Storia della musica
 8806599763, 9788806599768

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GLI STRUZZI 334

M. Baroni E. Fubini P. Petazzi P. Santi G. Vinay

Storia della musica

EINAUDI

Gli struzzi

334

© 1988 Giulio £inaudi editore s. p. a., Torino

Per le illustrazioni © SIAE 1988: Kandinskij e Picasso

ISBN 88-06-59976-3

Mario Baroni Enrico Fubini Paolo Petazzi Piero Santi Gianfranco Vinay

Storia della musica

Einaudi

Indice

p. XI

XV

Premessa biota bibliografica

Storia della musica La musica nel mondo antico

1. i. 2. 3. 4. 5. 6.

3 6 9 i3 18 21

li. 2Ó 30 36

42

Musica greca e civiltà occidentale I miti musicali e le testimonianze piu antiche L’armonia e l’ethos della musica I nomoi e la rivoluzione musicale del v secolo Musica e musicisti nella Grecia antica Notazione e teoria musicale nell’antica Grecia

La monodia ecclesiastica nel primo millennio dell’epoca cristiana La nascita della nuova tradizione cristiana Il canto gregoriano Evoluzione e rinnovamento del canto liturgico tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio 4. L’educazione musicale e la rinascita carolingia

1. 2. 3.

ni. Monodia e polifonia sacra e profana nell’età feudale e nell’età comunale 46

1.

49 55 60 66

2. 3. 4. 5.

Diffusione della tradizione profana e sviluppi di quella sacra La monodia profana Dall’Xrs antiqua all’Xrs nova L’Ars nova francese L’Ars nova italiana

INDICE

VI

IV,

La musica nell’umanesimo e nel Rinascimento 1.

p. 70 77 87 94 102

L’epoca del mecenatismo e il concetto di Rinasci­ mento

2.

L’Europa musicale del Quattrocento

3.

La polifonia sacra del Cinquecento italiano

4.

Il madrigale

3. Il Cinquecento europeo 6. I teorici

109

V,

L’età dei grandi mutamenti stilistici

114

1.

L’assolutismo e il concetto di Barocco

119

2.

Il canto monodie© e il melodramma

124

3.

Monodia e stile concertato

128

4.

Claudio Monteverdi

5.

L’ambiente romano e l’oratorio

136

6.

139

vi. 147

I5I 159 165

Origini e primi sviluppi della musica strumentale in Italia e in Europa

La musica barocca tra Sei e Settecento 1.

L’affermazione del sistema tonale

2.

La musica vocale di tradizione italiana

3.

La musica strumentale italiana

4,

La musica francese nell’epoca dell’assolutismo

171

3. La musica in Germania dall’epoca di Heinrich Schùtz all’epoca di Johann Sebastian Bach.

177 186

6.

Johann Sebastian Bach

7.

La carriera internazionale di Georg Friedrich Handel

vn. La musica dall’illuminismo al Romanticismo Cultura, musica e società nel Settecento

191

1.

198

2.

Il teatro d’opera in Europa

210

3.

La musica strumentale e le origini dello stile classico

223

4.

Il classicismo viennese: Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart

240

3. Dalla Rivoluzione alla Restaurazione: Ludwig van Beethoven

vn

indice

Vin. La musica del primo Ottocento i. La musica nell’epoca romantica p. 253 264

2. Le grandi figure del Romanticismo in Austria e in Germania: Franz Schubert, Carl Maria von Weber, Felix Mendelssohn e Robert Schumann

3. La musica strumentale in Francia

285 IX.

L’opera in Francia e in Italia 1. L’opera in Francia nell’Ottocento 2. Gioacchino Rossini e l’opera italiana agli inizi dell’Ottocento 3. Il melodramma romantico nell’epoca di Vincenzo Bellini e di Gaetano Donizetti

296 3°3 30

4. La drammaturgia musicale di Giuseppe Verdi

318 X.

La musica del secondo Ottocento 1. La musica e «l’arte dell’avvenire»: Franz Liszt e Ri­ chard Wagner

327

2. La Vienna di Johannes Brahms, di Anton Bruckner e di Hugo Wolf 3. Il valzer e l’operetta 4. L’emergere dei particolarismi e dei nazionalismi 3. Le scuole nazionali

34° 351 354 357

6. Italia e Francia alla fine del secolo

372 XI.

382 385

396 398

410 413

La musica tra Ottocento e Novecento 1. Tra simbolismo, decadentismo e Art Nouveau 2. La musica francese da Claude Debussy a Maurice Ravel 3. Erik Satie e l’arte povera 4. Gustav Mahler, Richard Strauss e la musica austria­ ca e tedesca 3. Simbolismo e decadentismo nella Russia prerivolu­ zionaria: Aleksandr Skrjabin 6. Il realismo espressionistico: Leos Janàcek

vin

INDICE

xn.

L’epoca delle avanguardie storiche

p. 416 418

1. 2.

Dalla « crisi » ai nuovi linguaggi La scuola di Vienna: Arnold Schonberg, Alban Berg e Anton Webern

435

3.

Igo/ Stravinskij, dall’epoca dei «Ballets russes» al periodo seriale

442

4.

Canto popolare e apertura internazionale nei paesi dell’Est europeo: Karol Szymanowski, Zoltan Ko­ daly e Béla Bartók

448

5.

La Spagna di Manuel de Falla

450

6.

La musica in Germania fra le due guerre: Paul Hin­ demith, Kurt Weill e Hanns Eisler

456

7.

Il « Gruppo dei Sei »

458

8.

La musica italiana fra le due guerre

466

9.

La musica nell’Unione Sovietica: Sergej Prokof'ev e Dmitrij Sostakovic

471

io.

La musica negli Stati Uniti e nell’America Latina

xiii. La musica del secondo dopoguerra La « nuova musica » dopo il 1945

483 506

1. 2.

519

Indice dei nomi

Tecnologia e comunicazione di massa

Elenco delle illustrazioni

i» Musa con cetra eptacordo, seconda metà del secolo v a. C. 2. Pagina di un graduale della prima metà del secolo xi: Introitus Viri Galilei. Roma, Biblioteca Angelica.

3.

Elias Salomo, Chierico con mano guidoniana, miniatura dal trat­ tato musicale, Scientia artis musicae, 1274. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

4.

Il Minnesanger margravio Otto von Brandenburg con suonatori di tromba, tamburello e grande cornamusa. Heidelberg, Universitatsbibliothek.

5.

Magister Perotinus, Alleluia (Nativitatis), Organum triplum. Wolfenbiittel, Herzog-August Bibliothek.

6.

Francesco Landino, Musica son, madrigale. Firenze, Codice Squarcialupi, Biblioteca Laurenziana.

7.

Filippo il Buono che assiste alla messa cantata nella Cappella del­ la corte di Borgogna, miniatura, secolo xv. Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique.

8. 9.

Cappella Sistina, incisione, secolo xvi. Domenico Brusazorzi, Accademia musicale, 1547. Verona, Museo Civico.

io.

Hans Mielich, La cappella musicale del principe Albrecht V di Monaco diretta da Orlando di Lasso, miniatura contenuta in un prezioso codice che raccoglie i suoi Salmi penitenziali. Monaco, Bayerische Staatsbibliothek.

ii.

Antonine Lepautre, L’incoronazione di Luigi XIV nella Catte­ drale di Reims, incisione, 1654. Parigi, Bibliothèque Nationale.

12.

Jacques Callot da Giulio Parigi, Il teatro mediceo degli Uffizi, in­ cisione. Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.

13.

Jan Steen, Il maestro di musica. Londra, National Gallery.

14.

Filippo Juvarra, Scenografia per il terzo atto del Giunio Bruto rappresentato al Teatro Ottoboni a Roma nel 1709. Vienna, Nationalbibliothek.

ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI

X

15. Heinrich Schiitz in mezzo ai coristi della vecchia cappella di Dresda, illustrazione del Dresdener Gesangbuch, 1676. Dresda, Courtesy Institut fiir Denlcmalpflege, Arbeitsstelle.

16. Il Teatro Regio di Torino durante la rappresentazione dell’opera di Francesco Feo, L'Arsace. Torino, Museo Civico.

17. L’esecuzione della Creazione di Haydn nella sala delle feste dell’Antica Università di Vienna, stampa colorata da un acquerello di Balthazar Wigand, 1908.

18. Louis Carmontelle, Wolfgang Amadeus Mozart bambino con il padre e la sorella Nannerl, acquerello 1763. Chantilly, Musée Condé.

19. Ludwig van Beethoven, intestazione autografa della Terza sin­ fonia. Vienna, Gesellschaft Musikfreunde.

20. Una scena del Freischiitz di Weber a Weimar, acquatinta colorata dall’originale di Cari Wilhelm Holdermann. Weimar, Staatliche Kunstsammlungen.

21. Concerto di Berlioz nella sala del Cirque Olympique ai ChampsÉlysées, incisione da l’«Illustration», Parigi 1845.

22. Louis-Jules Arnout, Rappresentazione di Robert le diable all’Opéra di Parigi, litografia colorata. Parigi, Bibliothèque de l’Opéra.

23, Figurine Liebig raffiguranti la scena terza dal primo atto e la sce­ na ultima dal quarto del Trovatore di Giuseppe Verdi. 24. Interno del Teatro di Bayreuth durante una rappresentazione dell’Oro del Reno di Richard Wagner. Monaco, Theatermuseum.

25. J. C. Arnold, Soirée di quartetto in casa di Bettina von Arnim, acquerello, 1855. Francoforte, Goethe Museum.

26. Hokusai, Il Fuji visto attraverso l’onda nei pressi di Kanawaga, xilografia a colori. 27. Gustav Klimt, Anelito alla felicità dal fregio di Beethoven, par­ ticolare. 28-30. Arnold Schonberg, Schizzi per Die giuridiche Hand. Los Angeles, Arnold Schoenberg Institute.

31. Vasilij Vasil'evic Kandinskij, Impression j (Konzert). Monaco, Stadtische Galerie im Lenbachhaus.

32. Pablo Picasso, Illustrazione per la copertina della riduzione pia­ nistica di Ragtime di Stravinskij. 33. Le Corbusier, Il Padiglione Philips a Bruxelles. 34. Darmstadt, Pierre Boulez con Bruno Maderna e Karlheinz Stockhausen ai Ferienkurse nel 1956.

Premessa

Il progetto di questa storia della musica nasce da una di­ scussione nell’ambito del Comitato scientifico del Centro di Ricerca e di Sperimentazione per la Didattica Musicale di Fiesole (sotto i cui auspici è pubblicato), e dalla comune constatazio­ ne di una carenza di validi e aggiornati strumenti didattici per un approccio alla storia della musica, nonostante il grande nu­ mero di opere uscite in questi ultimi anni. Se si tolgono le grandi enciclopedie o le grandi Storie in più volumi, manca tutt’ora l’opera di divulgazione intesa nel senso migliore del termine, che sappia unire la brevità e la concisione alla preci­ sione scientifica, alla completezza delle grandi linee storiche di sviluppo, alle aperture interdisciplinari verso quel mondo che intreccia i suoi destini storici a quello della musica. Ed in­ fine ci è parso che fosse necessario un approccio metodologi­ co non unilaterale alla densa e intricata materia in cui si ar­ ticola la nostra più che bimillenaria storia della musica occi­ dentale. Quest’ultima osservazione è all’origine del tipo di collaborazione che si è stabilita tra gli autori di questo volume, stu­ diosi di varia provenienza, con vari interessi, con propensioni storiografiche e metodologiche diverse, ma uniti dalla precisa consapevolezza che i molteplici possibili approcci alla musica devono integrarsi e non escludersi a vicenda: cosi è nato que­ sto piano di collaborazione intrecciata che può costituire una delle novità di questo volume. I cinque autori, pertanto, partendo dal principio che il vo­ lume non è destinato a specialisti, si sono divisi il lavoro ba­ dando più che alle proprie competenze per aree storiche e geografiche, al proprio peculiare approccio globale alla storia della musica, ognuno secondo il proprio background cultura­ le, secondo la propria metodologia.

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PREMESSA

Il risultato è una so vr apposizione di piani diversi: tutti i capitoli sono frutto di una discussione collettiva e di un in­ treccio di collaborazione in cui il periodo in esame viene esplorato da diversi punti di vista come un fenomeno che chiede di essere affrontato da varie angolature a seconda del tipo di esperienza e del tipo di formazione di ogni studioso. Si è ritenuto che il rischio di una certa eterogeneità, a volte an­ che di stile, fosse largamente compensato da questa maggiore ricchezza che deriva dall’aver unito forze diverse ma concen­ trate sull’unico obbiettivo di fornire un quadro storico in cui la semplicità e la concisione non compromettessero la profon­ dità prospettica e la ricca sfaccettatura, evitando cosi gli sche­ matismi e le semplificazioni scolastiche che spesso sono sino­ nimo di povertà e di mancanza di adeguati strumenti d’inda­ gine. ' Si è cercato pur in questo quadro di mantenere un linguag­ gio accessibile allo studente di Conservatorio o di Universi­ tà cosi come al comune lettore che voglia accostarsi alla storia della musica e trovare uno strumento agile ed efficace per un primo orientamento nella selva di questa vicenda storica. In questo volume, evitando per quanto possibile ogni ger­ galiSmo tecnico, ci si è limitati ad una narrazione storica, tra­ lasciando sia gli esempi musicali e le analisi di testi, sia le am­ pie biografie che non avrebbero che appesantito lo scritto; a volte si è sostituito un lungo discorso con immagini che sono state scelte allo scopo di offrire - più che un ornamento un’integrazione visiva del testo scritto. Consapevoli che oggi l’area storica e geografica della musica si è enormemente allar­ gata grazie agli studi degli etnomusicologi e alle più approfon­ dite conoscenze di altre civiltà musicali sino a pochi decen­ ni or sono quasi del tutto ignote, si è pertanto scelto di li­ mitarsi alla musica della tradizione occidentale, ben con­ sci che con ciò si è volutamente escluso un’ampia fetta del­ la storia della musica. Ci è sembrato pertanto che pochi fret­ tolosi accenni a materia tanto vasta e complessa come quella delle civiltà musicali orientali o africane non aggiungessero nulla e d’altra parte una loro trattazione che fosse minima­ mente esaustiva avrebbe alterato del tutto le proporzioni del volume. Entro i limiti che ci siamo posti, il volume si presenta dun­ que con una sua dichiarata problematicità, come un discorso

PREMESSA

Xin

storico che non vuole essere conclusivo ma invita piuttosto ad ulteriori studi; che cerca di essere per quanto possibile com­ pleto nelle sue linee generali, ma al tempo stesso intende sti­ molare il lettore ad approfondire i problemi. Torino, marzo 1988.

I capitoli 1,11 e in sono curati da Enrico Fubini; iv, v, vi e vn da Mario Baroni; vm e x da Gianfranco Vinay; ix da Piero Santi; xi, xn e xm da Paolo Petazzi. Le sigle fra parentesi quadre al fondo dei singoli paragrafi ne indicano i rispettivi autori.

Nota bibliografica

In questa breve nota bibliografica non si pretende certo di offrire un quadro né completo né ricco dell’immensa bibliografia sulla storia della musica oggi disponibile. Nell’ambito di una storia della musica sintetica e breve, come è questo nostro lavoro, una bibliografia vuole semplicemente offrire al lettore e allo studente alcuni suggerimenti per ulteriori letture: approfondimenti di problematiche appena toccate e anche assen­ ti per mancanza di spazio, letture su aspetti particolari di un’epoca o di un autore per una visione piu articolata di momenti storici o di singoli musicisti. Tuttavia, pur entro queste linee molto generali si è operata un’ulteriore scelta per non appesantire inutilmente queste indicazioni, li­ mitando i suggerimenti alle opere recenti disponibili in lingua italiana e tralasciando gli articoli di rivista. Nell’elencare i volumi si è seguito il criterio di ordinarli secondo la li­ nea storica di sviluppo seguito nella trattazione. In ogni paragrafo si è in­ dicato prima le opere storiche di carattere generale su ogni epoca e poi i singoli problemi e le monografie sui singoli musicisti.

i. Opere storiche di carattere generale sulla storia della musica. Tra le storie della musica a livellcrdi breve ma completa traccia di tutto l’arco storico dai Greci ai nostri giorni rimane tutt’ora un modello ine­ guagliato: Massimo Mila, Prreve storia della musica, Torino 1946 (le suc­ cessive e numerose edizioni ampliate e aggiornate sono uscite presso l’e­ ditore Einaudi). Si veda anche G. Zaccaro, Storia sociale della musica, Newton Compton, Roma 1979. Per un quadro piu ampio si rimanda alle opere rispettivamente di A. Della Corte e G. Pannain e di F. Abbiati, Storia della musica, la prima in 3 volumi, la seconda in 4, opere per certi aspetti pregievoli ma ormai di taglio storiografico non piu. attuali. L’opera forse piu ampia disponibile in Italia, piu aggiornata, piu stimolante per le aperture anche interdisci­ plinari, per i documenti storici delle appendici è la Storia della musica Edt, Torino 1976-82, in 12 volumi, a cura della Società italiana di musi­ cologia. Ogni volume è stato affidato ad un autore diverso e ciò porta inevitabilmente a squilibri interni nell’opera, che non ne intacca pertanto la sua fondamentale validità. (I singoli volumi verranno citati nei succes­ sivi paragrafi con i loro rispettivi autori). Tra i compendi piu aggiornati e agili si consiglia di aa.w., Storia Uni­

XVI

NOTA BIBLIOGRAFICA

versale della Musica, Mondadori, Verona 1982; ogni sezione è affidata ad uno specialista della materia; questo volume ha il pregio anche di un ricco apparato iconografico. Del tutto insufficiente anche per una visione sommaria della storia del­ la musica il vecchio volume di A. Einstein, Breve storia della musica, La Nuova Italia, Firenze, i960, risalente agli anni Trenta e compilata secon­ do i criteri storiografici della cultura anglosassone. Tra le opere straniere piu recenti e aggiornate si segnala la traduzione italiana di D. Grout, Storia della musica occidentale, 2 voli. Feltrinelli, Milano 1984, opera assai ampia e di utile consultazione. Molto piu breve e di carattere piu divulgativo di R. De Candè, Storia universale della mu­ sica, 2 voli., Editori Riuniti, Roma 1980; quest’opera ha il pregio di de­ dicare insolita attenzione ai fenomeni musicali del mondo contempora­ neo, anche a quelli che esorbitano dai canoni ufficiali della musica cosid­ detta colta. Il lavoro è corredato da un’utile discografia e bibliografia. Ed infine si rimanda per chi volesse addentrarsi in un’opera piu spe­ cialistica e ampia alla traduzione italiana della The New Oxford History ofMusic [trad, it* Storia della musica, Feltrinelli, Milano 1962]; manca an­ cora un volume dei io promessi per terminare la grandiosa opera, vasta e completa, affidata ai migliori specialisti del mondo anglosassone, ma di faticosa lettura e consultazione per la rigida divisione per generi con cui è stata concepita.

Casini, C., Storia della musica, 2 voli,, Rusconi, Milano 1987-88. Per quanto riguarda Storie della musica pubblicate di recente, si veda: aa.vv., La musica nella storia, a cura di Pietro Mioli, Calderini, Bolo­ gna 1986.

2. Antichità greco-romana e Medioevo. Per quanto riguarda la musica antica non solo greco-romana ma di tut­ to il bacino mediterraneo, fondamentale è l’opera di Curt Sachs, La mu­ sica nel mondo antico, Sansoni, Firenze 1963. Le opere non specialistiche dedicate all’antichità non sono certo nu­ merose. Tra le poche disponibili in lingua italiana ricordiamo: Del Grande, C., Espressione musicale dei poeti greci, Napoli 1932. Tiby, O., La musica in Grecia e Roma, Firenze 1942. Gamberini, L., La parola e la musica nell'antichità, Olschki, Firenze 1962. Righini, P., La musica greca. Analisi storico-tecnica, Padova 1976.

Si veda inoltre nella collana già citata a cura della Società italiana di musicologia: Comotti, G., La musica nella cultura greca e romana, Edt, Torino 1979.

Non molto piu ampia la bibliografia disponibile sul Medioevo. Tra le opere più accessibili e più complete si veda:

Reese, G., La musica nel medioevo, Sansoni, Firenze i960.

nota bibliografica

xvn

Gallo, F. A., Il medioevo II> Edt, Torino 1977. Cattin, G., Il medioevo I, ivi 1979.

Per quanto riguarda i problemi della musica dopo il mille, fondamen­ tale il volume di saggi di Pirrotta, N., Musica tra Medioevo e Rinascimen­ to, Einaudi, Torino 1984. Assai utile l’antologia di:

aa.w., Musica e storia tra Medio Evo e Età Moderna, a cura di A. Gallo, Il Mulino, Bologna 1986, che raccoglie scritti non disponibili in italiano sugli aspetti più rilevanti della musica medievale. Si veda ancora tra le opere di carattere generale pubblicate di recente: Arnese, R., Storia della musica nel Medioevo europeo, Olschki, Firenze 1983. aa.w., Storia della musica dal Medioevo ai giorni nostri, a cura di F. Blu­ me, Mondadori, Milano 1984. Corbin, S., La musica cristiana dalle origini al gregoriano, Jaca Book, Mi­ lano 1987. aa.w., La musica in Grecia, a cura di B. Gentili e R. Prestagostini, Later­ za, Bari 1988. aa.w., La musica nel tempo di Dante, a cura di L. Pestalozza, Unicopli, Milano 1988.

3. Il Rinascimento. La vasta bibliografia sul Rinascimento non è disponibile in lingua ita­ liana; poche sono le opere recenti. Per uno sguardo generale si veda nella Edt: C. Gallico, L'età dell’umanesimo e del Rinascimento, Torino 1978. Per quanto riguarda in particolare l’area italiana si rimanda a F. Testi, La musica italiana nel Medioevo e nel Rinascimento, Bramante, Milano 1969. Per l’aspetto più specificamente vocale della musica del Rinascimento si veda l’ampio studio di F. Luisi, La musica vocale nel Rinascimento, Eri Torino 1977. Tra gli studi a carattere più saggistico su problemi e aspetti di grande rilievo per cogliere la specificità della musica rinascimentale si vedano in particolare N. Pirrotta, Li due orfei: da Poliziano a Monteverdi, Einaudi, Torino 1975; dello stesso autore si vedano ancora i primi saggi del volume Scelte poetiche di musicisti. Teatro, poesia e musica da Willaert a Malipiero, Marsilio, Venezia 1987. Si veda ancora di F. Blume, Il Rina­ scimento, Amis, Bologna 1971 ed E. Fubini, Musica e pubblico dal Ri­ nascimento al Barocco, Einaudi, Torino 1984. aa.w., Il Madrigale fra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Il Mulino, Bologna 1988. aa.w., Tasso, la musica e i musicisti, a cura di A. Balsano e T. Walker, Ol­ schki, Firenze 1988.

4. Il Barocco. A partire dal 1600 la bibliografia disponibile in italiano è molto più ab­ bondante: numerosi studi di storici stranieri sono stati di recente tra­

xvm

NOTA BIBLIOGRAFICA

dotti in italiano, e molti saggi di studiosi italiani sono stati pubblicati in questi ultimi anni. Tra le opere di carattere generale:

M. F., Bukofzer, La musica barocca, Rusconi, Milano 1982, offre un panorama completo e organico della musica dall’inizio del Seicento sino alla metà del Settecento, in linguaggio chiaro e accessibile anche al lettore non specialista. Per un panorama generale ma sempre preciso e ricco di informazioni anche sulle implicazioni socio-culturali della musica barocca si veda nella Edt: L. Bianconi, Il Seicento, Torino 1982, e per quanto ri­ guarda la prima metà del Settecento, sempre nella stessa collana, A. Bas­ so, L'età di Bach e di Hàndel, Torino 1976. Per quanto riguarda aspetti più specificamente legati alle implicazioni ideologiche e sociali del baroc­ co si veda G. Stefani, Musica barocca. Poetica e ideologia, Bompiani, Mi­ lano 1974. Per restare ancora nell’ambito delle grandi opere, anche se su aspetti più specifici della musica barocca si rimanda per quanto riguarda l’opera, a cura di A. Basso, Storia dell'opera, 6 voli., Utet, Torino 1977; utile risulta pure di D. J. Grout, Breve storia dell'opera, Rusconi, Milano 1985. Recentissima a cura di L. Bianconi e G. Pestelli, Storia dell'opera italiana, 6 voli., Edt, Torino 1987, di cui sono usciti i volumi 40, 50, 6°; si veda pure per quanto concerne l’Italia: R., Zanetti, La musica italiana nel Settecento, 3 voli., Bramante, Milano 1978.

Numerosi gli studi su aspetti particolari della civiltà musicale del Sei e Settecento, tra cui ricordiamo:

Giazotto, R., Poesia melodrammatica e pensiero critico nel settecento, Boc­ ca, Milano 1952. Leibowitz, R., Storia dell'opera, Garzanti, Milano 1966. Testi, F., La musica italiana nel seicento, 2 voli., Bramante, Milano 1970. Lanza Tomasi, G., Guida all'opera, Mondadori, Milano 1971. Stefani, G., Musica e religione nell'Italia barocca, Flaccovio, Palermo z975aa.w., Venezia e il melodramma nel Seicento, a cura di M. T. Muraro, Olschki, Firenze 1976. Degrada, F., Il Palazzo incantato, 2 voli., Discanto, Fiesole 1979. Selfridge-Field, E., La musica strumentale a Venezia da Gabrieli a Vivaldi, Eri, Torino 1980. Celletti, R., Storia del belcanto, Discanto, Fiesole 1983. Gallarati, P., Musica e maschera: il libretto italiano del settecento, Edt, To­ rino 1984. Robinson, M. F., L'opera napoletana, Marsilio, Venezia 1984. Apel, W., Storia della musica per organo e altri strumenti da tasto fino al 1700, 2 voli., Sansoni, Firenze 1985. Smither, H. E., L'oratorio barocco, Jaca Book, Milano 1986. aa.w., Metastasio e il mondo musicale, a cura di M. T. Muraro, Olschki, Firenze 1986. Celletti, R., Il teatro d'opera in disco 1950-1987, Rizzoli, Milano 1988.

NOTA BIBLIOGRAFICA

XIX

Isherwood, R. M., La musica al servizio deire. Francia: xvn secolo, Il Mu­ lino, Bologna 1988. Stefani, G., Musica Barocca 2, Bompiani, Milano 1988. Triggiani, G., Il melodramma nel mondo 1597-1987, Levante editori, Ba­ ri 1988. Abbastanza numerose le monografie su musicisti; elenchiamo le piu re­ centi in ordine storico: Su Frescobaldi:

Gallico, C., Girolamo Frescobaldi, Sansoni, Firenze 1986.

Su Monteverdi: De Paoli, D., Monteverdi, Rusconi, Milano 1979. Gallico, C., Monteverdi. Poesia musicale, teatro e musica sacra, Einaudi, Torino 1979. Fabbri, P., Monteverdi, Edt, Torino 1985. Harnoncourt, V., Il discorso musicale: scritti su Monteverdi, Bach, Mozart, Jaca Book, Milano 1987. Su Stradella:

Giazotto, R., Vita di A. Stradella, Curci, Milano 1962. Su Gasparini: aa.vv., Francesco Gasparini (1661-1727), Olschki, Firenze 1981.

Su Corelli: aa.vv., Studicorelliani, Olschki, Firenze 1972. aa.vv., Nuovi studi corelliani, ivi 1978. Su Pergolesi: aa.vv., Studi pergolesiani, a cura di F. Degrada, La Nuova Italia, Firenze 1986.

Su Vivaldi : Giazotto, R., A, Vivaldi, Eri, Torino 1973. Kolneder, W., Vivaldi, Rusconi, Milano 1978. Talbot, M., Vivaldi, Edt, Torino 1978.

Su Marcello: aa.vv., Benedetto Marcello. La sua opera e Usuo tempo, a cura di C. Madricardo e F. Ross. Olschki, Firenze 1988.

SuJ. S. Bach: Ronga, L., Bach, Mozart, Beethoven, Neri Pozza, Venezia 1956. Schweitzer, A., J. S. Bach: il musicista poeta, Suvini Zerboni, Milano 1979-

XX

NOTA BIBLIOGRAFICA

Basso, A., Frau Musika. Vita e opere di J. S. Bach, 2 voli., Edt, Torino 1979-83. Buscatoli, P., Bach, Mondadori, Milano 1985. aa.w., Bach tra '700 e '900. Aspetti tecnici e teorici, a cura di D. lotti, Unicopli, Milano 1988. Sulla famiglia dei Bach:

Geiringer, K., I Bach. Storia di una dinastia musicale, Rusconi, Milano 1981. Su Hàndel:

Lang, P. H., Hàndel, Rusconi, Milano 1985. Su Alessandro e Domenico Scarlatti:

Pestelli, G., Le sonate di Domenico Scarlatti, Giappichelli, Torino 1967. Pagano, R., Alessandro e Domenico Scarlatti, Mondadori, Milano 1985.

Su Locatelli: Dunning, A., Pietro Antonio Locatelli, Fogola, Torino 1983. Su Galuppi:

aa.w., Galuppiana 1985. Studi e ricerche, Olschki, Firenze 1986. Su Rameau: Morelli, G., Il morbo di Rameau, Il Mulino, Bolgona 1989.

Su Gluck: Einstein, A., Gluck, Bocca, Milano 1946. Della Corte, A., Gluck e isuoi tempi, Sansoni, Firenze 1948. Gallarati, P., Gluck e Mozart, Einaudi, Torino 1975. Mioli, P., Invito all'ascolto di Gluck, Mursia, Milano 1987.

Nel Sei-Settecento numerosissimi sono gli scritti di teorici, musicisti, critici e letterati riguardanti direttamente o indirettamente la storia della musica e comunque sempre utilissimi complementi alla comprensione del tessuto storico e culturale sviluppatosi intorno alla musica. Purtroppo ben pochi di questi documenti sono disponibili in edizioni moderne; ne elenchiamo alcuni, pubblicati di recente. Utilissima la raccolta di scritti settecenteschi sul melodramma, raccolti a cura di G. F. Malipiero, I profeti di Babilonia, Bottega di Poesia, Mila­ no 1924, purtroppo non più ristampata.

Più recenti e reperibili: Marcello, B., Il teatro alla moda, Rizzoli, Milano 1959. aa.w., Gli illuministi e la musica, a cura di E. Fubini, Principato, Milano 1969. Bach, C. Ph. E., Saggio di metodo per la tastiera, a cura di G. Gentili Ve­ rona, Curci, Milano 1973.

NOTA BIBLIOGRAFICA

XXI

Monteverdi, C., Lettere, dediche, prefazioni, a cura di D. De Paoli, De Santis, Roma 1973. Burney, C., Viaggio musicale in Italia, a cura di E. Fubini, Edt, Torino i979« - Viaggio musicale in Germania e Paesi Bassi, a cura di E. Fubini, ivi 1986. Planelli, A., Dell*opera in musica, a cura di F. Degrada, Discanto, Fiesole 1981. Mainwaring, J., Memorie della vita delfu G. F. Handel, a cura di L. Bian­ coni, Edt, Torino 1985. aa.vv., Musica e cultura nel Settecento Europeo, a cura di E. Fubini, ivi 1987. Garda, M., Jona, A., Titli, M., La musica degli antichi e la musica dei mo­ derni. Storia della musica e del gusto nei trattati di Martini, Eximeno, Brown, Manfredini, Angeli, Milano 1988. 5. L'età classica e il R omanticismo.

Avvicinandosi all’Ottocento la bibliografia in lingua italiana è molto piu abbondante e soprattutto in questi ultimi anni molti autori stranieri sono stati tradotti e anche molti nuovi studi sono stati pubblicati. Tra le opere di carattere generale sull’epoca si rimanda al volume di A. Ein­ stein, La musica nel periodo romantico, Sansoni, Firenze 1952, ancora ot­ timo per un’approccio di carattere generale. Per una conoscenza più ap­ profondita si rimanda ai volumi della Edt: Casini, C., L'Ottocento II, Torino 1978. Pestelli, G., L'età di Mozart e di Beethoven, ivi 1979. Di Benedetto, R., L'Ottocento I, ivi 1982. Si veda ancora la recente opera in aa.vv., a cura di M. C. BeltrandoPatier, L'età del Romanticismo. Il mondo contemporaneo, 2 voli., bucati­ ni, Roma 1985. Tra le opere più recenti su aspetti più specifici dell’età classica e ro­ mantica si veda:

Martinotti, S., Ottocento strumentale italiano, Forni, Bologna 1972. Manzoni, G., Guida all'ascolto della musica sinfonica, Feltrinelli, Milano 1973aa.vv., Il melodramma italiano nell'ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, a cura di Giorgio Pestelli, Einaudi, Torino 1977. Rosen, C., Lo stile classico, Feltrinelli, Milano 1979. aa.vv., Romanticismo e musica, a cura di G. Guanti, Edt, Torino 1981. Bortolotto, M., Consacrazione della casa, Adelphi, Milano 1982. - Introduzione al Lied romantico, ivi 1984. Goldin, D., La vera Fenice. Libretti e librettisti tra Sette e Ottocento, Ei­ naudi, Torino 1985. Rattalino, P., La sonata romantica, Il Saggiatore, Milano 1985. - Il concerto per pianoforte e orchestra. Da Haydn a Gershwin, GiuntiRicordi, Firenze 1988.

xxn

NOTA BIBLIOGRAFICA

Rosen, C., Le forme-sonata, Feltrinelli, Milano 1986.

Dahlhaus, C., Il realismo musicale, Il Mulino, Bologna 1987.

Matteini, O., Stendhal e la musica, Eda, Torino 1988. Plantinga, L., La musica romantica, Feltrinelli, Milano 1989.

Tra le numerose monografie dedicate a singoli autori, elenchiamo le piu recenti, in ordine storico: Su Boccherini: Della Croce, L., Le33 Sinfonie di Boccherini, Eda, Torino 1979. -

Il divino Boccherini. Vita Opere Epistolario, Zanibon, Padova 1988.

Su Haydn: Della Croce, L., Le 107 Sinfonie di Haydn, Eda, Torino 1975. Stendhal, Vita di Haydn, Passigli, Firenze 1983. Landon Robbins, H. C., e Win Jones, D., Haydn, Rusconi, Milano 1988.

Su Mozart: Einstein, A., Mozart, Ricordi, Milano 1951.

Paumgartner, B., Mozart, Einaudi, Torino 19562. Della Corte, A., Tutto il teatro di Mozart, Eri, Torino 1957. Greither, A., Mozart, Einaudi, Torino 1968. Dal Fabbro, B., Mozart. La vita, Feltrinelli, Milano 1975. Della Croce, L., Le 75 Sinfonie di Mozart, Eda, Torino 1977. Hildesheimer, W., Mozart, Sansoni, Firenze 1977. Mila, M., Lettura delle «Nozze di Figaro», Einaudi, Torino 1979.

-

Mozart, Studio Tesi, Pordenone 1981.

-

Lettura del Don Giovanni, Einaudi, Torino 1988.

Rescigno, E., Mozart, Fabbri, Milano 1979. Barth, K., W. A. Mozart, Queriniana, Brescia 1980. Hocquard, V., Don Giovanni di Mozart, Il Formichiere, Milano 1980. - «Le Nozze di Figaro» di Mozart, Emme, Milano 1981.

aa.w., Intorno al «Flauto Magico», Mazzotta, Milano 1982. Langegger, F., Mozart. Padre e figlio, Mondadori, Milano 1982. Musto, R. e Napolitano E., Una favola per la ragione, Feltrinelli, Milano 1982.

Osborne, C., Tutte le opere di Mozart, Sansoni, Firenze 1982. Stendhal, Vita di Mozart, Passigli, Firenze 1982. Della Croce, L., I concerti di Mozart, Mondadori, Milano 1983. Abert, H., Mozart, 2 voli., Il Saggiatore, Milano 1984-85.

NOTA BIBLIOGRAFICA

XXIII

Gruber, G., La fortuna di Mozart, Einaudi, Torino 1987. Lipperini, L., Introduzione al Don Giovanni, Editori Riuniti, Roma 1987.

Su Clementi:

Plantiga, L., Clementi, Feltrinelli, Milano 1980. Su Beethoven: Magnani, L., I quaderni di conversazione di Beethoven, Ricciardi, MilanoNapoli 1962. - Goethe, Beethoven e il demonico, Einaudi, Torino 1976. Mila, M., Lettura della «Nona Sinfonia», Einaudi, Torino 1977. Riezler, W., Beethoven, Rusconi, Milano 1977. Cooper, M., Beethoven, l'ultimo decennio 1817-1827, Eri, Torino 1979. Rescigno, E., Beethoven, Fabbri, Milano 1979. Casella, A., Beethoven intimo, Sansoni, Firenze 1981. aa.w., Il pianoforte di Beethoven, a cura di C. Incontrerà, Trieste 1985. Carli Ballola, G., Beethoven, Rusconi, Milano 1985. Scuderi, G., Beethoven, le sonate per pianoforte, Muzzio, Padova 1985. Della Croce, L., Ludwig van Beethoven, Studio Tesi, Pordenone 1986. Kerman, J. e Tyson, A., Beethoven, Giunti-Ricordi, Milano-Firenze 1986. Salomon, M., Beethoven, Marsilio, Venezia 1986. aa.w., Beethoven, a cura di G. Pestelli, Il Mulino, Bologna 1988.

Su Paganini : De Saussine, R., Paganini, Nuova Accademia, Milano 1958. Cantu, A., 124 capricci e i 6concerti di Paganini, Eda, Torino 1980. - Invito all'ascolto di Paganini, Mursia, Milano 1988. Berri, P., Paganini. La vita e le opere, Bompiani, Milano 1982.

Su Berlioz:

Barraud, H., Berlioz, Rusconi, Milano 1978. Su Schubert: Einstein, A., Schubert, Sansoni, Firenze 1970. Paumgartner, B., Schubert, Mondadori, Milano 1981.

Su Chopin: Gavothy, B., Chopin, Mondadori, Milano 1975. De Portuales, G., Chopin, Accademia, Milano 1977. Iwaskiewicz, L, Chopin, Editori Riuniti, Roma 1981. Liszt, F., Vita di Chopin, Passigli, Firenze 1983. Belletti, G., Chopin, Edt, Torino 1984. Gide, A., Note su Chopin, Passigli, Firenze 1986. Beghelli, M., Invito all'ascolto di Chopin, Mursia, Milano 1989.

XXIV

NOTA BIBLIOGRAFICA

Su Cherubini:

Gonfalonieri, G., Cherubini, Accademia, Milano 1978. Della Croce, V., Cherubini e i musicisti italiani del suo tempo, Eda, Torino 1983. Su Mendelssohn: Werner, E., Mendelssohn, Rusconi, Milano 1984.

Su Bellini: Adamo, M. R. e Lippmann, F., Vincenzo Bellini, Eri, Torino 1981. Tintori, G., Bellini, Rusconi, Milano 1983. Amante, A., Vita di Bellini, Passigli, Firenze 1986.

Su Donizetti: Saracino, E., Invito all'ascolto di G. Donizetti, Mursia, Milano 1984. Ashbrook, W., Donizetti. La vita, Edt, Torino 1986. Ashbrook, A., Donizetti. Le opere, ivi 1987.

Su Rossini: Roncaglia, G., Rossini. L'olimpico, Bocca, Milano 1953. Rognoni, L., Gioacchino Rossini, Einaudi, Torino 1977. Stendhal, Vita di Rossini, Edt, Torino 1983. Mioli, P., Invito all'ascolto di Rossini, Mursia, Milano 1986. Baricco, A., Il Genio in fuga. Due saggi sul teatro musicale di Gioachino Rossini, Il Melangolo, Genova 1988.

Su Schumann:

De Natale, M., L'analisi musicale’, modello o occasione? Saggio su R. Schu­ mann, Morano, Napoli 1981. Boucourechliev, A., Schumann, Feltrinelli, Milano 1982. Su Liszt:

Dalmonte, R., Franz Liszt, Feltrinelli, Milano 1983. Rehberg, P., Listz, Mondadori, Milano 1988.

Su Bizet:

Dean, W., Bizet, Edt, Torino 1980. Su Wagner: Mayer, H., Richard Wagner, Mondadori, Milano 1967. Adorno, Th. W., Wagner. Mahler. Due studi, Einaudi, Torino 1975. Nietzsche, F., Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979. Celli, T., Il Dio Wagner e altri dei della musica, Rusconi, Milano 1980. Shaw, B., Il Wagneriano perfetto, Edt, Torino 1981. aa.w., Wagner in Italia, Marsilio, Venezia 1982.

NOTA BIBLIOGRAFICA

XXV

aa.vv., Wagner in Italia, Eri, Torino 1982. Wagner, C., La mia vita a Bayreuth 1883-1930, Rusconi, Milano 1982. Baudelaire, C., Su Wagner, Feltrinelli, Milano 1983. Celli, T., L'Anello del Nibelungo. Guida all'ascolto, ivi 1983. Dahlhaus, C., La concezione wagneriana del dramma musicale, Discanto, Fiesole 1983. Gutman, R. W., Wagner. L'uomo, il pensiero, la musica, ivi 1983. Von Westernhagen, C., Wagner, l'uomo, il creatore, Mondadori, Milano 1983. aa.vv., Richard Wagner e Friedrich Nietzsche, Unicopli, Milano 1984. Dahlhaus, C., I drammi musicali di Richard Wagner, Marsilio, Venezia 1984. Mann, Th., Scritti su Wagner, Mondadori, Milano 1984. Morpurgo Tagliabue, G., Nietzsche contro Wagner, Studio Tesi, Porde­ none 1984. aa.vv., Wagner: La lingua e la musica, Unicopli, Milano 1986. Guarnieri Corazzol, A., Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il ca­ so Wagner, Il Mulino, Bologna 1988. Su Verdi:

Mila, M., La giovinezza di Verdi, Eri, Torino 1974. - L'arte di Verdi, Einaudi, Torino 1980. - I costumi della Traviata, Studio Tesi, Pordenone 1984. Tarozzi, G., Il gran vecchio. La vita e le opere di G. Verdi, Sugarco, Como i9?8. Conati, M., Interviste e incontri con Verdi, Il Formichiere, Milano 1980. Casini, C., Verdi, Rusconi, Milano 1981. Budden, J., Le opere di Verdi, 2 voli., Edt, Torino 1985-86. Stinchelli, E., Verdi: la vita e l'opera, Newton Compton, Roma 1986. Su Cajkovskij:

Von Wolfurt, K., Cajkovskij, La Nuova Accademia, Milano 1977. Su Brahms: Martinotti, S., Brahms, Fabbri, Milano 1980. Neunzig, H. A., J. Brahms, Discanto, Fiesole 1981. Rostand, C., Brahms, Rusconi, Milano 1986.

Su Bruckner: Martinotti, S., A. Bruckner, Guanda, Parma 1973. Grebe, K., Anton Bruckner, Discanto, Fiesole 1983.

Su Musorgskij: Pestalozza, L., La scuola nazionale russa, Ricordi, Milano 1958. aa.vv., Musorgskij, l'opera, il pensiero, Unicopli, Milano 1985.

XXVI

NOTA BIBLIOGRAFICA

Su Catalani:

Zurletti, M., Catalani, Edt, Torino 1982. Su Offenbach: Decaux, A., Offenbach, Rusconi, Milano 1981. Kracauer, J., Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, Marietti, Casale 1984.

Su Mahler: Duse, U., Gustav Mahler, Einaudi, Torino 1973. Mahler, A., Gustav Mahler, Ricordi e lettere, Il Saggiatore, Milano 1976. Pugliese, G., Gustav Mahler,.. Il mio tempo verna, Nuove Edizioni, Mila­ no 1976. Cooke, D., Mahler, Mondadori, Milano 1980. Walter, B., Gustav Mahler, Editori Riuniti, Roma 1981. Principe, Q., Mahler, Rusconi, Milano 1983. Su Strauss:

Levi, V., Richard Strauss, Studio Tesi, Pordenone 1984. Principe, Q., Strauss, Rusconi, Milano 1989. Aggiungiamo ancora un breve elenco di documenti (scritti sulla musica di letterati e musicisti, epistolari ecc.) che rappresentano un ausilio inso­ stituibile per la conoscenza della musica dell’epoca.

Beethoven, L. van., Scritti e conversazione di Beethoven, Cappelli, Bolo­ gna 1962. - Quaderni di conversazione, lite, Torino 1969. - Le lettere di Beethoven, ivi. Schumann, R., La musica romantica, a cura di L. Ronga, Einaudi, Torino 1970. - Chopin e il virtuosismo romantico. Viaggio sentimentale intomo al pia­ noforte, a cura di R. Calabretto, Marsilio, Venezia 1989. Wagner, R., L’arte e la rivoluzione e altri scrìtti politici, Guaraldi, Rimini 1973- La mia vita, Edt, Torino 1982. - L’opera d’arte dell’avvenire, Rizzoli, Milano 1983. - Scrìtti scelti, Longanesi, Milano 1983. - Comunicazione agli amici, Studio Tesi, Pordenone 1983. - F. Liszt. Epistolario, Passigli, Firenze 1983. - Musikdrama, a cura di F. Gallia, Studio Tesi, Pordenone 1988. Liszt, F., Divagazioni di un musicista romantico, a cura di R. Meloncelli, Salerno editrice, Roma 1979. - «Un continuo progresso». Scrìtti sulla musica, Unicopli, Milano 1987. Mozart, W. A., Lettere, Guanda, Milano 1981.

NOTA BIBLIOGRAFICA

xxvn

Wackenroder, W. H., Fantasie sulla musica, a cura di E, Fubini, Discan­ to Fiesole 1981, Mendelssohn, F., Lettere dall'Italia, Fogola, Torino 1983. Rossini, G., Lettere, Passigli, Firenze 1984. Brahms, J., Lettere, Discanto, Fiesole 1985. Hoffmann, E. T. A., Poeta e compositore, a cura di M. Dona, ivi. Berlioz, H., Memorie, Studio Tesi, Pordenone 1989. Heine, H., Cronache musicali, a cura di E. Fubini, Discanto, Fiesole.

6. Il Novecento.

Assai amplia la bibliografia sulla musica del Novecento; per le opere di carattere generale si rimanda ai volumi della Edt: Salvetti, G., Il Novecento I, Torino 1977. Vinay, G., Il Novecento IL Prima parte, ivi 1978. Lanza, K.,Il Novecento IL Seconda parte, ivi 1980. Numerosi sono i saggi di critici, di storici ed anche degli stessi musici­ sti su aspetti particolari della storia della musica del nostro secolo e su specifici problemi; su elencano qui i più significativi in ordine di pubbli­ cazione:

Vlad, R., Modernità e tradizione nella musica contemporanea, Einaudi, To­ rino 1955. - Storia della dodecafonia, Suvini Zerboni, Milano 1958. Adorno, Th W., Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959. - Dissonanze, Feltrinelli Milano 1959. - Ilfido maestro sostituto, Einaudi, Torino 1969. Stuckenschmidt, H. H., La musica moderna, ivi i960. Rognoni, L., La scuola musicale di Vienna, ivi 1966. - Fenomenologia della musica radicale, Garzanti, Milano 1974. Boulez, P., Note di apprendistato, Einaudi, Torino 1968. - Peì'volontà e per caso, ivi 1977. - Pensare la musica oggi, ivi 1979. - Punti di riferimento, ivi 1984. Bortolotto, M., Fase seconda, Einaudi, Torino 1969. Gentilucci, A., Guida all'ascolto della musica contemporanea, Feltrinelli, Milano 1969. - Introduzione alla musica elettronica, ivi 1972. - Oltre l'avanguardia, Discanto, Fiesole 1979. Fubini, E., Musica e linguaggio nell'estetica contemporanea, ivi 1973. Mellers, W., La musica nel nuovo mondo, ivi 1975. Prieberg, F. K., Musica ex machina, ivi.

xxvm

NOTA BIBLIOGRAFICA

Pousseur, H., La musica elettronica, Feltrinelli, Milano 1976. Eisler, H., Musica nella rivoluzione, % cura di L. Lombardi, ivi 1978. Tedeschi, R., Zdanov l’immortale, Fiesole, Discanto 1980. Berio, L., Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Bari 1981. Duse, U., Per una storia della musica del Novecento e altri saggi, Edt, To­ rino 1981. Mila, M., Cent'anni di musica moderna, ivi. Xenakis, I., Musica, architettura, Spirali, Milano 1982. Machiis, J., Introduzione alla musica contemporanea, Sansoni, Firenze 1983. Nicolodi, F., Musica e musicisti nel ventennio fascista, Discanto, Fiesole 1984. Varese, E., Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Ricordi-Unicopli, Mi­ lano 1985. Pestalozza, L., La musica in URSS: cronaca di un viaggio, Unicopli, Mila­ no 1987/ aa.w., Molteplicità di poetiche e linguaggi nella musica d’oggi, Unicopli, Milano 1988. Collisani, A., Musica e simboli, Sellerio, Palermo 1988. aa.w., L’esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, a cura di G. Borio e M. Garda, Edt, Torino 1989.

Tra i saggi monografici su singoli musicisti del Novecento si elencano i piu importanti in ordine storico, includendo anche gli scritti degli stessi musicisti: Bartók, B., Scritti sulla musica popolare, Einaudi, Torino 1955. - Lettere scelte, Il Saggiatore, Milano 1969. aa.w., Manuel de Falla, Ricordi, Milano 1962. Jankelevitch, V., Ravel, Mondadori, Milano 1962. Schoenberg, A., Testi poetici e drammatici, Feltrinelli, Milano 1967. - Lettere, La Nuova Italia, Firenze 1969. - Analisi e pratica musicale. Scritti 1909-1950, Einaudi, Torino 1974. - Stile e idea, a cura di L. Pestalozza, Feltrinelli, Milano 1975. - Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1984. Mari, P., Béla Bartók, Sugarco, Milano 1969. Cage, J., Silenzio, Feltrinelli, Milano 1971. Vlad, R., Strawinsky, Einaudi, Torino 1973. Vinay, G., L’America musicale di Charles Ives, Einaudi, Torino 1974. Manzoni, G., Schoenberg, Feltrinelli, Milano 1975. Berg, A., Lettere alla moglie, ivi 1976. Mila, M., Madema musicista europeo, Einaudi, Torino 1976. - Compagno Strawinsky, Einaudi, Torino 1983.

NOTA BIBLIOGRAFICA

XXIX

Siciliano, E., Puccini, Rizzoli, Milano 1976. Busoni, F., Lo sguardo lieto, Il Saggiatore, Milano 1977. Petazzi, P., Alban Berg, Feltrinelli, Milano 1977. Stravinsky, I., Colloqui con Stravinsky, a cura di R. Craft, Einaudi, To­ rino 1977. - Poetica della musica, Studio Tesi, Pordenone 1984. Casini, C., Puccini, Utet, Torino 1978. Maffina, G. F., Luigi Russoio e Parte dei rumori, Martano, Torino 1978. Seroff, V. L, Debussy, Accademia, Milano 1978. Guarnieri Corazzol, A., Erik Satie tra ricerca e provocazione, Marsilio, Ve­ nezia 1979. Jarocinski, S., Debussy, Discanto, Fiesole 1980. Petit, P., Maurice Ravel, Sugar, Milano 1980. Satié, E., Quaderno di un mammifero, Adelphi, Milano 1980. Scherliess, V., Alban Berg, Discanto, Fiesole 1981. Malipiero, G. F., Igor Strawinsky, Studio Tesi, Pordenone 1982. Monson, K., Berg, Rusconi, Milano 1982. Sablich, S., Busoni, Edt, Torino 1982. Adorno, Th. W., Alban Berg, Feltrinelli, Milano 1983. Lockspeiser, E., Debussy, Rusconi, Milano 1983. White, E. W., Strawinsky, Mondadori, Milano 1983. Tammaro, F., Jean Sibelius, Eri, Torino 1984. Rosen, C., Schoenberg, Mondadori, Milano 1984. aa.vv., Ligeti, a cura di E. Restagno, Edt, Torino 1985. Baroni, M. e Dalmonte, R., Bruno Madema, Suvini Zerboni, Milano 1985. Cantu, A., Respighi compositore, Eda, Torino 1985. Kamper, D., Daliapiccola, Sansoni, Firenze 1985. Venuti, M., Il teatro di Daliapiccola, Suvini Zerboni, Milano 1985. aa.w., Ilflusso del tempo. Scritti di P. Busoni, a cura di S. Sablich, Unico­ pli, Milano 1986. aa.w., Strawinsky, a cura di A. M. Morazzone, Unicopli, Milano 1986. aa.w., Petrassi, a cura di E. Restagno, Edt, Torino 1986. aa.vv., Henze, a cura di E. Restagno, ivi 1986. Debussy, C., Il Signor Croche antidilettante, Studio Tesi, Pordenone 1986. aa.vv., Nono, a cura di E. Restagno, Edt, Torino 1987. D’Amore, G., Le opere pianistiche di Luigj Daliapiccola, Suvini Zerboni, Milano 1987. Vinay, G., Strawinsky neoclassico, Marsilio, Venezia 1987. aa.vv., Xenakis, a cura di E. Restagno, Edt, Torino 1988. aa.vv., Maurice Ravel tra scommessa e impegno, Unicopli, Milano 1988. aa.w., Manuel De Palla tra la Spagna e l'Europa, Olschki, Firenze, 1988.

XXX

NOTA BIBLIOGRAFICA

Busoni, F., Lettere, con il carteggio Busoni-Schònberg, a cura di S. Sablich, Ricordi-Unicopli, Milano 1988. Ghirardini, G., Invito all*ascolto di Mascagni, Mursia, Milano 1988. Lessem, A. P., Scòenberg espressionista - Il dramma, il gioco, la profezia, Marsilio, Venezia 1988. Pulcini, F., Sostakovic, Edt, Torino 1988. Schoenberg, A., Kandinsky, V., Musica e pittura - Lettere, testi, documen­ ti, a cura di J. Hahl-Koch, Einaudi, Torino 1988. Strawinskij, Vera e Igor’, Caro Babushkin. Lettere e diari (1921-1971), Passigli, Firenze 1988. Tammaro, F., Le sinfonie di Sostakovic, Giappichelli, Torino 1988. Tarozzi, G., L'amore cattivo. Vita di Giacomo Puccini, Camunia, Milano 1988. aa.w., Carter, Edt, Torino 1989.

Sul jazz:

Jones, L., Il popolo del blues, Einaudi, Torino 1968. Berendt, J. E., Il libro del jazz, Garzanti, Milano 1972. Roncaglia, G., Il jazz e Usuo mondo, Einaudi, Torino 1979. Polillo, A., Jazz, Mondadori, Milano 1983. Su tecnologia e comunicazione di massa:

Musica e elaboratore, a cura di A. Vidolin, edizioni La Biennale di Vene­ zia, 1980. Frith, S., Sociologia del Rock, Feltrinelli, Milano 1982. Musica e sistema dell'informazione in Europa, in Atti del convegno di Mi­ lano, a cura di F. Rampi, Unicopli, Milano 1985, in «Quaderni di Musica/Realtà», n. 6. What is popular Music?, in Atti del convegno di Reggio Emilia, a cura di F. Fabbri, ivi 1985, in «Quaderni di Musica/Realtà», n. 8.

Storia della musica

Capitolo primo

La musica nel mondo antico

i.

Musica greca e civiltà occidentale.

La musica che siamo soliti ascoltare, quella cosiddetta clas­ sica per intenderci, quella della tradizione occidentale, per es­ sere più precisi, donde proviene, dove affonda le sue radici, a quale altra cultura fa riferimento? Domande complesse, che possono avere solamente risposte parziali, su cui si possono formulare ipotesi più o meno attendibili, interrogativi che in parte rimarranno senza soluzioni soddisfacenti. Ciò non è do­ vuto ad una particolare cattiva sorte della storia che ha can­ cellato i documenti essenziali, ma a motivi più profondi ine­ renti alla stessa natura della musica rispetto alle altre arti vi­ sive e letterarie. Indubbiamente il destino storico della musi­ ca è stato profondamente diverso sino a tempi molto vicini a noi, se paragonato a quello della pittura, scultura, architettura o letteratura; cosi diverso da generare non solo una storia di tipo diverso ma anche un diverso tipo di coscienza storica. Basta pensare all’antichità greca e a ciò che ha rappresentato nella storia della cultura occidentale come concreto modello di classicità, per l’architettura, la scultura e la letteratura. Ben diverso è stato per la musica: arte altrettanto importante e al­ trettanto praticata nel mondo classico, ma che non ha potuto servire come reale modello di classicità. Infatti per la musica abbondano le notizie tramandateci dai filosofi dell’antichità, dai teorici, dai poeti, ma praticamente ci sono rimasti solo po­ chi frammenti e di difficile interpretazione. Questa pressoché totale mancanza di testimonianze storiche concrete sulla mu­ sica antica non è evidentemente frutto di un incidente storico ma di un ben preciso atteggiamento di fronte ad essa, per cui non si riteneva che fosse un’arte da tramandare alla posterità. Diremmo oggi musica d'uso, e tale è rimasta la musica per molti secoli, praticamente sino agli albori del mondo moder­ no. Ciò è effetto e causa al tempo stesso del fatto che la musi­ ca è un’arte che nel corso della sua lunga e millenaria storia

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CAPITOLO PRIMO

non è stata accompagnata da una precisa coscienza della sua storicità, con conseguenze di enorme portata che si sono ri­ flesse non solo nel modo anomalo e problematico con cui oggi possiamo prendere conoscenza della musica del passato, an­ che non lontanissimo, ma del modo stesso con cui si è traman­ data e sviluppata nel corso dei secoli. Infatti è stata forse Tu­ nica arte che per moltissimi secoli non ha avuto un’idea di classicità, un modello reale a cui riferirsi, un modello da imi­ tare o da cui tenersi lontano, come è avvenuto per tutte le al­ tre arti in occidente, che hanno cosi creato una continuità sto­ rica e al tempo stesso un principio dinamico di sviluppo. Perciò la storia della musica è stata per certi versi molto più avventurosa e oggi per lo storico assai più problematica da ri­ costruire rispetto alle altre arti; la storia della musica è piena di buchi più o meno oscuri, di ipotesi contrastanti, di zone che possono sembrare vuote perché quasi prive di documen­ tazione. Assai difficile perciò rispondere esaustivamente al primo interrogativo che ci si è posti e la risposta più consueta, quella che si trova in genere in tutti i manuali di storia della musica, e cioè che la nostra civiltà musicale affonda le sue radici nella Grecia classica, va presa con alcune cautele. E vero che tutti i teorici della musica, dal Medioevo al Barocco parlano sem­ pre della classicità greca come di un sicuro punto di riferimen­ to e di appoggio, quando elaborano le proprie teorie. Tuttavia se si può sostenere in modo sensato e plausibile che vi è una diretta discendenza tra un tempio greco e una chiesa del Rina­ scimento, assai più arduo se non ridicolo sarebbe sostenere una tesi del genere per quanto riguarda un madrigale di Luca Marenzio o una Messa di Palestrina. Qual è stata allora la rea­ le funzione della civiltà greca nella storia della musica occi­ dentale? Per più di un motivo possiamo ben dire di essere i diretti eredi della civiltà classica e non solo per quanto riguarda la musica; tuttavia in particolare parlando della musica è bene chiarire in che senso siamo eredi della classicità ed anche tene­ re conto di quali altre civiltà antiche siamo debitori. Infatti, proprio la mancanza di una solida tradizione musicale ha per­ messo che la musica fosse molto più permeabile e sensibile ad altri richiami culturali, ad altre tradizioni che hanno potuto innestarsi sul tronco principale senza traumi, senza eccessivi problemi, senza scossoni. E stato cosi possibile per i musicisti del medioevo immaginare di continuare ad essere sull’asse

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centrale di una civiltà artistica, di cui però non si conoscevano più gli antecedenti ed invece assorbire più o meno inconscia­ mente nuovi stimoli provenienti da altre aree culturali e geo­ grafiche. Si è cosi potuto verificare un curioso fenomeno, nel­ la storia della musica: musicisti e teorici, dal Medioevo sino a tutto il Rinascimento e oltre, hanno continuato a richiamarsi ad un modello teorico che tuttavia non era più conosciuto, e che era stato modificato radicalmente dai teorici successivi senza però averne coscienza e senza potersi più riferire ad una prassi artistica di cui si era del tutto persa la traccia. In cosa consisteva dunque questa tradizione classica a cui tutti si richiamavano e che ancor oggi si riconosce come la ma­ trice originaria della nostra civiltà musicale? Abbiamo nume­ rosissime testimonianze di tipo letterario, filosofico e teorico su ciò che era la musica nel mondo antico, per cui in realtà non mancano le notizie su di essa e possiamo ricostruire anche nel dettaglio la vita musicale dell’antica Grecia. Anzitutto va ricordato che già il termine [xovaix*! non aveva lo stesso signi­ ficato che ha oggi per noi: tale termine aveva un significato assai più complesso e si riferiva non solo all’arte dei suoni ma ad un complesso di attività artistiche che comprendevano la musica, la poesia, la danza e in parte anche la ginnastica. La diffusione di questo concetto di musica spiega anche perché sia tanto difficile oggi ricostruirne la storia; non si tratta infat­ ti, alla luce delle nostre suddivisioni delle arti, di un’espressio­ ne artistica ben definita, ma di un insieme di attività artisti­ che di cui la tradizione ci ha tramandato alcuni aspetti che ri­ teneva più degni di essere scritti) come i testi poetici, mentre altri aspetti, come quelli che oggi chiamiamo musicali, erano affidati per lo più alla trasmissione orale. Non è un caso se i pochissimi documenti musicali pervenutici dal mondo greco sono tutti posteriori al ni secolo a. C., mentre possediamo te­ stimonianze dirette di molti secoli prima riguardo alla lettera­ tura, alla poesia, alle arti figurative e al pensiero filosofico. Ciò non significa che nei secoli precedenti la musica fosse me­ no praticata o ritenuta meno importante ma piuttosto che non si riteneva utile trasmetterla per iscritto. D’altra parte testi­ monianze indirette sulla sua fioritura nella Grecia classica e preclassica sono vastissime e attestano anzi il grande sviluppo della musica nella civiltà antica e soprattutto la sua grande im­ portanza non solo artistica ma anche civile, religiosa e peda­ gogica. Il tipo di testimonianza più antico, quello letterario (basta

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pensare ai poemi omerici) inoltre lascia intravedere che la stessa civiltà musicale greca, la sua tradizione pratica e teori­ ca, è da considerarsi tutt’ altro che un blocco monolitico, ma è a sua volta il risultato della fusione di altre civiltà e tradizioni musicali, che hanno contribuito nel corso dei secoli a creare al seguito di invasioni, conquiste, contatti con altri popoli, una civiltà musicale relativamente omogenea e coerente, tale da poter costituire per i posteri un punto di riferimento, almeno sul piano teorico se non su quello pratico. Reperti archeologici, vasi decorati, resti di strumenti atte­ stano che la civiltà musicale greca più antica è debitrice ad al­ tre civiltà ancora più antiche e in particolare alle civiltà fiorite nel bacino mesopotamico, a quella egizia e a quelle civiltà fio­ rite ancora più ad oriente. Tutti gli strumenti musicali usati dai greci si trovano già sviluppati in Egitto e in Mesopotamia: arpe, cetre, flauti di vario tipo, sistro erano strumenti già svi­ luppati sin dal m millennio a. C. Ma anche le testimonianze letterarie attestano la derivazione da altre culture: le figure mitologiche di carattere musicale, quali Dioniso, Lino, lo stes­ so Orfeo e le leggende fiorite su queste figure dimostrano la stretta parentela con analoghi miti mesopotamici. Cosi pure le dottrine dei pitagorici, come sono state tramandate in epoca posteriore, dimostrano la derivazione da culture orientali. Ciò non toglie nulla all’originalità della sintesi che di tali moltepli­ ci elementi hanno operato i Greci nella loro storia, imprimen­ do ad essi nuova vita attraverso una rielaborazione originale ed unitaria, [ef] 2. I miti musicali e le testimonianze più antiche.

La molteplicità delle testimonianze, anche molto antiche, sulla musica dei greci ci permette di formarci un’idea abba­ stanza precisa ed articolata su ciò che essa rappresentava nel­ l’ambito della cultura e della civiltà. Anzitutto rispetto alle al­ tre civiltà antiche, quella egizia, quella ebraica, quella fenicia, quella babilonese ecc., si può arguire che se per questi popoli la musica era strettamente legata al culto religioso e alla classe sacerdotale, presso i greci assunse un carattere più ricreativo e, in senso lato, più laico, ed infine anche educativo. Lo Pseudo-Plutarco, autore nel ni secolo d. C. del famoso tratta­ to De Musica, una delle più preziose testimonianze sulla mu­ sica e sulle concezioni musicali del mondo antico, cosi afferma

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riferendosi al vecchio e mitico cantore Omero: «Egli ci indica le circostanze più appropriate per la pratica della musica, avendo scoperto che essa è l’esercizio più idoneo, sia per la sua intrinseca utilità che per il piacere che procura, allo stato di inattività: Achille guerriero e uomo di azione, non parteci­ pava più ai rischi della guerra a causa della sua disputa contro Agamennone e perciò Omero riteneva conveniente allo spiri­ to dell’eroe esercitarsi con la perfetta bellezza delle melodie... Tale era la musica e tale il suo uso. Noi sappiamo egualmente di Eracle che si serviva allo stesso modo della musica, come di Achille e di molti altri che si tramanda siano stati tutti allievi del grande savio Chirone, maestro non solo di musica ma di giustizia e di medicina». In questo passo lo Pseudo-Plutarco, con scarso senso della cronologia, mescola miti e fatti reali, ma pertanto fornisce alcune preziose indicazioni. Il richiamo alla figura mitica del sapiente Chirone ci riporta ad un’epoca anteriore a quella omerica, epoca in cui la musica doveva esse­ re concepita come strettamente legata e integrata con altre ar­ ti quali la medicina, gli incantesimi, la danza e la ginnastica; inoltre doveva essere considerata come un elemento essenzia­ le dell’educazione aristocratica. La musica in definitiva assol­ veva ad una funzione non solo ricreativa ma anche etico­ conoscitiva. Il canto inoltre serviva per ingraziarsi la divinità, la quale distribuisce il bene o il male, per cui in definitiva esso può anche liberarci dalle malattie. Nel periodo omerico (vmvn secolo a. C.?) tuttavia la musica sembra che tenda a perde­ re questo prevalente potere medico-religioso per acquistare invece una dimensione prevalentemente edonistica; inoltre le testimonianze omeriche ci presentano, soprattutto nell’Odzssea> la figura del musicista come professionista della sua arte. Il tardo citaredo non pratica più un rito religioso, non compie incantesimi, non guarisce malattie: Femio nella reggia di Itaca e Demodoco, il cantore della reggia di Alcinoo, cantano uni­ camente per diletto degli ascoltatori senza alcun altro fine; la musica come accompagnamento della danza o del canto è ri­ conosciuta come indispensabile elemento per la felice riuscita di un sontuoso banchetto o di altre cerimonie mondane. An­ che le divinità olimpiche non disdegnano di intonare i canti dei mortali ai loro banchetti. Il cantore ha sempre un suo re­ pertorio di canti per le varie occasioni e si accompagna sulla li­ ra (phorminx o kitharis), strumenti tipicamente e polemicamente ellenici, mentre gli strumenti a fiato, l’aulos o la syrinx, anche se si diffusero poi largamente in Grecia, furono guar­

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dati sempre con un certo sospetto dai difensori della tradizio­ ne, essendo d’importazione asiatica. Questo contrasto fonda­ mentale tra la lira e l’aulos rimase centrale nella cultura greca, rispecchiando proprio un momento di conflitto tra diverse ci­ viltà e diversi modi d’intendere la musica, e molti miti riflet­ tono questo contrasto. L’invenzione dell’aulos è attribuita a Marsia o al suo figlio ed allievo Olimpo, vissuti in un tempo anteriore ad Orfeo, e ciò con l’intento di attribuire una priorità logica e cronologica alla musica pura. L’aulos inoltre è legato al culto di Dioniso e ai riti orgiastici propri di una civiltà preomerica. Orfeo invece suona la lira accompagnandosi col canto, e la tradizione vuole che l’inventore della lira sia stato Apollo, il dio della bellezza. Alla base delle molte leggende che riguardano la minore o maggiore antichità della lyra o dell’^^/os sta evidentemente il desiderio di stabilire la priorità di una musica che si basa uni­ camente sulla potenza quasi magica e incantatola del suono o di una musica che, accompagnandosi alla parola, si lega e si as­ socia ad un fattore piu razionalmente controllato. Nella storia del pensiero musicale greco la scuola pitagorica rappresenta un punto di riferimento importantissimo. Si deve parlare di scuola piuttosto che del suo presunto fondatore Pi­ tagora; infatti il filosofo vissuto nel vi secolo a. C. non ha la­ sciato nessuno scritto e più che di una dottrina pitagorica si può parlare di un complesso di dottrine, perché i pitagorici non furono soltanto una scuola filosofica ma anche una setta religiosa e politica. La musica occupa una posizione centrale nella cosmogonia e nella metafisica dei pitagorici imperniate sul concetto di armonia < In tutto il cosmo regna l’armonia ed essa viene concepita anzitutto come unificazione dei contrari: «L’armonia nasce solo coi contrari; perché l’armonia è unifi­ cazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi di­ scordanti» (Filolao). Se il cosmo è armonia anche l’anima è ar­ monia per i pitagorici. Tale concetto si completa con quello di numero, concetto peraltro assai oscuro; cosf afferma Stobeo: «nulla sarebbe comprensibile se non ci fosse il numero e la sua sostanza», ma se il numero e l’armonia rappresentano in qual­ che modo la legge immanente del mondo, il fondamento della sua intelligibilità, è essenziale cogliere lo stretto legame tra questi concetti e la musica. Infatti per i pitagorici la natura più profonda dell’armonia e del numero è rivelata proprio dal­ la musica. Va chiarito pertanto ciò che in questo ambito s’intendeva

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per musica. Secondo Filolao, filosofo di scuola pitagorica, i rapporti musicali esprimono nel modo più tangibile ed evi­ dente la natura dell’armonia universale e perciò i rapporti tra i suoni, esprimibili in numeri, possono essere assunti come modello dell’armonia universale. La musica perciò in fondo è un concetto astratto che non coincide necessariamente con la musica, quella che risuona agli orecchi dei comuni mortali, nel senso corrente del termine. Musica ovvero armonia può esse­ re non solo quella prodotta dal suono degli strumenti ma an­ che a maggior ragione lo studio teorico degli intervalli musica­ li o ancora la musica prodotta dagli astri che ruotano nel co­ smo secondo leggi numeriche e proporzioni armoniche. Que­ sta sarebbe appunto la musica delle sferey concetto che avrà tanta fortuna non solo nella cultura greca, ma ancora nel Me­ dioevo e persino nel Rinascimento e oltre. Lo studio matema­ tico degli intervalli musicali così come la divisione della scala nasce proprio da questo concetto di armonia e di numero. Si è già detto che secondo i pitagorici anche l’animo è ar­ monia; di qui discende un altro principio di basilare impor­ tanza nel pensiero greco : la musica ha un grande potere sul nostro animo, nel bene e nel male, e tale potere si fonda pro­ prio sull’affinità della natura della musica con quella dell’ani­ ma. La musica inoltre può ricostituire l’armonia turbata del nostro animo grazie al fatto che essendo armonia, può contri­ buire a ricostituire l’armonia dell’anima, turbata da qualche fattore estraneo. Nei testi dei pitagorici ricorre a questo pro­ posito frequentemente il termine catarsi (purificazione), indi­ cando con ciò anche una parentela tra la musica e la medicina. La musica infatti veniva considerata come la medicina per l’a­ nima. Giamblico affermava che Pitagora «usava soprattutto questo modo di purificazione, come egli chiamava la medicina esercitata per mezzo della musica». In questo contesto filoso­ fico la musica con i pitagorici viene ad acquistare una carica etica e pedagogica che sino ad allora non era ancora stata teo­ rizzata con tanto vigore e che rimarrà un punto fermo in tutta la cultura musicale greca, [ef] 3. L'armonia e 1'«ethos» della musica.

A Pitagora a cui la tradizione attribuisce le prime ricerche sul calcolo matematico degli intervalli si attribuisce pure, co­ me già si è detto, l’affermazione della relazione tra la musica

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e l’animo umano, concetto ripreso e sviluppato da tutta la fi­ losofia greca dei secoli seguenti. Damone, filosofo, musicista e uomo politico del v secolo, fu tra i primi ad accentuare que­ sto aspetto della musica mettendo in rilievo il suo potere eti­ co, positivo o negativo a seconda dei casi, sull’animo umano. Ogni tipo di musica imita un certo carattere; questa imitazio­ ne avviene in vari modi e i teorici ne hanno dato spiegazioni diverse. Alcuni dicevano che la tensione delle corde della lira trova un suo corrispondente nella tensione dell’anima. Damo­ ne si limitava ad affermare, seguendo piu da vicino le dottrine di Pitagora, che l’anima è movimento e che dal momento che anche il suono è movimento, c’è una corrispondenza diretta e un’influenza reciproca tra musica e anima. Altri trattatisti as­ sociano il carattere o V ethos della musica al modo (o più pro­ priamente armonia, tonos o tropos) in cui era scritta1 e attri­ buivano ad esempio al modo frigio il carattere di sfrenatezza mentre a quello dorico attribuivano il carattere di pacatezza e saggezza. Ogni modo perciò doveva produrre un ben determi­ nato effetto sull’animo, positivo o negativo che fosse; inoltre ogni modo non imiterebbe soltanto uno stato d’animo ma an­ che i costumi del paese da cui trae origine ed anche il tipo di regime politico, democratico, oligarchico o tirannico. Lo stes­ so discorso si può fare anche per i ritmi e Platone nella Repub­ blica, per bocca di Socrate, riprende con efficacia tale concet­ to: «non cercare ritmi variati né cadenze d’ogni specie, ma os­ serva quali sono i ritmi appropriati a una vita ordinata e viri­ le... Su questo punto ci consiglieremo anche con Damone, per sapere quali siano le cadenze che s’addicono alla bassezza d’a­ nimo, alla violenza o alla pazzia e ad altro vizio, e quali ritmi si debbano riservare alle qualità opposte... » Il coacervo di dottrine anche diverse presenti nella scuola pitagorica e in Damone trovano una loro sistemazione ed una certa coerenza, anche se assai precaria e provvisoria, nella fi­ losofia di Platone (427-347 a. C.). Nei suoi dialoghi la musica ha quasi sempre una parte assai importante e l’idea già affer­ mata da Damone, circa il valore etico della musica, diventa centrale. Tuttavia con Platone si accentua il drammatico pro­ blema già presente nel pensiero pitagorico: la frattura radicale tra la musica udita e quella solamente pensata, frattura che forse è ancora alla radice del fatto che della musica greca co­ nosciamo molto di ciò che riguarda il pensiero e la teoria ma 1 Cfr. pp. 21-25.

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quasi nulla di ciò che riguarda la sua reale consistenza sonora. Infatti Platone sembra oscillare tra una radicale condanna della musica e una considerazione di essa quale suprema for­ ma di bellezza e quindi di verità. Nella Repubblica prevale la condanna della musica, la quale viene accomunata ad arti spregevoli quali gli spettacoli da fiera e le Dionisie; non solo non accenna ad alcuna sua virtu educativa ma mette in luce il fatto che il suo ascolto ci allontana dalla contemplazione della bellezza. Nello stato ideale vagheggiato da Platone nella Re­ pubblica la «sdolcinata Musa lirica» deve essere bandita, altri­ menti regneranno «piacere e dolore anziché legge». Questa considerazione negativa della musica si trova ogniqualvolta Platone la considera come esercizio effettivo di un’arte. Sotto questo profilo pratico la musica va condannata o piu raramen­ te accettata ma con cautela e con molte riserve. Secondo Pla­ tone le musiche eventualmente accettabili sono quelle consa­ crate dalla tradizione. Egli si trovava infatti di fronte alle pro­ fonde innovazioni presentate dalla musica del suo tempo, in­ novazioni che nel loro insieme rappresentavano la cosiddetta rivoluzione musicale del v secolo. Di fronte ad essa il filosofo manifesta la sua piu profonda avversione e ostilità, ancoran­ dosi, cosi come il suo contemporaneo Aristofane, alla più an­ tica e salda tradizione musicale e poetica: «bisogna cercare con ogni mezzo - egli afferma - che i nostri figli non abbiano desiderio di por mano a nuove imitazioni nella danza e nel canto e che nessuno li persuada a ciò con l’offerta di piaceri di ogni sorta». Questa posizione conservatrice non ha origine pertanto solamente in un suo atteggiamento negativo di fron­ te ai musicisti e alla nuova musica del suo tempo, ma trova spiegazione anche nella sua filosofia della musica. Per Platone infatti la musica è oggetto di condanna in quanto fonte di pia­ cere, anche se potrebbe essere cautamente accettata purché depurata dalle armonie dannose. Inoltre va aggiunto - e ciò è essenziale per Platone ma anche per tutto il pensiero greco e poi medioevale - che la musica può anche essere una scienza e in quanto tale oggetto non più dei sensi ma della ragione. La musica allora può avvicinarsi alla filosofia sino ad identificarsi con essa come la più alta forma di sapienza (sophid). Nel Fedo­ ne Platone afferma per bocca di Socrate, condannato a morte, che un demone nel sogno lo incitava ad esercitarsi nella musi­ ca e a comporre. Al che Socrate rispondeva che «alla maniera di coloro che incitano i corridori già in corsa, cosi anche me il sogno incitava a fare quello che già facevo, cioè a comporre

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musica, reputando che la filosofia fosse musica altissima e non altro che musica io esercitassi». Questa identificazione del comporre musica con il filosofa­ re non è casuale né contraddittoria con le precedenti posizioni cui si è accennato, e la si ritrova in molti altri dialoghi; cosi ad esempio nel mito delle cicale nel Fedro, da cui appare chiara la posizione privilegiata della musica rispetto alle altre Muse, privilegio che la rende simile alla filosofia, nel senso che filo­ sofare significa «rendere onore alla musica». In questo mito la musica appare come un dono divino di cui l’uomo può ap­ propriarsi, ma solo ad un certo livello, cioè quando raggiunge la sophia. Ovviamente la musica di cui parla in questi passi e in numerosi altri, non è la stessa «sdolcinata Musa lirica» di cui parla nella Repubblica, da bandire dallo stato perché sov­ vertitrice della legge. Platone si riferisce a due concetti di mu­ sica difficilmente conciliabili: a volte si richiama alla concreta prassi musicale del suo tempo, alla musica che si ode con le orecchie, quella che si poteva ascoltare nella Atene del v seco­ lo; a volte invece si riferisce ad una musica puramente intelli­ gibile e quindi senza apparenti legami con il mondo reale della musica. L’atteggiamento negativo di Platone è nei confronti del primo concetto di musica, verso la musica del suo tempo e le sue innovazioni, verso le nuove armonie e i nuovi ritmi che entravano allora nella pratica, ad esempio con il teatro di Eu­ ripide; musica che portava vieppiù lontano dall’idea di musica come scienza divina, come espressione dell’armonia cosmica. Infatti sarebbe un controsenso pensare di operare mutamenti ed innovazioni in un’arte i cui principi sono stabili ed eterni come il mondo. Conservare la tradizione significa per Platone conservare alla musica il suo valore di legge (nomos). Proprio nelle Leggi Platone considera la possibilità che la musica venga considerata nel momento della sua introduzione nella città, come concreto momento in cui dal puro intelligibile si possa passare alla sua realtà sensibile, ma senza che venga meno il suo carattere normativo e perciò il suo profondo valore educa­ tivo; di qui la sua dura polemica verso le sregolatezze musicali del proprio tempo. Di qui l’atteggiamento che può sembrare equivoco e ambivalente di Platone nei confronti della musica, ma che trova già la sua origine nelle dottrine etiche pitagori­ che e damoniane: se il musicista può essere a volte visto come un corruttore dei giovani, nello stato ideale per altro verso l’e­ ducazione musicale è altamente necessaria e auspicabile, pur­ ché corretta, affinché i ragazzi «divenuti piu euritmici e ar­

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moniosi siano valenti nel parlare e nell’agire ché Finterà vita umana ha bisogno di ritmo e di armonia» (Protagora), [ef]

4. I« nomoi » e la rivo luzione musicale del v secolo.

Questo legame della musica con la legge, intesa in senso la­ to, si può ricavare non solo dagli scritti di Platone, ma da una tradizione assai piu antica. Lo Pseudo-Plutarco nel già citato testo ci parla del poeta e musico Terpandro, vissuto a Sparta nel vn secolo a. C. come dell’inventore dei nomoi. Assai dif­ ficile capire cosa fossero di preciso i nomoi. Il termine nomos significherebbe legge, per cui si può pensare che per metafora nella musica i nomoi fossero schemi melodici stabiliti in modo preciso per le varie occasioni a cui le varie melodie erano state destinate o per gli effetti che avrebbero potuto produrre; essi avrebbero costituito il nucleo di una tradizione musicale ed anche la base di un insegnamento musicale. Se dobbiamo pen­ sare che i nomoi avessero un tale significato si può arguire che alla loro pratica è collegata sia la teoria dell’epos musicale, sia uno stabile insegnamento musicale che potrebbe risalire per quanto riguarda Sparta al 670, dal momento che attorno a questa data già gli antichi facevano risalire le feste in onore di Apollo che comportavano un concorso musicale. I nomoi, se­ condo varie testimonianze, tra cui principalmente quella di Platone, dovevano rappresentare nel periodo attico la tradi­ zione musicale più antica e più austera, cioè la musica conce­ pita secondo una legge rigida, musica non ancora corrotta dai nuovi usi e costumi. Perciò lo Pseudo-Plutarco afferma che i primi nomoi sono stati composti per la cetra o la lira e solo in un secondo tempo per l’aulos, in quanto il primo è lo stru­ mento più consono alla genuina tradizione dorica. Un proverbio della bassa antichità affermava che «la musi­ ca non udita è migliore di quella udita»; tale idea era indub­ biamente prevalente nella cultura greca ma non si deve perciò pensare che dominasse del tutto incontrastata. Tale concetto aveva trovato la sua più pregnante formulazione ai tempi di Platone, ma proprio in quei decenni era in corso un acceso di­ battito al riguardo. Platone viveva in un momento storico in cui il musicista andava acquistando una sempre maggior pre­ minenza nella vita sociale e nell’ideale educativo della Polis, e alla musica non si richiedeva più solamente una passeggera distrazione e un superficiale piacere. L’eco di questa situazio-

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ne, delle polemiche da essa suscitate lo si ritrova nelle comme­ die di Aristofane e soprattutto nelle Rane. Euripide, nella commedia di Aristofane, diventa il prototipo del nuovo musi­ cista, aperto a tutte le innovazioni; la competizione tra Eschilo ed Euripide, che vede il primo come vincitore, indica il pre­ valere della tradizione austera del vecchio tragico sulle novità introdotte dal secondo con la sottrazione del coro all’azione mediante il predominio della musica intesa come una più au­ tonoma espressione rispetto al contesto tragico. La satira di Aristofane non è solo un appello alla tradizione dei tragici e dei lirici dell’Atene pre-periclea, ma anche la te­ stimonianza di una profonda frattura che stava formandosi nella cultura musicale e che si sarebbe sempre più approfondi­ ta. Pertanto si può considerare Platone come il maggior re­ sponsabile di questa scissione tra una musica puramente pen­ sata e perciò più apparentata alla matematica in quanto scien­ za armonica o alla filosofia e dall’altra una musica realmente udita ed eseguita, più apparentata perciò ai mestieri e alle pro­ fessioni tecniche. Negli stessi anni in cui Platone formulava le sue dottrine sulla musica, altri filosofi enunciavano teorie as­ sai diverse che accentuavano invece il valore edonistico della musica, arte essenzialmente del piacere. Democrito affermava che «la musica è nata dopo le altre arti perché non ha origine dalla necessità ma nasce invece dal superfluo che già esiste», e il suo valore educativo non veniva neppure menzionato; tale prospettiva non doveva essere isolata e si ritrova ancora più esplicitamente formulata in altri filosofi. Filodemo, di scuola epicurea, affermava: «Nel disegno l’occhio impara a giudicare della bellezza di un gran numero di oggetti visibili; la musica per contro è meno necessaria; essa è soprattutto un gradevole passatempo» (De Musica}. Considerando la musica un diver­ timento, secondo una concezione che già in fondo affiorava nei poemi omerici, cade ogni scrupolo moralistico. L’idea che la musica non imita nulla e che perciò rappresenta solamente un ornamento aggiunto al testo poetico che accompagna, sen­ za un preciso rapporto con il suo contenuto, è il logico corol­ lario di questa posizione a sfondo polemico contro l’etica mu­ sicale, prevalente nel v secolo. Un altro retore del iv secolo, citato sempre dallo Pseudo-Plutarco, confuta ancora più espli­ citamente le dottrine etiche di Platone con argomentazioni di tipo empirico: «Gli armonisti - afferma - pretendono che certe melodie rendano gli uomini padroni di se stessi, sensati o giusti o ancora coraggiosi, mentre altre li rendono vigliac­

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chi: essi non pensano neppure che il genere cromatico sarebbe incapace di rendere vigliacco l’uomo che se ne servisse, allo stesso modo che il genere enarmonico sarebbe incapace di renderlo coraggioso». Da queste poche citazioni non è diffici­ le rendersi conto che le idee di Damone e di Platone, anche se sono prevalse nell’antichità classica e oltre, non si sono affer­ mate senza opposizione; ma la stessa polemica che corre negli scritti sia di Platone che di Aristofane lascia intravedere che essi dovevano combattere una dura battaglia nel loro tempo contro altre correnti di pensiero vive ed operanti che si con­ trapponevano al filone pitagorico-platonico. Una posizione un po’ a parte occupa Aristotele (384-322 a. C.). E significativo che lui pure si occupi della musica, co­ me già Platone, nei testi dedicati ai problemi di carattere più strettamente politico; ciò ad indicare come la musica fosse ri­ tenuta uno strumento sociale ed educativo della massima im­ portanza, di cui il filosofo doveva occuparsi negli scritti dedi­ cati a delineare lo stato ideale e la sua organizzazione. Nella Politica infatti Aristotele, discostandosi parecchio dal pensie­ ro platonico, enuncia la linea del suo ideale educativo per ciò che concerne la musica, secondo una prospettiva più empiri­ stica e flessibile. La musica ha come fine il piacere e come tale rappresenta un ozio cioè qualcosa che si oppone al lavoro e al­ l’attività. Il suo inserimento nell’educazione dei giovani si giustifica pertanto solamente ponendo mente al fatto che an­ che per il riposo sono necessarie «nozioni e pratiche» le quali «pongono come scopo solo se stesse». Bisogna ricordare che per gli antichi greci ed anche per i romani il concetto di ozio non aveva i connotati negativi che ha poi assunto nel mondo moderno; anzi era considerato il modo più appropriato di pas­ sare il tempo per l’uomo libero e non schiavo. Proprio perciò la musica, in quanto occupazione per i momenti di ozio veni­ va considerata da Aristotele come una disciplina « nobile e li­ berale». Ma in questa prospettiva veniva ad accentuarsi la contrapposizione tra l’ascolto e il diletto ad esso connesso da una parte e l’esecuzione vera e propria della musica dall’altra: il primo è attività non manuale, degna quindi di un uomo li­ bero; la seconda è un mestiere, un lavoro manuale e non do­ vrebbe perciò rientrare in un’educazione liberale. Su questa contrapposizione s’impernia tutto il discorso di Aristotele sul­ la musica, per stabilire in quale misura essa possa e debba en­ trare a far parte di un sistema educativo. La conclusione prammatica ed empirica è che dal momento che «è cosa diffi­

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cile se non impossibile il diventare buoni giudici di attività che non si sanno eseguire », si deve considerare la prassi ese­ cutiva solamente come un momento preparatorio: «i giovani devono praticare Parte solo per acquistare le capacità di giudi­ care di essa e perciò si devono dedicare all’esecuzione solo fi­ no a che sono giovani ed astenersene quando sono diventati più anziani, e sapranno giudicare le cose belle godendone ret­ tamente in base alle conoscenze acquisite in gioventù». Per­ ciò è ovvio che la pratica musicale deve fermarsi alla soglia del virtuosismo che porta a fatiche eccessive, non degne di un uo­ mo libero. Solo se l’educazione musicale sa fermarsi entro questi limiti non «trasformerà i suoi cultori in volgari mano­ vali». Possibilista si dimostra Aristotele anche riguardo alla dot­ trina dell’ethos: egli tende ad ammettere tutte le armonìe pur­ ché usate nella circostanza opportuna: «Nelle melodie c’è una possibilità naturale di imitazione dei costumi, dovuta eviden­ temente al fatto che la natura delle diverse armonie è varia, sicché ascoltandole nelle loro diversità ci si dispone in modo diverso di fronte ad ognuna di esse», alcune inducono al do­ lore e al raccoglimento (l’armonia misolidia), altre ispirano «sentimenti voluttuosi», altre ancora ispirano «compostezza e moderazione» (la dorica), mentre la frigia induce all’entusia­ smo. L’arte e perciò anche la musica è imitazione e suscita sentimenti; perciò è educativa in quanto l’artista può scegliere più opportunamente la verità da imitare ed influire cosi sull’a­ nimo umano. Aristotele riprende l’antico concetto pitagorico di catarsi, ma lo modifica opportunamente osservando che il meccani­ smo della purificazione avviene attraverso una liberazione delle passioni che vengono imitate dal musicista: perciò non vi sono armonie o musiche dannose in assoluto dal punto di vista etico; la musica è una medicina per l’animo proprio in quanto può imitare tutte le passioni o emozioni che ci tormen­ tano e di cui siamo affetti e dalle quali vogliamo purificarci; tale liberazione avviene proprio potendo osservare la loro imi­ tazione attraversò l’arte. La tradizione pitagorico-platonica non viene rifiutata da Aristotele, ma viene tuttavia profondamente modificata met­ tendone in luce soprattutto le implicazioni psicologiche piut­ tosto che quelle metafisiche. Perciò Aristotele rappresenta un ponte verso l’età ellenistica. Cosi ad esempio la scissione pla­ tonica tra la musica intesa come pura speculazione e quella in­

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17 tesa come piacere dei sensi, viene ripresa da Aristotele come una frattura sociale esistente tra l’ozio degno dell’uomo libero e l’attività servile del musicista mestierante. Questo aspetto pratico ed empirico, attento anche agli aspetti psicologici della fruizione musicale, si accentua nel pensiero di Aristosseno allievo di Aristotele nella scuola peri­ patetica. Il grande teorico, che ormai vive in età ellenistica, può considerarsi come uno dei primi musicologi dell’antichi­ tà. Egli si occupa di musica non piu all’interno di un discorso filosofico e pedagogico generale, ma come specialista. Nei suoi numerosi scritti sulla musica, non tutti pervenutici, si occupa da una parte di ridefinire e ricomporre in sistema le teorie ar­ moniche spesso confusamente tramandate dal passato; dall’al­ tra di formulare una filosofia della musica più attenta ai con­ creti problemi legati sia alla percezione uditiva, sia al processo mnemonico e psicologico che permette la formazione dei giu­ dizi sulla musica. La sua importanza non sta tanto nell’aver inventato nuove teorie sulla musica, quanto nell’aver spostato il centro dell’interesse dagli aspetti puramente intellettuali, sin qui privilegiati, agli aspetti più concretamente sensibili e psicologici dell’esperienza musicale. Con Aristosseno si apre ormai la strada ad una considerazione del carattere estetico e non solo più prevalentemente etico della musica. Nell’età el­ lenistica sino agli albori della nuova civiltà romano-cristiana il pensiero musicale tenderà ormai a incanalarsi su due binari abbastanza nettamente distinti: da una parte la corrente peri­ patetica che accentuerà sempre di più gli aspetti scientifici, teorici, acustici e psicologici del fatto musicale, come si può già rilevare negli scritti di Teofrasto o in quelli di Cleonide, divulgatore del pensiero di Aristosseno del i-n secolo a. C.; dall’altra sopravviverà la corrente platonica, legata all’etica musicale, ma con un’accentuazione più spiccatamente mistica e religiosa avvicinandosi per certi aspetti alla nuova cultura del neoplatonismo cristiano. Cosi secondo Porfirio la musica avrebbe origine in un mondo superiore, e se coltivata corret­ tamente e non degradata a piacere dei sensi, può diventare uno strumento di ascesi in quanto immagine del mondo ideale e dell’armonia del cosmo. Anche Plotino, il più grande filoso­ fo neoplatonico, affermava nelle Enneadi che la musica «è la rappresentazione terrena del ritmo del regno ideale». La mu­ sica intesa come via d’accesso ad un regno superiore, non sen­ sibile, contrapposta alla musica come oggetto dei sensi, ci ri­ porta alla distinzione pitagorico-platonica tra musica udibile

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CAPITOLO PRIMO

e musica non udibile e allo stretto legame tra musica e mondo etico. Il mondo greco lascia in eredità questi problemi al Me­ dioevo cristiano che riprenderà tutto il pensiero antico inse­ rendolo nella nuova problematica religiosa, [ef]

5. Musica e musicisti nella Grecia antica. Se può essere relativamente facile ricostruire una traccia del pensiero classico sulla musica, assai più difficile e proble­ matico immaginare la storia della musica vera e propria; le no­ tizie, come si è visto, sono tutte indirette e intrecciano in mo­ do indisgiungibile i miti con i dati reali, le teorie dei filosofi con le notizie degli storici, la realtà con l’immaginazione. Alla luce delle testimonianze più attendibili pertanto si può ricava­ re una traccia molto sommaria del percorso della musica du­ rante questi secoli, anche se tale storia in realtà è indisgiungi­ bile dalla storia delle teorie musicali e della filosofia. Si è già detto come la musica nella Grecia antica sia assolutamente in­ disgiungibile dalla poesia, soprattutto nel periodo più antico della sua storia. Non è inutile ricordare come il termine poesia lirica derivi per l’appunto dallo strumento greco per eccellen­ za, la lyra. I valori ritmici della musica erano perciò gli stessi di quelli della poesia lirica o epica1. Uno dei centri della musi­ ca e della poesia lirica più antica doveva essere l’isola di Le­ sbo, che la tradizione designa come la patria di due famosi poeti-musici, Terpandro e Arione. Al primo si attribuisce an­ che erroneamente il merito di aver portato le corde della lira da quattro a sette (in realtà fonti iconografiche molto più an­ tiche rappresentano già la lira a sette corde); ad Arione la leg­ genda attribuisce l’invenzione del ditirambo, cioè del canto corale di tipo orgiastico dionisiaco, accompagnato dall’aulos. Nel vn-vi secolo si fissano nella tradizione i nomoi, presumi­ bilmente schemi melodici che servivano di riferimento per composizioni con particolari destinazioni, religiose, ricreati­ ve, educative ecc. Sempre nel vn secolo si narra che Alcmane di Sparta abbia sostituito i tradizionali nomoi con melodie suggerite dai canti degli uccelli. Certo che i nomoi dovevano aver introdotto una pratica molto vincolante per la libera fan­ tasia dei musicisti-poeti e verso la fine del vi secolo sono stati gradatamente abbandonati e sostituiti dalle armonie o come 1 Cfr. pp. 21-25.

