Storia della musica dal Medioevo al Novecento 9788854811492, 8854811491

Il volume presenta, in un'ottica documentale ed interdisciplinare, autori, forme e modelli della civiltà musicale o

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Italian Pages 257 [260] Year 2007

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Storia della musica dal Medioevo al Novecento
 9788854811492, 8854811491

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A10 297

Pubblicazione del Dipartimento di Musicologia Liceo “Candida Lena Perpenti” – Sondrio Il curatore ringrazia il Dirigente Scolastico del Liceo “C. Lena Perpenti” di Sondrio, Dott.ssa Maria Grazia Carnazzola, per l’appoggio dato al progetto, avendone compreso tutti i presupporti didattici e metodologici che lo caratterizzano. In copertina: Carlo Saraceni, Santa Cecilia, particolare, inizio secolo XVII, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica

Storia della musica dal Medioevo al Novecento

a cura di Gennaro Tallini

Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065

ISBN

978–88–548–1149–2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: settembre 2007

INDICE

p. 9

Introduzione di Gennaro Tallini

1. L’Italia tra VIII e XI secolo: due casi di Gennaro Tallini p. 13 19 23

p. 27

1. Canto sacro e tradizione manoscritta in area Aurunca 2. Gli Exultet del Duomo di Gaeta 3. I Misteri

2. Guido d’Arezzo di Eugenio Tirelli 1. «Epistola de ignotu canto» di Guido d’Arezzo

3. Due madrigali di G. P. da Palestrina di Gennaro Tallini p. 37 42

1. Chiare, fresche e dolci acque 2. I vaghi fior e l’amorose fronde

4. Il Dialogo sopra la musica de’ suoi tempi di Vincenzo Giustiniani di Gennaro Tallini p. 49 55

1. Introduzione 2. Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la musica de’ suoi tempi

5. Armonia, musica, ricezione di Alessandro Pizzo p. 79 81 83

1. L’armonia come fondamento filosofico e psicologico 2. ricezione estetica ed armonia 3. Espressione e ricezione

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6. Estetica e armonia in J. S. Bach di Gennaro Tallini p. 87 91 103 111 116 117

1. l’estetica al tempo di Bach (1685.1750) 2. Dalle affezioni alla monade (1685-1722) 3. omogeneità dei fini e del bello (1723-1750 e oltre) 4. il fondamento cartesiano dell’armonia barocca 5. Gerarchizzazione, geometrizzazione, cartesianizzazione (I) 6. Gerarchizzazione, geometrizzazione, cartesianizzazione (II)

7. Da Beaumarchais a Da Ponte. Per una genesi del Figaro di Paola di Toma p. 125 127 129 131

1. La nascita del Figaro 2. Beaumarchais 3. Da Ponte-Mozart 4. La metamorfosi di Figaro

8. Alcuni appunti su Don Giovanni di Gennaro Tallini p. 139 141 143

1. Il tema letterario e la nascita del mito 2. Ideale umano e mito letterario 3. Mito, eroe e dimensione narrativa

9. «L’universale facoltà creatrice». Funzione estetica e dell’artista in Italia tra Settecento e Ottocento di Gennaro Tallini p. 147 157 161 168 171

1. Il pensiero estetico di Melchiorre Cesarotti 2. Angelo Mazza e la nozione di armonia come poesia pura 3. Omero e Prometeo 4. Dalla teoria estetica alla prassi produttiva: il quartetto d’archi 5. Retorica e narratività

10. I quartetti di Beethoven di Paola di Toma p. 175 179 180 181

1. I quartetti come nuovo linguaggio 2. I quartetti op. 18 3. I quartetti «Rasumowski» 4. Gli ultimi quartetti

7

11. Dalla Scapigliatura al Futurismo di Gennaro Tallini p. 191 204 209 224 229 232 242

1. Dissidi ed aspirazioni tra ‘800 e ‘900 2. Nietzsche e l'arte nuova 3. Estetiche e poetiche 4. La rivoluzione mancata (I) 5. «Modernità del ritorno alla tradizione» 6. Il manganello e la poltrona 7. La rivoluzione mancata (II)

INTRODUZIONE

Gli studi qui contenuti sono stati raccolti nell’intento di creare un quadro storiografico della civiltà musicale europea tra il Medioevo ed il Novecento che potesse essere utilizzato, anche in una chiave di lettura interdisciplinare, dagli alunni iscritti alle classi del triennio del Liceo Socio-psico-pedagogico “Candida Lena Perpenti” di Sondrio e da quelli iscritti alla Opzione Musicale in atto quell’istituto. La necessità di creare, però, all’interno del Dipartimento di Musicologia del Liceo “Perpenti” un libro di testo da adottare per lo studio quotidiano della storia della musica, è bene dirlo, nasce anche dalla esigenza di utilizzare un libro di testo davvero completo, adatto alle particolarità del triennio di liceo, non bloccato sullo specifico campo di indagine ma aperto invece alla comparazione con le altre discipline e compatibile con le specifiche attività di indirizzo musicale che la scuola ha attivato ormai da tempo. Attraverso l’indispensabile mediazione del docente, l’utilizzo dei materiali qui raccolti deve portare alla riorganizzazione ed alla gestione di nuove forme della didattica, progettate per accogliere proposte didattiche mirate, parte del Piano della Offerta Formativa della scuola e non altrimenti presenti sul territorio. Unico problema, appunto, il libro di testo; in circolazione, infatti, ad oggi, o si trovano testi di scuola media di primo grado (del tutto inadatti e spesso anche inattuali sia rispetto alle problematiche oggi sviluppatesi nella analisi disciplinare, sia rispetto alle effettive necessità, di studio ed approfondimento che richiede l’indirizzo liceale), o si utilizzano testi che nel fattore cronologico e bibliografico sono nettamente carenti. È appena il caso di dire che anche testi didatticamente avanzati, tacciono colpevolemente su tutto ciò che non sia musica

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Introduzione

classica. Pertanto: nessuna traccia del jazz, delle avanguardie e della neoavanguardia degli anni Cinquanta e Sessanta, del pop, del rock e di tutte le contaminazioni e modelli e forme della musica del Novecento postmoderno. È per questi motivi che il Dipartimento di Musicologia prima e poi il Collegio dei Docenti hanno fortemente voluto che si portasse a compimento tale operazione, affidando ad alcuni docenti, coordinati dal sottoscritto, il compito di raccogliere una serie di studi “fondanti”, necessari cioè sia alla determinazione degli snodi fondamentali della disciplina storico-musicale che al sua specifico rapportarsi alla cultura ed alle valenze interdisciplinari che la legano alla filosofia, alla storia, alla psicologia, alla pedagogia ed alla letteratura. Tutto ciò, a compimento di un percorso organizzativo graduale che ha visto, negli anni, rafforzare il Dipartimento stesso e poi, di volta in volta, ridisegnare i curricoli di studio, i programmi ed i contenuti disciplinari, le forme di collegamento e le abilità necessarie da acquisire per rendere davvero interdisciplinare il percorso di studi, trasformando la vecchia educazione musicale in un insegnamento esclusivamente storico-musicale, meglio suddividendo il programma in epoche e limitando al solo biennio lo studio della musica greca e romana e dell’alto medioevo (classi prime) e dell’Ars Nova e fino al Quattrocento (classi seconde). G. T.

1. L’ITALIA TRA VIII E XI SECOLO: DUE CASI

1. L’Area Aurunca, l’abbazia di Montecassino ed il ducato di Benevento come centri propulsori autonomi ed interdipendenti I principi di autoctonia, autonomia e regionalizzazione sono in ambito storico-musicale medievale fondamentali non solo per poterne riconoscere le peculiarità strutturali e formali, ma anche e soprattutto per poterne individuare le interconnessioni e gli stili espressi. Per questo, è importante determinare il significato più giusto dei tre termini per poterlo poi applicare alla ricerca. Nel contesto in cui ci stiamo calando dunque, autoctonia significa principalmente produzione locale, non mediata da altre identità territoriali; ogni autoctonia è autonoma per forme e strutture e per connotazione estetica della produzione stessa; regionalizzazione significa, in ultimo, connotare in confini ben precisi la stessa produzione artistica analizzata1. 1 La zona che c’interessa, ai fini del nostro lavoro, è il Basso Lazio; geograficamente, dovrebbe questa denominazione corrispondere alla parte sud della odierna provincia di Latina. Se parliamo di confini territoriali, risalenti, non solo al tempo del ducato, ma almeno anche all’epoca successiva, cioè tra il 1050 ed il 1550, allora dobbiamo partire addirittura dal territorio del comune di Fondi e giungere, verso sud, fino al Garigliano (cioè nel territorio di Sessa Aurunca, oggi provincia di Caserta), mentre, dalla costa dobbiamo spingerci oltre la cima del Petrella (monti Aurunci), verso la Terra Sancti benedicti o Stato di San Germano, cioè il monastero di Montecassino (che oggi invece è in provincia di Frosinone). Abbiamo già scritto altrove (in TALLINI G., L’arte e la croce. Tre studi sul Rinascimento, Ramponi, Sondrio, 2001 e La favola d’Adone da G. Tarcagnota e G. B. Marino. Studi sulla letteratura regionale del basso Lazio tra rinascimento e barocco, Libreria dell’Università, Pescara, 2001) che le fondamenta di una cultura autoctona, regionale o regionalizzata, con limites geografici riconoscibili, sono una realtà pluridimensionata all’interno soprattutto dei movimenti artistici originatisi soprattutto tra XI e XVI secolo. Nel caso specifico, la determinazione dell’autoctonia ed autonomia investe sia i centri aurunchi (Gaeta, Sessa Aurunca, Fondi) – che si dimensionano come centri attrattivi a livello artistico – sia i centri limitrofi (Capua, Montecassino, Terraci-

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Gennaro Tallini

Il contesto in cui le culture regionali hanno origine è sempre correlato alla necessità di trasformare linee direttive artistiche generali in sviluppi (contenutistici, formali e strutturali) “centrati” sulla realtà che li ospita. Il risultato, comunque oggettivo o soggettivo a seconda delle poetiche, risponde poi alle specifiche situazioni codificate e codificabili. Possiamo così considerare tali tutte quelle realtà aderenti al territorio d’origine e fortemente diversificate negli interessi e negli indirizzi: non solo poesia o narrativa quindi, ma anche le altre scienze, dalla filosofia alla pittura, dalla scultura alla medicina, dalla architettura ai movimenti culturali in genere. Rendersi autoctoni non basta, è necessario sviluppare contesti e teorie di rilievo, in cui l’autoctonia prenda le forme del genos ed attraverso di esso si ponga alla attenzione delle altre realtà. Il dimensionamento dei contenuti, delle forme e delle strutture avviene in fasi che ancora appartengono, per modi e canoni, alla fase precedente. In questo contesto, la cultura beneventano-cassinese o romanobeneventana è la più importante tra quelle che interessarono la costruzione culturale del nostro paese in epoca medioevale in quanto composta da diverse situazioni regionali, ben delineate in aree diverse della penisola e tutte caratterizzate da una produzione diversificata che, dall’epicentro di Montecassino, si è estesa e diffusa poi in tutta Italia. Essa prende il nome proprio dall’area geografica in cui ebbe origine, tra VII e XII secolo, il medioevale ducato longobardo di Benevento, la cui sfera d’influenza, politica, commerciale e culturale è stata nel tempo forte e duratura. A ridosso dei territori di Gaeta, Amalfi e Napoli, solo formalmente dipendenti da Bisanzio, il modello beneventanocassinese ha rivestito un ampio ruolo culturale con i Placiti di Capua e Sessa, il Chronicon vulturnense e l’opera di Petronace, Paolo Diacono, Aligerno e Desiderio, papa con il nome di Vittore III2. na, Pontecorvo), appartenenti a zone geografiche o subalterne all’area Aurunca o non comprese in quella eppure fortemente legate alle forme, alle strutture ed ai contenuti espressi in essa. La funzione attrattiva, rende soprattutto Gaeta, ma anche l’area Aurunca, autentici poli irradianti cultura nel complesso delle zone limitrofe circostanti, determinando una zona autoctona - stilisticamente unitaria a diversi livelli e modelli - ed una realtà interdisciplinare autentica, elaborata grazie alle caratteristiche progettuali dai singoli autori messe in atto al momento di creare lo stesso oggetto artistico. 2 RONCAGLIA A., Le origini, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. CECCHI e N. SAPEGNO, vol. I, Garzanti, Milano, 1965, pp. 3-224. Al riguardo della prima pubblicazione del

Diverse espressioni letterarie in Italia tra VIII e XI secolo

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Molteplici sono le prove di rapporti comuni tra ducato di Gaeta, abbazia di Montecassino e ducato beneventano ancora oggi leggibili, basti citare gli Exultet. Questo, anche se è possibile affermare che affermare che, mentre a Benevento si instaurava e cresceva una musica liturgica di indirizzo longobardo, nell’area geografica basso-tirrenica, contemporaneamente, si sviluppavano invece canti e liturgie di tipo bizantino: vuoi per quelle medesime ragioni storiche che diedero anche origine al ducato e per le caratteristiche politiche, culturali e sociali del territorio di riferimento – anche esso fortemente intriso, prima di latinitas e poi fortemente grecizzato - vuoi per la presenza, ampia e documentata, di monaci di rito greco. Il periodo di massima vicinanza della tradizione liturgica beneventana con la città di Gaeta, possiamo allora collocarlo nell’arco di tempo indicativamente compreso tra XI e XII secolo e cioè nel periodo (storico, letterario e musicale) in cui più forte si sente il peso della ufficialità del gregoriano sull’attività liturgica e musicale, autoctona e risalente all’insediamento dei longobardi. Naturalmente, la penetrazione del gregoriano non fu immediata e profonda, bensì graduale e spesso frammista alla pratica precedente, come nel caso dell’Antiphonarium conservato nell’archivio capitolare di Benevento in cui, di fianco alle formule musicali autoctone, sono presenti anche molteplici esempi di commistione tra le due realtà vocali. Tutte le testimonianze pervenuteci - conservate non solo a Benevento, a Gaeta, a Bari, a Capua, ad Amalfi ed in altre città del sud d’Italia, ma anche a Venezia, a Modena, a Grado, ad Udine - sono repertori vocali di nuovo modellati interamente tra il X ed il XII secolo da scriptores certamente avvezzi alle modalità calligrafiche ed esecutive romane - intervenute dopo la riforma pseudo-gregoriana della fine Placito capuano del 960, essa si deve alla cura dell’abate cassinese Erasmo Gattola, nobile gaetano, che la inserì nella Ad historiam abbatiae Casinensis, t. I, Venezia, 1734, pp. 68-69 (in sèguito ripubblicato integralmente in RONCAGLIA A., idem, vol. I, Garzanti, Milano, 1965 pp. 152-164). Segnaliamo qui l’opera di Erasmo Gattola perché, studi siffatti, coincidono con quella corrente erudita che negli stessi anni sta facendo nascere la moderna storiografia letteraria; non sia un caso che, luogo e anno di stampa dello scritto dell’autore Gaetano, coincidano con l’anno ed il luogo di stampa dell’opera, in nuce, del valtellinese Francesco Saverio Quadrio (Della ragione della volgar poesia, Venezia, 1734), in cui si avanzano ipotesi di validità estetica e letteraria della poesia italiana nella stessa maniera in cui, Gattola, riscontra nel campo storico-documentale, la medesima necessità.

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del VI secolo - ma anche capaci, a distanza di secoli, di saper integrare al meglio, per forme e strutture, le due modalità. Per questo, le linee melodiche originarie di questo codice liturgico - che risalgono al VI e VII secolo durante la dominazione longobarda e quando ancora il gregoriano non era diventato unica liturgia romana - sono state soltanto inserite e non sostituite o rimosse. Ecco perché, all’inizio, avevamo definito le linee corali anche romano-beneventane e non solo beneventano-cassinesi. Le prove per questa seconda e nuova definizione ci sono date da alcune testimonianze tuttora esistenti. Quelle scelte di commistione tra gregoriano e beneventano non venivano compiute sommariamente ed arbitrariamente: in particolare infatti, risentono di soluzioni miste solo gli Alleluja ed alcuni canti processionali a carattere antifonico. Uno di essi è contenuto nella messa in onore dei Dodici Apostoli (Ms. 40, Biblioteca Capitolare, Benevento) in cui, tipici canti della tradizione romana sono uniti ed affiancati a composizioni squisitamente beneventane. Ancora, nel più puro e chiaro stile beneventano è tracciata una raccolta di tropi ed una serie di undici fogli provenienti da un antifonario beneventano conservato all’archivio di stato di Venezia ed alcune testimonianze di medesima provenienza, conservate alla biblioteca arcivescovile di Udine ed alla biblioteca Marciana di Venezia3. Per ciò che riguarda invece i diversi tipi di Officia dei santi, il più presente, nelle diverse tradizioni liturgiche ed anche il più interessante per valore artistico e musicale - fatte naturalmente salve le diverse modalità d’esecuzione nell’una e nell’altra zona del paese - sembra essere quello dedicato a S. Marco, di cui esistono diverse fonti manoscritte. La maggior parte è stata raccolta e catalogata da Hesbert4 e si colloca in una serie di similitudini testuali che contraddistinguono sia

3 Biblioteca Nazionale Marciana, lat. XIV 232. Per le testimonianze udinesi invece, cfr. SCALON C., La biblioteca arcivescovile di Udine, Medioevo ed Umanesimo, vol. 37, Antenore, Padova, 1979, pp. 109-110; TURRI G., Breviaro monastico corale pomposiano del sec. XI (Udine, biblioteca arcivescovile, codice 79): prime ricerche, in «Analecta pomposiana», V, 1980; Le polifonie primitive in Friuli e in Europa, atti del congresso internazionale di Cividale del Friuli, 22-24 agosto 1980, a cura di G. CORSI e P. PETROBELLI, Roma, Torre d’Orfeo, 1989. 4 HESBERT R. J., Corpus antiphonarium officii, voll. I/VI, in Rerum ecclesiasticarum documenta, series maior, fontes 7-12, Herder, Roma, 1963-1979.

Diverse espressioni letterarie in Italia tra VIII e XI secolo

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le raccolte conservate all’archivio di stato di Venezia5, che quelle beneventane o anche del convento cassinese, è il caso del ms. Montecassino 5426. Tutte le indicazioni date, oltre a testimoniare il grado di sviluppo e di penetrazione7 di quella cultura, danno per certo alcune situazioni difficilmente ben identificate e sottolineate da tutti gli studiosi. Prima di tutto, la presenza di copisti formati per quello stile di scrittura e notazione, oltre che per lo stile romano, ancora molto tempo dopo la (presunta) unità di liturgie imposta dall’avvento del gregoriano, è ormai un dato di fatto assodato e difficilmente confutabile, anche guardandolo da altri punti di vista. Ancora, per cinque secoli l’attività musicale beneventana ha praticamente convissuto con quella gregoriana, di continuo contendendole il campo, senza mai avere grandi problemi di integrazione di stili, di forme e di strutture metriche, poetiche e musicali. Non che questi aspetti poetici ed estetici fossero oggetto di attenzione specifica a quel tempo, ma a ben guardare, non si può far a meno di giudicare positivamente - proprio dal lato del risultato estetico e letterario - quelle contaminazioni ed i risultati ottenuti. La pratica così condotta, ci conduce a pensare - tenendo conto del fatto che ci fossero scribi versati all’uso di entrambe le scritture e liturgie - l’esistenza di un canto estremamente frammentato su scala regionale, su cui il modello gregoriano viene imposto come regola nuova ed unica. Ciò però, non determina una sostituzione delle liturgie manu militari, anzi: nella maggior parte dei casi, assistiamo ad una convivenza che, se non dura dal punto di vista della notazione, sicuramente regge dal punto di vista dell’uso e dell’interscambiabilità del testo letterario. Naturalmente, è arduo valorizzare le linee espressive sin qui illustrate in un contesto storico univoco; è necessario infatti considerare le linee evolutive della scrittura e della musica liturgica beneventana come linee di corrispondenza biunivoche, che mantenga5

ASVE, Procuratori di supra, fogli 23v - 30v, reg. 114. FERRETTI P., I manoscritti musicali gregoriani dell’archivio di Montecassino, in «casinensia», I, 1929. 7 Per la linea veneto-beneventana, oltre ai contatti di Gaeta con Venezia stessa, un altro legame forte è nato con la Puglia - raggiungibile attraverso la via Appia - e con Bari in particolare, dove non a caso registriamo la presenza di altri Exultet in stile beneventano (sul patrimonio pugliese di codici manoscritti cfr. l’ottimo Tradizione manoscritta e pratica musicale. I codici di Puglia, a cura di D. FABRIS e A. SUSCA, Olschki, Firenze, 1990). 6

Gennaro Tallini

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no integre le influenze reciproche e le regole inamovibili e caratterizzanti dello stile, del canto, della propria tradizione di appartenenza. Sappiamo ad esempio, che in S. Vitale a Ravenna erano presenti alcuni monaci cassinesi; ebbene: proprio a Ravenna sono conservati due codici beneventani, importantissimi per conoscere proprio il fenomeno in discussione, come l’omonimo processionale e la sequenza Lux de luce8. Nel campo musicale medioevale ciascuna delle varie tipologie librarie destinate al culto è regolata a se stante. Ogni elemento di un graduale si distingue da quello in uso per un antifonario o per un passionario ed ognuno di essi può essere studiato proprio per le scelte che in quel solo testo e non in altri sono state operate dai compilatori; perciò ognuno di essi è lo specchio preciso di una sfera di influenze e contatti che travalicano il principio geografico per darci anche le coordinate di un fenomeno musicale e professionale che è la formazione, l’organizzazione ed il mantenimento di cappelle musicali, pertanto, la funzione (ad un tempo artistica, sociale e religiosa) assolta dai libri corali, a cui possiamo accostare anche i tre rarissimi Exultet del duomo di Gaeta, è di vitale importanza, anche soltanto per delimitare tutte quelle strutture estetiche e poietiche che hanno fatto del Rinascimento un movimento completo. Questi codices gregoriani perciò non hanno soltanto un valore artistico e religioso ma, per quanto detto sopra, ne assumono anche uno sociale e culturale. Il libro, nel medioevo cristiano, non era solo un semplice oggetto d’uso, valeva anzi come testimonianza imperitura della salvezza e la sua importanza simbolica non era inferiore a quella della Croce. Il cristianesimo quindi non attribuiva al libro la separazione della valenza comunicativa da quella del suo contenuto escatologico, anzi i due 8

ROPA G., La tradizione marciana e l’area emiliano-romagnola, in Da Bisanzio a S. Marco. Musica e Liturgia, a cura di G. CATTIN, Fondazione Levi-il Mulino, 1997, p. 268. Lo stesso fatto, pur avendo soltanto testimonianze manoscritte, possiamo registrarlo anche in quel di Lucca, con il Messale 606 conservato alla biblioteca capitolare - di notevole pregio non solo musicale, ma anche artistico e sicuramente meritevole di attenzioni critiche maggiori - in cui, le desinenze culturali beneventane sono evidentissime e non certo dovute soltanto alla comune appartenenza al popolo longobardo e/o agli scambi che le due città, proprio in virtù di quella comunanza, hanno potuto condividere. Le differenze quindi, sono dovute essenzialmente a variazioni esecutive, di liturgia, di calendario e di diverso uso dei rispettivi santorali e messali.

Diverse espressioni letterarie in Italia tra VIII e XI secolo

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attributi qui espressi erano visti come complementari ed indissolubili: anche per questo, la religione cristiana, a differenza delle altre culture antiche, era ed è una religione del Libro. Soprattutto nel medioevo, non solo la Sacra Scrittura, ma anche i libri per la liturgia (tra cui i corali), erano parte integrante dell’arredo sacro, al pari della Croce o dei molteplici reliquiari: anzi, soprattutto nei paesi nordici, essi erano considerati come vere e proprie testimonianze delle opere compiute da questo o da quel santo, in questo modo aggiungendo ai valori intrinseci all’opera stessa (cioè il valore artistico e religioso del manufatto in oggetto), un valore estrinseco, derivato dal suo uso.

2. Gli «Exultet» del Duomo di Gaeta Tra i libri corali dell’Archivio Capitolare, particolarmente tre se ne distinguono per manifattura e valore storico ed artistico. Stiamo qui parlando dei cosiddetti Exultet, canti gregoriani da eseguirsi durante il Praeconium Pasquale che prendono il proprio nome dall’incipit del testo liturgico cantato, variamente attribuito ora ad Ambrogio ora ad Agostino. Composti da pergamene arrotolate e cucite l’una all’altra fino a circa cinque metri di lunghezza, larghe circa 25 centimetri uno, 30 un altro e 20 l’ultimo e divisi in dodici periodi, ciascuno è miniato con colori vivaci (predominanti rosso e azzurro), intercalati alle vicende narrate nel testo stesso. Il diacono incaricato, la sera del Sabato Santo, svolgendo il rotolo, ne cantava il contenuto. In essi non soltanto sono segnati i neumi e la lectio, ma vi sono anche raffigurazioni esplicative, disegnate al rovescio rispetto al testo, in modo che, mentre l’officiante leggeva dall’alto dell’ambone, i fedeli sistemati sotto di lui, guardando le immagini, potevano comprendere meglio il significato della narrazione e quindi partecipare pienamente al rito religioso. La loro motivazione pratica è la stessa dei grandi affreschi romanici e gotici: istruire e guidare attraverso una visione didascalica e formativa che travalichi il semplice essoterismo delle immagini, per rivolgersi ai principi escatologici dei valori religiosi.

Gennaro Tallini

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Tabella 1. Catalogo dei manoscritti presenti a Gaeta Archivio Capitolo cattedrale

G

GAC 1

Archivio Capitolo cattedrale

K

GAC 2

Archivio Capitolo cattedrale

M

GAC 3

Archivio Capitolo cattedrale

M2

GAC 4

Museo diocesano

Exultet I

GAM 1

Museo diocesano

Exultet II

GAM 2

Museo diocesano

Exultet III

GAM 3

Museo diocesano

s. n. (Antico Testamento)

GAM 4

Museo diocesano

s. n. (Vita dei ss. Casto e Secondino)

GAM 5

Sia negli argomenti trattati che nella composizione essi variano di poco tra loro; simili sono chiaramente il testo e la notazione musicale, mentre risultano dissimili (ma non troppo), per forme e colorazione, le immagini esplicative, in un caso anche ricalcate su forme preesistenti; diversa è invece la collocazione cronologica. La compilazione del primo di essi (Ex.1), deve essere collocata prima dell’anno mille, intorno al secolo X, tenuto conto sia del modo in cui è disposta la notazione musicale, non ancora aggiornata alla riforma proposta da Guido d’Arezzo nel XII secolo, sia della disposizione delle figure, iconograficamente ancora bizantina; altresì, le illustrazioni in calce sono pienamente rispondenti alle forme, gli stili e le tipologie artistiche di quel periodo. Precedentemente scritto in caratteri beneventani (caratteristica comune a molti altri Exultet di fattura meridionale), composto di otto membrane cucite l’una all’altra, risulta essere stato abraso e riscritto, nel canto e nel testo, secondo la scrittura cosiddetta gotica rotunda intorno al XIV secolo. Grande valore rivestono le illustrazioni che, pur non possedendo la finezza e l’equilibrio delle miniature coeve più conosciute, comunque conservano in loro una dignità storica e documentale niente affatto trascurabile. Il secondo (Ex. 2), anch’esso come gli altri composto in caratteri beneventani disposti su quattro pezzi membranacei, risale invece ai primi anni cinquanta del X secolo, manca del foglio di avvio ed è mù-

Diverse espressioni letterarie in Italia tra VIII e XI secolo

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tilo in più parti, in testa e in coda; contrariamente al primo, qui sono state ritoccate le immagini e non la scrittura ed i temi principali trattati nelle didascalie sono posti in ordine diverso rispetto a quello. La notazione è neumatico diasistematica, mentre la liturgia è quella franco-romana; presenta in più punti lacune nelle illustrazioni e non molto ricche risultano essere le decorazioni, soprattutto per l’uso dei soli colori rosso, azzurro e giallo. Le figure rappresentate invece sono riccamente tratteggiate e assai curate nei particolari. Infine, il terzo (Ex. 3), tipologicamente derivante dall’Ex. 2, composto anche esso di otto fogli membranacei scritti in caratteri beneventani e mùtilo all’inizio, viene cronologicamente collocato al primo quarto del XII secolo, comunque non oltre il 1130, tenuto conto della presenza, fra le immagini, di un Discorso sopra il Cereo Pasquale in cui, lo strumento liturgico in oggetto risulta essere ancora mobile e non fisso; necessariamente, questa considerazione, ci impone il limite cronologico del XII secolo, periodo in cui, con il rinnovamento liturgico, gli stessi saranno collocati su colonne marmoree non più trasportabili. Sono qui da notare una pregevolissima Crocifissione - in cui il Cristo è raffigurato (quasi) nella stessa maniera che in Ex. 2 iscritta in un grande Ω con concreti riferimenti escatologici e apocalittici (tema sempre presente nella iconografia del tempo), e la presenza di un drago, rappresentazione simbolica del male, finemente miniato. Senza dubbio opera di artigiani locali, gli Exultet sono la testimonianza del passaggio dell’arte centropeninsulare dal linguaggio artistico aulico ed aristocratico di origine bizantina, ad una versione più complessa ed unitaria, nei caratteri e nelle forme, che tiene conto anche di quei richiami tardo-romani e barbarici, i quali, già presenti sul territorio, avevano ispirato innumerevoli varianti locali; soprattutto nel centro e nel sud d’Italia infatti - e Gaeta, con le sue leggi, la sua amministrazione e le sue cariche onorifiche, tutte di diretta derivazione bizantina, non sfugge a questa regola - affreschi, sculture e modi di scrittura che corrispondono ai cosiddetti modelli beneventani, dimostrano, per forme ed ispirazione, un originale intreccio di influssi della arte colta carolingia con quelli delle correnti non auliche delle pittura romana e delle tendenze drammatiche della provincia bizantina. Ciò che andiamo qui dicendo può essere facilmente provato osser-

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vando particolarmente l’Ex. 1, le cui illustrazioni tricromatiche comportano proprio queste affinità stilistiche, peraltro rintracciabili anche in altri Exultet e Benedizionali conservati a Capua, Salerno, Benevento ed alla Biblioteca Vaticana. Lo stile al quale essi possono quindi essere fatti risalire è certamente quello Romanico, e ciò vale tanto per Ex. 1 ed Ex. 2 nella loro completezza, quanto per Ex. 3 nella sua ridisegnata veste grafica; un Romanico dal carattere non certamente colto, anzi dalla forma rustica, fortemente stilizzata e morfologicamente semplice che, comunque ci rende partecipi del loro valore ed importanza, oltretutto, i tre Exultet sono indice di una cultura autoctona indipendente che ha saputo trasferire sul piano locale le istanze del tempo. Essi riproducono, grazie al patrimonio di immagini di cui sono portatori ed ad una ben definita strategia delle immagini stesse, quella volontà della committenza ecclesiastica di educare alla fede l’illetterato adepto, non solo attraverso la lettura della Sacra Scrittura, ma anche attraverso la visibile rappresentazione di essa; il che comporta la costituzione di tutta una serie di codici e rigide simbologie che, una volta assimilate, sono facilmente riconducibili a significati e concetti di base da memorizzare ed interiorizzare. Nelle miniature a carattere didattico (Salteri ed Exultet), dove le illustrazioni sono conformi ad verbum, ci troviamo spesso in presenza di immagini che derivano dalla struttura logica della lingua e che ad essa sono strettamente connesse; pertanto, le immagini, paradossalmente, sono più idealmente rivolte alla lettura che non alla specifica fruizione visiva, tratto questo, spiccatamente medioevale che si è conservato anche nei libri corali rinascimentali e nelle modalità di esecuzione fino al Cinquecento9.

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Una commissione cinquecentesca di altri libri corali, dimostra sia la presenza, ancora in quel periodo, nel territorio, di abili miniatori, sia la vitalità delle sue cappelle musicali («Ad officium dicti sacristae spectat, missis, et alijs divinis officijs bene, et diligenter gubernare dicta ecclesiam omnibus temporibus [...] et singulis diebus cantetur matutinum in aurora, seu ante, inde missa: et postea dicatur prima, tertia, sexta et nonam: et postea horis congruis cantetus vesperae, et completorium: et secundum oportunitatem celebrari debeant missae planae, ordinate una posta aliam [...]», Statuta, I, CCLXXXX). Il sacrista, «pro maiori solemnitate et devotionem», organizzava, nell’anniversario della dedicazione della chiesa della Annunziata, una sacra rappresentazione ad argomento mariano che prevedeva, in fine, la esecuzione di un canto gregoriano «altam vocem ut bene audiatur ob multitudinem gentium».

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3. Musica e teatro nei giullari La letteratura giullaresca del medioevo è un insieme di musica, recitazione mimica e forme di danza di chiara origine popolare, sia per il linguaggio che per le scelte contenutistiche utilizzate, le quali, unico caso nella tradizione letteraria italiana ed europea, non solo non ha mai avuto pretese di letterarietà, ma anche, non ha mai posseduto alcun valore letterario in sé, se non a livello d’esclusiva narrazione. Anzi, i giullari, usano la produzione orale tradizionale per raccontare una quotidianità ed una realtà che nulla ha a che vedere con la realtà cortese del tempo e che, soprattutto, è fatta di caratteri e tipologie di personaggi che non potrebbero neppure esistere nel tempo e nello spazio da essi scelto per la narrazione. È il caso della figura di Jesu, estrapolata direttamente dai vangeli apocrifi (più vicini alla pietas popolare e dunque più umanizzati dei sinottici) e arbitrariamente e anacronisticamente inserita nella narrazione. In particolare tra XI e XIII secolo lo spazio narrativo in cui agiscono i giullari è dunque sempre condotto tra la tradizione orale e le linee prò grammatiche principali in cui si muove invece la letteratura "alta". Se ne ripetono gli stilemi e si imitano le forme poetiche (evidente in alcune forme di narrazione la ripetizione, nel testo, delle ch'anso e della pastorella), fino al punto di costruire un preciso schema testuale in cui, musica e poesia, si fondono, imitando modelli provenzali sino nella ripetizione delle coblas che, in questo caso, divengono cellule narrative autonome caratterizzanti i contenuti stessi della narrazione. Accade così che, nel raccontare Maria davanti alla Croce, ricorrendo allo schema di Passio, le grida di disperazione delle donne che la circondano vengano trattate come parti vocali il cui testo, estrapolato dai vangeli, viene gridato più e più volte proprio seguendo lo schema delle coblas utilizzate nella poesia provenzale per i Lay. La posizione dei giullari, quindi, all'interno del percorso storico-letterario delle origini, è non solo antisociale per i contenuti espressi (è documentato oltre misura l'influsso che su di essa hanno esercitato le eresie, le narrazioni popolari, le credenze e la trasformazione lessicale dei volgari autctoni), ma anche intermediaria perché concilia le premesse socioculturali e letterarie alte con le istanze popolari.

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La giullarata si trasforma allora in Mistero Buffo; mistero perché collegata ad un tema sacro (o presunto tale) e buffo perché la sua narrazione non avviene secondo i canoni stabiliti dalla tradizione, ma su piani e momenti non collocabili a priori e soprattutto non predeterminabili a tavolino. Le giullarate sono necessariamente improvvisazione pura, almeno nella fase iniziale e cioè tra X e XI secolo. Esse si sviluppano in particolare in un’area gegrafica comprendente, più o meno, le province di Brescia, Pavia, Verona e Padova e sono, all'origine, solo trascrizioni di narrazioni orali. Solo in una seconda fase, ben più tarda, tra Trecento e Quattrocento, esse cominciano ad essere scritte e divengono dei veri e propri canovacci rappresentativi che il giullare utilizza come schema di rappresentazione; non è un caso che esista una corrispondenza solida tra l'area linguistica di riferimento e la lingua delle prime scritture. Misteri o Sacra rappresentazione che siano, questi testi fondano la loro necessarietà artistica sulla commistione (testuale e paratestuale) di caratteri narratologici diversi tra loro, i quali, pur non essendo ancora teatro, lo stesso, ne identificano i caratteri principali portandoci direttamente, alle soglie del Cinquecento, alla commedia dell'arte ed alle maschere tradizionali. La stessa invenzione del gramelot, una non-lingua che sottolinea il gesto e l’azione più che la parola in sé, è la prova della teatralizzazione obbligata, che, peraltro, mantiene il contatto con la realtà letteraria contemporanea utilizzando la novella morale come forma ulteriore di racconto. Infatti, alle soglie del Trecento, i giullari cominciano a rappresentare, non più solo temi sacri trasformati e parodiati, ma anche modelli narrativi (sempre sacri), ma con forte connotazione morale. È il caso della Moralità del cieco e dello storpio, comparsa in Francia intorno al X secolo come chanso e trasformata in racconto morale più o meno edificante un paio di secoli più tardi e ulteriormente trasformatasi in soggetto narrativo completamente teatrale ai primi del Seicento con il teatro gesuita. La distinzione, dunque, tra Sacra Rapresentatione, Mistero, Passio, Novella (altrimenti conosciute anche come moralitates) e giullarate vere e proprie, nell'ottica della comune matrice narrativa e visiva, non ha altra caratterizzazione che la commistione tra racconto, credenze

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popolari, linguaggi autoctoni e forme semplificate (o anche ripetute) della cultura ufficiale. In questa funzione la musica svolge un ruolo preminente, sia d’inquadramento del personaggio rappresentato, sia di sutura tra i diversi quadri, in una sorta di contrappunto musicale alla forza delle immagini rappresentate. In questo contesto la parodia - la trasposizione di canti e melodie sacre in campo profano ed in forme di monodia accompagnata da uno strumento - è l'unica fonte, tanto immediata quanto semplice, di costruzione del discorso musicale di supporto, in relazione soprattutto alle Passiones ed alle Moralitates. Ben presto però, il Gregoriano (utilizzato anche polifonicamente) o le sue parodie profane di derivazione provenzale e tedesca, progressivamente viene sostituito, un po’ in tutte le forme di Mistero, dai modelli musicali e poetici cortesi e la stessa parodia non viene più applicata ai testi sacri, bensì a quelli poetici che dunque, non cambiano funzione (rimanendo in ambito profano), ma funzionalità e scopi. La variazione, progressivamente in via di stabilizzazione, agisce di pari passo con la riduzione (anch’essa progressiva) degli attori e con la nascita del giullare vero e proprio, unico attore ed ideatore del testo narrato (anche in presenza di più personaggi recitati). Più o meno sempre nello stesso periodo (tra XII e XIII secolo), si rafforza anche la necessità di scrivere il testo della recita, giungendo, se non ad una vera e propria forma di teatro moderno che è ancora di là da venire, sicuramente alla teatralizzazione del narrato, regno dell’improvvisazione.

2. GUIDO D’AREZZO

1. «Epistola de ignotu canto» di Guido d’Arezzo Al beatissimo e dolcissimo fratello Michele, Guido, provato e rafforzato attraverso molte vicissitudini. O sono difficili le circostanze, o sono oscuri i termini della volontà divina, mentre, spesso, la falsità conculca la verità, l’invidia, che a stento trascura la comunità del nostro ordine, conculca la carità, perché l’assemblea dei Filistei punisca la malvagità degli Israeliti; allora infatti davvero è buono quello che facciamo, quando attribuiamo al nostro Creatore ogni nostro potere. Da qui deriva il fatto che io sia stato esiliato in confini lontani e te stesso soffocato dai lacci degli invidiosi, perché tu non possa neppure respirare. In questa situazione definisco noi simili o quell’inventore, che, presentando a Cesare Augusto un tesoro incomparabile e ignoto a tutte le generazioni, il vetro infrangibile, poiché aveva un certo potere su tutti gli uomini e pertanto credette di rivendicare un merito verso tutti gli uomini, con una sorte tristissima fu condannato a morte; se, infatti il vetro, come è trasparente, così potesse essere anche indistruttibile, tutto il tesoro imperiale, che era di diversi metalli, diventerebbe subito trascurabile. Così, fin da quel tempo fu sempre maledetta l’invidia, così come un tempo tolse loro il paradiso terrestre, sottrasse ai mortali anche questo vantaggio. Infatti, poiché la gelosia dell’inventore non volle istruire alcuno, l’invidia del sovrano volle far perire l’artefice con la sua arte. Per cui io, mentre Dio mi ispira l’amore, non solo a te, ma anche a quanti altri ho potuto, comunicai la grazia concessa a me, del tutto indegno, da

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Dio, con trepidazione e sollecitudine: i canti ecclesiastici che io e tutti prima di me abbiamo appreso con notevole fatica, apportino salvezza eterna a te, a me e a tutti i miei ascoltatori, avvenga, attraverso la misericordia di Dio, la remissione dei nostri peccati, o almeno una modesta preghiera dalla carità di tanti. Infatti, se intercedono in modo devotissimo, presso Dio, a favore dei loro maestri, coloro che da loro a stento in un decennio hanno appreso una conoscenza imperfetta del canto, che cosa ritieni che accadrà per noi, e i nostri ascoltatori, che nell’arco di un anno, o, al più, di un biennio, abbiamo formato un cantore perfetto? O, se la consueta miseria umana sarà risultata ingrata a tanto grandi benefici, forse che il giusto Dio non ripagherà la nostra fatica? O, forse, poiché Dio fa tutto questo e noi, senza di lui, nulla possiamo, nulla avremo? Non sia. Infatti anche l’apostolo, pur essendo la grazia di Dio ciò che è, canta tuttavia: «Ho combattuto la buona battaglia, ho concluso la corsa, ho mantenuto la fede; in serbo è conservata per me la corona della giustizia». Certi, dunque, nella speranza del compenso continuiamo in una opera di utilità tanto grande; e poiché dopo molte tempeste è tornata la serenità, a lungo attesa, si deve navigare felicemente. Ma poiché la tua servitù diffida della libertà, esporrò l’ordine dell’argomento. Dalla suprema sede apostolica Giovanni, che ora governa la Chiesa romana, ascoltando la fama della nostra scuola e come, attraverso i nostri antifonarii, i fanciulli riconoscessero canti mai ascoltati, favorevolmente stupito, attraverso tre nunzii mi invitò presso di lui. Raggiunsi allora Roma con il superiore Grunvaldo, reverendissimo abate, Pietro, capo dei canonici della Chiesa di Arezzo, uomo coltissimo in rapporto alla scienza del nostro tempo. Il pontefice si rallegrò molto del mio arrivo, parlando a lungo e ponendomi molte domande: trattando sempre quasi come un prodigio il nostro antifonario, meditando le regole prefissate, non smise, e non si alzò dalla posizione in cui era seduto finché non conosceva a memoria, in modo consapevole, un argomento di sua scelta, così da provare improvvisamente in se stesso ciò che a stento credeva negli altri. Che cosa dire di più? Costringendomi una malattia, non potevo restare a Roma se non poco tempo, poiché la calura estiva minaccia al

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nostro corpo un danno nei luoghi marittimi e palustri. Infine ci siamo accordati che, appena torna l’inverno io devo tornare là, in quanto debbo rendere nota questa tecnica al diletto Pontefice e al suo clero. Pochi giorni dopo visitai il vostro e mio padre Guido, abate di Pomposa, uomo carissimo a Dio e agli uomini per la sua virtù e la sua sapienza, che, dotato di ingegno perspicace, appena vide il nostro antifonario, subito lo approvò e gli fornì credito, si dispiacque di avere approvato, un tempo, i nostri avversari e mi pregò di andare a Pomposa, convincendo me, monaco, che i monasteri debbano essere preferiti agli episcopati, soprattutto Pomposa, a causa dello Studium che ora, per grazia di Dio e per impegno del reverendissimo Guido, è ora il primo che si trovi in Italia. Commosso dalla preghiera di un abate tanto autorevole e obbedendo alle esortazioni, voglio, con quest’opera, illustrare un tale e tanto prestigioso monastero e fornire la mia opera, da monaco, ai monaci, temendo che sia estesa a quasi tutti i vescovi la condanna di una eresia simoniaca. Ma, poiché non posso giungere al presente, nel frattempo ti rivolgo, un ottimo argomento, sulla necessità di scoprire il canto ignoto, concesso ora a noi da Dio, utilissimo e sperimentato. Quanto al resto, saluto il reverendo Martino, priore della sacra congregazione e nostro autorevolissimo ascoltatore, e raccomando moltissimo me, misero alla sua preghiera; penso anche al fratello Pietro, il cui ricordo è reciproco, che, nutrito con il nostro latte, non senza grandissimo impegno ora consuma l’orzo dei campi e dopo le auree coppe del vino ora beve aceto rimescolato. Ora agiamo per scoprire il canto ignoto, o fratello beatissimo! La prima e comune regola è questa: se intonerai le lettere, che un qualsiasi neuma abbia presentato, nel monocordo, ascoltando da questo potrai apprendere come da un maestro umano. Ma questa è la regola per i fanciulli, adatta per i principianti, del tutto inadatta a coloro che approfondiscono lo studio. Ho visto, infatti molti intelligentissimi filosofi che, per lo studio di quest’arte, richiesero maestri non solo italiani, ma anche francesi e tedeschi, o, perfino, greci, ma, poiché hanno confidato in questa sola regola, non riescono a diventare non dico musici, ma neppure cantori o sono riusciti, al più, ad imitare i nostri fanciulli salmisti. Non dobbiamo, dunque, chiedere sempre, per un canto ignoto, la voce di un

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uomo o di qualche strumento cosicché sembriamo procedere ciechi senza una guida, ma dobbiamo affidare a una raffinata memoria le differenze e le proprietà di tutti gli abbassamenti e di tutte le elevazioni di tono. Avrai, certo, un argomento per ritenere facilissimo e notissimo un canto mai udito se ci sarà chi saprà istruire qualcuno non solo con la notazione scritta, ma anche con il colloquio diretto, secondo il nostro costume. Infatti, dopo che ho cominciato a trasmettere ai fanciulli questo metodo, in meno di tre giorni alcuni di loro erano in grado di cantare in scioltezza canti sconosciuti, cosa che, con altri metodi, non poteva accadere neppure in molte settimane. Se, dunque, vuoi affidare alla memoria qualche nota o neuma, dovunque tu voglia, in qualunque canto, noto o ignoto, ti possa occorrere, nell’estensione in cui tu lo possa, senza dubbio, enunciare, tu devi notare questa voce o nel principio di qualche sinfonia [canto] ben nota e tenere pronta un intonazione di tal genere per ciascuna nota che deve essere ricordata, che cominci con la medesima nota: poiché è questa sinfonia, che io uso nell’istruire i fanciulli, all’inizio ma anche alla fine, vedi, dunque, come questa sinfonia, nelle sue sei brevi parti, tragga origine da sei diversi inizi? Se dunque qualcuno, così esercitato, riconoscerà il neuma di ogni breve parte in modo tale che, senza esitazione, possa cominciare qualsiasi breve parte avrà voluto, noterà ovunque le medesime sei voci e le potrà pronunciare facilmente secondo le loro proprietà. Ascoltando anche qualche neuma senza descrizione esamina quale fra tali brevi parti si adatti meglio alla sua fine, in modo tale che la voce finale del neuma e quella principale della breve parte siano di suono equivalente. Sii certo che il neuma è terminato in quella voce in cui ha inizio la breve parte che gli si adatta. Se, peraltro, avrai cominciato a cantare qualche sinfonia incognita regolata, si deve porre molta attenzione che tu concluda sempre il neuma in modo tale che la fine del neuma si congiunga bene con l’inizio della breve parte che ha inizio dalla medesima nota, in cui il neuma si è concluso. Dunque, perché tu enunci in modo appropriato canti mai sentiti, come li vedi descritti, o, sentendoli senza trascrizione, li possa riconoscere per poi trascriverli subito, ti gioverà, nel migliore dei modi questa regola.

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Poi ho collocato brevissime sinfonie sotto i singoli suoni, le cui brevi parti proverai gioia a trovare, dopo avere osservato con attenzione tutti gli abbassamenti e le elevazioni di tono, per ordine, agli inizi delle brevi parti stesse. Se, dunque, avrai potuto osservare questo, che moduli le brevi parti che vorrai dalla una e dall’altra sinfonia, accadrà che hai appreso le varietà, davvero molteplici e difficili, di tutti i neumi con una brevissima e semplice regola. Mentre rivestiamo appena con le lettere tutte le annotazioni, le spogliamo soltanto con una facile pronuncia. Come per ogni scrittura possediamo ventiquattro lettere dell’alfabeto, così in ogni canto abbiamo soltanto sette note. Infatti, come ci sono sette giorni della settimana, così ci sono sette note nella musica. Altre, poi, che si aggiungono, oltre alle sette, sono le stesse ed esprimono il canto in modo del tutto simile, se non in quanto suonano doppiamente più in alto. Pertanto sette le definiamo gravi, sette, invece, le definiamo acute. Le sette lettere, invece, sono designate non in modo duplice, ma dissimile, in questo modo: G A B C D E F G a b+ c d e f g aa bb cc dd. Chi desidera comporre un monocordo, distinguere qualità e quantità, similitudini e differenze dei suoni e dei toni si impegni pienamente a comprendere le regole che specifichiamo sotto. Nel monocordo, dunque, le indicazioni sono disposte con queste lettere o misure. Poni all’inizio il “gamma” greco, ossia il G latino e, cominciando da lì la linea, che soggiace alla corda sonante, dividi con la massima attenzione in nove parti, e dove la prima parte avrà raggiunto la fine accanto al “gamma” poni la prima lettera A e similmente da questa prima lettera alla fine devi dividere per nove, e, là dove la prima parte sarà finita, aggiungi la seconda lettera B. Dopo queste operazioni, tornando alla gamma, da qui alla fine dividi per quattro parti, e, alla fine della prima parte poni la terza lettera, C: similmente dalla prima A dividi per quattro parti e, similmente, segnerai la quarta come D. Allo stesso modo, così come con la prima è stata individuata la quarta, così, con la seconda, troverai E, la quinta, con la terza F, la sesta, e con la quarta G, la settima. Poi, tornando alla prima A, da questa alla fine

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troverai, al centro dello spazio, l’altra prima lettera e, similmente, con la seconda troverai la seconda b e con la terza la terza c e così in rapporto alle altre, nel medesimo modo, attraverso l’ottava. E, per costringere entro pochi i molti segni, in merito alla divisione del monocordo, tutti i toni, fino alla fine, corrono in nove passi. La quarta compie sempre quattro passi, la quinta tre, l’ottava due, poiché le dividiamo soltanto in questi quattro modi. Inoltre fai in modo che fra la seconda e la terza e fra la quinta e la sesta gli spazi siano brevissimi, e si chiamano semitoni; fra le altre note ci sono intervalli maggiori e sono detti toni. A tono B semitono C tono D tono E semitono F tono G. Le voci si congiungono reciprocamente in sei modi, tono, semitono, ditono, semiditono, quarta, quinta. Del tono e del semiditono abbiamo parlato prima; il ditono si ha mentre fra due voci vi sono due toni, come fra la terza e la quinta, e tutte le altre. È detto semiditono, poiché è minore del ditono, quando fra due note ci sono un tono e un semitono, D tono E semitono F. Quarta si definisce da quattro, quando fra qualche nota e la quarta rispetto a questa ci sono due toni, e un semitono D tono E semitono F tono G tono A. Non altrimenti, che in questi sei modi le note congiunte concordano o sono mosse; e questi sono detti sei movimenti delle note, con cui, reciprocamente, le note concordano o sono mosse. Questa concordanza, che avviene fra la medesima grave e la medesima acuta, come da prima a prima, da seconda a seconda, è detta ottava o diapason, ossia attraverso tutte (le note): comprende, infatti, tutte le note e cinque toni con due semitoni, ossia quarta e quinta. Questa ottava rende concordi le note a tal punto che non le definiamo simili, ma proprio le stesse. Tutte le note, peraltro, in tanto sono simili, e rendono simili i suoni e concordi i neumi, in quanto similmente vengono innalzate o abbassate secondo l’abbassamento dei toni e dei semitoni: ad esempio, la prima nota, A e la quarta, D si dicono simili e di un solo modo perché entrambe, nell’abbassamento dei toni e nell’elevazione hanno tono, semitono e due toni. Questa è la prima similitudine nelle voci, ossia la prima intonazione.

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La seconda intonazione è nella seconda, B, e nella quinta, E: entrambe, infatti, nell’abbassamento hanno due toni, nell’elevazione, invece, hanno un semitono e due toni. La terza intonazione si verifica nella terza, C, e nella sesta, F: ambedue, infatti, discendono di un semitono e due toni, ma ascendono di due toni. La sola settima nota determina una quarta intonazione, che nell’abbassamento esprime un tono, un semitono e due toni, nell’elevazione, invece, ha due toni e un semitono. Coloro che sono pienamente esercitati in questa tecnica, possono variare qualsiasi sinfonia secondo queste quattro intonazioni: per esempio, qualcuno inizia una stessa sinfonia all’inizio in prima nota A, poi in seconda nota, poi in terza. E secondo quanto le note stesse hanno una diversa posizione dei toni e dei semitoni, così pronuncerà in varie intonazioni, secondo tale proprietà di ciascuno. Cosa che è davvero utile e davvero facile fare, in questo modo: Dunque si deve comprendere con cura, di ogni canto, a seconda della proprietà con cui ciascuno suona, sia all’inizio, sia alla fine, sebbene noi siamo soliti parlare solo della fine. Sono stati scoperti, infatti, alcuni neumi con l’attitudine dei quali siamo soliti cogliere questo, poiché sembra che con qualche canto finito questo neuma si accordi bene alla sua conclusione. Con questo solo neuma siamo soliti riconoscere il primo tono, per quanto con un’altra sinfonia qualsiasi, che comincia con lo stesso suono, questo possa svolgersi in modo simile e, talvolta, perfino migliore. A sinfonie di qualsiasi genere ciascuno schema si adatti, ci si accorge che è di questo genere; così comprendi se pronuncerai bene qualche neuma, avendo considerato che esso è annotato convenientemente, in sinfonie dello stesso genere di quello in cui sarà stata annotata la tua sinfonia. Nota, inoltre, come noi definiamo modi quelli che, nelle formule dei toni, sono definiti non propriamente, ma con un abuso del nome, toni, mentre, in senso proprio, si definiscono modi o tropi. Anche questo devi sapere, come in tutti i modi, qualora sia risultato grave il canto, esso si debba adattare a intonazioni e a canti gravi. Qualora, invece, i canti siano risultati acuti, essi si riconnettono meglio a canti e ad intonazioni acuti. Pertanto hai, nelle intonazioni dei modi, due intonazioni in ciascun modo. La prima e la seconda intona-

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zione, infatti, sono del primo modo; la terza e la quarta del secondo, la quinta e la sesta del terzo, la settima e l’ottava del quarto. Per questo, dunque, si dicono otto toni, perché hanno otto intonazioni. Per cui i Greci, molto meglio, al posto di “primo e secondo tono” dicono “primo principale” e “di primo colpo”, al posto di “terzo e quarto tono” “secondo principale” e “di secondo colpo”, al posto di “quinto e sesto tono”, “terzo principale” e “di terzo colpo”, al posto di “settimo e ottavo tono”, “quarto principale” e “di quarto colpo”. Quello che i Greci indicano come “protum, deuterum, tritum, tetrardum” noi definiamo primo, secondo, terzo, quarto, e quello che essi definiscono “principale” noi lo chiamiamo maggiore e alto o acuto. In latino possiamo definire il “colpo” come soggiogato o minore o grave. Deve, certamente, conoscere queste otto intonazioni dei modi soprattutto chiunque voglia acquisire competenza nel canto, perché possa cogliere in quale modo nei singoli canti dei modi qualsiasi neuma o voce risuoni. Inoltre, sebbene io abbia detto che la prima, la seconda e la terza nota concordano con la quarta, la quinta e la sesta, in questo, però, differiscono e non esprimono in modo simile tutti i neumi, come a, b+, c hanno, dopo di sé, nell’abbassamento tre toni, davanti a sé, nella elevazione, due toni; ma, in verità, D, E, F hanno soltanto un tono nell’abbassamento, tre toni, invece, nell’elevazione. Dunque molti canti sono dello stesso modo, ma non dello stesso suono. Alcuni, però, che colgono meno questa differenza, aggiungono una nota negli acuti fra la prima e la seconda, perché ci siano due seconde, e risultino due toni e un solo semitono dopo D, E, F, così come dopo a, b+, c in elevazione e, di nuovo, d, e, f acute possono essere abbassate con due toni, così come a, b, c fino al punto in cui sia nulla la differenza fra D, E, F e a, b+, c in quanto ciò che può essere cantato in a, b+, c lo può essere anche in D, E, F. Affinché, comunque, alle singole note permanga la loro proprietà, è meglio che si osservi bene la natura dei canti e, là dove sembri che i canti comprendano tre toni, questo avvenga in c, d, e, f, soprattutto perché, per l’aggiunta di questa nota, può nascere nei semplici una grandissima confusione. Infatti, se ci sono due seconde dopo la prima, ove l’una si congiunga con la prima stessa con un semitono, l’altra con un tono è facile notare come questa stessa prima, e perciò anche le altre note contigue abbiano due toni, come la prima, se la segue un

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semitono, dal “proto” (primo) passa al “deutero” (secondo), se, invece, si ammette che la voce sia di due o più modi, si vedrà che questa ar” non si conclude in alcun fine, non è ristretta entro alcun termine certo. Nessuno ignora quanto questa situazione sia assurda, poiché è sempre di per sé inaccettabile un sapere, per così dire, confuso e indefinito. Se qualcuno dice che questa nota deve essere accresciuta in modo tale che F sesta grave possa salire a 5/4 sopra la linea verso a attraverso la quinta, o che la sesta discenda di un quinto, dovrà allora notare come fra la sesta F e la settima G si aggiunga un’altra nota così che la seconda naturale grave B si elevi alla quinta e la medesima acuta si abbassi alla quarta. Poiché questo non è stato fatto da alcuno, nemmeno quello deve essere fatto da alcuno. Dunque, come è dimostrato dalla natura stessa, e attesta l’autorità divina attraverso il beato Gregorio, sette sono le note, come sette i giorni; per cui anche il più sapiente fra i poeti cantò sette distinzioni fra le note, parere che anche i filosofi stessi confermarono con pari accordo. Si deve, quindi, fare in modo che, di qualsiasi neuma, si sappia in quanti e quali suoni possa essere, o non possa essere. Può, infatti, risultare nel terzo, nel sesto e nel settimo suono, poiché questi tre suoni si elevano, parimenti, in due toni, e la sinfonia stessa si realizza soltanto in due modi. Inoltre, la settima nota, in elevazione, si accorda con la terza: entrambe si innalzano di due toni e un semitono, e, alternativamente, di due toni. La settima nota concorda con la quarta, di un tono in elevazione, di un tono e un semitono in abbassamento e, in due toni, si canta in modo simile nell’una e nell’altra. Anche la prima ha in comune con la quinta tutti i neumi relativi all’abbassamento di tono; si abbassa, infatti, di due toni e un semitono. Queste note, dunque, hanno neumi simili: la prima con la quarta, la seconda con la quinta, la terza con la sesta, la settima con la prima o con la terza. Nessuna nota, del resto, ha più di quattro elevazioni o abbassamenti, perché non può essere resa più grave o più acuta se non verso la seconda o la terza o la quarta o la quinta secondo sei che ho indicato sopra, ossia tono, semitono, ditono, semiditono, quarta e quinta. Infatti quando una nota è mossa verso la seconda, o si realizza un tono, o un semitono; quando lo è verso la terza, si compie un ditono o un semiditono. Alla quarta o alla quinta non si accede se non attraverso un diatesseron (quarta) o un diapente

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(quinta). Considera, poi, che negli accrescimenti fino alle ottave il canto si innalza dalla sua nota finale; discende, però, soltanto di un tono sotto la finale, eccetto il terzo, che non è deposto dalla sua fine, poiché non ha sotto di sé un tono, bensì un semitono. Nelle battute dalla nota finale alla quinta discendiamo e ascendiamo, a meno che il canto sia più lungo, con una discesa attraverso battute e una elevazione autentica, fatto che, però, avviene molto raramente. Gli inizi anche dei canti si possono trovare in quelle note che, secondo le sei consonanze descritte, concordano con la nota finale. Se ne individuerai qualche altra, dalla sua stessa rarità dedurrai che è posta con base alla autorità: non vi sono infatti regole di assoluta certezza. Chi, del resto, non comprende questo, che, riguardo alle note, le parti, le distinzioni, i versi si svolgono come le sillabe? Tutte queste componenti concordano le une con le altre con eccezionale musicalità, spesso tanto più sono concordi, quanto più sono simili. Queste poche indicazioni, espresse come prologo dell’antifonario sulla forma dei ritmi e dei neumi, aprono, in breve, ma, probabilmente, a sufficienza la via all’arte della Musica. Chi sarà ancora curioso, cerchi il nostro libretto, intitolato Micrologus [breve discorso]. Legga anche con attenzione l’Enchiridion [Manuale] che ha composto, con grande ricchezza, il reverendissimo Abate Oddone, al cui modello ho rinunciato nelle sole immagini dei suoni, perché mi sono rapportato ai piccoli, non seguendo, in questo, Boezio, il cui libro non è utile ai cantori, ma ai soli filosofi.

3. DUE MADRIGALI DI G. P. DA PALESTRINA

1. «Chiare, fresche e dolci acque» Il poetare petrarchesco rientra più volte nel catalogo delle musiche palestriniane: solo il testo in oggetto, la Canzone CXXVI1, ricorre altre quattro volte lungo tutto l'arco produttivo del musicista. Questo evidenzia non solo il debito che Palestrina ha nei confronti di Petrarca, ma soprattutto evidenzia una viva musicalità del verso insita nel testo stesso, che travalica quella che già di per sè emerge dalla struttura (intesa come metro poetico) e dalle forme letterarie (sonetto, canzone, ballata ecc.). Non a caso la struttura poietico-musicale del brano è concepita in maniera tale che, attraverso varie cellule strutturali, trattate sia contrappuntisticamente che omofonicamente (battuta 10), vengano messe in evidenza particolari situazioni linguistiche ed onomatopeiche (lo stormire delle foglie, lo scorrere dell'acqua ecc.) che lo rendono attivo ed aderente ai significati immaginifici propri del testo letterario.

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Testo di F. Petrarca (1304-1374). Canzone CXXVI in 5 stanze, miste di endecasillabi e settenari. Lo schema è: abC, abC; c, dee, DfF (GhH nel commiato alla fine della quinta stanza). La fronte del componimento è divisa in due piedi di due settenari e di un endecasillabo ciascuno: la sirma, dopo il verso a chiave, sboccia in settenari, interrotti al quinto verso da un endecasillabo e poi, dopo un altro settenario, è conclusa da un endecasillabo a rima baciata con il settenario che lo precede. La presunta data di stesura è il 1345. Composizione polifonica a quattro parti tratta dal II libro delle Muse, a 4 voci. Madrigali ariosi di diversi autori con due canzoni di Giannetto da Palestrina, appresso Antonio Barre, Roma, 1558. Ogni riferimento testuale rimanda all’edizione curata da SCHINELLI A., Collana di composizioni sacre e profane, vol. III, nº 20, Curci, Milano.

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Tabella 1. Quadro riassuntivo dell’armonia VERSI

Versi 01-02 (prima sezione) «Chiare, fresche...» Versi 03 «pose colei che...»

RITMO MUSICALE

omofonico-accordale (battute 01-07)

ARMONIA RAPPR. ESTETICA grado congiunto calma idilliaca sol, fa, Mib.

Imitativo (battute 10-13) tonalità vicine al poggiarsi, adagiarsi Sol min. (sol, do, (intervallo disc. di fa³) 3ª) Versi 04-05 (se- Omofonico-accordale do, fa, Sib, Mib. conda sez.) «Gen- (battute 17-23) til ramo...» Versi 06 «A lei, di Contrappuntistico (bat- Mib, do, fa³, sol³, far al bel fianco...» tute 24-34) do. versi 07-09 (terza Contrappuntistido, fa³, do, sol frusciare dell'erba sezione) «erba e co/imitativo (V). fior...» (battute 34-43) versi 10-13 (quar- Accordale (battute 43- sol (V), do, sol ta sezione) «aere 62) (V), do, fa, Mib, sacro, sereno...» do. ripetizione del Accordale (battute 63- Sol, Mib, Sib, sol verso 13: coda 68) (V), Do.

Accanto a tipologie costruttive molto semplici vengono poste strutture armoniche e contrappuntistiche che non spezzano il delicato fraseggio poetico, e che anzi sono la risultante estetica di quelle tipologie (si veda ad esempio, l'inizio omofonico-accordale del brano in questione in cui, il senso di calma suggerito dal testo viene interpretato musicalmente attraverso l'uso di accordi fermi e di tonalità discendenti per grado congiunto). L'aderenza palestriniana ai principi poìetici di Petrarca sta tutta in questa semplice costruzione di rapporti armonici letterari e musicali; risiede tutta nel proficuo rapporto tra l'armonia della composizione musicale, intesa come diligente interazione e costruzione di tutti i rapporti inerenti le note in genere, e l'armonia del verso intesa come rappresentazione, codificazione ed interpretazione delle strutture testuali. Nell'analizzare i fondamenti armonici del brano di Palestrina, si deve tener conto di un fattore molto importante. Fino a tutto il Cinquecento, il concetto di armonia non era così rigoroso come noi oggi

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lo conosciamo: essa era semplicemente un concatenarsi di accordi collegati da note che i primi avevano (più o meno) in comune, tant'è vero che il concetto di armonia usato nel XVI secolo è un concetto improprio. In questo periodo si parla piuttosto di modalità, volendo indicare con questo termine - anch'esso se vogliamo improprio - la diretta derivazione dell'armonia rinascimentale dalla struttura dei modi gregoriani. Per comodità di esposizione abbiamo diviso la composizione in quattro sezioni ben distinte basandoci sui diversi modi di comporre qui impiegati dall'autore. Naturalmente si è tenuto ben presente la differenza di stile, omofonico e/o contrappuntistico, che Palestrina usa a seconda delle risultanti estetiche che egli trova insite nella lettura del testo poetico, qualunque esso sia. Nel tracciare questo breve profilo che chiameremo armonicotestuale non abbiamo preso in considerazione alcuna particolare trattazione in quanto, sul tema in questione, o non esistono studi particolari, o non si è mai affrontato il problema da un punto di vista comune ma solo da punti di vista rigorosamente separati. Tutti i 13 versi di Petrarca sono stati divisi in base al numero di battute che Palestrina usa per ogni sezione, pertanto i numeri tra parentesi ed i numeri posti prima dei singoli versi riportano ai numeri di battuta sulla partitura corale. Il brano si apre con un andamento omofonico-accordale per grado congiunto (si passa dalla tonalità di sol a Fa, a Mib). Sulle parole «Pose colei» si instaura una struttura imitativo-contrappuntistico basata sulla terza discendente sol-Mib o sol-mi naturale (battuta 10). Si ritorna quindi alla struttura accordale ed alle tonalità toccate in b. 01-07. Interessante sottolineare come, attraverso un ritmo in levare (b. 20-23) ben delimitato da pause di ¼, si determini musicalmente la rappresentazione - il cui uso si limiterebbe alla sola valenza letteraria delle parentesi che Petrarca aveva introdotto al verso 5. Fattore importante in questo specifico caso, è il ritorno contrappuntistico-imitativo dell'inciso tematico usato già alle b. 07-17 e questa volta usato sulle parole «a lei di far» (battute 07-17 e 23-28). NellaTerza Sezione (battute 33-44) si apre qui una breve fase contrappuntistica in forma di canone alla quinta che, in seguito, da luogo ad un'altra serie di strutture omofoniche in cui sono da segnalare le

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figurazioni di semiminime puntate e crome che ben si addicono alla descrizione della gonna leggiadra che ricopre «erba e fior». Importante nella Quarta Sezione (battute 44-62) risulta essere la totale assenza di una struttura imitativo-contrappuntistica sia pur breve come nelle altre sezioni. Quest'ultima infatti poggia esclusivamente su strutture omofoniche; solo a questo serve lo stacco operato alle b. 5356 e alle b. 57-62 alfine di far risaltare rispettivamente le parole dei v. 12-13 e quindi dare un senso reale a quella humana pietas che traspare da essi. Si badi però che questo riaffermare modi compositivi già proposti non è assolutamente un modo per Palestrina di ritornare al sentire idilliaco della sezione d'apertura, anzi, egli ha ben presente le due anime che il Poeta ha posto in essere nel testo: da un lato infatti, abbiamo un'inizio idilliaco scandito dalla semplicità descrittiva ed immaginifica del testo poetico d'apertura, e dall'altro un finale tragico, questa volta inquadrato in una dimensione onirica, in cui il Poeta si strugge e si perde. Il ritorno ai modi ed alle modalità è da vedere quindi più come un tentativo del musicista di legarsi ad una forma che, attraverso la sua struttura ed il suo contenuto sia ben comprensibile, che non come un ritorno a temi e contenuti letterari che non hanno più ragione d'essere. Altrettanto importante è la presenza della Coda, alle b. 63-68 che, grazie alla ossessiva presenza dell'omofonia, afferma ancor di più il senso di assoluto coinvolgimento emotivo dell'autore nei confronti della sua visione. Il coinvolgimento onirico si rende cosi' del tutto reale attraverso questa coda, la quale giustifica per questo la propria funzione non solo di semplice chiusa ma anche di affermazione di un dolore insondabile ed insostituibile che, seppure manifestatosi solo in questo frangente, era già presente fin dalle prime battute in cui la descrizione idilliaca delle chiare, fresche e dolci acque diventa solamente una maschera ben messa. Nell'àmbito dei cataloghi delle opere dei musicisti che vanno dal XVI al XIX secolo, l'opera di Petrarca ha sempre rivestito una influenza predominante. Liszt e lo stesso Palestrina hanno fortemente sentito in loro il richiamo della poetica petrarchesca: cerchiamo quindi, a grandi linee, di comprendere i motivi di questo particolare interesse. Innanzitutto ci sembra lecito domandarsi perchè proprio Petrarca e

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non altri; a questo si potrebbe rispondere che forse solo questo tipo di poetica era più consono ad autori non solo cronologicamente così diversi. Abbiamo visto precedentemente (1.2.2., b. 20-23) come Palestrina risolva alcuni non facili problemi tecnici attraverso la consumata conoscenza della tecnica musicale riuscendo, con questo, a rendere totalmente permeabile il tessuto poetico del Petrarca. Anche nel caso delle composizioni pianistiche di Liszt (Sonetti del Petrarca nº 47104-123) la poesia petrarchesca risalta comunque, pur non essendo declamata o cantata, come nel caso palestriniano. Questo eguale manifestarsi dei contenuti anche in condizioni storico-artistiche completamente differenti, risiede certamente nel contenuto universale che la poesia petrarchesca incarna; contenuti validi, sia per il Contro-riformistico XVI secolo di Palestrina che per l'hegeliano XIX secolo di Liszt. Parafrasando Heidegger, la sua poesia continua a rendersi interessante, anche a distanza di secoli, perchè il suo contenuto di verità è assoluto e quindi indistruttibile. In questa maniera le realtà estetiche in essa contenute sono diventate verità nel senso pieno della parola, fondamento di ogni reale e realistica comprensione; perciò quando andiamo ad interpretare questo linguaggio non possiamo far altro che «stupirci-di-stupirci», comprendere ciò che ci si è manifestato, o meglio dis-velato come verità, e quindi finalmente contemplare (alla maniera di Goethe e Stendhal). Per quel che riguarda le indicazioni cronologiche, abbiamo già detto che il brano risale - come definitiva stesura - al 1345, ma certamente esso era nelle idee del Petrarca già intorno al 1343. Il contenuto verte sempre sui fatali avvenimenti dell'aprile del 1327, ed è proprio questa condizione, già di per sè importantissima, che determina la suddivisione in due diversi piani del testo poetico. Da un lato infatti, abbiamo un piano prettamente onirico, che è anche il livello certamente più importante e ricco, determinante tutto l'ambiente estetico del testo. Dall’altro, il piano mnemonico; esso deriva dal precedente ed è tale soprattutto ai fini della costruttiva rappresentazione di tutta quella serie di slanci e periodi di stasi onnipresenti nel componimento e sempre rappresentati degnamente dallo schema metrico adottato. Già soltanto da questi due punti di vista la Canzone

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assume toni completamente nuovi e diversi da quelli solitamente accetati. Dalla situazione sentimentale evolventesi dalla tristezza alla malinconia, dalla commozione alla rêverie, l'interesse si sposterebbe sulla consapevolezza critica delle cause ispiratrici e dei mezzi espressivi usati. La Canzone stessa apparirebbe quindi come un ricordo di consolanti visioni e vaneggiamenti smemorati: insomma sarebbe non più semplice e diretta espressione poetica, bensì, mimesi di un delirium. Attraverso questo delirio, metaforico e reale allo stesso tempo, il poeta trova una sua dimensione completamente al di fuori della realtà: il delirio, amoroso e poetico insieme, lo rende insomma un visionario, un platonico pazzo pervaso di furor poeticus, che - per intercessione divina - riesce a vedere, a comprendere una realtà che per noi è incomparabilmente ed impercettibilmente lontana.

2. «I vaghi fiori e l'amorose fronde» (circa XIV-XV secolo) Nella produzione artistica di Palestrina, oltre alla ricca produzione profana su testi letterari di autori tardo-medioevali (Petrarca su tutti), una particolare attenzione viene rivolta anche alla letteratura a lui cronologicamente più prossima (se non addirittura a lui contemporanea). É questo il caso della presente composizione, il cui testo, pur presentando alcuni insoliti ardimenti poetici (la compattazione metrica delle parole dell'ultimo verso ne sono un esempio), è comunque non facilmente trasferibile in un ambiente poietico di indirizzo vocale2.

2 Ritmo in endecasillabi a rima alternata con gli ultimi due versi a rima baciata (ab, ab, ab, cc). Da sottolineare nell'ultimo verso una particolarissima tensione linguistica, l'eliminazione dell'ultima vocale di ogni parola componente il verso stesso, costruita al fine di conservare la scansione ritmica endecasillabica che, se così non fosse stato, non avrebbe potuto essere mantenuta. Musica di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594). Composizione polifonica a quattro parti (SATB) tratta dal «Secondo Libro dei Madrigali a 4 voci ristampato appresso l'erede di Gerolamo Scotto», Venezia, 1586.

