenuta proverbiale. In questo contesto, non sarà forse da trascurare il fatto che, nel nostro passo di trist. 5.9, siano menzionate proprio le fores (v. 29, utque fores nondum reserati carceris …). Su libertà e costrizione in Lucrezio, Virgilio e Orazio, si veda in generale Hardie 2009, pp. 41 ss.; sull’importanza del modello lucreziano per l’Orazio delle Epistulae, cfr. inoltre Ferri 1993, pp. 81 ss. Si confrontino in part. Ov. met. 15.147 s. (iuvat ire per alta / astra) e fast. 1.15 (adnue conanti per laudes ire tuorum); Manil. 1.13 s. (iuvat ire per ipsum / aera et immenso spatiantem vivere caelo); Stat. Ach. 1.4 s. (nos ire per omnem / – sic amor est – heroa velis); con il verbo ire in altre combinazioni, si vedano ancora Verg. georg. 3.292 e Prop. 3.1.2.

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matrice enniano­lucreziana, una poesia libera e ispirata, priva di barriere e costrizioni, il poeta voglia contrapporre la poesia che le attuali circostanze costringono lui a com­ porre, una poesia ‘trattenuta’ e frenata da una lex che il poeta si è auto­imposto, ma che è frutto della situazione biografica in cui si trova a vivere.56 Il senso di esasperazione che il lettore ricava da un’elegia come trist. 5.9 dimostra – come è stato affermato – quanto vicini siano i tempi delle ex Ponto,57 e in effetti abbiamo visto che al termine dell’ultimo libro dei Tristia, in trist. 5.13, Ovidio sembra programmaticamente alludere alla nuova opera che verrà; ma se in quest’ultimo componimento si parla di epistole, e ciò che risulta suggerito è il ruolo che la forma epistolare avrà nella successiva collezio­ ne, trist. 5.9 annuncia l’altro ‘costituente’ che segnerà la nuova opera, la rivelazione dei nomina. Le due elegie di trist. 5 si rendono così espressione di due istanze cui i Tristia hanno finora dato voce indipendente, e indipendentemente viene ora proposta la sagoma – ciò che i primi lettori dei Tristia non si sarebbero forse potuti immaginare – di un’opera nuova che presenterà l’inedita commistione della doppia urgenza.58 Oltre a ciò, il contrasto fra ‘inclusione’ e ‘libertà’ – cioè, in ultima analisi, fra chiusu­ ra e apertura, limite e continuazione – che abbiamo visto sviluppato in trist. 5.9 ripro­ duce una caratteristica che abbiamo più in generale riconosciuto alla poesia dell’esilio di Ovidio, e di cui anche nelle ex Ponto rintracceremo la presenza: la ‘chiusura’ da cui il poeta si sente costretto nella nostra elegia può essere associata alla chiusura determi­ nata dal movimento ‘circolare’ della ripetizione di cui parla l’elegia immediatamente successiva, trist. 5.10.59 A fronte di tale costrizione risulta così contrastivamente attivato

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Nonostante l’impiego, nel nostro passo, di un lessico vagamente afferente alla sfera giuridica (est iussa, v. 25; vetiti nominis, v. 32; laedaris, v. 33; iussis … tuis, v. 34), sarà senz’altro da scartare l’ipotesi che la lex costituisca un provvedimento ufficiale emanato da Augusto, pace McGowan 2009, p. 134 n. 31; sembra più produttivo confrontare questa lex con alcune ricorrenze del termine in Orazio: cfr. in part. sat. 2.1.1 s., sunt quibus in satura videar nimis acer et ultra / legem tendere opus (dove si gioca sul doppio significato, giuridico e letterario, dell’espressione ultra legem: cfr. Muecke 1993 ad loc.; De Vecchi 2013, p. 292); ars 135, operis lex (un’idea la cui origine ricostruisce Brink 1971, pp. 211 s.; la clausola è ripresa in Iuv. 7.102); in epist. 2.2.109 si trova l’espressione legitimum … poema: come suggerisce Rudd 1989 ad loc., «the idea of legitimacy is developed in the description of the censor» al verso successivo. L’accezione letteraria è confermata da Mart. 1.35.10, lex haec carminibus data est iocosis. Ovidio si dichiarerà pentito dell’auto­censura messa in atto nei Tristia in Pont. 3.6.45 s. Oliensis 1997, p. 173: «situated as it is near the end of Ovid’s final book of Tristia, this unprecedent­ ed elaboration of the drama of self­censorship may look forward to the dropping of the leash and the opening of the gate at the start of the Epistulae ex Ponto». È significativo che anche al termine degli Amores Ovidio abbia utilizzato un’immagine equina al fine di annunciare la svolta verso il grandius opus tragico: cfr. am. 3.15.17 s., corniger increpuit thyrso graviore Lyaeus: / pulsanda est nostris area maior equis; cfr. inoltre Prop. 4.1.70 (all’inizio, questa vol­ ta, del libro che intende parimenti segnare una svolta nella carriera del poeta), has meus ad metas sudet oportet equus. Su cui cfr. supra, pp. 143 ss.; come si diceva, si tratta di un tipo di chiusura naturalmente assai di­ verso rispetto a quello cui ambisce (invano) il poeta, la fine cioè del tempo lineare e provvisorio determinata dal telos di poesia e condanna.

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un movimento di apertura, uno spazio di libertà che, come ora vedremo, il poeta cer­ cherà di guadagnarsi nelle ex Ponto sfruttando il carattere ‘aperto’ della comunicazione epistolare. Rivendicare la libertà di una Musa a tutti gli effetti ‘costretta’ sembra del re­ sto il principale obiettivo di un poeta relegato che sta rischiando di perdere, ammesso non l’abbia già perso, il pieno controllo della propria poesia. 3. Ripetitività ciclica e mora epistolare: Epistulae ex Ponto 1–3 Vale a questo punto la pena di riprendere le categorie e i concetti elaborati nei capitoli precedenti circa la dimensione temporale entro la quale si collocano le opere dell’esilio di Ovidio, e vedere in particolare in che modo, nelle Epistulae, si ricreino e si sviluppi­ no quei contrasti fra limite e continuazione, fra temporalità lineare e temporalità cicli­ ca che abbiamo visto caratterizzare le progressive raccolte dei Tristia. Come cercherò ora di mostrare, l’introduzione sistematica della forma epistolare nelle ex Ponto – una forma che già di per sé presuppone uno speciale rapporto con l’elemento temporale, il quale anzi ne determina struttura e contenuti – permette al poeta esule di sfruttare quelle opposizioni in un modo che, se da un lato non si distingue dalla precedente raccolta elegiaca quanto alla sostanza del contrasto, si rivela dall’altro originalmente riproposto e riadattato alla natura della collezione più recente. 3.1 Ianua clausa: la collezione di epistole tra chiusura e apertura Nell’epistola finale della silloge unitaria costituita da Pont. 1–3, che come la prima è indirizzata a Bruto,60 l’esule risponde a una delle consuete critiche ricevute a proposito del carattere sciatto e non rifinito dei suoi versi; questa volta, la critica riguarda una caratteristica specifica delle ex Ponto, che il poeta decide di difendere giunto appunto al termine – almeno per il momento – dei libelli in questione (Pont. 3.9.1 ss.; la difesa del difetto introdotto nei distici iniziali è poi contenuta nei vv. 33 ss.): quod sit in his eadem sententia, Brute, libellis, carmina nescioquem carpere nostra refers: nil nisi me terra fruar ut propiore rogare, et quam sim denso cinctus ab hoste loqui. […]

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Sulla struttura della raccolta, il punto di partenza è rappresentato da Froesch 1968; cfr. inoltre Pérez Vega 2000, pp. XXIII s.; Helzle 2003, pp. 41 ss.; Galasso 2008b, pp. XLVIII s. Green 20052, p. 293 parla di «hysteron proteron pattern», che Pont. 3.9 provvede a chiudere (p. 347).

Ripetitività ciclica e mora epistolare: Epistulae ex Ponto 1–3

nil tamen e scriptis magis excusabile nostris, quam sensus cunctis paene quod unus inest. […] cum totiens eadem dicam, vix audior ulli, verbaque profectu dissimulata carent. et tamen haec eadem cum sint, non scripsimus isdem, unaque per plures vox mea temptat opem. an, ne bis sensum lector reperiret eundem, unus amicorum, Brute, rogandus eras? […] nec liber ut fieret, sed uti sua cuique daretur littera, propositum curaque nostra fuit. postmodo collectas utcumque sine ordine iunxi, hoc opus electum ne mihi forte putes. da veniam scriptis, quorum non gloria nobis causa, sed utilitas officiumque fuit.

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La figura dell’anonimo nescioquis cui sono ricondotte le accuse menzionate appare an­ cora più evanescente del solito, direi anzi che – se in altri passi può sorgere il dubbio che al contrario si tratti di una persona reale61 – questa volta essa è senza dubbio una finzione: dal momento che, come detto, i primi tre libri delle ex Ponto costituiscono una raccolta inviata tutta in una volta, ci si potrebbe chiedere come sia possibile che qualcuno a Roma sia in grado di criticare questi libelli ancor prima di leggerli.62 L’at­ tribuzione delle citate critiche a una figura altra rispetto ad autore e destinatario può tuttavia senz’altro nascondere il timore di un difetto reale e sostanziale, che il poeta de­ cide di rivendicare fin da subito, prima ancora di vedersene recapitata la sanzione – ciò che del resto, in Pont. 3.9, l’esule finge che sia effettivamente accaduto: carmina nescioquem carpere nostra refers. Come si ricava dai versi riportati, la critica riguarda la ripeti­ tività, particolarmente accentuata, delle ex Ponto (v. 1, eadem sententia; v. 34, sensus … unus; v. 39, eadem; v. 41, haec eadem; v. 42, una … vox; v. 43, sensum … eundem), il fatto cioè che Ovidio, rivolgendosi ai differenti destinatari, abbia formulato sempre la stessa richiesta (v. 3, nil nisi me terra fruar ut propiore rogare) e, a questo fine, abbia utilizzato sempre gli stessi argomenti (v. 4, et quam sim denso cinctus ab hoste loqui). Il poeta si 61 62

Cfr. trist. 1.6.13; 5.11.1. Sulla «reality» dei nemici dell’esule, e in particolare di ‘Ibis’, si veda Williams 1996, pp. 17 ss. Ricordo qui che l’invio di Pont. 1–3 come collezione unitaria è dimostrato dal plurale libellos di Pont. 1.1.3, nonché dalla sostituzione dei tre libri dell’Ars cui Ovidio esorta Bruto nella medesima epistola proemiale; che nel libellis di Pont. 3.9.1 non possa essere riconosciuto un riferimento anche ai Tristia è confermato a mio avviso, oltre che dal deittico his (che enfatizza la chiusura dell’opera composta appunto dai tre libri), dalla medesima difesa dei vv. 33 ss., che si riferisce esplicitamente alla serie di epistole e di destinatari di cui il lettore ha appena avuto esperienza leggendo Pont. 1–3.

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difende lamentando le scarse possibilità di variazione concesse da una poesia votata a utilitas e officium, nonché ricordando il fatto che, a fronte dell’identità degli argomenti, i destinatari pure sono cambiati (v. 41, non scripsimus isdem; v. 42, per plures). Le critiche riportate e confutate dal poeta nel componimento che chiude l’opera ‘nuova’ inviata dal Ponto possono contribuire a rivelare alcune caratteristiche che se­ gnano la collezione di Epistulae riproducendo in una versione inedita quegli aspetti fondanti della produzione esilica di Ovidio che abbiamo individuato a proposito dei Tristia. La ripetitività che l’anonimo nescioquis rinfaccia all’autore della collezione di epistole è in realtà una caratteristica che deriva dalla costitutiva ripetizione della forma epistolare adottata dal poeta delle ex Ponto come unica modalità di approccio nei con­ fronti dei destinatari. Il fatto che, come si dice nel passo dell’epistola a Bruto appena riportato, il poeta rivendichi per lo meno il merito di aver garantito una certa varietà nella diversificazione dei destinatari nasconde la consapevolezza di aver sfruttato una potenzialità insita nella scelta di costruire la nuova opera come collezione di epistole: la possibilità cioè di ripetere le medesime richieste, e di rafforzarne insieme l’urgen­ za, approfittando del cambio di destinazione di ogni singola lettera, la cui lettura è ogni volta idealmente riservata al singolo destinatario cui l’esule via via si rivolge. Il contra­ sto fra la destinazione privata dell’epistola individuale e la destinazione pubblica della collezione comporta per il poeta la straordinaria opportunità di unire i vantaggi offerti da entrambe queste destinazioni: ribadire la propria istanza singolarmente a molti.63 È possibile a questo punto, da un lato, cogliere ancor meglio la differenza della si­ tuazione presentata dalle ex Ponto rispetto ai Tristia; dall’altro, constatare che le novità introdotte dalla seconda opera dell’esilio rappresentano, una volta di più, una evolu­ zione delle caratteristiche poetiche e compositive che avevano già segnato la prima opera tomitana di Ovidio. Se infatti, come abbiamo anticipato, nelle ex Ponto la singola lettera si appropria di quella funzione di intermediazione che nei Tristia è affidata al liber (un’appropriazione di cui osserviamo il progressivo intensificarsi negli ultimi tre libri della prima collezione, e in particolare in trist. 5), il ciclico, annuale invio dei libri di Tristia cui l’autore affida il compito di parlare a suo nome presso il pubblico di Roma si trasforma nel ben più intenso – e per certi aspetti più ‘economico’ – ciclico invio di ogni singola lettera delle ex Ponto. Il senso di ripetizione che abbiamo visto segnare il progressivo invio delle raccolte di Tristia, e che come dicevamo tendeva a generare un automatismo prevedibile per i lettori, trova una declinazione inedita nella paradossa­ 63

Sul problematico rapporto fra ‘pubblico’ e ‘privato’ nelle ex Ponto, cfr. Martelli 2013, pp. 188 ss.; sul carattere ‘ripetitivo’ delle Heroides, cfr. Kennedy 2002, p. 220: «‘reiteration’ rather than ‘repetition’ offers an invitation, not a disincentive, to view the Heroides collectively, even syntactically. What a more hostile tradition of reception tropes as ‘monotony’ may be alternatively construed as an important and lasting feature of Ovid’s innovation, a poetics of ‘writing in isolation’ which has at its heart a cry, destined to be repeated, demanding (but not confident of receiving) an adequate response» (enfasi nell’originale) – ciò che può essere detto anche delle ex Ponto, e della poesia dell’esilio di Ovidio nella sua interezza.

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le esaltazione di questo automatismo suscitata dalla continua, ostinata ripetizione della forma epistolare, una ripetizione che determina la sclerotizzazione di quel movimento circolare in cui la poesia dell’esilio di Ovidio si trova infine imprigionata e costretta. Non andrà in questo senso trascurato il fatto che, ancora una volta, le ex Ponto sono una collezione di epistole, una definizione cui è costitutivamente attribuita una cer­ ta valenza ossimorica. Come gli studi sull’epistolarità non hanno mancato di rilevare, la lettera costituisce infatti un testo chiuso, fisicamente delimitato cioè, da un lato, dallo stesso supporto materiale sul quale la lettera è (più o meno idealmente) scritta; dall’altro, dalle tipiche formule o espressioni formulari che ne fissano, in particolare, l’inizio e la fine. La scelta operata da Ovidio nelle ex Ponto – che è tuttavia anche la scelta delle Heroides e di qualsiasi altra opera costituita da una collezione di epistole, quali sono per esempio i romanzi epistolari di età moderna64 – è quella di proporre una serie aperta di testi chiusi, una ‘catena’ di singoli testi finiti che risulta potenzialmente estendibile all’infinito. Questa caratteristica propria dello scambio epistolare si esplica nel modo forse più immediato nel caso di quelle collezioni che prevedono appunto lo scambio, che includono cioè le lettere delle due parti del dialogo epistolare; ma l’ossi­ morica compresenza di singolarità e pluralità – la singolarità del testo chiuso che è ogni lettera; la pluralità della serie di lettere raccolte insieme – caratterizza e informa di sé qualsiasi opera di questo genere. Si può anzi affermare, a mio avviso, che l’assenza delle risposte nelle ex Ponto (come nelle Heroides singole) finisce addirittura per esaspera­ re questa opposizione – laddove l’esasperazione costituisce ovviamente un effetto ri­ cercato dal poeta, come si ricava dallo stesso brano di Pont. 3.9 sopra menzionato. Nella serialità della collezione di epistole si consuma così il contrasto fra limite e apertura, fra chiusura e infinita ripetizione.65

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Opere in cui la materialità e l’effettiva destinazione di ogni singola epistola sono da giudicarsi fit­ tizie, ciò che in minima parte corrisponde alla situazione presentata dalle ex Ponto, dove – al di là dell’ipotesi, possibile ma indimostrabile, che Ovidio abbia effettivamente inviato le singole epi­ stole al di fuori della collezione – la destinazione individuale mantiene tutta la sua rilevanza nel contesto dell’opera pubblicata. Per una valutazione del carattere fittizio delle epistole incluse nelle ex Ponto, cfr. Froesch 1968, pp. 109 ss.; Wulfram 2008, p. 239. Per una discussione di queste categorie sono da vedere soprattutto Altman 1982 (p. 187: «the dyna­ mics of letter narrative involves a movement between two poles: the potential finality of the letter’s sign­off and the open­endedness of the letter seen as a segment within a chain of dialogue»); MacArthur 1990. Sull’assenza di risposte nelle ex Ponto, cfr. Claassen 1999, pp. 129 s.; Natoli 2017, p. 90, dove questo aspetto viene ricollegato alla «speech loss» che più in generale caratterizza le opere dell’esilio di Ovidio; più avanti nella sua trattazione, tuttavia, lo stesso Natoli individua nel mezzo epistolare il modo attraverso cui il poeta in esilio «is successful in communicating with his community», ciò che è dimostrato fra l’altro dalle notizie di «letters and copies of speeches he [= Ovid] has received from members of his community in Rome» (p. 138). Quest’ultima osserva­ zione, e in particolare l’associazione fra la lettera e la conversazione orale, non esauriscono a mio avviso la spiegazione del motivo per il quale l’esule opti infine per la collezione di epistole (singo­ le) come mezzo di comunicazione con i propri destinatari. La singolarità della voce del poeta che si

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Può essere utile tuttavia osservare, a fronte delle somiglianze appena rilevate, alcune differenze a mio avviso abbastanza sostanziali, in particolare, fra ex Ponto ed Heroides.66 Se da un lato la serie di lettere che costituisce le due collezioni conferisce a entrambe un carattere in certa misura aperto, consentendo cioè la possibilità di aggiungere altre let­ tere a una collezione che è per definizione incompleta (una selezione, per l’appunto),67 la particolare natura ‘letteraria’ delle Heroides – il legame cioè con una storia mitica che è già scritta, e che i lettori esterni dell’opera ovidiana già conoscono – attribuisce alle singole epistole un carattere forse più ‘chiuso’ di quanto ci si potrebbe attendere. Si è spesso insistito, negli studi più recenti sulle Heroides, sul fatto che le quindici let­ tere di eroine che costituiscono la prima serie di epistole singole non prevedono una risposta, anzi qualche volta addirittura la escludono (così, quasi programmaticamente, Penelope: cfr. her. 1.2, nil mihi rescribas attinet: ipse veni!); alla singola lettera dell’eroina relicta è spesso e volentieri preclusa una risposta, perché per la stessa eroina risulta paradossalmente molto difficile, per non dire impossibile, sapere dove, addirittura come, inviarla (è il caso di Arianna abbandonata sull’isola deserta di Nasso); in altri casi, a rendere superflua, e ormai nemmeno più attesa, la risposta dell’eroe cui l’epi­ stola è indirizzata contribuisce l’imminente morte dell’eroina, il cui atto di scrittura si colloca nel momento immediatamente precedente il suicidio (Macareo avrà qualche difficoltà a leggere la lettera inviatagli da Canace, dal momento che le macchie di san­ gue dell’eroina nascondono parte delle parole: 11.1 s., siqua tamen caecis errabunt scripta lituris, / oblitus a dominae caede libellus erit). La serie di epistole composte dalle eroine ovidiane generano in questo senso un (soltanto potenziale) scambio epistolare che ‘nasce morto’, innescando una dinamica che contiene in se stessa i germi della chiu­ sura.68 È importante a mio avviso osservare che questa particolare caratteristica delle Heroides non sembra escludere nemmeno le cosiddette epistole doppie, la serie di let­ tere composte da Ovidio in un secondo momento, dopo lo spunto che al nostro autore

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‘moltiplica’ all’infinito (cfr. Pont. 3.9.42, unaque per plures vox mea temptat opem) rende ancora più aperta un’opera che programmaticamente esclude le risposte, potenzialmente negative e dunque in grado di suscitare una dinamica di chiusura, dei destinatari cui l’esule si rivolge: cfr. Pont. 1.1.19, nec vos hoc vultis, sed nec prohibere potestis – perlomeno nelle ex Ponto; cfr. ancora infra. Sull’epistolarità delle Heroides si veda in generale Kennedy 2002; le osservazioni che seguono si giovano in particolare dei lavori di Barchiesi 1987; Rosati 1989b; Rosati 2005. La differente natura di Heroides ed ex Ponto è altrimenti illustrata da Wulfram 2008, pp. 252 ss. in termini di appartenen­ za generica. Sullo sfruttamento della forma epistolare nelle Heroides e sulla distinzione fra autoria­ lità maschile e femminile, cfr. inoltre Spentzou 2003, pp. 123 ss. Ciò che in effetti è accaduto per le Heroides: sulle aggiunte realizzate da Sabino nonché da Ovidio stesso con le ‘epistole doppie’, cfr. infra. È interessante notare – come fa Altman 1982, p. 162 – che i romanzi epistolari di età moderna sono spesso presentati come esplicitamente incompleti in virtù della selezione realizzata dal (fittizio) editore. Interessante in questo senso anche l’epistola di Laodamia, inviata all’eroe che morirà per primo a Troia: in questo caso, l’impossibilità che lo scambio si sviluppi è nota soltanto al lettore esterno dell’opera di Ovidio, che conosce il seguito della storia mitica e sa che Protesilao non potrà mai rispondere, forse nemmeno leggere la lettera a lui destinata.

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fornì l’amico Sabino (cfr. am. 2.18):69 la novità introdotta, questa volta, dalla presenza delle risposte – risposte della donna all’uomo, secondo un rovesciamento della situa­ zione idealmente presupposta nelle epistole singole70 – permette da un lato a Ovidio di adattare ancora meglio la natura ‘narrativa’ delle storie mitiche al mezzo epistolare (la storia si costruisce e si sviluppa nell’interazione dei protagonisti attraverso le rispettive epistole), ma dall’altro  – in modo anzi ancora più evidente rispetto alla precedente serie – esaurisce la narrazione; la dinamica narrativa instaurata dallo scambio epi­ stolare favorisce il raggiungimento della fine (tragica in un caso, lieta negli altri due) di quello stesso scambio: la morte di Leandro rende impossibile il proseguimento del dialogo epistolare con Ero; il ricongiungimento fisico ottenuto da Paride e Aconzio, rispettivamente, con Elena e Cidippe lo rende inutile.71 Appare pertanto interessante constatare che l’apertura che abbiamo inizialmente riconosciuto anche alle Heroides in quanto collezione di epistole è data non tanto dal carattere aperto delle singole let­ tere – che anzi, come abbiamo visto, suscitano più spesso una dinamica di chiusura, mettendo a rischio e infine compromettendo la possibilità di una continuazione di quello scambio (nel caso delle epistole singole, dell’esistenza stessa di uno scambio) – quanto piuttosto dal fatto che l’autrice di ogni epistola (o scambio epistolare) è un’eroi­ na (o una coppia) sempre diversa: la ‘non­finitezza’ delle Heroides come collezione è in un certo senso garantita dalla pluralità delle voci più che dalla possibilità che una stessa voce torni a farsi sentire, oltre che nell’unica presente, in una seconda epistola. In assenza di una storia già scritta di cui mittente e destinatari, ovvero autore e let­ tori, conoscano anticipatamente la conclusione (ma il poeta continua a sperare la co­ nosca Augusto), il carattere aperto delle ex Ponto è moltiplicato, addirittura esaltato dal carattere intimamente aperto di ogni singola epistola inclusa nella collezione, come cercheremo di mostrare qui di seguito. Ancora una volta, il proseguimento potenzial­ mente infinito della raccolta non si identifica con il proseguimento di un dialogo epi­ stolare che è programmaticamente assente nell’opera dell’esule: includere, o quanto 69

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Sabino è menzionato (già defunto) anche in Pont. 4.16.13 ss., et qui Penelopae rescribere iussit Ulixem / errantem saevo per duo lustra mari, / quique suam †trisomem† inperfectumque dierum / deseruit celeri morte Sabinus opus (a fronte dell’incompiutezza delle opere dell’esilio di Ovidio, è curioso il fatto che anche l’amico lasci un’opera incompiuta). Secondo un’ipotesi più volte vagliata dagli studiosi, che si basa soprattutto su motivazioni di carattere stilistico, le Heroides doppie potrebbero essere state composte in esilio (cfr. Barchiesi 1996: «why should we resist the notion that epp. 16–21 are, so to speak, Epistulae ex Ponto?»): nel qual caso, il confronto fra le due raccolte, anche nei termini qui considerati, risulterebbe a maggior ragione interessante. Cfr. Rosati 1989b, pp. 22 s. Sulla tendenza a ‘concludere’ manifestata dagli eroi, a ‘differire’ dalle eroine nelle Heroides dop­ pie (ma è un differimento appunto provvisorio, che si consuma nello spazio dell’epistola), cfr. Spentzou 2003, p. 128. Quanto agli happy endings degli scambi fra Paride ed Elena, Aconzio e Cidip­ pe, le rispettive storie naturalmente non finiscono (anzi, tutt’al più cominciano) al momento del sospirato ricongiungimento: cfr. Thorsen 2018, p. 258; a cessare è tuttavia la necessità di ricorrere al mezzo epistolare – non ci sarebbe spazio, cioè, per un’eventuale ulteriore replica dei due eroi, rispettivamente, a her. 17 e 21.

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meno rendere note, le risposte dei destinatari significherebbe per Ovidio contemplare la pericolosa possibilità che queste risposte, per l’appunto, mettano fine al dialogo.72 Nei tre libri che inizialmente compongono la raccolta delle ex Ponto, al contrario, non soltanto assistiamo al continuo riproporsi dell’unica voce autoriale (come abbiamo già ricordato, Naso è la prima parola dell’opera), ma a essere riproposti sono anche gli stessi destinatari cui è indirizzata più di una lettera: nella dinamica binaria del dia­ logo epistolare, il poeta delle ex Ponto è paradossalmente ‘sordo’ alle risposte che ri­ ceve o che potrebbe ricevere. In Pont. 1.3, l’atto di cortesia dell’amico Rufino, che ha fatto pervenire all’esule una consolatio sui vari modi di affrontare e tollerare l’esilio, è decisamente rigettato dal poeta esule, che afferma di non averne ricavato alcun aiuto (vv. 13 s., ut multum demas nostrae de gurgite curae, / non minus exhausto quod superabit erit): l’impossibilità di limitare i mali dell’esilio sconfigge il tentativo di ‘chiusura’ of­ ferto dall’amico medico (cfr. vv. 87 ss., nec tamen infitior, si possint nostra coire / vulnera, praeceptis posse coire tuis. / sed vereor ne me frustra servare labores …).73 Nelle Epistulae, Ovidio sembra in sostanza decisamente togliere la parola ai destinatari, nel timore che la loro sia una parola negativa, in grado di troncare una volta per tutte le speranze del poeta; si confronti per esempio l’esordio di Pont. 1.6, una lettera indirizzata a Grecino, su cui torneremo (vv. 1 ss.): ecquid, ut audisti (nam te diversa tenebat terra) meos casus, cor tibi triste fuit? dissimules metuasque licet, Graecine, fateri, si bene te novi, triste fuisse liquet.