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sono spesso stati chiamati dalla successiva tradizione occiden­ tale, dai modi1, schemi piu elastici, che meglio si adattavano alle più ampie esigenze poetiche e musicali della poesia lirica e tragica del v secolo. Nel iv secolo la tradizione musicale greca giunse al suo apo­ geo ed iniziò al tempo stesso una lenta ma profonda trasfor­ mazione che giunse a poco a poco a modificare lo stesso con­ cetto su cui si reggeva la tradizione musicale-educativa classi­ ca. Timoteo di Mileto fu l’emblema di questa fase di passag­ gio: si dice che abbia elevato il numero delle corde della lira a n e uno dei motivi potrebbe essere quello di offrire la possi­ bilità al musicista di usare più di un’armonia nello stesso can­ to, iniziando quel processo che porterà a poco a poco alla rot­ tura della perfetta fusione tra musica e poesia, rendendo per­ ciò la musica stessa parzialmente indipendente dal metro poe­ tico. Questa rivoluzione di cui la tradizione ha attribuito la responsabilità soprattutto a Timoteo avvenne in particolare nell’ambito della tragedia, il genere poetico-musicale forse più popolare e importante nel v secolo, ed Euripide fu tra i trage­ diografi il più fervente sostenitore di questa riforma. La tra­ gedia tende con Euripide a trasformarsi da solenne rito civi­ le e religioso a spettacolo, e parallelamente la musica tende a conquistarsi spazi di maggiore autonomia slegandosi dalla ri­ gorosa corrispondenza tra sillaba e nota musicale. Cosi l’introduzione di intervalli enarmonici (quarti di tono) e cromatici spezzò la concezione rigidamente razionale della musica ma introdusse possibilità più ampie dal punto di vista dell’imitazione di gamme più varie di sentimenti, e il musici­ sta non si sentf più ancorato a rispettare la stessa armonia per tutta la durata della sua composizione: il melodizzare diventa più flessibile, si orna di fioriture un tempo considerate ines­ senziali e la prassi esecutiva diventa inevitabilmente più ardua e complessa. E cosi che nasce la professione dell’esecutore la cui opera non poteva più essere affidata a dilettanti. La feroce parodia di Aristofane contro Euripide, divenuto l’emblema della nuova musica, è il documento più significativo di questa querelle tra gli antichi e i moderni. Da questo dibattito indub­ biamente la musica uscirà profondamente trasformata e si aprirà a nuove possibilità, ad una maggior libertà melodica, e soprattutto ad una maggiore autonomia. 1 Cfr. pp. 21-25.

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I romani, nella loro piu eclettica civiltà, erediteranno que­ sto nuovo e piu libero stile musicale. Anche della musica dei romani nulla c’è rimasto; tuttavia non mancano le testimo­ nianze di natura letteraria e figurativa, ed esse possono offrir­ ci una sufficiente idea dei suoi caratteri generali, della sua funzione nella vita pubblica e privata. Dopo aver subito gli in­ flussi della musica degli etruschi, da cui trasse le prime forme di spettacolo musicale con un uso preponderante degli stru­ menti a fiato, con la conquista della Macedonia, risenti di quella greca il cui peso fu predominante sino al l secolo d. C. Dopo d’allora la musica dei romani fu segnata dalle nuove in­ fluenze egiziane ed orientali. Tuttavia l’ideale classico con i suoi significati etici e pedagogici fu del tutto estraneo alla mentalità romana, che si limitò ad ereditare del mondo greco il sistema musicale, gli usi, le forme e la teoria. In realtà il pe­ riodo di contatto tra i Greci e i Romani avvenne nell’età elle­ nistica quando, come si è visto, anche in Grecia gli ideali clas­ sici stavano tramontando per lasciare il posto a una prassi e ad una teoria musicale improntata ad una visione piu laica e uti­ litaristica della musica. Dal n secolo a. C. molti musicisti ed esecutori greci furono presenti a Roma; ma nonostante ciò i romani non attribuiro­ no nessun particolare carattere formativo alla musica e al suo esercizio, che veniva affidato per lo piu a schiavi e a liberti. La musica era praticata e apprezzata soprattutto per le sue qualità edonistiche e per la sua funzione socializzante. Perciò oltre alle manifestazioni teatrali, tutte le manifestazioni piu importanti della vita pubblica e privata, matrimoni, feste e banchetti, erano accompagnati dalla musica. Rispetto alla semplice raffinatezza della musica greca, eseguita con pochi strumenti per accompagnare il canto, la musica dei romani fu indubbiamente piu vivace e coloristica, mescolata con ele­ menti di origine italica, ed eseguita con grandi complessi in cui doveva essere massiccia la presenza degli strumenti a fia­ to: la tibia usata in coppia, la buccina, il lituus bronzeo di ori­ gine etnisca, simile ad un corno, la tuba. Fra gli strumenti usati dai romani vanno ancora ricordati l’organo idraulico, de­ nominato per l’appunto hydraulis e i numerosi e rumorosi strumenti a percussione. Si può pertanto desumere che la mu­ sica a Roma fosse assai popolare e che accompagnasse sempre molti spettacoli tra cui la pantomima e gli spettacoli dei gla­ diatori. Per quanto riguarda la musicologia alcuni letterati ro­ mani ripresero i temi della musicologia alessandrina, della

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scuola di Aristosseno, e piu tardi, in età imperiale, ripresero temi del pensiero neoplatonico e neopitagorico, come Capella, Boezio e Cassiodoro. Spesso i letterati romani si rammarica­ vano della decadenza della loro musica, del prevalere di un at­ teggiamento di sensualità, di effeminatezza, di mancanza di austerità e di dignità, rispetto ai piu raffinati modelli dell’an­ tica Grecia; Cicerone e Seneca lamentavano nei loro scritti questa decadenza. Indubbiamente l’atteggiamento di sospetto e spesso di ostilità dei primi cristiani nei confronti della musi­ ca doveva avere origine anche dalla corrente prassi musicale della civiltà romana, [ef]

6. Notazione e teoria musicale nell"antica Grecia. Le informazioni sulla musica greca ci provengono, oltreché dalle già citate fonti di carattere letterario, filosofico e icono­ grafico, da testimonianze musicali più dirette: da una serie di documenti superstiti con notazione musicale alfabetica e dalle dissertazioni dei teorici. Testimonianze che però, in entrambi i casi, pongono molti problemi interpretativi. I documenti musicali superstiti ci sono stati tramandati da papiri (ad es. al­ cuni versi dell’Ifigenia in Aulide e dell’ Oreste di Euripide, in papiri del in secolo a. C., oppure frammenti di un peana e di altri componimenti poetici, in un papiro del n secolo d. C. conservato a Berlino), da incisioni su lastre marmoree e su pietra tombale (i due inni delfici, del 138 e del 128 a. C., l’epitafio di Sicilo, del 1 secolo a. C.) oppure da trascrizioni di studiosi del Cinquecento e del Seicento di improbabile auten­ ticità e attendibilità filologica (gli inni attribuiti da Mesomede, pubblicati da Vincenzo Galilei nel 1581 o un frammento della prima Pitica di Pindaro, pubblicato da Athanasius Kir­ cher nel 1650). Tutti questi documenti sono dunque posterio­ ri all’epoca classica della cultura greca, a riprova che fino al iv secolo a. C. la musica, strettamente legata alla poesia, si tra­ mandava unicamente per tradizione orale. E anche nei perio­ di successivi, in epoca ellenistica e romana, la notazione mu­ sicale non entrò affatto nell’uso corrente, ma o servi a scopi teorici, oppure, se a scopi pratici, in casi eccezionali o in quanto sussidio mnemonico per cantori professionisti, come possiamo desumere dalla natura delle fonti pervenuteci; non fu però usata allo scopo di tramandare il patrimonio culturale, come avvenne per la letteratura.

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Poiché alcuni teorici ci hanno lasciato, nei loro trattati, in­ dicazioni sulla decifrazione dei simboli musicali, siamo co­ munque in grado, dai frammenti superstiti, di ricostruire con una certa approssimazione l’andamento della melopea greca. La ricostruzione, però, è tutt’altro che un fatto automatico, non soltanto per lo stato di conservazione dei testi spesso tut­ t’altro che buono, ma per motivi derivati dalla distanza, sto­ rica e culturale, tra le testimonianze musicali dirette e quelle dei teorici. Una delle fonti più chiare di informazione sulla notazione musicale greca, VIntroduzione alla musica di Alipio, che contiene le tavole illustrative delle due scritture musica­ li alfabetiche (quella strumentale con le lettere dell’alfabeto fenicio e quella vocale con le lettere di quello attico) è della se­ conda metà del secolo iv d. C. In che misura può servire come chiave per decifrare testimonianze che risalgono anche a più di sei secoli prima? Ma anche ammettendo che ciò sia lecito, in che misura un principio di notazione espressamente finaliz­ zato a scopi teorici, può rispecchiare la pratica musicale viva in un’epoca in cui tra teoria e prassi vi era una distanza enor­ me, culturale e sociale? Considerazioni di questo genere potrebbero ingenerare uno scetticismo storico; va comunque subito detto che i trat­ tati dei teorici ci offrono elementi indispensabili per com­ prendere certi aspetti strutturali del linguaggio musicale in uso nell’antica Grecia. Anche a questo proposito, però, biso­ gna tener presente che la teoria della musica greca, benché verta sostanzialmente sugli stessi argomenti, non presenta af­ fatto nel suo complesso una trattazione univoca. I motivi di ciò sono gli stessi validi per l’interpretazione delle fonti musi­ cali: un arco storico amplissimo, che dal primo grande teorico, Aristosseno (iv secolo a. C.), fino a quell’anello di congiunzio­ ne tra l’antichità greco-romana e il Medioevo che fu Severino Boezio (fine v inizio vi secolo d. C.) abbraccia un millennio; quindi la tendenza della trattazione teorica ad arroccarsi nella torre d’avorio della speculazione, attuando cosi una separa­ zione più o meno accentuata dalla prassi musicale. I principali argomenti trattati dai teorici, che attraverso la comparazione dei testi e delle altre testimonianze ci permet­ tono di ricostruire certi aspetti della musica greca, sono quelli che riguardano il ritmo, l’intonazione degli intervalli e delle scale e la loro classificazione. Per quanto riguarda il primo ar­ gomento, la ritmica, massimamente nell’epoca in cui vi era una strettissima connessione tra poesia e musica, coincideva

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con la metrica testuale: dalla combinazione delle due cellulebase della breve e della lunga deriva una certa quantità di «piedi» piu o meno complessi che a loro volta, in strutture iterative o in combinazioni miste, danno origine ad una gran­ de quantità di metri poetico-musicali. Sotto il profilo ritmico, la trattatistica della musica greca è equivalente a quella della metrica, cosi come la storia della musica lo è a quella della poesia nella sua evoluzione dalle strutture iterative della poe­ sia epica (l’esametro dattilico) alle sofisticate e quanto mài va­ rie combinazioni metriche dei lirici. Per quanto riguarda l’aspetto acustico risale a Pitagora ed alla sua scuola la costruzione razionale di una scala musicale operata mediante una progressione di quinte ripetendo il rap­ porto numerico di 3/2 all’interno di un’ottava fino ad un tota­ le di 21 gradi, l’ultimo dei quali eccedente l’ottava di un mi­ crointervallo (= comma ditonico). L’ambito-base di struttura­ zione melodico-scalare, secondo la teoria greca, non era pe­ rò l’ottava (= diapason, in greco, cioè: «attraverso tutt(o)i i suoni»), né la quinta ( = diapente) che, come si è visto, servi­ va a costruire acusticamente la scala, bensì il tetracordo (= letteralmente, di quattro corde), un’entità terminologicamente legata allo strumento nazionale per eccellenza, la lyra, di cui vi erano varie versioni di dimensioni e altezze diverse (phonninX) kithara, barbitos)-, all’altro strumento più in uso, Yaulos, un aerofono ad ancia semplice o doppia, essendo di derivazione orientale, veniva attribuito un carattere dionisia­ co, orgiastico, e proprio per questo e per le tendenze virtuosi­ stiche degli auleti, fu considerato con un certo sospetto dai più intransigenti moralisti e nazionalisti dell’epoca classica1. Le note cardini del tetracordo erano quelle terminali, che rimanevano fisse, mentre le due centrali potevano variare l’ampiezza intervallare fra loro e rispetto alle note fisse, se­ condo il ghenos (= genere) di appartenenza del tetracordo. Sebbene fra i teorici che si occuparono di questi rapporti intervallari (Archita, Aristosseno, Eratostene, Didimo, Tolo­ meo) vi fossero differenze non sempre lievi nella determina­ zione dell’ampiezza intervallare delle note mobili, per riferirsi a entità consuete si può affermare che nel ghenos diatonico la successione intervallare era vicina a quella di tono-tonosemitono, nel ghenos cromatico a quella di terza minoresemitono-semitono, e in quello enarmonico a quella di terza 1 Cfr.pp.9-23.

CAPITOLO PRIMO

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maggiore-quarto di tono-quarto di tono. In realtà l’ampiezza fig. i degli intervalli delle note mobili (che nei due ultimi generi ve­ nivano denominate pyknori), specialmente nel genere croma­ tico variava secondo le gradazioni espressive ( = chroai) che si intendeva infondere alla melodia. Partendo dal tetracordo, nel iv secolo fu elaborato dal pri­ mo grande teorico musicale, Aristosseno, un Systema teleìon (= Sistema perfetto) che, mediante diazeuxis (= disgiunzione) e synafé{- congiunzione) dei tetracordi, permetteva di classi­ ficare le note, gli intervalli e le scale in un ambito di due otta­ ve. Le note erano identificate mediante una denominazione che indicava la posizione e la funzione all’interno del sistema combinando assieme la denominazione del tetracordo di ap­ partenenza ( = Hyperbolaion, Diazeugmenon, Meson, Hypaton nel «Sistema perfetto maggiore») con la denominazione delle note tratta da quella della successione scalare all’interno del­ l’ottava (Nete, Paranete, Trite, Paramese, Mese, Lichanos, Parypaté, Hypate) piu il «suono aggiunto» ( = Proslambanomenos) che concludeva il sistema. Si noti come la denominazione del­ le note in successione scalare, come già si è visto per il tetra­ cordo, derivi direttamente dalla posizione delle medesime sul­ la lyra, per cui la Hypate, che letteralmente significa «più al­ ta» e la Nete che significa invece «più bassa» lo erano non in senso acustico, bensì in senso topico, in quanto sulla lyra in-

« Sistema perfetto maggiore» e specie di ottava. Nete Paranete Trite Nete Paranete Trite Paramese Mese Lichanos Parypate Hypate Lichanos Parypate Hypate Proslambanomenos

la' sol' fa' mi' re' do' si la sol fa mi re do

“ Hyperbolaion

= Diazeugmenon

_

Meson

=

si _ LA

Hypaton

-i Ipodorica Ipofrigia -i Ipolidia “I Dorica -i Frigia -i Lidia -i Misolidia

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clinata la nota piu grave era quella corrispondente alla corda più vicina al corpo del suonatore, mentre quella più acuta era all’estremità dello strumento; anche le altre corde assumeva­ no la denominazione dalla posizione occupata sulla lyra nel­ l’ambito dell’ottava, tranne la Lichanos cosiddetta perché toc­ cata con il dito indice (= appunto, «lichanos»). Nonostante la concretezza di questi riferimenti terminolo­ gici, il sistema perfetto in sé aveva uno scopo puramente astratto, speculativo. Cosi come alla sfera della speculazione sembra appartenere pure il principio della classificazione delle scale musicali in tonai, un principio che si andò affermando da Aristosseno in poi. La confusione tra armonia e tonos, che cominciò a farsi in quell’epoca, è uno dei sintomi della deca­ denza della cultura musicale del periodo classico. Il concetto di armonia, in auge nei secoli vi-iv a. C., non ha nulla a che vedere con quello moderno di strutturazione accordale, che fu estranea alla civiltà greca, rigorosamente monodica; indica in­ vece la definizione della melopea, dell’idioma musicale, me­ diante i suoi caratteri costitutivi (intonativi, intervallari, me­ lodici espressivi, «etici»): per comprenderlo a fondo bisogna piuttosto riferirsi a principi similari in vigore presso le culture extraeuropee (il raga, il maquam, e simili). Il tonos invece è un concetto squisitamente teorico, che consiste nel trasporto del­ la scala del «Sistema perfetto» sui diversi suoi gradi mediante rotazione progressiva; ai tonoi cosi ricavati ed alle specie di ottava in essi incuneati furono attribuiti nomi derivati da di­ verse etnie (dorico, frigio, lidio). La confusione fra nomencla­ tura, relative scale e tonoi è uno dei più aggrovigliati problemi teorici dell’antichità che i Greci lasciarono in eredità ai tratta­ tisti medievali. Ma è appunto un problema teorico. La loro passione speculativa li fece continuare ad arrovellarsi su prin­ cipi di questo genere anche quando non solo la cultura greca, ma quella pagana nel suo complesso era ormai al tramonto, e quella cristiana stava ormai emergendo portando con sé assie­ me ad una nuova civiltà, anche un nuovo tipo di canto, [g v]

Capitolo secondo

La monodia ecclesiastica nel primo millennio dell’epoca cristiana

i.

La nascita della nuova tradizione cristiana.

Negli anni della dissoluzione dell’impero romano, il na­ scente mondo cristiano ricevette una tradizione confusa e contraddittoria per quanto riguarda la musica. Da una parte la musica dei romani era strettamente legata alle feste e agli spettacoli pagani, vagamente legata a culti di divinità stranie­ re, egizie o orientali e perciò non consone alla nuova religione che trionfava rapidamente in tutto l’impero. Dall’altra, su di un piano speculativo, l’eredità greca neoplatonica e neopita­ gorica, giunta a Roma attraverso la cultura ellenistica e ales­ sandrina aveva nei secoli del tardo impero (ni e iv) un peso determinante e la sua influenza era assai forte sul pensiero dei teorici e dei pensatori del tempo. Le esigenze musicali erano strettamente determinate dal nuovo mondo cristiano e la chiesa con la sua nuova liturgia si trovò ad affrontare il pro­ blema del tutto nuovo di un inserimento della musica nel ri­ tuale. Pertanto il modello teorico offerto dalla tradizione greco-ellenistica era ormai del tutto scisso da una concreta prassi artistica, ridotto a pura speculazione, mentre i modelli reali si presentavano del tutto inadeguati alle nuove esigenze della liturgia cristiana. Il problema era quello di creare una nuova tradiziona musicale, capace di unificare in qualche mo­ do il mondo cristiano che veniva a sovrapporsi e a sostituire il grande impero romano, ma che non si presentasse come una rottura radicale con la tradizione greca. Cosi come avvenne anche in altri campi della cultura, i cristiani volevano essere i continuatori della cultura ellenistica e classica, la quale nei suoi filosofi e pensatori più illuminati avrebbero già intravisto le verità del mondo cristiano; compito ora della nuova fede era di esplicitare e portare pienamente alla luce le verità già la­ tenti nel vecchio mondo. Cosi tutta la teoria musicale dei gre­ ci non doveva essere buttata a mare perché ideata da pagani, ma al contrario ripensata secondo le nuove esigenze col­

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l’intento di dimostrare la stretta continuità tra la vecchia e la nuova teoria e prassi musicale. In realtà anche se della musica dei greci ben poco si cono­ sce, non è difficile immaginare che la nuova musica cristiana avesse poco o nulla a che fare con quella greca. Dal punto di vista teorico i modi del canto gregoriano, istituzionalizzati ben presto nei primi secoli del cristianesimo, non hanno quasi nulla a che vedere con le armonìe greche, anche se continuano a portare gli stessi nomi, frigia, dorica, lidia ecc.dal punto di vista pratico l’unico modello di canto liturgico a cui poteva­ no far riferimento i cristiani era il canto sinagogale ebraico. La secolare tradizione ebraica di intonare la lettura biblica, tradizione ancora viva oggi in tutte le comunità ebraiche del mondo, rappresentava l’unico concreto modello per i primi cristiani di recitazione intonata; tuttavia non vi era una nota­ zione che precisasse e tramandasse quest’uso che d’altra parte - pur nel rispetto di certe norme fondamentali, come lo stret­ to legame tra il versetto biblico o la frase e la semplice melo­ dia modellata su di essa -, solo nell’vin-ix secolo fu definita in modo piu preciso nella versione ebraica masoretica (secon­ do la tradizione) della Bibbia; per cui anche i cristiani nei pri­ mi secoli dovevano rifarsi ad una tradizione, o meglio ad una molteplicità di tradizioni, solamente orali. Già le testimonian­ ze letterarie (i Vangeli, le lettere di san Paolo) parlano di «sal­ mi, inni e canti spirituali» come di una prassi usuale, sulla scia di una più antica e ben consolidata tradizione di preghiera in­ tonata; cosi ricorre spesso il termine «salmodiare» di incerta definizione, ma che comunque si richiama alla recitazione o meglio al canto dei salmi davidici. Pertanto questo canto di indubbia derivazione ebraica dovette subire modificazioni abbastanza rapide già nel 1 secolo per adattarsi alle nuove esi­ genze liturgiche della nuova setta dei giudeo-cristiani nella lo­ ro rapida espansione anzitutto verso l’oriente in Siria (Antio­ chia e Damasco) e subito dopo in Grecia, ad Alessandria e ben presto in tutto il Mediterraneo per raggiungere con il m secolo l’Europa romana. Nel grande crogiuolo di popoli, di lingue, di costumi diversi, il canto liturgico, pur con inevita­ bili differenze da una regione ad un’altra, dovette rappresen­ tare un potente elemento unificatore del mondo cristiano nei primi secoli di prepotente espansione della nuova religione e delle nuove idealità che portava con sé. Come risuonasse que1 Cfr.pp. 32-33.

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CAPITOLO SECONDO

sto canto liturgico dei primi secoli è difficile immaginare per mancanza di documentazione diretta non essendoci pervenuti testi liturgici che portassero indicazioni musicali. D’altra par­ te la notazione alfabetica greca era del tutto inadatta quale ausilio mnemonico per i fedeli, per lo più analfabeti e comun­ que troppo intellettualistica e indiretta per un’effettiva lettu­ ra musicale. Il canto ebraico d’altra parte era ancora trasmes­ so oralmente anche se secondo una tradizione rigida e codifi­ cata; ma non poteva servire altro che da supporto iniziale per le prime comunità cristiane. Si dovrà cosi giungere al ix secolo per avere i primi documenti che portino il segno di una sia pur embrionale notazione musicale sotto forma semplicemente di qualche segno curvo sopra il testo per ricordare al cantore se la voce in quel punto doveva salire o scendere. Perciò ben poco si può sapere su come effettivamente ri­ suonasse il canto liturgico sino alla fine del i millennio. Le fonti infatti sono, come si è visto, tutte indirette e di natura letteraria e più raramente iconografica. Il modello ebraico ha indubbiamente influenzato i primi cristiani: le forme antifo­ narie, il canto rigorosamente a cappella (cioè senza accompa­ gnamento di strumenti, troppo compromessi con la musica del mondo pagano), la salmodia e l’innodia come semplice canto sillabico intonato dei testi sacri, derivano indubbiamen­ te dalla tradizione sinagogale; ma già compaiono nuovi ele­ menti quali i vocalizzi su l’alleluia cosi come il cantilenare su di una nuova lingua che non era più l’ebraico o l’aramaico, ma sul greco o sul latino, lingue che hanno una musicalità comple­ tamente diversa da quelle semitiche. Inoltre il nuovo canto piano si struttura su nuove scale che saranno i cosiddetti modi gregoriani che, come si è detto, continueranno a portare i no­ mi delle armonie dei greci anche se saranno radicalmente di­ versi da esse. Infatti i filosofi e i teorici greci continuavano a conservare la loro autorità anche nel mondo cristiano, e Boe­ zio ne fu in qualche modo il tramite nel senso che fu lui a tra­ scrivere e a fornire la propria interpretazione della teoria mu­ sicale greca, anche se il risultato fu un suo totale stravolgi­ mento. In questo modo si creò una nuova tradizione musicale cristiana, che si consolidò lentamente, attraverso un processo di unificazione di tradizioni locali di stili e di linguaggi diver­ si, nel segno della comune civiltà cristiana che doveva servire da coagulo di esperienze tanto diverse per la loro origine. I canti dei primi cristiani, in ebraico o aramaico nei primissimi decenni, poi in greco e più tardi in latino incominciarono a

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formare un repertorio vero e proprio che andò poi codifican­ dosi in forme piu rigide verso il rv-v secolo. Ma il processo di formazione del repertorio liturgico, del nuovo linguaggio mu­ sicale con i suoi stilemi e le sue nuove convenzioni, fu assai lungo e si protrasse sino alla fine del primo millennio. Questo canto piano fu chiamato con un termine non del tutto esatto canto gregoriano. Inesatto se con esso si vuole designare, come spesso si fa, tutto il repertorio del canto piano, cioè rigorosa­ mente omofonico e a cappella, della chiesa latina, dal momen­ to che, in realtà, all’interno di questo mondo si sono create notevoli differenziazioni. Anzitutto va sottolineata la diffe­ renziazione che si è creata già sin dai primissimi decenni del cristianesimo tra una tradizione orientale (quella poi chiamata bizantina) e una tradizione occidentale (quella della chiesa ro­ mana o latina). La scissione politica tra impero d’oriente e im­ pero d’occidente avvenuta nel 395 alla morte di Teodosio acuì la spaccatura tra la chiesa d’oriente e quella d’occidente, già alimentata da innumerevoli eresie trinitarie e dalla diffe­ renza di lingue (il greco da una parte come lingua prevalente nel crogiuolo di popoli dell’oriente, il latino in occidente). Co­ si il canto che fu chiamato bizantino, che dal punto di vista della teoria musicale (modi e scale usate) non si differenzia nominalmente da quello d’occidente, in realtà si organizzò se­ condo usanze musicali diverse. C’è chi sostiene che ad esem­ pio la struttura responsoriale e antifonaria sia stata recepita dall’occidente proprio sul modello dal canto bizantino che per primo l’aveva istituzionalizzata. In occidente d’altra parte prima di giungere ad una effettiva unificazione del repertorio, varie differenziazioni locali si presentavano, ad esempio a Mi­ lano, dove il vescovo sant’Ambrogio aveva introdotto nella sua cattedrale un canto che si sviluppò per secoli con una re­ lativa indipendenza prendendo appunto il nome di canto am­ brosiano. La tradizione gli attribuisce il merito di aver intro­ dotto, sull’esempio della chiesa orientale, il canto antifonale, oltre ad attribuirgli l’invenzione di moltissimi inni. Nella Gal­ lia e nella Penisola Iberica si svilupparono molte altre tradi­ zioni locali, con il cosiddetto canto gallicano e con quello im­ propriamente detto mozarabico (dal momento che risale ad un periodo precedente all’invasione degli arabi). Tuttavia in occidente, anche grazie all’elemento unificatore della comune lingua latina, le differenze tra le varie tradizioni sono rimaste sempre marginali e secondarie e non hanno costituito un serio ostacolo ad una sostanziale unificazione di tutto il repertorio

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liturgico. In oriente invece le differenze sono rimaste piu ac­ centuate anche per la differenza di linguaggi (armeno, copto, slavo oltre naturalmente al greco) e alla minore compattezza della chiesa d’oriente con la varietà dei suoi riti e delle sue eresie, sino al grande scisma causato nel 1054 dalle reciproche scomuniche tra papi e patriarchi. Perciò nel mondo latino si è poi potuto parlare di canto gregoriano come al complesso del­ l’immenso repertorio del canto piano, al di là delle differenze tra le tradizioni locali, sopra le quali dominava la sostanziale unità linguistica e culturale del mondo medievale cristiano.

[ef] 2. Il canto gregoriano.

Quello che tradizionalmente viene denominato canto gre­ goriano, e cioè il canto cristiano che si impose sulle altre tra­ dizioni locali sostituendole o circoscrivendone l’uso (nel caso del canto ambrosiano), è ormai certo che non fu codificato da papa Gregorio Magno (590-604). La grandezza di questo pon­ tefice, che riassestò la chiesa di occidente rafforzandone il po­ tere politico e l’autorità spirituale e dottrinaria dopo secoli di travagliate vicende, gli meritò anche l’attribuzione di questa riforma, secondo una tendenza propria di tutto il mondo an­ tico. Intervenne in campo liturgico cercando di apportare mi­ gliorie e semplificazioni, ma non furono opera sua le due fon­ damentali innovazioni nello specifico campo musicale a lui at­ tribuite da Giovanni Diacono: la compilazione di un antifo­ nario riformato, e cioè della raccolta dei canti della messa (o meglio, dei soli testi dei canti, perché all’epoca non era ancora in uso la notazione musicale) e l’istituzione della «schola cantorum», il corpo di cantori professionisti che eseguivano e tra­ mandavano il repertorio. Per arrivare al punto cruciale biso­ gna spostarsi avanti nella storia di circa un paio di secoli, e giungere cioè all’età carolingia, quando fra le varie imprese di mutuo appoggio politico attuate dalla chiesa romana e dai mo­ narchi francesi per consolidare il potere politico e culturale, fu imposto il canto romano innanzitutto alla Francia, quindi alle altre regioni in cui erano in vigore tradizioni ormai consolida­ te. A contatto con la tradizione francese, però, il canto roma­ no si gallicizzò ed a sua volta questo nuovo canto, derivato dalla fusione e dalla contaminazione di due tradizioni, sostituì di rimando la tradizione romana precedente, o quanto meno, per un certo periodo convisse con essa a Roma soppiantando­

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la infine. Questa, ridotta al nocciolo, la ricostruzione dei fatti secondo le piu aggiornate congetture che gli studiosi della ma­ teria hanno ipotizzato confrontando e combinando assieme le notizie storiche con lo studio delle fonti musicali. Le prime te­ stimoniano di spedizioni di cantori e di libri del canto romano in Francia tra la metà del ix secolo e F inizio del x, e di succes­ sivi ritorni a Roma; la seconda, partendo da confronti fra libri corali dei secoli xi-xn nella tradizione romana più antica e canti equivalenti nella tradizione gregoriana (o meglio franco­ romana), rivela specifiche differenze melodico-strutturali e permette di comprendere e di ipotizzare i possibili apporti della tradizione gallicana al canto poi denominato gregoriano. La ricostruzione dei fatti non è però affatto semplice e chiara in tutti i suoi passaggi e in tutti i suoi dettagli, anche perché bisogna tener conto che all’epoca in cui si realizzò que­ sta fusione tra le due tradizioni, la memorizzazione e l’esecu­ zione del canto erano ancora di tipo orale; sicché più che ad uno scambio e ad una fusione di tasselli del mosaico di melo­ die notate (la cosiddetta « centonizzazione ») che si realizza in un’epoca posteriore, bisogna pensare ad una fusione e ad uno scambio di formule melodiche-tipo su cui si basava la memo­ rizzazione e l’esecuzione del canto. La scrittura musicale, comunque, iniziò a diffondersi proprio in quel periodo, ma ci volle molto tempo prima che sosti­ tuisse integralmente la tradizione orale e fosse letta dai canto­ ri direttamente per eseguire il repertorio, come in una moder­ na partitura. All’inizio servi per motivi puramente archivisti­ ci, perché di certi canti non si perdesse la memoria, e per faci­ litare il ripasso mnemonico delle melodie. A differenza della notazione greca che, come si è visto, era finalizzata principal­ mente a scopi di carattere teorico, la notazione del canto gre­ goriano venne ad assolvere a funzioni eminentemente prati­ che: riproduce l’andamento della melodia, fissando al tempo stesso certe modalità esecutive. I segni usati, i neurnì^ deriva­ no dalla trasformazione degli accenti dell’oratoria latina e, proprio perché strettamente connessi alla prassi esecutiva del­ le «scholae cantorum» e notati sui codici in centri scrittorici monastici quanto mai distanti, sparsi in tutta Europa, non ci sono pervenuti in versione unica, bensì in numerose varianti, secondo l’area geografica. Dapprima furono posti sul testo li­ turgico senza nessuna indicazione di altezza degli intervalli (i cosiddetti neumi «in campo aperto»); in seguito, prima con l’introduzione di una linea, poi di due con relative «chiavi»

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per indicare quali note corrispondessero ai neumi che cade­ vano sulle linee, ed infine con il tetragramma ( = sistema di quattro righi) con la successione scalare di linee e spazi, si ar­ rivò ad una sempre piu precisa determinazione dell’altezza in­ tervallare. Più la notazione neumatica è vicina alla tradizione orale, e più è una sorta di stenografia che riproduce fedelmen­ te l’esecuzione musicale viva ricordando, a chi già lo conosce, l’andamento melodico e le sfumature esecutive; più la nota­ zione fissa con precisione l’altezza degli intervalli, più si sco­ sta dalla prassi viva, divenendo un documento autonomo e standardizzato. Ecco perché lo studio del canto gregoriano a scopo tanto esecutivo che puramente storico-musicologico non può prescindere da quello semiologico, per cercare di ri­ costruire, tramite la comparazione fra le fonti, l’integrità del canto tanto sotto il profilo intervallare quanto sotto quello esecutivo. I neumi, poi, sono privi di significato metrico, per­ ché il canto gregoriano modella il proprio andamento ritmico su quello verbale, sicché la prassi esecutiva deve tener conto del rapporto tra gli archi melodici, l’accentazione delle parole e l’andamento prosodico, per pervenire a quella perfetta fu­ sione tra parola e musica che, ieri come oggi, richiede assidui­ tà di studio e di pratica. Contemporaneamente alla nascita del canto gregoriano, sempre in zona franca, iniziano a comparire nuovi libri litur­ gici, cosiddetti tonavi perché classificano i brani del reper­ torio sacro secondo la loro appartenenza ad uno degli otto toni ecclesiastici, sulla falsariga dell’octechos bizantino (octo echoi ~ otto toni). Come nella tradizione orientale, cosi anche in quella occidentale, questo tipo di classificazione fu intro­ dotto per facilitare l’apprendimento melodico ai cantori in un’epoca in cui, come si è detto, la tradizione musicale era an­ cora prevalentemente di tipo orale (i primi tenari recano ùni­ camente l’incipit dei testi liturgici, non la musica). Il supporto di riferimento mnemonico erano le cadenze finali dei salmi (in seguito anche le formule d’intonazione e più tardi ancora le antifone-tipo), suddivise tono per tono (o modo per modo: i due termini a quest’epoca sono usati come sinonimi) con le lo­ ro varianti (differentiae) più o meno numerose secondo il tono. La successiva elaborazione teorica ricorda un poco le vicende della teoria greca, con la quale peraltro, attraverso Marziano Capella (v secolo) e Severino Boezio (vi secolo), cercò di ricol­ legarsi. Come le armonie greche i toni (o modi) originariamen­ te non furono semplici scale, bensì formule melodiche-tipo

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gravitanti attorno all’asse della corda di recita (la nota su cui insiste la cantillazione salmodica). Successivamente la smania classificatoria e speculativa dei teorici e il desiderio di stabili­ re una continuità con la tradizione greca, codificò gli otto mo­ di indicandoli come scale costruite per mezzo della sovrappo­ sizione (nei modi cosiddetti autentici) e della sottoposizione (in quelli piagali) di una quarta congiunta ad una quinta che inizia dal moderno re (re-la) per il primo modo (=protus, lati­ nizzazione del termine greco), mi (mi-si) per il secondo (= deuterus), fa (fa-do) per il terzo (= tritus), sol (sol-re) per il quarto (= tetrardus), con due note caratterizzanti, la finalis su cui termina la melodia, e la repercussio, attorno cui la melodia ruota. Alle diverse scale, inoltre, secondo una tradizione che perdurò nel corso di tutto il Medioevo, furono attribuiti nomi tratti dalla scienza armonica greca che nulla avevano piu a ve­ dere con le armonie originali. Nonostante ciò l’autorità della dottrina greca era ancora cosi forte che i teorici continuarono a disquisire dottamente attorno alle qualità psicologiche ed etiche dei diversi modi. Quando Glareanus, per amore di completezza e per aggiornare l’antica teoria modale secondo le esigenze della polifonia, in pieno Rinascimento (nel Dodekachordon del 1547) aggiungerà altri quattro modi, due au­ tentici e due piagali agli otto medievali (la-la = eolio; mi-la = ipoeolio; do-do = ionio; sol-do = ipoionio), manterrà comun­ que inalterata la codificazione e la denominazione etnica dei modi ad essi attribuita da Ermanno il Contratto. Di questioni modali si interessò, all’epoca di Ermanno, un altro grandissimo teorico, Guido d’Arezzo (990 ca - 1050 ca), che anziché soffermarsi sulle scale, rintracciò il principio caratterizzante i vari modi nelle posizioni delle finales e delle note circonvicine. Per meglio definire i caratteri dei modi e per facilitare e sveltire la memorizzazione delle lunghe melopee, Guido ideò un sistema che consisteva nel memorizzare l’intonazione degli intervalli rapportandoli ad uno schema di riferimento prefissato: il cosiddetto esacordo (scala di sei suo­ ni), tratto dalle note iniziali di ognuno degli emistichi dell’in­ no a san Giovanni, che corrispondeva alla successione scalare delle finales dei quattro modi incorniciate da due gradi con­ giunti alle due estremità (ut-re-mi-fa-sol-la, da cui, con la più tarda sostituzione del do all’ut e con l’aggiunta del si, la deno­ minazione italiana delle note). Il geniale espediente didattico di cui Guido, all’inizio del n millennio, spiegava il funziona­ mento e vantava l’efficacia in una lettera al confratèllo Mi­

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chele, godette di una grandissima fortuna nei secoli a venire. Nel corso di un paio di secoli fu esteso ad un ambito melodico più ampio per mezzo della solmisazione che divenne il princi­ pale metodo di insegnamento della musica fino al secolo xvn almeno; dopodiché i suoi principi furono ripresi nel nostro se­ colo e adattati alla musica tonale nella didattica corale di base con il sistema del do mobile. Il repertorio gregoriano, quale si venne a costituire nel cor­ so degfi ultimi due secoli del i millennio, tanto sótto l’aspetto liturgico quanto sotto quello più propriamente musicale, è il risultato di un incessante processo di trasformazione di for­ me, moduli esecutivi, stili di canto, sviluppatisi all’interno di due ambiti diversi e paralleli: VOfficio quotidiano e la Messa. Benché l’abitudine di riunirsi ad ore determinate per pregare e salmodiare fosse già praticato dai primi cristiani e con la li­ beralizzazione del culto seguente all’editto di Costantino (313) avesse già raggiunto un primo stadio di organizzazione, fu il monacheSimo a promuoverne un particolare incremento e a stabilirne un definitivo assetto. La celebrazione dell’Offi­ cio si svolge (ancora oggi nei centri monastici) a determinate ore del giorno e della notte cosiddette canoniche: Mattutino (alle 2 di notte), Lodi (alle 5), Prima (alle 6 o alle 7), Terza (al­ le 9), Sesta (a mezzogiorno), Nona (alle 15), Vespri (alle 17), Compieta (prima delle 20). Asse portante dell’officio quoti­ diano è la salmodia, tanto nella sua versione antifonale che in quella responsoriale. La salmodia antifonale anticamente con­ sisteva nel canto di un salmo a cori alterni; tosto invalse l’uso di alternare i versetti del salmo con un ritornello tratto dal medesimo salmo oppure estraneo, che fu denominato antifo­ na. La durata eccessiva del canto del salmo con l’antifona in­ terpolata fece sf che essa fosse usata solamente con funzione prolusiva e conclusiva. La salmodia responsoriale, invece, consiste nell’intercalare al canto solistico dei versetti del sal­ mo, una risposta corale che prende appunto il nome di respon­ sorio. Oltre alla salmodia, un altro genere di canto liturgico che ricorre nella celebrazione canora dell’officio quotidiano, è quello degli inni. A differenza degli altri canti liturgici, gli in­ ni, introdotti in occidente fin dal iv secolo, accompagnano un testo poetico che, nella produzione attribuita a sant’Ambro­ gio, presenta una struttura metrica scandita sul giambo (^-). La ripetizione strofica, la veloce scansione dei versi, il sempli­ ce profilo melodico quale possiamo coglierlo nelle fonti ri­

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salenti a molti secoli dopo, il fatto che le stesse melodie fosse­ ro utilizzate per successive versioni poetiche, fanno pensare ad una forma poetico-musicale di confine tra la produzione colta e quella popolare. E certo che, come nel caso di quelli ambrosiani utilizzati per combattere l’eresia ariana, gli inni godettero del favore popolare. Proprio per questo la chiesa, ti­ morosa che potessero divenire veicoli di eresia, mantenne, nel I millennio, nei confronti degli inni un atteggiamento piutto­ sto cauto e diffidente, approvando solamente i testi al di fuori di ogni sospetto perché scritti da autori celebri e venerabili, e limitandone per lo più Fuso all’ambito dell’officio. La messa, nella sua struttura liturgica quale si cristallizzò verso la fine del i millennio, è il risultato finale di un lento procedimento di trasformazione. Per comprendere la diversa natura dei canti che in essa ricorrono, bisogna risalire alle di­ verse funzioni che i medesimi assolvono nel corso della cele­ brazione, e ripercorrere le tappe fondamentali del processo evolutivo. Anticamente la messa era suddivisa in due cerimo­ nie distinte: una introduttiva, anche detta messa dei catecume­ ni dal nome dei conversi che dovevano ancora ricevere l’istru­ zione catechistica prima di accostarsi alla comunione, ed una sacrificale, in cui si celebrava appunto il sacrificio e ci si co­ municava. La prima parte, avendo una funzione dottrinale e preparatoria alla comunione, era costituita da letture (cantillate) dalla Bibbia e dal Nuovo Testamento, dal sermone, da preghiere e da canti salmodici. Il rito sacrificale ed eucaristi­ co, dal quale erano esclusi i catecumeni, iniziava con una pro­ cessione durante la quale venivano portate offerte votive, continuava con le preghiere eucaristiche di lode e di consacra­ zione, culminava nella comunione vera e propria e terminava quindi con riti di carattere conclusivo. Si vengono cosi a deli­ neare le due sezioni che nella struttura finale della messa cor­ risponderanno, con diverse modifiche e aggiunte, alla «litur­ gia della parola» e alla «liturgia sacrificale», precedute dai «riti d’introduzione», aggiunti in seguito. I salmi processiona­ li presenti nei riti d’introduzione (Introitò) e in quelli della li­ turgia sacrificale (Offertorio e Communio) erano eseguiti in forma antifonale - nei tempi più antichi dalla stessa assem­ blea dei fedeli - mentre quelli relativi alla «liturgia della pa­ rola» (Graduale, Alleluia) in forma responsoriale, in accordo con la funzione didattica che dovevano assolvere, con l’ecce­ zione del tractus sostitutivo dell’Alleluia nei giorni penitenzia­ li ed in quelli che precedono la Pasqua, eseguito invece in for-

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ma continua dal solista. In tempi successivi, a questo nucleo di salmi che mutano testo col mutare della festività e che, se­ guendo la scansione dell’anno liturgico, formano globalmente il cosiddetto Proprium Missae (Panno liturgico è suddiviso in due cicli paralleli denominati Proprium de tempore e Proprium de Sanctis), furono aggiunti cinque canti su testi fissi (= Ordinarium Missae): il Kyrie eleison (dal greco «Signore, pietà»), il Gloria, originariamente cantato solo in particolari occasioni nel corso di una messa officiata dal vescovo, il Credo, intro­ dotto molto tardi nella messa, il Sanctus e P Agnus Dei. L’uni­ co, tra i canti processionali, che mutò natura trasformandosi da antifonale a responsoriale, è Poffertorio, che si distingue dagli altri anche per particolari caratteri melodici. Quando l’esecuzione dei canti della messa fu assegnata al corpo di musicisti professionisti della «schola cantorum», le diverse sue parti, in sintonia con il contesto ed il significato li­ turgico, svilupparono un grado sempre piu elevato di pre­ gnanza estetica; la lunghezza dei testi salmodici si accorciò a vantaggio dell’espansione melodica del canto, e specialmente le forme solistiche connesse alla «liturgia della parola» assun­ sero un aspetto quanto mai ornato, per cui i solisti potevano esibire un vero e proprio virtuosismo vocale. Proprio tale va­ rietà di forme e di stili melodici, che vanno da un contenuto sillabismo alle più vertiginose volute melismatiche con una vasta gamma di sfumature intermedie, fanno della messa il ge­ nere artistico più perfetto e vario che il canto monodico cri­ stiano - e quello gregoriano in particolar modo - abbia pro­ dotto nel corso di un processo di millenario sviluppo, [gv]

3. Evoluzione e rinnovamento del canto liturgico tra la fine del primo e l'inizio del secondo millennio. La codificazione e l’imposizione del canto gregoriano all’a­ rea del cristianesimo occidentale, in un periodo cosi ricco di fermenti quale fu l’età carolingia, avrebbe potuto determinare una stagnazione, un blocco degli stimoli creativi e un livella­ mento culturale, se non fossero sorti contemporaneamente fenomeni innovativi che riequilibrarono la situazione. Due esigenze antagonistiche si fronteggiavano: quella della chie­ sa, volta a mantenere integro il repertorio liturgico, tanto più ora che, dopo secoli di pluralismo culturale, era pervenuta

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ad una unificazione delle tradizioni, e quella, massimamente viva e sentita nella zona franca, intesa a ristabilire un collega­ mento tra questa tradizione unificata e le spinte innovative impresse dal desiderio di adeguarla alle diverse situazioni lo­ cali e alle diverse occasioni cerimoniali. Come spesso accade nella storia della chiesa, il risultato fu un compromesso. Il canto gregoriano rimase il pilastro portante della tradizione unificata, e però su di esso fu costruita una grande quantità di varianti aggiuntive di carattere sia musicale che testuale, le quali non solo ebbero importanti conseguenze nell’evoluzione successiva della monodia, sacra e profana, ma aprirono pure nuove strade nel cammino storico della musica, con la nascita della polifonia e del dramma liturgico. Il principio creativo che è alla base di tutte queste innova­ zioni è quello del tropo, che consiste nell’aggiunta di un meli­ sma, di un testo o di entrambi - testo e musica - in un brano del repertorio liturgico. Tutte le parti della messa, sia del Proprium che AeSP Ordinarium (ad esclusione, ovviamente, del Credo, intangibile in quanto professione dei principi della fe­ de) e i responsori dell’officio furono tropati, e con particolare frequenza V Introito e l’Alleluia, che rappresenta un caso a sé in quanto diede origine a quella forma particolare di tropo che è la sequenza, anche se, fin dall’inizio della sua storia, non sempre la sequenza presenta un legame con la giubilazione al­ leluiatica della messa. Nonostante tutti e tre i tipi di tropo ricorrano contempora­ neamente, quello puramente musicale, secondo quanto pos­ siamo desumere dai documenti pervenutici, sembra esser sta­ to attuato per primo. Stando alle fonti documentarie ciò si ve­ rificò nel caso della sequenza, di cui fin dai primi decenni del ix secolo abbiamo notizie che si riferiscono ad essa come ad un melisma sostitutivo di una giubilazione alleluiatica. Sarà piu tardi - verso la fine del secolo - un monaco di San Gallo, certo Notker Balbulus, a lasciarci documentazione della se­ quenza come di un componimento testuale elaborato sui lun­ ghi melismi alleluiatici per poterne facilitare la memorizzazio­ ne. Questi testi prendevano la denominazione di prose (prosae) e, salvo l’inizio e la fine costituiti da versi singoli, tende­ vano a strutturarsi a coppie di versi (copulae) che mutano con­ tinuamente, ad ogni abbinamento, nucleo melodico, secondo una formula che ricorrerà poi in certi generi della monodia profana in lingua romanza. Proprio già in piena epoca trobadorica la sequenza cono­

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scerà un momento di particolare splendore con la produzione di Adamo del monastero agostiniano di San Vittore a Parigi, in concomitanza con la prima grande stagione polifonica svi­ luppatasi nell’ambito della Cattedrale di Notre-Dame. A dif­ ferenza delle sequenze primitive, di genere puramente prosa­ stico, come si può evincere dalla denominazione dei testi so­ pra menzionata, quelle di Adamo di San Vittore presentano ormai una struttura poetica dominata dalla metrica accentuativa e dalla rima, venendo ad assumere un carattere molto si­ mile all’inno. Con una differenza fondamentale, però; che, mentre nell’inno le strofe sono intonate sulla medesima melo­ dia, la sequenza muterà invece melodia di strofa in strofa, sul­ la scia della tradizione del passato. Di tutta la dovizia di tropi e sequenze prodotte tra la fine del i millennio ed i primi secoli del secondo, il Concilio di Trento ne manterrà solamente quattro (Veni Sancte Spiritus, Victimae paschali laudes, Lauda Sion Salvatorem, Dies Irne), cui fu aggiunto, due secoli dopo, lo Stabat mater. All’epoca della prima fioritura di tropi e sequenze, alcune fonti trattatistiche (De harmonica institutione di Reginone di Prum e Musica enchiriadis e Scholia enchiriadis di Hucbald, tutti databili attorno alla fine del x secolo) iniziano a farci pervenire notizie di un nuovo procedimento per arricchire e variare l’esecuzione di un testo musicale liturgico: Vorganum. In questi trattati è descritto ed esemplificato come una so­ vrapposizione od una sottoposizione al testo musicale origina­ le ( = vox principalis) di una seconda voce ( = vox organalis) che segue la melodia nota contro nota per moto parallelo (cioè con le parti che procedono parallelamente compiendo lo stes­ so movimento melodico) ad intervalli consonanti (secondo il concetto greco classico di consonanza: quarta, quinta, ottava). Per evitare, nell’organum a quarte parallele, l’intervallo di tri­ tono (-tre toni interi, fa-si) ritenuto talmente dissonante da esser soprannominato diabolus in musica, e per variare lo stretto parallelismo con movimenti cadenzali, le due voci pos­ sono raggiungere l’unisono o di colpo, o passando attraverso una riduzione progressiva degli intervalli (quarta-terza-se­ conda-unisono). La prima fonte musicale diretta, coeva ai trattati di cui sopra, il Tropario di Winchester, di difficile de­ cifrazione musicale, riflette per lo più la descrizione dei teori­ ci, ma talora, con l’impiego occasionale del moto contrario (cioè con le parti che compiono movimenti specularmente op­ posti), si spinge già un po’ più avanti nell’evoluzione della

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nuova pratica musicale; questo relativo sfasamento fra teoria e prassi è confermato da un altro codice, questa volta prove­ niente da Chartres, in cui ricorrono con frequenza intervalli «dissonanti» (secondo la teoria dell’epoca) di terze talora in serie parallele, e seconde. Questi due preziosi codici ci per­ mettono di capire la natura e la funzione di questo stadio ini­ ziale della polifonia. Il codice di Winchester, che contiene più di 150 organa, è un tropario (e cioè una raccolta di tropi) a di­ mostrazione di quale stretto legame intercorresse fra il tropo e l’organum, la cui funzione era quella di arricchire il culto, in occasioni solenni, con amplificazioni monodiche o con nuove risonanze derivate dalla sovrapposizione degli intervalli. Il fatto che nel codice di Chartres siano trattate polifonicamen­ te le parti solistiche e non quelle destinate al coro della schola cantorum in una serie di Alleluia con relativa sequenza, ci di­ ce come la polifonia primitiva fosse legata alla pratica solisti­ ca, ne rappresentasse una nuova variante. Mentre l’esposizione dell’organum che Guido d’Arezzo ci ha lasciato nel Micrologus è sostanzialmente una variazione sul tema dell’organum parallelo con movimenti obliqui all’occa­ sione (quelli in cui, cioè, una parte sta ferma e l’altra si muo­ ve) e restrizione degli intervalli alla sole quarte, terze, seconde ed unisono, due trattati databili attorno al 1100 (il De musica di John Cotton e l’anonimo Ad organum faciendum) riflettono una realtà ben differente in cui il moto contrario ed obliquo sono impiegati per condurre le parti a momenti di consonanza perfetta (ottave ed unisono) creando una dinamica nuova in cui si possono scorgere i presupposti di quello che più tardi sa­ rà la cadenza e il movimento cadenzale, qui ad uno stadio an­ cora primitivo. I due codici più importanti della prima metà del xn secolo, conservati a San Marziale di Limoges e a San­ tiago de Compostela, contengono organa in cui il discanto (uno stile polifonico caratterizzato dall’equivalenza ritmica tra le voci) ed uno stile caratteristico di San Marziale, che consiste nello snodarsi di lunghi melismi alla vox organalis su note a lungo tenute nella vox principalis (organum melismatico), di­ mostrano una pratica polifonica ormai consolidata e matura. In rari casi fra le voci si vengono a creare scambi improvvisi di frammenti tematici a chiasmo (VOX or8an.a^^ che di\vox principalis BzxAy mostrano un controllo razionale del processo creativo. Da una pratica improwisativa quale era quella dell’organum paralle­ lo, nel corso di un paio di secoli, con l’indispensabile ausilio

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della scrittura musicale, la polifonia si era trasformata in una prassi compositiva. E probabile che gli organa del Codex Calixtinus della Cattedrale di Santiago de Compostela, nono­ stante rechino talora l’indicazione del nome dell’autore, siano apocrifi, ma non certamente quelli dei due piu importanti compositori della pressoché contemporanea Scuola di NotreDame fiorita in quel secolo nell’ambito della cattedrale pari­ gina: Magister Leoninus e Magister Perotinus. Da questo punto in avanti, nonostante il testo liturgico continui ancora in numerosi casi a rappresentare il pilastro della costruzione polifonica ed essa continui ad essere utilizzata come un abbel­ limento della liturgia a fianco di tropi e sequenze, con la com­ parsa della indicazione delle durate nella notazione e con l’in­ troduzione di nuove tecniche compositive, inizia una nuova stagione della polifonia di cui si parlerà nel prossimo capitolo. Ad ulteriore prova di come le innovazioni musicali dell’e­ poca carolingia siano strettamente connesse al tropo ed al principio creativo che lo sottende, il tropario di Winchester che ci ha tramandato i primi esempi pratici di organa, contie­ ne pure il primo esempio di dramma liturgico: quella Visitatio sepulchri (= Visita al sepolcro) che godette di una immensa fortuna diffondendosi tosto in tutta Europa. Il nucleo germi­ nale consiste nel dialogo fra gli angeli (coelicole) che doman­ dano alle pie donne (christicole) cosa siano venute a fare al se­ polcro di Cristo ormai risorto («Quem queritis in sepulchro o christicole? Jesum nazarenum crucifixum o coelicole»); dialo­ go già introdotto almeno mezzo secolo prima (in un codice di San Marziale di Limoges) come tropo dell’introito nella messa pasquale. Il suo spostamento dalla messa al mattutino dell’of­ ficio pasquale - è questa la collocazione liturgica della Visitatio del codice di Winchester - fu operata probabilmente per due motivi: per la volontà di sincronizzare il tempo della nar­ razione evangelica con quello della celebrazione liturgica (il mattino) e per la maggior possibilità offerta dalla nuova collo­ cazione di ampliare le dimensioni del dramma con l’aggiun­ zione di nuove parti musicali e di nuovi episodi. E quanto av­ venne nel caso dei secoli successivi quando all’episodio del dialogo fra le pie donne e l’angelo e il complemento di antifo­ ne e del Te Deum quale appare nella Visitatio sepulchri delle origini, ne furono aggiunti altri in cui intervengono personag­ gi quali Pietro e Giovanni, Maria di Magdala. Sull’esempio della Visitatio sepulchri, trasferendo la situazione dialogica nel periodo natalizio, fu creata una serie di altri offici drammatici

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quali VOfficium pastorum e VOfficìum stellae (la visita dei pa­ stori e dei magi a Gesù bambino). C’è da chiedersi perché questi ampliamenti drammatici sia­ no derivati dall’episodio della visita al sepolcro e non da parti ben più drammatiche, ed anzi tragiche, quali la passione e la morte di Cristo, che solo molto più tardi furono oggetto di straordinarie trasfigurazioni musicali. Probabilmente perché la principale cerimonia cristiana, la celebrazione della messa, era già una rievocazione simbolica di questo tema, ed anche perché attorno ad essa, fin da questo periodo, si era sviluppa­ ta autonomamente una interpretazione paradrammatica del testo evangelico che consisteva nell’attribuzione di tre diverse corde di recita ai tre diversi cantori che intonavano le parti re­ lative a Cristo (voce grave), alla narrazione del testo evange­ lico (voce media), e ad altri personaggi, anche collettivi come la folla (voce acuta). È comunque nell’ambito extraliturgico, nella tradizione più tarda del planctus, che troverà sfogo la compassione per la morte di Cristo. Il più generale interesse nei confronti degli episodi della vita di Cristo testimonia co­ me nella spiritualità cristiana, dall’epoca carolingia in poi, si fosse sviluppata una immedesimazione emotiva particolar­ mente intensa, che rappresentò lo stimolo primario alla crea­ zione del dramma liturgico, cui il tropo ancora una volta offri il mezzo operativo per nascere e svilupparsi. Oltreché agli episodi della vita di Cristo, altri temi che vennero svolti nei drammi liturgici furono quelli tratti dalla vita dei santi o da altri episodi biblici e neo testament ari. Fra i più celebri vi sono quelli contenuti in un codice di Fleury che svolgono tanto episodi del Nuovo Testamento come la conversione di san Paolo, quanto episodi della vita dei santi, come quelli dedicati a san Nicola, fra cui, in particolare, quel Getronis Filium (Il figlio di Getrone) in cui ad ogni personag­ gio è affidata una particolare melodia. Il dramma liturgico te­ maticamente più ricco è comunque il Ludus Danielis in cui ri­ corrono una cinquantina di melodie diverse di carattere quan­ to mai vario. Lo Sponsus, invece, che è un’elaborazione dram­ matica dell’episodio delle vergini stolte e delle vergini savie, per la compresenza di parti in latino e di altre in francese dia­ lettale è al crocevia fra il dramma liturgico e quello extralitur­ gico in volgare, che avrà una grande importanza più per la successiva storia del teatro che per quella della musica. Anche sotto il profilo registico e scenografico, il dramma liturgico si distingue da quello extraliturgico in volgare per una tendenza

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CAPITOLO SECONDO

all’astrazione simbolica ed alla convenzionalità rituale ed al­ l’esclusione dell’immedesimazione drammatica vera e pro­ pria, in accordo con la funzione, appunto liturgica, che era chiamato ad assolvere, [gv]

4. L "educazione musicale e la rinascita carolingia. L’idea di educazione musicale è stata fondamentale nel mondo classico e tutta la teoria e la filosofia musicale dei Gre­ ci s’incentra proprio sul valore primario della musica, almeno in alcuni suoi aspetti, nella formazione dell’uomo. Questo concetto s’indebolì in età alessandrina per poi scòmparire quasi del tutto nella Roma imperiale. Il mondo cristiano ri­ prenderà il concetto di educazione musicale, ma su basi del tutto diverse. La musica è importante strumentalmente, nel medioevo cristiano, non è un valore in sé e deve perciò essere praticata solo nella misura in cui può diventare utile per avvi­ cinarsi ad altri valori che sono quelli della nuova fede. L’at­ teggiamento della chiesa nei confronti della musica è perciò sempre stata ambigua ed oscillante tra considerazioni diverse che hanno spesso portato ad una opposizione tra la teoria e la prassi. La musica, arte ereditata dal mondo pagano, per certi aspetti è stata ritenuta dai primi padri della chiesa uno stru­ mento del demonio, fonte di corruzione e di lascivia per i gio­ vani; ma d’altra parte la chiesa non poteva ignorare l’uso sem­ pre più massiccio della musica come parte integrante della nuova liturgia. Il «nuovo canto» poteva perciò essere, se cor­ rettamente usato, anche strumento di salvezza e di elevazio­ ne. Clemente di Alessandria nel n secolo d. C. nel Protrettico ai greci, dopo aver deplorato i vecchi canti pagani che «hanno tenuto prigionieri nella più abbietta schiavitù coloro che cit­ tadini del cielo potrebbero possedere la vera e nobile libertà», esclama infine: «Ma come è diverso il mio menestrello; egli è venuto per porre fine a questa amara schiavitù del demonio che impera su di noi... Osserva come è potente il nuovo can­ to! Coloro che altrimenti sarebbero morti, coloro che non avevano alcun contatto con la vera e autentica vita, rivivono solo ad ascoltare il nuovo canto». Evidentemente è il conte­ nuto religioso che dà nuovo valore alla musica, redimendola dai suoi demoniaci trascorsi.

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In questa prospettiva edificante il canto sacro assume quasi esclusivamente la funzione di strumento ausiliare della pre­ ghiera al fine di renderla piu accetta dal popolo grazie al piz­ zico di lusinga che l’elemento musicale può conferirle. Le ve­ rità di fede saranno cosi piu gradite e rese più facili all’appren­ dimento: «Ciò che non s’impara volentieri non s’imprime, ma ciò che viene accolto con piacere e amore si fissa più salda­ mente nella mente... » (san Basilio). Il valore educativo della musica, nell’ambito della liturgia, viene riaffermato, anche se sempre con qualche cautela, da tutti i padri della chiesa nei primi secoli del cristianesimo, anche se spesso viene condan­ nato e giudicato riprovevole il piacere che la musica di per sé offre all’ascolto. Il dilemma veniva risolto in via teorica rifa­ cendosi ai greci e alle dottrine pitagoriche e platoniche secon­ do cui la vera musica coincideva con il suo esercizio teorico e non con quello pratico. Già Boezio affermava che «la scienza della musica è disciplina che tratta dei numeri in relazione a ciò che si trova nei suoni» e la vera musica si identifica con la «musica mundana», cioè la musica delle sfere, come già affer­ mava Pitagora. Queste teorie sulla musica in parte riflettono il sospetto che continua a gravare su di essa nell’ottica della nuova morale cristiana, in parte le antiche teorie greche che potevano ancora servire ad offrire una plausibilità all’uso pra­ tico sempre più largo che di essa la chiesa voleva fare. Con il passare dei secoli la contraddizione tra teoria e pras­ si non viene meno, anzi per certi aspetti si acuisce, proprio nella misura in cui la musica assume una posizione di sempre maggior rilievo nell’ambito della chiesa. Le esigenze della prassi musicale si facevano sempre più ampie e il canto dei primi secoli, ancora affidato alla memoria dei fedeli, divenne a poco a poco più complesso, più elaborato e istituzionalizzato per cui affiorò prima sommessamente e poi ben presto con maggiore evidenza il problema di istruire i cantori e di stabi­ lire dei saldi principi esecutivi affinché il canto liturgico con­ servasse le sue caratteristiche e non rischiasse di scivolare ver­ so forme profane. Con la rinascita carolingia, dopo l’vin seco­ lo, il problema si pone con tutta la sua evidenza, nell’ambito del nuovo programma educativo prima in Francia e poi nelle altre regioni d’Europa. Si è visto come la tradizione attribuis­ se già a san Gregorio l’istituzione di una «schola cantorum», ma è significativo che a darne testimonianza sia stato Giovan­ ni Diacono, in epoca carolingia, ed ancóra a quest’ultimo si deve la notizia che Carlomagno avesse sollecitato l’invio a

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CAPITOLO SECONDO

Metz di due esperti cantori affinché istituissero nella regione un’adeguata istruzione musicale di altri cantori in modo da poter garantire una corretta esecuzione dei canti liturgici. In queste condizioni la costante svalutazione della prassi musica­ le, della stessa attività degli esecutori diventava sempre piu problematica, anche se a dire il vero i teorici erano da lunghi secoli abituati a queste vistose contraddizioni tra teoria e prassi. Molti trattati di musica scritti dopo il ix secolo hanno uno scopo chiaramente pedagogico e cercano di offrire ausili didattici ai cantori che si apprestavano ad imparare o a perfe­ zionarsi nel repertorio che tendeva ormai a irrigidirsi secondo schemi prestabiliti. Tuttavia non rinunciano a pronunciare in modo piu o meno evidente la loro condanna nei confronti del­ la «musica humana», come la chiamava Boezio, cioè della mu­ sica che si ode, e la parallela esaltazione della «musica mundana», cioè della musica delle sfere o della musica che non si ode, quella che studiano i dotti e i teorici della musica. Guido d’Arezzo nelle sue Regulae rhythmicae, opera scritta evidente­ mente con scopi didattici, scriveva ancora, vittima di questa tradizione antica, ma pur sempre rinnovata e alimentata dalla chiesa: «E immensa la distanza tra il cantore e il musico; i pri­ mi cantano, i secondi sanno le cose che costituiscono la musi­ ca. Colui che fa ciò che non sa, si può definire una bestia». Frasi di questo tipo si possono trovare in numerosi trattati musicali ben oltre il mille, sino al Rinascimento e esprimono il tradizionale disprezzo verso il cantore o suonatore di musi­ ca, cioè verso colui che compie un’attività eminentemente pratica, mentre l’ammirazione del filosofo medievale va so­ prattutto al teorico, a colui che sa le cose di cui parla ed è per­ ciò tanto superiore all’esecutore. E singolare che sempre Gui­ do d’Arezzo, che ha dedicato la maggior parte della sua opera di teorico proprio a questioni prettamente pedagogiche, affer­ masse che ai suoi tempi «tra tutti gli uomini i cantori sono gli uomini più sciocchi», e si preoccupasse di quanto tempo que­ sti dovessero dedicare all’esercizio della loro professione, con scarso profitto per la loro mente e la loro cultura. «Questi straordinari cantori e allievi di cantori, cantano tutti i giorni per cent’anni e non riescono mai a cantare un’antifona, nep­ pure breve, da soli, senza un maestro, perdendo tanto tempo nel canto, quanto sarebbe bastato per conoscere bene tutti i libri sacri e profani» (Regulae rhythmìcae). Il pericolo è che in questo «sciocco sforzo... molti monaci trascurino i salmi, le letture sacre e le veglie notturne e altre opere di pietà».

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Queste posizioni, dettate da preoccupazioni a sfondo reli­ gioso più che estetico, sono di fatto poi superate dall’interesse sempre più pressante per gli effettivi problemi tecnici della musica e per le loro implicazioni di carattere didascalico. D’al­ tra parte proprio il principale utente della musica, la chiesa, le cui esigenze musicali crescevano sempre di più, non cessava dal pronunciare proclami contro di essa, creando cosi questa situazione contraddittoria. Nel Concilio di Tours, nell’813, cosi ci si esprimeva nei riguardi della musica: «Tutto ciò che seduce le orecchie e gli occhi e che può corrompere il vigore dell’animo deve essere tenuto lontano dai sacerdoti di Dio; infatti accarezzando l’orecchio e l’occhio la moltitudine dei vizi entra generalmente nell’anima». Queste condanne si so­ no sempre ripetute nella chiesa con costanza sino al Concilio di Trento e oltre, anche se a volte introducevano qualche di­ stinzione tra la musica non lasciva della corretta tradizione cristiana e quella corrotta dei nuovi tempi. Nonostante ciò l’attenzione dei teorici della musica è sempre più centrata sui reali e concreti problemi della musica, spesso strettamente connessi con l’educazione musicale, problema che si andava facendo sempre più pressante ed urgente, mano a mano che sorgevano nuovi problemi connessi con l’evoluzione stessa della musica. La memorizzazione di testi musicali sempre più complessi con l’invenzione dei tropi e delle sequenze richiede­ vano ormai un sistema di notazione più preciso, che non si li­ mitasse ad un vago sussidio mnemonico, l’introduzione dei primi e più semplici tentativi di canto polifonico a più voci, il problema ritmico, i nuovi canti introdotti nella liturgia, tutto ciò richiedeva ormai cantori sempre più professionalizzati e alfabetizzati, e la musica non poteva più essere lasciata alla li­ bera espressione dei fedeli come avveniva probabilmente nei primi secoli in cui il canto liturgico veniva imparato collettiva­ mente, senza bisogno di scuole e di scrittura, [ef]

Capitolo terzo Monodia e polifonia sacra e profana nell’età feudale e nell’età comunale

i.

Diffusione della tradizione profana e sviluppi di quella sacra.

La disgregazione dell’impero carolingio e il processo di par­ cellizzazione sociale e politica che, tra i due secoli a cavallo tra il primo millennio, condusse all’instaurazione del feudalesi­ mo, provocò importanti trasformazioni anche in campo cultu­ rale, artistico, e quindi musicale. Laddove la politica dei caro­ lingi aveva creato vincoli strettissimi tra il potere temporale e quello spirituale, e i monasteri avevano detenuto il monopolio della cultura occidentale, il nuovo sistema feudale determinò una nuova dinamica culturale tra l’ambito sacro e quello pro­ fano: gli ideali della cavalleria, i rituali e le trasposizioni sim­ boliche dei rapporti che regolavano la vita politica e sociale, il pullulare di quei nuovi centri di attività culturali e di svago, oltreché di difesa, che erano i castelli, posero per la prima vol­ ta, nell’Europa cristiana, le basi per un’alternativa culturale laica. Ciò non significa affatto che tra le due culture vi fossero fratture nette e contrapposizioni frontali: la formazione cul­ turale era pur sempre la chiesa ad impartirla, ed è appunto in quella zona di compromesso e di fusione tra certi caratteri della melopea sacra (il canto gregoriano), contenuti poetici cortesi, mezzi linguistici profani (le lingue romanze), influssi popolari, che nasce la prima importante tradizione poeticomusicale profana: la tradizione monodica dei trovatori, dei trovieri e dei Minnesanger. D’altro canto i modelli politici e culturali della tradizione laica si infiltrarono in quella religiosa ed emarginarono progressivamente la civiltà monastica spo­ stando l’asse della vita culturale dal monastero alla cattedrale, che nel corso del xn e del xm secolo, contestualmente al feno­ meno di crescente urbanizzazione, divenne la sede delle pra­ tiche liturgiche collettive. Nel passaggio dal monastero alla cattedrale - la chiesa del vescovo, il quale riproduce in ambi-

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to sacro modelli politici e comportamenti dei grandi signori laici - la cultura religiosa mentre perde la concentrazione mi­ stica della vita monastica assume un carattere speculativo e razionalistico. Tanto piu nei grandi centri di prestigio inter­ nazionale, primo fra tutti Parigi. Ed è proprio a Parigi, nella seconda metà del secolo xn, cioè all’epoca della edificazione della Cattedrale di NotreDame, che fiori la prima grande scuola polifonica sacra. Ed è sempre nell’ambito della cultura ecclesiastica francese che la polifonia iniziò ad appropriarsi di argomenti profani, dando vita ad un’arte in cui l’aspetto funzionale e celebrativo è com­ plementare o subordinato a quello estetico, organizzato com­ positivamente secondo combinazioni degli elementi costituti­ vi che rispecchiano i principi razionali dell’arte retorica. Que­ st’arte che fu definita nova quando raggiunse la sua piena ma­ turità all’inizio del xiv secolo - nuova rispetto a quella del passato considerata ormai vetusta - oltre ad importanti inno­ vazioni in campo ritmico, stava modificando, nella ristretta cerchia dei suoi cultori, lo stesso modo di fruire e di concepire la musica: musica che non è piu solamente entità sonora, ben­ sì anche segno scritto, notazione cui è indissolubilmente lega­ ta in quanto costruzione complessa e razionalmente organiz­ zata. I teorici dell’Xrr nova, inoltre (ad es. Johannes de Grocheo), parlano spesso non solo di piacere connesso all’ascolto della musica, ma di effetti che essa ha prodotto. La musica non è piu vista come un duplicato ritmico e numerico dell’ordine cosmico, ma come un prodotto di effetti piacevoli sull’animo umano, e questo scollegamento da una concezione eterna ed immutabile non mancò, come si vedrà più avanti, di essere re­ darguito dalla chiesa. La natura elitaria di questa nuova arte fece si che la tradi­ zione monodica affidata alla diffusione orale continuasse a svolgere un ruolo predominante nella cultura dell’epoca, ed anzi la monodia profana prestò i suoi temi poetici di ascen­ denza cortese alla più sofisticata e cerebrale arte polifonica. Prova lampante di questa contiguità fra i due generi è ad esempio la produzione del più importante compositore fran­ cese dell’Xrs nova, Guillaume de Machaut, che trattò entram­ bi con medesimo impegno e continuità. In Italia l’Xrc nova, oltre a diffondersi in ambito cortese in certe corti principesche dell’Italia del nord nei primi decenni del secolo xrv, si radicò pure un po’ più tardi in quello urbano e comunale, venendo ad intrecciarsi a Firenze con gli sviluppi

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della tradizione letteraria fecondata dall’esempio dantesco. Molti degli arsnovisti fiorentini appartenevano alla categoria dei chierici, a riprova degli stretti legami che YArs nova intrat­ teneva con l’alta cultura dell’epoca (universitaria e clericale). Laddove in Francia la Scuola di Notre-Dame prima, e poi il trasferimento dei papi ad Avignone avevano determinato una prima fioritura polifonica in ambito sacro (Guillaume de Machaut compose anche una famosa ed importante messa polifo­ nica), in Italia invece, stando alle fonti finora pervenuteci, ab­ biamo testimonianza di un notevole sviluppo di espressioni monodiche devozionali (le laudi), che ci rende consapevoli della dimensione fideistica e lirica con cui fu vissuta la religio­ ne da parte di larghi strati della popolazione italiana dell’e­ poca. In Italia la particolare situazione economica e politica acce­ lerò inoltre quel processo di graduale trapasso dalla civiltà feudale a quella comunale, e la nascita di una borghesia urba­ na. Una borghesia che tosto, arricchitasi con le sue attività commerciali, iniziò a sentire l’esigenza di ingentilirsi e di ele­ varsi culturalmente prendendo a modello i comportamenti dei nobili. La nuova realtà urbana, con la sua grande stratificazio­ ne di classi sociali che convivevano con esigenze e pretese cul­ turali diverse, incrementò notevolmente il consumo musicale. La crescita quantitativa e qualitativa dei musicisti portò alla creazione di confraternite o di corporazioni musicali, vere e proprie associazioni istituite per regolare l’attività della cate­ goria e difenderne gli interessi, fissando le tariffe per le loro prestazioni, le città e i territori in cui ogni organizzazione po­ teva esercitare le sue attività. Dal rapimento e dall’atemporalità del canto monastico, dalle occasionali performances di giullari e trovatori che rom­ pevano il silenzio delle campagne nell’età feudale - realtà musicali che tuttavia ancora duravano - siamo cosi giunti ad una dimensione urbana che al confronto ci appare congestio­ nata di eventi sonori e di manifestazioni musicali che soddi­ sfacevano alle più disparate esigenze: nasce in tale ambito e in tal modo una nuova dinamica tra generi musicali, linguaggi, classi sociali, produzione, esecuzione e fruizione, che ormai annuncia il mondo moderno e porta a conclusione la stagione medievale, [efcgv]

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2. La monodia profana.

Stando ai documenti superstiti, il canto monodico del pri­ mo millennio sembrerebbe esser stato intonato quasi esclusi­ vamente nell’ambito sacro. Naturalmente non fu cosi; dob­ biamo pensare che una tradizione profana abbia affiancato nel corso dei secoli quella sacra, soltanto che la natura stessa della prima, che la esponeva a condanne e censure, la sua occasionalità in un’epoca di tradizione orale, la fecero rimanere sommersa fino al periodo carolingio. E allora che, con signifi­ cativa contemporaneità alla creazione di tropi e sequenze, ini­ ziano a pervenirci i testi e talora anche la musica, spesso di difficile o impossibile decifrazione, di lamenti funebri (famo­ so il Planctus Karoli per la morte di Carlomagno), di canti di più o meno esplicito contenuto amoroso (come il commiato del maestro all’allievo prediletto O admirabilis Veneris idolum, che prestò anche la sua melodia ad un canto di pellegrini in cammino verso Roma O Roma nobilis - oppure un altro inti­ tolato lam, dulcis amica, venito) fino ai più tardi canti goliardi­ ci contenuti in un codice conservato fino agli inizi del xix se­ colo nell’abbazia di Benediktbeuren (donde il nome di Carmi­ na Burana); in essi secondo una tradizione non ancor oggi estinta, gli studenti parodiavano i canti della tradizione uffi­ ciale (cioè quella sacra) e inneggiavano ai piaceri di Bacco e di Venere. Nonostante la monodia profana in latino sia sopravvissuta alla diffusione delle lingue volgari, saranno queste ultime ad introdurre nella civiltà occidentale nuovi fermenti creativi, a stimolare la nascita dell’ultima stagione poetica legata all’in­ tonazione monodica della poesia. E, ancora una volta, non è strano che questa nuova tradizione prenda le mosse in area franca, in piena fioritura di sequenze e tropi; una delle possi­ bili spiegazioni etimologiche della parola troubadour è appun­ to quella che la vorrebbe derivata da tropo (= tropator[es]), e la conferma di un collegamento fra la nuova tradizione pro­ fana e le innovazioni poetico-musicali nell’ambito liturgico potrebbe essere la denominazione più antica dei componi­ menti dei trovatori (verso) affine a quella dei versus della scuo­ la di San Marziale di Limoges. Ma le equivalenze con il canto liturgico rinnovato non si limitano alla terminologia, bensì ri­ guardano aspetti formali (la parentela tra il lai e la sequenza, ad esempio) e musicali importanti: l’andamento melodico con



CAPITOLO TERZO

l’alternanza di sillabismi e melismi, l’articolazione dello svi­ luppo melodico attorno ad uno o due note polari, il rapporto di libera concordanza metrica tra testo e musica. A parte que­ ste affinità, che dimostrano inevitabili rapporti con la tradi­ zione su cui poggia la civiltà musicale occidentale, la produ­ zione poetico-musicale dei trovatori e dei trovieri presenta ca­ ratteri nuovi ed esclusivi. Sicché la tesi che farebbe risalire l’origine di quella tradizione al canto liturgico, cosi come quella per cui il contenuto poetico deriverebbe da una trasfor­ mazione allegorica e profana dell’amor sacro, si aggiungono ad una lunga collana di supposizioni che si sforzano di ravvi­ sare affinità formali e contenutistiche con altre tradizioni (con quella araba, ad esempio, o con l’eresia catara). Lo stimo­ lo che ha pungolato tanti illustri studiosi a ricercare una sod­ disfacente spiegazione dell’origine del canto trobadorico non è stata unicamente la passione speculativa ma l’inquietante sorpresa per il modo subitaneo ed improvviso con cui questa tradizione comparve nelle regioni meridionali della Francia di lingua occitanica e si radicò nella cultura occidentale introdu­ cendo una nuova visione dell’amore ed un nuovo modo di cantarlo in forma poetica. L’amor cortese è una sublimazione dell’amore erotico in cui il rituale di corteggiamento amoroso (la cortezìa, appunto) celebrato per mezzo di una liturgia che trae simboli e modelli dalla civiltà feudale e cavalleresca, diviene mezzo di purifica­ zione, di nobilitazione, di spiritualizzazione e di ;oz, un termi­ ne che ricorre spesso nella poesia trovadorica e che corrispon­ de ad uno stato di beata estasi, e di cui la parola «gioia» sa­ rebbe traduzione riduttiva e impropria. La maggior parte dei generi poetici sviluppati dai trovatori sono incentrati su questa tematica: la canso, canzone d’amore, Valbà che ha per situazione poetica fissa il risveglio degli amanti destati all’alba da una sentinella amica, la pastorela che ha invece per soggetto poetico l’incontro tra un cavaliere ed una pastorella ed il gioco di richieste e di dinieghi amorosi. A fianco di questi generi poetici di carattere amoroso, altri svi­ lupparono invece argomenti satirici, sentenziosi o politici (il sirventesi, anche in forma dialogica, offrendo spunto ed occa­ sione per una gara poetico-canora (la tenso), oppure trasporta­ no in lingua romanza generi già sviluppati in lingua latina (il planh, equivalente delplanctus latino). Sotto il profilo formale la lirica trovadorica è caratterizzata da una grande varietà di costruzioni rimiche organizzate in

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forme strofiche (strofa = cobla) anch’esse quanto mai varie. La grande sproporzione che esiste fra il numero di testi musi­ cali e poetici superstiti (da 1 a io), e la grande quantità di va­ rianti e anche di versioni musicali diverse per il medesimo te­ sto poetico, ci fa pensare ad una tradizione in cui l’apporto di­ retto dell’esecutore ri-creatore, sulla traccia di melodie-tipo note e diffuse oralmente, avesse una funzione determinante. Se a ciò si aggiunge che nella fissazione scritta di queste melo­ die esse subirono ulteriori trasformazioni e rielaborazioni, si può comprendere come siamo lontani dalla possibilità di redi­ gere, come per il canto gregoriano, un’edizione critica di que­ sto patrimonio musicale, cosi come siamo ben lontani dal rico­ struire con sicurezza la prassi esecutiva dell’epoca, sia per la difficoltà di pervenire ad una esatta interpretazione dell’an­ damento ritmico, sia per quella di stabilire quale funzione avessero gli strumenti musicali a sostegno e accompagnamen­ to della voce. La maggior parte dei codici è in notazione neumatica quadrata senza indicazioni mensurali (relative cioè al valore ritmico delle note), sicché sono state fatte numerose supposizioni in proposito, fra cui quella connessa al ritmo ver­ bale accentuativo del testo poetico e che lascia libertà ritmica all’esecuzione dei melismi, sembra godere di maggior credito. Per quanto riguarda il sostegno strumentale, di cui peraltro abbiamo notizie da fonti iconografiche e letterarie, in man­ canza di indicazioni specifiche non possiamo andare oltre a pure e semplici congetture: nonostante l’impegno dei musico­ logi e il talento dei complessi specializzati nell’esecuzione di musica antica, il «sound» del canto trovadorico e non solo di quello è qualcosa che continua a sfuggirci e che possiamo rico­ struire solamente in modo congetturale. La tradizione trovadorica si sviluppò e decadde nel corso di un paio di secoli. Duecento anni circa intercorrono tra il pri­ mo trovatore di cui ci sia pervenuta memoria, Guglielmo IX duca di Aquitania (attivo tra il 1086 ed il 1127) e Guiraut Riquier, che trascorse buona parte della sua breve esistenza (1258-84) in Spagna, con un periodo centrale (dal 1130 al 1220) di particolare fermento creativo in cui sono assiepati i trovatori piu illustri e celebrati: Marcabruno, Jaufre Rudel, Bernard de Ventadorn, Guiraut de Bornelh, Bertran de Born, Folquet de Marseille, Arnaut Daniel, Raimbaut de Vaqueiras. La presenza, fra i trovatori, di duchi, conti e marchesi e per­ fino re, a fianco di piccoli signori, di borghesi ed ecclesiastici, dimostra non solo la vastità del fenomeno, ma anche cóme la

CAPITOLO TERZO 52 tradizione trovadorica si configurasse come un movimento in­ tellettuale che coinvolse tutte le classi sociali culturalizzate, prefigurando, anche sotto questo profilo, una situazione mo­ derna. Un grave colpo le fu infer to dalla crociata contro gli albigesi (1208-29) che devastò, materialmente e culturalmente, la Linguadoca; ma non fu Punica causa della sua decadenza che, come quella di tutti i fenomeni culturali, avvenne per esaurimento delle forze creative, per saturazione e consunzio­ ne dei valori poetici. Prima di esaurirsi e di avviarsi alla decadenza, la tradizione trobadorica consegnò alle regioni settentrionali della Francia i suoi contenuti poetici e musicali, il suo canto. Veicolo di questo trapianto culturale furono innanzitutto i giullari, que­ gli artisti-saltimbanchi itineranti che vagavano di corte in cor­ te (o vi trovavano impiego fisso in qualità di menestrelli - ministeriales da «ministerium», servizio fisso) producendosi in una grande quantità di intrattenimenti («jongleur» è corru­ zione romanza di «joculator», da «jocus», gioco), fra cui l’e­ secuzione delle canzoni trobadoriche; grande importanza eb­ bero poi i matrimoni fra membri di casate aristocratiche del sud con quelle del nord, con relativo trasferimento di trovato­ ri al seguito, come quello tra Eleonora di Aquitania (11221204 ca) prima con Luigi VII di Francia (1120-80), poi con Enrico d’Angiò, duca di Normandia, incoronato tosto re d’Inghilterra. Ed anche le crociate, che in nome della comune religione in armi misero a contatto popoli di tradizione e na­ zionalità quanto mai diverse, ebbero il loro peso. Sebbene nata anch’essa in ambito cortese, la tradizione dei trovieri (trouvéres) per la sfasatura di un secolo che intercorre tra la sua nascita e quella dei trovatori, ebbe tempo di conclu­ dersi in ambiente urbano con la creazione di corsorterie ( = puys) rette da un «principe» che giudicava dei canti miglio­ ri in occasione di certami canori che vi si tenevano (particolar­ mente famoso il Puy d’Arras). Oltre alla diversa lingua impiegata (la lingua d’oil, antenata del francese moderno), altri caratteri distinguevano la tradi­ zione dei trovieri da quella dei colleghi meridionali. Innanzi­ tutto il particolare rilievo che nella tradizione settentrionale avevano i canti di genere narrativo. A fianco dei generi poeti­ ci equivalenti a quelli trobadorici (chanson = canso; aube = alba; pastourelle = pastorela; jeu parti = tenso) con la chanson de toile, in cui una donna lamentava le sue pene d’amore, ci troviamo di fronte ad una forma lirica che però recupera eie-

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menti narrativi delle più antiche chansons de geste (di cui la Chanson de Roland è la più famosa), intonate su una stessa melodia che si ripeteva. La preferenza dei trovieri per le strut­ ture poetiche musicali ripetitive si può ancora riscontrare nel­ la diffusione che ebbero in quella tradizione le forme con re­ frain (= ritornello), quali il rondeau, la ballade o il virelai la cui denominazione già da sola indica la loro origine e la loro fun­ zione coreutica (rondeau = danza in tondo, ronda; virelai dal verbo «virer», girare). Gli stessi problemi di decifrazione e interpretazione filolo­ gica dei testi musicali cui già si è accennato a proposito dei trovatori si ripropongono per i trovieri, con la differenza che il rapporto fra i testi letterari (2400 ca) e quelli musicali super­ stiti (1700 ca) è molto diverso rispetto ai colleghi meridionali. E significativo riscontrare però come un trovatore quale Adam de la Halle (vissuto tra il 1237 e il 1288 ca), autore tra l’altro di una pastorella drammatica intitolata Le Jeu de Robin et de Marion che è il primo esempio di teatro musicale di argo­ mento schiettamente profano, avendoci lasciato tanto canzo­ ni monodiche quanto composizioni polifoniche (mottetti, rondeaux), per le prime non adotti la notazione mensurale, a riprova che l’intonazione del canto monodico aveva preroga­ tive sue proprie che gli derivavano dallo stretto rapporto ritmico-prosodico con il testo poetico e da una prassi esecuti­ va di carattere quanto mai estemporaneo. Nella seconda metà del secolo xn il canto trovadorico e tro- fig. 4 vierico, la sua poetica e la sua intonazione musicale, dalla Francia fu introdotto nelle regioni tedesche. Anche in questo caso le crociate ed i matrimoni giocarono un ruolo importante per la diffusione della tradizione francese in terra straniera. Beatrice di Burgundia (la regione confinante con la Savoia), quando andò in sposa a Federico Barbarossa, nel 1156, aveva portato con sé il troviere Guiot de Provins. In Germania, d’altro canto, era già viva una tradizione autoctona diffusa e tramandata dai giullari (denominati scops), ma l’impatto con le novità che provenivano dalla Francia diede origine a generi affini a quelli trovadorici e trovierici quali: il Lied (equivalen­ te alla canso ed alla chanson), il Tagelied (= alba, aube), il Wechsel (= tenso, jeu parti), la Lrauenstrophe (= chanson de toile), il Leich (Lai). A parte il genere sentenzioso dello Spruch (= letteralmente «sentenza», «proverbio»), che presenta af­ finità con il sirventes, e a parte il Kreuzlied ( = Chanson de croisade) di cui ci rimane un famoso esempio di Walther von

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der Vogelweide (il Palastinalied), il tema poetico sviluppato in tutti questi generi è la Minne, equivalente germanico dell’«amor cortese», donde i suoi cantori furono denominati Minnesanger ed il canto Minnesang. Dall’epoca aurea di questa fioritura, con il suo piu impor­ tante rappresentante, il già nominato Walther von der Vogel­ weide, attraverso le successive generazioni con figure di spic­ co quali Neidhart von Reuental (1190 ca - dopo il 1236), Tannhauser, Wizlaw von Riigen (1268-1325) fino a quell’epi­ gono di Oswald von Wolkenstein (1377-1445), il Minnesang, nella sua lunga storia, venne a collegarsi con quel movimento ormai estraneo alla civiltà cortese e caratteristico di una nuo­ va situazione culturale e sociale urbana, che fu il Meistergesang, organizzato in corporazioni con una ferrea legislazione che vincolava la creazione poetico-musicale e i certami canori. Del periodo aureo del Minnesang ci rimangono per lo piu sola­ mente i testi poetici, diversi dei quali, essendo parafrasi di quelli francesi, hanno spinto alcuni studiosi a rivestirli delle corrispondenti melodie dei trovatori e dei trovieri, con esiti alquanto discutibili. Neidhart von Reuental è il primo Minne­ sanger di cui ci rimane, assieme ai testi poetici, un certo nume­ ro di melodie; melodie che presentano una struttura caratte­ ristica della tradizione tedesca, la cosiddetta forma di Bar (= poema), che consiste nella successione di due piedi (in te­ desco, Stollen) e di una chiusa (Abgesangy. AAB. Sotto il pro­ filo ritmico-esecutivo si ripetono i medesimi problemi di rico­ struzione già considerati a proposito della produzione trovadorica e trovierica, naturalmente con le dovute differenze de­ rivate dalle caratteristiche specifiche della tradizione germa­ nica. Tenendo conto della maggior vicinanza linguistica della Spagna e dell’Italia rispetto alla Germania, fa stupire che il canto trovadorico e trovierico non abbia creato un equivalen­ te nelle due regioni limitrofe; tanto piu che siamo a conoscen­ za, in entrambi i casi, di assidui contatti, diretti ed indiretti, con la poesia trobadorica e con i suoi cantori. A parte alcune «canciones de amor» attribuite ad un giullare, Martin Codax, in lingua gallego-portoghese dell’inizio del secolo xm, è nel­ l’ambito devozionale che dobbiamo spostarci per cogliere i frutti della monodia nelle due regioni mediterranee. In Spa­ gna ci sono state tramandate 400 canzoni in lode alla Madon­ na di cui, sull’esempio dei Miracles de Notre-Datne di Gautier de Coinci, sono narrati i miracoli: le Cantigas de Sancta Maria,

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raccolte da Alfonso X «il Savio», nella seconda metà del xm secolo. Fatto insolito trattandosi di canti monodici, le Cantigas ci sono pervenute anche in notazione mensurale; quanto a struttura poetica presentano affinità con il virelai francese. In Italia, invece, la monodia extraliturgica fiori nell’ambito del movimento dei laudesi. Movimento che si era diffuso dan­ do origine a confraternite che si dedicavano a pratiche devo­ zionali incentrate sul canto delle laudi. Sulla scia di san Fran­ cesco e degli ordini mendicanti che si erano fatti interpreti di una nuova spiritualità aperta ad una comprensione e ad una santificazione della realtà fenomenica ed umana, le laudi rie­ laboravano i temi dei due cicli dell’anno liturgico in un volga­ re vibrante di commossa partecipazione e ricco di immagini colorite. Di queste raccolte di laudi (= laudari) ce ne sono ri­ maste due particolarmente importanti per la quantità e la qua­ lità dei testi poetici e delle intonazioni musicali: il Laudario di Cortona, compilato dalla confraternita cortonese di Santa Maria delle Laude, ed il Laudario della confraternita fioren­ tina di Santa Maria. Il contenuto musicale di queste laudi ha destato e continua a destare un interesse enorme presso i mu­ sicologi, non solo perché è il piu antico esempio di musica su testo italiano, ma per la ricchezza, la varietà e la squisita fat­ tura dell’intonazione musicale, in cui si mescolano elementi formali e melodici del canto liturgico, della tradizione profana e, presumibilmente, di una tradizione popolare autoctona. Una specie di equivalente tedesco delle laudi italiane, e pe­ rò piu semplice, meno raffinato, sono i Geisslerlieder, canti de­ vozionali intonati dalle compagnie di flagellanti che erano sor­ te nel periodo in cui la peste nera (1348-49) aveva falcidiato l’Europa, [gv] 3. Dall*«Ars antiqua» all'«Ars nova».