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Tabella 2. Struttura e risulatanti estetiche del brano VERSI

RITMO MUSICALE

verso 01 «I vaghi fior...» verso 02 «e l'erba e l'aria...» verso 03 ( 1º semiverso) «porgon riposo...» versi 03 (2º semiverso)-04 «e piacer l'onde...» verso 05 «L'ombra soave al cor...»

contrappuntistico (battute 01-10 ) (battute 10-14 )

verso 06 «Fuggir le gravi angosce...» verso 07 «Lasso me! Che mia vita...» verso 08 «Fior'frond'erb'aria...»

contrappuntistico (battute 31-40) omofonico (battute 40-50) contrappuntistico e accordale (battute 50-61)

ARMONIA

Mib, Sib.

RAPPR. ESTETICA ambiente arcadico

Sib.

imitativo (battute 15-17 )

Mib.

imitativo (battute18-21)

Mib.

accordale (battute 21-31)

Mib.

l'Arcadia solleva dalle «pene d'amor patite»

Mib, Lab. Lab, sol (VI). sol (VI), Mib, Rappr. onomatoLab, Sib, Mib. peica della vita naturale

Anche qui, come in molte altre opere profane di Palestrina i modi della costruzione non si discostano da quelli seguiti in altre composizioni. Essi sono tutti rivolti alla rappresentazione vocale di immagini letterarie che si uniformano e si evidenziano nella particolare struttura e forma del testo poetico adottato. Per comodità di esposizione abbiamo diviso la composizione in otto sezioni ben distinte (una per ogni verso della composizione) basandoci sui diversi modi di comporre qui impiegati dall'autore. Naturalmente si è tenuto ben presente la differenza di stile, omofonico e/o contrappuntistico, che Palestrina usa a seconda delle risultanti estetiche che egli trova insite nella lettura del testo poetico, qualunque esso sia. Interessante sottolineare come la struttura compositiva del brano rispecchi un ordine numerico del tutto particolare. Come si evince dalla tabella precedente, il brano risulta costruito su una suddivisione delle battute molto equilibrata e quasi a specchio:

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10 + (09 + 11) + 18 + 10 + 10 + (2 di chiusura).

Tutti gli 8 versi del testo sono stati divisi in base al numero di battute che Palestrina usa per ogni sezione. Pertanto i numeri tra parentesi ed i numeri posti prima dei singoli versi riportano ai numeri di battuta sulla partitura corale. Nella Prima sezione (battute 01-10) la struttura risulta essere contrappuntistico-imitativa. Tecnicamente molto importante risulta essere l'uso delle varianti ritmiche usate nelle entrate tematiche; infatti, alle entrate in stile canonico di tutte e quattro le voci, corrispondono poi, nell'arco di tutte e dieci le battute della sezione, diverse variazioni ritmiche (b. 05-06) ricavate dall'inciso tematico originario. Queste due varianti usate, sono poi rette armonicamente dal tema originale citato dal basso. Altresì, è interessante notare il procedimento tecnico operato da Palestrina nel costruire ben sei delle dieci battute. Egli infatti non fa altro che riproporre in blocco il tema e la sua relativa risposta, così come quest'ultime sono state enunciate dal soprano e dal contralto, e poi agendo sulle varianti ritmiche (che quindi assolvono anche alla funzione di parti libere), giunge alla fine della sezione. Anche nella seconda sezione (battute 10-14) notiamo come l'impronta contrappuntistica ed imitativa che contraddistingue la quasi totalità del brano, venga sostanzialmente conservata ricorrendo sia ad accorgimenti ritmico-compositivi come l'uso di intervalli di 6ª, di 4ª o di 8ª (ci riferiamo in particolar modo agli intervalli usati per l'esecuzione delle parole «l'erba e l'aria» alle b. 10-11), sia ad imitazioni fondamentalmente ritmiche - come quelle delle b. 11-15. Nella terza sezione - 1º semi-verso (battute 15-17) invece, le figurazioni imitative usate nella sezione precedente trovano qui la naturale appendice. Infatti la situazione imitativa relativa ai versi «altrui diletto danno...» viene qui interamente riproposta per l'enunciazione di questa prima parte del 3º verso. Da segnalare l'intervallo di 3ª discendente («Porgon») che viene usato poco più avanti per citare «e piacer», ricorrendo, nello stesso tempo, sia alla diminutio temporis che a figurazioni ritmiche veloci che sono citazioni onomatopeiche dell'«onde».

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Anche nella quarta sezione - 2º semiverso (battute 18-21), come nelle sezioni precedenti, molto spazio viene lasciato alla riproduzione vocale delle immagini testuali. Una caratteristica importante può essere individuata in quelle strutture citate prima come l'intervallo di 3ª discendente e le figurazioni ritmiche veloci introdotte alla b. 18. Nella quinta invece (battute 21-31), la prima parte (b. 22-27), si articola sulla citazione del verso «levano l'arme e gli archi ogni aspro affanno», ed è composta da strutture omofoniche sovrapposte che sono alla base di questa sezione. Il metodo costruttivo usato è lo stesso dell'inizio; anche qui infatti vengono riproposte, sia figurativamente che notazionalmente, le stesse strutture poietiche. Tutto questo processo costruttivo introduce poi lo stile accordale che caratterizza invece la seconda parte («L'ombra soave al cor dolcezza infonde»), basata appunto su un ricercato equilibrio delle parti che sfocia successivamente in una cadenza Sib(V)-Mib(I) che conclude la prima parte del brano musicale. In un certo qualmodo, questa presunta conclusione è anche annunciata, sia dal cambio dell'andamento ritmico, sia sopratutto, dallo stacco operato sulla frase «soave al cor» che, deve poggiarsi forzatamente sulla conclusione del fraseggio «dolcezza infonde». La sesta sezione (battute 31-40) si apre con la riproposizione dell'intervallo di 3ª discendente, così come già lo avevamo incontrato nella 3ª e 4ª sezione. A questo particolare, si affianca anche quello della figurazione ritmica in crome che vocalmente vuol riproporre la mimica del correre, dell'allontanarsi in fretta. A ben guardare, per questo piccolo episodio, si potrebbe parlare di vera e propria impostazione fugata (b. 31-34, riproposta in canone alle tre voci superiori in b. 37). Dal punto di vista armonico bisogna poi sottolineare l'allontanarsi dalla tonalità di partenza, Mib, e dalla sua dominante Sib(V) per giungere alla tonalità di Lab (IV): si potrebbe affermare, con le dovute misure, che da qui potrebbe aver addirittura inizio una sorta di sviluppo inteso ante-litteram. Anche questa settima sezione (battute 40-50), in effetti potrebbe essere divisa in parti ben distinte: l'una, che fa capo al semi-verso «lasso me» (b. 40-47), ed un'altra - brevissima - su «che mia vita non

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restaura». Nella prima come nella seconda ritornano quasi tutti gli elementi usati nell'arco della composizione; si va quindi dal ritorno al piccolo disegno imitativo (b. 47), alla riproposizione di di crome (b. 48), alla struttura canonico-imitativa delle parole «lasso me!» (b. 4347). É questa certamente la sezione più interessante (ottava, battute 5061), non solo per le difficoltà tecnico-costruttive, ma soprattutto per la difficilissima resa vocale del testo, dovuta all'abolizione delle vocali e quindi, di converso, alla inutilizzazione di eventuali melismi. Palestrina risolve il problema ricorrendo ad una struttura che, apparentemente contrappuntistica, risulta invece essere fondamentalmente accordale. I temi usati, a mò di ripresa, sono gli stessi della sezione d'apertura nelle tre voci superiori, mentre il basso mantiene una struttura quasi da basso continuo; se infatti noi analizziamo più da vicino la parte del basso, ci rendiamo conto di essere in presenza di un perfetto sostegno armonico basato sulle tre tonalità che portano al Mi bemolle (tonalità di partenza e che stavolta è contemporaneamente tonica e dominante, in virtù del reb presente al contralto ed al basso nella battuta 60), e cioè: Lab(IV), Sib(V-II) e Mib(I-V). Naturalmente siamo coscienti che tutto ciò in Palestrina ancora è allo stato embrionale, e che quindi non possiamo parlarne come fosse un dato di fatto, però neanche possiamo negare la manifesta evidenza delle battute in questione (56-61). Sulla composizione del testo poetico, essendo l'autore anonimo, non possono essere fatte che considerazioni in generale. Certamente la sua origine è da farsi risalire al periodo successivo al 1550, in età di Controriforma ed a ridosso del prossimo Barocco; molte indicazioni (il ritmo del verso, l'uso dell'ottava, la stessa rima usata) fanno pensare allo stile del Tasso, ed in questo senso si sono orientate le nostre ricerche. Possiamo anzi affermare con un certo margine di certezza che la stanza in questione è da ascriversi ad uno dei tanti poeti mestieranti che circolavano in Roma e non possiamo escludere neanche che il testo possa essere stato prodotto proprio nell’ambiente romano e che Palestrina ne sia venuto a conoscenza attraverso uno dei tanti intellettuali che in quel tempo affollavano la capitale papale. Del resto, ad avvalorare la tesi della provenienza romana, altri indizi, come l'elisione dell'ultima vocale di ogni parola appartenente all'ul-

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timo verso, fanno pensare decisamente alle sperimentazioni linguistiche inaugurate dai poeti manieristi tra XVI ed XVII secolo. Determinate difficoltà tecnico-linguistiche, dall'autore deliberatamente cercate (al di là dei chiari problemi tecnici riguardanti la musicalità del verso poetico), sono facilmente riconducibili per lo più al tardo Cinquecento o al primo Seicento, periodo tra i più attivi sulla ricerca linguistica e tra i più prolifici della letteratura italiana, cui si devono ascriviere le ragioni e le cause di questo prodotto. La realtà poetico/letteraria del madrigale è da Palestrina completamente rimodellata nel sua applicazione musicale; a prescindere dal petrarchismo dominante nella composizione, egli compone le linee contrappuntistiche in funzione di un sensismo latente che ripropone, in maniera sonora, quello evidenziato nel testo letterario. Anzi: proprio quel voler segnalare percezioni di suono e bellezza naturali, sono le armi con cui il compositore romano, certo non digiuno di poesia e lettere ed a anzi al centro di diversi circoli letterari romani, costruisce la propria idea di sensazione, sia nell’ottica del pretrachismo bembesco imperante (cioè obbediente allo stile ed alle forme della delelctatio, più che del prodesse), sia in quella della produzione poetica – cristallizzata sulle forme auree del Rinascimento – che i pedanti del tardo Cinquecento proponevano al pubblico del tempo. La sua visione è già barocca se vogliamo, almeno nelle premesse e nello scopo: colpire il fruitore attraverso sensazioni che destino maraviglia, che stupiscano - ora per le arditezze armoniche, ora per la semplicità tematica – e che mostrino la maestria del comporre e del rapportare il testo (contrappunto di parole) alla musica (contrappunto di note) estraendone sensazioni e percezioni ulteriori, esteticamente accettabili e giudicabili.

4. IL DISCORSO SOPRA LA MUSICA DE’ SUOI TEMPI DI VINCENZO GIUSTINIANI

1. Introduzione Risalente al 1628 (i dati si desumono dalle biografie degli autori citati), la più recente edizione a stampa del Discorso sopra la musica di Vincenzo Giustiniani risale - insieme ad altri Discorsi che il cardinale scrive sulla pittura, l’architettura, la scultura, la caccia, (cui si sommano una Istruzione per far viaggi, un Dialogo fra Renzo e Aniello napolitano sugli usi di Roma e Napoli e gli Avvertimenti per uno scalco) – alla edizione curata da Anna Banti (Sansoni, Firenze, 1981). L’originale, collazionato con il titolo Delle fabbriche, è manoscritto e composto sotto forma di lettera indirizzata a Teodoro Almyden sodale di Vincenzo, biografo del fratello Benedetto e nipote di Christian Amyden1; la catalogazione è Ott.. Lat. 2365, I, F175 ed è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, mentre un’altra copia, è conservata presso l’Archivio di Stato di Lucca, archivio “Orsucci”, B. 45 F51. Presente in Lettere memorabili dell’Ab. Michele Giustiniani, patrizio genovese, de’Signori di Scio, III, LXXXV, stampate in Roma per Tinassi, 1675, e rimasto inedito fino al 18782, da allora non è mai 1

Christian Amyden, cantore di origine brabantina, fu a servizio in Cappella Sistina dal 1563, per lungo tempo l’unico cantore di origine fiamminga presente in essa. Nel coro della Cappella rimase fino al 1588, quando, giubilato dalla riforma operata da Sisto V, fu costretto a lasciare ogni incarico. Tenore dotato di non eccelse capacità vocali, morì a Roma il 20 novembre 1605. Della sua produzione rimangono una Missa Fontes et omnia quae moventur in aquis a 5 voci (VatS 30) ed un Magnificat primi toni (VatS 29). Cfr. SHERR R., Competence and Incompetence in the Papal Choir in the Age of Palestrina, in «Early Music», Vol. 22, No. 4, Palestrina Quatercentenary (Nov., 1994), pp. 606-629; BASTIAANSE, A., Teodoro Ameyden (1586-1656), un neerlandese alla corte di Roma, ‘sGravenhage, Staatsdrukkerij, 1967. 2 GIUSTINIANI V., Discorso sopra la musica de’ suoi tempi, pubblicato in occasione delle

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stato più ristampato fino al 1962 quando, curato da C. Mac Clintock per conto dell’American Institute of Musicology, fu invece ripubblicato con Il desiderio, un trattato sull’arte di suonare diversi strumenti di Ercole Bottrigari3. Rispetto agli altri Discorsi quello sulla musica è sempre stato più citato che letto ed anche in termini d’attenzione editoriale, nel campo musicologico, pur avendo suscitato sempre un interesse piuttosto ampio nei critici e negli storici, mai ha comunque incontrato una lettura davvero critica e profonda dei suoi contenuti; lo dimostrano non solo la scarna storia e fortuna editoriale, ma anche la frequenza con cui, altri Discorsi (sulla pittura e/o l’architettura ad esempio), hanno occupato il campo della critica in tempi piuttosto recenti.4 Per l’edizione del testo in queste pagine, un primo punto su cui deve essere subito condotta l’attenzione del lettore è relativo alla ricostruzione del testo originale, a partire dalla edizione Banti. A quel testo, come già altrove accennato, carente dal punto di vista dei contenuti musicali, abbiamo prima di tutto aggiunto la numerazione dei capoversi, indicati con un numero progressivo in grassetto tra parentesi quadre. Complessivamente, abbiamo individuato trentacinque paragrafi, ognuno dei quali identificante un particolare argomento, corrispondente ad una trattazione ben precisa e delimitata nel testo stesso. Anche per questo, il testo è stato frammentato e lo stesso è avvenuto per il commento e le annotazioni. In questo modo, rimane più semplice tracciare il profilo di ogni sezione e nello stesso tempo rimane altrettanto comodo diversificare le note di corredo e le spiegazioni tecniche. All’interno di quei paragrafi, ogni periodo a sua volta è stato contrassegnato da un numero compreso tra parentesi quadre, cosicché, in ogni momento, non solo è possibile rintracciare l’argomento trattato nozze Banchi-Brini, Tipografia di Giuseppe Giusti, Lucca, 1878. 3 BOTTRIGARI E., Il desiderio or concerning the playing together of various musical instruments, e GIUSTINIANI V., Discorso sopra la musica, translated by C. MacClintock, American Institute of Musicology, 1962, Roma. L’opera è citata anche nell’edizione moderna di PICCININI A., Les avertimenti, ou instructions précédant l’intavolatura di liuto, et di chitarrone, libro primo, d’Alessandro Piccinini, Bologne 1623, traductions et notes par J. DUGOT et M. HORVAT, in «Revue Musique Ancienne», 19 mars 1985, pp. 21-29. 4 GIUSTINIANI V., Discorsi sulle arti: architettura, pittura, scultura, introduzione di L. MAGNANI, Novi Ligure, Città del Silenzio, 2006.

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nelle citazioni, ma anche è possibile ricostruire eventuali collegamenti incrociati tra parti del testo che altrimenti non sarebbero possibili senza adeguati punti di riferimento. Lo stesso vale per i titoli da noi aggiunti tra parentesi tonde ed in corsivo, che hanno lo specifico compito di individuare l’argomento principale affrontato nella singola sezione ed orientare meglio il lettore sui contenuti di volta in volta trattati. Così diventa anche più facile ricostruire i collegamenti tra autori ed aree geografiche e tra stili e forme della seconda pratica; considerando che molti autori e cantori utilizzano forme simili ma stili diversi, riconoscibili anche grazie all’area geografica d’appartenenza, si capisce che la rete d’interconnessioni che Giustiniani costruisce con il suo racconto, è di per sé di vitale importanza per comprendere gli equilibri e le minime varianti che tra loro intercorrono. In secondo luogo, riteniamo opportuno ripristinare il titolo con cui il Discorso sopra la musica de’ suoi tempi fu pubblicato per la prima volta nel 1878 in occasione delle nozze Banchi-Brini - uno dei tanti rami in cui i Giustiniani si sono frammentati dopo il XVII secolo - ed il motivo è presto detto: prima di tutto perché è lo stesso marchese Vincenzo a suggerirne, più o meno implicitamente, la nuova versione5 e secondo perché, il titolo con cui ora è universalmente riconosciuto (utilizzato anche da Anna Banti) è stato arbitrariamente accorciato nell’edizione Mc Clintock. Prima ancora, A. Solerti, per i tipi dei milanesi Fratelli Bocca (1903), in La nascita del melodramma, aveva riportato l’opera nella sua completezza, ma senza dargli la giusta ed opportuna collocazione. Il testo non ha altre finalità che quelle di narrare una diacronica storia della musica e dei musicisti della sua epoca e non altre, in un crescendo di tecniche, strumenti, personaggi, strutture e forme musicali che non può che essere identificata con la sola classificazione cronologica adatta e cioè, appunto, la sua epoca, i suoi tempi e non altri. Eliminando questa fondamentale appendice periodale, il tema del Discorso diventa comune, il lettore non comprende appieno di quali argomenti specifici lo scrittore vuol parlare e soprattutto lo scritto perde 5 «[…] E per maggior facilità distenderò questo breve discorso quasi come una narrazione in guisa d’istoria, compartita da alcuni tempi distinti, né quali per il corso della mia età sono stati inventati vari modi et invenzioni di cantare e suonare, con occasione di varie e distinte cagioni et occorrenze […]» (ivi, 3, 2).

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la sua dimensione narrativa per assumerne una trattatistica che invece, Vincenzo Giustiniani, fin dal primo momento, non vuole assolutamente né affrontare né utilizzare6. Quello che risalta subito ad una attenta lettura è la concordanza delle prerogative musicali, almeno dell’epoca di Giustiniani, con gli scritti e le idee di Castiglione (per quanto riguarda, più che la autoreferenzialità della figura del cortigiano, per l’importanza dell’affinarsi del gusto e per l’educazione del fruitore7), di Caccini (per quanto concerne le nuove modalità della composizione musicale8) e perfino con la visione ad un tempo psicologica e teologico-mistica di Lutero9. Rimasti inediti a lungo, sono in forma epistolare manoscritta ed indirizzati, tutti, compreso il Discorso sopra la musica de’ suoi tempi ’a Teodoro Amayden, amico di Vincenzo Giustiniani, biografo di suo fratello Benedetto e nipote di Christian, unico cantore fiammingo alla metà del XVI secolo in Cappella Sistina10. 6

Ivi, 1, 1. «Bella musica […] parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor più il cantare alla viola, perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con maggior attenzione si nota ed intende il bel modo e l’aria, non essendo occupate le orecchie in più che in una sola voce» (CASTIGLIONE B., Il cortegiano, 1528). 8 «[…] Questi intendentissimi gentiluomini m’hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni convinto, a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando ben intendersi le parole, guasta il concetto et il verso, ora allungando et ora scorciando le sillabe per accomodarsi al contrappunto, laceramento della poesia, ma ad attenermi a quella maniera cotanto lodata da Platone et altri filosofi, che affermarono la musica altro non essere che favella e il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, a volere che ella possa penetrare nell’altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche […] veduto adunque, sì com’io dico, che tali musiche e musici non davano altro diletto fuori di quello che poteva dare all’udito solo, poi che non potevano esse muovere l’intelletto senza l’intelligenza della parola, mi venne pensiero di introdurre una sorte di musica, per cui altri potesse quasi che in memoria favellare, usando in essa una certa spezzatura di canto, trapassando talora per alcune false, tenendo però la corda del basso ferma, eccetto che quando io me ne volea servire all’uso comune, con le parti di mezzo tocche dall’stromento per esprimere qualche affetto, non essendo buone per altro» (CACCINI G., Prefazione, a Le nuove Musiche, 1602). 9 «La musica è il balsamo più efficace per calmare, per rallegrare e per vivificare il cuore di chi è triste, di chi soffre. Ho sempre tanto amato la musica. Chiunque è portato per questa arte non può non essere un uomo di buon carattere, pronto a tutto. È assolutamente necessario conservare la musica nella scuola. Bisogna che il maestro di scuola sappia cantare, altrimenti lo considero una nullità. La musica è un dono sublime datoci da Dio. […] Il canto è l’arte più bella e il miglior esercizio» (MARTIN LUTERO, Lettera a Ludwig Senfl, 1530). 10 Su questa base, anche Teodoro, come Vincenzo, dobbiamo pensarlo correttamente educato alla musica ed al linguaggio musicale, nonché certamente buon conoscitore della pratica 7

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Nell’introduzione, Vincenzo Giustiniani dichiara, rivolto all’amico Teodoro, che il Discorso sulla musica - almeno per la parte relativa alle finalità etiche ed educative implicite nella formazione del cortigiano (ancora regolate, ad un secolo dalla pubblicazione del Cortegiano) – è l’ideale continuazione di un precedente scritto (sempre pensato come risposta ad precisa richiesta dello stesso Almyden11) dal titolo Istruzioni per un maestro da camera12 il quale, non solo fa il paio con il Trattato della natura del vino, e del bere caldo, et fresco del signor Teodoro Amideni, di cui è ideale specchio argomentativo, ma anche, si ricollega – visti i trascorsi dello stesso Vincenzo come responsabile del palazzo all’epoca della convivenza con il fratello Benedetto - ad altre due opere che si interessano del buon vivere e della conduzione generale della casa nobiliare, il Trattato di Ferdinando Salando sopra la regola del vivere (testo fondamentale per le regole sociali ed il rispetto della etichetta e della pompa barocche) e Lo scalco di Vittorio Lancellotti, il quale peraltro, fa il paio con Gli avvertimenti per uno scalco che lo stesso Giustiniani aggiunge alla propria produzione per Almyden. Le epistole che compongono i Discorsi sono progettate e scritte come contrappunto a testi che gli stessi Giustiniani conservano nella propria Libraria e provano, senza ombra di dubbio, la contiguità delle argomentazioni trattate e la loro origine autoreferenziale, in quanto pensate e discusse internamente a quella stessa cerchia di personaggi che circondava i due collezionisti. Non si può certo parlare di accademismo fine a se stesso, ma la circolazione degli argomenti e delle discussioni, oltre che i comuni interessi, sembrano essere proprio i più vicini ad una cerchia d’intellettuali che, nella ricerca di un docere controriformista e di un delectare non fine a se stesso, ma neppure più solo ispiratore di un bello ideale non collegato alla esperienza dei sensi, non esitano a porre essi stessi in pratica una ricerca più avanzata e conforme al proprio gusto ed alle proprie inclinazioni. musicale e dell’argomento in genere come tutti i sodali di Giustiniani, altrimenti, non sarebbe neppure giustificabile la chiusa del Discorso sulla musica al riguardo della pratica musicale per diletto compiuta nel giardini di Bassano dalla comitiva del marchese stesso, cfr. Ivi, 35, 4. 11 Ivi, 1,1. 12 Le Istruzioni sono contenute nella b. 48, ASLU, fondo Orsucci, cit. anche in DANESISQUARZINA, La collezione Giustiniani. Inventari I, cit., p. LXXIV.

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Già le prime righe sono prova di una progettazione codificata e ben ideata degli argomenti e della lettera/discorso in se stessa, inserita nel contesto cortigiano dei modelli di riferimento culturali. Dal tenore della sezione d’apertura, ne ricaviamo che il testo è stato scritto come risposta a precisi quesiti posti da Amyden, una situazione questa, comune a molti autori ed utilizzata di solito come giustificazione delle ragioni che hanno spinto alla scrittura l’autore. Anche qui, pur non sfuggendo alla regola retorica, crediamo sia utile però prendere in considerazione anche l’ipotesi di una vera e propria richiesta di chiarimenti in materia, dato che la stessa risposta di Giustiniani è non solo circostanziata, ma soprattutto mirata, non alla discussione teorica (che sarebbe rientrata nei canoni classici della speculazione cinquecentesca), ma alla condizione pratica della musica, intesa cioè come composizione ed esecuzione e non come speculazione filosofica sulle sue ragioni. Oltretutto, se il fine di Giustiniani fosse quello di scrivere una dotta dissertatio, non avrebbe rinunciato in primis proprio al maggiore argomento in proposito e cioè la discussione della parte teorica, maggiormente ricca di problematiche accademiche e meglio in linea con le formule organizzative del genere trattatistico. La rinuncia a discutere della teoria e della condizione filosofica della musica (e quindi non parlare di Agostino o Boetio), non è solo dettata dalla necessità di dare risposte concrete sulla pratica musicale del tempo, ma soprattutto dalla necessità di non porre il problema da un solo punto di vista, per lo più, già all’epoca largamente superato dalle nuove scelte estetiche compiute in campo soprattutto polifonico e strumentale. Non a caso, Giustiniani accenna ad una divisione in quattro generi della musica ben precisi: canto fermo, genere figurato, cromatico ed enarmonico, di cui, i primi tre sono in uso, mentre della ultima «non se ne ha cognizione». Si preferisce allora discutere della musica come pratica della composizione e dell’esecuzione al tempo suo, toccando le implicazioni formative della musica stessa, ma tacendo volutamente della teoria musicale e dei filosofi che l’hanno regolata come principio del fare. Anzi, la possibilità di descrivere quattro generi ben precisi, costringe Giustiniani a rimanere ancorato alla scientificità del discorso musicale, alle sue radici filosofiche, alla citazione di un catalogo di autori che hanno prima determinato e poi perfezionato la diversa e nuova codificazione del suo linguaggio, alla rea-

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lizzazione di un ambiente culturale nuovo in cui la musica riveste una dimensione ed una funzione culturale e sociale insieme, tutto ciò, a prescindere dalla preparazione che l’autore dichiara di non possedere completamente. Una difesa questa, che non regge e che è, evidentemente autoadulatoria. Lo stimolo alla scrittura, proveniente dalla precisa richiesta di Teodoro Amayden13, è organizzato e gestito «quasi come una narrazione in guisa d’istoria » (ivi, 3,2) corredata di esempi e organizzata a partire dalla fanciullezza e dalla epoca dei suoi primi studi musicali, fino a comprendere tutta l’attività musicale del tempo a lui contemporaneo14. La limitazione temporale imposta dall’autore, ci permette di fissare dei limiti cronologici ben precisi a partire da alcune opere pubblicate al tempo e cioè, dall’Ottavo libro de madrigali a cinque voci, nuovamente composto & dato in luce di Jaches de Wert (Venezia, appresso Angelo Gardano, 1586) ed a finire al Liber secundus diversarum modulationum di Girolamo Frescobaldi (1627) e passando per gli Scherzi musicali a tre voci (Venezia, Ricciardo Amadino) e la Favola d’Orfeo (entrambe del 1607) di Claudio Monteverdi. Non solo, ma le citazioni di autori e personaggi nel Discorso contenuti, ci permettono di determinare la data in cui il testo sarebbe stato steso. Ad esempio, in 12,2 è citato, come buon esecutore «a libro», Filippo IV di Spagna, assunto al regno nel 1621 e questo già basta a smentire le attribuzioni precedenti che datavano lo scritto, al più tardi, al 1603 o al 1610 per posticiparlo di quindici anni circa.

2. Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la musica de’ suoi tempi [1] (Introduzione) [1] Averà di già V. S. veduto quanto mi sovvenne di scriverle in risposta della richiesta che mi fece circa il modo e 13 «Ma solo con l'intenzione che ho di dar gusto e sodisfazione a V. S. nella richiesta che mi fece» (ivi, 3,1). 14 «[…] Tanto più che questo discorso non è teorico politico, composto o per dir meglio rubbato da' buoni autori antichi e moderni, come oggi dì si usa da molti, ma è una vera narrazione e similitudine di relazione e d'istoria, fondata sopra una poca prattica da me acquistata […]» (Ivi, 35, 4).

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regola che si deve tenere nelle conversazioni, acciò riescano durabili e degne di lode. [2] Ora essendomi sovvenuto che l'esercizio della musica possa esser mezzo molto appropriato all'intento di V. S., mi pare anche conveniente che io aggiunga questi pochi fogli agli altri, con esprimere le considerazioni che a questo proposito mi sono occorse, per maggiormente soddisfare a V. S. [3] Senza voler però entrare a discorrere della teorica della musica, insegnataci da molti antichi e moderni insieme con le altre parti delle scienze ossian arti matematiche, et anche in particolare da alcuni autori et in specie Santo Augustino e Boezio né meno delle varie parti della musica distinte in canto fermo, figurato, crommatico e enarmonico, tra quali le tre prime sono oggidì in uso, e n'hanno trattato diversi autori, e dell'ultima non se ne ha cognizione. [2] (Conoscenza limitata della materia) [1] Né tampoco pretendo di volere scrivere l'origine né gl'inventori della musica, né quelli che l'hanno perfezzionata riducendola in regola certa e misura giusta di voci o di suono tra sé proporzionati e corrispondenti alle vere regole, perché io non arrivo a cognizione tale di musica, che possa discorrerne con sicurezza e senza risico d'incorrere in qualche massima o concetto degno di riprensione, e di esser tacciato di volere con soverchia pretenzione entrare in messem alienam. [3] (Motivazioni scrittura ed organizzazione) [1] Ma solo con l'intenzione che ho di dar gusto e sodisfazione a V. S. nella richiesta che mi fece, metterò in carta familiarmente alcuni pensieri che mi occorrono a questo proposito, fondandoli sopra alcuna poca esperienza da me acquistata mentre ho tenuto conversazione in casa senza l’esercizio del gioco, ma con altre virtuose occupazioni, e particolarmente con questa della musica, esercitata senza concorso di persone mercenarie, tra gentiluomini diversi, che se ne prendevano diletto e gusto per inclinazione naturale. [2] E per maggior facilità distenderò questo breve discorso quasi come una narrazione in guisa d’istoria, compartita da alcuni tempi distinti, né quali per il corso della mia età sono stati inventati vari modi et invenzioni di cantare e suonare, con occasione di varie e distinte cagioni et occorrenze et in esso, secondo che verrà a proposito, saranno inserti alcuni pensieri, che per esser appropriati al suo intento, non li doveranno esser discari. [4] (La musica come scienza) [1] E per dar principio le dirò, che l'arte della musica è riputata tra le liberali del primo luogo, come quel-

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la che per arrivare alla sua vera perfezione, conviene che s'accosti, anzi che partecipi del grado nel quale si considerano le scienze. [2] Perché, acciò un’azzione musicale riesca di stima sarà necessario che sia composta con le proprie e vere regole di questa professione, anzi di più con nuove osservazioni e difficili, che non siano a notizia di tutti i musici in generale e non solo li Madrigali e composizioni da cantarsi a più voci ma anche le altre di contraponto e li Canoni, e quel che pare più di meraviglia ristesse arie da cantarsi con facilità ad una sola voce. [5] (La musica come studio e applicazione quotidiana) [1] E per arrivare a questo segno non basterà l'inumazione data a molti dalla natura, ma vi si ricerca anche uno studio et applicazion d'animo e di persona, che possedendo le resole e le giuste proporzioni de’ numeri, unite con quelle della voce sia del suono, e la pratica de gli effetti che da queste derivino negli animi de gl'uomini, non solo generalmente ma particolarmente corrispondenti all'inclinazioni individuali di ciascuno, et a i gusti che in generale prevagliono per distinti tempi di tanto in tanto, sappia applicare l'artificio et esperienza ai tempi, alle inclinazioni in generale et alii gusti particolari di ciascuno. [6] [1] E per arrivare a questo segno si ricerca molta applicazione dell'intelletto e molto discorso per venire alla conclusione compita dell'opera, con aver fatti molti sillogismi et entimemi per avanti, senza aver studiato la Dialettica d'Aristotele, e senza aver imparato quei versi Barbara celarent etc. ma con unire tutte le condizioni e circostanze suddette. [7] (Le composizioni e gli autori della sua fanciullezza) [1] E per confirmazione di tutte queste cose dirò primieramente. [2] 1. Che nella mia fanciullezza mio padre b. m. mi mandò alla scola di musica, et osservai ch'erano in uso le composizioni dell’Archadelt, di Orlando Lassus, dello Strigio, Cipriano de Rore e di Philippe de Monte15, stimate 15

Orlando Lasso nacque a Mons in Belgio, presumibilmente nel 1532. Nel 1553 era già maestro di cappella a S. Giovanni in Laterano a Roma. Nello stesso periodo si recò ad Anversa per pubblicare le sue prime composizioni. Nel 1556 Alberto V, Duca di Baviera, lo chiamò presso la Cappella Ducale. Data la profonda religiosità del Duca, in questo periodo di Lasso compose una gran quantità di musica sacra. Alla morte del Duca nel 1579 il suo successore Guglielmo, seguace della Controriforma, apportò grossi tagli a ciò che riteneva la «frivolezza della musica». Di Lasso fu rimosso dalla carica di maestro di cappella e cadde in una profonda depressione conseguente all'allontanamento dalla corte. Dopo alcuni anni, meno prolifici rispetto ai precedenti, morì a Monaco il 14 giugno del 1594. Alessandro Striggio Senior fu liutista e compositore di vaglia. Lavorò come compositore alla corte di Cosimo I de’Medici,

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per le migliori di quei tempi, come in effetto erano e per cantare con una voce sola sopra alcuno stromento prevalesse il gusto delle Villanelle Napoletane, ad imitazione delle quali se ne componevano anche in Roma, e particolarmente da un tal Pizio musico bravo e buffone nobile. [8] (Le trasformazioni apportate alla composizione musicale dallo stile di Marenzio e Giovannelli e di Palestrina, Soriano e Nanino) 2. [1] In poco progresso di tempo s’alterò il gusto della musica e comparver le composizioni di Luca Marenzio16 e di Ruggero Giovannelli17, con invenzione di nuovo diletto, tanto quelle da cantarsi a più voduca di Firenze dal 1560 al 1574; la sua occupazione principale era quella di scrivere le musiche degli intermedi per le feste di corte, incluso il matrimonio di Giovannea d’Austria e Francesco de’ Medici (1565) e per la visita dell’arciduca Carlo d’Austria quattro anni più tardi. Nel 1584, su invito di Alfonso d’Este, si trasferì a Ferrara e l’anno dopo a Mantova dove, nonostante fosse impiegato alla corte dei Gonzaga come musicista soprannumerario, continuò a scrivere intermedi per i Medici. Figlio di Alessadnro Senior, Alessandro Striggio iuniore fu anch’egli valente violista, cantore e soprattutto librettista e poeta, scrisse infatti per Monteverdi, sia i testi della Favola di Orfeo (1607), che di Tirsi e Clori (1615). Cipriano de Rore (1515 o 1516–1565) fu il compositore fiammingo più importante dopo Josquin Des Prez. Si trasferì in Italia e partecipò molto attivamente allo sviluppo della musica del tardo rinascimento. Nel 1542 fu a Brescia, dove probabilmente rimase fino al 1546; durante questo periodo egli iniziò ad acquisire fama come compositore pubblicando un libro di madrigali e due di mottetti. Nel 1547 passò al servizio del duca Ercole II d'Este a Ferrara. Qui ebbe come allievi Giaches de Wert e Luzzasco Luzzaschi. Alla morte del duca nel 1559, Rore offrì i suoi servigi al successore Alfonso, ma il nuovo duca rifiutò i suoi servigi ed assunse al suo posto Francesco dalla Viola. Dal 1560 al 1563, Rore fu al servizio di Margherita d'Austria a Bruxelles e del marito Ottavio Farnese Duca di Parma nella città emiliana. Nel 1562 fu nominato direttore del coro della Basilica di San Marco a Venezia, ma dopo due anni lasciò l’incarico per ritornare a Parma, dove rimase fino alla morte (cfr. JOHNSON A. H., Cipriano de Rore, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. STANLEY SADIE, 20 vol. London, Macmillan Publishers Ltd., 1980). Per de Monte, cfr. HINDRICHS T., Philipp de Monte (1521-1603). Komponist, kappelmeister, korrespondent, Gottingen, Hainholz, 2002; LUZZI C., Poesia e musica nei Madrigali a cinque voci di Filippo di Monte, Olschki, Firenze 2004. 16 Nato nel 1553 o 1534, studiò a Brescia con Giovanni Contino. Dal 1578 fu a servizio del Cardinale d’Este, a Roma, prima come musico e poi come direttore di coro. Grazie al cardinale strinse anche ottimi rapporti con Ferrara ed il suo ambiente artistico. Tra il 1588 ed il 1589 visse a Firenze dove contribuì alla musica per gli intermedi del famosissimo matrimonio del 1589. Nel 1594 passato al servizio del Cardinale Aldobrandini frequentò poeti come Tasso e Guarini e due anni più tardi dimorò a Varsavia dove quello era stato nominato nunzio apostolico. L’anno dopo rientrò a Roma come musicista alla corte papale restandovi sino alla morte. Delle sue composizioni ci rimangono circa cinquecento pezzi diversi, un’ottantina di villanelle ed una quantità impressionate di pezzi sacri, per la gran parte a cinque voci. 17 «Musico eccellentissimo e forse il primo del suo tempo» (per citare il titolo del convegno internazionale di studi tenutosi a Palestrina e Velletri dal 12 al 14 giugno 1992, a cura di

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ci, quanto ad una sola sopra alcuno stromento, l'eccellenza delle quali consisteva in una nuova aria e grata all'orecchie, con alcune fughe facili e senza straordinario arteficio. [2] E nell’istesso tempo il Pellestrina18, il Soriano19 e Gio. Maria Nanino20 composero cose da cantarsi in G. ROSTIROLLA e C. BONGIOVANNI, Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina, Palestrina 1998), Ruggero Giovannelli è stato solo da poco tempo riconosciuto – e proprio grazie al convegno citato – quale valente musicista e compositore. Cantore pontificio, partecipe delle attività musicali del Collegio Germanico Ungarico e di molte istituzioni religiose romane (nel periodo 1583-1619), lo stile compositivo di Giovannelli rivela tratti di originalità ed indipendenza dai canoni palestriniani, coniugando i principi compositivi della tradizione contrappuntistica romana con le nuove istanze stilistico-linguistiche emergenti negli stessi anni. 18 Fanciullo cantore in S. Maria Maggiore a Roma, nel 1544 divenne organista e maestro di canto nel duomo di Palestrina. Venne quindi chiamato a Roma come maestro della Cappella Giulia subito dopo che Giovanni Maria del Monte divenne papa con il nome di Giulio III. Nel 1555 divenne cantore alla Cappella Sistina, ma nello stesso anno fu costretto da Papa Paolo IV ad abbandonare l'incarico perchè sposato. Divenne maestro di cappella in S. Giovanni Laterano (1555-1560) e in S. Maria Maggiore (1561-1566). Dopo un periodo al servizio del Collegio Romano e del cardinale Ippolito d'Este, nel 1571 tornò a dirigere la Cappella Giulia dove rimase fino alla morte. 19 Compositore, nacque a Soriano del Cimino nel 1549 e morì a Roma nel 1621. Fu alunno di G. B. Montanari e ricoprì il ruolo di maestro di cappella, almeno fino al 1580 (anno in cui Felice Anerio lascia il ruolo di contralto nella stessa chiesa), nella chiesa di S. Luigi dei francesi e poi, dal 1586 al 1599, in S. Maria Maggiore. nel 1611, insieme a Felice Anerio è incaricato da Clemente VIII di riformare il Graduale Romano. Delle sue composizioni si ricordano i Canoni et oblighi di cento et dieci sorte sopra l’Ave Maris Stella a 3-8 voci (stampato per Giovanni Maria Robietti, Roma, 1610) e Di Francesco Soriano romano maestro di cappella in Santa Maria Maggiore, il primo libro dei madrigali a cinque voci, nuovamente ristampati. Et dal reverendo pre Giovanni Croce chiozzotto coretti, Venezia, Giacomo Vincenti, 1588. Maggiori notizie sono rintracciabili in: RADICIOTTI G., due musicisti spagnoli del sec. XVI in relazione con la corte di Urbino, in «Sammelbände der Internationalen Musikgesellschaft», 14 Jahrg., H. 2 (Jan – Mar. 1913), pp. 185-190; SHERR R., Competence and incompetence in the papal choir in the Age of Palestrina, in «Early Music», vol. 22, n. 4, Palestrina Quatercentenary (nov. 1994), pp. 606-629; I musici di Roma e il madrigale: Dolcei affetti (1582) e Le gioie (1589), introduzione e trascrizione a cura di N. PIRROTTA e G. GIALDRONI, Lucca, LIM. 20 Giovanni Maria Nanino (1543 o 1544-1607) fu un componente della Scuola romana ed il più influente insegnante a Roma del tardo XVI secolo. Era anche il fratello maggiore del compositore Giovanni Bernardino Nanino. Nacque a Tivoli e da ragazzo, cantò nel coro della cattedrale di Viterbo. Nel 1560 studiò, probabilmente, con Palestrina nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma; in ogni caso, divenne maestro di cappella in quella chiesa dopo che Palestrina lasciò l'incarico. Nel 1577 entrò nel coro papale come tenore e vi rimase per il resto della sua vita, prendendo occasionalmente il posto di maestro di cappella. Durante gli anni Novanta del XVI secolo fu rinomato come insegnante di musica e molti futuri compositori studiarono con lui e cantarono nel suo coro. Fra questi si possono citare Felice Anerio, Antonio Cifra e Gregorio Allegri. Nanino non fu un compositore molto prolifico, ma si distinse per i suoi madrigali, estremamente popolari. Tutte le collezioni di madrigali pubblicate a

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chiesa con facilità di buon contraponto e sodo, con buon’aria e con decoro condecente; a segno che anche oggidì s'antepongono le loro composizioni a quelle de gl'altri moderni, li quali tutti ebbero da quelli la disciplina, la quale hanno procurato di variare più con ornamenti vaghi, che con artificio fondato e di sostanza. [9] (Le trasformazioni nel modo di comporre dopo il 1575) 3. [1] L'anno santo del 1575 o poco dopo si cominciò un modo di cantare molto diverso da quello di prima, e così per alcuni anni seguenti, massime nel modo di cantare con una voce sola sopra un istrumento, con l’esempio di un Gio. Andrea napoletano, e del sig. Giulio Cesare Brancacci21 e d'Alessandro Merlo22 romano, che cantavano un basso nella larghezza dello spazio di 22 voci, con varietà di passaggi nuovi e grati all'orecchio di tutti. [2] I quali svegliarono i compositori a far operare tanto da cantare a più voci come ad una sola sopra un istrumento, ad imitazione delli soddetti e d'una tal femina chiamata Femia23, ma con procurare maggiore invenzione et artificio, e ne vennero a risultare alcune Villanelle miste tra Madrigali di canto figurato e di Villanelle, delle quali se ne vedono oggi di molti libri de gl'autori suddetti Roma riportavano sempre anche pezzi di Nanino, spesso nelle prime pagine e prima di quelli di Palestrina. 21 Giulio Cesare Brancaccio, nato a Napoli tra il 1515 ed il 1520, fu poeta, attore, scrittore e cantore in diverse corti italiane e soprattutto a Ferrara. Fu legatissimo a Torquato Tasso, che gli dedicò diversi poemi ed a Giovan Battista Guarini cui chiese anche di intercedere, nel 1585, per riconquistare il favore del duca Alfonso II d’Este che lo aveva accusato di insubordinazione. Come cantore partecipò nel 1577 al primo periodo del Concerto delle donne, cantando con Lucrezia Bentivoglio, Leonora Sancitale e Vittoria Bentivoglio. Fu anche autore di un fortunatissimo commento al De Bello Gallico (Venezia, 1580), più volte ristampato tra il 1585 ed il 1595 (cfr. NEWCOMB A., The madrigal at Ferrara 1579-1597, Princeton University Press, Princeton N. J., 1980). 22 Fratello di Giovanni Antonio Merlo, sin da giovane cantò nella Cappella Giulia a Roma, prima come soprano puer, poi come basso. Dotato di un registro piuttosto ampio (tre ottave, ben 22 voci appunto), fu cantore piuttosto richiesto e rinomato. Morì il 22 aprile 1601 e la messa funebre si tenne in S. Maria della Vallicella otto giorni dopo (cfr. SHERR R., The Diary of the Papal Singer Giovanni Antonio Merlo, in «Analecta Musicologica», 23, 1985, pp. 75-128 e ID., From the Diary of a 16th-Century Papal Singer, in «Current Musicology», 25, 1978, pp. 83-98). 23 Eufemia «Fumia» Jozola, a sua volta legatissima ad altre due cantanti molto famose alla metà del Cinquecento e cioè Vittoria Moschella e la sua presunta figlia o sorella, è una della cantanti più importanti dell’area napoletana (si vedano per questo, PIRROTTA N., Li due Orfei: da Poliziano a Monteverdi, Einaudi, Torino, 1975, p. 14 , n. 71 e BORZELLI A., Nel 500 napolitano: Sannazaro, Luna, Caracciolo, Fumia, Artigianelli, Napoli, 1941, pp. 39-47.

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e di Orazio Vecchi24 e altri. [3] Ma sì come le Villanelle acquistarono maggior perfezzione per lo più artificioso componimento, così anche ciascun autore, a fin che le sue composizioni riuscissero di gusto in generale, procurò d'avanzarsi nel modo di componere a più voci, e particolarmente Giachet Wert25 in Mantova, il Luzzasco in Ferrara26. [4] Quali erano sopraintendenti di tutte le musiche di quei Duchi, che se ne dilettavano sommamente, massime in fare che molte dame e signore principali apparassero di sonare e cantare per eccellenza; [5] a segno tale che dimoravano talvolta i giorni intieri in alcuni camerini nobilmente ornati di quadri fabricati a questo solo effetto, et era gran competenza fra quelle dame di Mantova e di Ferrara, che facevano a gare, non solo quanto al metallo et alla disposizione delle voci, ma nell’ornamento di esquisiti passaggi tirati in opportuna congiuntura e

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Allievo di G. B. Nanino e contemporaneo di Vincenzo Giustiniani, fu dal 1592 al 1594 in servizio nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi. Fu quindi maestro di cappella a Santa Maria Maggiore e poi nella cattedrale di Benevento (1610). Quattro anni più tardi torna a Roma a servizio del Cardinale Arrigoni e poi, ancora, maestro di cappella a San Luigi dei Francesi fino al 1620. da quell’anno e fino al 1626 fu invece a servizio in Cappella Giulia a San Pietro e poi, di nuovo, fino dal 1631 fino alla morte, a San Luigi dei Francesi 25 Già giovane cantore in casa di Maria di Cardona (cfr, supra, n. 15) intorno alla metà del Cinquecento, il fiammingo Giachet de Wert è, insieme con Luzzasco Luzzaschi, l’ideatore di una polifonia più avanzata, progettata per complessi corali soprattutto a cinque parti (L’ottavo libro di madrigali a cinque voci nuovamente ristampato e posto in luce, Venezia, appresso Angelo Gardano, 1586). 26 Luzzasco Luzzaschi (1545-1607), fu organista, compositore e maestro di cappella nella cattedrale di Ferrara sotto Alfonso II d'Este. Claudio Merulo lo considerava il più grande organista italiano del suo tempo, Vincenzo Galilei lo inserì nel novero dei musicisti più distinti di ogni epoca e Pietro Pontio lo cita nella seconda parte del suo Dialogo ove si tratta della teoria e pratica di musica, come autore di Ricercari per organo, due di essi, sul primo e sul secondo tono, sono stati pubblicati da Girolamo Diruta nella seconda parte del suo Transilvano, mentre nella prima parte fu inserita una Toccata sul quarto tono. L'abate Requeno, erroneamente, lo cita tra i musicisti del XVI secolo che tentarono di rimettere in voga il genere enarmonico dei greci e assicura che aveva costruito un clavicembalo la cui tastiera era disposta in maniera da poter eseguire qualsiasi brano di musica nei tre generi diatonico, cromatico ed enarmonico (Saggi sul ristabilimento dell'arte armonica, tomo II). Purtroppo per l'abate però, lo strumento di cui scrive era stato costruito da Niccolò Vicentino e si trovava presso il duca di Ferrara, secondo quanto ci dice E. Bottrigari nel suo Il desiderio, overo de' concerti de' varii strumenti musicali (1559), che ricorda anche come, proprio Luzzasco, lo suonasse con disinvoltura, traendone effetti pensati esclusivamente per quello strumento. Sulla musica a Ferrara è decisivo l’intervento di FABBRI P., Gli Este e la musica, in Un rinascimento singolare. La corte degli Este a Ferrara, catalogo della mostra, Bruxelles, Palais des Beux-Arts, 3 ottobre 2003 – 1 gennaio 2004, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2003, pp. 58-67.

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non soverchi, (nel che soleva peccare Gio. Luca falsetto di Roma27, che servì anche in Ferrara), e di più col moderare e crescere la voce forte o piano, assottigliandola o ingrossandola, che secondo che veniva a’ tagli, ora smezzarla, con l'accompagnamento d'un soave interrotto sospiro, ora tirando passaggi lunghi, seguiti bene, spiccati, ora gruppi, ora a salti, ora con trilli lunghi, ora con brevi et or con passaggi soavi e cantati piano, dalli quali tal volta all'improvviso si sentiva echi rispondere, e principalmente con azzione del viso, e de’ sguardi e de’ gesti che accompagnavano appropriatamente la musica e li concetti, e sopra tutto senza moto della persona e della bocca e delle mani sconcioso, che non fusse indirizzato al fine per il quale si cantava, e con far spiccar bene le parole in guisa tale che si sentisse anche l'ultima sillaba di ciascuna parola, la quale dalli passaggi et altri ornamenti non fusse interrotta o soppressa, e con molti altri particolari artifici et osservazioni che saranno a notizia di persone più esperimentate di me. [6] E con queste sì nobili congiunture i suddetti musici eccellenti facevano ogni sforzo d'acquistar fama e la grazia de' Principi loro padroni, dalla quale derivava anche il loro utile. [10] (Gesualdo da Venosa) 4. [1] Coll’esempio di queste Corti e delli due napolitani che cantavano di basso nel modo suddetto, si cominciò in Roma a variar modo di componere a più voci sopra il libro e canto figurato, et anche ad una o due al più voci sopra alcuno stromento, e cominciò il Prencipe Gesualdo di Venosa, che sonava anche per eccellenza di Leuto e di Chitarra napoletana, a componere Madrigali pieni di molto artificio e di contraponto esquisito, con fughe difficili e vaghe in ciascuna parte, intrecciate fra loro, prese in tale proporzioni che non vi fussero note superflue e fuori della fuga incominciata, la quale sempre anche restava poi messa alla rovescia della prima. [2] E perché questa esquisitezza di regole soleva talvolta render la composizione dura e scabrosa, procurava con ogni sforzo et industria fare e27

Giovanni Luca Conforti (1560-1608), fu celebre falsettista, conosciuto per le sue capacità di virtuoso e per i suoi diversi libri di ornamenti. Fu ammesso in Sistina il 9 settembre 1581 e vi rimase sino al 1585 quando fu allontanato da Sisto V. Dopo aver svolto servizio sotto diversi padroni, nel 1591 fu riammesso nel coro della Cappella Sistina, probabilmente dopo la morte di Sisto V, rimanendovi sino alla morte (cfr. SHERR R., Guglielmo Gonzaga and the castrati, in «Reinassance Quaterly», 33 (1980), pp . 42-44, BRADSHAW M., giovanni Luca Conforti «Salmi passaggiati» (1601-1603), vol. 1, misc. 5, Early Sacred Monody, America Insitute of Musicology, Neuhausen-Stuttgart, 1985).

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lezzione di fughe, che se ben rendevano difficoltà nel componerle, fossero ariose e riuscissero dolci e correnti a segno che paressero nell'atto del cantare facili da comporsi da ciascuno, ma alla prova poi si trovassero difficili e non da ogni compositore. [3] Et in questa guisa compose lo Stella, il Nenna28 e Scipione de Ritici napoletani, che seguivano il suddetto modo del Principe di Venosa e del Conte Alfonso Fontanella29. [11] (La musica a Firenze e Roma) 5. [1] Nell’istesso tempo il Cardinale Ferdinando de’ Medici, che fu poi Gran Duca di Toscana, stimolato e dal proprio gusto e dall'esempio degli altri suddetti Prencipi, ha premuto in aver musici eccellenti, e specialmente la famosa Vittoria, dalla quale ha quasi avuto origine il vero modo di cantare nelle donne, perciocché ella fu moglie di Antonio di Santa Fiore30, così co28 Nato a Napoli probabilmente nel 1559, Scipione Stella fu organista nell’Annunziata, ivi introdotto da Giovan Domenico del Giovane in sostituzione di Pietro Fiamengo (van Haarlem), fino al 1593, quando passò alle dirette dipendenze Carlo Gesualdo da Venosa. L’anno dopo in occasione del matrimonio di Gesualdo con Eleonora d’Este, a Ferrara, conosce Luzzaschi e Nicolò Vicentino e forse rimane nella città anche dopo la partenza di Gesualdo. Nel 1597 prende gli ordini ed entra nell’Ordine dei Teatini servendo fino alla fine nella chiesa di S. Paolo Maggiore a Napoli (1622). Pomponio Nenna servì con Gesualdo, di cui fu probabilmente anche primo insegnante, tra il 1594 ed il 1599, quindi fu a Roma dal 1608. Cinque anni prima fu insignito dello Speron d’Oro dal Papa. Scrisse due libri di responsori e nove di madrigali. 29 Carlo Gesualdo da Venosa, (1566-1613) studiò con Pomponio Nenna, Giovanni Macque, Stefano Felis, Scipione Stella ed altri eccellenti musici del tempo. Nacque a Venosa (lo testimoniano due lettere custodite presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano) da Fabrizio II e Geronima Borromeo sorella di San Carlo. A 19 anni pubblicò il primo mottetto “Ne reminiscaris, Domine, delicta nostra” dimostrando fin da giovane una passione enorme per la musica tale da farlo divenire uno dei più illustri madrigalisti di ogni tempo, raffinatissimo innovatore e precursore della musica moderna (per ogni riferimento a Carlo Gesualdo si veda soprattutto La musica del Principe. Studi e prospettive per Carlo Gesualdo, atti del convegno internazionale di studi, Venosa – Potenza 17-20 settembre 2003, a cura di I. BATTISTA e L. CURINGA). Alfonso Fontanelli, al servizio degli Este, almeno dal 1586 al 1620, con piccole interruzioni e molti viaggi, fu anch’egli sodale di Carlo Gesualdo e forte fu l’influenza del musicista venosino sulla sua composizione. Le sue musiche furono raccolte in due collezioni, una del 1595 e l’altra del 1604, spesso ristampate. 30 Vittoria Concarini, detta “la Romanina”, moglie di Antonio Archilei di Santa Fiore, è una delle più famose cantanti del tempo. Allieva dello stesso Archilei, è citata tra i musicisti che rappresentarono a Palazzo Pitti il 2 maggio 1589 la commedia di Girolamo Bargagli La pellegrina. Antonio Archilei fu liutista, cantante e compositore alla corte medicea dal 1584 e fino alla morte avvenuta nel 1610, anno in cui la moglie Vittoria fece definitivamente ritorno a Roma (su Vittoria Archilei cfr. TREADWELL N., She descended on a cloud “from the highest spheres”: Fiorentine monody “alla Romanina”, papers presented to the international mee-

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gnominato perché era stato fin da fanciullo musico per eccellenza del Cardinal di Santa Fiore. [2] E con questo esempio molt’altri s’esercitarono in questo modo di cantare in Roma, in guisa tale che prevalsero a tutti gli altri musici dei luoghi e Prencipi suddetti, e vennero in luce Giulio Romano, Giuseppino, Gio. Domenico et il Rasi, che apparò in Firenze da Giulio Romano; e tutti cantavano di basso e tenore con larghezza di molto numero di voci, e con modi e passaggi esquisiti e con affetto straordinario e talento particolare di far sentire bene le parole. [3] Et oltre a questi moti altri soprani, Gio. Luca [falsetto], Ottavio Durante, Simoncino, Ludovico che cantavano in voce da falsetto, e molti altri eunuchi di Cappella, eta altri come un Onofrio Pistoiese, un Mathias spagnolo, Gio. Gironimo perugino e molti altri che per brevità tralascio. [4] Successe poi al Cardinal Ferdinando de’ Medici, che niente meno di lui si dilettò della musica, perché di più sonava di cimbalo egli per eccellenza, e cantava con maniera soave et affettuosa e teneva in sua casa molti della professione che eccedevano la mediocrità, e tra gli altri il Cavaliere del Leuto31, e Scipione Dentici tings of the Society for Seventeenth-Century music, Princeton april 2002 and the International Musicological Society, Leuven, August 2002). 31 Su Giulio Caccini detto “Giulio Romano”, cfr. MAYER BROWN H., The Geography of Florentine Monody: Caccini at Home and Abroad, «Early Music», Vol. 9, No. 2 (Apr., 1981), pp. 147-168, WILEY HITCHCOCK H., A New Biographical Source for Caccini, in «Journal of the American Musicological Society», Vol. 26, No. 1 (Spring, 1973), pp. 145-147. Giuseppino Cenci è da Tim Carter (Rediscovering “il Rapimento di Cefalo”, in «Journal of SeventeenthCentury Music», v. 9, n.1, 2003, par. 2.5), sulla base proprio delle affermazioni contenute nel Discorso di Vincenzo Giustiniani, considerato l’inventore, insieme con Caccini, del recitativo; fu cantante di ottime qualità e di buona resa vocale. Giovanni Domenico Puliaschi fu compositore e cantore sia presso la cappella pontificia che al servizio del cardinale Borghese. Dotato di una voce che affascinò i suoi contemporanei fu uno dei primi autori ad offrire, nelle Musiche Varie, preziose informazioni sul modo di eseguire i canti. Giovanni Francesco Anerio comporrà diversi suoi mottetti pensando alla particolare intonazione di Puliaschi (SCOZZI S., Giovanni Domenico Puliaschi, cantante e compositore nella Roma di primo Seicento, intervento al IX convegno annuale della Società Italiana di Musicologia, Padova, Conservatorio “C. Pollini”, 25-26 ott. 2002). Allievo di Giulio Caccini secondo Giustiniani, anche il tenore Francesco Rasi fece parte del cast de Il rapimento di Cefalo, in cui impersonò sia il ruolo di Febo che quello di Giove in alternanza con Jacopo Peri (CARTER T., Rediscovering “il Rapimento di Cefalo”, in «Journal of Seventeenth-Century Music», v. 9, n.1, 2003). Sul Cavaliere del Liuto, cfr. CARLONE M., Lorenzino and the Knight of the Lute: a mystery unveiled, paper read at September 19, 2003, Central Renaissance Conference, Lawrence (Kansas); April 1, 2004, Renaissance Society of America, New York; June 29, 2004, Lute Society of America, Cleveland (Ohio) e Lorenzino e il “Cavaliere del leuto”, intervento al XI convegno annuale della Società Italiana di Musicologia, Lecce, università degli studi, 22-24 ott. 2004.

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del Cimbalo, sonatori e compositori eccellenti, e poi Orazio [Mihi] sonatore raro d’Arpa Doppia, e per cantare aveva Onofrio Gualfreducci32 eunuco, Ippolita napoletana33, Melchior Basso34, e molt’altri a’ quali dava grosse provigioni. [6] E con l’esempio di questi e di tutti gl’altri suddetti si ravvivò l’esercizio della musica, a segno che se ne sono dilettati poi molti Nipoti di Papi, e altri Cardinali e Principi; anzi tutti i maestri di Cappella hanno intrapreso di ammaestrare diversi eunuchi et altri putti a cantare con passaggi e con modi affettuosi e nuovi; tra quali, Gio. Berardino Nanino35 Maestro di Cappella in san Luigi [dei Francesi] e Ruggiero Giovannelli hanno fatto allievi di gran riuscita, che per esser vivi e in gran numero tralascio di nominare per ora. [12] (Altri compositori) 6. [1] Per l'avanti a questo tempo sono stati molti li compositori, come Claudio Monte Verde36, Gio. Berardino 32

Sopranista (ma castrato secondo Giustiniani), è attestato in Sistina tra il 1575 ed il 1577 e poi fino al 1587 quando si trasferì a Firenze. Tre anni dopo torna a Roma, al servizio del Cardinal Montalto. Vi rimase fino al 1600 quando fece ritorno nella natia Pistoia dove rimase fino alla morte (cfr. HARNESS K., HILL, J. W., recensione a KIRKENDALE W., The Court musicians in Florence during the principate of the Medici with a reconstruction of the artistic establishment, in «Journal of American Musicology Society», vol. 48, 1 (1995), pp. 106-115). 33 CAMETTI A., Chi era l’”Hippolita” cantatrice del Cardinal di Montalto, in «Sammelbände der Internationalen Musikgesellschaft», 15. jahrg., H. 1 (oct. – Dec. 1913), pp. 111123. 34 Melchiorre Palantrotti, altrimenti conosciuto anche come Melchiorre Basso è tra i cantanti più famosi dell’epoca. Fu al servizio dei Medici e partecipò a diverse prime esecuzioni di intermedi di Marco da Gagliano, Jacopo Peri e Girolamo Bargagli. Fu Plutone nell’Euridice di Peri (cfr. sempre CARTER T., Rediscovering “il Rapimento di Cefalo”, in «Journal of Seventeenth-Century Music», v. 9, n.1, 2003 e PALISCA V., The first performance of “Euridice”, in ID., Studies in the history of italian music and music theory, Oxford, Clarendon Press, 1994, pp.432-451). 35 Giovanni Bernardino Nanino, fratello di Giovanni Maria, fu maestro di cappella a S. Luigi dei Francesi dal 1591 al 1608 e più tardi a S. Lorenzo in Damaso. Fu tra i primi ad usare il basso continuo nelle proprie composizioni. 36 Claudio Monteverdi (Cremona, battezzato il 15 maggio 1567 - Venezia, 29 novembre 1643) fu un compositore, violista e cantante. Il suo lavoro di compositore segna il passaggio dalla musica rinascimentale alla musica barocca. Nel corso della sua lunga vita ha prodotto opere che possono essere classificate in entrambe le categorie, e fu uno dei principali innovatori che portarono al cambio di stile. Monteverdi scrisse la prima opera teatrale in cui fosse sviluppabile una trama drammatica, L'Orfeo, e fu abbastanza fortunato da godere del suo successo mentre era in vita. Nel 1589 Monteverdi fu assunto alla corte di Mantova in qualità di corista e violista e nel 1603 fu nomimato dal duca Vincenzo Gonzaga maestro di cappella. Fino al suo quarantesimo compleanno lavorò principalmente su madrigali, componendone in tutto otto libri. Nel 1607 Monteverdi compose L'Orfeo, su libretto di Alessandro Striggio ju-

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Nanino, Felice Anerio et altri; li quali, senza uscire dal modo di comporre del Prencipe di Venosa Gesualdo, hanno atteso a raddolcire et affacilitare lo stile e modo di componere, e particolarmente hanno fatto molt’opere da cantarsi nelle chiese, con diverse maniere e varie invenzioni a più cori, anche fino al numero di 12; et in questo stile si usa continuamente di cantare al giorno d'oggi e di componere con molto numero di buoni cantori e cantatrici. [2] Anzi dirò che ne i tempi nostri la musica viene nobilitata et illustrata più che mai, mentre il Re Filippo IV di Spagna et ambidue li suoi fratelli se ne dilettano, e sogliono spesso cantare al libro, e sonar di Viole concertate insieme, con alcuni pochi altri musici per supplire al numero competente, tra’ quali con Filippo Piccinino Bolognese37, sonatore di Liuto e di Pandòra eccellentissimo. [3] Anzi di più lo stesso Re et i fratelli fanno le composizioni, non solo per loro diletto ma anche perché si cantino nella Cappella Regia e nel l'altre chiese mentre si celebrano i divini offizii; e quest'inclinazione e gusto di S. Maestà sarà cagione che molti signori se ne diletteranno ancora, e molti altri s'applicaranno alla musica, come dice quel verso; Regis ad exemplum totus componitur orbis. [13] nior. All'epoca era normale per i compositori creare lavori su richiesta per occasioni speciali e quest'opera era intesa ad aggiungere lustro al carnevale annuale di Mantova. In effetti fu un grande successo, che aderiva perfettamente allo spirito dei tempi. L'Orfeo è segnato dalla sua potenza drammatica e dall'orchestrazione vivace. Infatti, si può sostenere che il lavoro sia il primo esempio in cui un compositore assegna specifici strumenti a singole parti, ed è anche una delle prime grandi opere delle quali ci è pervenuta l'esatta composizione della strumentazione per la prima. La trama è descritta in vivide immagini musicali e le melodie sono lineari e chiare. Con quest'opera Monteverdi creò uno stile musicale completamente nuovo, il dramma per musica. Il capolavoro di Monteverdi rimane il Vespro della Beata Vergine del 1610. La portata del lavoro nel suo insieme è importantissima poiché, ogni parte (sono 25 in totale) è pienamente sviluppata sia in senso musicale che drammatico e la struttura strumentale viene usata per precisi effetti drammatici ed emotivi. Nel 1613 Monteverdi fu nominato direttore a San Marco, Venezia, dove ben presto fece rinascere il coro, che era in declino sotto il suo predecessore. Qui egli completò il sesto, settimo ed ottavo libro di madrigali. Durante gli ultimi anni Monteverdi compose Il ritorno di Ulisse in patria (1641) e L'incoronazione di Poppea (1642). Questa in particolare, è considerata il punto culminante del lavoro di Monteverdi. Essa contiene scene tragiche e comiche (un nuovo sviluppo dell'opera), un ritratto più realistico dei personaggi, e melodie più calde, che non si erano sentite prima. Richiedeva un'orchestra più piccola, ed un ruolo meno prominente del coro. 37 Felice Anerio fu cantore in S. Luigi dei Francesi sotto la direzione di Francesco Soriano e poi, con lo stesso, collaborò alla riorganizzazione del Graduale Romano per ordine di Clemente VIII. Filippo Piccinini, appartenente con Alessandro ad una importante famiglia di liutisti, fu uno dei più importanti esecutori di questo strumento, di cui perfezionò la tecnica e la ricerca sonora.

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7 [1] E da tutte queste cose si viene chiaramente a conoscere quel che dissi di sopra cioè, che il modo e maniera di cantare si va di tanto in tanto variando dalli vari] gusti de’ Signori e Prencipi grandi che se ne dilettano, appunto come segue nel modo di vestire, che si vanno sempre rinnovando le foggie, secondo che vengono introdotte nelle Corti de’ grandi come per esempio in Europa il vestire a modo di Francia e di Spagna. [14] (Diversi modi di eseguire e comporre) 8. [1] Oltre le suddette variazioni del modo di cantare si vede per esperienza che ogni nazione, ogni provincia, anzi ogni città, ha un modo di cantare differentissimo ciascuno dall'altro, e di qui viene quel dettato volgare, Galli cantant, Hispani ululant, Germani boant, Itali plorant. [2] Anzi di più, nell'istessa Italia, da un luogo all'altro, si conosce vario il modo e l'aria, come per esempio l'aria Romanesca è singolare e riputata bellissima e per tutto si canta con molto diletto, come esquisita et atta a ricevere ogni sorte di ornamento et accompagnata con ogni tuono e con gran facilità; e così l'aria detta Fantinella. [3] In Sicilia sono arie particolari e diverse secondo i diversi luoghi, perché in Palermo sarà un'aria, in Messina un’altra, un’altra in Catania et un'altra in Siracusa. [4] Il simile nelle altre città e luoghi di quel Regno; e così negl'altri luoghi d'Italia, come in Genova, Milano, Firenze, Bergamo, Urbino, Ancona, Foligni e Norcia; et ho voluto specificare questi luoghi come per esempio, tralasciandone molti altri per andar restringendo il discorso. [15] (Dei diversi stili della composizione) [1] Per opinione generale de' musici, acciò che una composizione di qualsivoglia stile o maniera riesca degna di lode e di gusto a chi la sente poi nell'atto di metterla in pratica come ho accennato di sopra, conviene che primieramente sia fatta con buon contraponto fondato nelle vere regole, con fughe nuove e difficili da intrecciarsi insieme in tutte le parti, senza impitura di note superflue, tanto pigliandole per la diritta regola ordinaria, quanto per la rovescia. [2] Secondariamente, che la composizione tutta e le fughe particolari siano facili e correnti in maniera che l'arteficio non le renda scabrose, anzi che non sia conosciuto se non da persone esperte nel mestiere e che vi facciano riflessione particolare. [3] E per terzo che sieno ariose e con grazia singolare; perché per esperienza ho conosciuto che molte composizioni d'autori insigni con le due suddette condizioni, perché non avevano questa terza che io dico, non sono sta-

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te aggradite, e restano in un fondo di cassa o almeno sopra una scanzia coperta di polvere; ne potrei addur molte ma essendo pur assai note per brevità le tacerò. [4] E questa terza condizione è anco necessaria nell'altre composizioni che si dicono arie da cantarsi ad una o poco più voci sopra stromenti, anzi senza questa restaranno fredde e sciapite, con tutto che siano artificiose e con difficile contraponto ignoto a gl’altri. [16] (Grazia e diletto delle composizioni) [1] Dalla maggior parte delle cose suddette forse in V. S. risulta un desiderio e curiosità di sapere che cosa sia l'aria e la grazia della musica e nelle composizioni, che si fanno a fine che dilettino e piacciano a chi le sente quando si cantano o suonano, et io prevedendo la richiesta che me ne possa fare, per il desiderio che ho di darle gusto, dirò che il rispondere precisamente sarà cosa difficile anco a persone più esperte di me. [2] Con tutto ciò senza risolvermi ad altro tempo come fanno alcuni che professano di sapere qualche cosa dalla quale sono molto lontani, le dirò quello che mi occorre. [17] (Produzione, bello, bellezza) [1] In tutte le professioni nelle quali si ricerca l'industria o sagacità dell'uomo, la natura naturante o naturata, che vogliamo dire, si è riserbata per sé una parte, per levare all'uomo l'occasione d'insuperbirsi con riconoscersi inetto et inutile per se stesso senza l'aiuto o favore divino, provando per esperienza, che con tutta l'industria et invenzione ch'averà in qual si voglia professione, resterà oscuro e privo di gloria e di fama, se non vi sarà annessa la grazia, ch'è dono d'Iddio benedetto, non solo nelle cose et azzioni umane, ma in tutte le cose create. [2] Come per esempio si vederà una donna bellissima et ornatissima e non averà grazia et un'altra sarà brutta e sarà graziosa; tal cavagliere saprà le regole del torneare e del cavalcare per eccellenza e non vi averà grazia come un altro, che non ne sa tanto di gran lunga. [3] Si dirà un tale predica per eccellenza, ma non ha grazia. [4] Si suol anche dire un tal gentil uomo discorre benissimo e scientificamente, ma non ha grazia; et un altro sa poco, ma è grazioso nel discorrere. [5] Si dirà un'aura soave e graziosa, un cavallo grazioso e camina con grazia. [18] [1] Un pittore sarà rozzo, un altro grazioso nelle figure et uno scultore nelle statue; e così potrei seguitare per un pezzo in tutte le cose create, massime nelle sublunari. [2] Ma perché è cosa a ciascuno nota, mi basterà aver addotto questi esempi,

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et a questa similitudine concludere, che nella musica, tanto delle voci quanto del suono, si potrà addurre l'istessa cagione della grazia e dell'aria; con dire per diffinizione che il cantare con grazia non è altro se non una lunga osservazione delli modi e regole di cantare, che sogliono arrecare particolar gusto e diletto alle orecchie delle persone di giudizio per l'ordinario; e di quelle servirsi con voce che non sia ingrata e sconcia, o nel sonare con buono stromento. [3] E così si potrà ben dire, il tale non ha troppa buona voce, ma canta con grazia, come per esempio addurrò di nuovo il sig. Cardinal Mont'Alto38, che sonava e cantava con molta grazia et affetto, se bene aveva un aspetto più tosto marziale che apollineo, et una voce da scrivere, come si suoi dire, e così anche Giulio Romano, che come ho detto fu quasi inventore d'una nuova maniera di cantare. [19] [1] E che sia il vero che la grazia del cantare sia parte proveniente dalla natura e non dall'arte, salvo solo nell'osservazione, come ho detto, delli modi che piacciono, si conosce talvolta perché tal cantante ad uno parrà grazioso et ad un altro nojoso, e per il contrario un cantante sciocco piace a chi non dovrebbe piacere; e l'istesso effetto si vede nell'altre cose ancora e specialmente nelle putterie di Spagna e d'Africa, nelle quali non è donna che non trovi recapito per brutta che sii. [2] E così si dice anco che negli macelli non resta carne che non si spacci, et il simile si potrebbe dire dell'altre cose che tacerò per brevità. [20] (Affetti e risultato etico) [1] Non però mi pare di tralasciare un effetto mirabile, che dalla musica e dal suono procede e si è continuamente osservato da molto tempo in qua nella Puglia e nel Regno di Napoli nelle persone che sono morsicate dalla tarantola, o sia soffritto, come in que’ luoghi si suoi dire, li quali ricevono nel male che pati38

Al riguardo del cardinal Montalto e della sua attività come mecenate nei primi del Seicento, cfr. HILL J. W., Roman monody, Cantata, and opera from the circles around Cardinal Montalto, voll. 2, Oxford University Press, New York; HAMMOND F., Music and Spectacle in Baroque Roma: Barberini patronage under Urban VII, New Haven, Yale University Press, 1994; ANNIBALDI C., “Il mecenate politico”. Ancora sul patronato musicale del Cardinale Pietro Aldobrandini (ca. 1570-1621), in «Studi Musicali», 16 (1987), pp. 33-93 e 17 (1988), pp. 101-178; LIONNET J., The Borghese family and music durino the first half of the Seventeenth century, in «Musi & Letters», 74 (1993), pp. 519-529; CHATER J., Musical patronage in Rome at the turn of the Seventeenth Century: the case of Cardinal Montalto, in «Studi Musicali», 16 (1987), pp. 179-227; HILL J. W., Frescobaldi’s Arie and the musical circle around Cardinal Montalto, in Frescobaldi Studies, a cura di A. SILBIGER, Durham, Duke University Press, 1987, pp. 157-194.