La speranza che l’amico non voglia rinnegare il legame che in passato lo ha unito al poeta in disgrazia si traduce nell’invasione dello spazio riservato alla risposta: Ovidio risponde per l’amico, confutando in anticipo l’eventuale diniego, che è anzi bollato fin da subito come una finzione, un timore immotivato (dissimules metuasque licet … fateri). Privato della possibilità di rispondere negativamente, Grecino è costretto a mantenere vivo il rapporto con l’amico lontano.74 72

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Si tratta naturalmente di un’osservazione svolta al netto dell’impossibilità concreta di immaginare risposte (in versi!) composte dagli interlocutori di Ovidio à la Sabino con le Heroides e incluse dal poeta nella sua stessa opera – impossibilità che rende una volta di più evidenti le differenze fra le due collezioni; la riflessione su questo punto è qui funzionale alla descrizione delle peculiarità che le ex Ponto manifestano quanto alle categorie di chiusura e apertura, oggetto della presente indagine. Sull’identità di Rufino, e sulle possibilità di una sua identificazione con il Vibio Rufino citato da Plinio il Vecchio come fonte su piante ed erbe medicinali, cfr. la minuziosa disamina di Busti 2019; sull’utilizzo, e il rifiuto, dei topoi consolatori in questa epistola sono da vedere in part. Davisson 1983; Audano 2016, pp. 23 s. Di formulare una consolatio appropriata contro i mali dell’esilio tenterà Seneca nell’ad Helviam. Questo gesto fa parte di una strategia che più in generale segna l’intera produzione dell’esilio di Ovidio: presentando come impossibile il tradimento degli amici, soprattutto per mezzo dei ca­ nonici adynata, l’esule cerca di scongiurarne l’avverarsi; ottime osservazioni su questo punto in

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Riassumendo quanto visto fin qui, abbiamo notato che le ex Ponto riproducono, nella programmatica ripetizione della forma apparentemente chiusa dell’epistola, la dinamica ciclica già instaurata dal progressivo invio dei vari libri che hanno composto i Tristia, disattendendo il limite sancito dalla relativa chiusura del singolo messaggio nella ‘continuità’ della raccolta. Allo stesso tempo, la «open­endedness» che caratte­ rizza ogni collezione epistolare – in presenza o meno dello scambio, delle lettere cioè delle due parti in dialogo – è a maggior ragione esaltata dalla singolarità della voce autoriale nelle ex Ponto (ciò che distingue quest’opera dalle Heroides), la cui urgenza di mantenere aperto il legame di amicizia con i destinatari lo induce a parlare per loro, ‘inglobando’ in certa misura le risposte – risposte rigorosamente positive – nelle sin­ gole lettere della collezione. Ancora a proposito di chiusura (disinnescata) e apertura (favorita e incentivata) nel rapporto con i destinatari delle Epistulae, c’è un’immagine, più volte utilizzata da Ovidio, che a mio parere può essere considerata come una sorta di simbolo, un’icona dell’operazione retorica e poetica messa in campo dal poeta in esilio, in particolare nel­ le ex Ponto: l’immagine della porta di casa degli amici patroni. In Pont. 1.7, a Messalino è rammentato il fatto che, finché era a Roma, il poeta è stato parte dei suoi cultores, della folla di clienti che usano frequentare la sua domus (vv. 15 s., cetera sit sospes cultorum turba tuorum, / in quibus, ut populo, pars ego parva fui);75 ora Ovidio teme che il desti­ natario possa rinnegare il passato rapporto, e attraverso la lettera cerca al contrario di garantirne la continuazione, fatto salvo il rispetto dei ruoli che devono tuttora segnare la relazione di amicitia (vv. 23 s.): nec tamen inrumpo quo non licet ire, satisque est atria si nobis non patuisse negas.

Ovidio vorrebbe cioè continuare a essere cliente di Messalino, ciò che sarebbe intan­ to assicurato dal riconoscimento, da parte del patrono, del fatto che l’atrium di casa propria – il luogo deputato all’accoglienza dei clientes – era un tempo aperto al poeta (nobis … patuisse).76 Così ora l’esule spera che la domus dei Messalla – oltre a Mes­ salino, è chiamato in causa anche il fratello Cotta – non sia «chiusa» al suo ingresso, nonostante Ovidio affermi di non voler in nessun modo compromettere i potenti pa­ troni, e sia per questo disposto addirittura a passare per bugiardo; ma di ciò non vi sarà bisogno (vv. 35 ss., si minus, hac quoque me mendacem parte fatebor: / clausa mihi potius tota sit illa domus. / sed neque claudenda est et nulla potentia vires / praestandi, ne quid

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Davisson 1980–81, p. 128; Galasso 1995, p. 244. Una mossa simile – l’invasione dello spazio riservato alla risposta all’inizio della lettera – in Pont. 2.4.3 ss. (ad Attico), ecquid adhuc remanes memor infelicis amici, / deserit an partis languida cura suas? / non ita di mihi sunt tristes, ut credere possim / fasque putem iam te non meminisse mei. Sulla «poetica della partecipazione» nelle opere dell’esilio di Ovidio, cfr. Labate 1987, pp. 105 ss. Sull’impiego e sul significato del verbo pateo nei versi finali delle Metamorfosi, cfr. p. es. Rimell 2015, p. 39.

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peccet amicus, habet). Il fatto che Augusto abbia risparmiato la vita al poeta, conceden­ dogli così perlomeno il pensiero di poter tornare (v. 47, nec vitam nec opes nec ademit posse reverti),77 dovrebbe indurre anche Messalino a considerare favorevolmente il pro­ prio rapporto con lui (vv. 53 s.): iudicium nobis igitur cum vindicis adsit, non est cur tua me ianua nosse neget.

La ianua della casa di Messalino, e il ricordo dell’accesso che almeno in passato era garantito al poeta, funge ancora una volta da simbolo della relazione clientelare che l’esule vorrebbe tuttora mantenere con casa e patrono. Come notano i commentatori, l’immagine della porta utilizzata da Ovidio in questo e in altri passi (un tema, come sembra, particolarmente presente nelle epistole a Messalino: cfr. ancora Pont. 2.2.39 s., da, precor, accessum lacrimis, mitissime, nostris, / nec rigidam timidis vocibus obde forem) appare come una diretta riconversione del paraklausithyron dell’elegia erotica: come il poeta amante cercava (senza successo) di favorire l’apertura della porta di casa dell’amata, così ora il poeta in esilio reimpiega le medesime suppliche nei confronti dei patroni al cui cospetto egli vorrebbe ‘accedere’.78 Se tuttavia i lamentosi versi del poeta innamorato faticavano a ottenere il risultato sperato, Ovidio ora si augura che maggiori possibilità di successo possano essere riservate all’epistola, una forma di co­ municazione cui è costitutivamente consegnata, fra l’altro, la funzione di favorire, anzi di anticipare l’accesso, e che si presenta come uno strumento in grado di ‘mediare’ la presenza fisica del mittente (una presenza fisica che appunto comportava il puntuale fallimento del poeta amante di fronte alla porta dell’amata) con una presenza soltanto ideale e però capace di preludere all’avvicinamento vero e proprio.79 Nelle ex Ponto, il

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Nel distico precedente è nuovamente utilizzata l’immagine del fulmine impiegato «con modera­ zione» da parte del princeps (usus et est modice fulminis igne sui), un ‘trattenimento’ delle forze che ad Augusto era riconosciuto già in trist. 2.128 (o princeps parce viribus use tuis!); cfr. supra, pp. 68 s. per il parallelo offerto dal levius fulmen di Giove nelle Metamorfosi. Per una serie di paralleli, cfr. i comm. di Galasso 1995, Helzle 2003, Tissol 2014 ad locc. Per altri impieghi dell’immagine della ianua nella poesia dell’esilio, cfr. trist. 3.2.23 s. e Pont. 2.7.37 s. Più che con i numerosi esempi di paraklausithyron dell’elegia erotica, di cui pure il poeta in esilio recupera parte del lessico, confronterei in questo senso l’operazione messa in campo dal poeta del­ le ex Ponto con i consigli del praeceptor amoris in ars 1.437 ss., dove la lettera è individuata come pri­ mo strumento di accesso alla donna da conquistare (cera vadum temptet rasis infusa tabellis, / cera tuae primum conscia mentis eat; cfr. anche i vv. 455 s., ergo eat et blandis peraretur littera verbis, / exploretque animos primaque temptet iter): nel brano dell’opera didascalica, allo scritto è riconosciuta la capacità di consentire un approccio graduale (v. 482, per numeros veniunt ista gradusque suos), sfruttando cioè il potere di convincimento offerto dalla dimensione temporale entro la quale si colloca l’epistola in quanto provvisoria sostituta della presenza fisica vera e propria (vv. 471 s., tempore difficiles veniunt ad aratra iuvenci, / tempore lenta pati frena docentur equi, versi di cui l’esule offre una rivisitazione in trist. 4.6, su cui cfr. supra, pp. 138 ss.). Sulla temporalità delle ex Ponto, cfr. ancora infra, pp. 185 ss.; sulla lettera come sostituta della presenza fisica sono da vedere le pagine di Hardie 2002b, pp. 106 ss. e 283 ss.

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canale rappresentato dall’epistola contribuisce a mantenere aperta la porta degli amici patroni cui Ovidio si rivolge – a mantenere aperto, cioè, un rapporto che la disgrazia e la distanza tenderebbero inesorabilmente a ‘chiudere’. Emblematico in questo senso mi pare un testo come Pont. 4.5, un’epistola che l’esule invia al neo­console Sesto Pom­ peo, nella quale tuttavia il poeta si rivolge, anziché a Pompeo, ai propri stessi distici (v. 1, ite, leves elegi, doctas ad consulis aures): vi è rappresentato innanzitutto lo spazio geografico che la lettera è chiamata a superare – ulteriore variazione di ciò che abbia­ mo già trovato in trist. 3.1, in riferimento tuttavia al liber, e in altri componimenti più propriamente epistolari – e si allude al superamento della soglia della domus Pompeia (cfr. v. 9) che il poeta si attende dall’epistola (vv. 15 s., copia nec vobis nullo prohibente videndi / consulis, cum limen contigeritis, erit); gli elegi, ammessi in casa, non avran­ no subito la possibilità di accedere al console, impegnato nelle numerose attività cui lo costringe l’onorevole incarico e di cui Ovidio fornisce un cospicuo elenco, ma quando Pompeo troverà finalmente il tempo di curarsi dello scritto è il momento di pronun­ ciare il messaggio dell’esule (v. 30, talia vos illi reddere verba volo). L’aspetto interessante di Pont. 4.5 è costituito precisamente dal fatto che la lettera vera e propria occupa una minima parte del componimento (sono i vv. 31 ss., le parole che il poeta esorta lo scritto a pronunciare), mentre i restanti versi offrono un’autocosciente rappresentazione delle potenzialità – e, insieme, delle difficoltà – insite nel peculiare mezzo di comunicazione che è l’epistola.80

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Interessanti, sempre di Pont. 4.5, i vv. 11 ss., dove – a differenza che nei componimenti paratestuali dei Tristia, in part. trist. 1.1 e 3.1 – il poeta esorta lo scritto a mentire circa la propria provenienza (siquis, ut in populo, qui sitis et unde requiret, / nomina decepta quaelibet aure ferat; cfr. trist. 1.1.17 s., siquis, ut in populo, … siquis, qui, quid agam, forte requirat, erit); nonostante Ovidio non pensi che, in caso contrario, la propria lettera possa trovare difficoltà, la finzione comporterà maggiore sicurezza (ut sit enim tutum, sicut reor esse, fateri, / verba minus certe ficta timoris habent). È possibile credere – come fa Galasso 2008b, p. 305 – che l’invito alla menzogna di Pont. 4.5 sia il segno di un peggioramento della posizione dell’esule a Roma; ma lo scarto rispetto ai Tristia è a mio avviso piuttosto misurato dal mutamento, certo ideale ma di fatto sostanziale, della destinazione dello scritto in questione: se destinatario dei libri di Tristia era infatti il pubblico di Roma nella sua interezza, i messaggi che l’esule affida alle epistole delle ex Ponto sono primariamente indirizzati ai singoli personaggi cui il poeta li rivolge, e la contemporanea lettura di questi messaggi da parte di terze persone o del più vasto pubblico per mezzo della collezione deve strategicamente risultare come un atto di ‘voyeurismo’ (non da ultimo, da parte del princeps ‘overreader’). Sulla possibilità di ‘intercettazione’ cui è costitutivamente soggetto il testo epistolare si veda in generale il lavoro di Jenkins 2006; sulla ‘triangolazione’ prevista dall’epistola letteraria latina si sofferma Wilcox 2002; per un’applicazione del concetto di ‘overreading/overreader’ alle Epistulae di Orazio, cfr. in part. Oliensis 1998, pp. 154 ss.; sulle ex Ponto, si vedano ancora le buone osservazioni di Martelli 2013, pp. 188 ss. sui differenti piani di destinazione e sulla trasformazione operata da Ovidio in questa collezione «by making public a quintessentially private mode of writing».

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3.2 Le longae morae del poeta epistolografo Se dunque l’epistola, la forma letteraria alla quale Ovidio affida infine i propri sforzi persuasivi, si dimostra un mezzo particolarmente adeguato per il poeta in esilio in vir­ tù delle sue peculiari funzioni spaziali (la capacità di attraversare spazi e di aprire, o di mantenere aperti, canali di comunicazione destinati altrimenti a interrompersi), vale la pena di riconoscere anche le peculiarità temporali di questo genere di scritto, il par­ ticolare rapporto cioè che l’epistola intrattiene con la dimensione del tempo, al fine di valutare in che modo, anche sotto questo aspetto, sia possibile rintracciare alcune linee di evoluzione rispetto a quanto visto nei capitoli precedenti a proposito della prima opera dell’esilio. Ci si potrebbe infatti chiedere, a questo punto, se alla dinamica aperta e ciclica cui abbiamo ricondotto le ex Ponto in quanto collezione di epistole che ‘si ri­ petono’ – una dinamica che esaspera la ciclicità e la non­finitezza già segnate dall’invio dei diversi libri dei Tristia – non continui a opporsi quell’altro movimento temporale, il tempo lineare del segmento, che ha insieme caratterizzato la poesia dell’esilio di Ovidio fin dai suoi esordi; in altre parole, ci si potrebbe chiedere, a proposito delle Epistulae, che fine abbia fatto la ‘fine’ – vale a dire, quel punto terminale dell’esilio, e della poesia che ne è espressione, di cui il poeta dei Tristia mostrava di attendere il conseguimento, collocando la propria attuale produzione triste nell’ambito di un tempo intermedio di attesa e di speranza che per definizione si presentava come provvisorio, destinato presto o tardi a terminare. Che il poeta delle ex Ponto abbia in qualche modo perso il contatto con il telos, con la fine dell’esilio – ciò che abbiamo visto anticipato, ancora una volta, in trist. 5 – è l’impressione che si ricava leggendo l’epistola a Bruto che apre la nuova collezione. Nei versi finali di quel testo, infatti, il poeta torna a esprimere tutto il proprio rammarico per la culpa commessa: se da un lato l’exilium potrà anche finire, il fatto di aver sbagliato durerà in eterno (vv. 59 ss.): paenitet, o! si quid miserorum creditur ulli, paenitet, et facto torqueor ipse meo. cumque sit exilium, magis est mihi culpa dolori; estque pati poenam, quam meruisse, minus. ut mihi di faveant, quibus est manifestior ipse, poena potest demi, culpa perennis erit. mors faciet certe, ne sim, cum venerit, exul: ut non peccarim, mors quoque non faciet.

Il limite sancito dalla morte, che nei Tristia abbiamo visto via via costituire l’estremo grado cui sapeva giungere la speranza del poeta quanto più allontanarsi pareva il limite rappresentato dal perdono (così ad esempio in trist. 4.6.49 s., per cui cfr. supra, p. 140), all’inizio delle ex Ponto risulta enfaticamente dichiarato a sua volta insufficiente e fin d’ora destinato a rendersi superabile: nemmeno la morte potrà far sì che il poeta non

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abbia sbagliato. La culpa perennis81 riconosciuta da Ovidio in esordio può così suggerire l’ottica secondo la quale la nuova opera di poesia triste si pone rispetto a quel rischio dell’eternità da cui il poeta dei Tristia risultava sempre più minacciato: è interessante constatare che l’eternità della condanna si presenta, nelle ex Ponto, come un dato so­ stanzialmente acquisito. Nel seguito del brano menzionato, Ovidio propone una nuo­ va descrizione dei dolori, fisici e mentali, che è costretto a patire in esilio: l’assenza di una fine cui questi dolori sembrino destinati (vv. 73 s., sic mea perpetuos curarum pectora morsus, / fine quibus nullo conficiantur, habent) si traduce con sorpresa, ne­ gli ultimi due distici di Pont. 1.1, nella paradossale limitazione della supplica da parte dell’esule, che non intende chiedere altro se non un allontanamento dalla regione pon­ tica (vv. 77 ss.): hoc mihi si superi, quorum sumus omnia, credent, forsitan exigua dignus habebor ope, inque locum Scythico vacuum mutabor ab arcu: plus isto, duri, si precer, oris ero.

La possibilità di «chiedere di più» viene così programmaticamente esclusa da un’o­ pera che è costretta ad auto­limitare il proprio raggio d’azione nella consapevolezza di non potere, nemmeno volendo, ottenere di più: nel nuovo spazio così descritto, che sostituisce il segmento lungo il quale si sviluppavano i Tristia, le Epistulae ex Ponto danno voce alla versione inedita di un carmen divenuto ormai senz’altro perpetuum.82 Nella seconda epistola della raccolta, cui dopo il proemio è consegnato il compito di fornire il primo saggio delle novità introdotte nella collezione più recente, Ovidio si rivolge al potente Fabio Massimo in questi termini (vv. 27 ss.): fine carent lacrimae, nisi cum stupor obstitit illis, et similis morti pectora torpor habet. felicem Nioben, quamvis tot funera vidit,

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Una formulazione che significativamente ritratta am. 1.15.7 s., mihi fama perennis / quaeritur. La richiesta di un allontanamento da Tomi più che del ritorno in patria (una richiesta che come sappiamo era già dei Tristia, dove tuttavia essa veniva posta in relazione con l’ulteriore ‘graduale’ intenzione di supplicare il ritorno, quando sarebbe venuto il momento) è ciò cui il poeta delle ex Ponto esorta i propri destinatari (si noti, in questi passi, il ricorrere di quel lessico del (non)­limite che abbiamo già rintracciato altrove): cfr. p. es. 1.2.63 ss., nec tamen ulterius quicquam sperove precorve, / quam male mutato posse carere loco. / aut hoc aut nihil est, pro me temptare modeste / gratia quod salvo vestra pudore queat; 1.8.69 ss., forsitan hic optes, ut iustam supprimat iram  / Caesar, et hospitium sit tua villa meum. / a! nimium est quod, amice, petis: moderatius opta, / et voti quaeso contrahe vela tui. / terra velim propior nullique obnoxia bello / detur: erit nostris pars bona dempta malis; 3.1.29 s., non igitur mirum, finem quaerentibus horum / altera si nobis usque rogatur humus; cfr. anche 2.8.63 s. (nell’ambito della preghiera rivolta alle statuette dei membri della domus imperiale), denique, quae mecum est et erit sine fine, cavete, / ne sit in inviso vestra figura loco, e il passo di 3.9.3 s. citato supra, p. 170.

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quae posuit sensum saxea facta mali;83 vos quoque felices, quarum clamantia fratres cortice velavit populus ora novo. ille ego sum, lignum qui non admittar84 in ullum; ille ego sum, frustra qui lapis esse velim. ipsa Medusa oculis veniat licet obvia nostris, amittet vires ipsa Medusa suas. vivimus ut numquam sensu careamus amaro, et gravior longa fit mea poena mora.

Il passo non è sfuggito all’attenzione della critica, che ne ha rintracciato tutto il carat­ tere «paradossale»: il poeta esule vorrebbe, ma non può, subire l’infelice destino già toccato ad alcuni dei personaggi la cui storia è stata resa oggetto di narrazione nelle Metamorfosi.85 Oltre che paradossali, tuttavia, i riferimenti ai destini di Niobe e delle Eliadi risultano in questi versi il frutto di un ragionamento decisamente contraddittorio – e mi pare che il senso profondo di questo passo si giochi proprio su questa contraddi­ zione: il poeta si lamenta del fatto che le proprie lacrime non possono avere fine (fine carent lacrimae) e, a differenza delle eroine menzionate, l’esule non può trasformarsi in una roccia o in un tronco d’albero; ma le trasformazioni di Niobe e delle Eliadi nelle Metamorfosi hanno sancito, nell’ambito delle rispettive storie, esattamente quella non­ finitezza del pianto e delle lacrime che ora Ovidio attribuisce a se stesso (cfr. met. 2.364, inde fluunt lacrimae; 6.310 ss., flet tamen … et lacrimas etiam nunc marmora manant); allo stesso modo, la sensazione di intorpidimento percepita dall’esule (stupor; et similis morti pectora torpor habet) richiama la condizione psicofisica che abbiamo già visto colpire, nel poema, i personaggi in procinto di subire la metamorfosi e, in trist. 1.3, lo

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v. l. malis (Owen). Nonostante la maggior parte dei mss. presenti il congiuntivo, gli editori più recenti accordano la loro preferenza al meno testimoniato admittor, ma i paralleli interni proposti in part. da Richmond in app. e da Gaertner 2005 ad loc. non sono del tutto convincenti (soprattutto non si spiega la necessità di distinzione rispetto al velim del v. successivo, e poco plausibile mi pare qui l’idea di un’assimilazione). Di «paradossale makarismos» parla Galasso 2008b, p. XVII (cfr. già Galasso 1987, pp. 91 s.), dove fra l’altro si nota che nel nostro testo «viene così esplicitato uno dei meccanismi fondamentali delle Metamorfosi, dove la trasformazione esclude la tragedia. […] Si tratta di una soluzione che Ovidio non può sperimentare: egli continua a vivere unicamente allo scopo di perpetuare la sua sofferenza», come Tizio menzionato nei versi immediatamente successivi. La distinzione tra il caso di Ovidio e quello dei personaggi trasformati nel poema potrebbe tuttavia nascondere qual­ che elemento problematico: cfr. quanto osservo nel testo. Tissol 2014 ad loc. giudica i riferimenti alle Metamorfosi «pointed and ironic. In that work he shaped his account of their fates as an au­ thor in full control of his materials; now he has fallen victim to a comparable fate, but worse, and his loss of control matches that of his erstwhile creations» (enfasi mia): si confrontino queste osservazioni con quanto qui notato a più riprese a proposito del difficile e inedito rapporto fra autorità politica e autorialità poetica nelle opere dell’esilio di Ovidio.

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stesso Ovidio in procinto di ‘trasformarsi’ in esule.86 Più che stabilire un contrasto tra il proprio caso e quello dei personaggi delle Metamorfosi, il passo di Pont. 1.2 finisce insomma per enfatizzare, al contrario, l’analogia che intercorre tra i destini di Ovidio, di Niobe e delle Eliadi; il poeta non potrà ‘realmente’ trasformarsi, eppure la poesia che dà voce al suo esilio è in un certo senso costretta a svilupparsi secondo dinamiche e principi pericolosamente affini a quelli che hanno reso l’universo delle Metamorfosi un mondo senza fine, o piuttosto segnato da fini soltanto apparenti. La poesia dell’e­ silio di Ovidio sembra anzi, in questo senso, il frutto della selezione di una delle storie narrate nel poema metamorfico (che il destino di Ovidio abbia il diritto di entrare a far parte dell’opera sulle forme mutevoli il lettore sa fin da trist. 1.1.119 ss.), di cui il po­ eta segue lo svolgimento dopo la cesura rappresentata dalla metamorfosi: possiamo immaginare che in termini non molto dissimili da quelli impiegati dall’esule in Tristia ed ex Ponto si sarebbero espresse Niobe e le Eliadi, se il poeta delle Metamorfosi avesse voluto proseguire il racconto delle loro lacrimevoli storie dopo la trasformazione.87 La dimensione temporale all’interno della quale Ovidio si colloca anche nell’episto­ la a Fabio Massimo è così una dimensione segnata da una lunga, interminabile attesa (et gravior longa fit mea poena mora). Il medesimo nesso è nuovamente utilizzato nella terza lettera della raccolta, la già menzionata epistola a Rufino (cfr. vv. 25 s., cura quoque interdum nulla medicabilis arte est, / aut, ut sit, longa est extenuanda mora). In Pont. 1.4 – un’epistola indirizzata alla moglie, ciò che tuttavia si scopre soltanto al v. 45, circostanza che inizialmente suscita nel lettore l’impressione di un ritorno all’anoni­ mato dei Tristia88  – l’esule parla della propria sofferenza nei termini di un continuus (v. 8), inmodicus labor (v. 22), laddove i dieci anni che in trist. 5.10 all’esule pareva di aver ormai trascorso a Tomi si sono infinitamente moltiplicati (vv. 9 s.): nam mea per longos siquis mala digerat annos, / crede mihi, Pylio Nestore maior ero.89 Ancora, in Pont. 1.5, a Cotta Massimo, le immagini nuovamente statiche con cui si apre l’epistola descrivo­ no la ‘staticità’ dell’esilio, la sua collocazione in una dimensione temporalmente inerte

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Cfr. supra, p. 49; il caso di Niobe rappresenta d’altronde il paradigma della metamorfosi per pietri­ ficazione: cfr. met. 6.301 ss., orba resedit … deriguitque malis … lumina maestis / stant immota genis; nihil est in imagine vivum etc.; cfr. Pianezzola 1999, pp. 30 ss. A Niobe e alle Eliadi è tuttavia sottratta, nel poema, la possibilità di parlare (sul motivo della «speechlessness» nelle Metamorfosi si veda soprattutto Natoli 2017), ciò che appunto distingue il loro destino da quello del poeta, che al contrario è in grado di continuare i propri (infiniti) lamenti dopo la metamorfosi rappresentata dalla condanna: cfr. ancora supra, p. 51. A meno che, come fanno alcuni codici (e alcuni editori), alle singole lettere non venga premesso il nome del destinatario (nel caso di Pont. 1.4, l’indicazione ‘uxori’), ciò che tuttavia non sembra possibile ricondurre a Ovidio: cfr. Richmond 1990, p. XVII. Sull’analogia dell’incipit di Pont. 1.4 rispetto a quello di «many letters in the Tristia», cfr. Tissol 2014, p. 103. Ovidio potrebbe così riuscire nell’ardua impresa di sopravanzare l’età di Augusto: in trist. 5.5.62 e Pont. 2.8.41, la proverbiale longevità di Nestore costituisce l’augurio dell’esule per Augusto; in met. 15.868 ss. la lunga invocazione del poeta si era conclusa con la preghiera agli dei perché il giorno dell’accesso del princeps al cielo avvenisse tarda … et nostro serior aevo.

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(vv. 7 s., et mihi siquis erat ducendi carminis usus, / deficit estque minor factus inerte situ);90 in questa epistola Ovidio torna a parlare della difficoltà di praticare buona poesia in circostanze simili: l’intenzione del poeta non è del resto nemmeno quella di comporre una poesia curata e rifinita, ma di trovare un senso a un’esistenza altrimenti identica alla morte (vv. 43 s., quid potius faciam? non sum, qui segnia ducam / otia: mors nobis tempus habetur iners). Così, ai carmi dell’esilio non è riconosciuta alcuna utilitas (vv. 53 s., cum bene quaesieris quid agam, magis utile nil est / artibus his, quae nil utilitatis habent): un’affermazione che si pone in aperto contrasto con quanto Ovidio dichiarerà nel già citato passo di Pont. 3.9, l’epistola che chiuderà la collezione; nei versi finali di Pont. 1.5, d’altronde, il poeta fa mostra di sospettare che i suoi carmi non riescano nemmeno a giungere istuc, cioè a Roma (v. 71, nec reor hinc istuc nostris iter esse libellis), fingendo così di nutrire una scarsa fiducia nelle potenzialità ‘spaziali’ dell’epistola, quali abbiamo al contrario sopra rilevato.91 Per concludere il rapido sondaggio sulla ‘presenza assente’ della fine nel primo li­ bro della nuova collezione, anche Pont. 1.10 – l’epistola a Flacco che apparentemente conclude la prima silloge, cui tuttavia si accompagnano fin dall’inizio i due libri suc­ cessivi – fornisce alcuni spunti interessanti, a cominciare dall’osservazione per cui ad­ dirittura il processo digestivo del poeta ammalato è detto ritardare (vv. 13 s., non tamen exacuet torpens sapor ille palatum, / stabit et in stomacho pondus inerte diu). Lo stato di inerzia che abbiamo visto ripetutamente lamentato dal poeta nel corso di queste prime epistole sconfina ancora una volta nel discorso metaletterario: in Pont. 1.10.23 s.