Sino al xii secolo la musica che ci è pervenuta è anonima, difficilmente databile in modo preciso, ma dopo il xn secolo la nebbia che prima avvolgeva la scena musicale europea inco­ mincia a tratti a dissolversi e appaiono le prime figure di mu­ sicisti compositori e le loro relative raccolte di opere. Léonin fig. 5 e Pérotin sono tra i primi musicisti di cui si conosca il nome, anche se della loro vita non si sa pressoché nuli’altro che era­ no attivi circa nella seconda metà del 1100 a Notre-Dame a Parigi. Certo contribuirono al fiorire di quella grande scuola

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organistica e polifonica parigina. Di Léonin un testo anonimo del tempo afferma che nel suo Magnus liber organi avrebbe raccolto un intero ciclo di organa per tutto Fanno liturgico; si parla pure di Pérotin, musicista ancor più eccelso, optimus dis­ cantar, autore di conductus triplices, cioè a tre voci, che rappre­ sentavano allora la forma più complessa di polifonia. Dalle composizioni che ci sono rimaste di entrambi si può dedurre che questi musicisti, nel xn secolo portarono alla più alta per­ fezione le due fondamentali forme di musica religiosa del tempo, Forganum ed il conductus. Già abbiamo visto nel capitolo precedente che cosa fosse un organum’, i maestri della Scuola di Notre-Dame condussero questa forma al suo massimo grado di sviluppo, aumentando il numero delle voci da due {organum duplum) a tre {triplum) fino a quattro {quadruplum) e introducendo per la prima volta nella storia della musica un tipo di notazione che indicava non solo l’andamento melodico-intervallare, ma anche quello rit­ mico. Come la scrittura neumatica aveva tratto i suoi simboli dagli accenti grammaticali, cosi ora la prima scrittura ritmica traeva dalla metrica quantitativa il suo sistema di notazione. Un tipo di notazione che, anziché assegnare un valore autono­ mo alle singole note, attribuiva alle differenti combinazioni di neumi ( = ligaturae) un valore ritmico corrispondente a sei di­ versi modelli ritmici, i cosiddetti modi ritmici, basati sulla suc­ cessione di brevi e di lunghe. Questo il principio generale; vi era poi tutta una serie di possibilità di variare lo schema ritmi­ co prefissato (=fractio modi) mediante l’introduzione di note di valore inferiore ( = plicae) o di particolari figurazioni {conjuncturae, currentes). Negli organa della Scuola di NotreDame, il rapporto fra la vox principalis a valori lunghissimi ed i melismi delle voci organales subisce talora improvvise altera­ zioni derivate dal fatto che la vox principalis assume una scan­ sione ritmica a valori molto più brevi e a note molto più ravvi­ cinate creando momentanei episodi di discanto con le voci su­ periori. Questi episodi potevano essere sostituiti da altri più elaborati (= clausolae o puncta) di cui ci rimangono numerosi esempi che presentano un particolare interesse sotto l’aspetto compositivo. L’esigenza di allungare il tenor stimolò i maestri di Notre-Dame a cominciare ad usare quelle tecniche di ripe­ tizione di schemi melodici o ritmici su cui si baserà Visoritmia\ nelle voci superiori, invece, a conferma del fatto che questi maestri cominciano a manifestare una forma mentis autentica­ mente compositiva, compaiono chiaramente delineati i pri­

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mi esempi di progressione melodica e i primi timidi procedi­ menti imitativi fra le voci. A differenza dell’organum, il conductus non utilizzava co­ me tenor una melodia preesistente, bensì una originale, appo­ sitamente inventata: «Chi intende comporre un conductus deve dapprima inventare un canto particolarmente bello e usarlo quindi come tenor per la costruzione polifonica ». Cosi Franco di Colonia. Ma un ventennio dopo (nella Summa de speculartene musice, databile attorno al 1300), Walter Odington prevede la possibilità che i conducti siano « composti da più canti ben fatti già esistenti», oltreché da quelli di inven­ zione, e l’utilizzazione di una delle più famose melodie di danza trobadorica (A l’entrada de tens clar) come tenor del conductus Veris ad imperia sta a confermarlo, cosi come certi scambi melodici tra il tenor e la voce superiore dimostrano che il compositore, almeno nella sua mente, oltre al tenor, do­ veva già avere in mente anche un certo andamento di quella. Caratteristica musicale del conductus è la sua natura sillabica o semisillabica (il fatto cioè che ad ogni sillaba del testo corri­ spondono una o poche note) che ne faceva un equivalente po­ lifonico dell’inno monodico. Tale carattere, che il conductus poteva eludere all’inizio o alla fine del verso e della strofa per incorniciarli con fioriti melismi, rendeva questa forma parti­ colarmente adatta a divenire - come in effetti fu - veicolo di comunicazione testuale di argomenti quanto mai diversi legati alla storia contemporanea ed ai fatti politici dell’epoca. Nello stesso periodo, sempre nell’ambito della liturgia cri­ stiana, nasce anche un nuovo genere, destinato ad una grande fortuna nei secoli seguenti: il mottetto (o moiette i da petit mot). In un primo tempo tale composizione indicava sempli­ cemente la parte sovrapposta al tenor liturgico di una clauso­ la, parte che era fornita di un testo nuovo, ma ben presto si arricchì di nuove voci e quindi di nuovi testi, fino a tre o quattro voci, il che dava origine ad una polifonia testuale e musicale ricca di accentuati contrasti ritmici e fonici. Questi testi, che potevano essere tanto in latino che in volgare, pre­ sentano spesso un rapporto più o meno diretto con il testo del tenor, configurandosi come amplificazioni simultanee. Ci tro­ viamo dunque ancora una volta (come già nel caso di quelle cattedrali sonore che erano gli organa tripla e quadrupla, delle clausolae interpolate, e simili) in una dimensione creativa sti­ molata da una concezione molto vicina a quella che aveva da­ to origine, qualche secolo prima, alla fioritura dei tropi. Ma

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l’esigenza di render coerenti e varie strutture polifoniche sem­ pre piu complesse stimolava vieppiù i compositori a ideare tecniche e principi compositivi nuovi facendosi guidare da quella grande maestra che era l’arte retorica. Con l’inizio del xiv secolo, con la fine della dinastia dei Capetingi, in Francia dapprima, poi anche in Italia, nuove forme musicali incominciano a comparire e soprattutto si profila un netto e sensibile cambiamento nel gusto, per cui anche le vec­ chie forme subiscono delle trasformazioni per essere adattate al nuovo vento di modernità che attraversa l’Europa dopo il 1300. Philippe de Vitry, musicista e teorico, intorno al 1320 scrisse un famoso trattato dal significativo titolo Ars nova. All’incirca negli stessi anni un altro grande teorico, Johannes de Muris, scrisse un altro trattato dal titolo Ars novae musicae (1319), mentre un suo contemporaneo, Jacobus Leodiensis, contrapponeva in una sua opera teorica, Speculum musicae (1330 ca), l’Ars antiqua o Ars vetus alla più recente e corrotta Ars nova. Erano cosi poste le fondamenta per quella che si può definire la prima polemica che animò il mondo musicale medievale. L’interesse di questo dibattito va al di là della evidente contrapposizione generazionale, che pur esiste e traspare già dai termini di Ars antiqua e di Ars nova. In realtà è una con­ trapposizione che va anche al di là di un diverso gusto musica­ le e che implica diverse e opposte concezioni della musica. Pertanto i termini della polemica appaiono sufficientemente chiari già dai testi dei protagonisti stessi i quali enunciano le proprie posizioni insieme a quelle degli avversari. La chiesa, direttamente interessata in tutte le questioni che riguardano la musica, prese posizioni molto precise, e la famosa bolla di papa Giovanni XXII rappresenta un documento del massimo interesse perché chiarisce soprattutto le posizioni dei moder­ nisti enumerando i difetti della nuova musica, cioè dell’Ars nova, nel momento stesso in cui li condanna. «Alcuni disce­ poli di una nuova scuola, - afferma il documento del papa impegnando tutta la loro attenzione a misurare il tempo, cer­ cano con nuove note di esprimere arie inventate solo da loro, a scapito degli altri canti che essi sostituiscono con altri com­ posti di brevi e semibrevi e di note quasi inafferrabili. Essi in­ terrompono le melodie, le rendono effeminate con l’uso del discanto, le riempiono a volte di triple e di volgari mottetti, in modo da giungere spesso a disprezzare i principi fondamentali Antifonario e del Graduale, ignorando i fondamenti stessi

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su cui costruire, confondendo i toni senza conoscerli. La mol­ titudine delle loro note cancella i semplici ed equilibrati ragio­ namenti per mezzo dei quali nel canto piano si distinguono le note una dall'altra. Essi corrono e non si riposano mai, ine­ briano le orecchie e non curano gli animi; essi imitano con ge­ sti ciò che suonano, cosicché si dimentica la devozione che si cercava e viene mostrata la rilassatezza che doveva essere evi­ tata». Non si può dire che le raccomandazioni del papa abbia­ no avuto un grande effetto sulla successiva evoluzione della storia della musica, ma tuttavia tale scritto con le raccoman­ dazioni che lo accompagnano rimane pur sempre un docu­ mento molto importante perché in esso si viene a definire con grande chiarezza non solo l’avversione della chiesa per il nuo­ vo gusto ma anche i principi ideologici che sottostanno a que­ sto rifiuto. La bolla pontificia infatti cosi continua: «In tal modo non intendiamo impedire che a volte e soprattutto nei giorni di festa, cioè nelle messe solenni e negli offici divini, si pónga sopra il canto ecclesiastico spoglio qualche consonanza che ne sottolinei la melodia, cioè lo si accompagni all’ottava, alla quinta e alla quarta o con consonanze dello stesso tipo, ma sempre in modo che l’integrità del canto stesso rimanga inviolata, che nulla sia mutato nel ritmo corretto della musica e soprattutto che si soddisfi lo spirito con l’ascolto di tali con­ sonanze e che non si permetta di intorpidire l’animo di colo­ ro che cantano in onore di Dio». La bolla di papa Giovanni XXII rimprovera alla musica moderna di «inebriare le orec­ chie », cioè di rincorrere un fine estraneo a quello assegnatole dalle dottrine dei più antichi padri della chiesa che le avevano assegnato il compito di essere non uno strumento di piacere ma un aiuto per l’elevazione a Dio, per rendere più efficace la preghiera; nel contempo, pur invocando la nudità e semplicità del canto tradizionale codificato ormai rigidamente nella chie­ sa cristiana, nell’antifonario e nel graduale, traspare da tutto il suo discorso la diffidenza di fondo nei confronti di un’arte che rischia continuamente di scivolare verso forme profane, e di rivendicare con sempre maggiore incisività le proprie ra­ gioni. Johannes de Muris; un altro teorico francese delTZrs nova, affermava con espressione significativa che «la musica tra tut­ te le arti è la più dolce, perché nessuna procura tanto piacere in cosi poco tempo », e soggiungeva, rifacendosi forse alla tra­ dizione greca, che essa «è una medicina che opera mirabil­ mente curando i morbi, soprattutto quelli prodotti dalla me­ lanconia e dalla tristezza... »

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Ma questa dolcezza e in definitiva questo maggior effetto sulla sensibilità a cui si richiamava de Muris comporta anche una tecnica piu raffinata, un abbandono della primitiva spo­ glia semplicità del canto piano; non per nulla Jacobus Leodiensis, suo contemporaneo, difensore dell’Ars antìquay ben consapevole di questo fatto obiettava: «Ad alcuni parrà che Parte moderna sia piu perfetta di quella antica perché quest’ultima è più raffinata e più difficile; più raffinata (subtiUor) perché si estende maggiormente ed aggiunge molte cose al­ l’antica, come risulta chiaro nelle note, nei modi e nei ritmi... Che sia più difficile (difficilior) lo si può riscontrare anche dal modo di cantare e di dividere il ritmo nelle opere dei moder­ ni. Ad altri però sembra vero il contrario, e cioè che l’arte è tanto più perfetta quanto più tiene fede ai suoi fondamenti e non li viola... Se la nuova arte parlasse solamente in modo speculativo di queste imperfezioni, sarebbe sopportabile; ma non è cosi perché tali imperfezioni vengono estese anche alla pratica». Conclude Jacobus Leodiensis, individuando chiara­ mente, seppur nel suo linguaggio, le tristi novità del nuovo stile, con precise accuse a musicisti ed esecutori: «essi cantano in modo troppo lascivo, moltiplicano le voci superflue, non la­ sciano più udire le consonanti, spezzettano, dividono e salta­ no con la voce su suoni inopportuni, urlano e latrano come ca­ ni, e come se amassero i tormenti più strani si servono di ar­ monie lontane dalla natura». Da queste espressioni cosf inci­ sive emergono chiaramente anche le ragioni dell’avversario: i musicisti dell’ Ars nova nei ritmi più complessi, nei più compli­ cati intrecci polifonici, avevano iniziato a ricercare, alla fine del Medioevo, una ragion d’essere della musica in quanto mu­ sica. [efcgv] 4. L ’« Ars nova » francese.

Fra le accuse sopra riportate rivolte da papa Giovanni XXII nella sua bolla ai cultori dell’Ars nova vi era quella che questi ultimi impegnavano «tutta la loro attenzione a misura­ re il tempo» e sostituivano i canti tradizionali «con altri com­ posti di brevi e semibrevi e di note quasi inafferrabili». Dalla generica polemica contro le innovazioni di tanto in tanto ri­ presa in causa dalla chiesa, il pontefice con queste parole scen­ deva ad un livello molto più specifico e tecnico. In effetti il nocciolo della novità dell’Ars nova, sul piano della notazione,

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con conseguenze che interessavano poi la composizione musi­ cale nel suo complesso, consisteva in una serie di suddivisioni ternarie (= perfette) o binarie (= imperfette) della lunga in brevi (= modus), delle brevi in semibrevi (= tempus) e delle semibrevi in minime (= prolatio) mediante simboli convenzio­ nali. Tra gli ormai superati modi ritmici e questo nuovo gene­ re di notazione vi erano stati passaggi intermedi. Un teorico, Franco di Colonia, aveva iniziato a svincolare dalle strutture modali i neumi semplici e quelli composti, le cosiddette li&iturae, mediante un ingegnoso sistema che permetteva di defini­ re i valori di lunga, breve e semibreve, e i loro reciproci rap­ porti proporzionali; un altro teorico, Petrus de Cruce, aumen­ tò il numero delle semibrevi fino a sette. Le successive inno­ vazioni degli arsnovisti rappresentarono quindi un definitivo approdo ad un principio di notazione mensurale molto simile a quello su cui si basa il sistema moderno, con l’indicazione di tempo in chiave; prova ne sia che uno dei simboli impiegati, il semicerchio che indicava il tempo imperfetto con prelazione imperfetta, vale a dire la suddivisione della breve in due semi­ brevi e della semibreve in due minime, è rimasto nella nota­ zione moderna per indicare il tempo comune di 4/4. La forma polifonica maggiormente coltivata da Philippe de Vitry e dalla sua cerchia era il motetto, prevalentemente su testo latino, che venne a sostituire il conductus nella sua fun­ zione di commento poetico-musicale dei fatti politici del tem­ po. Un certo numero di mottetti sono contenuti nelle aggiun­ zioni musicali al Roman dei Fauvel, un poema allegorico di Gervais du Bus che nel nome del protagonista racchiude un’allusione simbolica ai sette vizi capitali (E4UVEL = Haterie, Avarice, Uilanie, Varieté, Envie, Lacheté). Alcuni di que­ sti mottetti sono opera di Philippe de Vitry, che oltre ad esse­ re teorico insigne e musicista era anche celebrato poeta, tanto da esser considerato dal Petrarca, che gli era amico, il piu im­ portante poeta francese del suo tempo. Caratteristica comune di questi mottetti è l’impiego dell’isoritmia, un principio di strutturazione tematica delle voci realizzata combinando assieme ripetizioni di frasi melodiche (= colores) con ripetizioni di frasi ritmiche (= taleae}. Già in certi procedimenti ricorrenti nelle clausolae dell’Ars antiqua per allungare il tenor, come già si è visto nel precedente para­ grafo, si può intravedere un primo stadio di elaborazione di questo nuovo principio compositivo. Ma ora, nell’Ars nova, l’isoritmia viene ad assumere una particolare importanza e

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complessità coinvolgendo anche tutte le voci (tre o quattro) dei mottetti, e dando origine a strutture melodico-ritmiche quanto mai ingegnose. Nella sua essenza, questo nuovo prin­ cipio è una filiazione molto evidente di principi retorici de­ sunti dalla composizione poetica e da principi numerici de­ sunti dall’aritmetica con cui la musica condivideva l’apparte­ nenza al quadrivium-, e proprio questo rispecchiamento, nella musica, di un ordine razionale e immanente che la sorregge al­ la stregua di ogni altro fenomeno, naturale o artificiale, è una delle manifestazioni tipiche del pensiero medievale. Ma ciò che conta e che già anticipa i nuovi tempi è che la musica, nel­ la sua pratica compositiva colta, è sempre piu pensiero musi­ cale, sempre pili architettura sonora razionale. Proprio l’isoritmia, specialmente quando di 11 a poco comincerà a coinvol­ gere stabilmente non solo il tenor ma anche la voce limitrofa ( = contratenor), porrà le premesse per una funzione di auten­ tico sostegno da parte delle voci gravi dell’ordito polifonico, sopra le quali quella o quelle più acute, a seconda del loro nu­ mero, si muoveranno più velocemente creando una struttura­ zione polifonica di tipo «gerarchico», architettonico, che gli arsnovisti consegneranno ai fiamminghi. La produzione motettistica del più importante compositore francese di questo secolo, Guillaume de Machaut (1302 Reims 1377), presenta carattere di eccezionalità non solo per le sofisticate e complesse strutture isoritmiche, ma anche per­ ché buona parte di essa è su testo in volgare anziché in latino. La preferenza per il francese anche in un genere come il mot­ tetto, che nel xrv secolo fu coltivato prevalentemente su testo latino, si può almeno parzialmente spiegare tenendo conto del quadro globale della sua produzione, tanto musicale che poe­ tica e delle sue vicende biografiche. Nel corso della sua vita, anche dopo esser stato nominato canonico di Reims nel 1337, Guillaume de Machaut intrattenne stretti rapporti con grandi personaggi dell’epoca e delle loro corti (Giovanni di Lussem­ burgo re di Boemia, Carlo II di Navarra, Carlo duca di Nor­ mandia, poi incoronato come Carlo V, Giovanni duca di Ber­ ry). La sua produzione, poetica e musicale, pervenutaci in di­ verse raccolte da lui stesso curate e suddivise per generi, ri­ specchia, nelle forme e nei temi trattati, quell’ideale di «cor­ tesia» e di trasfigurazione poetica dell’amore, che aveva ispirato trovatori e trovieri. Alcuni titoli dei suoi componi­ menti poetico-letterari, già da soli, sono piuttosto significati­ vi: Dit de la fonteinne amoureuse, La louange des dames, Les

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biens que ma dame me fait. Il Remède de fortune è un trattato in versi sull’amore e sulla fortuna in cui è inserita una vicen­ da amorosa personale, cosi come il Livre de voir dit è un epi­ stolario amoroso tra l’ormai più che sessantenne poeta e mu­ sicista ed una sua giovane fiamma, Peronelle d’Armen tières. In entrambi i componimenti poetici sono interpolati brani musicali che nel primo caso si inseriscono nella trama narrati­ va, mentre nel secondo sono un complemento alle poesie d’a­ more inviate da Machaut alla giovane amante che, anch’ella dedita alla creazione poetica, lo ricambia con componimenti propri. Oltre a brani monodici come il lai, l’intonazione mu­ sicale di alcuni di questi componimenti comprende anche bal­ lades e rondeaux polifonici, dunque forme poetiche già coltiva­ te monodicamente dai trovieri. Già Adam de la Halle si era applicato al trattamento poli­ fonico del rondeau, con una serie di composizioni a tre parti in cui il testo era sottoposto alla voce centrale, sicché le due voci estreme si possono interpretare come un complemento stru­ mentale; già i trovieri avevano codificato la forma poeticomusicale della ballade e del rondeau nella loro versione mono­ dica, sostanzialmente riprese da Machaut con qualche modi­ fica (ad es. la riduzione del numero delle strofe della ballade a tre sole). Ciò che conta sostanzialmente, sotto il profilo musi­ cale, è che queste forme profane in mano a Machaut assumo­ no una veste polifonica nuova e complessa; il canto passa al duplum, che può essere integrato o meno con un triplum stru­ mentale, e poggia su un tenor spesso integrato da un contratenor, anch’essi di carattere strumentale. Arricchendosi delle innovazioni sperimentate nell’ambito del motetto, quelle for­ me che nella tradizione trovierica assolvevano ad una funzio­ ne di danza (virelai compreso, di cui Machaut ci ha lasciato qualche esempio polifonico) assurgono ora ad un rango cultu­ rale più elevato, trasformandosi in sofisticate forme d’arte. Fra i sottili artifici che la ballata di Machaut eredita dal motetto, vi è quello della citazione di frammenti poetici e mu­ sicali di composizioni altrui, attuata fin dal secolo preceden­ te; cosi come nel caso' specìfico del mottetto cosiddetto enté (= letteralmente «innestato», «incastonato», dal verbo «en­ ter») erano inseriti, specialmente nelle sezioni estreme, re­ frains di composizioni monodiche celebri, ora Machaut inse­ risce in alcune sue ballades testi musicali altrui creando il ge­ nere della ballade enté. In due casi si tratta del refrain di un rondeau di Adam de la Halle, mentre in un terzo, di una ci­

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tazione tratta da una ballade di un suo piu anziano collega, Jean de la Mote. Al di là del fine gioco intellettuale connesso alla citazione, questa moda che dal motet enté del secolo xm e dalla ballade enté di Machaut si prolungò nel tempo, traendo citazioni dallo stesso Machaut, è segno di una verità più im­ portante e profonda: oltreché a sancire la fortuna di una com­ posizione musicale, rappresenta una forma di cortese omaggio nei confronti del compositore, stabilendo un legame tra le di­ verse generazioni ed una continuità all’interno della tradizio­ ne; è, insomma, il sintomo di una larvale coscienza storica che la musica, anche se ancora in un corto raggio, si sta lentamen­ te conquistando, naturalmente in stretta connessione con il testo letterario che la sottende e con la relativa fama ad esso connessa in quel legame inscindibile tra queste due facce della stessa medaglia. Una quarta ballade enté di Machaut presenta una citazione ancor più curiosa e particolare. Si tratta questa volta dell’ini­ zio di una chace dei primi anni del secolo, che a sua volta prendeva a prestito il tema da composizioni del secolo prece­ dente. All’epoca la denominazione di chace (= caccia), proba­ bilmente traendo spunto dall’immagine venatoria della preda inseguita dai cani e dal cacciatore, era attribuita ad una parti­ colare prassi esecutiva che consisteva nella ripresa imitativa, a due o tre voci, dello stesso tema, che veniva cosi elaborato a canone. Lo stesso Machaut ci ha lasciato alcuni esempi di chaces, richiedendo espressamente questa prassi esecutiva per le strofe pari del Lay de la fontaine. La raccolta di opere poetico-musicali di Guillaume de Ma­ chaut, oltre ai generi ed alle forme profane monodiche e poli­ foniche, comprende un’intera messa polifonica - cioè l’into­ nazione polifonica delle parti àeXV Ordìnarium missae - che presenta un’enorme importanza storica perché è il primo esempio pervenutoci di questo genere liturgico composto po­ lifonicamente da un solo autore. Altri codici della prima metà del secolo xiv ci hanno tramandato alcune messe anonime non tutte complete, che sono frutto della collazione di movi­ menti sparsi scelti secondo il criterio di una certa qual compa­ tibilità stilistica ed esecutiva. Queste messe, pervenuteci da manoscritti conservati in diverse città della Francia e della Spagna (Tournai, Tolosa, Barcellona, alla Sorbona di Parigi), assieme a due codici custoditi ad Ivrea e ad Apt che contengo­ no versioni polifoniche di parti àeXV Ordinarium raggruppate singolarmente secondo il testo liturgico (i Gloria tutti assie-

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me, e cosi via), e che appartengono al repertorio di Avignone degli anni dell’esilio del papa e della sua cappella musicale, di­ mostrano quanto poco o nulla le censure di papa Giovanni XXII abbiano potuto frenare il processo di rinnovamento sti­ molato dall’Ars nova. Anzi, come dopo un secolo di latenza della produzione sacra - stando almeno alle fonti documenta­ rie - il motetto in tutte le sue diverse manifestazioni stilisti­ che e strutturali, abbia prodotto una rinascita creativa anche nell’ambito della musica sacra liturgica. Non sappiamo esattamente l’occasione per cui fu composta la Messe de Notre-Dame di Machaut, anche se diverse ipotesi sono state avanzate tra cui alcune connesse a vicende storiche dell’epoca. Ad un Kyrie, Sanctus, Agnus Dei e Ite missa est or­ ganizzati isoritmicamente, fa riscontro un Gloria ed un Credo i cui testi relativi sono articolati in diverse sezioni di lunghez­ za pressoché simile in ognuno dei due (tranne l’fò in terra del Gloria) separati da interludi privi di testo alle due voci gravi sole (tenor e contra tenor). I due Amen finali ricollegano que­ ste due parti allo stile generale della messa: quello del Credo, ritornando ad una struttura rigorosamente isoritmica; quello del Gloria, invece, è ritmicamente mosso da diversi proce­ dimenti fra cui Voquetus. Veniva attribuito questo nome (= letteralmente «singhiozzo») ad un particolare procedimen­ to contrappuntistico che consisteva nel far coincidere ad una pausa in una voce una o più note in un’altra, e viceversa, in un’alternanza che interrompeva il normale andamento ritmi­ co animandolo con questi «singhiozzi». Ricorreva per lo più nelle voci acute di un brano polifonico concepito secondo i normali criteri compositivi dell’epoca, ma poteva anche essere impiegato nel corso di un intero brano che allora derivava il nome dal procedimento stesso, come è il caso AeWHoquetus David di Machaut, a tre voci prive di testo. E stata diverse volte sollevata dagli studiosi la questione se la Messe de Notre-Dame contenesse o meno elementi tematici unificanti tali da poterla considerare oltreché la prima messa polifonica composta da un unico autore, anche il prototipo di un’organizzazione ciclica del genere liturgico quale si incon­ trerà presso i maestri fiamminghi. Una risposta affermativa la spingerebbe forse, antistoricamente e forzosamente, troppo oltre il suo tempo, in cui l’unità era ricercata e raggiunta me­ diante principi diversi, non dinamici ma statici, come l’isoritmia. Forse si può considerare come risposta indiretta questa frase di un grande studioso tedesco (H. Besseler), che in po­

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che parole riassume il senso musicale di un’intera epoca: «La musica [all’epoca dell’Ars nova\ era già in grado di rappresen­ tare con il suo linguaggio simbolico l’armonia e la struttura del mondo, non ancora il regno dell’uomo con le sue forze morali e intellettuali», [gv]

5. L ’« Ars nova » italiana. Mentre per la Francia l’uso di attribuire alla fioritura mu­ sicale del Trecento la denominazione di Ars nova trova la sua giustificazione nel titolo dei trattati menzionati e dal fatto che era esistita un’Ars antiqua, l’attribuzione della medesima eti­ chetta al Trecento italiano è una convenzione terminologica entrata nell’uso comune per lo sviluppo cronologicamente pa­ rallelo e per certe analogie che l’Ars nova italiana presenta con quella francese. Prima fra tutte l’elaborazione di un sistema di notazione mensurale tipicamente italiano. Le prime esplica­ zioni di tale sistema, in parallelo con quella del sistema fran­ cese, ci sono state tramandate da alcuni trattati dell’inizio del xiv secolo, fra cui quello di un teorico compositore, Marchet­ to da Padova (intitolato Pomerium artis musicae mensurataè} redatto poco dopo quelli degli arsnovisti francesi; sistema che fu poi ampliato e rielaborato mediante una suddivisione pro­ gressivamente decrescente dei valori di divisiones o mensure che traggono la denominazione dalla composizione numerica degli schemi ritmici derivati dalla suddivisione binaria (donde quaternaria, senaria imperfecta e ottonaria} e ternaria (donde se­ naria perfetta, novenaria e duodenaria} dei valori. La prima vistosa differenza dell’An nova italiana rispetto a quella francese è però la mancanza di un’analoga Ars antiqua alle sue spalle. Nonostante le ricerche musicologiche di questi ultimi decenni abbiano cominciato a riportare alla luce un cer­ to numero di fonti musicali italiane, teoriche e pratiche, del xm secolo, che modificano parzialmente quell’impressione di isola improvvisamente emersa e nuovamente inabissata che I’An nova italiana aveva fatto agli storici di un passato ancora piuttosto prossimo; sebbene maggiormente chiari risultino certi legami annodati con l’An nova francese in quei centri di scambi culturali internazionali che erano le Università (di Pa­ dova, Bologna, Firenze, Perugia, donde provenivano e donde si formarono numerosi arsnovisti italiani), rimane pur sempre il fatto che l’Ars nova italiana presenta caratteri cosi partico­

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lari ed autonomi rispetto alla cultura francese, da risultare an­ cora oggi un problema storico inquietante, specialmente per quanto riguarda le sue origini. Cosi come nella contemporanea tradizione francese, anche in quella italiana l’Ars nova rappresentò un fenomeno cultura­ le ed artistico quanto mai elitario ed esclusivo in una civiltà musicale che per le sue funzioni piu consuete e quotidiane si serviva ancora prevalentemente della monodia. Uno dei mi­ steri dell’improvvisa comparsa delT/lrs nova italiana deriva poi dal fatto che, essendo mancata in Italia, come già si è vi­ sto, una tradizione monodica autenticamente profana analoga a quella dei trovatori e dei trovieri, essa sembrò sbocciare co­ me un fiore nel deserto; un deserto che sicuramente non fu ta­ le ma che appare tale se si tien conto unicamente delle fonti musicali dirette che nel caso dell’Xrs nova, come del resto in quello della monodia profana, sono raccolte antologiche pri­ vate costituite secondo un criterio selettivo del repertorio. C’è tutta una storia nascosta che nessuna fonte musicale di­ retta ci potrà riconsegnare perché si svolgeva nei modi e nei tempi propri della tradizione orale, e che si può ricostruire in­ vece sulla base delle fonti secondarie che musicologi e storici vanno ricercando, vagliando e collazionando per cercare di abbozzare un disegno più completo del mosaico della storia della musica di cui fenomeni come l’Xrs nova rappresentano una percentuale piuttosto ridotta di tessere. Se da un piano culturale generale si passa a quello più par­ ticolare della forma, delle strutture e del linguaggio, sono più le differenze che separano due movimenti artistici paralleli di quanto non siano le affinità che intercorrono tra loro. L’Ars nova italiana fiori in due momenti e in due luoghi distinti. In un primo periodo, databile attorno al ventennio compreso tra il 1340 ed il 1360, sono certe corti lombarde e venete come quelle degli Scaligeri a Verona e dei Visconti a Milano, ad ospitare i compositori di questo nuovo genere di musica, i cui testi riprendono prevalentemente argomenti legati all’amor cortese. Giovanni da Cascia, Jacopo da Bologna e Piero sono i primi arsnovisti rappresentati nella più antica raccolta che ci è pervenuta, il codice Rossi, conservato alla Biblioteca Vati­ cana. La forma maggiormente trattata è quella del madrigale, la cui etimologia controversa e misteriosa ha dato origine ad ipotesi diverse fra cui quella che lo vorrebbe derivato da «ma­ trice» o da «madre» (= matricale) sembra oggi godere mag­ gior credito. Sotto il profilo poetico, la sua forma più st andar-

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fig. 6

CAPITOLO TERZO

dizzata consiste in una successione di tre terzine di endecasil­ labi seguite ancora da una coppia di endecasillabi. Per quan­ to riguarda la forma musicale, ad ogni terzina corrisponde la medesima intonazione, mentre il ritornello finale ne ha una diversa. Sotto l’aspetto polifonico, invece, consiste nella com­ binazione di due parti vocali di cui quella acuta è piuttosto fiorita. Diversi madrigali di questo periodo sono collegati dal­ la ricorrenza di situazioni e di immagini poetiche simili. Alcu­ ni, ad esempio, parlano di un «periato» all’ombra del quale sosta una dama di nome Anna, indicata anche con un « senhal», e cioè con il nome nascosto fra le parole, un artificio ti­ pico della poesia trobadorica; è molto probabile che si tratti di elaborazioni diverse di un medesimo tema proposto nel corso di gare poetico-musicali che si svolgevano alla corte veronese di Mastino Della Scala, di cui abbiamo notizie dalle cronache dell’epoca. In uno di questi, All'ombra di un perlaro, opera di Piero, nel ritornello finale vi è un breve canone. Dall’inseri­ mento di episodi imitativi tra le voci del madrigale nacque la forma della caccia che, sebbene presenti una denominazione equivalente a quella della chace francese ed un analogo carat­ tere imitativo, si differenzia però da quella per diversi aspetti. Innanzitutto nell’Ary nova italiana non è una prassi esecutiva, bensf una forma musicale a tre voci con le due superiori che procedono a canone e quella inferiore che funge invece da so­ stegno. Ma ciò che più conta è che nelle cacce italiane, e mas­ simamente in quelle di Piero, che dimostrò una particolare predilezione nei confronti di questa forma, il canone fra le vo­ ci è usato per raffigurare realisticamente il contenuto testuale che, in forma dialogica, descrive scene di caccia, pesca e si­ mili. Il secondo periodo dell’Ari nova italiana, che comprende l’ultimo terzo del secolo, si svolge a Firenze. Da un ambito cortese ci troviamo cosi nel cuore della civiltà comunale, nel centro culturale più importante d’Italia. La musica misurata intonata su testi profani serve ora per il diletto di una cerchia di intellettuali di formazione culturale ecclesiastica (diversi compositori appartenevano al clero) che traggono uguale pia­ cere dal novellare e da discussioni dotte, da ragionamenti sot­ tili; là cornice ideale per questi incontri è quella descritta da Giovanni Gherardi da Prato nel Paradiso degli Alberti in cui campeggia la figura del più importante musicista di questo periodo, Francesco Landino (ca 1335 - Firenze 1397), organista e compositore cieco, che condusse al più alto grado di svilup­

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po la forma che ora ha preso il sopravvento su tutte le altre, quella della ballata. Sono ora gli stessi letterati e poeti, come Franco Sacchetti, a fornire i testi ai musicisti perché li rivesta­ no di intonazioni polifoniche; intonazioni che, nel caso di Francesco Landino, oltre ad essere realizzate a due voci, in numerosi casi raggiungono anche le tre con diversi tipi di combinazioni fra esse, o solamente vocali, o vocali e strumen­ tali fra cui quella di canto con tenor e contratenor strumenta­ le in uso presso i francesi. Cosi come il madrigale con la sua forma strofica ininterrot­ ta e il coronamento del distico finale si prestava bene alle fi­ nalità narrative cortesi cui doveva assolvere rappresentando in un certo senso un pendant italiano autonomo del motetto francese, ora la ballata con la ripresa che, dopo due piedi into­ nati su un diverso tema e una volta, ricorreva a guisa di ritor­ nello prestando il suo tema anche a quest’ultima sezione della stanza, rivaleggiava con le contemporanee forme francesi per eleganza e complessa struttura formale, e si prestava a mera­ viglia a svolgere la funzione di intrattenimento cui era desti­ nata. Ma la forma italiana, pur avendo anch’essa ambizioni intellettuali, pur tendendo anch’essa ad una sua subtilitas che faceva parte integrante di quest’arte preziosa, aveva una qua­ lità sonora sua propria che solamente un termine può esprime­ re pienamente: quella dulcedo che le derivava dal connubio con la lingua che Dante, all’inizio del secolo, aveva reso cosi levigata e soave, [gv]

Capitolo quarto

La musica nell’umanesimo e nel Rinascimento

i.

L "epoca del mecenatismo e il concetto di Rinascimento.

I quattro secoli di storia musicale che vanno dagli inizi del Quattrocento alla fine del Settecento, sono caratterizzati, per quanto riguarda la storia delle arti e della musica in particola­ re, da quel complesso fenomeno sociale, economico e cultura­ le che va sotto il nome di «mecenatismo». Nella sua accezione piu elementare la parola «mecenate» indica colui che per amore della cultura finanzia attività artistiche o le rende pos­ sibili col suo denaro. Ma per definire i mecenati di quei quat­ tro secoli quest’accezione elementare non basta. Anzitutto i mecenati di quest’epoca non solo possedevano denaro, ma erano anche i detentori del potere politico; mecenate era l’im­ peratore, il re, il principe, il signore, chiunque insomma aves­ se autorità e dominio su un territorio più o meno vasto. E an­ che le grandi famiglie nobiliari che pur non essendo detentrici del massimo potere politico, avevano tuttavia le carte in rego­ la per ottenerlo alla prima buona occasione o per contenderlo a chi lo possedeva, entravano nel mondo dei mecenati effetti­ vi. C’è poi un secondo aspetto da tenere in considerazione: il ceto nobiliare di quest’epoca, che basava le sue fortune so­ prattutto sul possesso di grandi proprietà terriere, aveva del denaro una concezione diversa da quella della borghesia, che accumula denaro per investirlo in attività produttive. Dagli aristocratici il denaro era soprattutto usato come strumento di potere e di privilegio: serviva a procurarsi armi ed eserciti in caso di guerra e a costruire dimore sontuose che simboleggias­ sero l’altezza del proprio status sociale. Ma c’è un terzo aspet­ to ancor più importante ed è quello che si riferisce al potere culturale, intendendosi per cultura sia il sapere, l’informazio­ ne, l’erudizione, sia la possibilità di produrre e far accettare socialmente ideologie e schemi di pensiero, sia infine la possi­ bilità di elaborare stili di vita, regole di comportamento, gusti estetici capaci di simboleggiare la distinzione spirituale della

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propria classe. Appunto il possesso di un potere culturale in­ teso in questo senso ampio spiega e giustifica la pratica del mecenatismo: la corte o la casa principesca poteva diventare un centro autentico di produzione culturale solo se aveva a di­ sposizione e al proprio servizio le persone delegate a produrre cultura, cioè gli intellettuali. E infatti nelle corti e nelle fami­ glie nobili si concentravano studiosi, letterati, filosofi, scien­ ziati, artisti, musicisti legati in forme diverse agli interessi cul­ turali, sociali e politici del signore che ne era il mecenate. Le attività musicali e i musicisti che le praticavano parteci­ pavano ovviamente a questo processo. La musica, come pra­ tica di diletto quotidiano e persino come strumento di educa­ zione profonda dell’animo, ebbe una presenza continua nel mondo aristocratico. Le pagine che nel Cortegiano Baldesar Castiglione dedica nel 1528 alla musica, nel tracciare l’ideale del perfetto uomo di corte colto e raffinato, ideale etico ed estetico al tempo stesso, sono tra le piu significative scritte sull’argomento: il perfetto cortegiano infatti non può non essere esperto anche di musica cioè saper cantare e saper suonare vari strumenti, «perché se ben pensiamo, niuno riposo di fatiche e medicina di animi infermi ritrovar si può piu onesta e laudevole di que­ sta (cioè della musica): e massimamente nelle corti dove, oltre al refrigerio de’ fastidi, che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satifar alle donne, gli animi delle quali, tene­ ri e molli, facilmente sono dall’armonia penetrati e di dolcez­ za ripieni...» Scopo del canto infatti è comunicare una dolcezza che «in­ tenerisce e penetra le anime, imprimendo in esse soavemente una dilettevole passione». Nelle pagine di Baldesar Castiglione si delinea dunque la fi­ gura di un «cortigiano», di un gentiluomo di corte, che è an­ che « dilettante » di musica, che suona o canta per il proprio piacere ma anche perché la musica addolcisce e affina lo spiri­ to. E infatti non è difficile annoverare non solo fra i cortigia­ ni, ma fra gli stessi principi, molti esempi di appassionati di musica o di veri e propri musicisti. Ma un altro aspetto storicamente assai importante è legato alla pratica del mecenatismo: nel momento in cui il cantore, lo strumentista o il maestro di cappella viene assunto al servizio di un signore e la sua qualità di musico viene riconosciuta de­ gna di un compenso economico fisso, la musica diventa una vera e propria professione. Ciò trasforma profondamente il

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CAPITOLO QUARTO

ruolo e lo status sociale del musicista. Fino al secolo xiv i mu­ sicisti potevano infatti appartenere a due categorie ben diver­ se: da una parte c’erano coloro che consideravano la musica come un «otium» (oggi si direbbe che la coltivavano «per hobby») rispetto alla loro attività quotidiana di studenti, di canonici, di giuristi, di diplomatici, di uomini di cultura (Guillaume de Machaut per esempio apparteneva a questa ca­ tegoria) e d’altro lato c’erano i musicisti pratici, i giullari, gli esecutori di musiche per danza, che erano di solito illetterati, che imparavano per tradizione orale, e che in genere erano confinati agli ultimi gradini della gerarchia sociale. La scarsa considerazione in cui per tradizione era tenuto il lavoro manuale rispetto a quello intellettuale, la diffidenza della chiesa nei confronti di un’arte che sembrava rivolgersi più ai sensi che all’intelletto, il prevalere delle lettere rispetto alle altre arti, l’idea che il musicista pratico esercitasse una funzione prevalentemente meccanica e manuale, tutto ciò contribuì a consolidare questa emarginazione sociale del mu­ sicista durante tutto il Medioevo e oltre. Per di più il musici­ sta girovago di corte in corte, seppure apprezzato per i suoi insostituibili servigi, contribuiva all’immagine di una figura socialmente subordinata e non paragonabile in alcun modo a quella del poeta o del pittore. Il processo storico che portò al riconoscimento di una dignità artistica all’operare del musici­ sta fu pertanto assai lungo e travagliato; solo a partire dall’e­ poca del mecenatismo si può dire che incomincia a farsi strada l’idea che il musicista e l’esecutore esercitano un’attività arti­ stica e che il loro mestiere può assurgere ad una dignità sociale pari a quella dei suoi colleghi. Nella misura in cui l’interesse dell’uomo colto non è più interamente soddisfatto dall’ascolto di musica liturgica nelle chiese, si creano e si moltiplicano i luoghi d’ascolto e di esecuzione nelle corti, nei palazzi nobilia­ ri, nei salotti aristocratici; il musicista in queste nuove aree d’ascolto viene in parte sottratto alla dimensione del mestiere e della routine. Molti musicisti, sia compositori, sia esecutori si elevano dalla umile posizione del mestierante a quella del professioni­ sta e non di rado acquistano una vera e propria popolarità. Nel Cinquecento il musicista è ormai un uomo degno di am­ mirazione, di rispetto e a volte è rinomato e famoso ben al di là dell’area geografica in cui opera. I castrati, che già nel 1562 erano entrati a far parte del coro della cappella pontificia, era­ no tenuti in alta considerazione e apprezzati per le loro doti

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vocali, per la loro impeccabile tecnica, in altre parole per il lo­ ro professionismo. Anche i suonatori di strumenti (liuti, viole, organi ecc.) erano contesi tra una corte e l’altra e godevano di notevole prestigio. A partire da quest’epoca ai grandi musicisti si cominciano anche a riconoscere facoltà straordinarie e il loro nome viene ricordato come raramente prima accadeva. Tuttavia la libertà di scelta stilistica di cui il musicista apparentemente godeva, non era affatto assoluta. Il potenziale o reale ascoltatore delle sue opere non era la società nel suo complesso ma la nobiltà di corte o di chiesa (a cui egli per nascita non apparteneva) che lo assumeva alle sue dipendenze e lo retribuiva per ottenerne opere funzionali ai suoi fini. Gli stessi contenuti espressivi dovevano appartenere alla sfera culturale del committente e rifletterne i valori. E spesso non solo rifletterli, ma esaltarli, suscitando meraviglia. Cosi i generi musicali praticati dai compositori europei dal xv al xvin secolo si adeguarono alle necessità rituali, religiose o profane, alle celebrazioni e alle fe­ ste in cui si consacrava e si ufficializzava il potere della chiesa, dello stato, o anche del principe o della singola famiglia nobi­ le. La musica di tutta l’epoca del mecenatismo è dunque un prodotto artistico che riflette fondamentalmente i modi di pensiero, i sistemi di valore, le prospettive culturali della so­ cietà aristocratica di quei secoli. Ma la pratica del mecenatismo, e in particolare la trasfor­ mazione della corte in un luogo di produzione culturale, di diffusione di idee, di gusti, di modelli di comportamento, por­ ta con sé altre conseguenze, certamente assai piu rilevanti di quelle fin qui elencate. Per tutto il Medioevo i grandi centri di produzione culturale erano nati e cresciuti all’ombra e sotto il controllo della chiesa, anche perché le piu importanti biblio­ teche erano di solito custodite nei monasteri. Centri di cultu­ ra esistevano anche fuori dalla chiesa, ma non erano mai riu­ sciti a metterne in forse il dominio ideologico nella società. A partire dal xiv e soprattutto dal xv secolo l’asse culturale co­ mincia invece a spostarsi decisamente verso la sfera del potere nobiliare che acquistai poco a poco la capacità e il prestigio sufficienti per porsi come nuovo centro di diffusione ideolo­ gica e per delineare un nuovo modello di ideale umano diver­ so da quello che la chiesa aveva creato e diffuso nei secoli pre­ cedenti e indipendente da essa. In altri termini, ciò che piu profondamente caratterizza il periodo storico di cui ci stiamo accingendo a parlare e che lo

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CAPITOLO QUARTO

differenzia rispetto ai secoli precedenti è la nascita e la sem­ pre piu esplicita affermazione di una sfera culturale laica, au­ tonoma o relativamente autonoma rispetto a quella ecclesia­ stica. La chiesa stessa non sembra inizialmente rendersi conto dell’entità di questo scontro di poteri, anzi entro certi limiti partecipa essa stessa a questa trasformazione, quando ad esempio i principi della chiesa si comportano essi stessi da me­ cenati e da promotori di cultura umanistica. Solo nel Cinque­ cento, allo scoppio della riforma protestante e delle relative guerre di religione, si renderà conto della sua caduta di presti­ gio e dei pericoli ad essa connessi e porrà mano a quel grande processo di ripensamento della propria tradizione di pensiero e di ristrutturazione del proprio sistema di potere che va sotto il nome di Controriforma. La prima fase di questo lungo processo ebbe luogo inizial­ mente in Italia ed è quello che gli storici indicano con il nome di Rinascimento intendendo con questo termine il periodo che abbracciò grosso modo i secoli xv e xvi. La spinta propulsiva iniziale al movimento rinascimentale fu data da quella particolare tendenza della cultura del Tre­ cento e del Quattrocento che viene definita con il termine di Umanesimo. Per Umanesimo si intende la riscoperta della ci­ viltà greca e latina: lo studio filosofico dei vecchi codici, la ri­ lettura del pensiero dei grandi filosofi antichi, la valorizzazio­ ne dei resti archeologici, della scultura e dell’architettura, il ritrovato gusto per la poesia classica e per gli ideali di bellezza e di sensualità che vi erano esaltati. Quando si pensa al Rinascimento nei termini di un gran­ dioso fenomeno storico che ha investito globalmente il corso della civiltà prima italiana e poi europea a partire dalla fine del xiv secolo sino alla fine del xvi, lo si identifica con un im­ provviso risveglio delle arti, della filosofia, delle scienze e del­ la cultura in generale, dopo un lungo periodo di sonno durato oltre dieci secoli. A creare questa immagine stereotipa del Ri­ nascimento hanno contribuito gli stessi uomini di quei tempi avvalorando l’idea di una ripresa del corso della civiltà, inter­ rotta per lunghi secoli e che ora si riallacciava alle sue fonti originarie, alle sue radici tagliate, cioè alla civiltà greca, mo­ dello ineguagliabile a cui far riferimento. L’affermarsi della classicità come immagine mitica di una perfetta civiltà esteti­ ca, come modello per la nuova cultura del Rinascimento ebbe pertanto profonde ripercussioni su tutto lo sviluppo artistico di quest’età. Se una differenza profonda vi è tra la civiltà me­

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dievale e quella rinascimentale non è certo da ravvisarsi nel diverso grado di perfezione estetica tra le due epoche ma piut­ tosto nel diverso modo di vivere l’idea dell’antichità classica. L’uomo di cultura nel Medioevo riteneva di porsi nella prose­ cuzione di una civiltà piu antica, che doveva essere imitata e perfezionata, utilizzata quando era il caso, rinnovata alla luce dei nuovi valori propri della civiltà cristiana; l’antichità non era perciò rifiutata ma doveva essere vista come una tappa dello sviluppo dell’umanità, superata ormai dalla nuova civil­ tà. L’uomo del Rinascimento aveva una visione totalmente diversa dello sviluppo storico: considerava il Medioevo come una frattura nello sviluppo della civiltà, frattura che doveva e poteva essere ricucita, ritrovando la via maestra nei grandi e ineguagliabili modelli dell’arte e della civiltà greca. Nasceva pertanto il concetto di classicità che avrà un peso determinan­ te nello sviluppo successivo di tutte le arti. Ma se questo di­ scorso può avere una validità, anche se molto generica per quanto riguarda le arti figurative, l’architettura e in parte an­ che la letteratura, molto più problematico si presenta per ciò che riguarda la musica. Infatti l’idea stessa di Umanesimo è nata nell’ambito della cultura letteraria anzitutto e poi figura­ tiva; ma è stata del tutto estranea, sino alla fine del Cinque­ cento, alla musica. Umanesimo significa acquisire una co­ scienza della propria storicità, di una propria linea di sviluppo da coltivare e da perseguire. Proprio questa coscienza per più di un motivo non è stata fatta propria dal mondo della musi­ ca. Per avere una coscienza della propria storicità anzitutto bisogna possedere i documenti del proprio passato, potere istituire dei modelli, dei confronti, degli ideali di perfezione. Si è già detto che della classicità greca non esistono praticamente documenti musicali; tutt’al più esiste una confusa e dif­ ficilmente interpretabile tradizione teorica. E quasi altrettan­ to può dirsi dei lunghi secoli del Medioevo. Del canto grego­ riano e dei primi secoli della polifonia ben pochi sono i docu­ menti attendibili e sicuramente decifrabili. Il sorgere in tempi cosi tardi di una notazione musicale è stato causa ed effetto al tempo stesso di questa mancanza di coscienza storica e dell’e­ sistenza tutt’al più di una tradizione orale che come sempre accade è importante ma non rappresenta il concretarsi di una visione storica, proprio per il suo carattere intrinsecamente atemporale. Di consueto le storie della musica seguono lo svolgimento delle altre storie delle arti sorelle, per cui sono di­ vise secondo lo schema Medioevo, Rinascimento, Barocco

~]G

CAPITOLO QUARTO

ecc. Ma in realtà si tratta di una periodizzazione che solo con un certo artificio si può applicare meccanicamente alla storia della musica; tanto è vero che alcuni storici hanno proposto altre periodizzazioni che parevano essere più adeguate alla materia trattata: Alfred Einstein, ad esempio, fa iniziare il Ri­ nascimento nel Cinquecento prolungandolo sino a Gluck e al classicismo viennese; d’altra parte parecchi altri storici retro­ datano l’inizio del Rinascimento all’Xr? nova. Inoltre bisogne­ rebbe ancora distinguere tra le varie aree geografiche e in par­ ticolare tra il Sud dell’Europa e il Nord. Infatti secondo molti storici non si dovrebbe neppure parlare di Rinascimento per quanto riguarda il Nord Europa (Germania, Paesi Bassi e Nord della Francia), mentre per l’Italia sarebbe più plausibile parlare di Rinascimento, anche se con una sfasatura rispetto alle altre arti. Non è qui il caso di addentrarci nella complessa problematica storiografica inerente tale età; tuttavia la dispa­ rità di vedute degli storici al riguardo lascia perlomeno intuire che vi è una reale difficoltà nell’applicare alla musica periodiz­ zazioni che sono nate per altre arti. In effetti se l’idea di una rinascita della cultura e delle arti è strettamente legata alla ri­ presa e all’imitazione del modello classico greco, si può parla­ re di un Rinascimento della musica solo nella seconda metà del Cinquecento quando il nuovo spettacolo teatrale che poi diventerà «melodramma» venne teorizzato come esempio di rinascita del teatro tragico greco. Tuttavia vi è un senso più ampio e forse più vago del termine Rinascimento: esso può es­ sere semplicemente inteso come un fenomeno di fioritura più intensa delle arti, legato alla diffusione della cultura di corte. Certamente per quanto riguarda la musica è difficile eviden­ ziare una radicale frattura rispetto ai secoli precedenti. In ef­ fetti la grande svolta stilistica che ha contrassegnato l’avvento del Rinascimento nell’architettura o nella pittura, cioè il pas­ saggio dal gotico allo stile classico, nella musica ha avuto ma­ nifestazioni assai meno nette: la polifonia ha proseguito nella sua strada, ampliando le sue forme, arricchendole sia nell’am­ bito del genere sacro che del profano ma senza nessuna svolta radicale fino alla fine del xvi secolo con l’avvento della mono­ dia accompagnata, quando il Rinascimento era ormai alla fine della sua parabola. Perciò l’epoca compresa tra l’Xrs nova e l’invenzione del melodramma potrebbe anche essere chiamata l’età della polifonia, come hanno suggerito alcuni storici. [MBeEF]

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2. L "Europa musicale del Quattrocento.

Per circa due secoli, dagli inizi del Quattrocento alla fine del Cinquecento, la vita musicale europea è dominata da com­ positori e cantori provenienti da zone dell’Europa nord occi­ dentale. La molteplicità dei termini usati per denomina­ re questa «scuola» musicale (fiamminga, franco-fiamminga, fiammingo-borgognona) deriva soprattutto dalla difficoltà di designare con un nome moderno una regione che aveva allora un assetto geografico e storico politico totalmente diverso da quello odierno. L’area che si deve indicare comprende la zona (per buona parte di lingua fiamminga) dell’attuale Olanda, Belgio e Lussemburgo, ma anche una fascia di territorio che oggi appartiene al nord della Francia, con le città di Cambrai e di Lille. Per di più c’è da aggiungere che nel corso del Quat­ trocento il ducato di Borgogna (originariamente confinato fig. 7 nella regione omonima della Francia centro orientale, con ca­ pitale Digione) esercitò una fortunata politica espansionisti­ ca nei confronti di tutta quest’area annettendosela in buona parte. I vari duchi di Borgogna contribuirono alla prosperità di questa regione amministrandola oculatamente e favorendo­ ne le attività economiche. Ne trassero ovviamente anche enormi profitti, parte dei quali investirono in attività artisti­ che e nei fasti di una corte splendida e nutrita di ideali umani­ stici, che volta a volta trasferirono in vari centri del nord, co­ me Lille, Bruges e Bruxelles. Per quanto riguarda le attività musicali, la fortuna della scuola franco-fiamminga è soprattutto legata alle cattedrali gotiche che furono costruite in gran numero nelle città di quella zona a partire dal xiv secolo. L’organizzazione delle cattedrali prevedeva che per il servizio liturgico venissero se­ lezionati pueri cantores dell’età di 8 o 9 anni ai quali veniva fornita un’accurata istruzione non solo nel canto, ma più in generale nello studio del contrappunto e della composizione, oltre che nella conoscenza della lingua latina e dei fondamenti del sapere dell’epoca. In sostanza le varie cattedrali (famose quelle di Cambrai e di Liegi) funzionavano come vere e pro­ prie scuole di altissima qualificazione. La presenza di un vi­ vaio cosi ricco di talenti accuratamente educati attirò subito l’attenzione di molti principi europei: fin dalla fine del xiv se­ colo si trovano cantori fiamminghi alla corte di Aragona e a quella papale di Avignone. Nel secolo seguente la mirabile

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qualità professionale di questi musicisti è un dato ormai uni­ versalmente riconosciuto e anche in alcune corti e nelle prin­ cipali cattedrali italiane la loro presenza diventa sempre piu consistente. Nella fase più splendida dell’ideologia umanistica, nel xv secolo, le corti italiane coltivarono una singolare forma di ideale utopico che consisteva nella sperimentazione di una sorta di nuovo modello di uomo a cui i pensatori e gli artisti dovevano dare il loro apporto essenziale. I filosofi immagina­ vano e descrivevano un’umanità diversa, dotata di un supe­ riore grado di armonia fra corpo e anima (da intendersi come riflesso dell’armonia naturale dell’universo), gli artisti dove­ vano raffigurare e rendere viva questa umanità nelle loro im­ magini e nelle loro fantasie. Le cerimonie, le feste, le celebra­ zioni musicali erano.occasioni in cui tali fantasie prendevano corpo e la loro frequenza e magnificenza aumentavano il pre­ stigio della corte che le organizzava. A questo nuovo ideale di uomo i musicisti fiamminghi dettero un contributo non se­ condario. Fra gli ultimi decenni del Trecento e i primi del Quattrocento il panorama delle tendenze stilistiche è caratterizzato in tutta Europa dalla diffusione delle tecniche dell’Ars nova francese. La sottile arte combinatoria con cui i musicisti orga­ nizzavano le durate delle note della melodia e i sistemi «iso­ ritmici» che adottavano per imporre alle loro composizioni strutture geometricamente governate, tesero a ridursi in molti casi all’esibizione di un sapere esclusivo e fine a se stesso, al gusto dell’artificio manieristico, anche in Italia e in Inghilter­ ra dove i modi di cantare erano tradizionalmente più semplici e meno intellettualizzati. Agli inizi del Quattrocento, forse anche in relazione con l’occupazione della Francia da parte degli eserciti inglesi nel corso della Guerra dei Cent’anni, si fa tradizionalmente risa­ lire la diffusione di elementi dello stile inglese nel continente (la «contenance angloise», come la chiamavano i contemporanei). John Dunstable (ca 1380 - Londra 1453), il più illustre compositore inglese di quegli anni, esercitò un notevole fasci­ no sui musicisti della prima generazione fiamminga. La prin­ cipale novità del suo stile era costituita non solo da un meto­ dizzare più fluido e naturale, ma anche dall’uso predominante di armonie consonanti, che suonava particolarmente dolce al­ le orecchie continentali. Entrambe queste caratteristiche ave­ vano le loro antiche radici nella pratica del «discanto inglese»

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che consisteva nell’intonare il gregoriano a tre voci con inter­ valli paralleli di terza e sesta (come si fece poi anche nel conti­ nente con il cosiddetto stile del fauxbourdori). Un’altra fonte significativa di novità fu offerta dall’apporto della tradizione italiana con cui fu in contatto diretto uno dei primissimi «emi­ granti» fiamminghi: Johannes Ciconia, che mori a Padova nel 1411 e che è considerato una sorta di mediatore fra lo stile nor­ dico di Liegi, da cui sembra provenisse, e la maniera dell’Ars nova italiana che trattò egli stesso in numerose composizioni. Su questo intreccio di tendenze si fonda la straordinaria novità costituita dalla scuola franco-fiamminga, novità di cui gli stessi uomini del Quattrocento erano perfettamente consa­ pevoli, se è vero che Johannes Tinctoris nel suo trattato Ars contrapunctì del 1477 affermava che l’unica musica degna di questo nome era quella composta negli ultimi quarant’anni. Tali novità, che si precisarono via via nel corso del secolo, si possono ricondurre ad alcuni principi fondamentali. La musi­ ca veniva ancora pensata in termini di melodie sovrapposte (ossia in termini contrappuntistici o polifonici) ma mutarono sensibilmente le forme d’organizzazione della polifonia. Uno dei cambiamenti più vistosi consiste nella tendenza all’equi­ parazione delle diverse voci del complesso polifonico: alla so­ vrapposizione (tipicamente medievale) di melodie ben diffe­ renziate, invidualmente caratterizzate e talora dotate di un testo verbale diverso, si sostituisce gradualmente una compa­ gine tendenzialmente omogenea, con forti caratteri di somi­ glianza fra le varie melodie. Un altro principio chiaramente emergente riguarda i rapporti fra consonanza e dissonanza. Nel Medioevo i musicisti distinsero chiaramente i due termi­ ni, ma li usarono con grande libertà e varietà. A partire dal xv secolo il problema conobbe invece una soluzione sistematica e semplice: quella del predominio della consonanza e della ri­ duzione della dissonanza a una sorta di «accidente» da tratta­ re con precauzione. Si impose cosi il modello «preparazionesoluzione» in cui la nota dissonante doveva esistere anche nell’accordo precedente e suonarvi come consonante (prepa­ razione) e doveva poi «risolvere» successivamente in un altro contesto consonante (soluzione). Un altro tratto stilistico importante riguarda il modo di im­ postare il rapporto con la parola. Mentre nella polifonia del Trecento francese i compositori si dilettavano del gioco di contrasti fra l’accento tonico verbale e l’accento ritmico della melodia evitandone spesso la coincidenza, nel Quattrocento

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tali contrasti scompaiono e la corrispondenza fra il ritmo della parola e quello della musica diventa legge (poi codificata nei trattati teorici del secolo successivo). Queste tendenze, come si vede, ruotano tutte attorno a principi di coerenza, di omo­ geneità e di attenuazione dei contrasti, principi che si impon­ gono nel corso del secolo come base simbolica profonda del pensiero musicale rinascimentale. Non è certo arbitrario con­ netterle con le ideologie umanistiche alle quali prima si accen­ nava, anch’esse tendenti a comporre in una nuova sintesi le contraddizioni (cosi forti nel Medioevo) fra uomo e cosmo, fra natura spirituale e natura fisica, fra divinità e mondanità. Non solo le arti figurative, ma anche la musica offre in questo modo il suo contributo all’ideale rinascimentale di armonia e di bellezza. Fra i generi musicali più coltivati dai musicisti franco­ fiamminghi la messa divenne gradualmente quello più illustre, più impegnativo e ufficiale, mentre il mottetto politestuale, che nell’epoca precedente era il genere alto per eccellenza poi­ ché veniva cantato nelle celebrazioni pubbliche di importanti avvenimenti politici e civili, scomparve a poco a poco nel cor­ so del secolo. Col termine di mottetto si cominciò a indicare esclusivamente un brano su testo sacro in latino da eseguire durante le celebrazioni liturgiche. Nel campo profano il gene­ re prediletto era la chanson (con i suoi sottotipi del rondeau, della ballade, della bergeretté} che si diffuse in tutte le corti eu­ ropee anche se era cantata in lingua francese. La prima generazione dei musicisti di questa scuola ha i suoi rappresentanti più eminenti in Gilles Binchois (Mons ca 1400 - Mons? 1460) e in Guillaume Dufay (ca 1400 - Cambrai 1474). Il primo, che operò al servizio dei duchi di Borgogna, è soprattutto ricordato per la straordinaria fantasia inventiva dei suoi rondeaux. Il secondo, nato ed educato a Cambrai, ac­ quistò fama di musicista eccellente duranteYmolti anni passa­ ti in Italia al servizio dei Malatesta di RiminiXdegli Estensi a Ferrara, del Papa, dei duchi di Savoia. Fra i numerosi mottet­ ti scritti per occasioni civili e politiche rimase particolarmente famoso Nuper rosarum flores composto nel 1436 per l’inaugu­ razione di Santa Maria del Fiore a Firenze. Delle sue messe alcune sono annoverate fra i primi esempi concepiti come un tutto unitario, cioè con temi e procedure che si ripresentano ciclicamente nelle diverse parti del rito, altre adottano come base delle loro elaborazioni contrappuntistiche melodie comu­ nemente note e facilmente riconoscibili dagli ascoltatori an-

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che se non appartenenti al repertorio sacro (missa L'homme anné e Se la face ay pale) inaugurando una prassi che conobbe in seguito un’ampia fortuna. Nelle sue composizioni restano tracce delle tecniche mensurali e, soprattutto nei mottetti, della pratica della isoritmia (che era simbolo di stile alto e ricercato), ma queste «manie­ re» sono arricchite da un contesto in cui la predominanza de­ gli intervalli consonanti, l’introduzione di sezioni in forma imitativa, il gusto per l’invenzione melodica accattivante e per la spontanea pronuncia del testo, l’accurato dosaggio del fraseggio e della varietà nella successione degli episodi, assicu­ rano l’emergenza di quel nuovo stile che affascinava la società colta dell’epoca. La generazione dei compositori successivi, fra i quali emer­ gono Johannes Ockeghem (ca 1425 - Tours 1496) e Antoine Busnois (ca 1430 - Bruges 1492), ebbe come schema di riferi­ mento questo quadro stilistico che arricchì di nuove invenzio­ ni di ardita complessità. La produzione profana di chansons, a cui Dufay stesso aveva offerto esempi memorabili, continuò con la stessa esuberante vitalità anche negli autori successivi, ma i generi in cui la creatività musicale fiamminga offrì le sue prove piu ambiziose furono soprattutto la messa e il mottetto sacro. Nella maggior parte dei casi in questi generi «alti» la com­ posizione non è concepita come invenzione ex novo, ma piut­ tosto come elaborazione polifonica di materiali melodici pree­ sistenti, attinti al patrimonio del canto gregoriano, a quello di canzoni popolari famose o anche a quello di melodie d’autore. L’elaborazione avviene a partire dai principi sanciti nell’anti­ ca pratica del cantus fimus o tenor. La melodia preesistente viene affidata di solito a una voce intermedia (al tenor appun­ to), ma in certi casi può essere data anche al soprano oppure può «migrare», nel corso della composizione, fra una voce e l’altra. L’esposizione della melodia non è mai fedele all’origi­ nale: nei casi più semplici può essere ridotta a note uguali di lunga durata, ma in altri casi può venire manipolata con pro­ cedimenti di «aumentazione» o «diminuzione» delle durate, oppure può essere sottoposta a ornamentazione libera (con­ servando in questo caso un flusso ritmico simile a quello delle altre voci), o ancora può essere modificata con accorgimenti più sottili, come il movimento retrogrado che espone il fram­ mento dall’ultima nota alla prima. Le altre voci obbediscono a principi costruttivi analoghi.

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In molti casi riprendono e ampliano il canto fermo usando an­ che talora procedimenti imitativi; in altri casi utilizzano e so­ vrappongono diversi frammenti della melodia di partenza. Spesso usano procedimenti di ripetizione «ostinata» della stessa cellula o progressioni ascendenti o discendenti costruite su di essa, oppure adottano invenzioni libere che la arricchi­ scono di melismi e di ornamentazioni soprattutto in vicinanza dei punti d’arrivo o cadenze. In altri casi infine l’intera com­ posizione si basa su procedimenti a «canone» in cui la voce successiva ripete sistematicamente il profilo di quella prece­ dente. Ciò accade ad esempio nella Mìssa prolatìonum di Ockeghem, interamente composta su un complesso gioco di simmetrie fra le quattro parti vocali. Tecniche di questo tipo permettono ai musicisti fiammin­ ghi di costruire composizioni di architettura poderosa, di pro­ porzioni mai fino allora raggiunte, di unità interna solidissima e al tempo stesso riccamente articolata. Le opere di Josquin Desprès (Piccardia, ca 1440 - Condé-sur-l’Escaut, Valencien­ nes 1521), l’ultimo dei grandi maestri quattrocenteschi, com­ pletano il secolare ciclo creativo della scuola fiamminga, assu­ mendo in eredità l’ardimento costruttivo dei compositori nor­ dici, ma introducendovi quei principi di euritmia e di misura classica che faranno dei suoi testi un modello per tutta l’epoca seguente. Nato nella Francia del nord prima del 1450, Josquin passò gran parte della sua vita in Italia: a Milano, nella cappella pa­ pale, nella corte di Ferrara, per tornare successivamente in Francia dove mori nel 1521. Anch’egli, come Dufay, ebbe dunque una grande esperienza internazionale e fu al corrente di tutte le tecniche e le tradizioni stilistiche in uso in Europa. Ma nelle sue mani tali tecniche si trasformano e si rinnovano. Nelle chansons, nei mottetti, nelle messe di Josquin il gran­ dioso meccanismo stilistico messo a punto dai maestri della «seconda generazione» viene per cosi dire esplicitato: i rap­ porti di somiglianza fra le voci sono resi chiari da un processo selettivo che semplifica ed economizza i mezzi a disposizione, e vengono resi percepibili dall’uso sistematico delle imitazio­ ni. Cosi avviene che il gioco delle simmetrie e delle proporzio­ ni, come in un quadro di Piero della Francesca, assuma carat­ teri di straordinario equilibrio. Al tempo stesso il canto diven­ ta estremamente attento alla parola pronunciata, che non solo viene messa in evidenza dalla trasparenza della declamazione, ma viene semanticamente sottolineata dal carattere stesso del­

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la melodia che sa adattarsi alle funzioni e ai contenuti del te­ sto. La varietà generale della struttura è assicurata infine dalle alternanze nel numero delle voci e dai modi diversi con cui vengono organizzati i loro rapporti. La splendida fioritura della scuola franco - fiammingo borgognona ha un’importanza storica determinante perché sviluppa una quantità di tecniche compositive, propone ai musicisti dell’epoca problemi nuovi di organizzazione sonora, pone gli ascoltatori di fronte a prospettive espressive inedite. Tutto ciò lascerà tracce straordinariamente ricche nei secoli a venire e imprimerà una svolta importante ai destini della mu­ sica occidentale. Tuttavia, se osserviamo l’incidenza imme­ diata che i musicisti di quella scuola ebbero sui gusti musicali della loro epoca e se teniamo conto della diffusione effettiva del loro nuovo stile, la prima constatazione è che per lunghi decenni, cioè fin quasi alla fine del secolo xv, la loro presenza ebbe un peso relativamente limitato, o perlomeno non para­ gonabile alla novità delle maniere compositive che essi veni­ vano elaborando. In tutta Europa infatti, e nella stessa Italia che pure era centro d’attrazione primario per i musicisti di quella scuola, la maggioranza delle attività musicali e non solo di quelle che si svolgevano per le strade cittadine o nelle case del ceto medio, ma anche in quelle che avevano luogo nelle chiese e nei palazzi nobiliari, si basava ancora su tradizioni di canto e di esecuzione strumentale assai meno complesse, assai piu immediate e semplici di quelle che venivano proposte dai sapientissimi compositori di scuola nordica. Devono passare molti decenni prima che essi facciano vera­ mente «scuola» e lascino tracce evidenti nella prassi compo­ sitiva degli altri musicisti d’Europa, cioè lascino all’Europa un’eredità stabile e diffusa. Durante il corso del xv secolo tut­ to avviene come se la presenza dei grandi fiamminghi fosse ri­ servata a categorie privilegiate d’intenditori o a occasioni pubbliche e solenni in cui lo stile elevato delle loro musiche poteva dare lustro alle cerimonie. Né d’altra parte musicisti fuori dalla loro cerchia e non educati nelle loro scuole d’origi­ ne sembrano avere immediatamente assimilato le tecniche compositive che essi adottavano. Se con un rapido colpo d’occhio che allarghi l’orizzonte storiografico al di là della presenza della scuola fiamminga vo­ lessimo dunque descrivere il consumo musicale europeo di quei secoli troveremmo anzitutto a livello di diffusione popo­ lare una grande quantità di canzoni in parte legate a tradizioni

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locali, a feste antiche, a ritualità religiose, ma in parte anche capaci di rivelare un ingente scambio di esperienze tra paesi anche molto lontani. Le Compagnie o i gruppi di istrioni e cantori vaganti continuarono ad esistere ed erano assai mobili nei loro spostamenti: si trovano testimonianze della presenza di istrioni boemi in Spagna o di cantori portoghesi in Prussia. E d* altra parte le canzoni viaggiavano anche sulla strada dei pellegrinaggi ai grandi santuari o ai grandi centri religiosi, me­ ta quotidiana di fedeli che vi si radunavano da lontano e so­ prattutto nelle occasioni delle grandi feste. La maggioranza di questi canti che si diffondevano per tradizione orale è andata naturalmente perduta, ma esistono anche manoscritti che ne hanno raccolto e tramandato fino a noi un certo numero, per non parlare delle tracce di canzoni popolari che si trovano nel­ la musica polifonica piu colta. I tipi più diffusi erano di carat­ tere religioso: ad esempio canti devozionali e processionali extraliturgici in cui spesso è evidente l’intreccio con la canzone profana. Molto diffuso era infatti l’uso di travestimenti spiri­ tuali (o «contrafacta») che usavano adattare testi spirituali a melodie popolari note. Ma ampiamente diffuse erano anche canzoni d’amore più o meno licenziose, nonché canzoni di ti­ po narrativo su testi che traevano ispirazione da poemi epici, leggende di santi, avvenimenti di cronaca o anche canti poli­ tici e satirici spesso nati per influenzare l’opinione pubblica nelle lotte civili o religiose. Per non dire infine delle melodie per danza la cui diffusione era affidata a gruppi strumentali che per lo più se le tramandarono per tradizione non scritta e le riproducevano con varianti e improvvisazioni. Una tradi­ zione molto particolare fu quella del cosiddetto Meistergesang, il canto dei «maestri cantori» che ebbe lunga vita in Germa­ nia (dal xiv al xvi secolo). Coltivato da confraternite di carat­ tere corporativo formate da membri appartenenti per lo più alla borghesia cittadina vicina alla chiesa, il Meistergesang era regolato da tecniche rigide e prescrittive che si tramandavano da maestro ad apprendista e che si fondavano sulla necessità di una perfetta assimilazione di formule che tendevano ad escludere l’invenzione personale e a difendere strettamente la tradizione. Hans Sachs (che poi Wagner elesse a protagonista della sua opera I maestri cantori di Norimberga) fu uno degli ul­ timi rappresentanti di questa scuola che si estinse verso la fine del xvi secolo. Ma al di là di queste forme di canto monodico erano diffu­ se in tutta Europa anche musiche a più voci di stile più sem-

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plice di quello fiammingo e legato a tradizioni locali. Cosi ad esempio in Inghilterra ebbe ampia fortuna il genere musicale del carol che originariamente era una canzone a ballo di strut­ tura strofica, ma che nel Quattrocento si trova anche in reda­ zioni polifoniche a due o tre voci che stilizzano e raffinano l’antica funzione coreutica. Un genere analogo troviamo in Germania: una canzone o Lied polifonico coltivato in ambien­ te borghese da ecclesiastici o da musicisti non professionisti che di solito affidava al tenor un canto fermo di gusto popola­ reggiante (viene detto per questo Tenorlied) accompagnandolo con due o piu strumenti che eseguivano contrappunti di sem­ plice struttura. La tradizione del Tenorlied continuò anche nel secolo successivo trasformandosi e affinandosi nelle mani di musicisti esperti di tradizione fiamminga come Heinrich Isaah e Ludwig Senfl. Anche in Italia la situazione non è molto diversa da quella descritta in altri paesi: in alcune grandi cattedrali e nelle corti che avevano maggiori pretese di novità, la presenza di musici­ sti oltremontani fu richiesta e apprezzata, ma per la cultura italiana dell’epoca, tutta protesa verso gli ideali umanistici di riscoperta della tradizione classica, il patrimonio di conoscen­ ze e di esperienze teoriche dei fiamminghi e il loro stesso stile musicale venivano talora sentiti come estranei allo spirito del­ la classicità e piu legati invece a una sorta di continuità con la tradizione intellettuale del Medioevo. Cosi ad esempio in una corte fortemente impregnata di idealità umanistiche com’era quella fiorentina nell’epoca di Lorenzo de’ Medici la musica era concepita piuttosto come un’estensione della parola poetica che come una struttura in­ dipendente, a sé stante e polifonicamente organizzata. La mu­ sica, come la musiké degli antichi greci, era un’esperienza che doveva uscire dalla parola stessa metricamente organizzata: i cantori fiorentini di quella cerchia erano ad esempio Marsilio Ficino o Poliziano, che eseguivano i loro versi recitandoli ma anche cantandoli su schemi melodici noti o su melodie inven­ tate, secondo una tradizione assai piu vicina a quella orale e popolare che a quella dotta e scritta. Qualche traccia di tradi­ zione polifonica, probabilmente derivata dalla tradizione dell’Ars nova fiorentina del secolo precedente, venne tuttavia conservata anche in questo ambiente. Sappiamo ad esempio che questi tipi di canto erano spesso accompagnati con la viola e con il liuto o con la lira da braccio o con due di questi stru­ menti che verosimilmente eseguivano una sorta di tenòr e a

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volte di controtenor aggiunto al canto. E questa usanza rima­ se in vita per decenni, tant’è vero che quando agli inizi del Cinquecento cominciano a comparire i primi volumi musicali a stampa, vi si trovano numerosi esempi di canto accompa­ gnato da due strumenti, ad esempio in una raccolta intitolata «Tenori e contrabassi intabulati [ossia in notazione di tipo strumentale] col soprano in canto figurato [cioè in notazione per voce] ». L’esempio della corte medicea è significativo proprio per­ ché si tratta di un ambiente di cultura particolarmente raffi­ nata. E non risulta che in altre corti italiane i musicisti locali fossero tanto più attivi o tanto più esperti. Solo negli ultimi decenni del secolo cominciano a comparire nellTtalia centro­ settentrionale più consistenti tracce di una attività musicale di tipo polifonico meno precaria di quella finora descritta. Si sono conservate ad esempio e sono giunte fino a noi raccolte musicali compilate nei primi anni del Cinquecento contenenti tipi di composizioni che avevano verosimilmente cominciato a diffondersi anche prima: in particolare canti carnascialeschi, laude e frottole. I canti carnascialeschi sono musiche a 3 o 4 voci di stesura polifonica molto semplice, legati alle sontuose e spettacolari celebrazioni del carnevale promosse a Firenze da Lorenzo de’ Medici: trionfi, carri, mascherate, rappresentazioni allegori­ che e mitologiche con larga partecipazione popolare. Le melo­ die dei canti carnascialeschi erano semplici e vivaci e serviva­ no soprattutto a favorire la declamazione di versi che inneg­ giavano ai piaceri della vita o raffiguravano tipi umani che si prestavano alla caricatura e all’ironia. Le laude a loro volta avevano dietro le spalle una lunghissima tradizione di diffu­ sione popolare. Durante gli anni dominati dalla austera e pu­ nitiva figura di Girolamo Savonarola molti canti profani furo­ no «travestiti» spiritualmente. Evidentemente l’uso di canta­ re a più voci aveva preso piede anche in ambiente largamente popolare se agli inizi del Cinquecento ne troviamo traccia nel­ la sopra nominata raccolta di laude. Ma il genere polifonico di gran lunga più importante e ambizioso è quello della frottola che ebbe particolare fortuna nella raffinatissima corte dei Gonzaga a Mantova al tempo di Isabella, ma poi si diffuse ampiamente in Italia settentrionale. Bartolomeo Trombonci­ no e Marchetto Cara, entrambi al servizio di quella Corte, fu­ rono i più famosi compositori di frottole. Si trattava di un ge­ nere di composizione profana di tipo strofico, per lo più a

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quattro parti di cui le tre inferiori erano spesso eseguite stru­ mentalmente e la superiore, che era la piu espressiva e la piu elaborata, veniva invece sempre cantata e talora anche arric­ chita con «diminuzioni», cioè con improvvisazioni di passi virtuosistici aggiunti dai cantanti più esperti. La polifonia non era particolarmente artificiosa, ma spesso abbastanza ricca e scorrevole e comunque di buon livello tecnico. Che le frottole abbiano goduto di particolarissima fortuna nei primi decenni del Cinquecento è testimoniato dal fatto che quando un ge­ niale artigiano di Fossombrone, Ottaviano Petrucci, inventò i caratteri musicali a stampa e, dalla sua sede di Venezia, co­ minciò a pubblicare libri di musica che ebbero fortunatissima accoglienza, fra le sue prime raccolte, oltre a volumi di com­ posizioni dei più grandi autori di scuola fiamminga, si annove­ rano anche numerose antologie frottolistiche. La fortuna immediata che ebbe l’iniziativa editoriale di Pe­ trucci (ben presto imitata da altri stampatori in Italia e all’e­ stero, soprattutto a Parigi e nei Paesi Bassi) non è solo dovuta a ragioni economiche (cioè alla possibilità di procurarsi libri di musica senza dover ricorrere ai copisti, che era un lusso con­ cesso solo alle persone più facoltose) ma è dovuto anche evi­ dentemente all’esistenza di un mercato abbastanza vasto e ab­ bastanza interessato da assorbire l’abbondante produzione li­ braria dell’intraprendente inventore. E questo il sintomo più evidente del fatto che la cultura musicale italiana si era venuta rapidamente evolvendo e maturando. E ciò spiega la grande espansione che ebbero le attività musicali in Italia nel corso del Cinquecento, [mb] 3. La polifonia sacra del Cinquecento italiano. Il mecenatismo delle corti italiane, che già nel corso del xv secolo aveva attirato diversi fra i più importanti compositori fiamminghi, determinò un progressivo spostamento dell’asse della cultura musicale verso l’Italia, col risultato che nel xvi secolo essa divenne il polo culturale più importante d’Europa, sostituendo le Fiandre nella leadership che tale regione aveva detenuto nel secolo precedente. Nonostante i rivolgimenti po­ litici della fine del Quattrocento, le principali corti italiane riuscirono a stabilire un prestigio adeguato alla loro potenza economica e militare - gli Sforza a Milano, i Medici a Firen­ ze, gli Estensi a Ferrara, i Gonzaga a Mantova, ma anche cor­

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ti piu periferiche come quella dei duca di Savoia - e mante­ nevano al loro servizio complessi musicali vocali e strumentali più o meno ampi e prestigiosi, secondo la situazione finanzia­ ria e l’attenzione rivolta alla musica dai membri delle casate che nel corso del secolo si avvicendarono a reggere le sorti po­ litiche. Queste cappelle private, assieme a quelle ecclesiasti­ che delle basiliche dei centri più e meno importanti, all’epoca assorbivano la maggior parte di forza-lavoro nel campo musi­ cale, con una distinzione di ruoli e di compensi che andavano dal semplice corista al maestro di cappella, che oltre ad una funzione direttiva e didattica aveva assunto, con l’evoluzione e la diffusione della polifonia, anche quella di compositore per il complesso musicale. Poiché i maestri fiamminghi, all’inizio del xvi secolo, detenevano ancora il primato della scienza e dell’arte polifonica e continuavano a godere grandissima sti­ ma in tutta Europa, nel corso della prima metà del secolo le cappelle musicali italiane - sia private che ecclesiali - che aspiravano ad un particolare prestigio, cercavano di accapar­ rarsi a peso d’oro i più stimati musicisti fiamminghi. La carriera di Josquin Desprès è emblematica a questo pro­ posito: entrato come Biscantor (vale a dire cantore di musica polifonica) nella cappella del Duomo di Milano nel 1459, at­ torno ai 19 anni, e poi passato a quella degli Sforza con una paga piuttosto modesta in entrambi i casi, fu assunto nel i486 nella più prestigiosa cappella musicale, quella papale a Roma, ottenendo ricompense ben più elevate e benefici ecclesiastici, quindi fu attratto nell’orbita estense a Ferrara, dove all’inizio del secolo compare alla testa dei 24 musicisti che componeva­ no la cappella ducale. Gli ultimi vent’anni della sua vita li condusse poi fuori Italia, legandosi alla casa d’Asburgo e al re di Francia. Heinrich Isaah (? 1450 ca - Firenze 1517), inve­ ce, dedicò la sua vita artistica alla corte medicea di Firenze, do­ ve fu anche attivo presso la cappella del Duomo. Adrian Willaert, dopo alcune esperienze in altri centri italiani, fu nomina­ to maestro di cappella della Basilica di San Marco nel 1527, posto che ricopri ininterrottamente per più di un trentennio. I maestri fiamminghi, depositari di una scienza compositi­ va rigorosa, in Italia trovarono una cultura musicale che nel­ l’ambito sacro non aveva ancora espresso una propria tradi­ zione, anche se aveva avuto esperienze significative in ambito profano. L’innesto della chiarezza dell’armonia italiana sulla com­ plessità del contrappunto fiammingo crearono una trasforma­

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zione linguistica che, secondo il luogo, le sue esigenze e le sue caratteristiche culturali e l’apporto creativo dei singoli com­ positori, assumerà caratteri differenziati. Nonostante gli scambi culturali tra i diversi centri (agevolati da frequenti tra­ sferimenti di musicisti e compositori da un luogo all’altro e dalla diffusione della stampa musicale) tendessero a diminuire le differenze stilistiche locali e a far nascere una sorta di co­ mune lingua polifonica italiana, in certi ambienti le vicende storiche e lo stile dei singoli influiranno in modo determinan­ te sulla creazione di tradizioni locali fortemente caratteriz­ zate. Il primo di questi centri è, naturalmente, Roma, la città pa­ pale cuore della cristianità. La grande concentrazione di basi­ liche piu o meno importanti e il fervore di attività liturgiche ed extraliturgiche connesse alle celebrazioni rituali ordinarie e straordinarie, richiedevano un grande dispiegamento di mezzi musicali. Come i principi del Rinascimento, il papa aveva una sua cappella musicale privata e personale che lo ac­ compagnava ovunque andasse, e che dal luogo in cui normal­ mente forniva le sue prestazioni, a Roma, venne denominata Cappella Sistina. Era un complesso rigorosamente «a cappel- fig. 8 la» (cioè formato unicamente di voci umane maschili, senza l’impiego di donne né di parti strumentali, neppure dell’orga­ no) costituito esclusivamente da cantori adulti scelti fra quelli più preparati e virtuosi, molti dei quali fiamminghi, sicché le parti sopranili erano intonate da falsettisti (più tardi da ca­ strati). La seconda cappella musicale romana di maggior prestigio ed importanza era quella cosiddetta Giulia, in quanto creata per interessamento di Giulio II Della Rovere con una bolla firmata due giorni prima di morire, il 19 febbraio 1513. Si tratta della cappella musicale di San Pietro, che prestava quo­ tidianamente il suo servizio musicale per la celebrazione delle funzioni liturgiche regolari. Ad essa appartenevano, oltre ai cantori adulti, anche un certo numero di «pueri cantores» per l’esecuzione delle parti sopranili, per cui, oltreché una cappel­ la corale, era una scuola corale in cui i piccoli cantori appren­ devano l’arte del canto ricevendo anche un’educazione più genericamente scolastica da un maestro di grammatica. Altre due cappelle particolarmente prestigiose erano quelle di San Giovanni in Laterano fondata nel 1535 e quella di Santa Ma­ ria Maggiore, che per la presenza di pueri cantores nell’organi­

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co corale avevano funzioni e statuti simili a quelli della Cap­ pella Giulia. Il più importante compositore di musica sacra attivo a Ro­ ma, Giovanni Pierluigi da Palestrina (Palestrina 1524-25 Roma 1594), in tempi diversi e con mansioni diverse, fece parte di tutte e quattro queste prestigiose cappelle musicali. Della cappella di Santa Maria Maggiore, dove nella prima in­ fanzia in qualità di putto cantore aveva ricevuto la sua prima istruzione musicale, fu maestro negli anni della sua prima ma­ turità. Fu tuttavia nella Cappella Giulia, sempre in qualità di mae­ stro di cappella, che trascorse la maggior parte della sua vita. Una carriera interamente romana, dunque, nonostante la sua fama non gli avesse fatto mancare occasioni e proposte da par­ te di corti importanti sia in Italia (quella dei Gonzaga a Man­ tova) che all’estero (quella imperiale di Massimiliano II a Vienna). Nei primi anni in cui Palestrina svolgeva il suo incarico di­ rettivo alla cappella di Santa Maria Maggiore (e precisamente nel 1563) si era concluso il Concilio di Trento, che nella sua opera di riassetto generale della Chiesa cattolica in risposta al­ la Riforma luterana, si era interessato anche di questioni lega­ te alla musica con funzione liturgica. La discussione era stata lunga e animata, specialmente attorno ad un problema di an­ tica data: decidere quali espressioni musicali meglio si accor­ dassero con le finalità devozionali che erano chiamate ad as­ solvere, e quali invece stimolassero unicamente un piacere estetico, un diletto uditivo privo di un reale significato spiri­ tuale. Naturalmente il canto gregoriano, che era stato il fonda­ mento stesso della musica liturgica per tanti secoli, non era messo sotto inchiesta, ma necessitava ugualmente - secondo le intenzioni conciliari - dello sfrondamento di tutte quelle parti accessorie concresciute su di esso nel corso del tempo (tropi e sequenze) e di una revisione generale adeguata al gu­ sto dell’epoca (affidata a Giovanni Pierluigi da Palestrina e ad Annibaie Zoilo). Molto più problematico era invece il canto polifonico, por­ tato dai maestri fiamminghi ad un altissimo livello di sviluppo artistico, e proprio per questo divenuto una costruzione arti­ ficiosissima e, sotto diversi aspetti, indifferente al testo litur­ gico che intonava ed alla sua sacralità: indifferente alla sua comprensibilità in quanto certe costruzioni politestuali, i me­ lismi e gli intrichi polifonici, tendevano ad oscurare il senso

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delle parole; indifferente al suo spirito, in quanto in momenti penitenziali o luttuosi, le volute melismatiche e lo sfarzo so­ noro contraddicevano il carattere della stessa funzione litur­ gica; indifferente alla sua sacralità sia per la prassi diffusa di utilizzare brani di madrigali e di chansons, mutandone le pa­ role, per la costruzione di messe e mottetti, sia per l’utilizza­ zione di canzoni popolari profane come tenor per la costruzio­ ne di composizioni sacre, sia infine nelle messe d’organo, per la sostituzione del testo sacro con un mezzo sonoro puramen­ te strumentale. Queste le accuse dei padri conciliari cui oggi, con lo storico senno di poi, possiamo aggiungere l’umanistica ripulsa nei confronti di artifici «gotici» in un’epoca in cui si stava affermando un gusto orientato verso una classica chia­ rezza declamatoria. Sappiamo che fra i padri conciliari vi fu chi avrebbe voluto abolire tout court la polifonia, ma prevalse infine una linea riformista: la musica polifonica, ormai radica­ ta da secoli, sarebbe rimasta, a condizione che fosse adeguata alle funzioni che doveva assolvere, e quindi purgata dagli ec­ cessi sopra menzionati. Venne inoltre costituita una commis­ sione cardinalizia che vigilasse sull’attuazione dei decreti tridentini in campo musicale, e anzi la stimolasse. Collegando queste vicende storiche all’eccellenza dello stile palestriniano, fu creato nel corso del Seicento e ratificato nei secoli successivi il mito di Giovanni Pierluigi da Palestrina salvatore della musica polifonica. Pietro Della Valle, uno dei diversi mitografi palestriniani, in un suo scritto del 1640 af­ fermava ad esempio che la Missa Papae Marcelli del Palestrina «fu cagione che il concilio di Trento non bandisse la musica dalle chiese». Ora, se non è vero che le cose fossero proprio andate cosi, che cioè i cardinali, ascoltata la celebre messa, avessero deciso di mantenere la polifonia nella celebrazione li­ turgica orientandola sull’esempio palestriniano, è vero co­ munque che Palestrina, ad iniziare dalle composizioni sacre della sua prima maturità, fra cui la Missa Papae Marcelli, con­ ciliò le esigenze riformistiche tridentine con quelle artistiche, creando uno stile di esemplare chiarezza ed equilibrio, in cui gli artifici contrappuntistici della scuola fiamminga, ivi com­ presi imitazioni e canoni, sono ridotti ad una nuova misura, ad una compostezza che si può veramente definire classica. La produzione sacra di Palestrina è formata da più di un centinaio di messe, di cui buona parte composta secondo il principio della «parodia» (vale a dire la riutilizzazione di testi

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musicali precedenti, in buona parte motetti), da più di cin­ quanta motetti, e inoltre da inni, offertori, litanie, lamenta­ zioni e magnificat. In essa condusse a compiuta e perfetta rea­ lizzazione quell’ideale polifonico già intravisto da Josquin Desprès, basato non su principi costruttivi legati ad una con­ cezione ingegneristica del contrappunto vocale, bensì sulla ri­ cerca di una cantabilità declamatoria del testo in sintonia, ap­ punto, con quella tendenza alla priorità àdtf oratione che si era affermata parallelamente nella musica profana. Palestrina rea­ lizzò pienamente questo ideale modellando innanzitutto il de­ corso melodico sul canto gregoriano, sulla sua articolazione, sulla sua prosodia e sulla sua metrica ovviamente convertita nei termini ritmici del cantus mensurabilis, quindi ancorando saldamente il costrutto polifonico ad un ordinamento armoni­ co che, anche nei momenti più contrappuntistici, guida le par­ ti ad un continuo moto di preparazione e risoluzione delle dis­ sonanze simile ad un’ordinata punteggiatura con le sue virgole e i suoi punti, priva di sussulti ritmici scomposti ed eccessivi. Assieme ad una equilibratissima concertazione delle voci e ad una pressoché totale impassibilità della musica alle suggestioni figurative ed emotive del testo, tali caratteri determinano quel senso di sospensione sovratemporale e di totale astrazio­ ne quanto mai consentanee agli ideali etici ed estetici della chiesa controriformistica. Anche quando, come nel caso dei 29 motetti che traggono il testo dal Cantico dei cantici^ le suggestioni testuali stimolano un figuratismo espressivo più accentuato, è sempre lo stile ad avere il sopravvento; e proprio questa prevalenza dell’elemen­ to stilistico fece si che esso divenisse nel corso dei secoli un modello esemplare in momenti storici e in climi estetici quan­ to mai diversi, avvalorando e rafforzando il mito di Palestrina «Princeps Musicae». Nonostante i rigori riformistici, in Italia e nella stessa Ro­ ma, si era ben lungi dal raggiungimento di una prassi esecuti­ va e di una norma stilistica unificata. Le stesse composizioni di Palestrina, come la musica sacra in genere, erano soggette a tutti gli accomodamenti del caso (sostegno organistico, ese­ cuzione a parti solistiche o corali, e simili) e a tutti i virtuosi­ smi vocali estemporanei in uso nella prassi esecutiva dell’epo­ ca, tanto che nella prefazione di una raccolta di Salmi interi concertati stampati nel primo quarto del secolo successivo (precisamente a Venezia nel 1626), il maestro di cappella Gio­

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vanni Battista Brunetti da Sabbioneta affermava che, per sua diretta esperienza, aveva potuto constatare che ogni città ita­ liana aveva un suo stile proprio. Cosi come a Roma lo stile palestriniano aveva dato luogo ad un manierismo locale coltivato da successori, discepoli e contemporanei di Palestrina (la cosiddetta «scuola romana»: Annibaie Stabile, Giovanni Maria Nanino, Francesco Soria­ no, Felice Anerio, Ruggero Giovannelli, Giovanni Andrea Dragoni), circostanze particolari avevano creato a Venezia, nell’ambito della cappella musicale di San Marco, una tenden­ za stilistica fortemente caratterizzata ed illustrata da impor­ tanti compositori. Per comprendere i tratti salienti dello stile veneziano va tenuto innanzitutto presente che la Basilica di San Marco non era all’epoca il Duomo di Venezia, bensì la basilica dei dogi, sita a fianco del Palazzo Ducale; di conse­ guenza le funzioni sacre che vi si tenevano nelle occasioni piu solenni erano improntate ad una fastosità di tipo celebrativo. Già la scelta dei testi dei mottetti e la scansione del cerimo­ niale liturgico erano fatte ad hoc perché fosse posta in massi­ mo risalto la sacralità dell’autorità dogale; a ciò si aggiunga la presenza di due organi con relativi maestri oltre al maestro di cappella che dirigeva il complesso musicale nel suo insieme, una particolare predilezione per la policoralità e per la combi­ nazione di voci e strumenti, e ci si potrà fare un’idea dal fasto sonoro che caratterizzava le funzioni sacre nelle occasioni piu solenni. Le celebrazioni poi, dalla basilica si spostavano sulla piazza antistante, e sulle rive, attraversate da cortei processio­ nali risonanti di musiche vocali e strumentali, di cui ci sono ri­ maste famose raffigurazioni pittoriche. Il carattere particolare della musica sacra veneziana ha fat­ to sorgere alcuni miti connessi alle caratteristiche acustiche e linguistiche della medesima, che solamente in tempi piuttosto recenti sono stati sfatati o quanto meno ridimensionati dalla ricerca musicologica. Primo fra tutti, quello che connette la nascita e lo sviluppo della policoralità alla particolare struttura architettonica della Basilica di San Marco. Innanzitutto la po­ licoralità non fu inventata in ambito veneziano, bensì, sem­ mai, veneto. Prima che Adrian Willaert (Bruges? ca 1490 Venezia 1562), il primo grande maestro di cappella di San Marco, pubblicasse la sua raccolta di Salmi... a uno et a duoi chori nel 1550, maestri come Ruffino d’Assisi attivo a Pado­ va, come Francesco Santa Croce da Padova trasferitosi poi a Treviso, ed altri ancora, avevano già impiegato, per lo piu

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nella composizione di salmi polifonici, la pratica del «coro spezzato» o «battente» (cioè del doppio coro), anche se in modo un po’ diverso da quello utilizzato da Willaert. Inoltre la Basilica di San Marco non risulta essere un luogo partico­ larmente adatto all’esecuzione policorale, che comunque nel Cinquecento fu per lo più praticata nelle logge inferiori e non in quelle superiori. L’esclusione di meccaniche motivazioni esterne o ambien­ tali sposta maggiormente l’accento su quelle celebrative ed al tempo stesso aumenta la responsabilità e l’originalità creativa dei compositori veneziani che, in sintonia con le esigenze ce­ rimoniali, crearono un linguaggio polifonico quanto mai ori­ ginale e sfarzoso: accordalità appena mossa da collegamenti contrappuntistici, andamento ritmico pronunciato che prende a prestito certe formule della musica profana, spiccato gusto coloristico derivato dall’alternanza e dalla combinazione di cori vocali e strumentali. Questi i tratti salienti della «scuola veneziana», quali possiamo riscontrare nei due massimi suoi rappresentanti, Andrea (Venezia ca 1510 -1585) e Giovanni Gabrieli (Venezia ca 1555 -1612), zio e nipote (entrambi al servizio della Basilica di San Marco in qualità di organisti) e particolarmente nelle due raccolte di Sacrae symphoniae (1597) e Symphoniae sacrae (1615) di quest’ultimo. Nella tarda produzione di Giovanni la tecnica compositiva si arricchisce di nuove acquisizioni quali il basso continuo (Quem vidistis pastores), i cromatismi e i figurativismi della scuola madrigalisti­ ca d’avanguardia (Timor et tremor), impasti timbrici sempre più sfumati e ricercati (Suscipe clementissime Deus, per 6 voci maschili e 6 tromboni) gareggiando per varietà e ricchezza di soluzioni concertanti con quel capolavoro assoluto che sono i Vespri della Beata Vergine (1610) di Monteverdi che difatti, a buon diritto, si insediò come maestro di cappella di San Mar­ co nel 1615, rimanendovi fino alla morte, [gv] 4. Il madrigale.