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scono nelle viscere, con necessità di stare in moto e quasi ballando, gran refrigerio e molte volte la totale liberazione, dalla musica o dal suono; e, quel ch'è più di maraviglia, da una musica e da un suono particolare tra molte altre arie e musiche e suoni, che si fanno sentire a gl'infermi, li quali sentono giovamento solamente da un suono o da una musica tra le molte altre, come ho detto. [2] E perché quando questi tali non restano liberati, in ciascun anno nella stagione nella quale furono offesi, vengono riassaliti dal tormento, così con i suoni e canti diversi si procura darli occasione, se non di rimedio, almeno di refrigerio, che ricevono molto maggiore che da gl'altri rimedi di medici. [23] (Il canto ed il lavoro) [1] Resteria d'investigare la cagione perché nella pesca del pesce spada, che si può dire più presto caccia, sia riputato il canto necessario, e quel ch'è più, con esprimere parole greche. [2] Così anche la cagione perché il suono o canto addormenti gl'uomini, e particolarmente i fanciulli e gl'altri animali; et anche perché il canto alleggerisca la fatica e noia del caldo ne i lavoranti e metitori nell’estate, tanto più che col canto gli s'accresce la sete; e ancora da che procede il benefizio che volgarmente si crede che apporti il canto et il suono a i vermi della seta, che si dicono cavalieri in Lombardia e così perché il canto scemi la paura ne i putti mentre caminano di notte; ma ne lasciaremo il pensiero ai medici et a i filosofi che ne sanno più di noi. [24] (Il canto come incitamento) [1] Il canto e il suono appropriati hanno forza d'incitare gli animi delle persone, come ho accennato, a varie e diverse azzioni, et in specie alla guerra; che però s'usa e la tromba et il tamburo e l'acclamare con le voci unitamente a tempo. [2] Anzi incita anche i cavalli e gl'infervorisce nell'atto del combattere come disse Virgilio: Aere ciere viros, Martemque accendere cantu; et è grand’incentivo al bevere soverchio, come s'usa in Germania et anche in Italia, ove spesso si canta il berlinghino a questo fine. [3] Mi son trovato anche in Firenze in compagnia di più di cento persone, che nel ritorno dalla caccia, per iscemar il tedio del viaggio, da tutti unitamente, si cantavano molte pazze canzoni. [4] Vediamo tra facchini e marinai, nell'operare, per scemar la fatica, l'accompagnano, con unire le forze col canto; e così anche quelli che nel Ponte di Rialto pestano le droghe e speciarìe. [25] (Il canto come preghiera) [1] Si sentono molti predicatori,

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che per muovere la gente bassa et idiota, si servono più del canto che de i concetti; massime nelle prediche del Venerdì Santo. [2] In modo che si può dir veramente, che ne gl'effetti che procedono dalla musica, la natura vi abbia gran parte, accompagnata anche dall'arteficio, come ha ne gl'animali irrazionali ancora e particolarmente ne gl'uccelli, a' quali ha concesso varie sorti di voci e di canto; che pare quasi che tra loro faccino a gara d'arrivare alla maggior perfezzione, e d'insegnare agli figli tal esercizio, come per più conti necessario al mantenimento et esser loro; come si vede per continua esperienza principalmente ne i rosignoli e pappagalli; onde si vede che la musica fa grande effetto, non solo ne gl'uomini, come ho detto, ma anco ne gl'animali irrazionali. [3] E se pure alcuna persona non ne ha compiacimento, come io n'ho conosciuto taluno, e particolarmente il Cardinal Francesco Sforza ultimo, ciò avviene o per la grande applicazione dell'animo loro ad altri affetti che hanno veementi, o da troppo vivacità loro; che non avendo pazienza in una sola azzione volentieri mutano l'applicazione secondo la varietà de gl'oggetti che s'offeriscono, e quasi si può dire che nesciunt stare loco. [26] (La musica della Controriforma) [1] Nel presente corso dell'età nostra, la musica non è molto in uso, in Roma, non essendo esercitata da gentil uomini, né si suole cantare a più voci al libro, come per gl'anni a dietro, non ostante che sia grandissime occasioni d'unire e di trattenere le conversazioni. [2] È ben la musica ridotta in un'insolita e quasi nuova perfezzione, venendo esercitata da gran numero de' buoni musici, che disciplinati dalli suddetti buoni maestri porgono col canto loro artificioso e soave molto diletto a chi li sente. [3] Perché avendo lasciato lo stile passato, che era assai rozzo, et anche li soverchi passaggi con li quali si ornava, attendono ora per lo più ad uno stile recitativo ornato di grazia et ornamenti appropriati al concetto, con qualche passaggio di tanto in tanto tirato con giudizio e spiccato, e con appropriate e variate consonanze, dando segno del fine di ciascun periodo, nel che li compositori d'oggi dì con le soverchie e frequentate cadenze sogliono arrecar noia; e sopra tutto con far bene intendere le parole, applicando ad ogni sillaba una nota or piano or forte, or adagio, or presto, mostrando nel viso e nei gesti segno del concetto che si canta, ma con moderazione e non soverchi. [4] E si canta ad una o al più 3 voci concertate con istrumenti propri di Tiorba o Chitarra o Cimbalo o

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con Organo, secondo le congiunture; e di più in questo stile si è introdotto a cantare, o alla spagnola o all'italiana a quella simile, ma con maggior artificio et ornamento, tanto in Roma, come in Napoli e Genova, con invenzioni nuove dell'arie e de gli ornamenti; nel che premono i compositori, come in Roma il Todesco della Tiorba nominato Gio. Geronimo39. [5] In Napoli cominciò il Gutierrez, e poi hanno seguitato Pietro suo figlio e Gallo et altri; et in Genova un tal Ciccio per eccellenza compone e canta, porgendo gran diletto a quelle signore nelle conversazioni e nelle veglie, ch'ivi più che altrove si costumano. [27] (Lo stile recitativo) [1] Questo stile recitativo già era solito nelle rappresentazioni cantate dalle donne di Roma, come ora anche è in uso; ma riesce tanto rozzo e senza varietà di consonanze né d’ornamenti, che se non venisse moderata la noia che si sente dalla presenza di quelle recitanti, l’auditorio perfeziona li banchi e la stanza vuoti affatto. [2] Giulio Romano e Giuseppino furono quelli, come ho di sopra accennato, che quasi furono gl’inventori, o almeno che li diedero la buona forma, e poi di mano in mano s’è andato perfezionando a segno, che poco più oltre pare che per l’avvenire possa aggiungere, essendosi anche introdotto a cantare versi latini in inni et ode anche piene di santità e devozione, con soavità e gran decoro, e con far sentir bene e spiccati li concetti e le parole. [28] (La musica sacra) [1] Oggi dì nelle composizioni da cantarsi in chiesa non si preme tanto come per avanti nella sodezza et artificio del contraponto, ma nella loro grande varietà e nella diversità de gli ornamenti, et a più cori nelle feste solenni con accompagnamento di sinfonie di varij istromenti, con intromettervi anche lo stile recitativo, il qual modo ricerca gran prattica più tosto e vivacità d'ingegno e fati39

Giovanni Geronimo Kapsberger, conosciuto anche come Giovanni Geronimo della Tiorba, di probabili origini tedesche, nacque quasi sicuramente a Venezia nel 580. Dal 1610 fu al servizio dei papi diventando ben presto uno degli esecutori più famosi di liuto, tiorba e chitarrone insieme con Alessandro Piccinini. Anche se non è sicuro che sia stato il maestro di Frescobaldi, è certa la sua influenza sul suo stile compositivo ed esecutivo (OSTUNI P., Il chitarrone ‘col suono solo’ e la sua destinazione ‘in seguitare quelli che cantano’. La riscoperta del ‘Libro Terzo d’Intavolatura di chitarrone’ di Giovanni Girolamo Kapsberger (Roma 1626), in «RIdM», XXXIX, 2004/2; COELHO V., Giovanni Girolamo Kapsberger «della tiorba» e l’influenza liutistica sulle toccate di Frescobaldi, in Girolamo Frescobaldi nel IV centenario della nascita, convegno internazionale di studi, Ferrara 9/14 settembre 1983, a cura di S. DURANTE e D. FABRIS, Firenze, Olshki, 1986, pp. 341-357. COELHO V., G. G. kapsberger in Rome, 1604-1645: new biographical data, in «JLSA», 16, 1983, pp. 103-133.

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ca di scrivere, che gran maturità e scienza di contraponto esquisita. [2] E per tal segno si vede che li Maestri di Cappella delle chiese principali sono giovenotti; et il più vecchio fra essi è Vincenzo Ugolino40 d'età di anni 40 in circa, che fu Maestro di Cappella in San Pietro per alcuni anni, e ora si trova in Parma chiamato con l'occasione delle nozze di quel Duca Serenissimo con la Serenissima Margarita de' Medici sorella del Gran Duca di Toscana. [29] (La musica strumentale) [1] Nella prima e seconda parte s'è discorso della musica applicata alle voci umane e da cantarsi, resta ora che si dica alcuna cosa di quella dei suoni varij con diversità d’istromenti. [2] Ma perché mi pare che V. S. mi possa ricercare che differenza sia tra la voce e ‘1 suono, io, lasciando da parte che molti ne hanno scritto, dirò solo che il suono a mio parere sarà proprio delle cose inanimate, che procede dall'aere percosso o compresso o ristretto, che poi essala e si diffonde con la varia proporzione di tempo e del grado della violenza come per esempio si dirà suono quello dell'incudine e della campana e dell'Organo, e di tutti gli stromenti da fiato e delle Viole. [3] E voce sarà propria di tutti gli animali, ma principalmente dell'uomo. Gl'istromenti sogliono esser gli Organi, il Liuto o Pandòra, l'Arpa, il Cimbalo, la Tiorba, Chitarra e Lira; tutti stromenti sopra quali si può cantare ad una o più voci. Sono poi li Flauti, li Piferi, le Viole di conserto e la Viola Doppia o sia Bastarda, il Violino, il Cornetto, il Pìfero todesco, la Sordellina, la Piva, il Culascione e la Sanfornia, et altri che da questi narrati derivano con qualche invenzione. [4] Come per esempio dirò che Alessandro Piccinino bolognese è stato inventore della Pandòra, cioè d'un Liuto tiorbato con aggiunta di molte corde ne i bassi e molte negli alti, e tra queste alcune di ottone e d'argento, con tal disposizione che con la larghezza delle note e la quantità delle corde, s'ha campo di sonare ogni perfetta composizione esquisitamente, con vantaggio da gl'altri stromenti nel trillo e nel piano e forte. [5] E di questi stromenti hanno per eccellenza sonato Geronimo suo fratello, che morì in Fiandra, et ora ne suona Filippo, terzo 40

Alunno di Giovanni Battista Nanino fu a servizio prima in S. Luigi dei Francesi e poi maestro di cappella a S. Maria Maggiore. Fu anche maestro di cappella nel duomo di Benevento. Nel 1614 tornò a Roma al servizio del Cardinale Arrigoni e poi di nuovo a S. Luigi dei Francesi fino alla morte avvenuta nel 1638 (cfr. FORTUNE N., Giustiniani on Instruments, in «The Galpin Society Journal», Vol. 5, Mar., 1952 (Mar., 1952), pp. 48-54).

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fratello che serve il Re catolico, come ho detto di sopra. [30] (L’arpa doppia, la tiorba, il cornetto) [1] L'arpa Doppia quasi s'è trovata a' tempi nostri in Napoli, et in Roma ebbe principio da un Gio. Battista del Violino41, così detto perché lo suonava ancora per eccellenza. [2] Et ora Orazio Mihi42 suona di questa Arpa Doppia quasi miracolosamente, non solo nell'artifìcio, ma in un modo particolare di smorzare il suono delle corde, il quale se continuasse cagionerebbe dissonanza e cacofonia, e di più in un trillo difficile a qual si voglia altro. [3] D'Organo e di Cimbalo Geronimo Frescobaldi ferrarese porta fra tutti il vanto, e nell'arteficio e nell'agilità delle mani. [4] Di Tiorba il suddetto Gio. Gironimo todesco [Kapsberger], il quale anche è compositore e serve in Palazzo nelle private musiche e concerti. Questa è stata trovata a' tempi nostri, et esso Gio. Gironimo l'ha molto migliorata nel modo di sonare. [5] Sono poi molti sonatori d'altri stromenti, che non starò a nominare, salvo il Cavaliere Luigi del Cornetto anconitano, che lo sonava miracolosamente, e tra l'altre molte volte lo sonò in un mio camerino sopra il Cimbalo, ch'era ben serrato et appe41 Compositore, liutista e discendente di liutisti, fu al servizio degli Este e poi del cardinale Aldobrandini. È universalmente noto per aver inventato l’archiliuto, una sorta di liuto basso e per aver perfezionato la tecnica del chitarrone. È anche autore de Gli avvertimenti (Bologna 1623), una raccolta di brani per il chitarrone ed il liuto. Giovan Battista del Violino, tenore di origini bresciane, si trasferì a Roma nel 1571. Tre anni dopo è nominato maestro di cappella della Congregazione di San Rocco e successivamente organista in San Giovanni in Laterano. Nel 1586 si trasferì prima a Mantova e poi a Firenze dove morì nel 1608. Eccellente violinista (da cui il soprannome), fu anche ottimo organista, arpista e liutista. Cfr., FABBRI M., La vicenda umana e artistica di Giovanni Battista Jacomelli "del Violino" deuteragonista della Camerata fiorentina in Firenze e la Toscana dei Medici, a cura di N. PIRROTTA, Firenze, Olschki, 1983, pp. 397-438; GIAZZOTTO R., Quattro Secoli di Storia dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Rome, Accademia di Santa Cecilia, 1970; KIRKENDALE W., The Court Musicians in Florence during the Principate of the Medici with a Reconstruction of the Artistic Establishment, Florence, Olschki, 1993, pp. 256-261. 42 Orazio Mihi fu virtuoso dell’arpa doppia e tripla e primo esecutore a trasferire, sul piano della tecnica dello strumento e nell’ambiente romano, le cosiddette stravaganze, variazioni con effetti bizzarri e drammatici nello stile della fantasia, originariamente in voga a Napoli. La strada tracciata da Mihi fu seguita anche da Frescobaldi per il cembalo introducendo nella toccata in stile romano e nelle sue formule polifoniche, consonanze, dissonanze e passaggio tecnici arditi e virtuosistici. M. Mersenne, nell’Harmonie Universelle (1636) scrive che l’arpa tripla fu inventata in Napoli da L. A. Eustache, migliorata da Orazio Mihi e suonata in modo eccellente da J. le Flelle, arpista della regina di Inghilterra. Grazie alla tecnica compositiva ed esecutiva di Mihi, ben presto l’arpa divenne strumento associato al virtuosismo ed alla improvvisazione stravagante, ciò creò addirittura delle scuole strumentali in Roma (lo stesso Mihi) e Napoli (Magone e Trabaci) ben delineate in base alla tecnica espressa.

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na si sentiva; e suonava egli il Cornetto con tanta moderazione e giustezza, che fece stupire molti gentil uomini che si dilettavano di musica che erano presenti, puoiché il Cornetto non superava il suono del Cimbalo. [31] (La viola e la chitarra spagnola) [1] Di Viola Bastarda ho sentito un Orazio della Viola43, che serviva il Duca di Parma; et ultimamente in Roma un englese che sonava senza pari. Per i tempi passati era molto in uso il trattenersi con un conserto di Viole o di Flauti, ma alfine si è dimesso per la difficoltà di tener continuamente gl’istromenti accordati, che non suonandosi spesso riescono quasi inutili, e di unire le tante persone al componimento del conserto; e poi anche l'esperienza ha fatto conoscere che tale trattenimento, con l'uniformità del suono e delle consonanze, veniva assai presto a noia, e più tosto incitava a dormire che a passare il tempo et il caldo pomeridiano. [2] Era anche per il passato molto in uso il suonare di Liuto; ma questo stromento resta quasi abbandonato affatto, doppoiché s'introdusse l'uso della Tiorba, la quale essendo più atta al cantare anche mediocremente e con cattiva voce, è stata accettata volentieri generalmente, per schivare la gran difficoltà, che ricerca il saper sonar bene di Liuto. [3] Tanto più che nell'istesso tempo s'introdusse la Chitarra alla spagnola per tutta Italia, massime in Napoli, che unita con la Tiorba, pare 43

Su Frescobaldi, cfr. HILL W. J., Le arie di Frescobaldi e la cerchia musicale del Cardinal Montalto, in Girolamo Frescobaldi nel IV centenario della nascita, convegno internazionale di studi, cit.; HILL J. W., Roman monody, Cantata, and opera from the circles around Cardinal Montalto, voll. 2, Oxford University Press, New York; HILL J. W., Frescobaldi’s Arie and the musical circle around Cardinal Montalto, in Frescobaldi Studies, a cura di A. SILBIGER, Durham, Duke University Press, 1987, pp. 157-194. COELHO V., Girolamo Frescobaldi, in «Dialogos», 21, 1985, pp. 42-45. Orazio Bassani, detto “Orazio della viola”, è nato a Cento (FE) intorno al 1540 (cfr. ORLANDINI A., Cinque secoli di musica nella Terra di Cento, Cassa di Risparmio di Cento, 1989). Di probabili origini ebraiche e poi cristianizzato, era figlio di Girolamo Bassani. Ottimo esecutore alla viola bastarda, tra il 1574 ed il 1586, fu al servizio del duca di Parma Ottavio Farnese. Dopo la morte del duca, il 26 marzo 1587, passò alle dipendenze di Alfonso II d’Este. Dopo una breve parentesi al servizio di Alessandro Farnese governatore dei Paesi Bassi, nel 1592 rientrò in Italia al servizio di Ranuccio I, nuovo duca di Parma, committente del dipinto di Orazio Bassani ad opera di Agostino Carracci (cfr. Mandrioli G., Orazio Bassani detto Orazio della Viola. Un centese alla corte dei Farnese). Nel 1599 si trasferì a Roma rimanendovi fino al 1609, anno in cui rientrò a Parma, ancora al servizio dei Farnese. Qui, defunto nel settembre 1615, fu sepolto nella chiesa di S. Pietro Martire. Delle sue opere rimangono, grazie all’opera del nipote Francesco Maria Bassani, alcune toccate e diversi madrigali (Lezioni di contrappunto fatte da Francesco Maria Bassani con alcune Toccate e varj madrigali rotti da Orazio Bassani suo zio).

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che abbiano congiurato di sbandire affatto il Liuto; et è quasi riuscito a punto, come il modo di vestire alla spagnola in Italia prevale a tutte le altre foggie. Alessandro Piccinino suddetto ha inventato ultimamente un istromento simile al Plettro d'Apollo, misto tra Tiorba, Liuto, Citara, Arpa e Chitarra, che rende maraviglia; ma non sarà molto usato per la difficoltà che si trovarà in metterlo in pratica con la facilità con la quale egli lo suona. [32] (La chitarra napolitana, la sordellina e gli strumenti a fiato) [1] Il suonare di Chitarra napolitana resta affatto dismesso in Roma, e quasi anche in Napoli, con la quale già suonavano in eccellenza Don Ettore Gesualdo e Fabrizio Fillomarino44 in conserto col Prencipe suddetto di Venosa. [2] La Sordellina fu inventata anche in Napoli et introdotta in Roma, ove non ha poi continuato, per essere stromento imperfetto, e che solo gusta alquanto la prima volta che si sente, e poi, non avendo molta varietà nelle consonanze né servendo al cantare, viene facilmente a noia. [3] Il suono delle Trombe è proprio per la guerra, e per incitare e per avvertire la cavalleria nelle particolari azzioni, però non s'usa da persone nobili ma da mercennarie; et in Fiandra con l'occasione della guerra, sono molti che suonano con modo più che ordinario, e così in Inghilterra. [4] L'istesso si può dire del Tamburo e del fischio dei Corniti di Galere e de i todeschi e svizzeri. [33] (I Pifari e la traversa) [1] Li Piferi sono in uso nell'armate e vascelli di mare, et in quelli che navigano nell'Oceano si suonano più esquisitamente. Si usano anche in terra, massime in Spagna e li chiamano Geremias, et in Italia si usano nelli luoghi e terre picciole nelle feste e così anche li conserti de' Violini, e nelle città grandi nelle feste della gente bassa. [2] Il suonare con Pìfero o sia Traversa all'usanza todesca, ma con termini di contraponto musicale, e con grazia e giustezza, non è a notizia di molti in Italia; et in Roma lo soleva suonare il sig. Giulio Cesare d'Orvieto, et al presente lo suona anche un signor principale, che tra le molte virtù et esercizij onorati che possiede in eccellenza, suona anche di questo stromento con stupore di chi lo sente. [34] (La sanfornia) [1] Il sonare di Sanfornia, che in Roma si no44

Cugino di Carlo Gesualdo, fu anch’egli musico eccellente e forse suo primo maestro. Fabrizio Fillomarino fu anch’egli sodale di Gesualdo e buon esecutore.

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mina con nome di mal odore et in Lombardia Viabò, non meritarìa d'esser messo in campo, vedendosi per l'ordinario nelle bocche di gentaglia; ma essendo stata nobilitata dal sig. Ottaviano Vestrij45, il quale lo suonava con termini musicali e con giustezza nell'intonar delle note, non la tralascio; et io più volte l'ho sentito suonare tra gli altri Madrigali quello di Luca Marenzio che comincia Vestiva i colli ecc., e l'istesso Madrigale ho sentito in Anversa suonare nel campanile della chiesa principale con le campane, e quello che suonava aveva il libro davanti, e toccava li tasti, come s'usa ne gli organi, e l'istesso mi dissero che s’usava in Bolduch et in altri luoghi del Brabante e di Fiandra. [2] Un tal Francesco Tinella, orefice in Bologna, uomo ben visto generalmente, ha inventato una palla d'ottone ben serrata con alcuni ordegni dentro, che con pochissimo moto rendeva un'armonia inaspettata, con diletto e meraviglia di chi la sentiva. [35] (Congedo) [1] A V. S. parrà questa mia narrazione lunga e noiosa, massime con i nomi di tante persone. [2] Ma s'avrà considerazione al mio intendimento di darle compita sodisfazione, et alla qualità della materia della quale si tratta, conoscerà benissimo che malamente io avrei potuto scriverne in altra maniera coll'intenzione d'esplicare le varie qualità della musica, le diverse mutazioni che per intervalli distinti de' tempi si sono sperimentate secondo la varietà dell'occorrerne. [3] Le quali hanno svegliato molti belli ingegni a trovar nuove invenzioni per porgere occasione d'universale diletto e per profittarsene; come si vedono al presente molti che con l'esercizio della musica sono arrivati ad avere più di scudi mille d'entrata, li quali non si poteva a meno di nominare. [4] Tanto più che questo discorso non è teorico politico, composto o per dir meglio rubbato da' buoni autori 45 La sanfornia altro non è che la zampogna, considerato strumento tipico delle campagne, non degno di essere suonato da nobili e gentiluomini. Eppure Giustiniani cita esempi musicali di prim’ordine (Vestiva i colli di Luca Marenzio) eseguiti su tale strumento degni di essere considerati validi musicalmente. E non solo cita dei brani, ma specifica anche che esistevano gentiluomini che non disdegnavano di suonarla in pubblico con buona intonazione e padronanza tecnica. Uno di questi era Ottaviano Vestri Barbiani (1577-1626), coetaneo di Vincenzo Giustiniani, nipote dell’omonimo giureconsulto attivo a Roma fino al 1572 e cugino di Marcello Vestri Barbiani, altro valentissimo giureconsulto. Nella sua casa probabilmente, esisteva un cenacolo molto simile a quello di casa Giustiniani, visto l’interesse del padrone di casa per la musica e l’esecuzione musicale.

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antichi e moderni, come oggi dì si usa da molti, ma è una vera narrazione e similitudine di relazione e d'istoria, fondata sopra una poca prattica da me acquistata, come ho detto, con l’occasione d'una conversazione che ho tenuto in casa mia di molti signori e gentil uomini, nella quale, tra gli altri esercizij onorati, era in uso la musica.

5. ARMONIA, MUSICA, RICEZIONE

1. L’armonia come fondamento filosofico e psicologico Capita sovente, dopo una giornata immersi completamente nel rumore, di tornare stanchi a casa e di ascoltare un motivetto che, sebbene stupido, ha in sé la capacità di rilassarci, di riappacificarci col mondo intero, persino con meraviglia potremmo dire1. Potenza della musica si è soliti dire, potenza dell’armonia riteniamo si possa, e si debba, dire. Infatti, quel motivetto per esercitare sulla nostra psiche, offesa dal tanto rumore che ci circonda e ci sopraffa, quel beneficio deve essere stato scritto, cioè composto secondo date regole e mettendo in (una adeguata) forma una data ispirazione. In altri termini, il motivetto non è una sequenza qualsiasi di rumori, ma una sequenza scritta in un linguaggio speciale: la musica. Si dice spesso, ed è diventato quasi un luogo comune, che la musica sia un linguaggio universale (mathesis universalis). «La musica è una forma d'arte di livello superiore. Forse è la più universale tra tutte le forme d'arte in quanto il codice dei suoni è universalmente riconosciuto da ogni razza e persona umana, mentre la poesia è sempre vincolata alla cultura e alla lingua territoriale in cui nasce».

Nulla di più vero, solo che questa espressione proverbiale deve essere aggiornata con quanto se ne sa di più oggi intorno all’effetto, soprattutto psicologico, che la musica esercita su di noi, su ciascuno di 1

ARISTOTELE, Met., I, parla della meraviglia come prima molla che spinge l’uomo a pensare, a vivere aggiungiamo noi, dato che differenzia la vita cosciente degli uomini dalla vita assai meno consapevole degli animali.

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noi. In effetti, appare scontato osservare come un motivetto sia efficace in quanto va a stimolare corde interne a ciascuno di noi, va a toccare la persona che siamo, fa rispondere all’unisono tutte le fibre del nostro essere, magari restituendoci un senso di noi che la routine quotidiana tende ad allontanare. Come mai? La musica è un linguaggio che, in quanto tale, deve rispettare precise regole. Se una composizione è musica, allora toccherà le corde del nostro animo. La musica, volendo esagerare un po’, è armonia. Variando i motivi, varia la sensibilità delle persone sulle quali è in grado di suscitare profonde sensazioni (emozioni; comunque, agendo sulla dimensione emotiva cha ciascuno di noi possiede, ed è). Tale speciale linguaggio, che non possediamo dalla nascita, ma che è frutto di apprendimento (e di un apprendimento speciale), esprime, nel rigore matematico dell’ordine sequenziale delle battiture e delle pause, un ritmo (eufonia), ovvero una sequenza esprimente una armonia precisa, che varia da pezzo a pezzo, pur rimanendo immutata la pregevolezza della musica in quanto tale2. È questa armonia che agisce su di noi e in noi, producendo effetti. Come agisce? Secondo i pitagorici, ed Alcmeone di Crotone in particolare, la musica aveva una natura ammaliante (terapeutica) in quanto, essendo armonia, riusciva a ripristinare l’armonia interiore che gli uomini possono perdere3. Affascinando lungo i secoli tutti i pensatori, e gli intellettuali più in generale, la musica è stata studiata secondo varie prospettive, differenti ottiche, con metri vari, sino agli estremi di 2

Il nostro discorso è molto generale. Infatti, bisogna fare attenzione perché nella teoria musicale si parla di armonia nei termini di sovrapposizione simultanea di suoni, la loro concatenazione (accordi) e funzione all’interno della tonalità. 3 Ovviamente, ciò avveniva sulla base di una similitudine tra il cosmo e l’uomo. Infatti, secondo i pitagorici l’anima umana, esattamente come il resto dell’universo, veniva intesa quale harmonìa, “accordo”, “giusta mescolanza”, quindi, una composizione armonica dei vari elementi che compongono ciascuno di noi. Esattamente come avviene in musica, ove si realizza una armonia musicale che proviene dagli elementi che compongono lo strumento musicale. Il concetto filosofico di armonia è però più complesso. Infatti, tale nozione non annullava le contraddizioni o gli opposti, ma riteneva che l’armonia provenisse da una loro “superiore” mediazione o conciliazione. Come si legge nei frammenti: «poiché inoltre vedevano espresse dai numeri le proprietà e i rapporti degli accordi armonici, poiché insomma ogni cosa nella natura appariva loro simile ai numeri, e i numeri apparivano primi tra tutto ciò ch’è nella natura, pensarono [i pitagorici] che gli elementi fossero elementi di tutte le cose che sono, e che l’intero mondo fosse armonia e numero» (DK 58 B 4).

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fondare altre discipline strettamente collegate con essa, ma dallo spessore disciplinare profondamente eterogeneo. Due su tutte: la filosofia della musica e la musicoterapia. La prima in qualche modo tematizza, secondo la specificità teoretica della filosofia, l’oggetto musica. La seconda, invece, attualizza, in maniera certamente più esperta, l’idea di Alcmeone. Più esperta perché l’uso della musica a fini terapeutici avviene sulla base di conoscenze certamente non possedute nei tempi remoti del pitagorismo, in particolar modo sulla base della moderna teoria musicale, delle conoscenze psicologiche e sociologiche. Infatti, svanita l’aura di potere patico (da patere, subire) che misticamente (ma anche miticamente) si attribuiva alla musica, si è passati alla scelta accurata di brani finalizzati non soltanto allo svago (otium), ma alla creazione di un contesto aggregativo all’interno del quale quanti soffrono di disagi relazionali possono trovare un’utile occasione per superare gli ostacoli ad un’efficace comunicazione e relazione con altri (cum – esse, con-essere, stare con altri). Lo scopo è quello di creare un gruppo a forte componente aggreativa.

2. Ricezione estetica e armonia Abbandonando questi lidi, torniamo al nostro discorso più generale. Perché la musica agisce su di noi? Certo, attraverso l’armonia. Ma come mai scattano in noi meccanismi di celeste corrispondenza? Di certo non perché anche noi abbiamo un’armonia interiore rotta da ripristinare (almeno non nel senso di Alcmeone), forse perché la musica, al pari di qualsiasi altra arte, ha il vantaggio, rispetto alla vita cosciente, di agire sul sub – conscio, quindi direttamente (ed immediatamente), andando a solleticare alcune pieghe della nostra interiorità. Infatti, non è una mera faccenda estetica; se lo fosse, dovremmo riconoscere alla musica una natura “bella”, e solo quella. Ma estetica non vuol dire solo “bella forma”, ma anche “sentire” (percepire)4. Ebbene, cosa percepiamo nell’ascoltare musica? Sì, una bellezza espressa in forma armonica. Ma come mai riconosciamo tale armonia (bella)? In 4

Kant, nella Critica della Ragion Pura (1781), parla di estetica nei termini della disciplina che studia le forme del percepire (a livello sensibile).

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che modo agisce sulle nostre menti? Antropologicamente, saremmo indotti a ritenere che agisce alla stregua di rituali che scandiscono (uno “stacco”) le nostre giornate, consentendoci di recuperare forze, energie, motivazioni, per affrontare nuove situazioni. Ecco, forse, il punto: la musica (ma è un discorso più generale) riavvia [resets] le nostre emozioni. Esattamente come un computer, necessitiamo di pause che dopo un blocco dovuto allo stress, alla fatica di ogni giorno, ci facciano ripartire. Quei cinque minuti al giorno di musica, dunque, ove ci siamo solo noi e quest’armonia (affascinante e misteriosa) che riempie ogni vuoto, sono esattamente un rito compiuto al fine di spezzare il cursus della giornata. È anche una catarsi, una purificazione dell’anima dalle scorie di una dura giornata5. Certo, detto così può apparire riduttivo, ma vi sono altre corde che vorremmo toccare. Celeste corrispondenza d’amorosi sensi, per dirla à la Foscolo, la musica investe quella zona del nostro essere persone che sta alla confluenza tra il pensiero e la cultura. Infatti, noi siamo più di quel che mangiamo, più di quello con cui siamo fatti, siamo anche coscienza, intelligenza, vita vissuta. Siamo esseri sospesi tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo6, e il silenzio di questi spazi abissali ingenera vertigine. Abbiamo un raziocinio, un pensiero, ma siamo anche il frutto di una storia della cultura, ovvero dell’insieme delle pratiche (informali e istituzionalizzate) all’interno delle quali siamo nati, cresciuti e viviamo ogni giorno. E in forza delle quali ogni comportamento viene segnato con un particolare significato. Parafrasando Heidegger, la musica potrebbe essere considerata il luogo di manifestazione (aletheia) dell’essere, il plesso presso il quale l’uomo riesce ad ascoltare con successo l’appello dell’essere. Questo perché nella Khere, che caratterizza la riflessione heideggeriana post-nazismo, la priorità è diventata 5

Infatti, «alcuni di quelli che sono dominati dalla pietà, dal timore o dall’entusiasmo, quando odono canti (…) si calmano come per effetto di una medicina e di una catarsi» (Aristotele, Politica, VIII, 7, 1342 a). 6 PASCAL B., Pensieri, Einaudi, Torino, 1974, p. 99: «chi si considererà in questa maniera sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con presunzione».

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trovare la modalità attraverso la quale l’uomo possa efficacemente esercitare il suo ruolo di “pastore dell’essere”, in maniera da riuscire a corrispondere all’appello dell’essere7, dato che la verità non si mostra che alla libertà (Pareyson). Corrispondere, infatti, vuol dire parlare, dire, esprimere un linguaggio che sia luogo di parola (cioè, di espressione) dell’essere, che riesca a “dire intorno” all’essere. Lo è l’arte, lo è la musica. Come sosteneva, infatti, Schopenhauer l’arte è espressione della vita stessa, che però ha una valenza liberatoria in quanto rappresentando la vita (voluntas vivendi) consente all’uomo di estraniarsi dal suo dominio di sofferenza vedendola esposta, e non vivendola. La corresponsione può avvenire in diverse forme, anche strumentali. Infatti, non necessariamente la composizione musicale deve essere all’insegna dell’equilibrio tra le sue parti, tra la forma e il contenuto (classicismo, modificato in seguito dall’idea di classicità dinamica espressa nella nota affermazione del Winckelmann “calma grandezza”). Esistono, infatti, anche l’improvvisazione e l’impressionismo (Debussy) e generi musicali contemporanei ove sono più importanti gli “effetti” sonori.

3. Espressione e ricezione L’arte, allora, perché da sempre considerata forma di espressione (o di rappresentazione) di un ideale di bellezza, espressione a sua volta bella, armonica nelle sue parti, mirabile equilibrio tra gli elementi componenti e l’unità della composizione. In Hegel l’arte è il luogo di espressione, sulla base di un equilibrio tra la forma espressiva e il suo contenuto, dello Spirito (assoluto). Lo è la musica perché è stata considerata, vedi Wagner, quale arte dell’interiorità, di quell’essere (che siamo) che viene ad espressione, recuperando la giusta dimensione di noi stessi che spesso perdiamo nel rumore disarmonico (kakofonico, da kakòs, “cattivo”, e fonè, “suono”, «cattivo suono») che ci circonda e che, spesso, ci travolge. Infatti, per Nietzsche la musica ci consente di riappropriarci della gioia e del dolore che la vita stessa (globalmente ed integralmente) esprime. La musica è anche il “linguaggio della 7

M. HEIDEGGER, Cos’è la filosofia, Melangolo, Genova, 1995, p. 37.

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utopia” (Bloch), poiché esprime un’armonia divergente dall’esistente, ma preferibile al presente. Non così la pensavano i francofortesi secondo i quali il processo consumistico del mondo moderno ha preso il sopravvento anche nei confronti della musica, facendone un “bene” (un prodotto) di consumo, alimentando una vera e propria “industria culturale” che, lungi dall’alimentare (o, elevare) gli spiriti umani (studia humanitatis), corrisponde soltanto alla logica del profitto, creando solo merce scadente. Si avverte l’eco di queste polemiche quando si sente parlare di “musica commerciale” oppure di “operazione commerciale” (oppure, anche nella contrapposizione “canzonette” e “musica”). Cosa fa il compositore quando scrive musica? Egli, certamente, crea un prodotto all’interno del quale trova espressione un sentimento che parte come personale, ma che si trasfigura in una generalità (universalità) in modo tale da parlare a tutti gli uomini, in maniera che tutti possano trovare (sentire, percepire) che il pezzo elaborato dica qualcosa a ciascuno di loro. In questo senso, allora, la musica è anche una tecnica compositiva (in precedenza, infatti, parlavamo di regole di composizione del linguaggio–musica), dal greco poiesis, produzione, regole di produzione materiale (in genere, delle arti) per Aristotele. E il compositore non “crea” isolato dalla comunità di provenienza, ma dentro la rete dei rapporti, formali e informali, del proprio pensiero e del pensiero “comune”, che trova espressione nella cultura di origine. Proprio la confluenza tra il pensiero e la cultura è il luogo di provenienza della armonia musicale e la ragione in forza della quale la musica ci restituisce la nostra autenticità, proprio perché in chi ascolta va a stimolare esattamente questa sfera del nostro vivere, ed essere. Concludendo, a maggiore testimonianza di questa condizione di essere dell’armonia musicale come luogo d’incontro tra dimensioni diverse del nostro vivere, riportiamo il parere degli autori medievali secondo i quali esisteva un collegamento (certo misterioso) tra l’opera d’arte e il regno delle idee (iperuranio, “al di là delle nuvole”). Ovvero, la musica, esattamente come le altre arti poietiche, consente di gettare un ponte tra sé stessa, in quanto opera d’arte, e la realtà ultraterrena, ove dimorano le forme immutabili (idee, dal greco eidos, “forma”) che il compositore ha saputo cogliere e che ha espresso nella compo-

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sizione (da ciò deriva anche l’idea delle poetiche dell’immagine, della veggenza, della profezia). Idee che, in tempi più recenti, hanno ispirato la poetica romantica del poeta profeta (colui che vede di più e più lontano dei suoi simili e che istituisce un collegamento tra il mondo naturale e il mondo sovrannaturale) e la poetica heideggeriana secondo la quale il poeta è più dicente rispetto allo scienziato in quanto di più e meglio attinge all’infinito, meglio ascoltando nelle radure del mondo e potendo meglio corrispondere all’appello dell’essere. Il come-è l’essenza della musica: l’armonia.

6. ESTETICA E ARMONIA IN J. S. BACH

1. L’estetica al tempo di Bach (1685-1750) Guardando le date che attraversano la vita di J. S. Bach non si può fare a meno di riscontare diverse ed importanti situazioni estetiche generali contingenti. La cronologia che scandisce gli episodi più significativi della produzione del Cantor di Lipsia, infatti, può essere rapportata, confrontata ed analizzata con quella fortunata serie di esperienze filosofiche francesi, tedesche, italiane e britanniche che hanno permesso la nascita della estetica moderna e la sua codificazione in àmbiti cognitivi più ampi, non più basati soltanto sulla poesia, il bello, la bellezza ed il sublime, ma adattati ad altre problematiche inerenti la dicotomia vecchio/nuovo, ora scissa in due categorie separate, ed ai nuovi concetti di genio, vita dell’arte, arte, vita e legge artistica, questa ultima compresa e discussa sia come eteronoma che autonoma. Determinare quindi cosa fosse l’estetica a cavallo del XVIII secolo e fino al 1750 è ancora oggi cosa ardua. Già soltanto nel definire i concetti e le nozioni principali su cui essa fondò la propria forza speculatrice, dobbiamo affrontare analisi così varie e diverse che per forza di cose si è costretti ad ampliare il campo di studio e la quantità di materiale. Solo per rimanere al campo musicale infatti, abbiamo di fronte una tale mole di documenti da cui difficilmente si riesce a distinguere teorie estetiche, pratiche compositive, stili e strutture ben organizzate ed ancor meglio organicamente definite. Passiamo infatti, da una concezione della musica agostiniana - che attraverso Cartesio e Leibniz diventa essenzialmente geometrica e legata al giudizio per il tramite del senso e del gusto, pur conservando quelle basi platoniche che Porfirio con la teoria del climax aveva già

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codificato - ad una concezione dell’arte come principio poetico-critico totalizzante, la quale, nella lettura datane in particolare da Hume, Addison e Shaftesbury per gli inglesi, da Vico, Gravina e Muratori in Italia e da Diderot, D’Alembert, Du Bois e Joncourt per la Encyclopedie, fino al tedesco Baumgarten ed allo svizzero De Crousatz, diviene poi scissione ed indipendenza delle singole arti dal concetto generico di arte e nuova codificazione dei sistemi di ricezione del Bello, della Bellezza e del Sublime soprattutto in chiave di affezioni. Col tempo, si trasformerà in una concezione della ricezione estetica fatta soprattutto di sensazioni e di percezioni essenzialmente prodotte dal gusto: si pensi per questo a cosa siano diventati, in un discorso storico, questi concetti durante la fase immediatamente precedente l’età romantica, soprattutto nell’Inghilterra affascinata dal miraggio italico del Gran Tour e sedotta dai Poemi Ossianici e nell’Italia di Pindemonte e Foscolo. Come si noterà l’excursus cronologico che stiamo analizzando, è in effetti ben lontano dalle date da noi poste in titulo. Abbiamo infatti coinvolto, alla partenza, filosofi come Leibniz, a cavallo del XVII e XVIII secolo e non certo risalenti con precisione a quel 1685 da noi proposto. Nel prosieguo, abbiamo citato concetti come quello di genio che soltanto Kant, ben dopo il 1750 - data dell’Estethica di Baumgarten - saprà ben affrontare e risolvere, sorvolando (ed in maniera non certo pindarica) opere come quelle di Newton, dei già più volte citati in queste pagine Muratori e Gravina e di Hutcheson (per tacere di altri). È chiaro allora che le date della vita di Bach diventano importantissime perché vanno intese come solidi punti di riferimento all’interno di un percorso analitico completo, ricco di contenuti sia sul piano estetico che degli studi di critica e di storia musicale. Possiamo infatti distinguere nella vita del Capellmeister und Hoforganist Bach almeno tre periodi compositivi, distinti a seconda della città in cui egli stesso aveva svolto il proprio servizio, rispondenti sul piano teorico (perché su quello pratico il Nostro indissolubilmente rimane legato a quelle risultanze poetico-critiche espresse alla fine del Seicento e nei primi del secolo XVIII) ai tre diversi livelli di lettura attraverso cui si muovono gli sviluppi teorici della ricerca filosofica coeva.

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Un primo periodo (fino al 1722) in cui la pratica musicale si accompagna e spesso coincide con scelte simili al principio di monade elaborato da Leibniz, mitigato da forme della retorica - come il chiasmo, che nella composizione musicale assume la denominazione tecnica e formale di crux - e finalizzato alla definizione di gusto secondo l’accezione cartesiana, allora ancora valida nonostante il secolo di vita. Un secondo periodo (dal 1722 al 1744), in cui le forme della retorica musicale - solido appannaggio tecnico-teorico della prima fase bachiana e di tutta la tradizione musicale cui Bach faceva riferimento nello studio ed obbedienti allo stylus anticus - sono ora sempre espresse nella composizione attraverso il contrappunto, il canone, la fuga ed il ricercare, ma in maniera più rispondente alle parallele prime considerazioni ed esperienze estetiche sul passaggio da un principio di ricerca soltanto poetico-critico ad uno esclusivamente poggiante sul concetto di produzione e relativo risultato valido per le arti in genere tra di loro separabili. Un terzo periodo (dal 1744 al 1750), collegato al nuovo modo di intendere l’arte come fare esclusivo in cui i fattori tecnici di produzione, appartenenti ai due diversi periodi, si confondono e divengono unicum attraverso l’applicazione delle forme, fino a diventare optimum, fino a trasformarsi in Scientia Pura che supera il concetto (limitato) di Pura Ars poiché in assoluto non bisognosa di supporti critici, visto e tenuto conto della eccellente qualità architettonica e formale e dell’evidente purezza artigianale del prodotto musicale, della efficienza e validità pratica della sua durata illimitata e della immortalità del suo messaggio intrinseco. La trasformazione della composizione musicale in scienza pura, particolarmente nell’ultimo periodo della vita del maestro di Eisenach, sembra però allontanare anni luce lo stile compositivo del Turingio dal pensiero dei vari Baumgarten, D’Alembert, Diderot e Vico. Ma ciò è mera illusione: infatti, proprio separando la tecnica e la composizione musicale dal giudizio di gusto, il nostro Cantor avvvia invece la determinazione del giudizio di valore dell’opera d’arte musicale, in questo modo trasformando la musica stessa in autentico linguaggio chiaramente esprimente, al di là della sua più oscura cripticità ed al

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pari (o forse di più) della poesia stessa. Se i secoli successivi hanno potuto godere di una vita musicale più vera e nuova nel linguaggio e nell’espressività, questo è dovuto essenzialmente alla libertà e determinazione della ricerca bachiana sullo stile, sull’armonia, sulla tecnica della composizione, sulle scuole musicali, sugli stili e le strutture del linguaggio musicale stesso della sua epoca e di quelle precedenti. Non dobbiamo dimenticare che l’arte di Bach, oltre che essere fedele specchio di tutte le conoscenze musicali elaborate dal suo tempo, è anche e soprattutto artigianato nel senso più nobile del termine, perché fortemente arricchito dal patrimonio musicale italiano (Palestrina, Monteverdi, Corelli, Vivaldi) e dalla tradizione fiamminga e tedesca, ma anche mirabilmente mediato da una tradizione musicale familiare solida e senza eguali in cui il fare musica, inteso sia come produrre musica che fare musica insieme, prima che un lavoro, era concepito essenzialmente come un gioco, o almeno come un modo per tenere insieme anche socialmente - ed al di fuori quindi degli incontri festivi soliti ed ufficiali - i rami di un albero genealogico piuttosto intricato, si guardi alla dedica che Bach stesso appone alla Offerta Musicale e ci si renderà conto della importanza della propria capacità organizzativa di fronte alla strutturazione logico-matematica della partitura stessa1. 1 «Offerta / Musicale / A Sua Maestà il Re di Prussia etc. / molto umilmente dedicata / da / Johann Sebastian Bach / Graziosissimo Sovrano, con la più profonda sottomissione dedico a Vostra Maestà un'Offerta Musicale la cui parte più nobile proviene dalle Sue auguste mani. Con reverenziale piacere mi sovvengo ancora della sovrana grazia tutta particolare con la quale tempo fa Vostra Maestà medesima, nel corso di una mia permanenza a Potsdam, si è degnata di eseguire al cembalo un thema per una fuga, in pari tempo graziosamente ingiungendomi di tosto svilupparlo alla Sua augusta presenza. Fu mio deferente dovere ubbidire al comando di Vostra Maestà. Ma assai presto mi accorsi che in mancanza della necessaria preparazione, l'elaborazione non era potuta essere quella che un thema così eccellente richiedeva. Pertanto, giunsi alla conclusione, e subito me ne assunsi l'impegno, che occorreva rielaborare in modo più compiuto questo thema veramente reale e farlo conoscere quindi al mondo. Questo proposito è stato ormai realizzato secondo le mie capacità e altra intenzione non ha se non quella irreprensibile di celebrare, quantunque soltanto in un piccolo punto, la gloria di un monarca la cui grandezza e forza tanto nelle scienze della guerra e della pace quanto specialmente nella musica, tutti devono ammirare e venerare. Oso aggiungere questa preghiera umilissima: che Vostra Maestà si degni di onorare il presente modesto mio lavoro con una graziosa accoglienza e conceda ancora per l'avvenire la Sua altissima grazia sovrana all'autore Di Vostra Maestà servitore umilissimo ed obbedientissimo / Lipsia, 7 luglio 1747».

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Per quanto appena detto, e per i molteplici e vari motivi che analizzeremo in seguito, è necessario che la lettura estetica dell’opera bachiana sia operata non più secondo i canoni della ricerca musicologica solita, risalenti in parte ai primi del secolo, bensì tenendo separate la fase analitico-comparativa che agisce sulla parte biografica da quella prettamente compositiva. Deve essere cioè adottato un sistema analitico di indagine di tipo fenomenologico che analizzi la sua produzione a partire dal suo nucleo centrale, come se cioè fosse cresciuta dal suo interno, e non soltanto in riferimento alla personalità ed all’ambiente in cui egli opera.

2. Dalle “Affezioni” alla monade (1685-1722) Sicuramente l’aspetto più importante e che in un certo senso caratterizzerà tutta la fine del Seicento, fino almeno al primo ventennio del secolo successivo, riguarda soprattutto la presenza, nel panorama filosofico del tempo (e per ciò che riguarda direttamente l’arte), di due correnti di pensiero, quella leibniziana, basata sulla forma, e quella cartesiana, organizzata invece sul senso e sul gusto2. Di fronte, in effetti, sono anche due concezioni culturali radicalmente diverse e predominanti in Europa. Nel panorama musicale coevo questo fronteggiarsi trova - a nostro avviso - particolari applicazioni formali, in Francia ed in Germania, in particolare nel campo musicale. Ne è esempio - proprio in Italia ed in Germania in maniera più stabile e duratura, perché la Francia a quelle stesse visioni rinuncia quasi sùbito per perseguire risultati legati appunto al senso ed al gusto - la tecnica compositiva, tipica della sonata da camera e da chiesa seicentesca, della crux, struttura ereditata dal chiasmo retorico e corrispondente nella pratica musicale alla monade del Leibniz. Come il principio monadico informa di tutto se stesso il creato o ciò che intorno ad esso ruota, così la crux diviene il baricentro sul quale le due parti della composizione (non per nulla definita bipartita) giungono e poggiano attraverso un sistema modulante semplice e sempre tonalmente vicino 2

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alla tonalità di risoluzione o alla sua dominante. Oltretutto, qualora ciò non bastasse, si pensi a tutta la musica della Riforma nel corso del secondo Seicento e soprattutto al corale che, con le sue forme chiuse, basate su semplici fraseggi ad imitazione del gregoriano, diventano fulcro monadico della messa cantata, quest’ultima già ai tempi di Lutero intesa come ricerca del più intimo contatto tra Dio ed il credente senza altri intermediari. Il principio di monade quindi, anche nella sua struttura climatica (nel senso del climax porfiriano), eredità dell’Uno informante di plotiniana memoria è, nel suo specifico significato, al centro della nozione di produzione musicale lungo tutto l’arco del Seicento e fino al primo trentennio del Settecento. Quando poco sopra accennavamo al fronteggiarsi di due culture artistiche e filosofiche in effetti, non dicevamo nulla di veramente nuovo, in quanto, sempre riferendosi al campo musicale, è proprio la peculiare qualità e tecnica della musica tedesca di quel periodo che permette a queste idee di attecchire in maniera prodigiosa. La frattura inerente la geo-storia della musica seicentesca, che arrivò a separare stili, tecniche e contenuti della ricerca musicale tedesca del nord da quella del sud, permette infatti a simili teorie di giocare un ruolo creativo di primo piano. Nemmeno è un caso che solo successivamente sarà la teoria degli effetti a scalzare questa visione mistico-musicale, affermando il valore profano della musica stessa nel solo principio di gusto, dove questo ultimo è compreso come ciò che risulta piacevole ed esteticamente valido soltanto in base alle sensazioni. In questo determinando - ed è ad esempio il caso della «bella orridezza» - come principio estetico di partenza per la nuova interpretazione del bello, non più la sua risultante estetica, che diviene invece orientamento del gusto stesso, ma la sensazione da questa scatenata nel fruitore. È perciò necessario guardare con interesse al Trattato di monadologia che Leibniz pubblicò nel 1714. Il trattato, oltre a rappresentare la definitiva sistemazione del pensiero del filosofo di Hannover al riguardo dei concetti ontologici di monade (che, almeno nelle sue linee generali, risale già intorno al decennio 1670-80), rappresenta il punto di partenza per la elaborazione del pensiero leibneziano. Ciò che però riguarda più da vicino il nostro studio, per le finalità

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che ci siamo prefissi, è quella impostazione gerarchica del climax in cui ogni singolo pezzo componente quella ideale piramide è essa stessa monade separata e contemporaneamente unita al tutto artistico in un unicum geometrico. Nella stessa maniera sono così progettate anche le strutture di gran parte delle composizioni musicali di questo periodo; tutte infatti, sfruttano sia il sistema leibniziano, sia il già citato chiasmo (crux) e che, per il suo specifico valore focale è essa stessa una monade. Solo per rimanere a Bach, segnaliamo come esempio la Messa in si minore, in cui ogni numero (nell’Ordinarium come nelle parti del Proprium missae) può essere indifferentemente preso sia nella sua singola funzione all’interno dell’opera completa, sia nel suo particolare, in questa maniera creando la autodeterminazione del microprodotto estrapolato dal corpus che trasforma il primo in un ulteriore oggetto artistico, nello stesso tempo - e nella stessa maniera della monade - separato ed unito al macroprodotto. Oltretutto, il principio di costruzione cui lo stylus anticus obbedisce (e che Bach nel solco della tradizione del tempo fa proprio), nonostante la commistione dei generi (sacro, profano, da camera e da chiesa), ma soprattutto continuamente usando il contrappunto nella conduzione delle parti polifoniche, al di là dei generi stessi, trasforma se stesso in monade musicale, attraverso alcuni accorgimenti tecnici e compositivi che poggiano tutti sulla solidità del suo sistema armonico e sulla capacità di compattazione delle diverse logiche espressive. Per cui, tutta l’opera di Bach è interamente costruita su due piani intersecantisi tra loro come due assi cartesiani; il primo, quello armonico - le ascisse - dotato di una doppia valenza: da un lato infatti, esso è interamente delegato alla funzione di minimo comune denominatore della partitura e la sua lettura estetica è del tutto orizzontale, ma dall’altro è esso stesso parte espressiva perfettamente integrata nel gioco polifonico delle voci. Il secondo invece, l’asse delle ordinate, è rappresentato dalle intersezioni contrappuntistiche tra le parti ed i loro singoli rapporti di equilibrio armonico ed espressivo con la voce del basso, sia quando quest’ultimo è soltanto di sostegno armonico delle parti superiori, alla maniera di Vivaldi e Corelli, sia quando è armonizzato (come nelle

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opere di Ludovico da Viadana ed in tante altre composizioni strumentali scritte secondo il dominante gusto italiano dalla metà del XVII secolo in poi), sia quando è soltanto eseguito in forma vocale e quindi polifonicamente distinto, ma - si badi - non isolato, dal contesto del complesso delle parti stesse. La monade allora rientra pienamente nei principi della nuova polifonia, anche dal punto di vista tecnico-compositivo. È il caso delle due forme polifoniche più importanti e più sfruttate dai compositori di ogni tempo e cioè la fuga ed il canone, i quali, con il loro peculiare intreccio di imitazioni, soggetti, controsoggetti e risposte producono una partitura in cui ogni singolo tema, pur combinato con gli altri o addirittura con se stesso attraverso i principi di augmentatione e/o diminutione e di imitazione canonica, pure, riesce a mantenere costruzione, funzione ed impianto originari. Da questo punto di vista il brano introduttivo della citata Missa 1733, il Kyrie eleison, è l’esempio più chiaro ed illuminante. Lo stesso discorso possiamo poi rifarlo a proposito del corale, altra forma strumentale largamente usata sia per la semplicità delle melodie, sia per la linearità dell’armonia. Sua caratteristica principale, infatti, al contrario della cellula tematica o imitativa, è quella di essere costruita secondo un sistema musicale il cui fulcro coincide con l’area armonica di partenza e di sviluppo sulla dominante. La sua funzione in questo caso trasforma il brano in parti distinte, di eguale tema e sviluppo e speculari nel passaggio dalla tonica alla dominante, ma diverse per procedere armonico, tanto da rendere necessaria - almeno nel passaggio iniziale dal I al V grado - una ripetizione del modello. Rispetto all’estetica rinascimentale quindi, quella a cavallo tra Seicento e Settecento è caratterizzata da un profondo senso di separazione tra interpretazione della natura e distinzione delle maniere. Soprattutto nel Rinascimento, la ricerca di un metodo coerente che riconducesse ad un unicum anche scientifico le arti stesse è l’unica occupazione che assilla chi in quel tempo cercava nuove vie per la indagine sulla creazione artistica che giustificassero il passaggio, da una regione estetica quale era l’arte come intendimento della realtà, ad una di isolamento ancora non ben definita, in cui, similitudini, somiglianze e differenze storiche, sociali ed economiche sono più oggetto di disputa

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dotta che non vero e proprio metro di giudizio. Le alchimie manieriste sono perciò il giusto risultato di quelle discussioni e logica e generale premessa di quelle future, in particolar modo per quanto concerne le nozioni di bello e della sua funzionalità e presenza nel gioco artistico. Alla elaborazione aristotelica ed alla nozione di mimesi infatti, ben presto si sovrappose il furor poeticus platonico, la divina mania, ora infarcita di mistero e di occulto e fonte unica di entusiasmo che sfugge alle regole generali e comporta un giudizio sulle arti che può essere elaborato soltanto nel momento stesso in cui esse si fanno o al momento della loro fruizione. La riflessione - per certi versi da considerare pragmatica - sarà alla base proprio dell’estetica del periodo bachiano. Ormai arricchita di metodo scientifico nella creazione (il contrappunto), anche la musica continua ad ubbidire ad interessi puramente teoretici che risolvono, ai fini della prassi e della fruizione, i problemi che si presentano nella vita dell’arte, intendendo questa anche come continuità ed efficacia. Purtroppo però, riorganizzarsi in concetti non implica una seria argomentazione in chiave unitaria, bensì si rimane sempre nel campo del parziale, dello sminuzzarsi dei topoi di ricerca ed in un asistematico moto aggregativo senza che se ne ricavi un principio complessivo (fattore quest’ultimo, che invece sarà alla base della ricerca estetica dopo il 1750 ed oltre). Da un lato perciò, assistiamo allora alla catalogazione - sulla base della speculazione filosofica cinquecentesca - ad un primo timido tentativo di ricostruzione; dall’altro invece, il Seicento limita entro precisi confini di discussione l’argomento arte, ma da qui ad affermare che sia già possibile parlare di scienza del bello, o di filosofia dell’arte o (peggio) del bello ce ne corre. Quando infatti questi argomenti sono stati trattati, al di là della loro ascendenza platonica ed aristotelica, sùbito essi vengono inquadrati in un ampio discorso che si limita ad elencare precetti retorici e poetici estrapolati e riferiti ad un solo caso e mai generalizzati, derivandone così un’analisi frammentata, viva certamente, ma finalizzata non solo ad un aspetto artistico, ma anche alla sua risultante: la fruibilità. Si parlerà allora di delicatezza, aguzedas, grace, proportion, gout¸ raison, vivacité, beuté¸ gaité, raffinement, dove ognuno dei termini qui citati non ha una valenza metafisica e

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nemmeno è legge universale o ideale unitario, ma solo risultante effettiva (nel senso dell’effetto artistico e del risultato determinato dalla comprensione del fruitore), cioè principio poetico-critico in grado di determinare quel giudizio positivo che approverà l’opera d’arte nella sua valutazione complessiva. Il contrasto in cui Bach si trova perciò ad operare è incentrato fortemente sui campi dell’identità e della validità che non coinvolge tutte le arti insieme, proprio per questo parliamo di arti e non di arte, ma si esplica soltanto nella valenza linguistico-musicale e non altre, così ricacciando la musica stessa ed il musicista in un soggettivismo critico in cui l’importante non è il contenuto, ma la forma e l’effetto. Non per nulla i termini analitici dell’indagine ruoteranno sostanzialmente solo intorno alle nozioni di genio e gusto. Mentre per la seconda definizione, già Cartesio nel Compendium Musicae aveva avvicinato il giudizio al senso, per la prima dovremo aspettare addirittura Kant per averne una definitiva sistemazione. In questa particolarità e in questa ambiguità teoretica risiede lo specifico modus operandi Barocco, peraltro sostanzialmente simile al Classicismo. Nel loro isolamento teorico infatti, entrambi significano il loro porsi attraverso regole obbligate, finalizzate al solo risultato effettuale. Nella stessa maniera e funzionalità, nello specifico campo musicale, viene a collocarsi nei confronti della creazione musicale il basso continuo, autentico gioiello della tecnica compositiva di quegli anni, considerato regola obbligata (per un effetto sicuro), perché ad un tempo è sintassi armonica imprescindibile e linguaggio espressivo semplice e comprensibile appieno. Se quindi a Cartesio vanno addebitati i primi tentativi di sistemazione del campo delle arti, è pur vero che quelle stesse teorie vengono presto superate dai risultati di ben altre ricerche. È il caso dell’Art poetique (1674) di Boileau che classifica l’arte in base a due categorie: rational e vraisembable, sempre e comunque finalizzate all’offerta delle emozioni e mai ad un discorso che vada a fondo nei contenuti. Le categorie usate denotano allora una assoluta mancanza di coesione che trasforma spesso la loro esclusiva origine poetico-critica; e ciò è ancora più vero se pensiamo che il creatore (il genio) ed il gusto ancora non interessano tutti i critici. Si cerca l’enfasi a dispetto del prodotto e Bach fa lo stesso. Si guardi alle arie inserite nelle Passioni, nei

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drammi per musica o ai cori d’apertura delle cantate Christus lag in todesbanden BWV 4 e Christen, ätzen diesen tag BWV 63 od all’Agnus Dei del contralto solo nella Messa in si minore. Ciò che predomina non è soltanto la materia armonica, perché quella concorre all’espressività, ma anche la vocalità melodiosa delle legature di portamento che danno, esse sole, il vero senso della preghiera: paradossalmente, lo stylus è ciò che esprime e non la sua struttura armonica, delegata soltanto alla fabbricazione di effetti. Siamo quindi di fronte alla attività patetica ed enfatica allo stesso tempo, la quale, mediata dal soggettivismo religioso, diviene teleologia del sentimento: dall’armonia della musica a quella dell’anima, dal perfetto effetto al perfetto sentire. Guardando le date che abbiamo preso come punto fisso di riferimento possiamo già avere facilmente un quadro piuttosto vario della situazione. Più o meno intorno al 1685 infatti, si verificano alcuni eventi totalmente eterogenei tra loro, ma fondamentali per la storia della filosofia e per il progresso umano nelle scienze e nelle arti. Nel 1682 Newton pubblica i Principia Mathematica; due anni prima Corelli ha pubblicato la sua op. 1 dei suoi Concerti grossi, ispirata ad un sistema esecutivo di contrasto tra i soli ed i tutti e strutturato secondo principi pitagorico-formali ereditati dalla sua militanza nell’Arcadia di Cristina di Svezia. Così come Newton imporrà modelli matematici nuovi e avveniristici, così Corelli sviluppa nuove istanze armoniche e formali, valide sia per la musica da chiesa che da camera, sia vocale che strumentale. Si confondono quindi i modelli, si separano le ragioni estetiche, così come si scindono le arti e la produzione artistica, questo però, senza che si badi a gestirle come un tutt’uno. Come già detto, bisognerà attendere la pubblicazione della Monadologia leibniziana - e dal punto di vista della produzione musicale, i concerti di Vivaldi ed i Branderburgische konzerte dello stesso Bach, oltre le sue trascrizioni per organo - per avere un quadro veramente equilibrato e sistematico del prodotto artistico. Proprio con l’opera vivaldiana in particolare e con le prime piccole fughe del Clavier Buchlein fur Wilhem Friedman e dei due volumi del Clavier Buchlein fur Anna Magdalena Bach, l’idea stessa di monade s’identifica nella struttura imitativa ed in quella della

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fuga, dove il tema (la monade appunto) informa di sé, attraverso le diverse fasi formali e strutturali, tutta la partitura. La razionalità dunque, passa ancora una volta attraverso la struttura logico-matematica della quadratura. Affermare quindi che la bellezza artistica nel Seicento e nel Settecento sia essenzialmente un principio poetico-critico, significa anche rifiutarsi di trovare le ragioni dell’arte arenandosi al suo primo manifestarsi. L’invenzione allora diviene qualcosa di continuamente variato che sempre porta in sé quello che Bouhours nel 1687 chiamava esprit3. I principi quindi di razionale e di verosimile espressi a suo tempo dal Boileau (Art poetique), ancor di più nel periodo 1714-1722 hanno una loro validità intrinseca: si guardi alla razionalità del canone perfettamente innestato con la sua struttura sulla forma della fuga nelle sue articolazioni di sviluppo e cioè divertimenti e stretti. Nella loro risultante il prodotto è volto ad ottenere effetti ed emozioni comunque combinati al bisogno espressivo e quindi non perfettamente veri, ma almeno verisimili. Del resto, l’obiettivo è rimanere ancorati a quella nozione cartesiana di senso e gusto l’uno all’altro intimamente legati che già aveva determinato con il tempo una prima corruptio, trasformando quella unione in un continuo uso del senso dell’orrido e del terrifico, questi ultimi già ampiamente giustificati dalla Poetica di Aristotele, ma invece interpretati in senso pienamente seicentesco. Soprattutto in questo campo lo stesso Bach recepisce la lezione: si guardi alla costruzione strumentale di diversi drammi per musica: è il caso di Der streit zwischen Phoebus und Pan BWV 201 e Der zufriedengestellte Äolus BWV 205, la cui introduzione per soli fiati, non solo è chiara imitazione strumentale della tempesta e della potenza della natura, bensì, e questo è ben più importante, è anche rifacimento, secondo canoni estetici differenti, di quelle stesse idee sulla rappresentazione programmatico-descrittiva del testo poetico in musica e che il gusto dell’epoca definiva appunto Geschmack di indirizzo francese, italiano o misto, a seconda dei casi e delle situazioni. Un processo creativo che obbedisca quindi alle regole programmatiche appena enunciate non poteva che applicarsi soprattutto alle arti 3

BOUHOURS D., De la maniere de bien penser dans le ouvrage d’esprit¸1687.

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figurative e con ottimi risultati anche in altri campi, non ultimo quello musicale. Si legga Bellori4 a proposito del sensualismo effettivo; egli infatti, pur riferendosi ecletticamente alla idea, alla ragione, alla verità, all’eleganza, mira in realtà a cogliere sùbito gli effetti, al fine di tramutarli in risultati poetico-critici necessari a trasformare il prodotto artistico (musicale) in agire enfatico, eccitato attraverso sforzi furiosi e veementi che devono dare il senso della impetuosità anziché della patetica tranquillità. Wit, aguzedas, esprit, diventano categorie non estetiche, ma psicologiche in cui l’atteggiamento si rende come risultante pienamente fruibile. Il valore artistico allora, non risponde solo ad una fisiologica capacità di creare, proprio dell’essere umano, ma ad una serie di capacità che si collocano autonomamente rispetto all’autore stesso e quindi fantasia, giudizio estetico, immaginazione, senso specifico non hanno più ragion d’essere se non fortificati in una struttura di immediata comprensione che per forza di cose non può che risultare precaria. In questo senso, l’aria belcantistica, con le sue continue riprese ed arzigogolature vocali - cui nemmeno Bach sfugge - sono esempi compiuti di questa diffusa frammentarietà mal ricomposta. Ne consegue, purtroppo o per fortuna, a seconda dei gusti e dei casi, che le maggiori innovazioni decreteranno anche, sicuramente, la fine del Barocco. L’immediatezza infatti, fatta estetica, ridotta a semplice giudizio di valore, rapporterà tutto ad un sistema di proporzioni invalicabile che minerà alla base il principio stesso del bello e della bellezza su cui si fondava l’idea stessa di arte. Non a caso poi, da questo magma teoretico si elaboreranno teorie (già neoclassiche), in cui proportio e simmetria, gaiezza e genialità saranno il nuovo metro di valutazione, non bastando più il gusto, fatto senso. Tornando a Bach quindi, l’ideale cui egli fa riferimento, è fatto di proporzionalità matematica e di decoratività. Solo in due opere - la Musikalische Opfer BWV 1079 e Die kunst der fugue BWV 1080, entrambe risalenti al terzo periodo - questa sua dimensione intuitiva sarà totalmente soppiantata dalle altre due anime bachiane, quella ascetica e meditativa - già presente in tutte le sue opere religiose - e quella teo4

BELLORI G. P., Idea della pittura, scultura e architettura, in Vita de’ pittori e scultori moderni, (1672).

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rica, contrappuntistica e geometrica insieme ereditata dalla scuola fiamminga fino a Buxtheude e divenuta nel corso del tempo predominante. Non per nulla l’iconografia bachiana - ed il ricordo non può che riferirsi al famosissimo dipinto di Haussmann per la Mizler Societät lo mostra con le due pagine del canon triplex BWV 1076. Ci rendiamo ben conto di come, in Bach, l’idea dello stupire sia strettamente legata al progetto compositivo e quindi più alla forma che non al contenuto. Il già citato intrigo adorniano, qui è fatto essenzialmente di strutture sovrapposte producenti una forma e caratterizzata da una spiritualità intrinseca che non può che essergli concessa soltanto a-posteriori. Solo in quest’ottica si devono leggere il già citato Canon triplex BWV 10765, la Musikalische Opfer BWV 1079, Die kunst der fugue BWV 1080 e tante altre composizioni ed anche alcuni episodici rifacimenti di parti di opere ricostruite secondo principi almeno canonistici come ad esempio l’aggiunta di due flauti in canone - ad un ventennio circa di distanza dalla prima stesura - alla strumentazione originaria dell’Esurientes dal Magnificat BWV 243a. In questo senso ci piace anche considerare l’ipotesi di una interruzione calcolata dell’ultima fuga di Die kunst der fugue BWV 1080, di una resa incondizionata della costruzione musicale di fronte alla estrema ratio di un linguaggio non più completo se non nel silenzio auto-esprimente. Se uniamo alla razionalità il gusto per la sorpresa, di cui ampiamente abbiamo misurato presenza e risultati nell’arte barocca, e poi, quegli stessi concetti, li saldiamo ad un discorso prevalentemente poetico e critico, ecco che abbiamo fatto un salto nel passato, coerente con le aspettative beethoveniane certo, ma altrettanto anche con quelle bachiane. Del resto, stando alle carte della famiglia Bach, già C. Ph. E. Bach, rispondendo alle domande di Forkel, dichiarava nel 1775 che suo padre altro maestro non ebbe, «se non il proprio gusto»6. Altrove7, è proprio il Nostro a parlare di gout ed in netta oppo5 Si tratta di un canone che oggi viene catalogato come BWV 1076 e che fu pubblicato dapprima a Lipsia nel 1747 e poi da Mizler nell'ultimo numero della Musikalische Bibliothek del 1754. 6 BD, III, 803. 7 BD, I, 53. In questo caso il soggetto del discorso è G. Biedermann, che in una satira in lingua latina, De vita musica (1749), tratta dalla Mostellaria di Plauto, criticò aspramente i programmi e l’attività musicale nelle scuole sostenendo che soprattutto quest’ultima influenzi

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sizione con quanto, nel panorama estetico europeo, sta diventando ormai nuova norma artistica. Certe libertà compositive nell’accompagnamento e nella elaborazione dei preludi e dei corali e soprattutto alcune innovazioni tecniche operate nella fuga non potevano essere facilmente accettate da tutti i pubblici della Germania, al di là delle indiscutibili capacità di organista e compositore. La materia musicale doveva essere modellata a seconda del gusto, della cultura ed anche delle aspettative dell’eventuale fruitore, lo sapevano bene i suoi contemporanei - a cominciare da Handel ed a finire a Telemann - e lo sapeva bene anche Bach. Non era possibile né pensabile proporre la Musikalische opfer BWV 1079 ad un pubblico e ad un consiglio cittadino chiusi e non ben disposti verso il Cantor, che aveva l’obbligo in Lipsia, di insegnare anche latino oltre che musica, come non era possibile pensare di sorprendere un flautista provetto come Federico II di Prussia soltanto facendogli ascoltare qualche improvvisata fuga al cembalo o all’organo o qualcuna delle sonate per flauto e cembalo o flauto e basso continuo BWV 1030-1032 e BWV 1034-1035 o dedicandogli lo spartito della Partita BWV 1013 per flauto solo. Ancora, sarebbe stato lo stesso impensabile servire la corte di Celle e di Cothen, soltanto gestendo un repertorio strumentale sacro e/o profano limitato alle sonate per viola da gamba o alle trascrizioni o peggio, arenato ad un solo genere. Gli altri due fattori quindi, che si vengono ad inserire in questa codificazione dell’estetica coeva a Johann Sebastian Bach sono appunto la sorpresa e l’adeguamento al modello negativamente gli allievi. La polemica non coinvolse solo Bach che partecipò con due lettere infuocate, ma tutto il mondo musicale del tempo, a partire dal Mattheson che pubblicò, in difesa dello steso Bach, il Mithridat, contro il veleno di una satira italiana intitolata La musica,. Proprio questa diversa visione della composizione musicale e degli effetti che essa doveva suscitare nel fruitore, sono alla base della polemica, ben più importante della precedente, che Bach dovette ingaggiare anche con Johann Adolf Scheibe - forse un suo ex allievo - ed il suo Der critische musicus. Sechs studien, 1737. Stimato anche da Lessing e da Ebeling (Saggio di una scelta biblioteca musicale, 1770), fu molto influenzato dal pensiero estetico di J. C. Gottsched, il quale, proprio nel 1730 aveva pubblicato il suo Versuch einer critischen dichtkunst vor die Deutschen. Come quest’ultimo aveva trasferito la ricerca estetica nel campo esclusivo della letteratura e dell’arte poetica, così Scheibe applicò le medesime teorie razionali ed illuministiche al solo campo musicale. In questo, scagliandosi in particolare modo sia contro la degenerazione dell’opera italiana che contro il contrappunto e più o meno esplicitamente contro Johann Sebastian Bach.