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In Pont. 3.1.11 ss. il ciclo delle stagioni è dichiarato completamente inesistente a Tomi (Ovidio si rivolge direttamente alla Pontica tellus): tu neque ver sentis cinctum florente corona, / tu neque messorum corpora nuda vides; / nec tibi pampineas autumnus porrigit uvas, / cuncta sed inmodicum tempora frigus habet; questa descrizione individua senza dubbio un peggioramento della percezione del poeta rispetto alla situazione offerta dai Tristia, dove i cicli della natura (per quanto deboli) scandivano l’invio dei diversi libri della collezione: cfr. supra, pp. 127 s.; potremmo collegare que­ sto peggioramento nella percezione del passaggio del tempo a un aspetto già evidenziato delle ex Ponto, il fatto cioè che anche l’esule, in quest’opera, ha compromesso il proprio stesso ‘ciclo di composizione’ fondato sull’invio di un libro all’anno. La sezione finale di Pont. 1.5 (epistola interamente dedicata alla trattazione di temi letterari e alla riflessione sul ruolo della poesia nelle difficili condizioni dell’esilio) rielabora insomma temi e im­ magini sfragistici secondo una prospettiva segnata da una (apparente) disillusione circa i poteri di ‘espansione’ – nello spazio e nel tempo – della nuova poesia di Ovidio: nella posizione marginale in cui si trova, l’esule considera ‘Roma’ il luogo da cui compone (vv. 67 s., quo mihi diversum fama contendere in orbem? / quem Fortuna dedit, Roma sit ille locus); di conseguenza, la ‘vera’ Roma fini­ sce per occupare la posizione estrema che nei testi sfragistici solitamente occupano le località ai confini del mondo che pure la poesia è in grado di raggiungere: cfr. vv. 73 ss. I vv. 79–82 sono so­ spettati da alcuni editori (Richmond, Gaertner; l’espunzione del secondo distico risale a Bentley), ma la loro genuinità potrebbe forse risultare dal confronto, nei termini qui accennati, con un testo quale Hor. carm. 2.20; quanto all’altius del v. 81 («questionable, because distance, not height above the earth, is the point of comparison denoted by distantia longe | Pleiadum … signa»: Tissol 2014 ad loc., che appoggia il latius proposto da Kenney e Harrison), mi pare colga nel segno Helzle 2003 ad loc. (pace Gaertner), senza contare la possibilità di un richiamo ironico a Hor. carm. 3.30.2.

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l’esule afferma di non riuscire a prender sonno, al punto che egli non sembra poter beneficiare nemmeno della minima scansione temporale determinata dall’alternanza giorno/notte (sed vigilo vigilantque mei sine fine dolores, / quorum materiam dat locus ipse mihi) – una versione triste della agrypnia di neoterica memoria, votata in questo caso alla trattazione di una materia poetica senza dubbio meno attraente.92 La lettera si conclude con una dimostrazione di riconoscenza all’indirizzo di Flacco e del fratello Grecino, la cui premura nei confronti dell’esule ha garantito finora la sua sopravvivenza (vv. 37 s., haec nisi tu pariter simili cum fratre levares, / vix mens tristitiae nostra tulisset onus); la fine scongiurata grazie all’aiuto ricevuto si traduce quindi nell’esortazione a dare continuità a questo aiuto, di cui Ovidio si dichiara tuttora bisognoso (vv. 41 ss.): ferte, precor, semper, quia semper egebimus illa [scil. ope] Caesaris offensum dum mihi numen erit: qui meritam nobis minuat, non finiat, iram, suppliciter vestros quisque rogate deos.

I versi conclusivi di Pont. 1 possono essere idealmente indirizzati, oltre che a Flacco e a Grecino, a tutti i destinatari finora apostrofati nel corso della nuova opera: la richiesta del poeta è sì quella di continuare a seguire il processo segnato dalla collera di Augusto (offensum dum  … numen erit), la cui fine ‘definitiva’ è tuttavia tanto enfaticamente esclusa dalle possibilità di conseguimento – come di norma nelle ex Ponto – quanto contemporaneamente disattesa è la fine dell’opera di cui così si conclude appena il primo libro.93 La richiesta che in Pont. 1.10 Ovidio rivolge ai suoi destinatari può essere posta in relazione con l’analoga esortazione che l’esule ha inizialmente rivolto alla moglie al termine di trist. 1.3, dove – come abbiamo visto – la donna era invitata a prestare un simile aiuto ‘continuativo’, mostrandosi in grado cioè di seguire il medesimo processo temporale nell’arco del quale il poeta sperava potesse consumarsi la collera del princeps. Abbiamo anche detto che nelle ex Ponto il poeta attua una sorta di riformulazione ‘al ribasso’ del segmento temporale di cui i destinatari sono chiamati a seguire lo svolgi­ mento: l’obiettivo da considerarsi come ‘finale’ non è più costituito dal ritorno a Roma e, quindi, dal termine dell’esilio, bensì dal trasferimento in un luogo meno ostile – ciò di cui il poeta dichiara ora di potersi, o di doversi, accontentare. Questa differenza tut­ 92 93

Su questi temi, cfr. Merli 2013, pp. 41 ss. Si può confrontare questo finale di primo libro, in cui appunto si parla di una ‘non­fine’, con i versi finali di trist. 1, dove la conclusione del libro è annunciata con una certa enfasi dal poeta in balia della tempesta: cfr. supra, p. 39; può essere richiamato, ora come allora, il parallelo offerto da her. 18.203 s., desino, parce queri; sed ut et mare finiat iram, / accedant, quaeso, fac tua vota meis, versi che possono essere considerati, da un lato, un’appropriata introduzione all’epistola di Ero imme­ diatamente seguente (accedant … fac tua vota) e, dall’altro, come ironicamente tragico annuncio della ‘fine’ stessa dell’eroe, dovuta alla circostanza per cui il mare non avrà affatto «terminato» la sua collera.

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tavia non compromette il fatto che anche nella seconda opera dell’esilio, come si è anticipato, Ovidio collochi la produzione ‘in corso’ nell’ambito di un tempo sostan­ zialmente intermedio e provvisorio, intimamente caratterizzato cioè da una durata di cui il poeta intravede, o per lo meno indica come possibile, un limite conclusivo, per quanto questo limite non possa ormai più identificarsi con la fine tout court dell’esilio. Ciò su cui vorrei ancora soffermarmi, e che a mio avviso rappresenta un ulteriore ele­ mento sulla cui base si rende possibile valutare l’evoluzione della produzione tomitana del nostro autore, risulta in sostanza il fatto che al fine di seguire questo processo – e al fine di esortare i propri destinatari a seguirlo – Ovidio sceglie, nella più recente opera dell’esilio, una forma letteraria, l’epistola, che costitutivamente intrattiene (o può intrattenere, perlomeno nel modo in cui essa è concepita e sfruttata nelle ex Ponto) uno speciale rapporto con una dimensione temporale descrivibile come intermedia, non soltanto perché l’epistola si colloca – spazialmente, ma anche temporalmente – in una posizione ‘mediana’ fra mittente e destinatario, ma anche perché attraverso di essa Ovidio riesce a dare voce a una attesa (la mora epistolare) che la lettera in quanto mezzo di comunicazione sostitutivo rispetto al dialogo si rende capace di esprimere in modo particolarmente adeguato (nella paradossale, ‘cronica’ inadeguatezza, tutta­ via, puntualmente riconosciuta al testo scritto rispetto alla conversazione orale).94 Gli studi sull’epistolarità hanno mostrato tutta l’inestricabile complessità che il testo epi­ stolare – e a maggior ragione la collezione, e ancor di più il romanzo – sono in grado di generare dal punto di vista dei differenti piani temporali di cui ogni volta l’autore di una lettera è chiamato a tener conto: il passato (richiamato) degli eventi, il presen­ te (spesso ‘inscenato’, cioè auto­rappresentato) della scrittura, il futuro (atteso) della 94

Sulla temporalità epistolare sono da vedere ancora una volta le fondamentali osservazioni di Alt­ man 1982, pp. 117 ss. (riprese in sintesi, fra gli altri, anche in de Pretis 20042, pp. 146 s.): partico­ larmente interessanti per il nostro discorso sono le pagine che la studiosa dedica alla «temporal relativity» e alla «temporal polyvalence» dell’epistola; la scrittura epistolare si distingue per il rapporto privilegiato che essa instaura con il tempo presente: «the letter writer is highly conscious of writing in a specific present against which past and future are plotted»; la distanza rispetto al destinatario, tuttavia, il cui ‘presente di lettura’ non si identifica con il ‘presente di scrittura’ del mittente, rende paradossalmente ‘inafferrabile’ il presente in cui l’epistola si colloca: «Janus­like, epistolary language is grounded in a present that looks out toward past and future […] For the letter writer is ‘absent’  – removed, however slightly, from his addressee and from the events to which he refers. The present is as impossible to him as ‘presence’». La natura ‘intermedia’ della comunicazione epistolare si misura così nello sforzo, realizzato dalla lettera, di riprodurre una pre­ senza, necessariamente illusoria, di passato e futuro: «memory and expectation keep the addres­ see present to the imagination of the writer, whose narrative (erzählte Zeit) and narration (Erzählzeit), through a frequent oscillation between past and future, likewise seize the present through illusion». Sulla «standard manipulation of the deictic system» nella scrittura epistolare (inclusi i riferimenti allo spazio e al tempo), si veda anche Fitzmaurice 2002, pp. 38 ss. Quanto alla mora epistolare, essa è tematizzata, in modo particolarmente evidente, nello scambio epistolare fra Ero e Leandro nelle Heroides: cfr. Rosati 1996, p. 17 sullo «spazio vuoto e immobile dell’attesa» in cui si inserisce lo scambio epistolare (e sono da vedere anche le note di commento ai distici finali delle due lettere).

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lettura e della risposta.95 Il carattere intimamente ‘aperto’ del testo epistolare che ab­ biamo riconosciuto alle ex Ponto è una caratteristica che deriva anche dal particolare statuto dell’epistola in quanto testo collocabile in un continuum, in un flusso temporale che presuppone un ‘prima’, considera un ‘adesso’ e attende un ‘poi’ – un seguito che anzi le lettere di Ovidio si propongono di sollecitare. Anche in questo si misura, a mio avviso, una (grossa) parte della differenza fra la prima e la seconda opera dell’esilio, fra Tristia ed ex Ponto, pur nell’analogia di fondo della situazione esistenziale e poe­ tica che l’esule affronta: il tempo intermedio dell’attesa, che abbiamo visto segnare le raccolte di Tristia progressivamente inviate nell’arco di uno spazio idealmente limitato che questi libri si impegnavano a ‘occupare’, risulta ora sistematicamente (e forse più coscientemente) misurato dal tempo intermedio dell’epistola, di una tipologia testuale che ostenta la propria contingenza – il proprio legame cioè con un tempo ‘circondato’ da un prima e da un dopo (da cui la definizione della lettera come ‘testo chiuso’ cui abbiamo già fatto riferimento) e però inesorabilmente proiettato verso quel futuro (ciò che al contrario parla a favore dell’apertura che contraddistingue il testo epistolare).96 Nella sistematica introduzione della forma epistolare nelle ex Ponto, e nel suo impiego all’interno di una collezione, possiamo insomma individuare, ancora una volta, una riproposizione inedita e per certi aspetti ancor più drammaticamente consapevole del contrasto, già sperimentato nei Tristia, fra limite e continuazione, temporalità lineare e temporalità ciclica, tempo provvisorio dell’attesa e tempo eterno della condanna. Un buon esempio dell’interazione fra i differenti piani temporali di cui si fa portavo­ ce l’epistola, collocabile a sua volta in un frangente che possiamo definire ‘intermedio’, è ciò che troviamo in Pont. 2.4. Rivolgendosi ad Attico, cui si chiede di accogliere il conloquium rappresentato dall’epistola stessa, l’esule occupa la maggior parte del compo­ nimento con una serie di ricordi che rievocano il passato rapporto di amicizia fra i due amici, ciò che deriva direttamente dall’iniziale domanda a proposito del ricordo che è 95 96

Cfr. p. es. Rosati 2005, pp. 160 s. L’applicazione alle opere dell’esilio di Ovidio di definizioni e categorie elaborate dagli studi sul romanzo epistolare di età moderna deve necessariamente tenere conto delle sostanziali differenze fra le une e le altre opere, misurabili in particolare nella problematica qualifica (bisognosa perlo­ meno di qualche specificazione) delle raccolte ovidiane quali ‘testi narrativi’, per cui cfr. supra, p. 18; si confrontino tuttavia le seguenti osservazioni di Altman 1982, p. 124 sui romanzi epistolari di Richardson: «Pamela and Clarissa write under the constant threat of danger […]. Their much­ portrayed time of narration […] serves to emphasize the instability of their present, the imminent danger that threatens to interrupt the writing totally […]. Hence, the importance […] of the letter as a cry for help, not just a recording of past dangers. This sense of immediacy, of a present that is precarious, can only exist in a world where the future is unknown». Il «mondo dove il futuro è ignoto» è naturalmente, nel caso di Richardson, quello in cui vivono le eroine dei suoi romanzi: lo stesso si potrebbe dire per le protagoniste delle Heroides (opera che non per caso sarà da conside­ rare fra i principali modelli per Richardson e non solo), in opposizione alla conoscenza della storia da parte dell’autore; ma nel caso del fin troppo ‘reale’ mondo di Tomi Ovidio sperimenta la mede­ sima ‘ignoranza del futuro’, quella che precisamente gli impedisce di sapere se le proprie raccolte di poesia triste (la propria ‘storia’), terminato l’esilio, potranno a loro volta finalmente terminare.

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Attico a dover conservare (vv. 3 s., ecquid adhuc remanes memor infelicis amici, / deserit an partis languida cura suas?). L’epistola è così quasi interamente occupata da verbi coniugati al passato – dopo il recordor del v. 9, sono i verbi dei vv. 11 ss. A partire poi dal v. 23, Ovidio torna a esprimere tutta la propria fiducia, attraverso uno dei canonici adynata, circa la possibilità che l’amico conservi tuttora il suo ricordo (non ego, si biberes securae pocula Lethes, / excidere haec credam pectore posse tuo); ma perché il poeta in esilio possa essere sicuro che ciò sia effettivamente vero, Attico è esortato a mantenere la propria amicizia per il futuro (vv. 31 ss., ne tamen haec dici possit fiducia mendax / stultaque credulitas nostra fuisse, cave, / constantique fide veterem tutare sodalem, / qua licet et quantum non onerosus ero). Pont. 2.4 si rende così un’ottima illustrazione, fra le altre, della temporalità lineare su cui si sviluppano le Epistulae: la dinamica passato­ presente­futuro si dipana nel corso stesso della lettera. L’assenza di ‘chiusura’ è dimo­ strata dal fatto che nei versi finali l’iniziativa è necessariamente affidata al destinatario, al quale spetta la responsabilità di continuare il rapporto di amicizia (constanti … fide)  – invito che attribuisce all’epistola quel carattere ‘aperto’ più volte richiamato. L’ideale riproposizione di uno schema simile in tutte le epistole della collezione fa sì che alla dinamica lineare appena individuata si accompagni il movimento ciclico della ripetizione. Anche in Pont. 2.2, l’epistola a Messalino che abbiamo già menzionato, può essere rintracciato un analogo movimento lineare e un’analoga collocazione da parte dell’esu­ le nel tempo intermedio dell’attesa, laddove il conseguimento dell’eventuale ‘conclu­ sione’ è ancora una volta riconosciuto come esclusivo appannaggio del destinatario, risultando così al di fuori della portata del poeta, costretto ad attendere un risultato giudicabile come ‘finale’ che altri sono chiamati a ottenere. A collocarsi nello spazio del passato che l’epistola è in grado di coprire è questa volta, oltre che il rapporto di amicizia con il destinatario (richiamato fin dal primo verso: ille domus vestrae primis venerator ab annis), anche la circostanza della condanna subita: Ovidio ricorda, come al solito, che il proprio gesto non rientra nella casistica del nefas, ma ha in ogni caso ge­ nerato la giusta collera di Augusto e, di conseguenza, anche di Messalino (vv. 19 s., esse quidem fateor meritam post Caesaris iram / difficilem precibus te quoque iure meis). Come risulta da questi versi, la reazione del patrono di fronte alla culpa del poeta ha ripro­ dotto la reazione del princeps, secondo un’imitazione che si fa specchio della relazione gerarchica e del rapporto di lealtà tra le due figure (v. 22, te laedi, cum quis laeditur inde, putas). Attraverso la lettera, Ovidio sta tuttavia cercando di rendere meno ‘credibile’ l’ira di Messalino, in virtù della sua mitezza (vv. 23 s., sed licet arma feras et vulnera saeva mineris, / non tamen efficies ut timeare mihi; Messalino è apostrofato come mitissime al v. 39): secondo un movimento simmetrico rispetto a quello appena rintracciato (dal basso verso l’alto, mentre prima era la reazione di Augusto a riverberarsi su Messali­ no e quindi a precipitare sul poeta), Ovidio spera che il patrono possa ottenere dal princeps il medesimo affievolimento dell’ira che il poeta si aspetta di aver ottenuto da

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lui.97 La funzione mediatoria dell’epistola tra l’esule e il patrono deve ‘proseguire’ nella mediazione di Messalino presso Augusto: il destinatario della lettera, esplicitamente definito legatus (v. 43) nonché sacerdos (v. 123), deve cioè ‘impersonare’ l’epistola stes­ sa, riproducendone la funzione e facendosene a sua volta portavoce.98 Dal punto di vista temporale, la lettera si divide così fra la memoria del passato, l’esortazione del presente, l’attesa per il futuro, un’attesa che risulta fin d’ora giustificata dal particolare frangente temporale, dalla contingenza nella quale essa si colloca: ai vv. 67 ss. Ovidio mostra a Messalino tutta l’opportunità di sfruttare il momento giusto – quello attuale – per riferire ad Augusto le suppliche dell’esule, poiché la domus imperiale sta attraver­ sando un periodo particolarmente felice in virtù della buona salute dei suoi membri e dei successi militari di Tiberio (tempus adest aptum precibus: valet ille videtque, / quas fecit vires, Roma, valere tuas). Il «tempo della festa»99 è il tempo che tenta di cogliere l’epistola, sollecitando il destinatario al medesimo gesto; la lettera dell’esule rivela così il proprio legame con l’occasione e si inserisce nello spiraglio di un momento preciso, da cui può dipendere – se Messalino lo vorrà – un cambiamento per il futuro. Si tratta di un ‘inserimento’ che il poeta rende esplicito anche in altre epistole, in particolare nelle lunghe e importanti Pont. 3.1 e 3.3.100 Come è stato riconosciuto in generale proprio della modalità epistolare, anche la contingenza che segna le epistole di Ovidio dal Ponto si caratterizza dunque per esse­ re «vibrant with future­orientation»:101 l’ideale linea temporale nel cui intermezzo le lettere si collocano punta decisamente verso un ‘poi’ di cui il poeta è (perennemente)

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Un movimento analogo ha coinvolto il fratello di Messalino, Cotta Massimo, come si apprende dall’adiacente Pont. 2.3.61 ss.: il processo di affievolimento dell’ira di Cotta è il medesimo processo che – come abbiamo già visto nei Tristia – Ovidio spera possa toccare al deus laesus Augusto. È interessante che anche Cotta venga in qualche modo ‘inglobato’, attraverso lo scambio epistolare intrattenuto con l’esule, entro il medesimo tempo di attesa/speranza (v. 68, spem dare) cui Ovidio dà voce nelle opere dell’esilio: cfr. infra sull’inno a Spes di Pont. 1.6. 98 Per il parallelo offerto dalla figura di Vinnio in Hor. epist. 1.13, cfr. supra, p. 156 n. 24. 99 Cfr. Fraschetti 20052, pp. 9 ss. sulla ‘appropriazione’ del tempo festivo della città da parte del princeps; sul carattere problematico delle affermazioni di Ovidio nel contesto storico del periodo, e in particolare dell’insistenza sulla ‘buona salute’ dei membri della domus, cfr. la mia analisi di Pont. 2.1 in Galfré 2020. 100 Testi in cui va nuovamente rilevato l’impiego delle frasi temporali introdotte da cum e dum, ciò che manifesta il carattere contingente e la ‘provvisorietà’ del tempo dell’attesa nel quale si inseriscono la singola epistola e più in generale la poesia di Ovidio a Tomi: Pont. 3.1.133 ss. (questo passo è a mio avviso un esempio emblematico di quello sforzo, che abbiamo sopra detto essere tipico del testo epistolare, di rendere presente il futuro: Ovidio esorta la moglie ad attendere un momento che è in realtà già quello durante il quale la donna sta leggendo la lettera); 3.3.83 ss. (a Fabio Massimo; ma queste sono le parole che, in sogno, Ovidio si è sentito rivolgere dal dio Amore!). La capacità di cogliere il momento giusto tentata dalle lettere dell’esule è del resto compromessa dalla grande distanza, che rende molto difficile l’arrivo per tempo a Roma di ciò che l’esule invia dal Ponto: è il problema cui Ovidio dedica, fra l’altro, Pont. 3.4; più in generale, sulla «variabile ‘imperiale’» rappresentata dalla festinatio nelle opere ovidiane dell’esilio, cfr. ancora Merli 2013, pp. 57 ss. 101 Altman 1982, p. 124.

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in attesa – un’attesa che, come già nei Tristia, è costantemente sottoposta al rischio di farsi lunghissima, e infine eterna. In Pont. 2.6 l’esule esorta Grecino a mantenersi fedele a lungo, così che a lungo possa durare il ricordo del suo nome consacrato nel carmen del poeta stesso (vv. 33 ss., crede mihi, nostrum si non mortale futurum est / carmen, in ore frequens posteritatis eris. / fac modo permaneas lasso, Graecine, fidelis, / duret et in longas impetus iste moras): una fedeltà che dura è garanzia di eternità per l’amico, ma le longae morae che Ovidio sta sperimentando a Tomi sono per l’esule sinistro segno di tutt’altra eternità, quella della condanna. Nell’epistola successiva, il poeta si dichiara rassegnato a veder proseguire in una direzione ben precisa i cursus, la ‘linea’ biografica segnata dai suoi fata (2.7.17 s., iam mihi fata liquet coeptos servantia cursus / per sibi consuetas semper itura vias), un’immagine ripresa nel distico finale, dove la spes di cui il poeta ha parlato al v. 79 lo induce a invitare Attico a «mantenere la rotta» intrapresa (vv. 83 s., coepta tene, quaeso, nec in aequore desere navem, / meque simul serva iudiciumque tuum). Alla dea Spes Ovidio ha del resto dedicato un vero e proprio inno in un’altra epistola a Grecino, Pont. 1.6 (cfr. vv. 29 ss.): a questa dea si deve, fra l’altro, la decisione di conti­ nuare a vivere nonostante l’assenza di apparenti motivi per farlo (vv. 33 s., haec facit ut, videat cum terras undique nullas, / naufragus in mediis bracchia iactet aquis); la posizione ‘intermedia’ del naufrago «in mezzo al mare» è la posizione di Ovidio a Tomi, e allo stesso Ovidio va del resto ricondotto l’analogo rifiuto di «terminare» la propria vita in virtù della speranzosa attesa di vedere placata la principis ira (vv. 41 ss.): me quoque conantem gladio finire dolorem arguit iniecta continuitque manu, [scil. haec dea] ‘quid’que ‘facis? lacrimis opus est, non sanguine’ dixit, ‘saepe per has flecti principis ira solet.’

Speranza è così la dea che non soltanto ha allontanato l’esule dal suicidio, ma ha fatto sì che a una fine rinunciasse anche il lacrimosum carmen dell’esilio.102 Combattute fra il tentativo di cogliere il momento contingente e la necessità di con­ tinuare a coglierlo per sempre, le Epistulae ex Ponto esprimono, in un modo del tutto peculiare e – soprattutto – differente rispetto ai Tristia (nuovo e non­nuovo, si potreb­ be dire), tutta la drammatica forza del contrasto fra le differenti dimensioni temporali che ne segnano la composizione. Il tempo dell’attesa è il tempo nel corso del quale si consuma l’ossimoro che vede il poeta sollecitare e disattendere la fine, sperarla e temer­ la insieme, nella circostanza di dover affrontare poeticamente un’esperienza biografica 102

Su questi versi si veda in part. Fulkerson 2018, p. 64, dove fra l’altro si nota che «Ovid’s notion of hope as a last resort […] strikes a strikingly modern tone which is not much found elsewhere in ancient literature». In uno studio sul concetto di speranza nelle Metamorfosi, Fulkerson 2017 rin­ traccia una differenza sostanziale rispetto all’Eneide nel fatto che nel poema ovidiano «spes fulfills no plot­advancing function» (p. 221), una caratteristica che è ricollegata in parte alla familiarità di Ovidio con l’elegia, «a genre which is predicated upon the implausible, perhaps even pathetic hopes of the amator that never materialize, or never permanently» (p. 229).

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del tutto straordinaria, per la quale gli esempi finora forniti dai modelli letterari (che siano gli intrepidi eroi dell’epica o le lamentose eroine del mito) manifestano inesora­ bilmente la propria intrinseca inadeguatezza, fatta eccezione – forse – per i personaggi che hanno al contrario popolato il mondo delle Metamorfosi; ma la non­finitezza dei loro destini non è certo la dimensione nella quale il poeta esiliato avrebbe voluto a tutti i costi precipitare. Concludendo l’esame di Pont. 1–3, vorrei infine gettare uno sguardo sui due componimenti che in diverso modo costituiscono un’eccezione nel panorama della collezione, ai quali è assegnata una posizione di per sé interessante, vicina alla conclusione della raccolta eppure in certo modo distante: Pont. 3.6 e 3.7.103 In Pont. 3.6 Ovidio si rivolge a un anonimo che non vuole vedere il proprio nome incluso nella collezione di lettere; il ritorno a una situazione ‘simmetrica’ rispetto ai Tristia – dove, come si è visto, ai destinatari era piuttosto attribuita la volontà (fru­ strata) di farsi nominare – viene presentato come del tutto ‘fuori tempo’ (vv. 5 s., cur tamen, hoc aliis tutum credentibus, unus, / adpellent ne te carmina nostra, rogas?). Collo­ cato verso la fine della raccolta epistolare, il componimento si ricollega così a Pont. 1.1, formulando – dopo la messa in atto del gesto potenzialmente sgradito ai destinatari, costituito dal fatto che l’esule li ha effettivamente nominati in tutte le epistole finora lette – ogni rassicurazione del caso circa il permesso accordato da Augusto a questo proposito (vv. 11 ss., non vetat ille sui quemquam meminisse sodalis, / nec prohibet tibi me scribere teque mihi … cur, dum tuta times, facis ut reverentia talis / fiat in Augustos invidiosa deos?).104 A riprova della necessità di accantonare ogni motivo di timore, il poeta ricorda all’anonimo che gli dei, Augusto compreso, non adottano mai provvedimenti punitivi estendibili all’infinito (vv. 21 s.): crede mihi, miseris caelestia numina parcunt, nec semper laesos et sine fine premunt.