Le musiche or ora descritte erano composte naturalmente su testi in lingua latina anche perché dovevano adempiere a funzioni cerimoniali che per tradizione, riferendosi idealmen­ te all’intera cristianità, trascendevano le usanze e le lingue specifiche dei singoli paesi. Ma nel campo della musica profa­ na che, ancora nel Cinquecento, era in larga parte musica can-

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tata, il problema della lingua diventava importante: comporre musica su testi in italiano era possibile solo a partire da una tradizione di canto antecedente, se non altro perché il canto è sempre profondamente legato alla struttura fonetica e ritmi­ ca della parola. In un caso come quello dell’ambiente musicale italiano caratterizzato dall’egemonia di musicisti non italiani il problema si presentava in termini di difficile soluzione, an­ che perché la musica, adottando la lingua italiana, doveva en­ trare in un contesto di cultura letteraria che l’accettava solo se esistevano certe tradizioni di compatibilità. E abbiamo visto invece come la tradizione letteraria umanistica fosse diffiden­ te nei confronti della polifonia fiamminga, giudicata troppo compromessa con modi di pensiero di ascendenza medievale. Il processo di avvicinamento fra musicisti fiamminghi e lin­ gua e cultura italiana fu dunque lungo e difficile. I primi esempi cominciano a comparire negli ultimi decenni del Quat­ trocento con rare composizioni di quei fiamminghi che si sta­ vano italianizzando, da Josquin (El grillo è bon cantore, Scara­ mella va alla guerra) ad Alexander Agricola, ospite nel 1470 di Lorenzo de’ Medici a Firenze (il carnascialesco Canto dei faci­ tori di olio), da Jacob Obrecht, che muore di peste a Ferrara nel 1505 (lo strambotto La tortorella) a Loyset Compere, pre­ sente a Milano nel 1475 [Che fa la ramacina, Scaramella fa la galla), a Heinrich Isaah, vissuto quasi sempre, sino alla morte nel 1515, a Firenze presso i Medici {Palle palle e vari canti carnascialeschi). Ma è soprattutto a partire dal terzo decennio del Cinque­ cento che si creano condizioni più favorevoli alla collaborazio­ ne. La moda letteraria della poesia di ispirazione petrarchesca ebbe forse un ruolo importante in questo campo. Il suo carat­ tere colto, raffinato e antico certamente si prestava assai me­ glio delle strofette di tipo popolaresco a che fosse messo in musica in uno stile sapiente come quello fiammingo. D’altro lato è anche probabile che dopo anni di assidui contatti il pro­ cesso di «naturalizzazione» dei musicisti d’oltralpe e la loro conoscenza dell’ambiente culturale italiano avesse ormai rag­ giunto un grado soddisfacente di maturità. Il primo e più te­ nace fautore di un ritorno al gusto petrarchesco nella lettera­ tura italiana fu Pietro Bembo. Tagliando corto con l’eclettismo quattrocentesco, fra colto e popolare, Bembo addita in Petrarca il modello esclusivo del­ la poesia. E a partire dal 1530 circa il nuovo petrarchismo, nel giro di un trentennio, giunge a permeare l’intero sistema

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poetico italiano, rivelandosi l’interprete più fedele degli ideali della società che lo produce. Esso, infatti, si mostrava perfet­ tamente affiatato con le tendenze aristocratiche e universali­ stiche dominanti nella cultura rinascimentale, offrendo di es­ se l’espressione retorica più rigorosa e compatta. Né esso con­ cerneva unicamente la lingua, ma finiva per assurgere ad orga­ nismo antropologico in sé concluso e perfetto da cui ricavare non solo forme espressive, ma addirittura regole generali di comportamento: i pregi fisici della donna, che dovevano esse­ re sublimati dalle virtù morali, una compostezza di contegno che l’uomo era tenuto ad osservare, ugualmente distante dalla brama volgare e dalla fuga mistica, secondo un ideale di aureo equilibrio, facevano parte integrante degli ideali umani del perfetto «cortigiano». Tali furono i contenuti poetici musica­ ti dai madrigalisti del Cinquecento, i quali, assumendo ad ar­ chetipi quelli del Petrarca, elessero il poeta trecentesco a ispi­ ratore supremo delle loro composizioni, intonando soprattut­ to i versi suoi insieme alle liriche di quanti del loro tempo, •maggiori o minori, si rifacevano a quell’insigne modello: lo stesso Bembo, Jacopo Sannazzaro, Ludovico Ariosto, Gio­ vanni Guidiccioni, Luigi Cassola, in un primo momento, fra i più frequentati, e più avanti Torquato Tasso, Giovan Batti­ sta Guarini, Giambattista Marino e innumerevoli altri. Il nuovo genere musicale che nacque da questo connubio musico-letterario fu il madrigale, intendendosi con questo ter­ mine un tipo di composizione che con l’omonimo «madriga­ le» del Trecento niente aveva in comune né sul piano musica­ le né su quello letterario. Con il termine di madrigale si intende infatti una composi­ zione polifonica, inizialmente a 4, poi soprattutto a 5 voci, su un testo poetico relativamente breve (poteva essere ad esem­ pio un sonetto) che veniva musicato frase per frase, ogni frase avendo un suo senso compiuto - dall’inizio alla fine, di nor­ ma senza riprese e senza ritornelli. L’effetto doveva essere quello di una sorta di recitazione del testo poetico, massimamente fedele all’intonazione delle parole, al loro ritmo, al loro carattere espressivo, ma doveva anche in un certo senso «am­ plificare» quel testo, moltiplicarne le potenzialità letterarie implicite, se non altro perché il testo veniva «recitato» da tut­ te le voci che partecipavano al canto. La continuità della reci­ tazione era assicurata dal fatto che, tranne per effetti partico­ lari (ad esempio interruzioni o pause volute) ogni frase veniva conclusa da una cadenza alla quale partecipavano solo alcune

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delle voci, mentre le altre contemporaneamente iniziavano a intonare la frase successiva. Ne derivava una sorta di forma a incastri e suture continue, che si concludeva solo alla fine del­ la «recitazione». Tutto ciò aveva avuto precedenti nella tra­ dizione della polifonia fiamminga ed era praticato anche nei generi sacri del motetto e della messa. Ma ciò che distingueva il madrigale dalle altre forme era soprattutto l’attenzione al­ l’illustrazione del significato delle parole, secondo un proce­ dimento che non è improprio riferire storicamente alle radici umanistiche del canto poetico. A seconda delle sollecitazioni presenti nel testo ogni frase poteva venire intonata dalle di­ verse voci con procedimenti imitativi oppure con pronuncia omoritmica e contemporanea delle sillabe del testo, da tutte insieme le voci oppure solo da alcune di esse, per esempio dal­ le sole voci superiori o dalle sole voci inferiori, che potevano anche intrecciare effetti a dialogo. Grazie alla sua complessità e alla sua continua sottile ade­ renza al testo verbale, il madrigale non era nato come musica da concerto o da spettacolo. Non mancavano certo madrigali composti per festività o occasioni celebrative, ad esempio per nozze, per arrivi di personaggi illustri, o anche per musiche da cantare negli intermezzi delle rappresentazioni sceniche, ma in genere il madrigale era piuttosto un tipo di composizione che si addiceva ad ambienti riservati e soddisfaceva partico­ larmente le esigenze di chi lo cantava. E in molti casi i cantori potevano essere non solo i professionisti della cappella ma an­ che raffinati musicisti dilettanti che abbondavano nelle corti ma esistevano anche al di fuori di quelle negli ambienti del­ l’intellettualità borghese. Tant’è vero che non è infrequente trovare tracce di società culturali o «accademie» i cui membri fig. 9 si univano proprio per il piacere di queste esecuzioni musicali. Il che spiega anche le fortune economiche dell’editoria che so­ prattutto a Venezia stampava quantità rilevantissime di testi madrigaleschi. I primi esempi di madrigali, le cui stampe cominciano a comparire attorno agli anni trenta sono in genere caratterizza­ ti da una struttura musicale abbastanza semplice e piana, che corrisponde a quell’ideale di «dolcezza e soavità» a cui, se­ condo testimonianze coeve, tende il pubblico degli intendito­ ri dell’epoca. Fra i primi e piu famosi compositori di madrigali è il francese Philippe Verdelot, morto nel 1552 e attivo nel­ l’ambiente fiorentino. Ma cominciano in quest’epoca a farsi notare anche alcuni musicisti italiani.

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La metodicità di ogni linea vocale emerge ad esempio nei madrigali di Costanzo Festa (come in Cosisuavè’lfoco a. quat­ tro voci) al pari che nelle sue composizioni sacre, sino al punto di divenire tipica della polifonia della scuola romana, di cui egli è considerato uno dei primi autorevoli rappresentanti ita­ liani; sono caratteri che riscontreremo più tardi nei madrigali (dall’autore stesso giudicati modesti), di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Ma è soprattutto con Jacob Arcadelt (ca 1504 - Pa­ rigi 1568) che il sentimento metodico, nel primo madrigale cinquecentesco, raggiunge il suo momento più intenso. Proba­ bilmente allievo di Josquin in Francia, quindi di Verdelot a Firenze, Arcadelt passò la maggior parte della sua vita in Ita­ lia. Oltre che a Firenze visse nella cerchia di Willaert a Vene­ zia, e a Roma quale cantore nella cappella papale. A Venezia pubblicò, fra il 1539 e il 1544, tutte le sue raccolte di madri­ gali, consistenti in cinque libri a quattro e in uno a tre voci. Uno dei suoi madrigali, Il bianco e dolce cigno, divenne cosi popolare che fu ristampato numerosissime volte fino al secolo seguente. In tale humus metodico rifiorisce, restandone condiziona­ ta, la sapienza contrappuntistica dei maestri fiamminghi, la quale si dispiegherà nuovamente nel madrigale della seconda metà del xvi secolo. E sarà ancora uno di costoro, Adrian Willaert, a promuoverne la rivalutazione entro il «soave» tes­ suto polifonico madrigalesco. I primi madrigali di Willaert, scritti durante gli anni 1530-35, sono ancora sostanzialmente semplici e differiscono poco, dal punto di vista strutturale, da quelli di Verdelot e di Arcadelt. In seguito, però, il capostipi­ te della scuola polifonica veneziana vi immetterà un uso sem­ pre più ricco, anche se tutt’altro che artificioso, del contrappunto: un contrappunto che lungi dall’offuscare la parola, ne amplifica il senso e ne potenzia l’espressività implicita. Verso la metà del secolo la struttura del madrigale tende ad acquistare maggiore complessità e mobilità, non solo per la più accentuata elaborazione contrappuntistica, ma anche per un uso sempre più disinvolto dei cosiddetti «cromatismi», in­ tendendosi con questo termine due procedimenti fondamen­ talmente diversi anche se entrambi volti a conferire maggiore drammaticità alla dizione musicale del testo. Da un lato infat­ ti «cromatismo» significa uso diffuso delle note di colore ne­ ro, che graficamente indicavano i valori di durata più brevi. Madrigali cromatici sono cosi quelli che alternano ritmi di re­ citazione più vari e veloci a ritmi più statici e lenti. D’altra

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parte con lo stesso termine vengono indicate le alterazioni to­ nali delle note (i diesis o i bemolle) alle quali la sensibilità del tempo attribuiva particolari caratteri di tensione o anche di languidezza. Il patrimonio espressivo del madrigale si arric­ chisce dunque gradualmente di questi nuovi mezzi. Fra i prin­ cipali propositori di questo nuovo stile la tradizione indica un altro fiammingo, Cipriano de Rore (ca 1516 - Parma 1565) che effettivamente compose anche (ma non solo) madrigali di questo tipo. In realtà è difficile attribuire a un solo musicista caratteristiche che erano diffuse nella sensibilità dell’epoca e si espandevano per iniziativa coerente di compositori diversi. Per esempio tracce di cromatismo si trovano anche nei madri­ gali di Willaert. Rore fu suo successore nella Basilica di San Marco e autore di cinque libri di madrigali a cinque voci e di due a quattro. Vivendo in Italia fra Venezia, Ferrara e Parma, dove mori nel 1565, Rore sintetizza le esperienze poetiche, armoniche, contrappuntistiche, melodiche e formali dei pre­ decessori e dei contemporanei, fiamminghi e italiani, consa­ crando il modello classico del madrigale rinascimentale a dif­ fusione internazionale. Sotto il riguardo poetico Rore si attie­ ne soprattutto al Petrarca, del quale musica tutte le undici stanze (undici madrigali) della canzone Vergine bella e molti sonetti, curando la piu stretta aderenza della musica al testo. Sotto l’aspetto armonico sa contemperare diatonismo e cro­ matismo in intima relazione con la poesia. Quanto alla melo­ dia indulge volentieri, quando il testo lo richieda, a frasi di in­ solita lunghezza e di grande leggiadria. Infine, formalmente, Rore sancisce lo standard tipico del madrigale a cinque voci, presentando una congrua alternanza di episodi omoritmici e contrappuntistici, conforme all’articolazione del componi­ mento poetico. Comune ai madrigali di Rore, ma anche a quelli di tutti i suoi contemporanei, è un altro tratto stilistico tipico: quello che va sotto il nome di «madrigalismo». Con questo termine si intende l’usanza di «illustrare» o «imitare» con procedimenti musicali i significati delle parole che venivano musicate: tipico è ad esempio l’uso di scale o in­ tervalli ascendenti o di tessiture acute quando la parola da cantare è «cielo». Altrettanto tipico è l’uso contrario quando la parola è «inferno» o «abisso». Cosi la parola «sospiro» ve­ niva di norma pronunciata con due emissioni di fiato separate da una pausa. Procedimenti di questo tipo riflettevano più il gusto per l’allusione sottile o il piacere offerto agli intenditori che non una vera e propria reinvenzione del testo verbale in

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termini profondamente musicali; tuttavia la loro presenza non fu senza importanza storica se non altro perché favori la ri­ flessione sulle relazioni fra la musica e gli «affetti» della paro­ la che nel secolo successivo ebbe conseguenze decisive sul gu­ sto musicale di tutta Europa. Negli ultimi decenni del secolo la fortuna del madrigale lo conduce gradualmente a dilagare verso altri generi ai quali trasferisce alcuni dei suoi caratteri e dai quali a sua volta trae suggerimenti: ad esempio verso i generi di carattere più legge­ ro e popolaresco, come la villanella e la canzonetta, oppure verso testi di tipo implicitamente teatrali e come dialoghi o scene di commedia, o infine verso testi in lingua volgare, ma di carattere spirituale, a cui lo conducevano le tendenze del­ la cultura della controriforma. La fioritura di canti di natura o di influenza popolaresca che abbiamo citato parlando degli ultimi anni del Quattrocen­ to (i canti carnascialeschi o le frottole: ma altri analoghi ne esistevano, ad esempio le villette) continuò ininterrotta anche durante il secolo successivo. Da Napoli si diffuse ad esempio nelle regioni nordiche d’I­ talia la villanella o villanesca) strofica su testi vivaci spesso in dialetto, generalmente a tre parti omoritmiche. A Venezia ri­ fiorirà la nuova giustiniana, parodia della quattrocentesca, or­ mai caduta in disuso, che avrà carattere satirico e burlesco e sarà coltivata da Andrea Gabrieli; e insieme vedrà la luce la gregjiesca) per lo più su testi di Antonio Molino, comicamente misti di dialetto veneziano, istriano e greco. Da Venezia e da Napoli, ad un tempo, verrà la moresca) simile al canto carna­ scialesco fiorentino, la quale metterà in caricatura gli schiavi negri. E ancora vanno ricordate, fra le forme leggere parallele al madrigale, nel tardo Cinquecento, la canzonetta) affine alla villanella; e il balletto per voci e strumenti, concepito in stile di danza, coltivato in particolare da Giovanni Giacomo Gastoldi, autore di un libro che conobbe una straordinaria fortu­ na, probabilmente non eguagliata da nessun’altra raccolta del tempo, si da dar voga a un genere diffuso anche all’estero, specie in Inghilterra e in Germania. Tutti questi tipi di composizioni possiedono, come abbia­ mo detto, forma strofica, impiegano di solito complessi vocali ridotti (a 3 o 4 voci, salvo eccezioni), utilizzano moduli melo­ dici vivaci e talvolta civetterie allusive, come quella di usare «quinte parallele», rigorosamente proibite dalla musica «sa­ piente». Ma in qualche caso vi si trovano anche, soprattutto

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verso la fine del secolo, procedimenti imitativi, madrigalismi, temi idillici o amorosi, che talvolta trasformano la canzonetta in una sorta di madrigale in miniatura. Viceversa il madrigale stesso mette in musica talora temi di natura realistica o descrittiva o di ambientazione popolare, senza perdere delle sue strutture musicali caratteristiche, ma trasformando profondamente la sua primitiva ispirazione pretrarchesca. Ad esempio fin dal 1567 il fiorentino Alessandro Striggio si era specializzato in un tipo di madrigale descrittivo e realistico ricco di ispirazione popolare, di cui l’esempio piu famoso è offerto da II cicalamento delle donne al bucato, a set­ te voci, che in un prologo e quattro scene descrive le chiac­ chiere delle donne che lavano i panni, dando vita alla comme­ dia madrigalesca, ovvero all’indirizzo del madrigale dialogico o drammatico che verrà poi a culminare nei lavori più famosi del modenese Orazio Vecchi e del bolognese Adriano Banchieri. II più famoso lavoro del primo è l’Amfipamaso, del 1597, in cui mischiandosi a quello del madrigale stili multiformi e dia­ letti disparati (veneziano, bolognese, bergamasco, spagnolo e finto ebraico), viene rappresentata, solo per le orecchie, una vicenda tipica della commedia dell’arte; Banchieri ne farà un anno dopo una imitazione alquanto semplificata con la sua Pazzia senile. Ma i più celebrati e certamente i più rilevanti rappresentanti dell’ultima produzione madrigalistica sono tre musicisti italiani: Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa e Claudio Monteverdi. Di quest’ultimo (che praticò anche il melodramma, genere tipico di una fase successiva della storia musicale) parleremo in forma più organica nel capitolo succes­ sivo. Luca Marenzio (Coccaglio, Brescia, ca 1553 - Roma 1599), il più celebrato autore di madrigali dei tempi suoi, chiamato dai contemporanei il «dolce cigno» per antonomasia, lasciò una nutrita produzione madrigalistica: un libro a quattro voci, nove a cinque, più altri due di genere spirituale; inoltre lasciò cinque collane di villanelle a tre voci. Padrone di tutte le tec­ niche (imitazioni fugate, canoni, stretti, moti contrari), Ma­ renzio le riconduce alla condizione, di una seconda natura, os­ sia di una prassi spontanea. Nei suoi madrigali diventa domi­ nante una logica musicale diversa dalla fiamminga, capace di dar coerenza alle alterazioni cromatiche più ardite, a un melodizzare ampio ed espressivo, a dissonanze senza preparazione. La tecnica imitativa, talora anche virtuosistica e il simbolismo descrittivo dei madrigalismi, trovano, in Marenzio intima ri­

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spondenza nei significati verbali dei testi animati anche dal­ l’uso di sincopi e di valori ritmici sempre differenziati. Né manca di accedere, Marenzio, agli effetti teatrali, ricorrendo, specie negli ultimi suoi anni, sull’esempio dei veneziani, alla tecnica del dialogo policorale e alla disposizione ad eco delle voci, nonché tendendo a uno stile declamatorio, forse influen­ zato dalle nascenti pratiche del melodramma. Altrettanto potentemente declamatorio appare lo stile del­ l’ultimo grande madrigalista, il napoletano Carlo Gesualdo principe di Venosa (Napoli 1560-1613), celebre per aver as­ sassinato la moglie e l’amante Fabrizio Carafa sorpresi in fla­ grante adulterio e per aver sposato in seconde nozze Eleonora d’Este, nipote di Alfonso II duca di Ferrara. La parola è al centro della sua attenzione e non già quella scritta, né sempli­ cemente significata, ma quella effettivamente detta, recitata, colta nell’atto del suo prodursi materiale, secondo i dettami di un’arte retorica tuttora rigorosamente osservata. Con l’inse­ diarsi, in ambito musicale, di codesta centralità della parola, conseguente alla rilevanza già acquistata nel Rinascimento, si entra nel capitolo del Barocco e della sua poetica, allorché la poesia e le arti tutte che la servono, musica compresa, si fanno teatro. Per ora basti dire, a proposito di Gesualdo, che il suo stile intensamente e violentemente cromatico, il carattere po­ lifonicamente statico, la variabilità metrica e l’irregolarità rit­ mica rispondono alla volontà di scolpire immediatamente l’e­ sclamazione della parola, nella sua materiale articolazione re­ torica, persino in deroga alle regole consuete del comporre musicale. La qual cosa conferisce un che di espressionistico e di sperimentale ai suoi madrigali, comprendenti cinque libri a cinque voci (oltre a un sesto a sei voci pervenuto completo). [ps]

5. Il Cinquecento europeo.

Nella musica profana francese del xvi secolo c’è un genere musicale che, come il madrigale in Italia, è assolutamente pre­ dominante: la chanson. Già nei primissimi volumi a stampa Ottaviano Petrucci pubblicava a Venezia una raccolta di chansons francesi che evidentemente, sull’onda della presenza oltremontana, gode­ vano di una certa fortuna anche presso di noi. In questo pe­ riodo il tipo di chanson che prevaleva nella produzione inter-

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nazionale era quello sapiente, elegante e vivace che trovava i suoi modelli nella produzione in lingua francese di Josquin Desprès. Ma fu solo verso la fine degli anni Venti che il gene­ re della canzone francese si impose con la forza di un vero e proprio successo su larga scala. Agli anni 1528c 1529 risalgo­ no le prime raccolte pubblicate a Parigi dall’editore Attaingnant: canzoni polifoniche che mescolavano con accorto do­ saggio la dottrina compositiva con la vivacità di moduli popo­ lareschi, l’eleganza raffinata con il richiamo a ritmi di danza, la vena sentimentale o malinconica con l’ammiccamento scherzoso o piccante. Per più di vent’anni Attaingnant pub­ blicò decine di fortunate raccolte in cui spiccano soprattutto i versi di un poeta, Clément Marot, segretario di Francesco I (fra l’altro traduttore di una cinquantina di Salmi che, adotta­ ti da Calvino, costituiranno il nucleo della liturgia ugonotta), e due musicisti, Claudin de Sermisy e Clément Janequin, tutti e due al servizio della cappella reale di Parigi ed ivi morti in­ torno al 1560. Entrambi furono compositori di raffinata de­ licatezza lirica ma Clément Janequin (Chàtellerault, Vienne ca 1485 - Parigi 1558) divenne particolarmente famoso per le sue chansons narrative che descrivono determinate scene o si­ tuazioni con effetti onomatopeici; come quelli de la guerre, scritta per celebrare la vittoria di Francesco I a Marignano nel 1515, che evocano fanfare militari, scalpitìi di cavalli, fragori di combattimento e simili, dando incremento a una voga di la­ vori descrittivi che si manifesterà nella forma, anche strumen­ tale, della battaglia, illustrata da famose composizioni di An­ nibaie Padovano e di Andrea Gabrieli. Di ispirazione analoga sono Le chant des oyseaux e Les cris de Paris. Sia le chansons di Sermisy che quelle di Janequin conobbe­ ro vasta notorietà, comprovata dagli adattamenti per voce so­ la e liuto divulgati a stampa e rispondenti a una pratica in uso in quegli anni. Fra i musicisti presenti nelle raccolte di Attaingnant com­ parivano fra l’altro anche autori che già conosciamo in veste di madrigalisti, come Willaert e Rore. Nella seconda metà del secolo la chanson polifonica trasse molti dei suoi testi dai poe­ ti del gruppo della Plèiade (in particolare da Ronsard) influen­ zati dalla tradizione umanistica e petrarchesca italiana; e i musicisti stessi (fra i quali si ricorda in particolare Guillaume Costelay) furono sensibili a inflessioni e procedimenti tratti dai modelli del madrigale. Di una curiosa sperimentazione umanistica si fece poi protagonista la « Académie de Poésie et

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Musique» promossa nel 1567 da Jean-Antoine de Baìf che, nel tentativo di ristabilire l’unione drammatica tra poesia, musica e danza alla maniera dei greci, aveva concepito il vers tnesuré; aveva cioè riesumato la metrica quantitativa greca e latina, destando il vivace interesse dei musicisti che si erano provati ad applicare gli stessi criteri alla musica. Quanto alla musica sacra diffusa in Francia nel ’500 si può dire che un vero e proprio stile «nazionale» sottratto all’ege­ monia dei compositori di scuola fiamminga cominci a emerge­ re solo negli ultimi anni Venti, cioè dopo la morte di Josquin. La produzione locale assume allora tratti stilistici caratte­ rizzati da un accentuato processo di semplificazione rispetto alla polifonia fiamminga: la dizione diventa di tipo sillabico e declamatorio, con uso moderato di procedimenti imitativi, frasi brevi, testo evidenziato e comprensibile; un organismo stilistico non particolarmente sofisticato e originale, ma adat­ to ai gusti di un vasto pubblico che infatti mostrò di gradirlo e gli decretò un notevole successo. Fra i vari musicisti che si dedicarono a questo genere di composizioni il più noto è Claude Goudimel, che oltre a musiche di rito cattolico fu au­ tore anche del Salterio ugonotto cioè dei Salmi che venivano usati nella chiesa calvinista, i cui testi letterari erano stati tra­ dotti in versi da Clement Marot. Nella seconda metà del secolo, sia nel campo della chanson sia in quello della musica religiosa ebbe un posto particolaris­ simo, e anzi addirittura predominante la figura di Orlando di fig. io Lasso (Mons Hainaut ca 1530 - Monaco 1594), un musicista di origine fiamminga ma di grandissima esperienza interna­ zionale. Entrato all’età di 14 anni al servizio di Ferrante Gon­ zaga - generale dell’imperatore Carlo V - ebbe importanti esperienze formative in Italia, a Napoli e a Roma, dove diven­ ne anche maestro di cappella in San Giovanni in Laterano. Nel 1557 fu assunto come tenore a Monaco nel complesso musicale del duca di Baviera, di cui cinque anni dopo prese la direzione che tenne fino alla morte. Ma il suo servizio non gli impedì di viaggiare continuamente, fatto oggetto di grandis­ simi onori da parte del re di Francia, dell’imperatore e di una quantità di regnanti delle più importanti città europee. Com­ pose un numero enorme di opere, pubblicate dai più impor­ tanti stampatori di Europa, sia sacre (messe e circa 800 mot­ tetti) sia profane. In quest’ultimo campo la sua versatilità in­ ventiva lasciò tracce importanti in tutti i generi musicali della

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sua epoca: in particolare nel madrigale, nella chanson e nel Lied tedesco. Come nel caso di Orlando di Lasso, cosi anche in quello di molti altri musicisti europei il contatto con l’Italia fu determi­ nante per la formazione del loro stile sia nel campo della mu­ sica sacra (dove i severi modelli della cattolicità romana e quelli sontuosi della ritualità veneziana trovarono larga fortu­ na oltre i confini della penisola) sia in quello stesso del madri­ gale su testo in volgare. Contatti estremamente fecondi nell’ambito della musica sacra furono intrattenuti nel secolo xvi fra la polifonia roma­ na e i musicisti spagnoli. I due più importanti rappresentanti della polifonia sacra del Cinquecento spagnolo Cristobal de Morales (Siviglia ca 1500 - Malaga 1553) e Tomàs Luis de Victoria (Avila ca 1548 - Madrid 1611), rispettivamente della prima e della seconda metà del secolo, avevano ricoperto ca­ riche importanti nelle istituzioni romane: il primo era stato cantore nella Cappella Sistina e fu dignificato del titolo di «Conte del Sacro Palazzo e di San Giovanni in Laterano»; il secondo, dopo aver studiato nel Collegium Germanicum l’istituzione creata principalmente allo scopo di educare i gio­ vani dei paesi germanici - mentre Palestrina aveva la direzio­ ne musicale del Collegium Romanum, ottenne successivamen­ te la direzione musicale di entrambe le istituzioni. Prima di tornare in patria e divenire maestro di cappella del coro del Monasterio di Las Descalzas Reales a Madrid dove si era riti­ rata l’imperatrice Maria, sorella di Filippo II, de Victoria nel periodo romano ebbe tempo e occasione di approfondire lo studio dello stile palestriniano e di maturarne uno proprio in cui i tratti salienti della polifonia romana si combinano con un’intensa emozione religiosa. Il madrigale a sua volta, alla cui diffusione in Germania contribuì l’esuberante produzione di Orlando di Lasso, oltre che quella di un altro fertilissimo fiammingo, Philippe de Monte, ebbe una particolarissima fortuna in ambiente in­ glese. In Inghilterra, si svilupperà infatti una vera e propria scuo­ la madrigalistica con caratteri nazionali originali a partire dal­ la pubblicazione, nel 1588, della prima antologia di madrigali italiani tradotti in inglese e intitolata Musica Transalpina, comprendente anche la versione inglese di un passo dell’Orlando furioso musicato madrigalisticamente da William Byrd (Lincolnshire? 1543 - Stondon Massey, Essex 1623). A que-

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st’ultimo può dunque esser fatto risalire il movimento madri­ galistico locale legato al sorgere di un ceto medio che dava adito a un dilettantismo esecutivo conservatosi saldamente in Inghilterra al punto da prolungare qui la coltivazione del ge­ nere oltre al periodo della sua fioritùra in Italia. All’afferma­ zione di tale tradizione, la cui nota distintiva era data dalle ca­ ratteristiche espressive della lingua inglese, concorsero, fra gli altri, Thomas Morley e Orlando Gibbons. Il madrigale si sa­ rebbe estinto in Inghilterra a Seicento inoltrato, cedendo il campo alla monodia accompagnata, di cui già i songs e gli ayres per voce sola con accompagnamento di strumenti di John Dowland, a loro volta influenzati dal madrigalismo italiano, avevano fornito esempi insigni. Quanto ai paesi di lingua tedesca, si assiste anche qui come in Italia a una graduale compenetrazione della tradizione fiamminga con la tradizione locale. Nel campo della musica profana il Tenorlied cade in disuso solo dopo la metà del seco­ lo, ma fino a quel periodo continua a venir coltivato dai mag­ giori compositori operanti in Germania. Se ne conoscono esempi dovuti a Heinrich Isaah che, oltreché con la corte me­ dicea, ebbe contatti anche con le corti tedesche e soprattutto con quella di Costanza, e al suo discepolo Ludwig Senfl (Basi­ lea ca i486 - Monaco di Baviera 1543). A entrambi questi musicisti si deve anche una assai copiosa produzione di musi­ che sacre, in particolare di messe e mottetti. Una imponente raccolta di mottetti su canto fermo, iniziata da Isaac e com­ pletata da Senfl, è il cosiddetto Choralis Constantìnus compo­ sto per il Duomo di Costanza e contenente musiche per le ce­ lebrazioni liturgiche di tutte le feste annuali. Un nuovo capi­ tolo per la storia della canzone tedesca iniziò con Orlando di Lasso che pubblicò un centinaio di composizioni applicando al contesto di quella tradizione procedimenti derivati dall’espe­ rienza della chanson e del madrigale. Particolarmente legato alla figura di Lasso è la divulgazione di correnti e tendenze sti­ listiche di provenienza italiana che avranno anche nei secoli successivi grande importanza per l’ambiente musicale tedesco. Ma il momento decisivo per l’identificazione e la fondazio­ ne di una tradizione musicale nazionale è costituito in Germa­ nia dal movimento della Riforma luterana che vedeva nell’at­ tività musicale uno dei suoi più importanti canali di diffu­ sione. Martin Luther quando nel 1517 affisse alla porta della Cat­ tedrale di Wittenberg le sue 95 tesi, era ben conscio che l’uso

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della musica nell’ambito della liturgia era di fondamentale im­ portanza perché toccava da vicino non tanto i problemi teolo­ gici quanto la devozione dei fedeli e la loro unione comunita­ ria. Luther era un ottimo conoscitore di musica e suonava sia il liuto che il flauto; inoltre scriveva poesie religiose: era per­ ciò la persona piu adatta a proporre anche una riforma della stessa musica liturgica per sottrarla al predominio sia del can­ to gregoriano che dello stile polifonico. La piu importante aspirazione di Luther, nella sua ansia riformatrice, era di ri­ creare un canto religioso comunitario, sentito dal popolo co­ me qualcosa di proprio e non di imposto dal di fuori e dall’al­ to. A tal fine riorganizzò tutto il cerimoniale della messa se­ condo le sue nuove direttive: al latino venne in gran parte so­ stituito il tedesco, ma ciò che piu conta è la trasformazione dell’elemento musicale. Il gregoriano e il canto polifonico tra­ dizionale furono sostituiti da un nuovo materiale tratto da va­ rie fonti, per lo piu di carattere popolare e tedesco. I nuovi canti della liturgia protestante erano semplici Lieder talora «contrafacta» o travestimenti spirituali di canzoni popolari profane. Luther stesso contribuì a creare questo nuovo reper­ torio raccogliendo canti e scrivendo lui stesso nuovi testi poe­ tici in tedesco, di cui parecchi sono in uso ancor oggi come Vom Himmel hoch> da komm ich her (Dall’alto dei cieli scendo quaggiù) o ancora Etne feste Burg (Una salda fortezza). Luther non si limitò a rinnovare radicalmente il patrimonio liturgico ma pose le basi di un nuovo atteggiamento nei confronti della musica rispetto alla tradizione cristiana precedente. L’ambi­ valenza del cristianesimo verso la musica, voluta come stru­ mento di preghiera e al tempo stesso temuta per il suo potere di seduzione, viene risolta nell’ideologia protestante. Nella prefazione alla sua raccolta di canti Wittenberg Gesangbuch Luther esprime la sua radicata fiducia nel potere educativo e intrinsecamente religioso del canto: «Io credo, - afferma, che ogni cristiano sappia che intonare canti spirituali è una buona cosa, gradita a Dio; infatti seguendo l’esempio dei pro­ feti e dei re dell’antico testamento (che si rivolgevano a Dio cantando e suonando, con inni e musica prodotta da ogni tipo di strumenti a corde), sin dall’inizio della cristianità tutti han­ no conosciuto la pratica del canto dei salmi... Di conseguenza per iniziare bene e per incoraggiare coloro che possono far meglio, io e parecchie altre persone abbiamo raccolto canti sa­ cri per favorire il diffondersi del santo Vangelo, che ora per grazia di Dio è di nuovo conosciuto. Questi canti inoltre sono

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adattati per quattro voci per il solo motivo che io desidero che i giovani (i quali a parte questo devono essere educati alla mu­ sica e ad altre convenienti arti) abbiano di che sostituire i loro canti amorosi e licenziosi e possano in loro vece imparare can­ ti educativi e accostarsi al bene come loro conviene. Inoltre io non sono dell’idea che tutte le arti debbano sparire dalla terra e perire in nome del Vangelo, come molti bigotti pretendereb­ bero, ma vorrei piuttosto che esse e in particolare la musica fossero volte al servizio di Dio che le ha create e ce le ha da­ te». Questa apertura nei confronti della musica e dell’arte in generale, per il piacere che esse procurano, purché volto a fini buoni, determinò l’impulso caratteristico dei paesi protestanti verso l’educazione musicale e verso la pratica del canto corale sin dalla piu tenera età. L’idea che alla pratica musicale è con­ nesso un profondo e intrinseco potere educativo fece si che si considerasse la musica e il canto non come una disciplina spe­ cialistica ma come una pratica collettiva tendente a formare una concreta comunità di fedeli. La musica lungi dall’essere uno strumento del demonio è piuttosto «un dono di Dio...; essa scaccia il demonio e rende felici». Perciò, afferma ancora Luther in una lettera del 1530 al musicista Senfl, «sono pie­ namente convinto, che dal punto di vista teologico nessun’ar­ te può stare alla pari della musica. Vorrei trovare parole per tessere le lodi di questo meraviglioso dono divino, la bella arte della musica... La musica è il balsamo efficace per calmare, per rallegrare e per vivificare il cuore di chi è triste, di chi sof­ fre. Ho sempre amato la musica... E assolutamente necessario conservare la musica nella scuola. Bisogna che il maestro di scuola sappia cantare, altrimenti lo considero una nullità... Bi­ sogna abituare i giovani a quest’arte perché rende gli uomini buoni, delicati e pronti a tutto. Il canto è l’arte piu bella e il migliore esercizio. Essa non ha nulla da spartire con il mondo; non la si ritrova né di fronte ai giudici, né nelle controversie. Chi sa cantare non si abbandona né ai dispiaceri né alla tri­ stezza; è allegro e scaccia gli affanni con le canzoni». Nessu­ n’ombra di moralismo di fronte al piacere della musica si ri­ trova nelle parole di Luther, anzi nel suo pensiero la musica assume di per sé una funzione quasi redentrice e pacificatoria nei confronti dei turbamenti che agitano l’animo dell’uomo. Di qui discende l’accento posto cosi insistentemente sull’im­ portanza di una educazione musicale generalizzata. Queste idee di Luther, condivise con qualche sfumatura da tutti i suoi seguaci e dagli altri riformatori, ad eccezione forse di

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Calvino, su posizioni più rigide e più moralistiche nei con­ fronti della musica nell’ambito della nuova chiesa, è alla radi­ ce del particolare sviluppo della musica liturgica e non liturgi­ ca, vocale e strumentale nei paesi che hanno subito l’influenza della riforma protestante. Molte raccolte di canti compaiono nei decenni successivi alla riforma; Johann Walter, musicista assai vicino alle idee di Luther e suo collaboratore, pubblicò nel 1524 il Geystliche gesangk Buchleyn (Libretto di canti spirituali), e nel 1544 appar­ vero i Newe deudsche geystliche Gesenge (I nuovi canti spiri­ tuali tedeschi); entrambe le raccolte contenevano composizio­ ni polifoniche concepite in uno stile assai vicino a quello del Tenorlied polifonico. Solo a partire dal 1580 cominciano a comparire raccolte di tipo omofono o anche monodico desti­ nate a concedere una maggiore partecipazione dei fedeli al canto collettivo. Inoltre Walter pose già le basi di un genere tipicamente protestante, la passione. Il racconto evangelico, fu ripreso nella lingua tedesca, drammatizzato in stile responsoriale: al coro vengono affidate le parti della folla, i perso­ naggi chiave, Gesù, gli Apostoli, Pilato ecc., vengono trattati in stile monodico, creando cosi una versione tipicamente te­ desca di quello che sarà più tardi l’oratorio sacro latino, ma in uno stile più popolare, più immaginifico, più toccante, dotato di un’efficacia più immediata sui fedeli, [ps e ef]

6. I teorici.

La teoria della musica è sempre stata sin dalla più remota antichità una scienza con un suo sviluppo quasi autonomo ri­ spetto alla prassi musicale, tanto è vero che se ne può fare for­ se una storia anche prescindendo in buona parte da ciò che realmente è accaduto nel mondo della musica. Si è già parlato a lungo dei motivi di questa frattura tra teoria e prassi, che ha le sue radici ancora nel mondo antico ed è sopravvissuta, an­ che se con motivazioni in parte diverse, nel mondo cristiano medievale. Pertanto solo con il Rinascimento tale profondo dislivello tra i due piani si va colmando e forse per la prima volta nella storia della musica occidentale i teorici e filosofi della musica non solo s’inseriscono a pieno titolo nel dibattito vivo che anima il mondo musicale dopo l’Zrs nova, ma rappre­ sentano uno dei grandi poli propulsori nel clima di fermento e di rinnovamento di forme, di stili e di contenuti proprio del

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Rinascimento. Infatti i temi trattati dai teorici sono del tutto adeguati ai problemi reali della musica del tempo; a comincia­ re dall’opera del Tinctoris, teorico nativo delle Fiandre, il quale scrisse il primo dizionarietto dei termini musicali dal ti­ tolo Diffinitorium Musìcae, a scopo didattico, in cui ci offre al­ cune definizioni ispirate ad un chiaro empirismo. Egli defini­ sce l’armonia come «una certa piacevolezza prodotta da suoni appropriati»; il compositore sarebbe «l’inventore di qualche nuova melodia», mentre la consonanza e la dissonanza vengo­ no definiti in termini puramente soggettivi; la prima è «una mescolanza di diversi suoni che porta dolcezza alle orecchie », mentre la seconda è «una mescolanza di diversi suoni che per loro natura offendono le orecchie». In un’altra sua famosa opera, Complexus effectuum musices, il Tinctoris enumera ed illustra i venti effetti prodotti dall’arte dei suoni, in cui oltre ai riferimenti d’obbligo alle sue funzioni liturgiche, pone l’ac­ cento sulla sua forza di stimolo emotivo, con un pieno ricono­ scimento del piacere come scopo e fine della musica, lontano ormai da ogni remora moralistica o da criteri legati ad una astratta metafisica del suono. Ma l’epoca di maggiore fioritura della teoria musicale è la seconda metà del Cinquecento, i decenni in cui si pongono le fondamenta dell’armonia classica, del sistema bimodale mag­ giore-minore che viene a sostituire il sistema plurimodale su cui si basava la polifonia, in cui si inventa e progetta il nuovo spettacolo musicale che è il melodramma. Questi fenomeni che hanno profondamente rivoluzionato tutto il mondo della musica, aprendo una nuova era nella sua storia, sono stati og­ getto di dibattito e a volte di accanite discussioni tra i teorici della musica; ma forse per la prima volta tali polemiche sono uscite da un ambito puramente specialistico e hanno investito l’intero mondo della cultura e dell’arte. Poeti, letterati, scien­ ziati, teologi oltre che naturalmente i musicisti, sono stati per vari motivi interessati a questi problemi e si sono uniti ai teo­ rici per discutere e trovare le soluzioni piu idonee ai problemi che investivano direttamente o indirettamente il mondo della musica. Henricus Glareanus è uno dei primi esempi di teorico della musica che è al tempo stesso musicista, poeta e scienzia­ to e quindi umanista nel senso proprio del termine. Ma il piu importante teorico del tempo, quello la cui influenza è stata determinante sul futuro sviluppo della musica, è senza dubbio il veneziano Gioseffo Zarlino (Chioggia 1517 - Venezia 1590). Nei suoi grandi trattati Istituzioni harmoniche (1558),

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III

Dimostrazioni armoniche (1571), Sopplimenti musicali (1588) egli tenta, forse per la prima volta, di operare una sistematica razionalizzazione della musica, ma non secondo un’astratta logica come in genere avveniva nei trattati dei teorici medie­ vali, ma secondo una razionalità immanente agli stessi rappor­ ti tra i suoni. Alla molteplicità dispersiva di regole che spesso avevano la loro ragion d’essere in esigenze di carattere del tut­ to estranee alla natura della musica, Zarlino vuol sostituire po­ che regole o meglio leggi generali che traggano origine dalla natura stessa della musica, ponendo cosi le basi della nuova scienza dell’armonia fondata non piu sull’universo plurimodale medievale, ma su un piu ristretto e piu logico universo bi­ modale (maggiore e minore) moderno. Il presupposto su cui opera Zarlino è analogo a quello della scienza moderna gali­ leiana, e cioè che il mondo è retto da un ordine di carattere matematico, semplice e razionale e che la natura lo incarna e lo rispecchia fedelmente: «Tutte le cose create da Dio - af­ ferma Zarlino - furono da lui col Numero ordinate». Questo fondamentale presupposto che è servito da guida a tutti i teo­ rici dell’armonia, da Zarlino sino a Rameau e oltre, rappre­ senta la presa di coscienza di una nuova realtà musicale che si andava lentamente preparando, spesso nelle pieghe meno uf­ ficiali della musica del tempo, nelle canzoni popolari, nella musica profana, dove già si affacciava uno schema armonico tonale in cui era già avvertibile la forza dinamica della sensi­ bile e della dominante, in una forma musicale costruita con maggiore semplicità, in modo più logico e più stringato. D’al­ tra parte la teorizzazione di questo nuovo universo musicale è stata a sua volta un potente stimolo nei confronti dei musicisti affinché prendessero più chiaramente coscienza di questo nuovo tipo di costruzione musicale. Pertanto l’idea più rivo­ luzionaria che sta alla base di tutta la teoria armonica di Zar­ lino è che l’armonia stessa si basa sugli intervalli consonanti di terza maggiore, mentre quella minore dipende solamente dal­ la disposizione della quinta nella posizione superiore (do-misol) oppure inferiore (la-do-mi): cosi veniva colmata la con­ trapposizione tra chi si affidava all’orecchio e al piacere udi­ tivo per la determinazione degli intervalli consonanti e chi si affidava ad astratti principi teorico-matematici o metafisici. Infatti da Zarlino in poi si afferma e si rafforza l’idea che la razionalità secondo natura corrisponde perfettamente a ciò che piace all’udito e che perciò tra sensi e ragione non può che esserci che un assoluto accordo. Cosi viene prospettata da

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Zarlino una stretta relazione tra l’armonia e gli effetti della musica. Infatti dall’armonia accordale, pur nella semplicità dei suoi due intervalli fondamentali di terza maggiore e di ter­ za minore, nasce tutta la varietà possibile e di qui derivano anche i possibili effetti sull’animo umano: «quando si pone la terza maggiore nella parte grave, l’armonia si fa allegra; e quando si pone nell’acuto si fa mesta. Di modo che dalla posi­ zione diversa della terza, che si pongono nel contrappunto tra gli estremi della quinta, ovvero si pongono sopra l’ottava, na­ sce la varietà dell’armonia». Zarlino ponendo cosi le basi per un’armonia accordale come sovrapposizione di terze e, fissan­ do una relazione inscindibile tra la sua razionalità matematica e gli effetti da essa prodotti sull’animo umano, ribadisce al tempo stesso la sua avversione per il genere cromatico o peg­ gio ancora per quello enarmonico (cioè i generi in cui ci si ser­ ve oltre che degli intervalli della scala diatonica anche di quel­ li della scala cromatica o di intervalli di quarti di tono), in quanto non trovano a suo parere una giustificazione razionale e proprio per questo essi producono «un triste effetto» ed è «impossibile che possino dilettare». Zarlino, musicista autore di musica polifonica e contrappuntistica, attribuisce la massi­ ma importanza all’unione tra musica e parola, ritenendo che i due linguaggi, se opportunamente accostati e se l’uno non contraddice il significato dell’altro, possono potenziare note­ volmente i loro effetti sull’animo umano; tuttavia ritiene che la musica abbia una sua perfetta e totale autonomia; l’unione con la parola non significa perciò un completamento di un lin­ guaggio di per sé insufficiente, ma l’unione di due linguaggi, entrambi autonomi, per produrre parallelamente e compiutamente i loro effetti sull’animo. La musica non deve quindi piegarsi alla parola seguendone tutte le inflessioni, afferma Zarlino riferendosi evidentemente ai cromatismi e alla prassi di molti madrigalisti del tempo, ma deve conservare la sua ra­ zionalità diatonica, le proprie leggi, senza subordinarsi al lin­ guaggio verbale. Zarlino ha pertanto intravisto non solo la no­ vità tecnica rappresentata dal nuovo linguaggio monodico che appena in quegli anni si stava timidamente affermando, ma anche le sue più profonde implicazioni: il nuovo linguaggio si fa strumento di un discorso musicale più ampio, di una vera e propria narrazione, più articolata e complessa dal punto di vi­ sta emotivo, più ricca di effetti, nuova nella gamma di senti­ menti suscitati rispetto al breve giro musicale e letterario sia del madrigale classico sia del madrigale cromatico in uso alla

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fine del Cinquecento. Di fronte alla linea di Zarlino che mira­ va a fondare la legittimità della musica pura strumentale - ed era proprio il momento in cui si stavano sviluppando gli stru­ menti e in cui la musica strumentale usciva dalla sua quasi clandestinità e marginalità -, parallelamente, altri teorici ac­ centuavano i motivi di polemica nei confronti della polifonia, drammatizzando l’annoso problema dell’incomprensibilità dei testi poetici delle composizioni a più voci. Già Vicentino, nel 1555, nel suo trattato L'Antica musica ridotta alla moderna pratica^ propugnava una astratta integrazione tra musica e lin­ guaggio, affermando che i cromatismi e i più piccoli intervalli enarmonici servono egregiamente a piegare la musica alle più impercettibili inflessioni del discorso poetico. Il musicista non deve quindi solamente limitarsi a non contraddire il tono af­ fettivo delle parole, ma, e ciò è assai più importante, deve se­ guire l’andamento musicale proprio della lingua o, in altre pa­ role, gli accenti che variano anche da lingua a lingua. Vincen­ zo Galilei e tutti i poeti e i musicisti della famosa Camerata fiorentina del conte Bardi, che in quegli anni, come vedremo nel capitolo successivo, stava sperimentando le possibilità di un nuovo tipo di canto a voce sola che fosse il più vicino pos­ sibile alla declamazione della parola, non hanno fatto altro che sviluppare e portare alle estreme conseguenze le idee di Vicentino; giunsero cosi a progettare il nuovo spettacolo me­ lodrammatico che avrebbe dovuto essere l’esempio più signi­ ficativo di questa integrazione di poesia e musica all’insegna però della totale subordinazione della musica alla poesia. Se­ condo Galilei infatti l’unione di due suoni che si fanno udire contemporaneamente è un assurdo logico, ed è paragonabile a due parole pronunciate insieme. Solo un andamento lineare, cioè quello della monodia, è concepibile - afferma Galilei in aperta polemica con Zarlino -, mentre qualsiasi forma di ar­ monia accordale non è neppure da prendere in considerazio­ ne. Evidentemente per Galilei il linguaggio verbale rappre­ senta il modello a cui quello musicale deve adeguarsi, perciò la polifonia è priva di senso: con la sua sovrapposizione parallela di più voci non risponde alla logica del linguaggio verbale e crea una confusione di più linee melodiche in cui l’orecchio si perde completamente. La musica si viene cosi a configurare con l’intensificazione degli affetti del discorso poetico, come una linea che ne valorizza gli accenti, che li evidenzia e li po­ tenzia. [ef]

Capitolo quinto

L’età dei grandi mutamenti stilistici

i.

L "assolutismo e il concetto di Barocco,

Nella storia della musica generalmente s’intende con il ter­ mine «Barocco» un periodo delimitato all’incirca dalla fine del secolo xvi alla metà del xvn secolo. Con ciò si vuole indi­ care uno stile con caratteristiche abbastanza unitarie, svilup­ patosi entro tale periodo. Ma il concetto di Barocco porta con sé problemi assai più complessi. Anzitutto esiste uno stile uni­ tario in quest’epoca storica? E tale stile è proprio solamente della musica o è condiviso in qualche modo anche dalle altre arti, pittura, architettura e letteratura? Esiste pertanto uno spirito del tempo che possiamo designare come Barocco? Non è facile rispondere a questi interrogativi problematici che ci portano all’interno di un lungo dibattito storiografico. Spesso il termine Barocco è stato usato non come categoria storica ma come una sorta di qualità stilistica vagamente con­ trapposta a quella «classica»: cosi la produzione artistica del Sei-Settecento veniva confrontata con quella dell’aureo perio­ do rinascimentale e interpretata in termini implicitamente ne­ gativi come manifestazione di decadenza e di involuzione. Già nel Settecento, ad esempio, Rousseau usava il termine Barocco con questo significato spregiativo, identificandolo con ciò che è bizzarro, pletorico, esagerato. Solo alla fine del secolo xix il termine incominciò ad assumere una connotazione non nega­ tiva e soprattutto una sua specificità. Lo storico dell’arte Heinrich Wólfflin con la sua opera Binascimento e Barocco (1888) fu tra i primi, nell’ambito di una generale rivalutazione del xvn secolo, a delineare i caratteri dell’arte figurativa di quest’epoca. Dalle arti figurative si è poi cercato di trasferire, con tutte le difficoltà che comporta un’operazione di questo tipo, le caratteristiche di questo stile alla musica. Il musicolo­ go Curt Sachs fu tra i primi a tentarne il trapianto nella storia della musica, individuando nell’epoca compresa all’incirca tra il secolo xvn e la prima metà del xvm tratti stilistici unitari

L’ETÀ DEI GRANDI MUTAMENTI STILISTICI

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sufficienti a caratterizzare positivamente questo lungo e fe­ condo periodo nella storia della musica. Alla base di questa «rivalutazione» del Barocco sta Videa che tale epoca non rap­ presenta solamente il prolungamento o peggio il declino del Rinascimento; il Barocco va considerato invece un’espressio­ ne artistica originale che scaturisce da una nuova concezione dell’arte e della vita. Questa prospettiva è stata molto dibat­ tuta in anni passati e ha stentato a trovare cittadinanza tra gli studiosi. La storiografia artistica l’ha oggi largamente accetta­ ta anche se si è trovata poi di fronte al complicato problema di definire adeguatamente il complesso delle caratteristiche sti­ listiche e spirituali che possono contraddistinguere l’intera epoca. In realtà ci si è ben presto accorti che l’unità stilistica del periodo che stiamo considerando è solamente relativa; gli storici della musica, ad esempio, ne hanno individuato tre fasi denominate come «primo Barocco», «pieno Barocco» e «tar­ do Barocco», e non sempre è poi riuscita totalmente convin­ cente l’impresa di stabilire con precisione quali siano i tratti stilistici caratterizzanti tali fasi. Altrettanto problematica è ri­ sultata la possibilità di individuare quel «sincronismo» fra le varie arti che lo storico della cultura amerebbe ritrovare in ogni epoca. Aperta a discussioni è rimasta comunque la possi­ bilità di usare troppo disinvoltamente il termine «Barocco», cioè di trasferire pari pari alla musica un concetto nato per le arti figurative. La possibilità di descrivere quest’epoca in maniera unitaria è stata in ogni caso individuata al di fuori del contesto strettamente musicale o artistico. Le ricerche storiche degli ultimi anni hanno messo in luce ad esempio l’importanza di un feno­ meno di grande portata che si manifesta a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento e che raggiunge il suo culmine nella prima metà del secolo successivo: in questo periodo infatti l’Europa intera è attraversata da una profonda crisi economi­ ca e sociale che a poco a poco ne sconvolge l’assetto politico e istituzionale e ne investe anche gli aspetti culturali. I flagelli delle guerre, delle pestilenze, delle carestie imperversano a piu ondate in quegli anni e provocano un decremento demo­ grafico, che a volte è interpretato dai contemporanei come un sintomo allarmante di minaccia. Ma piu in generale la crisi in­ veste la stessa espansione delle attività economiche: l’agricol­ tura, ma anche le imprese commerciali e manifatturiere, con un vistoso arresto di quella circolazione di merci e di denaro che aveva arricchito nei secoli precedenti una buona parte

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della borghesia cittadina. Le stesse classi dominanti apparte­ nenti alla grande nobiltà terriera furono investite dal proble­ ma della diminuzione delle risorse e cominciarono a metter mano a un sistema di protezioni e di difese che aveva lo scopo di mantenere intatti i loro privilegi e le loro ricchezze, e che tendeva perciò a riversare sui gruppi più deboli della popola­ zione il peso delle insorte difficoltà, senza tener conto tutta­ via che il meccanismo si traduceva in un circolo vizioso, ossia in un ulteriore indebolimento delle attività produttive e delle risorse economiche. Il risultato di queste manovre ha una conseguenza ovvia ma vistosa, cioè il sempre più accentuato incremento dell’au­ toritarismo aristocratico; il quale non risolve i problemi pro­ duttivi, ma acuisce i problemi sociali. La situazione investe anche il vertice della piramide gerarchica, arriva al cuore del potere statale: le grandi famiglie dei monarchi europei instau­ rano metodi di governo sempre più intransigenti, spesso ten­ denti a frenare con la forza non solo le inquietudini delle clas­ si sociali inferiori, ma quelle della stessa nobiltà. E il periodo fig. 11 del cosiddetto « assolutismo monarchico », il cui esempio più famoso è quello della Francia di Luigi XIV. Ma anche in mo­ narchie di minore rilievo e persino nei piccoli stati che carat­ terizzavano l’organizzazione politica dell’Italia e della Ger­ mania, le manifestazioni d’assolutismo diventano una costan­ te tipica. Con tanto maggiore evidenza si manifestano questi sintomi quanto più la crisi economica è profonda e difficilmente supe­ rabile. Cosi ad esempio nella Spagna del xvn secolo e nei pae­ si da essa governati (compresi alcuni degli Stati italiani), con­ flittualità, tensioni, arbitrii e violenze sono particolarmente accentuati. Più in generale si può affermare che nei paesi del Mediterraneo la situazione si fa via via più grave man mano che il punto di convergenza delle attività economiche si spo­ sta verso l’Europa nord-occidentale e soprattutto nei centri mercantili inglesi e olandesi. Le scoperte geografiche del seco­ lo precedente avevano messo in moto in quei paesi un proces­ so di concentrazione di capitali e di investimenti produttivi che faceva del ceto medio una classe sociale forte e capace di fronteggiare con maggiore efficacia le tendenze assolutistiche. Tant’è vero che la borghesia inglese, guidata da Oliver Crom­ well, riuscì a prevalere nello scontro con la monarchia che av­ venne fra il 1640 e il 1660 durante la prima delle grandi rivo­ luzioni europee.

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Il potere di controllo e di repressione si manifestava ovvia­ mente nella sua forma più generale e più diretta attraverso la punizione fisica che colpiva sia le devianze di tipo politico (ri­ bellioni o insurrezioni) sia quelle di tipo ideologico, come av­ veniva ad esempio col tribunale dell’inquisizione. Ma per ot­ tenere obbedienza e sottomissione l’intervento solo punitivo non era sufficiente. L’integrazione sociale a cui miravano le classi al potere poteva e doveva essere ottenuta anche con una diffusa opera di persuasione sulla verità e sulla bontà del mon­ do esistente e delle ideologie che lo sorreggevano. Ma la sicu­ rezza e la stabilità sociale potevano essere realmente assicura­ te solo se l’adesione dei sudditi nasceva dal cuore, oltre che dalla ragione: «poco è conquistare l’intelligenza se non si vin­ ce la volontà », affermava a questo proposito il letterato spa­ gnolo Baltasar Graciàn. A questa grande opera di integrazio­ ne sociale tutta la cultura dell’epoca doveva partecipare, e non solo gli scrittori e i filosofi, ma gli stessi artisti: un altro lette­ rato spagnolo, Francisco Pacheco, in un suo trattato sulla pit­ tura consigliava: «cerchi il pittore che le sue figure muovano gli animi, alcune per turbarli, altre per rallegrarli, altre per in­ clinarli alla pietà, altre al disprezzo, secondo la qualità delle storie narrate». L’arte del persuadere e l’arte del commuovere appaiono dunque come strumenti di una strategia sociale globale in cui la cultura estetica barocca sembra essere profondamente coin­ volta. E gli artisti dell’epoca sanno cogliere con straordinaria e sensibilissima intuizione lo spirito della cultura dei loro committenti e dei loro mecenati e sanno tradurlo in immagini, in parole, in edifici, in narrazioni, in gesti teatrali, e ovvia­ mente anche in musiche che ne riproducono fedelmente i contenuti. Certo la situazione dell’intellettuale di corte (o di colui che ruota comunque attorno alle sfere del potere) è profondamen­ te cambiata rispetto a com’era negli albori dell’epoca rinasci­ mentale. Nelle corti italiane del Quattrocento gli intellettuali e gli artisti erano i veri protagonisti di una profonda trasfor­ mazione culturale. Due secoli dopo essi sono ormai diventati strumenti del potere che se ne serve per i suoi scopi di domi­ nio. Da entrambe le parti (i dominanti e i dominati) questa si­ tuazione nel Seicento è solo raramente vissuta con consapevo­ lezza esplicita; più spesso si tratta di una convenzione sotta­ ciuta in cui artisti e committenti sono coinvolti quasi a loro insaputa e trascinati da forze che li trascendono. In ogni caso

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alla base di questa esperienza umana si individua un sistema di valori percorso da dubbi profondi, da una sorta di instabi­ lità incombente o di insicurezza esistenziale. In qualche caso essa si dispiega (anche nei testi musicali) in forme potentemente drammatiche o in immagini tormentate e tortuose o in raffigurazioni della fragilità e caducità dell’esistenza; in altri casi si estrinseca invece in un acuto senso dell’effimero, del piacere fine a se stesso, del divertimento capace di rivelare da sé il gioco di artifici su cui si basa; e infine si può ancora mani­ festare nelle forme forzatamente solenni di una esaltazione grandiosa della maestà del potere, dello sfarzo, della ricchez­ za, tale da suscitare negli spettatori il senso stupefatto della meraviglia. In ogni caso tuttavia, ciò che prevale nell’arte di quest’epoca, è sempre il senso dello spettacolo, dell’artefatto che ha la funzione di persuadere e di commuovere. Fra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento si verifica dunque anche in musica un complesso di eventi ine­ diti, s’inventano nuove forme, si producono modificazioni stilistiche di rilievo. Gli stessi artisti ne sono consapevoli: quando Monteverdi e altri parlano di «seconda prattica», contrapponendola alla «prima prattica» cioè all’era della po­ lifonia, sanno perfettamente di inaugurare un’epoca nuova nella storia della musica, e individuano nella teatrale imitazio­ ne degli affetti e delle emozioni per mezzo del canto monodico l’elemento caratterizzante il nuovo stile. In effetti si può convenire che tra le molte novità di quest’epoca, la retorica de­ gli affetti sia indubbiamente l’invenzione piu importante, quella che ha conferito alla «nuova» musica i suoi caratteri piu specifici. Tutte le altre numerose invenzioni proprie dello stile barocco ruotano attorno a questa idea, cioè che la musica deve seguire una ben precisa retorica con un repertorio di fi­ gure ben individuabili e codificabili atte a produrre gli effetti emotivi desiderati. Molti storici hanno cercato di enumerare tutte le caratteristiche del nuovo stile e l’elenco sarebbe molto lungo e soprattutto non darebbe che un’idea frammentaria di un fenomeno che pur nella sua complessità ha una sua unita­ rietà e organicità. Qui si può tentare di indicare solamente al­ cuni dei tratti piu vistosi della nuova maniera «affettuosa» che si va affermando rapidamente prima in Italia e ben presto in tutta Europa. Leggendo gli scritti dei musicisti e teorici fautori, alla fine del Cinquecento, del nuovo stile si direbbe che uno degli elementi che più tenevano a sottolineare era l’inversione radicale del rapporto musica-poesia. I musicisti e

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letterati della Camerata fiorentina, cosi come pochi anni più tardi Monteverdi, accusavano con veemenza la scuola polifo­ nica di aver violentato la parola, la poesia, di non aver rispet­ tato «Porazione», dando un’ingiustificata priorità alla musi­ ca, la quale nell’intreccio delle voci, seguendo le sue regole e le sue tradizioni avrebbe calpestato il senso del discorso ver­ bale, annullando ogni possibilità di effetto sul pubblico: Que­ sto proiettarsi della musica o meglio dello spettacolo musicale, sia esso melodramma o sia esso musica strumentale, sullo spettatore diventa il fine primo della musicalità barocca. Lo stesso sviluppo della musica strumentale e dell’uso solistico degli strumenti fa parte di questa propensione teatralizzante della musica barocca, che anche dove rinuncia alla voce, non rinuncia all’eloquenza e all’oratoria che si può ottenere egual­ mente con la voce dello strumento. Il discorso musicale si ca­ rica cosi di una forte tensione espressiva e il nuovo linguaggio armonico-melodico si presenta come il più consono a realizza­ re questa ideale oratoria degli affetti. Ma il pathos della nuova musica non si realizza attraverso una libera diffusione dell’e­ spressione, bensì attraverso una giusta applicazione delle re­ gole retoriche che i teorici del tempo cercavano di codificare, sviluppando un vero e proprio vocabolario degli affetti da in­ segnare e trasmettere. Marin Mersenne, Athanasius Kircher, Cartesio tra i numerosi teorici del Seicento per giungere sino a Rameau, a Mattheson e molti altri ancora, nel Settecento, hanno codificato questo nuovo linguaggio o dottrina degli af­ fetti (Affektenlehre), il cui vocabolario si andava formulando nelle figure dell’armonia, negli ornamenti, nell’orchestra, nel­ la voce degli strumenti, nelle nuove forme musicali, nelle nuo­ ve strutture della tonalità. Non si tratta evidentemente, come avevano teorizzato i primi musicisti e umanisti della Camera­ ta fiorentina, di una subordinazione della musica alla parola o meglio orazioney ma piuttosto di una subordinazione di pa­ rola e musica insieme a questo ideale pervasivo di tutta la ci­ viltà artistica barocca: esprimere o imitare gli affetti al fine di soggiogare il pubblico, per commuoverlo ed emozionarlo. [mb e ef] 2. Il canto monodico e il melodramma.

La grande diffusione della polifonia e le fortune editoriali del madrigale, della villanella e della canzonetta che caratte­ rizzano la musica profana italiana del Cinquecento, indicano

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certo quali erano gli orientamenti prevalenti nelle classi colte dell’epoca, ma altrettanto certamente non offrono un quadro del tutto fedele ed esauriente della prassi musicale in atto. Abbiamo già visto come fin dal Quattrocento esistesse in Ita­ lia, anche in ambiente aristocratico, una tradizione orale di cui sono sopravvissuti numerosi indizi e testimonianze. E certo che tale tradizione continuò anche nel xvi secolo. E significativo ad esempio che Baidesar Castiglione nel suo già ricordato Cortegiano dichiari entusiasticamente di apprez­ zare l’arte di «cantare alla viola per recitare; il che tanto di ve­ nustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran meraviglia». Dove «alla viola» significa appunto «con l’accompagnamento di viola da braccio o da gamba» secondo la prassi umanistica per la quale il canto era un modo di «recitare» poesie aggiun­ gendo «efficacia» alle parole. Ma di questa prassi abbiamo anche documenti scritti come i volumi di frottole per voce e liuto pubblicati da Petrucci o i madrigali di Verdelot adattati, sempre per voce e liuto, da Adrian Willaert. E sappiamo an­ che che nel Cinquecento era uso «cantar ottave», cioè cantare le strofe dei poemi epici e particolarmente deW Orlando Furio­ so, servendosi di moduli melodici prefissati ai quali era stato dato un nome (la romanesca, il Ruggero, la follia). Moduli di questo genere erano notissimi all’epoca, e venivano anche usati per variazioni strumentali o come «bassi ostinati» sulla cui base inventare nuove melodie. Altre testimonianze di canto a solo si trovano con una certa frequenza in occasione di rappresentazioni teatrali cioè in for­ ma di canti usati come musiche di scena. Particolarmente fa­ mose rimasero (e alcune sono anche arrivate fino a noi) le mu­ siche cantate nei fastosi «intermedi» musico-teatrali che ve­ nivano inseriti fra un atto e l’altro di commedie o tragedie, so­ prattutto in occasione di grandi feste principesche. Si ricorda­ no ad esempio le musiche per gli intermedi composti in fig, 12 occasione delle nozze di vari membri della famiglia Medici a Firenze: Cosimo I nel 1539, Francesco I nel 1579, Ferdinan­ do nel 1589. In questi casi gli esecutori erano spesso cantori professioni­ sti che non si limitavano a eseguire le melodie scritte ma le ar­ ricchivano di improvvisazioni secondo la tecnica detta della «diminuzione» che consisteva nel seguire l’andamento melo­ dico riempiendo però le note, specie le più lunghe, con fiori­ ture di note più rapide, procedimento che veniva detto anche «cantare di gorgia». Di questo stile di canto offrono ulteriori

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elaboratissimi esempi i madrigali composti a Ferrara negli an­ ni Settanta da Luzzasco Luzzaschi (Ferrara ca 1540 - 1607) poi pubblicati a Roma nel 1601 per tre cantatrici che tutti in­ vidiavano alla famiglia estense: Lucrezia Bendidio, Tarquinia Molza e Laura Peperara, che ogni notte deliziavano la corte con assoli, duetti e terzetti. Esempi di questo genere ci indi­ cano come verso la fine del Cinquecento il gusto per il canto solistico stesse diffondendosi con fortuna e stesse producendo anche una sorta di scuola di virtuosismo esecutivo: Giulio Caccini, Francesco Rasi, Vittoria Archilei, Adriana Basile erano ai loro tempi divi e dive famosissimi e ben pagati. Non c’è dunque da stupirsi se, in piena epoca polifonica, potè nascere e maturare, negli ultimi due decenni del secolo, l’attività di un gruppo di poeti e musicisti come quelli che det­ tero vita alla famosa «camerata» fiorentina raccolta attorno al conte Bardi che della battaglia antipolifonica avevano fatto il loro punto d’onore. Il proposito che questi intellettuali si po­ nevano aveva le sue radici nell’idea tipicamente umanistica di studiare e di ridare circolazione moderna non solo alla conce­ zione musicale degli antichi greci, ma all’uso che della musica essi avevano fatto nello spettacolo tragico. Gli esperimenti di canto monodico teatrale che venivano fatti nell’ambiente della camerata, condussero poi queste pre­ messe umanistiche a risultati totalmente diversi, cioè alla na­ scita dei primi esempi di melodramma. La storia della Came­ rata de’ Bardi si svolse in tre fasi. Una prima, che va dal 1579 circa (feste per le nozze di Francesco de’ Medici con Bianca Capello) al ritorno dall’esilio romano del fratello Ferdinan­ do, divenuto nuovo granduca, nel 1586, durante la quale si assiste alla polemica contro la polifonia e a sostegno del canto a voce sola promossa principalmente da Vincenzo Galilei (il padre di Galileo), nell’ambito dell’accademia neoplatonica riunita in casa del conte Giovanni de’ Bardi, con relative di­ mostrazioni del nuovo stile, oggi perdute (lamento del conte Ugolino dall’Inferno di Dante e Lamentazioni di Geremia). Una seconda, che dal ritorno di Ferdinando giunge fin verso la fine del secolo, dominata dalla presenza attiva di Emilio de’ Cavalieri (Roma ca 1550 - róoi) in qualità di sovrintendente per la musica e gli spettacoli di corte, ovvero di organizzatore delle manifestazioni e di coreografo oltre che di compositore. Infine una terza fase, ambientata nella casa di Jacopo Corsi, che aveva preso il posto di quella del Bardi dopo il trasferi­ mento di costui a Roma, e comprendente gli ultimi anni del

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secolo sino all’apparire del seguente, in cui vedono la luce Le nuove musiche di Giulio Caccini (Tivoli, Roma, ca 1560 - Fi­ renze 1618), e i primi esempi di vero e proprio melodramma: la Dafne, un tentativo sperimentale ora perduto, di Jacopo Pe­ ri (Roma 1561 - Firenze 1633), su libretto di Ottavio Rinuccini, e V Euridice (1600), degli stessi in collaborazione col Cac­ cini. Lo stile di canto che nacque da queste esperienze viene di solito designato con il termine di «recitar cantando». Si trat­ tava di una sorta di declamazione musicale che non aveva ov­ viamente nulla a che fare con la musica greca, ma aveva piut­ tosto legami con il tipo di melodia che caratterizzava il madri­ gale polifonico coevo. Si trattava dunque di un canto che ten­ deva a «imitare» le inflessioni della parola recitata, stilizzan­ do musicalmente gli accenti e le durate delle sillabe, la di­ rezione ascendente o discendente dell’intonazione e, nell’e­ missione vocale, il dosaggio dell’intensità e del timbro. Que­ sto modo di cantare, che poi diventerà tipico della tradizione operistica italiana, prenderà il nome di «recitativo» e si dif­ fonderà successivamente in tutta l’Europa. Se questa fu senz’altro l’invenzione piu originale dei mem­ bri della camerata fiorentina, c’è però anche da aggiungere che nei primi melodrammi, cosi come nelle prime raccolte di composizioni monodiche (ad esempio nelle citate Nuove mu­ siche di Giulio Caccini), lo stile recitativo si alterna sempre, anche per ragioni di varietà, ossia per spezzare la monotonia della declamazione, con un modo di canto elegante, disinvol­ to, quasi sempre strofico, derivato non già dalle espressività madrigalesche ma piuttosto dalla vocalità semplice delle can­ zonette e delle villanelle o anche in qualche caso da melodie di danza o arieggianti la danza. Si tratta di un canto ritmicamen­ te e formalmente organizzato da cui derivò in seguito quella che nel melodramma prese il nome di «aria». I primi esempi citati di dramma per musica alternavano ac­ cortamente i brani in stile recitativo con brevi «arie», cori, passi solo strumentali, episodi di danza, capaci di rendere drammaturgicamente varia ed efficace la rappresentazione scenica. Gli strumenti usati, tranne alcuni che intervenivano occasionalmente in certi episodi particolari, erano soprattutto quelli che servivano a sostenere e accompagnare il canto, co­ me il clavicembalo e il chitarrone. I compositori si dimostra­ rono in quell’occasione assai preoccupati di mettere limiti se­ veri alle fioriture, ai virtuosismi, alle «diminuzioni» dei can-

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tanti. Nella recitazione cantata di queste prime «favole» in musica, la parola doveva essere ben percepibile e le linee del canto dovevano tendere a esprimere il senso delle parole. Esperienze di canto teatrale si erano avute, soprattutto a Firenze, anche in anni precedenti: erano gli intermedi, già in precedenza citati, che rappresentavano in genere, con mera­ viglioso sfarzo di costumi e macchine sceniche, episodi pasto­ rali e mitologici. Ma in quei casi il tipo di canto adottato era quello della polifonia madrigalesca oppure quello virtuosistico ricco di melismi e «diminuzioni». Con PEflràfóce si ebbe inve­ ce uno spettacolo indipendente e autonomo (cioè non inserito in forma di intermezzo fra un atto e l’altro di un altro spetta­ colo in prosa) e cantato con uno stile che era nato espressamente per la «recitazione». La novità era rilevante. E ciò spiega anche l’aria di rivalità e di polemica che spirava fra i vari musicisti che si contendevano il merito di esserne gli in­ ventori. Il primo vero e proprio melodramma nel senso più maturo del termine fu senz’altro VEundice di Peri e Rinuccini rappresentato il 6 ottobre 1600 a Palazzo Pitti a Firenze. Ma già nel dicembre dello stesso anno usciva a stampa l’Ez/ràfee posta in musica in stile rappresentativo da Giulio Caccini che in brevissimo tempo aveva composto e pubblicato la sua nuova partitura allo scopo implicito di rivendicare la paternità del­ l’invenzione. Qualche mese dopo, nel 1601 (anche se la data indicata sull’edizione è quella del 1600), Jacopo Peri pubblicò però le sue Musiche sopra l’Euridice nella cui prefazione faceva una precisa cronistoria dello spettacolo dell’ottobre preceden­ te; in essa peraltro egli riconosceva cavallerescamente che Caccini vi aveva partecipato con qualche brano di musica sua e che Emilio de’ Cavalieri aveva fatto esperimenti teatrali in anni precedenti. Quest’ultimo a sua volta non era stato da meno dei suoi ri­ vali perché, nello stesso 1600 aveva dato alle stampe la sua Rappresentatione di anima et di corpo che era stata eseguita nel febbraio di quell’anno nell’oratorio della Chiesa Nuova a Ro­ ma. Questo lavoro del Cavalieri adotta procedimenti musicali e spettacolari assai vicini a quelli Euridice, ma il contesto in cui li usa è quello di una sorta di sacra rappresentazione a cui partecipano personaggi simbolici (FAnima, il Corpo, il Tempo, l’intelletto, il Consiglio) più che figure capaci di rap­ presentare e cantare le passioni umane, [ps]

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3. Monodia e stile concertato. Durante tutto il corso del xvi secolo la musica vocale veni­ va stampata a parti separate: se ad esempio si doveva pubbli­ care un madrigale a 5 voci, le cinque parti che lo costituivano venivano scritte in cinque libretti diversi, uno per ciascun cantore, e ogni cantore eseguiva la sua parte senza avere sot­ tocchio le parti degli altri. Questa prassi indica qual era, se­ condo il pensiero musicale dell’epoca, il modo di esecuzione ideale: polifonia pura affidata a sole voci. In realtà ciò corrisponde solo parzialmente alla pratica ef­ fettiva. Di fatto gli strumenti venivano costantemente usati nella musica cinquecentesca, e non unicamente da soli, ma an­ che assai spesso mischiati alle voci, come dimostrano i docu­ menti musicali, letterari e iconografici (pitture o disegni). Quando verso la fine del secolo si fecero i primi esperimen­ ti di stile recitativo, esplicitamente e polemicamente anti­ polifonici, l’uso di sostenere il canto con strumenti d’accom­ pagnamento divenne, in un certo senso, necessario, ma si in­ scrisse in una tradizione ormai lungamente sperimentata. Le edizioni a stampa che documentano i primi esperimenti dram­ maturgici dell’anno 1600 Euridice y la Rappresentatione di anima et di corpo) sono interessanti anche dal punto di vista grafico. Per esempio le varie voci non sono più scritte separa­ tamente, ma organizzate, oggi diremmo, in partitura. A dire il vero questa non era una novità assoluta: l’uso di partiture con la divisione del rigo in battute e la sovrapposizione verti­ cale delle voci era già comparso nel corso del secolo (basti pen­ sare alle edizioni dello stampatore Cardano, di Venezia, che nel 1577 aveva pubblicato in tale forma Madrigali di Cipriano de Rore e Musica de diversi autori... partita in caselle). In questo caso però esisteva una ulteriore novità: le parti degli strumen­ ti che accompagnavano il recitativo non venivano scritte inte­ gralmente, ma venivano indicate in modo semplificato, ossia con la sola parte melodica del basso, nel presupposto che i suonatori sapessero aggiungere da sé gli accordi necessari per sostenere la voce. A questo sistema grafico, che presuppone l’esistenza di una pratica improvvisativa già diffusa, i testi d’opera menzionati aggiungevano un ulteriore artificio tecnico: l’indicazione ab­ breviata dell’accordo mediante numeri che dovevano facilita­

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re l’improvvisazione e obbligare i diversi esecutori alla scelta di uno stesso accordo. A risultati del tutto simili si arrivò anche nel campo della musica sacra con la pubblicazione (1602) dei Cento concerti ec­ clesiastici... con il basso continuo per sonar nell'organo, di Lodovico Grossi da Viadana (Viadana, Mantova, ca 1560 - Gual­ tieri sul Po, Reggio nell’Emilia 1627). Anche nella tradizione sacra esistevano antecedenti: per esempio l’uso di accompa7 gnare le voci con l’organo durante il rito (negli ultimi decenni del secolo si era diffusa gradualmente la consuetudine di stampare, oltre alle parti separate delle singole voci, anche quella del bassuspro organo). In questo contesto la tradizione polifonica era molto piu ri­ gorosa che in ambito profano: l’ideale per l’organista era di raddoppiare con lo strumento i percorsi melodici delle singole voci, eventualmente sostituendoli nel caso che, per qualche ragione, mancasse qualcuno dei cantori. Ma la dizione di «basso continuo» proposta dal Viadana ebbe fortuna e rimase a indicare una prassi che per un secolo e mezzo caratterizzò tutta la musica europea, vocale, strumentale, sacra o profana. A proposito di musica profana abbiamo già iniziato a con­ statare come agli inizi del xvn secolo il repertorio si arricchi­ sca in Italia di generi nuovi che intaccano il monopolio delle preferenze di cui aveva goduto il madrigale nella sua vita or­ mai quasi secolare. Il declino del madrigale polifonico di stampo cinquecentesco è lento e graduale (nei primi due de­ cenni del secolo se ne scrivono e se ne pubblicano ancora mol­ ti) ma il termine di madrigale passa a poco a poco a designare anche composizioni monodiche che, se da un punto di vista formale sono molto diverse da quelle polifoniche, ereditano tuttavia lo spirito declamatorio del madrigale, la sua riservata eleganza, il suo stretto legame con il testo poetico. Lo stile di canto dei madrigali monodie! del primo Seicento è dunque as­ sai vicino alla libertà ritmica e formale del recitar cantando; è un continuo fluire di frasi melodiche sempre diverse solo in­ terrotto da qualche ripetizione con funzione retorica o da qualche occasionale imitazione fra canto e basso continuo. Tali sono ad esempio le composizioni monodiche di tipo ma­ drigalistico contenute nella raccolta Nuove musiche di Cacci­ ti!. Ma il tardo madrigale polifonico, soprattutto quello di Ge­ sualdo da Venosa, offriva modelli di melodia che si conface­ vano particolarmente al gusto per gli effetti drammatici e per­ sino morbosi che la piu raffinata cultura di quegli anni veniva

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gradualmente scoprendo. Gli stessi testi poetici che piu sti­ molavano i compositori di quegli anni avevano ormai abban­ donato la composta eleganza della tradizione petrarchesca per rivolgersi alle languide rime di Torquato Tasso e ancor più a quelle di Giambattista Marino in cui la predilezione per la so­ norità della parola, per i giochi verbali, per la sensualità delle immagini, dominava l’invenzione poetica. Cosi i più arditi fra i monodisti, in primo luogo Sigismondo D’India (Palermo, ca 1580 - Modena 1629), componevano madrigali a voce sola pieni di cromatismi, di salti vocali inconsueti, di ritmi irrego­ lari, di sequenze accordali imprevedibili, di effetti, come si soleva dire, «non ordinari», che avevano il compito di mette­ re in luce la bizzarria vagamente ipocondriaca di quel partico­ larissimo mondo intellettuale e la squisita riservatezza del suo gusto. Ma le soluzioni stilistiche proposte dai musicisti di que­ gli anni non si esauriscono in questi nuovi tipi di madrigale a voce sola: esistono ad esempio le brevi composizioni strofiche a ritmo vivace e ben misurato che Caccini chiama «arie», ed esistono altri tipi di sperimentazione formale basati sull’uso, più o meno rigido o elastico, di bassi ostinati, ossia di brevi formule più volte ripetute che venivano eseguite dal basso continuo, mentre la parte vocale si inseriva su questa base sta­ tica con sempre nuove varianti melodiche. Proprio a questi ti­ pi di organizzazione formale viene talvolta riferito il nome di «cantata», come avviene ad esempio nelle Cantate ed arie del veneziano Alessandro Grandi pubblicate nel 1620. Ma la ter­ minologia usata è assai fluida in quegli anni, e corrisponde alla fluidità e instabilità formale delle composizioni stesse che ra­ ramente assumono strutture fisse e tendono piuttosto a utiliz­ zare moduli diversi alternandoli e mischiandoli fra loro con disinvolta libertà. Ad esempio brevi frammenti in stile di aria potevano inserirsi in passi di recitativo (qualcuno li chiamava «mezz’arie»), «diminuzioni» virtuosistiche più o meno estese potevano aggiungersi alle volute melodiche del canto. In que­ sto modo venivano concepite non solo composizioni a voce sola, ma anche duetti o terzetti. Come nel campo della musica profana il madrigale polifoni­ co continuava a prosperare accanto alle tendenze monodiche, cosi nel campo della musica sacra lo stile imitativo della poli­ fonia corale o policorale del secolo precedente continuava a caratterizzare molta parte dei mottetti e delle messe di nuova composizione, anche se il gusto per la monodia accompagnata

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diffuso in ambito profano non tardò a manifestarsi nelle ri­ tualità religiose. Il primo avvio allo stile monodico sacro fu dato dalla già ri­ cordata raccolta dei Cento concerti ecclesiastici di Lodovico Grossi da Viadana, che ebbe subito larghissima diffusione in Italia e fuori d’Italia. Il successo della raccolta era dovuto non solo alla novità del basso continuo, ma anche alle facilitazioni pratiche che essa offriva agli esecutori: lo stile dei concerti non era molto diverso da quello dei mottetti polifonici con­ sueti, ma l’adozione del basso continuo permetteva di «rias­ sumere » con lo strumento alcune delle linee vocali lasciando all’esecuzione cantata solo un numero limitato di esse (da una a quattro, nella raccolta di Viadana). Ciò corrispondeva pro­ babilmente a una prassi già in uso, ma il Viadana la codifica e la rende ufficiale, e cosi facendo risparmia, a quelle cappelle che occasionalmente disponessero di pochi cantori o anche di un solo cantore, la fatica di adattare testi concepiti per com­ plessi polifonici più ampi. Nel titolo infatti è scritto trattarsi di nova inventione commoda per ogni sorte de cantori e per gli or­ ganisti. Ma negli anni immediatamente successivi compaiono an­ che composizioni che adottano stili monodici più nuovi e più alla moda: forme di recitativo, passi «diminuiti» e virtuosisti­ ci, salti e cromatismi «non ordinari», e più in generale tutti gli artifici melodici che i musicisti profani mettevano in atto per evidenziare gli «affetti» della parola. Molte composizioni di questo tipo si trovano nelle raccolte del senese Claudio Sara­ cini e del veneziano Alessandro Grandi, vicemaestro di cap­ pella a San Marco all’epoca di Monteverdi. Non tutte queste composizioni erano di carattere liturgico; alcune erano sem­ plicemente dei madrigali spirituali da cantare in privato e non durante le celebrazioni sacre, ma lo stile di canto che in esse si manifestava si insinuò talora in quegli anni anche in composi­ zioni di polifonia liturgica. Soprattutto la scuola veneziana da Giovanni Gabrieli a Monteverdi, nel suo gusto sontuoso per la policoralità vocale e strumentale, non disdegnò di servirsi talora di passi solistici virtuosistici od «espressivi» o addirit­ tura di composizioni interamente scritte nel nuovo stile. Nelle chiese di Roma, dove il rigore stilistico era notoria­ mente più accentuato e il culto mitico del modello palestrinia­ no aveva ancora una ampia accoglienza, l’ingresso di strumen­ ti e di aspetti di canto solistico nelle composizioni liturgiche rimase escluso dalla prassi ordinaria. Gli unici elementi di

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rilievo che entrarono in uso furono l’adozione del basso con­ tinuo per l’organo e quella dello stile policorale. Alcuni dei concerti di Viadana ad esempio erano stati eseguiti a Roma prima della loro pubblicazione e persino a molte composizioni di Palestrina venne aggiunto in quegli anni il basso per l’or­ gano. Quanto alla policoralità se ne trovano esempi nello stesso Palestrina e sulla base di questo autorevole precedente molti altri compositori come Virgilio Mazzocchi e Domenico Alle­ gri procedettero nella medesima direzione rinsaldando una tendenza che avrebbe condotto a quello che venne poi chia­ mato lo «stile colossale», che prevedeva l’impiego contempo­ raneo di molti cori, e suscitava ricche sonorità, piene di rad­ doppi e di echi. La parola « concerto » divenne agli inizi del Seicento una sorta di termine-chiave non ben definito nei suoi contorni se­ mantici ma vagamente capace di alludere ai nuovi tipi di so­ norità che i mutamenti di stile di quegli anni avevano intro­ dotte nell’uso. A parte Viadana, Gabrieli, Monteverdi, e mol­ ti altri che la usarono esplicitamente nei titoli delle proprie raccolte, la parola era entrata nel lessico comune e venne per­ sino etimologicamente esaminata dai teorici che la facevano risalire alla sua origine latina {concertare. nel senso di combat­ tere insieme). In ogni caso essa si riferisce, nell’uso quotidia­ no, al riunire più componenti sonore diverse, ad esempio vo­ cali e strumentali, o solistiche e corali, oppure organizzate sul­ la base di stili compositivi differenziati, o ancora di cori con­ trapposti. «Concerto» o stile «concertato» diventano dunque termini sintetici capaci di indicare il gusto tipicamente seicen­ tesco per la disomogeneità o mescolanza sonora, contrapposto a quell’ideale d’armonia che aveva invece caratterizzato il se­ colo precedente. [mbcps]

4. Claudio Monteverdi. Quando V Orfeo fu rappresentato alla corte di Mantova nel 1607, Claudio Monteverdi (Cremona 1567 - Venezia 1643), quarantenne, aveva già composto e pubblicato, dal 1582 all’84, ancor fresco degli studi compiuti con Marc’Antonio Ingegneri, tre raccolte, rispettivamente di Sacrae cantiunculae a tre voci, di Madrigali spirituali & quattro e di Canzonette a tre, nonché i suoi primi cinque libri di madrigali, tutti a cin-

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que voci; inoltre aveva già formulato una sua poetica, che avrebbe voluto in seguito spiegare in un trattato dal titolo Se­ conda pratica ovvero perfezione della moderna musica, ma che poi non ebbe il tempo di scrivere, lasciando tuttavia che ne fa­ cesse cenno il fratello Giulio Cesare in appendice a una rac­ colta di Scherzi musicali a tre voci pubblicata nel 1607, in provvisoria risposta alle dure critiche mosse alle sue innova­ zioni armoniche da Giovanni Maria Artusi, allievo e apologe­ ta di Zarlino. In quella sua Seconda pratica Monteverdi avrebbe teorizza­ to, secondo quanto ci fa sapere il fratello, accanto alla «Prima pratica» codificata da Zarlino, «che versa intorno alla perfettione dell’armonia, cioè che considera l’armonia non coman­ data ma comandante, e non serva, ma signora dell’oratione», una «seconda pratica», divinata «dall’Ingegneri, dal Marenzio, da Jaches de Wert, dal Luzzasco e parimenti da Jacopo Peri, da Giulio Caccini e finalmente da li spiriti più elevati ed intendenti della vera arte », la quale egli definiva come quella «che versa intorno alla perfettione della melodia, cioè che considera l’armonia comandata e non comandante, e per si­ gnora dell’armonia pone l’oratione». Monteverdi insomma, seguendo il movimento generale verso la concentrazione espressiva nella voce singola, aveva profondamente accolte e fatte proprie le nuove tendenze se­ condo le quali la musica doveva illustrare i contenuti espres­ sivi della parola (l’armonia serva dell’orazione), doveva poten­ ziarli, e tradurli in immagini sonore. E nessuno in quei tempi riusciva a farlo con una fantasia altrettanto viva e originale: alla sua chiarezza programmatica corrispondeva una straordi­ naria potenza inventiva. Queste caratteristiche, che si sviluppano nel periodo in cui Monteverdi prestava servizio a Mantova presso la corte dei Gonzaga, si fanno luce gradualmente nei cinque libri di ma­ drigali pubblicati tra il 1587 e il 1605. Si trattava ancora di madrigali polifonici inizialmente concepiti secondo la classica struttura cinquecentesca, nei quali tuttavia emergono a tratti elementi di forte originalità. Cosi nel primo libro ricorrono, ad esempio, inattesi ritmi di danza, investiti di fresca ed inge­ nua ispirazione popolaresca, o atmosfere arditamente sensuali come quella di Baci soavi e cari su testo del Guarini, che di­ scioglie il suo languore in un’andatura prevalentemente omo­ ritmica, sillabica, declamatoria. In altri casi Monteverdi ac­ centua la caratterizzazione individuale della singola voce e la

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fa emergere con evidenza, specie allorché l’incontro con la poesia avvenga ad alto livello, come accade col Tasso frequen­ temente presente nel Secondo libro del 1590 e nel Terzo del 1592 (i toccanti madrigali sull’invettiva di Armida, Vattene pur, crudel, con quella pace, e i tre sul lamento di Tancredi, Vi­ vrò fra i miei tormenti e le mie cure). La ricerca d’individualità solistiche è confermata nel Quar­ to libro (1603) e piu ancora nel Quinto (1605), prevalentemen­ te su testi del Guarini. Ma nel Quarto libro balzano anche in primo piano i numerosi urti dissonanti, il cromatismo, l’uso di settime maggiori, di quarte eccedenti e diminuite, che perva­ dono ad esempio il tassesco madrigale finale (Piagne e sospira); per ciò che riguarda la voce singola è di straordinaria potenza il tono liberamente declamatorio di Sfogava con le stelle (di Rinuccini) e di SI ch'io vorrei morire (di Maurizio Moro). È però dal Quinto libro (1605) che si dispiega nella sua pie­ nezza l’ideale di Monteverdi, da lui perseguito sino alla fine della sua attività artistica, di una musica che non si chiuda nel gioco astratto dei suoi rapporti sonori, ma si ponga come ma­ nifestazione e riproduzione delle passioni umane. Il Quinto libro è il primo frutto pienamente maturo della poetica della «seconda pratica», in cui fa la comparsa, insieme con il basso continuo (che favorisce per via della sua chiara in­ dicazione armonica l’impiego di dissonanze senza preparazio­ ne), lo stile concertato, cioè la contrapposizione di soli a tutti o fra gruppi di voci di diverso peso, registro, timbro, in modo da conferire alla composizione una fisionomia altamente drammatica e una struttura architettonica piena di chiaroscu­ ri, quasi si direbbe caravaggesca. Ciò anche perché Montever­ di vi musica brani della «tragicommedia» del Guarini, Il pa­ stor fido, che occupano piu della metà del volume, e perché le cinque voci, indicate dal titolo, vengono in realtà superate nei due madrigali conclusivi, E cosi a poco a poco e Questi vaghi concenti, l’uno a sei voci col basso continuo, l’altro a due cori di cinque e quattro voci, il quale ultimo prevede non solo il Lasso continuo ed episodi a voce sola avvicendati fra i gruppi, ma anche interventi di strumenti ad libitum. La pubblicazione del Quinto libro precedette di due anni l’andata in scena dell’Oi/eo, ed è naturale che nell’opera Monteverdi riversasse poi tutta l’esperienza accumulata nella composizione dei madrigali. Ma egli non poteva non tener conto anche delle sontuose rappresentazioni fiorentine che eran li a fargli da modello, ovunque celebrate, e ammirate

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oltre che da lui dal duca Vincenzo, suo signore e protettore, desideroso di vederle emulate alla propria corte. Cosi non evi­ tò i compromessi provenienti da un’articolazione drammatica e spettacolare che risentiva della composita mescolanza di echi classicheggianti, di gusto pastorale, di effetti scenici, del­ le variegate esibizioni proprie dell’intermedio, mescolanza che caratterizzava gli ancor pochi esemplari di teatro tutto da cantare. A quegli svariati atteggiamenti egli però conferì un ordine armonioso, adeguatamente servito dal libretto di Ales­ sandro Striggio, figlio dell’omonimo compositore, dove i più pregnanti episodi in stile recitativo (la morte di Euridice nar­ rata dalla Messaggera, i lamenti di Orfeo, il contrasto fra Ca­ ronte ed Orfeo disceso nell’inferno, il ritorno di Orfeo con Euridice e la sua perdita definitiva) si alternano ad andamenti madrigalistici (Rosa del del, vita del mondo e degna) e strofici (Vi ricorda, o boschi ombrosi), a cori anche con danze (Lasciate i monti), a brani di grande virtuosismo vocale {Possente spirito e formidabil nume di Orfeo, il suo duetto finale con Apollo, Saliam cantando al cielo). Probabilmente è proprio l’intento di dotare l’opera di una conclusività ormai funzionale alla riusci­ ta pubblica a spiegare la scelta del lieto fine, operata, nella partitura, dal musicista, in luogo dell’uccisione di Orfeo da parte delle Baccanti che si legge nel libretto a stampa. V’è in­ fine da salutare l’impiego degli strumenti in accezione orche­ strale moderna, sia in unione col canto solistico, sia in com­ plessi a sé per suonare sinfonie e ritornelli, in base alle prescri­ zioni precise delle varie formazioni contenute nelle didascalie. Di quanto differisse, comunque, l’accesa espressività mon­ teverdiana, maturata nei primi cinque libri di madrigali e con­ fluita nell’opera, dal più morigerato recitar cantando fioren­ tino lo si potè constatare l’anno seguente confrontando l’Orfeo con la Dafne di Marco da Gagliano, su libretto del Rinuccini, ricreata a Mantova dopo Firenze, in cui lo stile più pro­ prio della Camerata è applicato con costante e attenta fedeltà. E meglio lo si può ancor oggi constatare confrontando que­ st’opera con l’Arianna di Monteverdi, pure su testo di Rinuccini, che ivi vide la luce in quello stesso 1608, o, più esatta­ mente, con quanto dell’Arianna resta: il possente lamento (un luogo divenuto ormai tipico del melodramma seicentesco) che godette di tale popolarità da venire stampato a parte e da in­ durre il suo autore a rielaborarlo in una serie di quattro ma­ drigali a cinque voci inserita nel 1614 nel Sesto libro. Del 1608 è anche II ballo delle ingrate, sempre su libretto

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del Rinuccini, rappresentato alla corte dei Gonzaga in occa­ sione delle nozze del principe Francesco, erede del ducato, con l’infanta Margherita di Savoia. Esso è l’unico esempio pervenutoci completo, grazie al suo successivo inserimento nell’ Ottavo libro dei Madrigali guerrieri e amorosi, di balletto di corte, un misto di danza e canto, sullo sfondo di prodigiosi meccanismi scenici e di splendidi costumi, cosi come veniva rappresentato alla corte francese, dove Rinuccini era rimasto a lungo presso Maria de’ Medici. La semplice vicenda vede Amore e Venere chiedere a Plutone di trarre dal regno delle ombre la schiera delle donne ingrate verso chi le amò, affin­ ché siano d’esempio alle viventi e le esortino a non essere cru­ deli con i loro innamorati. Dopo gli Scherzi musicali del 1607 per tre voci e trio stru­ mentale, Monteverdi pubblica, nel 1614, appena trasferitosi da Mantova a Venezia per assumervi la carica di maestro di cappella in San Marco, un Sesto libro di madrigali a cinque voci in cui, accanto a composizioni col solo basso continuo (la tra­ scrizione del celebre Lamento d'Arianna, la sestina Lagrime di amante al sepolcro dell'amata) se ne trovano altre in cui il mu­ sicista prosegue l’esperienza del madrigale concertato, arric­ chendola con un elaborato impiego della monodia, aumentan­ do a sette voci l’ultimo brano (il dialogo Presso un fiume tran­ quillo), accentuando i caratteri barocchi anche con l’acquisi­ zione di testi di Giambattista Marino (gli ultimi quattro della raccolta). Testi che assumerà piu numerosi nel Settimo libro intitolato Concerto (1619), il quale contiene in realtà non sol­ tanto madrigali, ma anche « altri generi di canto » da una a sei voci con continuo e strumenti vari (Tempro la cetra con ritor­ nello e sinfonia, A quest'olmo a sei con strumenti, Con che soavità, concertato a una voce e nove strumenti, Ohimè dove il mio ben, le canzonette concertate Chiome d'oro e Amor che deggio far?, il ballo Tirsi e Glori) e fin due «lettere amorose» in genere rappresentativo. In effetti, mentre la polifonia madrigalistica va compietamente trasferendo le sue facoltà espressive alla voce solista, Monteverdi bada anche ad emanciparla dai caratteri privati ed amatoriali originari, spingendola, in direzione opposta, verso un’accresciuta complessità d’assieme di voci e di stru­ menti, tendente ad un’esibizione esecutiva di tipo ormai evi­ dentemente professionale a fronte di un uditorio giudicante. Nell’Ozio libro, pubblicato nel 1638, non si intravede quasi più nemmeno la traccia del madrigale tradizionale ancora