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tipologico. Unico tramite vero che permette poi, saldato al gusto, il valido ed affascinante contemplare. La stessa evidenza di caratteri esplicitamente estetici, traspare anche dalla coeva letteratura contrappuntistica, basti rivolgere lo sguardo alle forme del panorama organistico seicentesco, quali il ricercare, la Canzona, la Fantasia, la Toccata in cui, di fianco a determinazioni tecniche di impianto contrappuntistico, nel primo Seicento soprattutto - e nei Fiori musicali di Frescobaldi in particolare - convivono anche un maggior o minor grado di improvvisazione che ne pregiudica la rigorosità non soltanto formale, ma anche ritmica. Soprattutto nel caso del Canon triplex, la necessità di realizzare una perfetta sintonia matematico-lingusitica nella forma e struttura della composizione musicale è evidente e quanto mai realistica nella sua emergenza. Il titolo, infatti, precisa che si tratta di un Canon triplex a 6 voci e per realizzare integralmente la composizione è necessario risolvere quello che è in sostanza un gioco enigmistico musicale che rimanda alla tradizione antica ed al mondo greco. Ora, per gli antichi, da Pausania ad Aristotele e passando per il mito di Edipo, l'uso dell'enigma costituiva infatti una prova di educazione o di cultura. Molte opere di Bach sembrano, dunque, essere improntate ad un profondo e consapevole valore enigmatico, soprattutto nella produzione degli ultimi anni della sua vita. A tal proposito e rimanendo sul piano della riflessione filosofica, si deve ricordare che proprio la tradizione luterana aveva forti radici nel pensiero di Agostino (Musica est scientia bene modulandi). La musica, secondo Agostino, è anzitutto scienza, e come tale deve impegnare la ragione più che l'istinto o i sensi (un coinvolgimento emotivo naturalmente non era escluso, ma doveva passare in secondo piano rispetto alla componente razionale). La nozione di bene modulandi si riferisce, dunque, proprio all'idea che la musica proceda secondo movimenti ben regolati, razionalizzati attraverso un gioco di proporzioni che fosse esprimibile attraverso rapporti numerici semplici. L'importanza di Agostino è enorme soprattutto nel mondo riformato tedesco anche sul piano della pura estetica musicale, proprio perché attraverso di lui l'antica mistica dei numeri di ascendenza pitagorica si fonde con la mistica cristiana e penetra a pieno diritto nell'anima del pensiero occi-

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dentale. La concezione mistico-matematica della musica è ad esempio evidente nella Harmonie Universelle (1636-1637) di Mersenne, dove, intesa come una sorta di calcolo inconscio, è ancora una volta legata a una componente razionale e matematica. Ma il discorso sarebbe più complesso, perché la filosofia del Sei-Settecento cerca di combinare il sapere scientifico acquisito attraverso calculum e experimentum con le teorie neoplatoniche, che contemplano la presenza nella natura di forze occulte, magiche o divine. Il neoplatonismo diviene infatti nel Settecento una sorta di alchimia di tipo puramente spirituale, finalizzata a un'affannosa ricerca dei significati simbolici delle azioni e dei pensieri, come se la realtà trovasse concretezza non nei fatti, ma nei simboli e nelle allegorie.

3. Omogeneità del Bello e dei fini (1723-1750 e oltre) Come si vede, ben presto bellezza e finalità divengono un insieme omogeneo in cui tutto, essendo costruito secondo un preciso disegno, viene inteso come bello proprio per questa sua disposizione. Poco più avanti nel tempo, con Shaftesbury ed Addison questa dimensione viene interamente applicata al solo campo artistico collegando il discorso relativo alle strutture ed alle forme alla fantasia ed alla immaginazione (The spectator [1711-1714], Ist paper, 1712); le quali, a loro volta, non sono più comprensibili in una nozione di effetto, ma sono invece concepite come organi ricettivi della bellezza, non più fonte di sorpresa, ma anche ordine e disposizione simmetrica nello spazio. Addirittura, con il pensiero del ginevrino De Crousatz8, queste tematiche diverranno centrali, permettendo all’arte ed ai concetti di bello ed di bellezza di passare - per adesso, molto moderatamente e quasi sottovoce - dal territorio della poetica e della critica a quello ancora nebuloso dell’estetica, attraverso una loro prima compiuta definizione in cui si rifiuta per la prima volta il primato del sentimento e si fissa, sempre per la prima volta, l’autonomia della bellezza da ogni fine esistenziale. Ed in proposito infatti, egli definisce addirittura una legge 8

DE CROUSATZ J. P., Traitè du beau, 1714-1715.

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formale della bellezza che ne identifica e ne delimita il territorio con un procedimento confuso e limitato che molto assomiglia alla legge dell’unità nella varietà elaborata da Leibniz alla fine del secolo precedente. Proprio la varietà - intesa dal De Croustatz come ontologica e gnoseologica allo stesso tempo, capace cioè di determinare la conoscenza dell’oggetto artistico e nello stesso tempo dimostrarne il fondamento sostanziale - viene usata per codificare e regolamentare il bello naturale, il bello della virtù, il bello religioso, il bello matematico e geometrico ed il bello artistico, in questo dedicando particolare attenzione proprio all’aspetto musicale che, nella prima edizione del traitè aveva avuto l’onore dell’apertura. Un decennio più tardi, l’opera dello studioso svizzero è raccolta dall’estetismo inglese e da Hutcheson9, il quale, pur lasciando intatte le nozioni elaborate da De Crousatz a proposito della bellezza, ne accentuerà lo stesso le finalità naturali in opposizione alla concezione meccanicistica della creazione artistica che allora stava prendendo piede tra i filosofi inglesi. La novità proposta dal filosofo scozzese risiede soprattutto nel considerare la musica ora parte del bello assoluto, ora parte del bello comparativo, adeguando così il bello artistico allo scopo ideale che l’autore si era prefisso e ristabilendo la differenza sostanziale che intercorre tra la creazione artistica ed il creato divino; e questo perché entrambi sono disposti sia sul livello metafisico che su quello teleologico non essendo all’epoca, quegli stessi livelli, conciliabili. Solo con Batteuax, le idee di De Crousatz, Shaftesbury, Addison ed Hutcheson troveranno una interpretazione sistematica esclusivamente in chiave artistica e soprattutto in maniera non più disordinata sul piano poeticocritico, bensì ben disposta sul piano (questa volta) soltanto estetico. Proprio Batteaux è l’autore che meglio di altri si rende conto di aver compiuto il primo passo nei territori di competenza dell’estetica moderna, pur ancora giocando sulla vecchia nozione di bellezza come unità che mediava le posizioni assunte da De Crousatz con i principi unitari di ordo, mensura e numerus agostiniani. Ma l’importanza del pensiero del filosofo francese, in questa fase, risiede anche nell’aver per primo rifiutato il bisogno eccessivo di effetti, rispetto alla raziona9

HUTCHESON F., Enquiry into the original of our ideas of beuty and virtue, 1725.

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lità10. Del resto, i suoi bisogni e progetti mirano chiaramente a creare un unico fondo ipostatico comune a tutte le arti, ma finalizzato soprattutto ad un filone, quello delle arti maggiori che così viene a promuovere ad un rango superiore una parte di esse ed a scapito delle altre. Così divise volontariamente, per motivi che risalgono alla cultura ed agli indirizzi della epoca e così presentate mediante un procedimento empirico facente capo ad un unico principio e sistema, le arti vengono per la prima volta collegate tra loro in base a principi strutturali e creazionistico-funzionali che servono a determinare sia le argomentazioni - anche queste le prime in assoluto - sul contesto geniogusto che quelle sulle affezioni dell’animo. Per cui, lo scopo prefisso da Batteuax, dichiarato proprio nella Avant-propos, consiste nell’esaminare la natura delle arti, le loro parti e differenze essenziali e nel dimostrare che l’imitazione della natura deve essere comune oggetto artistico e che tutte le arti non differiscono tra loro se non nei mezzi di produzione. Il problema della classificazione e della sistemazione organica delle arti quindi, se pure non giunge ancora a compimento, pur tuttavia è comunque già abbastanza avanti nel tempo. Lo dimostra un sostanziale recesso della opera in questione - cui soltanto Kant ha successivamente prestato la dovuta attenzione - in cui sono per la prima volta elencati, con la qualifica di «nozioni fondanti», termini come expression, comuniquer, signification, sens, language. In questa maniera il principio mimetico, che fino ad allora era stato il punto di partenza di ogni speculazione, viene sostituito da quello espressivo e comunicativo, molto vicino, anche nella sua particolarità, ad un certo filone linguistico-semiologico molto in voga tra gli studiosi degli anni Sessanta e Settanta di questo secolo. Si assiste perciò, anche ad una conversione dovuta soprattutto a difficoltà di tipo deduttivo sull’origine comune delle arti. Il sistema delle arti quindi, con l’esposizione dei filosofi prima citati entra a pieno titolo nell’epoca moderna (per gli studi di estetica). Esso infatti è ormai pronto per diventare oggetto estetico vero e il primo che ne sottolinea la avvenuta evoluzione è D’alembert, il quale - nel Discours preliminaire alla Encyclopedie, scritta nel 1751, un an10

BATTEAUX CH., Les beaux Arts, reduits à un même principe, 1746.

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no dopo la morte di Bach - già esprime posizioni piuttosto articolate per serietà della ricerca e per completezza di riflessioni. Queste in verità hanno ancora un chiaro riferimento alle teorie di Batteaux, ma sono già anche personali, soprattutto per quanto riguarda i principi di mimesi e di esplicazione delle arti nella loro generica definizione (la arte è imitazione della natura) e di enumerazione delle stesse (al massimo cinque: pittura, scultura, architettura, poesia, musica). Nello specifico, questo schema sarà interamente ripreso da Hegel nella sua monumentale Estetica. Da qui, il contenuto analitico indagato dall’estetica sarà non più soltanto di argomento poetico-critico, ma anche di definizione e deduzione della nozione di arte, sia come sistema organicamente disposto e simmetricamente adeguato alle nuove indagini non soltanto filosofiche, che come indagine sui singoli artisti nelle loro ristrette competenze tecniche. Non è un caso se in questo periodo cominciano a rifiorire la saggistica e la trattatistica teorico-musicale nonostante l’ultimo posto utile assegnato alla musica nella graduatoria stilata dai teorici enciclopedici. La speculazione filosofica quindi, si regge sia sul principio di risistemazione delle arti e se uccessiva catalogazione dei suoi prodotti, sia sulla secolare questione del bello e della bellezza, ora aggiornati in chiave non più morale o etica, ma solo estetica, cioè: intesa nel senso della percezione immediata proveniente dai sensi e trasformata in nozione sperimentale. Allora si definisce bello, quell’oggetto artistico che sappia risvegliare nell’intelletto l’idea dei rapporti. Così come essa è stata presentata, la definizione di bello appena enunciata - elaborata da Diderot e molto vicina alle conclusioni dello svizzero De Crousatz - è più o meno simile in tutti gli autori della Enclyclopedie e pertanto deve considerarsi una sorta di manifesto delle loro idee estetiche. Proprio qui, peraltro, sorgono i primi problemi veri al riguardo della determinazione di principi singolari e giudizi universali. Di fronte all’attività empirica di Diderot infatti, soprattutto Du Bos e Joncourt opporranno l’idea che la produzione artistica sia non un fatto meramente spirituale e tecnico insieme, ma di sola derivazione meccanica avendo essa origine, almeno secondo le teorie di entrambi, soltanto

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nel principio meccanicistico che regola l’attività della machine humaine e per questo esorcizzando il giudizio immediato, caro anche a Rameau. Infatti, posto che il concetto di mimesi cui le arti obbediscono sia aristotelico, quale è la loro funzione nella vita umana? Perché, insomma, le arti? In breve queste sono le domande che in particolare Du Bos11 si pone, risolvendole limitando fortemente il territorio d’azione delle arti ed imponendo all’imitazione artistica una trasformazione in imitazione delle passioni; l’arte che non imita le passioni è in qualche maniera esclusa dall’universo propriamente artistico. Pietà e terrore della catarsi aristotelica sono quindi ora rivestite di una qualità particolare, indebolita rispetto alla passione dettata dall’esperienza vitale. Si riaffaccia perciò il contrasto tra l’essenza poetico-critica dell’arte - qui imposta come critica della prassi - e l’estetica. Ne deriva una dottrina dell’arte e del gusto in cui - mai distaccandosi dal pensiero cartesiano - il giudizio non solo è immediato, ma dipende anzi completamente dal piacere, dal divertissement provato, dagli effetti sull’animo che la contemplazione dell’opera d’arte ha avuto. Lo stesso valore artistico si determina infine come direttamente proporzionale al grado di emozione che la opera ha suscitato, equilibratamente compreso tra piacere, passione, dolore ed ennui. Ed allora il gusto, secondo Du Bos diventa un fattore essenzialmente soggettivo ed inteso, ai fini del giudizio di valore, più che accidente determinante, come semplice ed assolutoria risposta emotiva. In base a ciò, anche la nozione di genio rimane ancorata ad una visione meccanicistica che consiste nel considerarla come semplice predisposizione del cervello e del corpo in funzione immaginativa; da qui a passare alle implicazioni ed ai fattori esterni come influenza sul cervello e sul corpo del genio (Montesquieu), il passo è breve (ma poco salutare per l’estetica). Se il problema artistico nel resto d’Europa viene affrontato tenendo presente tutti gli àmbiti ed i rapporti che il problema arte investe, non ultimo quello incentrato sulle modalità della creazione artistica, diverso è il caso dell’Italia, ancora ispirata a modelli analitici di derivazione platonica ed incentrati essenzialmente sulla poesia, intesa sia come linguaggio esprimente il vero, sia come comunicazione di una bellez11

DU BOS J. B., Rèflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, 1719.

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za formale. È il caso di Gravina12 - in cui il potere della poesia di esprimere sempre e comunque il vero, risiede tutto nella sua presunta autonomia dagli altri piani della cultura, della scienza e delle altre regioni assiologiche - e di Muratori13, in cui invece l’oggetto poetico diviene una idea fatta di forme e conoscenze perfette esprimenti valori e concetti collegati anche al vero ed al bene. La separazione della poesia dalle altre arti e dalla scienza poi, risulta particolarmente viva nell’opera di Vico14, il quale, opponendosi duramente al cartesianesimo ed al meccanicismo francese, introduce invece le due nozioni di ingegno e fantasia come base della sapienza poetica. Per questo, quando Vico parla di «ragion poetica», di fantasia, dobbiamo sempre intendere il rapporto artistico come correlato al sistema generico delle arti. Mentre l’Europa parla di arti e di scienza, Vico, Gravina e Muratori si occupano di poesia, arti e scienza l’una separata dalle altre e tutte scisse dal sistema scientifico. Diverso è il caso dell’Inghilterra la quale, più che dedicare attenzione al prodotto artistico come fruibilità, pone l’accento più sulle regole dell’arte, in questo avvicinandosi all’universo estetico tedesco. Tra i tanti, particolarmente Burke15, pur accettando la definizione di arte così come la Encyclopedie l’aveva ormai codificata, comunque rifiuta il fatto che le regole che governano l’arte siano in qualche modo insite nell’arte stessa. Esse infatti emergono soltanto dalla sistemazione del sentire ordinato e perciò non serve imporre soluzioni di ampio respiro psicologico in cui la formalizzazione della bellezza e la sua successiva organizzazione in canoni statici ed invariabili si identifichi con la perfezione, la proporzione o lo scopo, perché in quel caso ne potremmo derivare soltanto risultati qualitativi e materiali. La bellezza infatti, viene ad esprimersi solo come complemento della produzione e non è più carattere esclusivo dell’oggetto ultimato, per cui essa può evincersi soltanto dalla materialità dell’oggetto (la levigatezza, la mi12

GRAVINA V., Della ragion poetica, 1708. MURATORI L. A., Della perfetta poesia italiana, 1706 e Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, 1708. 14 VICO G. B., De antiquissima Italorum sapientia, 1710; Scienza nuova prima, 1725; Scienza nuova seconda (1744). 15 BURKE E., A philosophical inquiry into the origins of our ideas of the sublime and the beautiful, 1756. 13

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sura, la delicatezza, tutto quanto insomma sia amabile e piacevole ai sensi). Contemporaneamente alla seconda edizione della burkiana Philosophical enquiry, nello stesso anno (1759), si pubblicava anche il compiuto Essay on taste di Gerard, in cui si tenta di unificare la soggettività sensibile con l’obiettività del conoscere: il gusto si costituisce nell’àmbito delle facoltà immaginative, sulle basi della sensibilità, ma sotto la supervisione del giudizio che ha il compito di comparare le percezioni ed i criteri dei sensi stessi nei confronti delle singole arti. Una lettura questa, ricca di sviluppi, si pensi soltanto alla fortuna che questo tipo di interpretazione troverà presso i patiti del Gran Tour. Nel panorama di lingua tedesca invece, già nel 1721-1727 erano apparsi diversi scritti di estetica che cercano di risolvere in maniera autoctona ciò che in Francia, Italia ed Inghilterra era stato già abbondantemente dibattuto16. Il problema centrale è ancora quello del gusto, individuato però, proprio da Bodmer, in due tipi di giudizio, l’uno di sensazione l’altro di ragione, uno soggettivo ed arbitrario, l’altro governato da leggi determinate ed ovviamente provvisto di un valore universale. In questo modo Bodmer ottiene un sistema mimetico che, sebbene non ancora aperto all’apporto del fantastico, pure gli permette di notare la parentela di pittura e scultura con la letteratura. Al contrario, Gottsched, già coinvolto in una polemica antibachiana da un suo allievo17, anche se ritorna ai principi espressi da Leibniz, sia pure filtrati dalla lettura di De Crousatz - soprattutto in riferimento alla bellezza come armonia del molteplice - pure non abbandona la soggettività e l’oggettività del giudizio di gusto. Se da un lato il giudizio di gusto può essere soggettivo, il buon gusto non può essere che uno da preferire alle altre categorie in quanto unico universalmente e solo capace di reggere l’accordo con le regole dell’arte ed i precetti dei maestri. Né i sensi né l’immaginazione possono predeterminare il gu16 È il caso degli svizzeri J. .J. Bodmer e J. J. Breitinger con i loro Discuorse des mahlern, 1721-1722), ispirato dallo Spectator di Addison e Von dem einflusse und dem Gebrauch der Einbildungkraft (1727). La ricerca dei due filosofi continuerà per vie del tutto diverse e separate, si guardi al Critische abhandlung von der Wunderbaren in der Poesie pubblicato dallo stesso Bodmer nel 1740. 17 GOTTSCHED J. C., Versuch einer kritischen Dichtkunst vor die Deutschen, 1730; per la polemica con Bach, cfr. BUSCAROLI P., Bach, Milano, Mondadori, 1985.

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sto, a meno che non si immagini un sensus communis (chiaro riferimento polemico alle teorie di Du Bos) da identificarsi con l’intelletto. Da tutto questo fervore teoretico viene quindi fuori, nel 1750, l’Aesthetica del metafisico Baumgarten, cui va il merito, non solo di aver dato un nuovo nome alla nuova scienza del bello, ma anche di aver finalmente inserito in pianta stabile l’estetica stessa nelle strutture di pensiero della ricerca filosofica occidentale. Innanzitutto, il tedesco coglie alcune intuizioni leibneziane e di esse investe, con intenti costitutivi, la materia già isolata dalla riflessione sulle arti, consapevolmente inserendo la sua dottrina estetica all’interno del processo conoscitivo. L’estetica allora, viene ora intesa come scienza del bello, dell’eloquenza e delle arti in genere ed è soprattutto identificata con la scientia cognitionis sensitivae, ovvero la conoscenza sensibile. Suo specifico scopo sarà identificare se stessa nella perfezione della già citata conoscenza sensibile e poi la perfezione stessa deve essere rintracciata in un’interpretazione del principio dell’unità nella molteplicità che è di chiara derivazione ancora leibneziana-croustziana. Baumgarten quindi, come facilmente si può notare, non si discosta molto dalle posizioni dei suoi antecedenti, pur giocando su di un piano completamente diverso. Infatti, anche cercando di adeguare il suo sistema estetico a tutte le arti, finisce, almeno nell’incompiuta Aesthetica, per applicarlo in maniera completa soltanto alla poesia ed alla eloquenza.

4. Il fondamento cartesiano nell’armonia barocca Nell’àmbito della produzione musicale dei secoli XVII, XVIII e XIX secolo, un fattore identificante, distinguente e nello stesso tempo accomunante gli stili espressi è certamente stato il discorso armonico, nel senso sia della semplice condotta delle parti, sia del loro complessivo intrecciarsi produttivo. In particolare nel XVII e nel XVIII secolo però, questa dimensione della composizione ha rivestito una valenza particolare andando a toccare concetti e nozioni che in qualche modo esulano dal solo contesto musicale. E mi riferisco sia agli aspetti filosofici ed estetici, che soprattutto nel Barocco assurgono ai significati

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moderni della estetica, sia alle speculazioni teoriche espresse nel campo musicale e che da questo raggiungono e si applicano a ben altri campi e determinazioni poietiche. Quindi, proprio perché dalle strutture musicali del Barocco è possibile - in maggior misura che in altre epoche - derivare le sue fondamenta estetiche, ancor di più preferiamo indagare a fondo quel substrato critico che da teoria si fa applicazione pratica nella ricomposizione - in chiave non solo strutturale, ma anche formale: penso alla pratica comune del basso continuo - della nozione e della prassi esecutiva che nel contesto stesso dell’armonia. Di per sé, quest’ultima - intesa come perfetta disposizione degli accordi secondo equilibri formali e contenutistici suggeriti dallo stesso contesto eidetico - si poggia su nozioni ben precise e determinate non soltanto all’inizio della pratica armonica, quando la tecnica della composizione musicale secondo il Sistema Armonico Tonale (SAT) sostituì quella modale in uso nel Quattrocento e nel Cinquecento (SAM), ma anche elaborate nel corso dell’evoluzione della cultura musicale occidentale. La prima di esse consiste nell’obbedienza ad un climax degli accordi che noi definiamo gerarchicizzazione e che si esprime attraverso i rapporti di forza intercorrenti tra i vari gradi della scala tonale trasportata sulla linea del basso. La seconda invece è la cosiddetta regionalizzazione cui una sistemazione teorica coerente e davvero completa ci è stata lasciata soltanto ai primi di questo secolo da A. Schömberg, anche se, in effetti, essa già esisteva nel contesto musicale proprio del barocco, pur se in condizioni e motivazioni teoriche del tutto diverse ed estranee a quella lettura. Tra Seicento e Settecento, una struttura come quella chiasmica della crux, obbediente a relazioni armoniche che non si discostavano dal rapporto principale instaurato tra tonica e dominante, proprio nel giro armonico intorno a questa dualità impostava il personale discorso a proposito della regionalizzazione. In effetti, pur nel continuo e stabile movimento modulare tra le armonie diverse, sempre rimaneva in evidenza quello principale instauratosi tra tonica e dominante e viceversa, in modo che mai si poteva effettivamente registrare una vera novità armonica. Mentre Schömberg pone il concetto di regione armonica soltanto in vista della discussione sulla apparente mobilità della armonia stessa - in modo da dimostrare, invece che la avvenuta modulazio-

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ne, soltanto l’esistenza di un semplice contrasto armonico e quindi criticare ancora più fortemente la (presunta) incoerenza ed incapacità del SAT di esprimere nuovi contenuti rispetto al suo modello seriale (SAS) - noi dobbiamo specificare invece che proprio quella (presunta) immobilità, nel Settecento era invece considerata in maniera esattamente opposta: la modulazione infatti era preciso mezzo espressivo e non mero accidente intrinseco alla monotonalità. Il discorso armonico quindi, non va visto nel senso della mono o della pluritonalità, bensì in chiave di modulazioni e di passaggi a tonalità più o meno vicine a quella di partenza. E se vogliamo inquadrarlo in una lettura soltanto tonale, sfrondata di ogni forzatura teorica, non dobbiamo più parlare di una sola tonalità come centro attrattivo unico, ma invece considerare ogni modulazione avvenuta come regione armonica a se stante, indipendente dalle altre, ed evidenziante le peculiarità del brano attraverso una segnaletica particolare espressa con le lettere maiuscole. Ad ognuna di esse corrisponde una precisa regione (che qui preferiamo definire zona) che conserva la propria subordinazione verso l’accordo di tonica definitivo non soltanto quindi attraverso le note, ma anche attraverso i rapporti di forza che legano i singoli accordi costruiti sui gradi della scala. Quello che ci interessa allora è proprio analizzare per bene quelle disposizioni partendo dal contesto filosofico del tempo che, per le peculiari caratteristiche del sistema stesso non può che essere cartesiano. In effetti, abbiamo già detto molteplici volte che la rappresentazione schematica del sistema armonico risponde nelle sue impostazioni di fondo, al diagramma cartesiano, completo di asse delle ascisse e delle ordinate. La linea del basso infatti, si compone di note che - oltre a rappresentare una linea melodica a sé e polifonicamente funzionale rispetto alle altre parti - sono anche sostegno alle voci superiori. In questo modo, se il basso lo si legge senza l’intervento delle parti superiori, avremo l’asse delle X, mentre se si adotta una lettura verticale dell’accordo, partendo sempre dalla nota al basso, otterremo invece quello relativo alle Y. Questa trasfigurazione musicale del modello cartesiano è soltanto la ennesima prova della sistematica applicazione - così come aveva fatto il Manierismo controriformistico con la corretta e formale mediazione ed attuazione dei canoni sacri con le regole

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estetiche relative al periodo rinascimentale - della grande speculazione filosofica coeva sul bello e sul gusto. La cartesianizzazione del sistema armonico e la sua quotidiana applicazione sono in pratica evidente prova del passaggio applicativo che si attua dalla ricerca teorica di principi estetici fondanti, alla pratica prova della positiva applicazione ed esistenza dei risultati raggiunti. Gli elementi costitutivi di questa messa in pratica non potevano che essere perciò le nozioni di estensione e movimento. Mentre la prima sottintende non solo lo spazio occupato da una cosa, ma anche la quantità di materia che lo occupa (cosicché le proprietà dello spazio sono anche proprietà della materia, vedi continuità e divisibilità), la seconda invece, indica i significati relativi all’annullamento dei concetti di forza ed energia come fonte del moto stesso. Se il vuoto non esiste, il movimento allora è solo riempimento di spazi lasciati dai corpi precedenti e quindi, il moto è sempre relativo alle parti vicine della materia. Tale definizione può applicarsi facilmente al contesto armonico, se consideriamo gli accordi musicali come corpi che si muovono appunto in base a relazioni contigue tra loro, così non rinunciando nemmeno alle funzioni essenziali del principio di estensione e cioè: da un lato, la necessità di giustificare l’esistenza dello spazio come ordinato geometricamente e dall’altro, la esigenza di misurare lo spazio e l’estensione stessi attraverso il sistema delle coordinate cartesiane. Il principio cartesiano della geometria analitica allora, una volta rapportato al modello analitico musicale, diventa davvero un armonia analitica, e questo proprio perché in pratica - lo abbiamo ben visto - rimangono immutate tutte le motivazioni teoriche originarie, sia per ciò che concerne l’obbedienza al metodo, sia per quanto concerne la semplice constatazione della diversità dei corpi (gli accordi). Per questo, le stesse leggi cartesiane del moto sembrano essere state ideate anche per la nostra lettura, esclusivamente musicale. Si prenda la prima ad esempio, quella per intenderci, sullo stato di quiete dei corpi che permane se non intervengono perturbazioni esterne a sé stesso, ebbene, l’armonia si adegua alle stesse norme, si pensi ai rapporti chiasmici di quiete armonica quando intervengono i gradi della dominante o della tonica o quando non è presente un elemento perturbatore

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come l’accordo di settima diminuita. Anche dalle altre due leggi rimanenti possiamo ricavare norme di comportamento armonico: è il caso dei rapporti tra accordi con una o più note in comune che rispecchia la parità e l’equilibrio dei rapporti di compensazione che caratterizzano la seconda legge, ed è anche il caso del movimento indipendente delle parti secondo i principi del moto contrario delle parti che si identifica completamente in quel movimento rettilineo dei corpi che è argomento indiscutibile della terza legge. È bene però, a questo punto del discorso, per non incorrere in affrettate conclusioni, affermare che il SAT di cui stiamo parlando esisteva già prima dell’elaborazione cartesiana. Certo, né era dotato di una soggettività propria, né i compositori del tardo Cinquecento rispettavano molto i rapporti accordali esistenti. Eppure, le loro composizioni rispondevano ad un sistema di relazioni tra tonalità contigue che già alla metà del secolo XVI comprendeva, oltre l’intavolatura, anche alcuni arricchimenti della parte del basso attraverso indicazioni ben precise il cui sviluppo avrebbe in séguito dato origine al basso cifrato, primo nucleo del futuro basso continuo. Per questo dunque, le teorie cartesiane in proposito, pur se non hanno invento nulla in termini strettamente musicali, pure, si vedono perfettamente adeguate soprattutto a quel panorama. Anzi, possiamo affermare tranquillamente che il sistema analitico cartesiano, una volta assimilato dalle strutture proprie del mondo musicale coevo, chiude definitivamente anche la stagione delle tecniche di contiguità armonica espresse dal SAM. Con Bach l’usus barocco confluisce nell’avanguardia dello stylus anticus comune ai suoi contemporanei. Per lui valgono le certezze di Picasso in materia di produzione artistica: «io non cerco, io trovo». Ed infatti il nostro trova senza alcuno sforzo, vivisezionando gli accordi, frammentando gli intervalli sonori con l’imprimatur della forma ed il supporto di un linguaggio, per i suoi tempi, davvero sperimentale. Barocco ed avanguardia possono sembrare posizioni distanti, oltre che alternative, ma non è così. La prima esalta i contenuti propri della simmetria, dell’armonia e della proportio; la seconda invece mostra comportamenti destrutturanti che trovano il loro specifico ruolo nella variabilità dei campi di sperimentazione e nel riposare nelle forme inedite. La classicità del Barocco dunque, opera nello spirito della con-

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servazione e nell’equilibrio, la avanguardia all’opposto, sul superamento e sulla precarietà. Nell’opera del tedesco, i canoni della composizione musicale sono imbrigliati in un sistema geometrico che garantisce una visione dissonante ed armonica allo stesso tempo. Per cui, tutta l’imitazione dello stylus anticus diventa imitazione retorica, frutto soprattutto delle tipologie musicali italiane. Momento unico nella produzione bachiana, perché proprio nelle trascrizioni da Vivaldi e dagli altri italiani, egli sviluppa per la prima volta quella dilatazione delle forme che sarà poi alla base dell’uso sistematico della monumentalità formale, è il caso della Missa in si minore o di Die kunst der fuge. Un uso pratico così descritto ed applicato, non è altro allora che la cosciente certezza dell’impossibile ritorno all’ordine; solo in questo senso si devono interpretare le ormai famose riserve del consiglio comunale di Lipsia verso il nostro turingio: essi appunto, non volevano un genio, ma un qualunque insegnante, capace soltanto di insegnare il latino, di tramandare la tradizione e di rinunciare alla ricerca. Purtroppo però, né l’uno né l’altro valevano Bach, uno dei pochi, prima di Mozart, a rendersi conto che l’arte era ed è, in fin dei conti, perfetta produttrice di circolarità, che mai distrugge, ma tutto assorbe.

5. Gerarchizzazione, geometrizzazione, cartesianizzazione (I): problemi di metodo analitico e realtà formale/strutturale nella costruzione dell’opera d’arte musicale Proponiamo ora di imporre un’analisi diversa ed inusuale del fattore armonico barocco e non solo. Pertanto, se l’estetica è il common path su cui si costruiscono le risultanti percettive, allora, è possibile ideare un modello rispondente alle linee generali dell’armonia barocca stessa che funga da paradigma per ogni modello reale. Cioè, se vogliamo individuare i dati generativi dell’armonia barocca senza ricorrere ad un brano in particolare, allora è necessario costruire un modello matematico che risponda alle tecniche costruttive nello stesso modo in cui risponderebbe, alle medesime sollecitazioni, il textus originale. Ciò che preme, in questo lavoro, è dunque determinare un’analisi

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che illumini in luce non le modalità armoniche, o meglio non solo quelle, ma che leghi anche l’opera stessa, il suo progetto tematico e formale e le sue peculiarità di linguaggio all’idea unica che sovrintende alla realtà compositiva e che invece è un fattore esclusivamente estetico e culturale. Se il bello formale emerge dalle perfette proporzioni matematiche della costruzione del tema, della sua risposta e dal suo sviluppo ed è mirato ad una dispositio accorta del linguaggio armonico di riferimento, è chiaro che le regole formali e costruttive in genere, non sono parte dell’opera in sé, non promanano cioè dalla opera di arte, ma provengono dalla cultura del compositore, dal suo stile, dallo stile della epoca, dalle influenze di condizioni esterne al fatto musicale in sé (un testo poetico, le regole retoriche, le strutture imitative). Del resto, la forte attinenza esistente tra le arti, sia pure ormai scienze a tutti gli effetti e completamente indipendenti le une dalle altre (e soprattutto evidente nello stretto rapporto esistente tra architettura, scultura e musica), è già indice di una collaborazione che va al di là del sistema-arte e che invece è fondata esclusivamente sulla numerologia insita nel giogo geometrico degli spazi, dei volumi e dei valori accordali. Ogni forma geometrica è depositaria in se stessa di un valore matematico che è anche espressivo e che determina la forma e la aderenza strutturale ad uno stile, necessariamente specifico per ogni scienza; così, il basso continuo diventa stile necessario e modello espressivo della musica, l’atteggiamento delle pose e dei gesti teatrali divengono linguaggio retorico della scultura (che si somma ad una ricerca del movimento che serve a dimensionare ulteriormente il senso di realismo che promana dalla scultura-forma stessa), le curve e le disposizioni figurali delle arcate e delle facciate in bugnato modello Versailles si trasformano in modelli universali validi a Caserta, a Versailles a Pietroburgo. Analizzare la partitura secondo determinati stili analitici, non significa legare l’opera d’arte alle sue prerogative culturali; leggere la produzione di una dato autore (Bach come altri) non serve a darci la esatta dimensione di come il suo pensiero produttivo si sia mosso dal progetto alla sua realizzazione e come il suo geshmark o il suo gout abbiano determinato la valenza estetica del modello formale adottato.

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Questo perché, a monte della produzione musicale barocca, il modello logico-formale è determinante rispetto sia alle risultanze estetiche che a quelle esecutive. Anzi, se si somma a queste funzioni anche la prassi interpretativa allora, anche se il problema si complica ulteriormente, pure, queste condizioni rimangono imprescindibili e dotate lo stesso di senso. La necessità dell’opera barocca è la sua essenza formale, prima di tutto e su tutto e lo spazio architettonico in cui essa si muove ed è stata progettata non viene fuori dalla validità estrinseca del solo linguaggio musicale, c’è bisogno di scavare le fondamenta per capirne i reconditi significati e modelli, soprattutto alla luce di uno stile ben preciso ed epocale.

6. Gerarchizzazione, geometrizzazione, cartesianizzazione (II): procedimento analitico e matematizzazione dei principi armonici: l’armonia di fronte alla sua risultante estetica Pertanto, se indichiamo di un dato brano la sua costituzione armonica (mettiamo il Preludio I del II volume del Clavicembalo ben temperato), non necessariamente dobbiamo ricorrere allo stesso per farne un modello, possiamo anzi adottare un riferimento simile, costruito alla stessa maniera ma non reale. Questo ci permette di avere una struttura compositiva da cui possono essere estrapolate alcune parti e non altre (le progressioni piuttosto che la coda finale ad esempio), e ci consente di imporre una struttura matematica certa, rispondente alla serie multipla del numero di battute componenti il tema. Perciò se si presta attenzione alla collocazione degli accordi, si può facilmente notare come, gerarchizzato armonicamente intorno ad una sola tonalità (do maggiore ad esempio), il modello presenti evidenti punti sia di organizzazione geometrica derivanti dalla sua struttura interna e dalla specifica costruzione formale sia di geometrizzazione e matematizzazione dello spazio compositivo, propriamente intesa nel senso di unione delle due scienze secondo la nozione cartesiana di mathesys universalis. 1.Moto delle parti; 2.Rispetto degli equilibri matematici e delle distanze esistenti tra di loro;

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3.Conduzione delle voci secondo la risultante numerica degli accordi; 4.Equilibro formale della crux; 5.Equilibrio dei rapporti interni allo sviluppo tematico; 6.Classificazione in base alla struttura formale delle progressioni; 7.Classificazione delle cadenze. 8.Verticalizzazione della lettura degli accordi; 9.Scorrimento temporale in senso orizzontale; 10.Codificazione matematico-progressiva di un punto 0 e di un punto Xn indicanti inizio, processo di sviluppo, stasi momentanea alla sua prima chiusura (Crux), ripresa, progressioni e fine del brano, cadenze comprese.

In entrambi i casi si evidenzia la costruzione di un sistema progettato per fasi, strettamente collegate una all’altra e codificate secondo regole facilmente individuabili dal fruitore, in termini sia del riconoscimento del modello imitativo che delle condizioni di base dello sviluppo tematico, del suo utilizzo tecnico vocale o strumentale e delle sue finalità prettamente estetiche. Se si analizza geometricamente la successione accordale del brano, anche nelle fasi di ripresa, progressione e sviluppo del tema, notiamo che il risultato, cartesianizzato, non corrisponde più ad una retta (e quindi ad un sistema sonoro progressivo e non-mai-compiuto), bensì ad una serie di linee individuabili sulla base della fine di ogni fase intermedia alla struttura stessa (fine della prima parte, blocco progressivo, fine della seconda parte). La presenza di picchi identifica anche la dimensione temporale del brano stesso e la progressiva vicinanza spaziale dei punti delle linee indica anche la strutturale vicinanza (in termini di specularità del numero delle battute tra prima e seconda parte) dei punti di divaricazione formale durante l’esecuzione. Considerando la sola struttura armonica del brano (e dando per scontato che ragioniamo in un contesto di SAT), possiamo con sicurezza affermare che, la gerarchizzazione della tonalità di partenza (appunto il do maggiore), assume queste caratteristiche di preminenza e peculiarità rispetto alle tonalità vicine e dipendenti in virtù anche della sua costruzione come incipit enunciativo. Il tema e la tonalità divengono la base su cui costruire, proprio come forma linguistico-espressiva, tutte le altre subordinate. Se la parola poetica è tanto efficace quanto la musica, allora, la musica stessa deve dotarsi di un sistema comunicazionale altrettanto evidente e parimenti

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espressivo. La partitura, gerachizzata e geometrizzata, si impone in maniera strutturalmente convincente e si presenta come linguaggio a tutti gli effetti, altrettanto comprensibile del sistema-parola ed altrettanto necessario per la sua espressività. Fatta salva una esemplare struttura formale numerica monotematica bipartita di 32 battute (16+16), è facile individuare la composizione a specchio del brano, comprensivo delle progressioni e della risoluzione finale. L’enunciazione del tema a questo punto si propone come fase di apertura (X0) da cui tutte le note, gli accordi e tutte le concatenazioni tematico-accordali promanano attraverso lo scorrere delle battute. Ogni battuta è a sua volta una cellula, un tassello numericamente e geometricamente organizzato che si dispone sull’asse delle X in senso progressivo crescente fino al punto Xn. nel momento in cui questo numero pone fine alla composizione, è cioè l’ultima battuta del brano, esso si riconduce automaticamente alla fine (ed al silenzio della riflessione ed interiorizzazione dei contenuti espressi) riproponendo il punto di partenza X0 secondo il diagramma sotto riportato. A ben guardare, la cartesianizzazione è la rappresentazione di due aree formalmente uguali per dimensione; le bipartizioni della forma, infatti, disegnano uno schema speculare che mostra anche le sezioni in cui la forma e la struttura del brano sono suddivise (v. fig. 1).

Figura 1. L’equilibrio formale

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Se poi si complica la situazione e si ricorre ai gradi armonici, allora notiamo anche la centralità (gerarchizzazione) e la perfetta geometrizzazione degli accordi nello spazio-tempo. Basti, per questo, rimanere limitati alla sola presenza di poche fasi formali (fig. 2). Questo dimostra, da un lato, l’uso fisso di accordi generanti la tonalità di partenza e arrivo (tonica), dall’altro dimostra il procedimento gerarchico seguito nel giungere alla dominante. In più, dimostriamo, ancora una volta, la circolarità del procedimento compositivo ragionando sul fatto che alcuni accordi ritornano alla medesima posizione formale; Otteniamo invece una spirale se interrompiamo allo sviluppo della seconda parte la analisi e consideriamo il processo di ripresa come semplice ripetizione della prima parte. Questo discorso musico-matematico mostra la aderenza delle idee musicali di fronte ai principi cartesiani ed in particolare a quella geometrizzazione (la geometria analitica) che il filosofo stesso definì Mathesys Universale, sinolo di matematica e geometria che si autodetermina in scienza per la sua ragione principale, il pitagorico apprendere universale. Ogni figura geometrica è la rappresentazione di una appropriata equazione algebrica e risponde esattamente all’esigenza del tempo di rifondare il sapere in conseguenza della crisi del pensiero classico.

Figura 2. L’oscillazione del procedimento armonico

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Del resto, gli scritti di Cartesio sono contemporanei alle esigenze di metodo avanzate da Bacone e Galileo. Tutto questo però, non rimane come segno indelebile, almeno nel campo musicale: le esigenze di rinnovamento tecnico e teorico, infatti, saranno evidenti solo un secolo dopo con Rameau. Ad ogni modo, l’importanza armonico-numerica che il Settecento musicale propone rimanda a Cartesio ed alle Regulae ad directionem ingenii. In quel testo, il fundamentum scientiarum si esplica attraverso: Evidenza

Analisi

sintesi Enunciazione completa

Capacità di accettare per veri solo i postulati (autoevidenti) o i teoremi (evidenza mediata) [Principio delle idee chiare e distinte]; Strutturazione/suddivisione del problema (il testo musicale) posto in parti semplici su cui applicare il principio di evidenza; concetto derivato da Pappo e fatto poi, proprio da Newton che lo intende come analysis infinitorum, cioè come metodo di suddivisione di una grandezza geometrica e/o numerica fino nelle sue parti più infinitesime; Consequenzialità graduale: dalle conoscenze più semplici ed evidenti a quelle più complesse (sommatoria); Controllo della prassi attivata e coscienza della veridicità del metodo stesso

Applicata alla composizione queste norme non sfuggono alla pratica costruttiva (fig. 3).

Figura 3. Piramide armonica (fasi armonicho-estetiche e procedimento climatico)

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II livello

III livello

IV livello

V livello

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La partitura si pone come insieme di accordi evidenti in quanto unici e singoli (autoevidenti) e la loro concatenazione, invece, si pone come teorema (evidenza mediata) chiaro ed evidente che si compenetra come idea chiara e distinta; Al momento della analisi, la destrutturazione del testo musicale in serie accordali determina quella “analysis infinitorum” che permette la scissione di ogni accordo in gradi armonici (armonizzazione) o per isolamento del fondamentale e/o dei suoi rivolti rispetto alla partitura stessa, permettendo così la determinazione della sua valenza tecnica ed estetica; Il raggruppamento degli accordi per regioni armoniche e per fasi strutturali permette di esprimere quel senso correlativo alla interpretazione che realizza la comprensione razionale del pezzo e della sua contabilità; Il controllo delle fasi è la resa musicale che è perfettibile in quanto è possibile la correzione degli errori e la riscrittura di parti o del tutto. Solo alla sua verifica totale si potrà dichiarare l’infinità della opera d’arte stessa; Al momento della conferma della veridicità del testo creato, si codifica quella nozione di “Mathesys universale” costruite sulle proporzioni in generale e dotata di una notazione segnica di tipo algebrico.

Il prodotto così ottenuto diventa il paradigma di tutte le forme del sapere, metafisica inclusa. Da qui, il passo è breve, verso l’ontologia ed il suo rapporto estetico con l’opera d’arte. Infatti, se l’uomo esiste, allora, la sua produzione è res extensa, cioè, l’opera d’arte è soggetto attivo pensato nella propria realtà e pensato in quanto reale. Non solo, ma la stessa opera d’arte, essendo res extensa - in quanto strutturalmente ordinabile e pienamente rispondente alla sua località (che consiste nella assoluta ordinabilità, nella corrispondenza biunivoca con i numeri e nella giusta e corretta disposizione sul piano cartesiano) – è anche scomponibile all’infinito e, obbedendo al moto locale (cioè il principio di inerzia, dovuto allo scorrere della partitura nel tempo grazie anche al proprio linguaggio formale), è anche dotata di una propria materialità che la rende indipendente e viva anche quando non eseguibile; anzi, su questo esclusivo piano, la partitura assume una funzione visiva che ne mantiene intatto il valore simbolico e ne costruisce la determinazione a livello di immagine. Per cui, se la partitura non è suonata, comunque mostra la propria percettibilità attraverso il semplice disegno geometrico della scrittura,

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con ciò permettendone la lettura e la estrinsecazione del proprio messaggio linguistico. Per questo l’opera d’arte barocca è forma e essenza; forma perché dotata di una materialità pienamente reale, essenza perché dotata di una essenzialità linguistica che, anche di fronte alla mancata esecuzione, lo stesso mostra la propria esistenza e essenza senza alcun bisogno di interventi esterni. La necessità del linguaggio si esplica, dunque, in relazione alla funzione, alla fruizione ed alla necessarietà dei canoni costruttivi con cui si informa il modello creato e con cui il valore estetico del prodotto emerge ed è compreso. Le idee cartesiane si aggiungono, così, a quelle di Leibniz riguardo di una nuova logica, intesa come calcolo simbolico. La musica più di ogni altro linguaggio, ancora una volta, può permettere la creazione, non solo di un linguaggio matematico universale cartesianamente inteso, ma anche una Enciclopedia, un insieme cioè di collaborazioni aperte tra studiosi in cui, il linguaggio musicale, formalmente ineccepibile, fa da lingua scientifica e comunicazionale. La musica si dota così di un carattere realistico-razionalista in quanto, il suo specifico linguaggio, diventa simbolo della realtà fisica indagata attraverso un procedimento conoscitivo che risponde ad un unico sistema deduttivo che il compositore applica, avendo conoscenza completa di tutte le leggi che governano la musica e del nesso logico (conosciuto a-prioristicamente) che connette al soggetto tutti i suoi predicati. Come si vede, l’estetica del XVIII secolo segue due vie: la prima (estremamente razionale), mirata alla codificazione di modelli di pensiero che trovano applicazione nella pratica artistica e la seconda, in cui invece, la necessità formale conduce alla identificazione di un bello (o di un sublime) che portano già verso il Romanticismo. Cioè, da un lato, la riflessione filosofica si ferma all’Illuminismo razionalistico, dall’altro, la sensibilizzazione delle affezioni, spinge già a superare la fase illuminista per approdare all’Ottocento.

7. DA BEAUMARCHAIS A DA PONTE. PER UNA GENESI DEL FIGARO

1. La nascita del Figaro La scelta per l’opera di Mozart, deriva dal desiderio di spiegare come una musica così gioiosa, limpida, autentico inno alla vita, non sia il risultato di indifferenza o di negazione delle problematiche offerte dalla vita stessa, ma sia il superamento degli stessi contrasti vitali attraverso il linguaggio musicale, il più idoneo all’innalzamento spirituale dell’uomo. All’epoca di Mozart il solo genere di teatro musicale con il quale i compositori potevano conquistare nuovo pubblico era l’opera buffa; lo stesso Mozart incominciò ad interessarsene mettendosi alla ricerca di un libretto che gli desse l’opportunità di far ascoltare la sua musica e le emozioni che da essa suscitavano in tutta la loro forza e creatività. Decisivo fu l’incontro con Lorenzo Da Ponte in casa del barone Wetzlar, banchiere e ammiratore del musicista. Da Ponte si rese subito conto della personalità del musicista e nelle sue memorie definì Mozart come un musicista «dotato di talenti musicali superiori a quelli d’alcun altro compositore del mondo passato, presente o futuro»1. Secondo Carli Ballola e Parenti: «L’idea di scrivere il Figaro fu di Mozart, e solo di Mozart». Il ruolo di Da Ponte fu esclusivamente politico-diplomatico, ossia «esercitare un’azione di convincimento presso l’imperatore per fargli superare le perplessità politiche sulla commedia prescelta dal musicista»2. Tale idea fu dovuta al trionfo de Il Barbiere di Siviglia di Paisiello, ma non bisogna sottovalutare lo scandalo che la commedia di Beaumarchais suscitò, sia a Parigi che a Vienna, anche se fu rappresentata infine nel 1784, dopo tre 1 2

KUNZE S., Il Teatro di Mozart, Marsilio, Venezia, p. 280. CARLI BALLOLA G., PARENTI R., Mozart, Rusconi, Milano, pp. 113-114.

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anni della miglior campagna pubblicitaria di tutti i tempi: il veto delle autorità. Non vi era alcuna commissione, nessun contratto formale, Le Nozze di Figaro era una impresa coraggiosa. Fu Da Ponte ad avviare la cooperazione incoraggiando Mozart, il quale aveva non poche riserve nel lavorare senza scrittura ma il librettista gli garantì di poter avere la autorizzazione all’allestimento dell’Opera. La commedia di Beaumarchais fu, senza ombra di dubbio, una grande e coraggiosa testimonianza a favore della rivolta del popolo contro una aristocrazia moralmente corrotta. I diversi divieti diedero alla commedia una grande popolarità e nello stesso tempo non ne impedirono la sua rappresentazione. Probabilmente, come sostiene S. Kunze, ciò che spinse Mozart a interessarsi all’opera di Beaumarchais non fu la sua attualità sociale, ossia il messaggio politico che emerge chiaramente nel terzo, quarto e quinto atto e del quale nel libretto di Da Ponte quasi non rimane traccia, bensì il virtuosismo e la vivacità con cui il commediografo francese aveva saputo sviluppare in disinvoltura un intreccio tanto complicato3. Riguardo alla rappresentazione, ci furono risvolti diversi rispetto a ciò che avvenne in Francia. L’imperatore Giuseppe II riteneva che la pièce contenesse “molte cose indecenti”, e ne vietò la rappresentazione in pubblico. Al tempo stesso acconsentì a far stampare il Figaro, «dando per scontato che i camerieri e le cameriere di Vienna andassero volentieri a teatro ma non leggessero testi teatrali»4. Comporre un’opera su una commedia vietata dall’imperatore sembrava una pazzia; oltretutto, era necessario ottenere la revoca del divieto di rappresentazione da Giuseppe II. Da Ponte informò l’imperatore di aver scritto un dramma per musica, non una commedia e di aver tagliato tutte le scene che avrebbero potuto offendere la decenza. Certamente efficace fu l’arte diplomatica di Da Ponte, ma né le insistenze del poeta né il talento del compositore avrebbero potuto persuadere l’imperatore a ritirare il divieto di rappresentazione del Figaro. L’opera, probabilmente, fu rappresentata soltanto perché l’impertore intendeva trasmettere un messaggio politico forte e recepibile5. 3

KUNZE S., Il Teatro di Mozart, cit., p. 283. BATTA A., Opera, Könemann, p. 371. 5 «Stupidità stampate diventano pericolose solo nei luoghi in cui vengono proibite» (BATTA A., 4

Da Meaumarchais a Da Ponte. Per una genesi del «Figaro»

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2. Beaumarchais S. Kunze definisce Beaumarchais come una di quelle persone di cui il Settecento fu particolarmente prodigo: intelligente e senza scrupoli, intrepido e amante della vita, sensibile e di grande cultura e abilità letteraria. Discendente di una famiglia di orologiai, l’intento era quella di intraprendere l’attività paterna, in effetti Beaumarchais vi riuscì così bene che a soli ventidue anni era diventato orologiaio del re. Aggiunse al proprio nome il “de Beaumarchais” dopo un fortunato matrimonio che gli permise di far carriera. Né il matrimonio, né il mestiere di orologiaio erano destinati a durare nel tempo. Grazie alle sue capacità musicali (suonava l’arpa, il flauto e la viola) e alle sue abilità oratorie, attuò una scalata sociale divenendo insegnante di musica delle principesse alla corte del re di Francia a soli ventisette anni. Grazie alla sua furbizia e intraprendenza riuscì a raggiungere un benessere tale da permettersi di comprare un segretariato nella casa reale avendo meno di trent’anni. In Spagna era coinvolto in alcuni progetti riguardo la vendita degli schiavi nelle colonie della Lousiana e procurava munizioni all’esercito spagnolo. Contrasse altri due matrimoni con ricche vedove anche questi di poca durata come il primo. Divenne celebre grazie ai numerosi processi di cui fu protagonista; le sue eccezionali arringhe di difesa, in cui accusava l’intero sistema giudiziario di corruzione, le rese pubbliche quasi alla stregua di resoconti giornalistici, con una consapevolezza ed una fiducia in sé stesso già pienamente borghesi6. Ne uscì sconfitto, distrutto e bollato come criminale e privato dei diritti civili. Imperterrito Beaumarchais continuò ad attaccare i suoi accusatori ed i suoi nemici trovando ugualmente tempo ed energia per scrivere Le Barbier de Séville e, a tempo debito, fece in modo di riabilitarsi, anche se ci vollero circa dieci anni7. Beaumarchais raccolse un ingente capitale, il quale gli consentì di avallare la causa dei coloni americani, fornendogli armi e munizioni, in lotta contro gli inglesi, persuadendo anche il governo francese a sostenere segretamente la sua iniziativa. Fondò in Germania una casa editrice per presentare una edizione definitiva della opere di Voltaire da lui acquistate dopo la sua morte. Opera, cit., p. 371). 6 BATTA A., Opera, cit., p. 371. 7 OSBORNE C., Tutte le opere di Mozart, Sansoni, Firenze, p. 296.

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Finalmente inizia a lavorare al La Folle Journèe, ou le Mariage de Figaro. Dopo un lungo periodo di censura il pubblico poté acclamare la commedia, la quale ebbe un successo senza eguali. Seguirono sessantotto repliche; ma, nonostante Beaumarchais fosse all’apice del suo successo, cadde nuovamente in disgrazia. Fu imprigionato in una casa di correzione per giovani delinquenti per aver fatto un’osservazione che si riferiva alle difficoltà che aveva incontrato nel far rappresentare la sua commedia, osservazione che fu ritenuta critica nei confronti del re e della regina8. Beaumarchais lavorò con Salieri ad un opera, Tarare, che ebbe molto successo a Parigi e fu proposta anche a Vienna con trascrizione italiana di Da Ponte. Sarebbe stato l’ultimo successo dello scrittore, perché le diverse ricchezze accumulate negli anni lo avrebbero portato alla rovina. La Francia si dirigeva inevitabilmente verso la rivoluzione alla quale Beaumarchais aveva dato il suo contributo. Dopo aver visto molti dei suoi amici ghigliottinati, fu obbligato all’esilio. Nel 1796, tornato in Francia, scrisse l’ultima commedia della trilogia, Le merè coupable. Infine, morì all’età di settantasette anni. La sua opera letteraria più famosa è la Trilogia di Figaro. E’ patrimonio comune che Il Barbiere di Siviglia e Le Nozze di Figaro, i due capolavori di Beaumarchais, amante della musica, hanno ispirato molte e famosissime trascrizioni musicali di noti compositori quali: Paisiello, Mozart e Rossini. Meno note, anche perché le trascrizioni moderne le trascurano, come afferma nella sua appendice a La Trilogia di Figaro A. Calzolai, sono le musiche di scena originali, alle quali Beaumarchais attribuiva notevole importanza. Le musiche di scena del Barbiere furono pubblicate dall’editore Ruault nel 1775 in un fascicolo anonimo, a parte; mentre le musiche del Matrimonio furono stampate insieme al testo in una sezione di alcuni esemplari pubblicati nel 1785, anche questi di autore sconosciuto. Gli studiosi attribuiscono le musiche di scena di entrambe le commedie al direttore di orchestra della Comédie, Antoine-Laurent Baudron, il quale componeva la musica per ogni commedia che veniva rappresentata; ma bisogna tener presente della tradizione risalente ai contemporanei di Beaumarchais, ossia che vi fosse piena collaborazione tra direttore di orchestra e autore della commedia. 8

Ivi, p. 297.

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Nel 1967, F. Lesure, ha pubblicato un articolo sulla «Revue de Musicologie» (A propos de Beaumarchais) nel quale cerca di demolire la figura di Beaumarchais musicista, infatti conclude il suo articolo scrivendo: «La musica non ha rappresentato per Beaumarchais che un divertimento mondano. Lontano da aver composto la musica delle sue opere, egli non ha senza dubbio scritto mai della musica. Non esiste in nessun caso della musica che gli possa essere attribuita». La fama del musicologo F. Lesure è indiscutibile, ma ciò che deve essere preso in considerazione non è la musica ma la validità di una tradizione di cui egli non riesce a dimostrare l’inesistenza. P. Letailleur, alla voce Baundron, nel New Grove Dictionary of Music and Musicians (ed. 2000), reputa Beaumarchais quale autore del vaudeville finale del Matrimonio. La questione non è risolvibile senza fonti certe, ma bisogna ricordare, come lo stesso A. Calzolai scrive: «anche ammesso che la musica fosse stata per Beaumarchais un divertimento mondano, la cosa non gli avrebbe impedito di occuparsene con un certo impegno. Anche come letterato, lui stesso lo ha dichiarato più volte, Beaumarchais era un dilettante, ed erano divertimenti mondani anche quei piccoli capolavori come le parades»9.

3. Da Ponte-Mozart Il nome Lorenzo Da Ponte (Emanuele Convogliano), di origini ebraiche, deriva dal vescovo che aveva celebrato il matrimonio del padre che per sposare una donna di religione cristiana si convertì. Lorenzo Da Ponte, avido di letteratura e di avventure amorose fu costretto dal padre a intraprendere la vita ecclesiastica, diventando Abate. Si trasferì da una città all’altra conducendo una vita piena di dissolutezza, cambiava donna una dopo l’altra e Giacomo Casanova, il famoso avventuriero, divenne suo amico. Superò diversi scandali ed evitò numerosi arresti attraversando i confini delle nazioni che lo ospitavano. Alla fine arrivò in Austria dove l’imperatore lo nominò Poeta di Corte e Librettista del Teatro Imperiale. 9

300.

BEAUMARCHAIS, La trilogia di Figaro, a cura di A. CALZOLAI, Mondadori, Milano, p.

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Dopo la morte di Giuseppe II non poteva più contare sulla protezione dell’imperatore, quindi si trasferì e si guadagnò da vivere come librettista, traduttore e poeta a Londra. In seguito la fortuna girò, si indebitò costringendolo a cambiare lavoro, divenne libraio ed editore ma anche qui, dopo qualche anno, dovette dichiarare la bancarotta. Si trasferì definitivamente in America, prima droghiere, poi distillatore, modista e agente di trasporto; gestì un pensionato per studenti universitari ed infine, in tarda età, divenne, alla Columbia College, il primo professore di letteratura italiana. Finalmente anche in America arrivò la prima stagione d’opera e circa otto anni dopo, l’ormai anziano Da Ponte convinse gli abitanti di New York a costruire un teatro d’opera; raccolse allo scopo centocinquantamila dollari e nel 1833, aprì la New York Opera House, sotto la propria direzione10. Dopo una vita piena di vicissitudini, emozioni, successi e fallimenti; Lorenzo Da Ponte, nel 1838, morì all’età di ottantanove anni. Tra il 1783 e il 1786 Mozart assiste alla ripresa dell’opera italiana a Vienna. Il musicista, in questo periodo, non fu presente sulle scene teatrali sia per la mancanza di scritture ma anche per sue difficoltà a trovare un libretto degno di interesse. Decisivo fu quindi l’incontro con Da Ponte, dal quale avvenimento nacquero tre dei più grandi capolavori operistici italiani di Mozart: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. Testimonianza importante dell’evento è quella dello stesso librettista che, nelle proprie Memorie (1823) lascia diverse notizie sull’argomento. Altre informazioni sono pervenute attraverso una pubblicazione di pochi anni prima di un ignoto traduttore An Extract from the Life of Lorenzo Da Ponte, with the history of several dramas written by him, and among others, Il Figaro, Il Don Giovanni & La Scola degli Amanti set to music by Mozart. Il traduttore del testo dapontiano certamente lavorò su materiale che differisce in più punti dalle Memorie di quattro anni dopo11, dandoci una visione più confusa ma nello stesso tempo più ampia. Non c’è da dubitare che le Memorie di Da Ponte ci danno materiale più ampio sul musicista rispetto agli altri commentatori che fanno capo sempre a lui; il che ci fa pensare che le notizie siano basate su verità anche se Da Ponte le ha scritte venti anni dopo, mentre era in America, con notevo10

OSBORNE C., Tutte le opere di Mozart, cit., pp. 291-295. HEARTZ D., Le nozze di Figaro in cantiere, a cura di S. DURANTE, Il Mulino, Bologna, p. 317. 11

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le esagerazione di alcuni aspetti. Riguardo alla funzione del librettista nella realizzazione dell’opera, si deve sottolineare la sua flessibilità nel saper mediare le idee altrui e piegarsi alle esigenze del musicista; questo fu la grandiosità dell’incontro tra il musicista salisburghese e l’intelligente e dialettico poligrafo italiano. Da Ponte si rende conto che la musica serve alle parole e non il contrario; questa accettazione permette il felice connubio tra librettista e musicista: “Prima la musica, poi le parole”. Da Ponte comprende a fondo le linee strutturali che il librettista deve rispettare, fondendo le ragioni del testo teatrale con quelle della logica musicale. Le parole servono alla musica, non la musica alle parole. Il rapporto tra Mozart e Da Ponte, non è documentato né nell’epistolario di Mozart, né dalle Memorie del librettista ma possiamo dedurlo dall’analisi del Figaro che lascia traccia della congenialità delle due intelligenze creatrici12.

4. La metamorfosi di Figaro Nella prefazione al libretto, Da Ponte spiega di aver realizzato non una traduzione dell’eccellente commedia ma una imitazione o piuttosto un estratto. S. Kunze spiega come il poeta si sia attenuto alle leggi del genere musicale, quindi la prima cosa da fare era ridurre i personaggi. Ma nonostante il numero dei personaggi fosse passato da sedici a undici, il libretto di Da Ponte presentava caratteristiche differenti dalla consuetudine della opera buffa, che come l’opera seria ammetteva sette o al massimo otto personaggi. Era necessario cambiare le parti del dialogo da musicare in versi rimati, mentre le restanti parti riservate al recitativo dovevano essere scritte in endecasillabi o settenari quasi mai in rima. Da Ponte compose il libretto delle Nozze basandosi sul complesso intreccio di Beaumarchais, infatti è possibile accorgersi, attraverso un confronto generale, che il libretto non è una parafrasi della commedia e neppure la sua versione ridotta, ma una rielaborazione concentrata. Le dimensioni dell’Opera rimasero estese considerando i parametri dell’opera buffa; nella sua prefazione Da Ponte si giustifica evidenziando la vastità e la grandezza del dramma, riferendosi alla varietà degli argomenti, e alla molteplicità e complessità dei brani musicali, tenendo ad evidenziare non solo 12

CARLI BALLOLA G., PARENTI R., Mozart, Rusconi, Milano, pp. 115-117.

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la grande quantità ma anche la varietà delle proporzioni dei brani musicali nell’ambito dell’intera opera. Basandosi sulla commedia di Beaumarchais, Da Ponte ideò giochi sorprendenti di scambi di persona, inganni, travestimenti, raggiri, coincidenze, imprevisti. Diversivi portati avanti fino al limite della realtà dove la tangibilità sembra arrivare ad una ironica incredibilità, soglia mai oltrepassata dal librettista. Da Ponte e Beaumarchais riuscirono nel loro intento, drammatizzare gli elementi della commedia senza però cadere nella confusione totale dove l’allegria spontanea si trasforma in distacco ironico e sarcasmo13. Il pregio di Da Ponte, malgrado la sintesi, con la quale avrebbe potuto incorrere in una riduzione di avvenimenti di scena, fu la capacità di scatenare l’intreccio teatrale conservando la naturalezza dell’azione. Inoltre, considerando la struttura drammatica complessa della commedia, l’abilità di Da Ponte fu nel far scaturire l’intreccio da situazioni imprevedibili e coincidenze impensabili, le quali non fanno pensare ad un meccanismo predeterminato. Il gioco della commedia è sempre in pieno sviluppo attraverso la presenza continua di due fili conduttori dall’inizio alla fine, ed è proprio il loro contrasto e la loro incompatibilità ad innescare gli avvenimenti, mettendo in moto una serie di circostanze imprevedibili che daranno vita all’azione dell’intera opera. Il primo filo conduttore da prendere in considerazione è l’amore di Figaro e Susanna, la volontà dei due di sposarsi a qualunque costo; ossia, come Kunze afferma: «la creazione dell’armonia in un universo discorde e confuso, il suggellamento della fedeltà, requisito indispensabile di una piena maturazione umana». L’altro filo che dà moto all’azione degli avvenimenti è la determinazione del Conte a far saltare il matrimonio dei due amati, matrimonio che egli stesso aveva già autorizzato, secondo S. Kunze per impedire la realizzazione dell’armonia e dunque della felicità. Altri motivi entrano nel gioco della commedia complicandone le circostanze: il desiderio della Contessa di riconciliarsi col marito, di ricreare con lui un rapporto d’amore; l’incantevole gioco di equivoci col quale Cherubino intralcia di continuo le intenzioni degli altri personaggi. Marcellina e Bartolo hanno vecchi conti in sospeso, l’intrigante Don Basilio va a completare i personaggi 13

KUNZE S., Il Teatro di Mozart, cit., pp. 285-286.

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immischiati nell’intrigo14. Tutto questo senza Cherubino non sarebbe possibile, S. Kunze, infatti scrive del paggio definendolo la personificazione del caso, l’unico che non cerca di raggiungere alcuno scopo, senza la sua armonia giovanile, che tutto domina e tutto tiene in sospeso, la storia risulterebbe senza dubbio meno movimentata. Beaumarchais ha saputo illustrare, attraverso le parole, i differenti caratteri della commedia, mentre Da Ponte riuscì nell’arte di mantenere quelle diverse caratteristiche dei personaggi senza contravvenire alle regole del libretto, il quale fungeva da base creativa per il compositore che doveva sviluppare le sue idee musicali sugli eventi, i raggiri e le circostanze descritte nel libretto dapontiano. Il librettista non riuscì a conservare il linguaggio caratteristico che Beaumarchais attribuì ad ogni personaggio, l’autore della commedia infatti nella sua prefazione spiega quale sia l’importanza del linguaggio utilizzato dai personaggi del Figaro per comprendere l’opera. «Ciò che deve interessare i personaggi – scrive il commediografo – non è lo stile dell’autore ma quello che hanno da dire»15. Nonostante la sua rinuncia al linguaggio di Beaumarchais, Da Ponte sapeva benissimo che Mozart con la sua musica avrebbe fatto in modo di evidenziare in ciascun personaggio il proprio stile. G. Carli Ballola e R. Parenti spiegano che i due autori, Da Ponte e Mozart, per superare le possibili contestazioni di Giuseppe II alla rappresentazione della commedia di Beaumarchais in forma operistica, cercano di intervenire tagliando le parti più compromettenti dal punto di vista politico come il monologo di Figaro nel quinto atto, e mitigando il personaggio di Marcellina, con le sue recriminazioni sulla condizione sociale della donna. «A causa dei tagli apportati si perde la peculiarità essenziale del Figaro francese, ossia la sua indole borghese che vorrebbe emergere con mille attività: un uomo intelligente e inventivo, prima studioso di medicina, chirurgia, farmacia, poi scrittore di commedie, quindi giornalista, compilatore di un periodico indipendente; sempre costretto a fallire nei suoi sforzi di affermazione per l’opposizione di un potere stupido e brutale, ora degli aristocratici, ora delle istituzioni statali repressive»16. Il Figaro creato da Da Ponte e da Mozart, invece, è un valet intelligen14

KUNZE S., Il Teatro di Mozart, cit., p. 287. Idem, p. 302. 16 CARLI BALLOLA G., PARENTI R., Mozart, cit., pp. 661-662. 15

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te e pieno di iniziativa; la sua posizione sociale di servo dell’aristocrazia sembra addirittura volontaria. Inoltre, si deve tener conto come Da Ponte e Mozart siano intervenuti sviluppando alcuni ruoli minori quali quelli di Bartolo, Marcellina e Basilio; il loro mutamento rispecchia in pieno la caratteristica dell’opera comica. Nonostante tutto, non vi è l’impoverimento del testo ma la sua metamorfosi in qualcosa di ugualmente importante, senza ombra di dubbio più confacente alla corte di Vienna e allo stesso compositore. Una commedia politica abilmente trasformata in una commedia di sentimenti. Anche se qualche sottile allusione contro la aristocrazia la riscontriamo, basti ascoltare la geniale e divertente aria del chitarrino cantata da Figaro. Da Ponte, rispecchiando la poetica letteraria dell’Illuminismo, non crea lunghi recitativi monotoni e noiosi, ma realizza un intreccio funzionale attraverso il quale vuole e riesce a tratteggiare l’animo umano. Sia a Da Ponte che a Mozart non interessava come la forma del discorso politico fosse percepito dal pubblico, probabilmente pensavano che il messaggio di attualità passasse ugualmente nell’opera contando sulla fama sovversiva che la commedia di Beaumarchais aveva ormai in tutta Europa. Nonostante l’aspetto più pacato del Figaro di Da Ponte e Mozart, il valèt si ribella comunque ai propositi del Conte. La musica di Mozart spiega con molta chiarezza l’animo ribelle di Figaro. Ma, come scrive S. Kunze: «se al compositore fosse interessato l’elemento politico esteriore, avrebbe utilizzato la musica per mimare l’autorità del Conte o per nobilitare la posizione di Figaro; invece, dal punto di vista musicale la gerarchia rimase intatta. Il Conte non è né un malvagio malintenzionato né un codardo, e Figaro non si può definire la personificazione ideale della rivoluzione borghese»17. Mozart nella sua opera, come in tutta la sua musica, esprime il valore della libertà, della dignità umana e del trionfo dell’umanità; tutto ciò viene trasmesso attraverso la sua musica, la quale sottolinea la libertà di decisione dei suoi personaggi e la loro volontà di vivere intensamente ogni istante. La libertà che si oppone a qualsiasi repressione esistente rappresentando così il motore che spinge l’uomo ad affermare se stesso. Da Ponte con il suo libretto restituì alla commedia le sue origini, facendo cadere tutte quelle parti con un significato politico che avrebbero 17

KUNZE S., Il Teatro di Mozart, cit., p. 305.

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ostacolato la produzione dell’opera e nello stesso tempo non erano adattabili al testo musicale. Nonostante tutto, il lavoro del poeta rappresenta una rielaborazione della commedia di Beaumarchais che non può essere considerata a lei secondaria: «L’enfatica stilizzazione che ha fatto del Mariage de Figaro una commedia rivoluzionaria, anzi il primo atto della rivoluzione stessa, è un prodotto della ricezione, nato dallo sguardo retrospettivo dell’Ottocento borghese, che identificava le sue origini storiche con la protesta di un servo che però voleva soltanto la sua Susanna»18. Nella opera di Mozart tutto tende alla conciliazione dei contrasti sia nei rapporti tra i personaggi che tra le classi sociali. Mozart riuscì a eccellere, a differenza dei suoi contemporanei, sia nella opera che in tutti gli altri generi musicali. La sua genialità lo portò a generare l’opera lirica come una sinfonia dove la musica è considerata mezzo per esprimere il dramma e non subordinata a quest’ultimo. Grout afferma che Mozart si rivelò il migliore tra i suoi predecessori, non solo per il suo modo diverso di affrontare l’opera, ma sottolineando che le sue idee musicali erano più belle, più originali e più significative, perché la sua maestria nel contrappunto era più notevole, perché la sua forza di costruzione era più potente, e infine perché la sua abilità di comporre musica non si esauriva nel ritrarre perfettamente una situazione drammatica, ma si sviluppava al tempo stesso liberamente in senso musicale, senza dare l’impressione di essere ostacolata dalla presenza di un testo a cui aderire19. Inoltre, bisogna considerare che Mozart si trovò a vivere in un periodo favorevole, durante quegli anni, infatti c’erano ovunque impresari impazienti di mettere in scena nuove produzioni di opere, e un pubblico smanioso di ascoltarle. Le opere di Mozart ebbero un buon successo anche se non gli vennero attribuiti tutti i meriti che egli aveva sperato; la causa, secondo D. J. Grout, è da attribuire alla sfortuna del musicista con il sistema mecenatesco, e non solo; bisogna considerare che Mozart, come tutte le personalità geniali della storia era più avanti rispetto ai tempi, il pubblico di Vienna che avrebbe potuto sostenerlo non era ancora in grado di apprezzare le qualità che lo rendevano superiore ai suoi contemporanei. Riguardo al Figaro, tutti i suoi personaggi danno l’impressione di esse18 19

Ivi, p. 307. GROUT D. J., Breve Storia dell’Opera, Rusconi, Milano, p. 321.

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re persone reali: Figaro, Susanna, il Conte, la Contessa, Cherubino e anche tutti i personaggi minori. Ascoltando questo capolavoro mozartiano si comprende che il merito di rendere vivi e reali i personaggi dell’opera non è da attribuirsi a Da Ponte o a Beaumarchais ma al musicista dell’opera, Mozart, che «grazie alla sua creatività generò questi personaggi non come stereotipi dell’opera buffa che ripetono gesti grotteschi convenzionali e superficiali della vita quotidiana, e neppure come figure tipiche dei ribelli politici del settecento, ma come esseri umani che sentono, parlano e agiscono in circostanze vitali, proprio come qualunque essere umano con un carattere analogo in condizioni analoghe».20 E’ inspiegabile come la musica possa lasciare intatta questa qualità nel tempo, ma, solo dopo aver ascoltato l’opera non è possibile smentire che ciò avvenga realmente. Il segreto, scrive Grout è nella natura della musica stessa, nella sua forma, nella sua linea melodica che si propaga nel tempo, nelle sue combinazioni armoniche, ritmiche e negli strumenti utilizzati, con i quali Mozart riesce a comunicare tutto ciò che né Da Ponte e né Beaumarchais sono riusciti ad esprimere con le parole dando vita ad immagini inanimate. Beaumarchais stesso nella lunga premessa alla Folle Journèe scrive: “Che cosa è la decenza teatrale? A forza di mostrarci delicati, fini conoscitori, e di ostentare l’ipocrisia della decenza, accanto al rilassamento dei costumi, noi diventiamo degli esseri nulli, incapaci di divertirci e di giudicare quello che si conviene…Ho pensato, e lo penso tuttora, che non si ottiene né grande pathos, né profonda moralità, né buona e vera comicità in teatro, senza delle situazioni forti, che nascono sempre da un contrasto sociale all’interno del soggetto che si vuole trattare…Tale profonda moralità si fa sentire in tutta la mia pièce, attraverso un piacevole gioco di intreccio dove uno sposo seduttore, donnaiolo, il Conte, contrariato, stancato, sempre bloccato nelle sue voglie, è obbligato tre volte nella stessa giornata a cadere ai piedi della moglie che buona, indulgente e sensibile, finisce per perdonarlo. Cos’ha dunque di biasimevole tale moralità?”.