L’affermazione si pone naturalmente in aperto contrasto con l’esperienza personale finora vissuta dall’esule, tanto che – possiamo credere – queste parole sono interpre­ tabili, più che come l’espressione di una certezza, come la formulazione di un (ennesi­ mo) augurio: si tratta ancora una volta di un non troppo velato invito rivolto al princeps Su cui si consulteranno utilmente i comm. ad loc. di Pérez Vega 2000, Green 20052, Galasso 2008b e Formicola 2017; cfr. inoltre, sulla particolarità variamente manifestata da questi componimenti, Davisson 1981, p. 20; Wulfram 2008, pp. 239 s. (dove si difende l’epistolarità di entrambi); Formico­ la 2014 (con ulteriore bibliografia). 104 Questa rassicurazione si pone naturalmente come una sorta di ‘ricatto’ indirizzato allo stesso Augu­ sto, la cui eventuale reazione contraria rispetto a quella descritta è in qualche modo impedita e scon­ giurata in anticipo, dal momento che essa finirebbe per compromettere la clementia riconosciutagli da Ovidio (vv. 7 s., quanta sit in media clementia Caesaris ira, / si nescis, ex me certior esse potes); cfr. Green 20052, p. 345: «this poem cannot be acquitted of a certain degree of covert malice on Ovid’s part against his tormentors»; sulla retorica sfruttata in questa lettera si veda in part. Galasso 2013. Cfr. inoltre l’osservazione di Oliensis 1997, p. 179, che definisce Pont. 3.6 «a self­reflexive hold­over from the Tristia in which Ovid reproaches a friend for his anachronistic insistence on anonymity». 103

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perché rispetti la consuetudine al ‘limite’ manifestata dagli altri dei, menzionati nei versi precedenti e successivi.105 È interessante il fatto che, a fronte del limite non ancora attribuito da Augusto alla condanna, è il poeta ad auto­limitare, momentaneamente, il proprio desiderio di nominare l’amico timoroso (vv. 51 ss., hactenus admonitus memori concede poetae / ponat ut in chartis nomina cara suis … ne tamen iste metus somnos tibi rumpere possit, / non ultra, quam vis, officiosus ero).106 Il limite che Ovidio impone alla singola epistola ora menzionata diventa tuttavia ben più generalmente decretato, non senza accenti di grave sofferenza, nel componi­ mento immediatamente successivo: Pont. 3.7 non è un’epistola, non soltanto perché non ha uno specifico destinatario, ma perché si pone come uno sfogo del tutto improv­ viso circa l’inutile ripetitività della poesia di cui il lettore delle ex Ponto ha finora avuto esperienza (vv. 1 ss.): verba mihi desunt eadem tam saepe roganti, iamque pudet vanas fine carere preces. taedia consimili fieri de carmine vobis, quidque petam cunctos edidicisse reor; nostraque quid portet iam nostis epistula, quamvis 5 cera sit a vinclis non labefacta meis. ergo mutetur scripti sententia nostri, ne totiens contra, quam rapit amnis, eam. quod bene de vobis speravi, ignoscite, amici: talia peccandi iam mihi finis erit. 10 […] venimus in Geticos fines: moriamur in illis, Parcaque ad extremum qua mea coepit eat. 20 […] prox imus huic gradus est bene desperare salutem, seque semel vera scire perisse fide. […]

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In questi versi si ricorda tra l’altro l’istituzione da parte di Augusto, avvenuta nel gennaio del 13, del culto di Iustitia, ciò che viene interpretato dal poeta come segno della moderazione del princeps: vv. 23 s., principe nec nostro deus est moderatior ullus: / Iustitia vires temperat ille suas. È curioso constatare che il ‘freno’ imposto da Augusto alle proprie stesse vires attraverso Giustizia sembra contravvenire alla volontà del poeta, condannato appunto ‘giustamente’ (cfr. vv. 9 s., huic ego, quam patior, nil possem demere poenae, / si iudex meriti cogerer esse mei), laddove nelle opere dell’esilio Ovidio spera nel superamento della giustizia cui il princeps è autorizzato in virtù della propria clementia: su questi temi, cfr. supra, pp. 70 s. 106 Cfr. Galasso 2008b, p. 295: «in questa elegia Ovidio dà l’impressione di voler giungere ai limiti di quanto gli è consentito dal sistema che egli stesso ha costruito. La negazione della caratteristica principale delle Epistulae ex Ponto, l’enunciazione del nome del destinatario, non può non produr­ re un risultato paradossale» (enfasi mia).

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cur ego concepi Scythicis me posse carere finibus et terra prosperiore frui? cur aliquid de me speravi lenius umquam? an fortuna mihi sic mea nota fuit? torqueor en gravius, repetitaque forma locorum ex ilium renovat triste recensque facit. est tamen utilius studium cessasse 107 meorum, quam, quas admorint, non valuisse preces. magna quidem res est, quam non audetis, amici: sed si quis peteret, qui dare vellet, erat. dummodo non nobis hoc Caesaris ira negarit, fortiter Euxinis inmoriemur aquis.

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Il componimento ha suscitato una certa attenzione fra gli studiosi per il suo carattere peregrino, e soprattutto per la completa disperazione cui l’esule sembra dare voce: chi tuttavia ha voluto rintracciarne, in un senso o nell’altro, l’esternazione di un ‘sentimen­ to autentico’ da parte del poeta – Ovidio era veramente deluso dal (non)­operato di moglie e amici a fronte delle richieste così incessantemente formulate nelle ex Ponto?  – potrebbe risultare in certa misura coinvolto nel gioco del poeta stesso, che in questa elegia si rivolge certo agli amici (vv.  9 e 37) finora apostrofati nelle epistole, ma ammicca al lettore dell’intera collezione costituita da Pont. 1–3, che molto più dei destinatari individuali delle singole lettere ha avuto prova degli eadem (v. 1), della ci­ clica ripetizione degli stessi argomenti – ciò che il poeta si occuperà di rivendicare di qui a poco, in Pont. 3.9 (v. 1, quod sit in his eadem sententia, Brute, libellis …; sotto il segno della «identità» degli argomenti si è del resto collocata l’intera opera nuova dal Ponto: cfr. Pont. 1.1.17, rebus idem).108 La stizzita tirata di Pont. 3.7 si dimostra così, 107 v. l. cessare (Owen). 108 Burnikel 1990, p. 162 s. si impegna a illustrare il fatto che questo componimento si rivela «ein Ge­ dicht der Enttäuschung und Desillusionierung, aber auch der trotzigen Selbstbehauptung und des Neuansatzes», sostenendo che esso offre una «Synthese» fra «Biographisches und Litera­ risches»: secondo lo studioso, il fatto che Pont. 3.7 rappresenti un «Wendepunkt» della poesia dell’esilio di Ovidio è dimostrato dal carattere per molti aspetti nuovo che manifesterà Pont. 4, il libro (ultimo) che verrà, rispetto al quale il nostro componimento risulta «programmatisch» (p. 156). A fronte della novità cui potrebbe far pensare la decisione di mutare sententia (v. 7), e nonostante gli oggettivi elementi di innovazione presenti in Pont. 4 (su cui mi soffermerò infra), mi sembra che l’aggiunta del quarto libro delle ex Ponto rischi di configurarsi più come una smentita che come un perseguimento dell’enfatico annuncio di Pont. 3.7: ancora una volta, più che di ‘fine’ bisognerà parlare – anche – di ‘continuazione’. Interessante l’osservazione di Galasso 1987, p. 93 (cfr. anche Galasso 2008b, p. 296), che accosta la dichiarazione di Ovidio nella nostra elegia alla renuntiatio amoris dell’elegia erotica: anche Properzio aggiungerà alla propria raccolta un quarto libro che manifesterà più ‘continuità’ di quanto potrebbe inizialmente sembrare; le esperienze del poeta innamorato e del poeta relegato si dimostrano molto affini anche sotto questo aspetto: a questi argomenti accennerò infra, pp. 212 ss.

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ancora una volta, piuttosto straordinariamente scissa fra l’urgenza di una conclusio­ ne (iamque pudet … fine carere; iam mihi finis erit; est tamen utilius … cessasse) e l’an­ nuncio di un proseguimento (ergo mutetur scripti sententia nostri; proximus huic gradus est …) – tanto che l’elegia potrebbe anche risultare, da questo punto di vista, un ap­ propriato manifesto dell’intera produzione tomitana di Ovidio. Come già in trist. 5.10, del resto, la ‘chiusura’ del territorio all’interno del cui ‘circolo’ l’esule è costretto (v. 19, venimus in Geticos fines; vv. 29 s., Scythicis … finibus) si presenta da un lato come un confine – spazialmente e temporalmente – insormontabile,109 ma è dall’altro fonte del continuo rinnovamento di dolori e poesia (vv. 33 s., repetitaque forma locorum / exilium renovat triste recensque facit). Allo stesso modo, la morte pateticamente annunciata alla metà esatta (vv. 19 s., moriamur in illis, / Parcaque ad extremum qua mea coepit eat) e nell’ultimo distico del componimento (v. 40, fortiter Euxinis inmoriemur aquis)110 risul­ ta sottoposta, nel momento stesso in cui viene affermata, alla condizione espressa dal v. 39, dummodo non nobis hoc Caesaris ira negarit: la possibilità che l’imperatore neghi all’esule persino di morire eroicamente richiama alla mente la circostanza della morte negata al condannato Ovidio,111 individuando così uno spiraglio che ancora stenta a chiudersi del tutto. Stenterei a mia volta a credere, come accennato, che l’annuncio del prossimo mu­ tamento di sententia proclamato nei versi citati vada interpretato come segnale della futura aggiunta di Pont. 4 – un libro che, in fin dei conti, non muterà il carattere triste della poesia di Ovidio e che soprattutto richiederà qualche anno prima di essere effet­ tivamente aggiunto. Si può tuttavia constatare la non­finitezza della poesia dell’esule all’interno di Pont. 1–3 stessi: dopo l’enfatica renuntiatio di Pont. 3.7 segue ancora, oltre che il paratesto costituito dall’epistola finale a Bruto, un breve messaggio all’indirizzo di un Massimo (Pont. 3.8.22), più probabilmente Fabio.112 In questa epistola Ovidio af­ ferma di voler inviare un dono all’amico, ma in assenza di altri prodotti di cui disponga il Tomitanus … ager (v. 2) il poeta si vede costretto a inviare delle frecce contenute in una faretra scitica (v. 19, clausa tamen misi Scythica tibi tela pharetra), lamentandosi del fatto che la terra dell’esilio possiede «queste penne, questi libri, questa Musa» 109 Cfr. la buona osservazione di Pérez Vega 2000, p. 142: «una clave es la palabra finis y su paulatina reiteración. […] Ahora comprendemos que el ‘fin’, el ‘término’ escondía en realidad una ‘frontera’, y que esta no le falta. Ovidio tiene la frontera gética, inapelable, para morir desahuciado en ella». 110 Versi che richiamano il celebre monologo di Didone in Verg. Aen. 4.659 s., moriemur inultae, / sed moriamur; cfr. anche l’ostentata citazione di Od. 20.18 al v. 13, hoc quoque, Naso, feres: etenim peiora tulisti; altri paralleli interessanti segnala ancora Galasso 1987, pp. 97 s. 111 Circostanza di cui l’esule si rammaricava in trist. 3.8.39 s.: cfr. supra, p. 112. 112 Il dubbio che si tratti invece di Cotta è dato dal fatto che il ‘dono’ di cui si parla in questa epistola fungerebbe da contraccambio al dono delle statuette dei membri della domus che Ovidio ha rice­ vuto in Pont. 2.8 (così presuppone anche Barchiesi 1994, p. 28); a favore di Fabio giocano invece la corrispondenza, strutturalmente rilevante, con Pont. 1.2 e il riferimento alla purpura consolare al v. 7. È significativo il fatto che la collocazione della breve epistola dopo Pont. 3.7 abbia generato qualche dubbio: cfr. Formicola 2017, pp. 206 s. per una rassegna della bibliografia specifica.

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(vv. 21 s., hos habet haec calamos, hos haec habet ora libellos, / haec viget in nostris, Maxime, Musa locis). Frecce e poesia, la poesia come le frecce: conservate nello spazio chiuso di una faretra, ovvero di un territorio ostile, ma destinate ad aprirsi al viaggio verso Massimo, quindi a colpire, anche a ferire.113 4. Quae iam finis erit?: Pont. 4 e la fine in dissolvenza Riproducendo il gesto già compiuto da due importanti predecessori, Properzio e Ora­ zio, anche Ovidio decise di aggiungere un quarto libro a una collezione di per sé uni­ taria e (apparentemente) conclusa. Considerata da alcuni studiosi, anche recenti, una raccolta pubblicata dopo la morte dell’esule per mezzo di un editore di cui rimarrebbe incerta l’identità, Pont. 4 va a mio avviso ritenuto prodotto con ogni verosimiglianza risalente alla mano dell’autore.114 Se tuttavia il quarto libro di Properzio si poneva come enfatica svolta nel corso del­ la ‘monotematica’ poesia erotica fino allora praticata,115 il quarto libro delle ex Ponto dimostra al contrario che anche la (relativa) cesura segnata dalle Epistulae nell’arco della produzione esilica del nostro autore risulta vincolata alla necessità del prosegui­ mento – il proseguimento di un carmen che al primo verso del nuovo libro viene signi­ ficativamente definito deductum (Pont. 4.1.1 s., accipe, Pompei, deductum carmen ab illo, / debitor est vitae qui tibi, Sexte, tuae). Laboriosità, cura formale e ‘tenuità’ – carat­ teristiche abitualmente attribuite al verbo deduco in simili contesti con riferimento alla

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In Pont. 4.6.33 s. Ovidio afferma che, quando Bruto – nel corso delle «battaglie forensi» (v. 29) che lo vedono protagonista – intende far rispettare la legge, le sue parole sembrano tinte di veleno (cum tibi suscepta est legis vindicta severae, / verba velut tinctu singula virus habent); nell’elegia seguente, indirizzata al generale Vestale, l’esule rammenta più di una volta (vv. 11 s. e 36) che le frecce dei Geti condividono appunto questa caratteristica. La brillante eloquenza di Fabio Massimo è stata a sua volta elogiata da Ovidio in Pont. 1.2 (cfr. in part. i vv. 115 s.; ai vv. 15 s. il poeta aveva tra l’altro menzionato la minaccia rappresentata dalle frecce avvelenate in terra pontica). Le frecce dei bar­ bari, l’eloquenza dei patroni e la poesia di Ovidio dimostrano insomma di condividere potenzialità offensive particolarmente efficaci – a patto che vengano utilizzate per la giusta causa. Lira e arco, poesia e armi sono d’altronde gli attributi che qualificano Apollo, nonché la sua controparte terre­ na Germanico: cfr. Pont. 4.8.75 ss. La ‘poesia­freccia’ in senso stretto, cioè quella giambica (secon­ do la paretimologia antica di ἴαμβος da ἰὸν βάζειν, per cui cfr. La Penna 1957, p. 172), è la minaccia formulata al termine dell’Ibis. L’autorialità della collezione è sostenuta p. es. da Holzberg 2002, pp. 193 s.; Galasso 2008b, pp. XLIX s. (ma è da vedere anche Galasso 2008a per alcune importanti osservazioni strutturali); Wulfram 2008, pp. 260 ss. Quanto alle ragioni di chi la ritiene raccolta postuma, le elenco qui in sintesi ba­ sandomi su Helzle 1989, pp. 31 ss.: a) l’eccessiva lunghezza del libro (930 versi); b) il fatto che i suoi componimenti coprano un lasso di tempo più lungo rispetto agli altri libri dell’esilio; c) la presenza di destinatari assenti da Pont. 1–3 e la disposizione ‘disordinata’ dei componimenti a loro indirizzati all’interno del libro; d) l’assenza di un componimento che funga da prologo. Nelle pagine che seguono mi propongo a mia volta di sottrarre consistenza alla maggioranza di questi argomenti. Una svolta problematica e infine smentita: cfr. infra, p. 213.

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metafora della filatura, nonostante sia possibile ammettere significati di volta in volta più o meno connotati in questo senso116 – potrebbero infatti da un lato caratterizzare la singola epistola, composta di soli diciotto distici, indirizzata al potente patrono sotto il cui segno si colloca la nuova silloge; dall’altro, è tuttavia l’aggiunta della raccolta me­ desima – una raccolta notevolmente più lunga rispetto a qualsiasi altro liber finora in­ viato117 – a smentire di per sé la raffinatezza, e finitezza, del carmen dell’esilio, a sua volta espressione di una poesia cui nel secondo componimento del nuovo libro, indirizzato al poeta Cornelio Severo, sarà nuovamente riconosciuta la mancanza di requisiti tec­ nici (cfr. vv. 15 ss.). Il rapporto tra la non­finitezza anche delle ex Ponto e la definizione di deductum carmen che troviamo al primo verso di Pont. 4.1 potrebbe così costituire una versione inedita, che finisce tuttavia per esaltare le differenze più che assecondare le somiglianze, della collocazione programmatica delle Metamorfosi (cfr. met. 1.4, ad mea perpetuum deducite tempora carmen): al carmen deductum e insieme perpetuum del poema grande era infatti fissato un limite fin dall’inizio – un limite che al contrario Pont. 4 ha finito ancora una volta per disattendere.118 Al pensiero che Pont. 4.1 segni l’aggiunta dell’ennesimo libro ovidiano contribuisce del resto l’impiego ‘variato’ della tipica formula editoriale al v. 4, accedet meritis haec quoque summa tuis. L’epistola incipitaria di Pont. 4 riproduce inoltre temi e immagini che hanno caratterizzato altri incipit: il prohibes del v. 3 riprende il nec prohibere potestis di Pont. 1.1.19 (anche quella di Pont. 4 è poesia ‘ricattatoria’); il tema della litura (v. 14), già presente in trist. 1.1 e 3.1, è questa volta diversamente declinato: a essere «macchiato» non è Pont. 4, bensì lo sono stati – ciò che tuttavia il lettore apprende retrospettivamente – gli altri libri delle ex Ponto (cfr. v. 9), nei quali l’esule aveva inavvertitamente scritto il nome di Pompeo, salvo poi doverlo cancellare, a tal punto trascinato dall’istinto di scrivere a lui  – un tanto poco credibile tentativo di giustificare la mancata citazione del potente perso­ naggio in Pont. 1–3 quanto affascinante indizio del fatto che anche le liturae dei Tristia potrebbero non essere state unicamente causate dalle lacrime dell’autore, ma anche dal bisogno di cancellare nomi allora censurati. È interessante richiamare anche il parallelo fornito dell’altro modello individuato, il quarto libro delle Odi oraziane – libro che parimenti giungeva dopo l’apparente ab­ bandono della poesia ‘alta’ sancito in epist. 1.1. Nel componimento proemiale di carm. 4 Orazio si rivolgeva alla dea Venere, che a dispetto delle attese e della volontà del poeta 116 117

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Rimando alla vasta e lucida rassegna di Citroni 2019, pp. 49 s. (con bibliografia). Cfr. le ottime osservazioni di Holzberg 2002, pp. 193 s.: «like Propertius 4, this book was obviously meant to stand as an independent collection vis­à­vis an already existing trilogy, and Ovid may have sought to bring that out by making it ‘excessively long’ […]. The fourth book of the Letters from the Black Sea is the sequel to a sequel». La formulazione di met. 1.4 è solitamente interpretata in senso contrastivo o addirittura ossimorico con riferimento al proemio degli Aitia di Callimaco: cfr. p. es. Hinds 1987, pp. 18 ss. (dove si parla anche dei Tristia) e 121; Barchiesi 2005 ad loc. Il parallelo è richiamato anche in Wulfram 2008, p. 264, nell’ambito di una condivisibile dimostrazione del carattere ‘prologico’ di Pont. 4.1.

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aveva fatto in modo che egli tornasse a innamorarsi (vv. 1 s., intermissa, Venus, diu / rursus bella moves? parce precor, precor); prima di arrendersi alla sua potenza, Orazio invita­ va la dea a recarsi da chi sarebbe risultato ‘preda’ assai più adatta, l’allora giovane Fabio Massimo, che le avrebbe anche riservato l’onore di una statua (vv. 9 ss., tempestivius in domum  / Paulli purpureis ales oloribus  / comissabere Maximi,  / si torrere iecur quaeris idoneum … Albanos prope te lacus / ponet marmoream sub trabe citrea). La statua della Venere anadyomene, opera di Apelle, è ora menzionata da Ovidio in Pont. 4.1.29 s.: essa apre un catalogo di celebri sculture al cui termine l’esule inserisce se stesso in quanto opus di Sesto Pompeo, un possesso ‘materiale’ di cui il patrono si è preso cura (vv. 35 s., sic ego pars rerum non ultima, Sexte, tuarum / tutelaeque feror munus opusque tuae) – e l’esule spera voglia continuare a custodirlo.119 Pompeo ha così sostituito Massimo non soltanto rispetto al carme oraziano, ma anche rispetto ai precedenti libri delle ex Ponto, dove il medesimo Fabio è stato il destinatario di alcune epistole, Pont. 1.2, 3.3 e (forse) 3.8. Nello spazio di tempo intercorso tra la pubblicazione della precedente collezione e Pont. 4, tuttavia, Fabio Massimo è morto in circostanze che Tacito (ann. 1.5) ci presenta come perlomeno sospette, tanto che in Pont. 4.6.9 ss. Ovidio teme di esserne stato pro­ prio lui la causa (certus eras pro me, Fabiae laus, Maxime, gentis, / numen ad Augustum supplice voce loqui. / occidis ante preces, causamque ego, Maxime, mortis / (nec fuero tanti) me reor esse tuae).120 Nei versi successivi a questi, è quindi menzionata un’altra morte oc­ corsa poco tempo dopo quella di Massimo, sempre nel 14 – quella di Augusto (vv. 15 s.): coeperat Augustus deceptae ignoscere culpae: spem nostram terras deseruitque simul.

Il processo di maturazione della collera del princeps, così piace credere a Ovidio, ave­ va cominciato a sortire i suoi effetti (coeperat), riattivando così a sorpresa la linearità ormai perduta di quel tempo della speranza (spem nostram) che avrebbe condotto a termine la condanna. Il limite della morte, che nei libri precedenti il poeta aveva im­ 119

Su questo passo sono da vedere i buoni spunti di Martelli 2013, pp. 223 s., dove si parla del «com­ plete reversal in the power relations between author and reader. Whereas in previous works those addressed in Ovid’s poetry were told that their immortality was secured by his literary bequest, now we find that the opposite holds true»; sulla «depersonalisation» del poeta in Pont. 4, cfr. inoltre Claassen 2008, pp. 50 s. La totale appartenenza del poeta esule ai patroni­destinatari (e in particolare a Sesto Pompeo) è ribadita in Pont. 4.15.13 ss., dove Ovidio si auto­qualifica come una res del patrimonio di Pompeo, alla pari di terreni, case, averi; la formulazione del v. 19, tam tuus en ego sum si pone anche come estrema variazione (una vera e propria ‘realizzazione’ o ‘reificazione’) della tipica formula di saluto epistolare. 120 Secondo il resoconto di Tac. ann. 1.5, Fabio Massimo aveva accompagnato Augusto nella sua visita all’esule Agrippa Postumo, nei confronti del quale il princeps sembrava nutrire l’intenzione di ri­ appacificarsi; ai funerali di Massimo, la cui morte occorse poco tempo dopo, sua moglie Marcia si lamentò di esserne stata la causa: avrebbe infatti riferito della visita a Livia, la quale ne avrebbe a sua volta fatto parola con Augusto; di lì a poco Massimo morì, dubium an quaesita morte, e Livia, nel timore che il marito volesse sostituire Tiberio con Agrippa nella successione, avrebbe provve­ duto a eliminare Augusto stesso. «The story about Fabius and Marcia is a fable»: Syme 1978, p. 151.

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maginato per se stesso (come telos alternativo a quello sancito dal perdono, nei Tristia; come confine pur sempre superabile dall’eterno perdurare della culpa, in Pont. 1.1), ha invece colpito i personaggi, e in particolare Augusto, che ora Ovidio presenta come i garanti – ormai scomparsi – dell’esistenza stessa di un telos per l’esilio, nonché della possibilità di auspicarne ancora il raggiungimento. Così, Pont. 4 si colloca al di là di un ulteriore, notevolissimo limite, uno di cui l’esule non aveva (forse) mai tenuto con­ to finora, la morte del princeps artefice della condanna; il nuovo libro giunto da Tomi non soltanto prosegue, in versione triste, la situazione presentata da Orazio all’inizio del suo quarto libro, ma supera addirittura i confini di un’epoca della storia. A proposito di scansioni temporali, al di là delle novità giustamente notate dalla cri­ tica (e qui già accennate) circa il mutamento di ‘strategia politica’ dell’esule nel nuovo libro, particolarmente visibile nel fatto che la maggior parte dei destinatari cui sono ora indirizzate le singole epistole non è comparsa nella precedente silloge costituita dai primi tre libri, c’è un’altra caratteristica che distingue Pont. 4 da tutte le altre colle­ zioni – i singoli libri dei Tristia e Pont. 1–3 – finora inviate dall’esule, ed è costituita dal fatto che il nuovo libro delle ex Ponto è giunto a Roma dopo (almeno) tre anni rispetto all’ultima ‘traccia di sé’ che il poeta vi aveva fatto pervenire. Lo scrupoloso (e inopina­ to) rispetto della ciclicità del tempo che abbiamo ravvisato soprattutto nei Tristia, i cui singoli libri hanno seguito da vicino i cicli degli anni e delle stagioni trascorsi dal poeta a Tomi, un rispetto che è proseguito anche in Pont. 1–3 (collezione che, nonostante lo ‘strabordamento’ del formato­liber, ha tenuto immediatamente dietro alla pubblicazio­ ne di trist. 5), risulta ora rinnegato nel tradimento di quella medesima ciclicità, inter­ rotta dal ‘vuoto di poesia’ che l’esule ha lasciato dopo l’ultimo arrivo.121 Il ‘rilassamento’ del ritmo di pubblicazione finora mantenuto è riscontrabile, di conseguenza, anche nel più ampio arco temporale coperto dalle singole epistole di Pont. 4, che si distribuisco­ no piuttosto significativamente in un lasso di tempo che va dalla seconda metà del 13 (così p. es. Pont. 4.4, dove si parla del futuro consolato di Sesto Pompeo previsto per l’anno 14) alla seconda metà del 16 (un altro futuro consolato per il 17, quello di Flacco, di cui si parla in Pont. 4.9). Si tratta di una caratteristica che, al netto dell’ipotesi – poco credibile, come si è visto – che Pont. 4 costituisca una raccolta postuma, si pone come un’innovazione affatto notevole anche per i temi che abbiamo trattato fin qui: per la prima volta il poeta si svincola dalla dinamica temporale ciclica che ha finora caratte­ rizzato la sua poesia. 121

Merita forse più di qualche attenzione il fatto che la rottura della cadenza annuale nella pubbli­ cazione delle raccolte coincide proprio con il 14, l’anno della morte di Augusto, nonostante la composizione di alcune epistole di Pont. 4 preceda l’evento (in questo medesimo lasso temporale andrà inserita d’altronde la stessa revisione dei Fasti con la dedica a Germanico); a proposito di questa rottura, si veda Green 20052, p. l: «there may have been an interval – perhaps a last illness – during which Ovid wrote nothing [interessante proposta per un aspetto di questa raccolta che tenteremo di spiegare diversamente]. But with our hindsight it is impossible not to be constantly aware of the collection’s terminal nature» (enfasi mia) – o forse no?

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Che Ovidio abbia deciso di allentare il rigido schema temporale finora seguito è quanto del resto emerge dalla lettura della seconda epistola della collezione – una let­ tera dedicata, come già la ‘corrispettiva’ ode costituita da Hor. carm. 4.2 (Pindarum quisquis studet aemulari …), a temi di poetica e di (auto)­riflessione letteraria. Come abbiamo già anticipato, l’epistola è indirizzata al poeta Cornelio Severo, cui l’esule si vergogna di non aver ancora mai dedicato un componimento delle ex Ponto:122 le let­ tere in prosa fra i due amici e colleghi non sono mai venute meno (vv. 5 s., orba tamen numeris cessavit epistula numquam / ire per alternas officiosa vices), ma in effetti Ovidio riconosce che l’ispirazione ha cominciato ormai ad abbandonarlo (vv. 17 ss.): scilicet ut limus venas excaecat in undis, laesaque suppresso fonte resistit aqua, pectora sic mea sunt limo vitiata malorum, et carmen vena pauperiore fluit. si quis in hac ipsum terra posuisset Homerum, esset, crede mihi, factus et ille Getes. da veniam fasso: studiis quoque frena remisi, ducitur et digitis littera rara meis. […] sive quod hinc fructus adeo non cepimus ullos, principium nostri res sit ut ista mali; sive quod in tenebris numerosos ponere gestus, quodque legas nulli scribere carmen, idem est.