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osservato da Monteverdi sino al Sesto libro. Le composizioni che costituiscono la raccolta presentano combinazioni di voci e di strumenti le piu svariate e quanto a forme e quanto a nu­ mero di parti, con un’attenzione all’architettura generale del­ l’intero libro, nell’intento, dichiarato nella prefazione, di of­ frire un compendio delle maniere di far musica, che dovevano «essere di tre sorti, oratoria, armonica et ritmica», risponden­ ti a forme di consumo sociale già distinte secondo l’uso mo­ derno, e cioè «da teatro, da camera et da ballo», oggi direm­ mo le forme dell’opera, del concerto e del balletto. Ci sono tutte e tre nel Libro ottavo', la musica da ballo (vedi il gruppo di composizioni che concludono la prima parte), quella (come il Lamento della Ninfa) dei «canti senza gesto», destinati al puro ascolto; e frammisti vi sono, simmetricamente collocati nella prima e nella seconda parte, due ampi lavori drammatici già da tempo rappresentati, Il combattimento di Tancredi e Clorinda e il Ballo delle ingrate. Il combattimento di Tancredi e Clorinda era stato eseguito nel carnevale del 1624 a Palazzo Mocenigo a Venezia «per passatempo di veglia», come avvertono le istruzioni premesse alla stampa della partitura, producendo una grande impressio­ ne su tutta la nobiltà presente, «la quale restò mossa dall’af­ fetto di compassione in maniera che quasi fu per gettar lacri­ me». Esso mette in musica il passo del canto XII della Geru­ salemme Liberata che descrive il duello fra la pagana Clorinda, in tenuta guerriera, e il cristiano Tancredi, che stimandola un uomo la ferisce a morte; quindi il riconoscimento dell’amata e la finale conversione di costei alla religione cristiana con la richiesta del battesimo che l’innamorato, straziato, le impar­ tisce. Il lavoro è concepito per una voce di tenore che intona le parti narrative e di commento del testo, le piu estese, e per altre due voci, di tenore e di soprano, che introducono i brevi discorsi diretti dei due agonisti, il tutto con l’accompagna­ mento di «Quattro viole da brazzo, soprano, alto, tenore et basso», oltre al basso continuo. Monteverdi mira a una com­ mozione che sia l’effetto del contrasto fra «le due passioni contrarie da mettere in canto», quella guerriera e quella amo­ rosa, che fonda l’ispirazione di tutto quanto l’Ottavo libro, perciò intitolato Madrigali guerrieri e amorosi. Dove madrigale è ormai termine generico riferito a qualsivoglia composizione esibita a un’udienza profana e dove i temi della guerra e del­ l’amore (come già nella Gerusalemme Liberata del Tasso) ap­ paiono intrecciati lungo tutto il libro. Proprio per arricchire il

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contrasto tra questi due temi Monteverdi si vanta di avere in­ ventato, al fine di esprimere l’animo irato di chi combatte, uno stile concitato, da affiancare allo stile temperato e a quello molle prima di lui unicamente impiegati, consistente nella ra­ pida sillabazione sopra una nota o nella veloce ripercussione di questa da parte dello strumento, secondo la figura metrica greco-latina chiamata «pirrichio». Lo stile concitato è natu­ ralmente adottato dai cantanti e dagli strumentisti del Com­ battimento negli episodi incalzanti, direttamente rivissuti o descritti, della tenzone. Contemporaneamente alle composizioni pensate per le fe­ ste e i trattenimenti di corte, Monteverdi durante il corso del­ la sua vita - e particolarmente dal 1613 quando divenne mae­ stro di cappella in San Marco a Venezia - compose musiche dedicate alla celebrazione liturgica. Il 1610 rappresenta da questo punto di vista un anno importante perché vede l’uscita a stampa di un primo volume, particolarmente splendido, di composizioni per la chiesa, contenenti due opere: Sanctissimae Virgini Missa, da cappella a 6 voci e il Vespro della beata Vergi­ ne, da concerto a 6 voci e 6 strumenti. Opere entrambe dedi­ cate, come si vede, al culto mariano che la religiosità della controriforma aveva particolarmente sollecitato e promosso per ragioni antiluterane. Opere anche estremamente diverse fra loro per concezione e per stile: la prima era infatti «fatta sopra il mottetto In ilio tempore del Gomberti», cioè basata sui temi di un precedente mottetto del musicista fiammingo Nicolas Gombert, morto verso la metà del Cinquecento, che vengono ripresi e arricchiti di nuovi sapientissimi procedi­ menti imitativi secondo le procedure classiche della cosiddet­ ta «missa parodia», che consisteva, come già si è visto, nell’u­ so di comporre nuove musiche rielaborando temi e schemi formali di musiche precedenti. Si tratta dunque di un testo austeramente arcaico ma anche di grande e impegnativa no­ biltà. Altrettanto impegnativo, ma di tutt’altra tendenza è in­ vece il Vespro. La traccia indicata a Venezia da Giovanni Ga­ brieli sta alla base della sua invenzione, ma la quantità di ri­ sorse immaginative del concertato monteverdiano, l’esube­ ranza della fantasia sonora, la capacità di trasformare l’antica ritualità in una sorta di misterioso teatro, conferiscono a que­ sto testo singolarissimo un carattere di visionaria drammati­ cità. La ragione per la quale Monteverdi abbia accoppiato nello stesso volume due opere cosi diverse non è nota. Le ipotesi

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che si fanno riguardano i rapporti, che andavano facendosi precari, fra Monteverdi e la corte mantovana; ma non abbia­ mo documenti che convalidino senza dubbi l’idea che il libro sia stato composto nell’intento di cercare altre e più favorevo­ li situazioni di lavoro. Dal 1613 in poi la produzione di musica sacra si fece ovvia­ mente più attiva, anche qui manifestando tendenze diverse, ora più conservative ora più nuove, legate evidentemente alle necessità pratiche di adeguare lo stile musicale al carattere della ritualità che veniva volta per volta adottata, e che non sempre era quella della Basilica di San Marco. Di quest’opera trentennale ci sono giunte purtroppo documentazioni sparse e non complete, alcune manoscritte altre a stampa. La raccol­ ta che Monteverdi fece in tempo a pubblicare poco prima del­ la morte nel 1640 (o 41) intitolata Selva morale e spirituale, è un vero e proprio corrispettivo sacro AdP Ottavo libro di ma­ drigali pubblicati due anni prima. Ma dell’ultimo periodo della sua vita ci sono rimaste anche due importanti opere teatrali: Il ritorno di Ulisse in patria (Ve­ nezia 1640) e L'incoronazione di Poppea (Venezia 1642) che concludono un’attività ininterrotta in questo campo: almeno una quindicina di lavori fra balli, intermedi, sacre rappresen­ tazioni, melodrammi, tornei, di cui poco è sopravvissuto. Il primo dei due testi è ordito su una imponente intelaiatura narrativa che sintetizza gli ultimi libri del poema omerico (dall’attesa di Penelope, allo sbarco di Ulisse, alla sfida coi proci, ai rapporti del protagonista con i personaggi popolari e con gli dei) in una serie nitidamente scolpita di ritratti, di si­ tuazioni psicologiche tipiche, di colpi di scena, in cui non mancano né il piacere del racconto avventuroso, né le grandi situazioni patetiche e commoventi, né i quadri realistici, buffi o grotteschi. La drammaturgia di Monteverdi, la sua tecnica teatrale e musicale, si è fatta ricca, varia, scaltrita. Siamo or­ mai di fronte a un’opera che ha abbandonato le ritualità ari­ stocratiche dello spettacolo di corte dei primi anni del secolo ed è diventata matura per affrontare i gusti e i giudizi di un pubblico più vasto e meno selezionato. E infatti proprio in quegli anni, nel 1637, si era aperto a Venezia, al Teatro San Cassiano, il primo locale con ingressi a pagamento; e non è un caso che la prima opera in musica rappresentata a Napoli nel 1651, allestita e cantata da una compagnia di professionisti itineranti che nel frattempo si era costituita (l’Accademia dei Febi Armonici), fosse proprio l’ultima opera di Monteverdi:

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L’incoronazione di Poppea. Si tratta in questo caso di una nar­ razione storica (anche qui una primizia che avrà sviluppi infi­ niti negli anni a venire) che mette in scena personaggi come Poppea, Nerone, Seneca, i quali, essendo appunto personaggi storici e non mitologici, possono venire raffigurati con carat­ teristiche assai piu vicine a una sorta di realismo quotidiano. E Monteverdi dosa con geniale intuito la sua partecipazione o il suo distacco rispetto alle vicende che narra, trasformando la Roma imperiale in una sorta di raffigurazione del costume contemporaneo che viene implicitamente messo in discussio­ ne e giudicato. Temi quale quello dell’ambizione di potere, del perfido inganno, della sensualità, dei rapporti coniugali, della fedeltà nell’amicizia, dei rapporti fra classi sociali diver­ se, dell’intransigenza morale e via dicendo, appartengono ben più ai valori della società seicentesca che non a quelli della corte imperiale di Nerone. Lo spettacolo d’opera ha successo anche grazie a questa capacità di entrare in rapporto dialettico con la società della sua epoca e la Incoronazione monteverdia­ na è un esempio straordinariamente vivo di questa capacità. [ps]

5. L’ambiente romano e l’oratorio.

Nei primi decenni del Seicento l’opera teatrale si andava diffondendo rapidamente in altre città italiane: oltre a Man­ tova e Venezia, a Torino,’a Bologna, a Parma, assumendo tratti diversi a seconda delle condizioni locali. E soprattutto a Roma, sede del papato, dove i caratteri barocchi controri­ formistici dell’arte e dell’ideologia sociale trovavano il terreno naturale alla sua massima effusione, grazie alla munificenza della famiglia Barberini (che faceva costruire nel proprio pa­ lazzo un teatro capace di tremila persone) e per l’impulso dato da Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX. Particolare cura era riservata all’aspetto spettacolare, cioè alla scenografia e al­ la macchinistica teatrale, che poteva fruire di artisti come Gian Lorenzo Bernini. Estendendo in profondità lo spazio prospettico e collegandolo a quello reale della sala per mezzo di un unico asse visivo centrale, la scena riusciva ad indurre un artificioso scambio tra verità e finzione, e a rafforzare l’ef­ fetto delle ingegnose metafore retoriche proposte dal libretto. Il quale ampliava insieme le proprie tematiche: da quelle an­ cora mitologiche (come La catena di Adone per la musica di Domenico Mazzocchi) a quelle sacre (come il Sant’Alessio su

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libretto dello stesso Rospigliosi musicato da Stefano Landi), da quelle d’argomento cavalleresco (come Erminia sul Giorda­ no messa in musica da Michel Angelo Rossi, tratta dalla Geru­ salemme Liberata) a quelle di soggetto contemporaneo con spunti fin comici (come i due libretti, entrambi ancora del Cardinal Rospigliosi, Chi soffre speri per Marco Marazzoli e Virgilio Mazzocchi, e Dal male al bene per Antonio Maria Ab­ batini e il Marazzoli). Ogni materia, ogni artificio, ogni con­ gegno tornavano utili per quell’opera di edificazione morale, di allettamento edonistico, di persuasione propagandistica, di fascino spettacolare, che dava fondamento al concetto d’auto­ rità riaffermato dalla Controriforma, basato non piu su un principio teocratico e gerarchico, coma una volta, ma su un rapporto ormai di consenso e persuasione. E anche la musica, all’interno del recitar cantando, cerca uno stile melodicamente accattivante, rendendo le proprie li­ nee piu morbide e sinuose, configurando elementi simmetrici e conchiusi che danno luogo ad arie e a duetti, mischiando ai toni tragici e a quelli pastorali i toni disinvolti della commedia o addirittura del comico, alternando, alle parti monodiche, numerose parti corali, per lo piu omoritmiche e su ritmi di danza, ed anche pezzi orchestrali. Ma è all’interno delle iniziative collaterali alla liturgia, di devozione laica o religiosa, intese a promuovere e a consolida­ re il consenso collettivo attorno al proprio magistero centra­ le, che la chiesa dà vita, a Roma, alla forma musicale più ri­ spondente al disegno della Controriforma: l’oratorio, da con­ siderarsi il correlativo, in sede sacra, del profano melodram­ ma, per analogia di struttura e di coinvolgimento pubblico. L’oratorio, infatti, è una composizione drammatica, al pari dell’opera, con personaggi e dialoghi diretti, dove scena e azione sono sostituite da una narrazione svolta per lo più dalla figura di uno storico. Esso prese il nome dal luogo di culto ap­ partenente a confraternite o a congregazioni in cui vide la lu­ ce affinché servisse di contorno edificante e moraleggiante al­ la predica di un sermone. L’articolazione dell’oratorio in due parti deriva dall’uso di far precedere e seguire la recita del ser­ mone da canti. A seconda che si trattasse di laudi polifoniche in volgare - nelle assemblee aperte all’elemento popolare, co­ me quelle tenute negli oratori di San Gerolamo della Carità e di Santa Maria della Vallicella fondati da San Filippo Neri o fossero mottetti in latino, quali si intonavano in sodalizi dotti e più riservati - com’era l’Oratorio del Crocefisso - die­

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dero luogo a veri e propri svolgimenti drammatico-musicali nelle due lingue, ispirati alla narrazione biblica inerente all’o­ melia. Oratorio in volgare e oratorio in latino procedono dun­ que dallo sviluppo della polifonia (rispettivamente lauda e mottetto anche concertato) verso uno stile dialogico (al modo che è dato di riscontrare, ad esempio, nella raccolta di madri­ gali spirituali e di dialoghi in stile recitativo di Giovanni Fran­ cesco Anerio intitolata Teatro armonico spirituale, del 1619) e verso la monodia accompagnata, secondo un processo cono­ sciuto parallelamente dal melodramma (non a caso l’allegoria drammatica della Rappresentatione di anima et di corpo del De’ Cavalieri trovò accoglienza, nel 1600, proprio nell’Oratorio della Vallicella). Il massimo autore di questo primo oratorio romano è Gia­ como Carissimi (Marino, Roma 1605 - Roma 1674), che lo compone in latino, operando presso la Compagnia del Croce­ fisso. La produzione oratoriale di Carissimi più che offrire uno schema compiuto del genere ne mostra la genesi per la grande varietà di forme che presenta quanto ad ampiezza, a numero di voci (dai tre personaggi del Lucifer ai dodici del Di­ luvium universale), a ripartizione fra episodi corali, recitativi, brani solistici e d’insieme, a distribuzione delle funzioni dia­ logiche e narrative tra soli e coro, ad interventi strumentali, per lo più sobri. Le composizioni oratoriali di Carissimi più che una forma incarnano la essenza rappresentativa del nuovo genere, investendo la materia narrata con un livello musicale ed espressivo tale da conferire ad essa una concretezza teatra­ le quasi corporea. Il coro non vi compare come un aggregato sonoro compatto, ma passa ad acquisire caratteri di personag­ gio di massa, ora folla, ora gruppo limitato di persone che in­ terrompe i soli, interloquendo con essi, contrastandoli, la­ sciando emergere esclamazioni e richiami, frammentandosi in una pluralità di voci. Basti pensare all’evocazione della molti­ tudine dei demoni nel Dives malus o a quella dell’umanità di­ sperata nel Diluvium universale. I soli cercano di vivere in pri­ ma persona il racconto, osservando uno scambio dialogico quanto più stretto col coro (che si sostituisce spesso allo stesso historicus), in modo da sottrarre, appena possibile, l’esposi­ zione dei fatti a una mera descrizione obiettiva e renderli sog­ gettivamente presenti, traducendo gli accenti dei singoli in partecipazione globale, come avviene nel lamento della figlia di Jephte nell’oratorio omonimo considerato il capolavoro di Carissimi, [ps]

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6. Origini e primi sviluppi della musica strumentale in Italia e in Europa. Oltre che dalla comparsa del basso continuo e della mono­ dia accompagnata, la musica del xvn secolo è caratterizzata da un’altra importante novità stilistica, ossia dalla sempre più ampia diffusione di tipi di composizione espressamente con­ cepiti per l’esecuzione strumentale. L’uso di strumenti o anche di musiche solo strumentali non è ovviamente una novità nella tradizione europea, ma nel cor­ so del Cinquecento (e anche nei secoli precedenti) esso aveva sempre dovuto fare i conti con un modello ideale predomi­ nante secondo il quale la musica delle classi colte veniva pri­ mariamente immaginata per le voci. Che poi le voci di una po­ lifonia potessero essere anche affidate a strumenti era que­ stione di pratica quotidiana o di opportunità contingente; ma che esse venissero fondamentalmente pensate come «voci» nel senso di voci umane, è altrettanto certo. Solo in occasione di danze o musiche di accompagnamento per solennità rituali gli strumenti godevano di una funzione esplicita e di una indi­ pendenza dichiarata. Le prime infrazioni a queste leggi cominciano a verificarsi quando il gusto per il suono strumentale viene legittimato e codificato dalla scrittura. I primi strumenti che si dotarono di una grafia diversa da quella vocale furono quelli a tastiera e a pizzico (che potevano eseguire più note contemporanee), per i quali si inventò un sistema di scrittura (detto intavolatura) che di solito indica all’esecutore, attraverso speciali simboli, la posizione delle dita sullo strumento. Le più antiche intavolature per strumento a tastiera risai- fig. 13 gono agli inizi del xv secolo; le prime intavolature per liuto cominciarono a diffondersi nei primi anni del secolo successi­ vo. Accanto a questa letteratura per strumento solo compar­ vero con sempre maggiore frequenza, dall’epoca di Josquin e di Isaah (che ne fornirono alcuni esempi significativi) anche composizioni per gruppi strumentali che inizialmente i musi­ cisti indicavano col termine di fantasia, forse per distinguerne la singolarità rispetto alla comune prassi vocale. Fin dagli ini­ zi, tuttavia, si impose alla musica strumentale autonoma il problema della sua organizzazione formale. In musiche di tipo funzionale, come le danze o le marce, l’organizzazione forma­ le era data per cosi dire dall’esterno, cioè dai movimenti che

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il suono doveva accompagnare e guidare; in musiche di tipo vocale era data dal testo verbale, dalla sua metrica, dalla sua divisione in strofe. Ma in musiche strumentali «pure» occor­ reva una sorta di architettura astratta che le organizzasse for­ malmente e ne giustificasse la forma. Queste «architetture» sonore si appoggiarono dunque ini­ zialmente a due grandi modelli preesistenti: quello della poli­ fonia vocale e quello della danza. La pratica consueta della esecuzione strumentale di polifonie vocali forni esempi ovvi in questo campo. Intorno alla metà del secolo xvi comparve cosi un genere strumentale che tendeva da vicino a organiz­ zarsi sullo schema del mottetto, strutturandosi per sezioni cia­ scuna introdotta da un ingresso delle voci in imitazione: si trattava del Ricercare, di cui si hanno esempi per organo, per liuto, per complesso strumentale. Rispetto al modello vocale il ricercare strumentale - i cui esempi iniziali più famosi sono quelli per liuto di Francesco da Milano (1536), per organo di Girolamo Cavazzoni (1542) e per strumenti di Annibaie Pa­ dovano (1555) - tende nelle sue forme piu mature a limitare il numero delle sezioni elaborando più lungamente il tema che caratterizza e introduce ciascuna di esse. Mentre infatti nelle composizioni vocali il tema cambiava a ogni episodio perché le parole del testo erano diverse, nel ricercare si avverte mag­ giormente la necessità di economizzare la varietà tematica. A poco a poco si avvertirà anche la necessità di rafforzare i lega­ mi tematici fra i vari episodi, fino a quando la composizione assumerà una configurazione in cui tutti gli episodi si baseran­ no sul medesimo spunto iniziale (ricercare monotematico). A questo punto siamo ai confini di quella che diverrà in epoche successive la forma della fuga. Forme analoghe al ricercare fu­ rono quelle del tiento spagnolo e della fancy inglese. Un processo di sviluppo non diverso ebbe un’altra forma strumentale cinquecentesca: quella della Canzone o Canzone da sonar, di struttura analoga a quella del ricercare, ma di ca­ rattere diverso perché non legato ad austeri esempi di polifo­ nia sacra bensì al più disinvolto genere della chanson france­ se. Esempi di trascrizioni liutistiche di chansons si trovano già nelle stampe di Petrucci agli inizi del xvi secolo; altri esempi assai brillanti di canzoni per organo o per strumenti (dovuti ad Andrea e Giovanni Gabrieli, a Gioseffo Guami, ad Adriano Banchieri, a Claudio Menilo, e a innumerevoli al­ tri autori, compreso Frescobaldi) testimoniano, in tutto il cor­ so del secolo e oltre, la fortuna di questo genere musicale.

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Nel Nord Europa (Germania, Paesi Bassi, Inghilterra) la musica strumentale acquistò caratteristiche parzialmente di­ verse soprattutto per il suo perdurante legame con schemi di contrappunto basati sulla tradizione fiamminga (e prima an­ cora medievale) del tenor. Nel ìAullinerRook^ una intavolatu­ ra inglese della prima metà del secolo, contenente brani in gran parte liturgici, il canto fermo o tenor è quasi sempre pre­ sente e viene trattato sia a valori lunghi e uniformi (su cui si collocano le altre voci in contrappunto), sia in forma melodica arricchita con aggiunte e varianti. In un’altra intavolatura te­ desca dei primissimi anni del Seicento (Celle? Tabulatori) sono elaborate come canto fermo anche melodie tratte da corali lu­ terani. L’uso, particolarmente organistico, dell’elaborazione di corali avrà grande fortuna nella Germania del xvn secolo e troverà il suo massimo coronamento nelle composizioni di Bach. Altri generi si creano al di là dei modelli della polifonia vo­ cale; in primo luogo quelli basati sulla danza. La grande ab­ bondanza di fonti documentarie sulla pratica sociale del ballo e la relativa scarsità di testi musicali scritti, sono indizi sicuri del fatto che le musiche per il ballo, di diverso tipo a seconda dei vari ceti sociali, erano quasi sempre eseguite da musicisti che le imparavano per tradizione orale. E infatti esistono te­ stimonianze sui numerosi piccoli complessi popolari o semipo­ polari (soprattutto di strumenti a fiato), che venivano utiliz­ zati nelle feste, e che probabilmente nelle loro esecuzioni or­ navano le melodie tradizionali del ballo con aggiunte e varia­ zioni estemporanee. La comparsa di stampe musicali contenenti danze (partico­ larmente significative quelle pubblicate in Francia e nei Paesi Bassi dagli editori Attaingnant, Susato, Phalèse) indica come a poco a poco la moda dell’esecuzione di tali musiche si dif­ fondesse anche fra le classi più elevate (significativo è il gran numero di danze trascritte per liuto, che era lo strumento ti­ pico dei dilettanti colti). A questo passaggio è legato il pro­ gressivo distacco delle musiche per danza dalla loro originaria funzione pratica. Nel genere musicale della Suitet che nasce nel Seicento, il rapporto con la danza non esiste ormai quasi più: si tratta di danze non danzate. Suite significa «successione», insieme di pezzi eseguiti uno dopo l’altro. Anche per questa particolarità esistono antece­ denti storici: nel Cinquecento infatti le danze (anche quelle danzate) venivano spesso collegate in successione, come acca­

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deva ad esempio per le coppie pavana-gagliarda o passamezzosaltarello (rispettivamente in tempo binario e ternario) a cui si associava spesso anche una Piva in ritmo ternario più rapido. Innumerevoli specie di danze e successioni di danze si pratica­ rono in tutta Europa nel corso del Cinquecento, fra le quali alcune delle più note erano l’allemanda, la corrente} la giga. Connessa con la danza è un’altra forma musicale importan­ te: quella della variazione. Anche qui siamo di fronte a una eredità parzialmente dovuta alla tradizione popolare, accolta e sviluppata in ambito colto. Non solo le musiche per danza prevedevano, come s’è detto, esecuzioni variate con aggiunte di tipo improvvisativo, ma spesso le stesse coppie pavana­ gagliarda e simili si basavano sul principio della variazione, quando presentavano un’unica melodia che veniva eseguita prima in tempo binario e poi in tempo ternario, con gli oppor­ tuni adattamenti. Schemi di questo tipo vennero incorporati nella tradizione colta in cui l’uso di variazioni o partite (diferencias in spagnolo) si diffuse ampiamente. Due erano i tipi predominanti di variazione: quella «ornamentale» (che con­ sisteva nel presentare più volte la stessa melodia conservando­ ne la riconoscibilità, ma alterandola con figurazioni rapide di carattere virtuosistico) e quella «ostinata» che consisteva in­ vece nel ripetere più volte un frammento melodico mantenen­ dolo rigorosamente intatto, ma cambiando ogni volta la strut­ tura e il carattere delle altre voci che l’accompagnavano (se­ condo un procedimento non immemore anche della pratica del tenor). Particolare fortuna ebbe il genere della variazione nelle composizioni per vihuela pubblicate in Spagna, come quelle di Luis de Narvàez (1538) e di Enriquez de Valderràbano (1547) e nelle composizioni per virginale, assai diffuse in Inghilterra all’epoca d’oro della regina Elisabetta I e compo­ ste da musicisti di altissima rinomanza come William Byrd, John Bull e Orlando Gibbons. Un posto tutto particolare merita poi il genere musicale della toccata, che fra tutti i menzionati è quello che più si al­ lontana dal modello della polifonia vocale e della danza e tro­ va soluzioni espressamente suggerite dallo strumento. Inizial­ mente la toccata (per liuto o per organo) è infatti costituita da una serie di accordi collegati fra loro da rapide figurazioni vir­ tuosistiche, per lo più a scala. Verso la fine del Cinquecento soprattutto nei due libri (1598-1600) dell’organista veneziano Claudio Menilo (Correggio, Reggio nell’Emilia 1533 - Parma 1604) -, la toccata acquista ampie proporzioni e alterna episo-

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di liberi e virtuosistici con altri polifonici di stile imitativo. Nella prima metà del Seicento la musica per soli strumenti, forte della ricca esperienza dell’epoca precedente, conosce un lungo e fecondo periodo di sperimentazione a conclusione del quale si affermeranno in tutta Europa i solidi schemi formali della fuga, della sonata, del concerto, della suite, ecc., che sanciranno definitivamente la legittimazione della sua auto­ nomia. Non dappertutto questo processo di sperimentazione avviene tuttavia con gli stessi ritmi e con le stesse modalità. Nell’Europa del nord, in cui più evidente risulta la fedeltà alle antiche forme di eredità fiamminga, il gusto per l’architettura complessa, basata sulla tradizione contrappuntistica, si impo­ se come tratto caratteristico delle composizioni strumentali. In quelle per gruppi di strumenti continuò a lungo la tradizio­ ne cinquecentesca; più evidenti tendenze innovative si mani­ festarono invece nella produzione per strumenti a tastiera. Un punto di riferimento importante per tutta quest’area geogra­ fica fu la presenza in Amsterdam di Jan Pieterszoon Sweelinck (Deventer 1562 - Amsterdam 1621). L’organista olan­ dese conosceva sicuramente la produzione strumentale dei grandi virginalisti inglesi, e conosceva le opere dei suoi colle­ ghi veneziani, di Giovanni Gabrieli e di Claudio Merulo in primo luogo. Nelle sue fantasie, toccate e variazioni egli opera una sintesi sapiente di elementi stilistici diversi: la varietà e la libertà delle toccate e delle canzoni all’italiana si armonizza con le ingegnose manipolazioni contrappuntistiche della tra­ dizione fiamminga (ad esempio temi aumentati o diminuiti, o esposti con rivolti intervallari) e con la capacità di padroneg­ giare le tecniche di derivazione inglese: per esempio temi trat­ tati in forma di ostinato e di variazione. In quest’ultimo caso diventano particolarmente significative per gli sviluppi futuri le sue composizioni su melodie di corali luterani, esposte a no­ te lunghe oppure variate con abbellimenti e «colorature». Fra i molti allievi e seguaci che Sweelinck ebbe in Germa­ nia uno dei più importanti fu Samuel Scheidt (Halle 1587 1654) nella cui Tabulatila Nova (1624) esiste un ricco reper­ torio di variazioni su motivi di canzone e di danza, di elabora­ zioni di corali luterani e inni latini, di fughe e di canoni che resteranno a modello per la scuola organistica del nord fino al­ l’epoca di Bach. Nelle opere di Scheidt e di altri autori nordi­ ci si afferma in maniera definitiva in quegli anni la tradizione organistica del «preludio al corale» che assume forme diverse: variazioni sulla melodia del corale, melodia presentata come

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canto fermo, versetti del corale elaborati in forma polifonica (cioè con imitazioni in stile di mottetto), oppure anche melo­ dia del corale utilizzata come tema di fuga. La musica strumentale italiana negli stessi anni è testimone di soluzioni di tutt’altro tipo. Se nel nord si rinsaldano le for­ me basate sulla tradizione contrappuntistica, nel sud si inse­ gue il mito (eminentemente de-strutturante sul piano formale) dell’espressività musicale legata al canto solistico e al rapporto con i contenuti semantici della parola. La musica strumentale entra allora in una situazione particolarmente problematica: è vero infatti che i compositori del Cinquecento avevano reso disponibile un grande repertorio di formule per la musica strumentale, ma è vero anche che gli schemi formali elaborati erano più rispondenti, nel loro insieme, all’ideale polifonico che non a quello monodico che si afferma agli inizi del Sei­ cento. E emblematica da questo punto di vista la vicenda stilistica di un musicista come Girolamo Frescobaldi (Ferrara 1583 Roma 1643). Fantasie, rìcercarì, canzoni, caprìcci, variazioni, toccate sono i titoli che figurano nelle numerose raccolte per organo e cembalo pubblicate dal grande ferrarese, dal Primo libro delle Fantasie del 1608 alle Canzoni alla francese uscite postume nel 1645: tutti generi ampiamente noti alla tradizio­ ne cinquecentesca, ma tutti trattati con una inquietudine nuova a cui la musica del Cinquecento non era avvezza. Fre­ scobaldi, che a Ferrara era stato allievo di Luzzasco Luzzaschi, uno dei musicisti più attenti alla promozione delle nuove forme di monodia accompagnata, passò quasi interamente gli ultimi quarantanni della sua vita a Roma, come organista alla Cappella Giulia, ma non si lasciò sfuggire occasioni di viaggi e soggiorni in ambienti musicali particolarmente importanti in quegli anni (nelle Fiandre, a Mantova, a Firenze) che gli diedero un’ampia e diretta conoscenza delle tendenze stilisti­ che emergenti agl’inizi del secolo. Nelle sue composizioni il contrappunto imitativo si alterna con brillanti e fantasiosi passi virtuosistici in stile di toccata, con ritmi di danza, con invenzioni melodiche memori delle tradizioni di canto del madrigale e della monodia. Queste ul­ time specialmente nelle toccate (Primo libro, ia ed. 1615; Se­ condo libro, ia ed. 1627) concepite da Frescobaldi in modo che «siano copiose di passi diversi et di affetti» e che quindi vengano eseguite «come veggiamo usarsi nei madrigali mo­ derni», cioè assecondando «i loro affetti, o senso delle pa­

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role»; cosi egli stesso avverte rivolgendosi «al lettore» nella prefazione all’ultima edizione del Primo libro (1637) mutuan­ do direttamente termini ed espressioni da quell’ambito ma­ drigalistico e vocalistico che era appunto alla base della sua ispirazione strumentale, massimaménte in questi lavori. Nelle fantasie, nei ricercati, nelle canzoni egli costruisce i suoi disegni formali alternando le varie sezioni secondo criteri di analogia o di contrasto e utilizzando caso per caso il principio della molteplicità dei temi oppure quello del monotematismo; ma i temi impiegati nel corso della composizione vengono rara­ mente ripetuti uguali: a ogni ripresa Frescobaldi tende a ela­ borarli, a modificarli con continue e sottili varianti. Il libro dei Capricci del 1624 si configura invece come una vera e pro­ pria serie di «studi» su quegli che egli chiamava «obblighi»: ad esempio l’impiego di ostinati, l’uso sistematico delle disso­ nanze («durezze» secondo la terminologia dell’epoca), l’uso di legature e di sincopi, di melodie cromatiche, di giochi ritmici oppure anche la bizzarria di imitare suoni naturali (come av­ viene per esempio nel capriccio sopra il verso del cucii). Nella raccolta dei Fiori musicali (1635) questi andamenti fantastici cedono il posto a una concentrata severità e quasi a una sorta di incantamento mistico, che trova esempi significativi nelle famose Toccate per l'elevazione. L’esempio di Frescobaldi è indicativo proprio per la straor­ dinaria libertà con cui egli affronta il problema della forma strumentale, per la capacità di inventare caso per caso soluzio­ ni sempre parzialmente diverse, anche se rispondenti a sche­ mi parzialmente noti. Su presupposti «sperimentali» simili a questi si orientano molti altri musicisti coevi. È illuminante a questo proposito la confusione terminologica con la quale i vari generi musicali vengono mischiati e sovrapposti fra loro: i termini di fantasia, capriccio, canzone, sonata tendono a volte a perdere i loro confini distintivi e a diventare quasi sinonimi. A titolo di esempio concludiamo il paragrafo con qualche indicazione (significativa di questo stato «fluido» delle forme strumentali protoseicentesche) sulla nascita del genere dalla Sonata & 3 strumenti. L’antecedente piu diretto è quello della canzone da sonar, che nei primi decenni del Seicento era an­ cora in pieno rigoglio, e infatti il modello della canzone (viva­ ce nelle sue idee melodiche, divisa in sezioni, capace di utiliz­ zare procedimenti imitativi ma anche ritmi di danza, abile nell’alternare temi o varianti tematiche) esercita un’influenza molto generalizzata su tutta la musica per piccoli complessi

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strumentali che si compone in quegli anni. Ma altri elementi intervengono: ad esempio Fuso del basso continuo (che tende a rompere l’armonico equilibrio fra le voci della canzone) op­ pure la parentela con generi di tipo vocale (che introducono arditezze armoniche e melodiche nuove, o contrapposizioni «concertanti» in un contesto come quello della canzone che per tradizione era molto piu piano e limpido), oppure ancora l’uso di strumenti particolarmente capaci di canto (com’era il violino) o infine la libertà sul numero delle voci che potevano intervenire (nella canzone erano di solito 4 o 5, in quella a due «cori» arrivavano a 8, ma agli inizi del Seicento si possono tal­ volta ridurre a 3 o a 2). Cosi sotto l’influenza di questo com­ plesso di variabili, anche la struttura formale di questa «canzone-sonata» subisce modifiche. Le diverse sezioni pos­ sono assumere durate diverse e farsi anche brevi o brevissime, possono cominciare a contrastare vivacemente l’una con l’al­ tra alternando passi contrappuntistici a temi di danza, a temi cantabili, a brani in tempo allegro. Verso la metà del secolo questa dilagante possibilità di scel­ te tende a trovare una organizzazione piu ordinata e compat­ ta. Scompare gradualmente il termine «canzone», si impone sempre piu stabilmente la presenza delle 3 voci (due violini e un basso continuo), emergono due tipi principali di contrasto: quello fra adagio e allegro (che determinerà poi la classica al­ ternanza fra i tempi della sonata) e quello fra stile contrap­ puntistico e stile di danza, che alla fine determinerà la distin­ zione fra sonata da chiesa e sonata da camera, [mb]

Capitolo sesto

La musica barocca tra Sei e Settecento

i.

L "affermazione del sistema tonale.

Prima di affrontare la descrizione del ricchissimo panora­ ma della musica europea che va dall’epoca di Monteverdi a quella di Bach e di Hàndel, è bene chiarire un discorso di fon­ do che interessa tutti i tipi di musica di questo periodo, indi­ pendentemente dal loro genere e dalla loro area geografica. A partire dalla seconda metà del Seicento fino ad arrivare alla seconda metà dell’ottocento e oltre, la musica europea è caratterizzata da quel complesso fenomeno di organizzazione dei suoni che va sotto il nome di «tonalità». E impossibile de­ finire il concetto di tonalità in termini semplici, perché si trat­ ta di un fenomeno che investe tutti gli aspetti del linguaggio musicale, dall’armonia alla melodia, alla forma, alla natura stessa delle scale che stanno alla base delle abitudini percetti­ ve dell’orecchio. Per chiarire gradualmente i differenti aspetti del fenomeno prenderemo anzitutto le mosse dalla nozione di « accordo », intendendosi con questo termine tecnico la sovrapposizione contemporanea di piu suoni secondo regole che nella loro se­ colare stratificazione hanno selezionato, fra tutte le sovrappo­ sizioni sonore possibili, solo alcuni insiemi particolari che l’o­ recchio occidentale ha trovato utili e significativi. In tutto il periodo rinascimentale l’accordo per eccellenza (considerato il più piacevole, il più consonante) era la triade, cioè la combi­ nazione di tre suoni sovrapposti a distanza di un intervallo di terza (per esempio do-mi-sol). La combinazione di questi tre suoni non veniva tuttavia teorizzata e pensata come un’unità, bensì come un insieme di intervalli: una terza (do-mi), un’al­ tra terza (mi-sol) e una quinta (do-sol). Le melodie sovrappo­ ste di una polifonia presupponevano sempre combinazioni intervallari di questo tipo (la cui ricorrenza creava insiemi pia­ cevolmente consonanti) ma non regolavano la loro successio­ ne che poteva essere indefinitamente libera.

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L’uso del basso continuo, e soprattutto dei numeri sul bas­ so continuo, tende a mutare sensibilmente la situazione. La numerazione scritta sopra il basso indicava per regola un sin­ golo intervallo: se, sopra il basso do, era scritta ad esempio la cifra 5, ciò significava che l’esecutore doveva toccare la nota sol. Ma la cifra 5 acquistò ben presto un valore piu esteso, cioè venne intesa sinteticamente come simbolo delle tre note che costituivano la triade. E cosi accadde per le altre cifre che venivano scritte nel basso. Questo portò gradualmente il pen­ siero musicale degli stessi esecutori a ragionare per accordi, anziché per sovrapposizioni di intervalli. Un passo successivo fu la graduale consapevolezza dell’esistenza di regole che po­ tevano governare una buona, efficace successione di accordi. Regole d’orecchio, poi trasformate in sequenze che era possi­ bile definire concettualmente, grazie appunto alla nozione di accordo. Tali sequenze hanno come punti di riferimento essenziali le triadi costruite sul primo e sul quinto grado della scala, conce­ pite con funzioni diverse: a quella del primo grado (o tonica] spettava, nella sequenza accordale, funzione conclusiva, men­ tre a quella del quinto (o dominante) spettava funzione di transizione verso la conclusione. Questa relazione era già entrata nell’uso da più di un secolo e faceva parte delle convenzioni sintattiche cinquecentesche anche se non era teoricamente pensata e formulata in questi termini. Quando anche gli altri gradi della scala cominciarono ad acquisire funzioni armoniche di natura analoga si creò allo­ ra quel nuovo sistema organico di convenzioni che va sotto il nome di armonia tonale. Oltre alla funzione di tonica attri­ buita all’accordo costruito sul primo grado e a quella di domi­ nante attribuita a quello costruito sul quinto (e successiva­ mente anche sul settimo), si identifica a partire dal xvn secolo una terza funzione attribuita agli accordi del secondo e del quarto grado: la funzione di transizione verso la dominante (e questi accordi vengono detti di sottodominante). L’insieme dei sette gradi della scala acquista dunque una organizzazione in­ terna basata sulle funzioni attribuite ai loro accordi; gli unici gradi che sfuggono a questa caratterizzazione sono il sesto (che può assumere volta per volta funzioni diverse non rigi­ damente predeterminate) e il terzo che non acquista funzio­ ni e a poco a poco cade in disuso e viene sentito più che al­ tro come un residuo di procedure arcaiche. La successio­ ne standard degli accordi tonali, che in gergo si chiama giro

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armonico (i-iv(n)-v(vn)-i), si può avere allo stato per cosi dire «puro», in sequenze brevi come ad esempio sono quelle delle danze o delle piccole arie del Seicento, ma può anche dilatarsi in successioni più ampie utilizzando un procedimento, che viene talora definito di «prolungamento», che consiste nel co­ struire giri armonici secondari attorno a ciascun perno del gi­ ro armonico principale, in maniera da ottenere sequenze di respiro più ampio. Una struttura di questo tipo, basata sulle successioni di ac­ cordi, determina mutamenti anche nell’invenzione melodica. Il rapporto fra melodia e armonia, che la tradizione polifonica aveva sviluppato nei secoli precedenti viene, entro certi limi­ ti, rovesciato. Mentre in una polifonia cinquentesca l’organizzazione melodica era predominante nel senso che la sovrappo­ sizione delle varie melodie doveva semplicementre aver cura che le armonie derivate fossero formate di accordi «legittimi» (cioè fondamentalmente di intervalli consonanti), nella nuova organizzazione tonale le sequenze dei giri armonici hanno in­ vece una importanza strutturale primaria e la melodia ne deve tener conto e deve adattarsi ad esse. In altri termini le melodie tonali devono rispettare le fun­ zioni armoniche dei gradi della scala e devono essere compa­ tibili con quelle. Ciò porta a una graduale decadenza di alcuni dei molteplici modelli di scala musicale che la musica europea aveva eredita­ to dalla tradizione medioevale. Delle otto scale antiche (o «modi», secondo la terminologia tradizionale) solo due so­ pravvivono con adattamenti: le altre risulteranno a poco a po­ co non compatibili con le nuove esigenze del sistema tonale e gradualmente cadranno in disuso (salvo un loro recupero ar­ caicizzante nella seconda metà dell’ottocento). Si affermerà cosi in maniera piena il sistema moderno basato sull’opposi­ zione fra due soli modelli di scala: la scala maggiore e quella minore. Ma il sistema tonale ha anche altre risorse: ogni brano mu­ sicale, basato su una determinata scala o tonalità (maggiore o minore che sia), può infatti aggiungere varietà al suo decorso mediante la tecnica delle cosiddette modulazioni. Ciascuno dei due modelli di scala, infatti, pur conservando intatta l’or­ ganizzazione degli intervalli che lo caratterizza, può scegliere come sua «tonica» qualsiasi nota disponibile nel sistema: ad esempio la scala maggiore può essere costruita (e cantata) a partire dalla nota do, ma può anche essere costruita a partire

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CAPITOLO SESTO

dalla nota re purché vengano utilizzate le alterazioni (nella fattispecie i diesis, in altri casi i bemolle) necessarie a costrui­ re il medesimo modello di scala a partire da una nota diversa. Con il termine di modulazione si indica appunto il passag­ gio, all’interno di una composizione, fra una tonalità e l’altra. Anche la sequenza delle tonalità viene organizzata secondo regole precise. La piu semplice di queste riutilizza anche a questo livello strutturale il consueto principio della tensione dialettica fra tonica e dominante: per esempio, se una compo­ sizione è basata sulla tonalità di do ci si aspetterà che a un cer­ to punto la modulazione avvenga nella tonalità di sol. Una volta raggiunta la nuova tonalità si ricreano al suo interno i consueti giri armonici, a partire dalla nuova tonica. Ogni composizione a struttura tonale si basa dunque su un principio unico e semplice: quello della sequenza standard de­ gli accordi del «giro armonico». Ma questo principio viene or­ ganizzato a diversi livelli strutturali incassati l’uno nell’altro: ai livelli superiori c’è quello che regola il piano tonale generale della composizione stabilendo la successione delle modulazio­ ni ovverossia delle diverse tonalità che vengono toccate. Al­ l’interno di ogni tonalità si creano i giri armonici «prolunga­ ti » che costituiscono cosi un secondo livello strutturale gerar­ chicamente sottoposto al primo. All’interno di ogni prolunga­ mento si crea infine un terzo livello di giri armonici elementa­ ri e semplici a sua volta gerarchicamente subordinato al secondo. Per raggiungere questa complessa organizzazione gerarchi­ ca cosi razionalmente strutturata i tempi cominciavano a esse­ re maturi già agli inizi del Seicento, ma è solo a partire dalla seconda metà del secolo, e soprattutto dalle esperienze della musica strumentale italiana di quest’epoca, che tutti i musici­ sti europei elaborano ed esperimentano, in una sorta di sforzo collettivo, le regole strutturali del sistema. La teoria formalizzerà in un secondo tempo i risultati ac­ quisiti dall’esperienza musicale, fino a tradurli in regole didat­ ticamente utili che verranno poi divulgate nelle scuole di com­ posizione e che costituiscono ancor oggi il fondamento dello studio dell’armonia. Il maggior teorico dell’armonia settecen­ tesca è senza dubbio Jean-Philippe Rameau. Nel suo Traité de Vharmonic réduite à sesprincipes naturels (1722), e poi nella Géneration harmonique del 1737 e in innumerevoli altre opere teoriche, egli accoppia la sua pratica di compositore dell’epoca tonale con lo studio dei principi fisici del suono che le sco­

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perte scientifiche di quell’epoca avevano cominciato a mette­ re in luce. Nella sua riflessione la triade (o accordo perfetto) maggiore non è una pura e semplice sovrapposizione di due intervalli, come si pensava in precedenza, ma è un’unità orga­ nica e addirittura un fenomeno naturale, perché la sua presen­ za caratterizza i primi suoni armonici di una corda vibrante. Da questo punto di vista fisico-acustico egli può sostenere al­ lora che la disposizione delle note nello spazio sonoro, purché le note rimangano le stesse, non cambia la natura dell’accor­ do: ad esempio l’accordo do-mi-sol e l’accordo mi-sol-do, an­ che se gli intervalli che li compongono sono diversi, sono due forme «rivoltate» dello stesso accordo. La teoria dei «rivolti» è oggi comunemente accettata e pra­ ticata in tutte le scuole di musica, ma per quell’epoca costitui­ va una novità perché ancora ogni accordo veniva concepito come sovrapposizione di intervalli e dunque gli intervalli di un accordo e del suo rivolto non erano affatto gli stessi. Ra­ meau teorizza anche sulle modulazioni che fra l’altro interpre­ ta in maniera particolarmente originale secondo i principi del­ la teoria degli affetti, [mb] 2. La musica vocale di tradizione italiana.

L’opera veneziana del Seicento, a differenza di quella ro­ mana, ha una caratteristica particolare e significativa, cioè la quasi totale assenza degli episodi corali il che si può spiegare con il declino del gusto polifonico di fronte all’irresistibile im­ porsi delle forme melodiche, ma si può spiegare anche con ra­ gioni economiche. L’apertura del teatro a pagamento, anziché ad invito come quando ad organizzare lo spettacolo è la corte, implica infatti la costituzione di un’impresa che lo gestisca, la quale fa conto sugli incassi e bada ad equilibrare le spese, in modo che alla fine gliene venga un utile. Essa non può fare troppo affidamento sulla pompa degli apparati, né sull’impo­ nenza dell’allestimento scenico e cerca anzi di moderare i co­ sti anche riducendo le compagini degli esecutori e privilegian­ do il canto solistico, cioè appellandosi più direttamente alle ragioni del personaggio, della situazione drammatica, del vir­ tuosismo interpretativo, e alle lusinghe di un’invenzione mu­ sicale concisa e perennemente rinnovata. Sono questi i carat­ teri che si svilupperanno nel melodramma veneziano della se­ conda metà del Seicento, illustrati dalle opere di Francesco

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Cavalli, di Antonio Cesti, di Antonio Sartorio, di Giovanni Legrenzi, di Pietro Andrea Ziani, di Carlo Palla vicino. Essi sono il portato dei nuovi condizionamenti economici del siste­ ma del teatro pubblico, ma riflettono, ad un tempo, i gusti di quel pubblico ampio e composito della repubblica veneta che vi accede, e che si sottrae, per primo, alla soggezione del me­ cenate unico, in virtu di un assetto sociale interclassista che reclama un trattamento relativamente più libero ed agile di soggetti e di forme, dentro un contenitore che è altresì luogo d’incontro mondano, attivo per lo più di carnevale o in simili occasioni festive, funzionale alla vita di relazione. Con l’inaugurazione del teatro pubblico l’opera musicale si riconosce definitivamente coinvolta nel meccanismo e nella dialettica del mercato. Basti pensare che subito dopo il San Cassiano si aprono a Venezia diversi altri teatri d’opera pub­ blici, destinati a raggiungere il numero di sedici verso la fine del secolo. Cosi Francesco Cavalli (Crema 1602 - Venezia 1676), assai più del suo maestro Monteverdi, nelle ultime opere tende a un recitativo incisivo e succinto scandito da formule melodi­ che ricorrenti, entro cui fanno spicco, di frequente, brevi arie librate su ritmi di danza, intese a caratterizzare, come nel suo Giasone (1649), situazioni e personaggi, ora seri ora comici, in rapida e bizzarra alternanza. Simile miscela eroicomica pre­ sentano le opere di Antonio Cesti (Arezzo 1623 - Firenze 1669), come si vede nella sua più nota, L’Orontea (1649), do­ ve le arie appaiono ancora in maggior numero, affidate a me­ lodie di piacevole cant abilità. Brevissime sono anche le arie delle opere di Sartorio e di Legrenzi, in cui già appare sago­ mata la forma col da capo che dominerà il melodramma del xvni secolo. Anche l’elemento comico comincia a emergere e si ritrova esclusivo in esempi particolarmente efficaci quali La Tancia, ovvero 11 podestà di Colognolo (1656) di Jacopo Melani e 11 tre­ spolo tutore (ca 1674) di Alessandro Stradella, opere nelle qua­ li predominano arie e duetti strofici su ritmi di danza. Alessandro Stradella (Roma 1644 - Genova 1682) si mise in luce ai suoi tempi quale autore di opere teatrali come quella appena citata o come La forza dell*amor paterno (1678) ma an­ che quale autore di oratori (Susanna, 1666 e San Giovanni Bat­ tista, 1675), e di numerose cantate in cui l’accesa fantasia e la libertà formale del primo barocco cominciano a sistematizzarsi in strutture meno instabili, tendenzialmente più organiche e

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fondate su un senso tonale preciso. Sulla biografia di Stradella, che mori assassinato dopo una vita avventurosa trascorsa in continue infrazioni al costume della sua epoca, si sparsero fiumi d’inchiostro quasi sempre di scarso valore storico e do­ cumentario. Le sue opere, pur non manifestando tratti altret­ tanto eversivi, sono tuttavia caratterizzate da una ricchezza e originalità di invenzione che portarono l’autore a sperimenta­ re, in un gruppo di sonate strumentali e nel citato San Giovan­ ni Battista, procedimenti di concerto vicini a quelli che Arcan­ gelo Corelli stava elaborando a Roma negli stessi anni. Tra gli ultimi due decenni del Seicento e i primi due del se­ colo successivo, quando ormai il melodramma da Venezia e da Roma si era diffuso in tutta la penisola, videro la luce anche le piu di sessanta opere teatrali con cui il palermitano Alessan­ dro Scarlatti (Palermo 1660 - Napoli 1725) si conquistò ampia fama nell’Italia dell’epoca e in particolare a Roma, a Firenze, a Venezia, e infine a Napoli dove soggiornò a lungo e dove mori. Nei mutamenti stilistici della sua attività di composito­ re teatrale si riassume il lungo itinerario storico che portò l’o­ pera italiana dai modelli veneziani che predominavano nella seconda metà del Seicento fino alle soglie dell’opera napoleta­ na che inizia le sue grandi fortune nel terzo decennio del Set­ tecento. Gli strumenti formali usati da Scarlatti sono gli stessi che egli aveva ereditato dalla tradizione ^aria, il recitativo, gli in­ terventi orchestrali, il basso continuo}, ma nelle sue mani, cosi come in quelle di altri compositori coevi che contribuiscono a incrementare e a diffondere in tutta Italia questi mutamenti di stile e di gusto, l’antica tradizione veneziana si arricchisce di risorse nuove e acquista maggiore ampiezza e ricchezza di strutture. Cosi Varia si stabilizza nella forma detta col da capo che poi diverrà canonica nei decenni successivi. Il da capo do­ veva servire soprattutto ai cantanti castrati e agli altri divi del momento per mettere in luce le loro doti vocali con eleganti fioriture e virtuosismi acrobatici. Il recitativo si era ormai ri­ dotto verso la fine del Seicento al cosiddetto recitativo secco, accompagnato dal solo basso continuo e costruito su formule melodiche correnti che non avevano particolari ambizioni musicali ma dovevano più che altro rendere possibile una buona comprensione dei dialoghi. Scarlatti, tuttavia, usa an­ che spesso sostenere le voci con gli altri strumenti d’orche­ stra, quando la drammaticità della situazione lo richiede: si tratta di ciò che normalmente viene detto recitativo accom-

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pugnato. Ma un più ricco uso di strumenti Scarlatti adotta, via via che passano gli anni, anche nell’accompagnamento delle arie: quelle sostenute solo dal continuo si fanno rare mentre si afferma come necessario il bisogno di una maggiore ricchezza timbrica. L’orchestra è ormai definitivamente basata sugli strumenti ad arco, ma per effetti speciali vengono impiegati anche i fiati: soprattutto trombe, flauti, oboi, fagotti. L’uso dell’orchestra diventa particolarmente significativo nella sin­ fonia introduttiva che all’inizio della produzione scarlattiana non seguiva criteri formali prefissati, ma adottava varie pos­ sibilità di struttura. A partire dagli inizi del Settecento il mo­ dello prevalente diventa poi quello della cosiddetta ouverture all’italiana (cosi detta per distinguerla da quella alla francese praticata da Lully) che consiste in un allegro iniziale seguito da un adagio e da un brillante movimento di danza conclusivo. Dei moltissimi melodrammi composti da Scarlatti alcuni di quelli composti a Napoli verso la fine della vita sono rimasti particolarmente famosi: ad esempio l’opera comica II trionfo dell’onore (1718) e l’opera seria La Griselda (1721) su libretto di Apostolo Zeno, che è l’ultima da lui composta. Ma Scarlat­ ti fu fecondissimo anche in altri campi: basta ricordare che compose una trentina di Oratori e più di 600 Cantate oltre a Messe, mottetti e opere strumentali. Il modello di melodramma romano-veneziano trova diffu­ sione anche all’estero nella seconda metà del xvm secolo. In Inghilterra, la tradizione dell’antico masque e una lunga e po­ polare consuetudine col teatro di prosa con musiche di scena ritardano l’interesse per il melodramma all’italiana, che solo dopo Henry Purcell (Londra 1659 -1695) e il fenomeno isola­ to della sua Didone ed Enea, invaderà, nei primi anni del Set­ tecento, la scena londinese. Didone ed Enea, infatti, benché si presenti nel 1689 come un’opera in piena regola, cioè intera­ mente musicata, esemplare unico nella stessa produzione di Purcell, non deriva se non indirettamente da modelli rappre­ sentativi continentali, che là erano ancora quasi affatto scono­ sciuti, bensì proprio dal masque, con quanto anche di italiano vi era già eventualmente confluito (a partire dal madrigale), nonché dalla consuetudine autoctona delle musiche di scena. Il masque era un intrattenimento teatrale della corte inglese misto di azione recitata, di danza e pantomima, su soggetti per lo più mitologici o allegorici tali da fornire pretesto per sontuose messe in scena. Nell’ambito di tale gusto, dovendo riadattarlo a misura

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delle ridotte proporzioni di una rappresentazione scolastica commissionatagli da un collegio per giovinette di Chelsea, Purcell si trovò ad aver composto, per via dell’economia stes­ sa dei mezzi a disposizione, un dramma tutto cantato, agile e conciso, in cui ricorrono ancora, in omaggio alla tradizione lo­ cale, streghe ed altri elementi sovrannaturali. Le poche arie, tutte in forma di ciaccona, fra cui quella intensa di Didone nell’atto di uccidersi ( When I am laid in earth) con l’ultimo suo grido di dolore (Rememberme), pur limitate a pochi minuti, sono pienamente sufficienti a delineare caratteri e situazioni densi di pathos. Ai generi del masque vero e proprio e della musica di scena appartengono gli altri cinque lavori teatrali composti da Purcell dopo Didone ed Enea fra il 1690 e il 1695: opere con dialogo parlato rispondenti al gusto inglese per un intrattenimento costituito da una mescolanza di piu compo­ nenti, dalla musica alla recitazione, dalla danza alla scenogra­ fia, dalle macchine ai costumi. Spiccano fra questi ultimi lavo­ ri, per particolare dispiego di fantasia, il Re Arturo e La regina delle fate, dal Sogno di una notte di mezza estate di Shake­ speare. L’invenzione melodica che Purcell dispiega nei suoi pezzi teatrali ha dietro le spalle una lunga pratica, non solo europea (e italiana in particolare) ma anche autoctona. Una fecondis­ sima miniera di esempi di suggestivo canto solistico era infatti costituita dal genere inglese dei cosiddetti ayres i cui primi esempi risalgono agli ultimi anni del Cinquecento; canti raffi­ natissimi in cui modi di melodia popolare si coniugano con quelli derivati dal madrigale italiano che si era diffuso in In­ ghilterra in quel periodo. Gli esempi più memorabili di questo stile si trovano nel The First Booke ofSonges or Ayres offoure Partes with tableture for the Lute di John Dowland (1597) per voce e liuto, ma sull’onda della fortuna che questo genere mu­ sicale ebbe nella società dell’epoca, l’arte deipare divenne una vera e propria tradizione locale. Prontamente e felicemente, invece, si diffonde il melo­ dramma italiano in alcune zone di lingua tedesca e soprattutto in Austria, in una versione che mostra il congegno drammatur­ gico dell’opera pubblica veneziana della seconda metà del se­ colo rivestirsi di nuove preziosità per tornare ad adempiere funzioni di corte. Tale esso appare nel Pomo d'oro, opera com­ posta da Cesti per celebrare le nozze dell’imperatore Leopoldo I nel 1666, e rappresentata a Vienna con lo sfarzo di 67 sce­ ne disegnate da Ludovico Burnacini, potendo il compositore

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disporre, in luogo dei ridotti complessi d’archi veneziani, di un’ampia orchestra, munita anche di fiati. Al medesimo stile si attiene, incorporando altri strumenti nell’organico orche­ strale, Antonio Draghi (Rimini 1635 - Vienna 1700), compo­ sitore e librettista che, trasferitosi a Vienna a ventitré anni, vi rimane per il resto della vita, divenendo intendente delle mu­ siche teatrali dell’imperatore. A diffondere l’idioma operisti­ co veneziano in Germania provvede, dal canto suo, Agostino Steff ani (Castelfranco Veneto, Treviso 1654 - Francoforte sul Meno 1728), singolare figura di compositore, sacerdote e di­ plomatico, noto quale autore di una serie di duetti e terzetti vocali da camera, oltre che di diciotto opere per i teatri di cor­ te di Monaco, Hannover e Dusseldorf, fra cui il Tassilone (1709); in essa cura uno speciale rapporto fra parte vocale e parte orchestrale (dotata di archi e fiati), contraddistinto dal frequente assegnamento di temi autonomi agli strumenti. Una storia parallela a quella del melodramma possiede un altro genere musicale diffusissimo nei secoli xvn e xvm: la cantata. Dal punto di vista formale la cantata non è altro che una serie di recitativi e di arie legati da un soggetto comune. Come avviene nel teatro d’opera, anche nella cantata, soprat­ tutto negli esempi seicenteschi, la differenziazione fra recita­ tivo e aria tende talora ad emergere, ma talora anche a venire confusa: non mancano infatti in quel periodo recitativi che contengono al loro interno frammenti ariosi o arie spezzate da brevi intrusioni di recitativo. La cantata, e qui si parla soprat­ tutto della cantata italiana, assume cosi il carattere di una bre­ ve narrazione in musica di un episodio dotato di aspetti impli­ citamente drammatici: il lamento amoroso è uno dei topoi piu frequenti, ma spesso si tratta anche dell’autopresentazione di un personaggio storico antico e qualche volta anche recente (valga per tutti l’esempio della Maria Stuarda di Carissimi); né è raro il caso di cantate di soggetto spirituale, o anche di soggetto comico o ironico, o quello di cantate di carattere ce­ lebrativo, che spesso alludono al dedicatario indicandolo sot­ toforma di personaggio mitologico. La varietà dei temi della cantata corrisponde alla varietà delle occasioni per le quali una cantata veniva composta: celebrazioni, feste, intratteni­ menti legati assai spesso all’ambiente aristocratico ma non ne­ cessariamente ad esso. Come il madrigale del secolo preceden­ te, e forse con piu agio, visto l’impegno tecnico minore che veniva richiesto ai compositori e agli esecutori, la cantata era

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diffusa sia a livello professionistico sia a livello amatoriale e a seconda delle occasioni poteva impegnare semplicemente una voce con l’accompagnamento del basso continuo oppure due o più voci e anche strumenti che eseguivano ritornelli intro­ duttivi o parti di raccordo. Per quanto riguarda gli autori non è possibile qui nominarli perché praticamente tutti i più importanti compositori che si dedicarono alla musica vocale del melodramma e dell’orato­ rio, da Carissimi a Cesti e Cavalli, da Legrenzi a Stradella ad Alessandro Scarlatti, furono anche autori di cantate. Gli stes­ si autori sono parallelamente coinvolti anche nella storia delV oratorio. Dopo Roma V oratorio, segnatamente quello italiano, fu adottato dappertutto: a Venezia che ne divenne l’altro centro di maggiore produzione, ma da circa metà secolo anche a Bo­ logna (e successivamente a Modena) e poi a Firenze, a Napoli e un po’ dovunque. Le libere strutture dell’oratorio e delle cantate di Carissimi subirono, nella seconda metà del xvn se­ colo, uno sviluppo parallelo a quello che si compiva nell’ope­ ra. L’affinità di conformazione fece si che nel giro di alcuni decenni l’oratorio finisse per divenire una sorta di melodram­ ma senza scena, di soggetto spirituale, magari da eseguirsi du­ rante la Quaresima, a sostituzione dell’opera teatrale, le cui rappresentazioni, in tale periodo, si usava sospendere. I testi divennero sempre più simili a dei libretti d’opera, il personag­ gio del narratore o «storico» fu abolito e nella narrazione comparvero talvolta persino accenni a storie d’amore. Provvi­ dero ad essi i più importanti librettisti dell’epoca, coinvolgen­ dovi le loro teorie e le loro poetiche. Uno dei più noti autori di libretti d’oratorio fu Arcangelo Spagna che diede alle stam­ pe nel 1706 un discorso teorico dal significativo titolo: Oratorii overo Melodrammi sacri con un discorso dogmatico intorno alUistessa materia, in cui sosteneva appunto con notevole deci­ sione la convergenza dei due generi musicali per quanto ri­ guardava le rispettive strutture drammaturgiche. Non a caso nel secolo successivo Apostolo Zeno e Pietro Metastasio, che furono i più importanti autori di libretti d’opera, scrissero an­ che altrettanto significativi testi per oratorio. Abbastanza estraneo a questo processo di trasformazione degli assetti stilistici della musica italiana sei-settecentesca ri­ mase il settore delle composizioni liturgiche, in primo luogo della messa. Già abbiamo visto come Monteverdi coltivi an­ cora, accanto allo stile della musica sacra concertata, anche

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quello della tradizionale musica a cappella, addirittura arcai­ camente modellato su esempi cinquecenteschi e abbiamo no­ tato anche come a Roma la tradizione e il mito di Palestrina continuassero a godere di ampio credito accanto a quegli allar­ gamenti dello stile tradizionale che erano costituiti dalle fa­ stose messe a più cori. Questa vocazione conservatrice e di­ fensiva, dettata ovviamente da ragioni liturgiche più che da ragioni musicali, continuò a prevalere nel Seicento e nel Set­ tecento. Gli unici stili compositivi ammessi durante le funzio­ ni liturgiche furono dunque quello «concertato», il più aperto alle contaminazioni con il gusto profano e dunque anche il più severamente e prudentemente controllato, quello policorale, riservato alla solennità delle grandi occasioni celebrative, e so­ prattutto lo stile della polifonia tradizionale di origine cinquentesca, lo stile «severo», che era quello che meglio veniva giudicato rispondente alle necessità del rito cattolico. Lo stile severo, detto anche stile «osservato» o stile «alla Palestrina», venne assiduamente coltivato in questi secoli non solo per le necessità della Chiesa, ma anche perché veniva considerato particolarmente adatto alla formazione tecnica dei futuri compositori che appunto su quei fondamenti pote­ vano e dovevano esercitarsi per acquisire gli strumenti più im­ portanti della loro professione. I più famosi trattati scolastici dell’epoca, come ad esempio quello di Johann Joseph Fux, pubblicato nel 1722 o quello più tardo di padre Giovanni Bat­ tista Martini, pubblicato nel 1774-75, si basano sullo studio profondo della polifonia classica, che poi tramandano come metodo didattico a tutte le scuole di composizione dei secoli successivi. In questo senso si può veramente affermare che l’arte del contrappunto praticata dai grandi polifonisti fiam­ minghi del Quattro e del Cinquecento costituisca la vera e propria spina dorsale della musica europea, una sorta di moto­ re occulto che produce energie creative, capacità di pensiero, disinvoltura tecnica, perfino quando la sua presenza sembra remota o addirittura inesistente. Anche in questo caso è dif­ ficile citare i più importanti compositori di stile « osservato » perché molti autori, ben più famosi in altri campi, dall’epoca di Monteverdi e Cavalli fino a quella di Scarlatti, Pergolesi e oltre, composero messe o mottetti in occasioni in cui ciò veni­ va loro richiesto. Anche nel campo della musica oratoriale o liturgica cosi co­ me in quello del melodramma i modelli italiani ebbero buon credito in Europa, e soprattutto in paesi di tradizione catto­

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lica. Un importante centro di diffusione di questi modelli fu Vienna, la capitale dell’impero, che soprattutto a partire dal­ l’epoca dell’imperatore Ferdinando III (1637-57), che aveva sposato una duchessa dei Gonzaga e che fra l’altro era in rap­ porto con Monteverdi, diede ampia ospitalità ai musicisti ita­ liani. Già abbiamo avuto occasione di segnalare le fortune nordiche di alcuni operisti come Cesti o Draghi. Più general­ mente si potrebbe dire però che la presenza di musicisti italia­ ni alla corte imperiale e nelle altre corti del sud della Germa­ nia è viva e costante in tutta l’epoca che stiamo prendendo in considerazione e non solo nel settore dello spettacolo d’opera, ma anche in quello della musica sacra, dell’oratorio, della mu­ sica strumentale. Il cosiddetto «stile della Germania del sud» è largamente debitore delle tendenze musicali diffuse in Ita­ lia, anche se, com’è naturale, non si identifica con quelle. Il più famoso rappresentante di questo stile, che fu famoso an­ che in vita se non altro per il potere di cui godette presso la corte di Vienna, è il già citato Johann Joseph Fux (Hirtenfeld, Stiria orientale 1660 - Vienna 1741) che fu autore non solo di composizioni liturgiche di stile osservato, ma anche di orato­ ri, di opere e di molta musica strumentale, [mb e ps] 3. La musica strumentale italiana.

Come abbiamo già affermato nel capitolo precedente, le vi­ cende della musica strumentale italiana nel corso del Seicento sono caratterizzate da convenzioni in fase di sperimentazione e di assestamento. Solo negli ultimi decenni del secolo comin­ ciano a emergere comportamenti più stabili e forme più defi­ nite. La stessa terminologia si fa meno precaria e le definizio­ ni di sonata e di concerto gradualmente si diffondono. Alle origini cinquecentesche della sonata e alle sue trasfor­ mazioni nella prima metà del secolo successivo abbiamo già fatto cenno. Descriveremo ora sinteticamente le vicende del concerto (e anzitutto di quella particolare forma di concerto che veniva chiamata concerto grosso), seguendo inizialmente il filo dei diversi apporti che contribuirono a determinarne la genesi. Il più evidente tratto caratteristico che distingue il concer­ to grosso dagli altri generi musicali coevi è costituito dalla contrapposizione fra due gruppi di strumenti: un gruppo più nutrito (con carattere di orchestra) e un gruppo più ridotto

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(con carattere solistico). Questo principio di contrapposizione si stabilizza negli ultimi decenni del Seicento dopo un lungo periodo di sperimentazione che parte dallo stile concertante dei primi anni del secolo. Mentre allora però la libertà d’in­ ventare contrasti d’ogni sorta era totalmente lasciata all’estro del compositore, nelle forme piu mature del concerto l’uso delle contrapposizioni si assesta e si circoscrive. Anche le so­ norità strumentali diventano piu costanti: mentre nelle com­ posizioni del primo Seicento si usava contrapporre strumenti ad arco e a fiato, a pizzico e a tastiera, spesso mischiati alle voci in sontuosa varietà sonora, nelle convenzioni del concer­ to grosso prevalgono nettamente gli strumenti ad arco. Il predominio degli archi si era già stabilmente imposto an­ che in un altro genere strumentale: quello delle sinfonie che si usavano come brevi brani introduttivi allo spettacolo d’opera. Esse offrirono utili modelli alla fantasia inventiva degli autori di concerti, non solo per questa particolare compattezza foni­ ca, ma anche per la loro tendenza all’uso di una polifonia sem­ plificata e di un melodizzare accattivante. Ma il genere musicale di gran lunga piu importante per la genesi del concerto grosso fu quello della sonata, soprattutto in relazione ad alcuni aspetti formali tipici: la strutturazione in piu tempi, la diversa caratterizzazione degli adagi e degli al­ legri, l’utilizzazione di modelli di derivazione contrappuntisti­ ca e di danza. Al processo di formazione dello stile del concerto contri­ buiscono centri musicali diversi, per lo più situati nel Nord Italia. Da esperienze lombarde (condotte in Santa Maria Maggiore a Bergamo) proveniva Maurizio Cazzati (Guastalla 1616 - Mantova 1677) le cui sonate per tromba e archi ebbero un ruolo importante nella definizione delle caratteristiche del­ la scuola strumentale fiorita nella basilica di San Petronio in Bologna. L’uso della tromba, una novità che allora suscitò interesse nel mondo musicale, si diffuse anche in composizioni corali (messe o mottetti concertati) e nelle opere strumentali di mae­ stri bolognesi successivi come Giacomo Antonio Perti (Crevalcore, Bologna 1661 - Bologna 1756) e Giuseppe Torelli. Al di là dell’uso della tromba, la cappella bolognese viene di so­ lito indicata come uno dei centri più attivi nella stabilizzazio­ ne delle caratteristiche salienti del concerto barocco. Ma an­ che da Venezia arrivavano contributi importanti soprattutto dalle canzoni e sonate composte da alcuni dei maggiori espo-

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nenti del melodramma della seconda metà del secolo: in par­ ticolare da Cavalli e Legrenzi. Da questo insieme di stimoli e soprattutto dalla tendenza a mettere da parte i fantasiosi sperimentalismi barocchi e ad an­ dare alla ricerca di più solide sicurezze, emergono a poco a po­ co, negli ultimi vent’anni del secolo, nuove concezioni formali che, pur lasciando ai compositori i necessari margini d’inven­ zione, li incanalano in prescrizioni più rigide e stabili. Il personaggio che più di tutti acquisi, presso gli stessi con­ temporanei, fama di codificatore di forme e stili è senza dub­ bio Arcangelo Corelli (Fusignano, Ravenna 1653 - Roma 1713), i cui testi strumentali riassumono in maniera esempla­ re linee di tendenza comuni ai compositori dell’epoca. Tale esemplarità è dovuta a ragioni diverse: anzitutto egli, caso ab­ bastanza singolare in quegli anni, non si dedicò forse mai ai generi (allora larghissimamente predominanti) della musica vocale; in secondo luogo egli costruì il suo linguaggio sulla ba­ se di un’accorta sintesi di esperienze diverse; infine non è da sottovalutare, nel quadro della «rappresentatività» corelliana, la stretta dimestichezza del musicista con la nobiltà e l’intel­ lettualità romana: con la regina Cristina di Svezia, brillantis­ sima mecenate e promotrice di cenacoli culturali, con i cardi­ nali musicofili Benedetto Pamphilj e Pietro Ottoboni, con gli ambienti letterari della Accademia dell’Arcadia attraverso i quali si stava imponendo in quegli anni un gusto razionalisticheggiante per l’ordine e la compostezza stilistica che aveva le sue matrici in esempi di cultura francese. Corelli, attivissimo ai suoi tempi come compositore e vio­ linista, fu prudentissimo nel pubblicare le sue opere, che cor­ reggeva, limava e selezionava con attenzione prima di darle alle stampe. Il risultato di questa scrupolosa cura fu l’uscita di sei raccolte, ciascuna contenente 12 brani: le prime quattro (1681-1694) contengono sonate a 3 strumenti, «da chiesa» (Op. I e Op. Ili) e da camera (II e IV). L’Op. V contiene so­ nate per violino e basso continuo (sei da chiesa e sei da came­ ra) pubblicate nel 1700 e l’Op. VI (uscita postuma nel 1714, ma con composizioni appartenenti ai trent’anni precedenti) contiene 12 concerti grossi, anch’essi divisi fra camera e chie­ sa. Possiamo ritenere che i generi musicali praticati da Corelli rappresentino bene linee di tendenza diffuse, tenendo anche conto che il maestro di Fusignano non ha tanto i tratti del grande innovatore, quanto piuttosto quelli del professionista di alto livello molto attento al gusto medio della sua epoca.

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Il carattere di fondo dello stile corelliano è il risultato di un’ormai secolare elaborazione di tre grandi modelli di orga­ nizzazione sonora: quello della polifonia vocale, quello della musica per danza e quello del canto solistico. Il primo lascia in eredità alle sonate e ai concerti tardo secenteschi la pratica diffusa di un sapiente stile imitativo che emerge particolar­ mente in certe zone della composizione (ad esempio agli inizi dei tempi allegri, soprattutto nei generi da chiesa); il secondo caratterizza alcuni dei tempi delle sonate e dei concerti che esplicitamente si ispirano a movimenti di danza, ma piu in ge­ nerale costituisce una sorta di patina di fondo capace di con­ ferire alla composizione la sua vivacità e la sua piacevolezza d’intrattenimento mondano; il terzo le attribuisce invece spe­ cifici caratteri di espressività: la vocalità del melodramma, della cantata, dell’oratorio, concepiva infatti la melodia come uno strumento di potenziamento delle emozioni implicite nel­ la parola, secondo i principi della «teoria degli affetti». Anche la musica strumentale (in particolar modo gli adagi, ma non solo quelli) era impregnata di moduli melodici di derivazione vocale: progressioni, sincopi, dissonanze, pause, ampi salti, drammatizzavano il linguaggio conferendogli spesso una sorta di implicita gestualità. La forma del concerto e della sonata degli ultimi decenni del Seicento è un meccanismo composito che nella sua armonica fusione di espressività, austerità e pia­ cevolezza sembra sintetizzare simbolicamente i valori e le ideologie del mondo aristocratico a cui si rivolgeva. Un tratto particolarmente caratteristico dello stile di sona­ ta e di concerto è costituito dalla semplice e razionalizzata di­ stinzione dei piani tonali, organizzati per lo più sul bilancia­ mento fra la tonalità d’impianto, su cui sono costruiti gli epi­ sodi iniziali e finali del movimento, e la tonalità della domi­ nante, che compare di solito verso la metà del brano. Nelle composizioni in minore l’alternanza avviene più spesso fra la tonalità minore e la sua relativa maggiore. Altre tonalità se­ condarie possono essere toccate, ma i pilastri fondamentali, all’epoca di Corelli, sono ormai sempre chiaramente fissati. All’interno di questo semplice itinerario tonale si inserisco­ no i vari episodi, ciascuno delimitato da una cadenza. Il gioco dei temi gode di una certa fluidità e libertà: ad esempio, negli allegri la proposta melodica iniziale viene subito ripresa con­ trappuntisticamente dalle varie voci; da questa idea di parten­ za, o da certi suoi tratti, scaturiscono altre idee secondarie che anch’esse vengono riprese ed elaborate e costituiscono mate­

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riale per gli episodi che via via si susseguono nel brano. E que­ sta la tecnica del cosiddetto gioco motivico che caratterizza gran parte della produzione strumentale dell’epoca. Dalla base di strutturazioni ormai salde e ben maturate co­ me quelle che ci offrono le opere di Corelli e di taluni suoi contemporanei, si diramarono ben presto altre convenzioni formali, alcune delle quali godettero anche in seguito di par­ ticolare fortuna. Una variante significativa dello schema del concerto grosso è costituita da una forma di concerto strutturalmente molto simile, ma senza la suddivisione dell’orchestra in due gruppi. Si tratta di esempi (talora definiti col termine - moderno - di concerti orchestrali) anch’essi nati in area bolognese. Se ne hanno esempi nell’ Opera V (Sinfonie a j e Concerti a 4) di Giu­ seppe Torelli (Verona 1658 - Bologna 1709), datata 1692. Qualche anno dopo (1698) i nuovi concerti orchestrali com­ posti da Torelli contengono anche brevi interludi per violino solo. Nei primissimi anni del secolo compaiono i primi con­ certi per violino e orchestra, nell’ Opera Vili dello stesso To­ relli, oltre che in raccolte coeve come l’Opera II (Sinfonie e concerti a % 1700) di Tommaso Albinoni, che, proprio alle so­ glie del secolo, inizia la stagione fortunatissima dei concerti violinistici veneziani. Quando Albinoni pubblicava la sua raccolta, Antonio Vi­ valdi (Venezia 1678 - Vienna 1742) non aveva ancora iniziato la sua carriera di violinista e compositore famoso. Solo nel 1704 fu assunto come maestro di violino all’Ospedale della Pietà. Era questo un orfanotrofio femminile in cui le ragazze più dotate venivano istruite alla musica. Istituzione ormai il­ lustre, l’Ospedale della Pietà, già dal secolo precedente aveva acquisito grande fama per l’eccellenza delle sue esecuzioni che attiravano settimanalmente un folto pubblico, non solo loca­ le. Per molta parte della sua vita Vivaldi prestò la sua opera in questo istituto e ciò spiega l’enorme numero di concerti com­ posti: più di 400, di cui circa la metà per violino e gli altri per moltissimi altri strumenti (o gruppi di strumenti) ad arco e a fiato. Naturalmente compose anche altri tipi di musica, per esempio sonate, composizioni sacre e anche molti melodram­ mi la cui riscoperta e valorizzazione è un fenomeno recente negli studi musicologici, ma la sua fama è rimasta a lungo lega­ ta ai concerti. Rispetto ai modelli che si erano venuti formando nei de­ cenni precedenti, i concerti di Vivaldi presentano rilevanti

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aspetti di novità: la classica limpidezza delle composizioni corelliane sembra acquistare nelle sue mani un calore nuovo, un andamento più disinvolto, una geniale semplicità di struttura che ne facilita la percezione senza detrimento dell’interesse qualitativo. Di queste novità ci si accorse immediatamente in Europa, tant’è vero che la prima raccolta dei concerti vivaldiani (L'estro armonico, op. Ili) contenente composizioni da­ tabili al primo decennio del secolo, fu pubblicata ad Amster­ dam nel 1711 dall’editore Roger. L’aspetto che più differenzia lo stile vivaldiano da quello del concerto che lo precede è legato soprattutto alla spregiudi­ cata franchezza con cui il maestro veneziano maneggia gli ele­ menti di base del linguaggio strumentale: timbro, ritmo, strutture elementari della melodia. Accenti, colpi d’arco, note ribattute e tremoli, effetti di densità o di rarefazione sonora, uso di una gamma di sfumature dinamiche assai più ricca di quella tradizionale, sono alcune delle novità del «suono» vi­ valdiano. Altrettanta inventiva Vivaldi dimostra nelle carat­ teristiche ritmiche e melodiche: non solo egli valica ampia­ mente i limiti della «velocità» media del concerto di epoca corelliana utilizzando, quando serve, tempi più veloci o più lenti di quelli in uso, ma immette nel concerto quei caratteri di im­ mediata piacevolezza melodica, di varietà, di fantasia, a cui la grande tradizione melodrammatica locale aveva abituato l’o­ recchio dei veneziani. Cosi la sua musica può diventare capa­ ce di quelle sfumature affettive e descrittive che erano di casa nella scena melodrammatica, ma non ancora nella più austera sede del concerto: lo dimostrano ad esempio le famose Quat­ tro Stagioni (appartenenti alla raccolta pubblicata, sempre ad Amsterdam, intorno al 1725 con il titolo II cimento dell'ar­ monia e dell'invenzione) o anche altri concerti « a program­ ma» come La notte, La tempesta di mare, La caccia, Il gabel­ lino, ecc. Tali innovazioni sonore vengono inserite in uno schema formale ulteriormente semplificato rispetto a quello del con­ certo seicentesco, ma ben funzionale e limpidamente conge­ gnato. Anzitutto il concerto assume definitivamente la strut­ tura in 3 tempi (già caratteristica della sinfonia d’opera): alle­ gro, adagio, allegro. Il primo dei tre tempi (che possiamo pren­ dere come esempio dei criteri di razionalizzazione formale usati da Vivaldi) consta di solito dell’alternanza fra un ritor­ nello affidato all’orchestra, e episodi cantabili o virtuosistici affidati al solista.

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Le esposizioni del ritornello servono a stabilire con molta chiarezza i pilastri tonali della composizione: la prima e l’ulti­ ma presentano il ritornello nella tonalità d’impianto, le altre due alla dominante e alla tonalità relativa. Assai più imprevedibili sono gli interventi del solista che ne devono mettere in evidenza la bravura e conservano per quasto maggiore libertà e mobilità. Uno schema complessivo di questo tipo, ovviamente non rigido, ma ricco di possibili infinite varianti, era funzionale non solo a un’immediata pre­ sa sull’ascoltatore, ma anche alla rapidità con cui Vivaldi lavorava. In ogni caso la fortuna che i suoi concerti ebbe­ ro in Europa è un sintomo sicuro del fatto che essi venivano incontro ai nuovi e più mondani gusti del pubblico settecen­ tesco. Prima di concludere questo panorama della musica stru­ mentale italiana fra Sei e Settecento non si può fare a meno di accennare alla produzione per strumenti da tasto (clavicemba­ lo e organo). Le acquisizioni più significative in questo campo si collocano oltre i limiti estremi del periodo cronologico che stiamo considerando: sono quelle di Frescobaldi (che muore nel 1643) e di Domenico Scarlatti (che muore nel 1757). Tut­ tavia fra Frescobaldi e Scarlatti la produzione di musica per tastiera ha una sua continuità e annovera anche nomi illustri: ad esempio quelli di Bernardo Pasquini e di Alessandro Scar­ latti, entrambi contemporanei di Corelli e come lui attivi in Roma nell’ambiente dei cardinali Pamphilj e Ottoboni, della regina Cristina di Svezia e dell’Accademia dell’Arcadia. La fama di Bernardo Pasquini (Massa di Valdinievole, Pi­ stoia 1673 - Roma 1710) come clavicembalista superò i confi­ ni dello stato Pontificio e dell’Italia, tanto che egli fu chiama­ to a suonare anche alla corte di Francia di fronte a Luigi XIV. Le sue opere per clavicembalo comprendono toccate, variazio­ ni, suites ài danze, ricercavi (spesso organizzati come vere e proprie fughe monotematiche) e anche Sonate per 2 clavicem­ bali, concepite come trascrizioni da concerti grossi, [mb]

4. La musica francese nell'epoca dell'assolutismo.

Nel Cinquecento le grandi case che detenevano il potere si sentivano appartenenti a un mondo unitario e in un certo sen­ so soprannazionale. Niente di più naturale che anche le tradi­

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zioni culturali e i gusti artistici circolassero con grande rapidi­ tà e frequenza, salvo il fatto di doversi poi adattare alle tradi­ zioni locali che in ogni ambiente erano profondamente radi­ cate. Solo a partire dal secolo successivo cominciano gradual­ mente ad emergere i primi sintomi di quella che, in epoche più vicine alla nostra, sarebbe diventata una vera e propria co­ scienza nazionale. Nel caso della Francia questo processo di formazione di uno stile musicale «nazionale» si svolge nel corso del Seicento parallelamente al processo politico di estensione e di confer­ ma del potere assoluto della monarchia. Durante il regno di Luigi XIII (1610-43) e di Luigi XIV (1643-1715) la monar­ chia tese ad accentrare nelle sue mani le leve fondamentali del potere politico e culturale a spese delle altre grandi famiglie della nobiltà e ciò ebbe ripercussioni importanti sulla forma­ zione del gusto musicale nazionale (che rimase fortemente le­ gato ai rituali di corte). Alle origini del «gusto» francese stanno due tradizioni am­ piamente coltivate nel corso del Cinquecento: quella delle musiche per danza e quella della chanson polifonica vocale. Nella seconda metà del secolo xvi si diffonde presso la nobiltà francese la moda di grandiose feste di palazzo, basate in buo­ na parte sulla danza. Il ballet de court che ne deriva è un’azio­ ne basata su una trama per lo più mitologica, con poesie, mu­ siche, scenografie, episodi mimici e danze collettive. Ma al di là di queste grandi e dispendiosissime occasioni d’intratteni­ mento, la danza entrava costantemente nelle abitudini mon­ dane della nobiltà e poteva essere eseguita da strumenti o gruppi strumentali diversi con una particolare predilezione per il liuto. D’altro canto la tradizione della chanson polifonica tende a poco a poco a confluire in un nuovo genere, più semplice, in cui l’intreccio polifonico veniva affidato a uno strumento (so­ prattutto al liuto) e il superius{o dessus) della canzone veniva eseguito da una voce solista. E il genere del cosiddetto aìrde coarti cui primi esempi risalgono al decennio 1570-80 e la cui fortuna continua per tutta l’epoca di Luigi XIII. Prima che anche in Francia si diffondesse l’uso italiano del basso continuo gli airs de court e le suites di danze liutistiche battono comuni strade di semplificazione strutturale. Della tradizione liutistica francese i più eminenti rappresentanti

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sono i membri della dinastia dei Gaultier, in particolare Ennemond, detto Gaultier le Vieux (Lione 1575 - Villette 1651) e Denis (Marsiglia cà 1603 - Parigi 1672) detto Gaultier le Jeune, autori di fortunate raccolte di danze, ormai sempre meno legate a reali funzioni coreografiche e sempre più intese come brani per l’ascolto. Le danze dei Gaultier sono disposte in sequenze non standardizzate comprendenti alcuni modelli costanti {allemande, courante, sarabande} e altri più saltuari, spesso corredati da repliche (o doubles) della stessa danza e in­ trodotti da preludi generalmente scritti a note non misurate. Nella Rbétorique des Dieux, una raccolta di Denis Gaultier, cosi come in numerose altre composizioni analoghe, viene ri­ preso, amplificato e puntualizzato l’uso (già presente nei virginalisti inglesi) di titoli caratteristici che nel caso dei Gaultier illustrano «affetti» spesso attraverso ritratti di personaggi {La coquette vertueuse, L "homicide,,, ) Ma le caratteristiche più nuove di questa musica liutistica (poi ereditata dai claviccmbalisti dell’epoca successiva) sono forse da individuare sia nell’uso assai ampio di particolari for­ me di abbellimento, sia nel sempre più spregiudicato adattarsi degli schemi del pensiero polifonico alle effettive possibilità strumentali: passi virtuosistici, salti di registro, sonorità ac­ cordali, arpeggi, effetti timbrici, «suggestioni» polifoniche al posto di polifonie reali, esecuzioni in style brisé (o stile spezza­ to), con melodia e basso sfalsati fra loro. Sia gli airs de court sia le danze per liuto rappresentano il la­ to più discreto della sensibilità musicale dell’epoca, grazie al fatto che la limitata sonorità dello strumento lo rendeva par­ ticolarmente adatto all’intimità domestica. Nelle occasioni delle grandi feste e cerimonie di corte occorrevano complessi più ricchi e sonori come fu ad esempio la famosa Bande des 24 violons du Roy, un gruppo di archi (acuti e gravi) che ai suoi tempi fece epoca in tutta Europa, non solo per la qualità delle sue esecuzioni, ma per l’inedita e sorprendente omogeneità timbrica che si sostituiva al gusto per la sontuosa ricchezza strumentale, tipica dell’orchestra barocca. Agli inizi del regno di Luigi XIV si colloca anche un altro avvenimento importante per la storia della musica francese: l’esecuzione dell’Oj/èo di Luigi Rossi (1647) favorito dalla presenza dell’onnipotente cardinale Mazzarino e accolto con l’interesse che era dovuto al fascino di uno spettacolo raro nella tradizione culturale francese, ma visto anche con sospet­ to dall’intellettualità parigina e dai grandi autori della trage­

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dia in prosa, come Pierre Corneille, che si sentivano minaccia­ ti nei loro interessi e nei favori del pubblico dall’intrusione di questo nuovo genere artistico. Questo è il quadro generale della situazione alla quale si affaccia in quegli anni un ragazzo fiorentino, Giovanni Battista Lulli (Firenze 1632 - Parigi 1687) che era stato portato in Francia come cameriere perso­ nale della principessa d’Orléans per conversare con lei in ita­ liano. Il giovane, intraprendente e spiritoso, riuscì ben presto a entrare nella corte di Luigi XIV con compiti di danzatore, mimo, violinista, giullare e infine come compositore della mu­ sica strumentale del re. Per quasi vent’anni (dal 1653 al 1672) il musicista (che nel frattempo si era naturalizzato francese modificando il suo nome in Jean-Baptiste Lully) si dedicò alla composizione di musiche di scena per balletti, mascherate, commedie, intermezzi, pastorali e creò, insieme a Molière, il genere, molto fortunato a corte, della comédie-ballet, uno spettacolo misto di scene in prosa e di interventi danzati, al quale egli stesso partecipava talvolta come attore. Verso la fine degli anni Sessanta il librettista Perrin e il musicista Cambert si dedicarono all’ardito tentativo di creare un’opera in musica ispirata ai modelli italiani ma cantata in lingua francese. L’esperimento ebbe successo sul piano del­ l’accoglienza, ma falli su quello economico per la sconsiderata gestione di Perrin. Lully fu tempestivo nell’approfittare del­ l’infortunio e ne assunse in prima persona l’eredità. Dal re, che ormai lo stimava e lo appoggiava incondizionatamente, ottenne non solo la licenza di proseguire l’impresa, ma un «privilegio» che proibiva per legge a chiunque altro di cantare o far cantare musiche senza il suo permesso. Forte di questo monopolio Lully dedicò gli ultimi sedici anni della sua vita al nuovo genere, da lui perfezionato, della Tragédie-lirique. Con regolari scadenze annuali compose appunto sedici tragedies che costituirono per un secolo il modello classico del teatro musicale francese, l’unico che abbia saputo assumere in Euro­ pa un’identità diversa da quella dell’opera italiana. Organizzato secondo schemi rigidamente rituali, il modello operistico lulliano (dagli esempi iniziali di Alceste, 1674 e Thèsée, agli ultimi capolavori di Armide e Acis et Galathée, entrambi del 1686) utilizza una quantità di elementi dramma­ turgici e musicali derivati dalla tradizione francese: V Ouvertu­ re, gli schemi delle arie, le numerose inserzioni danzate, il gu­ sto per la ricchezza strumentale, per la scenografia solenne e per la compostezza gestuale. Ma al tempo stesso ispirandosi

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alla tradizione del recitativo italiano, inventa con uno straor­ dinario colpo di genio un declamato che stilizza i tratti carat­ teristici della dizione francese in uso sulle scene della trage­ dia. Il fascino inedito del recitativo lulliano colpi la fantasia dei contemporanei al punto da decretare l’immediato succes­ so delle sue opere e da porre le basi dell’enorme influenza che esse esercitarono in Francia anche dopo la morte del compo­ sitore. Caso unico nelle vicende musicali dell’epoca, l'e opere di Lully rimasero in repertorio per tutto il secolo successivo. Agli ultimi anni della sua vita appartiene pure una copiosa produzione di musica sacra da utilizzare nelle celebrazioni di corte: sono soprattutto i fastosi «grandi mottetti» che veniva­ no cantati nelle occasioni più solenni e i «piccoli mottetti», meno impegnativi sul piano fonico, ma non meno ricchi di grazia e di fantasia* Nel genere sacro il musicista troverà degni successori in Marc-Antoine Charpentier, André Campra, Michel-Richard Delalande. Ma i due più illustri continuatori della tradizione francese del Seicento vengono di solito indicati in Francois Couperin (Parigi 1668 - 1733) e in Jean-Philippe Rameau (Bi­ gione 1683 - Parigi 1764). Accenneremo alla loro opera tenen­ do presente che il mondo della musica e della cultura francese del Settecento è quanto mai ricco di prospettive, di novità, di stimoli, di personaggi, di polemiche che non si riassumono certo nell’opera di questi due soli musicisti, quantunque signi­ ficativa essa possa essere. Un primo aspetto importante riguarda l’eredità della musi­ ca per liuto e il suo innesto nella nuova produzione per clavi­ cembalo. Fino all’epoca di Luigi XIII il liuto godette del favo­ re indiscusso della nobiltà francese che si dilettava non solo di ascoltarlo, ma di usarlo essa stessa come suo strumento di di­ letto domestico. Ma dalla seconda metà del Seicento il liuto venne a poco a poco soppiantato dal clavicembalo in questa funzione di strumento familiare. Si trattava di due strumenti molto diversi nella forma e nella tecnica d’esecuzione, ma di suono non dissimile. Il repertorio delle Suites di danze, cosi amato dai liutisti del xvn secolo, poteva bene adattarsi alle possibilità del nuovo strumento e trarre nuovo alimento dalle sue più ampie possibilità foniche. Couperin (detto le Grand per distinguerlo dallo zio omonimo e dagli altri numerosi mu­ sicisti della sua famiglia) scrisse per il clavicembalo ventisette Suites (da lui denominate Ordres) riunite in quattro libri che

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pubblicò dal 1713 al 1730. Ciascun Ordre comprendeva più brani ciascuno dotato d’un titolo che poteva sia riferirsi al ti­ po di danza (courant, sarabande) rondeau, gigue, gavotte) sia, più spesso, al carattere della composizione (La majestueuse, La voluptueuse, L'insinuante, La superbe) o a certe sue intenzioni descrittive (Les baccanales, Les ondes, Le rossignol en amour, Les petits moulins à vent, Les tambourins). In questi brani, spesso ricchi d"imprestiti dalla chanson po­ polare, che costituisce una sorte di sottofondo segreto di tutta la musica francese dell’epoca, Couperin porta a livelli di estre­ ma raffinatezza sia l’arte del ritratto psicologico e della descri­ zione per cenni e per allusioni, già tipica della musica liutistica precedente, sia l’elaborazióne sottile di una quantità di abbel­ limenti alcuni dei quali inventati e proposti dall’autore stesso. Allo stesso tipo di stile e di gusto appartiene anche la mag­ gior parte dei brani per clavicembalo di Rameau alcuni dei quali tuttavia, forse ancor più che in Couperin, contribuisco­ no a emancipare l’immaginazione musicale dagli schemi del pensiero contrappuntistico e della melodia accompagnata: in­ croci fra le due mani, arpeggi, scarti di registro, contrapposi­ zioni armoniche e ritmiche anticipano talvolta sorprendente­ mente alcuni aspetti della tecnica strumentale pianistica del secolo successivo. La fama di Rameau fu tuttavia dovuta soprattutto a due di­ versi aspetti della sua produzione: alla sua opera di teorico e alle sue composizioni teatrali. Dal 1722 (quando uscf il già ci­ tato Traité de l'harmonie) fino agli ultimi anni della sua vita Rameau accompagnò sempre la sua attività compositiva con una assidua riflessione sul linguaggio musicale. Le sue teorie oggi ci sono familiari perché vengono insegnate nei consueti trattati d’armonia, ma nei primi decenni del Settecento esse non erano previste né condivise dal mondo musicale. Da qui gli entusiasmi e le polemiche che accompagnarono le sue pub­ blicazioni. All’epoca di queste polemiche Rameau era già quaranten­ ne, e non era affatto noto come musicista. Altri dieci anni do­ vranno passare perché la sua notorietà esploda con la presen­ tazione pubblica della prima delle sue tragédies-lyriques-. Hip­ polyte et Arities rappresentata e pubblicata a Parigi nel 1733. Negli ultimi trent’anni della sua lunga vita Rameau compose più di trenta lavori scenici toccando tutti i generi e sottogene­ ri della tradizione francese: dalla tragédie-lirique (Castor et Poilux, 1737 eZoroastre, 1749) aW opéra-ba Ilei (Les Indes galantes,