Il geniale autore satirico, come Marchesi definisce Beaumarchais, va subito al punto senza additare nessuno di coloro che vorrebbero incriminarlo di indecenza. Le sue parole sono definite da Marchesi esemplari; attraverso di esse Beaumarchais riesce a tracciare un quadro della società della fine Settecento, ormai pronta a veder finire un sistema consacrato e 20

GROUT D. J., Breve Storia dell’Opera, cit., p. 332.

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secolare. Con la sua produzione, denuncia la viltà dell’aristocrazia, e non rinuncia a ricordare il coraggio di tutti coloro che ebbero la fermezza e la forza di annunciare il cambiamento, il quale, peraltro, non sarebbe potuto avvenire senza la Rivoluzione e tutte le tappe storiche che di lì a poco si scateneranno, non solo in Francia, ma in tutta Europa. La prima esecuzione a Vienna fu un trionfo e nonostante ciò Le Nozze di Figaro non rimasero a lungo in cartellone non solo per i caratteri di rivoluzionarietà che l’opera portava in sé, ma anche perché il pubblico stesso trovava difficile la complessità del discorso musicale: abituato alla superficialità non era pronto ad accogliere la maestria del linguaggio mozartiano, semplice solo in apparenza. Nonostante tutto, un successo entusiasmante fu quello che raccolse il Figaro a Praga, in occasione delle repliche dell’opera, il Barone von Jacquin scriveva infatti: «Qui non si parla che del Figaro, non si suona, non si strombetta, non si fischia, non si canta che il Figaro; non si sente altra opera che il Figaro»21.

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Diamo, di seguito, alcuni riferimenti bibliografici utili alla maggior comprensione della biografia e dell’opera del musicista salisburghese: BRATTA A., Opera, Köneman, 1999; STEPTOE A., The Mozart – Da Ponte Operas, Clarendon Press, Oxford, 1973; PAUMGARTNER B., Mozart, Einauidi, Torino, 1945; BEAUMARCHAIS, La trilogia di Figaro, Mondatori, Milano, 1991; OSBORNE C., Tutte le opere di Mozart, Sansoni Editori, Firenze, 1991; Dizionario Enciclopedico universale della Musica e dei Musicisti, coordinato da A. BASSO, UTET, Torino, 1999; FARAVELLI D., W. A. Mozart,1795-1791, Un musicista fra un antico regime e mondo nuovo, Editori Riuniti, Roma, 1989; HEARTS D., Le Nozze di Figaro in cantiere, a cura di S. DURANTE, Il Mulino, Bologna, 1991; GROUT D. J., Breve Storia dell’opera, Rusconi, Milano, 1985; DENT E. J., Il teatro di Mozart, Rusconi, Milano, 1994; LESURE F., A propos de Beaumarchais, «Revue de Musicologie», 1967 ; CARLI BALLOLA G., PARENTI R., Mozart, Rusconi, Milano, 1990; MARCHESI G:, L’opera Lirica: Guida storica – Critica dalle Origini al Novecento, Giunti, Firenze, 1999; ABERT H., Mozart, la Maturità 1783-1791, Saggiatore, Milano, 1985; DA PONTE L., Le Nozze di Figaro, a cura di E. RESCIGNO, Ricordi, Milano, 2002; MILA M., Lettura delle Nozze di Figaro, Einaudi, Torino, 1979; DURANTE S., Mozart, Il Mulino, Bologna; KUNZE S., Il Teatro di Mozart: dalla Finta Semplice al Flauto Magico, Marsilio Editori, Venezia, 1990; SADIE S., Mozart, in The New Grove, Ricordi/Giunti, Roma, 1987; GEORGIADES T., Del linguaggio musicale nel teatro di Mozart, a cura di S. DURANTE, Il Mulino, Bologna, 1991; The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, Edited by S. SADIE, Macmillan Reference, 2000.

8. ALCUNI APPUNTI SU DON GIOVANNI

1. Il tema letterario e la nascita del mito Come tema e come mito letterario «tout-court» la figura di Don Giovanni - Don Juan o Don Josè nella letteratura spagnola e portoghese e Don Giovanni, conte d'Almaviva o Figaro nella letteratura occidentale in genere - di volta in volta trova una serie di raffronti ideali e reali con i grandi libertini del XVIII secolo, Casanova compreso. Mito «fondante», dotato cioè di un significato simbolico travalicante il valore estrinseco del personaggio, dal Cinquecento picaresco spagnolo al Novecento letterario tedesco Don Giovanni ha sempre incarnato lo stilema del libertino instancabile, discreto quanto accattivante manipolatore di destini altrui per non sempre limpidi scopi personali, vero fustigatore della morale in uso, in omaggio alla Rivoluzione Francese. Dal suo corrispettivo d'oltralpe (Figaro in Beumarchais) - che opera un trasformazione tipologica che lo degrada da conquistatore a semplice procacciatore - al Don Giovanni mozartiano o dopontiano che dir si voglia - che invece, non modificandone le caratteristiche, semplicemente lo rende totalmente a-morale, coerente con ciò anche nell'estremo saluto, è sempre presente e riscontrabile - quasi fosse il segno indelebile per la sua identificazione da parte dell'eventuale fruitore quella padronanza di azioni e di ideali che lo pongono, ogni volta di più, in contrasto con la società. Quindi, come fustigatore della «falsa nobiltà» per parafrasare Voltaire, egli è l'ideale prodotto della trilogia etica della Rivoluzione Francese (Libertà, Legalità, Fraternità), unite alla rozzezza (voluta139

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mente bassa) delle Beggar's Operas londinesi. E non è un caso che questa vicinanza a quel tipo di spettacolo popolare (da cui Mozart trasse l'altro suo capolavoro Il Flauto Magico) sia poi un simbolo identificante; infatti non si dimentichi che sia il Don Giovanni che la Beggar's Opera sono anche parte integrante del teatro novecentesco e particolarmente brechtiano (Opera da tre soldi e Caduta e ascesa della città di Mahagonny su tutti). A queste linee principali è doveroso aggiungere, ultima e non certo risolutoria, una caratteristica molto importante che spesso, soprattutto nel teatro lirico settecentesco scompare, sopraffatta com'è dall'azione drammatica e cioè l'ironia del gioco delle parti. Mi spiego meglio; se da un lato (nel teatro tragicolirico del XVIII secolo) Don Giovanni perde la propria carica dissacrante, tanto da sentire la necessità di mantenere al suo fianco un personaggio veramente comico come Leporello (in Mozart) o Don Basilio (in Rossini), dall'altro (cioè la Commedia dell'arte) questa caratteristica ironica viene conservata e sfruttata a proprio uso e consumo; è il caso della Locandiera goldoniana in cui, addirittura il mitologema dongiovannesco viene trapiantato in un personaggio femminile, la locandiera appunto. Don Giovanni è all'apice di un climax cui ogni singolo punto di appartenenza è un preciso richiamo alla sua carica mitica. Non a caso anche ogni singola citazione nel campo letterario corrisponde ad una precisa chiave di lettura in cui di volta in volta, cambiando i termini identificativi, variano necessariamente i risultati e le applicazioni. Parafrasando G. Macchia - che sul tema Don Giovanni ha scritto molto e con profondo acume critico1 - bisogna considerare il personaggio in oggetto come fosse una mònade a se stante, dotata di vita propria e completamente indipendente da qualsiasi altra contaminazione letteraria; il suo «stile» ed il modo in cui si presenta sul palcoscenico, essendo strettamente codificati e rispondenti a ben precise tipologie, non possono essere cambiate, nè saranno suscettibili di variazione in futuro in quanto indissolubilmente legate alla intima personalità dell'uomo stesso. Il problema principale posto dal mito Don Giovanni si muove perciò su due principi-base; da un lato infatti, dissacrando le istituzio1

MACCHIA G., Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Adelphi, Milano, 1990 e, dello stesso autore, Tra Don Giovanni e Don Rodrigo. Scenari seicenteschi, Adelphi, Milano, 1989.

Alcuni appunti su Don Giovanni

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ni morali e sociali a lui contemporanee, si pone come ideale spartiacque tra le due epoche pre e post-rivoluzionarie dell'Antico e del Nuovo Regime; dall'altro, il contrasto originantesi tra questi due estremi provoca però una perdita di «identità» che influisce negativamente su di esso comportando un decadimento della sua figura, la quale, in questo modo, viene a scadere da libertino e libertario (sui generis) a semplice procacciatore intrigante e meschino, con ciò ponendosi già nella scia del migliore teatro brechtiano. In poche parole, si assiste ad una corruptio davvero esemplare che coinvolge il mito Don Giovanni in pieno, facendolo passare da libertino altolocato e moralmente disinteressato, a reprobo incallito che non esita a sfruttare chi lo circonda senza alcuna pietà e ritegno. Per certi versi quindi, si passa dalla figura dell'amante cortese celebrato dallo Stile Galante alla fine del Secolo dei Lumi all'aguzzino più astuto e amorale che la storia della letteratura europea ricordi. Nella fattispecie, le problematiche connesse al mito Don Giovanni sono poi raccolte in summa nell'omonima opera mozartiana. Dall'Aria del Catalogo al «là ci darem la mano», allo scontro con il Convitato di Pietra, al concertato finale è tutto un succedersi di colpi di scena, di oscenità e doppi sensi più o meno velati, di comicità ispirata. Davvero forse, questo libretto di Lorenzo Da Ponte, tra le sue molteplici produzioni, è il più proficuo risultato della collaborazione intercorsa tra l'Italiano ed il Salisburghese e raramente ha trovato riscontri egualmente validi in tutto l'ambito artistico europeo. Chissà che proprio a questa «eterna giovinezza» del dramma lirico mozartiano non si debba la continua ricerca, da parte di altre letterature ed altre epoche, di una perfezione artistica mai più raggiunta; pensiamo ai diversi tentativi operati sul tema dal cinema (basti il ricordo di Rodolfo Valentino) e dalla letteratura poetica e dal romanzo (valga per tutti il romanzo Donna Flor ed i suoi due mariti del brasiliano Jorge Amado).

2. Ideale umano e mito letterario Come si vede, Don Giovanni è molto vicino all'ideale umano più di ogni altro mito letterario, anzi è l'essenza stessa dell'uomo, nel suo

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eterno gioco di conquiste, di patimenti, di rifiuti e dinieghi della moralità da confessionale. Don Giovanni è tragico e comico allo stesso tempo e per questo motivo il teatro particolarmente settecentesco, alla ricerca continua di nuovi canoni estetici e scenici, lo elegge come simbolo di un'epoca e come sintesi di una fine da tempo annunciata. Si pensi per questo al teatro di Goldoni, Beumarchais, Marivaux, Hessing (e naturalmente Da Ponte). L'Età dei Lumi perciò, appropriandosi del mito Don Giovanni, compie una svolta epocale per la società e per la storia del teatro, rivoluzionaria nel senso più pieno del termine. Epocale nella definizione di Martin Heidegger, perchè «lotta», sovverte, rivoluzione violentemente la consueta teoria teatrale e la solita trattazione di personaggi e contenuti; ancora, essa è rivoluzionaria non soltanto perchè intimamente e cronologicamente collegata alla Rivoluzione Francese, ma anche perchè, attraverso questo atto sovversivo, introduce nella discussione critica quel concetto del «vero naturale» caro sia a Voltaire che a Goldoni. Da un lato, abbiamo un Don Giovanni personaggio dalle mille conquiste e dalle altrettante avventure, che rinuncia ad accettare regole morali ormai desuete e perciò deve avere al suo fianco un alter-ego che sia al tempo stesso servo e coscienza (è il caso di Leporello in Mozart-Da Ponte); dall'altro invece, troviamo un Don Giovanni in eterno conflitto con il mondo, ormai ridotto a semplice amatore, che non si accorge minimamente della svolta generazionale che si va compiendo e continua imperterrito a svolgere un ruolo ormai pienamente superato. Su entrambi i modelli poc’anzi suggeriti, si erge invece il Don Giovanni moderno, figlio e cittadino della Rivoluzione Francese, fustigatore dell'aristocrazia europea, a metà tra il Conte d'Almaviva rossiniano - spaccone e nobilastro - ed i due malcapitati protagonisti maschili de Le Nozze di Figaro di Mozart, entrambi abilmente pilotati da Figaro appunto, metà Arlecchino servo di due padroni e metà protettore interessato. In particolare, quest'ultimo aspetto viene interamente ripreso dal Romanticismo, che anzi trasforma radicalmente la figura dongiovannesca in una tipologia del personaggio che è derivata dal teatro di

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Beumarchais e Marivaux. A sua volta, quest'ultimo, con l'introduzione di Figaro - che sta alla Francia dell'epoca come l'Arlecchino goldoniano sta alla Venezia tardo settecentesca - porta a compimento anche un'altra operazione, ben più importante, realtiva allo «sdoppiamento» del nostro stesso personaggio in una duplice figura. Da un lato infatti, Don Giovanni viene inteso come semplice conquistatore senza scrupoli, e con questo «marchio» lo ritroveremo successivamente in Manzoni; dall'altro invece, esso assume anche quei contorni da impenitente prodotto di una società corrotta ed è ancora il caso del già citato marito della protagonista dell'Opera da tre soldi. Ecco allora che Don Giovanni diventa personaggio universale, sia che egli descriva la purezza e la nobiltà delle donne del popolo nella goldoniana Putta onorata, sia che cerchi di ottenere l'amore di Zerlina ed allo stesso tempo quello di Donna Anna nel dramma del Da Ponte, sia che si spacci per dragone del re nel Barbiere rossiniano. E questa sua valenza d'universalità si conserva e si ri-ammoderna anche quando assistiamo alla trasposizione del personaggio in oggetto in abiti femminili, con un aggiornamento poetico non indifferente e cioè la ricerca di indipendenza della propria identità di esere umano e di donna rispetto al mondo maschile. Anche qui gli esempi non mancano, dalla già citata Locandiera alla Serva Padrona di G.B. Pergolesi in cui, la ricerca di una indipendenza personale e affettiva si scontra ed alla fine prevale sui sotterfugi operati da alcuni «Don Giovanni» da strapazzo grazie proprio alla deprimente ed a senso unico idealità del mondo maschile.

3. Il mito, l’eroe e la dimensione narrativa A questo punto il problema è però anche un altro: finora infatti, abbiamo sempre parlato di mito Don Giovanni ed abbiamo anche visto come questa definizione possa calzare perfettamente. Ora invece, ripensando il percorso sin qui svolto, ci sembra doveroso riflettere su questa nozione e riconsiderarla anche in previsione di una sostituzione con la parola eroe.

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A confermare questo ripensamento interviene ancora G. Macchia2 che chiama Don Giovanni eroe a tutti gli effetti; un eroe «del piacere e della gioia» veramente poliforme, che somiglia ora a Don Rodrigo ora al Figaro, non dimenticando che la triade mozartiana Don Giovanni/Zerlina/Masetto è prfettamente aderente a quella manzoniana formata da Don Rodrigo/Lucia/Renzo3. Non abbiamo ancora però risolto il dilemma eroe/mito ed in questo caso, la definizione è valida su entrambi i livelli interpretativi: a livello mitico, infatti, il soggetto Don Giovanni rimane tale in quanto il valore intrinseco del personaggio e si conferma al di la del tempo e dell’uomo; a livello eroico invece, valga qui quanto può esser detto per i singoli personaggi letterari di ogni epoca, da Omero all'Ebreo Errante4 e cioè che il singolo personaggio è semplicemente tale perchè tanto più grandi di lui sono le gesta compiute. In questa duplice valenza l'una dipendente dall'altra in quanto l'eroe è sempre l'anticamera del mito, consiste allora l'essenza del personaggio. La prima perchè l'essenza del personaggio si trasferisce al pubblico sottoforma di messaggio poetico, la seconda perchè, il valore catartico che ne deriva, riman inalterato nel corso del tempo. L'eroe/mito quindi, ed il mito dell'eroe garantiscono allora la catarsi - cioè provocano una sollevazione dell'animo dello spettatore nel vedere se stesso e le proprie miserie sulla scena - creando un rapporto privilegiato con il fruitore che si protrae oltre il tempo stesso della rappresentazione. Il mito Don Giovanni perciò coagula in sè tutte queste nozioni e caratteristiche facendo sì che il semplice personaggio diventi qualcosa di più che un fenomeno teatrale e si ritagli, per le sue peculiarità, un posto di grande rilievo nella letteratura europea. Sin dai tempi picareschi del Burlador de Sevilla di tirso de Molinas, primo 2

MACCHIA G., op. cit., 1989 p. 15. MACCHIA G., op. cit., 1989, pp. 15-16 e pp. 165-176; altresì, molto interessante è anche il saggio di STOPPELLI P., Manzoni ed il tema di Don Giovanni, in «Belfagor», settembre 1984, pp. 501-516. 4 Nella fattispecie anche per Ulisse, come per i personaggi di Sue, vale il contrasto mito/eroe, per le stesse ragioni che qui abbiamo citato. non a caso, anche per S. Zecchi, L'eroe Don Giovanni diviene mito quando si libera di ogni «ostacolo e convenzione morale e religiosa» (cfr. ZECCHI S., Prefazione, a Sei porte per la scienza d'amore, Mondadori, Milano, 1994, p. VI). 3

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esempio in ordine temporale di Don Giovanni (che qui si chiama invece Don Juan Tenorio), il tipologema dongiovannesco è quello di un personaggio che inneggia continuamente alla gioia di vivere anche e soprattutto intesa come piacere sessuale. In seguito però il personaggio e le sue peculiarità sceniche cambiano radicalmente mutandosi in facoltà e capacità nuove e diverse. Ecco allora che, se ci limitiamo alla versione di Tirso (1613), possiamo parlare tranquillamente di eroe, inteso proprio nel senso del rendersi tale per una personale azione (nobile o meno nobile che sia). Viceversa, la definizione non può più reggere quando questa prima versine la accostiamo ad altri livelli interpretativi a lei posteriori, introdotte da Moliere, Da Ponte ed altri. A questo punto Don Giovanni, per come ora dobbiamo considerarlo nell'ambito letterario e poetico, non può essere più inteso come semplice eroe, ma deve essere invece considerato come qualcosa che emerge come significato dal prodotto artistico e che si pone all'attenzione del fruitore in saecula, al di là delle barriere spazio-temporali e comunemente interpretative. In una parola, si traduce in mito; non a caso il libretto dapontiano poggia più sull'ambito del personaggio Don Giovanni - eroe da ammirare e condannare - che non sulle situazioni comiche o tragiche della narrazione, cosa invece normale in altre interpretazioni.

9. «L’UNIVERSALE FACOLTÀ CREATRICE». FUNZIONE ESTETICA E DELL’ARTISTA IN ITALIA TRA SETTE E OTTOCENTO

«E non si tosto viaggiamo, i forestieri che ci conoscono per popolo unicamente musico ci pregano; né pensano com’ei ci fan piangere sempre». UGO FOSCOLO, Lettere dall’Inghilterra, 1817 «La melodia è linguaggio non meno della parola: ogni canto che non dice nulla non è nulla» Rousseau

1. Il pensiero estetico di Melchiorre Cesarotti In un secolo come il XIX, in cui il predominio della poesia sulle arti, almeno in Italia, è praticamente assoluto, la figura di Melchiorre Cesarotti è emblematica poiché possiamo identificare alcuni aspetti estetici che coincidono con le aspettative ed il clima culturale del tempo, in particolare per quanto riguarda la estetica e la filosofia italiana a lui contemporanea.. Soprattutto nel campo musicale ci si ostina a scrivere secondo modelli in particolare tedeschi, rinunciando (in più di un caso) alla produzione teatrale e fondando le proprie preferenze sulla produzione quartettistica o sinfonica. Si oppone un resistenza passiva al teatro e si procede verso uno stile compositivo formalmente ineccepibile; soprattutto si pratica una didattica della composizione rigida e classicamente strutturata in cui la concezione salottiero-virtuosistica dei vari Chopin, Liszt o Thalberg non rientra nei canoni interpretativi e/o estetici di riferimento, anzi: i canoni estetici della didattica del tempo sono ancora rigidamente impostati secondo modelli ormai desueti. Si guarda a Mozart, Haydn, Beethoven non come a sinonimi paradigmatici del genio

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kantiano, ma piuttosto come ad autentici Prometei, capaci di mostrare un metodo che caratterizzi come linguaggio altro, superiore alla stessa poesia ed alla stessa parola perché, fondamentalmente, ugualmente dicente. Così, la divisione utilizzata per inquadrare la produzione di Vincenzo Monti – tra classicismo repubblicano e romanticismo neoclassico napoleonico posta da G. Barbarisi - può trovare la sua giusta collocazione nel clima della Milano illuminista e nel pensiero estetico di Cesarotti, autentico mentore, non solo di Foscolo e di parte degli autori romantici italiani, ma di tutto un panorama culturale e non solo letterario1. La stessa determinazione d’immortalità dell’opera di arte passa per questa confusione in cui giocano, ad onor del vero, anche fattori non musicali ma sociali, quali la considerazione dell’autore, la sua presenza pubblica, il seguito salottiero che egli raccoglie, la novità tecnico-esecutiva che egli stesso rappresenta2. Soprattutto è cambiata – ed in particolare in Italia piuttosto che in altri paesi – la percezione stessa del rapporto tra stile e pubblico e che per primo ha operato in questa direzione, almeno a livello estetico è 1 BARBARISI G., Vincenzo Monti e la cultura neoclassica, in La letteratura italiana, a cura di N. SAPEGNO e E. CECCHI, vol. 12, L’Ottocento. Dal Neoclassicismo al Romanticismo: Monti e Foscolo, Garzanti, Milano, 2005, pp. 62-131. Per la conoscenza del clima letterario milanese nel periodo 1750-1850, cfr. BERENGO M. Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Einaudi, Torino, 1980, BIZZOCHI R., La «Biblioteca italiana» e la cultura della Restaurazione. 1816-1825, Milano, Franco Angeli, 1979, CERRUTI M. La cultura letteraria a Milano tra la fine dell’Età Napoleonica e la prima Restaurazione, in Atti del Convegno «Pietro Custodi tra rivoluzione e restaurazione», a cura di D. ROTA, Lecco, Cattaneo Editore, 1989; VENTURI F., Settecento riformatore. 1. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, pp. 675-747. Sulla realtà culturale torinese, cfr. in particolare BOTTASSO E., Le edizioni Pomba: 1792-1842, Torino, Biblioteca Civica, Ages, 1969 e Catalogo storico delle edizioni Pomba e Utet 1791-1900, a cura di BOTTASO E., prefazione di G. SPADOLINI, Torino, Utet, 1991. Sui problemi relativi alle periodizzazioni e sui contenuti generali dell’epoca preromantica, cfr. VAN TIEGHEM P., Le préromantisme, voll. 3, Paris, Spelt, 1947-1948, HAZARD P., La crisi della coscienza europea, presentazione di SERINI P., Milano, Il Saggiatore, 1968, FORMIGARI L., Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984, TIMPANARO S. Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, PUPPO M., Le poetiche del classicismo e del romanticismo in Italia, in AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica. III. Dal romanticismo al Novecento, t. IV, Marzorati, Milano, pp. 982-993. Per uno sguardo d’insieme è utilissimo anche MUTTERLE, A. M., Narrativa e memorialistica nell’età romantica, in L’Ottocento, vol. II, a cura di A. BALDUINO, Padova, Piccin Nuova Libraria, 1990; GARRISON J. D., Pietoso stile. Italian translators of Gray’s elegy to 1900, MLN, vol. 121, 1, January 2006, pp. 167-186. 2 LUZZI J., Italy without Italians: literary origins of a romantic mith, in «MLN», CXVII, 1, January 2002, pp. 48-83.

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stato proprio Melchiorre Cesarotti, amico di Goldoni e Voltaire3, docente di greco ed ebraico all’università di Padova, legato da amicizia fortissima ad Ugo Foscolo ed autore, non solo di una traduzione dal greco dell’Iliade (1786-1794) che sarà al centro di un duro lavoro intellettuale e linguistico condotto anche in collaborazione con lo stesso Foscolo e Monti, ma soprattutto di un trattato, Sopra la origine e i progressi dell’arte poetica (1762), e di due saggi, il Saggio sulla filosofia delle lingue e il Saggio sulla filosofia del gusto, entrambi del 1785, basilari per la nuova determinazione del bello e del sublime in una chiave non più neoclassica, ma completamente sensista (e quindi fortemente anticipatrice del Romanticismo). Al lavoro speculativo si somma la traduzione dei Canti di Ossian, manifesto della poesia sepolcrale inglese4 e paradigma delle nuove 3 Di Voltaire, Cesarotti tradusse, come primo esercizio in tal campo, intorno al 17601762, le tragedie La morte di Cesare e il Maometto. La traduzione, corredata di postille critiche e di due Ragionamenti (il primo Sopra il diletto della tragedia, il secondo Sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica) furono inviate al filosofo francese attraverso Goldoni che in quello stesso periodo, stava trasferendosi in Francia (BIGI E., Dal Muratori al Cesarotti, in Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, vol. IV, Ricciardi, Milano, 1960, pp. 4-5). 4 «[…]Un inglese di passaggio a Venezia gli fece conoscere l’Ossian, che era a quel tempo la gioia o almeno la meraviglia dei critici d’oltralpe; e il Cesarotti non tardò un momento a tradurre in versi sciolti quel poema accompagnando la versione con note per la maggior parte indirizzate contro Omero» (U. FOSCOLO, Storia della letteratura italiana, a cura di M. A. Manacorda, Einaudi, Torino, 1979 p. 373). La citazione foscoliana è interessante perché illustra la vera dimensione della fortuna dei canti ossianici in Italia e le conseguenze che, per un certo periodo, subì la cultura tradizione classica perfino nella scelta ed impostazione dei modelli soliti di riferimento. Su Cesarotti, sul suo pensiero estetico e sulla sua produzione, cfr. PATRIZI G., alla v., in Dizionario biografico degli italiani, 24, 1980 e PUPPO M., alla v., in Dizionario Critico della Letteratura Italiana. Altre ricerche, sono invece riconducibili a MARZOT G., Il grande Cesarotti, La Nuova Italia, Firenze, 1949 e ID., Melchiorre Cesarotti, in Letteratura Italiana, Marzorati, Milano, 1974, pp. 2127-2161. Ancora a PUPPO M., Discussioni linguistiche del Settecento, Torino, UTET, 1966, le introduzioni al Saggio sopra la filosofia delle lingue, Marzorati, Milano, 1969 e alle Poesie di Ossian, Torino, Einaudi, 1976, Poetica e poesia neoclassica da Winkelmann a Foscolo, Sansoni, Firenze, 1975 sempre a firma dello stesso; BIGI E., Le idee estetiche di Cesarotti, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXV, 1959, CERRUTI M., Appunti per un riesame dell’ellenismo italiano nel secondo Settecento: elchiorre Cesarotti, in AA.VV, Da Dante al Novecento, Milano, Mursia, 1970; MARI M., Le tre Iliadi di Melchiorre Cesarotti, in Momenti della traduzione fra Settecento e Ottocento, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1994, pp. 161-234 (già apparso, con lo stesso titolo, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1990); MATTIOLI E., Studi di poetica e retorica, Modena, Mucchi, 1983, pp. 183-204; SOLE A., Foscolo e Leopardi fra rimpianto dell’antico e coscienza del moderno, Napoli, Federico & Ardia, pp. 1990.

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scelte in materia di produzione e sensibilità poetica5. Di tendenze moderatamente giacobine, fu chiamato a far parte del Comitato di Istruzione Pubblica di Padova durante gli anni delle repubbliche giacobine e nel 1807 compose la Pronea poemetto dedicato a Napoleone. «Fedele fino all’ultimo alla filosofia dei Lumi»6, al culmine della propria riflessione, Cesarotti identifica il genio artistico con il gusto e quindi il giudizio di gusto stesso con una correlazione tra autore, prodotto e ricezione del pubblico7. La coscienza estetica, la filosofia del gusto, come possesso aprioristico della poesia (e della nozione relativa ai suoi principi), è «il genio che presiede alle arti del bello; ella dirige ugualmente il conoscitore che giudica e l’inspirato che detta»8. Se la concezione della produzione artistica ancora rivolta verso il bello ed il

5 DE MATTEIS G., Sondaggi foscoliani, Leone, Foggia, 2001. Sulla traduzione dei testi ossianici – e più genericamente sulla traduzione dei testi inglesi – è interessante riproporre il caso della traduzione al femminile ed in particolare di Teresa Carniani Malvezzi, traduttrice di The rape of the Lock di Alexander Pope (Il riccio rapito, Bologna, 1822) che dimostra, da un lato l’anglofilia italiana e dall’altro smentisce la convinzione che questo particolare campo di attività fosse integralmente maschile (cfr. COSTA-ZALESSOW N., Teresa Carniani Malvezzi as a translator from English and Latin, in «Italica», LXXVI, 4, 1999, pp. 497-511). Sulla letteratura femminile del tempo, si vedano anche AA.VV., Il genio muliebre. Percorsi di donne intellettuali nel Piemonte fra Settecento e Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’orso, 1990 e SALUZZO ROERO D., Novelle, a cura di L. NAY, Firenze, Olschki, 1989, GIORCETTI C., Ritratto di Isabella Studi e documenti su Isabella teotochi Albrizzi, Firenze, Le Lettere, 1992. Sulla traduzione e ricezione dei Canti si vedano MATTIODA E. (A CURA DI), Le poesie di Ossian, Salerno Editrice, Roma, 2000, CERRUTI M., Il piacere di pensare. Solitudini, rare amicizie, corrispondenze intorno al 1800, Mucchi, Modena, 2000. 6 BIGI E., Dal Muratori al Cesarotti, in Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, cit. 7 CARAMELLA S., L’estetica italiana dall’Arcadia all’Illuminismo, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, Marzorati, Milano, p. 957. Sulla questione del gusto neoclassico e delle sue valenze estetiche, oltre il solito WELLEK R., Storia della critica moderna (1750-1950), vol. I, Dall’Illuminismo al Romanticismo, Il Mulino, Bologna, 1974, importanti sono anche i saggi di PRAZ M. (Gusto neoclassico, Rizzoli, Milano, 1974) e ASSUNTO R. (L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo europeo, Mursia, Milano, 1973) nei quali sono delineati sia i principi estetici su cui l’epoca elabora il proprio giudizio, sia i modelli costruttivi che meglio si impongono a questo stesso fine. Sui testi del neoclassicismo e del preromanticismo rimane fondamentale il già citato BIGI E., Dal Muratori al Cesarotti, in Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, cit. 8 CESAROTTI M., Saggio sulla filosofia del gusto, in Opere scelte, vol. I, a cura di G. Ortolani, Le Monnier, Firenze, 1946. In proposito, cfr. anche PUPPO M., Storicità della lingua e libertà dello scrittore nel “Saggio sulla filosofia delle lingue” del Cesarotti, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXXXIII (1953), pp. 510-543.

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sublime (e perciò ancora rivolta all’indietro9), è pur vero che la dimensione ricettiva della musica è già attualizzata e concettualizzata verso una funzione consapevole («Il conoscitore che giudica») ed una idea ispiratrice (auto)creante che si estrinseca nel mondo alla maniera hegeliana. Il linguaggio musicale si mostra, come nei filosofi tedeschi, asemanticamente, si autodetermina come messaggio altro, superiore alla stessa poesia, suscettibile di catarsi ed il cui soggetto primario è la reazione dei sentimenti morali alla stessa azione artistica, oggettivamente contemplata e giudicata. Perciò, il bello (soprattutto) musicale consiste nel suono, nell’espressione, nell’accordo; il piacere dei suoni ha bisogno del canto (inteso come fase melodica) per essere perfetto e trasmettere perfezione e solo l’accordo è capace di mettere insieme il piacere sensibile con l’appagamento dello spirito10. Il raggiungimento del fine, il bello appunto, per Cesarotti è piacere estetico che si fa «diletto della ragione». L’ideale della poesia, anche se di derivazione arcadica, lo stesso si trasforma in una visione conciliante Vico11 e la visione primitiva e barbarica dei Canti di Ossian. La conciliazione tra sensismo estetico, esigenze intellettualistiche ancora impostate sul pensiero di Gravina (strada percorsa anche da I. Kant nella Critica del Giudizio) e sentimentalismo ossianico vogliono dire legami fortissimi con l’imitazione dei principi naturali. Ed è la natura stessa, depositaria dell’Universale facoltà creatrice, ad essere radice di tutte le arti, dello stile e del mostrare il bello in sé12. Cesarotti impone all’estetica italiana tra Settecento ed Ottocento la stessa riflessione che la Scuola di Jena impone al Romanticismo tedesco. Infatti, Sturm und Drang sono principi di sensismo e sentimentalismo che si pongono, sull’esclusivo piano estetico, come riferimenti principali per la conoscenza e l’imitazione della natura, per cui, la parola stessa – sempre sull’esclusivo piano estetico – è impossibilitata a 9

TALLINI G., L’estetica al tempo di J. S. Bach (1685-1750), in Scritti di estetica e letteratura, Cooperativa Editrice Libraria, Roma, 2002, pp. 5-46. 10 CESAROTTI M., Saggio sul bello, in Opere scelte, cit., I, pp. 340-366. 11 EUGENIO GARIN, Storia della filosofia italiana, vol. III, Einaudi, Torino, 1978, p. 983. 12 «Bello dicesi tutto ciò che veduto, sentito o percepito […] esso desta una sensazione viva, rapida e profonda di piacere misto di ammirazione per l’eccellenza di una qualità appartenente alla perfezione del soggetto, e inerente ad esso».

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cogliere pienamente questa dimensione che invece la percezione musicale individua perché connaturata alla propria natura di linguaggio sonoro/naturale. Cioè, la musica è superiore alla parola (anche poetica) perché più connaturata alla natura stessa. Non vogliamo qui ricorrere al principio di Natura naturans che Hölderlin e Leopardi pongono a fondamento del linguaggio musicale nei propri scritti, ma il concetto è praticamente lo stesso13. Ne consegue, traslando quelle nozioni al nostro campo di azione, che la stessa asemanticità della musica e la sua superiorità sulla parola sono, proprio in Cesarotti, assimilabili completamente al bello ed al sublime che egli persegue. Unica differenza, è che invece la musica non è assimilabile alla natura; questa, infatti, è infinita e vera in tutta la sua evidenza, la musica invece, per quanto capace di imitare, mai potrà percepire e comprendere la natura stessa nella sua essenza più piena. Se ci fermiamo ancora un attimo su questa condizione del linguaggio musicale (inteso come essenza e come forma della musica stessa), ci possiamo render conto di come, alla fine, lo stesso Cesarotti non sia poi così convinto delle sue affermazioni. Infatti, se la musica mai potrà percepire-imitare-comprendere completamente la natura stessa nella sua essenza più piena, è pur vero che la semplice sensazione e percezione del fatto naturale in sé (ad esempio l’espressione musicale come forma esprimente l’animo umano), nel momento del suo manifestarsi/estrinsecarsi, è per forza di cose parte della natura stessa: se non esprime la sua essenza, almeno però ne esprime l’idea percettiva. A questo Cesarotti non dà risposte, ma le poetiche di Foscolo e Leopardi (più che Manzoni), ponendo nell’esilio o nel dolore la essenza stessa del linguaggio e della sua espressività, non fanno altro che confermare la stasi teoretica del Romanticismo italiano di fronte al problema posto dalla imitazione della natura e dalla sua risultante sensistico/percettiva. Non a caso, ancora per Leopardi, il problema non è l’imitazione della natura, bensì il rapporto che intercorre tra l’uomo e la sua dimensione naturale, così rovesciando e rifiutando anche la pedagogia roussoniana. Cesarotti non dà risposte, dunque, perché fondamentalmente vive ancora la difficoltà di conciliare illuministicamente, le forme razionali 13

TALLINI G., Dalla musica alla Musica nello “Zibaldone” leopardiano, cit.

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con la necessità di esprimere il sentimento necessario alla percezione stessa del sé umano (come pretendevano Gray, Pope e Ossian). Una estetica siffatta, in Italia (ancora in bilico tra Arcadia e Illuminismo), è estremamente concreta nelle sue basi sensiste e Cesarotti riesce a scavalcare questa concezione ravvisandone il valore di infinità insisto nella sua essenza. Tutto ciò avviene in base a quel On the standard of taste di Hume, secondo cui la composizione artistica (e quindi anche la composizione musicale) non può avere leggi apriori. Per Cesarotti, invece, la scienza musicale è estrinseca all’animo umano ed alle sue esperienze, per cui, se proprio vogliamo dargli un valore aprioristico, semmai, questo (valore) dovrebbe necessariamente essere intrinseco all’animo stesso piuttosto che al sé dell’opera d’arte in genere. Il compositore, dunque, è auctor perché ricava le regole artistiche dalla osservazione della natura e dagli equilibri “immutabili” tra gli oggetti e l’uomo. La stessa ispirazione (sia essa poetica o musicale) “sorge” dall’istinto e dal sentimento, mentre l’arte poetica (cioè la capacità di produrre e di mettere in pratica la idea ispiratrice dal punto di vista della forma, dei contenuti e dello stile) da un sentire esteticofilosofico che si infutura nella critica, nel gusto e nel valore dell’opera stessa. L’autore, tra XVIII e XIX secolo, progetta l’opera secondo un modello formale-strutturale ben organizzato e poi, così, calato nella pratica quotidiana. Pertanto, il genio è filosofo finché coglie l’astratto dell’opera d’arte come atto formale che si attualizza al momento della creazione; questa, di per sé, è soltanto il manifestarsi (qui già hegeliano14) del già-compiuto, orfano solo della valutazione d’immortalità. L’istinto poetico è dunque speculativo, capace di identificarsi con le regole della poesia e di determinare quella libertà poetica che unisce pienamente il senso percettivo alla elaborazione intellettiva. In parole povere, l’auctor, si autoregola, impone un modello autoreferenziale diverso dall’ordinario, lontano tanto da Aristotele quanto da Orazio e mirato ad una ricerca del sé autoriale riferito alla sola capacità tecnicoproduttiva che, in più, implica un pubblico non necessario, interessato 14

Sull’idea di musica in Hegel sono interessanti, oltre che il fondamentale saggio di HEIMSOETH (Hegels Philosophie der Musik, in «Hegel-Studien», 2, 1963), soprattutto per il panorama bilbiografico italiano sull’argomento, le analisi condotte da SCARAMUZZA G. (Hegel e la musica, in users.unimi.it/˜gpiana/dm6/dm6hglgs.htm) e VIZZARDELLI S. (L'esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel, Roma, Bulzoni, 2000).

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a considerare l’autore come deus ex machina che si identifica con lo stile, ma non interessato alla fase estetica. La “sindrome di Stendhal” non è proprio patrimonio del pubblico, il quale peraltro, è interessato esclusivamente ad una fase ricettiva semplice, salottiera, in cui tutto al più il gusto è un partito estetico (Paisiello piuttosto di Rossini) e non un giudizio libero da fraintendimenti e, per questo, completamente e veramente estetico. La poetica di Cesarotti, nuova perché poggiante sulla poetica ossianica, costruisce dunque anche uno stile nuovo, lontano sia da quello stesso petrarchismo di cui si fa portavoce Foscolo, sia dalle posizioni di Metastasio. Anche nelle scelte linguistiche la novità è importante perché la nuova sensibilità impone una sostanziale variazione di senso rispetto al purismo toscaneggiante imperante. Contrasti e tensioni si esprimono attraverso un sostanziale stridore tra i rapporti linguistici tra i singoli versi, i quali, producono ora vibrazioni ed effetti che superano il significato linguistico determinano suggestioni che saranno centrali per lo sviluppo del linguaggio poetico romantico soprattutto in ambito melodrammatico15. Se pensiamo che parallelamente ai Canti di Ossian, risalenti al 1762 e più precisamente al primo di essi (Fingal), esce il Mattino di Parini, non possiamo non renderci conto dell’esistenza di due panorami così diversi. Cesarotti scopre in Ossian (considerato realmente co15 «Io m’era prefisso di toglier la lingua al dispotismo dell’autorità e ai capricci della moda e dell’uso, per metterla sotto governo legittimo della ragione e del gusto; di fissare i principi filosofici per giudicar con fondamento della bellezza non arbitraria dei termini, e per diriger il maneggio della lingua in ogni sua parte […] di fare ugualmente la guerra alla superstizione ed alla licenza, per sostituirci una temperata e giudiziosa libertà; di combattere gli eccessi, gli abusi, le prevenzioni d’ogni specie; di temperare le vane gare, le cieche parzialità; di applicar alfine le teorie della filosofia alla nostra lingua, d’indicar i mezzi di renderla più ricca, più disinvolta, più vegeta, più atta a reggere in ogni maniera di soggetto e di stile al paragone delle più celebri, come lo può senza dubbio, quando saggiamente libera sappia prevalersi della sua naturale pieghevolezza e fecondità».FERRONI G., PANTANI I., CORTELLESSA A., TATTI S., Storia della letteratura italiana. Una nuova sensibilità letteraria. Da Alfieri a Foscolo, Einaudi, Torino, pp. 3-11 e pp. 32-51. Sulla condizione del linguaggio poetico romantico, inteso come derivazione di scelte teoretiche anche neoclassiche, si vedano anche ULIVI F., Settecento neoclassico, Pisa, Nistri-Lischi, 1957, NEGRI R., Gusto e poesia delle rovine in Italia fra il Sette e l’ottocento, Meschina, Milano, 1965, BINNI W., Preromanticismo italiano, Laterza, Bari, 1974 - datati ma sempre utili - e i più recenti CERRUTI M., MATTIODA E., La letteratura del classicismo. Vincenzo Monti, in Storia della letteratura italiana, vol. VII, Il primo Ottocento, a cura di E. MALATO, Salerno Editrice, Roma, 2000.

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me l’autore dei canti), e lo scrive in una lettera famosissima a Mcpherson, quel vigore “primitivo” di sentimenti e di espressione che egli considerava il fondamento primario della nuova poesia16. Ossian è quanto egli ricerca nella poesia: un misto di natura e sentimento tale da agire sulla natura e sentimento del lettore senza oltrepassare quei limiti di misura morale e artistica e di convenienza che il classicismo considerava inscindibili da ogni opera d’arte davvero tale. Per Cesarotti, Fingal è certo eroe omerico, contraddistinto da virtus e aristia, e lo stesso bardo Ossian, di lui figlio, come narratore allogenico, riveste le stesse caratteristiche; lo stesso narrare malinconico di ricordi lontani, si riveste di una aura magica ed epica e fantastica che costringe il filosofo a mutare l’endecasillabo sciolto in una serie di spezzettature dell’enjambement, infarcendolo di pause e di variazioni di accento. Cesarotti insomma, secondo il giudizio di Binni, crea una nuova lingua poetica, fatta di immagini suggestive, quasi sempre indefinite. La musica tardo-settecentesca e primo-ottocentesca, intrisa com’è di rispetto per la forma, mira alle stesse condizioni: creare cioè una immagine dell’interiorità stessa del compositore-uomo. Il compositore è Omero perché domina filosoficamente la propria opera, ne aggiorna di continuo il linguaggio e le tecniche espressive, ne potenzia le risorse linguistiche e stabilisce la molteplicità dei significati rispetto alla univocità del bello emergente. La musica come linguaggio è titolare di un “senso diretto” e di un “senso accessorio” che altro non sono che il piano denotativo e connotativo in uso oggi sul piano storico del divenire linguistico. 16 FERRONI G., PANTANI I., CORTELLESSA A., TATTI S., Storia della letteratura italiana. Una nuova sensibilità…, cit., pp. 31. La presenza dei canti ossianici nella cultura italiana del tempo è ben testimoniata anche dalle versioni lirico-teatrali che si rappresentano a Venezia (Fingallo e Comala, musica di S. Pavesi e libretto di L. Fidanza, Teatro “La Fenice”, carnevale del 1805), Milano (Evellina, musica di C. Coccia e libretto di G. Rossi, Teatro “Re”, carnevale 1815) e Napoli (Gaulo e Oitona, musica di P. Generali e libretto di L. Fidanza, Teatro “San Carlo”, carnevale 1812 ed Agadaneca, musica di C. Saccenti e W. R. Gallenberg, libretto di V. de Ritis, Teatro “San Carlo”, marzo 1816), si veda in proposito ELVIDIO SURIAN, Organizzazione, gestione, politica teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di L. BIANCONI e R. BOSSA, Olschki, Firenze, 1985, pp. 317-369. Sulla musica tra Settecento ed Ottocento invece, cfr. AAVV., L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, atti del convegno internazionale, Venenzia, Fondazione Cini, 2-16 settembre 1989, a cura di R. ZORZI, Firenze, Olschki, 1992.

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Come si vede, dunque, il poeta (o il produttore del fatto artistico in genere) influenzato anche dal clima culturale in cui è immerso (prendendo anche in considerazione gli aspetti, da non sottovalutare, relativi alle istanze politiche e nazionalistiche), è in parte, anche filosofo e arbitro della propria azione anche in senso politico e didattico e, dunque, etico/morale. Idea questa, che troverà piena attuazione nelle proposte foscoliane e sarà termine fertilissimo per porre sul piano artistico le istanze risorgimentali (e poi, dopo l’unità, progressivamente scioviniste), figure magistrali e aspetti moralistici, i quali, nel bene e nel male, saranno patrimonio culturale del paese per un secolo. È dunque nel solco della continuità tra neoclassicismo e romanticismo che si gioca l’affidabilità estetica della nuova composizione musicale, pur partendo però dalla salvaguardia dei principi di superiorità e perfezione dell’antichità rispetto alla modernità. La «nobile semplicità e quieta grandezza» con cui Winkelmann impone la superiorità della cultura greco-antica rispetto alla latina, non solo ne codifica la sua assoluta esemplarità rispetto ad ogni modello costruttivo formale, ma anche, ne regola la sua assoluta immanenza in quanto arte inarrivabile ed unica, rovesciando così la convinzione, tutta rinascimentale, di un’arte greca resa perfetta dai latini ed espressa nell’arte di Virgilio. La bellezza ideale diventa lo scopo dell’artista, il quale, nel creare forme immortali ed uniche (ideali appunto, risultanti cioè dalla perfetta fusione degli aspetti più belli della realtà), anche quando imita la natura, pure ne imita solo un aspetto ideale, svuotato di ogni accidente sensibile e quindi lontano dalla vera rappresentazione della realtà. In questa diatriba – ad un tempo contenutistica, stilistica ed estetica - tra classicismo e romanticismo, giocata non soltanto sulle forme e sui contenuti dell’opera d’arte, ma soprattutto sul rispetto della tradizione e dell’ideale artistico proposto nel Settecento, Monti fu uno dei pochi che, condannando apertamente l’«arido vero», proprio sulla scia della riflessione cesarottiana, nelle discussioni sulla lingua, propugnò una lingua meno pura, più libera e moderna che permettesse di trasformare i contenuti in ornamento linguistico. Soltanto così deve essere interpretato l’uso del mito, non solo in Vincenzo Monti, ma anche in Foscolo, Pindemonte e nello stesso Cesarotti. La traduzione dal greco è, a questo punto, la traduzione di un testo altro, che ha perso la sua carica mitica e ne ha acquistata un’altra, più

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moderna, meglio legata alle necessità moderne del linguaggio e della espressione poetica e strutturalmente capace di aggiornarsi. La parola stessa non è più sentita come espressione e rivelazione della vita intima dello scrittore, ma come strumento di una tecnica raffinata, tesa a raggiungere un risultato di perfetta armonia e perfezione ritmica che riproduce la perfezione greco-antica. Viene cioè postulata l’esistenza di un mondo altro, extratemporale, passibile soltanto di imitazione che è la Grecia degli eroi e degli dei. Un mondo poetico-eroico-fantastico che si rende inarrivabile (mitico) ed inimitabile (poetico) sul piano della sola resa artistica17. Il passaggio, dunque, da un’estetica del bello ideale ad una basata sulla forma è molto breve e passa per la convinzione che non vi sia soltanto un bello, ma diversi, come del resto tali possono essere i gusti. Proprio Cesarotti codifica questa necessità affermando che il vero critico non si ferma all’adorazione di una unica forma, ma che deve essere capace di intendere tutti i linguaggi del bello. Per questo, il bello ideale può convivere con quello formale semplicemente rapportando l’uno e l’altro alle tipologia del linguaggio usato.

2. Angelo Mazza e la nozione di armonia come poesia pura Le idee di Cesarotti sono riprese da Angelo Mazza, contemporaneo di Rolla, arcade a Parma con il nome di Armonide Elideo e celebrato autore di una serie di poemetti più o meno lunghi sulla musica e sul valore estetico della armonia, compresa come nozione sinonimica di poesia e altrettanto determinante in quanto potere espressivo autonomo18. Il pensiero di Angelo Mazza, dunque, pur se poggiante su di un 17

PUPPO M., Le poetiche del classicismo e del romanticismo in Italia, cit., p. 984-987. Su Angelo Mazza, cfr. DI BENEDETTO R., Il bello armonico ideale e i poteri della musica nella poesia di Angelo Mazza, in Musica e Spettacolo a Parma nel Settecento, Università di Parma, Parma, 1984, pp. 195-206. Per i rapporti tra Angelo Mazza e i suoi contemporanei invece, si guardi ARIANO F., Il carteggio di Angelo Pezzana, in «Malacoda», XIII (1997), 73, pp. 3-26. Per la fortuna del poeta parmense presso i contemporanei interessante la posizione espressa da U. FOSCOLO, Storia della letteratura italiana, cit., pp. 378-379. Diamo di seguito anche il catalogo delle opere pubblicate da Angelo Mazza, così da avere un quadro abbastanza ampio della produzione dell’autore parmense e dei modelli estetici cui egli stesso fa riferimento, cominciando dalle odi Impero universale della musica (1767) e Gli effetti della musica 18

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architrave ancora arcadico (e lo stesso vale anche per Cesarotti e per tutto il panorama culturale italiano, Rolla compreso), è anch’esso moderno, del resto, i suoi scritti mostrano apertamente questo dualismo, quasi dicotomico, tra concezione della musica ancora arcadica e modernità espressa. Tale visione, influenzata dall’insegnamento di Condillac19 è importante perché, a partire da un’idea totalmente monadologica della musica, concepita come esclusiva funzionalità dell’armonia, codifica una nozione di linguaggio musicale logico-matematico che esprime (in nuce) l’idea che la musica sia, proprio perché asemantica, poesia pura, offrendo così uno sguardo autorevole sulla dimensione ricettiva e non solo filosofica della musica. Musica e linguaggio musicale sono entrambi poesia e non soltanto linguaggio altro rispetto alla musica stessa (Impero universale della musica, 1767). Anzi, se guardiamo alla sua equazione Bello = struttura + forma Si può notare come la riflessione, partita dal piano ideale di un raggiungimento del bello come prodotto filosofico, in effetti, diventi poi un problema di pratica costruttiva a cui tutta la composizione della epoca non sfugge perché non ha alternative. Se con il barocco la forma bipartita imponeva una questione formale e strutturale in cui il bello era anche gusto, ora invece, si presenta una questione strutturale-formale in cui il bello è gusto non condizionabile dal pubblico. Anzi, il frammento, è parte di un insieme armonico e strutturale concatenato in cui, il principio logico-matematico della monade ideata da Leibniz diventa sezione minima frammentata che, applicata alla cellula tematica, porta il compositore ad applicarla al singolo accordo. Soltanto ricostruendo gli accordi nella loro successione spaziale otterremo molteplicità; per solennizzandosi il giorno di Santa Cecilia da’ Sigg. Filarmonici (Parma, 1776), ed arrivando ai Sonetti sull’Armonia (Fratelli Amoretti, Parma, 1801) ed al poemetto All’aura armonica: versi estemporanei rappresentandosi nel teatro del sig. Fabio Scotti l’Agnese di Ferdinando Paer, (Stamperia Imperiale, Parma, 1809). 19 GARIN E., Storia della filosofia italiana, cit., p. 979. Il soggiorno di Condillac a Parma (dal 1758 al 1767) è importantissimo per la cultura parmense ed italiana perché la presenza del filosofo determinò anche le scelte di autori come Frugoni e Rezzonico, oltre che Mazza, soprattutto in merito all’idea di poesia e permise alla cultura cittadina di svecchiarsi e rivolgere la propria attenzione critica anche alle scelte filosofiche e culturali in genere che, nel frattempo, si andavano delineando soprattutto nella Milano della Accademia dei Pugni e delle discussioni de «Il Caffè» dei fratelli Verri e Beccaria.

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cui, il frammento accordale è il cuore della armonia, secondo la lettura datane in questo campo da Schlegel20. L’armonia, perciò, non è solo il momento in cui si esplica il brano nella sua completezza, ma è anche il momento in cui si evidenzia la complementarietà linguistico/espressiva della armonia, intesa come concatenazione accordale su di un piano cartesiano e come risultante estetico/ricettiva. Se ogni accordo riveste una funzione anche catartica, allora quel valore ricettivo emerge sia nel complesso della partitura che della individualità del rapporto e degli equilibri interni alle note che lo compongono. Pertanto, se il compositore usa il do minore come tonalità di base, dando alla partitura un ulteriore valore estrinsecocomunicativo-passionale, è perché a quello stesso accordo implicitamente egli riconosce una funzione non solo estetica (nel complesso dei risultati ideali/formali del brano), ma anche sensista (nell’ambito della sua monoliticità armonico- funzionale). La teorizzazione proposta da Mazza - pur se elaborata negli anni Settanta del Settecento e formalizzata in poco più di un decennio in diversi poemetti a carattere didascalico (La armonia, 1771, Gli effetti della musica, 1776, Inno all’armonia, 1782, Poemetto sul bello armonico, 1784-1811) che ancora Foscolo lodava come capolavori al pari delle traduzioni dagli inglesi (Thomson, Gray, Dryden, Pope) compiute tra 1764 ed il 1771 – è importante perché, pur se depositario di una estetica ancora neoplatonico-emanantistica21, pure, il suo pensiero, dichiarando una funzione dell’armonia unica legge del mondo, comunque propone un principio già romantico quale la necessità di considerare l’arte e la produzione artistica come fortemente influenzabile dalla coscienza e dal mondo stesso. Ne consegue, che l’arte sarà pure una monade fatta di monadi, ma queste non sono né uniche ed impermeabili, né incapaci di subire la necessità del mondo in cui esse vanno ad inserirsi sotto forma artistica. 20

SCHLEGEL FR., Frammenti critici e poetici, Einaudi, Torino, 1998. La valenza monadologia del frammento accordale è stata individuata, proprio come noi la abbiamo proposta più volte, anche applicandola a diversi contesti artistici (L’estetica al tempo di J. S. Bach (16851750), cit. e in Di un dipinto quasi sconosciuto di Sebastiano Conca (1680-1764), in «Civiltà Aurunca», 36 (1997), pp. 5-16), e proprio riferendosi alla musica barocca, anche da G. DELEUZE in La piega. Leibnis e il Barocco, Einaudi, Torino, 1990, pp. 199-218. 21 CARAMELLA S., L’estetica italiana dall’Arcadia all’Illuminismo, cit., p. 910-911.

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Per Mazza l’armonia è unica legge del mondo, in essa la melodia è gusta l’ordine e la forma del bello, carattere anche della sua unità. La armonia si riflette nella poesia in forma soggettiva e tende a corrompersi per il contatto diretto che essa ha con le passioni; lo stesso linguaggio musicale tende a passare dall’ingenuità e dalla spontaneità primitive - impetuose ma accordabili dalla ragione con il piacere – alla eccessiva raffinatezza umanistica e sofistica che falsa il buon gusto e sfigura la somiglianza con il vero22. Per Mazza, dunque, la musica settecentesca (Sonetti sull’armonia) è depositaria di questa condizione del gusto, inteso come ricezione e come idea stessa della musica. Lo dimostra la dicotomia produttiva esistente tra il neoclassicismo tedesco e l’arcadia italiana (espressa nel paragone tra Klopstok e Metastasio proprio nelle Stanze a M. Cesarotti) che il filosofo considera come forme diverse della stessa idea estetica che portano, tra i tanti modelli e scopi, anche alla trasmutazione reciproca, in quanto generi (unico appunto diretto all’amatissimo Metastasio), del fattore tragico in comico e viceversa nel melodramma. La musica dunque, principio armonico per eccellenza, è gusto nella sua qualità ricettiva ed è estetica nel suo farsi opera d’arte, anche quando le sue ragioni non sono soltanto compositive (e quindi genericamente poetiche), ma anche quando sono semplice spettacolo. Le teorie elaborate da Melchiorre Cesarotti e Angelo Mazza si inseriscono nella scia della grande e ampia riflessione sull’estetica e sui suoi modi produttivi che anche in Italia prende piede soprattutto grazie a Foscolo e poi, per motivi del tutto diversi, a Manzoni e Leopardi. In particolare, proprio Ugo Foscolo, partendo dalla riflessione sulla lingua e sulla sua discendenza dal modello petrarchesco23, pone le basi per una adesione sostanziale ai modelli speculativi proposti dallo stesso Cesarotti (e quindi, applicando la tassellazione24 dei concetti al mo22

MAZZA A., L’armonia, vv. 105-192, cit. in CARAMELLA S., Idem, p. 911. AA.VV., Il Foscolo critico: struttura e motivi degli “Essays on Petrarch”, in «Italica», LXXV, 1, 1998, pp. 62-77. Il problema è affrontato anche da FERRONI G., PANTANI I., CORTELLESSA A., TATTI S., Storia della letteratura italiana. Una nuova sensibilità letteraria. Da Alfieri a Foscolo, cit. pp. 3-11 e pp. 32-51. 24 Sulla tassellazione, principio applicativo di procedimenti analitici interdisciplinari mutati da altra/e disciplina/e o derivato da altri modelli di indagine metodologica (applicabili soprattutto alla costruzione di una analisi critica che si muova tra gli ambiti musicale, esteticostrutturale ed estetico-formale e letterario) e costruito secondo un metodo comparativo di in23

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saico armonico di Angelo Mazza, anche ai principi ispiratori da questo ultimo espressi). La stessa posizione foscoliana sul principio creativo, mutata dalla traduzione e dalla influenza della poesia di Thomas Gray sulla poesia italiana della epoca, tarata sui principi sensisti suggeriti da Ossian-Mcpherson, determina una sostanziale identità di vedute anche con la opera di Herder25.

3. Omero e Prometeo: percezione e funzionalità del compositore di fronte all’estetica Lo stesso carattere dell’opera d’arte come linguaggio dicente è collegabile dalla pratica romantica alla riflessione prettamente teorica. È il caso della personificazione d’Omero con la poesia e la funzione dagine estetica, cfr. il nostro Le metodologie della critica, Garigliano, Cassino, 2002 che, a monte, trova origine e riflessione didattica su di un blocco di lezioni compendiate in Studi sulle metodologie della critica nel Novecento, corso di Metodologie della Critica, Cattedra di Storia della Critica, Dipartimento di Studi Comparati, Università di Chieti, II semestre, a.a. 2001-2002. per una esauriente bibliografia sull’argomento e per verificare lo stato della ricerca nel campo della musica e dell’estetica comparata, consigliamo BROWN C., Music and Literature; a comparison af the arts, Athens, University of Georgia Press, 1948, MUNRO TH., The arts and their interrelations. A survey of the arts and an Outline of Comparative Aesthetics, New York, the Liberal Art Press, 1949, HAGSTRUM J. H., The sister arts. The tradition of Literry Pictorialism and English poetry from Dryden to Gray, Chicago, University of Chicago Press, 1958; PRAZ M., Mnemosine. Parallelo tra letteratura e le arti visive, Milano, Mondadori, 1971 (I edizione: Princeton University Press, 1970); HONOUR H., Neoclassicismo, Torino, Einaudi, 1993. 25 PORTER J., Bring me the head of J. Mcpherson. The execution of Ossian and the Wellsprings of folkloristic discourse, in «The Journal of American Folklore», vol. CXIV, n. 454, 2001, pp. 396-435. Sul versante, invece, del pensiero di Herder è utile sottolineare la vicinanza tra la sua riflessione filosofico-musicale e le idee cesarottiane, in particolare per quanto riguarda la costruzione di una linea di diretta discendenza del discorso retorico da Du Bos (per cui la retorica è imprescindibile dal discorso musicale) a Rousseau (nell’Essai sur l’origine des langues, 1760) e, quindi allo stesso Herder secondo cui, musica (la “melodia”) e linguaggio, hanno una origine comune e per questo l’uso di un modello retorico è giusto e necessario, soprattutto a fini imitativi ed espressivi. In altri termini, Cesarotti e Mazza, al pari dei filosofi citati, considerano la musica totalmente narrativa e perciò perfettamente in grado, non solo di far parlare il compositore attraverso di essa (proprietà retorica), ma, nello stesso tempo, permettendo alla partitura di funzionare come un’opera che racconta, che impone cioè un modello linguistico totalmente narrativo (proprietà narrativa). Questa lettura impone anche una lettura continuativa dei caratteri poietici che vanno dal Classicismo al Romanticismo, il che giustifica, oltretutto, anche la continuità contenutistica e stilistica che si ritrova nelle opere prodotte.

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produttiva, questa volta estesa alla composizione musicale. Anzi, in questo raffronto consiste l’unica differenza con il pensiero tedesco e cioè la collocazione della figura di Omero, inteso come paradigma del poeta, e la sua identificazione o opposizione al mito prometeico lì dove, il primo è depositario di un valore estetico/produttivo che porta nel campo della forma un’opera già pensata in quanto tale (Cesarotti), mentre il secondo pone nel dono (l’ispirazione), come frammento già concluso, punctum originale da cui l’assoluto promana informando la opera d’arte (fig. 3). È quindi una scelta costruttiva quella che impone il modello omerico piuttosto che prometeico; i tedeschi privilegiano Prometeo perché l’opera, come assoluto già concluso in sé, diventa dono da consegnare ai posteri; gli italiani, invece, ricorreranno ad Omero perché, l’ideazione filosofica dell’oggetto artistico, comporta la riflessione sul linguaggio, qualunque esso sia, e l’uso di una forma precisa. La mappa concettuale di cui alla fig. 4 illustra perfettamente il rapporto esistente tra la figura di Omero – intesa come poeta e filosofo – e l’idea produttiva che Monti, Foscolo e Cesarotti hanno invece della poesia stessa. Infatti, se in Monti i poemi omerici e la stessa figura dell’aedo sono una summula di forma e stile, non altrettanto si può dire per Cesarotti e il suo allievo Foscolo. Per essi, infatti, Omero è, non solo poeta/filosofo, ma anche modello costruttivo linguistico e formale. L’interessante è che nessuno dei tre considera il mitico poeta greco come mito in sé; cioè, mentre si considera Omero un vate esteticolinguistico-formale, ci si dimentica (a torto o ragione) della lezione vichiana, la quale, considerando principalmente il fattore miticonarrativo trasformava invece anche il linguaggio espressivo in una fase evolutiva che, oltre che essere storicizzata, era anche esteticamente positiva in quanto storia. Soprattutto in Ugo Foscolo è presente questa necessità di considerare Omero filosofo all’interno di un procedimento storico della analisi letteraria che si compia esclusivamente in un procedere anch’esso filosofico. La produzione poetica, musicale e artistica in genere, per il poeta di Zante debbono procedere solo attraverso la composizione di un discorso storico-critico che faccia emergere il progetto, l’idea filosofica portante e la sua qualità formale. Il bello stesso, anche qui formale prima ed ideale (sublime) in se-

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guito, è il prodotto di un’armonia e di una prospettiva del linguaggio produttivo che passa per i canoni formali («gli effetti della virtù», «la nobiltà dello stile», «l’incanto della poesia»26) e per le motivazioni sensiste (qui l’aggancio alla poetica cesarottiana). Lo stesso accade nei confronti della traduzione, spesso considerata opera a sé rispetto all’originale da tradurre e parte importante dello studio e della autoformazione del poeta. Pindemonte, Torelli, Mazza, Cesarotti e Foscolo traducono (soprattutto Omero) perché sono intimamente convinti che l’equilibrio tra forma, struttura e contenuti, anche se resi in un’altra lingua, pure permette di mantenere intatte le premesse estetiche originarie. Inconsapevolmente, introducono un ulteriore livello di conoscenza estetica che tocca la nuova considerazione in cui è preso il testo, ma mantenendo intatte le prerogative già acquisite. È, questo precedere, uno Scire per causas, non dissimile dalle modalità indicative di Giovanbattista Vico, Pietro Giannone e Francesco Saverio Quadrio. Si crea e si conosce la validità dell’opera attraverso le cause che determinano il complesso armonico-strutturale e cioè la forma e gli accordi (nel caso musicale). La stessa comparazione dei modelli di traduzione è un tentativo di ricostruire una conoscenza delle cause che, nella lingua originale, avevano permesso la comprensione del bello in sé. La codificazione dell’urtext, infatti, rimane intatta e la sua nuova versione si dota di un valore diverso che la somma del nuovo e del precedente permettendone la ridiscussione. Mutato il discorso sulla partitura, è facile notare come, a fini interpretativi ed esecutivi, il valore aggiunto dalla lettura del secondo livello si sommi a quella ideale originale e ne caratterizzi una ridiscussione estetica (secondo i principi del bello e/o della comprensione estetica in quanto produzione), sociale (come ricezione del pubblico) e letteraria (cioè, l’identificazione stilistica ed il riconoscimento contenutistico). La partitura trascritta per altri strumenti o per un solo strumento assume i contorni della novità e della frammentarietà compiuta ed altrettanto dell’originale si ammanta di verità e senso espressivo ed estetico. Anzi, la contemplazione della sua finitezza (in quanto duplicazione dell’originale) si perde di fronte all’infinitezza della resa espressiva e della novità tecnica ed esecutiva proposta. Se Liszt trascrive le arie 26

U. FOSCOLO, Storia della letteratura italiana, cit., p. VII.

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d’opera più famose (ottenendo non più trascrizioni ma parafrasi da concerto), è proprio perché assegna alla traduzione e/o trascrizione un valore aggiunto (rispetto all’urtext) che si mostra attraverso accorgimenti tecnici e/o esecutivi non utilizzati o non presenti nello schema iniziale ed ora invece rivalutati e posti in nuova luce (fig. 5). Foscolo, Cesarotti e Monti (e con loro l’intero ambiente milanese, Manzoni compreso), affermando il valore imitativo/creazionale e la sola valenza produttiva/ideativa rinunciano a ciò che invece era la essenza stessa della opera omerica, e cioè il transito narratologico verso una affermazione della poesia (e della produzione artistica in genere) intesa soprattutto come linguaggio storico che si fa imitazione, non della realtà, ma della natura. Il principio della natura naturans passa per la condizione imitativa del linguaggio poetico e artistico in genere, lo aveva ben capito Leopardi, il quale, anche dando valori completamente negativi alla necessità del rapporto uomo-natura, pure non aveva rinunciato a sottolineare la peculiarità fondamentale del linguaggio poetico e cioé, essenzialmente, l’essere voce unica della stessa dimensione umana, perciò stesso diventando mito e poi storia. Pertanto, Omero diventa, almeno ai nostri fini discorsivi, una figura di riferimento sicuramente più interessante del Prometeo di Schiller, delle pseudo-divinità mitiche di Hölderlin e dello stesso Prometeo beethoveniano. Anzi, in questo caso, l’essere semidivino che donò il fuoco agli uomini è un vero e proprio eroe non letterario, che impone il dono della poesia come forma artistica non filosofica, ma istintiva, immediata nel suo farsi e quasi più frammento che forma ben definita. Da questo punto di vista il pensiero di Schlegel è ancora di più illuminante proprio perché la teorizzazione frammentativa del modello operativo è ancora di più valida e compiuta. Prometeo è fosforico perché porta in sé i caratteri di un’idea produttiva compiuta intrinsecamente e già momento eidetico completo; la poesia diventa così di nuovo poiein, fare estetico prima di tutto che s’impone come fatto che si autostoricizza proprio perché completamente compiuto e definito nel suo essere oggetto artistico. Da qui, la diversità della posizione tedesca, rispetto a quella italiana, passa proprio per questa dimensione concessiva del fatto creativo, anche a prescindere dalla specifica funzione che lo stesso oggetto artistico andrà a ricoprire una volta manifestatosi compiutamente.

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Per Cesarotti, Monti e Foscolo invece, è impensabile che l’opera di arte si autodetermini a prescindere dalla forma e dal modello; per i compositori italiani, soprattutto nel teatro lirico, la forma e la struttura numerica sono anche fonte di identificazione autoriale e stilistica, per i compositori europei e soprattutto tedeschi invece, la forma non è importante, anzi: la compressione della forma-sonata in altre forme minime (o pseudo-tali come le ballate o i preludi) o la sua confusione con strutture lunghe e difficilmente identificabili con il classico genere della sonata di Stamitz, Beethoven o Haydn comporta la nascita di una nuova attenzione, del compositore stesso e del pubblico, verso la costruzione tematica e la sua struttura numerica interna. Prediligere tonalità come Reb maggiore o Mib minore è indice di una ricerca, non solo estetica, ma anche sonora (e non solo tecnica) dei nuovi mezzi espressivi offerti da forme non più standardizzate e centrate sulla diversità di due temi, magari contigui, ma ora esprimenti sensazioni e motivi soprattutto epico-virtuosistici. Vincenzo Monti, in particolare, mostra questa nuova aura poetica, fatta di rifugio nel classico e nelle sue antichità, non per problemi di poetica, ma per mancanza, o quasi, di parole e linguaggi atti a descrivere la realtà. Da questo solo punto di vista, Monti è completamente confuso con Omero, poiché, la ricerca sul lessico e sulla forma, permette al poeta milanese di elaborare una ricerca complessa del mostrarsi del reale che passa per le metafore e le formule ossequiose del vivere solito. Un interessante caso di pratica programmatica è la stesura, proprio di Monti, del dramma I Pittagorici, il quale, narrando la persecuzione di Dionisio di Siracusa contro i pitagorici, nella fattispecie, narra invece la Napoli del 1799 e della rivoluzione giacobina, completa dei suoi drammi e dei suoi momenti più alti e tragici27. L’opera, in un atto, mu27 «Intanto il mio dramma, letto più volte a diversi, ha qui fatto una grandissima sensazione. per la continua allusione ai lacrimevoli fatti qui accaduti nel ’99. Ho preso per argomento un soggetto di venticinque secoli addietro, ma nazionale, perché accaduto in Calabria, vale a dire nella Magna Grecia; e, sotto l’immagine di antiche e gloriose avventure, ho dipinto quelle di otto anni addietro, e vi ho interessato l’onore della nazione, senza mai nominare nessuno, lasciando all’uditore il farne applicazione» (MONTI V., Epistolario di Vincenzo Monti, raccolto, annotato e ordinato da A.BERTOLDI, III, Firenze, 1928-1931, p. 203, sul soggiorno di Monti a Napoli si vedano invece, infra, le pp. 121-203). Il dramma di Monti è stato studiato da LIPPMAN F., Un’opera per onorare le vittime della repressione borbonica del 1799 e per glo-

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sicata da Paisiello e messa in scena il 19 marzo 1808 al San Carlo di Napoli, è emblematica proprio perché le prerogative “omeriche” della poesia montana qui meglio si esprimono che in ogni altro luogo ed autore. Non a caso, il primo punto da sottolineare in questo confronto tra motivazioni culturali (ed anche estetiche) e contenutistiche (intese come semplice narrare attraverso un genere, sia esso musicale o letterario) è la necessità, da parte di Monti, di narrare, proprio in senso omerico – epico dunque – «L’onore della nazione», una nazione (come quella foscoliana e manzoniana) esistente certo soltanto sulla carta, ma lo stesso tale in quanto entità linguistica e poetica preesistente ad ogni unità politica e sociale. L’altro punto irrinunciabile per la poetica omerica di Monti – e ben si allaccia alla estetica cesarottiana – è la necessità del dramma, la sua essenza necessaria come fatto narrante. Siamo dunque nelle stesse condizioni dei Promessi Sposi manzoniani: una struttura storica verisimile da cui emerge una sovrastruttura reale, questa davvero metastorica, che lavora sia sul piano narrativo che descrittivo. Come la storia di Renzo e Lucia, pur ambientata nel 1628-1630, narra un’Italia a Manzoni contemporanea e sin troppo poco responsabile della propria grandezza passata, così in Monti, la persecuzione dei Pitagorici diventa la copertura storica per narrare l’Italia dei moti giacobini, delle speranze di libertà portate dalla rivoluzione e da Napoleone. Omero diventa così il velo attraverso cui, le vestigia neoclassiche (la «immagine di antiche e gloriose avventure») si compongono in un diorama di simboli e allegorie che conducono alla rappresentazione/imitazione della natura e della storia, intesi come principi necessari all’uomo e dipendenti dal suo fare. Omero è parte della storia in quanto filosofia della storia stessa. Nel proprio Epistolario Monti, ad un certo punto, scrivendo ad Andrea Mustoxidi proprio dei Pitagorici, af-

rificare Napoleone. I Pittagorici di Vincenzo Monti e Giovanni Paisiello, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di L. BIANCONI e R. BOSSA, Olschki, Firenze, 1983, pp. 281-306. Altre tracce teatrali di Monti nelle rappresentazioni liriche del tempo si possono rintracciare in E. SURIAN, Organizzazione, gestione, politica teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820, cit. e precisamente nella stesura del Teseo (musica di V. Federici, Teatro “La Scala”, Milano 6 giugno 1804) e dell’Argene (musica di Mayr) che il librettista G. Rossi aveva ricavato dall’Aristodemo per l’allestimento del Teatro “La Fenice” il 28 dicembre 1801.