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L’idea che Omero possa diventare un Geta se collocato a Tomi può risultare tanto bizzarra al lettore della nuova collezione quanto del tutto clamorosa, nonché destinata a conferire (retrospettivamente) una certa credibilità alla bizzarria, risulterà la noti­ zia che Ovidio ha in effetti composto un poemetto in getico – ciò che si apprende da Pont. 4.13.17 ss. (l’epistola è indirizzata a un altro poeta, Caro).123 Oltre a ciò, le rifles­ sioni svolte dall’esule nei versi citati riprendono senz’altro le lamentele cui il poeta ha già più volte dato voce nelle raccolte precedenti: la mancanza di ingenium era già

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Cfr. vv. 3 ss.: questa notizia dovrebbe indurci a distinguere il destinatario della nostra epistola dal Severo cui è indirizzata Pont. 1.8, sulla cui identità si rimarrebbe incerti; cfr. tuttavia Gaertner 2005, p. 429 per l’individuazione di alcuni paralleli (la maggior parte dei quali appare però poco signifi­ cativa) fra Pont. 1.8 e i frammenti superstiti di Cornelio Severo, nonché fra Pont. 1.8 e 4.2. Come che sia, l’identificazione del destinatario di 1.8 con il poeta epico, un’identificazione che smentirebbe quanto affermato da Ovidio all’inizio di 4.2, non può basarsi esclusivamente sull’ipotesi che vuole Pont. 4 una raccolta postuma, costituita da componimenti scartati da Pont. 1–3 (ciò che spieghereb­ be la contraddizione), il principale argomento addotto da Tissol 2014, p. 148 (cfr. già Helzle 2003, p. 207). Come abbiamo già osservato, la trasformazione del poeta esule in poeta getico avviene nell’arco dell’intera produzione tomitana di Ovidio, a cominciare da trist. 3.14.48: cfr. supra, pp. 84 s.

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individuata, per esempio, in Pont.  1.5 (cfr. vv.  3 s., in quibus ingenium desiste requirere nostrum, / nescius exilii ne videare mei). È importante tuttavia notare che le osservazioni sulla rarefazione della scrittura (ducitur et digitis littera rara meis) acquisiscono una concretezza affatto diversa se si considera la caratteristica della nuova collezione che abbiamo individuato come discriminante, il fatto cioè che Ovidio abbia letteralmente rarefatto le proprie pubblicazioni. Assai significative, in questo contesto, appariranno così le immagini di oscurità e chiusura che parimenti troviamo nel passo citato (la vena d’acqua «accecata», la danza al buio): un’oscurità che può essere interpretata anche come simbolo del silenzio cui l’autore ha deciso di lasciare spazio nel triennio trascor­ so dal suo ultimo invio. Affermare che la poesia di Ovidio – si intende, almeno per noi – si esaurisca per dissolvimento significa da un lato rintracciare nell’opera del nostro autore il pre­ corrimento di una tecnica non estranea all’arte cinematografica, quella appunto della cosiddetta ‘dissolvenza a nero’ o ‘in chiusura’ (fade-out);124 dall’altro, e forse più op­ portunamente, significa anche descrivere in modo non troppo impreciso le significa­ tive peculiarità che Pont. 4 presenta rispetto ai restanti libri di Epistulae ex Ponto. La rarefazione della scrittura di cui Ovidio parla nell’epistola a Severo, e che è possibile mettere in relazione con l’effettivo allontanamento dell’ultimo libro delle ex Ponto dalla dinamica strettamente ciclica delle precedenti pubblicazioni tomitane, assume un’ulte­ riore declinazione nell’impiego in certa misura sfumato – ancora una volta, rarefatto – di quelle caratteristiche che abbiamo visto contraddistinguere (fatte salve le eccezioni di cui si è reso conto) la novità della più recente opera dell’esilio: la forma epistolare e i nomi dei destinatari.125 Quanto al primo elemento, è interessante constatare che in Pont. 4 l’impiego esclusivo dell’epistula risulta più volte messo in discussione: Pont. 4.4 si apre con un’altra immagine di rarefazione, quella delle nubi che a intermittenza ces­ sano la pioggia (vv. 1 s., nulla dies adeo est australibus umida nimbis, / non intermissis ut fluat imber aquis); Ovidio racconta di aver ricevuto, nella desolazione di una spiaggia pontica, la notizia del prossimo consolato di Pompeo (a portare la notizia è stata Fama in persona),126 ciò che gli ha permesso di «rilassare il volto» (vultum diffundere, v. 9); la prima parte del componimento, che non si è aperto con le consuete formule epistolari, si sviluppa secondo una modalità narrativa, e l’implicito destinatario emerge soltanto

124 Ovidio e il cinema: cfr. Winkler 2014 (con ulteriore bibliografia); Winkler 2020. 125 Troppo generica mi pare in questo senso la notazione di Wulfram 2008, p. 278 n. 238, secondo cui (contra Claassen 1999, p. 114) «der Rückgang an ‘Brieflichkeit’ […] ändert nichts an ihrer auf das ganze Buch bezogenen Dominanz und ist daher als minimal und nebensächlich einzustufen». 126 Così pure nel componimento precedente, Pont.  4.3.28, fama refert (a proposito degli atti ostili compiuti dal nemico contro l’esule); anche in Pont. 2.1 l’esule ha ricevuto la notizia del trionfo di Tiberio in modo analogo (v. 1, huc quoque Caesarei pervenit fama triumphi). Questa modalità di ricezione delle notizie da parte del poeta si distingue dalla ricezione scritta, attraverso il mezzo epistolare, utilizzata p. es. in trist. 5.11, Pont. 1.9 e 4.11. Pont. 4.4 è uno di quei componimenti di cui è possibile rintracciare più di una presenza nel romanzo di Christoph Ransmayr Die letzte Welt.

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indirettamente, a partire dal tibi del v. 29 – ma fino ai vv. 25 s. l’esule ha parlato di Pom­ peo in terza persona. Una certa peculiarità nell’impiego del formato epistolare emerge anche da Pont. 4.7: il componimento è indirizzato al centurione primipilo Vestale, che si trova attualmente nella regione del Ponto, ciò che permette a Ovidio di prenderlo a te­ stimone di tutti gli aspetti negativi della terra dell’esilio lamentati finora (si tratta di una strategia innovativa, quella del ‘terzo personaggio’ in grado di confermare la veridicità dei resoconti dell’esule, sfruttata anche nella successiva Pont. 4.9: cfr. vv. 75 ss.); il nome di Vestale è questa volta esplicitato in vocativo al primo verso, ma si potrebbe osservare che il destinatario di questo testo è insolitamente vicino a Ovidio, e infatti questa epi­ stola è più di altre primariamente indirizzata al pubblico ‘incredulo’ di Roma.127 Anche le elegie finali del libro mostrano un utilizzo più libero della forma della lettera, come dimostrano in particolare gli incipit di Pont. 4.10 (con una simile notazione temporale cominciano p. es. trist. 4.7 e 5.10), 4.13 (cfr. trist. 1.5) e 4.15 (cfr. trist. 3.10); in quest’ultima epistola, nuovamente dedicata a Pompeo, si riscontra quel medesimo avvicinamento progressivo al ‘tu’ già notato in Pont. 4.4: rivolto a Sesto è infatti l’imperativo pone del v. 13, ma nei versi precedenti l’esule ne ha parlato in terza persona (vv. 3 s., Caesaribus vitam, Sexto debere salutem / me sciat; al v. 11 il poeta si è oltretutto rivolto ai Quirites), utilizzando piuttosto quella forma di destinazione ipotetica e generica (siquis … quidve relegatus Naso requirit agam) in cui abbiamo sopra rintracciato la differenza fra un’elegia di trist. 1 e un’epistola di trist. 5. Più in generale, e assai significativamente, in Pont. 4 sembra nuovamente emergere, dopo la relativa ‘relegazione’ ai componimenti paratestuali riscontrabile in Pont. 1–3, la centralità della dimensione ‘libresca’ della rac­ colta di epistole, che in qualche modo torna a contrastare, invertendone la direzione, il passaggio dal liber all’epistula nel ruolo di mediazione fra l’esule e i suoi destinatari – un passaggio su cui abbiamo soprattutto misurato l’evoluzione dai Tristia alle ex Ponto.128 Anche l’altro elemento di decisiva innovazione che ha caratterizzato la seconda ope­ ra dell’esilio, l’esplicitazione dei nomina, trova in Pont. 4 qualche smentita: in Pont. 4.3 l’esule torna a rivolgersi a un amico ingrato e insensibile, di cui è puntualmente taciuto il nome; la posa aggressiva e recriminatoria del poeta è quella propria della poesia pre­ cedente le ex Ponto – dei Tristia, e ancor più dell’Ibis.129 Soprattutto, in Pont. 4.12 e, di 127 128

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Una situazione per certi versi simile ha presentato Pont. 2.9, il cui destinatario formale è il re tracio Cotys, ma che Ovidio avrà più che altro concepito come indirizzata a un altro ‘monarca’, nella fattispecie Augusto. Della strategia del ‘terzo personaggio’ ho parlato in Galfré 2017, pp. 205 ss. Delle 17 occorrenze del sostantivo liber/libellus in Pont. 1–3, cui fanno fronte le 45 dei Tristia (12 soltanto in trist. 2) e le 6 di Pont. 4, sette si trovano in Pont. 1.1 e 3.9; delle restanti, soltanto quattro si riferiscono anche ai libri delle ex Ponto (1.5.71; 1.8.9; 3.1.43; 3.6.54). Quanto a Pont. 4, in tre dei sei casi si fa riferimento alla presenza del nome dei rispettivi destinatari nei libri dell’esule, cioè nelle ex Ponto (4.1.9; 4.2.3; 4.12.1); in 4.12.25 Ovidio si riferisce ai libelli precedenti l’esilio; in 4.13.9 ai libelli in generale, fra cui è possibile riconoscere quelli scritti dall’amico Caro; in 4.13.19 al libellus in lingua getica. Lista di paralleli in Helzle 1989, p. 84. Ricordo qui che Pont. 3.6, l’epistola anonima di Pont. 1–3, non era rivolta a un nemico, bensì a un amico che temeva di compromettersi facendosi nominare – era

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conseguenza, 4.14 l’apostrofe al destinatario pone all’esule un problema che può essere descritto nei termini di una vera e propria crisi ‘tecnica’. Le due epistole sono infatti indirizzate a Tuticano (anche lui poeta), il cui nome non può entrare nel distico a cau­ sa del cretico formato dalle prime tre sillabe.130 In Pont. 4.12 l’esule riesce comunque a nominarlo a costo di abbreviare, rispettivamente, la terza e la prima sillaba (vv. 9 ss., et pudeat, si te, qua syllaba parte moratur, / artius adpellem Tuticanumque vocem. / et potes in versum Tuticani more venire, / fiat ut e longa syllaba prima brevis; nel distico succes­ sivo si cita anche la terza possibile soluzione, quella di allungare la seconda sillaba) – espedienti che il poeta giudica addirittura ridicoli pur avendoli nel frattempo sfruttati (vv. 15 s., his ego si vitiis ausim corrumpere nomen, / ridear et merito pectus habere neger). L’epistola prosegue assicurando in ogni caso il ricordo del legame di amicizia che ha unito e continua a unire i due poeti; nei versi finali, dopo la canonica richiesta di so­ stegno formulata dall’esule, Ovidio immagina che Tuticano gli chieda, in effetti, di che cosa l’amico può avere bisogno (vv. 43 ss.): quid mandem, quaeris? peream nisi dicere vix est, si modo, qui periit, ille perire potest. nec quid agam invenio, nec quid nolimve velimve, nec satis utilitas est mihi nota mea. crede mihi, miseros prudentia prima relinquit, et sensus cum re consiliumque fugit. ipse precor quaeras, qua sim tibi parte iuvandus, quoque viam facias ad mea vota vado.

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La perdita di prudentia, sensus (ciò che contraddice Pont. 1.2.37, passo su cui cfr. supra, p. 182) e consilium da parte del poeta non soltanto lo ha reso ormai insensibile persino alle proprie stesse necessità di esule, ma finisce soprattutto per rinnegare la vocazione utilitaria della poesia delle ex Ponto (nec satis utilitas est mihi nota mea; cfr. Pont. 3.9.56). Occupata per un buon terzo dalla prolungata discussione di un cavillo metrico, l’epi­ stola a Tuticano si ripiega infine su se stessa, rivelandosi svuotata dei propri stessi con­

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cioè ‘rimasto’ ai Tristia, una posizione di cui il poeta gli indicava ormai tutta l’inappropriatezza; in Pont. 4.3 il mondo dei Tristia, fatto di anonimato e popolato anche di nemici, sembra al con­ trario tornato in auge. Questo fatto potrebbe all’apparenza favorire, ancora una volta, l’ipotesi di chi crede Pont. 4 una raccolta realizzata con elegie ‘di scarto’ riunite dopo la morte di Ovidio; mi sembra più interessante notare che il ritorno ai Tristia (addirittura a trist. 1!) di Pont. 4 pare sugge­ rito da alcuni rimandi invero piuttosto letterali: cfr. (oltre a quelli di Pont. 4.3 stessa) Pont. 4.12.44 ~ trist. 1.4.28; Pont. 4.13.1 ~ trist. 1.5.1; Pont. 4.15.1 s. ~ trist. 1.1.17 s. Dal momento che non è possibile ricondurre questi componimenti agli anni dei Tristia (ci sono i nomi, e Pont. 4.13 è sicuramente posteriore alla morte di Augusto), sarà più proficuo ritenere il ritorno a un’atmosfera vicina alla precedente opera come gesto rispondente a un preciso intento dell’autore, come qui cerchiamo di illustrare. Sulle epistole a Tuticano, cfr. in part. Galasso 2019.

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tenuti – e mettendo in scena la rinuncia, soprattutto, a quella istanza ‘pragmatica’ pro­ iettata al futuro che abbiamo visto caratterizzare il mezzo epistolare. Oltre alla messa in discussione dei due elementi costitutivi delle ex Ponto, che vo­ gliamo qui interpretare come segno di una ‘dissoluzione’ cui in Pont.  4 va incontro la poesia dell’esule, c’è un altro aspetto su cui importa senz’altro valutare l’effettività di questa dissoluzione – ed è l’annoso e intrinseco contrasto fra temporalità lineare e temporalità ciclica su cui si è fondata l’intera produzione di Ovidio a Tomi. È utile a questo proposito partire da un’osservazione che ha svolto, ancora una volta, Stephen Hinds in un saggio cui abbiamo già fatto ricorso, dove si nota che nelle Epistulae ex Ponto si assiste a una maggiore «density and specificity of reference to the civic life of late Augustan and […] early Tiberian Rome», ciò che dimostra un «partial reengage­ ment with the structures of Roman civic and social time – both as an inevitable con­ sequence of the peopling of the poems with named (and well­connected) individuals and, I think, as a matter of conscious thematic emplotment».131 È curioso il fatto che, a sostegno di questa osservazione, Hinds discuta alcuni passi tratti dal solo quarto libro delle ex Ponto – in particolare, le già citate epistole in cui si descrive, con dovizia di par­ ticolari, la cerimonia di assunzione del consolato da parte di Sesto Pompeo (Pont. 4.4) e di Grecino (Pont. 4.9). In questi componimenti il poeta si mostra infatti pienamente integrato, «if perforce from afar»,132 nel tempo civico scandito dal calendario, ciò che del resto dimostrano alcuni paralleli veramente notevoli con i Fasti; come già illustrato da Mario Labate in un precedente lavoro, Ovidio sembra fornirci in questi suoi ultimi componimenti degli specimina di una poesia propriamente celebrativa che forse si sa­ rebbe impegnato a praticare, se mai fosse stato richiamato a Roma.133 Vorrei a mia volta interpretare il recupero di questa ‘affinità’ con il tempo civico (e ciclico) della capitale (perduta) come un ulteriore segnale di quella rarefazione delle forme e di quel dissolvimento temporale nel quale vediamo esaurirsi la poesia dell’esilio di Ovidio nell’ultimo libro a noi pervenuto: dissolversi sembra, questa volta, esattamente quel contrasto, all’apparenza irriducibile, fra le due opposte concezioni del tempo che hanno finora faticosamente convissuto nella produzione tomitana del nostro autore. Inizierei intanto col segnalare il modo in cui viene registrata, nella già menzionata epistola a Bruto che dà notizia della doppia morte di Fabio Massimo e di Augusto, la rigida scansione del tempo dell’esilio che l’esule continua pur sempre a computare (Pont. 4.6.5 s.): in Scythia nobis quinquennis Olympias acta est: iam tempus lustri transit in alterius. 131 132 133

Hinds 2005, p. 226. Ivi, p. 229. Labate 1987, pp. 103 ss. Sulle tracce dell’attività di poeta occasionale contenute nelle elegie dell’esi­ lio, che testimoniano in Ovidio la permanenza o il recupero di un orizzonte privato di pubblico ‘di cerchia’, si veda soprattutto Citroni 1995, pp. 459 ss.

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Il passaggio del quinto anno di relegazione è misurato secondo il conteggio olimpico, che si basa appunto sul lustro, un sistema finora mai impiegato dall’esule in contesto simile proprio perché troppo ampio rispetto alla serrata cadenza annuale cui hanno te­ nuto dietro le precedenti pubblicazioni.134 Ancora più interessante, a mio avviso, risulta il pentametro del distico citato: la segnalazione dello ‘sconfinamento’ dal primo al se­ condo lustro di esilio potrebbe da un lato rendersi indice della rassegnata disillusione del poeta, pronto ormai ad affrontare non più semplicemente un nuovo anno, bensì addirittura un nuovo lustro lontano da Roma; ma dall’altro, e soprattutto, l’utilizzo di questo sistema di conteggio ci pone di fronte alla espansione della temporalità cicli­ ca che ha finora segnato i vari libri dell’esilio, un’espansione delle coordinate temporali che va di pari passo, per l’appunto, con la (avvenuta) rarefazione della poesia, i cui ritmi si sono allargati e la cui ‘densità’ tende ora a dissolversi.135 In Pont. 4.6 questo amplia­ mento di prospettiva si accompagna a una relativamente esplicita certezza circa il duro destino toccato in sorte all’esule (vv. 3 s., sed tu quod nolles, voluit miserabile fatum: / ei mihi, plus illud quam tua vota valet!). Abbiamo d’altronde già detto che in questa stessa epistola l’esule vede allontanarsi una volta di più, e forse definitivamente, il tanto sospirato telos dell’esilio in conseguenza delle morti di Massimo e di Augusto: è im­ portante in questo senso notare la cospicua presenza di verbi ‘conclusivi’ (v. 11, occidis; v. 14, concidit; v. 16, deseruit); attraverso la composizione di un’operetta sull’apoteosi recentemente decretata per il defunto princeps (v. 17, de caelite … recenti), Ovidio spera tuttavia di riuscire a placare l’ira della domus imperiale (cioè soprattutto del nuovo im­ peratore Tiberio, ma è interessante rilevare l’attribuzione ‘collettiva’ del sentimento di collera all’intera casa, anche in virtù della fiducia che ora l’esule nutre nei confronti di Germanico), al fine di ottenere un modus per i suoi mali (vv. 19 s., quae prosit pietas utinam mihi, sitque malorum / iam modus et sacrae mitior ira domus). Quanto appunto al «limite dei mali» concepito da Ovidio nel nostro libro, si trat­ ta della condizione cui in Pont. 4.11 è significativamente pervenuto Gallione. L’amico del poeta non soltanto ha dovuto subire la iactura costituita dalla condanna inflitta a Ovidio, ma le sue sofferenze sono andate oltre questo limite quando gli è toccato di perdere la moglie (vv. 5 ss., atque utinam rapti iactura laesus amici / sensisses ultra, quam quererere, nihil! / non ita dis placuit, qui te spoliare pudica / coniuge crudeles non habuere nefas). Il poeta non intende consolare chi è già sufficientemente prudens (v. 11) – non commetterà cioè l’errore che in Pont. 1.3 abbiamo visto attribuito a Rufino, autore dell’inefficace consolatio; lo scambio epistolare tra Ovidio e Gallione, del resto, è co­ 134 135

Il sistema è utilizzato in trist. 4.10.95 ss. a segnalare l’inizio dell’esilio, avvenuto quando il poeta aveva ormai compiuto i cinquant’anni; su questi passi si veda anche Hutchinson 2017, pp. 80 s. La ciclicità annuale è comunque presente anche in Pont.  4, in due passi che abbiamo già men­ zionato supra, p.  128: 4.10.1 s. (sesta estate) e 4.13.39 s. (sesto inverno). Quanto al nostro distico di Pont.  4.6, forse più di un’attenzione merita la (non)­interpunzione proposta da Housman in considerazione dell’omissione dell’est al v. 5 da parte di alcuni codici: in Scythia nobis quinquennis Olympias acta / iam tempus lustri transit in alterius.

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stretto a svolgersi in un lasso di tempo tale che il dolore dell’amico vedovo si è assai probabilmente ormai rimarginato (vv. 13 ss.): finitumque tuum, si non ratione, dolorem ipsa iam pridem suspicor esse mora. dum tua pervenit, dum littera nostra recurrens tot maria ac terras permeat, annus abit. temporis officium est solacia dicere certi, dum dolor in cursu est et petit aeger opem. at cum longa dies sedavit vulnera mentis, intempestive qui movet illa, novat. adde quod (atque utinam verum tibi venerit omen!) coniugio felix iam potes esse novo.

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Il conseguimento della fine del dolore da parte di Gallione (finitum … dolorem), che anzi nell’arco della mora ormai terminata Ovidio immagina possa essersi addirittura risposato, distingue il caso dell’amico da quello dell’esule, il cui dolor appare contrasti­ vamente tuttora in cursu (cfr. v. 18): il destinatario dell’epistola si pone in questo senso come un modello senz’altro positivo per il poeta, ma è un modello che nel quarto libro delle ex Ponto, la cui esistenza stessa costituisce il frutto di una mora non mai conclu­ sa, si dimostra fin troppo ‘facile’, e sostanzialmente irraggiungibile.136 È interessante il fatto che in questo componimento si parli anche della costitutiva inefficacia del mezzo epistolare, o perlomeno delle epistole di Ovidio, che a causa della grande distanza da Roma sono cronicamente condannate al ritardo; questo fa sì che, anziché consolare, il messaggio inviato a Gallione rischia ora paradossalmente di rinnovare il suo dolore, tornando a «smuovere» la ferita (intempestive qui movet illa, novat). Questo è tuttavia esattamente l’effetto che l’esule ha più volte lamentato nel corso delle sue raccolte (cfr. trist. 4.1.97, corque vetusta meum, tamquam nova, vulnera sentit; Pont. 3.7.33 s., repetitaque forma locorum / exilium renovat triste recensque facit), tanto che ora sorge – retrospet­ tivamente – il grave dubbio che le opere dell’esilio di Ovidio, nate appunto per seguire la mora nel suo svolgimento e intenzionate a rimarginare il vulnus della condanna, non abbiano al contrario puntualmente contribuito ad aggravarlo. Conformemente a quanto riscontrato nei primi tre libri delle ex Ponto, anche in Pont. 4 il fine – e la fine – delle richieste rivolte dal poeta ai suoi destinatari continua a essere il semplice mutamento di luogo (cfr. significativamente, a centro libro, il pas­ so di Pont. 4.8.85 s., rivolto direttamente a Germanico: clausaque si misero patria est, ut ponar in ullo, / qui minus Ausonia distet ab urbe, loco), anche se questa richiesta emerge soltanto nel corso della raccolta, mentre nei primi componimenti il poeta sembra più 136

Di «consolatio semiseria», a proposito del nostro componimento, parla il documentato contributo di Audano 2016, che discute la manipolazione da parte di Ovidio dei tradizionali topoi consolatori nonché il rapporto con Pont. 1.3. Su Pont. 4.11 è da vedere anche Merli 2013, pp. 57 s.

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che altro auspicare la propria conser vazione (Pont. 4.5.39 s., iurat / se fore mancipii tempus in omne tui; al termine dell’epistola precedente Ovidio ha affermato che, nel caso dovesse venire a sapere che Pompeo si ricorda di lui, fatebor / protinus exilium mollius esse meum, riuscendo così paradossalmente a ottenere quanto chiesto finora, cioè un esilio «più lieve»). Nella seconda parte del libro, per converso, viene proposta una serie di immagini inedite del poeta a Tomi, immagini che nella fattispecie ci par­ lano della faticosa integrazione dell’esule nella comunità cittadina locale. Abbiamo già menzionato la auto­qualifica di poeta Getes e la notizia a proposito della composizione del libellus in lingua getica contenute in Pont. 4.13: dopo aver riassunto al destinatario Caro i contenuti dell’operetta, il poeta racconta anche dell’entusiastica accoglienza dello scritto presso il pubblico barbaro di Tomi (vv. 33 ss., haec ubi non patria perlegi scripta Camena, / venit et ad digitos ultima charta meos, / et caput et plenas omnes movere pharetras, / et longum Getico murmur in ore fuit); a quel punto, un non meglio identifi­ cato aliquis prende la parola (vv. 37 ss.): atque aliquis ‘scribas haec cum de Caesare,’ dixit ‘Caesaris imperio restituendus eras.’ ille quidem dixit: sed me iam, Care, nivali sexta relegatum bruma sub axe videt.

Sarebbe interessante sapere se l’anonimo barbaro cui va ricondotta la battuta riportata abbia voluto semplicemente costruire una frase invero piuttosto elegante, nella quale va segnalata l’efficace ripetizione del nome proprio del defunto princeps alla fine della subordinata retta dal cum e all’inizio della principale nel verso successivo, oppure – in modo ancora più sottile, e soprattutto consapevole delle strategie già adottate da Ovidio altrove in Tristia ed ex Ponto – abbia voluto giocare sull’omonimia dei principes Augusto e Tiberio, entrambi inclusi nel libellus (cfr. vv. 27 s.).137 In ogni caso, la fine mai raggiunta dell’esilio, ora come allora (restituendus eras), è immediatamente posta in relazione, nei versi citati, alla notazione temporale circa il sesto inverno trascorso da Ovidio a Tomi, ciò che genera nel poeta la certezza che carmina nil prosunt (v. 41). La volontà di mutare luogo espressa nell’ultimo distico dell’epistola a Caro si ri­ flette direttamente nell’epistola successiva, Pont.  4.14, che pone il lettore di fronte a un evento affatto straordinario: dopo che il poeta ha nuovamente espresso i propri ultima vota (v. 5), vale a dire «andarmene via da qui in qualunque posto» (v. 6, quolibet ex istis scilicet ire locis),138 siamo informati che gli abitanti di Tomi hanno dato voce 137

138

Un altro doppio significato in questa frase rintraccia Habinek 1998, p. 160: «‘Since you write these things about Caesar, you ought to have been restored by (or to?) the command of Caesar.’ […] The sentence may indicate sympathy for the poet and hope that he will be granted his fondest wish; but it can also be taken to say, in effect, since you feel that way, too bad you can’t leave». In questi versi torna espressa in modo piuttosto enfatico – ma l’enfasi su questo punto è funzionale al discorso del resto dell’epistola – quella sensazione di chiusura claustrofobica percepita dal poeta ‘soffocato’ nel cerchio tracciato dal luogo dell’esilio, cui Ovidio preferirebbe addirittura l’inclusio­

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a una ira publica nei suoi confronti (v. 16), indignati contro le continue diffamazioni incluse nei suoi versi – e sobillati in questo da un misterioso malus interpres (v. 41). Le accuse cui il poeta tocca far fronte si pongono come una paradossale e inopinata ripetizione dell’accusa per eccellenza, quella che ha condannato il poeta alla relegazio­ ne, e Pont. 4.14 si trasforma in una nuova versione di trist. 2 (vv. 17 ss., ergo ego cessabo numquam per carmina laedi, / plectar et incauto semper ab ingenio? / ergo ego, ne scribam, digitos incidere cunctor, / telaque adhuc demens, quae nocuere, sequor?; cfr. trist. 2.3 s.).139 L’epistola formalmente indirizzata a Tuticano (non nominato) si trasforma così in un appello ai Tomitae, che si risolve infine nell’affermazione della profonda riconoscenza nutrita dall’esule per gli abitanti della cittadina greca (vv. 47 s., molliter a vobis mea sors excepta, Tomitae, / tam mites Graios indicat esse viros); Sulmona, città natale del poeta, non avrebbe saputo alleviare meglio i suoi mala: così Tomi, che tra l’altro ha concesso all’esule il privilegio dell’immunità e l’incoronazione poetica,140 merita infine la quali­ fica di «ospite fedele» (vv. 59 s., tam mihi cara Tomis, patria quae sede fugatis / tempus ad hoc nobis hospita fida manet). È interessante valutare lo scarto di queste affermazioni nel confronto con quanto abbiamo visto a proposito dei versi finali di trist. 3.12, dove era espresso il desiderio che la terra pontica rimanesse per Ovidio soltanto un hospitium, una dimora temporanea: la provvisorietà di quella condizione, cui l’esule sperava potesse essere posto un rimedio, è divenuta la permanenza di uno stato eternamente provvisorio. Come detto, però, l’esule invita tuttora i propri destinatari ad attivarsi perché gli venga concesso il trasferimento: è quanto accade anche in Pont. 4.15, la penultima ele­ gia del libro indirizzata, come già la prima, a Sesto Pompeo, di cui Ovidio si presenta nuovamente come un possesso materiale (vv. 21 ss.): atque utinam possis, et detur amicius arvum, remque tuam ponas in meliore loco! quod quoniam in dis est, tempta lenire precando numina, perpetua quae pietate colis.