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1735) alla comédie-ballet, al ballet, alla pastorale, tutti chiara­ mente iscritti nella tradizione lulliana e post lulliana. Ma il ri­ spetto di queste classiche convenzioni non esime Fautore da un assiduo lavoro di rielaborazione: cosi l’armonia risulta più mossa e più densa, il recitativo tende a divenire più ampio e cantabile, le arie più complesse, la strumentazione più ricca. Al punto che le sue proposte stilistiche fecero scoppiare una delle tante polemiche che animarono il mondo musicale fran­ cese del Settecento: quella fra i «ramisti» e i «lullisti », questi ultimi fautori della tesi che Rameau avrebbe sostituito alla musica «semplice» e «naturale» della tradizione uno stile troppo complicato e innaturale, [mb]

5. La musica in Germania dall*epoca di Heinrich Schùtz al­ l'epoca di Johann Sebastian Bach. La situazione dei paesi di lingua tedesca tra i primi decenni del secolo xvn e quelli del secolo successivo è caratterizzato da grande incertezza sul piano della stabilità politica. Nel pe­ riodo in cui la Francia trovava una forte unità nazionale sotto la guida della monarchia, la Germania era divisa in più di tre­ cento fra stati e città ciascuno parzialmente o tendenzialmen­ te indipendente dall’altro. A questa separazione politica cor­ rispondeva una profonda separazione culturale: le guerre di religione che si erano svolte nel Cinquecento avevano traccia­ to un solco tra i paesi del Nord, in prevalenza protestanti, e le zone meridionali, in prevalenza cattoliche. Sia la mancanza di un forte potere centrale sia la presenza di questi antagonismi religiosi favorirono lo scatenarsi di ap­ petiti di dominio e lo scoppio di guerre grandi e piccole alcune delle quali (come quell’insieme di conflitti che va sotto il no­ me di Guerra dei Trent’anni: 1618-48) ebbero le conseguenze disastrose di una calamità naturale. Le principali occasioni di lavoro per il musicista, in un pae­ se dove (ad eccezione di alcuni centri come Vienna) l’opera italiana non aveva ancora messo radici solide, avevano sede nelle corti più ricche e più capaci di mecenatismo e in alcune grandi chiese cittadine dove operavano di norma il Kantor (il maestro di coro) e l’organista. Nella tradizione liturgica luterana la musica, e soprattutto l’esecuzione vocale e organistica dei corali, aveva un’impor­ tanza primaria. Nelle chiese cattoliche la musica era altrettanto

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presente, ma aveva funzioni liturgiche e seguiva tradizioni sti­ listiche diverse, se non altro perché non era legata al canto dei corali. La musica tedesca di quest'epoca al contrario di quella francese, che era fortemente unitaria, si sviluppa dunque sulla base di modelli stilistici diversi: cosi si parla ad esempio di uno stile nord-tedesco legato alla conservazione del gusto tra­ dizionale per la complessità polifonica e all’elaborazione del corale luterano e di uno stile delle zone meridionali molto più sensibile alle innovazioni importate dall’Italia. Forse proprio a causa di queste carenze sul piano dell’au­ toidentificazione nazionale i musicisti tedeschi erano assai più aperti di tutti gli altri musicisti europei alle differenze di scrit­ tura, e assai più capaci di assimilare le novità che venivano dall’estero. Non a caso negli ultimi decenni del Seicento essi teorizzarono l’esistenza di tre stili: quello italiano (che in que­ gli anni aveva portato all’affermazione internazionale i nuovi generi della sonata e del concerto), quello francese (basato sui movimenti di danza, sul gusto per le musiche a programma, sulla raffinatezza delle ornamentazioni) e quello tedesco (che si fondava sulla solidità della tecnica contrappuntistica e ar­ monica). Alla diffusione dello stile italiano contribuirono fin dagli inizi del secolo sia alcuni eminenti compositori tedeschi che vennero numerosi a studiare in Italia (da Schiitz che fre­ quentò Giovanni Gabrieli e Monteverdi, a Froberger che fu allievo di Frescobaldi, a Muffat che fu alla scuola di Corelli) sia i musicisti italiani che furono molto apprezzati (e venivano ben pagati) in alcune corti tedesche. Nella seconda metà del Seicento la fama delle musiche che si eseguivano a Versailles spinse molti principi tedeschi a mandare i loro musicisti nella capitale francese a studiare presso Lully. Lo stesso Muffat fu a Parigi dopo essere stato a Roma. La Germania, nel periodo di cui stiamo parlando, è dunque caratterizzata da una situazione estremamente composita e ricca di stimoli. In questa problematicità complessa, moltepli­ cità di esperienze, capacità di sintesi e di approfondimenti tecnici affonda le sue radici il pensiero compositivo dello stes­ so Bach. fig. 15 Esattamente cent’anni prima di Bach, nel 1585, nasceva, in un villaggio della Turingia, Heinrich Schùtz (Kóstritz, Turingia 1585 - Dresda 1672) Henricus Sagittarius, com’egli amava talvolta firmarsi, volgendo in latino il suo nome. Il suo talento fu scoperto quasi per caso da un principe me­ cenate, Maurizio d’Assia, che lo prese alla sua corte quand’e­

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gli aveva 12 anni, gli forni un’istruzione eccellente non solo in campo musicale, ma anche in quello delle lettere e delle leggi, e infine gli finanziò un lungo soggiorno a Venezia dov’egli si perfezionò sotto la guida di Giovanni Gabrieli. Almeno tre componenti stilistiche caratterizzano le sue composizioni: la fedeltà alla tradizione della polifonia cinque­ centesca, il gusto per la declamazione espressiva all’italiana, che egli fu uno dei primi a introdurre in Germania, e l’atten­ zione per le innumerevoli forme di elaborazione polifonica del corale luterano che rappresenta il lato più devotamente tede­ sco della sua personalità. Ciascuna di queste componenti emer­ ge particolarmente in certi generi di composizione, ma la qua­ lità più singolare di Schùtz è costituita dalla sua straordinaria abilità nel fonderle in una superba, unitaria sintesi stilistica. Le sue più importanti raccolte di mottetti polifonici sono le Cantiones sacrae del 1623 (che contengono anche alcune delle composizioni giovanili) e la Geistliche Chonnusik del 1648, pubblicata quando Schùtz era ormai alla soglia della vec­ chiaia. L’una e l’altra raccolta ostentano una sorta di esibita continuità con lo stile mottettistico antico, ma al tempo stes­ so, in entrambe le raccolte e soprattutto nella seconda egli in­ troduce passi arditamente dissonanti, contrasti di tessitura vocale, plastiche declamazioni verbali, cadenze tonali, ossia aspetti di stile moderno che, senza prevaricare sull’austerità delle intenzioni espressive, le arricchiscono tuttavia di una sottile vena di pathos. Ma il settore in cui la fantasia di Schùtz ha campo di di­ spiegarsi nei suoi modi più originali è quello dello stile concer­ tato. Nel corso della sua vita egli pubblicò numerose raccolte di questo tipo sotto il titolo di Kleine Geistliche Konzerte (1636 e 1639) e di Symphoniae Sacrae (tre volumi dal 1629 al 1650). Alcuni di questi «concerti» (su testo prevalentemente in lingua tedesca) sono basati su varie e immaginose maniere di trattamento del corale mentre in molte altre composizioni Schùtz si dedica al concertato «libero», senza obblighi di ci­ tazione delle melodie luterane. A un genere vagamente analogo a quello dell’oratorio ita­ liano, anche se legato a tradizioni diverse e più antiche, Schùtz si dedicò in altre occasioni, scrivendo Historiae che narrano episodi diversi della vita di Cristo: la Resurrezione, il Natale, le Sette parole sulla croce e la Passione (in 3 versioni, secondo san Matteo, san Luca, san Giovanni). Le opere di Schùtz sono esempi di straordinaria fantasia

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inventiva, ma gli orientamenti stilistici che in esse si manife­ stano riflettono tendenze ampiamente diffuse nella Germania dell’epoca. Altrettanto aggiornati sullo stile «moderno» all’italiana era­ no ad esempio altri due grandi musicisti tedeschi coetanei di Schiitz, cioè Hermann Schein (Griinhain, Annaberg, Sassonia 1586 - Lipsia 1630) e Samuel Scheidt (Halle, Saale 1587 1654) che ebbero modo di conoscere e praticare non solo la policoralità veneziana, ma anche le novità della declamazione su basso continuo. La comparsa dello stile concertato non abolisce tuttavia la continuità della pratica polifonica, neppure di quella di origini antiche risalenti all’epoca fiamminga, che utilizzava un cantus firmus come base della composizione: anzi il cantus firmus, nella fattispecie luterana del corale, continuò a essere rigoglio­ samente praticato per tutto il secolo. Ma insieme a questi ca­ ratteri, che sono specifici della tradizione tedesca, si deve te­ ner conto di altri fenomeni che si diffondono gradualmente in tutta Europa a partire dagli ultimi tre decenni del secolo, e che segnano il passaggio da una concezione formale libera, ar­ dita, sperimentale, a un periodo di assestamento delle forme, di razionalizzazione del pensiero musicale e delle convenzioni di stile. Cosi ad esempio il Concerto spirituale, le cui forme tendeva­ no ad adattarsi molto flessibilmente alle ragioni drammatiche del testo, confluisce, negli ultimi anni del secolo verso una forma piu rigida e piu stabile: quella della cosiddetta cantata da chiesa. Il passaggio dal concerto spirituale alla cantata av­ venne insensibilmente e per graduali passaggi. Cosi le nume­ rose composizioni vocali che Dietrich Buxtehude (Oldesloe, Holstein 1637 - Lubecca 1707) scrisse per soddisfare le esi­ genze del servizio liturgico presso la chiesa di Santa Maria a Lubecca conservano fino in fondo le capacità di raffigurazio­ ne drammatica delle vicende sacre che i musicisti tedeschi avevano imparato a usare sulla base dei grandi esempi di Schiitz e degli altri musicisti dell’epoca precedente, ma li in­ quadrano in architetture tendenzialmente più ampie e meno frammentarie, in forme più solide e meno aperte all’imprevedibilità del testo da illustrare. Per indicare queste composizio­ ni di Buxtehude si usa talvolta il più arcaico termine di concer­ to o concertato, talvolta il più moderno termine di cantata. Quest’ultimo cominciò gradualmente a entrare in uso a parti­ re dal 1706 quando il poeta Erdmann Neumeister pubblicò

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una assai fortunata raccolta di poesie sacre col titolo di Geistliche Cantateti (Cantate spirituali). In questi componimenti poetici egli non adottava solo una terminologia italianeggiante, ma anche la forma tipica della'cantata e della scena d’ope­ ra italiana, composta di recitativi e di arie. A un analogo processo di trasformazione sono soggette le musiche strumentali e in particolare le composizioni per orga­ no che in Germania costituiscono il genere di gran lunga più diffuso e praticato. Forme a struttura contrappuntistica, com­ posizioni in stile di toccata ed elaborazioni di melodìe corali dominano largamente il campo a partire dal terzo decennio del Seicento (cioè dall’epoca di Sweelinck e di Scheidt). Il ri­ cercare e la canzone (entrambi derivati dalle cinquecentesche trascrizioni di modelli vocali) sono forme contrappuntistiche ancora in uso in tutto il corso del secolo con una accentuata tendenza a confluire gradualmente in quello schema formale che poi verrà codificato sotto il nome di/z/gtf. Da una forma che inizialmente ammette l’esistenza di più temi che si alternano, o anche di un tema solo che però può venire modificato nel corso delle sue successive comparse, si arriva gradualmente a fissare uno schema fondamentalmente monotematico qual è quello che prevarrà nelle fughe settecen­ tesche. Inoltre, da una struttura fluidamente modale si passe­ rà a poco a poco a un’organizzazione basata sul rapporto tonica-dominante che regola sia le entrate delle varie voci nel­ l’esposizione tematica, sia la successione delle modulazioni nei diversi episodi della composizione. A varie generazioni di organisti tedeschi è affidato lo svi­ luppo di questo processo di trasformazione formale. Qui ci li­ miteremo a ricordare due dei nomi più significativi: quello di Johann Jakob Froberger (Stoccarda 1616 - Héricourt, Montbéliard 1667) che, dopo essere stato allievo di Frescobaldi, ebbe numerose esperienze europee comprendenti anche con­ tatti con l’ambiente dei claviccmbalisti parigini, e quello del già citato Dietrich Buxtehude, organista a Lubecca devota­ mente ammirato dal giovane Bach. Oltre alle fughe, Buxtehu­ de compose preludi e toccate di visionaria esuberanza. Ma il genere più tipico della tradizione organistica tedesca è sicura­ mente quello del corale. La melodia tradizionale, che tutti co­ noscevano e sapevano cantare durante la celebrazione liturgi­ ca, veniva trattata in diversi modi: utilizzandone frammenti come temi di fuga, presentando uno dopo l’altro i vari versetti sotto specie di cantus firmus accompagnato da disegni con­

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trappuntistici delle altre voci, eseguendo la melodia con orna­ mentazioni che ne alteravano il profilo mantenendone però la riconoscibilità, scegliendone frammenti caratteristici e ripre­ sentandoli piu volte in forma di ostinato o in forma di varia­ zione, oppure costruendo grandi fantasie che manipolavano liberamente la melodia nota. Numerose di queste procedure adottò fra gli altri lo stesso Buxtehude e ne lasciò esempi me­ morabili. La musica per clavicembalo non si differenziò inizialmente in maniera sostanziale da quella per organo. Alcuni tipi di composizione sono chiaramente destinati alla esecuzione li­ turgica, ma altri, ad esempio alcune composizioni di Froberger come canzoni variate, o ricercati variati o toccate, conser­ vano ancora caratteri di ambivalenza. Non ambivalenti sono invece le sue musiche di danza, chiaramente ispirate alle suites francesi delle quali egli aveva avuto diretta esperienza nei suoi viaggi a Parigi. Qualche anno più tardi le composizioni per clavicembalo {suites o sonate) trovarono altri tipi di arricchi­ mento in trascrizioni di composizioni orchestrali di recente diffusione, come la sonata a 3 di origine italiana o V ouverture alla francese. Esempi di questo genere si trovano nelle compo­ sizioni clavicembalistiche di Johann Kuhnau (Geising, Sasso­ nia 1660 - Lipsia 1722) la cui opera più singolare e più famosa è tuttavia costituita dalle cosiddette Sonate bibliche, o Biblische Historien pubblicate nel 1700 in cui egli «descrive» mu­ sicalmente episodi dell’antico testamento facendoli precedere da una «spiegazione» sul senso e il contenuto della sua musica a programma. La struttura formale comprende fughe, toccate, danze, elaborazioni di corali, ma le intenzioni descrittive deri­ vano da consuetudini francesi, in parte mediate da Froberger. Anche nella musica per strumenti ad arco la Germania fece propri nel corso del secolo generi nuovi provenienti dall’Italia e dalla Francia. Ad esempio George Muffat (Megève, Sasso­ nia 1653 - Passau 1704) che studiò dapprima con Lully e poi con Corelli, compose sonate a tre e concerti di una certa rino­ manza. Heinrich Biber (Wortenberg, Boemia 1664 - Salisbur­ go 1704) fu invece il più importante fra i violinisti tedeschi. Di lui si ricordano, fra l’altro, impegnative sonate per violino solo, in cui egli sperimentò la tecnica delle corde multiple che si prestava al gioco polifonico che era tipico della tradizione tedesca. Per quanto riguarda la musica vocale profana, si può dire che i primi esempi di gusto italiano tardo-madrigalistico im­

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portati in Germania nei primi anni del secolo da Hassler, da Schiitz, da Schein, non abbiano prodotto frutti autoctoni ori­ ginali. Piuttosto ebbe miglior fortuna in tutto il corso del se­ colo e in ogni zona della Germania il genere più domestico e meno aristocratico del Lied con basso continuo, perlomeno fi­ no a quando il gusto per la vocalità operistica all’italiana non cominciò a prevalere agli inizi del Settecento insieme con la diffusione dello spettacolo d’opera. Ma i generi piu tipica­ mente italiani dell’opera, dell’oratorio e della cantata, nono­ stante si fossero affermati in certe corti soprattutto meridio­ nali e particolarmente in quella viennese, ebbero più ampia e diffusa conoscenza solo nel secolo successivo. L’unico luogo in cui si creò ed ebbe fortuna una tradizione operistica locale fu la città di Amburgo dove si inaugurò nel 1678 un teatro pubblico con spettacoli in lingua tedesca che inizialmente erano anche di argomento sacro, ispirato a storie bibliche. Le esperienze compositive e drammaturgiche dell’o­ pera amburghese si arricchirono nei decenni successivi di ap­ porti stilistici provenienti dal melodramma italiano e dalla tra­ gèdie lirique francese, ma non rinunciarono all’uso della lin­ gua tedesca nel testo letterario. Reinhard Keiser (Teuchern, Weissenfels 1674 - Amburgo 1739), che fu direttore del tea­ tro per alcuni anni e che compose per quelle scene decine di opere, godette ai suoi tempi di una popolarità straordinaria. Lo stesso Bach studiò con attenzione lo stile dei suoi recitati­ vi. Ma al teatro d’Amburgo collaborarono nei primi decenni del Settecento altri compositori di prim’ordine come Tele­ mann e Hàndel che iniziò appunto in quel teatro la sua fortu­ nata carriera di operista. [mb]

6. Johann Sebastian Bach.

I generi, le forme, le tendenze stilistiche in atto nei paesi di lingua tedesca nella seconda metà del Seicento costituiscono la base e la premessa della produzione musicale di Bach. L’or­ ganismo cosi vasto, complesso, coerente, della sua produzione è frutto di una continua interazione fra la cultura musicale della sua epoca e la sua prodigiosa fantasia inventiva. Analo­ gamente, la curiosità insaziabile che Bach dimostrò per ogni tipo di tradizione musicale tedesca e non tedesca, recente e passata è certamente frutto delle sue doti intellettuali, ma è anche una eredità tipica della società di quegli anni: la teoria

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dei «tre stili», e la vocazione all’assimilazione che caratterizza in maniera specifica quello tedesco era diffusa e operante già prima di Bach, ed egli la assume in proprio e la applica con granitica sistematicità. Ma le capacità di sintesi e di assimilazione che il musicista dimostrò in tutta la sua carriera e che non vennero mai meno neppure negli anni della maturità, quando la sua maestria compositiva non aveva certo bisogno di stimoli e suggerimen­ ti, avevano radici significative nella sua stessa concezione di musica. E anche in questo caso si trattava di una sua conce­ zione personale che aveva antecedenti nell’ambiente cultura­ le. Da un lato infatti la musica, nella tradizione luterana, è do­ no di Dio e strumento specifico della lode di Dio, e non solo la musica scritta appositamente per il culto, bensì anche la musica del mondo, quella non dedicata alle funzioni liturgi­ che. In secondo luogo la musica non è una pratica mutevole, obbediente alle trasformazioni imposte dai gusti di ogni epo­ ca, ma è una dottrina, un’Zrs nel senso antico del termine, cioè un sapere immutabile del quale il musico ha il compito d’impadronirsi. Su questi due pilastri della concezione di mu­ sica che l’epoca gli tramandava, Bach costruì il fondamento della sua esistenza professionale e piu ancora della sua stessa esistenza di uomo. Della sapienza compositiva facevano parte a buon diritto non solo gli strumenti tecnici (regole come quelle armonia 0 del contrappunto, principi formali come quelli della fuga o del concerto e via dicendo) ma anche gli strumenti espressivi codificati dalla «teoria degli affetti». Copiose tracce di ricorsi al valore simbolico di particolari procedimenti musicali sono diffuse in tutte le opere di Bach, particolarmente in quelle che mettono in musica un testo verbale, ma anche in altre, come certi corali per organo, in cui il testo verbale è solo implicito. Inseguendo dunque il supremo ideale di una musica conce­ pita come scienza Bach si allontanava gradualmente dalle ten­ denze che nella prima metà del secolo xvin si venivano dif­ fondendo in tutta Europa. L’eleganza, lo spirito critico, il «buon gusto», la moda, il piacere del bel canto, che a poco a poco vennero accettati come elementi di novità e modernità nella società colta dell’epoca, erano valori assai lontani dalle austere premesse morali di cui la sua musica si sostanziava. Ciò spiega l’isolamento in cui egli cominciò a poco a poco a trovarsi, la fama relativamente scarsa di cui godette in vita, i giudizi che il suo ex allievo Johann Adolf Scheibe scriveva

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su di lui negli anni Trenta accusandolo di ampollosità, di arti­ ficiosità, di innaturalezza, e infine l’oblio in cui le sue opere caddero per più di cinquant’anni. Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685 - Lipsia 1750) nac­ que da una famiglia che diede al suo paese una quantità incre­ dibile di musicisti: se ne contano circa 90 dalla seconda metà del Cinquecento fino alla prima metà del nostro secolo. Bach stesso ebbe due mogli e 20 figli sei dei quali intrapresero la carriera musicale; almeno due di essi (Cari Philipp Emmannuel e Johann Christian) sono da annoverare fra i più eminen­ ti musicisti del Settecento e comunque godettero in vita di una fama molto superiore a quella del padre. Fino al 1708, dopo un periodo di apprendistato che compì sotto la guida del fratello maggiore, ebbe incarichi di organi­ sta ad Arnstadt e a Miihlhausen (dove sposò la cugina Maria Barbara morta poi nel 1720) e arricchì il suo patrimonio di co­ noscenze musicali sia copiando libri di musica italiani, france­ si e tedeschi, sia compiendo viaggi di studio, uno dei quali a Lubecca dove ebbe modo di ascoltare il vecchio organista Buxtehude poco prima della sua morte. A questo periodo ri­ salgono fughe, preludi, toccate, corali per organo e composizio­ ni per clavicembalo, fra cui il Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo, brano descrittivo alla Kuhnau. Fra le pri­ me cantate per il servizio liturgico, la più complessa è il cosid­ detto Actus tragicus, composto per un’occasione funebre. All’età di 23 anni era considerato abbastanza maturo per essere assunto come organista (e successivamente «maestro di concerti» cioè direttore dell’orchestra) in una corte di rilievo come quella di Weimar retta dal principe Johann Ernst, gran conoscitore delle novità della musica europea e compositore egli stesso. Pare che proprio nei primi anni di quel soggiorno Bach sia venuto a contatto con i concerti di Vivaldi che allora cominciavano a diffondersi per l’Europa e che egli trascrisse per organo insieme a concerti di altri autori. Tracce dello stu­ dio di compositori italiani (Corelli, Legrenzi, Albinoni) sono offerte dalle fughe composte su loro temi e comunque dall’as­ sunzione di certi aspetti dello stile di concerto (contrappo­ sizioni di sonorità, alternanze di tempi, essenzialità dei te­ mi) nelle opere (anche organistiche) di questo periodo. La no­ mina a direttore dell’orchestra di corte (Konzertmeister) che avvenne nel 1714 implicò anche l’obbligo di comporre re­ golarmente cantate per il servizio liturgico. E le cantate composte a Weimar, al contrario di quelle precedenti, adot­

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tano nei testi e nelle forme musicali una tipologia vicina a quella proposta da Neumeister nei primi anni del secolo e im­ plicano perciò l’impiego di arie (spesso col da capo) e di recita­ tivi, oltre che di grandiosi interventi polifonici del coro e di corali elaborati o semplici. Da Weimar Bach si allontanò nel 1717 (con dimissioni tempestose che gli costarono anche qualche giorno di prigio­ ne) per assumere l’incarico di maestro di cappella presso la corte di Kòthen dove lavorò per sei anni soprattutto nel cam­ po della musica strumentale e cameristica, e dove nel 1721 sposò la sua seconda moglie Anna Magdalena che era cantan­ te presso quella corte. Qui nacque buona parte delle sue composizioni da camera: fra l’altro le Sonate per flauto e per violino con cembalo obbliga­ to, le Suites per violoncello solo, le Sonate per violino solo. Ma il gruppo più noto di composizioni orchestrali di quel periodo è costituito dai 6 Concerti brandeburghesi cosi definiti nel seco­ lo scorso dal musicologo Philip Spitta, perché Bach li dedicò nel 1721 «a sua altezza reale Christian Ludwig margravio del Brandeburgo». In realtà il titolo usato da Bach è semplicemente Six concerts avec plusieurs instruments. In essi dunque Bach usa la parola concerto e usa il principio del concerto, dif­ fuso dai musicisti italiani, ma tratta questo principio con la consueta irresistibile inventiva, in una sorta di illustrazione panoramica delle diverse prassi barocche del concertare, che vengono sintetizzate in forme nuove e personali. Cosi in alcu­ ni casi il gruppo dei soli è arricchito da una timbrica fastosa­ mente policroma basata su un uso degli strumenti a fiato di gusto e consuetudine tedesca; in altri casi dal concertino emerge uno strumento solo a cui sono affidati ampi interventi virtuosistici che rendono dubbia la distinzione fra concerto grosso e concerto solistico; altrove l’orchestra è divisa in tre o più gruppi contrapposti che richiamano l’antica prassi polico­ rale. In ogni caso le combinazioni e gli intrecci strumentali, cosi come il continuo lavoro polifonico, sono assai più ricchi che non nella tradizione del concerto all’italiana. Al periodo di Kòthen appartengono anche testi che Bach iniziò a comporre per l’istruzione dei suoi figli e della nuova moglie. Nasce cosf una serie di opere che continuerà anche negli anni seguenti, pensate in forma di esempio didattico, e capaci di manifestare al massimo grado quell’idea «oggettiva» del sistema delle norme musicali che era tipica del pensiero bachiano. Per il figlio maggiore Wilhelm Friedemann compo­

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se un Clavier-Buchlein (si potrebbe tradurre Libretto di musi­ che per strumento a tastiera) iniziato nel 1720 che conteneva una cinquantina di pezzi suoi e altri di altri autori. Fra questi si trovano 15 praeambula (che corrispondono a quelle che ver­ ranno poi raccolte col nome di Invenzioni a 2 voci), 15 fanta­ sie (che corrispondono alle Sinfonie a 3 voci) e 11 Preludia (che corrispondono ad altrettanti preludi del Clavicembalo ben temperato). Lo scopo non era solo quello di raccogliere pezzi per lo stu­ dio del clavicembalo, ma anche di fornire modelli ed esercizi per la composizione. Un analogo Clavier Bùchlein per Anna Magdalena è datato 1722 e comprende fra l’altro le prime cin­ que delle sei suites che oggi vengono comunemente definite francesi (un secondo «libretto» per Anna Magdalena fu inizia­ to a Lipsia nel 1725 e contiene in ordine sparso piccoli brani di musica per uso domestico, in parte composti dai figli di Bach). Ma la raccolta di gran lunga piu ambiziosa e importante è quella intitolata Wohltemperierte Clavier (1722), che è conce­ pita come una dimostrazione scientifica della possibilità di comporre in 24 diverse tonalità una volta che la tastiera venga accordata col sistema temperato, basato sulla divisione dell’ot­ tava in 12 semitoni uguali. La validità del sistema era stata teoricamente studiata dal fisico Werkmeister nella seconda metà del Seicento ed era stata poi sperimentata da alcuni musicisti tedeschi dei primi vent’anni del Settecento con brani composti in tonalità inusi­ tate che si dimostrarono perfettamente accettabili per l’orec­ chio. Ma la raccolta di Bach è la prima che possieda un carat­ tere compiutamente sistematico. La «scientificità» del suo as­ sunto non si riferisce tuttavia solo all’accordatura del clavi­ cembalo, bensì anche alla grande varietà di possibilità formali che l’opera intende esemplificare «per la gioventù musicale ansiosa di apprendere»: cosi i preludi presentano stilizzazioni di danze, ariosi, invenzioni polifoniche, brani in forma di concerto o di sonata bipartita, o in forma di studi per il movi­ mento continuo delle dita; e le fughe non solo presentano va­ rianti storiche (alcune conservano ad esempio caratteristiche dell’antico ricercare), non solo usano in forme diverse gli arti­ fici intellettuali del contrappunto, ma tendono a basarsi sopra caratteri o «affetti» particolari e a svincolarsi dunque da una idea puramente scolastica e astratta del genere della fuga. Dal 1723 fino alla morte Bach visse a Lipsia in qualità di

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Kantor della chiesa di San Tommaso. Presso la chiesa aveva sede da secoli la scuola di San Tommaso che istruiva i ragazzi poveri della città nelle discipline umanistiche è nella musica. Il Kantor che aveva primariamente compiti di insegnante, do­ veva rispondere al Rettore della scuola e al Consiglio comuna­ le della città da cui la scuola dipendeva oltre che al Concistoro delle autorità religiose della chiesa (e questo sistema di gerar­ chie creò a Bach non pochi guai). Inoltre al Thomaskantor spettava per tradizione la dignità di Director Musices, impe­ gnato a sorvegliare le attività musicali nelle principali chiese della città oltre che alle esecuzioni di musiche durante le cele­ brazioni civili. In pratica la maggior parte del tempo Bach la doveva dedicare all’istruzione dei ragazzi del coro e all’esecu­ zione delle cantate che erano di rito ogni domenica durante la celebrazione liturgica. Fra i suoi compiti era quello della scelta delle musiche, che in molti casi componeva egli stesso. Ciò spiega il gran numero di cantate che videro la luce nei primi anni del suo soggiorno a Lipsia. Un ciclo liturgico prevedeva l’esecuzione di una sessantina di cantate, tante quante erano le feste annuali. Bach ne scrisse cinque cicli completi ma a noi ne sono pervenute circa 200 (da BWV 1 a BWV 200 - più, o meno, alcune composizioni dub­ bie - dove BWV è la sigla che indica le opere di Bach secon­ do il catalogo pubblicato nel 1950 da W. Schmieder che è in­ dicato appunto come Bach-Werke-Verzeichnis, cioè catalogo delle opere di Bach). In molte occasioni tuttavia il composito­ re era costretto ad abbreviare i tempi di lavoro ricorrendo al­ l’antica tecnica della parodia^ che prevede la riutilizzazione di musiche già composte su testi diversi o concepite per destina­ zioni diverse (per esempio anche concerti strumentali). Ma neppure in questi casi viene meno a Bach il suo costante scru­ polo d’artista e la sua formidabile tecnica artigianale. Una cantata bachiana comprende in genere un brano ini­ ziale, quasi sempre un grandioso coro polifonico, la cui unità generale è offerta assai spesso dalla ripetitività costante degli spunti tematici dell’orchestra. Il testo del coro è di norma tratto dalla Bibbia. Arie, duetti e terzetti, alternati con passi in stile recitativo, sono invece composti su testi poetici liberi, anche se obbligatoriamente attinenti alla festa celebrata e al contenuto del sermone di cui la cantata doveva essere una sorta di amplificazione musicale. La chiusa era di solito affi­ data al canto di un corale a 4 voci, prevalentemente omofono, mentre i corali utilizzati all’interno della cantata erano rie-

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camente elaborati nelle varie forme che la tradizione luterana aveva sperimentato e messo in atto. In ogni caso Bach com­ menta musicalmente i testi verbali con un sottile e sempre at­ tento ricorso alle figure della teoria degli affetti. I tipi di cantata variano non solo in ragione della fantasia inventiva dell’autore, ma anche dei suoi rapporti con i «poe­ ti» che gli fornivano alcune parti del testo e della disponibilità e delle capacità degli strumentisti, dei solisti, del coro. Esisto­ no perciò cantate prevalentemente solistiche oppure prevalen­ temente corali basate ampiamente su testi in versi oppure al contrario sulla Bibbia e sui testi luterani (è il tipo cosiddetto della cantata - corale). Oppure abbiamo serie di cantate rife­ rite a un ampio frammento del ciclo liturgico, per esempio alle varie feste del Natale in cui l’evocazione degli avvenimenti sa­ cri si serve anche di episodi narrativi, descrittivi o a dialogo. In questi casi Bach definisce le sue cantate con il nome di Oratoriunr. si tratta dei tre cicli di cantate corrispondenti agli Oratori di Natale, dell’Ascensione e di Pasqua. Da tutt’altra tradizione derivano invece le Passioni. Agli inizi del Settecento la Passione aveva assunto in Germania forme particolari: quella della Passione in forma di cantata o di ciclo di cantate che Bach tuttavia non trattò (il suo Orato­ rio di Pasqua si riferisce all’episodio della resurrezione di Cri­ sto), quella della Passione-Oratorio nel senso deB'Oratorio al­ l'italiana) cioè su testo poetico originale diviso fra recitativi, cori e arie (ne abbiamo esempi di Handel e di Telemann, ma non di Bach) e infine quella della Passione che mette in musica direttamente il testo del vangelo interpolandolo con commen­ ti basati su corali luterani o su arie e cori con testo libero. A quest’ultima categoria appartengono le due passioni ri­ maste fra le 5 che pare che Bach abbia composto: quella Se­ condo san Matteo e quella Secondo san Giovanni. Di una terza passione, Secondo san Marco > possediamo il libretto ma non la musica. Le superstiti passioni bachiane rappresentano, nella loro monumentalità e nella loro intensa drammaticità, il cul­ mine dell’arte sacra di Bach, della sua potenza comunicativa; non è certo un caso che sia stato proprio il recupero mendelssohniano della Passione secondo san Matteo a dare un fonda­ mentale impulso alla Bach-Renaissance in epoca romantica. I recitativi secchi dell’evangelista che del testo riflettono ogni minima suggestione figurativa, le arie di intenso patetismo che fungono da commento spirituale, gli ariosi drammatici, i cori delle turbe che intervengono nella tragedia incomben­

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te, i corali che fungono da pilastri portanti dell’edificio, armo­ nizzati in sintonia con il momento drammatico, gli episodi co­ rali e orchestrali di respiro sinfonico, fanno delle passioni bachiane due grandiosi affreschi sonori di dimensioni michelan­ giolesche. Nella Passione secondo san Matteo, il carattere spet­ tacolare è ulteriormente accresciuto dagli effetti spaziali del suono derivati dall’impiego di due orchestre e di due cori e dal ricorso a strutture drammatico-musicali fortemente sugge­ stive (l’aureola sonora di archi che accompagna costantemen­ te gli interventi del basso che interpreta Cristo; il costante collegamento tra recitativo-arioso-aria): la spettacolarità è pe­ rò già intrinseca al testo liturgico e la potenza dell’immagine sonora comunica con l’immediatezza di un profondo coinvol­ gimento emotivo le verità della fede. Fra i riti sacri protestanti in uso a Lipsia c’era anche quello della Messa su testo latino, che era stata conservata, con adat­ tamenti, nella tradizione luterana. \10rdinarium della messa comprendeva di norma solo tre brani: il Kirie e il Gloria (che costituivano quella che veniva propriamente definita col ter­ mine di Missa) più una parte del Sanctus. Di solito nella chiesa di San Tommaso la messa veniva cantata all’unisono, come nella tradizione gregoriana: solo in occasioni particolarmente solenni si usava comporre ed eseguire messe polifoniche. Ma pare che le messe di Bach che ci sono pervenute, non siano state composte per le chiese di Lipsia. Bach tuttavia compose anche una messa cattolica, quella in si minore, che comprende anche le parti Ordinarium che non erano in uso nel rito luterano. Kyrie e Gloria nel 1733 vennero dedicati e spediti a Dresda a Federico Augusto II principe cattolico di Sassonia e poi re di Polonia, nella speranza di una assunzione presso quella corte, motivata dal desiderio di lasciare Lipsia dove Bach aveva dovuto sopportare «diverse offese senza colpa» come la dedica dichiara. L’assunzione non venne ma il lavoro attorno alla messa prosegui negli anni seguenti, anche se non è chiaro né quando né per quale occasione i vari brani siano stati composti. Al di là delle funzioni, spesso ingrate di Kantor, Bach ebbe tempo di coltivare a Lipsia altri interessi e di assumere altri impegni: parliamo soprattutto dèlia sua direzione del «Colle­ gium Musicum» della città e della sua attività didattica. Lip­ sia, nell’epoca bachiana, era una piccola città ricca tuttavia di attività commerciali e culturali; le une incrementate dalle fie­

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re che ospitavano ogni anno migliaia di operatori stranieri, le altre dall’università che aveva favorito la formazione di un ambiente culturale e letterario assai vivo, aperto alle idee mo­ derne e soprattutto a quelle provenienti dalla Francia. I salot­ ti, i giardini, i caffè (per i quali in quegli anni Lipsia era famo­ sa in tutta Europa) ospitarono spesso non solo brillanti con­ versazioni ma anche spettacoli musicali assai graditi alla bor­ ghesia cittadina. Gruppi musicali di formazione studentesca vi erano attivi già da molti decenni quando nel 1702 Georg Philipp Telemann, che era a Lipsia come studente di giuri­ sprudenza, li organizzò in un Collegium musicum i cui stru­ mentisti si esibivano stabilmente in caffè e locali pubblici e prestavano anche la loro opera nelle chiese cittadine. Altri maestri ne presero la direzione dal 1705 al 1729 quando l’as­ sunse Bach che la tenne poi abbastanza stabilmente fino ai primi anni Quaranta. Per le esecuzioni del Collegium Bach compose cantate profane da eseguirsi in occasione di feste e cerimonie, musiche da camera e musiche per orchestra, fra l’altro anche i 14 concerti per 1, 2, 3, 4 clavicembali, quasi tutti «parodie» da opere precedenti proprie o di altri autori, ma alcuni anche forse espressamente composti. L’ultimo grande ciclo delle composizioni pensate a scopo didattico (ossia concepite come esempi o modelli di struttura formale e di condotta stilistica) si apre con i primi due volumi della raccolta intitolata Klavier-Vbung («esercizio per stru­ mento a tastiera») usciti a stampa (caso rarissimo per la pro­ duzione bachiana) in un certo numero di esemplari da vende­ re durante la fiera di Lipsia rispettivamente nel 1731 e nel 1735. Il primo contiene 6 Suites o Partite (ossia raccolte di danze) e il secondo il Concerto italiano e l’Ouverture alla ma­ niera francese. Ma la raccolta più singolare è costituita dal III volume della stessa collezione (Drifter Theil der Klavieriibung, prima del 1739) che, incorniciati fra un preludio iniziale e una fuga finale, contiene una ventina di corali per organo che rap­ presentano una sorta di summa del sapere bachiano in fatto di elaborazione delle melodie luterane: alcuni sono concepiti in forma di corale-mottetto, altri di canone o di fuga, altri di cantus firmus, altri di trio. Tutti frutto della consueta straor­ dinaria fantasia inventiva dell’autore e del suo insuperabile ingegno di costruttore, che fra l’altro mette a dura prova l’a­ bilità esecutiva degli organisti. Il secondo volume del Clavicembalo ben temperato e le

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Variazioni Goldberg (che costituiscono il quarto volume della Klavierìibung, pubblicato nel 1741 o 42) completano il quadro della produzione matura di Bach. Negli ultimi cinque anni di vita il compositore, sempre meno coinvolto dai suoi impegni esterni, dedicò particolare attenzione a una raccolta suprema di brani esemplari, di grandi modelli di bravura compositiva: le Variazioni canoniche per organo sul corale Vom Himmel Hoch, V Offerta musicale e l’Arte della fuga rappresentano al­ trettanti esperimenti sulla possibilità di costruire grandiosi edifici sonori che poggiano su da cellule tematiche elementari. [mb]

7. La carriera intemazionale dì Georg Friedrich Hàndel. I due tratti salienti della carriera compositiva di Georg Friedrich Hàndel (Halle, Sassonia 1685 - Londra 1759) che la differenziano radicalmente nei suoi contenuti estrinseci ed in­ trinseci da quella del suo grande connazionale e contempora­ neo J. S. Bach, sono il suo internazionalismo e la spiccata pre­ dilezione del compositore per l’opera teatrale sopra ogni altro genere musicale. Due tratti complementari e interconnessi, che in Hàndel incisero profondamente non solo sulle sue scel­ te esistenziali e lavorative, ma anche su quelle creative e stili­ stiche, determinando una originalissima sintesi linguistica at­ tuata mediante l’assorbimento e la elaborazione dei modelli via via assunti. Dopo una prima giovinezza trascorsa nella città natale di Halle dove sotto la guida di Friedrich Wilhelm Zachow com­ pì il suo apprendistato musicale e dopo alcuni anni di perma­ nenza ad Amburgo dove, con YAlmira (1705), fece il suo esor­ dio operistico e quello di compositore di musica sacra con la Passione secondo san Giovanni su testo di Christian Postel, Hàndel, su invito del principe Ferdinando Medici, si trasferì in Italia dove si trattenne per piu di quattro anni, dall’autun­ no del 1706 alla primavera del 1710. Il viaggio in Italia fu un’esperienza determinante nella carriera musicale di Hàndel sia perché gli permise di venire a contatto diretto con i più im­ portanti esponenti della musica italiana dell’epoca e di assimi­ larne i tratti stilistici, sia perché cimentandosi con i principali generi musicali sacri e profani (oratori come quello della Re­ surrezione, salmi come il Dixit Dominus, cantate, opere teatra­ li come l’Agrippina), il compositore incideva in essi la firma

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della sua prepotente personalità creativa, rivelando a se stesso e ai suoi illustri committenti ed al suo pubblico, una grande capacità di infondere vigore drammatico a tutto ciò a cui si applicava. La teatralità del gesto italiano rappresentò per Hàndel un potentissimo stimolo creativo; gli anni italiani gli fornirono un bagaglio di esperienze e di memorie che egli si portò dietro tutta la vita nonostante le successive tappe della carriera lo vedessero fuori d’Italia: dapprima nuovamente in Germania ad Hannover, per un breve periodo, al servizio del principe elettore Giorgio Ludovico, e finalmente e definitiva­ mente a Londra dove, assunta la cittadinanza inglese, rimase fino alla fine dei suoi giorni. Se è quanto meno problematico cercare di comprendere le ragioni precise per cui Hàndel, al sommo del proprio successo con V Agrippina (replicata ben 27 volte a Venezia nel carnevale del 1710) abbia abbandonato l’Italia, è invece molto facile comprendere perché fosse particolarmente attratto dall’am­ biente londinese. All’inizio del Settecento, a Londra, si stava­ no decidendo le sorti del teatro d’opera. A differenza che in molti altri paesi d’Europa, la musica teatrale non aveva anco­ ra conosciuto qui il genere specifico del teatro d’opera all’ita­ liana, ma proprio in quel periodo intricate trame economiche e politiche intessute attorno ai due teatri londinesi del mo­ mento (il «Theatre Royal» a Drury Lane e il «Queen’s Thea­ tre» a Haymarket) stavano determinando il sopravvento di questo nuovo genere sul dramma inglese ispirato al masque e sugli sporadici e fallimentari esperimenti compiuti per creare un’alternativa operistica indigena al teatro d’opera italiano. Quando Hàndel, il 27 febbraio del 1711, esordi al «Queen’s Theatre» ad Haymarket con il Rinaldo riportando un clamo­ roso successo, consolidò ad un tempo la supremazia dell’opera seria italiana su qualsiasi altro genere di teatro musicale e pose le basi di quella propria personale di operista sulle scene lon­ dinesi che, fra alterne vicende piu o meno fortunate, durò un trentennio, fino al 1741 (Deidamia). In superficie le opere di Hàndel non si diversificano dagli standards dell’epoca; vale a dire, la loro articolazione interna è determinata come in quelli dalla concatenazione tra recita­ tivi ed arie con occasionali ed eccezionali deroghe determina­ te da circostanze interne ed esterne; fra queste ultime, i diver­ si tipi di cast di cui potè disporre nel corso delle varie imprese in cui egli fu impegnato: un conto era scrivere per un cast vo­ cale composto da cantanti di grido quali il grande castrato

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Francesco Bernardi (detto il Senesino) o i grandi soprani del momento come la Cuzzoni e la Bordoni (e ciò avvenne all’e­ poca della seconda impresa operistica patrocinata dal re e dal­ la nobiltà: la «Royal Academy of Music» iniziata nel 1720), un conto era invece scrivere per un cast in cui la presenza di una stella di prima grandezza della danza come Maria Sallé e la possibilità di disporre di un piccolo coro (come all’epoca della sua quarta impresa operistica al «Covent Garden» verso la metà del quarto decennio del secolo) lo stimolava a tener conto dell’esempio dell’opera francese in misura ben maggio­ re rispetto al passato. Fra le circostanze interne, determinante era certamente il carattere dei libretti; Hàndel preferiva ispi­ rarsi ad opere già collaudate e da lui conosciute direttamente o indirettamente in passato, e quindi affidarli ai suoi revisori letterari (Girolamo Rossi, Nicola Haym, Paolo Rolli in pri­ mis) anziché utilizzare testi nuovi ed ideati per l’occasione. L’eccellenza di Hàndel operista bisogna dunque coglierla in profondità: anzitutto nella sua capacità di vitalizzare dram­ maticamente e di variare continuamente una formula in sé statica come l’aria col da capo rendendola interprete di espressioni quanto mai intense e sfumate, tanto piu quando co­ municano emozioni dolenti e affetti patetici; ma anche nel grande talento drammaturgico, nella invenzione di stacchi im­ provvisi tra una scena e l’altra, e nell’utilizzazione di soluzioni fastose ed ardite - che non può essere compresa appieno se non si immagina lo spettacolo in tutte le sue componenti -; e infine quando l’occasione glielo consentiva, nelle deroghe alla tradizionale staticità di questo tipo d’opera e nella realizzazio­ ne di organismi drammatici piu dinamici e complessi, che an­ ticipano soluzioni proiettate nel futuro. Il grande amore di Hàndel per il melodramma lo portò per­ fino alla scelta ostinata di continuare a dedicarvicisi anche quando ormai la situazione politica e culturale che ne aveva favorito l’affermazione stava radicalmente mutando. Verso la fine del terzo decennio, il clamoroso successo della Beggar’s opera (1728) - una farsa di John Gay messa in musica da John Christopher Pepusch cucendo assieme e arrangiando canzoni popolari inglesi ed altre melodie prese a prestito - affermava le ragioni di un teatro musicale schiettamente inglese, a fronte di un prodotto d’importazione innestato forzosamente su un tessuto estraneo qual era l’opera seria italiana, oggetto di at­ tacchi satirici da parte degli intellettuali progressisti.

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Ma solamente nel 1741, come già si è detto, egli depose le armi nel teatro d’opera e da allora in poi non scrisse altro che oratori. Sebbene Hàndel si fosse dedicato alla composizione di un paio di oratori durante il suo periodo di permanenza in Italia, quando si riaccostò al genere in Inghilterra lo riplasmò integralmente in forme del tutto originali assegnando innan­ zitutto al coro una funzione determinante, protagonistica e gnomica: come nella tragedia greca, cui Hàndel idealmente si collega, il coro, oltre ad interpretare il ruolo collettivo delle masse, riflette il senso drammatico della vicenda con una grandissima varietà di esiti espressivi e di tecniche che vanno dalle maestose cattedrali sonore delle doppie e triple fughe al­ l’intensa drammaticità del recitativo corale, a descrizioni na­ turalistiche e simboliche di grande effetto - una vera e pro­ pria scenografia sonora - come nella descrizione delle piaghe d’Egitto neU’Israe/ in Egypt (1738) o nella caratterizzazione corale di tre popoli diversi nel Belshazzar (1744-45). Svincola­ to dalle convenzioni imposte dall’opera seria, Hàndel nei suoi oratori inglesi realizza un tipo di drammaturgia musicale mol­ to piu dinamica, valorizzando drammaticamente forme come il recitativo accompagnato, l’arioso, l’aria, in fogge meno sta­ tiche di quella col da capo. Il soggetto della maggior parte de­ gli oratori hàndeliani è tratto dall’antico testamento (Debo­ rah , 1733; Saul, 1740; Samson, 1742; Solomon, 1748 ejephta, 1751 per citare alcuni dei piu famosi) con sporadiche eccezio­ ni rappresentate dal più famoso tra essi, il Messiah, del 1741, in cui viene celebrata in tre grandiosi affreschi la missione ap­ punto messianica di Cristo e da alcuni oratori di soggetto mi­ tologico (Semele, 1743 e Hercules, 1744); ma dietro all’appa­ renza edificante di queste storie il pubblico dell’epoca non tardava a coglierne contenuti metaforici di natura ideologica e politica; primo fra tutti, l’esaltazione del popolo inglese e del potere monarchico sotto la metafora del popolo ebraico e della sua invincibilità derivata dalla protezione e dalla guida di un Dio giusto in quanto parziale. Le stesse polemiche, le censure e le limitazioni imposte dalle autorità ecclesiastiche di quel periodo, suscitate dalla natura ambigua degli oratori e dal timore che il sacro venisse profanato dal carattere implicita­ mente teatrale dei medesimi, sono una prova quanto mai pro­ bante della loro vera natura. Di composizioni sacre vere e proprie, Hàndel in Inghilterra ne compose un certo numero, i due Te Deum per la pace di Utrecht del 1713 e per la vittoria di Dettingen, nel 1743, gli

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Anthems per l’incoronazione del re Giorgio II e della regina Carolina e quelli composti per il duca di Chandos: lavori in cui in diversa misura e con diverso fasto sonoro l’aspetto ce­ lebrativo assume un rilievo particolare. Pure fastosissime sono le due famose suites concepite come apparato sonoro «en plain air» in occasione di un corteo reale sul Tamigi (la Watermusic, Musica sull’acqua, del 1715) e per i fuochi d’artificio in occasione della celebrazione della pace di Aix-la-Chapelle, nel 1749 [Fireworks Music). Anche nell’ambito piu propriamente concertistico Hàndel operò scelte molto personali, conferendo da un lato funzione solistica e concertante all’organo di cui era grande virtuoso in una serie di concerti per organo (diciotto pubblicati in tre rac­ colte) concepiti per lo piu come intermezzi strumentali degli oratori, e applicandosi dall’altro, con i dodici concerti pubbli­ cati nel 1740, che recano emblematicamente lo stesso numero d’opera (il 6) di quelli della raccolta di concerti di Corelli, al concerto grosso di impianto corelliano in un’epoca in cui or­ mai aveva preso il sopravvento il concerto solistico: ancora una volta la memoria dell’Italia fungeva da potente stimolo creativo, e ancora una volta Hàndel rivit alizza va un genere musicale con la propria genialità, parodiando oltreché musica propria, temi e spunti tratti da altri compositori quali Ales­ sandro Scarlatti e Muffat, operando in tal modo una sintesi di grande impegno e significato culturale oltreché di grande va­ rietà espressiva. [gv]

Capitolo settimo

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Cultura, musica e società nel Settecento.

Il secolo xvm è un’epoca di grandi trasformazioni sociali e culturali, è l’epoca in cui tutto il pensiero dei secoli precedenti e tutte le nuove forme di organizzazione economica, culturale e politica che ne erano derivate raggiungono un punto tale di sviluppo e di maturazione da non poter proseguire oltre senza creare crisi drammatiche. I nodi vengono al pettine, le con­ traddizioni non trovano più possibilità di compensazione e il conflitto fra l’aristocrazia, che basava il suo potere e il suo be­ nessere sul lavoro delle classi sociali inferiori, e l’avanguardia di queste classi, costituita soprattutto da una forte borghesia imprenditoriale, commerciale, intellettuale, scoppia verso la fine del secolo (1789) con una deflagrazione (la Rivoluzione francese) di proporzioni epiche e di portata storica. Gli anni della rivoluzione segnano il passaggio, nella società europea, dalle ultime sopravvivenze di tradizione feudale alle prime manifestazioni organiche del mondo moderno. Un processo storico di queste proporzioni non può certo riassumersi nel puro e semplice conflitto per l’acquisizione del potere politico. Questa è solo la manifestazione emergente e clamorosa di trasformazioni più complesse, profonde e capil­ lari che hanno creato condizioni favorevoli al suo esplodere. Condizioni anzitutto economiche, che si possono riassumere nello spostamento del baricentro produttivo dalle attività agricole, fortemente controllate dal potere nobiliare, a quelle commerciali, imprenditoriali, manifatturiere, industriali che avevano il loro cuore nei grandi centri urbani. Ma anche con­ dizioni meno legate a questióni di potere e di organizzazione sociale e più connesse con i modi di ragionare, di interpretare il mondo, di riflettere su se stessi. L’idea della dignità dell’uo­ mo ad esempio, ossia del rifiuto di interpretare le differenze di classe e di potere come differenze di diritto e di qualità umane, grande tema che circolava in Europa fin dall’epoca

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del Rinascimento, arriva ora a includere nel consorzio degli uomini anche i suoi rappresentanti piu esotici e lontani, spes­ so considerati ai confini del regno animale (i quali comunque, nonostante i progressi del pensiero filosofico, continuavano a venire deportati come schiavi): il mito del «buon selvaggio», dell’uomo primitivo che vive a contatto con la natura in una sorta di paradiso terrestre incontaminato, vergine e civilissi­ mo ebbe grande fortuna negli ambienti intellettuali di quell’e­ poca. I maggiori divulgatori delle trasformazioni di coscienza che il Settecento veniva maturando sotto la spinta di questi avve­ nimenti, furono i «philosophes» francesi, instancabili propa­ gandisti delle nuove idee, veementi polemisti, veri maestri di pensiero per tutta l’Europa. La «filosofia dei lumi», dei lumi della critica e della ragione, contro i pregiudizi, i fanatismi, i dogmatismi, le sopravvivenze di medioevo; ebbe in quei pen­ satori, da Voltaire, a D’Alembert, a Diderot, a Rousseau, il suo nerbo piu consistente. Il pensiero «illuministico» subisce comunque il fascino di due poli opposti attorno ai quali conti­ nuamente si muove e che costituiscono anche l’anima della sua vitalità e dialettica interna: da un lato l’esaltazione dei va­ lori basati sulle scoperte scientifiche, sulle invenzioni tecni­ che, sul progresso inteso come graduale espandersi delle facol­ tà razionali dell’uomo oltre che del suo dominio sulla natura; d’altro canto l’esaltazione dei valori dell’emotività individua­ le, la scoperta che l’uomo è tale anche in quanto possiede sen­ sibilità ed è capace di affetto e l’idea che queste doti fanno parte organica della sua dignità da preservare anche se si ma­ nifestano in persone umili. L’affermazione della razionalità come valore preminente e l’individuazione del valore del sentimento e delle emozioni, di ciò che non si riduce e non si spiega con le categorie della ragione, si ritrovano in modo esemplare nel mondo della mu­ sica e nei fitti e vivaci dibattiti fioriti a questo proposito nel­ l’Europa del Settecento. Tali elementi, infatti, sono presenti proprio all’interno dello stesso linguaggio musicale: tutti i teo­ rici e i critici dell’epoca distinguono due forze opposte nella musica: l’armonia e la melodia, la prima apportatrice di razio­ nalità, la seconda di emozioni e di sentimenti; la prima uni­ versale e sempre uguale, la seconda particolare, variabile, sog­ getta al gusto di ogni individuo e di ogni popolo. La medesima dicotomia si ritrova nei dibattiti riguardanti il melodramma e la musica strumentale. La poesia, la parola, la trama, l’azione

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scenica, presente nel melodramma rappresenta in qualche mo­ do la garanzia di un elemento chiaramente identificabile, spiegabile in termini di ragione, per la presenza di un signifi­ cato; l’elemento musicale invece rappresenta il trionfo dell’ir­ razionale, del puro ornamento, non giustificabile in termini razionali. La stessa musica strumentale, nonostante la sua crescente diffusione nel Settecento, non ha generalmente incontrato il favore teorico dei critici e dei filosofi che trovavano difficoltà a « spiegarla ». Questi giudizi o pregiudizi non impedirono in alcun modo alla musica strumentale e al melodramma di dif­ fondersi e di imporsi quasi con prepotenza in tutta l’Europa illuministica come il divertimento e lo spettacolo più amato e più popolare del Settecento. In fondo la musica, con la varietà e la dolcezza delle sue melodie, con la tenerezza delle emozioni che sapeva suscitare, rappresentava proprio quel «non so che», quelle «ragioni del cuore» che pur essendo difficili da spiegare, pur essendo ano­ male rispetto all’ordine razionale che reggeva il mondo, costi­ tuivano una parte organica e importante dell’universo umano e ideologico settecentesco. La centralità della Francia nella diffusione delle idee-guida del secolo, non va certo assolutizzata. Alla elaborazione della coscienza illuministica tutta l’intellettualità europea, solleci­ tata dall’ampia fortuna di cui godette questa nuova corrente letterario-filosofica, contribuì in misura più o meno rilevante, anche quella di paesi, come l’Italia o la Germania, in cui l’ef­ fettiva trasformazione economica politica e sociale si verifi­ cherà solo nel secolo successivo. Anzi proprio la Germania, intorno agli anni Settanta, assume un ruolo non secondario di sollecitazione e di stimolo quando da ambienti letterari e an­ che studenteschi nasce la violenta ribellione ideologica del movimento dello Sturm und Drang (tempesta e impeto), che accentua non solo i contenuti antitirannici del pensiero illumi­ nistico, ma anche i suoi aspetti irrazionalistici, che spesso si ammantano di umori cupi e di componenti misticheggianti. E anche da queste matrici che nascerà, qualche anno dopo, il movimento letterario romantico. E neppure è da assolutizzare la centralità della classe borghese nella diffusione delle idee­ guida dell’illuminismo. La stessa intellettualità nobiliare ne fu conquistata e convinta, tanto che non mancarono in quest’e­ poca principi «illuminati» che promossero nei loro Stati mo­ dernizzazioni e riforme ispirate alle idee nuove. L’esèmpio

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piu famoso in questo campo fu forse quello dell’imperatore d’Austria Giuseppe II (1741-1790), figlio di Maria Teresa, che Beethoven stesso considerò sempre come una sorta di modello delle piu alte virtu umane. Ma nelle abitudini dell’aristocrazia settecentesca non sem­ pre le nuove idee venivano accettate con tanta serietà e tanto impegno. In molti casi anzi esse assumevano il carattere di una spregiudicata moda salottiera, di un tocco eccentrico di eleganza intellettuale aggiunto a quell’insieme di manifesta­ zioni di «buon gusto», di comportamenti «galanti», di frivo­ lezze mondane che erano parte essenziale del costume delle classi dominanti. È come se la nobiltà di quest’epoca, ormai incapace di credere al proprio futuro storico e alla propria missione sociale, impotente a incarnare i propri ideali in im­ magini forti, in miti pregnanti come quelli che per lei avevano creato gli artisti del Rinascimento e dell’età barocca, incalzata da sollecitazioni culturali nuove che non le appartenevano, non riuscisse a trovare altra forma di autoidentificazione che in eleganze estreme, in squisitezze di spirito ancora capaci di sancire le distinzioni del rango, ma sempre più fine a se stesse e sempre più vuote di contenuti morali. La musica stessa, nella sua multiforme varietà e nella sua inquieta ansia di mutamenti riflette abbastanza fedelmente le tensioni, i contrasti, i paradossi di questo secolo, purché si tenga presente che in buona parte, anche se non nella sua to­ talità, essa è ancora legata agli ambienti aristocratici che la fi­ nanziano, e dunque alle loro abitudini di vita e alle loro ten­ denze culturali. Il genere musicale largamente dominante è certamente quello del melodramma e in particolare del melo­ dramma italiano d’opera seria o comica, che nel Settecento era anche un curioso fenomeno di costume oltre che un im­ portante fatto di cultura. Se non altro per le spese che richie­ deva e per le avventurose vicende umane ed economiche che vi si svolgevano. Una differenza si poteva riscontrare tra il teatro pubblico e quello privato o di corte: il primo era un’im­ presa economica e si reggeva interamente sulla vendita dei bi­ glietti e soprattutto sull’affitto dei palchi per l’intera stagione; il secondo invece era sovvenzionato da aristocratici e da prin­ cipi mecenati e il suo pubblico era molto più ristretto. A questa differenza nell’organizzazione dei due tipi di tea­ tro, corrispondevano anche delle differenze nello stile delle rappresentazioni e nello stesso tipo di repertorio. Il teatro pubblico, più legato a esigenze di mercato, doveva tenere

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dietro alla moda, adeguarsi con rapidità ai mutamenti di umo­ re e di gusto del pubblico, ma era al tempo stesso più pronto a sperimentare nuove proposte, che potevano costituire un ri­ schio economico ma anche una grande prospettiva di succes­ so. Il teatro di corte, a parte alcune eccezioni, era piu cauto nell’accettare novità e, dato il livello sociale del pubblico che lo frequentava, tendeva a portare in scena un repertorio più tradizionale. Il livello degli spettacoli, delle messe in scena, dei cantanti, delle orchestre era tuttavia decisamente superio­ re a quello medio dei teatri pubblici proprio perché non era stretto da problemi economici di gestione. In questi ultimi i costi erano molto spesso più alti degli in­ cassi per cui gli impresari s’ingegnavano come potevano per cercare di coprire i frequenti deficit; non si accontentavano di organizzare feste, balli, lotterie e altri giochi d’azzardo, ma cercavano d’indurre o di costringere gli stessi autori a collabo­ rare alla riduzione dei costi, a volte lesinando sulle loro paghe. Il peso finanziario maggiore era costituito, infatti, dai cantan­ ti che erano ormai diventati la maggior attrazione per il pub­ blico medio; perciò i direttori di teatro premevano su musici­ sti e librettisti affinché diminuissero il numero dei personag­ gi, che dopo il 1720-30 si fissò attorno ai sei-sette. La voce di soprano era la preferita e le parti da affidare a soprani erano perciò in genere più numerose che quelle di contralto o di tenore o di basso. Ciò favorì l’abitudine a far interpretare anche le parti maschili da soprani o contralti e so­ prattutto dai castrati, che divennero nel Settecento i predilet­ ti del pubblico. L’esistenza di bambini evirati prima della pubertà per sfruttare le loro particolari doti vocali e per conservarne il timbro dolce e acuto risale ancora al Cinquecento quando ve­ nivano usati in particolare nella Cappella papale. Tuttavia fu solo nel Settecento che il fenomeno dei castrati assunse un’importanza determinante nell’opera: essi divennero spesso grandi divi ammiratissimi dal pubblico, nonostante le nume­ rose voci che si levarono, in particolare nella seconda metà del secolo, contro questa barbara usanza. Alcuni di essi assursero a fama internazionale come Carlo Broschi detto Farinello, il più celebre; ma l’elenco anche solo dei più rinomati sarebbe assai lungo: Bernacchi, Carestini, Caffarelli, Gizziello, Gua­ dagni e molti altri si disputarono la celebrità puntando chi al più spericolato virtuosismo, chi al sentimentalismo e comun­

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que offrendo un contributo fondamentale alla creazione di quel particolare fenomeno che fu il belcantìsrno. L’indisciplina proverbiale del pubblico italiano che assiste­ va agli spettacoli, sia quello più popolare che prendeva posto generalmente in platea, sia quello più ricco che stava nei pal­ chi, spesso affittati per tutta la stagione, si spiegava in base al­ la struttura dell’opera e al tipo di fruizione da essa indotta. Anzitutto non si andava a teatro una volta sola per ogni spet­ tacolo ma si assisteva a moltissime repliche, per cui l’attenzio­ ne cadeva nei confronti dell’intreccio mentre si concentrava sulle arie in cui si esibivano i cantanti. Non c’è quindi da stu­ pirsi che ai lunghi, spesso sciatti recitativi - le parti in cui l’a­ zione doveva procedere attraverso dialoghi e avvenimenti ve­ ri e propri -, il pubblico fosse distratto, chiacchierasse, gio­ casse a carte, combinasse affari, consumando caffè e gelati e scambiandosi convenevoli. E non c’è neppure da stupirsi che molti letterati e uomini di cultura italiani costellino la storia del melodramma sette­ centesco di scritti polemici, di ipotesi di riforma, di libelli sa­ tirici. Il più famoso di questi scritti, e forse anche il più bril­ lante e il più spiritoso, è II teatro alla moda (1720) in cui il no­ biluomo veneziano Benedetto Marcello (che fu anche compo­ sitore di buon livello e autore di una Arianna che era una sorta di tentativo di riforma melodrammatica) mette in ridicolo la presunzione, l’ignoranza e la futilità di quel mondo. Resta co­ munque il fatto che, nonostante tutto questo, il melodramma italiano riuscì a incantare e a entusiasmare tutta Europa. La musica strumentale, più agile e meno costosa, non ebbe, perlomeno in quest’epoca, occasioni e luoghi d’ascolto predeterminati, ma circolava in forme più mobili, occupava, per co­ si dire, gli interstizi che trovava disponibili nella società e co­ stituiva in un certo senso il tessuto di fondo dell’esperienza musicale. I palazzi nobiliari erano naturalmente la sua sede primaria. Molte famiglie altolocate potevano ancora permet­ tersi un’orchestra privata composta da musicisti stipendiati e alcune di tali orchestre raggiunsero risultati di eccellenza che costituivano un vero e proprio richiamo internazionale. Ba­ sterà ricordare quella dell’Elettore del Palatinato diretta da Stamitz a Mannheim o quella del principe Esterhàzy in cui prestava servizio Haydn. Anche le occasioni del comporre e dell’ascoltare variavano di corte in corte e di situazione in situazione. Si componevano musiche di cerimonia, di festa e d’intrattenimento come di­

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vertimenti, serenate e musiche per tavola, oppure danze per le feste da ballo, ma dove i membri della famiglia si dilettava­ no essi stessi di musica si poteva chiedere al compositore di preparare brani a misura dell’abilità dei nobili esecutori oppu­ re musiche con finalità didattica che si utilizzavano ad esem­ pio nelle lezioni di clavicembalo, molto apprezzate dall’aristo­ crazia femminile. Ma la moda di musiche facili per dilettanti o principianti toccò anche la borghesia ricca e alimentò un mercato editoriale assai cospicuo che cominciò a costituire un guadagno diretto anche per i compositori. Negli ambienti no­ bili, in cui le esigenze musicali erano più raffinate, la musica poteva infine acquistare spazi anche ampi che andavano al di là delle sue funzioni d’intrattenimento. Nacquero allora sona­ te, trii, quartetti, sinfonie in cui il compositore poteva mette­ re in luce la sua creatività e proporre sottigliezze per orecchi esperti. Ma la vera novità per la musica strumentale del Settecento fu costituita dal sempre più ampio diffondersi delle sale da concerto. Qui l’organizzazione dello spettacolo musicale ave­ va assunto forme sostanzialmente diverse: il musicista non era stipendiato, ma era pagato a prestazione con contratti di mer­ cato e con accesso di un pubblico vario di intenditori e amato­ ri. Strutture commerciali di questo tipo, già da tempo esisten­ ti nel campo dell’opera, diventano sempre più frequenti anche nella musica strumentale e tendono a dar vita a un repertorio più specifico: quello che si presta a un ascolto fine a se stesso e non immerso in situazioni d’uso come celebrazioni, feste o trattenimenti. Ciò muta gradualmente anche le attese dell’a­ scoltatore e le abitudini d’ascolto: si potrebbe dire che l’ascol­ to tipico delle sale da concerto odierne, da consumare in silen­ zio e con attenzione concentrata, inizi la sua storia proprio in ambienti di questo tipo. Ci sono a questo proposito esempi parigini significativi: ricchi borghesi con entrature politiche autorevoli o nobili di rango poterono ad esempio permettersi il lusso di aprire nel giro di tre anni, dal 1769 al 1772, ben tre diverse associazio­ ni, il Concert des amateurs, il Concert des associées e il Concert d'amis, la prima delle quali, diretta dal compositore Gossec, raggiunse presto fama d’eccellenza. I fondi provenivano da abbonamenti e da sottoscrizioni di donatori, l’orchestra era composta in parte da buoni dilettanti, in parte da strumentisti dell’Opéra e della cappella reale, e i virtuosi e i compositori di fama venivano attratti con cospicue retribuzioni. In Inghil­

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terra iniziative simili erano nate ben prima, all’epoca di Cromwell, quando - sospesa temporaneamente la monarchia - la classe media organizzò concerti a pagamento in case pri­ vate e nei suoi luoghi di ritrovo. Agli inizi del Settecento a Londra si contavano già parecchie sale pubbliche da concerto. Anche in Germania il fenomeno ebbe graduale diffusione nel corso del secolo. Non cosi in Italia dove la tradizione della musica strumentale, priva del supporto organizzativo ed eco­ nomico di una borghesia colta sufficientemente forte e inte­ ressata a questo tipo di iniziative, decadde gradualmente e iniziò con fatica a riprendere quota solo alla fine del secolo xix. Gli ultimi grandi rappresentanti di una tradizione stru­ mentale illustre, come Viotti, Boccherini o Clementi, emigra­ rono e trovarono lavoro all’estero. Verso la fine del Settecento la concorrenza dell’impresariato nei confronti delle tradizionali occasioni di lavoro offerte da un salario fisso presso una cappella nobiliare o ecclesiastica e i vantaggi offerti dalla libera professione erano tali che i mi­ gliori musicisti preferirono tutti il rischio del giorno per gior­ no piuttosto che una sicurezza del futuro ormai priva dell’an­ tico prestigio e tra l’altro spesso anche precaria per le condi­ zioni di sempre piu evidente crisi economica in cui si dibatte­ va il ceto nobiliare. Si chiude a questo punto una vicenda du­ rata quattro secoli: il mecenatismo aristocratico aveva ormai esaurito la sua grande funzione storica, [mbcef] 2. Il teatro d'opera in Europa. Nonostante i tentativi di creare una tradizione operistica nazionale in Francia, in Inghilterra e in Germania, il modello dell’opera italiana già alla fine del Seicento si era imposto in tutta l’Europa, con i suoi vizi e le sue virtu, e appariva indub­ biamente come il più gradito ad ogni ceto sociale. Se Venezia, Napoli, Milano e in misura minore Firenze, Bologna, Roma erano i centri più importanti del melodramma italiano, tutte le città anche le più periferiche avevano i loro teatri e le loro regolari stagioni. Fuori d’Italia, Vienna era forse la capitale di maggior prestigio, dove anche il livello della realizzazione mu­ sicale e scenica era sempre molto alto; ma tutta l’Europa pul­ lulava di teatri, che nella maggior parte dei casi mettevano in scena opere in lingua italiana con musiche composte da musi­ cisti italiani. Faceva eccezione la sola Parigi, l’unica capitale

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europea che fosse riuscita a creare un teatro proprio, molto vi­ tale. La cosiddetta «opera seria» era il melodramma di genere piu nobile: le vicende che vi si raccontavano riguardavano per lo piu protagonisti eroici e altolocati, re, regine, cortigiani, condottieri, usurpatori, a volte personaggi storici, a volte mi­ tologici, a volte anche biblici; amori infelici, tradimenti, rico­ noscimenti, travestimenti, vittorie, e sconfitte ne costituiva­ no il nucleo essenziale. La grande varietà di situazioni non deve tuttavia trarre in inganno sulla effettiva varietà dello spettacolo. Infatti gli in­ trecci erano nella sostanza standardizzati: l’amore rappresen­ ta la forza motrice di tutti gli eventi e il dovere morale (so­ prattutto raffigurato negli obblighi regali del buono e giusto governo dello stato) era una forza altrettanto importante ma spesso incompatibile con il legame amoroso; il lieto fine, in cui gli intrecci venivano risolti con buona pace di tutti, era d’obbligo. D’altra parte la vicenda doveva soprattutto per­ mettere al musicista di inserire un certo numero di arie nei punti strategicamente più adatti; e queste venivano accortamente distribuite fra i vari interpreti a seconda della loro im­ portanza e fra i vari tipi di emozioni o sentimenti che esse do­ vevano raffigurare. La tipologia di tali sentimenti era abbastanza fissa e per questo le arie potevano essere trasferite con pochi ritocchi da un’opera ad un’altra, cosi come spesso avveniva per quelle di maggior successo, senza che la coerenza della trama dovesse eccessivamente soffrirne. Nelle arie l’azione non procedeva mai: esse costituivano il commento emotivo all’azione che in quel momento si arrestava. Il racconto della vicenda era affidato invece al recitativo, secco o accompagnato: nel primo caso la recitazione era più rapida, sostenuta appena da pochi accordi del clavicembalo; nel secondo più estesa o ariosa e quindi alla voce si univano più strumenti. Intorno al 1730 la grande maggioranza delle arie operistiche italiane erano ormai arie col da capo, a testi­ moniare anche il favore di cui questa forma godeva sia presso i cantanti sia presso il pubblico. La loro struttura era abba­ stanza semplice ma non perciò meno efficace: le prime due parti si adattavano a due strofe poetiche ben distinte con due motivi melodici diversi; dopo la seconda parte veniva ripetuta la prima (era appunto questo il famoso da capo) e qui il can­ tante si esibiva con infiorettature, improvvisazioni, coloratu­ re e cadenze virtuosistiche che variavano il brano; dal da capo

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dipendeva in buona parte il successo dell’aria perché in essa il cantante aveva pieno agio di mostrare la sua bravura, il suo estro e la sua abilità. Nei primi decenni del secolo, in epoca scarlattiana o postscarlattiana, le dimensioni delle arie erano abbastanza ridotte e il loro numero era molto elevato. Ma gradualmente l’aria si fa musicalmente più complessa: la prima parte si articola in se­ zioni diverse, elabora e sviluppa i suoi temi, introduce già qui passi virtuosistici prescritti dal compositore. A questo punto il da Capo si riduce ad alcune sezioni finali, e al tempo stesso il numero delle arie tende a diminuire. Per la sua struttura il melodramma settecentesco era una sorta di meccanismo narrativo astratto in cui la consistenza dell’intreccio e del dramma veniva sostanzialmente sacrificata al fascino irresistibile della musica, e le voci dei castrati gioca­ vano probabilmente un ruolo primario in questa fascinazione. Esse ci vengono descritte da cronisti dell’epoca come dol­ cissime, penetranti, flessibili, agili ma certamente non corri­ spondevano al timbro naturale della voce umana e dunque erano forse capaci di quel particolare senso di straniamento e di irrealtà che la struttura stessa dello spettacolo a sua volta favoriva. Tutti a parole invocavano l’aderenza alla «natura» e al principio dell’imitazione realistica, ma nulla vi era di più irreale di quel palcoscenico che costituiva un piano di realtà a se stante, completamente altra rispetto ai fatti che raccontava. A questa forma il melodramma settecentesco arriva per gradi, dopo avere semplificato, ripulito e regolarizzato le tra­ me fantasiose, complicate, immaginifiche del teatro musicale del Seicento. Questa esigenza di razionalizzazione si fa senti­ re già negli ultimi anni di quel secolo, cioè nell’epoca in cui il gusto per la chiarezza e la semplicità divulgata negli ambienti letterari di tutta Italia dall’accademia dell’Arcadia reclama i suoi diritti anche nel campo della letteratura melodrammati­ ca. Questo movimento di riforma ebbe uno dei suoi punti di forza iniziali in Apostolo Zeno (Venezia 1668-1750), il quale, dopo che fu nominato poeta cesareo presso la prestigiosa cor­ te viennese, lanciò le sue nuove idee che avrebbero dovuto ri­ durre gli «abusi» e ridare una maggiore dignità artistica allo spettacolo operistico. Gli ideali propugnati da Zeno riguardano soprattutto le ca­ ratteristiche del libretto: esso doveva mirare ad una maggiore compattezza nelle vicende della trama, ad una maggiore eoe-

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renza tra arie e recitativi, all’eliminazione di elementi estranei quali, ad esempio, le scene comiche. Da una parte Zeno aveva in mente la dignità della tragedia antica (o di quella moderna che veniva rappresentata sulle scene francesi), ma d’altra parte sapeva adattarsi anche alle esigenze pratiche dello spettacolo; egli stesso, ad esempio, promosse la collocazione dell’aria alla fine dell’episodio narra­ to, cioè dopo i dialoghi in stile recitativo, per far si che il can­ tante, ricevuta la sua dose d’applausi, uscisse di scena e per­ mettesse il cambio dei personaggi presenti. Il lieto fine a sua volta doveva includere anche un insegnamento morale, un esempio di virtu che conferisse allo spettacolo una dignità eti­ ca e politica. I libretti piu noti di Zeno furono musicati dai maggiori musicisti del tempo quali Caldara, Albinoni, Vivaidi, Alessandro e Domenico Scarlatti. Ma la riforma proposta da Zeno acquistò una fisionomia più precisa ed ebbe anche un’incidenza maggiore con l’opera del suo grande successore a Vienna anch’egli in qualità di poeta della corte imperiale: Pietro Metastasi© (Roma 1698 - Vienna 1782) indubbiamente il più grande librettista del Settecento. Egli scrisse solamente 27 libretti d’opera ma su di essi si composero circa 900 opere. Il solo Artaserse fu musicato un centinaio di volte da autori di­ versi. La carica di poeta cesareo che detenne dal 1730 sino al­ la morte gli permise di dominare incontrastato sulla scena eu­ ropea e di dettare legge a librettisti e musicisti. Le novità dei suoi libretti si possono ridurre a pochi elementi ben precisi: ri­ duzione del numero delle arie (non più di una trentina); dimi­ nuzione dei cambiamenti di scena; maggiore attenzione all’in­ treccio per arrivare ad un’alternanza regolare di tutti i perso­ naggi, e dei diversi tipi di arie. Ma soprattutto il livello lette­ rario e poetico dei libretti del Metastasio è infinitamente più alto rispetto a quello di tutti gli altri librettisti del tempo, e non è meno curata la qualità poetico-musicale del testo che l’intreccio della vicenda; i recitativi, di norma in versi sciolti di varia lunghezza, sono eleganti ed espressivi, e le arie (di so­ lito in due strofe di settenari o di ottonari) sono sempre deli­ ziosamente musicali e musicabili; i personaggi, a loro volta, sono ben delineati nei loro caratteri, anche se più che alle sfu­ mature psicologiche si bada alla loro tipologia, che deve sem­ pre rientrare negli schemi della logica melodrammatica. Quasi tutti i musicisti del Settecento musicarono i libretti di Metastasio. Gli anni fra il 1720 e il 1740 furono i più con­ geniali al meccanismo scenico musicale proposto e furono an-

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che quelli che videro i primi trionfi di quel grande vivaio di musicisti di talento o di genio che era la Napoli del Settecen­ to. I vari conservatori napoletani in cui venivano istruiti alla musica giovani dotati e spesso assai poveri provenienti da tut­ to il reame, non solo crearono una linea di continuità stilistica che durò più di cent’anni, ma perpetuarono una scuola di al­ tissimo artigianato in cui non di rado i più rinomati composi­ tori erano anche maestri di severo prestigio. La scuola napo­ letana settecentesca, che aveva alle sue spalle il grande esem­ pio di Scarlatti e una tradizione di spettacoli ormai più che cinquantennale, ebbe il suo momento fondante nella seconda metà degli anni Venti dopo che la metastasiana Didone musi­ cata da Vinci ebbe risonanze importanti in tutto l’ambiente. Altri testi metastasiani come YArtaserse e Y Olimpiade furono musicati da Porpora, Leo, Pergolesi con conseguenze che si dilatarono immediatamente verso Roma e verso l’Italia set­ tentrionale. Al gruppo dei primi napoletani partecipò anche Johann Adolf Hasse (Amburgo 1699 - Venezia 1783) che na­ poletano non era, ma era stato istruito e protetto dal vecchio Scarlatti e nell’ambiente italiano si era perfettamente integra­ to e sapeva inventare melodie di straordinaria piacevolezza. Dal 1740 al 1770 l’opera seria di matrice napoletana dilaga in tutta Europa. Oltre a Hasse, a Johann Christian Bach, a Baldassarre Galuppi, acquistano fama in questi anni anche Niccolò Jommelli (Aversa 1714 - Napoli 1774) e Tommaso Traetta (Bitonto 1727 - Venezia 1779). Come al tedesco Hasse giovò il contatto con la tradizione melodica napoletana, cosi al napoletano Jommelli giovò il lungo soggiorno in Germania. Dai tedeschi seppe trarre l’arte della strumentazione, l’atten­ zione al colorito armonico nella ricerca di un tessuto orche­ strale ricco e vario, capace di dar sostegno ed espressione al canto. Ma con Jommelli e Traetta siamo ormai ai limiti del gu­ sto e dell’estetica metastasiana. L’uno e l’altro venuti a con­ tatto con ambienti culturalmente più esigenti e moderni di quello della patria napoletana e con tendenze aperte alle pole­ miche antimelodrammatiche che imperversarono nel Sette­ cento, sperimentarono tipi di opera che tendevano a forzare i limiti delle rigide strutture elaborate da Metastasio e a trova­ re soluzioni musicali meno sublimemente astratte e più con­ cretamente aderenti alle narrazioni della vicenda. Negli ultimi trentanni del secolo, cioè nell’epoca di Piccinni, Salieri, Paisiello, Cimarosa, che provenivano anch’essi dal ceppo napo­

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letano, i testi predisposti da Metastasio venivano ancora mu­ sicati, ma dovevano subire rifacimenti e adattamenti. Negli anni Novanta essi sono ormai decisamente in declino e vengo­ no sostituiti da nuovi modelli, in gran parte di provenienza francese. Ma nel frattempo era esplosa, sempre in partenza da Napo­ li e sempre con ripercussioni in tutta Europa, una nuova mo­ da che nella seconda metà del secolo ebbe ovunque un travol­ gente successo: quella dell'opera buffa o opera comica. Nel cor­ so del secolo precedente e nei primi venti anni del Settecento, gli esempi di commedie musicali esistevano nel repertorio operistico, ma furono assai rari (abbiamo già citato quelli di Stradella e di Scarlatti). Semmai esistevano, fin dall’epoca di Monteverdi, personaggi ed episodi buffi, per lo più confinati nel ruolo dei servi, a cui venivano riservate scene d’intratte­ nimento nel più nobile contesto «serio». Ma nel 1709 un im­ presario napoletano che agiva nel teatro dei Fiorentini, vi pre­ sentò uno spettacolo in tre atti e in dialetto, com’era d’uso nella tradizione popolare locale, Patrò Calienno della Costa, con musiche di A. Orefice. L’iniziativa trovò evidentemente il gradimento del pubblico, se anche negli anni seguenti la pratica di spettacoli musicali popolari continuò regolarmente. Si trattava comunque di un genere non ancora considerato degno di palcoscenici di più alto livello. Ma verso la fine degli anni Venti si cominciarono ad azzardare tentativi per nobili­ tarlo; ad esempio si inserì accanto alla coppia dei protagonisti buffi una coppia di personaggi di più alto rango a cui erano ri­ servate musiche più elaborate e comportamenti meno rozzi. Anche la lingua italiana entrò gradualmente nell’uso. In que­ sta prima fase della vera e propria opera comica cominciamo allora a trovare nomi di musicisti noti come Vinci, Leo, Pergolesi; le prime uscite dell’opera buffa dall’ambiente napole­ tano coincidono con il successo dei musicisti locali nell’opera seria. Contemporaneamente si era affermata anche un’altra consuetudine, che derivava da una tradizione assai antica quella deW intermezzo breve da recitare fra un atto e l’altro di un dramma serio in prosa o in musica - che a Napoli assunse tuttavia modi e stili del tutto propri. Da questo genere di spettacolo (a cui appartengono capolavori famosissimi come La serva padrona, 1732, di Pergolesi) si svilupparono più tardi la farsa e la burletta che erano una sorta di opera comica di ca­ rattere più semplice e di ambizioni più ridotte. Nell’opera e nell’intermezzo buffo personaggi umili e alto­

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locati si trovavano a confronto e non di rado erano i secondi ad uscirne beffati e derisi dalla furbizia dei primi. La satira so­ ciale si faceva a volte sentire, ma in ogni caso popolani e bor­ ghesi erano colti nei momenti della vita domestica, in una gamma di sentimenti non eroici, non epici, privi di retorica. L’intermezzo e l’opera buffa erano dunque molto più realisti­ ci delle opere serie, anche se per lo più i musicisti erano gli stessi. Ma altre erano anche le differenze: in queste comme­ die, infatti, non necessitavano complicate macchine sceniche, non costumi sfarzosi né cantanti di grido. Però particolari qualità si rendevano necessarie; i personaggi erano molto più caratterizzati rispetto all’opera seria e l’azione molto più rapi­ da, con meno concessioni alla riflessione lirica sui propri sen­ timenti. Ciò richiedeva al cantante spiccate doti di attore. Inoltre lo spettacolo non offriva mai pretesti per permettere virtuosismi canori e tantomeno per inserire cantanti evirati, ma avvinceva e interessava il pubblico per la trama e per i suoi esiti che non erano mai del tutto scontati. L’aria era impor­ tante, ma non era più fine a se stessa e il recitativo era preva­ lentemente «secco», coll’effetto di rendere il dialogo più ser­ rato e senza lungaggini; inoltre il confronto tra i personaggi e la rapidità dei loro conflitti favori l’usanza dei pezzi d’insie­ me, che si fecero via via più frequenti e importanti nella se­ conda metà del Settecento. In particolare ebbe grande diffusione l’usanza di conclude­ re entrambi gli atti dell’opera con battute più serrate, che non comprendevano un’aria intera ma erano articolate in frasi più o meno lunghe che si alternavano passando da un personaggio all’altro e spesso riunendo i personaggi in duetti, terzetti o quartetti che non seguivano uno schema prefissato ma si ade­ guavano alle necessità della narrazione. E questo il caratteri­ stico brano di opera comica che prende il nome di finale. Ver­ so la metà del secolo il finale è ancora abbastanza breve e si concretizza praticamente in due o tre episodi caratterizzati da mutamenti di tempo fra l’uno e l’altro. In anni più tardi ac­ quista dimensioni molto più ampie che occupano circa un ter­ zo dell’atto. Questa particolare tecnica costruttiva, nata con l’opera comica, verrà adottata a fine secolo anche dallo spet­ tacolo serio e contribuirà a renderne assai più dinamiche le strutture. Dopo i primi esempi, fra i quali parecchi - come Livietta e Tracollo, Lo fiate 'nnamurato, Il Flaminio, sono dovuti a Gio­ vanni Battista Pergolesi (Iesi 1710 - Pozzuoli 1736) - l’opera

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comica arriva verso la fine degli anni Trenta a Roma, negli an­ ni Quaranta a Venezia e nel 1748 approda già a Londra. Se­ gno che le iniziali diffidenze del mondo intellettuale e delle classi aristocratiche cominciavano a venir meno e a trasfor­ marsi in apprezzamenti. Anche le trame, che per lungo tempo si basarono largamente su vicende quotidiane matrimoniali e amorose e sugli ostacoli derivanti da differenze di stato socia­ le o di antagonismi generazionali, acquisirono, col passare de­ gli anni e delle mode culturali, componenti nuove: si trasferi­ rono, ad esempio, in paesi fantastici o esotici oppure toccaro­ no problemi specifici come quello della differenza fra uomini e donne o come quello stesso del melodramma, che piu volte fu oggetto di autocritiche parodistiche. Ma una tappa impor­ tante fu il trasferimento dell’opera comica in ambiente vene­ ziano, dove la coppia Goldoni-Galuppi seppe dare allo spetta­ colo comico una consistenza culturale nuova, un’articolazione più ricca, una gamma di tematiche più vasta che derivava non solo dalla fertile fantasia, ma anche dalla grande esperienza internazionale di entrambi gli autori. Verso gli anni Sessanta il teatro francese stava coltivando un genere particolarmente fortunato, quello della cosiddetta «comédie larmoyante» (co­ me dire «commedia lacrimevole») basata fondamentalmente sul personaggio, caro al gusto borghese dell’epoca, della fan­ ciulla innocente ingiustamente perseguitata da pregiudizi so­ ciali o da esercizi arbitrari di potere. La nuova generazione di musicisti napoletani seppe inserirsi perfettamente in questo clima con la Cecchina, ossia La buona figliola (1766) con libret­ to di Goldoni e musica di Piccinni e qualche anno dopo con LIina 0 sia La pazza per amore di Paisiello. Ma negli esempi più tardi di opera buffa napoletana gli elementi patetici e senti­ mentali vengono spesso ampliati e potenziati. Cosi accade ad esempio ne II barbiere di Siviglia ovvero La precauzione inutile di Paisiello (1782) o ne II matrimonio segreto di Cimarosa che ai suoi tempi, e anche oltre, fu una delle più famose ed esegui­ te opere del repertorio napoletano. Ma il destino più singolare, più inatteso e più storicamente rilevante lo ebbe senza dubbio La serva padrona di Pergolesi. Portata in Francia da una delle consuete compagnie d’opera girovaghe nel 1752, vent’anni dopo la sua composizione ebbe la ventura di scatenare una delle più accese e anche delle più interessanti discussioni (o querelles come allora venivano chia­ mate) che periodicamente animavano l’ambiente culturale pa­ rigino. La guerra che qualche anno prima aveva opposto i

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fautori di Lulli a quelli di Rameau era un conflitto solo in mi­ nima parte di tipo generazionale: in realtà essa celava una ben più vasta discussione fra sostenitori dell’antico e del moderno che aveva profonde radici ideologiche. Quando scoppiò la querelle des bouffons (innescata appunto dall’esecuzione del melodramma pergolesiano) queste radici vennero alla luce: da una parte si schierarono i difensori dell’opera tradizionale francese, cioè praticamente gli aristocratici e gli ambienti di corte; dall’altra gli intellettuali, gli Enciclopedisti, iphilosophes, coloro che proiettavano sull’opera italiana le loro ansie di rinnovamento non solo artistico ma anche politico e socia­ le. Nella libertà e vivacità melodica del canto italiano, negli intrecci scherzosi, ironici, teneri e sentimentali, tanto aderen­ ti alla vita quotidiana, essi trovavano quella «natura», di cui negavano l’esistenza nelle opere costruite su soggetti classici, storici o mitologici. Il richiamo alla natura, cosi insistente ne­ gli Enciclopedisti, soprattutto negli scritti di Jean-Jacques Rousseau e di Denis Diderot, si inserisce in una più complessa polemica sul linguaggio. La musica, infatti, originariamente sarebbe stata tutt’uno con la parola: la fonazione melodica in cui l’uomo esprimeva emozioni ed anche esigenze pratiche. Solo con la civiltà l’uo­ mo avrebbe separato la ragione del sentimento, e il linguag­ gio, privato della sua primitiva musicalità, sarebbe servito unicamente per ragionare, mentre la musica, perduto il suo le­ game con la parola, sarebbe diventata puro ornamento. La lingua francese, sempre secondo Rousseau, è una lingua total­ mente sorda, priva di ogni musicalità e perciò l’opera francese è falsa e artificiosa, perché in essa musica e parola non riesco­ no più a fondersi. L’italiano, invece, è una lingua prosodica che ha conservato ancora qualcosa della primitiva musicalità e perciò l’opera italiana suona tanto più naturale e più vera. La querelle des bouffons si protrasse per lunghi anni, prati­ camente sino all’arrivo di Gluck a Parigi nel 1773; la sua «ri­ forma» dell’antica «tragèdie lyrique» e la trionfale accoglien­ za che la sua Iphigénie ebbe l’anno dopo sia nell’ambiente di corte che in quello degli intellettuali mise fine alle polemiche e inaugurò veramente un periodo nuovo nella storia della mu­ sica francese; ma il capolavoro gluckiano potè passare indenne e convincere il difficile pubblico locale perché aveva dietro le spalle una lunga esperienza di opposizioni e di battaglie che si erano svolte a Vienna. Quando Christoph Willibald Gluck (Erasbach 1714 -

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Vienna 1787) tentò l’avventura francese era infatti nel pieno di un prestigio internazionale che si era conquistato non solo nella sua lunga carrier# di operista, ma in dieci anni di memo­ rabili attività di «riforma» che Favevano messo al centro dei movimenti culturali della capitale dell’impero. Nato da una famiglia modesta in un piccolo centro di provincia, praticamente autodidatta ma dotato di una grande forza di caratte­ re e di un invidiabile senso pratico, passò gli anni della giovi­ nezza a Praga e a Vienna. Qui fu notato da un nobiluomo mi­ lanese, il Melzi, che nel 1737 lo ingaggiò per la sua eccellente orchestra privata. Quattro anni dopo nella Milano di Giovan­ ni Battista Sammartini (del quale Gluck fu forse anche allie­ vo) il giovane musicista ebbe il suo debutto teatrale con un metastasiano Artaserse che gli procurò buona fama. Per una decina d’anni egli viaggiò continuamente in tutta Europa componendo e facendo rappresentare opere di stile e lingua italiana, del tutto coerenti con una moda allora radicatissima. A Londra conobbe Hàndel, a Dresda conobbe Hasse, ed ebbe sempre fruttuosi rapporti con i piu importanti impresari di compagnie d’opera. Dal 1752 le sue migrazioni cessarono ed egli pose il suo quartier generale a Vienna dove nel frattempo era diventato Kapellmeister di un’orchestra privata di notevole prestigio, e aveva cominciato a farsi apprezzare dalla nobiltà e dagli in­ tenditori locali. A Vienna l’ambiente musicale era in quegli anni particolar­ mente vivace. Alcuni personaggi dell’intellettualità nobiliare che gravitavano attorno al conte Giacomo Durazzo, direttore di due importanti teatri della capitale e grande animatore del­ la vita musicale locale, avevano fra i loro obiettivi quello di ri­ dare nuova vitalità allo stile nel teatro d’opera le cui abitudini tendevano ormai a diventare ripetitive. Furono chiamate a Vienna compagnie di opéra comique francese e Gluck ebbe l’incarico prima di adattare alcuni aspetti dello spettacolo al gusto locale, poi di scrivere egli stesso le musiche per alcune di quelle rappresentazioni. Ma gli sforzi di francesizzazione del­ la scena viennese, sforzi non certo facili se si pensa che in que­ gli anni Metastasio regnava a corte come poeta cesareo, con­ tinuarono anche negli anni successivi dirigendosi questa volta verso il settore del balletto. Il grande ballerino Angiolini, che allora era una delle punte di diamante del nuovo tipo di ballet d'action, in cui si rappresentavano unicamente veri e propri intrecci drammatici, fu coinvolto nell’iniziativa e Gluck, che

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nel frattempo era diventato amico e collaboratore del Durazzo, fu incaricato di comporre le musiche. Nacque cosf nel 1761 il Don Juan che, sia per la novità dell’intreccio (poi ri­ preso da altri musicisti fra cui lo stesso Mozart), sia per la drammaticità della musica, seppe impressionare assai favore­ volmente l’opionione pubblica. Autore dell’intreccio di que­ sto singolare balletto era stato Ranieri de’ Calzabigi, altra sco­ perta di Durazzo, letterato italiano già curatore di un’edizio­ ne dei melodrammi di Metastasio, già attivo interlocutore nella querelle des bouffons e ora fautore di un teatro nuovo e diverso. Allo stesso quartetto di collaboratori, trainato questa volta dal Calzabigi, si deve la presentazione di Orfeo ed Euri­ dice che fu eseguita un anno dopo in occasione dell’onomasti­ co dell’imperatore e che ottenne un significativo successo an­ che per l’interpretazione del castrato Gaetano Guadagni. Co­ ri, balli, scenografie, purezza ed essenzialità nelle linee del canto, abolizione dei virtuosismi vocali, erano elementi «fran­ cesi» della nuova concezione drammaturgica, ma l’espressivi­ tà dei recitativi, la libera concezione formale delle arie e degli ariosi, l’aderenza della musica alla vicenda scenica, la sua ca­ pacità di caratterizzare a fondo le situazioni, erano soprattut­ to dovuti al genio drammaturgico di Gluck e alla collaborazio­ ne con altri artisti che avevano saputo offrirgli i materiali giu­ sti per farlo emergere. Naturalmente l’opera non era nata dal nulla: aveva dietro le spalle tutta la lunga tradizione delle discussioni e delle po­ lemiche sul melodramma, dei tentativi già messi in atto da Traetta a Parma, da Jommelli a Stoccarda, e in genere l’attesa del mondo intellettuale per uno spettacolo che fosse meno le­ gato alle convenzioni impresariali e al bel canto dei divi. Gluck si guardava bene dall’identificarsi in toto con questo ti­ po di melodramma, anzi continuava regolarmente a prestare la sua opera professionale all’allestimento di drammi metasta­ siani com’era ad esempio II trionfo di Clelia che nello stesso 1762 inaugurò a Bologna il nuovo Teatro Comunale. Tuttavia continuò nei suoi esperimenti e, sempre in collaborazione con Calzabigi, presentò nel 1767 la nuova opera Alceste che quan­ do fu pubblicata a stampa, cosa assai rara nell’epoca, egli fece precedere da una prefazione in cui spiegava le ragioni della sua «riforma»: un teatro moderno esigeva una musica che fos­ se a stretto servizio della poesia e dell’azione, mentre nel mo­ dello italiano predominante accadeva l’esatto contrario. Dun­ que niente arie col da capo, che interrompevano l’azione,

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niente ornamentazioni superflue, maggior peso dato all’orche­ stra, ouverture non più concepita come generico segnale d’i­ nizio, ma come introduzione all’atmosfera del dramma, gran­ de importanza del coro, come nella tragedia greca, solenne semplicità nel racconto, con abolizione dei consueti complica­ ti e frivoli intrighi, ampio spazio ai recitativi accompagnati. Per Gluck questi principi non dovevano riferirsi solo all’o­ pera italiana, ma potevano caratterizzare il dramma musicale in quanto tale, qualsiasi fosse la lingua in cui era scritto il te­ sto. Per quanto riguarda l’ambiente tedesco ebbe contatti con poeti come Klopstock, Herder, Wieland che avevano dimo­ strato grande attenzione per il suo teatro, ma niente di con­ creto fu messo in atto. Quando invece Maria Antonietta d’Austria, poi moglie di Luigi XVI, si dimostrò interessata a esportare a Parigi l’esperienza gluckiana, nacque Ylphigénie en Aulide su testo di Racine ridotto a funzioni librettistiche da Du Roullet. La rappresentazione fu preceduta da una sorta di preparazione diplomatico-pubblicitaria sul « Mercure de Fran­ ce» che ospitò lettere del librettista, del musicista e di altri personaggi, in cui si aggiornava il pubblico dei lettori sulle esperienze del teatro viennese. Tra il ’74 e il ’79, cioè fra la prima opera e la successiva Iphigénie en Tauride, che entrambe avevano come oggetto di riforma non più il melodramma metastasiano ma la tradizione Lully-Rameau, il turbolento ambiente parigino non rimase certo inattivo. I due drammi furono accolti con grande suc­ cesso, ma gli intrighi non mancarono. Ci fu chi pensò bene di chiamare a Parigi Niccolò Piccioni e di contrapporre le sue «tragedie liriche» (anch’esse tuttavia ampiamente moderniz­ zate e «riformate») a quelle gluckiane. Col risultato di far na­ scere un’ennesima, abbastanza artificiosa querelle fra i soste­ nitori dell’uno e dell’altro musicista. Dopo l’arrivo di Gluck le scene francesi videro il rapido declino della loro ormai ana­ cronistica tradizione aulica. Ma per comprendere meglio le ragioni di questo declino e per avere un quadro più completo di ciò che accadeva sulle scene francesi non si può dimenticare che dalla metà del seco­ lo si era radicata a Parigi un’altra tradizione di teatro musica­ le, non legata agli ambienti della corte bensì a quelli del ceto popolare e borghese. Qui esisteva da tempo l’uso di musiche negli spettacoli teatrali: di vaudevilles, di chansons o di arìettes come vennero volta per volta definite. Dopo la morte di Luigi XIV, che aveva sempre guardato con sospetto e tenuto a fre­

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no il teatro popolare, gli attori cominciarono a mostrarsi assai sensibili alle esigenze di un pubblico ormai culturalmente smaliziato che chiedeva intrecci piu interessanti e recitazioni meno coinvolte con lazzi e scherzi troppo banali. Tra il 1730 e il 1750 Charles-Simon Favart fu il grande protagonista di questa progressiva trasformazione AeW Opéra-comique o Comedie melées d'ariettes (commedia con musica) come allora era chiamata, e la querelle des bouffons sollecitò potentemente gli interessi dell’opinione pubblica per uno spettacolo di teatro e di musica che veniva sentito come proprio dalla parte piu viva della popolazione. Negli anni Cinquanta un musicista italia­ no, Egidio Romualdo Duni, tentò l’esperimento di adattare i modi dell’opera buffa napoletana al teatro francese, poi l’ini­ ziativa passò ad altri autori come Philidor e Monsigny che mettevano in musica commedie di carattere realistico o satiri­ co, ma anche storie ispirate al romanzo o alla narrativa favo­ listica, a Cervantes, a Fielding, a La Fontaine, o, infine, rac­ conti in cui l’innocenza perseguitata o l’eroismo avventuroso avevano la meglio sulle forze del male. Veri e propri memorabili successi consegui in questo cam­ po André Grétry (Liegi 1741 - Parigi 1813) che, arrivato dalle terre native del Belgio nel 1767, conquistò il pubblico con storie «larmoyantes» come quelle di Lucilie (1769), con paro­ die del teatro mitologico come Le jugement de Midas (Il giudi­ zio di Mida) del 1778 0 avventure medievali come Richard Coeur-de-Lyon (1784). Alle soglie della rivoluzione il teatro musicale francese è dunque ormai ricco di esperienze tecniche nuove e di temi narrativi inediti sia nel campo dell’opera classica sia in quello della commedia, con la differenza che in quest’ultima non si usava il recitativo, tipico della tradizione «nobile» all’italiana, ma si alternavano dialoghi in prosa e brani in musica com’era nella tradizione del teatro popolare. Questo complesso campo di esperienze verrà ampiamente utilizzato negli spettacoli messi in scena durante gli anni della rivoluzione e poi nell’e­ poca napoleonica, [ef e mb] 3. La musica strumentale e le origini dello stile classico.