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ferma: «Troverai in trono la filosofia»28, con ciò riferendosi proprio alla idea cesarottiana – e più tardi in parte anche hegeliana - di un linguaggio che si fa storia come narrazione e come imitazione naturale. La filosofia di Monti è la storia stessa ed Omero è l’idea di storia nel suo divenire artistico, prima inteso come storia-evento automodificantesi e poi come fenomeno che nasce nel momento in cui si fa pensiero e perciò anche linguaggio poetico. La poesia - e non è solo una convinzione di Monti, ma è propria anche del pensiero foscoliano e manzoniano – è fondamentalmente storia e momento più alto di una tradizione poetica che riconosce se stessa nel proprio specifico fare “nazionale”. I veri eroi del dramma montiano sono infatti i napoletani, nascosti sotto la egida dei pitagorici, e la loro lotta per la libertà, condotta sino all’apoteosi di Napoleone, Omero per eccellenza perché poeta/guida che mette in pratica un progetto (in questo caso) di libertà, forte della certezza della propria forza storica e della purezza dei propri ideali. Il “Siculo tiranno” (Ferdinando IV di Borbone), le “congiurate vele” (Nelson e la flotta inglese) ed i “feroci ladroni” (i Sanfedisti del Cardinale Ruffo) sono antagonisti narrativi che servono a meglio creare la catartica apoteosi finale di Archita/Napoleone. L’identità di vedute tra Cesarotti e Monti (che a questo punto tocca pienamente il campo musicale, anche se virando verso il teatro e non tornando alla musica strumentale ed a Rolla) spiega molte cose: una tra tutte, la necessità, per i compositori del tempo (ed anche per i librettisti) di avere sempre in mente il fine estetico del proprio lavoro e la soluzione formale più idonea ad ogni situazione. Il bello formale deve diventare, a questo punto, di nuovo ideale, meglio se sublime e meglio ancora se perseguito secondo istanze rivolte, non più alla semplice resa logico-matematica di accordi più o meno messi in collegamento armonico-estetico, ma rispondente anche a risultanze più complesse che mirino a rappresentare la volontà creatrice dell’autore e nello stesso tempo ne preservino il carattere furiosus e geniale della propria arte compositiva. Il genio è depositario della sola idea poetica e filosofica e dunque, da un lato è lingua pura (musicalità pura che emerge dalla complessità e strutturabilità della forma musicale) e 28

Epistolario, cit. p. 198.

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dall’altro è genio poetico che imita la realtà attraverso la propria capacità d’essere filosofo che progetta e domina a proprio piacimento la dimensione formale utilizzata. Così, Omero, filosofo e poeta, guida il comune sentire del fruitore verso il riconoscimento delle proprie passioni trasformandosi in Orfeo, in musico-terapeuta che deve molcere, addolcire e placare la propria forza con il canto. Le passioni sono così determinate in base alla forza che contraddistingue il linguaggio: più o è epico, più il placare è compito della sola poesia e del canto. Il Klagender gesang diventa il paradigma attraverso il quale Omero si mostra come unico conoscitore dell’animo umano e come dominatore, attraverso la forza della poesia (o della produzione artistica che è la stessa cosa), della volontà umana di fronte all’infinito ed alla complessità delle passioni. Omero è dunque il simbolo della forza della lingua e delle sue prerogative che tocca sia il modello costruttivo utilizzato, sia lo scopo che la produzione artistica deve perseguire trasformando l’oggetto artistico in un prodotto che è esso stesso forma del linguaggio e che, pertanto, è oggetto che si autoaggiorna ne più ne meno come la lingua di cui è parte e di cui è composto. Omero è universale perché tale è la sua produzione ed il valore di cui si riveste una volta creata.

4. «Quattro persone intelligenti che conversano l’una con l’altra» (Goethe). Dall’estetica alla prassi produttiva: il quartetto d’archi come fondamento espressivo L’espressione “musica da camera” nasce parallelamente alla ridiscussione delle nuove tematiche estetiche ed alla riorganizzazione delle finalità stesse della musica in chiave compositiva. Assodato che una linea di netta demarcazione tra la retorica musicale del barocco e quella neoclassica non esiste (meglio se ne parlerà più avanti), rimane da codificare un percorso che, dalla riflessione teorica, si in futuri nella composizione musicale. Il passaggio, dalla teoria alla grafia, a nostro avviso si esplica soprattutto nella scrittura del quartetto d’archi, forma musicale che, meglio di qualunque altra, viene ad esprimere e rappresentare il gusto e le aspettative di una intera epoca e di due mondi culturali importantissimi quali l’Illuminismo ed il Romanticismo europei.

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Una forma della scrittura quartettistica solita (due violini, viola, violoncello) esisteva già alla metà del Settecento e se si guarda alle date dei primi quartetti di Haydn (i lavori giovanili, risalenti al periodo 1757-1762, l’op. 9, composti nel biennio 1768-1769, l’op. 17, risalente invece al 1771 e l’op. 20 terminata nel 1772) ed ai diversi brani composti un po’ ovunque tra Francia, Austria e Germania nel decennio 1760-1770, possiamo renderci conto di come le potenzialità del quartetto siano cresciute esponenzialmente, man mano che nei compositori si faceva più sicuro il dominio della forma-sonata e delle potenzialità sonore ed espressive di tutti e quattro gli strumenti, ma soprattutto del primo violino e del violoncello, cui sempre più progressivamente viene accordata una funzione solistica e melodica preminente e di rilievo anche rispetto al primo violino stesso29. Della massima importanza fu, infatti, più che la fissazione dei canoni formali e della struttura dei quattro movimenti, la gestione ed il perfezionamento delle tecniche strumentali e della composizione (in relazione sia alla melodia che all’armonia), della tessitura in costante mutamento, dell’uso della sordina, dei pizzicati, delle corde vuote e dei bicordi. In particolare però, è la condotta delle parti che davvero rinnova – ed in maniera notevole e moderna – la gestione della partitura; infatti, giocando sulle opportunità offerte dal tema e dai diversi registri dei singoli strumenti e operando attraverso diverse tecniche compositive (dall’imitazione al canone e/o al fugato, dall’espressività dei minuetti al vibrato delle note nelle note lunghe, ecc.), l’intreccio strumentale permette la distribuzione del materiale tematico fra i quattro strumenti, così da valorizzare il ruolo ricoperto da ognuno di essi senza compromettere sia il ruolo di guida ricoperto dal primo violino che quello del violoncello come esecutore della linea del basso. Insieme a questa vocazione funzionale allo sviluppo dei temi, il quartetto d’archi mostra anche una vocazione particolare nel modificare i modelli stessi degli andamenti. L’uso, peraltro semplicissimo, di 29 DRABKIN W., La musica da camera da Haydn alla fine dell’Ottocento, in enciclopedia della musica, IV. Storia della Musica Europea, a cura di J. J. NATTIEZ, Einaudi, Torino, pp. 698. Sullo stile classico sono fondamentali i saggi di ROSEN CH., Lo stile classico: Haydn, Mozart, Beethoven, Feltrinelli, Milano, 1979 e WEBSTER J., Towards a history of Viennese music in the early classical period, in «Journal of American Musicological Society», XXVII, n. 2, pp. 212-247.

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ottave di rinforzo ad esempio, permette una imitazione sinfonica del suono che quindi riveste il tema di effetti nuovi, diversi dal suono semplice e ricchi di sfumature. In un dialogare a tre, con la viola che viene ad assumere anch’essa una parte preminente e non limitata a raddoppiare il basso, nasce anche una nuova dimensione espressiva che permette l’imitazione della melodia o il suo sostegno nel registro medio-basso dei violini, in un avviluppamento strutturale che trasforma la viola stessa (quasi) in un terzo violino dal registro più ampio. Non a caso la viola, di pari passo sia con la necessità di rappresentare i colori scuri e melanconici della poesia ossianica che della nuova poesia romantica, comincia ad assumere una funzione quasi solistica che spesso si esplica, non soltanto attraverso l’esecuzione del tema in terze o seste con il secondo violino mentre il primo tiene una nota acuta e lunga, ma anche attraverso l’aggiungersi melodico (a volte in raddoppio, a volte in contro-canto) alla melodia dei violini. In altre situazioni, i compositori fanno suonare agli strumenti accordi di sesta o di terza raggruppandoli per coppie così da ottenere un effetto di sicura potenza sonora e, in particolare nelle tonalità scure o tragiche come Do, Fa o Re minore, anche un indiscutibile senso di tragicità e melanconia nei tempi lenti. Una vera rivoluzione avviene però con la pubblicazione dell’op. 20 di Haydn e precisamente nel quartetto n. 2, nel quale il compositore fa suonare, nel registro più acuto, il tema al violoncello; toccherà a Mozart perfezionare la novità fissandola definitivamente. Soprattutto qui, e poi nei tre Quartetti op. 59 “Razumovsky” composti da Beethoven nel 1806, l’organico previsto è da considerarsi come impianto solistico a tutti gli effetti, viste le richieste espressive che gli autori propongono nella partitura e le difficoltà tecniche insite nella lettura/esecuzione. Per questo, la frase di Goethe citata in apertura di questo paragrafo («Quattro persone intelligenti che conversano l’una con l’altra»), espressa proprio a proposito dei quartetti beethoveniani, dà l’idea di questa perfetta commistione di tecnica e linguaggi espressivi, pensati come lingua unica e totale che si avvale, non di un solo codice, ma di più codici linguistici. La codificazione di un tale linguaggio rispecchia pienamente la condizione estetica di base. La musica, in quanto prodotto asemantico, si esprime e dice davvero avvalendosi prima di tutto del valore espres-

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sivo di ogni strumento e poi del valore espressivo risultante dalla combinazione perfetta degli accordi e delle note utilizzate melodicamente ed armonicamente. Anche qui, se il compositore è Omero, perché il progetto filosofico solo attraverso le sue mani può diventare pratico (e potremmo aggiungere: se il compositore è Prometeo, perché l’intuizione può diventare opera scritta soltanto attraverso il suo intuito), allora gli esecutori sono, da un lato compositori essi stessi, perché lo stesso, e a prescindere dalle regole retoriche da rispettare e dalle imposizioni espressive scritte dall’autore, leggendo ed interpretando la nota scritta, in qualche modo, modificano sia pure impercettibilmente la partitura. Dall’altro sono traduttori, cioè traducono in pratica ciò che il compositore ha progettato e che non può vedere realizzato sino a che il brano non viene eseguito (suonarlo al pianoforte non contempla naturalmente gli stessi effetti finali). Per cui, riproducendo la fig. 5 ad uso e consumo della semplice traduzione del testo scritto in testo eseguito, possiamo notare come differenze basilari e dense di problematicità non ce ne siano.

5. Retorica e narratività. La necessità della forma e la variazione degli affetti di fronte alla composizione La questione retorica investe letterariamente la fase musicale, e non soltanto perché la linea diretta che unisce Du Bos a Rousseau e quindi a Cesarotti e Mazza è una linea estetica esclusivamente narratologica, quanto anche per una dimensione effettivamente narrativa dei contenuti musicali espressi. Ad esempio, la componente autonarrativa che si esprime attraverso l’espressione musicale di stati d’animo personali, a prescindere da ciò che vogliono raccontare/imitare, sono espressi attraverso accidenti retorici che divengono fattori espressivi simbolici di una ben preciso status linguistico-espressivo, a prescindere dagli stili utilizzati e dalle forme codificate. La simbologia retorica è dunque importante perché stabilisce un nesso operativo di continuità con il passato ed ancora una volta la opera di Haydn è fondamentale per determinare i modelli compositivi del classicismo e del romanticismo futuri. Infatti, quelli che sono i modelli

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tipici del teatro musicale seicentesco e soprattutto settecentesco – e che sfruttavano formule retoriche come la suspiratio (che consiste nella interruzione della melodia per rendere la esitazione del personaggio in un dato frangente) o la sua ripetizione anaforica (utilizzata per rappresentare invece il turbamento o le intense emozioni) – passando già negli anni Settanta del Settecento nella musica strumentale soprattutto del compositore tedesco, provocano una cristallizzazione delle forme espressive in questo unico senso, determinando così la necessità ed imprescindibilità di quelle stesse formule da ogni ricerca tematica particolarmente dei tempi lenti. Questo particolare momento segna anche il passaggio dal cosiddetto stile galante ad uno più propriamente classicista nelle forme e sensista nella percezione dei suoi risultati artistico-estetici. Prova ne sia il fatto che, in uguale maniera, tanti altri compositori concorrono nella applicazione di medesime situazioni compositive, fino al punto da trascrivere per strumenti intere scene lirico-teatrali, proprio nella stessa maniera in cui i testi poetici vengono tradotti da lingua a lingua. Non solo, ma le stesse modalità di scrittura, all’interno della medesima partitura, variano stilisticamente da un clima espressivo all’altro, tanto che H. Koch già nel 1795 lamentava sia gli abusi dei compositori che la farraginosità dei procedimenti compositivi, il tutto a danno dei fruitori e della comprensione degli affetti e dei riferimenti intertestuali. Al di là, dunque, della matrice estetica di riferimento (Mattheson, ad esempio, in Das Wilkommen Capellmeister (1739) era convinto che la forma musicale dovesse essere ancora modellata, come in passato, sulla terminologia retorica ciceroniana, mentre già Koch, Momigny e Reicha tendono a separarsene per introdurre una Formenlhere più moderna e consona ai tempi), è interessante osservare che, nell’intento di creare una forma nuova, le tendenze dei compositori oscillano tra la strutturazione di forme-sonata impercompresse (la ballata per pianoforte ad esempio), di architetture sonore ampie come la sonata stessa e la codificazione di componimenti minimi, frammentati in episodi narrativi e comclusi nella loro minimalità formale e strutturale. È così che, nell’ottica di una forma ampia, completamente dicente e capace di narrare, già Momigny esprime la necessità di costruire brani musicali tripartiti, suddivisi in periodi, in frasi, preposizioni e cadenze che potessero certificare la necessità del linguaggio anche attraverso la

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imitazione della costruzione sintattica del discorso30. Sulla scia di Momigny anche Reicha, nello stesso periodo ed in maniera ancora più chiara ed approfondita, si sente in dovere di puntualizzare proprio la differenza strutturale tra le forme del passato e quelle dell’Ottocento perpetuandone la metafora oratoria, ma svincolandosi dalla sua terminologia e fissando nella grand coupe binaire (la grande forma bipartita)31, cioè la forma-sonata, e nei modi e nelle convenzioni tematiche e strutturali in essa utilizzabili la nuova funzione narrativa della composizione musicale romantica. In questo modo, si rendono indiscutibili sia le premesse estetico-ricettive della nuova sensibilità musicale, sia le premesse poetico-linguistiche che avvicinavano alla valenza dicente sia il linguaggio parlato che quello prettamente musicale. Oltretutto, questo implicava la necessità di considerare l’evoluzione della musica strumentale e delle sue forme come naturale mezzo di percezione della musica stessa procedendo proprio dal discorso e dalle forme del discorso – inteso come prospettiva retorica – al racconto. È solo così che va intesa la convinzione dei romantici che la sinfonia fosse un dramma in musica la cui storia si raccontava attraverso e con i suoni. La tematiche arbeit allora non è più considerazione formale di una struttura da sviluppare, bensì necessità di costruire in maniera comprensibile (ad un tempo linguistico/armonica e narrativa) i temi ed i suoi sviluppi inserendoli in parti, periodi e frasi formali/narrative che possano valorizzare la storia da narrare e la vitalità estetica che da essa promana. D’altronde, è proprio alla fine del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento che fiorisce in Europa, sulla spinta della Rivoluzione Francese e delle conquiste napoleoniche, la ridiscussione dei generi illustrativi, soprattutto attraverso la composizione di sinfonie che riportano narrazioni mitiche o leggendarie (Ditters von Dittersdorf, Sinfonie sulle Metamorfosi di Ovidio, 1783-1786) o imprese militari lo stesso epicizzate (Jadin L. E., Le bataille d’Austerlitz, 1806). 30 «Perciò, come si divide un edificio in tre parti, la cupola e le ali, e un discorso in tre punti; così un grande Brano musicale si divide in tre arti, le parti si suddividono in periodi, i periodo in frasi, le frasi in proporzioni e le proporzioni e le proporzioni in cadenze o membri» (MOMIGNY, J.-J. DE, Cours complet d’harmonie et de composition d’après une théorie neuve et générale de la musique […], vol. 3, Paris, 1806, p. 397. 31 REICHA A., Traité de haute composition musicale, 2 voll., Zetter, Paris, 1824-1826.

10. I QUARTETTI DI BEETHOVEN

1. I quartetti come nuovo linguaggio I quartetti rappresentano unità compositive particolari che si collegano alla tradizionale struttura di Haydn e Mozart e come tali presentano difficoltà tecniche che da Beethoven vengono separate con la presenza di due elementi fondamentali: il dolore della vita e la volontà indomita di superarlo. Il raggiungimento di tale scopo, come vedremo, è evidente soprattutto negli ultimi quartetti. La comparsa del nome di Ludwig van Beethoven riconduce l’attenzione a quell’insieme di situazioni linguistico–musicali presenti a Vienna nel decennio 1780–1790 e cioè, quartetti, sinfonie, sonate e concerti di Haydn e Mozart, il più ricco patrimonio disponibile per un musicista all’inizio della sua carriera. «Ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn» è l’augurio che nel 1792 il conte Waldstein fa al giovane Beethoven in procinto di recarsi a Vienna, è un invito a seguire una via preferendola ad altre; «Beethoven intenderà tale esortazione a modo suo: ereditare Mozart e Haydn senza rinunciare a nulla di quanto avveniva fuori di questo magico cerchio»1. In pochi anni Beethoven si afferma come artista autonomo, secondo il nuovo ruolo sociale del musicista. Ai primi anni dell’Ottocento Beethoven è il favorito della vita musicale di Vienna, nel 1810 è ritenuto ovunque il primo musicista d’Europa. Nella carriera di Beethoven, secondo Pestelli un posto importante è spettato all’istituto della protezione: all’indipendenza economica del musicista, contribuiranno il principe Carl von Lichnowsky, già allievo 1

PESTELLI G., L’età di Mozart e di Beethoven, EDT, Torino, p. 240.

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di Mozart, amico fedelissimo presso il quale Beethoven dimora a lungo, i conti Zmeskàll, Gleichenstein e Razumovskij, l’Arciduca Rodolfo, fratello dell’imperatore Leopoldo II, i principi Franz Joseph Lobkowitz e Ferdinand Kinsky; gli ultimi tre, nel 1809, garantiranno al compositore una rendita annua di 4000 fiorini alla sola condizione che resti a Vienna, a scrivere la musica che più gli pare. Il gesto dei tre patrizi dà la misura dell’importanza assunta dal musicista nella coscienza del tempo2. Il grande dramma della vita di Beethoven è la sordità, i cui primi sintomi si manifestano già nel 1795; Beethoven è costretto a lasciare la carriera pianistica e nel 1802, a trentadue anni, il compositore si rassegna alla sua infermità considerandola, ormai, come definitiva. Intorno al 1818 inizia a scrivere i Quaderni di Conversazione attraverso i quali, nella sordità più completa, cerca di comunicare con il mondo ascoltando le richieste degli interlocutori. La sua sete di cultura continua anche in questi anni; G. Pestelli spiega che pochi altri musicisti, e pochissimi prima di lui, parlano tanto di libri e letture: non si contano nei Quaderni e nelle lettere citazioni più o meno esplicite di Shiller, Goethe, Kant, Rousseau, Plutarco, allusione alla storia greca e romana, alla filosofia indiana. Nonostante tutto Beethoven è ancora prima di tutto un tecnico: considera il suo orecchio (malato) la “parte più nobile” di sé, nessuno strumento ha segreti per lui; i suoi amici sono esecutori, cantanti, violinisti, chiamati “fratelli in arte”, basti pensare che quasi tutta la vita dei quartetti è collegata alla pratica concertistica viennese del violinista Ignaz Schuppanzigh. Da quella cultura, in Beethoven nasce il concetto della musica come vertice delle attività umane3. Le opere di Beethoven possono essere divise in tre grandi blocchi di lavoro, 32 Sonate per pianoforte, 9 Sinfonie, 17 Quartetti per archi (alle Sinfonie si possono assimilare le overtures e i concerti; fra Sonate e Quartetti si può distribuire la restante musica da camera); isolate appaiono un’opera teatrale, il Fidelio, e la Missa solemnis. Rispetto a Haydn e Mozart, il catalogo di Beethoven presenta una riduzione del numero di lavori per ciascuna voce citata; ogni opera 2 3

Ivi, p. 235. Ivi, pp. 237-238.

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deve avere una giustificazione interna ed è quindi naturale che cresca in ampiezza e varietà. Beethoven non scrive più per commissione, non ha scadenze da rispettare, e il lavoro subisce la critica inesorabile della sua personalità; come si nota nei lavori preparatori, abbozzi, pentimenti e correzioni dell’ultimo minuto. L’arte di Beethoven è una continua scoperta dell’infinito, scopre se stesso attraverso la sua musica, e perciò la sua arte è come un impulso irresistibile al progredire. Questa volontà di superamento è avvertibile in tutta l’arte di Beethoven anche nei “gironi profondi di un largo e mesto, di un arioso dolente o di una Marcia Funebre in do minore”4. Quando si pensa alla sua produzione artistica la nostra mente va alle nove sinfonie, alle trentadue sonate per pianoforte e ai diciasette quartetti. Massimo Mila descrive le sinfonie come il monumento del lavoro del compositore, le sonate il banco di lavoro dell’artista, le quali lo accompagnano per tutta la sua vita come un diario che egli scrive, con il quale egli ci mostra tutte le sue emozioni e le sue sensazioni nel corso del tempo, ma anche dove egli sperimenta e cresce come musicista; proprio nelle sonate egli anticipa i contenuti espressivi e le soluzioni stilistiche che verranno accolte nelle Sinfonie. I quartetti, invece, rappresentano la prerogativa opposta, accolgono in ritardo le acquisizioni sperimentate nelle sonate e collaudate nelle Sinfonie5. Ai quartetti toccherà il privilegio di accompagnare l’artista fino ai suoi ultimi giorni, a queste opere resta, secondo Mila l’ultima parola, parola che porterà agli estremi limiti delle facoltà umane, lì dove l’arte si tramuta in rivelazione. La novità di contenuti delle ultime cinque sonate e la loro rivoluzione stilistica vengono superati dagli ultimi quartetti; mentre la Nona Sinfonia non aveva fatto che affacciarsi timidamente a quella soglia valicata da sonate e quartetti6. Il quartetto rappresenta l’apice della produzione cameristica di Beethoven genere che insieme alle sonate per pianoforte, favorì impegnandosi con originalità veramente mirabile. Un trattamento così personale della forma con i risultati che l’autore raggiunge, suggeriscono l’immediato accostamento al campo della sinfonia. 4

PESTELLI G., L’età di Mozart e di Beethoven, EDT. Torino, p. 240 MILA M., I quartetti di Beethoven, Giappichelli, Torino, p. 7. 6 Ivi, p. 8. 5

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La diversità di impianto, la differenza di linguaggio consentono di opporre l’un genere all’altro. Balza evidente la diversa destinazione sociale che i due generi rivestono nella coscienza artistica beethoveniana: la sinfonia intesa come esaltazione della comunità, come un messaggio rivolto alla umanità; il quartetto invece rivela una natura più intima, quasi un colloquio fra poche persone che può anche assumere l’aspetto di un soliloquio o di una confessione. Con Haydn e Mozart, il Quartetto era diventato la forma musicale più difficile ed elevata ispirate dal nuovo concetto formale della sonata, un genere che M.Mila definisce per intenditori e non per il gran pubblico. La sua composizione faceva tremare tutti i giovani compositori, considerata la prova del fuoco, il momento della verità di un compositore. Se Beethoven non si cimentò subito nella creazioni di quartetti, e se dai suoi primi tentativi derivarono altre forme, (Trio per archi op. 3 ed il Quintetto per archi op. 4) ciò non si deve attribuire ad uno stato di incertezza in cui questa forma si trovava nel periodo della sua giovinezza, ma al gravoso impegno che essa richiedeva e costituiva per un compositore, e non bisogna dimenticare la soggezione determinata dai quartetti lasciati da Mozart e Haydn. I diciassette quartetti di Beethoven, meglio delle sonate per pianoforte composte in un arco di tempo continuo dal 1795 al 1822, possono essere divisi in gruppi corrispondenti ai principali periodi dell’evoluzione artistica del compositore. L’op. 18 (sei quartetti, 1798-1800) furono il prodotto della sua giovinezza, una giovinezza dove già si intravedeva la maturità beethoveniana e dalla quale scaturirà anche la Prima Sinfonia. Seguono gli anni che vanno dal 1801 al 1808 nei quali il musicista produrrà la composizione delle Sinfonie dalla Seconda alla Sesta, del Fidelio, del Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, delle Sonate per pianoforte op. 53 ed op. 57, il Concerto per violino e orchestra, la Messa in do maggiore, la Sonata per violoncello e pianoforte op. 69, il Quinto concerto per pianoforte e orchestra, i tre quartetti op. 59 e un dell’op. 74. Nel 1810 compone l’op. 95, definita di transizione perchè guarda verso quello che poi sarà il futuro compositivo di Beethoven. Solo dopo quattordici anni Beethoven comporrà il suo dodicesimo quartetto, e la sua creazione artistica darà vita alla Settima, Ottava e Nona sinfonia, al Trio op. 97 per pianoforte, violino e violoncello, delle ultime

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sonate per pianoforte. Infine compose gli ultimi quartetti: op. 127, 130, 132 e 135 tra gli anni 1824 e 1826. I tre differenti momenti, separati da ampi intervalli di tempo, non consentono di individuare una vera e propria linea di sviluppo, come invece è possibile nei confronti delle sonate; ma è interessante notare come si è evoluta parte della produzione beethoveniana in relazione ai quartetti e come questi siano stati influenzati o abbiano influenzato lo sviluppo delle sue opere.

2. I quartetti op. 18 Opera della “maturità giovanile” di Beethoven generata verso il suo trentesimo anno di età (1797-1801). Pubblicata in due fascicoli: il primo durante l’estate 1801, nel quale sono compresi i numeri 1, 2, 3; l’altro nell’ottobre, contenente i numeri 4, 5, 6. La cronologia dei quartetti dell’op. 18 non coincide quella dell’ordine di pubblicazione. Il primo ad essere stato composto sarebbe stato il terzo; seguirebbe il primo, il secondo, il quinto e il sesto. Riguardo al quarto mancando gli abbozzi, non si può assegnare una collocazione precisa ma molti pensano che sia stato composto tra il quarto e il sesto quartetto. Difficile determinare una priorità cronologica ma non discutibile il fatto di una lenta maturazione dell’opera, dovuta, da una parte, all’ambizione di esordire con una collana di sei Quartetti, secondo la prassi settecentesca, dall’altra, il timore del giovane Beethoven di fronte al genere “dotto” e “nobile” per eccellenza. Con le composizioni di Haydn e Mozart il quartetto non era più considerato musica da intrattenimento, divenendo espressione elevata e formalmente complessa. Beethoven doveva confrontarsi con questa eredità, suo terreno formativo, ma che nello stesso tempo rappresentava limite che lo trattenne nell’affrontare subito la difficile forma del quartetto. I sei quartetti dell’op. 18 non sono molto lontani, specialmente nei primi tempi, dai modelli di Haydn e di Mozart. La limpidezza e il vigore di Haydn, la soavità di Mozart, l’eleganza ancora molto settecentesca di quei due maestri, si ritrovano in quest’opera che sono espressione di un animo ancora giovane, con qualche passo più passionale e profondo, segno del suo genio, e la malinconia, titolo che il composi-

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tore dà all’adagio che precede l’ultimo tempo del quartetto n. 6, il quale sembra preannunciare il dramma della sua malattia. In questi quartetti si evidenziano alcune ribellioni alla forma tradizionale: lo scherzo sostituito al minuetto nei quartetti 1, 2, 4 e 6, l’adagio interrotto da un allegro nel 2, alcune novità nel succedersi della tonalità e l’adagio detto malinconia, primo sentore di una intenzione drammatica che si sarebbe poi sviluppata negli ultimi quartetti. I cambiamenti compiuti suscitarono allarmismo nel mondo abituato forse un po’ troppo al rispetto delle tradizioni.

3. I quartetti «Rasumowski» Molti sono gli anni che separano l’op. 59 dai primi quartetti; nel frattempo tre delle Sinfonie erano state composte, insieme a molte opere minori che determinarono l’immortalità di Beethoven. Questi quartetti furono ritenuti da alcuni composizioni altrettanto grandi quanto quella delle sinfonie. Il quartetto, come scrive Valletta, essendo più ribelle alle innovazioni di quello che lo siano la sonata e la sinfonia, l’adozione di uno stile così nuovo di concetti, di dialogo strumentale, di sviluppo, segnò una singolare audacia da parte di Beethoven in quel tempo di quadratura così fissa che neppure Haydn e Mozart avevano creduto possibili di cambiamento7. Beethoven fu incaricato di comporre questi tre quartetti dal conte Rasumowski verso la fine del 1805. Alla fine del 1806 o al principio del 1807, essi erano completati, poichè il critico Allgemeine Zeitung potè ascoltarli in concerto il 27 febbraio. Furono pubblicati nel 1808. Caratteristica di questi quartetti è, nel Finale del primo e nel Trio dello Scherzo del secondo quartetto la presenza di due temi russi. Ciò che ci si chiede da sempre è se fu Beethoven a voler fare un omaggio al nobile committente, o fu questo a richiedere l’utilizzo dei temi suddetti. G. Biamonti si pone la questione se i quartetti op. 59 siano stati indirettamente anche in altre parti ispirati alla musica russa. Egli scrive che il Bücken, autore tedesco, dopo aver notato come caratteristica dell’opera il contrasto di alcune forme ritmiche alquanto complicate 7

VALLETTA I., I quartetti di Beethoven, Bocca, Milano, 1948, p. 40.

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ed altre molto semplici , attribuisce a queste ultime una derivazione da canti popolari russi, ancora più interessanti dei due temi sopra citati. Molte sono le ipotesi fatte: che lo stesso conte abbia dato delle indicazioni precise riguardo ai temi, che Beethoven li abbia appresi da servi o da impiegati della sua casa, o addirittura c’è chi ha trovato qualche analogia con l’episodio del castello in rovina nei Quadri di una Esposizione di Mussorgski nel secondo tempo del terzo quartetto. A differenza dell’op. 18, i tre quartetti si presentano in proporzioni più vaste, hanno tempi più ampi, ricchi, personali, una tecnica strumentale perfezionata e volta al conseguimento di maggiori effetti di carattere orchestrale. Le armonie, le forme polifoniche e ritmiche sono sempre più agili, libere e varie; l’insieme dominato da un sentimento di umanità forte e generosa che suscitò ammirazione immensa.

4. Gli ultimi quartetti Intorno il 1809 la produttività di Beethoven comincia a diminuire così il suo ritmo creativo e nel 1810 si entra in una zona di silenzio meditativo. Il compositore si chiude in se stesso maturando nuove idee, ecco perché i quartetti op. 74 e op. 95 sono considerati come “opere di transizione”. Mila spiega che Beethoven, dopo questi due quartetti, è rimasto per quattordici anni lontano da questo genere di composizione, è chiaro che essi si pongono come una specie di fase intermedia e critica, tra i quartetti “Rasumowski” e gli ultimi quartetti, ancora molto lontani. Contribuisce fortemente a sostegno di tale tesi il fatto che essi siano i primi quartetti che Beethoven non ha riunito in un unico numero di opera; incomincia a prevalere l’individualità della composizione, non più coordinabile in una raccolta di sei o tre quartetti. Questi sono anni particolari della vita del compositore. Sono gli anni in cui tramonta il sogno di una famiglia dopo la rottura del fidanzamento con una certa Teresa. Il 1809–1810 è l’anno in cui le truppe napoleoniche occupano Vienna per la seconda volta, provocando la fuga di tutti i nobili amici di Beethoven, che resta solo nella città sconvolta, barricato nella cantina del fratello. Infine, è anche l’anno in cui tre dei più nobili e ricchi protettori di Beethoven si uniscono per assicurare al compositore una sufficiente pensione che lo metta al ri-

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paro dal bisogno e gli consenta di lavorare senza preoccupazioni materiali alla sua musica8. Dell’ultimo decennio della vita di Beethoven sono la Nona Sinfonia, la Missa Solemnis, le ultime cinque Sonate per pianoforte e gli ultimi cinque quartetti. Beethoven, in queste ultime opere, non rifiuta il passato né la sua produzione precedente ma allo stesso tempo rivela un cambiamento nella tecnica compositiva, espressione del suo stile rinnovato. La principale caratteristica di una musica così personale consiste nella armonia di caratteri in apparenza contradditori, tra i quali emergono, ad un primo impatto, arcaismo e innovazione, rispettivamente espressioni della complessità della struttura e della semplicità del contenuto. M. Cooper afferma che esaminando la vita e il carattere di Beethoven in questo periodo, le aspettative createsi verso questa musica richiedono un cambiamento, un riflesso speculare dei travagli e delle apprensioni, del declino di popolarità, dell’accrescersi di solitudine e autonomia spirituale, che la sordità gli ha imposto. Tali aspettative si rafforzano e vengono confermate dall’avvio di un graduale processo di ripiegamento in se stesso e di rassegnazione9. Particolarità emersa dal confronto tra lo stile giovanile e quello della maturità è la compresenza all’interno di una stessa opera di tratti melodici, armonici, ritmici e strutturali rapportabili isolatamente a tutta la produzione che precede questo periodo. Dall’atteggiamento di Beethoven non traspare una drammatica e consapevole ricerca di originalità, una intenzionale scelta del nuovo stile. Egli stesso, infatti, aveva affermato che «ciò che è nuovo e originale viene fuori spontaneamente, senza che uno ci pensi»10. Nel momento in cui il suo impeto creativo si calma, la sua attenzione ritorna alla musica del passato. Paradossalmente egli componeva, in maniera istintiva e del tutto naturale, una musica molto più originale e portatrice di elementi rivoluzionari rispetto alle opinioni che egli stesso esprimeva. Componeva nella consapevolezza che la sua musica appartenesse già al futuro e che quest’ultima sarebbe stata compresa in 8

MILA M., I Quartetti di Beethoven, cit., p. 71-73. COOPER M., Beethoven: l’ultimo decennio, ERI, Torino, p. 465. 10 Ivi, p. 466. 9

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tutte le sue sfaccettature solo dalle generazioni posteriori. Nonostante questa consapevole presa di coscienza evitò sempre di attribuirsi il ruolo di pioniere della nuova musica. Le ultime opere, quindi, non riflettono una ricerca cosciente, intellettualmente convinta, del nuovo, ma scaturiscono da una indomabile spinta interiore, che orienta gradualmente la personalità dell’artista verso la maturità. Sarebbe riduttivo giustificare questo nuovo orientamento con la sensazione di un ripiegamento causato dall’ isolamento di un sordo, relegato forzosamente in un mondo tutto suo. Questo, secondo M. Cooper, potrebbe essere ammissibile per alcuni movimenti lenti delle ultime Sonate per pianoforte e degli ultimi Quartetti, ma non per quei movimenti ricchi di vitalità come il Finale dell’Op. 106, della Cavatina Op. 130, la grandiosa e nello stesso tempo drammatica retorica della Grosse Fuge e il carattere intimo e comunicativo dell’Op. 135. Queste opere non contengono più semplici introspezioni, ma esprimono intensamente una vita profonda e creatrice, una sensazione di superamento dei tormenti di quel suo momento di vita. Dopo l’ascolto di questi quartetti rimaniamo colpiti soprattutto dalla lucidità, dall’energia vitale derivante dal superamento dei momenti tragici presenti in ogni essere umano. Negli ultimi quartetti è più evidente il carattere contrappuntistico. Dovendo definire la bellezza di un buon contrappunto, potremmo affermare che questa consiste esattamente nella rigorosa disciplina a cui il compositore si sottopone, la quale non prevede alcun elemento fortuito o superfluo e riporta ogni unità minima della composizione in un tutto organico. Dall’incontro tra un compositore, dotato di una dirompente originalità, come Beethoven, e questa severa disciplina, alla quale si sottometterà completamente l’impulso creativo, scaturiranno opere contraddistinte da una determinata unità strutturale, una densità di concentrazione e un peso specifico, così come lo definisce M. Cooper, non ottenibile attraverso altri mezzi. Linee frastagliate e spigolose, aspri ritardi, violenti contrasti di altezza, accavallamento di ritmi e melodie diverse dimostrano la lotta di Beethoven contro la sua impulsività, fino alla conquista di una assoluta padronanza, che rende la fuga un efficace mezzo espressivo, che si afferma proprio nelle sue fughe, anche le più distese e fluide, come quella del Quartetto op. 131, la nota

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personale non viene mai tralasciata: il dramma interiore, sempre latente, si mette a nudo nei punti nodali del disegno contrappuntistico11. In conclusione, queste ultime opere si basano sul principio dell’unità nella diversità, che assume la sua espressione più drammatica proprio attraverso la fuga e l’alternanza di una scrittura contrappuntistica rigorosa con una imitativa più libera. Il costante interesse di Beethoven nel trattare il suono in una delle forme più pure si evince addirittura da uno dei suoi passatempi preferiti: scrivere canoni, buttati giù per caso in momenti di effusione, irritazione o di conviviale buon umore. Da qui emerge un’acuta percezione dei nessi segreti tra i suoni e la conseguente precisione ed economia di linguaggio, accompagnata da uno stile coinciso. Si tende, quindi, alla soppressione di tutto ciò che appare superfluo; atteggiamento che porta a dare per scontati tutti i passi intermedi del discorso musicale, rendendo certe scelte apparentemente arbitrarie e allontanando per un lungo periodo dal generale gradimento molte opere degne di nota, come i quartetti per archi. Secondo M. Cooper, negli ultimi lavori beethoveniani traspare una notevole riduzione dell’enfasi retorica e nello stesso tempo si manifesta una forte spinta interiore che, lasciando impallidire l’influenza di avvenimenti strettamente personali, cerca di raggiungere un mondo ideale. Come affermava Schindler, queste opere richiedono una eccezionale partecipazione sia da parte dell’esecutore che dell’ascoltatore: possono infatti essere comprese e apprezzate in tutta la loro bellezza solo da chi possiede una personalità umana straordinariamente profonda e matura, come quella dalla quale sono scaturite. È possibile analizzarne la struttura, dimostrare l’abilità e la originalità di Beethoven, ma nessuno riuscirà mai a trasferire verbalmente l’irresistibile senso di gioia che questa musica comunica, la pienezza dell’essere e il nutrimento di tutte le aspirazioni individuali. Tutti hanno sempre cercato di condividere l’esperienza beethoveniana maneggiando parole, che si sono sempre rivelate degli strumenti non idonei a svelare un messaggio così profondo e segreto. Certo l’analisi ci aiuterà a comprendere la costruzione di una opera, i mezzi attraverso i quali si ottengono determinati effetti, ma la essenza della musica, intesa come 11

COOPER M., Beethoven …, cit., pp. 468-469.

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arte non concettuale, continuerà a sfuggirci interamente12. Gli ultimi cinque quartetti, ai quali si può aggiungere la Grande Fuga op. 133, sono stati incompresi, considerati «un deludente risultato della vecchiaia e della sordità di Beethoven»; recentemente musicologi e musicisti che hanno sempre avuto un «approccio problematico sia con l’interprete che con l’ascoltatore» considerano questi quartetti di un valore inestimabile. Lo stesso principe Galitzine, dopo aver ricevuto i tre quartetti da lui commissionati nel 1823 (op. 127, 131, 132), rimase sbalordito davanti alle «novità inaudite di cui erano portatori, dalle quali scaturiva una notevole difficoltà di comprensione» ed anche i virtuosi e i dilettanti di Pietroburgo, i quali in verità si aspettavano una musica nel genere e nello stile dei primi Quartetti. Galitzine, ansioso di un parere, inviò a Balliot una copia del Quartetto in mi bemolle maggiore op. 127. Il grande virtuoso del violino, a differenza degli altri, riuscì a comprendere il significato profondo di questo lavoro e scrisse: «Beethoven vi introduce in un nuovo mondo: attraversate regioni selvagge, sfiorate precipizi, la notte vi sorprende; poi vi risvegliate e siete trasportati in luoghi deliziosi, un paradiso terrestre vi circonda, il sole splende radioso per farvi contemplare le magnificenze della natura». La risposta di Galitzine ci permette una chiave di lettura profonda degli ultimi lavori beethoveniani: «Niente di più esatto che queste metafore; le oscurità sparse qua e là nelle ultime composizioni di Beethoven non servono che a far meglio spiccare le celesti armonie che sorgono d’improvviso come dal caos». Nel 1805 Beethoven terminò l’Eroica, egli, ormai, non aveva più rivali nel mondo della musica strumentale. Nel 1801, come compositore di musiche per strumenti a tastiera era già considerato superiore ad Haydn, campo nel quale i suoi unici rivali erano Mozart e Clementi. La fama di Beethoven era ormai internazionale sin dal primo decennio dell’800 e la triade Haydn, Mozart e Beethoven era considerata come la triade suprema della musica di tutti i tempi. Non bisogna pensare che il prestigio derivi da frequenti esecuzioni; intorno al 1820 Beethoven godeva di una fama incontestata, ma a Vienna la sua musica non era eseguita molto spesso. “Più importanti della frequenza di esecuzione, se si vuole capire come un compositore fosse valutato dai 12

COOPER M., Beethoven…, cit., pp. 469-487.

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contemporanei, sono l’ambiente in cui le sue musiche venivano eseguite, il genere di pubblico e i programmi13. Nel 1810 il compositore Reichardt, noto critico e direttore del più influente periodico musicale d’Europa, il Musikalische Kunstmagazin, recandosi a Vienna scrisse un resoconto del suo viaggio. Ascoltò «i bellissimi concerti di quartetto di Herr Kraft e Herr Schuppanzigh (il violinista ufficiale di Beethoven) […] così questi concerti mi hanno nuovamente offerto il grande vantaggio di poter conoscere compiutamente e a fondo le nuove più recenti opere di tale forma di Haydn, Mozart e Beethoven…ora grazie al quartetto da poco fondato, spero di avere la gioia di riascoltare opere sempre amatissime […]»14. Schuppanzigh, nei concerti per abbonamento, presentava sempre quartetti di Haydn, Mozart e Beethoven; ma in due circostanze venne eseguito un quartetto del violoncellista Bernhard Romberg, il quale dopo aver suonato il quartetto op. 59 n. 1 di Beethoven, fu «talmente inorridito da quella musica che aveva strappato la sua parte dal leggio, l’aveva scaraventata in terra e l’aveva calpestata»15. Rosen analizzando lo scritto di Reichardt evidenzia diversi punti degni di nota. Il primo è che il quartetto per archi non era un genere destinato a dilettanti ma veniva eseguito in pubblico, durante i concerti di abbonamenti. Rosen, inoltre, ritiene significativo che i quartetti di Beethoven fossero quasi sempre presentati insieme a quelli di Haydn e Mozart, come se si volesse consolidare e rendere omaggio alla tradizione in cui essi si inserivano, sottolineando con ciò l’ammissione di Beethoven nel pantheon compositivo del romanticismo tedesco. Il critico Reichardt scrive delle «nuove e più recenti opere di Haydn, Mozart e Beethoven, di cui mi è sfuggita tanta parte […]». Nel 1810 Haydn non componeva più quartetti completi da circa dieci anni e Mozart era morto da ormai vent’anni, nonostante tutto Reichardt utilizza l’espressione “nuove e più recenti” riferendosi non solo alle composizioni di Beethoven. Probabilmente perchè a Berlino, dove risiedeva Reichardt, la vita musicale era meno intensa che a Vienna e quindi non fosse facile ascoltare i quartetti dei tre compositori. Le opere di un compositore, secondo C. Rosen, non entrano a far 13

ROSEN C., Il pensiero della musica, Garzanti, Milano, pp. 50-51. Ivi, p. 51. 15 Ivi, p. 51. 14

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parte “nel cerchio degli immortali” per decisione della posterità, o quanto meno di una posterità lontana come potremmo pensare; egli ribadisce che la immortalità non dipenda dalla frequenza con cui le loro composizioni vengono eseguite in pubblico in tutti i centri musicali di qualche importanza ma il prestigio di appartenere al cerchio divino è assicurato ad alcune opere nuove e alla loro capacità di imporsi in una consolidata tradizione musicale. Affermare che fu Beethoven stesso, e non la posterità, a decidere che egli rappresentava il punto culminante della tradizione classica potrebbe sembrare azzardato. Probabilmente il destino si alleò con Beethoven facendo in modo che la conclusione fosse questa e solo questa. Il suo prestigio fu dovuto all’influenza di una èlite culturale, che egli cercò di accattivarsi per assicurare il successo della sua reputazione. Il mezzo era basato sulla produzione di opere che stupivano e scandalizzavano più di quanto non piacessero. Secondo Rosen, Mozart e Haydn avevano ottenuto la consacrazione ancora viventi, e il loro successo era dipeso in parte nel superare le resistenze dei dilettanti e degli esperti, resistenze che essi, avevano contribuito tanto a suscitare quanto a vincere. Quando il conte Waldstein, protettore di Beethoven, mandò nel 1792 il giovane compositore da Bonn a Vienna con le parole «Voi riceverete lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn» (Mozart era morto da poco), il disegno stava già prendendo forma. Alla posterità rimaneva ben poco da dire, essa avrebbe potuto negare il proprio assenso, ma ciò avrebbe significato soprattutto respingere le tradizioni musicali di Vienna e dell’ intera Europa16. Altra testimonianza sulla reputazione di Beethoven nel 1812 ci perviene dalla corrispondenza fra Goethe e un amico, il compositore Karl Friedrich Zelter. Il 2 settembre Goethe scrive da Karlsband: «[…] Ho conosciuto Beethoven a Töpliz. Il suo talento mi ha riempito di stupore; ma purtroppo si tratta di una personalità assolutamente selvatica, che non a torto giudica il mondo detestabile, ma che in tal modo non lo rende certo più piacevole né per sé né per gli altri. D’atra parte è ampiamente scusabile e molto da compatire, visto che l’udito lo abbandona, il che nuoce forse meno alla parte musicale della sua 16

ROSEN C., Il pensiero della musica, cit., p. 54.

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estinta che a quella sociale. La sua natura comunque laconica lo sarà ora doppiamente, con questo difetto […]». Zelter rispose il 14 settembre: «Ciò che lei dice di Bethofen è certamente vero. Anch’io lo ammiro con terrore. Le sue stesse opere sembrano causargli una angoscia segreta, sensazione che nella nuova cultura viene rimossa con troppa leggerezza. Le sue opere mi danno l’impressione di bambini che hanno per padre una donna e per madre un uomo. L’ultima che ho avuto modo di conoscere (Cristo sul Monte degli Ulivi) mi sembra qualcosa di indecente, il cui fondamento e scopo è una morte eterna. I critici musicali che sembrano saperla più lunga su tutto meno su naturalezza e peculiarità, hanno riservato su questo compositore lodi e biasimi nel più strano dei modi. Io conosco intenditori di musica che ascoltando le sue opere si erano allarmati e addirittura indignati, e adesso sono colti dall’entusiasmo al pari dei seguaci dell’amore greco»17. Questa testimonianza dà una visione molto chiara di cosa significasse venire a contatto con la musica di Beethoven quando egli era ancora in vita. «Questo miscuglio di intuito, incomprensione, ignoranza, scandalo e incantamento, è forse il maggiore omaggio che sia stato reso alla musica. Il fatto di vedere in Beethoven una specie di pervertito sessuale appare sbalorditivo. Ammesso che sia possibile capire che cosa significasse questa musica per chi l’ascoltava per la prima volta, occorre tener conto della repulsione iniziale così esplicitamente espressa da Zelter»18. Probabilmente, o quasi sicuramente oggi noi comprendiamo Beethoven meglio dei suoi contemporanei e della generazione successiva al suo tempo. Dal 1812 a oggi il primato di Beethoven non è mai stata messo in discussione, il risentimento e la repulsione suscitati in un primo momento da tale dominio indiscusso non scomparvero mai del tutto, riaffiorando in compositori come Chopin, Stravinskij e Debussy, il quale durante l’esecuzione di una sinfonia di Beethoven dichiarò «Ora che comincia lo sviluppo posso andarmi a fumare una sigaretta»19. Secon17

Ivi, p. 55. ROSEN C., Il pensiero della musica, Garzanti , Milano, pp. 55-56. 19 Ivi, p. 56. Diamo di seguito alcune indicazioni bibliografiche: AA. VV.,Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti, coordinato da A. BASSO, Torino, UTET, 1999. CARLI BALLOLA G., Beethoven, Milano, Bompiani, 2001; VALLETTA I., I quartetti di Beethoven, Mi18

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do Rosen nessun compositore tedesco delle generazioni successive a Beethoven si è mai permesso di affermare nulla di simile, probabilmente per una inconscia inibizione dovuta a ragioni culturali e nazionalistiche se si vuole però comprendere a fondo quale sia il prezzo dell’immortalità occorre tener conto anche di quest’aspetto della vicenda. In genere tutti i grandi, come si è visto anche per Mozart, al momento della loro vita hanno suscitato sdegni e repulsioni perché, per la loro profondità di sentire il mistero della vita, sono apparsi innovativi e come tali poco accettabili dal senso comune.

lano, Bocca, 1948; KERMAN J., TYSON A., Beethoven, The New Grove, Roma, Ricordi/Giunti, 1986; KERMAN J., The Beethoven Quartets, New York, Alfred A. Knopf, 1967; COSSO L., FAVA E., PESTELLI G., RIZZATI A., Beethoven, La musica da camera, Torino, Unione Musicale, 1995; COOPER M., Beethoven. L’ultimo decennio 1817-1827, Torino, ERI, 1979; MILA M., Beethoven: I Quartetti Galitzine e la Grande Fuga, Torino, Giappichelli,1969; MILA M., I quartetti di Beethoven, Torino, Giappichelli, 1969; PRINCIPE Q., I quartetti per archi di Beethoven, Milano, Anabasi, 1993; WINTER R., MARTIN R., The Beethoven Quartets Companion, Los Angeles, University of California Press, 1996; The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, Edited by S. SADIE, Macmillan, 2000; RIEZLER W., Beethoven, Milano, Rusconi, 1979.

11. DALLA SCAPIGLIATURA AL FUTURISMO

1. Dissidi e aspirazioni. L’attività di Vittorio Pica e Francesco de Matteo nella Napoli della fine del XIX secolo Il dissidio irrisolto tra i residui del passato e le aspirazioni al nuovo, causa del ritardare di una poetica decadente vera ed autoctona, agisce in Italia anche a livello critico. Mentre in Francia la Revue Wagnerienne e Le decadent agiscono da catalizzatori e propulsori delle nuove scelte poetiche, da noi la nozione stessa di Decadentismo rimane ostica alla comprensione e poco chiara nelle stesse premesse teoretico/produttive. Soltanto la critica postcrociana ne riconoscerà la autonomia storica superando pregiudizi di carattere estetico e moralistico che accompagnano costantemente, nell’ultimo quindicennio del secolo, ogni nuovo proporsi artistico e critico. Tale divulgazione avviene sempre sotto il segno dell’estraneità del fenomeno decadente alla nostra tradizione romantica e dell’incompatibilità degli strumenti critici alla comprensione di quanto va proponendosi. Il concetto della funzione morale e sociale dell’arte, che la letteratura postunitaria aveva ereditato dal Romanticismo, non può che opporsi all’autonomia della arte espressa dal Decadentismo. Lo stesso non può non accadere tra fiducia nella razionalità del linguaggio (e possibilità di comunicazione a tutti i livelli) e poetica dell’ineffabile, che conduce, per forza di cose, ad una poesia intesa come rito iniziatico e scandaglio conoscitivo riservato a pochi eletti fruitori. Di fronte alle vaghe intuizioni di novità presentate dal Decadentismo, si oppone la tendenza a negarne gli effetti ed i valori sostanziali, si concedono crediti ad alcuni risultati poetici, ma non si fanno sconti sulle poetiche, in un misto d’attrazione e diffidenza, desiderio e repul-

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sione che producono risultati del tutto contraddittori, dai giudizi restrittivi o negativi alla polemica sul gusto e sul senso stesso della espressione poetica nel suo complesso. Si accettano, per finire, solo quelle forme del gusto che possono essere riconducibili alla nostra tradizione letteraria (il nitore dei parnassiani, la musicalità di Verlaine, in neostilnovismo del preraffaelliti), ma per il resto, la riserva su piano del giudizio critico è costante ed è riassunta nelle accuse d’immoralità ed oscurità. Nella prima, un marchio per i poeti decadenti, il moralismo che aveva viziato tanta parte della critica romantica nostrana, emerge sotto le forme di una pruderie borghese che già aveva avuto modo di esercitarsi sulle avanguardie postromantiche1. Oltre l’immoralità, l’accusa più ricorrente, abbiamo detto, era di oscurità e mirata soprattutto all’attività simbolista. Persino Vittorio Pica, mente tra le più lucide del tempo e tra i meno abbagliati dal falso scandalo borghese, richiama la poetica simbolista alla chiarezza di stimoli, intenti ed espressione, sia per aderenza all’estetica nazionale (impregnata di classicismo e razionalismo) che per asservimento alla morale, intesa come funzione educatrice e formativa dell’arte e condizione necessaria per la sua comprensione. E Panzacchi – acceso wagneriano e propugnatore della musica del tedesco in Italia – per quanto possibile rincara la dose, parlando addirittura di «rosolia letteraria», reazione strema al carattere d’esclusività oggettività imposta dai canoni naturalistici. Per il nostro, le idee letterarie proposte forse sono giuste all’origine, ma non nella loro collocazione finale, anzi: si sono corrotte e «rese informi e deformi dalla demenza nell’applicarle». Richiamandosi alla definizione d’arte aristocratica che proprio Pica propugnava ed ad una fedeltà indiscutibile alle «note fondamentali di verità e di bellezza», aggiunge: «qui non è questione né di aristocrazia né di democrazia; è questione di umanesimo schietto, naturale, univer1

Ne sanno qualcosa i poeti veristi come Stecchetti (Postuma) e Carducci (Intermezzo); anzi, proprio quest’ultimo, fu al centro di una vivace polemica con De Zerbi sul presunto paganesimo dei carducciani che sfociò sulle pagine del Fanfulla della domenica. Per tacere della querelle sul «poeta porco» che investì D’Annunzio e che fu un memorabile scontro tra critica postromantica e nuove istanze produttive. Si arrivò addirittura ad invocare l’intervento del Procuratore Reale, facendone una questione di moralità pubblica poiché si danneggiava irrimediabilmente lo spirito e l’avvenire della patria.

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sale, al quale chi resiste è punito, presto o tardi, con la mediocrità o peggio».2 Vittorio Pica (Napoli, 1866–1930), contemporaneo di Croce e primo recensore della sua Critica Letteraria, è una delle personalità più in vista ed anche uno dei più lungimiranti all’interno delle vicissitudini della critica italiana del Novecento. Positivista di formazione, si colloca in quella piccolissima intercapedine che nella genealogia della critica napoletana divide la scuola del De Sanctis da quella dello stesso Croce. Direttore e fondatore di molteplici riviste, critico di vaglia, traduttore accorto e preciso di Verlaine, esperto di Sibaritismo e Giapponismo, egli è una delle figure più interessanti dell’intero panorama culturale napoletano – tra Otto e Novecento ricco di fermenti che toccano diversi fronti – al pari di Di Giacomo, Schipa, Spinazzola e Croce stesso3. Audace difensore della modernità contro ogni accademismo, tra i primi in Italia a tradurre, pubblicare e recensire i Simbolisti d’Oltralpe – di cui registrò, ad un tempo, non solo la forte valenza estetica, ma anche la validità del fulcro poetico da essi rappresentata – fu anche divulgatore dei principi estetici che dominavano le nuove istanze artistiche allora manifestatesi, facendosi portatore di una personale teoria estetica che, però – e qui risiede il punctum dolens del suo pensiero estetico – incentrava tutta la propria funzionalità esclusivamente sulla attività di fruizione, dimenticandone la condizione produttiva. In questa specifica sede risiede il limite critico/estetico della sua riflessione: aver prestato troppa attenzione alla questione artistica nel solo ed esclusivo fenomeno fruizionale, senza vincolare il problema anche all’aspetto produttivo, altrettanto centrale e – nell’ottica delle poetiche 2 PANZACCHI A., I decadenti, in «Lettere e arti», 9 febbraio 1889. Ciò che i critici sottolineano, in un unisono fuori tempo, è la degenerazione, nel senso di Entartung (1892–93) di M. S. SÜDFELD (Max Nordau), testo in cui, in un intrecciarsi di teorie lombrosiane nietzscheane, alle forme ed alle manifestazioni patologiche dell’arte e della cultura, il filosofo contrapponeva l’uomo sano, sordo ai richiami di quelle forme degenerate ed attratto esclusivamente dal bello e dall’esteticamente accettabile. L’idea, totalmente sconfessata da Lombroso, rimase però nell’immaginario dei critici italiani e fissò lo scandalistico interesse borghese più sulla vita sregolata di quei poeti che non sul rigore, novità e coerenza della loro ricerca linguistica e poetica. 3 D’ANTUONO N., Vittorio Pica. Un visionario tra Napoli e l’Europa, Carocci, Roma, 2002.

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della arte nuova che si vanno sviluppando proprio in Italia nel primo decennio del secolo XX – foriero di nuove tendenze e linguaggi4. Per Vittorio Pica il problema dell’arte e della sua necessità estetica risiede soltanto nella capacità di determinare l’attendibilità valoriale dell’opera, nell’ottica del suo rapporto/confronto con il fruitore (eventuale) e non anche (o solo) con il suo produttore. L’attenzione per il Sibaritismo o per il Giapponismo sottolineano questa particolare visione per cui l’atteggiamento formale è più vero ed attuale dell’aspetto costruttivo. In questo modo vale molto di più la concentrazione dei molteplici aspetti eidetici che non quella significante del messaggio e della struttura. Il medesimo «bello stile» è considerato primario rispetto alla necessità della produzione, con questo dimostrando che a Napoli il senso estetico derivante da un bello inteso come monade automostrantesi soltanto al momento dello svelamento/fruizione non era ancora stato cancellato dai paludamenti della sintesi neoidealista crociana. Pica in questa sua concezione estetica non è solo: ammantati di una tardo romanticismo bohèmienne, altri autori guardano all’Europa per comprenderne senso della modernità, linguaggio, stile ed assolutizzazione delle forme nelle medesime strutture che il nostro usa per la propria ricerca. Parliamo di De Matteo (musicista/poeta, originario di Capitanata e napoletano di adozione e studi e dei musicisti/letterati della scuola strumentale napoletana (Martucci, Pick–Mangiagalli, Giordano, Cilea) intenti a guardare a Brahms, Debussy e soprattutto Wagner, piuttosto che Verdi, Puccini o Mascagni5.

4 FANTASIA R., Alle origini del Novecento. Poetiche e idee della poesia in Pascoli e D’Annunzio, Garigliano, Cassino, 2002. 5 Tutti questi autori – che vanno anch’essi ad occupare quella posizione mediana che li colloca, come formazione, nell’Ottocento e come scelte poietiche nel Novecento – grazie ai loro interessi dimostrano un sentire europeo, obiettivamente in contrasto con la cultura dell’Italia coeva, manzoniana per formazione, risorgimentale e sciovinista per ideali, borghese «dalle sieste lunghe», culturalmente incapace di pensarsi e pensare la Cultura e lo Stato come moderni ed in continuo progresso. Questi autori sono non completamente ottocenteschi – se non per formazione culturale, poiché rifiutano ogni compromesso con la propria epoca che non porti al nuovo – e nemmeno sono completamente Novecenteschi, per la difficoltà a discernere il vero nuovo dalle imitazioni del vecchio, per l’inconsapevolezza di dominare materia nuova con modalità diverse e per l’incapacità di essere davvero Avanguardia agguerrita e determinata nel portare avanti le proprie convinzioni poietiche.

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La personalità di Vittorio Pica, non soltanto serve meglio illustrare il sinolo teoretico derivante sia dalla posizione espressa da Nietzsche che dalle singole e personali elaborazioni, ma anche, getta più di uno sguardo su tutte queste stesse problematiche; fornisce un quadro dettagliato del personaggio in sé e delle premesse critiche anteposte al suo lavoro; ne illustra la reale attuazione, anche descrivendo quei motivi di “attrito” teorico che si registrano nel rapporto con Croce e dal pensiero del filosofo neoidealista lo separano. Croce e Pica comunque, pur facendo parte dello stesso gruppo (i cosiddetti Novi Musi), autonomamente e coscientemente scelsero percorsi operativi diversi in cui, all’opposto dell’Estetica, nel caso di Croce, il secondo scelse la pura critica, prima immergendosi nel Naturalismo e poi passando, dapprima allo scetticismo gnoseologico (mai scevro dal substrato positivista) e poi, su queste stesse basi, alla difesa del Decadentismo tout–court. In questo modo, Pica teorizzò una aristocrazia dell’arte che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto salvaguardarla dalla mercificazione e degradazione valoriale. Per questo compie una sorta di catalogo (da Verlaine e Mallarmé a Huysmans) a cui comunque rimprovera di rinchiudersi in «subiettismo feroce e disdegnoso» che li spinge ad «odiare tutto ciò che è moderno»6. Questa visione lo portò anche ad annullare ogni tensione verso il provincialismo, sia linguistico e letterario, per recuperare quella dimensione di modernità che considerava una forma di tramite tra l’opera ed il suo (eventuale) fruitore. Come in un mosaico, Pica analizza i frammenti (alla maniera di Mallarmé e Baudelaire) e li trasforma in un’opera d’arte da visualizzare – e Sbarbaro farà lo stesso di lì a poco7 – in percorsi che ad un primo livello di lettura, sembrano essere soltanto critici e che invece, ad una più attenta e rigorosa lettura, risultano essi stessi pezzi d’arte, dotati di un loro individuale valore estetico e quindi degni di figurare da soli nell’ambito della vitalità artistica. Si guardi ad esempio alle recensioni che iniziano e terminano sempre nello stesso modo e con le stesse modalità descrittive, solitamente tratte da ciò che il suo sguardo 6

PICA V., Sibaritismo, naturalismo, giapponismo, a cura di N. D’ANTUONO, Napoli, ESI, 1995. 7 PATARINI S., Dal frammento alla prosa d’arte, Bologna, Il Mulino, 1989.

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incontra – spesso immagini di bellezza naturale o geografica – colte in quel solo attimo in cui vengono viste (oserei dire, quasi fissate come in fotografia) e descritte come in quelle cartoline Belle Èpoque che rimandano un bello borghese, affine al gusto ed al senso di fruitori svogliati e tanto poco avvezzi all’arte quanto tanto interessati ad averne una visione immediata e contemporaneamente completa e definitiva8. Un percorso questo, che non è poi così antitetico a quello crociano e che, con i dovuti accorgimenti metodologici, può essere terreno fertile per nuovi indirizzi di ricerca, storica, critica e letteraria sul pensiero di un autore che in vita fu al centro di un vasto panorama di interessi ed indirizzi, coltivati con la passione del critico e del letterato e per questo apprezzato da molti, non ultimi proprio Croce e Montale9. Come il panorama poetico è dominato dal dualismo esistente tra la irrisolta modernità ed il regnante tardo romanticismo, così quello musicale napoletano della fine dell’Ottocento è indubbiamente ancora dominato dai modi del teatro lirico imposto da Verdi, Donizzetti, Rossini e Bellini prima e da quello verista di Ma scagni dopo; è anche vero però che la complessa vicenda musicale napoletana, vive sviluppi storici ed estetici ben più ampi in cui è possibile individuare diverse componenti, tutte interagenti l’una all’altra e nello stesso tempo rigidamente divise tra loro. Oltre al teatro lirico – che nel secolo precedente aveva raggiunto ottimi livelli d’interazione tra genere popolare e colto e teatro musicale dialettale – ed alla stessa musica popolare, infatti, si sviluppano altre forme e generi che, pur rimanendo in àmbito colto, almeno per costruzione e struttura della composizione, non disdegnano di rivolgersi al popolare nei termini dell’immediatezza della ricezione, della conduzione armonica e melodica. È il caso soprattutto della romanza per canto e pianoforte, con le sue melodie tanto più facilmente identificabili quanto più ascoltabili e memorizzabili risultano essere i suoi temi; in controtendenza quindi con i progressi musicali wagneriani e brahmsiani, ma in perfetta sintonia con le scelte della sua antenata diretta: la seicentesca cantata da camera per voce e basso continuo che a Na8

PICA V., Letteratura d’eccezione, a cura di E. CITRO, Genova, Costa & Nolan, 1987. MONTALE E., Intenzioni (intervista immaginaria), in «La Rassegna d’Italia», I, 1, gennaio 1946, pp. 84–89. 9

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poli fu per due secoli la fortuna di tanti autori, da Scarlatti, a Porpora, Paisiello e poi, sempre più cristallizzata in forme e strutture, fino a Tosti. Un discorso a parte, invece, merita la musica strumentale perché musicisti di vaglia come Pick–Mangiagalli, Cilea, Martucci, preferirono guardare piuttosto alla Europa che non all’Italia, senza perciò farsi sommergere dalla marea montante del manierismo lirico del Verismo musicale che aveva ormai mischiato i caratteri più esteriori del bohèmienne poetico–letterario nostrano alle caratteristiche principali della indagine verghiana. In questo panorama va ad inserirsi anche la produzione musicale e poetica di Francesco De Matteo, talento sconosciuto al vasto pubblico, ma non certo agli addetti ai lavori, visti gli attestati di stima a lui tributati in vita ed in memoria, tra i tanti eminenti personaggi, da Verdi (di cui fu per qualche tempo allievo), Mascagni (che si premurò di convincere il padre a fargli intraprendere la carriera musicale) e Massenet (che dedicò a De Matteo la Saffo). Deceduto a soli 22 anni, nel pieno di una maturazione artistica, De Matteo è certamente la migliore espressione di quel mondo culturale napoletano che ha guardato all’Europa e nello stesso tempo ha saputo mantenere viva la plurisecolare tradizione belcantistica nazionale, anzi, imprimendovi nuova e vivificante linfa. Della sua produzione rimangono partiture che denotano conoscenza e capacità di manipolazione della materia musicale perfettamente in linea con i dettami della scuola partenopea. A questo però, va aggiunto, a nostro parere, un fattore che lo inserisce – se proprio dobbiamo codificare in categorie cronologiche l’appartenenza stilistica del Nostro – a pieno titolo in quella fase del dramma lirico che, «a metà del guado», trova interessante sia le polemiche mosse dalla Scapigliatura al teatro verdiano (la polemica Verdi – Boito), sia le nuove istanze suggerite dal teatro musicale di ascendenza verista, sia le tecniche e le idee wagneriane sull’opera totale, guarda caso, proprio recepite anche per un modello d’artista e di vita d’artista che con Wagner stesso si era affermato in Europa ed ora, molto si avvicinava all’ideale bohèmienne del Secondo Romanticismo italico. Di fianco ad orchestrazioni standardizzate e melodie improntate ad una commistione di generi melodici e cromatici insieme, De Matteo pone anche la stesura dei

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propri testi e libretti d’opera, caso questo veramente unico nell’Italia del tempo. Non a caso, su dieci componimenti – tra scene liriche e veri e propri drammi in musica e per musica – documentati e depositati alla Pro Loco del suo paese natale, ben otto, scritti in poco più di nove anni, sono di sua mano e solo due appartengono ad altri10 e di molti altri egli aveva già curato la trasposizione dallo spartito alla partitura d’orchestra, indice questo, di sicura esecuzione o vendita. La vicinanza agli ambienti letterari scapigliati possono essere facilmente rintracciate, similmente alla condivisione delle idee espresse da Arrigo Boito sul melodramma, soprattutto nell’analisi – comparata ed individuale – dei testi poetici e delle loro risultante espressive. Ricchi di malinconia e corredati di una ricerca linguistica che ondeggia tra la musicalità ed il dolore, essi sono spesso veri e propri cammei, sia nell’aspetto musicale che in quello poetico, tanto da non poter, in alcuni, fare a meno di cantare la parte melodica, sicuri che, pur senza conoscere il brano, pure, le note verranno spontaneamente. Per determinare più facilmente ciò che andiamo affermando, per stile e contenuti, basterebbe volgere l’attenzione solo ai titoli di ogni brano o composizione – Dolore, Rimpianto, Ultima canzone, Spasimo, Intermezzo, Demente, Ultimo sogno – per determinare tutte le diverse connotazioni estetiche e poietiche che concorrono all’affermazione di uno stato d’animo unico, sospeso tra la maniera romantica e le modalità ed affezioni caratteristiche di un Decadentismo ancora in nuce. Cinicamente, la stessa morte, interviene con modalità davvero bohèmienne e nel senso pucciniano del termine11. Tornando alla sua produzione perciò, proprio questa dimensione di finitezza assoluta e d’immortalità congenita ben traspare soprattutto da uno degli ultimi brani da lui composti, quell’Ultima canzone che in 10

Preludio di Frate Angelico ed il ben più importante Marco, vero e proprio dramma lirico scritto dal Falzone. Su quest’ultima composizione, è bene sottolineare che, se la morte non avesse colto così prematuramente De Matteo, quest’opera sarebbe stata rappresentata al teatro Imperia di Vienna. 11 Ammalatosi di tubercolosi, morendo in un sanatorio svizzero, non ha fatto altro che santificare artisticamente la propria vita, trasformandola in prototipo dell’ideale tardo romantico dell’auctor che trova linfa vitale solo nella propria geniale produzione e che per quella si macera, si consuma nel tempo alla ricerca di un’ostinata quanto inarrivabile perfezione che renderà la sua produzione immortale, con ciò dimenticando che soltanto questa lo sarà in saecula e non chi l’ha prodotta.