È significativo che la pietas di Pompeo venga qui definita «perpetua»: l’aggettivo in­ tende certo sottolineare la lealtà del patrono (e quindi, di riflesso, del suo ‘oggetto’ Ovi­

ne nei luoghi più pericolosi: vv. 9 ss., in medias Syrtes, mediam mea vela Charybdin / mittite, praesenti dum careamus humo […] gramina cultus ager, frigus minus odit hirundo, / proxima Marticolis quam loca Naso Getis (dove è nuovamente da notare il nome del poeta ‘circondato’ dal nome + attributo del popolo barbaro). 139 Su questo punto, cfr. anche Galasso 2019, p. 33. 140 Cfr. vv. 55 s.: il fatto che Ovidio si presenti come «restio» (invito) al conferimento dell’onore de­ cretato dal publicus favor avvicina curiosamente il suo atteggiamento alle resistenze di Tiberio di fronte all’assunzione del principato – circostanza menzionata fra l’altro in Pont. 4.13.27 s. (e, ancor prima, nel libellus getico), esse parem virtute patri qui frena rogatus / saepe recusati ceperit imperii; cfr. l’ampio racconto di Tac. ann. 1.11 ss. e Galasso 2019, p. 34.

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dio) nei confronti della casa imperiale, ma non va trascurato il riferimento alla richiesta del poeta: se da un lato la devozione del destinatario verso i numina non conosce limiti temporali, così non dovrebbe idealmente subire interruzioni la sua preghiera di inter­ cessione per l’esule, cui è affidato il compito di favorire il processo di ‘addolcimento’ di quegli dei medesimi (tempta lenire precando / numina). Il carattere continuato e senza limiti delle preghiere che a sua volta Ovidio rivolge a Pompeo è del resto nuovamente riconosciuto ai vv. 29 ss. della nostra epistola (et pudet et metuo semperque eademque precari, / ne subeant animo taedia iusta tuo. / verum quid faciam? res immoderata cupido est: / da veniam vitio, mitis amice, meo). Forse non è da trascurare il fatto che questa en­ nesima, esplicita affermazione dell’assenza di limiti che caratterizza la poesia dell’esilio di Ovidio costituisce in effetti, per noi, la sua ultima formulazione. C’è tuttavia da osservare un altro aspetto, sul quale intendo a mia volta concludere: la pietas «perpetua» che nel passo menzionato viene riconosciuta a Pompeo risulta efficacemente accostabile alla pietas che in diversi punti di Pont. 4 Ovidio dimostra di aver fatto propria nel corso dei lunghi anni di permanenza a Tomi. Abbiamo già men­ zionato i versi di Pont. 4.6 a proposito dell’operetta sull’apoteosi di Augusto che l’esule ha inviato a Roma: un atto di pietas che il poeta spera porti qualche frutto (v. 19, quae prosit pietas utinam mihi); ma devozione e lealismo dell’esule sono soprattutto visibili in Pont. 4.9, la lunga e complessa epistola a Grecino in cui Ovidio celebra innanzitutto l’assunzione del consolato da parte del destinatario, quindi la futura investitura che presto toccherà al fratello Flacco, il quale nel frattempo ha ricevuto un incarico mili­ tare proprio nella regione del Ponto ed è pertanto in grado di testimoniare, come già Vestale in Pont. 4.7, la veridicità dei resoconti inviati dall’esule. Come notava Stephen Hinds nel saggio sopra menzionato, in questa epistola si rende particolarmente evi­ dente la ‘riconnessione’ del poeta relegato con il tempo civico del calendario romano, un tempo che l’esule, autorappresentandosi nel gesto di riprodurre anche in esilio le cerimonie e i riti della città imperiale, sembra in effetti aver efficacemente trasferito a Tomi – dove ormai la pietas del poeta è cosa nota (vv. 105 s., nec pietas ignota mea est: videt hospita terra / in nostra sacrum Caesaris esse domo). In virtù del discorso qui svolto a più riprese, importa osservare che la ciclicità del tempo registrato dal calendario civico tende sorprendentemente a riempire, in quest’ultimo libro di poesia triste, la vuota e inerte ciclicità del tempo dell’esilio di cui l’esule ha offerto più di una rappresentazione nel corso della ciclica pubblicazione dei vari libelli; il cronico, ripetuto allontanamento del telos dell’esilio, trasformatosi via via nel cronico e ripetitivo movimento ciclico di un’esperienza biografica e di una produzione poetica, trova infine un rimedio, necessa­ riamente e intrinsecamente parziale, nella (ri)­appropriazione di una temporalità cicli­ ca che, ai confini dell’impero, il poeta condivide con i suoi antichi concittadini – una temporalità ciclica che soprattutto lascia sullo sfondo, e forse abbandona del tutto, l’at­ tesa ‘lineare’ del telos conclusivo. In Pont. 4.9, dopo la puntuale descrizione delle varie attività di competenza del neo­console Grecino (attività che l’esule lo vedrà eseguire attraverso l’ausilio della mens: vv. 41 ss., mente tamen, quae sola loco non exulat, utar: /

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praetextam fasces aspiciamque tuos. / haec modo te populo reddentem iura videbit …), il poeta ardisce inserire fra l’altro la richiesta di supplicare il princeps per suo conto (vv. 51 s., atque utinam, cum iam fueris potiora precatus, / ut mihi placetur principis ira roges!); «nel frattempo», tuttavia, Ovidio si impegnerà a svolgere i propri doveri di cittadino attraverso la complementare celebrazione del «tempo della festa» (vv. 55 s.): interea, qua parte licet,141 ne cuncta queramur, hic quoque te festum consule tempus agam.

Come l’intero corso della poesia dell’esule, anche le attività di cui è reso conto in Pont. 4.9 si collocano in un tempo presentato come intermedio, un tempo cioè di attesa perché le suppliche del destinatario, quando (e se) effettivamente pronunciate, sortiscano l’effetto sperato; è tuttavia significativo il fatto che l’attesa di cui parla la no­ stra epistola costituisca un frangente temporale da cui risultano banditi i lamenti (ne cuncta queramur) – l’elemento che ha finora rappresentato una discriminante nella po­ esia dell’esilio di Ovidio. Il tempo vuoto dell’attesa, al cui interno abbiamo visto fra l’al­ tro collocarsi il mezzo e la comunicazione epistolari, appare qui relativamente ‘coperto’ dalle numerose incombenze scandite dal culto imperiale, che il poeta tiene a rispettare con una certa acribia: così, nella sezione finale dell’epistola, apprendiamo che Ovidio rivolge ai membri della domus – le cui immagini sono conservate nel sacrum, il «sacra­ rio» cui l’esule ha riservato uno spazio in casa propria – le preghiere e le offerte quo­ tidiane (vv. 111 s., his ego do totiens cum ture precantia verba, / Eoo quotiens surgit ab orbe dies), recuperando in questo modo la possibilità, che in Pont. 1.10 sembrava perduta, di scandire il passaggio dei diversi giorni; in via del tutto analoga, il poeta celebra regolar­ mente il compleanno di Augusto, che ora è un dio (vv. 115 s., Pontica me tellus, quantis hac possumus ara, / natalem ludis scit celebrare dei), senza più rammaricarsi, all’apparenza, dell’annuale ritorno del dies natalis, come accadeva invece per il proprio in trist. 3.13. La pietas ancora una volta dimostrata dall’esule, che qui è detta «silenziosa» (v. 124, contenti tacita sed pietate sumus), giungerà forse un giorno alle orecchie del Caesar Tiberio; quel che è certo, essa è già nota al Caesar Augusto divinizzato (vv. 127 s., tu certe scis haec, superis adscite, videsque, / Caesar, ut est oculis subdita terra tuis), la cui posizione in cielo è ora parimenti distante da Roma e dal Ponto: una posizione che anzi forse si avvicina, in una sorta di contrappasso, proprio a quella di Ovidio a Tomi (Pont. 4.9.129 s., inter convexa locatus / sidera; cfr. a stretto giro Pont. 4.10.39 s., proxima sunt nobis plaustri praebentia formam / et quae praecipuum sidera frigus habent), dalla quale in ogni caso sarà senz’altro più difficile, al nuovo dio, ignorare suppliche e trascurare carmina. ***

141

Su questo tipo di espressioni ‘formulari’ nella poesia dell’esilio di Ovidio è da vedere la definizione di Hardie 2002b, pp. 283 s. («reality qualification»).

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Epistolarità, comunicazione, chiusura dai Tristia alle Epistulae ex Ponto

La poesia dell’esilio di Ovidio termina per noi con un componimento la cui natura conclusiva risulta di per sé smentita dall’analogia di questo momento ‘finale’ con altri finali puntualmente disattesi nel corso della produzione tomitana (e non solo):142 se infatti da un lato la lunga lista di autori menzionati in Pont. 4.16, nel cui novero Ovidio inserisce infine se stesso (vv. 45 s., claro mea nomine Musa / atque inter tantos quae legeretur erat), fornisce un quadro della generazione di poeti successiva rispetto a quella di cui il poeta ha parlato nella ‘corrispettiva’ trist. 4.10 (sono gli autori della prima età tiberiana, sulla gran parte dei quali ricaviamo da questo testo le uniche notizie a nostra disposizione), il motivo del ‘poeta morto ma vivente’ che parla dal proprio stesso se­ polcro riceve qui un impiego addirittura più esplicito rispetto alla precedente sphragis (vv. 1 ss.): invide, quid laceras Nasonis carmina rapti? non solet ingeniis summa nocere dies, famaque post cineres maior venit: et mihi nomen tum quoque, cum vivis adnumerarer, erat.143

Il parallelo offerto da trist. 4.10, al cui gesto apparentemente conclusivo ha fatto seguito un altro libro e quindi un’altra opera, potrebbe a questo punto non soltanto indurre a sospettare dei closural elements presenti in Pont. 4.16, ma addirittura generare l’attesa di qualcosa di nuovo: nei versi finali del componimento si afferma esplicitamente che al poeta «è rimasta soltanto la vita», la quale non fa che rinnovare il sensus del dolore, ma soprattutto la materia (vv.  49 s., tantummodo vita relicta est,  / praebeat ut sensum materiamque mali). Quanto all’ultima immagine che il poeta lascia di se stesso, quella di un soldato o di un gladiatore o in ogni caso di un corpo ormai prostrato che non ha più spazio per accogliere nuove ferite (vv.  51 s., quid iuvat extinctos ferrum demittere in artus?  / non habet in nobis iam nova plaga locum),144 si tratta, come di consueto, dell’evoluzione 142 Sul parallelo formale con am. 1.15, cfr. Wulfram 2008, p. 263 (con ulteriore bibliografia). 143 Molto si è scritto su Pont. 4.16 e molto ci si è interrogati, soprattutto, sul significato da attribuire alla lista di ‘nomi non­nomi’ (almeno per noi) di autori che «qualify for footnotes in modern literary histories of Rome» (Tarrant 2002, p. 31); fra le letture più recenti, cfr. Martelli 2013, pp. 225 ss., dove acutamente si osserva che la lista è di per sé incompleta: «this catalogue is, to some extent, the culmination of the games with privacy and disclosure that the poet has played throughout – a point made especially clear when, near the end of the poem, Ovid refers to the many poets that he cannot mention because their work remains unpublished»; sembra del resto cogliere soltanto in parte nel segno, a mio avviso, l’idea che il poeta voglia far risaltare il proprio nome citando autori di scarsa o scarsissima rilevanza (cfr. Helzle 1989, p. 181). Sui rapporti con la tradizione callimachea (tema dell’invidia), cfr. in part. Galasso 2008b, p. 326; Casali 2016, p. 60. 144 Un’immagine di morte che appunto si pone in ostentato contrasto rispetto all’affermazione della vita svolta nel distico precedente, ulteriore variazione dello stato ‘metamorfico’ del poeta in esilio; sulla relazione fra l’immagine del poeta (completamente) ferito e i corpi mutilati delle Metamorfosi, cfr. Theodorakopoulos 1999, pp. 160 s.; sull’ultimo distico di Pont. 4.16 si veda inoltre Habinek 2002, pp. 60 s.: «the vagueness of the overall scenario focuses our attention on the body so abused

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di una situazione già presentata nel corso delle opere dell’esilio – nella fattispecie, in Pont. 2.7.39 ss.: iam dolor in morem venit meus, utque caducis percussu crebro saxa cavantur aquis, sic ego continuo Fortunae vulneror ictu, vixque habet in nobis iam nova plaga locum.145

Le infinite ferite che Ovidio ha ricevuto nel corso del suo esilio, e che in Pont. 4.16 han­ no ormai completamente ricoperto il corpo del poeta, moltiplicano e intensificano la ferita, unica e senza scampo, che al termine dell’Eneide ha subito Turno, la cui fine pari­ menti ‘esilica’ abbiamo già avuto modo di confrontare con il destino del nostro autore (Aen. 12.950 ss., hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit / fervidus; ast illi solvuntur frigore membra / vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras; cfr. Pont. 4.16.51, quid iuvat extinctos ferrum demittere in artus?). «The end of the Aeneid famously freezes time, without the consolation or solution of a coda: for all time […] Aeneas is monu­ mentally captured at the moment that he plunges the sword into Turnus’ body»;146 «a final death­blow and the naked physical reality of a victorious killing»:147 come è stato notato, il finale dell’Eneide si distingue per la relativa assenza di chiusura che lo caratte­ rizza, una conclusione violenta che fra l’altro segna allo stesso tempo un inizio, quello della storia della discendenza di Enea e quindi di Roma. Colpito dal potente fulmine di colui che di Enea è (stato) diretto discendente, Ovidio ha intrapreso la propria fuga, è disceso agli Inferi e, come Turno, ha visto cominciare – e mai finire – la storia di una lunga esistenza dopo la morte, segnata dall’eterno rinnovamento di quella prima, letale ferita.

it has no room for another blow, so dead (extinctus) it cannot die but must remain forever in a state of feeling loss». 145 Cfr. Green 20052, p.  381: «the earlier version claimed there was barely (vix) space for another wound, while now, with bleak finality, there is none» (enfasi mia). 146 Fowler 2000, p. 217. 147 Hardie 1997, p. 143.

Epilogo Sì è debile il filo a cui s’attene la gravosa mia vita che, s’altri non l’aita, ella fia tosto di suo corso a riva; però che dopo l’empia dipartita che dal dolce mio bene feci, sol una spene è stato infin a qui cagion ch’io viva, dicendo: «Perché priva sia de l’amata vista, mantienti, anima trista; che sai s’a miglior tempo anco ritorni ed a più lieti giorni, o se ‘l perduto ben mai si racquista?». Questa speranza mi sostenne un tempo: or vien mancando, e troppo in lei m’attempo. Petrarca, RVF 37.1 ss.

Nel corso dei lunghi anni di esilio a Tomi, Ovidio dà voce all’inedita versione di un’esperienza propria del poeta innamorato. Come abbiamo cercato di mostrare in questo lavoro, si tratta di un risultato cui l’esule – possiamo credere – sarà giunto suo malgrado, ma la poesia (elegiaca) che ne deriva riproduce un aspetto cruciale dell’ele­ gia d’amore, una caratteristica che ha appunto a che vedere con la sua estensione in un tempo biografico che si fa tempo poetico: la non­finitezza del discorso amoroso.1 1

Importanti riflessioni su narrazione e tempo nell’elegia erotica latina sono state prodotte in anni recenti, a cominciare dalla raccolta di Liveley – Salzman­Mitchell 2008. Uno dei punti fondamen­ tali in questo genere di studi consiste nella discussione del contrasto fra la linearità / teleologia dell’epica e la ciclicità / ripetizione dell’elegia (un’influente formulazione di questo contrasto, letto in senso politico, nel confronto fra le forme narrative di epica e romanzo si trova in Quint 1993, pp. 31 ss.). Interessanti approcci al tema sono proposti da Liveley 2010, una lettura della poesia di Properzio alla luce delle teorie narratologiche di P. Ricoeur; Gardner 2013, che discute la tensione

Epilogo

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Res immoderata cupido est (Pont. 4.15.31). Che l’amore non conosca modus, e che infinita non possa non risultare – di conseguenza – l’espressione poetica del desiderio, costituisce un’acquisizione che Properzio manifesta a più riprese, confermandola nel corso di un’intera carriera poetica.2 Fin dall’inizio, la donna di cui il poeta è innamo­ rato rappresenta, in una formulazione di rara efficacia e perciò celebre, gli estremi di un segmento che lascia poco spazio all’alternativa: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit (1.12.20). Ma quale finis? Il poeta presto si accorge che parlare di ‘fine’ quando si tratta di amore può non avere alcun senso: errat qui finem vesani quaerit amoris: / verus amor nullum novit habere modum (2.15.29 s.).3 Nemmeno la morte riuscirà a far sì che Pro­ perzio non appartenga più alla sua donna: huius ero vivus, mortuus huius ero (ivi, v. 36). Così, i limiti che via via il poeta immagina possano intervenire e concludere tanto il sentimento quanto l’elegia (ad esempio la vecchiaia in 3.5.23 ss., atque ubi iam Venerem gravis interceperit aetas …) si rivelano pur sempre suscettibili di smentite anche clamo­ rose. La morte costituisce in fondo la fine che in Properzio amore e poesia riescono sorprendentemente a superare, anche dopo la svolta segnata dal tentativo – riuscito – di dedicarsi a un altro, più impegnato tipo di elegia: letum non omnia finit (4.7.1). Che l’amore, al contrario, possa finire rappresenta, com’è noto e come si è anti­ cipato, la più sconcertante delle novità introdotte da Ovidio poeta erotico. Il ricono­ scimento del fatto che chi è innamorato può correre il rischio di non sapersi fermare (am. 1.9.9 s., mitte puellam, / strenuus exempto fine sequetur amans) si trasforma per il lusor amorum nella dissacrante ‘moltiplicazione’ della sofferenza amorosa causata da più donne: quid geminas, Erycina, meos sine fine dolores? (2.10.11); d’altra parte, il venir meno di quei ruoli che l’elegia aveva costruito e nei quali aveva rintracciato il proprio senso finisce per compromettere, già negli Amores, la necessità che a questa poesia venga attribuita una durata (potenzialmente) infinita:4 nell’elegia 2.19, l’ultima del secondo libro, Ovidio si accorge che il custode di Corinna trascura la sorveglianza – ma questo rende le cose meno appetibili, dal momento che «ciò che è lecito dispiace, ciò che non lo è attira ancor di più» (v. 3, quod licet, ingratum est; quod non licet, acrius urit). Se il po­ eta amante non dovrà più trascorrere notti fredde e insonni fuori dalla porta dell’ama­

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3 4

fra linearità/progresso maschile e ciclicità/differimento femminile sulla base delle riflessioni di J. Kristeva; Fulkerson 2018, uno studio del concetto di speranza in quanto ‘motore’ dell’elegia ero­ tica nella sua ciclica evoluzione. Sulla carriera di Properzio analizzata in termini di ripetizione e (falsa) chiusura è da vedere soprat­ tutto Heyworth 2010; sulla «false closure» segnata da Prop. 3.24, cfr. inoltre Wallis 2013. Heyworth 2009, pp. 272 ss. offre un confronto fra gli sviluppi ‘narrativi’ delle raccolte elegiache di Properzio e Ovidio. L’assenza di modus che segna la passione erotica è elemento già presente nel Gallo virgilia­ no: cfr. Verg. ecl. 10.28 e supra, p. 98 n. 61. Questo distico sembra trovare una riscrittura piuttosto significativa in un frammento declamatorio di Ovidio: cfr. Sen. contr. 2.2.10, facilius in amore finem impetres quam modum con Berti 2016, p. 25 n. 69. Sulla ‘dissoluzione’ dell’elegia d’amore realizzata da Ovidio poeta erotico­didascalico, cfr. Conte 1986.

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Epilogo

ta, il suo desiderio è destinato a scemare (vv.  21 ss., et sine me ante tuos proiectum in limine postes / longa pruinosa frigora nocte pati: / sic mihi durat amor longosque adolescit in annos, / hoc iuvat, haec animi sunt alimenta mei). Si giunge pertanto al paradosso: se il marito della puella non comincerà a sorvegliarla rendendo l’accesso più difficoltoso per il poeta, la donna «comincerà a smettere» di essere cercata da Ovidio (vv. 47 ss.): iamque ego praemoneo: nisi tu servare puellam incipis, incipiet desinere esse mea. […] lentus es et pateris nulli patienda marito: at mihi concessi finis amoris erit.

Il finis amoris di cui si parla al termine di am. 2.19 è immediatamente riecheggiato nel finis amandi di am. 3.1.15, il componimento che preannuncia il congedo dall’elegia eroti­ ca soggettiva. Per Ovidio l’esperienza d’amore e la poesia che ne parla possono dunque terminare: lo dimostrano, a maggior ragione, le opere di didascalica erotica che prose­ guono la carriera elegiaca del nostro autore. Se da un lato nell’Ars si parla della diffe­ renza fra uomini e donne quanto alla natura ‘limitata’ – e ‘limitabile’ – della passione erotica maschile (ars 1.281 s., parcior in nobis nec tam furiosa libido: / legitimum finem flamma virilis habet), il tentativo di rendere la libido «sottoposta a leggi» è esattamente il programma del poeta dell’Ars – e soprattutto dei Remedia, un’opera espressamente rivolta a chi ‘cerca la fine’ (rem. 143, qui finem quaeris amoris; cfr. v. 539, faciunt et taedia finem). Così, l’elegia ovidiana recupera a Tomi una caratteristica propria del genere che il versatile poeta degli Amores, dell’Ars e dei Remedia sembrava aver effettivamente compromesso: il carattere non­finito di una poesia che si presenta come intimamente legata a un’esperienza biografica segnata dall’incompiutezza del desiderio e dall’ine­ sauribilità del lamento. In un importante passo dei Tristia il poeta esule individua pro­ prio nell’amante un modello in grado di descrivere la propria condizione esistenziale e poetica: sentit amans sua damna fere, tamen haeret in illis, / materiam culpae persequiturque suae (trist. 4.1.33 s.). Nei Remedia Ovidio utilizza il verbo haereo a proposito di una temporanea sbandata da cui aveva saputo guarire (v. 311, haeserat in quadam nuper mea cura puella); sulle rive del Ponto, l’impossibilità di ‘separarsi’ dalla condizione di esule comporta per il poeta l’impossibilità di abbandonare la materia di una poesia dannosa e irrinunciabile al tempo stesso. La fine cui l’esule aspira si inquadra nel tentativo – vano – di ricondurre anche il lacrimosum carmen tomitano sul tracciato percorso dagli Amores rispetto alla poesia erotica senza modus dei modelli elegiaci; questa medesi­ ma aspirazione mostra del resto, retrospettivamente, che l’elegia non andrà giudicata genere non­finito in assoluto, bensì – ancora una volta – in quanto espressione di un

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desiderio insoddisfatto che, finché rimane tale, dà adito a una poesia in grado di sopra­ vanzare qualsiasi limite, di compromettere qualsiasi chiusura.5 Si torna dunque a Properzio: in un decisivo momento programmatico il cantore di Cinzia aveva affermato, generando una provocatoria tensione rispetto agli ideali poe­ tici callimachei altrove professati, che la quantità di argomenti che la propria donna si dimostrava in grado di suscitare rendeva possibile per il poeta concepire la composi­ zione di «lunghe Iliadi» – un ardito plurale, rafforzato dall’aggettivo, dell’opera lunga per eccellenza, paradigma di ‘infinitezza’ (2.1.14, tum vero longas condimus Iliadas; si confrontino le espressioni utilizzate nei versi circostanti: totum volumen; causas mille; maxima historia). In Pont. 2.7 Ovidio dice ad Attico che, se dovesse inserire nei propri carmi tutti i mala che l’esilio comporta, la cui summa (v. 29) supererebbe quella di una serie di oggetti elencati nei canonici adynata dei versi precedenti, ne risulterebbe «una lunga Iliade del mio destino» (v. 34, Ilias est fati longa futura mei). Può essere curioso pensare a Properzio e a Ovidio come nuovi Omeri, autori di un poema di cui si sareb­ be piuttosto portati a sottolineare la distanza dall’opera di entrambi; amore ed esilio hanno tuttavia reso variamente necessario, per entrambi, produrre una poesia capace di tendere all’infinito – una lunga storia di cui resta incerto l’epilogo.

5

A fronte del carattere non concluso e dell’andamento narrativo ciclico propri dell’esperienza del poeta amante, è importante a mio avviso non confondere la non­finitezza dell’elegia (in quanto narrazione che si sviluppa per ripetizione) con la sua ‘tendenza alla fine’, che al contrario – come questo studio ha cercato di dimostrare – determina lo sviluppo della narrazione anche elegiaca: a questo proposito rimando alle osservazioni svolte in Galfré 2021, pp. 35 s.