Nel campo della musica strumentale le tendenze stilistiche nate nell’ultima fase dell’epoca barocca continuano a prospe­ rare fin verso la meta del xvm secolo e continuano a produrre frutti cospicui e maturi: basta pensare agli allievi di Corelli

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ancora attivi in Europa (Francesco Geminiani, Pietro Loca­ telli, Giovanni Battista Somis), ai modelli ancora vitalissimi del concerto di origine vivaldiana, alla tradizione francese di Couperin e di Rameau, per non parlare di Hàndel e di Bach. L’anno della morte di quest’ultimo, il 1750, può essere simbo­ licamente preso come una sorta di terminus ad quem di questa lunga stagione produttiva. Ma noi sappiamo che già durante la vita di Bach, negli anni Trenta, c’era chi considerava il suo stile ormai sorpassato, e lo accusava di essere sapiente ma troppo artificioso rispetto al gusto moderno. In effetti tra il 1720 e il 1740, nonostante il perdurare dei modelli di sonata e di concerto tardo-barocchi e parallelamen­ te a quelli, cominciano a comparire i primi sintomi di un mu­ tamento di sensibilità che avrebbe condotto la musica stru­ mentale europea verso soluzioni formali del tutto nuove. Per almeno due o tre decenni le tendenze piu recenti convivono con quelle della tradizione in una simbiosi in cui è estremamente difficile cogliere gli elementi di trapasso. Tuttavia l’os­ servazione di tre importanti fenomeni stilistici può servire da guida per l’identificazione dei «punti forti» del mutamento. Il primo si riferisce a una graduale e sempre più accentuata propensione a semplificare le strutture classiche del contrap­ punto; in alcuni casi, soprattutto in certe sonate per clavicem­ balo, la semplificazione arriverà fino al punto da ridurre la stesura musicale a due parti essenziali: la melodia superiore che diventa parte preponderante e centro dell’attenzione, e il basso che assume semplicemente una funzione di sostegno ar­ monico e abbandona sostanzialmente quella struttura implici­ tamente melodica di voce cantante che aveva sempre conser­ vato durante tutto il periodo barocco. In sintesi, decade la pratica del basso continuo. Anche quando la semplificazione non è cosi drastica, il basso tende comunque a perdere la sua funzione di continuo e a conservare solo quella di supporto ar­ monico. Il secondo importante mutamento stilistico di questa epoca ha anch’esso a che fare con la semplificazione del tessuto con­ trappuntistico. Fino a quando la musica venne concepita co­ me relazione fra voci (o sovrapposizione di melodie) che con­ tinuavano significativamente a chiamarsi «voci» anche se era­ no solo strumentali, la forma musicale si creava sulla base del passaggio di uno stesso frammento melodico fra una voce e l’altra. Il frammento melodico o, come si suol dire, il motivo che dava origine al gioco polifonico, era l’unità formale fon­

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damentale, il «mattone» con cui si costruiva l’edificio; sia che venisse passato fra le varie voci, sia che rimanesse all’interno della voce principale, il motivo che caratterizzava il brano (co­ si come qualche altro motivo ulteriore che poteva comparirvi) non rimaneva sempre uguale: veniva elaborato e tendeva a produrre continue varianti di se stesso. Questa tecnica, che è conosciuta col nome di elaborazione motivica, viene gradual­ mente sostituita da una tecnica piu semplice. Al posto del mo­ tivo (che per sua natura non era mai un’entità conclusa, ma sempre un frammento aperto e suturabile col frammento suc­ cessivo) tende a comparire una frase in sé completa e a volte conclusa da un movimento cadenzale, per cui il fraseggio che ne risulta diventa spesso simmetrico e gerarchico: ad esempio, a una frase di quattro battute (spesso divisibile in due piu due) se ne può legare un’altra di quattro, e a questa unità complessiva di otto si può contrapporre un’altra unità analoga di otto battute. La regolarità non è sempre cosf stretta ma in genere elementi simmetrici tendono a prevalere. La continui­ tà è data sia dall’uso di formule cadenzali dosate (piu o meno conclusive o più o meno sospensive) sia dall’uso di contrappo­ sizioni di carattere fra un gruppo e l’altro, per le quali si parla di relazioni di proposta e risposta, di analogia, di contrappo­ sizione, e via dicendo. Dunque alla tecnica della elaborazione motivica tende a sostituirsi quella del raggruppamento di frasi. II terzo aspetto di rilievo del mutamento in atto in quegli anni è quello che si riferisce alla identificazione degli elementi formali e delle loro funzioni. Un brano di musica costruito per raggruppamenti di frasi non può accumulare indefinitamente un raggruppamento dopo l’altro senza dare loro una logica unitaria. Cosi ognuno dei raggruppamenti, che può venire ri­ petuto dopo un certo periodo di tempo, acquista una sua fun­ zione all’interno dell’insieme. La più importante è la funzione cosiddetta tematica, che è assunta da quelle frasi che, per il lo­ ro aspetto particolarmente adatto a imprimersi nella memoria e ad attirare l’attenzione, caratterizzano V affetto del brano o di una parte di esso. Altre frasi, meno impressive, assumono invece la funzione di collegamento o di raccordo fra un episo­ dio e l’altro. Altre ancora hanno funzione di sviluppo quando, utilizzando l’ormai ben posseduta tecnica dell’elaborazione motivica, si assumono il compito di trasformare un tema pre­ cedentemente udito, di metamorfizzarlo, di rinnovarlo dal­ l’interno. Infine altre frasi o gruppi di frasi possono avere

i.

Musa con cetra eptacordo, seconda metà del secolo v a. C.

All'attaccatura delle corde sulla traversa sono visibili i segmenti che servivano a modificare la tensione, e quindi l’intonazione, delle medesime. I Greci tacevano derivare la denominazione delle note dalla posizione della cetra e delle corde rispet­ to al corpo del suonatore.

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32. Pablo Picasso, Illustrazione per la copertina della riduzione pianistica di Rtf£//wedi Stravinskij (19x9).

«Ho composto il Ragtime sul cimbalom, e l’intero complesso (la versione originale è per 11 strumenti) ruota attorno alla sonorità da pianoforte da bordello di quello strumento... Quando la composizione fu ultimata, chiesi a Picasso di disegnare Piilustrazione per la copertina. Lo vidi schizzare sei diverse illustrazioni, tutte deri­ vate da un’unica linea ininterrotta» (I. Stravinsky e R. Craft, Dialogues and a Diaiy). L’amicizia tra i due artisti nacque all'epoca della collaborazione per Pulcinella la cui scenografia era stata commissionata da Djagilev a Picasso.

33-

Lc Corbusier. Il Padiglione Philips a Bruxelles.

Perché lesse ascoltalo in questo padiglione. Varese compose il suo Poèmi’clectroniqtie.

34- Darmstadt, Pierre Boulez con Bruno Maderna e Karlheinz Stockhausen ai Ferienkurse nel 1956.

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funzione conclusiva quando assumono le caratteristiche tipi­ che del gesto retorico di chiusura. Molti di questi aspetti era­ no già in parte presenti nella tradizione barocca, ma qui ven­ gono messi in maggiore evidenza e costituiscono le vere e pro­ prie fonti energetiche di tutto il meccanismo compositivo. La sonata solistica per strumento a tastiera è una delle for­ me musicali in cui questi aspetti cominciano a emergere con maggiore evidenza. Le più di 500 sonate di Domenico Scar­ latti (Napoli 1685 - Madrid 1757), grande figlio di un padre illustre, sono forse fra i primi e più singolari esempi di questo fortunatissimo genere musicale ma sono anche la testimonian­ za di una ricerca appartata e solitaria che (se si esclude l’atti­ vità spagnola del suo allievo Antonio Soler) non sempre i con­ temporanei capirono o svilupparono. Appartata geografica­ mente (nonostante almeno 30 delle sue sonate fossero note per essere state pubblicate a Londra nel 1738) perché si svolse in gran parte fra Lisbona e Madrid, in corti che erano regali ma non si trovavano al centro dell’attenzione europea; anche appartata culturalmente perché inseguiva fantasie originalis­ sime che non erano in sintonia con le mode dell’epoca. A par­ te la straordinaria tecnica esecutiva, che prevede incroci di mani, arpeggi, note ribattute, non certo frequenti in quegli anni se non forse in alcuni esempi di Rameau, ciò che attrae l’attenzione di Scarlatti è assai spesso una idea singolare: un accordo inconsueto, una sonorità inedita, un andamento me­ lodico popolare, una modulazione improvvisa che costituisco­ no tema e che sollecitano la sua invenzione. Nelle sue sonate i raggruppamenti per frasi sono già chiaramente visibili, an­ che se spesso irregolari, cosi come è visibile il venir meno de­ gli schemi di basso continuo e l’emergere delle funzioni for­ mali: temi, raccordi, conclusioni, sviluppi. Ma la moda dell’epoca andava in un’altra direzione. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta si impone a livello internazionale il cosiddetto stile galante che poi continuerà fino alla fine del secolo. Il termine di galanteria di provenienza francese ma dif­ fusissimo fin dagli inizi del secolo in tutta l’Europa, indica ge­ nericamente piacevolezza, eleganza, distinzione; in musica i trattatisti settecenteschi lo collegano con l’uso degli abbelli­ menti, con le raffinatezze del bel canto, con la sensibilità per le sfumature di tempo e di dinamica, con lo stile teatrale, ma non con lo stile della fuga e tanto meno con quello della musi­ ca sacra. Galuppi, Rutini, Piatti, Cimarosa e poi l’infinita schiera di altri compositori italiani o non italiani che contri­

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buirono a diffondere questo stile, basarono le loro fortune so­ prattutto sulla favorevole accoglienza che esso ebbe sia in se­ de didattica, per coloro che intendevano imparare a suonare il clavicembalo, sia come stile facile e dilettevole per amatori di media abilità. Le galanterie cembalistiche incontrarono in tutta la seconda metà del secolo un mercato disponibilissimo e redditizio che è forse alla base della sua diffusione. Al con­ trario delle sonate di Scarlatti, che sono in un movimento so­ lo, quelle di stile galante comprendono di solito piu movimen­ ti, secondo un principio ereditato dalla sonata a tre dell’epoca barocca, ma la scelta dei movimenti è abbastanza libera anche se la successione allegro, adagio, allegro è quella che prevale. La stesura è in ogni modo estremamente semplificata: alla parte superiore è assegnata una linea melodica e a quella infe­ riore una parte di accompagnamento. La linea melodica supe­ riore, organizzata per gruppi di frasi, è ricca di trilli, appog­ giature, terzine di note rapide, sincopi, ritmi puntati, scalette che costituiscono il repertorio delle galanterie tipiche appunto di questo stile. Nella parte dell’accompagnamento compaiono invece for­ mule caratteristiche che prolungano gli accordi nel tempo scindendoli in rapide note singole, cosi che l’armonia rimanga statica ma l’impulso ritmico sia incalzante. La piu nota e la più diffusa di queste formule è quella del basso albertino che il clavicembalista Domenico Alberti cominciò a diffondere fin dagli anni Quaranta. La facile scorrevolezza della sonata galante fu spesso ogget­ to di critiche soprattutto nell’ambiente tedesco: «la loro mu­ sica riempie gli orecchi, ma lascia il cuore vuoto» scrive Cari Philipp Emanuel Bach in una lettera del 1768; ma già nel 1753 nel suo trattato sulla «buona maniera» di suonare gli strumenti da tasto ( Versuch uber die wahre Art das Clavier zu spielerì) egli affermava che lo scopo della musica è quello di toccare il cuore e muovere gli affetti. In ambiente tedesco l’accentuazione delle funzioni di «commozione» che l’arte doveva possedere era evidente in quegli anni anche nel campo letterario: ad esempio il Messias di Klopstock, pubblicato nel 1748, era una sorta di poema epico sulla figura di Cristo, più attento alla descrizione com­ movente dei moti dell’animo che non alla narrazione degli eventi esterni. In musica questa corrente si manifesta in quello che, con un termine tedesco diventato internazionale nella letteratura

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musicologica, viene chiamato Empfindsamer SUI (Stile della sensibilità o stile sentimentale) che trova i suoi esempi più tipici nelle sonate di Cari Philipp Emanuel Bach (Weimar 1714 - Amburgo 1788) scritte per il clavicembalo e soprattut­ to per il clavicordo che era il suo strumento preferito, grazie alla possibilità che esso possedeva di graduare le sfumature di­ namiche del piano e del forte. Come nelle sonate di stile ga­ lante, anche in queste la successione è ordinata per raggruppa­ menti di frasi, ma l’uso degli abbellimenti e delle note rapide è molto più ridotto, la semplificazione del tessuto contrap­ puntistico è meno drastica, il vocabolario armonico è più ricco e più elaborato e più evidente è anche la continuità con la ric­ chezza contrappuntistica dello stile tardo-barocco. Emerge inoltre talvolta una sorta di modello di riferimento vocale: quello del recitativo accompagnato dalle intenzioni drammati­ camente espressive. La forma, infine, diventa spesso rapsodi­ ca, è interrotta da brusche pause, da successioni di «affetti» contrastanti, da dissonanze impreviste, da mutamenti di tem­ po, da frammenti scritti sulla base del cosiddetto rendende Prinzip o principio declamatorio. Oltre che negli esempi di Cari Philipp Emanuel Bach la Empfindsamkeit, la «sentimentalità» nello stile sonatistico, ebbe diffusione nel nord della Germania, e fece qualche com­ parsa anche altrove, per esempio nelle sonate parigine di Schobert e perfino in alcuni esempi di composizioni di Rutini. Ma al di là del genere della sonata a solo per strumenti a ta­ stiera il nuovo stile settecentesco di tendenza galante si affer­ mò anche - e dette frutti cospicui - nel genere della sinfonia. Anche in questo campo la riduzione della complessità con­ trappuntistica, l’organizzazione per gruppi di frasi e l’attribu­ zione ad essi di particolari funzioni formali emerge a poco a poco come nella sonata. Ma nel contesto sinfonico un altro tratto stilistico importante caratterizza la nuova maniera: l’at­ tenzione per la sonorità orchestrale. Il suono dell’orchestra diventa un materiale plasmabile non più legato all’antica concezione secondo la quale ogni stru­ mento entra come «voce» in un contesto contrappuntistico: nel nuovo stile esiste una melodia dominante dei violini; ma gli altri strumenti possono raddoppiarla e rinforzarla, possono sottolineare certe note importanti intervenendo con accordi, possono creare trame di accompagnamento con formule ripe­ titive in funzione di sfondo, possono creare «impasti» sonori fra strumenti di timbro diverso oppure possono essi stessi

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assumere occasionalmente funzioni melodiche. In quest’ulti­ mo caso può emergere una caratteristica peculiare che è quella di usare «dialoghi» fra strumenti anziché pure e semplici «imitazioni» di voci. Intorno al 1730 l’orchestra era fondamentalmente compo­ sta di archi (violini, viole, violoncelli, contrabbassi in compo­ sizione numerosa o anche assai ridotta, a seconda delle occa­ sioni o delle possibilità economiche), più 2 oboi, 2 corni e tal­ volta 2 fagotti. A questo gruppo si aggiunsero più tardi anche altri stru­ menti a fiato (flauti, clarinetti, trombe) e i timpani. Nei primi due decenni del secolo molti aspetti stilistici della tecnica sin­ fonica già si trovano nelle ouvertures delle opere: ad esempio lo schema tripartito allegro adagio allegro, ma anche la sempli­ ficazione contrappuntistica, l’emergere della voce melodica superiore, l’individuazione di temi caratteristici. Musicisti co­ me Vinci, Leo, Hasse, Galuppi compongono sinfonie d’opera in uno stile che è ormai ben diverso rispetto allo stile del con­ certo. Anche nel più tradizionale genere del concerto, tuttavia, i sintomi del mutamento cominciano a farsi sentire: ad esempio nei concerti di un virtuoso del violino come Giuseppe Tartini (Pirano d’Istria 1692 - Padova 1770) il modello della forma barocca ereditato da Vivaldi o da Ver acini assume sfumature diverse: l’alternanza solo - tutti continua naturalmente a stare alla base della concezione formale, ma anche nel «tutti» la vo­ ce superiore tende a costruirsi per frasi anziché per singoli motivi, mentre il basso tende a perdere il suo carattere lineare di «continuo». Sempre più chiari diventano questi caratteri in una generazione successiva di violinisti italiani come Nardini, Pugnani o Viotti, nei quali la struttura del concerto, an­ che per influenza degli esempi viennesi, tende sempre più ad inglobarsi nel più generale stile sinfonico ormai largamente prevalente. Per tornare ora alle origini di questo stile si può dire che le prime sinfonie da concerto distinte sia da quelle d’opera sia dai concerti solistici compaiono a Milano negli anni Trenta nell’ambiente allora dominato dalla figura di Giovanni Batti­ sta Sammartini (Milano 1700-75): sinfonie in tre tempi dotate di melodizzare piacevole non dimentico di esempi operistici, con raggruppamenti di frasi organizzati in funzione tematica, con l’ultimo tempo in forma di minuetto. A Vienna le sinfo­ nie da concerto scritte da autori locali come ad esempio Ma-

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thias Georg Monn compaiono attorno agli anni Quaranta. A Mannheim sotto la guida di Jan Vàclav Antonfn Stamitz (Némecky Brod 1717 - Mannheim 1757) si crea negli anni Qua­ ranta e Cinquanta un complesso orchestrale di straordinaria lucidità e prontezza che acquista ben presto fama europea e la fa acquistare al suo direttore e al suo mecenate, il principe Carlo Teodoro elettore del Palatinato. Le sinfonie di Stamitz e della scuola di Mannheim si erano imposte all’attenzione non solo per l’eccellenza degli esecutori ma anche per le novità della loro struttura formale e pèr certe caratteristiche come l’uso espressivo del «crescendo», che metteranno al centro dell’attenzione il nuovo problema della sonorità orchestrale. In Inghilterra il genere sinfonico arriva agli inizi degli anni Sessanta soprattutto per la presenza di Jo­ hann Christian Bach (Lipsia 1735 - Londra 1782) che non so­ lo vi acquistò fama di compositore elegantissimo, ma vi lavorò in qualità di organizzatore presentandovi stagioni concertistiche di alto livello e di tendenze moderne. A un livello intermedio fra lo stile alto della sinfonia e lo stile piu intimo e riservato della sonata si colloca, infine, una vasta area di composizioni per piccoli gruppi strumentali le cui origini possono essere piu o meno rigidamente ricondotte alla tradizione della Sonata a due o a tre dell’epoca barocca. I generi che negli ultimi decenni del secolo emergeranno con maggiore decisione da questo insieme di esperienze saranno il quartetto per archi (2 violini, viola e violoncello) e la sonata per pianoforte e violino (o violoncello) nonché altri insiemi apparentati con questi come i trii con o senza pianoforte. Il processo di trasformazione formale è analogo a quello che ha luogo nella sonata per cembalo e nella sinfonia. Qui tuttavia il punto caratteristico è determinato dal mutamento di fun­ zioni assunto dagli strumenti. Ad esempio il violoncello deve prima perdere il suo ruolo di basso continuo e poi recuperare una nuova capacità di entrare in dialogo paritario con gli altri strumenti della compagine. Il cembalo può a sua volta sceglie­ re due strade diverse: o scomparire dal contesto (dov’esso, co­ me il violoncello, aveva funzioni di basso continuo) e aprire la possibilità di sperimentare sonorità per soli archi, oppure, al contrario, diventare esso stesso strumento trainante in quan­ to già dotato di una propria letteratura sonatistica e dar luogo a una singolare letteratura per amatori in cui il violino o, piu raramente, il violoncello avevano il compito di raddoppiare qualche parte dello strumento a tastiera solo raramente inter­

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venendo con figurazioni proprie. Le sonate per pianoforte «accompagnato» da uno strumento ad arco scompaiono tutta­ via negli ultimi anni del secolo. Fra i vari compositori di musiche da camera, ma anche di concerti e sinfonie composte secondo il nuovo stile che emer­ ge a poco a poco dall’Europa «galante», un posto di particola­ re rilievo spetta a Luigi Boccherini (Lucca 1743 - Madrid 1805) non solo Per sua attività internazionale che lo vide ammiratissimo esecutore di violoncello e fondatore (con Pie­ tro Nardini, Filippo Manfredi e Giovanni Giuseppe Cambini) di uno dei primi quartetti stabili della storia musicale euro­ pea ma anche per la complessità della sua invenzione in cui si mescolano non incoerentemente modelli sammartiniani con ricordi del concerto di tradizione barocca, cantabilità da ope­ ra napoletana con aspetti di stile Empfindsamer e persino con memorie di musica popolare spagnola. Una analoga molteplicità di indirizzi stilistici è ampiamente presente anche in altri autori fino agli ultimi decenni del seco­ lo e anche dopo che la tradizione tardo barocca gradualmente e definitivamente scompare. Quelle tendenze che la musico­ logia del Novecento ha definito come « stile classico » non su­ bentrano direttamente ai modelli barocchi, ma si affermano a poco a poco man mano che ci si avvicina alla fine del Sette­ cento, soprattutto per effetto del fascino esercitato dai grandi esempi di Haydn e poco piu tardi di Mozart. I diversi elementi che entrano nello «stile classico» sono già presenti singolarmente fin dal ventennio ’30-50, ma il se­ greto della loro fusione comincia a emergere solo a partire da alcune composizioni haydniane degli anni Sessanta e poi a dif­ fondersi su larga scala dal decennio successivo sull’onda del successo dello stesso Haydn e del giovane Mozart. Sono que­ sti poli di attrazione che assorbono a poco a poco le divergen­ ze e si affermano infine come modelli capaci di unificare e sin­ tetizzare spinte diverse. Alla base della sintesi «classica» sta la quantità di modelli stilistici e di tradizioni di genere che la civiltà musicale del Settecento seppe valorizzare: oltre ad avere dietro le spalle la grande scuola contrappuntistica della tradizione, che nono­ stante le «semplificazioni» galanti continuava a esistere ed era ancora fiorentissima per esempio nel campo della musica sacra, ogni musicista del Settecento aveva a disposizione espe­ rienze espressive diverse: quelle piu antiche del concerto, del­ la sinfonia e del virtuosismo strumentale, quelle più intime dei

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generi da camera, e soprattutto quelle straordinariamente ric­ che della musica teatrale; senza contare il fatto che una in­ stancabile circolazione di prodotti e di idee metteva continuamente a contatto tradizioni locali diverse ciascuna delle quali aveva elaborato risorse tecniche e strumenti espressivi parti­ colari. Vienna e le terre dell’impero austriaco erano il centro forse piu attivo di questi scambi e lo stile dei musicisti che operavano in quel mondo di sofisticata cultura nobiliare dove­ va tener conto del livello delle conoscenze circolanti e delle relative esigenze di gusto. Non si trattava dunque di compor­ re musiche facili per amatori, ma di sollecitare orecchie esper­ te e capaci di apprezzare le sfumature. La dizione di «stile classico» si applica soprattutto alle mu­ siche strumentali e in particolare ai nuovi generi della sonata, della sinfonia, del quartetto; ma la presenza di tratti solistici desunti dalle musiche teatrali vi gioca un ruolo determinante. Quest’ultimo non è un aspetto inedito: basta pensare alla «cantabilità» degli adagi di Corelli, alle facoltà descrittive dei concerti di Vivaldi, o ai «recitativi» strumentali delle Sonate di Cari Philipp Emanuel Bach, ma in questo caso la «dram­ matizzazione» avviene con una ben diversa varietà di stru­ menti espressivi e sistematicità di concezione. Si può dunque affermare che la disinvolta utilizzazione di un’ampia gamma di soluzioni tecniche tratte dai diversi modelli musicali in cir­ colazione costituisca il materiale di base dello stile classico e che la capacità, tipicamente e sottilmente drammaturgica, di caratterizzare situazioni e di creare e sciogliere tensioni ne co­ stituisca lo sfondo segreto e la vitalità interna. Un esempio significativo di questo modo di procedere è co­ stituito dal disegno globale di una composizione classica, cioè dall’alternanza dei tre o quattro movimenti o tempi che vi si trovano. La pura e semplice alternanza di tempi veloci e lenti esisteva anche prima, nella suite, nel concerto, nella sinfonia d'opera, ma qui oltre all’alternanza dei tempi, che serve a dare varietà, c’è una sorta di connessione dialettica fra essi: in ge­ nere il primo (un allegro) è il più ricco di tensioni e contrasti con i quali una sonata settecentesca non può concludersi, pe­ na la rinuncia a un lieto fine (o perlomeno a un fine non trop­ po sospeso) che l’epoca sentiva come obbligatorio. La letizia finale arriva con il terzo tempo (che è un tempo di danza; di solito un minuetto), ma è procrastinata o fatta attendere dal secondo (un adagio) che di solito ha carattere riflessivo, e cer­ tamente non cosi risolutivo da poter sciogliere i nodi prece­

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dentemente posti. Quando un quarto tempo esiste è assai piu vivace del minuetto che lo precede: non si accontenta della se­ renità ricomposta ma aggiunge a questa la funzione retorica del finale trascinante. L’esempio piu tipico degli schemi di tensione «drammatur­ gica» che animano lo stile classico è quello del primo dei tre o quattro movimenti indicati. Il termine con cui si indica la struttura costruttiva allegro iniziale di una composizione di stile classico è quello forma-sonata. Questa singolare di­ zione, ormai entrata nell’uso, può prestarsi a equivoci termi­ nologici: infatti la forma-sonata non va confusa con la sonata. Con quest’ultimo termine si intende infatti una composi­ zione in tre o quattro movimenti per uno strumento a tastiera (clavicembalo o pianoforte) o eventualmente anche per due strumenti, come nel caso di una sonata per violino e pianofor­ te; con l’altro si intende invece lo schema costruttivo (la/ora^ appunto) dell’allegro iniziale. Per di più lo stesso termine di forma-sonata non indica solo la forma di un allegro di sonata, ma anche dell’allegro iniziale di un quartetto o di un trio o di una sinfonia. Il concetto iniziale di forma prevede anzitutto una suddivi­ sione in parti: la forma di un qualsiasi brano musicale infatti altro non indica di solito che la successione delle parti di cui il brano si compone. Nel caso di un brano composto secondo gli schemi della forma-sonata l’indicazione delle parti può diventare però pro­ blematica: esiste sempre all’inizio una sezione che prende il nome di esposizione in cui vengono enunciati i temi su cui la composizione si basa e questa sezione viene ripetuta due vol­ te: è infatti conclusa di solito da un segno di ritornello (o da capo). Essa è inoltre caratterizzata dal fatto di iniziare in una determinante tonalità ma di concludersi in una determinata tonalità, che di norma è quella della dominante, che si trova al quinto grado superiore rispetto all’impianto iniziale. AH’esposizione segue una successiva parte per così dire di ritorno, che riconduce la composizione alla tonalità di partenza dove essa conclude senza ulteriori segni di ritornello. Se ci si attiene a questa descrizione la forma sonata è divisa dunque in due parti. Tuttavia la parte di ritorno può essere in­ tesa come formata a sua volta da due sezioni la prima delle quali, detta sviluppo, riprende ed elabora i temi dell’esposizio­ ne modificandoli e facendoli passare attraverso tonalità diver­ se e la seconda, detta ripresa, riannuncia per intero l’esposi­

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zione senza tuttavia cambiare tonalità, cioè riesponendo tutti i temi nella tonalità dell’impianto iniziale. Se dunque si tiene conto della suddivisione interna fra sviluppo e ripresa, la for­ ma sonata risulta essere tripartita. L’ambiguità fra bipartizio­ ne e tripartizione non è questione puramente accademica. E storica anzitutto, nel senso che schemi bipartiti dotati di un itinerario tonale simile si trovavano anche in forme preceden­ ti come i movimenti di danza nella suite o le sonate di Scarlat­ ti, mentre schemi tripartiti con la ripresa integrale della prima parte caratterizzano le arie d’opera. E legare le fonti origina­ rie della sonata a un modello piuttosto che a un altro può dare luogo a interpretazioni diverse nella sostanza. Ben di piu, se come è implicito nell’idea della tripartizione, si considera l’i­ nizio della ripresa come un momento chiave, una sorta di ca­ tarsi liberatoria dopo le avventure imprevedibili dello svilup­ po, allora la forma acquista un senso eminentemente dramma­ tico; se invece la ripresa è considerata semplicemente come sottosezione di una seconda parte a cui si attribuisce una so­ stanziale unità e continuità, allora il ritorno alla tonalità ini­ ziale ha il senso, retoricamente necessario ma meno impegna­ tivo, della pura e semplice conclusione. Ciò accadeva ad esempio nelle sonate di Scarlatti. L’ambiguità non si risolve in astratto, ma caso per caso: esistono infatti allegri di sonata o di sinfonia in cui la dramma­ ticità implicita nella forma è messa in particolare evidenza e altri in cui al compositore non interessava sottolinearla. Il problema degli aspetti drammatici della forma sonata non è dunque da riferire al suo schema, bensì al modo in cui questo schema viene utilizzato. E qui emerge in tutta la sua impor­ tanza il concetto musicale di tema. Con questo termine si indica di solito, e questo avveniva anche nelle epoche precedenti, un disegno musicale, una pro­ posta melodica che si trova all’inizio della composizione e che viene poi ripresa, elaborata, sviluppata; il tema dunque non serve solo come deposito implicito di idee future, come cellula germinale della composizione, ma anche come strumento atto a definire fin dall’inizio il carattere o l’affetto dell’intero bra­ no. Tali sono i temi nei concerti di Vivaldi o di Bach o anche nelle arie d’opera. Le stesse funzioni si conservano anche nello stile classico, ma vengono in parte giocate diversamente e in parte arricchi­ te di caratteristiche nuove. Da un lato, infatti, il tema «clas­ sico» non sempre è pura e semplice melodia ma è talvolta

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un’entità globale in cui elementi melodici, ritmici, armonici, di timbro, di tessitura, d’intensità, di peso sonoro convivono insieme fino a creare un’unità individuale, una sorta di «per­ sonalità» sonora che si impone per le sue caratteristiche in­ confondibili, e d’altro lato il tema iniziale non è l’unico nella composizione ma convive con altri temi con i quali si alterna, si contrappone e comunque entra in rapporto. L’arte di defi­ nire un personaggio nelle sue caratteristiche salienti, cosi co­ me quella di descrivere dialoghi o contrapposizioni è eminen­ temente teatrale, ma trova applicazioni anche in quella specie di teatro muto che è la forma-sonata. Ma quest’ultima si arric­ chisce anche di altre caratteristiche descrittive: si tratta, ad esempio, dei passaggi fra una situazione e l’altra (degli episodi di transizione) oppure degli episodi che servono a concludere una situazione, le cosiddette code o codette intese come segni di chiusura, ma soprattutto degli episodi in cui un tema viene elaborato, trasformato, sviscerato nelle sue possibili implicite conseguenze. Quest’ultimo tipo di tecnica, peraltro già appli­ cato in modi diversi anche dalla musica barocca, prende il no­ me di sviluppo e si trova sia generalmente nel corso della com­ posizione, sia soprattutto in quella particolare sezione del bra­ no che, quasi per antonomasia, di sviluppo ha preso appunto il nome. Quando questo assume dimensioni ampie e caratteriz­ zazioni particolarmente drammatiche allora acquista una fun­ zione centrale nella forma sonata: è il momento traumatico delle incertezze, delle tensioni, della perdita di stabilità, i cui effetti si proiettano, come prima accennavamo, sulla sezione della ripresa che allora acquista funzioni di stabilità raggiunta e di approdo finale. Quanto al numero e al carattere dei temi che compaiono nella forma-sonata, le varietà sono molte. In taluni casi piu che di temi singoli si può parlare di gruppi tematici, nel senso che le varie idee musicali che si susseguono non hanno carat­ terizzazioni cosi drastiche da imporre decisamente qualcuna di esse su tutte le altre. In altri casi invece la forma-sonata gio­ ca esplicitamente sulla caratterizzazione di due temi contrap­ posti uno dei quali ha spesso natura più aggressiva e l’altro più dolce. In altri casi ancora il compositore può scegliere temi vo­ lutamente simili in modo da annullare le contrapposizioni e da caratterizzare il brano in maniera più compatta e unitaria. La forma bitematica è comunque quella più diffusa anche perché meglio si presta a creare tensioni, transizioni, svolgimenti, cioè a favorire gli elementi più caratteristici del nuovo stile.

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Della natura implicitamente drammaturgica della formasonata i musicisti e gli autori del Settecento erano perfetta­ mente consapevoli: c’è chi addirittura la descrive nei termini di una sorta di narrazione in musica. Meno prescrittivi erano invece sul piano della descrizione delle sue strutture formali. È solo fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo successivo che teorici come Carl Czerny e Adolph Bernhard Marx ten­ dono, per ragioni di opportunità didattica, a descrivere la for­ ma sonata secondo quegli schemi rigidi che poi sono passati nella trattatistica scolastica dove si sono conservati fino ai no­ stri giorni. [mb]

4. Il classicismo viennese: Joseph Haydn e Wolfgang Ama­ deus Mozart. Per una settantina d’anni, cioè dal periodo della prima ma­ turità di Haydn e della nascita di Mozart (1736) fino a quello della morte di Beethoven e di Schubert (rispettivamente 1827 e 1828) l’Austria, e in particolare Vienna, è uno dei centri eu­ ropei più fecondi di attività e di iniziative, più ricchi di straor­ dinari talenti creativi. Le grandi tradizioni già in atto fin dal Seicento, la solidità della sua scuola, la favorevole posizione di punto di mediazione fra la civiltà musicale italiana e quella te­ desca, la presenza di personaggi prestigiosi come Pietro Metastasio, la vivacità del suo mondo intellettuale testimoniata nel periodo delle sperimentazioni di Durazzo e di Gluck, costitui­ scono il retroterra privilegiato di questa fioritura di talenti. A dire il vero Joseph Haydn (Rohrau 1732 - Vienna 1809) si stabili nella capitale solo in tarda età, negli anni Novanta, dopo aver passato tutta la prima parte della sua vita in provin­ cia, ma tale era già la sua fama negli ambienti viennesi che la sua presenza personale non fu che il coronamento di una pre­ senza ideale ormai stabile e ben fondata. A Vienna egli aveva tuttavia iniziato la sua vita di musicista quando, all’età di otto anni, fu arruolato come ragazzo cantore nel Duomo di Santo Stefano, dal quale peraltro fu licenziato senza mezzi termini quando nove anni dopo entrò nel periodo della muta di voce. Di vera e propria carriera non si può dunque parlare a quell’e­ poca, tanto più che l’istruzione allora ricevuta fu del tutto ele­ mentare, sia sul piano della cultura generale sia su quello più strettamente musicale. La sua educazione avvenne soprattut­ to sotto la guida del musicista napoletano Nicola Porpora che

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lavorava a Vienna e che, avendo intuito le non comuni doti del giovane, lo prese sotto la sua protezione e lo introdusse poi negli ambienti giusti in qualità di maestro privato e di compositore. Negli ultimi anni Cinquanta troviamo cosi Haydn al servizio di cospicue famiglie nobili e nel 1761 alle dipendenze, come vice-maestro di cappella, del principe Pài Antal Esterhàzy che era l’erede di una delle piu antiche, ric­ che e autorevoli dinastie di tutto l’impero austro ungarico. Le composizioni di questo periodo riflettono abbastanza fedelmente le tendenze di quegli anni nei due settori della musica sacra e della musica strumentale ai quali Haydn, per ragioni di servizio, si era soprattutto applicato, e il cui stile aveva assimilato con uno sforzo di esercizio in cui è assai pro­ babile che contassero piu le sue doti di autodidatta che non gli insegnamenti, peraltro provvidenziali, del suo maestro. In questo quadro entravano modelli italiani e viennesi: la tradi­ zione del concerto vivaldiano e post-vivaldiano, la tradizione sinfonica di Sammartini e dell’ouverture operistica, le musi­ che per cembalo di stile galante, le musiche d’intrattenimento per piccoli complessi strumentali, le musiche sacre della chie­ sa viennese eredi della maniera di Fux. E in questa area stili­ stica che si collocano le prime opere di Haydn, memori al tempo stesso dell’illustre tradizione barocca e delle tendenze più recenti che venivano emergendo in quegli anni. Si tratta delle primissime sinfonie, di divertimenti per clavicembalo o per gruppo strumentale, di una Messa breve. Nel 1762 mori Pài Antal e gli successe il fratello Miklós detto «il Magnifico», di cui Haydn rimase al servizio fino alla sua morte avvenuta nel 1790. Gli Esterhàzy risiedevano in un sontuoso castello ad Eisenstadt, vicino ai confini dell’Unghe­ ria, ma il magnifico Miklós, affascinato dall’esempio francese della reggia di Versailles, pensò bene di farsene costruire un altro ancora più grande e più splendido, in una zona non lon­ tana; fu rapidissimamente completato nel 1766 e, col nome di Esterhàza, divenne la residenza estiva della famiglia. In que­ sti palazzi, dotati al loro interno di teatri e sale da concerto, Haydn passò buona parte della sua vita alla guida di un’orche­ stra di cui divenne Kapellmeister effettivo quando proprio nel 1766 mori il suo predecessore. Sua era la responsabilità di tut­ ti gli avvenimenti musicali che si svolgevano in queste immen­ se regge, da quelli più occasionali per riti, feste, divertimenti o ricevimenti a quelli più impegnativi, come i settimanali con­ certi e gli allestimenti assai frequenti di opere, a quelli che

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interessavano direttamente e personalmente il principe, il quale, essendo un buon dilettante di «baryton» (una sorta di viola da gamba del tutto in disuso altrove, ma amatissima da quell’originale gentiluomo) si fece comporre dal suo maestro di cappella non meno di 120 trii per baryton, viola e violon­ cello. I primi vent’anni che Haydn passa al servizio del magnifico Miklós rappresentano una svolta decisiva per la musica del se­ colo. Nella solitudine apparente dei palazzi Esterhàzy, che se erano geograficamente isolati erano però culturalmente atti­ vissimi anche per la qualità e quantità degli ospiti che conti­ nuamente li frequentavano, Haydn era in realtà al centro del­ la situazione musicale europea e non si lasciava sfuggire l’im­ portanza delle voci piu significative della sua epoca. Né si li­ mitava semplicemente a registrarle, ma le faceva proprie e le sottometteva a una riflessione ed elaborazione del tutto origi­ nale. Cosi ad esempio le soluzioni espressive proposte da Cari Philipp Emanuel Bach diventano, fra il 1766 e il 1770, oggetto di una attenta sperimentazione personale evidentemente favo­ rita dalla curiosità e dall’apertura mentale del suo padrone e mecenate che gli lasciava la libertà di tentare strade nuove. La sessantina di sinfonie che egli compose in questi ven­ t’anni per il servizio principesco rappresenta il documento for­ se più significativo delle facoltà inventive del compositore. Dai primi esempi in cui la scrittura abbondava ancora di passi solistici che derivavano dall’incertezza di confini fra il concer­ to e la sinfonia, e in cui le strutture della forma-sonata si intra­ vedono in forma appena abbozzata, si passa a composizioni che debbono non poco alle suggestioni di origine nordica «sentimentale» nonché agli.esempi più significativi della nuo­ va drammaturgia gluckiana, e infine a casi in cui i modelli del­ lo stile classico, della individualità tematica, del contrasto fra episodi, della sinfonia come avventura narrativa, sono già chiaramente delineati. Nascono allora alcune opere che diven­ tano prontamente famose e la cui circolazione è favorita dagli editori che aggiungono sottotitoli accattivanti: Merkur, La Passioney Sinfonia degli addii, Maria Theresiay II maestro di scuo­ la y Laudon. Altrettanto avviene nel campo del quartetto. Fino ai sei quartetti opera 20 del 1772 Haydn non adotta il termine moderno, ma la più arcaica dizione di divertimento. In realtà questa raccolta delinea già in maniera del tutto matura lo stile del quartetto tardo settecentesco in cui i quattro strumenti, ormai resisi del tutto indipendenti dai modelli della sonata

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barocca, intrecciano fra loro quei dialoghi intimi che costitui­ scono la novità più eccitante e il fascino più sottile del nuovo genere musicale. Anzi, a sottolineare l’indipendenza reciproca delle quattro voci, Haydn non esita a introdurre alcuni tempi fugati che nel nuovo contesto e in assenza di basso continuo suonano in maniera radicalmente diversa dalle caratteristiche fughe dell’epoca passata. Un altro campo ricco di aperture verso il futuro è quello de­ le musiche per strumenti a tastiera. Sonatine, sonate, diverti­ menti per clavicembalo abbondano nella sua produzione, ma dalla fine degli anni Sessanta, quando il fortepiano (o piano­ forte) comincia ad affermare sia le sue possibilità tecniche, sia le sue capacità di diffusione commerciale, Haydn è fra i primi a dedicargli un’attenzione particolare. Nascono cosi le sonate dell’opera 13 e 14 in cui la tecnica pianistica comincia ad ac­ quistare una propria individualità e la forma classica a far va­ lere i propri diritti. A questo periodo appartengono anche opere sacre alcune delle quali di grandi proporzioni e di grandi ambizioni, come la Grosse Qrgelmesse (cosi detta per la sua parte di organo ob­ bligato) e la Cdcilienmesse (Messa di santa Cecilia). La musica ecclesiastica di quest’epoca non ha uno statuto definito e una­ nimemente accettato. La tradizione liturgica deve continuamente adattarsi alle regole e agli usi della prassi musicale pro­ fana, se vuole continuare a utilizzare la musica come strumen­ to di richiamo e di interesse popolare. Cosi alla schiera dei se­ veri sostenitori della necessità di rimanere fedeli allo stile an­ tico, si contrappone una larga liberalità nel concedere spazio a un gusto moderno impregnato di vena melodrammatica. In Italia queste due tendenze contrapposte erano rappresentate rispettivamente dalla «scuola» bolognese e da quella napole­ tana. A Bologna padre Giovanni Battista Martini (Bologna 1706-84), che era uno studioso e un teorico della musica sti­ mato in tutta Europa per la sua dottrina, dava alle stampe proprio in quegli anni (1774-75) il suo Esemplare, ossia Saggio fondamentale di contrappunto in cui pubblicava in partitura in­ numerevoli illustri esempi di stile severo da Palestrina in poi, con un dottissimo commento tecnico che serviva ad illustrare i principi ai quali ogni buon musicista di chiesa avrebbe dovu­ to attenersi. Dal canto suo la scuola napoletana, da Leo a Vin­ ci, a Pergolesi, allo stesso Hasse, aveva ampiamente diffuso un modello più appetibile e più spontaneamente accolto: il te­ sto sacro veniva suddiviso in parti ciascuna delle quali veniva

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musicata come aria o come duetto in uno stile non lontano da quello del melodramma o dell’oratorio o della cantata. Una messa di questo tipo viene infatti definita come messa-cantata. Il coro, da cui non si poteva prescindere perché era parte es­ senziale delle cappelle ecclesiastiche, interveniva in forme omoritmiche o anche in forme fugate, e questo era il punto di legame con l’antico stile severo. Nel momento in cui l’orche­ stra comincia ad acquistare maggior peso per l’importanza crescente della tradizione sinfonica e dello stile classico, an­ che questi nuovi elementi entrano a far parte del linguaggio complessivo della musica sacra. Le messe di Haydn corrispon­ dono appunto a questa fase di trasformazione che peraltro stava ampiamente diffondendosi nella cattolica Austria, so­ prattutto a Vienna e a Salisburgo. A una fase per certi versi analoga appartiene anche la pro­ duzione operistica haydniana. Quando infatti al gran Miklós passò pian piano la voglia di suonare il baryton, una nuova moda entrò con sempre maggiore invadenza nelle sale di Esterhàza e di Einsenstadt: quella delle rappresentazioni me­ lodrammatiche. Fra il 1775 e il 1785 Haydn dovette dedicarsi soprattutto a questa grande passione del suo principe, sia cu­ rando la revisione, l’adattamento e la messa in scena di opere altrui, sia componendone egli stesso. E a ritmo frenetico, se si pensa che negli anni più densi la media delle rappresentazioni annuali superava il centinaio. Ma l’orecchio esperto che tutti possedevano in quel musicalissimo ambiente non si acconten­ tava della vivacità delle azioni e della bellezza delle melodie; esigeva che la ricchezza d’idee e la pienezza di suono delle composizioni strumentali, e particolarmente del repertorio sinfonico, conferissero vivezza e densità di tessuto anche alla rappresentazione teatrale. E questa infatti una delle caratte­ ristiche più singolari e più nuove del teatro di Haydn, che non era per vocazione un drammaturgo, che non aveva il senso del teatro di Gluck o di Mozart, ma era certamente un musicista squisito e pieno di fantasia. Fra le molte opere da lui compo­ ste - quasi tutte opere comiche, genere prediletto dal magni­ fico mecenate - La cantarina, Lo speziale, L'infedeltà delusa, Il mondo della luna sono altrettanti esempi di questa versione «nobile» della tradizione buffa italiana. Verso il 1780 Haydn, che si lamentava di una sorte che lo costringeva a vivere «in campagna», era in realtà uno dei mu­ sicisti più famosi d’Europa. Boccherini gli scrive dalla Spagna nel 1781 esprimendogli tutta la sua devozione e ammirazione,

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più di un giornale in Inghilterra, in Germania, in Francia ave­ va pubblicato la sua biografia o sue memorie autobiografiche, per non parlare degli editori di musica che a Parigi, a Londra, ad Amsterdam, a Vienna si contendevano i diritti di stampare i suoi testi e spesso stampavano addirittura quelli altrui sotto suo nome per incrementare le vendite. Cominciano ad arri­ vargli anche lucrose commissioni come quella della Cattedrale di Cadice che nel 1785 gli chiede sette Adagi per orchestra da intermezzare ai sermoni del tempo di Pasqua (Musica instrumentale sopra le sette parole del Redentore sulla croce). Negli stessi anni la Loggia Olimpica massonica di Parigi, che aveva creato una delle numerose associazioni concertistiche della ca­ pitale francese, gli ordina nuove composizioni: nascono cosi le 11 Sinfonie cosiddette parigine (dalla 82 alla 92 del suo cata­ logo) alcune delle quali, come quelle denominate L’ours e La poule, sono fra le sue invenzioni più memorabili. Persino un personaggio non certo culturalmente raffinato come Ferdi­ nando IV re di Napoli, a cui piaceva molto il suono della «lira organizzata» (una sorta di ghironda a cui erano applicate can­ ne d’organo), gli commissiona composizioni per questo stru­ mento e Haydn gli manda cinque concerti e otto notturni per lira organizzata e orchestra da camera. Quando nel 1790 muore il suo grande mecenate egli si tro­ va finalmente libero di se stesso e si trasferisce a Vienna; ini­ zia cosi per il musicista quasi sessantenne una nuova vita e una nuova carriera i cui punti culminanti coincidono con due trionfali viaggi compiuti a Londra per invito dell’impresario Johann Peter Salomon, nel secondo dei quali ottiene addirit­ tura la laurea «honoris causa» all’Università di Oxford. Per la società concertistica di Salomon, che aveva a disposizione una orchestra di più di sessanta elementi, quasi il triplo di quella di cui Haydn disponeva a Estarhàza (che era peraltro per­ fettamente adatta alle dimensioni di una sala da musica di pa­ lazzo) Haydn compose le sue ultime dodici sinfonie: sei per il primo viaggio del 1791-92 e sei per l’altro del 1794-95. Agli anni Novanta risalgono anche gli ultimi venti quartetti e le ultime quattro sonate per pianoforte con cui si conclude un’avventura stilistica durata mezzo secolo. In tutte queste opere strumentali estreme la duttilità e la sottigliezza con cui Haydn maneggia gli strumenti della forma «classica» e la ric­ chezza di allusioni e di significati che sa trarre da questa tec­ nica d’espressione che egli stesso aveva fondamentalmente creato, gli permettono di giocare a suo piacimento con le atte­

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se e le previsioni d’ascolto del pubblico, ora sorprendendolo col carattere inatteso di un tema (e spesso si tratta di temi in cui emergono memorie di sonorità e ritmi della vecchia Au­ stria popolare stilizzati dalle raffinatissime abitudini di palaz­ zo), ora con un impasto timbrico inusuale, ora fingendo per­ corsi e direzioni che poi si rivelano ingannevoli, ora mettendo in atto forme di distacco autoironico ora invece abbandonan­ dosi esplicitamente alla propria vena drammatica o malinco­ nica. E insomma un intero mondo di atteggiamenti psicologi­ ci, di stati d’animo, di dialoghi a cui le premesse strutturali e «drammaturgiche» della forma-classica offrono risorse espressive di straordinaria vivezza. Ma gli ultimi anni viennesi offrono al musicista prospettive nuove: anzitutto dovute alla diffusa conoscenza dei capolavo­ ri mozartiani che avevano dato agli stessi problemi di forma soluzioni diverse e originali che ora funzionavano da stimolo per la inesausta creatività del vecchio Haydn, ma anche dovu­ te alla presenza di un mondo culturale ricco, attento, aperto alle novità e certamente meno esclusivo di quello della corte degli Esterhàzy. Cosi ad esempio dalla cerchia intellettuale del barone Gottfried van Swieten, entusiasta sostenitore del­ le opere di Hàndel e di Johann Sebastian Bach, viene il sugge­ rimento di comporne un grande oratorio sulla scia della tradi­ zione hàndeliana, apprezzata peraltro anche da Haydn stesso nel corso dei suoi viaggi londinesi. Nascono cosi Die Schopfung (La creazione, 1798) e Die Jahreszeiten (Le stagioni, 1801) in cui il musicista affronta tematiche musicalmente e cultural­ mente nuove: quella implicitamente romantica del recupero del passato storico, e sia pure di un passato abbastanza recen­ te, quella altrettanto significativamente «moderna» del rap­ porto primordiale e ingenuo dell’uomo con la natura, e persi­ no quella dei poteri descrittivi della musica che nelle prece­ denti creazioni era rimasta sempre aristocraticamente impli­ cita, anche se non assente, e che qui viene messa in atto con un abbandono confidenziale e con una cordialità comunicati­ va che solo in tempi nuovi e in ambienti nuovi ora Haydn po­ teva permettersi. Il panorama dei generi e degli stili musicali che Haydn co­ nobbe in Austria intorno al 1750 agli inizi della sua carriera, non era sostanzialmente diverso da quello che Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo 1756 - Vienna 1791) trovò in­ torno a sé quando precocissimo, all’età di sei, sette anni, co­ minciò ad apprendere il mestiere di compositore sotto la gui­

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da del padre. Da questo punto di vista Haydn e Mozart pos­ sono essere considerati come sostanzialmente contemporanei. Assai diversi invece erano i loro ritmi di sviluppo e i loro tem­ peramenti e altrettanto diverse furono le condizioni sociali di partenza. Nello stesso anno della nascita di Wolfgang, suo pa­ dre Leopold, che aveva frequentato l’Università di Salisburgo ed era poi diventato vice-maestro di cappella del vescovoprincipe di quella città, aveva dato alle stampe un trattato di violino che ottenne poi grande fama in Europa e fu tradotto in varie lingue. Non gli fu difficile dunque rendersi conto im­ mediatamente delle straordinarie doti che il piccolo figlio di­ mostrava di possedere e provvide ben presto non solo a edu­ carle professionalmente, ma addirittura a sfruttarle economi­ camente. Dopo alcune esibizioni a Vienna e in altre città non lontane, 8 l’intera famiglia Mozart, di cui oltre ai genitori faceva parte anche la sorella Maria Anna (la N anneri che Mozart tanto spesso cita nelle sue lettere) nata cinque anni prima e anch’essa precoce musicista, parti per un lungo avventuroso viaggio che durò tre anni e toccò le più importanti città dell’Europa setten­ trionale, comprese Parigi e Londra. C’è da credere che la salu­ te del bambino non ne riportasse grandi vantaggi (c’è anzi chi pensa che a queste fatiche si debbano la gracilità e le malattie di cui Mozart sofferse nella sua breve esistenza) e forse abba­ stanza superficiali e certamente effimeri furono il successo e la fama che arrisero al bambino prodigio. Niente affatto superfi­ ciali furono invece le esperienze musicali che egli potè fare nel corso di questi viaggi. Al suo ritorno, nel 1766 all’età di dieci anni, si può dire che egli già possedesse per conoscenza diretta un’idea precisa di tutto ciò che si faceva in Europa nel campo della musica strumentale, vocale e sacra. Dopo due anni di studio e di tranquillità (ma anche di lavo­ ro intenso se si pensa che nel 1769 fu eseguita a Salisburgo la sua Finta semplice), Wolfgang riparte, accompagnato dal pa­ dre, per un’altra lunga visita in Italia, dove rimane fino al 1771. Questa volta non si trattava più di portare per il mondo un prodigio capace di suonare, di comporre, di improvvisare a un’età in cui gli altri bambini sanno a malapena leggere e scrivere. La cosa era più seria: si trattava di iniziare ora una vera e propria carriera di compositore, di compositore d’opera nel paese d’origine dell’opera, magari sfruttando ancora i van­ taggi della precocità, ma soprattutto cercando di affermare le doti ormai professionali. Anche in questo caso le esperienze

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musicali e gli incontri importanti non mancarono. Come an­ ni prima, a Londra, aveva preso lezioni da Johann Christian Bach, cosi ora a Bologna fa pratica di stile severo con padre Martini, a Roma ha occasione di ascoltare dal vivo le vecchie composizioni polifoniche ancora in uso, a Napoli approda nel­ la patria d’origine dello stile più diffuso in Europa, a Milano fa esperienza diretta della tradizione sinfonica e cameristica sammartiniana. Ma ottiene anche risultati più tangibili, come le due esecuzioni milanesi del Mitridate, nel 1770, e delTZsc^niò in Alba l’anno successivo, entrambe coronate da calorosi successi. La morte dell’arcivescovo di Salisburgo, che con la sua be­ nevolenza verso la famiglia Mozart aveva permesso i viaggi degli anni precedenti, cambia le condizioni di vita di padre e figlio. Il giovane Mozart riceve uno stipendio di Konzertmeister per il suo servizio a Salisburgo, ma il nuovo vescovo con­ te Colloredo non è uomo tollerante come il suo predecessore. Non è di idee tradizionaliste, ma è di principi estremamente rigidi. E Mozart, che amava i rapporti umani semplici e viva­ ci, che era sempre stato abituato a venire ammirato per le sue doti fuori del comune, che non aveva mai sviluppato partico­ lari capacità pratiche, anche perché il padre le aveva sempre messe in atto per lui, si trovò abbastanza presto a disagio nell’affrontare le intransigenze del nuovo padrone. Nell’estate del ’73 comunque padre e figlio possono di nuovo allontanarsi da Salisburgo e, alla ricerca di occasioni di lavoro, si recano ancora a Vienna. La ricerca non approda a nulla, ma nella ca­ pitale Mozart ha la possibilità di prendere conoscenza delle prime opere della maturità di Haydn, soprattutto quartetti e sinfonie che lo colpiscono profondamente tanto da lasciare tracce immediate nella sua produzione di quei mesi. Si potrebbe simbolicamente affermare che questo incontro con i primi esempi di stile classico porta definitivamente a compimento il suo periodo di apprendistato. Fra il 1773 e il 1774 (ossia fra i diciassette e i diciotto anni) entra ormai in una fase di piena maturità artistica; nei dieci anni precedenti non solo ha conosciuto tutti gli stili della sua epoca, ma li ha messi in atto egli stesso in una quantità incredibile di compo­ sizioni di tutti i generi: certamente più di duecento, anche se le opere del 1773 portano numeri di catalogo che si aggirano fra il K 160 e il K 180. (Va detto che la sigla K che precede la numerazione in ordine tendenzialmente cronologico delle

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opere di Mozart, deriva dal nome di Ludwig von Kóchel che nel 1862 pubblicò un primo fondamentale catalogo poi più volte riveduto nel corso del Novecento). Fra l’autunno del 1773 e la primavera del 1774 compone a Salisburgo cinque sinfonie (fra le quali la Sinfonia in sol minore K 183) in cui la concisione della forma, la qualità e la ricchez­ za delle idee, la disinvolta scioltezza nell’uso delle tecniche del linguaggio «classico» non lasciano dubbi su una sigla di originalità ormai inconfondibile. Altrettanto avviene con le cinque sonate per pianoforte composte un anno dopo, fra la fine del ’74 e l’inizio del ’75. Anche in questo campo Mozart si dimostra all’altezza dei tempi: le prime sonate francamente pianistiche di Haydn risalgono alla fine degli anni Sessanta, la raccolta delle Sonate opera 1 di Clementi è pubblicata a Lon­ dra nel 1771. Questi esempi di Mozart in cui l’uso del piano­ forte (come avviene soprattutto nella Sonata K 284) non è or­ mai più intercambiabile con quello del clavicembalo, costitui­ scono altrettante pietre miliari nella fortunatissima storia del genere della sonata pianistica. Negli stessi anni, fra il 1773 e il 1776, Mozart lavora intensamente anche per la Cattedrale di Salisburgo per la quale compone una decina di messe e altri pezzi sacri. Le opere comunque più significative, quelle in cui il ventenne Mozart lascia un segno profondo, capace di fon­ dare una nuova tradizione, di creare un genere musicale fino a quel momento privo di una consistenza qualitativa determi­ nante, sono i tre concerti per pianoforte e orchestra composti fra il ’76 e il ’77, e in particolare l’ultimo (K 271 in mi bemol­ le) scritto per la pianista francese Jeunehomme. In questi con­ certi Mozart non solo mette in campo uno splendore affasci­ nante di idee tematiche e originali tecniche pianistiche, ma disegna un modello di dialogo fra il pianoforte e l’orchestra che aggiunge un elemento nuovo e fecondo a quegli aspetti di «drammatizzazione» formale che lo stile classico veniva ela­ borando. La contrapposizione fra l’individualità del pianofor­ te e gli echi, le amplificazioni, le risonanze collettive dell’or­ chestra, i conflitti, le tensioni, le pacificazioni che ne risulta­ no, sono dirette creazioni della fantasia mozartiana. Ma nel 1777 accade il primo incidente serio con l’arcive­ scovo Colloredo al quale il musicista aveva chiesto una licenza per recarsi in Italia. La licenza non viene concessa e Mozart decide allora di rinunciare al posto fisso presso la cattedrale e di cercare altrove migliori occasioni di lavoro. Parte cosi per un nuovo viaggio europeo che lo conduce a Monaco, a Mann-

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heim, ad Augusta e ancora una volta a Parigi; e parte in que­ sto caso senza l’appoggio paterno, ma solo in compagnia della madre che non era certo in grado di consigliarlo nelle sue scel­ te professionali e nei suoi contatti personali, e che per di più nel corso del soggiorno parigino si ammalò gravemente e mori con grande disperazione del figlio. Ma al di là dell’episodio tragico di questa scomparsa, si può dire che l’intero viaggio del ventiduenne musicista sia stato caratterizzato dall’incon­ tro con una realtà che presentava per la prima volta a Mozart un volto duro anche se talora affascinante: un flirt finito male con la giovane cantante Aloysia Weber, figlia di un violinista dell’orchestra di Mannheim (di cui poi Mozart sposerà cinque anni dopo l’altra figlia Constanze), il successo senza eccessivi calori di una sua sinfonia presentata ai «Concerts spirituels», qualche contatto con editori, rapporti stimolanti col vivo mondo culturale parigino, tentativi di aiuto da parte di amici influenti come il grande coreografo Noverre e Johann Chri­ stian Bach, ma entrate economiche non certo in grado di pa­ gare le grandi spese del viaggio, richiami irritati del padre da Salisburgo e infine ritorno deluso nella città natale dove Mo­ zart si rassegna ad accettare dal Colloredo un nuovo incarico di organista (1779). Gli ultimi anni di Salisburgo, da dove si allontanerà defini­ tivamente nel 1781, sono contraddistinti da un continuo flus­ so di produzioni musicali che Mozart scriveva con accurato scrupolo artigianale, ma anche dietro la sollecitazione di un diletto e di un interesse che avevano quasi il carattere della necessità fisiologica. Questo periodo creativo è coronato dalla composizione deO* Idotneneo che va in scena al teatro di corte di Monaco di Baviera nel gennaio del 1781. L’impianto dram­ matico è quello classico dell’opera seria metastasiana, ma la presenza di grandi recitativi accompagnati, di cori, di musiche potentemente descrittive, di scene di ballo, denuncia sugge­ stioni evidenti di drammaturgia alla francese e soprattutto di teatro gluckiano riformato. Mozart non aveva però le ambi­ zioni del riformatore, gli mancava la vocazione programmati­ ca, il gusto del gesto volontaristico e intellettuale di chi si pro­ pone di cambiare i codici di ricezione dell’opera d’arte. L’esu­ beranza di fantasia e la straordinaria capacità di trovare le so­ luzioni tecniche adatte per tradurla in forme sonore otteneva di fatto risultati nuovi senza bisogno di proporseli come sco­ po. Cosi neWIdomeneo ciò che colpisce è la ricchezza e la den­ sità del linguaggio e al tempo stesso la capacità, tipica del

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grande uomo di teatro, di sbalzare con precisione il profilo psicologico dei personaggi e di definire senza ambiguità la so­ stanza delle situazioni. Nel 1881 in occasione della morte dell’imperatrice Maria Teresa l’arcivescovo Colloredo si recò a Vienna con il suo se­ guito di cui anche Mozart faceva parte. Qui nei ritagli di tem­ po che si poteva concedere suonava e faceva sentire le sue composizioni in case nobili e in teatri dov’era accolto sempre benevolmente e spesso entusiasticamente. Da parte sua il Col­ loredo non vedeva di buon occhio le uscite del suo dipendente e tendeva a strìngere i freni. Per contro Mozart era sempre più allettato dall’idea di «mettersi in proprio» e tentare l’av­ ventura del libero professionista. Il 3 aprile scriveva al padre: «Immaginate che cosa potrei fare, ora che il pubblico mi co­ nosce, se dessi un concerto per conto mio? » E il 9 maggio gli dava la grande notizia: «La mia pazienza è stata messa a dura prova per molto tempo e alla fine è scoppiata. Non ho più l’e­ norme sventura di essere al servizio salisburghese. Oggi è sta­ to il giorno più felice della mia vita». Inutili risultarono i ten­ tativi di Leopold per cercare di sanare la situazione. Nel giu­ gno Mozart era ormai libero da contratti di dipendenza. Nella produzione mozartiana degli ultimi dieci anni ci sono segni evidenti del suo cambiamento di status. Diminuiscono ad esempio le produzioni di musica sacra. Gli ultimi brani di questo tipo sono il Kyrie in re minore e il frammento di Afessd in do minore composti tra l’8i e 1’83, entrambi scritti in uno stile denso e sublime che riflette certamente più le accensioni drammatiche della fantasia dell’autore che non le necessità strette del servizio liturgico; e negli ultimi anni di vita l’Ave verum del 1791 e il Requiem che rimase incompiuto sul letto di morte e che suscitò romanzesche fantasie a proposito del suo misterioso committente. Per contro si intensifica la pro­ duzione dei concerti per pianoforte o orchestra che raggiun­ gono le ventina, quasi tutti composti fra il 1782 e il 1786 cioè negli anni di maggiore successo e di maggiore richiesta delle esibizioni solistiche dell’autore. Parallelamente si riducono le serenate, i divertimenti e le altre musiche di corte nel cui ge­ nere peraltro il musicista aveva offerto prove di insuperabile eleganza come la Serenata Haffner del 1776. Gli esempi degli anni Ottanta sono pochi ma tutti di grandissima qualità, co­ me le tre serenate per strumenti a fiato o la famosa Eine kleine Nachtmusik. Nei primi quattro o cinque anni del suo nuovo soggiorno

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viennese, i suoi rapporti con l’aristocrazia e con Fimprendito­ ria musicale sono buoni e fruttiferi. Suona ed improvvisa assai spesso in case ed in sale da concerto, pubblica un buon nume­ ro di opere, ha parecchi allievi privati, frequenta il bel mon­ do, incontra Haydn che si esprime entusiasticamente nei suoi riguardi e al quale dedica un gruppo di sei quartetti che suo­ navano al tempo stesso come omaggio all’autorevole maestro e come irrefrenabile testimonianza della originalità mozartia­ na, incontra Lorenzo Da Ponte con il quale instaura una stret­ ta ed amichevole collaborazione per i libretti delle sue opere e frequenta anche la casa del barone van Swieten che lo riem­ pie di appassionato entusiasmo per lo studio delle opere di Bach e di Hàndel. E nel 1785 entra nella massoneria, a cui ap­ parteneva allora non solo Van Swieten, ma gran parte del mondo intellettuale viennese. Il successo e le amicizie di que­ gli anni erano stati certamente favoriti dalla fortunata esecu­ zione del Ratto dal serraglio che avvenne nel 1882 in quel Burg-Theater che l’imperatore Giuseppe II aveva voluto con­ sacrare esplicitamente alle esecuzioni del Singspiel, vale a dire di commedie con musica sul tipo di quegli opera-comiques che erano stati importati dalla Francia e fatti conoscere a Vienna alcuni decenni prima. Il racconto, popolare e fantastico, avve­ niva in lingua tedesca ed era intermezzato da brani di musica, e ciò suscitava interessi particolarmente accesi non solo nel pubblico popolare ma anche nei circoli intellettuali che vede­ vano in questo tipo di spettacolo il possibile germe di una fu­ tura opera nazionale tedesca. Durante la composizione dell’opera, Mozart chiese ed ot­ tenne dall’impresario tutte quelle modifiche al libretto che egli riteneva necessarie per realizzare la sua idea drammatur­ gica: «Egli sta arrangiando il libretto per me, - scrive il musi­ cista in una sua lettera - e ciò che è importante, come lo vo­ glio io, esattamente». Cosi i personaggi acquistano la con­ sueta nettezza di profilo, studiata da Mozart sulla base della trama, ma anche sulla base della voce dei suoi interpreti. Beimonte ad esempio, il protagonista giovane, acquista straordi­ nari accenti di malinconia, di eroismo e di nobiltà e il ratto dell’amata Costanza dal serraglio del Pascià dov’essa era fini­ ta, acquista il senso ironico e sentimentale di un omaggio a Constanze Weber che Mozart aveva potuto sposare nello stes­ so anno inscenando un rapimento per vincere le resistenze del burbero padre che non voleva acconsentire al matrimonio. In questa continua mescolanza di realtà e di fantasie il musicista

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si innamora delle note profonde della voce del «signor Fi­ scher» che doveva eseguire la parte buffa di Osmino, il guar­ diano del serraglio, e nascono cosi episodi di un grottesco­ comico mai prima udito sulle scene del melodramma. Quattro anni dopo furono rappresentate Le nozze di Figaro su un libretto italiano di Da Ponte tratto dalla commedia di Beaumarchais, che era stata rappresentata a Parigi nel 1784, ma proibita a Vienna dall’imperatore Giuseppe II a causa del­ le allusioni politiche anti-nobiliari che essa conteneva. Solo una radicale autocensura, del resto ufficialmente approvata in alto loco, permise il concepimento e poi la rappresentazione dell’opera. L’intreccio, che narra i vari sotterfugi con cui Fi­ garo e Susanna riescono a sottrarre quest’ultima alle brame erotiche del conte loro padrone, viene ridotto entro i termini consueti dell’opera comica: la coppia nobile, la coppia dei ser­ vi, le astuzie, le beffe. Ma ciò che stravolge l’equilibrio tradi­ zionale dello spettacolo è la misteriosa capacità della musica di trasformare i tipi in persone, le situazioni prevedibili in eventi irripetibili; cosi accade ad esempio nella scena finale dove i classici equivoci e scambi di persona diventano un sen­ suale febbrile rincorrersi notturno di una lievità senza prece­ denti nel teatro musicale settecentesco. Ma il gusto medio della Vienna di quegli anni aveva proba­ bilmente qualche difficoltà a cogliere la sottigliezza e la novità della proposta, era piu disposto ad apprezzare ancora l’opera buffa all’italiana che non le aure di sogno e le profondità in­ trospettive di un testo cosi impegnativo, e l’opera scomparve dai palcoscenici della città dopo le prime otto repliche. Per qualche imponderabile ragione fu invece accolta a Praga con convinzione molto maggiore e dalla stessa Praga arrivò all’au­ tore una commissione per un’opera nuova da eseguirsi l’anno successivo. La scelta, sempre in collaborazione con il Da Pon­ te, cadde questa volta su Don Giovanni, un soggetto che ave­ va illustri ascendenze nel teatro spagnolo di Tirso de Molina, in quello francese di Molière, e che aveva avuto anche riprese recenti e fortunate, ad esempio nel balletto di Gluck degli an­ ni Sessanta e in una recentissima opera di Bertati e Gazzaniga eseguita a Venezia nel febbraio del 1787. Anche in questo caso siamo dunque di fronte ad alcuni aspetti che derivano dalle convenzioni di opera buffa: i perso­ naggi dei servi e le loro vicende quotidiane o i loro interessi matrimoniali; ma abbiamo anche a che fare con elementi nar­

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rativi non troppo lontani da quelli a cui è avvezza l’opera se­ ria: esiste ad esempio una coppia nobile (Donn’Anna - Don Ottavio) in cui si presenta, sia pure a livelli di temperatura emotiva assolutamente inusitati, l’antica contrapposizione fra affetti e doveri che nella tradizione metastasiana nobilitava la raffigurazione degli amori di alto rango. Su questi spezzoni della tradizione irrompe un personaggio della forza di Don Giovanni che non trova posto né da una parte né dall’altra, che è di fatto un unicum e che tuttavia costituisce anche il ve­ ro punto di coagulo di tutta la trama. L’opera si basa infatti sostanzialmente sulla narrazione delle vicende di un protago­ nista che con l’eccesso sfrenato dei suoi desideri e dei suoi comportamenti sconvolge l’esistenza di tutti coloro che gli stanno intorno e soprattutto distrugge unioni apparentemen­ te solide e progetti di matrimonio. Leporello, il suo servitore, è trascinato suo malgrado in questo vortice di avventure che si limita a vivere e a commentare con la rassegnata ingenuità di chi ha imparato che dai padroni ci si può sempre attendere qualsiasi arbitrio. L’opera si apre e si chiude con due immagi­ ni assolutamente improprie per un palcoscenico di quegli an­ ni: l’uccisione iniziale del commendatore padre di Donn’An­ na e la sua comparsa finale in forma di fantasma giustiziere che trascina all’inferno il proprio assassino. È certamente singolare quanto Mozart in una lettera al pa­ dre scriveva: «Le passioni non devono mai essere espresse in modo tale da suscitare disgusto e la musica anche nelle situa­ zioni più terribili non deve mai offendere l’orecchio, non de­ ve mai cessare di essere musica »; dunque affermava di avere come ideale estetico quello di una sorta di olimpico equilibrio espressivo, scegliendo come protagonista della sua opera un personaggio che ha la mancanza di freni e l’infrazione degli equilibri come suo tratto piu specifico. E ancora più singolare è che la musica che Mozart compose per quest’opera non atte­ nui affatto, anzi potenzi i caratteri di sfrenatezza della vicen­ da, ma sappia conservare al tempo stesso un infallibile con­ trollo formale sui mezzi espressivi che impiega. È questo forse il tratto più singolare e più specifico non solo del Don Giovan­ ni ma di tutta la musica di Mozart, l’aspetto che distingue le caratteristiche del suo «stile classico» da quelle dei suoi con­ temporanei, Haydn compreso. Negli ultimi cinque anni della sua vita Mozart vide gra­ dualmente declinare gli entusiasmi e le fortune che avevano accolto la sua iniziale comparsa viennese. Molte composizioni

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continuarono a uscire con la stessa fluenza dalla sua penna inesauribile: sonate, quartetti, concerti. Le ultime tre sinfo­ nie, tutte scritte nel 1788, ebbero una fortuna cosf duratura da non uscire mai dal repertorio neppure nel secolo successi­ vo. E non si trattava certo di opere semplici: basti pensare al finale della Jupiter (la Sinfonia in do maggiore K 551) in cui le strutture di una fuga a piu soggetti (non si dimentichi che Fautore stava studiando in quegli anni gli esempi bachiani) si inseriscono nella convenzione della forma-sonata, ne dilatano le possibilità, ne sperimentano l’elasticità interna. Ma Mozart avverte che la sua rispondenza con l’ambiente gli offre ormai sicurezze minori; e lo sente soprattutto sul piano economico se è vero che deve cominciare a contrarre debiti facendo ri­ corso alla solidarietà degli amici massoni. Comincia di nuovo a pensare a possibili viaggi, ha già avuto proposte interessanti dall’Inghilterra, dall’olanda, dall’Ungheria; e intraprende an­ che un viaggio che lo porta, nel 1789, a Berlino, a Dresda e a Lipsia, ma che non gli procura gl’incassi che egli avrebbe de­ siderato e di cui aveva ormai bisogno. Compone però ancora Cosifan tutte per il teatro di corte, Ilflauto magico per il popo­ lare teatro viennese Aufder Wieden e La clemenza di Tito per Praga, le ultime due rappresentate entrambe nel settembre del 1791, cioè pochi giorni prima della morte. I tre ultimi lavori teatrali appartengono a tre generi diversi: il primo è un’opera comica con un libretto costruito su un gio­ co quasi astratto di simmetrie provocatoriamente razionalisti­ che e con una musica sempre attentissima a spremerne tutti gli ambigui riflessi d’intimità, il secondo è un’opera seria di stampo metastasiano che offre a Mozart l’occasione di super­ be invenzioni musicali calate tuttavia in una trama che non si presta alle sperimentazioni drammaturgiche degli ultimi tem­ pi; il terzo è un Singspiel pieno di riferimenti simbolici e filo­ sofici ai riti e alle credenze della massoneria. Il testo di quest’ultima opera era stato approntato da Emanuel Schikaneder che Mozart aveva conosciuto nel 1780 a Salisburgo in qualità di capo-comico di una compagnia di giro e che da un paio d’anni era diventato direttore del teatro viennese in cui l’ope­ ra venne eseguita. La trama dell’opera riflette da una parte le convenzioni del «genere» magico e fiabesco ampiamente coltivato nella tradi­ zione del Singspiel viennese, e dall’altra inserisce in queste convenzioni quei principi di alta intellettualità morale e soli-

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darietà umana che stavano alla base del pensiero massonico, condiviso sia da Mozart che da Schikaneder. Come esperto uomo di teatro quest’ultimo era molto attento alle ragioni economiche dello spettacolo e in effetti la Zauberflòte è una favola che poteva soddisfare sia i gusti popolari di chi era abi­ tuato alle trame fiabesche, sia le esigenze dell’intellettualità viennese, molto sensibile all’austero fascino delle contrappo­ sizioni etiche fra il regno della Luce e il regno dell’Oscurità. La vicenda, ambientata in un fantastico antico Egitto, narra le peripezie del principe Tamino che, dopo aver superato una serie di prove di eroismo e di virtu (prove di iniziazione con allusioni ai riti massonici) diventa degno di essere ammesso, insieme all’amata Pamina, nel regno di Sarastro gran sacerdo­ te del culto solare. Gli ostacoli che Pamino deve superare so­ no in parte quelli delle prove di iniziazione e in parte quelli frapposti dalla Regina della Notte, la grande avversaria di Sa­ rastro che alla fine viene sconfitta. Nelle sue prove è accom­ pagnato dall’uccellatore Papageno che riesce anch’egli a gua­ dagnarsi la possibilità di ottenere in moglie la bella Papagena. Il testo musicale si sostanzia di una quantità di allusioni a fonti stilistiche diverse: i virtuosismi dell’opera seria si tra­ sformano nelle gelide, astrali presentazioni della Regina della Notte, il Lied popolare austriaco riecheggia nella voce di Pa­ pageno, i modi dell’opera comica nei dialoghi brillanti, le ten­ sioni drammatiche dell’opera «riformata» nella descrizione delle prove di virtù e di amore sublime dei due protagonisti nobili, e persino la tradizione dell’innodia massonica trova spazio nei cori e nelle arie solenni di Sarastro. Ma questa di­ versa varietà d’apporti trova poi una sintesi nel clima com­ plessivo creato dall’invenzione musicale mozartiana; clima eminentemente fiabesco, se per fiaba si intende un genere narrativo capace di sollecitare al tempo stesso l’immedesimazione nei grandi archetipi fantastici evocati e la presa di di­ stanza affettuosa o ironica rispetto alla loro spaventevole po­ tenza. Ancora una volta emerge l’ambiguità inquietante della fantasia mozartiana, che, nel caso del Flauto magico, si impor­ rà negli anni immediatamente successivi come fonte cospicua di stimoli per l’opera romantica tedesca, [mb]

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5. Dalla Rivoluzione alla Restaurazione: Ludwig van Bee­ thoven.