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calce al titolo porta apposto la seguente dicitura: «Napoli, 10 aprile 1896». Scritta quindi tre anni prima di morire, essa rispetta in pieno sia le caratteristiche formali tipiche della romanza per canto e pianoforte, ma anche fa proprie tutte quelle novità tecniche che avevano già caratterizzato in meglio il panorama musicale europeo. Penso qui ad esempio, a quello stacco tonale maggiore/minore che contraddistingue la frattura tra prima e seconda sezione e presente anche sotto forma di cesura nel testo poetico. Esso conduce ad una netta differenziazione stilistica e tematica e soltanto un espediente del genere, in quanto tranciante radicalmente ogni legame con ciò che precede, può dotare di nuovo senso la successiva sezione, rendendola così altrettanto importante quanto la precedente, quasi fosse un nuovo ed ulteriore sviluppo il quale – invece che ricondurre ad una facile e scontata ripresa – porta alla radicale ed estrema chiusa finale, sottolineata dai continui cambiamenti di armonia e poggiante, nell’ultimo accordo, su di una cadenza plagale (IV–I) che maggiormente sottolinea il tono di malinconia e solitudine (peraltro) già enunciato nel titolo stesso. Lo stile del testo e la conduzione della parte musicale appartengono alla migliore tradizione librettistica del secondo Ottocento, nel pieno rispetto di quei canoni estetici dettati da Arrigo Boito e fatti propri da personaggi quali Illica, Piave ed altri. Anche qui, naturalmente, è presente quell’aria da manierismo scapigliato che fa da aggancio culturale all’ambiente napoletano del tempo. Da qui però, tutta un’altra serie di trasformazioni si dipanano in un intreccio di topoi nazional–popolari che valgono il ricordo ed il rimpianto del vecchio mondo bellinano e verdiano, mai del tutto abbandonati e sopiti, ed a cui la patina di perbenismo poetico e musica pacificatrice hanno donato nuovo suadente lustro. Ciò capita soprattutto quando, ai valori e stilemi della recitazione drammatica, si sostituiscono i suoi semplici meccanismi (melodia, accompagnamento accattivante e discreto quantunque ricco e variegato armonicamente, situazioni contenutistiche strappalacrime). Va detto quindi, che le alchimie notazionali del nostro, se rimangono fedeli al gusto del tempo per certe soluzioni tecniche e compositive, è anche vero che egli supera da solo le impotenze scapigliate ricorrendo a suggestioni arcaicizzanti ed a formule ed ascendenze francesi che ancorano saldamente la sua produzione, sì alla cultura europea, ma senza tra-

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dire alcun aspetto di quel culturalismo nazionale postrisorgimentale che non rifiutava le contaminazioni, anzi: le sommava piacevolmente alle voglie estetizzanti ed alle retoriche del sentimentalismo in un sinolo che prima di tutto è anche testimonianza storica, oltre che prova artistica di grande effetto e valore. Per essere totale, il valore dell’opera d’arte deve essere continuamente discusso dal pubblico e l’autore non può arrogarsi il diritto di definire il giudizio insindacabile: morirebbe la critica ed anche il principio di classico. Per questo l’opera, soprattutto la composizione musicale collegata ad un testo, deve sempre mantenere immutate nel tempo sia la sua capacità di dire, sia la sua capacità di stupire e sorprendere l’ascoltatore al fine di meglio comprendere. Non a caso la musica contemporanea è tornata all’antica dualità tra poiein e techne: il fatto artistico è qualcosa che nasconde «ciò–che–sta–sotto» e che a noi, attraverso la comprensione, si disvela completamente permettendoci quel «vedere–di–vedere» che è l’unica vera comprensione. Tutto questo, nell’opera del De Matteo, viene fuori come materia vulcanica cui l’auctor si limita a concedere una forma tangibile e riconoscibile a posteriori. Poi questa forma può essere pure limitata, concentrata, dilatata nel tempo (come i musicisti romantici intendevano la forma), oppure perfetta e quadrata numericamente (come il melodramma ottocentesco pretendeva), ma sempre essa sarà codificabile, identificabile, riconoscibile e soprattutto memorizzabile anche da un pubblico non attento e preparato e documentato a sufficienza. In questo processo nulla deve scandalizzare se pensiamo che Rossini inseriva a bella posta arie più che orecchiabili per garantire così il successo a tutta l’opera nel suo complesso. Il Secondo Ottocento, è stato il periodo in cui, in particolare nell’estetica e nella storia della musica, il giudizio di gusto ha scavalcato, soppiantato, posto in secondo piano il giudizio di valore. Le teorie kantiane ed hegeliane sul genio, sull’arte e sulla produzione artistica in funzione dell’estetica, vengono sostituite da poetiche della immediatezza direttamente figlie dello scientismo inaugurato dal pensiero di Comte e dal Positivismo. La stessa ricerca musicale – come due secoli prima tornata a cercare l’effetto più che il contenuto, il wit più che l’Assoluto – si abbandona al lirismo subdolo ed ipocrita delle maniere borghesi, confondendosi e crogiolandosi in imitazioni di scientificità che volgono lo

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sguardo, più che all’aspetto musicale in sé ed alle sue caratteristiche peculiari, ad esempi di ricerca nel campo della fisica e dell’acustica che poco hanno a che spartire con la pratica musicale vera e propria e che pochi risultati concreti hanno apportato alle diverse tecniche strumentali ed esecutive. Tutto ciò allora, portato ad una sorta di parossismo estetico, si trasforma in formule e stereotipi ormai illanguiditisi in un Romanticismo decisamente fuori moda, un poco bohèmienne, anarcoide quanto basta, socialista soltanto a parole, risorgimentale se non sciovinista nei modi esteriori, borghese nei fatti e negli atti di tutti i giorni. Tornando al compositore foggiano, vediamo come, questo percorso artistico, si dipani in maniera completa anche verso il sociale, e l’etico, così da concludere non soltanto il quadro critico sulla romanza ora esposto, ma anche per conchiudere quell’ideale cerchio che avevamo iniziato a tracciare all’inizio a proposito dell’ambiente musicale napoletano e che ora qui ritorna sotto le vesti di produzione strumentale/vocale da considerarsi come oggetto estetico completo, di degno rilievo e rispetto in cui il compositore dà comunque il meglio di se stesso, soprattutto nel dosaggio sapiente dei ritmi e dei metri musicali nei confronti della parola poetica. Certo, un brano sinfonico ha maggiori possibilità d’esser meglio considerato rispetto alla canzonetta; la durata, la struttura, l’ampiezza, la forma sono tutte determinazioni e nozioni costruttive che giocano a sfavore della seconda, eppure, anche lì, in quel minimo sistematico che è la romanza, parafrasando Banfi, c’è la vita e c’è l’arte, e l’una come l’altra. De Matteo dunque è autore di confine, incuneato tra la Scapigliatura – legata la modello romantico ed influenzata dalla riproposizione di un sentire manierato, conforme alla sensibilità ed al gusto di un pubblico che considera il melenso ed il lacrimevole come enunciazione del tragico (ed invece ne è solo un surrogato) – e le nuove tendenze, influenzate dal Simbolismo francese. L’assonanza di temi e contenuti alla produzione dei vari Boito, Aleardi, Prati e Carducci è già mediata invece da figurazioni ritmiche libere o per lo meno influenzate da strutture metriche rigide in cui l’uso degli espedienti retorici e delle formule simboliche già richiama motivi in parte rintracciabili in Pascoli o – come nel caso della composizione dei testi di romanze per canto e pianoforte – già largamente riferibili al panismo ed estetismo

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che annuncia D’Annunzio. Del resto, il nostro poeta e compositore muore nel 1899, anno cruciale per il nostro panorama letterario. Il periodo 1887/1899 infatti è ricco di novità, dalla raccolta dannunziana di Primo Vere (annunciante proprio quel panismo edonistico prima citato) ai morti di Bava Beccaris. È il biennio in cui si consuma la frattura tra il Positivismo scientifico e l’arte decadente, mentre Giolitti impone le proprie scelte politiche con l’appoggio di Turati avviando una ricostruzione moderna dello stato ed abbandonando la visione sciovinista postrisorgimentale che aveva caratterizzato gli anni postunitari. È l’epoca della svolta artistica di Verdi, il quale, con il Falstaff, apre una nuova epoca nella musica del tempo e nella storia stessa del teatro lirico ottocentesco italiano che così si riorganizza contenutisticamente e stilisticamente. In De Matteo convivono tutte queste diverse realtà, dall’atteggiamento apologetico della modernizzazione economica e sociale incipiente, al rifiuto dei contenuti estetici del Romanticismo, i quali, nel nome di una rivalutazione della forma e degli stili, si riducono a surrogato imitativo di quegli stessi contesti (dal valore estetico al gusto immediato e poco osservante dei destini critico/produttivi di quel fenomeno artistico). Non a caso, in particolare nel campo lirico/teatrale, formazione principale del nostro autore, si assiste proprio ad una reductio negativa di questo tipo. De Matteo insomma, passa dalla fiducia positivista, tipica di Carducci, alla ricerca di un linguaggio nuovo, antiromantico e più europeizzante, quale poteva essere quello di diversi intellettuali napoletani, da Pica a Croce, da Viviani a Schipa. Al nostro poeta/compositore corrispondono linee produttive tipiche di territori poetici in continuo ed inesorabile bradisismo. Come la Scapigliatura, egli aderisce a manifesti poetici e scritti teorici non accomunabili, se non per senso, virtù del gusto ed insofferenza verso le convenzioni della letteratura a loro contemporanea. Al pari della scapigliatura, in De Matteo convivono i conflitti tra artista e società e tra produzione, modello imitativo e pubblico. Nello specifico, emerge il rifiuto per l’intellettuale umanista, poco legato alle vicissitudini politiche del sociale e non aduso all’anticonformismo manierato del poeta borghese e proletario. Solo così, il contesto e l’arte divengono aspetti di quel dualismo scapigliato che anche il nostro certifica e che lo vede poeticamentemusicalmente avvezzo a considerarsi nel mezzo, proprio come Arrigo

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Boito12. Si guardi alla lirica/romanza dolore o all’altra, ben più rappresentativa e già citata ultima canzone, in cui il dualismo inconciliabile esistente tra Idealismo e Vero, Bene e Male, Virtù e Vizio è il vero soggetto della sua esplorazione poetica. Come Emilio Praga, il poeta di Capitanata sente su di sé il dualismo tra Positivismo e liberazione spirituale dell’arte; e come il poeta milanese ricava probabilmente l’ispirazione per comporre quel preludio in Mib minore per pianoforte – manifesto, a suo modo, del proprio sentire musicale – nella stessa maniera in cui il Preludio da Penombra (1864) è il manifesto della Scapigliatura. Nella composizione si sviluppano tematiche strutturate nella stessa maniera in cui si scompone il componimento. Ad una prima parte – iniziale presentazione non solo del tema, ma anche d’elementi che successivamente subentrano nello sviluppo – seguono delle varianti tematiche ed armoniche che sono il vero sviluppo e la conferma di coesione con quanto enunciato nel senso romantico del termine, e il canto vero della sua poesia, il quale, basato su un pedale di tonica, si evolve nella conciliazione di temi e dei suoi frammenti materiali, sino a chiudersi in un accordo di tonica in rivolto che non completa il discorso, bensì lo lascia aperto a nuovi sviluppi. Un modo di fare questo, oltretutto, già sperimentato in una sinfonia giovanile ed in alcune ouvertures d’opera che è bagaglio tipico di quell’avanguardia mancata che popolò l’Italia tra Ottocento e Novecento, potenzialmente capace di muoversi nella modernità, ma in realtà incapace sia di aprire nuovi orizzonti conoscitivi, quali potevano essere soprattutto le istanze decadenti, sia di distinguere tra l’effetto ricercato e provocatorio e la gestione di un linguaggio poetico veramente suggestivo che punta ad ottenere effetti cromatici e musicali, ma non riesce a caricare la parola poetica di valori, echi e suggestioni che rompano il rapporto razionale tra parola e significato codificato come i Simbolisti francesi.

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Dualismo, in Libro di versi, 1877.

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2. Supporti teorici alle poetiche del Novecento: il pensiero di Nietzsche e la sua influenza sull’Arte Nuova Mentre il neoidealismo di Benedetto Croce è al centro degli interessi della critica essendo, in negativo, l’obiettivo polemico di quasi tutte le correnti artistiche italiane del Primo Novecento, poco spazio la critica stessa ha concesso all’analisi degli spazi teorici che Crepuscolari, Futuristi e Simbolisti in particolare hanno derivato dal pensiero di Fr. Nietzsche, il quale, attraverso lo Uebermensch e la capacità liberatoria dell’arte, andava a coprire i molti vuoti delle diverse poetiche, in particolare simbolista. La giustificazione nietzscheana di una visione del mondo esclusivamente estetica, combacia con l’occasionalismo sensista che i due fratelli Baratono pongono a base della loro produzione poetica e che poi, in Adelchi, è anche il punto di partenza per la costruzione del sistema estetico/interpretativo da lui progettato13. Il fratello Angelo, amico di Lucini e poeta anch’egli, rincorre le stesse idee (e lo stile di Adelchi) per comporre brani poetici quasi in prosa e molto vicini anche allo stile luciniano. Per i Simbolisti, l’arte è un problema di forme e contenuti come per il filosofo tedesco e, per lui come per loro, l’arte ha una valenza rassicurativa pari a quella della metafisica. La stessa perfezione dell’opera d’arte è garanzia dell’allontanamento di ogni divenire rendendosi mutabile e istantanea nella percezione dell’evento/nascita14. L’artista, per i simbolisti, agisce su due piani, quello estetico, che media la forma con la materia e quello artistico, in cui la forma stessa si adatta al contenuto in potenza. In questo misto di kantismo e nietzscheanismo il Simbolismo cerca di dare risposte alla condizione dell’arte novecentesca, sballottata tra industrializzazione e progresso 13

BARATONO A., Arte e poesia, a cura di D. FORMAGGIO, Bompiani, Milano, 1966. «Il perfetto non sarebbe divenuto. Noi siamo abituati, in ogni cosa perfetta, a trascurare la questione del divenire e ad allietarci di ciò che ci sta davanti, come se esso fosse sorto dalla terra per un colpo di bacchetta magica. Probabilmente ci troviamo qui ancora sotto l’influsso di un antichissimo sentimento mitologico. Per noi è quasi (per esempio in un tempio greco come quello di Paestum) come se un mattino un dio avesse costruito giocando, con tali enormi blocchi, la sua casa; altre volte, come se, per magia, un’anima fosse stata improvvisamente trasformata in un masso e ora volesse parlare attraverso di esso. L’artista sa che la sua opera ottiene pieno effetto solo quando suscita la fede in una improvvisazione, in una miracolosa istantaneità della nascita» (NIETZSCHE F., Umano troppo umano, I, 145). 14

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tecnologico, costretta a nascondere la propria carica destabilizzante, ridotta ad intrattenimento della classe borghese, con lo stesso artista ridotto a fenomeno da adorare non come produttore dell’arte, bensì come monumento artistico egli stesso. Svegliare «la borghesia delle sieste lunghe» come vuole Lucini, per riportare l’arte e l’artista al ruolo che gli compete nella società del tempo è compito dell’intellettuale, nella stessa maniera in cui Nietzsche pensava la missione dell’artista15. Il limite dell’ormai consolidata perifericità e momentaneità dell’esperienza estetica, che si muovono invece in un’anestetica diffusa – da Lucini disperatamente resa vitale attraverso le novità stilistiche introdotte dalla sua produzione – rappresentano l’aspetto più rilevante della rimozione e della soppressione del simbolismo nella società16. In Nietzsche17 questo rapporto di minorità tra arte e società è ben espressa nella gioia dello schiavo che nei Saturnali imitava l’uomo greco trasformandosi in satiro e coreuta di Dioniso, così recuperando momentaneamente quella condizione naturale che cancella le distinzioni sociali, le leggi dello stato e della famiglia. L’arte qui compie ancora la sua funzione – pur essendo in una condizione di subalternità, inutilità e degenerazione – proprio perché conserva in sé quella minima parte di dionisiaco che la rende vita viva e coerente con le sue premesse e scopi. Qualcosa di simile tenta il Simbolismo, il quale, cosciente della propria funzione (involontariamente superomistica?), intraprende la strada della modificazione stilistica attraverso la pratica del versilibrismo o attraverso l’uso della parola in senso non discorsivo in cui la stessa narrazione è inframmezzata o conclusa da inserti estranei che ne distorcono l’attenzione e la logica consequenziale18. Non è un caso che questa tipologia stilistica trovi proprio negli esponenti della Neoa15

NIETZSCHE F., Il viandante e la sua ombra, in umano troppo umano, II, 170. «Se per mantenersi, l’arte deve ricorrere agli allettamenti delle forti emozioni, significa che essa […] tende ad appiattirsi sulle esigenze sensibili immediate; sia perché corrisponde ad esigenze più rozze […], sia soprattutto perché tende a diventare funzione immediata della vita pratica, pura e semplice ricreazione […]» (VATTIMO G., Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1974, pp. 131–140). 17 NIETZSCHE F., Il viandante…, cit., II, 170. 18 TALLINI G., Estetica e poesia in Adelchi Baratono, in Brevi scritti critici, Centro Stampa, Gaeta, 1994, p. 19. 16

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vanguardia (Sanguineti soprattutto) modelli produttivi simili ed aggiornati ai tempi. Trasformazioni e degenerazioni del fenomeno artistico sono, per il Simbolismo, obiettivi da combattere con tutti i mezzi appigliandosi proprio a quel briciolo di dionisiaco che resiste imperterrito proprio nella degenerazione stessa, così permettendo al mondo simbolico di resistere e manifestarsi riconquistando un ruolo nell’immaginario sociale. È questa quella ratio socratica che da un lato costringe il poeta ad allontanarsi dalla società stessa, poiché non ne condivide i fini, i bisogni e la di vita e dall’altro, è la spinta che conduce non solo alla consolazione dell’arte (come voleva Nietzsche ne La Gaia Scienza), ma anche al processo di autodeterminazione di se stessa rispetto al mondo in cui si manifesta. Se la metafisica, per il filosofo tedesco subisce un generale processo d’autonegazione, non altrettanto accade per l’arte, che anzi sembra avere una portata positiva e costruttiva; in questo punto, fondamentalmente, concordano anche i simbolisti, in special modo quando (riandando con il pensiero ad Adelchi Baratono), si afferma che la realtà descritta nell’attività artistica (non necessariamente soltanto poetica), di fatto, acquista significato grazie ad elementi che intensificano la tenuta del contenuto attraverso accidenti di contrasto o di consonanza al contenuto stesso. Così facendo, il materiale lessicale si autostruttura in immagini fortemente descrittive, che attraverso la evocazione/rievocazione di eventi e/o oggetti, riconducono al reale ed oltre esso, in una dimensione morale/catartica che è la manifestazione stessa del simbolico. L’artista simbolista, agendo sulla forma e la materia si attiene al presente dell’opera; in seguito, agendo invece sulla forma ed il suo adattamento al contenuto potenziale, ricostruisce il ponte che unisce il passato evocato con il presente in atto. Così, la frustrazione di cui parla Viazzi19 – la degenerazione di Nietzsche – attraverso la sua evocazione si trasforma in sensibilizzazione artistica, in dionisiaco che diviene farmaco della “libertà sopra le cose” propria dell’artista20. 19

VIAZZI G., Dal Simbolismo al Decò, II, p. 353 «La nostra ultima gratitudine verso l’arte. Se non avessimo consentito alle arti ed escogitato questa specie di culto del non vero, la cognizione dell’universale non verità e menzogna che ci è oggi fornita dalla scienza, – il riconoscimento dell’illusione e dell’errore come condi20

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L’eroe ed il giullare s’incaricano di creare e/o modificare l’arte in tutte le sue forme agendo sulla sua portata costruttiva e andando naturalmente anche al di là del suo potere catartico/consolatorio. L’arte non rappresenta solo la difesa dalla conoscenza, ma anche l’oltrepassamento ironico della stessa dicotomia vero/falso. Il poeta simbolista e l’artista evocato dal tedesco perseguono entrambi lo stesso scopo: mettere in crisi il mondo apollineo razionalistico e le sue certezze facendo emergere il dionisiaco e concedendo all’eroe – vero spirito oltrepassante – la sua giusta dimensione nel vero e nel mondo. Il poeta simbolista denuncia la propria inattualità, al pari degli intellettuali della felix Austria, guardando al proprio mondo in maniera solitaria, vivendolo in punta di piedi e cercando di divenire attuale attraverso l’affermazione delle proprie ragioni. Anch’essi sono “uomini postumi”, incapaci di dire il mondo nelle modalità solite del Romanticismo o del Decadentismo e quindi ossessionati dalla ricerca di un nuovo modo di pensare ed esprimere l’arte e la propria viva personalità21. zioni dell’esistenza conoscitiva e sensibile, – non sarebbe affatto sopportabile. Le conseguenze dell’onestà sarebbero la nausea ed il suicidio. Ora però la nostra onestà ha una controforza che ci aiuta ad eludere tali conseguenze: l’arte intesa come la buona volontà di apparenza. Non sempre impediamo al nostro occhio di arrotondare compiutamente, di creare forme poetiche definite: e allora non è più l’eterna incompiutezza quella che trasportiamo sul flusso del divenire; perché pensiamo di trasportare una dea, e siamo superbi come fanciulli in questo nostro servigio. In quanto fenomeno estetico, ci è ancora sopportabile l’esistenza, e mediante l’arte ci è concesso l’occhio e la mano e soprattutto la buona coscienza per poter fare di noi stessi un siffatto fenomeno. Dobbiamo, di tanto in tanto, riposarci dal peso di noi stessi, volgendo lo sguardo là in basso su di noi, ridendo e piangendo su noi stessi da una distanza da artisti: dobbiamo scoprire l’eroe e anche il giullare che si cela nella nostra passione della conoscenza, dobbiamo, qualche volta, rallegrarci della nostra follia per poter stare contenti della nostra saggezza! E, proprio perché in ultima istanza siamo gravi e seri e piuttosto dei pesi che degli uomini, non c’è nulla che ci faccia tanto bene quanto il berretto del monello: ne abbiamo bisogno di fronte a noi stessi – ogni arte tracotante, ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi. Sarebbe per noi un ricaduta, incappare proprio con la nostra suscettibile onestà nel pieno della morale e per amore di esigenze più che severe, poste a questo punto in noi stessi, diventare anche noi dei mostri e spauracchi di virtù. Dobbiamo poter sovrastare anche la morale: e non soltanto starcene impalati lassù con l’angosciosa rigidità di chi teme ad ogni istante di scivolare e cadere; ma, inoltre, ondeggiare e giocare su di essa! come potremmo perciò fare a meno dell’arte, e anche del giullare? Finché continuerete a provar in qualche modo vergogna di voi stessi, non entrerete in mezzo a noi» (NIETZSCHE F., La Gaia Scienza, 107). 21 CACCIARI M., Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del Primo Novecento, Milano, Adel-

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Su queste basi, la poetica di Lucini è dunque tanto inesorabile quanto il fragender niteszcheano e si somma alla sphinx de la Gaia Scienza. Lucini infatti, mettendo in aporia tutte le forme certe della poesia ottocentesca e dicendo e contraddicendo il nuovo – in una dialettica della poesia molto simile a quella degli aforismi che il tedesco ha con successo utilizzato – pone una domanda enigmatica non sul futuro della poesia, bensì sulle possibilità della stessa nel mostrare l’abgrund in cui identificarsi. Lucini non pone ultima verba, chiede soltanto di dare ascolto all’enigma – fattosi evento non più rimandabile – ed a quello concede fiducia illimitata. Una sospensione, dunque, che denunciando il nuovo, modella l’esistente proprio ed esclusivamente attraverso quel nuovo e le regole da quello dettate. Lucini coglie il senso della profezia del tedesco, inconsapevolmente radicandolo nel tessuto connettivo del Novecento, ergendolo a critico ed interprete del secolo stesso. Ciò che rende Nietzsche profeta è proprio il sentirsi coscientemente inattuale, oltre la sua stessa epoca ed in anticipo rispetto alla Kultur ed alla presa di coscienza storica. Nietzsche è immediatamente compreso, almeno a livello di conoscenza e lettura delle sue opere, come colui che ha superato della fase decadente e senza tempo rispetto ad essa22. Il disgusto/rifiuto per la sua epoca assumeva quell’antagonismo esistenziale, filosofico ed artistico che veniva percepito come perno della decadenza europea. È la mentalità estremistica di superatore/eversore che affascina, nella convinzione che ogni forma, per manifestarsi ed esistere, deve crescere a dismisura fino all’estinzione. Superuomo, volontà di potenza, eterno ritorno, arte/vita diventano parole d’ordine che trovano continua applicazione nelle poetiche, fino a diventare vuoti slogans ripetitivi. Lucini, su queste premesse, analizza alcune pagine del tedesco in Ragion poetica, definendolo “come una delle guide più sincere” ed apertamente abbracciandone la teoresi estetica. Naturalmente la sua analisi poggia sull’arte simbolica e meno sul superuomo, su cui peraltro Lucini indugia molto, poiché considerato nella essenziale eticità dell’impegno socratico del “conosci te stesso”, malinteso dai furbi con cui il poeta se la prende furiosamente. Scoprendo in esso soprattutto la phi, 1980, pp. 16–18. 22 LÖWITH K., Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1959, pp. 250 e sgg.

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esaltazione dell’uomo e della sua moralità – ai limiti dell’eroismo e padrone assoluto delle proprie virtù, così come Zarathustra insegnava – Lucini ritorna all’egoarchia, morale individualistica dell’egoità stirneriana, che è la funzione e la missione stessa dell’“uomo grande”.

3. Produzione musicale e poetica del Primo Novecento Le poetiche del Primo Novecento perseguono un fine puramente teoretico ed analitico, oltre che pratico, poiché rimandano soprattutto a quella costante di contrapposizioni critiche nei confronti di ciò che nell’arte è considerato assodato ed invalicabile, sia nei confronti della semplice ricezione, sia nei confronti d’ogni metodologia analitica adottata. Senza qualcuno che usi, osservi, giudichi e valuti ciò che è stato fatto da altri, il fare – inteso non soltanto come fare artistico – non ha valore estrinseco, non è tale, non è vitale. Esso deve comprendere per forza, nel significato stesso della nozione, anche l’uso ed il giudizio (positivo o negativo che sia) che viene dall’eventuale fruitore. Che è tale, non perché questi possa o meno esser presente, ma perché la sua presenza, il suo esserci, potrebbe non necessariamente essere immediato, ma situato nel tempo23.

23 Pensiamo all’arte cosiddetta primitiva: finché è stata soltanto mezzo d’uso, essa ha rappresentato solo il suo usus quotidiano e questo per secoli: quindi, un vero fruitore – nel senso artistico intendo – non c’è stato. Nel momento in cui invece costui è cambiato (negli atteggiamenti, nei gusti e nelle scelte) – cioè: si è passati dal semplice e sistematico uso quotidiano alla valutazione come altro dell’oggetto creato – allora, quella stessa quotidianità rappresentata dai graffiti, dalle ciotole, dalle steli votive è diventata Arte: è il caso degli ex voto, dei totem, dell’oggettistica artigianale ed antiquaria, la quale – nata come mezzo d’uso comune – ora viene valutata in primis proprio come prodotto artistico e non come oggetto quotidiano. I famosi zoccoli di Van Gogh, grazie anche alla lettura heideggeriana degli Holzwege, hanno compiuto il percorso inverso, ma nonostante ciò, hanno comunque evidenziato la differente origine sociale ed artistica: per il contadino che li usa, essi rimarranno sempre tali ed il vederli dipinti – e quindi il comprenderne l’intima verità artistica che passa anche attraverso il travaglio umano e spirituale del suo autore – non lo ripagherà mai, né della fatica per averli scolpiti nel legno, né dell’averli usati. Il fruitore quindi, per quanto possa essere casuale, è comunque importante, perché è soltanto lui che determina – con il proprio giudizio – il valore dell’oggetto che noi ora consideriamo manufatto artistico ed in base a ciò ne decreta implicitamente anche la durata (e la morte come oggetto artistico, perché la morte fisica la danno soltanto il tempo e l’incuria degli uomini).

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Di volta in volta, la musica stessa si è dotata di convincimenti e nozioni prettamente filosofiche e spesso si è dovuta adeguare a concezioni non particolarmente riconducibili ad un contesto esclusivamente musicale, bensì mutuate dalle altre arti; in particolare nel Novecento poi, soprattutto le avanguardie musicali hanno basato la loro produzione proprio su quest’aspetto, si pensi – per tutti – alla Dodecafonia, codificata dopo l’esperienza espressionista a contatto con Kandiskij. È quindi l’esperienza nelle diverse arti a far riconsiderare in musica il ruolo produttivo del compositore, intendendo quello non più soltanto in chiave di musicista, ma anche di estetologo, storico, critico, letterato, filosofo. La convinzione che la musica sia l’unico ursage, non è convinzione soltanto adorniana o heideggeriana, ma, in particolare modo in Italia, è precisa espressione di diversi poeti, da Montale a Caproni, ad A. Baratono24. Stabilire un limes tra ciò che è stata l’estetica delle arti nel XIX secolo e ciò che invece essa diviene nel XX, non è possibile, tanti e tali sono i punti di contatto ed i sottili distinguo esistenti tra le due diverse definizioni. Certo, un ruolo fondamentale lo ha svolto la opposizione all’estetica hegeliana ed alle teorie del Positivismo. La verità è che non si può parlare solo d’opposizione tra movimenti e modelli culturali o di ricerca di contrasti forti e determinanti, atti a classificare come nuovo tutto ciò che non corrisponde all’ideale romantico, poiché questi, pur presentandosi antiteticamente (vecchio-nuovo, anticomoderno), comunque sono termini che non si escludono a vicenda, anzi: l’attività dell’uno è strettamente legata alla attività dell’altro. Si ricercano nuovi metodi d’indagine non solo in nome della opposizione a determinate tipologie artistiche: anche chi volge la propria attività in vista di un’ideale prosecuzione di esse, tuttavia vi guarda e vi attinge in maniera del tutto rinnovata. L’estetica del XX secolo, per i suoi contenuti e per come essa si è criticamente mostrata nel mondo, sembra quindi essere più un fenomeno filosofico e culturale sottoposto ad una crescita abnorme, che non un vero e proprio distaccarsi dalla poetica ottocentesca; certo, il bisogno di allontanarsi da determinate 24 TALLINI G., La musica del verso in G. Caproni, in «Pòlemos», I, nº 1, maggio/agosto 2000, pp. 6–11; TALLINI G., Estetica e poesia in A. Baratono (1875–1947), in Brevi scritti critici, Centro Stampa, Gaeta, 1994, pp. 15–26; FANTASIA R., Alle origini del Novecento. Poetiche ed idee della poesia da Pascoli ai Futuristi, Garigliano, Cassino, 2002.

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concezioni, ormai sentite come lontane e non più attuali esiste, ma ciò non viene attuato operando un netto distacco, bensì tenendo sempre d’occhio la tradizione. La rottura, così come noi intendiamo comunemente questo termine, non c’è mai stata, anzi. Come già scritto altrove, nell’ambito dell’estetica musicale, da Monteverdi a Schönberg, il nuovo – inteso come rottura determinante e completa con il passato – in effetti non esiste25. L’opporsi, lo schierarsi o il ricercare nuove soluzioni che fossero ad un tempo indipendenti ed equidistanti dalle posizioni dominanti, ha determinato una vera e propria implosione dell’estetica, trasformandolo, da fattore culturale unitario, in una miriade di frammenti che – nella più totale anarchia – hanno costituito non solo un nuovo insieme metodologico, ma anche – e ciò è ben più importante – un modello sociale cui adeguarsi per sempre. L’artista stesso, volutamente subendo questo nuovo adeguarsi alla arte, trasforma la propria vita in un’opera da ammirare e contemplare. Work in progress quindi è non solo la opera – che come vedremo più avanti diventa addirittura un fenomeno “non–mai–compiuto” – ma an25 «Monteverdi, e non solo lui, ma anche Gluck e Calzabigi nel melodramma, e più tardi Beethoven, Haydn e Mozart, hanno contribuito alla ricostruzione di un nuovo linguaggio (anche opposto ad uno scientificizzato quale quello delle fughe di Joh. Seb. Bach) che troverà la sua frantumazione e ricostruzione secondo i nuovi dettami del Romanticismo, dove, alla forma rigidamente strutturata della sonata haydniana e mozartiana per esempio, si opporranno le piccole forme espressive ed intimistiche di Schumann, Schubert o Chopin, o le grandi architetture sonore (apparentemente informali, ma dotate invece di strutture dilatate al massimo) care a Liszt (sonata in Si min.) o allo stesso Chopin (sonate op. 35, op. 58). Tutto ciò avverrà secondo dettami armonici apparentemente non più legati allo schema tonale classico; quest’ultimo infatti si svilupperà sempre più fino ad assumere, da Wagner in poi, tutti i caratteri tipici del nuovo sul vecchio, consistenti nella violenza armonica e nella distruzione tonale» (TALLINI G., Sull’estetica della musica contemporanea, in Brevi Scritti Critici, Centro Stampa, Gaeta, 1994, pp. 41–59, nota 5). Aggiungiamo che, nella musica occidentale, quelle che sembrano essere caratteristiche nuove, trovano invece giustificazione esistenziale e strutturale in quel vecchio così abbondantemente denigrato. Nella musica di Schönberg, la serie dodecafonica è in ogni caso costituita, sostenuta ed eseguita in base ad una struttura contrappuntistica che fa da interprete al linguaggio stesso. Il linguaggio dodecafonico d’altra parte, non sarebbe comprensibile per nessuno – e di questo lo stesso Schönberg doveva esserne cosciente, tenendo conto del suo ritorno, nella seconda parte della sua vita, all’espressività tipica della musica atonale – se esso non avesse al suo interno una struttura forte e soprattutto comprensibile che permettesse all’ascoltatore di ritrovarsi e rintracciare eventuali punti di appoggio all’interno dello stesso flusso sonoro, senza i quali, qualsiasi tentativo di comprensione dell’opera stessa verrebbe meno.

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che la stessa vita dell’artista, quasi che quest’ultimo sia parte integrante dell’arte e dell’oggetto stesso, e non solo supremo artifex. Particolarmente nella musica e nella pittura, la frattura intercorsa con il XIX secolo sembra aver portato le coscienze artistiche del tempo ad elaborare un nuovo linguaggio, più consono alle difficoltà del tempo, e nello stesso tempo più adeguato ai ritmi ed alle difficoltà del vivere suggerite dalla nascente età della tecnica: è in questa maniera che, alla musica tonale ed al cromatismo di stampo wagneriano, si sostituisce ad esempio, la più completa atonalità e la dodecafonia. Anche la letteratura, eccellente campo d’azione per la ricerca linguistica, sensibilissima ai mutamenti estetici cui l’arte in genere è soggetta, molto presto, conosciute le ragioni della nuova arte, si appropria di quelle tendenze, riorganizzandole e dando vita, nel contempo, a nuovi campi d’indagine. All’avanguardia, più che il romanzo, è soprattutto la poesia che – ricercando una linea operativa diversa da quella scelta ad esempio dal linguaggio musicale, ma che al tempo stesso fosse, per quanto possibile, più vera ed espressiva – rivendica un’individualità del linguaggio che si evidenzia particolarmente nelle scelte futuriste ed ermetiche. L’adesione a determinate tipologie estetiche, ad un tempo diverse e nuove dalla precedente, caratterizzate dalla morfologica diversità strutturale26 – mirante non più alla dimostrazione dell’Assoluto hegeliano, tanto evidente quanto più l’arte stessa rimaneva ancorata al gusto romantico, bensì all’analisi ed alla ricerca di una ben più salda 26 Si vuole intendere qui la diversa estrazione culturale delle varie estetiche novecentesche. Infatti, di fianco a sistemi puramente filosofici, rigidamente inquadrati dalle leggi della dialettica e della logica, quale potevano essere quelli elaborati da M. Heidegger o da B. Croce, si sono sviluppati anche sistemi più semplici, miranti all’esclusiva analisi estetica e svuotati – almeno apparentemente – d’ogni forma veramente filosofica e sistematica. Soprattutto in Pascoli si riscontra questa tendenza (ANCESCHI L., Le poetiche del novecento in Italia, Marsilio, Venezia, 1990, p. 78 e soprattutto Autonomia ed eteronomia dell’arte, Garzanti, Milano, 1992). Altresì, diviene importante sottolineare come, il passaggio dal Romanticismo ottocentesco al decadentismo novecentesco, sia avvenuto, non con una frattura immediata, bensì attraverso un progressivo distacco di determinate poetiche dal Romanticismo stesso. Le poetiche della scapigliatura o quelle del Verismo segnano indelebilmente questa prima fase, i cui contenuti sono ancora a metà tra il passato romantico ed un ipotetico diverso futuro letterario. La seconda fase, definitiva, è quella attraversata dal Fanciullino pascoliano, che di romantico conserva solo la pacatezza dei toni ed il riallacciarsi alla classicità, rappresentata sia da Omero – il vecchio cieco, che non sa più vedere, ma sa dire (inteso come ur–sage) – che dal Fedone platonico e dal Futurismo marinettiano, quest’ultimo vero e proprio fattore deflagrante.

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concezione filosofica dell’arte stessa, e la quantità e la frammentarietà di esse rispetto all’estetica romantica – sono la vera caratteristica del Novecento, musicale, poetico, pittorico o artistico in genere.27 Tra le estetiche stesse l’unitarietà è spesso assente; le diverse motivazioni filosofiche o l’assenza di esse, il materialismo storico, le personali convinzioni politiche e culturali di ognuno insomma, hanno creato una serie di tesi, diverse l’una dall’altra, e tutte miranti a conseguire quell’ermeneutico scopo primo che è l’Assoluto, Dio o la Verità28. D’altro canto, pensare che tra loro non vi siano punti di contatto, pure non è corretto. Esse, nel Novecento, anche impostate diversamente, sono legate l’un l’altra da un filo invisibile: la connessione esistente tra Arte e Vita. “La vita intera prepara l’arte” diceva Luigi Pareyson29, e ciò pone l’accento sull’importanza della funzione che questo rapporto incorpora. È solo in base alla mediazione da esso esercitata che l’arte e la vita si compenetrano l’uno nell’altra. Questa affermazione determina anche una netta distinzione tra ciò che è l’Estetica – intesa come “intera vita spirituale in tutte le sue manifestazioni” – e l’arte, intesa solo come attributo artistico. Così come essa è concepita, allarga l’analisi, non solo alla percezione artistica, ma anche ad ogni altro tipo di Bellezza, ritornando così alla codificazione di una poetica che, pur rifiutando la speculazione filosofica, imponga comunque una scelta che sia lo stesso estetica. Proprio nel Novecento, l’esigenza è particolarmente sentita. Il teorico, pur essendo soltanto l’addetto ai lavori in uno specifico settore artistico, agisce in vista della realizzazione delle sue personali tesi, 27

La frammentarietà e la quantità delle nuove estetiche, rispetto all’unitarietà di quella romantica, è una costante lungo tutto l’arco del Novecento artistico. Questa situazione però, se ha creato problemi di linguaggio interpretativo nel campo esclusivamente critico, ha anche avuto evidenti vantaggi: si pensi alla riscoperta, nella scultura, dell’arte primitiva, o all’interesse, particolarmente francese, per la filosofia medioevale. Il gusto per tutto ciò che è arcaico, antico, trova nel Novecento artistico un efficace protettore e propugnatore, ma tutto questo, si badi, affonda le proprie radici proprio nel tentativo di porsi antiteticamente al romanticismo hegeliano, il quale, con la pretesa di idealizzare tutto ciò che – non esprimendo compiutamente adeguato sentire – appariva barbaro, finì per comportarsi come i contemporanei di Erodoto che rifiutavano tutto ciò che fosse estraneo o incomprensibile per i comuni canones interpretativi: così facendo l’idealizzazione della Grecia antica con loro aveva raggiunto veramente il culmine. 28 ROSSI G., Estetica e cristianesimo, Pro Civitate Christiana, Assisi, 1953, p. 8. 29 PAREYSON L., Arte e Vita, in Estetica e Cristianesimo, cit., p. 9.

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coinvolgendo anche differenti branche artistiche. Naturalmente, la identità artistica che il Novecento si ritaglia, non inficia il postulato secondo cui, chi crea il nuovo, non lo fa ex–nihilo. Se l’affermarsi di quello non è una frattura immediata, bensì il prodotto di una riflessione adeguata su determinati cardini del vecchio, estrapolati e nuovamente impostati secondo un nuovo gusto ed un più moderno sentire, allora, l’estetica assumerà anche una funzione rivitalizzante che si presenta come evoluzione creatrice che spinge il vecchio anèlito artistico a divenire nuovo spirito dell’arte. All’interno del processo illustrato, la meccanicizzazione cui esso è sottoposto, nel succedersi delle fasi storiche, è vivificante. Nella realtà, storicamente, ogni poetica ed ogni estetica, nascono come necessità a se stanti, derivate dall’impasse culturale originatasi dal quel blocco tra culture diverse generatesi l’una dall’altra. In questa fase, il richiamarsi ostinatamente a situazioni e modi di produzione dell’arte spiccatamente conservatori, non fa che aumentarne le difficoltà, non crea nessuna nuova rielaborazione vivificante di quelle tipologie. Viceversa, un coraggioso alternarsi storico–estetico, epico, rivoluzionario, deve forzatamente condurre ad una novità. Nell’ambito di questa nozione, il Futurismo ha giocato un ruolo ben definito. Il ribaltare determinate nozioni ha infatti creato un vuoto culturale in cui ogni teoria estetica, ogni poetica, poteva comunque esservi collocata senza arrecare danno al movimento stesso. Questa sensazione di vuoto, nel rapporto tra Otto e Novecento, è stata maggiormente sentita, proprio per le diverse problematiche artistiche che si andavano affrontando in quel periodo storico. Se da un lato, il Romanticismo imponeva all’Estetica una ricerca ed una cultura compiutamente filosofica, dall’altro, il Decadentismo, creando una frammentazione culturale (che si adeguava alla presa di coscienza ed alla conseguente frammentazione e divisione delle scienze dalla filosofia), la obbligava invece, rinunciando alla dipendenza dalla speculazione filosofica, ad una specializzazione culturale non comprendente più l’unitarietà del sapere scientifico e che faceva dell’immaginazione l’unico campo d’azione. L’idea che la validità della ricerca filosofica possa essere diversa e separata dalla ricerca estetica, trova però – sia nel campo letterario sia in quello critico e filosofico – vari detrattori ed oppositori. Nell’analisi che parte da questo nuovo modo di intendere l’arte e

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l’estetica, importante diviene la propensione ad utilizzare l’arte stessa più come Linguaggio che come mezzo mostrante la Bellezza. Per far ciò, si rinuncia a creare e a capire l’arte secondo canoni soliti, e ci si dedica invece alla decostruzione, alla scissione dei due fattori, soggetto conoscente ed oggetto artistico, che fino ad allora ne avevano determinato l’unità. Un esempio è costituito dalla poetica di Kandiskij, il quale, rinunciando alla corrispondenza dei due termini, rivolgendo l’attenzione al solo oggetto – unico depositario del vero – poneva le migliori condizioni per la manifestazione dell’arte stessa nel mondo. In Italia invece, portavoce di queste tesi è Pascoli che le pone alla base di tutto il suo personale discorso poetico30. Nel processo conoscitivo inerente l’attività del Fanciullino, un punto focale è proprio la sua stessa incapacità nel dimostrare la realtà anche attraverso morfemi strutturali che non siano soltanto tipologie poietiche. Questa incapacità a sua volta, si riflette anche nella manifesta opposizione ad ogni tipo di scientificizzazione positivistica dell’ambito poetico. Non vi è mediazione tra i due termini (ambiente poeticoPositivismo), e la stessa presenza del mondo classico e della sua cultura (Platone, Omero), rispetto all’universo romantico hegeliano, adesso è solo interpretata come semplice svolgimento d’azioni e non più guida ispiratrice, come principio di ogni impostazione teorica. La conoscenza della verità, che si nasconde ipostaticamente in ogni poetica ed in ogni linguaggio, particolarmente nella poetica pascoliana, si evince attraverso due convinzioni: l’una, l’incapacità del dire del Fanciullino, e l’altra, l’incapacità di vedere del vecchio. Queste dicotomie, inconciliabili l’un l’altra, sono strettamente connesse con la dichiarata eliminazione di ogni rapporto evidente che coinvolga il soggetto conoscente e l’oggetto artistico. Se fino all’Ottocento questi due termini erano fondamentali per la determinazione della claritas, adesso essi vengono scissi, separati e di nuovo codificati in base ad una struttura conoscitiva più complessa che può vedere ma non dire nella fanciullezza e, viceversa, dire ma non vedere nella vecchiaia. Ma l’alternarsi del dire e del vedere sono in fondo due facce di una stessa medaglia: Omero non vede, eppure dice poetica30

BONFIGLIOLI P., in Officina letteraria, a cura di M. MATERAZZI, Thema ed., Bologna – Torino, 1993, pp. 603–605.

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mente ciò che nella sua fanciullezza ha determinato la sua realtà e la sua vita. Il Fanciullino pascoliano invece, per la sua incredibile capacità di meravigliarsi e per la sua camaleontica volontà di adeguarsi ad ogni verità manifesta, non riesce a dire ma solo a stupirsi. Non a caso, Martin Heidegger di lì a poco parlerà dello stupirsi come dell’origine del pensiero occidentale. La categoria del “vedere–di–vedere”, connessa con il contemplare, è la realtà che tiene insieme soggetto ed oggetto, e in Pascoli – per l’immediata percezione di una situazione simbolica rivolta direttamente all’Assoluto, riunificante in un solo momento i tre gradi della conoscenza (phantasma, visio, claritas), pur comprensibile senza mediazione alcuna da parte di concetti logici – invece rimane disgiunta, rendendo totalmente indifferente l’un per l’altro gli stessi termini conoscitivi (soggetto e oggetto). L’azione conoscitiva quindi, s’estrinseca attraverso l’agire mnemonico, costruito per immagini fotografiche e posto nella sola categoria temporale e non anche inquadrato nella sua dimensione spaziale; per questo il prodotto, esclusivamente visivo, determina solo e sempre la stessa situazione, codificando così la stessa realtà come immagini fisse dal forte valore onirico e mnemonico. La realtà, più che un semplice sogno, diventa allucinazione, suggerita non dal pathos conoscitivo (che è solo “sentire con l’anima”), ma dal dolore del ricordo causato o dalla violenza dell’uomo contro i propri simili o dalla impossibilità di materializzare il ricordo stesso. In questa maniera, in Pascoli la poesia si riduce alla coesistenza tra l’anima del fanciullo e quella dell’uomo, giustificando così le critiche di Montale, Ungaretti e soprattutto Saba31. In queste considerazioni rientra anche l’importanza che il linguaggio assume verso l’esistente. Al rapporto soggetto conoscente/oggetto conosciuto, corrisponde adesso quello che intercorre tra Linguaggio ed Essere, tra ursage e dasein per dirla con il linguaggio di Heidegger. L’arte diventa lo specchio dell’esistenza, e questo si badi, non solo 31 «Se l’uomo [...] prevale troppo sul bambino [...] il poeta (in quanto poeta) ci lascia freddi. Se quasi solo il bambino esiste, [...] abbiamo il poeta puer; ne proviamo insoddisfazione e un po’ di vergogna» (SABA U., Prime scorciatoie: nº 14, in Prose, a cura di L. Saba, Mondadori, Milano, 1966, pp. 266–267). Altrove, in Scorciatoie rifiutate (1934–1935), ribadisce: “Se manca il bambino il poeta è impossibile. Se manca l’adulto è il poeta puer, una vergogna, uno scandalo: Pascoli e sua sorella”.

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nell’opera dello stesso Heidegger, ma ad esempio anche in Maritain o in Wittingstein o in Gadamer. Essa diviene il mezzo per cui la vita e l’arte si avvicinano e disvelando il mondo, si fondono l’una nella altra32. Questo fa sì che la realtà stessa s’infuturi nell’esistenza creando metodologie adatte a far sì che la verità emerga dall’opera. Considerare anche la propria vita arte, diventa una necessità dell’artista che, esteticizzando la propria esistenza, come Mida, trasforma in oro (cioè trasforma in arte), tutto ciò che lo circonda e lo coinvolge. Wilde, D’Annunzio, Huysmans agiscono in modo che la loro vita non soltanto si confonda ma divenga essa stessa arte, rinunciando ad ogni influenza morale ed intellettuale, per diventare solo evasione nell’estetismo più puro. In questo divenire continuo, inevitabilmente, non solo l’oggetto artistico, ma tutto ciò che è manufatto, si trasforma necessariamente in arte che – attraverso il proprio essere, il proprio compiersi ed il proprio mostrarsi – viene ad instaurare un processo rivoluzionario permanente cui, proprio il gusto e la percezione estetica, sono in primis soggetti. Concependo così l’arte, qualsiasi espediente per crearla è valido, esteticamente e moralmente. Il ricorso a materiali poveri, operazioni più affini all’attività industriale che non allo specifico campo artistico, coinvolgono non solo emotivamente ma anche socialmente l’artista, che adesso rifiuta qualsiasi rapporto con quella stessa società che dovrebbe godere della sua produttività. La “beatitudine borghese delle sieste lunghe” descritta da Lucini, non è più parte della vita dell’artista, o meglio, egli continua a vivervi, ma solo come super partes, come deus ex machina che gode della beatificazione in cui incorrono la sua arte, la sua vita, le sue azioni. L’artista «non rinuncia ad avere un ruolo sociale, ma afferma che il suo compito rivoluzionario lo adempie proprio opponendosi [...] alla morale [...] al gusto corrente, proponendo un’arte diversa dal passato, disarticolando le forme: la rivoluzione formale diventa un elemento della rivoluzione globale: nelle coscienze come nelle strutture sociali».33 32

HEIDEGGER M., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pp. 3–102, 247–298, e In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973. 33 PETRONIO G., cit., p. 747.

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L’arte diventa perciò libertà d’invenzione in cui le idee «sono buone per chi si contenta della luce, non per chi vuole camminare, anche senza luce, pur di camminare»34. Strategicamente l’arte diviene conatus conservationis dell’artista nei confronti della società; una società che sempre più si rivolge all’homo homini lupus di hobbesiana memoria, rinunciando alla specifica categoria dell’amor universalis che invece l’arte porta in sé come necessaria risoluzione dell’esistenza comune. Questo significa che l’artista produce senza più subire il ricatto delle varie poetiche ed estetiche imperanti, ma soprattutto badando ad esprimere soltanto la propria incondizionata ed illimitata immaginazione, per cui il prodotto perde tutte le caratteristiche di perfettibilità ed unicità trasformandosi in un prodotto più semplice, sottoposto fatalisticamente alle ingiurie del tempo, e non più preservato nei secoli come fosse dotato di un’aura immortale e divina35. Questa è l’altra importante novità introdotta dal Novecento decadentistico: la mortalità dell’opera – e della sua mitica aura – sbandierata come nuova frontiera dell’arte, come nuovo orizzonte in cui la immortalità dell’opera stessa nel suo complesso viene superata, sconfitta ed inquadrata in un processo conoscitivo, artistico, filosofico più umanamente terreno. Si chiude così un cerchio, il quale – dalla ricerca della Bellezza e del Sublime, e quindi della durata infinita del rappresentatività artistica – giunge al suo esatto opposto, e precisamente ad una dissociazione dai canoni eidetici e morfologici di Bello e Sublime, che ora vengono rivolti verso l’informale, pur conservando intatte le loro peculiarità. A metà del XIX secolo il contributo idealistico all'estetica si era duramente contrapposto all'avanzare del Positivisimo. Gli effetti però di questa nuova situazione saranno evidenti soltanto all'inizio del Nove34

Prezzolini, in PETRONIO G., cit., p. 747 A proposito dell’aura, proprio la condizione d’imperfettibilità dell’oggetto artistico, nell’epoca in cui diviene più facile produrre arte attraverso gli innumerevoli accidenti della tecnica, determina la perdita, per quest’ultimo, di quella condizione di perfettibilità – detta appunto aura – che ne determinava la valenza estetica, diventando soltanto qualcosa da consumare nell’immediato. La dimensione temporale dell’opera d’arte non è più dilatata all’infinito, votata all’immortalità, anzi: adesso ci si rivolge verso il suo esatto contrario (BENJAMIN W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936]; BRECHT B., Arte vecchia e nuova [1920–1932], in Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino, 1975, particolarmente le pp. 13, 31; ADORNO T. W., Aestetische theorie, Einaudi, Torino, 1975). 35

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cento quando, mediate anche dalle teorie simboliste ed impressioniste, si comincerà a manifestare una certa insofferenza verso la scientifizzazione del fare umano che aveva avuto il sopravvento sulla sua spiritualità ed assolutezza. A questo va aggiunto il tentativo di creare, al livello nazionale, un’arte che fosse anche espressione della propria identificazione negli ideali patriottici dello stato. Anche in questa chiave possono essere letti i proclami nazionalistico–artistici de Le quoc et l’arlequen di J. Cocteau o i placards anti–wagneriani che fioriscono in più parti di Europa e particolarmente proprio in Francia, tendenti a difendere le prerogative nazionali d’ogni attività culturale espressa dai paesi europei singolarmente, rispetto alla pretesa della cultura e del pensiero tedesco d’essere uniformante guida della cultura europea36. Nell’ambito di una più convinta reazione alle tipologie wagneriane, comincia ad imporsi nel panorama culturale francese la possibilità di costruire non solo una scuola nazionale, ma una nuova concezione dell’arte contraddistinta da tutti i caratteri della grandeur. La “francesità” è la molla che muove l’attività artistica di quel paese, coinvolgendo anche autori e personaggi che magari francesi non erano proprio: si pensi a Stravinskij, De Falla, i due Nïn, Miller ed Hemingway. Nel campo musicale queste scelte trovano un terreno molto fertile, dovute come sono al totale rifiuto, per la gran parte dei musicisti francesi (primo tra tutti Claude Debussy), delle tematiche wagneriane; particolarmente poi nel cosiddetto Group de six – un gruppo di sei giovani compositori molto vicino alle tesi estetiche di Cocteau – queste nuove istanze estetiche e poetiche trovano la più completa attuazione, anche per la continua influenza che quest’ultimo, vero padre/padrone, esercitò sul loro fare artistico e su tutta la cultura francese a loro contemporanea. Nell’attività artistica da essi svolta, ciò che veramente assume connotazioni particolari, è la continua ricerca di nuovi modelli compositivi da applicare alle idee estetiche che lo stesso 36 La presunta superiorità culturale tedesca nel XIX e XX secolo, attraverso le sue peculiari caratteristiche, intrise di un forte nazionalismo, è stata positivamente studiata da SAMSON L. in L’ethetique Wagnerienne est–elle une esthetique nationaliste ou un nationalisme esthetique?, Universite Laval (Canada), 1990. Le stesse problematiche, sia pure con motivazioni diverse, sono state oggetto di un interessante dibattito tra DAHRENDORF R., SEITZ K., DINER D., HONNETH A. e DIECKMANN F. sulle pagine di Micromega (nº 5/1994, pp. 61–127).

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Cocteau andava incessantemente propagando. Da qui, il rivolgersi non solo alla secolare tradizione musicale europea strumentale e lirica – in alcuni casi completamente rivisitata37 ed affrontata badando a conciliare quella stessa tradizione con le nuove frontiere della tecnica musicale38, ma anche a tutti quei fenomeni musicalmente nuovi che si cominciano ad imporre, come cultura di massa, nella vita di tutti i giorni: dalle musiche da circo o da cabaret, sul modello di quelle elaborate da Weil e Milhaud (Le boef sur le toit [1919] su testo di Cocteau), alle musiche popolari di diversi paesi o etnie39, al jazz ed al rag–time, approdato in Francia nei primi anni dieci di questo secolo grazie ad alcune jazz band di colore provenienti dagli Stati Uniti e immediatamente inseritosi con successo nella via della ville lumière, ancora inconsapevole delle immani ecatombe che si scateneranno nei successivi trent’anni. Tra gli appartenenti al le Six, risaltano in particolare personaggi della caratura di Honegger, Poulenc e Milhaud. Quest’ultimo, certamente è il più importante, tanto che A. Braga, causa le enormi capacità inventive e l’abbondante produzione, lo definisce – certamente con l’enfasi dell’alunno prediletto40 – un “nuovo Haydn”. Ma tale titolo, a ben guardare, non è poi tale: si pensi agli studi teorici condotti sulla poliritmia, che lo portarono ad introdurre (soprattutto nell’Orestiade, nelle Saudades do Brasil, ne Le boef sur le toit, e le Sinfonie “minuto”) tante e tali innovazioni tecniche da influenzare ben presto tutto l’ambiente musicale francese del tempo (e riuscire a far ciò nella Parigi del tempo, significava influenzare la creatività del mondo intero). Tra queste, come particolarmente innovative, è necessario soprattutto indicare l’eliminazione delle musiche di scena così come erano state concepite sino ad allora e l’introduzione dell’accompagnamento ritmico, conservando invece il canto vero e proprio: egli mira infatti, 37 Si vedano per esempio: POULENC F., Gloria, e MILHAUD D., Trilogia dell’Orestiade (Agamennone, Le coefore, Le Eumenidi) su testo di Eschilo rivisto da Claudel. 38 Atonalità, politonalità, accordi elaborati, forme minime; per quest’ultime si ricordino le sei milhaudiane Sinfonie–minuto (1917–1923). 39 Questa volta non più intese come stravagances settecentesche, bensì come vere e proprie fonti di ispirazione tecnica e poetica. In proposito, ancora Milhaud, Homme et son désir (1918) su testo di Claudel, e i due libri Saudades do Brasil (1920) su ritmi derivati dalla musica popolare brasiliana. 40 BRAGA A., cit., pp. 137–138.

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non alla costruzione di un’opera lirica né di semplici musiche di scena sul modello dell’Egmont o del Coriolano beethoveniani, bensì, alla formazione di un teatro diverso, in cui l’espressione del testo prenda il sopravvento sulla musica, esprimendo così i propri valori intrinseci. La parola, dotata di musicalità, deve esprimere quest’ultima attraverso l’uso delle risultanti armoniche che nascono dalla confusione delle parole stesse nella composizione delle frasi, ed in questo, le tematiche care a Jammes, Gide e Claudel, autori tra i più cari a Milhaud, sono rispettate41. Conseguenza di questo lavorìo continuo sulle condizioni principali dell’espressione poetica e musicale è la riduzione delle forme classiche a strutture modali brevi e ripetitive, quasi minimali, che sottolineano la particolare condizione espressiva; la straordinaria brevità di alcune di esse (in particolare modo le Sinfonie “minuto” già citate più volte in precedenza) diventa la causa per cui meglio si esprimono le capacità personali dell’autore, sia attraverso la struttura formale, più vicina a Monteverdi che non a Beethoven o Brahms, sia per la particolare espressività determinata dalle sonorità degli strumenti usati: dal quartetto vocale, accompagnato dalle sole linee melodico–armoniche di un oboe e di un violoncello, all’ensamble formata da flauto, corno inglese, fagotto e archi. Le particolari modalità della composizione fanno quindi di Milhaud il vero rappresentante della modernità musicale francese, e ciò molto più di tanti altri. L’utilizzo di certe modalità espressive, contrappuntistiche nella forma, ma in effetti vere e proprie strutture politonali, sono quindi la ragione della sua innovazione che, sulla base di una struttura melodica, si rinnovano e si intrecciano l’una all’altra creando vere 41 La risultante di quest’innovazione, che pure rispettava i canoni tradizionali, accoppiata alla poliritmìa ed alla politonalità degli strumenti dell’orchestra e delle voci del coro, da una parte risultava altamente tragica (Vociferazione funebre, trenodia dalle Coefore) e dall’altra, pienamente moderna: certamente la lezione del Pelléas et Melisande di Debussy in Milhaud non rimase inascoltata. D’altro canto, la stessa poliritmia usata dall’autore diventa molto presto un esempio per altri compositori: Paul Hindemith, in molte sue composizioni, introduce questa particolare nozione compositiva alla stessa maniera di Milhaud, cioè inserendo – ogni tante battute poliritmiche – una battuta comune per tutti gli strumenti usati, tale da dare il senso apparente dell’unità nella confusione dei singoli ritmi usati da essi durante l’esecuzione. È altresì importante sottolineare come lo stesso fece Stravinskij sia in The Rake’s progress che nel Sacre ed in altre composizioni.

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e proprie strutture tutte differenti e tutte contemporaneamente indicanti la propria appartenenza tonale. La politonalità milhaudiana quindi, nasce non da una sovrapposizione armonica, ma da una sovrapposizione melodica, alla stessa maniera del contrappunto fiammingo, anche se questa volta mirata non ad un unicum armonico, ma ad un variegato universo sonoro in cui ogni suono ha il suo preciso valore e la sua decisa e chiara sonorità. Contemporaneamente alla ricerca condotta da Milhaud e dai Six (sotto l’egida di Cocteau), un altro grande compositore muove i primi passi artistici all’insegna della più completa aderenza alla modernità culturale e musicale. Grande amico di Picasso, Stravinskij si trova pienamente a suo agio nel fermento culturale che – nell’ambito del Futurismo – coinvolge tutte le correnti culturali avanguardiste presenti in questo primo scorcio di secolo, facendo sì che ancora oggi una gran parte della produzione stravinskijana, contrariamente a quella di Milhaud ad esempio, ha raggiunto un grado di penetrazione nel tessuto culturale di massa pari a quello d’un lavoro di Verdi o d’una sinfonia di Beethoven o d’una fuga di Bach. Se però, dal punto di vista produttivo, l’opera del grande russo è oggi conosciuta in tutto il mondo, non altrettanto può dirsi al riguardo della sua produzione critica, e in particolare delle sei lezioni tenute alla Ch. E. Norton Chair of Poetics della Harvard University nell’anno accademico 1939–1940, le cosidette Poetics of Music, le quali, esposte sotto forma di semplici Lessons42, affrontano il problema musica dal punto di vista delle problematiche tecniche, storiche, tipologiche, operative e creative, rivolgendo particolare attenzione al significato della musica all’interno del più complesso discorso estetico e filosofico sull’arte43. Soggette ad un’analisi critica molto attenta – tanto che alcuni studiosi ne hanno ridimensionato la paternità attribuendone la stesura ad 42 STRAVINSKIJ I., Poetics of music in the form of six lessons, Harvard University Press, Cambridge – Massachussets, 1970. 43 “I shall non forget that I occupy a chair of poetics. And it is no secret to any of you that the exact meaning of poetics is the study of work to be done. The verb poiein from wich the word is derived means nothing else but to do or make. The poetics of the classical philosophers did not consist of lyrical dissertations about natural talent and about the essence of beauty. For them the single word technè embraced both the fine arts and the useful arts and was applied to the knowledge and study of the certain and inevitable tules of the craft” (STRAVINSKIJ I., Poetics of music in form of six lessons, I, cit., 1970, p. 3).

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un alunno di Ravel44 – le Lessons, rivestono comunque un’importanza notevole per comprendere appieno la poetica del Nostro. Per Stravinskij infatti, l’Arte (intendendo con questo termine la totalità delle arti), assume una valenza totalizzante, che coinvolge sia la vita che l’attività dell’artista; quest’ultimo è egli stesso oggetto artistico che, attraverso l’esposizione delle proprie idee, espone la sua visione del mondo alla percezione comune. E questa esperienza ci indica pienamente come in Stravinskij, ma anche in altri autori di questo primo scorcio di secolo, le tematiche simboliste siano l’afflato culturale cui far risalire ogni creazione. La rappresentazione simbolica, nella sua accezione metafisica e poetica (intesa cioè nel senso di generatore di senso poetico), è la principale chiave di lettura di tutta la produzione artistica del primo Novecento; un secolo questo in cui il rifiuto dell’Assoluto hegeliano e dello scientismo positivista, porta paradossalmente ad abbracciare teorie (anch’esse assolutistiche) molto vicine alla filosofia della natura di Fichte. La stessa estetica simbolista del resto avvalora quest’ipotesi quando, talvolta, va a riprendere molte delle concezioni codificate dalla estetica romantica nel secolo precedente. Le idee espresse dal Simbolismo europeo però, non sono da Stravinskij rispettate; più che una ricerca amalgamante che porti alla rappresentazione simbolica attraverso la fusione dei termini – così come Poe aveva affermato (seguito in questo dal simbolismo francese) – il compositore russo vagheggia una loro sovrapposizione che, raggiungendo gli stessi risultati, mantenga comunque intatte le loro peculiarità e le loro differenze45. 44 In un testo curato da VINAY G. (Stravinskij, Il Mulino, Bologna, 1992), ZIMMERMANN H. W. (Di chi è la «Poetica della Musica» di I. S.? Sulla genesi dei suoi scritti, pp. 63–79) risale ai momenti principali della nascita dell’opera, giungendo ad affermare, a conclusione delle sue ricerche, che la sua redazione – nella sua veste critica definitiva – non appartiene al nostro autore ma ad un alunno di Maurice Ravel: Roland–Alexis Manuel Lèvy, compositore, critico musicale e saggista d’una certa fama nella Parigi di quegl’anni. A questi, a detta di Robert Craft – collaboratore di Stravinskij durante gli anni americani, deveno essere aggiunti anche: (nel 1939) il padre del Simbolismo poetico Paul Valery – cui lo stesso Stravinskij fece leggere ampi brani del testo in questione, ricevendone consigli e frasi di apprezzamento, ed il russo Pierre Suvcinskij, anch’egli critico musicale, storico e filosofo della musica. 45 Una prova ne sono i due balletti Renard e Les noces per esempio, in cui, i soggetti di lavoro (o termini: musica, balletto, testo) sono costruiti in modo che tra loro nulla sottolinei l’identificazione tra la voce dei cantanti ed i personaggi rappresentati: la voce dello sposo – ne

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Se la strada da percorrere è segnata dagli esperimenti dei six e di Stravinskij, è pur vero che, agli albori di tutto questo fermentare artistico, dobbiamo inserire le ricerche di Schönberg sull’atonalità e sulla dodecafonia. Già con Brahms, e poi con Wagner e Mahler, il concetto di tonalità – cioè la serie di rapporti intercorrenti tra i vari gradi della scala musicale – aveva subìto una serie di scossoni non indifferenti che in pratica erano già esempio mirabile di atonalità, appunto: di assenza di tonalità e di equilibri sonori forti, esattamente percepibili e riconoscibili dall’uomo. Il cromatismo di Wagner o di Debussy divengono presto desueti, non potendo essi garantire né un perfetto equilibrio tecnico/armonico, né un sentire adatto a quel particolare momento espressivo che è la Vienna felix tra Ottocento e Novecento, totalmente impreparata alle sfide che il nuovo secolo andava preparando. La musica quindi è la colonna sonora che illumina quei giorni, di crisi certo, ma anche di fermento culturale, a cominciare dall’attività musicale che da Mahler giunge a Schönberg, Berg e Webern, alle tonalità elaborate di Ravel, alle potenzialità espressive della produzione musicale stravinskijana, alla scala pentatonica di Debussy, Puccini, Dallapiccola, Malipiero e Petrassi.

4. La rivoluzione mancata (I). La musica ed il cinema come mezzi per la costruzione del consenso durante il Fascismo Più d’ogni altra epoca e regime, il Fascismo è stato un movimento che non solo non ha risolto in senso moderno la distanza culturale che separava l’Italia Umbertina dal resto del mondo, ma soprattutto non ha affrontato il vero dilemma che rendeva all’epoca la cultura italiana succube del movimento decadente e cioè la realizzazione di una esteLe noces – può essere cantata indifferentemente da un tenore o da un basso, e il coro stesso può inserirsi in questa esecuzione senza stravolgere nulla ed ottenendo anzi, un risultato nettamente contrario al Gesamtkunstwerk wagneriano. Il Formalismo è la vera dimensione dell’arte stravinskijana, un’attività che non rinunci alle peculiarità delle forme nel momento in cui esse si accingono a collaborare tra loro in nome della fondazione di un risultato artistico veramente innovativo ed unitario. (PANTINI E., Il rapporto musica–poesia nelle concezioni poetiche di Eliot e Stravinskij, in «N.R.M.I.», I, 1991, pp. 55–73).

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tica ed di un pensiero artistico tale da rendere davvero autentica ogni valutazione oggettiva, così da avviare una vera rivoluzione del fenomeno arte in tutte le sue branche. Infatti, o per ragioni prettamente storiche ed ideologiche e/o per l’incapacità stessa degli intellettuali del tempo di sentirsi parte di una coscienza europea davvero tale, il Fascismo, lungo tutto l’arco del Ventennio e soprattutto nella sua prima parte (quella che coincide, per inciso, con il periodo del cosiddetto consenso), è riuscito a tenere insieme i due caratteri – conservatore nei modi e nelle forme e progressista nei contenuti, negli stili e nelle strutture creative – senza che essi si toccassero e si fondessero in una ricerca ulteriore di senso. La necessità dell’azione e dell’agire, la figura dell’eroe-vate (a mezzo tra lo Uebermensch di Nietszche e l’estetismo dannunziano), il valore eroico del duce (ad un tempo) comandantecapopopolo-capopartito-agricoltore-regista e quant’altro, il linguaggio degli slogans e dei motti unitari, mediati da personaggi completamente inseriti nel panorama culturale del tempo e riconosciuti a livello internazionale (Gentile, Bottai, Pavolini su tutti), sono tutti caratteri che contraddistinguono il particolare sinolo storico-sociale che il Fascismo crea attorno alla propria rivoluzione. Soprattutto nel campo musicale, musicisti e compositori subiscono questa condizione irrisolta tra le aspettative di magniloquenza e perfezione fascista dell’arte musicale e ricerca linguistica innovativa, completamente legata alla ricerca di linguaggi nuovi ed autoctoni. Come l’architettura deve costruire edifici visibili, comprensibili come parte del nuovo rivoluzionario che si mostra, così anche la musica deve obbedire a costruire un consenso e autodeterminarsi come autarchia. Solo che ad assolvere questa funzione, non è la musica colta, bensì la musica di consumo, quella trasmessa dalla nascente radio (EIAR) che – nell’ottica di una imitazione formale (lo swing, il foxtrot ed altre forme ereditate dal primo Jazz USA) e strutturale (il giro armonico ripetitivo, la necessità di un ritornello comprensibile e assimilabile subito da orecchie assuefatte alle melodie del teatro lirico soprattutto ottocentesco e novecentesco) ed all’interno di esecuzioni e stili di scrittura comunque lirici (ereditati cioè dalle forme della romanza per voce e pianoforte, dalle romanze da salotto per solo pianoforte e dalla canzone napoletana d’autore) - riesce a costruire modelli e fenomeni di a-

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scolto di massa che trasformano la stessa società italiana del tempo46. Si assiste insomma, alla costruzione di un consenso guidato, mediato sia dalle forme esteriori di politica e di governo (autarchia, trasformazione dello stato in stato fascista, regolazione dei rapporti tra stato e chiesa, costruzione dell’impero, cancellazione dei diritti parlamentari, istituzione del medico nei comuni rurali, Battaglia del grano, bonifica della palude Pontina, creazione della ONC e conseguente assegnazione delle terre bonificate ai contadini, questi ultimi letteralmente deportati dal Polesine e dalla Bassa Padana), sia dalla costruzione di un sistema parallelo di educazione culturale di base (non solo libro e moschetto dunque) che passava anche per la rappresentazione di un mondo altro, fatto solo di suoni orecchiabili e piacevoli. Non è un caso che il regime favorisca la diffusione, in tutte le case italiane, della radio a valvole, né più né meno di quanto farà Hitler in Germania con la televisione dopo le Olimpiadi di Berlino. Ma il consenso Mussolini non lo costruisce solo con la radio, anzi: in questo caso, la scoperta del potere di coesione offerto dal cinema è addirittura superiore, solo così è possibile comprendere lo sforzo compiuto dal regime per creare Cinecittà e la Mostra Cinematografica di Venezia con la “Coppa Volpi”47. Da questo punto di vista, Cinecittà diventa un punto irrinunciabile per la politica di consenso del regime: il cinema storico, versione cinematografica mista, prodotto sia del romanzo storico manzoniano che dell’opera wagneriana, diventa la scusa per trattare quei temi che il fascismo riteneva prioritari nella costruzione di una vera coscienza 46

Sulla radio, sull’EIAR e sul consenso che il fascismo ha potuto costruire proprio in virtù dell’uso delle nuove tecnologie radiofoniche, cfr. MONTICONE A., Il fascismo al microfono. Radio e politica in Italia (1924-1945), Roma, Studium, 1978 e ISOLA G., Abbassa la tua radio per favor… Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1990. 47 Si vedano NICOLODI E., Aspetti di politica culturale nel ventennio fascista, COMUZIO E., La musica del cinema italiano del periodo fascista. Dalla primavera di Giovinezza all’autunno delle rose appassite, e SALA M., Dal muto al sonoro: le musiche di Pizzetti per Cabiria e Scipione l’Africano. Tutti i saggi citati sono compresi nel volume miscellaneo La musica italiana durante il fascismo, a cura di R. ILLIANO, Thurnhout, Brepols, 2004, pp. 97189. SCIANNAMEO F., In black and withe: Pizzetti, Mussolini and Scipio Africanus, in «Musical Times», Summer 2004. Sulla storia del cinema italiano, ai fini di un soddisfacente quadro di insieme, cfr. BRUNETTA G. P., Storia del cinema italiano, vol. 2, Il cinema di regime 19291945, Pagine, Roma, 2003, SAVIO F., Ma l’amore no. Realismo, Formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Milano, Sonzogno, 1975.

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fascista, prediligendo, soprattutto grazie alle regie di Blasetti, la narrazione epica e la figura di eroi incorruttibili, invincibili e arditi. E si badi che parliamo di coscienza fascista e non di uomo fascista. La differenza è fondamentale perché, contrariamente al nazismo ed alla teoria di Deutsche Mensch ariano, il fascismo nostrano non aveva interesse a creare una figura simile, almeno fino al 193848. Ciò che interessa al regime è la creazione di una coscienza di massa, l’organizzazione dell’appartenenza e la costruzione di una coscienza di gruppo e non del singolo. Del resto, soprattutto il cinema (ma anche la musica di consumo del tempo) è piena di eroi che hanno trasformato la propria essenza mitico-narrativa in una essenza etica in cui, la necessità del proprio essere eroe, si confonde ed è tutt’uno con l’essere fascista. Ancora, l’estensione dell’obbligo di iscrizione al PNF a tutto il personale dello stato - pena la “scomunica” politica, sociale, penale e civile del soggetto - concede, di nuovo, un valore di autoesclusione per l’individuo che non è parte del gruppo, che non vuole essere parte di un progetto e di una realtà diversa, nuova e rivoluzionaria: non è lo stato che esclude il diverso, ma il contrario, il cittadino è parte del sistema perché si riconosce in esso. Il peccato è non riconoscersi e non partecipare, le adunate servivano soprattutto a questo: ascoltare il dice significava in particolare questo: unire e sentirsi parte del corpo stesso del regime. Gli stessi concetti di cambiamento e rivoluzione fascista comportano tale lettura. Cambiare, rivoluzionare tutto per non muovere niente, se non a livello socio-politico e come momento individuale che si fa totalizzante solo quando interessa il tutti. Si consiglia ai non graditi al regime di non partecipare alle adunate, li si controlla da lontano e li si considera non fascisti perché non partecipano agli eventi di massa, pertanto: chi si autoesclude non può e non vuole far parte della massa; non solo, ma la massa stessa lo ignora come individuo, a prescindere dalla sua esistenza e dalle problematiche che possono investire la sua vita personale e civile. La Fascistizzazione è un dramma per il singolo, non per le masse e 48

WALTER M., Italienische Musik im nationalsozialistischen Deutschland, in La musica italiana durante il fascismo, cit., pp. 41-64.

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per la loro ricerca di unità come stato, solo così il PNF si sostituisce alle istituzioni diventando famiglia, chiesa, partito e stato; l’individuo, prima di essere tale è fascista e solo in tale veste è parte della vita sociale e politica del paese. In un panorama del genere, non è solo l’essere ebrei o comunisti o dissidenti a determinare l’autoanullamento esistenziale, ma prima di tutto la propria caratterizzazione d’identità altra rispetto al fascista; ciò che fa paura al regime è l’autonomia e poi la diversità razziale e religiosa. Non dimentichiamo, infatti, che moltissime adesioni della prima ora al movimento mussoliniano (e ben prima della Marcia su Roma) vennero dalle alte gerarchie militari in cui ampia era la presenza di alti ufficiali di religione ebraica. Anche in campo culturale, perfino un personaggio non sospetto di adesioni di facciata come Casella, proprio perché musicista di vocazione internazionale (per gusti, tecnica e modelli compositivi), è guardato con sospetto e considerato, lo stesso, una specie di pericolo da controllare a vista. Così, nell’Italia del tempo, al di là del consenso, convivono situazioni opposte, si guardi per questo al caso di Aldo Finzi e poi alla condizione di autori di un certo calibro ed importanza come Respighi, lo stesso Casella, Dallapiccola e Malipiero49 e si avrà 49 CARAPELLA M., Musicisti ebrei nell’Italia delle persecuzioni: il caso Aldo Finzi, in La musica italiana durante il fascismo, cit., pp. 301-330. FLAMM CH., «Tu Ottorino scandisci il passo delle nostre legioni». Respighis “Römische trilogie” als musikaisches Symbol des Italienischen Faschismus?, in La musica italiana …, cit., pp . 331-370. DE SANTIS M., Casella nel ventennio fascista, in La musica…, cit., pp. 371-400. Noti sono i rapporti tra Alfredo Casella e Gabriele D’Annunzio. Testimonianza ne sia questa lettera che il poeta D’Annunzio invia al compositore dopo un concerto del Trio Italiano al Vittoriale: « Mio caro Alfredo, è lontano il tempo quando ci adunavamo nella camerata di Gasparo ansiosi nel soffio delle «Nuove Musiche» e tu sembravi reggere le nostre aspirazioni verso la novità non rivelata eppur vivente, con spirito di legislatore ricordandoti «come ogni legislatore primitivo sapesse di musica». Sempre mi ricordo. E tu ti ricordi. Io credevo allora essere al limitare della terza giovinezza, capace di tener fede in pensieri e in atti a quella carta del Carnaro ove la musica è considerata come il fermento della più vasta e più profonda vita. Fui deluso. Fummo delusi. Ma la nostra tristezza non si mostrò inerme. Da quel tempo tu non hai cessato di rinnovellare le tue forme, le tue invenzioni, i tuoi accenti e di esplorare quel «mare sinfonico» che è forse il più difficile di tutti i mari, al quale mi piace di attribuire un raro epiteto dei latini: compositum mare. Anch’io da quel tempo non ho cessato di studiare l’arte mia e di patire senza tregua il tormento della perfezione. Oggi io sono un vero maestro, e invecchio iniquamente, e mi preparo al trapasso. Un vero maestro sei oggi anche tu; e il tuo giovine vigore sale di opera in opera. Tu hai il tuo premio. Il secondo nome del mio spirito, il secondo nome del tuo spirito, è il coraggio. Nella nostra affinità si fonda la nostra fedeltà. Ecco che tu mi torni, ecco che tu mi

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un quadro completo della condizione socio-culturale del musicista italiano nella epoca fascista, paradossalmente diviso tra scelte operative non italiane e vocazione autarchica della cultura e degli scopi della propria produzione.