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Indici Indice dei passi citati Aeschl. suppl. 303 s.: 62 n. 85 AP 7.42.1, 5 s.: 90 n. 41 9.507: 33 Apollod. bibl. 1.9.24: 118 nn. 103, 104, 119 n. 107 Apollon. 4.445 ss., 480–1: 118 n. 103 Appian. bell. civ. 5.12.49: 63 n. 89 Aug. epist. fr. 22 Malc.: 62 n. 86 Callim. HE 1297–1300 = AP 9.507: 33 Catull. 1.1 s.: 32 30.10: 36 n. 15 46.2 s.: 124 n. 118 46.9 ss.: 104 n. 72 64.58 s.: 36

64.142: 36 70.4: 36 n. 18 101.1, 9: 105 n. 76 Cic. fr. poet. 10.5 C.: 168 n. 52 ad Att. 7.2.1: 33 n. 4 ad Q. fr. 1.3.1: 52 n. 61 de orat. 3.60: 162 n. 40 inv. 2.164: 71 n. 109 Manil. 22: 118 n. 105 nat. deor. 2.64: 112 n. 87 3.62: 112 n. 87 3.67: 118 s. orat. 161: 33 n. 4 Phil. 2.7: 158 n. 31 Cinna fr. 11.3 C.: 33 Enn. ann. 2–11 Sk.: 91 n. 41 210 Sk.: 168 332 ss. Sk.: 167

Eur. Med. 1334: 118 n. 103 Ferec. 3 F 32a–b Jacoby: 118 n. 104 Flor. 2.13(4.2).90, 92: 71 Fronto p. 154 v. d. H.: 13 n. 1 Gell. 15.7.3: 62 n. 86 Hom. Il. 16.33 ss.: 36 22.188 ss.: 167 n. 50 Od. 1.1 s.: 59 1.3: 57 1.4: 59 n. 77 9.19 ss.: 60 11.582 ss.: 123 n. 113 19.104 s.: 129 n. 126 20.18: 194 n. 110 Hor. ars 38: 69 n. 105 75 s.: 96 n. 59 135: 169 n. 56

231

Indice dei passi citati

carm. 1.2: 26 1.4: 124 n. 118 1.7: 57 n. 71 2.1.37 s.: 136 n. 143 2.20: 184 n. 91 2.20.4 s.: 110 n. 83 2.20.10: 110 2.20.13 s.: 110 n. 83 3.24.31 s.: 92 n. 47 3.25.1, 18 s.: 166 n. 47 3.30: 167 n. 48 3.30.1: 100 3.30.2: 184 n. 91 3.30.6: 100 3.30.8 s.: 109 3.30.10: 91 4.1.1 s.: 197 4.1.9 ss.: 197 4.2: 199 4.7: 126 ss. 4.7.3 s.: 126 4.7.7: 128 4.7.9: 124 4.7.9 ss.: 127 4.7.13: 127 n. 122 4.7.13 ss.: 127 4.7.23 s.: 127 n. 122 epist. 1.1: 196 1.1.2: 142 1.1.2 ss.: 66 n. 96 1.1.4 s.: 142 1.1.8 s.: 142 1.1.10: 142 1.2.21 s.: 59 n. 77 1.11: 57 n. 71 1.13: 157 n. 29, 189 n. 98 1.13.2, 6: 156 n. 24 1.13.10: 159 n. 33 1.16.1 ss.: 105 n. 75 1.20: 37, 78 n. 7 2.1: 157 2.1.12: 92 n. 47 2.2.109: 169 n. 56

sat. 1.4.66, 70: 66 n. 95 1.5.104: 106 n. 77 1.10.92: 37, 66 n. 95 2.1.1 s.: 169 n. 56 2.6.1: 104 s. 2.6.4 s.: 105 2.6.16 s.: 105 n. 75 Hyg. fab. 23: 118 n. 103 26: 116 n. 100 Iuv. 7.102: 169 n. 56 Liv. 28.25.13: 71 n. 110 31.4.2: 63 Lucan. 1.45: 62 n. 86 Lucr. 1.50 s.: 153 n. 16 1.66 ss.: 168 1.117 s.: 91 n. 41 1.404 ss.: 167 n. 50 1.922 ss.: 166 n. 47 2.263 ss.: 168 4.987 ss.: 168 n. 51 Manil. 1.13 s.: 168 n. 55 Mart. 1.35.10: 169 n. 56 12.2.15: 40 n. 28 Ov. am. epigr.: 82 n. 16 1.1.1 s.: 69 n. 105, 84 n. 22 1.1.2: 96 n. 58 1.1.26: 153 n. 16 1.3: 167 n. 48

ars

1.7.15 s.: 36 n. 16 1.9.9 s.: 213 1.15: 210 n. 142 1.15.7: 108 1.15.7 s.: 181 n. 81 1.15.38: 100 1.15.39: 92 n. 47 2.1.11 ss.: 84 n. 22 2.1.15 s.: 110 2.4.47: 167 n. 48 2.10.11: 213 2.18: 81 n. 16, 175 2.19.3: 213 2.19.21 ss.: 214 2.19.47 ss.: 214 3.1: 81, 83, 97 n. 60 3.1.15: 214 3.1.15 s.: 96 3.1.21: 167 n. 48 3.1.26: 101 n. 69 3.1.67 ss.: 84 3.1.69 s.: 97 3.12.41: 15 n. 5 3.15: 81, 83, 97 n. 60 3.15.8: 91 n. 44 3.15.17 s.: 169 n. 58 3.15.18: 101 n. 69

1.39: 101 n. 69 1.173 s.: 62 n. 84 1.281 s.: 214 1.437 ss., 455 s., 471 s., 482: 178 n. 79 2.128: 15 n. 5 3.26: 102 n. 70 3.345: 148 n. 3 fast. 1.1 s.: 22 1.4: 102 n. 70 1.15: 168 n. 55 1.85 s.: 62 n. 84 1.297 ss., 305, 307: 63 1.481: 105 n. 74 2.1: 88 n. 32 2.683 s.: 62 n. 84 3.790: 102 n. 70 4.9: 101 n. 69

232 4.730: 102 n. 70 4.837 ss., 841, 844: 116 n. 99 her. 1.2: 174 1.87: 60 n. 79, 61 2.25: 36 n. 16 3.3 s.: 155 n. 23 3.68: 156 n. 24 5.33 ss.: 115 n. 93 7.93 s.: 115 n. 93 7.115 ss.: 116 11.1 s.: 155 n. 23, 174 12.32: 115 n. 93 12.109 s.: 116 13.166: 52 n. 62 15.97 s.: 155 n. 23 17: 175 n. 71 18.203 s.: 39 n. 26, 185 n. 93 21: 175 n. 71 Ibis 1: 23 4: 159 n. 32 9: 131 n. 133 53 s.: 23, 42 61 s.: 42 n. 35 63 s.: 15 n. 8 65 s.: 23 189: 136 n. 144 195: 136 n. 144 241: 23, 131 579 s.: 130 n. 127 639: 43 639 ss.: 15 n. 9, 41 s. 641 s.: 43 643 s.: 23, 42 met. 1.1: 154 n. 18 1.3 s.: 24 1.4: 22, 113, 137, 196 1.151 ss.: 61 n. 82 1.163, 200 ss.: 61 n. 82 1.548: 49 n. 53 1.627: 62 1.666 s.: 62 2.323 s.: 49 n. 52

Indici

2.364: 182 2.367 ss.: 138 n. 148 2.527 ss.: 122 2.534 ss.: 138 n. 148 3.249 ss.: 111 s. 3.302, 305 s.: 68 s. 3.418: 49 n. 53 5.196: 49 n. 53 5.205: 49 n. 53 5.509: 49 n. 53 6.282a: 133 n. 137 6.301 ss.: 183 n. 86 6.310 ss.: 52 n. 60, 182 9.176–8: 112 n. 87 9.176, 178a: 133 n. 137 10.64: 49 n. 53 10.485 ss.: 45 n. 42 13.503 ss.: 13 13.541: 49 n. 53 13.711 s.: 60 n. 79 14.474: 134 15.147 s.: 168 n. 55 15.252 ss.: 45 s. 15.420 ss.: 27 15.553: 49 n. 53 15.868 ss.: 183 n. 89 15.873 ss.: 108 15.876: 91 n. 45, 92, 100 15.877: 109 15.877 s.: 28 15.878: 40 n. 27, 91, 100, 109 15.879: 91 Pont. 1.1: 146 n. 1, 150 ss., 191, 198, 201 n. 128 1.1.1 s.: 150 s. 1.1.3: 153, 171 n. 62 1.1.3 ss.: 151 1.1.7 s.: 151 s. 1.1.9 s.: 151 n. 13 1.1.11 s.: 152 1.1.13: 154 1.1.16: 154 1.1.17: 151 n. 12, 193 1.1.17 s.: 154 1.1.19: 174 n. 65, 196

1.1.21: 152 1.1.59 ss.: 180 s. 1.1.73 s.: 181 1.1.77 ss.: 181 1.2: 194 n. 112, 197 1.2.15 s., 115 s.: 195 n. 113 1.2.17 s.: 144 n. 163 1.2.26: 128 1.2.27: 15 n. 9 1.2.27 ss.: 181 ss. 1.2.37: 202 1.2.39 s.: 136 n. 144 1.2.63 ss.: 181 n. 82 1.3: 176, 204 1.3.13 s.: 176 1.3.16: 136 n. 144 1.3.25 s.: 183 1.3.87 ss.: 176 1.4.8: 183 1.4.9 s.: 183 1.4.17 ss.: 113 n. 88 1.4.22: 183 1.4.27 ss.: 59 n. 76 1.4.45: 183 1.4.53 ss.: 53 n. 63 1.5.3 s.: 200 1.5.7 s.: 184 1.5.10: 95 n. 55 1.5.43 s.: 184 1.5.53 s.: 184 1.5.67 s., 73 ss., 79–82: 184 n. 91 1.5.71: 184, 201 n. 128 1.6: 189 n. 97 1.6.1 ss.: 176 1.6.21 s.: 135 n. 142 1.6.29 ss.: 74 n. 117, 190 1.6.33 s.: 190 1.6.41 ss.: 190 1.7.15 s.: 177 1.7.23 s.: 177 1.7.35 ss.: 177 s. 1.7.45 ss.: 69 n. 104 1.7.46: 178 n. 77 1.7.47: 178 1.7.53 s.: 178 1.7.56: 105 n. 74

Indice dei passi citati

1.8: 199 n. 122 1.8.9: 201 n. 128 1.8.28: 128 1.8.69 ss.: 181 n. 82 1.9: 159 n. 34, 200 n. 126 1.10: 47 n. 48, 209 1.10.3 ss.: 113 n. 88 1.10.13 s.: 184 1.10.23 s.: 184 s. 1.10.37 s.: 185 1.10.41 ss.: 185 2.1: 189 n. 99 2.1.1: 200 n. 126 2.1.23 s.: 62 n. 84 2.2: 188 s. 2.2.1: 188 2.2.19 s.: 188 2.2.22: 188 2.2.23 s.: 188 2.2.39: 188 2.2.39 s.: 178 2.2.43: 189 2.2.57 s.: 135 n. 142 2.2.59: 18 n. 19 2.2.67 ss.: 189 2.2.123: 189 2.3.61 ss., 68: 189 n. 97 2.4: 187 s. 2.4.3 s.: 188 2.4.3 ss.: 177 n. 74 2.4.9, 11 ss.: 188 2.4.23 ss.: 188 2.4.31 ss.: 188 2.5.9: 151 n. 12 2.6.33 ss.: 190 2.7.17 s.: 190 2.7.29: 215 2.7.33 s.: 18 n. 19 2.7.34: 215 2.7.37 s.: 178 n. 78 2.7.39 ss.: 211 2.7.79: 68 n. 100, 190 2.7.83 s.: 190 2.8: 29 ss., 160 n. 36, 194 n. 112 2.8.1 ss.: 29 2.8.19 s.: 29

2.8.21 s.: 29 2.8.23 ss.: 29 2.8.33: 30 n. 54 2.8.34: 30 2.8.37 ss.: 29 2.8.41: 183 n. 89 2.8.42: 30 n. 54 2.8.43 ss.: 29 2.8.45: 30 n. 54 2.8.46: 30 n. 54 2.8.51 ss.: 29 s. 2.8.63 s.: 181 n. 82 2.8.71 ss.: 30 2.8.75 s.: 31 2.8.76: 71 n. 110 2.9: 201 n. 127 2.10.21 ss.: 57 3.1: 189 3.1.11 ss.: 184 n. 90 3.1.29 s.: 181 n. 82 3.1.43: 201 n. 128 3.1.43 ss.: 101 n. 69 3.1.133 ss.: 189 n. 100 3.2: 18 3.3: 189, 197 3.3.83 ss.: 189 n. 100 3.4: 189 n. 100 3.4.73 s.: 92 n. 47 3.6: 157 n. 26, 191 s., 201 n. 129 3.6.1: 165 n. 46 3.6.5 s.: 191 3.6.7 s.: 191 n. 104 3.6.9 s.: 192 n. 105 3.6.11 ss.: 191 3.6.21 s.: 191 3.6.23 s.: 192 n. 105 3.6.45 s.: 169 n. 56 3.6.51 ss.: 192 3.6.54: 201 n. 128 3.7: 157 n. 26, 191, 192 ss. 3.7.1: 15 n. 8, 193 3.7.1 ss.: 192 s. 3.7.7: 193 n. 108 3.7.9: 193 3.7.13: 194 n. 110 3.7.19 s.: 194

233 3.7.29 s.: 194 3.7.33 s.: 194, 205 3.7.37: 193 3.7.39: 194 3.7.40: 194 3.8: 194 s., 197 3.8.2: 194 3.8.7: 194 n. 112 3.8.19: 194 3.8.21 s.: 195 3.8.22: 194 3.9: 170 ss., 184, 201 n. 128 3.9.1: 15 n. 8, 171 n. 62, 193 3.9.1 ss.: 170 s. 3.9.3 s.: 181 n. 82 3.9.21 s.: 88 n. 32 3.9.26: 168 n. 51 3.9.33 ss.: 170 ss. 3.9.42: 174 n. 65 3.9.56: 202 4.1: 195 ss. 4.1.1 s.: 195 s. 4.1.3: 196 4.1.4: 196 4.1.9: 196, 201 n. 128 4.1.14: 196 4.1.29 s.: 197 4.1.35 s.: 197 4.2: 159 n. 34, 199 s. 4.2.3: 201 n. 128 4.2.3 ss.: 199 n. 122 4.2.5 s.: 199 4.2.15 ss.: 196 4.2.17 ss.: 199 s. 4.2.24: 159 n. 32 4.3: 201 s. 4.3.27 s.: 131 n. 134 4.3.28: 161 n. 37, 200 n. 126 4.4: 198, 200 s., 203 4.4.1 s.: 200 4.4.9: 200 4.4.25 s.: 201 4.4.29: 201 4.4.49 s.: 206 4.5: 179 4.5.1: 179

234 4.5.9: 179 4.5.11 ss.: 179 n. 80 4.5.15 s.: 179 4.5.30: 179 4.5.31 ss.: 179 4.5.39 s.: 206 4.6.3 s.: 204 4.6.5 s.: 203 s. 4.6.9 ss.: 197 4.6.11, 14, 16: 204 4.6.15 s.: 197 4.6.17: 204 4.6.19: 208 4.6.19 s.: 204 4.6.29, 33 s.: 195 n. 113 4.7: 201, 208 4.7.11 s., 36: 195 n. 113 4.8: 159 n. 34, 160 n. 36 4.8.31 ss.: 166 4.8.51: 167 n. 48 4.8.75 ss.: 195 n. 113 4.8.85 s.: 205 4.9: 198, 201, 203, 208 s. 4.9.41 ss.: 208 s. 4.9.51 s.: 209 4.9.55 s.: 209 4.9.71: 111 n. 84 4.9.75 ss.: 201 4.9.105 s.: 208 4.9.111 s.: 209 4.9.115 s.: 209 4.9.124: 209 4.9.127 s.: 209 4.9.129 s.: 209 4.10: 201 4.10.1 s.: 128, 204 n. 135 4.10.39 s.: 209 4.11: 200 n. 126, 204 s. 4.11.5 ss.: 204 4.11.11: 204 4.11.13 ss.: 205 4.12: 201 ss. 4.12.1, 25: 201 n. 128 4.12.9 ss.: 202 4.12.15 s.: 202 4.12.43 ss.: 202 4.12.44: 202 n. 129

Indici

4.13: 73 n. 116, 201, 202 n. 129, 206 4.13.1: 202 n. 129 4.13.9, 19: 201 n. 128 4.13.17 ss.: 199 4.13.19 s.: 85 n. 24 4.13.27 s.: 206, 207 n. 140 4.13.33 ss.: 206 4.13.37 ss.: 206 4.13.39 s.: 128, 204 n. 135 4.13.41: 206 4.13.42: 115 n. 94 4.14: 202, 206 s. 4.14.5, 6: 206 4.14.9 ss.: 207 n. 138 4.14.16: 207 4.14.17 ss.: 207 4.14.26: 159 n. 32 4.14.41: 207 4.14.47 s.: 207 4.14.55 s.: 207 n. 140 4.14.59 s.: 207 4.15: 201, 207 s. 4.15.1 s.: 202 n. 129 4.15.3 s.: 201 4.15.11: 201 4.15.13: 201 4.15.13 ss., 19: 197 n. 119 4.15.21 ss.: 207 s. 4.15.29 ss.: 208 4.15.31: 213 4.15.34: 159 n. 32 4.16: 210 s. 4.16.1 ss.: 210 4.16.3 s.: 92 n. 47 4.16.13 ss.: 175 n. 69 4.16.45 s.: 210 4.16.49 s.: 210 4.16.51 s.: 210 s. rem. 143, 539: 214 311: 214 811 s.: 39 n. 25, 102 n. 70 trist. 1.1: 78 ss., 104, 152, 155 s., 161, 179 n. 80, 196 1.1.1: 32, 79, 155

1.1.1 s.: 161 1.1.3 ss.: 33, 80 1.1.4: 22, 33 n. 5, 34 n. 8, 65, 166 1.1.5 ss.: 33 1.1.6: 33 n. 5 1.1.9: 34 n. 8 1.1.10: 33 n. 5, 77, 96 1.1.11: 33 1.1.13: 33 n. 5 1.1.13 s.: 155 1.1.15: 158 1.1.15 s.: 155 1.1.16: 79 1.1.17 s.: 179 n. 80 1.1.21 s.: 40 1.1.23 s.: 40 1.1.25: 41 1.1.67: 34 n. 8, 78 n. 9 1.1.67 s.: 152 1.1.68: 78 n. 9 1.1.69 ss.: 61 n. 82 1.1.72 ss.: 69 1.1.79 s.: 49 1.1.81: 87 n. 30 1.1.85: 35 n. 14 1.1.93: 153 n. 16 1.1.105 ss.: 83 1.1.107: 39 1.1.109 ss.: 83 1.1.117: 83 1.1.119 ss.: 183 1.1.123 s.: 42 1.1.123 ss.: 39 1.1.125 s.: 156 1.1.127: 38, 43 1.1.127 s.: 80 1.2: 48 n. 50 1.2.3 ss.: 56 n. 69 1.2.9 s.: 63 n. 90 1.2.25: 35 1.2.61: 69 1.2.64: 134 n. 139 1.2.71 s.: 44 n. 39 1.2.77 ss.: 57 1.2.81 ss.: 57 1.2.83: 35 n. 14

Indice dei passi citati

1.2.85: 39 n. 25 1.2.91 s.: 56 1.2.93 s.: 56 1.2.95 ss.: 43 n. 38 1.2.107 s.: 30 n. 55 1.3: 48 ss., 93, 101 n. 69, 182, 185 1.3.1 ss.: 51 s. 1.3.5 ss.: 48 s. 1.3.17: 52 1.3.21 s.: 44 n. 39 1.3.37 ss.: 43 n. 38 1.3.41: 52 1.3.48: 123 n. 112 1.3.61: 104 1.3.63: 52 1.3.73 s.: 115 1.3.80: 53 1.3.81 ss.: 53 1.3.84: 156 n. 24 1.3.89 s.: 53 1.3.91: 53, 161 n. 37 1.3.99 ss.: 54 1.3.102: 102 1.4.1: 122 1.4.5: 35 1.4.17 s.: 56 1.4.19 s.: 56 1.4.21 ss.: 56 1.4.23 s.: 35 1.4.26 s.: 44 1.5: 201 1.5.3: 49 n. 51 1.5.17 s.: 35 1.5.36: 35 n. 14 1.5.45 s.: 162 1.5.57 ss.: 58 s. 1.5.59 ss.: 63 1.5.60: 60 1.5.62: 63 1.5.66: 63 1.5.67: 60 1.5.69 s.: 61, 109 1.5.75 ss.: 63 1.5.81 ss.: 63 s. 1.6.13: 171 n. 61 1.7: 86, 89 n. 35

1.7.22: 87 1.7.28: 85 n. 27 1.7.31: 86 1.7.33 ss.: 22 n. 33 1.7.35 ss.: 85 s. 1.7.38: 85 n. 27 1.8.11: 36 1.8.14: 36 1.8.35 s.: 35 s. 1.8.39 s.: 36 1.9.2: 157 n. 27 1.9.42: 35 n. 14 1.9.59 ss.: 43 n. 38 1.10: 89 n. 38, 139 n. 150 1.10.1 s.: 117 1.10.3 s.: 102 1.10.13 s.: 38 n. 24 1.10.23: 38 n. 24 1.10.45: 56 n. 69 1.10.46: 104 1.10.48: 66 1.10.49: 104 1.11.1: 32, 37 n. 19, 157 1.11.1 s.: 37 1.11.3 s.: 36 n. 18 1.11.4: 55 1.11.7: 36 n. 18, 55 1.11.9 s.: 55 1.11.25: 104 1.11.25 s.: 39 1.11.25 ss.: 80 1.11.31 s.: 39 1.11.33 s.: 55 1.11.43 s.: 39 2.1 ss.: 65 2.3: 15 n. 7, 41 n. 33 2.3 s.: 207 2.15 ss.: 65 2.17: 66 2.27: 157 2.27 s.: 66 2.29: 71 n. 110 2.31 s.: 69 2.41 ss.: 70 2.93 s.: 66 n. 95 2.105 s.: 112 2.109: 43 n. 38

235 2.109 s.: 114 2.121 ss.: 67 s. 2.127: 71 n. 109 2.128: 178 n. 77 2.132: 134 2.133: 46 2.145: 54 n. 66 2.181 s.: 68 2.185 ss.: 65 n. 92, 80 n. 14, 81 2.207 ss.: 135 2.215 ss.: 61 2.217: 109 2.219: 62 2.344, 566: 159 n. 32 2.467 s.: 66 n. 95 2.571 s.: 131 n. 134 2.575 ss.: 68 2.576: 66 2.577: 85 3.1: 37 n. 19, 78 ss., 104, 151, 160, 179, 196 3.1.1: 78 s. 3.1.3 ss.: 78 n. 9 3.1.5: 96 3.1.6, 9: 79 n. 12 3.1.11 s.: 79 3.1.13 ss.: 80 3.1.15: 159 n. 32 3.1.15 s.: 161 3.1.17 s.: 80 3.1.25 s.: 79, 80, 160 s. 3.1.54: 37 n. 19, 157 3.1.65 s.: 82 3.1.67 s.: 82 3.1.75 s.: 68 n. 101 3.1.79: 82, 84 3.1.80: 82, 86 3.1.81: 83 3.2: 104 ss., 108 n. 79 3.2.1: 104 3.2.3 s.: 105 3.2.7: 105 n. 76, 134 n. 140 3.2.7 s.: 59 n. 77, 104 3.2.8: 105 3.2.11 s.: 104 3.2.15: 105 s.

236 3.2.15 s.: 106 3.2.17 s.: 106 3.2.19 s.: 105 n. 76, 106 3.2.21 s.: 106 s. 3.2.23 s.: 107, 178 n. 78 3.2.25 s.: 107 3.2.27: 105 3.2.29 s.: 107 3.3.1: 158 3.3.5 ss.: 105 n. 75 3.3.15: 158 3.3.59 ss.: 113 n. 89 3.3.85 ss.: 163 n. 43 3.3.87 s.: 158 3.4: 107 s., 164 n. 45 3.4.16: 35 n. 14 3.4.45 s.: 108 n. 79 3.4b: 164 ss. 3.4b.47 s.: 108 n. 79, 122 n. 111 3.4b.63 ss.: 164 s. 3.5.18: 73 n. 116 3.5.23 ss.: 73 3.5.29 s.: 73 3.5.31: 73 3.5.33 ss.: 73 3.5.39 s.: 73 3.5.43: 73 3.5.53 s.: 73 3.6.30: 136 n. 144 3.7: 108 s., 158, 161 3.7.1 s.: 158 3.7.2: 158 3.7.29 s.: 108 3.7.43 s.: 108 3.7.47 s.: 108 s. 3.7.49 ss.: 108 s. 3.7.51 s.: 61 n. 82 3.7.52: 100 n. 66 3.7.54: 109 3.8: 107 s., 109 ss. 3.8.1–6: 109 3.8.4: 109 3.8.7 ss.: 110 n. 83 3.8.11 s.: 110 3.8.13 ss.: 110 3.8.14: 87 n. 30

Indici

3.8.17 ss.: 111 3.8.19: 133 3.8.24: 113 3.8.29 ss.: 113 n. 88 3.8.39 s.: 112, 194 n. 111 3.9: 18, 114 ss. 3.9.5: 116 3.9.6: 115 3.9.7: 117 3.9.7 ss.: 115 s. 3.9.8: 117 n. 102 3.9.13: 116 3.9.19 s.: 117 3.9.23: 116 3.9.24: 119 3.9.25: 116 n. 99 3.9.27: 118 3.9.27 s.: 115 3.9.29 ss.: 117 s. 3.9.30: 116 n. 99, 119 n. 106 3.9.31 s.: 119 3.9.32: 120 3.9.33 s.: 114 3.10: 105, 121 ss., 201 3.10.1 ss.: 121 ss. 3.10.13: 124, 125 3.10.13 s.: 123 3.10.15 s.: 123 3.10.16: 124 3.10.23, 37: 124 3.10.25, 32: 124 3.10.34: 126 3.10.38: 124 3.10.47: 124 3.10.49: 124 3.10.53 s.: 124 3.10.69 ss.: 124 3.11: 111 n. 85, 130 ss., 161 n. 37 3.11.1 s.: 131 3.11.5 s.: 132 3.11.7 ss.: 132 3.11.17 s.: 132 3.11.19: 131, 135 3.11.35 s.: 133 3.11.37 s.: 133 s. 3.11.39 ss.: 135

3.11.42: 134 n. 138 3.11.56: 131 n. 133 3.11.57: 133 n. 136 3.11.59 s.: 134 n. 140 3.11.63: 135 3.11.64 ss.: 135 n. 141 3.11.72: 132 3.12: 23 n. 34, 105, 121, 124 ss., 207 3.12.1 ss.: 124 3.12.1–16: 125 3.12.14 ss.: 124 s. 3.12.17 ss.: 125 3.12.17–24: 125 3.12.25 s.: 125 3.12.27 ss.: 125 3.12.29: 125 3.12.30: 125 3.12.33 s.: 129 3.12.36: 130 n. 127 3.12.41 s.: 130 n. 127 3.12.43: 129 3.12.45 ss.: 129 3.12.50: 129, 130 3.12.51 ss.: 130 3.12.53 s.: 105 3.13: 136 s., 209 3.13.2: 137 3.13.3: 136 3.13.5 ss.: 136 3.13.10: 137 3.13.19 s.: 137 3.13.25 ss.: 137 3.14: 82 ss., 151 n. 14, 152 3.14.1: 83 3.14.5 s.: 82 3.14.8: 82 3.14.15 s.: 86 3.14.17 s.: 83 3.14.17 ss.: 82 3.14.19: 83 3.14.19 ss.: 85 3.14.20: 85 n. 27 3.14.22: 85 n. 27 3.14.25: 83, 152 3.14.29 s.: 83 3.14.37 ss.: 28

Indice dei passi citati

3.14.38: 85 3.14.39: 134 n. 140 3.14.41: 85 3.14.45 ss.: 84 s. 3.14.48: 199 n. 123 3.14.49 s.: 80, 151 n. 12 3.14.51: 86 3.14.52: 85, 88 4.1: 86 ss., 151 4.1.1 s.: 88, 91, 138 4.1.6, 8, 12, 13, 16, 17: 89 s. n. 39 4.1.19: 91 n. 42 4.1.19 ss.: 89 4.1.21 s.: 89 n. 38 4.1.29: 95 n. 55 4.1.33 s.: 214 4.1.49: 91 n. 42 4.1.49 s.: 89 s. 4.1.51 s.: 89 n. 38 4.1.59 ss.: 89 n. 38 4.1.71 ss.: 142 4.1.85: 151 4.1.89: 134 n. 140 4.1.92, 96: 159 n. 32 4.1.97: 87, 136 n. 144, 139, 205 4.1.99 ss.: 87 4.1.101 ss.: 95 n. 55 4.2: 129 n. 125 4.3: 108 n. 79 4.3.1 ss.: 122 n. 111 4.3.15 s.: 122 n. 111 4.3.20, 36, 39 s.: 54 n. 66 4.3.73: 101 n. 69 4.3.81 s.: 101 n. 69 4.3.84: 101 n. 69 4.4: 18 4.4.7: 158 s. 4.4.22: 158 s. 4.4.23 s.: 158 4.4.41 s.: 135 n. 142 4.4.45 ss.: 73 n. 117 4.4.47 s.: 68 n. 101 4.4.85 s.: 130 n. 129 4.5: 165 ss. 4.5.9: 165 s.

4.5.9 s.: 165 4.5.10: 165 n. 46 4.5.11: 166 n. 47 4.5.11 s.: 165 4.5.16: 165 4.6: 24 n. 39, 138 ss., 178 n. 79 4.6.1 ss.: 138 4.6.9 ss.: 139 n. 151 4.6.14: 138 4.6.15: 68 n. 100, 140 n. 151 4.6.15 s.: 138 4.6.17: 139 4.6.17 s.: 138 4.6.18: 138, 139 4.6.19 s.: 128 n. 123, 138 4.6.21 ss.: 139 4.6.22: 139 4.6.27: 87 n. 30 4.6.29: 139 4.6.39 ss.: 139 4.6.40: 140 n. 152 4.6.42: 139 4.6.43 s.: 140 4.6.49 s.: 128, 140, 180 4.7: 159 s., 162 s., 201 4.7.1 s.: 127 s. 4.7.3: 160 4.7.7 s.: 159 4.7.11a: 162 n. 41 4.7.21 s.: 159 4.7.23: 159 4.7.23 ss.: 160 4.8: 140 ss. 4.8.1 s.: 138 n. 148 4.8.5 ss.: 140 s. 4.8.17 ss.: 141 s. 4.8.25 ss.: 142 s. 4.8.33: 142 4.9: 161 n. 37 4.9.9 s., 19 ss., 25 s.: 132 n. 135 4.9.11: 133 n. 135 4.10: 23 n. 34, 86 ss., 210 4.10.1: 90 n. 40, 93, 94 n. 53

237 4.10.2: 92 4.10.21: 90 4.10.23 s.: 90 4.10.45: 88 4.10.51 ss.: 94 n. 53 4.10.61: 88 n. 33 4.10.61 ss.: 88 4.10.63: 89 n. 35 4.10.63 s.: 88 4.10.67: 88 4.10.85 s.: 89 4.10.95 ss.: 204 n. 134 4.10.109 s.: 93 n. 50 4.10.111 s.: 93 n. 50 4.10.112: 89, 91 n. 42 4.10.115: 93 4.10.118: 92, 99 n. 62 4.10.119 s.: 90 s., 91 n. 41 4.10.121 s.: 92 4.10.122: 91 n. 45, 100 4.10.124: 91 4.10.125 ss.: 92 4.10.126: 100 4.10.128: 91, 93 4.10.129 s.: 91 4.10.130: 89 4.10.131 s.: 91, 93 n. 48 5.1: 94 ss., 151 5.1.1 s.: 94, 150, 152 5.1.3: 94 n. 54 5.1.3 ss.: 96 5.1.6: 96 n. 58 5.1.15 ss.: 94 n. 53 5.1.22: 94 n. 53 5.1.29 s.: 15 n. 9 5.1.29 ss.: 98 5.1.31 s.: 99 n. 62 5.1.33: 99 n. 62 5.1.34: 120 5.1.35 s.: 25 5.1.35 ss.: 97 s. 5.1.36: 145 5.1.43: 159 n. 32 5.1.45: 98 5.1.47: 99 5.1.48: 96 n. 58 5.2.1: 151 n. 12, 160 n. 36

238 5.2.3 ss., 7 ss.: 140 n. 152 5.2.21 s.: 68 n. 101 5.2.43 s., 45 ss., 47: 160 n. 36 5.3: 108 n. 79, 137 n. 147 5.3.2 s.: 138 n. 148 5.3.54: 159 n. 32 5.4: 160 s. 5.4.1: 160 n. 36 5.4.1 ss.: 160 s. 5.4.17: 113 n. 90 5.5: 137 n. 147 5.5.62: 183 n. 89 5.6.5: 156 n. 24 5.7.1 s.: 160 n. 36 5.7.5 ss.: 162 5.7.23 s.: 113 n. 89 5.8: 161 n. 37 5.8.1 s., 27 s.: 133 n. 135 5.8.23: 68 n. 102 5.9: 162 n. 39, 166 ss. 5.9.1 ss.: 166 5.9.4, 5: 167 n. 48 5.9.7 ss.: 166 5.9.25, 32, 33, 34: 169 n. 56 5.9.25 ss.: 167 ss. 5.9.29: 168 n. 53 5.10: 23 n. 34, 24 n. 39, 143 ss., 169, 183, 194, 201 5.10.1 s.: 128, 143 5.10.3 s.: 143 5.10.5: 144 5.10.9: 143 5.10.15: 144 5.10.17: 144 5.10.21 s.: 144 5.10.27 s.: 144 5.10.33 s.: 144 n. 160 5.10.37: 144 5.10.45 s.: 145 5.10.51 s.: 145 5.11: 200 n. 126 5.11–13: 161 ss. 5.11.1: 171 n. 61 5.11.1 s.: 161 5.11.9, 22: 134 n. 139 5.11.29 s.: 161 n. 37

Indici

5.12.1 ss.: 162 5.12.15 s.: 162 n. 40 5.12.57 s.: 85 n. 25 5.12.61 ss.: 89 n. 36, 95 n. 55 5.13: 169 5.13.11: 163 5.13.15 s.: 162 5.13.19a: 162 n. 41 5.13.27 ss.: 163 s. 5.13.33 s.: 160 n. 36 5.14: 100 ss., 152 5.14.1 ss.: 100 s. 5.14.7 s.: 101 5.14.11 s.: 100 5.14.15 ss.: 101 5.14.23 s.: 101 5.14.24: 101 n. 69 5.14.41 ss.: 102 Pind. paean. 2.55 s.: 92 n. 47 Plat. Phaedr. 245a: 168 n. 53 Plaut. Aul. 555: 62 n. 85 Porph. epist. 1.1.1: 154 n. 19 Prop. 1.1.34: 153 n. 16 1.6: 57 n. 71 1.12.20: 213 1.22.1 s.: 129 n. 126 2.1.14: 18 n. 19, 215 2.1.19: 109 2.8.11: 100 2.15.29 s.: 213 2.15.36: 213 2.26.22: 167 n. 48

2.32.24: 167 n. 48 2.34.32: 91 n. 41 3.1.2: 168 n. 55 3.1.21 s.: 92 n. 47 3.3.1: 91 n. 41 3.5.23 ss.: 213 3.9.3 s., 35: 102 n. 70 3.24: 213 n. 2 3.24(25).37: 167 n. 48 4.1.70: 169 n. 58 4.3.3 s.: 155 n. 23 4.3.46: 156 n. 24 4.7.1: 213 4.11: 90 n. 40 Quint. inst. 10.1.88, 98: 14 n. 3 Sen. mai. contr. 2.2.8 ss.: 14 2.2.10: 213 n. 3 9.5.15 ss.: 13 Sen. min. ad Pol. 7: 62 n. 86 clem. 1.9.5, 12: 72 1.11.2: 70 1.25.2: 72 1.25.3: 72 n. 114 2.3: 70 n. 109 nat. quaest. 2.44: 69 n. 103 Serv. Aen. 1.137: 68 n. 100 3.172: 49 n. 51 7.790: 62 n. 85 Sil. 1.29 ss.: 61 n. 82

239

Indice dei passi citati

Soph. fr. 343 Radt: 118 n. 103 Stat. Ach. 1.4 s.: 168 n. 55 Suet. Aug. 53.2: 66 n. 95 Tac. ann. 1.5: 197 (n. 120) 1.11 ss.: 207 n. 140 Vell. Pat. 2.86.2: 71 Verg. Aen. 1.3: 105 1.3 ss.: 59 n. 77

1.279: 27 1.340 ss.: 116 n. 98 3.270 ss.: 59 3.271: 61 4.659 s.: 194 n. 110 5.608: 112 6.595 ss.: 136 n. 144 7.41: 106 7.116: 106 7.117 s.: 106 7.128 s.: 106 7.315: 106 8.112 ss., 114, 122, 123: 129 9.446: 166 n. 48 9.448 s.: 109 n. 81 12.349: 63 n. 88 12.359 s.: 63 n. 88 12.749 ss.: 167 n. 50 12.793: 72 n. 113 12.946 s.: 113 12.950 ss.: 211 12.951: 113 n. 88 12.952: 113

ecl.

1.24 s.: 61 n. 82 1.64 ss.: 63 2.68: 98 n. 61 3.111: 112 n. 86 4.169 s.: 115 n. 93 9.5: 63 10.28: 98 n. 61, 213 n. 2 10.29 s.: 99 n. 62, 112 n. 86 10.54: 88 n. 32, 167 n. 48 10.70: 112 n. 86 10.77: 112 georg. 2.476: 166 n. 47 3.3 s.: 153 n. 16 3.284 s.: 165 s. 3.291 s.: 166 n. 47 3.292: 168 n. 55 3.349 ss., 356 ss.: 123 n. 116

240

Indici

Indice dei nomi e delle cose notevoli A Absirto: 114, 115, 118, 119 Achille: 167 n. 50 Aconzio: 175 Adriatico (mare): 56, 118 n. 103 Agrippa Postumo: 197 n. 120 Alcinoo: 60 Alessandria d’Egitto: 57 Alessandro (Magno): 73 Amore: v. Cupido apertura vs. chiusura: 15, 25 n. 41, 26, 28 s., 34 n. 6, 44 ss., 54 n. 66, 75, 93 s., 107, 110, 168 ss., 173 ss., 177 ss., 187 Apollo: 105, 195 n. 113 Argo (mostro): 62 Argo (nave): 116, 117 Arianna: 36, 174 Asia: 57 Atena: v. Minerva Atene: 57 Atteone: 111 s. Augusto: 16, 26 ss., 46, 49, 54 n. 66, 56, 61, 62, 64 ss., 77, 80 n. 14, 82, 87 n. 30, 94, 98, 99, 103, 109, 110, 111, 112, 114, 115, 117, 120, 121, 131 n. 134, 132, 133, 134, 135, 136 n. 144, 138, 140, 141, 145, 153 n. 16, 156 n. 24, 157, 159 n. 33, 161 n. 37, 169 n. 56, 175, 178, 183 n. 89, 185, 188, 189, 191, 192, 197, 198, 201 n. 127, 202 n. 129, 203, 204, 206, 208, 209 – ira di: 68 s., 71 n. 110, 73, 98, 99, 111, 132, 133, 138, 185, 188, 189 n. 97 – morte di: 197 s., 202 n. 129, 203, 204 – successione di: 28 ss. Azio: 71 B Bosforo: 38 n. 24 Bruto (destinatario di Ov.): 150 ss., 170, 171 n. 62, 172, 180, 194, 195 n. 113, 203 Busiride: 133 C Caieta: 106 Callimaco/callimachismo: 33

Callisto: 122 s. Canace: 174 Caro (poeta): 73 n. 116, 199, 201 n. 128, 206 carriera poetica: 15, 19 n. 20, 21, 26, 90 n. 40, 143, 155, 169 n. 58, 213 s. Cartagine: 115 Celso: 159 n. 34 Cesare, Gaio: 62 n. 86 Cesare, Giulio: 27 n. 48, 71, 72, 125 n. 119 Cidippe: 175 Cinna (congiurato): 71 s. Cinzia: 215 clementia: 68 ss., 191 n. 104, 192 n. 105 closure (chiusura, fine) letteraria: 16 ss., 38 n. 22, 77, 81, 83, 84, 89, 91, 95, 97, 100 n. 66, 109 s., 136, 169 n. 59, 171 n. 62, 188, 211, 213 n. 2; v. apertura vs. chiusura Colchide: 114 Corinna: 88, 213 Cotys: 201 n. 127 Cupido/Amore: 84 n. 22, 96, 189 n. 100 D Danubio: 118 n. 104, 124, 126 Dedalo: 109 Diana: 112 Didone: 115, 116, 194 n. 110 Druso (maggiore e minore): 30 n. 54 Dulichio: 58, 60 E Eeta: 118 nn. 103, 104, 119, 120 Elena: 175 Eliadi: 182 s. Elicona: 90, 91 n. 41, 94 Enea: 45 n. 41, 56, 105, 106, 113, 116 n. 98, 129, 211 Epicuro: 168 epistola – come forma di comunicazione: 48, 101 n. 68, 150, 153, 155 ss., 172 ss., 178 s., 205, 209 – come genere: 147 n. 2 – temporalità della: 180 ss. Ercole: 133 n. 137

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Ero: 175, 185 n. 93, 186 n. 94 Ettore: 167 n. 50 F fade-out (‘dissolvenza a nero’): 200 Falaride: 131 n. 130, 133 Farsalo: 71 Fetonte: 27, 49 Flacco (L. Pomponio): 184 s., 198, 208 Fusco, Arellio: 14 G Gallione: 204 s. Gallo, Cornelio: 34 n. 8, 65 n. 93, 88 n. 32, 90 n. 40, 98 n. 61, 112 n. 86, 213 n. 2 Germanico: 30 n. 54, 166, 195 n. 113, 198 n. 121, 204, 205 Giasone: 59 n. 76, 116, 118 n. 103 Giganti: 61 n. 82, 63 Giove: 27 n. 48, 62 n. 84, 68, 72 n. 113, 110, 112, 168 n. 52 – Augusto come: 49, 61, 87 n. 30 – fulmine di: 49, 69 n. 103, 87 n. 30, 178 n. 77 Giunone: 68, 72 n. 113, 106, 112, 122, 133 n. 137 Grecino (C. Pomponio): 176, 185, 190, 203, 208 I Icaro: 110 n. 83 Igino: 82 Ilio: v. Troia Itaca: 59, 60, 61 Italia: 56, 129, 130 Iulo: 106 L Laodamia: 52 n. 62, 174 n. 68 Latona: 133 n. 137 Leandro: 175, 186 n. 94 limite vs. continuazione: 26, 44 s., 47 s., 51, 55, 64, 75 s., 77, 87, 98, 100, 120 s., 132, 140 s., 145, 146, 169, 170, 173, 177, 180 s., 187, 196, 198, 215 Livia: 29, 30, 71, 197 n. 120

241

M Macareo: 174 Macro: 57 Mar Nero: v. Ponto Marcia (moglie di Fabio Massimo): 197 n. 120 Massimo, Cotta: 29, 158, 159 n. 34, 183, 189 n. 97, 194 n. 112 Massimo, Fabio: 181, 183, 189 n. 100, 194 s., 197, 203, 204 Mecenate: 34, 102 n. 70, 104, 142, 143 Medea: 14, 81 n. 16, 109, 114 ss. Mediterraneo (mare): 58 Melibeo: 63 Messalino: 74 n. 117, 158, 177, 178, 188, 189 metamorfosi: 31, 45 ss., 48, 49, 52 n. 60, 55, 76, 95, 140 n. 152, 182 s. Minerva: 63, 117 Mirra: 45 n. 42 Mitridate: 118 n. 105 moglie di Ovidio: 52 ss., 100 ss., 105 n. 75, 122 n. 111, 134 n. 139, 137 n. 147, 158, 160 n. 36, 161, 162 n. 39, 163 n. 43, 183, 185, 189 n. 100, 193 Montano, Giulio: 13 n. 1 Montano, Vozieno: 13 s. morte – esilio come: 44 ss., 51, 86, 92, 93, 128, 211 Munda: 71 Musa/Muse: 87, 89 ss., 91 ss., 99 n. 62, 105, 167 s., 170 N navigazione – esistenza come: 35, 142 – opera letteraria come: 39 n. 25, 65 s., 102, 106, 117 Neriton: 59, 60 Nerone: 62 n. 86 Nestore: 183 n. 89 Niobe: 52 n. 60, 133 n. 137, 182 s. O Odisseo/Ulisse: 56, 58 ss., 105, 129 n. 126, 162 Olimpo: 61

242 P Palatino: 61 n. 82, 82 panoptikon: 62 n. 85 paraphrasis: 13 n. 1 Paride: 175 Penelope: 129 n. 126, 174 Perilla (destinataria di Ov.): 108 ss., 158, 160 Perillo: 131 n. 130, 133 n. 138 Perseo: 109 Pitagora: 45, 46 n. 44, 113 n. 89 Pompeo, Sesto: 179, 196, 197, 198, 200, 201, 203, 206, 207 s. Ponto: 57, 62 n. 85, 89, 95, 117, 118 n. 105, 125, 150, 151 n. 12, 153, 159, 164, 172, 189, 193, 201, 208, 209, 214 Priamo: 134 Prometeo: 87 n. 31, 136 n. 144, 145 Protesilao: 52 n. 62, 174 n. 68 R Ransmayr, Christoph: 200 n. 126 ripetitività/ripetizione: 14 ss., 22 n. 28, 26, 28, 29, 30, 48, 53, 65 s., 76 s., 83 n. 21, 88, 103, 121, 123, 124, 126, 127, 134 n. 139, 135, 138, 162 n. 38, 169, 171 ss., 177, 188, 192 s., 206, 207, 208, 212 n. 1, 213 n. 2, 215 n. 5 rischio dell’eternità: 26, 76 s., 113, 121, 123, 130, 181, 190 Roma – biblioteche di: 82 ss., 89, 109, 151 – pubblico di: 19, 21, 25, 32, 33, 34, 37, 40, 41, 46, 77, 78, 80 n. 14, 84 n. 23, 95, 103, 156, 172, 179 n. 80, 201, 203 n. 133 Rufino: 176, 183, 204 S Sabino: 174 n. 67, 175, 176 n. 72 Scauro: 13 Scizia: 104, 123 n. 116 Semele: 68 s. Severo, Cornelio: 159 n. 34, 196, 199 s. Socrate: 162 n. 40 Suillio: 159 n. 34 Sulmona: 207

Indici

T Tantalo: 20, 123, 136 n. 144, 145 Tapso: 71 telos: 24, 28, 31, 76, 103, 113 n. 90, 137, 169 n. 59, 180, 198, 204, 208 tempo – dell’attesa: 73 s., 76, 98 s., 103, 113, 114, 120 s., 139, 180, 187, 188, 189 nn. 97, 100, 190, 209 – della speranza: 54 n. 66, 73, 180, 189 n. 97, 197 – in Metamorfosi e Fasti: 22 ss., 75 n. 1, 76, 88 n. 32, 91 ss., 182 s., 191 – intermedio: 73 s., 99, 103, 107, 111, 120 s., 137, 180, 186 ss., 209 – lineare vs. ciclico: 22 ss., 27, 30, 76, 121, 128, 145, 146, 170, 180, 187 s., 203, 208 – nell’elegia erotica: 19 n. 20, 74 n. 117, 75 n. 1, 96 s., 98 n. 61, 212 ss. Teseo: 36 Teutoburgo: 129 n. 125 Tevere: 106 Tiberio: 29 s., 129 n. 125, 189, 197 n. 120, 200 n. 126, 204, 206, 207 n. 140, 209 Tizio: 87 n. 31, 136 n. 144, 182 n. 85 Tomi – abitanti di: 39 n. 25, 57, 124, 144, 206 s. – origine di: 114 ss. Torquato (destinatario di Hor.): 127 n. 122, 128 Trittolemo: 109 Trogo, Pompeo: 28 n. 49 Troia/Troiani: 26, 58, 60, 63 n. 88, 106, 134, 143, 144, 174 n. 68 Turno: 63 n. 88, 113, 211 Tuticano: 202, 207 U Ulisse: v. Odisseo V Varo (P. Quintilio): 65 n. 92, 129 n. 125 Venere: 84, 196, 197 Vestale: 195 n. 113, 201, 208 Vinnio: 156, 159 n. 33, 189 n. 98

pa l i ng e n e s i a Schriftenreihe für Klassische Altertumswissenschaft

Begründet von Rudolf Stark, herausgegeben von Christoph Schubert.

Franz Steiner Verlag

ISSN 0552–9638

101. Hendrik Obsieger Plutarch: De E apud Delphos / Über das Epsilon am Apolltempel in Delphi Einführung, Ausgabe und Kommentar 2013. 417 S., geb. ISBN 978-3-515-10606-1 102. Theokritos Kouremenos The Unity of Mathematics in Plato’s Republic 2015. 141 S. mit 8 Abb., geb. ISBN 978-3-515-11076-1 103. Stefan Freund / Meike Rühl / Christoph Schubert (Hg.) Von Zeitenwenden und Zeitenenden Reflexion und Konstruktion von Endzeiten und Epochenwenden im Spannungsfeld von Antike und Christentum 2015. 219 S., geb. ISBN 978-3-515-11174-4 104. Sonja Nadolny Die severischen Kaiserfrauen 2016. 257 S. mit 10 Abb., geb. ISBN 978-3-515-11311-3 105. Michael Müller Tod und Auferstehung Jesu Christi bei Iuvencus (IV 570–812) Untersuchungen zu Dichtkunst, Theologie und Zweck der Evangeliorum Libri Quattuor 2016. 413 S., geb. ISBN 978-3-515-11340-3 106. Hedwig Schmalzgruber Studien zum Bibelepos des sogenannten Cyprianus Gallus Mit einem Kommentar zu gen. 1–362 2016. 601 S. mit 1 Abb. und 8 Tab., geb. ISBN 978-3-515-11596-4 107. Stefan Weise (Hg.) HELLENISTI! Altgriechisch als Literatursprache im neuzeitlichen Europa 2017. 389 S. mit 5 Abb., geb. ISBN 978-3-515-11622-0 108. Armin Eich / Stefan Freund / Meike Rühl / Christoph Schubert (Hg.) Das dritte Jahrhundert

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Kontinuitäten, Brüche, Übergänge 2017. 286 S. mit 30 Abb., geb. ISBN 978-3-515-11841-5 Antje Junghanß Zur Bedeutung von Wohltaten für das Gedeihen von Gemeinschaft Cicero, Seneca und Laktanz über beneficia 2017. 277 S., geb. ISBN 978-3-515-11857-6 Georgios P. Tsomis Quintus Smyrnaeus Kommentar zum siebten Buch der Posthomerica 2018. 456 S., geb. ISBN 978-3-515-11882-8 Silvio Bär Herakles im griechischen Epos Studien zur Narrativität und Poetizität eines Helden 2018. 184 S., geb. ISBN 978-3-515-12206-1 Christian Rivoletti / Stefan Seeber (Hg.) Heliodorus redivivus Vernetzung und interkultureller Kontext in der europäischen Aithiopika-Rezeption 2018. 229 S., geb. ISBN 978-3-515-12222-1 Friedrich Meins Paradigmatische Geschichte Wahrheit, Theorie und Methode in den Antiquitates Romanae des Dionysios von Halikarnassos 2019. 169 S., geb. ISBN 978-3-515-12250-4 Katharina Pohl Dracontius: De raptu Helenae Einleitung, Edition, Übersetzung und Kommentar 2019. 571 S. mit 14 Abb., geb. ISBN 978-3-515-12216-0 Gregor Bitto / Anna Ginestí Rosell (Hg.) Philologie auf zweiter Stufe Literarische Rezeptionen und Inszenierungen hellenistischer Gelehrsamkeit 2019. 280 S. mit 2 Abb., geb. ISBN 978-3-515-12357-0

116. Antje Junghanß / Bernhard Kaiser / Dennis Pausch (Hg.) Zeitmontagen Formen und Funktionen gezielter Anachronismen 2019. 235 S. mit 3 Abb., geb. ISBN 978-3-515-12366-2 117. Stefan Weise Der Arion des Lorenz Rhodoman Ein altgriechisches Epyllion der Renaissance 2019. 321 S., geb. ISBN 978-3-515-12412-6 118. Katharina Pohl Dichtung zwischen Römern und Vandalen Tradition, Transformation und Innovation in den Werken des Dracontius 2019. 302 S., geb. ISBN 978-3-515-12089-0 119. Bernd Bader Josephus Latinus: De Bello Iudaico Buch 1 Edition und Kommentar 2019. 256 S., geb. ISBN 978-3-515-12430-0 120. Marco Palone Le Etiopiche di Eliodoro Approcci narratologici e nuove prospettive 2020. 240 S., geb. ISBN 978-3-515-12612-0 121. Klaus Meister Studien zur griechischen Geschichtsschreibung Von der Klassik bis zur Spätantike 2020. 346 S., geb. ISBN 978-3-515-12591-8 122. Anne-Elisabeth Beron / Stefan Weise (Hg.) Hyblaea avena Theokrit in römischer Kaiserzeit und Früher Neuzeit 2020. 216 S., geb. ISBN 978-3-515-12708-0 123. Donato De Gianni Iuvencus: Evangeliorum Liber Quartus Introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento 2020. 509 S., geb. ISBN 978-3-515-12844-5 124. Anne-Elisabeth Beron Calpurnius Siculus: Erste Ekloge Einleitung, Edition, Übersetzung und Kommentar 2021. 346 S. mit 12 Tab., geb. ISBN 978-3-515-12843-8

125. Bernhard Kaiser Streit und Kampf Die verbalen Angriffe gegen Sokrates in Platons Gorgias 2021. 256 S., geb. ISBN 978-3-515-12859-9 126. Gernot Michael Müller (Hg.) Figurengestaltung und Gesprächs­ interaktion im antiken Dialog 2021. 315 S., geb. ISBN 978-3-515-12906-0 127. Wolfgang Hübner Disiecti membra poetae Neue Spuren des astrologischen Lehrdichters Dorotheos von Sidon 2021. 115 S. mit 15 Abb., geb. ISBN 978-3-515-12924-4 128. Christopher Diez Ciceros emanzipatorische Leserführung Studien zum Verhältnis von dialogischrhetorischer Inszenierung und skeptischer Philosophie in De natura deorum 2021. 406 S. mit 1 Tab., geb. 129. Bernd Lorenz (Hg.) Gregor von Nazianz: Threnos über die Leiden seiner Seele (Carmen II, 1, 45) 2021. 112 S., geb. ISBN 978-3-515-13035-6 130. Georgios P. Tsomis Das hellenistische Gedicht Megara Ein Kommentar 2022. 236 S., geb. ISBN 978-3-515-13108-7 131. Friedemann Drews Hermeneutik und kritische Bibelexegese in Augustins De Genesi ad litteram 2022. XIV, 390 S., geb. ISBN 978-3-515-13110-0 132. Walter Kißel Personen und persona in den Epigrammen Martials 2022. 233 S., geb. ISBN 978-3-515-13128-5 133. Peter von Möllendorff / Gernot Michael Müller (Hg.) Gespräch und Erzählung Strategien und Funktionen des Narrativen im antiken Dialog 2022. 298 S., geb. ISBN 978-3-515-13245-9 134. In Vorbereitung.

Quando il poeta latino Publio Ovidio Nasone fu condannato all’esilio dall’imperatore Augusto, la sua vita subì certo un duro colpo, non così tuttavia da interrompere un’attività poetica cominciata fin dalla prima giovinezza. Nella lontana e inospitale Tomi, sulle rive del Mar Nero, l’esule torna alla pratica del genere elegiaco in una versione allo stesso tempo inedita e originaria, riscoprendone cioè un risvolto triste e lamentoso che ben si adatta alla situazione biografica corrente. Inaugurando questa nuova fase di vita e di scrittura, Ovidio si chiede soprattutto quando essa potrà finire. La cesura rappresentata

ISBN 978-3-515-13371-5

9 783515 133715

dalla condanna ha segnato un punto di non ritorno che da un lato ha prodotto la poesia dell’esilio ora in corso, dall’altro genera l’attesa di una futura nuova svolta tanto disperatamente agognata quanto ostinatamente presupposta: il momento del richiamo. Il volume offre un’analisi diacronica delle varie collezioni poetiche composte da Ovidio a Tomi e rintraccia nella storia che esse sviluppano la sottile ma ben percepibile tensione fra la volontà di chiusura manifestata dal poeta e il rischio dell’eternità cui il suo canto lacrimevole è intrinsecamente costretto.

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