5. «Modernità del ritorno alla tradizione». Selvaggismo e Novecentismo Nell’ambito della cultura musicale del tempo, molto importante, ai fini di una considerazione pienamente culturale del fatto musicale e letterario insieme, è la questione relativa alle affinità tra cultura prettamente letteraria e sue attinenze generiche con le arti in genere e la cultura artistica unitaria, questa ultima intesa come aspetto sociologico di una diatriba piuttosto ampia tra la cultura cosiddetta cittadina e cultura rurale. Il problema è importante anche perché affronta la questione della novità e del nuovo nelle arti e nella loro composizione che investe il problema tra passato e futuro e tra considerazioni artistiche di un certo rilievo rispetto al clima ed alla ricezione del fatto artistico in sé. La presenza del Fascismo nelle arti (con esclusione della musica e dei musicisti) infatti, e lo aveva notato già Asor Rosa50, ai fini della determinazione di un’arte e di un’espressione propriamente fasciste, si è sempre divisa tra adesione alla modernità ed all’industrialismo e conservazione della tradizione. Una dialettica siffatta, ha dunque porporti un novello suono. Dietro le mie dure porte il mio cuore batte così che io credo, la musica e la amicizia gli segnino l’altezza dell’ultimo destino. Ben venuto Alfredo Casella, ben venuti i tuoi compagni, i miei compagni. L’aspettazione è una specie d’inaudito preludio: votivum melos. Gabriele D’Annunzio. Santa Barbara 1932». MAIER CH. S., PAINTER K., “Songs of a prisoner”. Luigi Dallapiccola and the politics of Voice under Fascism, in La musica…, cit., pp. 567-588. ILLIANO R., SALA L., “Sed libera nos a malo”: dai Canti di prigionia ai Canti di liberazione, in La musica…, cit., pp. 589-606. PESTALOZZA L., Malipiero: oltre la forma. Gli anni della Favola del figlio cambiato, in La musica…, cit., pp. 401-426. 50 ASOR ROSA A., La cultura, in ROMANO R. e VIVANTI C. (a cura di), Storia di Italia, IV/2 Dall’Unità ad oggi, Einaudi, Torino, 1975. Nel saggio in questione, l’unico settore non indagato è proprio la musica, né altresì sono indagati i rapporti tra musicisti e Mussolini. Sulle riviste, cfr. VITTORIA A., Le riviste del duce. Politica e cultura del regime, Guanda, Parma, 1983 e Le riviste di “Strapaese” e “Stracittà”. «Il Selvaggio», «L’italiano», «’900», a cura di L. TROISO, Treviso, Canova, 1975.

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tato a non accettare, da parte del Fascismo e dei fascisti, né i caratteri tipici della modernità letteraria (vedi l’accantonamento - causa anche una popolarità ed un seguito enormi, molto più ampio di quello di Mussolini – di Gabriele D’Annunzio e di Marinetti), né i caratteri tipici, invece, della tradizione contadina o, per lo meno, di un certo legame – mai interrotto – con la tradizione rurale. Il risultato di questa dicotomia incompiuta è stata, da un lato la nascita di correnti artistiche ben delineate (Selvaggismo e Novecentismo appunto, che hanno contribuito a rendere inconclusa la rivoluzione artistica del Fascismo ed anzi larga parte hanno avuto nell’orientare esteticamente ed organizzativamente le aree culturali di riferimento attraverso il collegarsi ideale alle riviste del primo Novecento), e dall’altro l’incapacità di gestire la crisi in cui la cultura artistica liberale, avanguardista e vociana, era finita dopo la prima guerra mondiale. Consapevoli dell’irreversibilità della crisi sono sicuramente i rondisti, i quali, attraverso un classicismo eminentemente restaurativo, provano almeno a tamponarla, non risolvendo il problema e prolungandone soltanto l’agonia. A questo punto, è evidente che, per quanto concerne i Selvaggisti (la linea Papini-Soffici-Malaparte che prende il nome dalla rivista «Il Selvaggio» cura da Mino Maccari nel 1924) ed i Novecentisti (il cui più importante rappresentante fu Massimo Bontempelli, per un certo tempo affiancato proprio da Curzio Malaparte e Margherita Sarfatti51), c’è da dire che la difesa dei rispettivi campi culturali, è stata condotta senza pretese di modernismo e/o riallacci europeistici ed internazionalistici che non interessavano. Così, in maniera involontaria, essi superano la cultura liberale dichiarandosi lontani, parimenti, sia dall’avanguardia storica che dal vocianesimo. Da un lato, infatti, l’avanguardia – e molti Novecentisti erano stati Futuristi convinti – se aveva rappresentato una svolta nuova e moderna rispetto alla cultura tardo-ottocentesca, sembrava adesso non poter dire nulla di nuovo ad un movimento che si proponeva di essere propositivo e ricostruttivo insieme, tutto al più poteva esserne la matrice, ma anche in questo modo, comunque doveva essere necessariamente superata nei fatti e nelle teorie52. Dall’altro lato, il vociane51 52

ASOR ROSA A., ivi, pp. 1503-1527. ASOR ROSA A., ivi, pp. 1500-1501.

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simo, in quanto primo esempio di letteratura impegnata, intellettualistica e morale ad un tempo, non sembrava essere l’orizzonte militante dei nuovi intellettuali fascisti, né sembra essere fascista in senso lato. O troppo borghese (la Voce) o troppo arretrata (l’avanguardia), la cultura del tempo, sembra agli intellettuali fascisti, sempre troppo poco attiva (nel senso gentiliano del termine) o troppo borghese e perciò, entrambe sono considerate incapaci di essere paradigma della nuova identità culturale ricercata dal regime. Il paradosso è che il fascismo, da un versante opposto (ma se pensiamo ai trascorsi socialisti di Mussolini non dobbiamo meravigliarci troppo) addossa alla cultura del tempo la stessa accusa che, negli anni Dieci del Novecento, Gian Pietro Lucini rivolgeva alla cultura a lui contemporanea. Lì, sul banco degli imputati, si metteva il dannunzianesimo e la stessa politica antiproletaria ed antisocialista dei vari governi (Giolitti compreso), qui invece, si contesta alla borghesia l’incapacità di saper conciliare le istanze del modernismo con quelle della tradizione o di non saper trovare una propria ed idonea identità nel segno della modernità53. L’identità, invece, per Selvaggisti e Novecentisti c’è ed è il fascismo stesso, pur con tutte le sue contraddizioni. Il problema che le due correnti si pongono non è l’identità fascista, ma come interpretare il movimento, considerandone compiti e funzioni all’interno di diverse realtà e situazioni. Il Futurismo esce dal movimento fascista proprio perché la modernità del fascismo non può essere perennemente sperimentale. Il Fascismo, infatti, considerandosi come coincidente con l’ordine esistente, non può essere continuamente rivoluzione e dunque, non può ospitare al suo interno un contraddizione così forte come il futurismo, per definizione continuamente in progress. In un’ottica di «modernità del ritorno alla tradizione»54, è chiaro che si esclude ogni collegamento ad una modernità avanguardista, anche quando i caratteri di antimodernismo, gerarchismo, autoritarismo e tradizionalismo sono ancora al di là da venire. Selvaggisti e Novecentisti sono per l’ordine, un ordine geometrico, al limite della squadratura, cercato e 53

FANTASIA R., Alle origini della poesia del Novecento. Pascoli e D’Annunzio, Garigliano, Cassino, 2002 e FANTASIA R., TALLINI G., Poesia e Rivoluzione, cit., pp. 49-75. 54 La definizione è di A. ASOR ROSA in La cultura, cit., p. 1503.

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reclamato, anche quando lo stesso concetto di ordine non sembra avere definizioni e contorni certi e delimitati con evidenza. Proprio questa loro affannosa ricerca di ordine, ma senza avere un progetto vero e degli scopi altrettanto seri e reali, è il loro più evidente limite. Accantonati dal regime proprio per questa loro mancanza di organizzazione e di motivazioni, saranno costretti a partecipare alla vita culturale del regime attraverso le vecchie regole della diffusione letteraria: l’attività di gruppo e le riviste. I risultati allora, non potevano che essere limitati e compresi lo stesso nella visione totalitaristica ed uniformante del regime. Visti, infatti, dal punto di vista del processo di normalizzazione culturale, quei risultati non sembrano aver conseguito scopi particolari, se non all’interno di un processo di costruzione dell’essere fascista genericamente inteso. Se, invece, li guardiamo da un punto di vista dei prodotti artistici e/o culturali dell’epoca di riferimento, allora non possiamo che considerarli, non solo negativi e non decisivi, ma soprattutto retroguardia, di una posizione avanzata, ma pur sempre retroguardia.

6. Il manganello e la poltrona Per i musicisti italiani dell’epoca, dunque, la cultura è la letteratura e quindi, per necessità, devono scontrarsi anche con le due correnti prima citate. Delle due soprattutto la seconda, che raccoglieva al suo interno non solo scrittori come Bontempelli, ma anche pittrici come la Sarfatti, aveva maggiore capacità di assorbire la componente musicale. Invece, soprattutto i compositori della Generazione dell’Ottanta, non rientrarono in questa dicotomia tra Selvaggismo e Novecentismo perché, i più, non comprendevano né contemplavano, all’interno delle loro poetiche di riferimento, né il rispetto della tradizione (in questo caso rappresentata dal teatro lirico e soprattutto dalla corrente verista e dai pucciniani), né, tanto meno, la ossessiva tendenza alla ricerca di un’arte prettamente moderna e fascista. Anzi, il rapporto con la letteratura del tempo passa direttamente per due vie, entrambe attive e dotate di senso collaborativi e parimenti ideale: le riviste (che vivono uno sviluppo molto ampio, simile per certi versi a quello delle riviste letterarie del primo Novecento, per importanza dei contenuti e per

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proposte poietiche) e il diretto rapporto con gli autori, particolarmente D’Annunzio e Pirandello. Se Gozzano teme di morire «gabrieldannunziano» e Saba considera quanto meno inutile il puer pascoliano, non nella stessa maniera la pensano Pizzetti e Casella (proprio nei confronti del Pescarese) o Malipiero (nei confronti di Luigi Pirandello). Per di più, sono proprio gli studi musicali a determinare le nuove capitali della musica italiana (non solo nella composizione, ma anche nella ricerca storicomusicale) in un ambito che è anche letteratura e ricerca letteraria e musicologica, si pensi, per questo, oltre che a Venezia, anche e soprattutto a Torino55. Dalla lettera del “Comandante” Gabriele D’Annunzio ad Alfredo Casella (cfr. infra, n. 8) emerge con chiarezza sia la solidità di un rapporto diretto ed amicale che si fonda sulle attinenze poetiche comuni tra il pescarese ed il compositore, sia il rispetto del poeta per l’arte del musicista, comprese entrambe in una sorta di confusione ideale tra la matrice creativa di ognuno e le scelte poetiche individuate. Per entrambi la poesia/musica è una forma totale, capace di aprire esteticamente mondi alla conoscenza e suscettibile (per questo) di una sua continua adattabilità ai contesti che di volta in volta vedono il suo manifestarsi. L’opera d’arte è work in progress non solo perché si apre alla comprensione come oggetto totale, ma anche perché, la sua verità (la sua ipostaticità direbbe Heidegger) è tale in quanto evento che si mostra. E l’evento, di per sé, essendo immediato, trapassa a simbolismo di un’età e di un’epoca caratterizzandosi come verità/evento di quel solo momento e non altri. Il poeta/musicista è dunque un Superuomo che, 55

Su Torino e sulla cultura torinese durante il fascismo, cfr. D’ORSI A., La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino, 2000. In particolare Torino, tra le città che più subiscono la fine della cultura positivista e poi liberale, è quella dove maggiormente si riscontrano cadute organizzative e stagioni musicali ripetitive, fiacche ed abitudinarie, quasi che la città stessa sentisse la noia stantia di un secolo defunto. Soprattutto intorno al Teatro Regio si muovono le fila di un tentativo (timido) di rinnovamento grazie all’opera di Guido Maria Gatti, prima attraverso le riviste (la «Rassegna Musicale» in opposizione alla positivistica «Rivista Musicale Italiana») e poi attraverso la riflessione crociana sull’arte e sulla ricerca musicologica (MILA M., L’opera di Guido M. Gatti nella cultura musicale italiana, in «SP», III (1974), pp. 121-127, ID., La Pro Cultura e la musica a Torino, introduzione di E. BASSI, prefazione di M. MILA, Pro Cultura, Torino, 1974 e GATTI G. M., Torino musicale nel passato, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», I (1967), pp. 80-88)

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dominando la materia da cui scaturisce l’evento, per esteso domina anche la società che dovrebbe comprenderlo ed interiorizzarlo. L’arte aristocratica dunque, proprio come voleva Vittorio Pica, è tale solo se i simboli ed i segni di essa permangono grazie alla mediazione autorale del suo produttore. Ad un livello conflittuale più aperto invece, si colloca il rapporto collaborativo instauratosi tra lo stesso D’Annunzio e Pizzetti, questa volta però condotto attraverso non l’unitarietà di vedute, ma attraverso una discussione franca sui modi e sulla funzione della parola poetica rispetto alla musica. Il primo, poeticamente convinto della superiorità della poesia rispetto alla musica, infatti, pone nella condizione dicente del testo e della parola poetica la vera essenza della natura interpretativa e della realtà dell’opera d’arte. Pizzetti, invece, convinto che la musica possa, per la sua natura asemantica (e quindi ancora romantica rispetto al decadente pescarese), non solo esprime il sé della opera d’arte attraverso le proprie peculiarità linguistico-formali, ma compone se stessa all’interno di un disegno costruttivo che parte dal reale dell’opera musicale e si espande, wagnerianamente, alla totalità delle arti. Come si vede, nella querelle tra i due autori, si nota una certa identità di vedute con le correnti di riferimento: il primo, D’Annunzio, totalmente decadente, intimamente convinto che l’opera dell’avvenire sia una poesia totale, fortemente esprimente ed autogenerantesi dai suoi principi e postulati di base, mentre il secondo è romanticamente e teatralmente convinto che la realtà dell’opera debba esprimere un assoluto che è la perfetta dimensione di ogni linguaggio e soprattutto di quello musicale. Si ripete insomma, il dualismo tutto italiano tra una arte assoluta, schiava delle forme e solo attraverso esse comprensibile e rappresentabile, ed un’arte rappresentativa, automodulante, continuamente in formazione e tale solo perché investita di una funzione specifica. Pur se autenticamente anticulturale (si pensi alla retorica anticulturale del richiamo al manganello contro l’intellettuale in poltrona), il fascismo, una volta preso il potere è costretto a darsi una minima identità culturale. Così, nel 1925, al congresso degli intellettuali fascisti,

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presieduto da Giovanni Gentile56, al fine di rafforzare questo specifico aspetto, si richiede la fondazione dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura e della Reale Accademia d’Italia. I due corpi culturali ufficiali del regime vedranno la luce nel giro di un anno con lo specifico compito di plasmare la nuova nazione sui principi della rivoluzione fascista e sostituire, ancora una volta fascistizzando ma non sostituendo d’imperio, le strutture accademiche regionali già presenti e dotate di una storia secolare. Fra il 1928 ed il 1930 si completa l’inquadramento corporativo degli intellettuali e ne viene sancita la fascistizzazione con la nascita della Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti dei Professionisti e degli Artisti57. Per la vita musicale, invece, già nel 1923, il teatro Alla 56

È proprio in questo caso che Giovanni Gentile, teorizzando la necessità di una cultura nazionale e fascista, risultato più evidente della rivoluzione in atto, si spinge ad osservare come, l’avventura del PNF, in fondo non fosse molto dissimile (a suo parere naturalmente) da quella avviata – cito testualmente - «dai fascisti del ’48 e del ‘60» (si riferisce cioè alle prime due Guerre di Indipendenza). Egli ne rintraccia analogie e prospettive di maggiore apertura per il futuro affermando perciò la necessità, da un lato, di applicare un’intransigenza assoluta circa la scelta del personale adatto alla nuova coscienza fascista ed italiana e dall’altro «transigenza massima, dove una cultura o altro bene, che abbia un intrinseco pregio, possa […] adoprarsi come valido strumento alla grande opera di costruzione, che la missione del fascismo» (GENTILE G., Discorso inaugurale dell’istituto Nazionale Fascista di Cultura (1925), in Fascismo e Cultura, Treves, Milano, 1928, pp. 61-64). Le idee espresse da Gentile (soprattutto al riguardo di una confusione ideale tra il risorgimento e la rivoluzione fascista) non sono isolate. Già nel 1923, Gioacchino Volpe, ripercorrendo gli anni del dopoguerra e la nascita del movimento fascista, ne aveva delineato l’evoluzione a partire dalla costruzione di una ragione storica (e non solo ideale) che accomunava il risorgimento preunitario al presente. Anzi, in questo modo la rivoluzione fascista diventa il momento conclusivo della rivoluzione avviata ottanta anni prima e la stessa prima Guerra Mondiale è stata la necessaria causa che ha permesso che si affermasse la consapevolezza della verità storica (VOLPE G., Giovine Italia (1923), in Guerra, dopoguerra, fascismo, La Nuova Italia, Venezia, 1928, p. 282). La necessità invece di costruire una dirigenza nuova e responsabile secondo il nuovo metro di misurazione fascista, tornando alla figura del burocrate, influenza soprattutto i compiti dei nuovi dirigenti scolastici, i quali, sono allontanati dall’insegnamento e posti in condizione di dirigere l’istituto solo attraverso la applicazione della legge e delle norme e circolari emanate dalla amministrazione centrale (pagine antologiche sull’argomento sono rintracciabili in BELLUCCI M., CILIBERTO M., La scuola e la pedagogia del fascismo, Loescher, Torino, 1978, pp. 226227; più genericamente, vale ancora quanto scritto, sempre sullo specifico, da BOBBIO N., La cultura e il fascismo, in QUAZZA G. (a cura di), Fascismo e società italiana, Einaudi, Torino, 1973, p. 231 e CANNISTRARO V., La fabbrica del consenso. Fascismo e Mass Media, prefazione di R. DE FELICE, Laterza, Bari, 1975, BIONDI D., La fabbrica del Duce, Firenze, Vallecchi, 1964, SILVA U., Ideologia e arte del fascismo, Milano, Mazzotta, 1973). 57 Sulla corporativizzazione degli scrittori è interessante il dibattito cui, proprio Selvaggisti e Novecentisti, prendono parte. Citiamo qui soltanto due posizioni, peraltro emblematiche

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Scala e l’Accademia di Santa Cecilia erano passate sotto la diretta gestione statale58. In questo modo, si danno soluzioni amministrative ai problemi culturali e si considera ogni fatto culturale come strumentale all’interesse politico del regime e del momento. Nella sostanza, la politica culturale del fascismo si esplica attraverso la creazione di una apparato burocratico centralistico e centralizzato che impedisce ad intellettuali e artisti ogni deviazione verso confini, scopi e fini non contemplati dal regime stesso o in aperta antitesi con esso. Il paradosso è, semmai, che Mussolini per primo considerava questa macchina la cinghia di trasmissione attraverso cui avrebbero dovuto mettersi in pratica i principi della rivoluzione culturale del fascismo. In effetti però, avrebbe dovuto esser chiaro già agli occhi degli ideologi fascisti che, una macchina siffatta - adunante correnti, stimoli e spiriti artistici così eterogenei tra loro – non poteva funzionare, ma solo stare insieme sotto l’egida unificante del pensiero di Giovanni Gentile, il quale, con la teoria dello stato etico di hegeliana memoria, aveva in qualche modo dato un tetto a congetture, teorie, visioni, ideologie e poetiche che nulla avevano da spartire con i propri compagni di viaggio e che anzi, molto spesso, risultavano anche in aperto conflitto tra loro. Non solo, ma la stessa teoria ricostruiva anche il concetto di intellettuale poiché, nella costituzione del nuovo stato, diventava nedelle diverse teorizzazioni e delle diverse visioni e concezioni anche della figura dell’autore. Per Bontempelli gli scrittori sono professionisti e quindi, se è complicato dare una definizione puramente artistica dei suoi compiti e delle sue funzioni, nel campo dell’attività pratica, la cosa è molto differente: «in materia d’ardine pratico non c’è dubbio: la professionalità comincia dove comincia un rapporto di natura giuridica. È scrittore colui che mediante un suo scritto stabilisce rapporti economici» (BONTEMPELLI M., L’avventura novecentista, a cura e con introduzione di R. JACOBBI, Firenze, 1974, pp. 51-52). Di diverso avviso è Ardengo Soffici, il quale invece, teorizza la creazione di un collegio sindacale, messo in piedi d’autorità, che sulla base di una graduatoria degli artisti, affidi committenze e lavori, anche gerarchizzando, non solo gli autori, ma anche le forme artistiche (SOFFICI A., Per un ordinamento artistico corporativo. Schema, in «Il Selvaggio», V (1938), 21-22, pp. 77-78). Per un quadro di insieme, si guardi anche Antologia della rivista «’900», a cura di A. FALQUI, Lucugnano, Edizioni dell’Albero, 1958, MANDICH A. M., Una rivista italiana in lingua francese. Il «900» di Bontempelli, prefazione di C. BIONDI, Pisa, Libreria Goliardica, 1983, ALVARO C., BONTEMPELLI M., FRANK N., Lettere a «’900», a cura di M. Mascia Galateria, Roma, Bulzoni, 1985. 58 LANZA A., Dagli anni Trenta alla ricostruzione del dopoguerra, in Storia della musica, vol. 10/II, Il Novecento, a cura di A. BASSO, EDT, Torino, pp. 86-101 e SABLICH S., Il Novecento. Dalla “Generazione dell’80”a oggi, in Storia della Letteratura Italiana, VI, Teatro, musica e tradizione dei classici, Einaudi, Torino, 1986, pp. 413-432.

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cessaria anche il ripensamento della figura del letterato e della sua diretta derivazione ideologia e cioè l’intellettuale, prima liberale ed ora fascista. Anzi, a ben guardare, proprio il passaggio dalle poetiche alle ideologie, trasforma il letterato (identificato solitamente con il poeta, D’Annunzio docet, come se il narratore fosse personaggio di “Serie B” nel campo della letteratura e dunque altro rispetto alla stessa produzione letteraria) in una figura che ora impone le proprie scelte in nome, non più dell’arte, ma di una rivendicazione della produzione letteraria anche (e non solo) politica. La letteratura diventa ideologia e la stessa produzione si trasforma in un’arma di pressione e denuncia che deve essere il grimaldello per aprire dall’interno la società e porla di fronte ai suoi problemi. Soltanto così si comprende anche la distanza che separa l’idea di intellettuale in Gramsci, fondamentalmente ancora liberale, e la dimensione artistico-letteraria degli autori che, invece, agiscono sotto il Fascismo. Il primo, infatti, mira alla rivoluzione marxianamente intesa, come sovvertimento anche artistico delle regole e delle risposte che si danno ad essa, gli altri, invece, considerano la letteratura e l’arte in genere o come un momento ancora verista di denuncia e/o narrazione pura, oppure come fenomeno che non deve essere inficiato dalla realtà e che, nella prosa d’arte (cioè, nello scrivere al di là di ogni trasformazione formale e strutturale della parola e della narrativa), deve trovare la massima espressione di una qualità narrativa che prescinde dal clima e dalla temperie culturale cui essa si riferisce, oppure, ancora e non ultimo, come momento di totale fedeltà al sé, identificato come parte del mondo esterno e compreso come specchio naturale dell’esistere. Come si vede, dunque, posizioni abbastanza lontane tra loro che non toccano minimamente il problema, né di una cultura di regime (pretesa del fascismo), né tanto meno, ne sottolineano la distanza ideologica, impegnati come sono a discutere di teoremi letterari e quant’altro, ma non disposti a verificare davvero la loro organicità o distanza dal regime. Saranno soprattutto questi i motivi per cui, caduto il fascismo, le nuove correnti letterarie non accetteranno, né la lezione ermetica, né quella di altri, salvando solo Vittorini e considerando come valido (per meri calcoli politici compiuti da Togliatti), ai fini della nova cultura, il solo pensiero gramsciano e solo quello espresso da I quaderni dal carcere.

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Ritornando allora alla teoria gentiliana dello stato e dalla definizione dell’intellettuale, il risultato dell’ircocervo chimerico che Gentile disegna è un uso smodato della retorica, presente e pressante ad ogni manifestazione ed in ogni scritto che interessi la cultura del tempo. Accanto ad essa, ben preso si installa anche una furia xenofoba e reazionaria che accelera il progressivo distacco della cultura italiana in genere dall’Europa e dalle linee culturali dell’epoca e ci costringe alla solitudine (scambiata per necessità dell’autarchia) ed alla diffidenza degli altri stati. La necessità di una politica culturale autarchica, che aveva già imposto la traduzione in italiano di ogni parola straniera e particolarmente inglese, ci conduce adesso verso la nascita di una Commissione per l’Epurazione Libraria (1939), di cui fanno parte Marinetti e Pavolini, che è il sigillo imposto alla nostra deficienza culturale. Vecchi razzisti nostrani (Giovanni Preziosi) sono riesumati insieme agli scritti di Evola e Lombroso e dopo l’Asse Roma-Berlino (1936), riproposti in una chiave antisemita che era estranea al paese e utilizzata solo per compiacere l’alleato tedesco. All’ombra di una retorica di regime, annegata nel culto della Romanitas (e non in quello della Latinitas che aveva invece intriso l’intera cultura italiana dalle origini a quei giorni) e capace soltanto di produrre modelli per l’indottrinamento di massa, la vecchia cultura liberale mantiene una presenza forte, mirante a rimanere nel tessuto connettivo del paese al fine di ricostruirlo una volta caduto il regime. Infatti, gli intellettuali dell’epoca, formatisi in un clima precedente al fascismo, hanno fatto atto di sottomissione al regime stesso, hanno assunto posizioni opportunistiche all’interno della struttura politica del partito o hanno accettato supinamente le imposizioni del regime stesso, sino ad avere atteggiamenti opportunistici, quando non dichiaratamente servili, soprattutto verso le gerarchie. Paradossalmente, è la stessa visione aristocratica ed astratta della cultura che conduce l’intellettuale del tempo dal blocco antigiolittiano e filofascista del primo dopoguerra a fornirgli l’alibi a difesa di se stessi, del proprio nicodemismo e del fascismo stesso. Non è un caso che la riforma della scuola, la cosiddetta Riforma Gentile (1923), sia la messa in pratica della vecchia cultura liberale, sia pure mediata dal pensiero hegeliano e fondata sull’ossessiva costruzione di una classe

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di governo la cui preparazione al domani è basata sulla superiorità della cultura umanistica rispetto a quella tecnico-scientifica. Il panorama musicale durante il ventennio non si discosta più di tanto dal panorama offerto dalle altre arti e discipline. anche qui il regime non sopportò alcuna variante, né accetto o vide di buon grado chiunque non si attenesse scrupolosamente alle indicazioni di metodo offerte dalla propria consorteria o corporazione. Però, contrariamente alla letteratura, nel campo musicale la libertà fu maggiore. Eccezion fatta per i pennivendoli di regime come Giuseppe Blanc (l’autore di Giovinezza), infatti, la musica e la composizione musicale furono meno controllate, vuoi per un minor controllo esercitato sui compositori da parte del MINCULPOP, vuoi per un disinteresse generale del pubblico verso la musica e la poesia. Non a caso, sono più controllati Corrado Alvaro (Gente d’Aspromonte e L’Amata alla finestra) o Alberto Moravia (Gli indifferenti), entrambi romanzieri e quindi autori di un genere più facilmente raggiungibile da un pubblico libero, che non gli Ermetici (la cui poesia era considerata per lo meno ostica), lo stesso Dallapiccola o Cesare Pavese (Lavorare stanca) e Carlo Emilio Gadda (Adalgisa), che pure provenivano da un cauto antifascismo – e quindi potevano essere soggetti a maggiori attenzioni – trovano un propria strada ed una propria poetica, diversa dal fascismo e già centrata sulle poetiche del secondo dopoguerra. Del resto, sul rovescio della medaglia, la rivoluzione fascista trova oppositori interni nei ribelli antiborghesi come Romano Bilenchi (organico al Selvaggismo di Malaparte e Maccari), Elio Vittorini (Conversazione in Sicilia) e Vasco Pratolini, i quali, per anni, tennero proprie rubriche su il «Bargello» e su «Foglio d’ordini», organi della Federazione dei Fasci di Combattimento. Grazie alla minima libertà di movimento e di pensiero offerta suo malgrado dal regime, emersero dunque scelte poetiche libere, non influenzate dalla politica culturale fascista e soprattutto orientate al nuovo. Certo, ci furono anche risposte ossequiose, fasciste nei modi e nei contenuti, non ultima la riproposizione di un gretto verismo liricoteatrale che ebbe in Giuseppe Mulé e Adriano Lualdi massimi epigoni in quanto deputati del PNF e membri di diverse commissioni di politica musicale. Morto Puccini (1924) ed emigrato negli Stati Uniti Toscanini (1931), il clima musicale italico è dominato da Mascagni, unico musicista ad essere ammesso nella Reale Accademia di Italia, fa-

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scista della prima ora ed accanito sostenitore di campagne contro la degenerata arte musicale delle avanguardie e del Jazz americano59. Teorico di un’arte di regime improntata al tonalismo fine Ottocento e legato ai modelli soliti del teatro italiano, vasta eco ebbe il suo modestissimo Nerone (1935), il quale, in vista di una romanizzazione del fascismo e di un imperialismo italico, ebbe tanta vasta risonanza ed eco che, in una prima rappresentazione, avrebbe dovuto essere addirittura rappresentato al Colosseo di fronte ad un pubblico di massa ed a prezzi popolari. Di fronte al grigiore della cultura imperante, la musica dei compositori dell’Ottanta (e di coloro che ne avevano recepito gli insegnamenti) mantenne una sua dignità artistica ed intellettuale, anche quando, dopo una stagione iniziale fatta di atonalismo e ricerca del moderno (per stili e linguaggi), si tornerà alla tonalità ed alla ricerca di un suono aristocratico, in sintonia con la tradizione antica e progettato proprio nell’ottica di quella. La riscoperta di Monteverdi, Marenzio, i due Gabrieli e Frescobaldi e di tanti altri autori tra Cinquecento e Settecento, unita alla ricerca di sonorità orchestrali e non che proponessero continuamente e nuovamente l’aspetto intimistico tipico di tanta musica da camera o che af59 Su Mascagni rimane ancora degno punto di riferimento, almeno per la comprensione del personaggio, Pietro Mascagni, a cura di MORINI M., Sonzogno, Milano, 1964. Ai fini, invece, della discussione generale sull’epoca, sulla importanza e sul complesso della opera verista, cfr. SANTI P., Passato prossimo e remoto nel rinnovamento musicale italiano del Novecento, in «Studi Musicali», 1972. Sulla biografia, il pensiero, l’opera musicale e l’attività politica di Arturo Toscanini (repubblicana per eredità paterna ed anarchica per zona di nascita e mutuo soccorso tra emigranti) la bibliografia (ed anche la discografia) è sterminata. Segnaliamo qui soltanto alcuni tra i testi che consideriamo utili alla comprensione del rapporto tra il grande direttore d’orchestra ed il fascismo, a cominciare dalla pubblicazione dell’epistolario del maestro a cura di H. SACHS, Garzanti, Milano, 2003. Altrettanto degni di nota - particolarmente per disegnare al meglio il personaggio, sempre fiero e sicuro della propria rettitudine morale (tanto da opporre secchissimi e orgogliosissimi no persino a Mussolini) - sono SACHS H., Toscanini, Saggiatore, Milano, 1988, BERGONZINI L., Lo schiaffo a Toscanini, Bologna, Il Mulino, 1991, MELOGRANI P., Toscanini, Mondadori, Milano, 2007, BALESTRAZZI M., Toscanini secondo me. Il più celebre direttore d’orchestra in un secolo di testimonianze, L’Epos Editore, 2005, e ID., La lezione continua, in «Amadeus», 1 (206), 2007, pp. 39-44. Sulle idee repubblicane di Toscanini ed il ruolo svolto negli USA, prima e durante la seconda guerra mondiale, come protettore di anarchici e fuoriusciti antifascisti, cfr. EMILIANI V., La politica: per la repubblica e la libertà, in «Amadeus», 1 (206), pp. 43-44. Sui rapporti con la Scala rimane utile invece BARBLAN G., Toscanini e la Scala. Testimonianze e confessioni, a cura di E. GARA, Milano, Edizioni della Scala,1972.

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fidassero a pochi strumenti la ricerca di sonorità nuove (vedi per esempio la chitarra) e la ricerca di soluzioni espressive ed armoniche anticate certo, ma moderne per il loro uso e per gli effetti scatenati a livello estetico e di gusto (vedi l’uso di armonie modali o la soluzione di cadenze gregoriane con l’abolizione della sensibile) determinano nuove linee compositive, certo intese secondo una lettura Novecentista, ma non miranti a determinare uno stile nuovo, capace di imporre linguaggi e trasfigurare estetiche e poetiche60. Ciò che interessa loro è superare i principi stessi cui tutto il Novecento si era fino allora uniformato e cioè spiritualismo ed estetismo, superamento della nozione di arte come esperienza eccezionale avulsa dalla realtà italiana, sfiducia nel rapporto tra individuo e società e comprensione della figura dell’artista come coscienza superiore alla società. In questa direzione si muoveranno soprattutto Luigi Dallapiccola, Goffredo Petrassi e Giorgio Federico Ghedini. Tutti e tre cercheranno un territorio di ricerca stilistica ed espressiva comune, basato sull’arcaismo, sull’antico moralismo armonico e sul gregoriano. Accanto a questi temi, essi affiancano una serie di suggestioni letterarie contemporanee (D’Annunzio, Papini, Cardarelli) e/o più antiche (particolarmente duecentesche e prima ancora greco-antiche) o legate all’età d’oro della letteratura italiana (Lorenzo il Magnifico, Boiardo). 60

La riscoperta degli autori italiani, soprattutto del Cinquecento e Seicento, ma anche del Settecento (particolarmente veneziano), è compiuta sia sul piano dell’utilizzo delle formule e delle tecniche compositive da quegli autori utilizzate, sia sulla riscoperta anche delle correnti di appartenenza e quindi su di un più generale piano storico-musicale; soprattutto la «Associazione dei Musicologi Italiani», cui appartiene il giovane Torrefranca, si muove in questo senso. Si veda GASPERINI G., L’Associazione dei musicologi italiani, in «Rivista musicale italiana», XVIII (1911), particolarmente alle pp. 637-639, in cui si reclama, a gran voce, la necessità di «procedere alla ricerca, alla ricognizione e alla catalogazione di tutta la musica antica, teorica e pratica, manoscritta e stampata, esistente nelle biblioteche e negli archivi pubblici e privati d’Italia, per servire di base ad una grande edizione critica delle opere complete dei nostri migliori autori» (p. 638). La rivendicazione cade a proposito per comprendere al meglio la necessità dei compositori della cosiddetta Generazione dell’Ottanta di trovare stimoli, se non nell’antico, almeno nella percezione che la cultura del tempo aveva della musica del passato, soprattutto italiano. Nel riscoprire quei musicisti e quelle partiture, non c’è dunque una rivendicazione nazionalistica, ai limiti dello sciovinismo musicale (che pure il Fascismo tenterà, senza alcun successo, di imporre come lettura culturale), ma soltanto un interesse linguistico e storico-musicale (nel senso della ricerca delle fonti della musica italiana moderna) che mira a ricostruire un rapporto filologico diretto tra le pratiche musicali (esecuzione ed interpretazione) e la composizione stessa.

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Ciò che contraddistingue i tre autori su citati, rispetto ai compositori che li hanno preceduti, è la mancanza di una necessità critica che giustifichi le proprie scelte poetiche. Mentre per Dallapiccola – che pure ha svolto nel tempo una notevole attività critica - scrivere della propria idea di musica, è più che altro un chiarire a se stesso (piuttosto che ad un pubblico), Petrassi e Ghedini mai sentiranno il bisogno di tradurre in parole ciò che investe la propria produzione. La ricerca sul linguaggio, pur se non mira ad un radicalismo aperto (come nel caso del coetaneo Messiaen), pure, cerca una propria autonomia ed indipendenza. Pertanto, la loro eredità, non deve esser vista come una ricerca incompleta, quanto piuttosto come testimonianza di un compito morale e civile dal quale la musica non può prescindere, soprattutto nel gioco di rimandi che, dal passato, vanno verso la loro contemporaneità. Ecco perché Petrassi ricorre alla messa in musica del Coro di Morti (dal Dialogo di Federigo Ruysch con le sue mummie), Dallapiccola raccoglie le voci di prigionia di grandi del passato (nei Canti di prigionia) e Ghedini intona il Pianto de la Madonna di Jacopone da Todi (autore a cui anche Dallapiccola dedica due composizioni). Leopardi, Jacopone e le Lamentationes captivitatis di Maria Stuarda, Boezio e Girolamo Savonarola rappresentano non un modello, ma il modello, casus tanto inarrivabile quanto utilissimo per raccontare la tragicità del presente attraverso l’invocazione e la denuncia del mondo moderno in preda al caos. Si ripristina dunque l’antica idealità, tutta classica, della lamentatio come forma massima dell’espressività dolorosa; il lamento, il pianto divengono infatti unica dimensione dicente, sia per quanto riguarda la semplice comunicazione, sia per quanto concerne la validità estetica di quello stesso dire.

7. La rivoluzione mancata (II). La poetica del Futurismo ed il Futurismo musicale: Pierrot e il Manichino Decadenza, umiltà, egoarchia potrebbero essere le parole d’ordine che Simbolismo, Futurismo e Crepuscolarismo – in un coacervo di scelte e definizioni – usano e propongono come personale manifesto espressivo. Ciò che è interessante è che in ognuna di loro sono com-

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prese (in frammenti e/o in parti ben individuabili e distinguibili come sé) tutte e tre le voci. Ogni decadenza, da cui Lucini è ossessionato, conserva al suo interno l’umiltà e l’egoarchia. Quando Marinetti mette a punto il Manifesto non chiude ad altre forme espressive, se non a quelle dell’immediato passato letterario. È vero che l’egoarchia è un governo anarchico dell’io artistico, ma è altrettanto vero che anche l’umiltà gozzaniana e la decadenza luciniana sono osservate come forme riflesse di un’anarchia del sentire che viene a porsi come fonte primaria della poetica di ognuno. Semplicità e toni bassi sono le formule vincenti delle poetiche stesse e sono il cardine su cui poggia la stessa vivacità delle estetiche predominanti. Ciò che le tre correnti suggeriscono anche alle altre forme espressive dell’Avanguardia storica è proprio questa nullità dell’arte lì dove tutto è arte: nulla è arte e viceversa. La complessità estetica e produttiva dell’opera d’arte passa in secondo piano insieme a tutti gli accidenti retorici e le tipologie versificatorie solitamente utilizzate. Quell’assoluto che Croce rintracciava anche nella struttura formale del prodotto viene ora ripensato e ricostruito non nella metrica e nella forma, bensì soltanto nel contenuto, con ciò trasformando obbligatoriamente stili, abitudini e strutture delle forme poetiche comunemente intese. Il versiliberisimo è forma nuova dell’arte anche perché nasce dall’annullamento di se stessa come classica forma e muta in varianti diverse e non sempre aprioristicamente codificate nell’obbedienza retorica. In particolare, è proprio il Futurismo che deduce dalle proprie posizioni un’estetica siffatta, e ad essa purtroppo, non ci si è avvicinati abbastanza. Assiologia del moderno ed ontologia si fondano nella accentuazione di momenti strutturali ed in una ripresa della funzione allegorica dell’arte: una sorta di spiritualizzazione dell’arte dall’interno della civiltà tecnologica che non esorcizza abbastanza Croce e che tiene il movimento stesso su una linea d’avanguardia soltanto formale/costruttiva e non anche contenutistica. Formule teoriche come “l’estetica della macchina”, il culto stesso della velocità, le poetiche della decadenza evidenziate da Lucini o il suo ruolo nei confronti del Futurismo stesso, sono dunque scelte poetiche dotate di una riflessione “a monte” che ne evidenziano consapevolezza e coscienza di essere movimenti letterari non aperti al nuovo,

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ma immersi nel nuovo che loro stessi portano scambiandosi anche tecniche, forme e giudizi. La teoria del verso libero da questo punto di vista è esemplare nella sua interscambiabilità: di fronte alle scelte luciniane, sarà proprio l’approccio al verso libero che permetterà a Marinetti di sviluppare quella “fenomenologia del divenire e del perpetuo svolgimento” che si pone alla base dell’ideologia futurista e ne diventa il pilastro portante. Decadenza, umiltà ed egoarchia sono dunque, ancora una volta, principi fondanti che, complessivamente possiamo rimandare a due immagini/chiave del periodo: il manichino e Pierrot. La prima rimanda alla macchina, il secondo invece alle forme più decadenti del sentimentalismo. Questa contrapposizione ci permette di analizzare meglio anche la capacità stessa dei movimenti di risolvere le stesse tensioni estetiche in forme relativamente diverse, originariamente simili (l’antiromanticismo) nella formazione, ma radicalmente diverse negli scopi. Anche sociologicamente, l’opposizione al Romanticismo e la ricerca del nuovo, portano questa dicotomia a divenire la metafora della società stessa in cui i movimenti agiscono. Da un lato infatti, il Pierrot è la dimensione più pura del distacco della poesia dalle tematiche romantiche e l’avvicinarsi metodico al gusto decadente, dall’altro, il manichino è la rappresentazione più pura dell’incapacità dell’uomo moderno di risolvere in meglio le proprie pulsioni ed i propri bisogni, con ciò costringendosi a confondersi ed a chiudersi nel marasma della società delle masse e divenendo così, non più Neue Mensch, bensì massa. Pierrot è l’atteggiamento decadente di disinteresse antiborghese parolaio che contraddistingue l’intellettuale italico di fine Ottocento, alla D’Annunzio per intenderci (eroe e vate superiore a tutto e tutti, critico della borghesia, affetto da superomismo ed organico a quella, fine dicitore e portavoce di una poesia alta, volutamente aristocratica nel senso sociale del termine e non certo letterario quale era invece l’intenzione di Vittorio Pica e dei Novi Musi), mentre il Manichino è la realizzazione dell’uomo-macchina, metà robot e metà essere umano, dominato/guidato dalla massa stessa ed incapace di esprimere una sua personalissima visione del mondo che non sia quella esclusiva del meccanicistico muoversi a comando. In particolare nel Futurismo, lo stesso poeta s’incarica di trasforma-

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re la rinuncia all’individualità attraverso la creazione di un linguaggio poetico altrettanto meccanicistico e portatore di un disordine/ordine che corrisponde a forme di velocizzazione istintiva dello stesso fattore linguistico non coordinate appositamente. Il Manichino non solo si muove a scatti e gesti geometricamente limitati allo spazio ed al raggio d’azione del suo stesso corpo, ma si esprime anche con un linguaggio non convenzionale, soprattutto gestuale che non può essere rapportato in toto al semplice e comune linguaggio espressivo. Deve essere per forza altro, un misto di movimento e gesto/parola che confonda il tutto in una unica visione: più movimento che parola, più gesto che discorso. Lo stesso caos sintattico, voluto e creato, trasforma la reazione estetica in anestetica, poiché il manichino – se non guidato – non può produrre movimento e quindi, per estensione, poesia. Soprattutto il suono/rumore di Russolo obbedisce a questa capacità di trasformare il tentativo di elaborare un giudizio estetico (di gusto o valore) in una negazione del giudizio stesso. Il Manichino – e pensiamo naturalmente ai modelli ideati da Depero e non a quelli metafisici di De Chirico – sono l’antitesi della poesia ed il prototipo della macchina. Esso sta alla massa come la poesia (del passato) all’uomo. Esso non si muove se non attivato e la sua stessa azione è soltanto potenziale, anzi: parafrasando Giovanni Gentile, è potenza pura. Si produce così un “movimento immobile”, o se si preferisce un “movimento potenziale” che è la differenza stessa che intercorre tra manichino e Pierrot. Il manichino deperiano, elaboratissimo, coloratissimo, cromaticamente vivo all’esterno, ma freddo ed indifferente dentro – è la netta antitesi al Pierrot decadente poiché ogni sentimentalismo, ogni prodotto della spiritualità compassata del tardo Romanticismo è soltanto apparenza e per questo accantonata, considerata desueta, inutile e dannosa per l’uomo moderno e per il rapporto che egli stesso vive con la sua epoca e con la modernità in genere. La lettura influenza anche la concezione e l’interpretazione della vita stessa da parte delle tre correnti. Per il Simbolismo luciniano, estetica ed etica dell’artista sono legate a principi di decadenza morale che non solo dipende dalla produttività, ma anche dalle scelte poietiche operate. Per Gozzano e Corazzini invece, l’antidannunzianesimo fa il paio con una ritrovata vena interiore che è il prodotto, non di una

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scelta, ma di una motivata e personale visione della vita, ottenebrata dalla decadenza dell’epoca stessa in cui si vive e si opera e perciò senza palingenetica remissione; per i due poeti Crepuscolari la vita è vissuta come una sconfitta e non come monumento eroico del sé che invece i Futuristi rivendicano continuamente come segno contraddistinguente non solo la propria poetica, ma la loro stessa concezione esistenziale. E sorvoliamo qui sul fatto che, comunque, anche la visione nullificatrice di Gozzano e Corazzini è lo stesso un atto eroico che si evolve autonomamente e che non è costruito dai due poeti. La loro vita è involuzione eroica involontaria, abbandonata alla sua capacità di autoevolversi senza interventi correttivi dei due poeti. L’esatto opposto del vitalismo futurista, ossequioso correttore di tutto ciò che rimane antieroico e vagamente retrò. La vita nei Crepuscolari può essere associata alla maschera del Pierrot ed alla musica di Schönberg, autentica dimostrazione della rarefazione dei sentimenti in un linguaggio di continua attesa armonica che non produce che tensione irrisolta. La concezione futurista invece, egoarchia pura, può essere associata alle marionette di Depero, coloratissime, arlecchinescamente mobili in un caleidoscopio cromatico che le rende continuamente tali, ossessivamente volte alla ricerca di un assetto ordinato che non troveranno mai, proprio perché pensate per un continuo movimento in uno spazio illimitato. Un po’ come la macchina del suono di Russolo – altro futurista che insieme a Depero non è mai stato abbastanza studiato – che costringe l’ascoltatore a porsi in competizione con la macchina stessa ed a definire volta per volta i suoni/rumori prodotti come entità separate che risultano muoversi in un tempo (la propria durata) che non ha spazi e che quindi non permette una valutazione estetica attenta poiché i punti di attenzione sono tutti accuratamente e volutamente cancellati dalla cacofonia prodotta. La vittoria assoluta dell’Ego è quindi una dittatura dell’Io che travalica l’arte e si pone come work in progress che rifiuta ogni addebito scalcinato della contemporaneità. Tutte, come si vede, giocano la loro esistenza e visibilità sulla comprensione di un’arte che si trasforma continuamente automodellandosi ed autoregolandosi ai contesti cui va ad applicarsi. Il versiliberismo è l’altro punto di forza su cui essi fondano l’essenza costruttiva e su cui i principi d’egoarchia, umiltà e decaden-

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za poggiano fortemente; senza di esso l’indipendenza poetica delle tre correnti non potrebbe esistere, così come, peraltro, nemmeno la loro produzione e l’impronta del nuovo che la contraddistingue. Esso è l’unica forma della letteratura ed è il marchio che da un lato evidenzia le differenze tra le correnti e dall’altro le amalgama in un unico fluido stilistico e caratteriale che va poi a toccare anche gli aspetti individualistici esposti dai singoli autori. Abbandonarsi alla solitudine o alla miseria della vita, proprio perché è comunque un atto antieroico autogenerantesi, è lo stesso azione e perciò degna di essere essa stessa eroica. Il non essere poeta di Corazzini è molto simile al modello d’intellettuale proposto da Lucini o Martinetti: l’azione innanzitutto e l’azione poetica su tutto, anche quando è l’opposto di quanto proposto da Gramsci o D’Annunzio. Agire significa intervenire e quindi l’azione – anche quando intervenire è una scelta di non intervento – è sempre eroica. Come i Simbolisti francesi si abbandonavano alla natura in un parossismo sensibile che sfiorava il subire, così Crepuscolari, Futuristi e Simbolisti si abbandonano, ognuno nella sua specifica dimensione, all’azione come se fosse un atto dovuto, pena la mancanza di costruzione estetica e l’incapacità produttiva, ulteriore forma di onanismo artistico. Gramsci e D’Annunzio, come del resto Marinetti, codificano la nozione d’azione, se non fine a se stessa, certamente coinvolta nelle possibilità del sociale, fortemente implicata nell’agire sempre e comunque e ossessivamente rivolta alla costruzione di un nuovo che non bene è ancora codificato, ma solo pensato e dimensionato nel concetto di diverso. Intervenire dunque è sinonimo di agire. Per i nostri autori invece, è proprio la dimensione del sociale che deve essere rimossa, o per lo meno sostituita con la pratica letteraria. L’azione letteraria diventa il tramite vero tra l’agire etico/politico ed il contesto sociale. L’eroe-vate dannunziano non serve, se non per solleticare quelle pulsioni eroico/onanistiche che sono l’immediato dell’azione e non il risultato riflesso della loro azione sulla società. La società di massa non ha bisogno di semplificazioni personalistiche che vadano nel senso dell’eroe/superuomo, individualista e personalista nella costruzione del nuovo nel mondo, bensì di un essere che mostri la validità del nuovo nel mondo: non serve costruire il nuovo se la società che lo deve comprendere non ha i mezzi per poterlo fare.

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Non si deve costruire ma ricreare e mostrare: solo in questa dimensione si educherà la società a concepire il nuovo ed a riprodurlo in senso esclusivamente estetico. Decadenza, umiltà, egoarchia sono interscambiabili tra loro, amalgamate nei proprio contesti e con una specifica missione da compiere che non è più primariamente sociale, bensì esclusivamente e definitivamente letteraria. Tra loro poi, esiste una pluridimensionalità che determina ulteriormente la loro validità ed importanza ai fini produttivi. Umile ed egoarchia ad esempio, sono contemporaneamente soggetto e arma contro la decadenza; umile e decadenza invece sono entrambe facce della stessa medaglia in quanto ciò che è umile non dimostra accezioni artistiche di rilievo se non in uno specifico contesto organizzato e pensato in forme idonee compiutamente preventivate. Egoarchia e decadenza, infine, obbediscono allo stesso schema utilitaristico in cui, il senso dell’Io e la sua forza di imposizione, si fanno decadenza e si rendono attivi verso di essa ed i suoi principi proprio per il progressivo degrado psicologico/caratteriale che proprio Nietzsche aveva individuato ed a cui attribuiva l’incapacità della società stessa di accontentarsi dell’umile, non intendendolo come valore aggiunto alla produzione poetica, ma come mancanza di quelle forti emozioni cui il Romanticismo aveva attinto. I principi antiromantici si evidenziano allora in questa forma esplicita di rinuncia ai suoi fondamenti e d’adesione ad una poetica che, per dirla con Valery, consiste nel “riprendere alla musica” il bene dei poeti. La considerazione di un discorso più unitario che costringa la musica stessa e la poesia a dichiararsi fuse in un unico linguaggio è ossessione soprattutto simbolista. In particolare, si cerca di evidenziare una percezione analogica del mondo che evidenzi la duplicità del reale ed esprima un recondito corrispondersi delle cose, in una visione orfica dell’universo che, secondo lo stesso Mallarmé, è il compito specifico del poeta, operante in base al proprio mondo culturale ed alla propria cultura poetica. Solo in funzione di ciò, egli, successivamente, è capace di elaborare una propria poetica, stilisticamente, contenutisticamente e formalmente diversa dalle altre ed ad esse aderente nei principi espressivi di base. È in una forma di “continuità discontinua” quindi, che le poetiche si esprimono e vivono il rapporto di derivazione/differenziazione e similitarità con il prossimo poetico, i suoi ante-

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cedenti storico/letterari e la loro proiezione in un futuro prossimo. Essendo un movimento impulsivamente estetico e valorialmente dinamico, il Futurismo ossessivamente ricerca soluzioni di contiguità tra prassi e teoria estetica ai fini della restaurazione di quel linguaggio allegorico - originale, simultaneo, elastico – in cui le arti trovino, soprattutto attraverso le tecniche proprie del cinema e del teatro, la loro specificità ed unitarietà. Dare un nuovo senso alle parole, alle operazioni artistiche ed alla destrutturazione del linguaggio, concedere validità nuova alla opera d’arte del futuro e senso alla produttività artistica - sempre coerente con le idee e con il tempo in cui essa si esprime - sono lo scopo principale dei futuristi e non solo la certezza della dynamis. Così, quando la Neoavanguardia, dopo la guerra, si approprierà del termine avanguardia lo farà con preciso riferimento all’annullamento ed alla separatezza dei propri principi da quelli dell’avanguardia storica ed in particolare futurista, dimenticando che le sue prerogative proprio da quella promanano ed a quella ritornano (anche se in forme involontarie). Il gusto stesso che i futuristi perseguono è strettamente collegato alla concezione dell’essere che è nel futuro, come essenza e come azione vitale. La loro è un’estetica normativa proponente un modello di gusto che privilegia i diritti della immaginazione (sin al punto di parlare di «artecrazia») e spinge verso la presa di coscienza di un pubblico vero. Coinvolgere quest’ultimo, farne un caposaldo della propria poetica è l’altro grande e fondamentale aspetto su cui poggia la poetica futurista e che la critica non ha mai approfondito abbastanza. Nella vita moderna della grande città il pubblico prevale nel privato, il collettivo sull’individuo, la massa sulla collettività e la città stessa è un monstrum mitologicamente attuale e moderno che solo grazie al poeta prende coscienza di se stessa divinizzandosi e trasformandosi in una sorta di religione dell’arte e del progresso, dotata di una propria essenza, a cui il poeta si sacrifica totalmente in nome di dell’unanimismo che Jules Romain aveva ideato nei primi anni del XX secolo e che consisteva in una collettività di anime che nasce dalla riunione degli individui61. 61

ROMAIN J., Le poéme métropolitain, in «Revue littéraire de Paris et de Champagne»,

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A questa visione estetico/ascetica della vita in funzione della modernità lo stesso Marinetti non sfugge, vuoi per le attinenze con il movimento futurista stesso, vuoi per l’oggettiva appartenenza dello stesso alla cultura francese in genere. Come non sfugge alla contrapposizione tutta hegeliana degli opposti tra poesia e modernità che già Lucini aveva riconosciuto come valida ed attuale62 e che costringe Marinetti ad ammettere che, proprio il poeta simbolista, maggior oppositore del primo Futurismo, ne sia per questo anche il maggior difensore63. La situazione descritta introduce anche il discorso su detrattori e prosecutori del Futurismo; nel primo campo non può essere sottaciuto il giudizio di Benedetto Croce. L’estetica futurista, rifiutando la concezione dell’arte come imitazione della natura, cessa di essere nomotetica per diventare esclusivamente tetica (almeno a livello di poetica) così promovendo la fusione fra poetica e poesia. Il poeta non deve rimanere indietro rispetto al filosofo nell’indagine critica e nella sistemazione del progetto artistico (opinione comune a Marinetti come a Romain) ed anzi, sulla linea vichiana della sapienza poetica, si riconosce il valore gnoseologico dell’arte che invece Croce misconosce (o al massimo confina nella sfera pratica). Il rinnovamento del linguaggio, dunque, passa attraverso la sistemazione di regole e modelli alquanto rigidi e sistemici, complementari tra loro, ma già validi in se stesi completamente. Modernolatria, simultaneità e compenetrazione tra individuo, oggetto ed ambiente hanno bisogno di un sistema poetico-descrittivo che ne evidenzi le omologie e lo renda vivo e per fare questo solo un sistema teorico solido e ben strutturato può permetterlo. L’equazione arte-vita è kunstwollen, un impulso estetico da cui emergono sia la coscienza artistica dell’autore, sia il valore dinamico delle esperienze di vita. Un esempio sono Il treno entra nelle case di Severini o i quadri di Balla. In essi la forza di penetrazione aerodinamica e di vorticoso movimento – rappresentata dal vettore treno o dalle gambe in movimento nell’interazione osmotica dei piani geometrici delle case o dei colori sovrapposti alla massa in movimento - trova plastica raffigura1905. 62

G. P. LUCINI, Filosofi ultimi, Libreria Politica Moderna, 1913, p. 48. F. T. MARINETTI, Revolverate, nuove revolverate, a cura di E. SANGUINETI, Einaudi, Torino, 1975, p. 5. 63

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zione nella complementarietà d’azione che bilancia la bipolarità sintonica con la reazione e la emotività. Nell’immagine utilizzata, durata vissuta e pensata del movimento si unificano nella fenomenologia della temporalità mostrando la interpretazione psicologica del fenomeno che si svolge e si misura nel tempo con un procedimento ideale che procede dall’intuizione immediata alla speculazione filosofica. L’affermazione di Boccioni, «noi abbiamo l’estasi del moderno e il delirio innovatore della nostra epoca», e quella altrettanto famosa di Palazzeschi - «il futurismo non poteva nascere che in Italia, paese volto al passato nel modo più assoluto ed esclusivo e dove è d’attualità solo il passato» - sono indice delle due principali motivazioni che permettono socialmente la nascita del movimento. Se a queste sommiamo la forte presa di posizione nei confronti del progresso in genere, la cieca fiducia nella macchina e nella società industriale, abbiamo un quadro abbastanza chiaro ed ampio delle ragioni e delle convergenze che permisero lo sviluppo del Futurismo. Condizioni peraltro, che particolarmente in Italia, è anche all’origine della Futurismus reinassance degli anni Sessanta del Novecento, culminata con la mostra Futurismo & Futurismi non a caso sponsorizzata dalla FIAT. Le due citazioni da Boccioni e Palazzeschi provano anche la breve vita del movimento. Infatti, in una società letteraria come la nostra che non ha compreso il Simbolismo in profondità e che quindi non poteva avere adeguati mezzi conoscitivi, il Futurismo assume contorni rivoluzionari troppo spinti, addirittura esplosivi che impedì la proliferazione delle idee. Intorno agli anni Venti infatti, si assiste in Italia ad una vera e propria restaurazione letteraria che vede protagonisti sia il radicalismo classicista de «La Ronda», sia il novecentismo moderatamente avanguardista di Bontempelli. Entrambe le posizioni orientarono la produzione letteraria verso l’Ermetismo ed il Neorealismo, causa anche gli eventi storico-politici e poi bellici e postbellici. L’ideologia futurista è accusata, e dunque emarginata già sul nascere, di pregiudizio ed ideologia politica, nel senso di una contiguità mai completamente certificata con il Fascismo, soprattutto nel campo poetico, poiché invece, in quello pittorico, la rivalutazione dei vari Boccioni, Carrà, Balla, Depero ebbe avvio con forte anticipo rispetto alla critica letteraria grazie soprattutto a storici dell’arte quali Argan, Calvesi, De Grada, Crispolti. Per questo motivo dobbiamo parlare, più

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che di Futurismo, inteso solo nel senso della pratica letteraria e poetica, di Futurismi poiché, oltre l’intendere il semplice movimento, dobbiamo considerare con l’uso del suo neologismo plurale i diversi rivoli in cui, nelle diverse arti, il Futurismo stesso ha trovato espressione, dalla pittura alla musica, dal design al teatro ed alla moda, non dimenticando anche un altro fattore centrale quale la diversa ricezione del movimento in Italia ed all’estero, dove anzi, particolarmente negli USA, ha avuto sviluppi nuovi e completamente diversi da quanto prospettatosi successivamente alla Seconda Guerra Mondiale in Europa e nel nostro paese. Occorre tener conto, per comprendere al meglio la tecnica futurista, soprattutto degli aspetti contingenti che favoriscono il clima ideologico e letterario in cui il movimento cresce, nasce ed attecchisce. Si vadano a riprendere gli articoli scritti da Papini e Prezzolini a più riprese su «Leonardo» tra il 1903 ed il 1907 e già si noterà una sorta di prefuturismo, almeno nelle idee di fondo, come la convinzione che il socialismo sia un «panborghesismo moderato» da combattere; la necessità di agire; la «audacia di esser pazzi»; la guerra «genitrice di tutte le cose». Soprattutto sulla guerra, Papini e Prezzolini non sono soli, si pensi a Corradini («Il Regno») o al culto della violenza vagheggiato da Sorel, per tacere dell’ossessione per l’azione che infervorava finanche i capi del sindacalismo italiano64. Un misticismo del fare che permette ai futuristi di inserire problematiche avanzatissime della letteratura in un contesto ideologico incandescente, irrazionalistico, di chiara derivazione simbolista e legato alla situazione sociale, politica ed economica del paese in quegli anni. Un contesto ideologico quindi, che lo stesso Marinetti interpretava e delimitava (orientandolo) dall’ambiente circostante utilizzando un linguaggio aggressivo, volutamente lirico in cui impianto raziocinante, affabulazione scarna e schematica, quasi regolativa e simbologia ricercata si sommano alla logica espressiva in un testo, questo si davvero regolativo, che per agilità, leggerezza e maneggevolezza diviene ben presto opera d’arte esso stesso. Fare manifesti diviene arte al pari dei contenuti artistici in essi e64

Cfr. BOBBIO N., Profilo ideologico del Novecento, in Storia della Letteratura Italiana. Il Novecento, I, Milano, Garzanti, 1987, p. 60

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spressi e nello scontro con il passato la carica innovativa del linguaggio diventa prometeica identificandosi con quel furor tecnologico che stravolge non solo i canoni espressivi e le convinzioni artistiche, ma anche la società stessa nel suo complesso. Il Futurismo allora, progetta una filosofia dinamica, evoluzionista nella sue premesse e nemica di ogni stagnazione. La poesia stessa viene vista come tale, poiché mancante di velocità e visibilità del fatto e dell’azione diretta. Le stesse «parole in libertà» sono guerra latente, igiene della letteratura e del discorso. Esse sono sessualità pronunciata della fase letteraria in cui gli istinti aggressivi della produzione letteraria vengono a porsi in un contesto conflittuale evidente in cui il pensiero polemologico marinettiano assume il profilo di orizzonte ideologico. Il verso libero ideato da Lucini proprio nelle pagine marinettiane di «Poesia» (1908), nei suoi violenti pronunciamenti programmatici, è una guerra che - se pure non si fa prosodia - comunque caratterizza sotto quell’aspetto le poetiche e l’estetica stessa di tutto il movimento. Battaglia, peso + odore (1912), Zang, Tumb, Tumb (1918) sono precettistiche eversive/visive in cui, assiomi ormai proverbiali quali paroliberismo, distruzione della sintassi, verbo all’infinito, abolizione di aggettivi ed avverbi, doppio sostantivo, abolizione dell’Io letterario, uso di onomatopee, analogismi, segni matematici, nuovi modelli tipografici (ripresi in verità dal Barocco), creano la cosiddetta «partitura declamabile» in cui teatralità e cinematografia totalizzano le forme dell’espressione artistica65. 65

Si noti la totale attinenza del Futurismo, almeno in relazione alla guerra ed alla sua potenza estetico-macabra, alle visioni interventiste più accese e laceranti. È noto come, tra i sostenitori del futurismo, o meglio, delle istanze guerrafondaie che essi avanzavano, soprattutto personaggi come Giovanni Papini avevano aderito, non solo in nome di quelle stesse sensazioni eversive/visive che sul fonte letterario erano accidenti lessicali e sul fronte comunicativo, invece, messaggi dirompenti e distruttivi, ma soprattutto in noma di una necessità vera di incitazione alla violenza ed alla guerra proprio come unica «igiene del mondo». Si legga per questo l’intervento di Papini (in «Lacerba», I ottobre 1914): «Ci voleva alla fine un caldo bagno di sangue nero, dopo tanti umidicci e tiepidumi di lacrime materne… Siamo troppi. La perdita di migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, se non fosse che anche un guadagno per la memoria, sarebbe a mille doppi compensata dalle tante centinaia di migliaia di antipatici, ciglioni, farabutti, idioti oziosi, sfruttatori disinutili, bestioni e disgraziati che si sono levati dal mondo in maniera spiccia, nobile,eroica, e forse, per chi resta, vantaggiosa. Non ci rinfaccino, a uso di perorazione, le lacrime delle mam-

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Con la fondazione del Movimento Futurista Marinetti sferra un potentissimo attacco alla teoria artistica a lui contemporanea che si esprime nel rifiuto dell’eroe/vate tramite un atto eroico ed innovativo. Soprattutto l’estremismo tecnico del linguaggio ed il suo uso in chiave modernizzante confermano la formula di un linguaggio nuovo, scientificamente pensato per il nuovo che agisce solo in funzione dello scopo prefissato e non soltanto per l’espressione artistica in se stessa66. In base a ciò, la vita stessa è arte che produce e si fa arte ogni volta diversamente, ogni volta di più capace di trovare in sé la possibilità di autoaggiornarsi rimanendo però sempre rivoluzionaria e moderna. Si introduce dunque quell’analitica dello spazio letterario che si evolve in funzione esclusivamente geometrica; in essa le variabili temporali producono massimi e minimi espressivi vincolati alla capacità di interpolazione, la quale, a sua volta, è la causa primaria dei problemi di scelta e di programmazione che vengono resi operativi proprio attraverso la regressione delle serie temporali. In questo modo s’inaugura quella organizzazione sequenziale del discorso poetico che suggerisce l’implementazione del linguaggio con il linguaggio-macchina; in esso le istruzioni d’uso e funzionamento sono files gestionali che rendono il linguaggio espressivo futurista operativo, programmatico matematicamente e geometricamente. Soltanto così è possibile annullare il quotidiano in senso industriale/tecnico/progressivo che perde scientificità e guadagna meccanicismo. Lo spazio si temporizza espressivamente e l’espressione si meccanicizza, unica soluzione per adeguarsi allo spazio limitato delle geometrie linguistiche che i futuristi prediligono. La stessa unitarietà della lingua è un fenomeno geometrizzante in cui funzionalità ed operatività si saldano alla formula attuativa. La scelta operativo/linguistica è voluta sulla base del principio stesso di modernità che la rende attuabile solo a patto che essa coincida con la stessa modernità da cui me. A che cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere? E quando furono ingravidate, non piansero […]». 66 «Volontarismo, estremismo, consapevole paradossalità delle affermazioni più recise e iconoclastiche caratterizzano il Futurismo nel periodo eroico: un’operazione che Marinetti portò avanti con l’abnegazione e il coraggio disinteressati di un vero “missionario dell’arte”» (L. DE MARIA, una panoramica del Futurismo Italiano, in DE MARIA L., DONDI L. (a cura di), Marinetti e i Futuristi, Garzanti, Milano, 1994, pp. VII-XLII).

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dice di provenire. A queste stesse istanze obbedisce, tra i vari futurismi possibili, quello musicale. Il suono ed il suo riconoscimento rientrano in categorie spaziali che travalicano il tempo stesso della loro essenza e si vanno a collocare in una dimensione aperta in cui, la differenza acustica tra suono e rumore, non assumendo che contorni ritmici, si annulla definitivamente. L’intonarumori ed il rumorarmonium, le due macchine del suono ideate dal pittore e musicista Luigi Russolo e presentata in una indimenticabile serata milanese è il tentativo di riprodurre l’ideologia e la poetica futurista nel mondo musicale e la scelta di Milano non è casuale poiché proprio in quella città, il nucleo fondante del Futurismo italiano aveva trovato rifugio e clima ideale per crescere e produrre. La scelta dunque non è casuale, si crede di mostrare la novità a chi può comprenderla; naturalmente non è stato così e la serata musicale futurista è naufragata in un pesante clima di insulti e tentativi di linciaggio che però non ha danneggiato l’immagine sperimentale rappresentata dall’idea di produrre suoni con una macchina e di lasciare alla macchina stessa la necessità di determinare la successione e la sonorizzazione. Più che gli altri futurismi, soprattutto quello musicale è il più legato alla sperimentazione ed all’identità del nuovo, soprattutto se quelle premesse le si legge poi nell’ottica della produzione musicale del secondo Novecento. L’idea che il suono possa essere non solo dissonanza o atonalità, ma anche rumore, trova questa fase del futurismo idealmente collegata alle poetiche di Cage o Copland. Ancora una volta, ritorniamo a scoprire legami quasi indissolubili tra il Futurismo degli anni Dieci con gli USA degli anni Quaranta. La ricerca musicale portata avanti da Russolo conduce al connubio tra macchina e produzione artistica analizzando il movimento dei suoni e riducendolo a frammento percebile solo rispetto alla durata ed al timbro. Partendo infatti dalla idea di ritmo come entità fine a se stessa, Russolo considera il suono (e/o rumore) come forma espressiva primordiale – idea non nuova e condivisa con il Vitalismo europeo di Orff e Petrassi – regolabile artisticamente solo in funzione del suo ritmo interno ed in rapporto alle forze di attrazione-repulsione da altri suoni-rumori. Così facendo la diversificazione tra le due entità base della civiltà occidentale è scardinata, frantumata in migliaia di scheg-

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ge impazzite che si spargono disordinatamente nello spazio. Russolo quindi, attribuisce al suono la parcellizzazione caotica propria del rumore annullandone le differenze tra i due e - riducendoli alla stessa dimensione poetico/produttiva – arriva a combinare il rumore stesso con altri, soprattutto quelli tipici di una città moderna, producendo così una sonorizzazione del sociale il quale, perso il carattere antropologico, torna all’uomo attraverso la riproposizione dell’ambiente in cui esso agisce. Si presenta in questo modo, quell’ideale del manichino di cui parlavamo in precedenza regolante, non lo stimolo attivo alla produzione artistica, bensì la sua riproduzione meccanicistica ed automatica. Come in pittura - e Russolo è pittore e musicista - il movimento è ricercato attraverso la rappresentazione multipla di linee geometriche centrifughe, in musica, il movimento, la velocità hanno la loro corretta rappresentazione in un disordine ordinato che comporta non solo la ricerca sul rumore, ma la sua stessa nuova concezione e rielaborazione anche attraverso la realizzazione di ammodernamenti e modifiche al classico sistema tonale, ricorrendo prima ai dodici toni e poi anche ai quarti di tono, tanto da interessare ed influenzare, non solo la poetica di Edgar Varese, ma determinando anche istanze che divengono evoluzione della stessa poetica futurIsta. All’atonalità, l’enarmonia, il ritmo libero e la polifonia assoluta – prerogative stilistiche ed espressive in linea con la poetica di Marinetti enunciate dal compositore futurista Balilla Pratella nel Manifesto tecnico della musica futurista e nel brano sinfonico del 1912 intitolato Musica futurista - si sommano le forme del linguaggio moderno, codificate in un radicalismo espressionista che Balilla Pratella enuncia nel precetto: «considerare le forme musicali conseguenti e dipendenti dai motivi passionali generatori». L’adozione dell’asimmetria ed istintività primitiva ereditata dal Sacre di Stravinsky fanno perciò da coronamento ideale all’impianto strutturale e compositivo proposto dai musicisti futuristi. Nello stesso anno, il fiorentino Bastianelli, proprio nel tentativo di svecchiare la musica italiana, ne La crisi musicale europea (1912), sulla scia dei futuristi e di G. P. Lucini, accusando tutta la musica europea contemporanea di essere decadente - e dunque non completamente moderna, in quanto succube del dannunzianesimo - impone un

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modello di operatività critica ed estetica che prende a prestito dalla letteratura e dalla poesia i mezzi per poter organizzare un discorso critico coerente nel solo campo applicativo musicale, con ciò inaugurando una lezione comparativa delle arti che, dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto negli Stati Uniti sarà centrale per i futuri sviluppi della estetica. Sulla decadenza dell’arte europea dell’epoca le voci fasciste sono molte e tutte rivolte alla definizione di una novità fascista di fronte all’Ottocento «secolo imbecille»67, ancora capace di generare equivoci e per questo oggetto necessario di studio per «liquidare tanti errori e tanti stati d’animo che ancora avvelenano molta umanità del novecento»68. La novità rappresentata dal fascismo e la necessità di forgiare una generazione nuova (erede della generazione mussoliniana) cui devolvere le speranze per la fondazione di una società completamente fascista (e quindi più pura e completamente fascistizzata, anche rispetto ai padri fondatori) è una delle convinzioni più forti di Bottai69 che si spingerà a considerare - nel tentativo di determinare una estetica che travalichi le vecchie concezioni (senza una nuova visione ed un uomo nuovo, non può esserci un’arte anch’essa completamente nuova, diversa dal passato e completamente fascista) - la necessità di mettere in pratica nuove attitudini e necessità del fare e dell’agire, le quali, interagendo, potrebbero portare alla creazione di una classe sociale nuova e ad una nuova genia umana. Come si vede, la riflessione, non è solo la triste anticipazione della visione hitleriana dell’uomo ariano rispetto agli altri,ma soprattutto il punto di partenza per la applicazione di un principio che tocca sia la purezza della razza che quello della sua difesa e missione futura.70

67 SOFFICI A., Memento, in «Il Frontespizio», II (1930), n. 10. GARRONE D., Lettera a Luigi Volpicelli, datata 08 ottobre 1930, in Lettere, a cura di B. RICCI e R. BILENCHI, Vallecchi, Firenze, 1938, p. 277. 68 SPERANZA I., Cose dell’Ottocento, in «Il Frontespizio», V (1933), 3, p. 16. 69 Inchiesta sulla nuova generazione, in «Il Saggiatore», III 1932, 6-7, pp. 263-267. 70 ISNENGHI M., Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino, 1979, MANGONI L., L’interventismo nella cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Bari, 1974, BORDONI C., Cultura e propaganda nell’Italia fascista, Messina-.Firenze, D’Anna, 1974, PAPA E. R., Fascismo e cultura, Marsilio, Padova, 1978.

AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

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