Mentre Haydn e Mozart, nonostante una differenza d’età di circa 24 anni, erano fondamentalmente dei contemporanei sul piano dello stile, Mozart e Beethoven le cui date di nascita si differenziano di soli 14 anni, appartengono invece a due ge­ nerazioni e a due sfere culturali tendenzialmente diverse. Que­ ste apparenti stranezze sono determinate solo in parte dalle da­ te di nascita o dai ritmi di sviluppo personali: anche la storia ha i suoi ritmi di sviluppo, che interferiscono con quelli degli in­ dividui. Il fatto ad esempio che tutta l’adolescenza e la giovi­ nezza di Beethoven si sia svolta sotto il segno della Rivoluzione francese, comprendendo in quest’epoca anche gli anni imme­ diatamente precedenti e seguenti, ha lasciato sicuramente una traccia profonda nella sua formazione culturale, da cui deriva in gran parte lo stacco generazionale nei confronti di Mozart. Se un evento storico di tale importanza lasciò segni eviden­ ti in tutta l’intellettualità europea, anche in coloro che non l’avevano vissuto in prima persona, è assai più difficile dire in che misura e attraverso quali canali la rivoluzione abbia agito in senso stretto sui linguaggi artistici dell’epoca e più in parti­ colare su quello musicale. A un primo sguardo si direbbe che sia ben difficile parlare di un’influenza diretta e specifica del­ la rivoluzione sulle attività musicali: certamente durante le grandi feste rituali celebrate negli anni della rivoluzione si cantavano inni, si eseguivano cori, si ascoltavano composizio­ ni patriottiche, edificanti e piene di entusiasmo eroico, ma sa­ rebbe azzardato affermare che tracce di quegl’inni compaiano poi nella produzione musicale dell’epoca seguente. Anzi è for­ se più vero il contrario, e cioè che tracce della musica francese degli anni precedenti siano visibili nello stile degl’inni, delle marce e dei cori rivoluzionari, se non altro perché il potere ri­ voluzionario si servi dei musicisti già operanti in Francia, da Gossec a Cherubini, da Méhul a Le Sueur. Né risulta che al­ cuno di questi si sia compromesso più di tanto: molti collaborarono, ma nessuno prese posizioni politiche esplicite. Tuttavia c’è almeno un settore delle attività musicali che lascia una traccia non secondaria nella successiva musica euro­ pea, ed è il settore della musica teatrale. C’è da dire che la censura rivoluzionaria aveva criteri di comportamento non ri­ gidi per quanto riguardava il teatro, se è vero che il 16 otto­

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bre 1793, giorno in cui fu ghigliottinata Maria Antonietta, si dava alTOpéra-comique una vecchia commedia con musiche di Grétry, Le tableau parlante che aveva circolato per più di ventanni in regime monarchico. Nel repertorio narrativo del­ le rappresentazioni teatrali entrarono anche temi nuovi ispi­ rati alla commemorazione di avvenimenti storici o di fatti di cronaca significativi, o all’esaltazione delle virtù repubblica­ ne, ma esisteva anche una sicura continuità con il passato. Mentre le narrazioni più esplicitamente e scopertamente pro­ pagandistiche ebbero vita effimera, altre che avevano radici più solide e motivazioni più ricche si affermarono ben presto come generi teatrali alla moda, particolarmente graditi: si pos­ sono ricordare quello ispirato a grandi esempi dell’antica sto­ ria romana o greca, oppure il più pittoresco e avventuroso ge­ nere della pièce à sauvetage (spettacolo con la liberazione finale degli eroi). Un esempio fortunato del primo tipo fu VHoratius Codes musicato da Méhul (« La musica del cittadino Méhul gli fa onore, - scriveva un giornale dell’epoca, - il gusto del canto è severo, esprime un forte dolore ed è facilmente ade­ rente alle passioni»), una tipica pièce à sauvetage è invece Léonore ou L’amour conjugal su libretto di Jean-Nicolas Bouilly musicato da Pierre Gaveaux, storia graditissima in quegli an­ ni, ripresa poi da Paèr, da Mayr e da Beethoven nel suo Lide­ lio. La fortuna di questi tipi di spettacolo usci dunque dai confini della Francia (un altro esempio noto è quello de Gli Grazi e i Curiazi di Cimarosa, eseguito a Venezia nel 1796) per trasformarsi in un fenomeno più generale di cultura euro­ pea, e non solo di cultura musicale. Oltre a Méhul, a Gossec, a Le Sueur (che fu poi maestro di Berlioz e che forse gli lasciò in eredità il gusto per le grandi composizioni pubbliche di carattere patriottico e celebrativo) uno dei più attivi e riconosciuti musicisti di quell’epoca fu Luigi Cherubini (Firenze 1760 - Parigi 1842). Trasferitosi a Parigi verso la fine degli anni Ottanta vi presentò nel 1791 la sua Lodoiska che ottenne un consenso entusiastico grazie an­ che alle ultime scene in cui si assisteva a uno spettacoloso «salvataggio» dell’eroina dalle mani impure di un tiranno per­ secutore. Allo stesso genere teatrale apparteneva Elisa (1794) che per di più era ambientata in un già romantico e misterioso paesaggio alpino. Al genere della tragedia antica apparteneva invece Médée (1797) in cui il fuoco dell’attenzione è tutto concentrato sull’analisi potente del personaggio della protago­ nista, donna e maga, innamorata e madre. Il tema non è più

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quello delle virtù repubblicane, ma neppure l’epoca è più quella delle grandi tensioni rivoluzionarie: si stava entrando nel lungo periodo storico dominato dalla figura di Napoleone. In tutte queste opere Cherubini, che ha fatto propria l’alta maniera gluckiana e post-gluckiana e che l’ha irrobustita con una ricchezza di tessuto sinfonico non ignara degli esempi viennesi, crea un modello drammaturgico che avrà lunghe ri­ percussioni in Francia e in Europa anche nei primi dell’Otto­ cento. Le stesse arti figurative degli anni napoleonici (il neo­ classicismo solenne, sublime, inquieto dell’epoca di David) potenziano la diffusione del modello musicale cherubiniano. Un altro emigrato italiano, Gaspare Spontini (Ancona 1774 1851) ne raccoglie l’eredità in due opere di enorme successo come La Vestale (1807) e Fernand Cortez ou La conquète du NLexique che fu eseguita nel 1809 di fronte allo stesso Napo­ leone. Ma in questi medesimi anni anche la tradizione teatrale francese stava accingendosi a mutare di nuovo i suoi orienta­ menti. Alle eroiche solenni celebrazioni imperiali torna a so­ stituirsi gradualmente il gusto, del resto mai del tutto sopito, per l’intimità e il calore di sentimenti più quotidiani e per av­ venture non legate ai grandi fatti della storia. L’autore di maggior successo per questo genere di spettacoli fu FrangoisAdrien Boìeldieu (Rouen 1775 - Jorcy, Parigi 1834) che seppe aggiornare le maniere del vecchio Opéra comique arricchendo­ le di motivi narrativi derivati dall’incipiente moda romantica, per esempio dai romanzi storici di Walter Scott. Un’opera tarda della sua produzione, ma che fece epoca e che riassume in un certo senso questa trasformazione del gusto, è La dame bianche su libretto di quello Scribe che per decenni avrebbe poi dettato legge sul melodramma francese. Fra il 1790 e il 1810, cioè negli anni cruciali del passaggio dal gusto musicale dell’epoca illuministica a quello dell’epoca romantica, i centri più importanti nella produzione di modelli musicali nuovi sono senza dubbio Parigi e Vienna, la prima dominata soprattutto dall’attività teatrale e la seconda dalla produzione sinfonica e cameristica beethoveniana. Al di fuori dei confini dell’Austria il gusto per la musica da concerto esi­ steva (particolarmente in Inghilterra, ma anche in Germania e, sia pure in misura minore, nella stessa Francia), ma nessun compositore di spicco trovò allora condizioni sufficientemen­ te favorevoli per dedicarsi in maniera specifica a questo tipo di attività. Forse l’unica eccezione è costituita dalla presen­ za di rilievo europeo che seppe conquistarsi un ennesimo e­

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migrato italiano: Muzio Clementi (Roma 1752 - Evesham 1832). Fu un nobile viaggiatore inglese che, colpito dall’inge­ gno musicale del quattordicenne musicista, lo portò con sé in Inghilterra dove lo fece studiare e lo avviò professionalmen­ te alla carriera di concertista di pianoforte. Al 1771 risalgono le prime sonate pianistiche del giovane autore che ne pubblicò poi una settantina in tutta la sua vita; le ultime risalgono al 1821. Nel 1781, in una di quelle gare in cui la nobiltà dell’e­ poca amava mettere a confronto i divi piu famosi, Clementi si misurò con Mozart che in quell’occasione lo trovò eccessiva­ mente «meccanico» nel suo modo di suonare. In realtà Cle­ menti aveva precocemente sviluppato una tecnica particolar­ mente virtuosistica di note doppie che sfruttavano le possibi­ lità del nuovo strumento e che cominciavano a differenziarne sostanzialmente la scrittura da quella tradizionale del clavi­ cembalo. E anche la concezione formale delle sue sonate è al passo con i tempi e con gli esempi piu illustri della Vienna di fine secolo. Negli ultimi anni della sua vita Clementi si diede anche alle attività commerciali e fondò fra l’altro una casa edi­ trice che si occupava anche della vendita e della costruzione di pianoforti. Il suo Gradus ad Pamassum (1817-26), una rac­ colta di esercizi di tecnica pianistica tutt’altro che priva di in­ teresse anche sul piano musicale, è rimasta nella tradizione di­ dattica fino ai nostri giorni. Ma la sua grande fama di musici­ sta e di insegnante gli procurò anche allievi importanti come ad esempio l’inglese John Field, che ebbe un ruolo di notevole rilievo nella storia del pianismo romantico. Se questo è il quadro generale degli avvenimenti musicali che intervennero in Europa negli anni della giovinezza e della prima maturità di Beethoven, un altrettanto importante pun­ to di riferimento va tenuto presente se si vuol prendere in considerazione l’insieme delle circostanze che determinarono la sua formazione culturale, il suo atteggiamento di pensiero, e in definitiva la sua personalità: in Germania, anzi nella mi­ riade di piccoli stati in cui la Germania era allora divisa, le profonde trasformazioni che portarono alla nascita del mondo moderno furono vissute piu in chiave intellettuale, filosofica e teorica che non in chiave politica, come stava avvenendo in Francia o in chiave economica, com’era avvenuto in Inghil­ terra. Cosi si può dire che il movimento dello Sturm und Drang, con tutte le sue conseguenze sul piano del teatro e del­ la letteratura (dai drammi di Schiller agli scritti di Goethe e di Herder), la filosofia di Kant, che trovò subito entusiastica

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accoglienza in tutto il mondo universitario, e poi l’attività del gruppo dei teorici e poeti romantici che dagli inizi dell’Otto­ cento cominciarono a diffondere in tutta Europa i loro scritti e le loro idee, siano altrettanti esempi delle rivoluzioni che la cultura tedesca mise in atto negli ultimi decenni del secolo. Per quanto riguarda le trasformazioni politiche e sociali fu­ rono gli stessi principi illuminati a metterle in atto inizialmen­ te nei loro regni. Lo stesso imperatore Giuseppe II dal 1780 al 1790 pose mano a una serie di riforme che gli inimicarono gran parte del mondo aristocratico ed ecclesiatico: dalla emancipazione dei servi della gleba, alla confisca dei beni del­ la chiesa, alla istituzione di iniziative educative e filantropiche. E Max Franz, fratello dell’imperatore e principe elettore che aveva la sua corte a Bonn, non volle essergli secondo in questa azione di svecchiamento e di promozione sociale. Per quanto riguarda la vita intellettuale di Bonn esistono testimo­ nianze che descrivono la cittadina renana come un centro vi­ vissimo, ricco di biblioteche aggiornate sulle idee più recenti. Fra l’altro nel 1785 vi era stata fondata anche un’università. E la vita musicale che vi si svolgeva nelle chiese, nei teatri, nelle sale da concerto era al corrente di tutte le più importanti novità viennesi e parigine. Appunto a Bonn nacque Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827), da una famiglia di buone tradizioni mu­ sicali: il padre Johann era cantore professionista nella cappella del principe elettore dove il nonno era stato Kapellmeister. Anche il piccolo Ludwig dimostrò precocemente le sue doti tanto che nel 1784 era già in grado di lavorare e di venire re­ tribuito come organista e cembalista nello stesso complesso di Maximilian Franz in cui il padre era stipendiato. La sua vita familiare infantile fu tuttavia difficile, sia per le non brillanti condizioni economiche, sia anche perché Johann, forse per certe predisposizioni ereditarie, forse per le frustrazioni dovu­ te alla sua modesta carriera, si diede a poco a poco al vizio del bere, tanto che quando nel 1787 la madre mori, fu il giovane Beethoven ad assumere su di sé il peso del mantenimento eco­ nomico della famiglia. C’è anche, fra i biografi del musicista, chi connette gli avvenimenti di questa sua poco lieta condizio­ ne infantile con gli scompensi nervosi e le intemperanze di ca­ rattere che segnarono la sua vita adulta, con la sua incapacità di risolvere i problemi dell’esistenza quotidiana e persino con la sua pervicace tendenza a innamorarsi di donne sbagliate

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con cui non potè mai trovare accordi felici né soluzioni matri­ moniali. La responsabilità della sua educazione musicale (e non solo musicale) si deve soprattutto all’organista di corte Christian Gottlob Neefe, che lo mise fra l’altro in contatto con gli am­ bienti aristocratici e con la vita intellettuale della città di cui il giovane Beethoven assorbì rapidamente gli entusiasmi piu vivi. Certamente egli non ebbe un’educazione culturale siste­ matica, ma la curiosità e la passione insaziabile per la lettura che coltivò anche negli anni della maturità gli derivò dagli esempi e dagli stimoli che potè trovare intorno a sé negli anni dell’adolescenza. Fra gli autori piu venerati furono subito Goethe e Schiller e fra i maestri di pensiero che più profonda­ mente incisero sulla sua formazione va annoverato certamen­ te Kant, e non tanto il Kant delle opere più strettamente gno­ seologiche, quanto piuttosto il teorico della legge morale, del principio secondo cui la sacralità dei doveri non nasce né da imposizioni sociali né da principi religiosi, ma dalla stessa li­ bertà dell’uomo che, proprio perché libero, non può fare a meno di scegliere la più razionale e la più necessaria di tutte le leggi. A questo imperativo categorico Beethoven rimase lega­ to per la vita. Sono innumerevoli le sue perentorie afferma­ zioni di amore «per la virtù e per tutto ciò che è bello e buono ». Da un punto di vista più strettamente ideologico e politico si può dire che anch’egli, come gli intellettuali dell’ambiente di Bonn, ebbe iniziali o generiche simpatie per la Rivoluzione francese, anche se non ne condivise le conseguenze. I suoi ideali politici, che si possono forse dedurre più dai suoi com­ portamenti che dalle sue dichiarazioni esplicite, erano quelli di una sorta di speranza utopica o di fedeltà ideale nei con­ fronti del regnante buono che sostituisce il tiranno, cioè di co­ lui che riesce a trasformare la convivenza collettiva nel regno della libertà individuale e della legge morale. Alla luce di que­ ste considerazioni si può forse affermare che il segreto della personalità di Beethoven e la molla più profonda della sua stessa produzione musicale consista nella contraddittoria dia­ lettica, nella difficile convivenza fra gl’impeti dirompenti e nevrotici della sua condotta pratica, fra gli assalti inconteni­ bili della sua fantasia tumultuosa e i principi ideali di una ra­ zionalità che tendeva all’assoluto, di un codice morale di na­ tura laica vissuto e assunto con determinazione sacrale. Il se­ gno più chiaro del salto generazionale che lo separa da Mozart

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e dalla civiltà da cui Mozart proveniva, consiste proprio nella funzione morale che egli affidava alla sua attività di musicista, nel senso quasi missionario con il quale egli concepiva la pro­ pria opera di compositore: «Sin dall’infanzia, - scrive in una lettera del 1811, - il mio zelo nel servire in qualsiasi modo la nostra povera umanità sofferente attraverso la mia arte non è mai sceso a compromesso con alcuna motivazione meno nobi­ le». Il modello del musicista-vate inventato da Beethoven, eserciterà un fascino irresistibile sulle generazioni seguenti e si incarnerà a tratti anche in altri musicisti dell’ottocento, che, con motivazioni diverse dalle sue, tenderanno tuttavia a riassumerne lo spirito di fondo. Nei primi ventidue anni di vita Beethoven risiede, lavora e studia a Bonn, ma nel 1792, forte della sua fama di pianista, dei giudizi lusinghieri che aveva espresso Haydn nei suoi con­ fronti, e probabilmente di protezioni influenti, chiede e ottie­ ne dall’elettore Maximilian Franz il permesso di un soggiorno a Vienna. Qui si preoccupa anzitutto di proseguire e comple­ tare i suoi studi di composizione, in un primo tempo sotto la guida dello stesso Haydn e poi del contrappuntista Johann Georg Albrechtsberger che, al contrario di Haydn che nei suoi confronti si era dimostrato un insegnante un po’ distrat­ to, lo sottopone a uno stringente tour de force di canoni e fu­ ghe di tradizione severa. Contemporaneamente cominciava a farsi conoscere negli ambienti della nobiltà come pianista bril­ lante e improvvisatore di talento fuori del comune. Da allora Beethoven non si mosse piu da Vienna, se non per viaggi oc­ casionali, anche perché nel frattempo Napoleone aveva inva­ so il piccolo regno dell’elettore di Bonn. A Vienna, nonostante il disordine della sua esistenza priva­ ta, nonostante le più di 60 diverse abitazioni che la sua irre­ quietezza lo spinse a cambiare, spesso essendo ospite per lun­ ghi mesi di amici ed estimatori che aveva nella nobiltà locale, nonostante le liti giudiziarie nelle quali si impegnò più volte, Beethoven trovò sempre un ambiente fondamentalmente fa­ vorevole e condizioni di lavoro che gli permisero di sopravvi­ vere senza ristrettezze. Più volte pensò o sperò di trovare un impiego stabile o a corte o presso qualche famiglia o istituzio­ ne che gli desse garanzie di lavoro meno rischiose di quelle della libera professione, ma alla fine nessuna soluzione fu ri­ tenuta più vantaggiosa di quella che gli permetteva di scrivere musica senza vincoli funzionali precisi, unicamente rivolgen­ dosi all’«umanità» verso la quale lo spingeva la sua interiore

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missione. Da questo punto di vista l’episodio decisivo accad­ de nel 1808 quando Girolamo Bonaparte lo invitò a Kassel come maestro di cappella della sua corte. In quel momento tre nobiluomini viennesi, l’arciduca Rodolfo, il principe Lobkowitz e il principe Kinsky, gli offersero senza condizioni una rendita annua di 4000 fiorini purché egli declinasse l’invito e continuasse a rimanere a Vienna. Cosa che Beethoven accettò con l’impegno formale di un contratto. Le sue rendite deriva­ vano in parte da lezioni, in parte da atti gratuiti di mecenati­ smo, come quello appena menzionato, in parte da contratti con gli editori che lo apprezzavano molto perché le sue opere si vendevano fin dagl’inizi del secolo in tutta la Germania. Nei primi anni una buona parte delle sue entrate era dovu­ ta anche ai concerti. Ma a questi gradualmente Beethoven do­ vette rinunciare a causa di una grave infermità all’udito che cominciò a manifestarsi intorno al 1795 e che andò sempre più acutizzandosi nonostante le cure disperate che egli tentò di fare ricorrendo a medici più o meno competenti, e seguen­ do più o meno disciplinatamente i loro consigli. Negli ultimi dieci anni della sua esistenza il musicista visse completamente sordo e si ridusse a comunicare per iscritto con i suoi interlo­ cutori. Dei circa 400 «quaderni di conversazione» solo 137 si sono conservati. Gli altri sono stati distrutti dal suo allievo­ assistente Anton Schindler che ne venne in possesso alla mor­ te del maestro ma che li ritenne o poco interessanti o per qual­ che ragione compromettenti. Questa infermità fu vissuta ini­ zialmente da Beethoven in maniera drammatica: nel 1802 egli redasse ad Heiligenstadt un testamento in cui affermava di aver superato i propri propositi di suicidio solo grazie all’amo­ re per l’umanità, che era sempre stata e che continuava a esse­ re la religione della sua vita. A parte le evidenti conseguenze pratiche, la malattia acutizzò sicuramente anche quegli atteg­ giamenti di aspra e scontrosa intransigenza che Beethoven non cessò mai di avere persino nei confronti dei suoi nobili protettori e dei suoi più sicuri amici. Negli ultimi anni della sua vita la sua esistenza fu turbata fra l’altro dal morboso at­ taccamento che egli dimostrò per il nipote Karl, figlio dell’o­ monimo fratello che morendo nel 1815 lo aveva incaricato della tutela del bambino.'La sua lotta contro la madre, da lui accusata di indegnità morali e i suoi maldestri tentativi educa­ tivi furono cause di continue liti e di dolorose afflizioni. Secondo Wilhelm von Lenz, che pubblicò nel 1852 una fa­

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mosa monografia beethoveniana, il processo creativo del mu­ sicista potrebbe dividersi in tre periodi (o tre stili, com’egli li chiamava): un primo periodo (fino al 1800) che comprende le opere giovanili ancora legate ai modelli settecenteschi sui qua­ li Beethoven si era formato, un secondo periodo che com­ prende tutte le opere della maturità e un terzo periodo a cui appartengono gli ultimi sei quartetti, le ultime cinque sonate, la Nona sinfonia, la Missa solemnis. Questa distinzione, che è poi successivamente rimasta nell’uso corrente, corrisponde solo in parte alla realtà dei fatti. I mutamenti stilistici, che in­ negabilmente Beethoven mise in atto, avvennero in maniera piu complessa. Fra le opere piu precoci risalenti al periodo di Bonn, ad esempio, si trovano aspetti, soprattutto nella Canta­ ta sulla morte delVImperatore Giuseppe II, risalente al 1790, che non solo non rientrano nei modelli di stampo haydniano, ma possiedono quei caratteri di concisa essenzialità e di auste­ ro eroismo che Beethoven avrebbe assiduamente sviluppato nei primi anni dell’ottocento. Fra le composizioni del «primo periodo» scritte nell’ultimo decennio del secolo, si annovera una notevole quantità di la­ vori fra cui le prime 11 delle 3 2 sonate per pianoforte, i sei quartetti dell’opera 18, la Prima sinfonia, i primi tre Concerti per pianoforte e orchestra e le prime quattro Sonate per violino e pianoforte. Già in buona parte di queste composizioni emer­ ge lo stile inconfondibile che distingue le opere di Beethoven da quelle di tutti i con temporanei. Anzitutto si tratta della qualità dell’invenzione tematica, che si fonda sulla tendenza a trascurare quei residui di maniera elegante, di tornitura sot­ tile, di gusto di corte, che ancora erano presenti in alcune del­ le opere di Haydn e di Mozart. In Beethoven il gesto si fa più imperioso e in certi casi assume addirittura tratti di rudezza plebea. In ogni caso i temi tendono a concentrare la loro ener­ gia in poche mosse essenziali. Lo schema costruttivo è quello classico della forma-sonata, ma le contrapposizioni tendono a emergere con maggiore chiarezza e in qualche caso a delineare contrasti fra un primo tema di carattere più affermativo e un secondo tema di natura più sognante, mentre la stessa conci­ sione tematica tende per sua natura a caricare di nuovi signi­ ficati gli episodi di raccordo e soprattutto quelli di sviluppo. A loro volta alcuni adagi si distinguono per una singolare densi­ tà e forza meditativa. Le novità di queste proposte stilistiche furono immedia­ tamente notate dal pubblico e dalla critica dell’epoca che in

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qualche caso le accusarono di «stranezza», in altri casi le tro­ varono invece cosi affascinanti e significative da trasformarle in mode, come accadde ad esempio alla Sonata per pianoforte in do minore op. 13 ^Patetica) che, subito dopo la sua pubblica­ zione avvenuta nel 1799, fu più volte sottoposta ad arrangia­ menti e imitazioni. D’altra parte se è vero che la Prima sinfo­ nia (cosi come la successiva pubblicata nel 1802) non possiede i caratteri eroici di altre sinfonie successive, è anche vero che la lievità apparente di certe idee tematiche, come quella che introduce l’ultimo tempo, nasconde al suo interno una sorta di implicita sfrenatezza a cui il gusto medio dell’epoca non era certo abituato. Il periodo di più intensa creatività è sicuramente quello dei primi dieci anni del secolo. Nascono allora alcune delle sinfonie più famose, fino alla Sesta, che ebbe la prima esecu­ zione nel 1808, le sonate fino all’opera 81 (Gli addii), sei Quartetti, le musiche di scena per VEgmont e il Coriolano, gli altri due concerti per pianoforte, quello per violino, l’opera Fidelio, in breve tutte le composizioni che costituirono nel corso dell’ottocento e oltre l’asse portante del repertorio con­ certistico europeo. A queste opere è legata non solo la mag­ gior fama di Beethoven, ma anche il suo più singolare segno di distinzione rispetto a molti musicisti della sua epoca e di al­ tre epoche, ossia la sua capacità di trasformare il proprio lin­ guaggio musicale fino a condurlo a soluzioni del tutto nuove, precedentemente imprevedibili. Nuove in primo luogo per la loro capacità di manifestare un universo di fantasie che hanno radici nella biografia stessa del compositore: nei suoi entusia­ smi per le vicende tragiche ed eroiche di cui la sua epoca era testimone, nella sua capacità di vivere intensamente la vita della natura, nella spontaneità con cui sapeva aderire al mute­ vole mondo dei propri umori e dei propri ritmi vitali, nella ve­ na della sua vocazione di predicatore e di tribuno e nel piacere più intimo e più sottile della confessione e del dialogo perso­ nale. Ma nuove anche per l’ardimento delle concezioni stili­ stiche e formali. In molte opere di questo periodo, ad esem­ pio, i tre o quattro movimenti che costituiscono per tradizio­ ne la forma-sonata, vengono già dall’inizio concepiti come una sorta di episodio unico suddiviso in fasi strettamente le­ gate fra loro da relazioni interne chiaramente evidenti: nella Quinta Sinfonia l’ultimo tempo, con il suo carattere di trionfa­ le catarsi, di gesto liberatorio e vittorioso, acquista il suo si­ gnificato solo se viene connesso con i dubbi, con i drammi,

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con le oscurità che lo precedono. Tutto questo modifica radi­ calmente le convenzioni della forma e le stesse funzioni della musica strumentale: Beethoven tende irresistibilmente a farla «parlare», a trasformarla in testimonianza personale e perciò stesso a trasformare il pubblico nel destinatario di un messag­ gio che va ben al di là di quel diletto collettivo a cui di solito esso era abituato a partecipare. In questo senso esiste una stretta continuità fra le opere strumentali e la produzione per il teatro. Nel Fidelio, che è Punica opera teatrale interamente realizzata fra le tante alle quali il musicista pensò più volte nel corso della sua vita, la meditazione sui rapporti umani e sui principi morali che stava al fondo del pensiero dell’autore diventa manifesta ed esplici­ ta. La narrazione utilizza gli ingredienti classici delle pièces à sauvetage, anzi utilizza lo stesso canovaccio narrativo dell’ope­ ra di Gaveaux precedentemente citata: Leonora sotto mentite spoglie maschili, assunto il falso nome di Fidelio, riesce a pe­ netrare con un sotterfugio nella prigione dove il tiranno don Pizarro tiene nascosto l’amatissimo marito Florestano. Dopo innumerevoli peripezie l’opera si conclude con la liberazione del prigioniero favorita dal tempestivo arrivo di un ministro di stato in visita alla prigione, e con il trionfo finale dell’eroica coppia dei protagonisti. Beethoven, che non aveva né l’espe­ rienza né la vocazione delle malizie teatrali, concepisce l’ope­ ra come una grande cantata scenica costruita per pannelli suc­ cessivi. Ma la cosa più singolare è che anche quest’opera, co­ me la Quinta sinfonia, si conclude con un gesto liberatorio, con una catarsi finale che si dimostra dunque come una sorta di archetipo psicologico profondamente radicato nella mente di Beethoven e particolarmente vivo e presente negli anni centrali della sua produzione. Negli anni che vanno dal 1808 al 1815 cominciano a emer­ gere sintomi nuovi di evoluzione e di trasformazione nella personalità di Beethoven, se non addirittura di una crisi che si accentua a partire dal 1812 e si manifesta con qualche rallen­ tamento dei suoi ritmi compositivi. I segnali non sono sempre chiari, anzi sembrano talora contraddittori: compone contem­ poraneamente la Settima sinfonia piena di echi e richiami fan­ tastici a sfrenatezze ritmiche e a paesaggi interiori grandiosa­ mente meditativi e l’Ottava che sembra invece ripercorrere con nostalgia le memorie di tempi meno duri e meno eroici di quelli presenti. Nelle opere da camera la struttura si fa a volte meno compatta e la tematica meno imperiosa di quella degli

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anni precedenti, e talora sembrano emergere tentativi di avvi­ cinamento alla sensibilità romantica del mondo letterario, co­ me avviene ad esempio nel ciclo di canti All"amata lontana. In ogni caso il trionfale impeto eroico della stagione precedente ha minori occasioni per affermarsi, come se il progressivo spe­ gnersi degli entusiasmi rivoluzionari legati ai fatti di Francia e l’inizio ormai prossimo della nuova epoca della Restaurazio­ ne, provocassero nella sua sfera affettiva e nel campo dei suoi rapporti col mondo e con la società dei mutamenti immedia­ tamente trasferibili in quella sorta di sensibile sismografo che era la sua fantasia inventiva. Gli ultimi undici anni di vita sono caratterizzati da una sempre più accentuata solitudine non solo dovuta alla sordità, ma probabilmente anche al venir meno delle sue ragioni di en­ tusiasmo vitale e di fiducia negli eroici furori che avevano da­ to corpo alla sua produzione giovanile. Non viene meno inve­ ce la fertilità inventiva testimoniata dalle opere già prima ri­ cordate: sonate, quartetti (tra cui la Grande fuga}, Nona sinfonia, Messa solenne, a cui si devono aggiungere le Bagatelle e le Variazioni su un tema di Diabelli, per pianoforte. Ciò che contraddistingue queste opere della maturità è il sempre più accentuato distacco dalle convenzioni della forma-sonata, o per meglio dire dagli schemi conflittuali ai quali Beethoven l’aveva piegata, dalle peripezie drammaturgiche e dalle catarsi finali attorno alle quali la sua fantasia si era tante volte affati­ cata. Entrano in campo invece strutture formali antiche, co­ me la fuga o la variazione, e soprattutto acquista un’invaden­ za esclusiva il principio dell’elaborazione tematica, che faceva parte del patrimonio tradizionale dei procedimenti composi­ tivi della forma-sonata, ma che assolutizzato e staccato dalle altre componenti alle quali organicamente si legava, si defunzionalizza e acquista un senso nuovo. Lo stesso carattere del­ l’invenzione tematica tende a mutare: ai temi drastici e forte­ mente assertivi delle opere precedenti si sostituiscono spesso brevi melodie cantabili, semplici e ingenue. Il risultato di questi sorprendenti mutamenti è quello del graduale passaggio dal piano del conflitto a quello di una sorta di fissità contemplativa: la suprema trasparenza dei temi e il gioco continuo delle elaborazioni, delle variazioni, dei tratta­ menti contrappuntistici a cui essi vengono sottoposti costrui­ sce percorsi che ruotano continuamente su se stessi evitando tensioni, drammi e contrasti. Ulnno alla gioia su testo di Schiller che conclude la Nona sinfonia conferma che Beetho-

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ven non ha rinunciato a mettere in campo il motivo di fondo di tutta la sua esperienza morale. Gli ideali umanitari dai qua­ li la sua avventura intellettuale aveva preso le mosse continua­ no a sollecitare la sua fantasia, ma la ricerca ha perso i suoi fervori utopici e si è trasformata in una sorta di ascetico dia­ logo consumato in solitudine. [mb]

Capitolo ottavo

La musica del primo Ottocento

i. La musica nell'epoca romantica.

L’Illuminismo ha segnato l’inizio del processo non solo di rivalutazione della musica tra le arti, ma soprattutto del suo inserimento nel mondo della cultura. Tuttavia solo alla fine del Settecento con i primi fermenti preromantici la musica ac­ quistò un posto di assoluta preminenza tra le arti. Numerosi i sintomi di questo mutamento di prospettiva già nella seconda metà del Settecento; ma è perlomeno singolare che i primi a considerare la musica come arte privilegiata, come espressione più alta, siano stati i letterati e i poeti. Solamente più tardi la coscienza di questo mutamento toccò i musicisti; perciò le pri­ me testimonianze di questa nuova sensibilità romantica per la musica vanno cercate anzitutto in scritti letterari, a volte in poesie o in saggi che stanno a cavallo tra la letteratura e la fi­ losofia; i mùsicisti ci danno tuttavia una testimonianza indi­ retta con la loro stessa vita, con il loro atteggiarsi nei confron­ ti del mondo e della società circostante, con il nuovo significa­ to che essi stessi conferiscono alle loro opere. Già nellTlluminismo si poteva notare un nuovo interesse da parte del mondo degli intellettuali nei confronti della mu­ sica; tuttavia è sintomatico come solo nel Romanticismo sia lo stesso poeta a porre la musica spesso al centro della sua atten­ zione ed a considerarla come il punto di convergenza di tutte le arti. Le osservazioni più affascinanti sulla musica si trovano in scritti di letterati che sono lontani da ogni conoscenza di ti­ po tecnico sull’arte dei suoni, ma tuttavia subiscono in modo irresistibile l’attrattiva di quest’arte enigmatica che sembra non significare nulla ma che proprio perciò racchiude i segreti più arcani e può socchiudere le porte dell’infinito. L’indeter­ minatezza che spesso era stata dagli illuministi rimproverata come difetto e manchevolezza alla musica strumentale, per i romantici è tale solo dal punto di vista del linguaggio verbale; ma il linguaggio della musica - e questa è la grande scoperta

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dei romantici - appartiene ad un altro ordine e va giudicato con ben altro metro perché in esso si cela l’espressione piu au­ tentica e originaria dell’uomo. Goethe stesso, il poeta forse meno propenso a riconoscere questo primato alla musica stru­ mentale, affermava che da essa «emana una forza che s’impa­ dronisce di ogni cosa e che nessuno è in grado di spiegare». E altresì significativo che tutti i grandi filosofi romantici faccia­ no della musica uno dei centri della loro speculazione e che da Hegel a Schelling, da Schopenhauer a Nietzsche la musica trovi un posto d’onore in tutti i sistemi filosofici. I brevi scritti sulla musica del giovane Wackenroder, lette­ rato e critico morto giovanissimo alla fine del Settecento, rap­ presentano uno dei punti di riferimento piu importanti per lo sviluppo del pensiero romantico. Tutte le arti costituiscono un mezzo per manifestare i propri sentimenti, ma la musica, secondo Wackenroder, è l’arte per eccellenza, superiore a tut­ te le altre per capacità espressiva. Il sentimento in questo con­ testo rappresenta non tanto l’emotività personale, ma piutto­ sto l’organo di accesso privilegiato, rispetto all’intelletto, ai segreti più intimi del mondo, all’essenza delle cose, a Dio stesso. La musica è infatti il mezzo più diretto di contatto con il divino di cui dispone l’uomo: «Nessun’altra arte possiede una materia prima che sia già di per sé cosi colma di spirito ce­ leste». Il carattere in qualche modo religioso della musica è ri­ conosciuto da buona parte del pensiero romantico. Schleiermacher affermava che «la musica è una religione» e poeti e scrittori come Jean Paul Richter, Tieck, i fratelli Schlegel, Schiller, Novalis, Hoffmann, in vario modo ripetevano lo stesso concetto, sottolineando come la musica, in particolare quella strumentale, riesce ad esprimere l’inesprimibile, spa­ ziando nelle più alte sfere dello spirito. Hoffmann, uno dei più originali scrittori del primo Ottocento, ma anche critico musicale e musicista, definiva la musica come «la più roman­ tica di tutte le arti»; con ciò dava del Romanticismo stesso una definizione che andava ben oltre il dato storico. Infatti per Hoffmann tutta la grande musica, anche quella delle epo­ che passate, era romantica: la musica di Palestrina, di Bach, di Mozart, di Haydn, ed infine, più di ogni altra, quella di Beet­ hoven è romantica perché è tale tutta la grande musica: «es­ sa ha per oggetto l’infinito». E singolare come accanto agli scritti pieni di mistico entu­ siasmo di un Wackenroder, di un Tieck, di un Hoffmann, in­ trisi di slanci profetici e religiosi sull’arte dei suoni, troviamo

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i primi studi specialistici e storici nel senso moderno del ter­ mine. Infatti una moderna storiografia sulla musica risale pro­ prio agli inizi dell’ottocento. Le prime storie della musica erano state scritte nella seconda metà del Settecento: in Italia padre Martini di Bologna aveva iniziato una monumentale Storia della musica rimasta però interrotta; in Inghilterra Charles Bumey e John Hawkins avevano steso le prime storie che ambivano alla completezza. Tuttavia questi primi tenta­ tivi risultarono assai provvisori e lacunosi proprio per la scarsa conoscenza che si poteva a quei tempi avere del materiale sto­ riografico. Per molti secoli la musica era stata soggetta ad un rapidissimo consumo e si doveva arrivare al Romanticismo, con il suo nuovo interesse per il passato più o meno remoto, sepolto nei manoscritti e negli archivi, perché nascesse il de­ siderio di riascoltare, di giudicare, di riscoprire il patrimonio musicale dimenticato. Questo nuovo atteggiamento nei con­ fronti della musica ha costituito la premessa indispensabile per la nascita di una vera e propria storiografia e di tutto un complesso di studi sulla musica. Si scrivono agli inizi dell’Ot­ tocento le prime biografie dei grandi del passato appena risco­ perti: J. N. Forkel scrive la prima biografia di Bach, G. Baini di Palestrina, O. Jahn la prima monografia su Mozart e A. Marx su Beethoven. Appaioni le prime edizioni complete a cura di Ph. Spitta di Schutz e Buxtehude; nel 1837 compare, del musicologo belga}. Fétis, la sua grande opera Biographic universelle et bibliographic générale de la musique. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, in particolare addentrandoci nell’Ottocento, ma ciò che importa è sottolineare la novità di questi studi le cui premesse si devono cercare proprio nel nuo­ vo senso dell’individualità dell’opera del musicista e quindi del rispetto storico che lo studioso deve tributare a personali­ tà ed opere del presente come del più lontano passato, in quanto espressione e testimonianza della genialità dell’artista. Questi primi studi, spesso a sfondo biografico, sono comple­ mentari, pur nel loro diverso carattere, agli scritti dei lettera­ ti, dei critici e magari dei filosofi: si muovono sullo stesso ter­ reno nel riscattare la musica dalla vita effimera in cui la cultu­ ra dei secoli addietro l’aveva confinata e nel conferirle una nuova dignità. Accanto alla rivalutazione di un passato musicale che af­ fonda le sue radici anche nel più lontano Medioevo ed all’en­ fasi che tutti i romantici in qualche modo conferiscono al va­ lore divinatorio, religioso, sovrarazionale dell’espressione mu­

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sicale, altri caratteri vengono spesso messi in evidenza. Il me­ raviglioso, il fantastico, il bizzarro, il recondito, il misterioso, sono aggettivi che ricorrono con frequenza nelle critiche e nelle divagazioni dei romantici, siano essi poeti, scrittori, fi­ losofi o musicisti, termini usati per lo più come polemica nei confronti del classico, del regolare, del troppo forbito, della conformità alle strutture tradizionali della scuola viennese. Cosi come nella pittura nasce il gusto per i paesaggi orridi, per le gole di montagna, i precipizi, le tempeste, le rovine, cosi in musica, soprattutto nel primo Romanticismo, nasce il gusto per l’irregolarità delle forme, per il bizzarro e per ciò che sgor­ ga naturalmente da un impulso interiore non soggetto ad alcu­ na costrizione formale. Queste trasformazioni cosi imponenti dei modi di pensare e persino dei modi di fantasticare dell’uomo non sono certa­ mente dovute al caso né all’iniziativa improvvisa di qualche pensatore o di qualche artista. Sono invece frutto di un pro­ fondo processo di trasformazione del mondo che modifica an­ che la vita interiore dell’uomo. Alla base di tale processo sta il graduale passaggio del potere economico dalle mani dell’aristo­ crazia terriera a quelle della classe media. Inizialmente (secoli xvi-xvn) essa accumula capitali lavorando a lucrose attività commerciali e successivamente (nei secoli xvm-xix) li incre­ menta investendo il denaro guadagnato in attività produttive, in manifatture caratterizzate dalla presenza di nuove macchi­ ne. E questa la cosiddetta «rivoluzione industriale» che, traendo profitto dalle scoperte scientifiche che si sviluppano a partire dal xvn secolo, le applica alla produzione di beni. A conclusione di questa fase il mondo moderno ha già co­ struito le sue premesse. Quando, dopo una serie di movimenti rivoluzionari (da quelli americano e francese del xvm secolo alle varie rivoluzioni o guerre nazionali che sconvolgono l’Eu­ ropa dell’ottocento) la borghesia si sarà impadronita anche del potere politico, queste premesse si trasformeranno in rea­ lizzazione compiuta. A questo punto il mondo avrà cambiato volto: da un assetto feudale o para-feudale sarà passato all’or­ ganizzazione moderna caratterizzata da fenomeni che ancor oggi ben conosciamo: la creazione delle metropoli industriali, le tensioni sociali e sindacali, i problemi ecologici, il funziona­ mento delle democrazie parlamentari, lo sviluppo dei metodi di persuasione di massa. I primi anni dell’ottocento, succes­ sivi alla Rivoluzione francese, si collocano al centro di questa epoca e ne costituiscono in un certo senso la chiave di volta.

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Anche la gestione della cultura passa dalle mani del ceto aristocratico a quelle del ceto imprenditoriale e borghese. In questo passaggio di mano le attività artistiche trasformano profondamente non solo il loro assetto organizzativo, ma i lo­ ro stessi contenuti, che ora rispondono a modi di pensare, a giudizi sulla realtà, a sistemi di valore tipici della nuova classe. Nel capitolo precedente abbiamo osservato come, dal pun­ to di vista organizzativo, la trasformazione più significativa delle attività musicali sia quella del passaggio dalla conduzio­ ne aristocratica (che si basava sulle orchestre di corte, sulle grandi feste di palazzo) all’istituzione borghese del concerto pubblico con pagamento del biglietto d’ingresso. Gli esempi di questo passaggio (che non avviene naturalmente di punto in bianco) si moltiplicano in tutta Europa agli inizi dell’Ottocento e alcune istituzioni (basti pensare al già esistente Gewandhaus di Lipsia, al Concertgebouw di Amsterdam, alla «Società degli amici della musica» di Vienna) acquistano una solidità tale da sopravvivere fino ai nostri giorni. In molti ca­ si, soprattutto laddove non sia necessaria una intera orche­ stra, l’attività musicale si svolge ancora in forme semiprivate, attraverso iniziative in parte ancora parzialmente mecenatesche oppure attraverso il metodo della « sottoscrizione », ossia di abbonamenti preventivi promossi dagli stessi musicisti o dai loro manager. Sempre più rare diventano invece le occa­ sioni d’impiego in orchestre o cappelle gentilizie, i cui costi cominciano a diventare proibitivi per la situazione di graduale decadenza economica delle classi aristocratiche. Per contro diventa assai fiorente negli ambienti della bor­ ghesia benestante la pratica amatoriale del far musica in casa (Hausmusik secondo un diffuso termine tedesco). A partire da­ gli inizi dell’ottocento la Hausmusik che si svolge nei salotti della buona società diventa una sorta di status symbol, non so­ lo in Germania, ma in tutta Europa, e spesso nelle occasioni di maggior prestigio utilizza anche i buoni professionisti locali o i grandi virtuosi di passaggio. Ma la pratica amatoriale e dome­ stica (che inizialmente, come avveniva anche nel Settecento, non si distingueva da quella di livello professionale se non per la richiesta di facilitazioni tecniche) si crea a poco a poco anche una sua tradizione e un suo gusto musicale, e addirittura un ve­ ro e proprio «genere» compositivo: quello che nei paesi di lin­ gua tedesca viene definito col termine di Salonmusiky o musica da salotto. La quale tuttavia non è un fenomeno solo tedesco, ma è ampiamente presente in tutta Europa (in Italia soprattut­ to nel sottogenere vocale della « romanza da salotto »).

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A questo punto la differenza fra la musica di maggiori am­ bizioni estetiche e la Salonmusik non è tanto e non solo di ca­ rattere tecnico, ma è soprattutto di natura culturale. Nella Salonmusik tendono a riflettersi, in misura sempre più evidente nel corso del secolo, i valori, i sogni e le fantasie di una media borghesia che interpretava le trasformazioni del mondo, della società e della cultura della sua epoca sulla base di ideologie alla moda, spesso improntate a un ingenuo sentimentalismo quotidiano. Ma la Salonmusik ha anche un suo aspetto brillan­ te: per esempio nelle sue punte piu professionalizzate può es­ sere musica da virtuosi, musica strappa-applausi; in altri casi invece può essere scritta per evocare motivi amati (soprattut­ to melodie d’opera) e per rinnovare cosi il piacere di ricono­ scerli; o ancora può allietare riunioni d’amici con i ritmi delle danze in voga. In ogni caso il suo scopo non è mai quello di elaborare nuovi percorsi culturali o di mettere in crisi le cer­ tezze acquisite. Le sue fortune (che coincidono con le fortune commerciali dell’editoria che la diffonde e la promuove) sono eminentemente aproblematiche; nei casi migliori gioca un ruolo positivo l’eleganza mondana o il distacco intellettuale con cui queste composizioni vengono schizzate. In altri casi (e sono i più numerosi se non altro perché rispondono meglio al­ le esigenze diffuse) vi predomina una sorta di ingenuità cultu­ rale, ossia l’incapacità di uscire dal proprio piccolo mondo e di vederne i limiti. Ma la diffusione delle esperienze musicali a livelli sociali diversi segue anche altre strade: soprattutto nell’Europa del nord, dove esisteva una lunga tradizione di canto religioso collettivo, si diffusero ampiamente associazioni e gruppi di amatori che coltivavano la musica cantando in coro. Tali asso­ ciazioni si diffusero assai rapidamente a partire dagli inizi del secolo. I primi cori erano esclusivamente maschili, poi nac­ quero anche cori femminili o misti, spesso animati da ideali patriottici. Talora associazioni di questo tipo stavano alla base dei cosiddetti Musikfeste, specie di grandi festival musicali po­ polari (diretti in qualche caso da musicisti illustri) in cui si ra­ dunavano tutti i professionisti o i buoni dilettanti di una città o di una regione per celebrare e cantare collettivamente la propria identità culturale e talora anche quella nazionale. In Germania e in Austria il genere musicale del Lied corale ebbe una diffusione analoga a quello del Lied per voce sola e possie­ de una letteratura ricchissima a cui diedero contributi musici­ sti come Schubert, Schumann e Brahms.

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Dalla considerazione di tutto questo insieme di fenomeni una conseguenza di fondo emerge prepotentemente: la tradi­ zione musicale delle classi colte, che durante tutta l’epoca del mecenatismo era stata fortemente unitaria, tende ora a frazio­ narsi, a disperdersi in modelli molteplici, a seguire itinerari di­ versi. In altri termini, fino all’epoca di Haydn e di Mozart i generi musicali potevano anche essere molti, ma ciascun gene­ re aveva un solo modello di riferimento: chi voleva scrivere una sinfonia aveva a disposizione uno schema compositivo preciso basato su attese d’ascolto determinate e costanti. Solo all’interno di questo modello e solo rispettandone la fonda­ mentale integrità era possibile (ed era anche auspicato) mette­ re in atto la propria originalità inventiva. Nell’Ottocento i modelli di riferimento cominciano a moltiplicarsi e i limiti concessi all’originalità personale diventano man mano piu estesi. Ciò non accade solo in musica o nel campo artistico: questa molteplicità è un dato strutturale di tutte le attività culturali. Nella nuova situazione infatti gli stessi sistemi di va­ lore e di conoscenza cominciano a differenziarsi a seconda dei gruppi sociali che li esprimono; i conflitti fra interessi (che de­ terminano distinzioni sempre piu evidenti fra gruppi diversamente orientati, diversamente dotati di potere economico e politico e in possesso di diverse tradizioni e di diverse pro­ spettive di sviluppo) determinano al tempo stesso conflitti di idee e confronti fra culture. La situazione stessa del musicista si fa problematica. Venu­ to meno il rapporto di dipendenza con il mondo nobiliare che gli assicurava la sopravvivenza e al tempo stesso gli forniva i fondamentali modelli di riferimento su cui esercitare la pro­ pria creatività, il musicista reagisce dapprima con una sorta di moto d’orgoglio individuale. L’immagine di Mozart che pre­ ferisce, a rischio della sua stessa esistenza, le avventure del li­ bero professionista ai vincoli di dipendenza dal vescovo di Sa­ lisburgo, o l’immagine di Beethoven che tratta alla pari e per­ sino rudemente i rappresentanti dell’aristocrazia viennese dai quali riceve sovvenzioni che gli permettono di dedicarsi alla sua libera attività di compositore, manifestano in modo con­ creto ciò che i poeti e i filosofi delle prime cerehie romantiche teorizzavano in termini ideologici: l’opera d’arte non ha ob­ blighi con nessuno, a nessuno deve rendere ragione della pro­ pria esistenza e dei propri contenuti; essa è totalmente nelle mani dell’artista che la crea, essa è il regno della pura sogget­ tività individuale, in essa si manifesta in termini mirabili quel

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mistero della vita interiore che nelle società d’altri tempi era affidato alle parole dei grandi libri sacri o alle immagini del mito. A questa profonda, radicatissima fede nella propria mis­ sione di rivelatori, alla convinzione della eccezionalità del proprio destino dovuta al dono del genio, si contrappone tut­ tavia, nell’esistenza degli artisti romantici, una perdita netta di sicurezza sociale. E ciò non solo nel senso più immediato della sicurezza economica, ma anche in quello della perdita di funzioni e di destinatari precisi. Nel caso della musica le funzioni essenziali sono quelle as­ sicurate dalla sempre più ampia diffusione del concerto pub­ blico, i cui destinatari tuttavia (che ne sono anche i sostenitori economici) non costituiscono più un gruppo sociale coerente, potente e stabile com’era l’aristocrazia, ma si identificano in gruppi di soggetti con esigenze culturali differenziate, con si­ stemi di attese non coincidenti, con competenze d’ascolto di livello diverso. In altri termini si può dire che il musicista debba ora confrontarsi con un meccanismo per lui nuovo e imprevisto: il meccanismo del mercato musicale. E questo, lungi dall’assicurargli quell’assoluta libertà che i primi pensa­ tori romantici pretendevano dovuta al genio, lo vincola inve­ ce a tenere conto di gusti, esigenze, richieste assai più diffe­ renziate, più sfuggenti e spesso anche meno qualificate di quelle della vecchia aristocrazia. Una delle prime e più spontanee reazioni che sorgono di fronte ai nuovi problemi posti da questa difficile situazione di libertà, è quella di chi tende a «giustificare» in termini di uti­ lità sociale l’opera del musicista nei confronti dei suoi possibi­ li destinatari. Ad esempio nel 1801 la «Allgemeine Musikalische Zeitung», una delle riviste musicali più importanti del­ l’epoca, affermava che il fine più alto di ogni arte era costitui­ to dal bene spirituale dell’intero genere umano e Beethoven, nel suo Testamento di Heiligenstadt, redatto nel 1802, dichia­ rava a sua volta che lo scopo e il contenuto della sua arte si riassumeva nell’amore per l’umanità. Weber nel suo diario (1817) sanciva per se stesso l’obbligo morale «di lavorare, co­ me un valente artista, per l’onore e per il vantaggio della pa­ tria». Né mancarono esempi espliciti di «impegno sociale» di­ retto, da parte di musicisti che, nel periodo rivoluzionario, scrissero inni, marce, canti, dedicati al popolo in lotta e alle celebrazioni civili dello Stato. Alcuni anni dopo Berlioz com­ poneva a Parigi grandi opere corali-sinfoniche ispirate agli ideali della collettività nazionale. Né si deve dimenticare che

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in tutto il corso dell’ottocento è in atto in Europa (e partico­ larmente nei paesi orientali, dalla Russia all’Ungheria alla Boemia) un movimento di riscoperta delle proprie radici e della propria identità nazionale basato sulla valorizzazione del canto popolare. D’altra parte il problema delle difficili relazioni fra l’artista e la società che lo circonda trova anche soluzioni in un altro tipo di ideologia che nasce (al contrario del precedente) dalla sfiducia nella possibilità di un rapporto positivo fra gli alti ideali umani coltivati dagli artisti e la realtà di una società do­ minata dall’ansia del guadagno e della scalata sociale. Il pessi­ mismo romantico ha qui le sue radici: il senso della solitudine e dell’inutilità della vita, la malinconia, lo spleen che emana da molte affascinanti composizioni dell’epoca è direttamente connesso con la penosa situazione di frustrazione a cui l’arti­ sta è condannato da un contesto sociale che afferma di perse­ guire ideali di progresso e di riscatto umano (le «magnifiche sorti e progressive» di cui parlava ironicamente Leopardi) ma che in realtà è semplicemente tesa alla impietosa ricerca del vantaggio privato. Robert Schumann nei suoi scritti tocca as­ sai spesso questo punto quando parla con disprezzo del mon­ do dei «filistei» o quando inventa una immaginaria lega dei fratelli di Davide impegnati nella lotta contro quel mondo. La natura di questa problematica «libertà» del musicista ha ripercussioni evidenti anche nel campo delle convenzioni for­ mali sulle quali si strutturano i vari generi musicali. Il musici­ sta infatti sa bene che il suo pubblico conosce il linguaggio che egli si accinge a usare, sa che possiede abitudini, manifesta at­ tese, ha gusti che ama sentire rispettati. Egli può confermarli o può modificarli, può trattarli con partecipazione, con rispet­ to o con ironia, oppure può tendere a inserirvi elementi di no­ vità e di dubbio. In altri termini la forma musicale (e in senso più esteso, l’intero linguaggio musicale) è lo strumento speci­ fico della comunicazione, è il terreno comune sul quale il mu­ sicista può entrare in contatto con i suoi destinatari, è una forma implicita di dialogo. Naturalmente tale dialogo si manifesta in modi diversi a se­ conda dei contesti. Ad esempio nel caso della Salonmusik, la cui funzione era quella del piacevole intrattenimento, era as­ solutamente necessario rendere subito riconoscibile e godibile il senso della composizione, soddisfare abbondantemente le attese degli ascoltatori e usare infrazioni al gusto medio diffu­ so solo per quel minimo che poteva essere utile a stimolarne

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l’interesse. Nelle musiche di maggior pretesa o impegno cultu­ rale il gioco poteva essere condotto in modo più spregiudica­ to, fermi restando tuttavia anche in questo caso i limiti del re­ ciproco rispetto che doveva tenere legato il musicista al suo pubblico. Fra i grandi generi della tradizione, alcuni (in particolare quello della Sinfonia) erano strettamente connessi, se non al­ tro per la forza schiacciante del modello beethoveniano, con quell’idea sacrale dell’arte come strumento di solidarietà, di religione laica, che i primi romantici avevano diffuso e che aveva messo profonde radici nella cultura dell’epoca. Cosi, fin che questi ideali poterono reggere, la forma classica della sin­ fonia, dall’epoca di Mendelssohn a quella di Brahms, nono­ stante le sue modificazioni interne, si mantenne tuttavia an­ cora salda nelle sue strutture portanti. E lo stesso avvenne di altri generi e schemi formali «alti», come quelli del quartetto e della sonata, anch’essi fortemente legati al nobile perdurare della tradizione classica. Ma il campo della produzione cameristica si prestò imme­ diatamente anche a una serie di sperimentazioni più ardite in cui l’abbandono alla fantasia personale, la rivendicazione del diritto all’originalità individuale, la ricerca di itinerari interio­ ri più nascosti e meno prevedibili aveva più ampie possibilità di manifestarsi. I «momenti musicali» di Schubert, i pezzi fantastici di Schumann, taluni preludi o notturni di Chopin sono altrettanti esempi di questa libertà di concezione. Le «piccole forme» della musica da camera rappresentano in questo senso una sorta di mondo privilegiato fatto di intuizio­ ni fulminee, di rivelazioni imprevedibili, di insondabili pro­ fondità. Un altro aspetto formale importante del linguaggio otto­ centesco è costituito dalla sua capacità di integrare, all’inter­ no delle proprie strutture, procedimenti costruttivi nuovi per l’epoca, ma desunti dal ripristino di forme del passato in sin­ tonia con quella seduzione esercitata dal passato sulla coscien­ za dei romantici di cui già si è parlato. Vogliamo alludere non solo al graduale recupero concertistico dei repertori del passa­ to, ma anche alla progressiva e sempre più evidente integrazio­ ne di stilemi del passato nel contesto delle invenzioni musicali del presente. Cosi moduli armonici o contrappuntistici di tra­ dizione barocca acquistano, in talune composizioni di Schu­ mann o di Brahms, quasi il valore di simboli di nobiltà antica o di nostalgia per una ricchezza ideale ormai non più raggiun­

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gibile. Allo stesso modo, aspetti del medioevo gregoriano o della polifonia rinascimentale arricchiscono di allusioni quasi mitiche molte pagine sinfoniche corali e pianistiche di Liszt. Un ulteriore e forse ancor piu decisivo aspetto della conce­ zione formale del xix secolo tocca in un certo senso il fondo del problema, perché si lega alla revisione del concetto stesso di forma. Nella coscienza quotidiana dei compositori di mag­ gior impegno le strutture del suono avevano ormai acquisito la possibilità di sfuggire alle leggi di una forma precostituita: questa poteva rispondere magari alle attese del pubblico, ma per il compositore assumeva talvolta un carattere costrittivo, era sentita come una sorta di prevaricazione del sociale sul­ l’individuale. La prassi dell’invenzione quotidiana (e soprat­ tutto quella delle «piccole forme») suggeriva invece che il suo­ no e le sue strutture avevano la capacità di evocare con straor­ dinaria vivezza le immagini più intime della fantasia, del mondo emotivo e persino di aspetti del mondo reale. E ciò corrispondeva del resto alla intuizione profonda dei pensatori romantici per i quali la musica, nella sua più vera essenza altro non era che Tondichtungy poesia fatta suono. Da qui si sviluppa una nuova concezione estetica che di­ venta sempre più consapevole nel corso dei primi decenni del secolo, secondo la quale la forma musicale deve subordinarsi alle intenzioni espressive e comunicative del musicista, e non viceversa. A questo punto il rapporto fra la natura collettiva della forma (il suo legame e le attese degli ascoltatori) e le esi­ genze individuali del musicista, si inverte: il musicista crea la sua personale forma e la impone al pubblico. È ciò che avvie­ ne ad esempio nei «poemi sinfonici» o in altri brani descritti­ vi di Liszt, dove l’ascoltatore è invitato a cogliere il senso di un complesso percorso sonoro senza tuttavia possedere alcuna chiave preventiva di interpretazione o di previsione di quel percorso. L’unica traccia che gli viene concessa è il titolo del brano o (quando c’è) l’indicazione delle intenzioni descrittive dell’autore contenuta nel «programma» che accompagna il brano. Questa accentuata personalizzazione della forma e del lin­ guaggio musicale crea un capovolgimento di prospettiva stori­ ca rispetto al passato. Laddove nelle epoche precedenti l’indi­ vidualità del singolo creatore, a seconda della propria origina­ lità e forza creativa, spiccava sullo sfondo di un linguaggio co­ mune, ora invece condiziona direttamente l’evoluzione del lin­ guaggio musicale in sempre più rapida trasformazione crean­

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do l’illusione prospettica di un processo evolutivo rettilineo e progressivo. Un’illusione prospettica determinata dalla velo­ cità con cui, rispetto al passato, si bruciano le tappe di questa evoluzione. Anche e specialmente nel periodo romantico, le sollecitazioni plurime e contrastanti cui è sottoposta la co­ scienza creativa dei singoli (dal mercato musicale, dalle moti­ vazioni poetiche individuali, dagli influssi stilistici reciproci), i tempi e i modi di reazione e di assorbimento delle innovazio­ ni stilistiche e linguistiche quasi mai immediati e rettilinei (emblematico il caso di Schubert che si vedrà più avanti), le specifiche caratteristiche culturali delle diverse aree geografi­ che anche all’interno di una stessa tradizione, rendono parti­ colarmente problematica la comprensione storica e la tratta­ zione di questo periodo, che sarà condotta seguendo il criterio della suddivisione geografica delle aree culturali e dell’identi­ ficazione delle personalità creative di maggiore rilievo consi­ derate come centri di.assorbimento e di irradiazione dell’arte e della cultura musicale nel periodo romantico, [ef e mb] 2. Le grandi figure del Romanticismo in Austria e in Ger­ mania: Franz Schubert, Carl Maria von Weber, Felix Mendelssohn e Robert Schumann.

Diverse delle considerazioni fatte nel precedente paragrafo sui rapporti tra musica e Romanticismo e sulle trasformazioni determinate da questo rapporto sullo sfondo del panorama sto­ rico, sociale e politico dell’epoca sono estensibili - con le do­ vute distinzioni - all’intera civiltà europea, ma valgono in mo­ do particolarissimo e precipuo per l’area austrotedesca: poiché il movimento romantico sorse e si sviluppò dapprima in quell’a­ rea è ovvio che la musica vi subf influssi quanto mai profondi ed immediati. Nei primi tre decenni del secolo fu ancora Vien­ na a mantenere, come nella seconda metà di quello precedente, la preminenza artistica in campo musicale. Una preminenza che le derivava innanzitutto dalla presenza di Beethoven, e di un altro geniale compositore, che solo retrospettivamente fu ri­ conosciuto in tutta la sua grandezza: Franz Schubert. Dopo la morte Franz Schubert (Vienna 1797-1828) diven­ ne una delle figure emblematiche della Vienna degli anni della Restaurazione, anche se spesso in una immagine edulcorata e riduttivamente dimessa. Con la vita musicale ufficiale della capitale asburgica, tuttavia, i rapporti di Schubert furono

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assai problematici. Il successo dell’opera italiana e le chiusure provinciali cui si avviava la vita concertistica a Vienna rende­ vano difficile la posizione di un musicista come Schubert (che non era un pianista virtuoso, e che cercò piu volte inutilmente una affermazione teatrale): dopo aver definitivamente abban­ donato nel 1818 il posto di maestro di scuola accanto al pa­ dre, egli dipese dall’aiuto e dall’ospitalità di una ristretta cer­ chia di amici; d’altra parte non ebbe alcun rapporto con gli ambienti aristocratici che protessero Beethoven. La dimen­ sione privata delle « schubertiadi » era limitata ad un circo­ scritto gruppo di amici (di cui fecero parte anche intellettuali come F. Grillparzer e J. Mayrhofer, un perseguitato politico come J. Senn e il baritono Vogl, primo interprete di molti Lieder), e alcuni dei capolavori di Schubert divennero famosi do­ po la sua morte o furono scoperti postumi: ad esempio Schu­ mann promosse la prima esecuzione della Sinfonia in do mag­ giore (l’ultima portata a termine da Schubert, iniziata quasi certamente nel 1825, e finita nell’arco di due o tre anni) dopo averla ritrovata nel 1839, mentre la Sinfonia in si minore (1822, nota come Incompiuta perché comprende soltanto due tempi e un esteso frammento del terzo) rimase sconosciuta fi­ no al 1865. Di un catalogo vastissimo (un migliaio di numeri) Schubert diede alle stampe solo un centinaio di opere: notevole diffu­ sione ebbero i Lieder, l’unico genere cui egli si dedicò senza interruzioni, dall’epoca dei primi lavori (1810-11) all’anno della morte, determinando una radicale trasformazione del suo stesso significato e creando un mondo di sconfinata vasti­ tà dove sono presenti tutti i temi chiave del Romanticismo. Da genere sostanzialmente minore, o comunque di limitate ambizioni, il Lied si trasforma in breve frammento lirico, ca­ pace di racchiudere in sé una mobilissima drammaturgia ed il­ luminazioni intensissime (dove una modulazione, una intui­ zione armonica, un gesto melodico possono assumere un rilie­ vo espressivo decisivo). La natura stessa del Lied schubertiano rende sterile ogni tentativo di classificazione formale: di volta in volta l’incontro tra un testo poetico (non necessariamente di grande valore in sé e per sé) e la musica che lo trasfigura in un certo senso appropriandosene, avviene in modi diversi, compresi tra gli estremi della più semplice stroficità (ad esem­ pio in Heidenroslein, «Rosellina di macchia») e del Lied durchkomponiert (cioè composto interamente senza ripetizioni, o simmetrie o schemi), con infinite possibilità intermedie, che

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spesso si possono ricondurre alla estrema flessibilità della stroficità variata. Soluzioni di fresca semplicità e intuizioni di arditissima originalità formale si incontrano tra i primi come tra gli ultimi capolavori di Schubert per canto e pianoforte, e non avrebbe senso tentare di delineare la storia dei suoi Lieder partendo da una osservazione esteriore degli schemi. Si può invece ricordare l’incidenza di alcune scelte poetiche, dall’in­ contro con i versi di Goethe, decisivo in una prima fase, a quello con Heine nell’anno della morte, quando sembra forse profilarsi una nuova svolta nelle vicende del Lied schubertiano. Su testo di Goethe è il primo capolavoro di Schubert, Gretchen am Spinnrade (Margherita all’arcolaio, 1814), e cer­ tamente questi famosi versi del Faust esercitarono una sugge­ stione determinante per la definizione di uno dei principi del Lied schubertiano: la musica infatti crea una fondamentale unità di tono, nel segno di una ansiosa inquietudine, acco­ gliendo e trasfigurando il nucleo poetico della canzone di Margherita, e aprendosi ad una grande varietà e duttile sotti­ gliezza di soluzioni espressive (per questo Lied si potrebbe parlare di sovrapposizione di uno schema formale a rondò, AB ACADA, e di forma strofica variata, date le affinità che legano le diverse sezioni). Nel 1814 c negli anni immediata­ mente successivi sono numerosi i testi goethiani musicati da Schubert (per divenire poi piu rari): da altre pagine del Faust alle liriche del Wilhelm Meister legate alle figure di Mignon e dell’arpista, da Erlkonig (1815) a Suleika Ie II(1821); anche se non soltanto a poeti illustri come Goethe o Schiller si può riconoscere un ruolo privilegiato nelle scelte del primo Schu­ bert. E poi significativo che il variegatissimo percorso del­ le scelte poetiche schubertiane approdi alla fine a Heine nel 1828, con i sei Lieder che furono pubblicati postumi, arbitra­ riamente uniti a Lieder su testo di Rellstab e di Seidl, nella raccolta cui fu dato il titolo di Schwanengesang (Canto del ci­ gno, perché conteneva gli ultimi Lieder di Schubert). Alcune delle intuizioni più sconvolgenti e ardite nascono dall’incon­ tro con i versi di Heine: basti citare l’intensissima declama­ zione di Der Doppelganger (Il sosia), che si staglia sulla spettra­ le staticità, sulla fissità ostinata della parte pianistica (una sor­ ta di libera passacaglia) e che può essere collocata fra gli ante­ cedenti della vocalità wagneriana. Nella impossibilità di individuare un centro ed una imma­ gine univoca nel mondo del Lied schubertiano si potrà sotto­ lineare il rilievo che vi assume l’immagine del Viandante, la

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cui condizione esistenziale è definita in Der Wanderer (su te­ sto di G. Ph. Schmidt von Lubeck, 1816, un Lied dalla strut­ tura liberissima), come angoscioso sradicamento, smarrita so­ litudine, amaro disincanto. La figura del Viandante appare peraltro in infinite situazioni diverse, e un Viandante è il pro­ tagonista in ognuno dei due cicli di Lieder di Schubert, en­ trambi su testo di Wilhelm Miiller, Die Schòne Mùllerin (La bella mugnaia, 1823) e Die Winterreise (Il viaggio d’inverno, 1827). Nel primo l’approdo mortale della delusione amorosa del giovane mugnaio è raggiunto dopo un percorso più vario, definito da pagine dove predomina la raffinatissima «sempli­ cità» di forme strofiche; nell’altro il desolato vagare in un ge­ lido, ostile paesaggio invernale si lega a scelte stilistiche più complesse, tra livide visioni e vagheggiate dolcezze melodiche minate da un gelido disincanto, e si conclude su un interroga­ tivo (rivolto ad un vecchio, derelitto e folle suonatore di ghi­ ronda), in un vuoto al di là della disperazione. Secondo una felice immagine di Adorno la figura del Vian­ dante può servire da chiave anche per comprendere l’origina­ lità del rapporto di Schubert con le grandi forme classiche, la natura dei suoi lunghi percorsi formali, cosi liberi e aperti, co­ si lontani dalle rettilinee tensioni di molte pagine beethoveniane: riconoscendo nella musica di Schubert un «carattere di paesaggio», Adorno la paragonava al paesaggio infinitamen­ te mutevole che si schiude agli occhi del Viandante. Già Schumann, nel famoso articolo sulla Sinfonia in do maggiore (nota impropriamente anche come n. 7 perché fu la prima co­ nosciuta dopo le sei sinfonie giovanili, mentre ^Incompiuta fu attribuito poi il n. 8), sottolineava la «assoluta indipenden­ za da Beethoven», la «divina lunghezza», simile a quella di un romanzo «che non finisce mai, per l’ottima ragione di la­ sciar creare il seguito al lettore»: come dire che il dilatarsi nel tempo di certe fondamentali pagine schubertiane non condu­ ce l’ascoltatore ad una meta precisa, si apre a percorsi non dialettici, dove le modulazioni sembrano piegarsi ad un fanta­ sioso divagare, ad un cangiare di colori timbrico-armonici, in una dimensione del tempo nuova nella sua libertà ed imme­ diatezza, nel suo carattere onirico, capace di accogliere in sé, attimo per attimo, i più mutevoli contenuti ed impulsi senza approdare alla meta di una ben definita catarsi. Si pensi, per citare un solo esempio, al profilarsi incerto, esitante, più volte interrotto, del tema iniziale dell’ultima sonata pianistica, o al­ le prime battute del Quintetto per archi, con il caratteristico

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chiaroscuro maggiore/minore, che sembrano dapprima una in­ troduzione lenta, e si rivelano, nel loro libero fluire, non ri­ conducibili a una categoria formale tradizionale. Delle forme classiche Schubert conserva soltanto lo schema esteriore, pie­ gandolo a nuovi significati, aprendolo ad un libero soliloquio, improntato spesso ad un lirismo struggente, dove la compiuta bellezza di molte idee melodiche non si presta a uno sviluppo vero e proprio e comporta infatti una logica nuova, che in un tempo dilatato conosce l’indugio, la parentesi, la ripetizione, una logica secondo cui le modulazioni hanno il significato di un trascolorare, di un mutamento della luce, di una digressio­ ne prospettica. Ad una matura e coerente definizione della propria origi­ nalissima logica formale Schubert non giunse, nelle grandi forme, con la stessa rapidità ed immediatezza rivelata nel Lied. Molte pagine giovanili, come le prime sei sinfonie (1813-18), i primi quartetti (1811-16), o le sonate pianistiche del 1815-18, lavori che verosimilmente non erano tutti desti­ nati alla pubblicazione, presentano una freschezza e un fasci­ no rivelatori; ma nella produzione strumentale di Schubert si può considerare il 1820 come il momento di una svolta, della conquista della piena maturità, se si intendono come sintesi conclusive del periodo giovanile due capolavori incantevoli del 1819, la Sonata in la maggiore D. 664 e il Quintetto in la maggiore D. 667 per pianoforte e archi (detto «La trota» dal titolo del Lied che vi è oggetto di variazioni, esempio non raro di rapporti tra Lied e musica strumentale in Schubert) e se si riconosce nel Tempo di quartetto in do minore (misteriosamen­ te rimasto senza seguito) del 1820 l’inizio di una fase nuova. Ad essa appartengono tre Quartetti (1824-26), un Ottetto (1824), due Trii con pianoforte (1827), un Quintetto per archi (1828), le citate Sinfonie in si minore e in do maggiore, molta musica pianistica. Nello stesso anno deW Incompiuta Schubert compose la Fantasia in do maggiore op. 15 (1822), nota come Wanderer-Fantasie perché un frammento del Lied Der Wande­ rer vi è citato e variato, e serve da nucleo generatore: per il ca­ rattere utopico dell’ardua scrittura virtuosistica la Fantasia è un caso a sé, e precede le otto sonate pianistiche composte tra il 1823 e il 1828. Tre soltanto furono pubblicate da Schubert come Op. 42 (1824), 53 (1825) e 78 (1826), mentre uscirono postume nel 1838 le ultime tre (in do minore D. 958, in la maggiore D. 959, in si bemolle maggiore D. 960) composte probabilmente per la maggior parte nel settembre 1828, capo­

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lavori che rappresentano nel loro diverso carattere quasi una summa della sonata pianistica schubertiana. Dopo la morte di Schubert ebbero una fortuna assai mag­ giore delle sonate i sei Moments musìcaux (forse 1823, pubbli­ cati però nel 1828) e gli Impromptus op. 90 e op. 142 (1827), ai quali vanno aggiunti i postumi e meno diffusi tre Klavierstùcke del 1828: queste pagine sono punti di riferimento per la ricerca romantica di alternative alle forme classiche nella raccolta di pezzi lirici o nel ciclo di brevi pezzi (in ciclo sono organizzate le piu significative danze pianistiche di Schubert). Grande rilievo infine ha la musica per pianoforte a quattro mani (concentrata soprattutto negli anni 1818, 1824, 1828), che riscatta un genere considerato minore, legato ad una di­ mensione domestica. Nella produzione sacra spiccano le due grandi messe, D. 678 (1819-22) e D. 950 (1828); a sé va ricordato lo straordi­ nario frammento dell’oratorio Lazarus (1820), di sorprenden­ te originalità. Per il teatro Schubert compose musiche di sce­ na per Die Zauberharfe (L’arpa magica, 1820) e Rosamunde (1823) e numerose opere che ancora oggi attendono una for­ tuna adeguata al loro valore musicale: tra gli esiti maggiori Al­ fonso und Estrella (1821-22) e Fierrabras (1823). L’anno in cui Schubert terminava Alfonso ed Estrella, a Vienna Rossini furoreggiava con la sua Zelmira, e un che di rossiniano penetrò in quella che fino ad oggi è l’opera più nota di Schubert e che, come buona parte della sua produzione musicale, dovette attendere diversi decenni prima di essere riesumata (fu rappresentata 32 anni più tardi a Weimar sotto la direzione di Liszt). Non devono trarre in inganno il libretto in lingua tedesca ed il colore superficialmente romantico. L’intreccio, la struttura formale, e fino ad un certo punto la musica stessa derivano piuttosto da una matrice italiana. No­ nostante per molti aspetti ed in diversi generi il compositore viennese si possa considerare il primo grande esponente del romanticismo musicale, in campo operistico questo primato toccò a Cari Maria von Weber (Eutin, Lubecca 1786 - Lon­ dra 1826). L’anno in cui Schubert aveva iniziato la composi­ zione di Alfonso ed Estrella, nel 1821, a Berlino (il 18 giugno, precisamente) andava in scena il Freischutz (Il franco cacciato­ re). Questo capolavoro, tosto considerato come il prototipo dell’opera romantica tedesca, non ha perso oggi la forza fresca ed immediata di una rivelazione originaria. Nella storia dell’o­ pera romantica tedesca esso è preceduto tuttavia da creazioni

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che Weber stesso, nella sua notevole attività di critico e scrit­ tore, considerò rilevanti: in modo particolare il 'Faust (1816) di Ludwig Spohr (Braunschweig 1784 - Kassel 1859) e Undi­ ne (1816, dal racconto di Friedrich de la Motte Fouqué) di E. Th. A. Hoffmann. In Undine, ad esempio, egli elogiava «quella vita fantastica legata al mondo degli spiriti, le cui dol­ ci emozioni d’orrore sono proprie del fiabesco». Weber sotto­ linea in Hoffmann suggestioni che appartengono anche alla sua poetica, l’idea dell’orrido, del fiabesco, del mondo degli spiriti come aspetti del romantico. Faust di Spohr e Undine di Hoffmann (il cui apporto deci­ sivo alla coscienza musicale romantica resta però in primo luo­ go legato all’attività di scrittore e critico) costituivano signi­ ficativi momenti di ricerca nel periodo della fondazione di un’opera nazionale tedesca, perseguita già nel secolo prece­ dente anche in contrapposizione alla sostanziale egemonia che l’opera italiana ebbe a lungo in Germania ed in Austria, gra­ dualmente superata soltanto nella prima metà del secolo xix. Il consapevole contributo di Weber a questa fondazione fu un aspetto centrale della sua febbrile attività, non soltanto crea­ tiva: egli infatti, oltre ad essere uno dei più brillanti virtuosi di pianoforte, si impegnò intensamente, a partire dal 1804, nella direzione d’orchestra, soprattutto in teatro, imponendo­ si come uno dei primi grandi direttori in senso moderno. Al teatro musicale sembrava predestinato: il padre, Franz An­ ton, violinista e compositore (zio di Constanze Weber, la mo­ glie di Mozart), aveva formato una compagnia itinerante e se­ guendone gli spostamenti il precoce Cari potè studiare con di­ versi maestri, fra l’altro a Salisburgo con Michael Haydn, che lo aiutò a rivedere l’opera Peter Schmoll (1801-802, rappre­ sentata a Augusta 1803). Una importante influenza sulla for­ mazione di Weber fu esercitata dall’abate Georg Joseph Vo­ gler (Wiirzburg 1749 - Darmstadt 1814), che i contemporanei apprezzarono soprattutto come didatta (fu anche il maestro di Meyerbeer), teorico ed improvvisatore: Weber, che lo conob­ be a Vienna nel 1803, studiò ancora con lui a Darmstadt nel 1810-11, quando già aveva alle spalle una intensa attività a Breslavia e Stoccarda. Le intuizioni di Vogler nel campo del­ l’armonia e della strumentazione furono certamente importan­ ti per il giovane Weber, che nel 1810-11 compose il Singspiel Abu Hassan (Monaco 1811) ispirato alle Mille e una notte, di carattere vivacemente umoristico. Sempre a Darmstadt diven­ ne amico del clarinettista Heinrich Bàrmann (cui è legata gran

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parte della sua produzione per clarinetto) e venne a conoscen­ za del soggetto del Freischutz, di cui subito si innamorò, deci­ dendo tuttavia di rimandare il progetto. Dall’inizio del 1813 al 1816 fu Kapellmeister al Teatro di Praga e nel 1817 assunse lo stesso incarico al Teatro Reale di Dresda come responsabile dell’opera tedesca. La sua chiama­ ta in una città il cui teatro era legato a tradizioni italiane, e dove era già presente Francesco Morlacchi (Perugia 1784 Innsbruck 1841) come direttore della cappella reale e dell’Opera italiana, era tesa a dare un nuovo significato al teatro dell’Opera tedesca nella capitale sassone. Weber (che dovette fa­ re costantemente i conti con la rivalità di Morlacchi) appariva già allora la persona piu adatta a questo compito. A Dresda, come in precedenza a Praga, Weber diede spazio prevalente al repertorio francese, nella convinzione che fosse questa la via per proporre una alternativa al predominio italiano, per preparare e favorire lo sviluppo dell’opera tedesca. Egli inol­ tre riteneva (come Hoffmann) che peculiare dello spirito del teatro musicale tedesco dovesse essere una concezione dell’o­ pera come organismo unitario, dove tutte le arti devono con­ vergere in una prospettiva unificata, totale: l’idea wagneriana del Gesamtkunstwerk, pur in formulazioni diverse, percorre tutta la cultura romantica in Germania fin dall’inizio del seco­ lo xix. A Praga Weber aveva proposto il Fernando Cortez di Spontini, e inoltre Cherubini, Isouard, Bo’ieldieu, Dalayrac, Grétry, Méhul, a Dresda iniziò con il Joseph di Méhul e diede largo spazio agli stessi autori. Non c’è da stupirsi se sono rile­ vanti i rapporti con il teatro francese nella partitura del primo capolavoro teatrale di Weber, Der Freischutz, che egli iniziò a comporre a Dresda nel 1817, dopo aver incontrato nella capi­ tale sassone Friedrich Kind, l’autore del libretto. La compo­ sizione, rallentata anche dalla febbrile intensità delle altre at­ tività di Weber, fu portata a termine nel maggio 1820, ma un’aria fu aggiunta nel 1821. Intanto Weber aveva scritto an­ che le musiche di scena per la Preciosa di P. A. Wolff (Berlino 1821) e aveva posto mano al progetto di un’opera comica Die drei Pintos (I tre Pinto), che in seguito riprese e prosegui (al­ meno fino al 1824; ma aveva con sé il manoscritto nel suo ul­ timo viaggio a Londra) senza avere il tempo di portarla a ter­ mine: nel 1886 Mahler intraprese una ricostruzione dell’ope­ ra, completando gli schizzi dei sette pezzi composti e inte­ grandoli con altre musiche di Weber (la prima rappresentazio­ ne della ricostruzione mahleriana ebbe luogo a Lipsia il 20

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gennaio 1888). Dìe drei Pintos e Preciosa hanno una ambienta­ zione spagnola e rivelano un interesse per il «colore locale», lo stesso che, anni prima, aveva indotto Weber a prendere dal Dictìonnaire de Musique di Rousseau una melodia pentatonica cinese per l’ouverture e le musiche di scena per la Turandot di Schiller da Gozzi (Stoccarda 1809), mentre l’esotismo di Abu Hassan si può ricollegare alla voga settecentesca delle « tur­ cherie ». L’interesse di Weber per l’esotico, il pittoresco, il «carat­ teristico», che trovò stimoli nell’abate Vogler, è aspetto es­ senziale della sua poetica romantica. Già agli occhi di Fried­ rich Schlegel il «caratteristico» e il romantico si congiungeva­ no, differenziandosi dalla plasticità e dall’universalità della concezione classicistica di una bellezza ideale, e sotto il segno del caratteristico si possono porre diversi aspetti essenziali della poetica weberiana, dal virtuosismo brillante al gusto per il cavalleresco, il fantastico, il fiabesco, il bizzarro, dall’esoti­ smo all’interesse per il popolare. In questo contesto si inqua­ drano anche i caratteri «nazionali» del Preischùtz, e non c’è allora da stupirsi se quello che Wagner giudicava «il più tede­ sco di tutti i compositori» rivela una apertura cosmopolita. Nel suo primo capolavoro teatrale, che divenne subito uno dei caposaldi del repertorio in Germania, sarebbe difficile in­ dividuare l’aspetto specificamente tedesco se si guardasse sol­ tanto ai problemi tecnico-compositivi, al «genere» cui il Preischutz si può ricondurre. Per questa partitura non sarebbe im­ proprio parlare di eclettismo linguistico (si intende, assunto in modo personalissimo ed originale) in una impostazione forma­ le vicina soprattutto alla tradizione dell’opéra-comique, messa in rapporto, però, con il fantastico-fiabesco e il soprannatura­ le, elementi lontani dai soggetti prediletti dagli autori france­ si. Un sapore inconfondibilmente francese ha la parte di Annchen, l’amica e confidente della protagonista Agathe e si può stabilire un rapporto tra certi accenti elegiaci del Max di We­ ber e il Joseph di Méhul o tra il Dourlinsky della Lodoiska di Cherubini e il malvagio Caspar, ma in senso più lato si può di­ re che l’impianto complessivo si rivela debitore al «genere» dell’opéra-comique più che ai precedenti del Singspiel, pur es­ sendo presenti aspetti marcatamente tedeschi come i cori di tono popolare (ma anche l’individuazione di un colorito etni­ co trova riscontro nelle tradizioni francesi). Con queste osser­ vazioni sulle premesse storiche del Preischùtz e sul genere cui si ricollega con assoluta originalità non si sottrae nulla al suo

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enorme significato nella storia della musica e della cultura te­ desca (a questo proposito basterebbe pensare al modo in cui viene citato in alcuni passi cruciali del Doktor Faustus di Tho­ mas Mann, nei capitoli xvi e xxv: in quest’ultimo Samiel è nominato come figura archetipica del demonio); ma si sotto­ linea che il suo rilievo esemplare, paradigmatico, dipende non da caratteri tedeschi identificabili in precise categorie stilisti­ che, ma dalla concezione generale, dalla irripetibile originalità dello stile di Weber, dal colore peculiare che egli conferì all’o­ pera, dalla forza e dalla freschezza rivelatrici con cui egli af­ fronta alcuni temi chiave della coscienza romantica. La vicenda è desunta da un racconto di J. A. Apel (del 1810, che riecheggiava antiche leggende) e da una tragedia di F. X. von Caspar del 1812 (che, come l’opera, trasforma in lieto fine la conclusione tragica del racconto): vi si riconosco­ no echi faustiani trasferiti in un ambiente popolare e integrati in un contesto dove si accentua la presenza del magico e del soprannaturale. Il cacciatore Max per amore di Agathe è in­ dotto ad un patto con le forze del male (impersonate da Sa­ miel, «il Cacciatore Nero», e dal malvagio Caspar, al suo ser­ vizio) per ottenere pallottole magiche: conteso tra il mondo delle «potenze oscure» e quello libero e luminoso ad esse con­ trapposto, tra Caspar e Agathe, Max alla fine si salva. La con­ trapposizione tra luce e tenebre, tra vita della foresta e poten­ ze oscure che sta alla base della drammaturgia del Freischutz è definita da Weber con scelte tonali e soprattutto coloristiche nitidamente individuate: i còrni, suggestivamente valorizzati con una nuova, vivida freschezza, fin dall’ouverture, sono i protagonisti dell’evocazione della vita dei cacciatori e del pae­ saggio della selva boema, mentre per Samiel ricorre più volte una combinazione timbrica del clarinetto nel registro basso, del tremolo degli archi e del timpano. A Samiel si lega l’accor­ do di settima diminuita e i suoni di questo accordo (fa diesisla-do-mi bemolle) definiscono anche l’impianto tonale del Fi­ nale II, della famosa scena della Gola del Lupo dove Max e Caspar, tra orrende visioni, invocano Samiel e fondono le pal­ lottole magiche. La forza evocativa di questa scena, «visione d’inferno che scaturisce da miniature Biedermeier» (Adorno), mostra in modo esemplare a quale intensità allucinata posso­ no giungere le intuizioni timbriche di Weber. Fra le quali si citerà ancora il sinistro trillare dell’ottavino nel Lied di Ca­ spar, che porta l’indicazione Allegro feroce. E questo, come la settima diminuita di Samiel e il suo colore, come molti altri

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aspetti del linguaggio dell’opera, un esempio tipico del rilievo del «caratteristico» nel romanticismo di Weber, del significa­ to assunto da singole intuizioni isolatamente valorizzate, tese alla folgorante intensità del momento. Altri aspetti essenziali del suo mondo poetico pone in luce Euryanthe, composta per Vienna nel 1822-23 (su richiesta di Domenico Barbaja) su libretto di Helmine de Chézy e rappre­ sentata nell’ottobre 1823: qui Weber tentò l’ambizioso pro­ getto di un’opera tedesca musicata da capo a fondo, senza se­ zioni recitate, dove assumessero maggior rilievo gli elementi che già nel Freischutz tendono a collegare fra loro con remini­ scenze e richiami alcuni brani, e dove la articolazione in nu­ meri chiusi, pur mantenuta, fosse in certa misura superata in una nuova continuità. I limiti del libretto, chiari già a Weber, furono forse determinanti nell’escludere questo capolavoro dal repertorio; ma non ne compromisero il rilievo storico, as­ sai superiore alla sua diffusione: basterebbe ricordare la devo­ ta ammirazione di Schumann e di Wagner, che di questa par­ titura si rivela debitore fino al Lohengrin. La vicenda dell’in­ nocenza tradita (ma alla fine riconosciuta) di Euryanthe si col­ loca sullo sfondo di un Medioevo romantico e cavalleresco, definito da una tinta complessiva di grande nobiltà e sugge­ stione, e vive in una musica ricca di inquietudini segrete, in­ canti lirici, impennate eroiche: va sottolineato che per la pri­ ma volta in un’«opera romantica» si tentava una continuità musicale che escludeva le parti recitate e che era propria di al­ tri generi e di altri tipi di soggetti. Alla alternanza tra musica e parlato Weber ritornò con il suo ultimo capolavoro, Oberon, composto nel 1825 per il Covent Garden di Londra (dove lo diresse il 12 aprile 1826: mo­ ri di tisi due mesi dopo) su libretto in inglese di James Robin­ son Planché, da Wieland. Gli aspetti cavallereschi, fantastici e fiabeschi della poetica di Weber (e un pittoresco esotismo già preannunciato in altri lavori) danno vita a nuovi incanti di straordinaria pregnanza ed a nuove intuizioni timbricoarmoniche: di questa vena fiabesca non avrebbero dimentica­ to le suggestioni autori come Mendelssohn, Lortzing e Marschner. Il rilievo del teatro musicale nell’opera di Weber, so­ prattutto negli anni della maturità, non deve far dimenticare gli altri aspetti della sua produzione, in particolare le quattro geniali sonate (1812, 1816, 1822), la cui scrittura presenta una fresca originalità, e altre pagine pianistiche, come il famo­ so rondò brillante Aufforderung zum Tanz (Invito alla danza,

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1819), che fu strumentato da Berlioz o il Konzertstuck per pia­ noforte e orchestra (1821), concepito come una scena cavalle­ resca secondo una sorta di «programma interiore». Di grande rilievo anche la produzione per clarinetto, in modo particolare il Duo concertante del 1815-16. In molte di queste pagine il virtuosismo della scrittura ha il piglio brillante e lo slancio ro­ mantico di una tensione al limite, di una sfida, e le intuizioni timbriche presentano una ricchezza non lontana da quella del­ le opere teatrali. Accanto a Weber e prima di Wagner altri compositori as­ sumono un posto di rilievo nelle vicende dell’opera romantica tedesca. Se Spohr con Jessonda (Kassel 1823) e altri lavori si rivela legato ad una drammaturgia musicale piuttosto tradi­ zionale, va sottolineata invece in Heinrich August Marschner (1795-1861) la robusta efficacia teatrale, l’interesse per il so­ prannaturale, la inclinazione a creare una continuità dramma­ tica pur con soluzioni formali a numeri chiusi. Tra le opere di maggior rilievo Der Vampyr (Lipsia 1828), Der Templer und diejudin (Il templare e l’ebrea, da Scott, Lipsia 1829) e so­ prattutto Hans Heiling (Berlino 1833). Oltre all’isolata Genoveva di Schumann vanno ricordate, nel primo Ottocento tedesco, anche le opere di Albert Lortzing (Berlino 1801-51) e di Cari Otto Nicolai (Konigsberg 1810 - Berlino 1849). Il capolavoro di Nicolai è una delle più felici opere comiche dell’epoca, Dìe lustìgen Weiber von Wind­ sor (Le allegre comari di Windsor, da Shakespeare, Berlino 1849). Nella copiosa produzione di Lortzing elementi roman­ tici sono presenti in una prospettiva eclettica, che accoglie suggestioni dalla tradizione del Singspiel (Dittersdorf, Hiller), da Mozart, da Marschner, Weber, Spohr. Una piacevole e vi­ vace vena comica rivela Zar und Zimmermann (Zar e carpen­ tiere, 1837); Hans Sachs (Lipsia 1840) anticipa il soggetto dei wagneriani Meistersinger, seguirono fra le altre Undine (1845) e Regina, dall’inconsueto soggetto rivoluzionario (1848). Dopo la morte di Beethoven e Schubert la Vienna della Restaurazione e dell’immobilismo di Metternich rimase per circa un trentennio ai margini della musica europea più vitale e nessuno dei maggiori protagonisti fu indotto a trattenervisi (fino all’epoca in cui vi si stabili Brahms): Liszt e Chopin vi passarono soltanto e fallirono i tentativi di Schumann di tra­ sferirvisi e di porvi la redazione della sua rivista. Nel mondo tedesco i compositori più significativi del secondo trentennio del secolo furono attivi in città come Lipsia, Berlino, Dresda,

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Dusseldorf. La breve ma intensissima attività di Felix Men­ delssohn (Amburgo 1809 - Lipsia 1847) come compositore, direttore d’orchestra, pianista, organizzatore (con un successo che ne fa l’emblema della nuova figura professionale del mu­ sicista del secolo xix) ebbe i suoi poli in Berlino, Lipsia, Dus­ seldorf (e Londra, meta di molti viaggi) e lasciò un segno pro­ fondo nella vita musicale tedesca. A Berlino si compì la for­ mazione (non limitata alla musica) di Mendelssohn, che trovò molteplici stimoli anche nella ricchezza intellettuale dell’am­ biente familiare (era figlio di un banchiere ebreo e nipote per parte di padre del filosofo illuminista Moses Mendelssohn): nel 1819 divenne allievo di Cari Friedrich Zelter (Berlino 1758-1832), il consigliere musicale di Goethe, che il precocis­ simo adolescente potè conoscere. A Berlino ascoltò le lezioni universitarie di estetica di Hegel ed esordi come compositore e direttore d’orchestra, facendosi fra l’altro promotore ed in­ terprete della prima esecuzione moderna della Passione secon­ do Matteo di Bach alla Singakademie nel 1829 (mentre negli anni seguenti al Niederreinisches Musikfest a Dusseldorf di­ resse numerosi oratori di Hàndel). A Berlino infine collaborò con Federico Guglielmo IV (dal 1841) ai progetti di rinnova­ mento della vita musicale della città. Questa collaborazione non gli impedì di mantenere rapporti con Lipsia, dove si sta­ bili nel 1837 (per tornare a Berlino nel 1843): egli assunse la direzione dell’orchestra del Gewandhaus nel 1835 e dal 1843 si dedicò intensamente alla fondazione, organizzazione e gui­ da del nuovo Conservatorio. Con l’orchestra del Gewandhaus Mendelssohn fu protagonista fra l’altro delle prime esecuzioni dell’ultima sinfonia di Schubert (nel 1839) e della prima e se­ conda di Schumann (1841, 1846) e ovviamente di molte altre musiche nuove; ma lavorò anche in un’altra direzione, allora senza precedenti, proponendo «concerti storici» con musiche dimenticate dall’epoca di Bach e Hàndel in poi. Le scelte aperte nel campo della musica nuova si affiancavano ad un ri­ torno all’antico: tale prospettiva non interessa soltanto l’atti­ vità di Mendelssohn direttore e organizzatore musicale; ma riguarda inseparabilmente la poetica del compositore, nutrita anche di una consapevole riflessione sul passato storico. Si comprende in questa luce il fecondo rapporto con mo­ delli hàndeliani instaurato dagli oratori Paulus (Dusseldorf 1836) ed Elijah (Birmingham 1846) che per la ricchezza in­ ventiva unita ad una elevata conoscenza storico-musicale e ad una nobile tensione ideale possono essere considerati mo­

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menti di sintesi particolarmente significativi dell’arte di Men­ delssohn. I loro caratteri stilistici, la conciliazione di originale forza inventiva (aperta anche ad accenti di grande vigore drammatico) e di controllata eleganza, il loro presentarsi, in­ somma, sotto il segno di un equilibrio compiutamente risolto, definiscono con chiarezza la singolarità della posizione di Mendelssohn fra i romantici della sua generazione. Recensen­ do il Trio con pianoforte op. 49 Schumann ebbe a scrivere di lui: «È il Mozart del secolo xix, il più limpido musicista che primo ha chiaramente viste e riconciliate le contraddizioni dell’epoca». Sono infatti estranei a Mendelssohn gli aspetti più inquietanti e radicalmente eversivi del Romanticismo, e l’ideale artistico di Goethe sembra aver lasciato un segno pro­ fondo nella sua musica, dove non vengono mai meno l’elegan­ za, la misura, l’equilibrio, che si manifestano nella limpida scioltezza dell’invenzione melodica, nella chiarezza dell’armo­ nia e dei suoi percorsi, nella tendenza a costruire la frase con simmetrica regolarità, nel senso di compiutezza formale co­ stantemente raggiunto. Di qui anche le accuse di superficialità e di vuoto accademismo che a Mendelssohn furono rivolte, o l’ironia con cui Debussy ebbe a parlare di lui come di un «no­ taio elegante e leggero » (ma in alcuni avversari di Mendels­ sohn come Wagner o negli anni del nazismo pesarono anche prevenzioni antisemite). Queste riserve sembrano ignorare che in Mendelssohn scorrevolezza e apparente regolarità sono perseguite con un deliberato sforzo costruttivo, la cui fatica non lascia però tracce nel risultato finale. Alcuni capolavori furono composti di getto, con miracolosa felicità creativa, ma per altri la genesi fu lunga: è il caso ad esempio della sinfonia Scozzese (l’ultima portata a termine, ma pubblicata come n. 3), le cui prime idee risalgono alle impressioni di un viaggio in Scozia del 1829, ma la cui composizione fu compiuta nel 1841. Proprio l’originalità della concezione del primo tempo di questa sinfonia si impone con una scorrevole naturalezza, senza sforzo, quasi celando la consapevole ricerca di cui è frutto. Si concilia la costruzione di un ampio, ed equilibrato organismo sinfonico con temi che hanno la compiuta cantabilità di un Lied o di una romanza senza parole, attraverso una tecnica di associazione e combinazione di motivi, e attraverso sapienti procedimenti contrappuntistici. Mendelssohn dun­ que si rivela qui non aproblematico, ma capace di risolvere senza residui e senza fatica apparente il problema di mediare tra elaborazione motivica e natura liederistica dei temi. E

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in opere come i tre Quartetti op. 44 (1837-38), che si colloca­ no tra i suoi maggiori capolavori cameristici, la misurata ele­ ganza e il costruito equilibrio si rivelano frutto non di una re­ golarità realmente «classicistica», ma di una sapiente stilizza­ zione, di procedimenti dall’originalità poco appariscente, di calibrata sapienza e peculiare sottigliezza. L’osservazione potrebbe essere ripetuta per molte altre pa­ gine della maturità di Mendelssohn. Il suo percorso stilistico inizia precocemente con numerosi lavori di apprendistato ca­ ratterizzati da una prodigiosa capacità di assimilazione e da una notevolissima padronanza della scrittura: fra questi 13 sinfonie per archi (che accolgono influenze di Bach e Hàndel accanto a quelle di Haydn e Mozart): esse furono immediata­ mente seguite nel 1824 dalla prima Sinfonìa pubblicata come op. 11. Il Catalogo delle opere pubblicate è aperto da tre quartetti con pianoforte (op. 1, 1821; op. 2, 1823; op. 3, 1824-25); del 1825 è il primo capolavoro, l’Ottetto in mi be­ molle maggiore op. 20 per archi che segna con incantevole freschezza il culmine della fioritura compositiva dell’adole­ scenza. Particolare fama ebbe lo Scherzo, mirabile esempio della fiabesca, aerea leggerezza delle pagine mendelssohniane che sembrano legarsi alla magica evocazione di una «musica di Elfi» (significativamente ispirato da un passo del Faust di Goethe). Di natura affine nella prodigiosa, incantata levità è l’ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate di Shake­ speare, scritta nel 1826 come pezzo autonomo; ma destinata a trovare proseguimento molti anni dopo nelle musiche di sce­ na che Mendelssohn scrisse nel 1842 per una rappresentazio­ ne a Berlino della commedia: non esiste frattura stilistica tra queste pagine e la giovanile ouverture. Il mirabile esito rivela di quale natura fosse il rapporto del romanticismo di Men­ delssohn con il fiabesco e il fantastico: ne sono escluse com­ pletamente inquietudini demoniache. Si è soliti collocare l’inizio della sua maturità tra il 1827 e il 1829: in questi anni spiccano fra l’altro due quartetti per ar­ chi che rivelano un impegnativo confronto con la lezione del­ l’ultimo Beethoven, particolarmente evidente nel Quartetto in la minore op. 13, la cui composizione (1827) precede quella del Quartetto in mi bemolle maggiore op. 12 (1829). In campo cameristico, dopo i già citati Quartetti op. 44, grande rilievo presentano il secondo Quintetto op. 87 (1845), i due Trii op. 49 e 66 (1839, 1845), le due Sonate per violoncello e piano (1838, 1843) e soprattutto l’ultimo capolavoro, il Quartetto in

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fa minore op. 80 (1847), dove tensioni e conflitti drammatici assumono una asprezza inconsueta per Mendelssohn, facendo presagire forse una svolta stilistica. Altri aspetti molto signifi­ cativi del suo catalogo riguardano la musica sacra, o di ispira­ zione spirituale (culminante nei citati oratori), quella sinfonica e sinfonico-corale, i concerti, la produzione pianistica. Le cin­ que sinfonie comprendono, dopo la prima (1824), la sinfonia in re maggiore Riforma (1832, pubblicata come n. 5), origina­ riamente destinata alle celebrazioni per il terzo centenario del­ la confessione di Augusta (comprende nel finale variazioni sul corale Ein feste Burg); la sinfonia in la maggiore Italiana (1833, n. 4), ispirata al viaggio in Italia con cui Mendelssohn aveva « goethianamente » coronato la propria formazione; la Sinfoniacantata op. 52 Lobgesang (Canto di lode; 1840, n. 2) scritta per le celebrazioni a Lipsia del quarto centenario dell’invenzione della stampa, e la già citata Scozzese del 1842. Di grande rilievo sono anche molte ouvertures. Tra i concerti (in parte giovanili pubblicati postumi) spiccano i due per pianoforte, di elegante virtuosismo (1831 e 1837) e il secondo per violino op. 64 (1844), uno dei culmini dell’arte di Mendelssohn. La musica pianistica comprende 3 sonate, fantasie, variazioni e le raccol­ te dei Lieder ohne Worte (Romanze senza parole), il cui lirico, domestico intimismo conobbe eccezionale fortuna. A proposito di una bellissima ouverture di Mendelssohn, Die schòne Melusine (1833), Schumann elogiò la capacità del compositore di intendere «poeticamente» il soggetto ispirato­ re (l’antica fiaba di Melusina) senza indugiare su aspetti nar­ rativi o descrittivi. In realtà il rapporto di Mendelssohn con la categoria della «musica poetica», fondamentale nel pensiero del primo Ottocento, fu piu generico e meno esoterico di quello di Schumann; ma è naturale che questi lo sentisse piu affine della «musica a programma»: pur manifestando nella sua attività di critico una sostanziale ammirazione nei con­ fronti ad esempio di Berlioz, egli riteneva che i suoi «pro­ grammi» determinassero il rischio della caduta nel descrittivo (come scrisse in un suo famoso articolo sulla Sinfonia fantasti­ ca) e si sentiva estraneo all’evidenza gestuale tipica del com­ positore francese. La categoria del «poetico», che egli teneva ben distinta dalla musica a programma, può servire ad acco­ stare alcuni aspetti essenziali del mondo di Robert Schumann (Zwickau, Sassonia, 1810 - Endenich, Bonn, 1856), che fu per qualche tempo diviso tra la vocazione musicale e quella di scrittore e che non nascose le matrici letterarie di molte sue

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opere, a cominciare dai pianistici Papillons op. 2 (1829-31), che sono il suo primo capolavoro e rimandano ad un capitolo dei Flegeljahre, romanzo di Jean Paul Richter. Ma in Schu­ mann non è mai in discussione la vera e propria autonomia della musica, sebbene la sua opena sia fitta di rimandi ed allu­ sioni, di riferimenti che tuttavia non vogliono essere troppo vincolanti: solo apparentemente le sue posizioni sulla natura «poetica» della musica possono riuscire vaghe o contradditto­ rie, perché alla loro base c’è l’intuizione, (tipicamente roman­ tica) di una sorta di naturale contiguità e continuità tra arti diverse, quasi di una affinità elettiva tra poesia e musica, e dunque della possibilità di combinarle, di trasformare e pro­ lungare l’una nell’altra senza tradirne l’intima natura. A Jean Paul e a E. Th. A. Hoffmann (ma anche a Tieck, Friedrich Schlegel e altri) la fantasia di Schumann fece più volte ricorso, e al loro mondo si riconducono spesso titoli, im­ magini poetiche, personaggi della sua musica o dei suoi scritti critici: ad esempio l’invenzione del Davidsbundler (affiliati alla lega di Davide), i membri dell’ideale confraternita che con Schumann condivideva i programmi estetici e la lotta contro la gretta meschinità e il gusto ottuso dei «Filistei». Nella pre­ fazione (1852) alla raccolta dei suoi scritti (che erano stati pre­ valentemente pubblicati sulla rivista «Neue Zeitschrift fiir Musik» da lui fondata a Lipsia nel 1834) Schumann spiegava chi erano i personaggi immaginari che vi comparivano: «Par­ ve opportuno, per permettere ai differenti aspetti della conce­ zione artistica di manifestarsi, di creare dei caratteri artistici opposti, e fra essi Florestano ed Eusebio, che il Maestro Raro aveva il compito di conciliare, erano i più ragguardevoli. La confraternita dei Davidsbiindler si sviluppò come un filo ros­ so attraverso tutta la rivista, legando Verità e poesia in modo umoristico». Verità e poesia (citazione del celebre libro auto­ biografico goethiano) si mescolavano perché della confrater­ nita facevano parte idealmente persone reali vicine a Schu­ mann, per esempio la moglie Clara Wieck, la grande pianista che il compositore sposò nel 1840 dopo aver superato (anche in tribunale) la tenace, durissima opposizione del padre di lei, Friedrich, apprezzato didatta e maestro di pianoforte dello stesso Schumann (a lui alludeva la saggia ed equilibrata figura del Maestro Raro). Suggestioni di Hoffmann e Jean Paul sono evidenti nell’idea di Schumann di sdoppiarsi nelle personalità opposte e complementari di Florestano ed Eusebio: fra l’altro la Sonata per pianoforte op. 11 (1833-35) fu «dedicata a Clara

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da Florestano ed Eusebio », e il loro dualismo è al centro dei Davidsbundlertànze op. 6 (Danze degli affiliati della lega di Davide, 1837), 18 «pezzi caratteristici» (la danza è poeticamente intesa come emblema di un libero gioco fantastico) fir­ mati di volta in volta da Eusebio (malinconicamente introver­ so, incline alla lirica tenerezza) o da Florestano (ardente, ap­ passionato, pronto ad espressioni di lacerante dolore o di estroso umorismo), o da entrambi. Le allusioni segretamente autobiografiche nell’op. 6 (come in molte altre pagine) pene­ trano all’interno del dato musicale: esiste un «motto» (che funge da elemento in un certo senso unificatore), tratto dalla mazurka delle Soirées musicales op. 6 di Clara. Il motto non ha nulla in comune con un tema oggetto di variazioni, ma è sem­ plicemente un punto di partenza, uno spunto d’avvio per per­ corsi fantastici ogni volta diversi, che ad esso si collegano libe­ ramente usandone un qualche carattere ritmico o melodico. Qualcosa di simile, anche se in modo più evidente, era avve­ nuto nel Camavalop. 9: in queste «scenes mignonnes sur qua­ tte notes», del 1833-35, un nucleo motivico di quattro note funge da spunto generatore per un ciclo di 21 brevi pezzi (le note corrispondono alle lettere musicali scha-asch, quelle del nome di Schumann e del villaggio natale della donna allora da lui amata, Ernestine von Fricken, che egli lasciò per legarsi a Clara). Hoffmanniana è l’idea di porre sotto il segno del carne­ vale (situazione privilegiata che fa scoprire verità più profonde di quelle consentite dall’ottica quotidiana) la fantasmagoria dei brevi pezzi, l’agile trapassare della fantasia da una immagi­ ne all’altra nella rapida sfilata di maschere e ritratti, fino al loro riunirsi nello slancio della conclusiva Marcia dei Davidsbundler contro i Filistei. Più diretto ed esplicito il rimando a Hoffmann nel titolo Kreisleriana, che Schumann diede al mirabile ciclo delle 8 «fantasie» pubblicate nel 1838 come op. 16, anche se il riferimento vale soltanto come indicazione «poetica». Il ciclo di pezzi «caratteristici» di diverse dimensioni, lega­ ti da una rete di più o meno palesi relazioni interne, da riman­ di segreti, e da una sapiente organizzazione dei rapporti tonali e dei caratteri espressivi, predomina nella produzione piani­ stica cui è dedicata in modo pressoché esclusivo la prima fase della attività di Schumann, nel decennio 1829-39: culmina in lui la ricerca romantica di una alternativa di vasto respiro alla forma sonata nella organizzazione ciclica, e in essa si trasfigu­ ra compiutamente, sotto il segno di una prodigiosa varietà fantastica e di un linguaggio armonico e contrappuntistico originalissimo, il diffuso repertorio di danze, pezzi da salotto,

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pagine brillanti dei pianisti virtuosi. Con l’intenzione di dive­ nire anche pianista Schumann a Lipsia aveva studiato con Friedrich Wieck, dopo essere stato a lungo quasi soltanto au­ todidatta; ma un incidente alla mano destra stroncò ogni pos­ sibilità di intraprendere la carriera di virtuoso. Diversamente da altri protagonisti della sua generazione Schumann non sembra far nascere la geniale originalità della sua scrittura pia­ nistica da un rapporto diretto con la tastiera: determinante ri­ sulta piuttosto la costante riflessione sul contrappunto bachiano, che fu il punto di riferimento degli studi di composizione di Schumann dopo le lezioni prese da Heinrich Dorn a Lipsia nel 1831-32. Nella straordinaria fioritura pianistica iniziale il ciclo di «pezzi caratteristici» non è l’unico problema formale affrontato. Gli Studi sinfonici op. 13 (1834-37) sono in forma di variazioni su un tema che rielabora un’idea del barone von Fricken (il padre di Ernestine era anche dilettante di musica) e costituiscono uno dei testi fondamentali nella storia della variazione ottocentesca: sono «sinfonici» per il carattere della scrittura pianistica, «strumentata» con ricchezza orchestrale. Inoltre Schumann si accostò alla sonata, nella piena consape­ volezza della problematica «inattualità» di questa forma, ma sentendo la necessità di un impegnativo confronto con la sto­ ria. Schumann però non rinuncia mai agli aspetti più originali del suo pensiero musicale, al procedere per frammenti ed illu­ minazioni che evita una vera e propria linearità di sviluppo e instaura una nuova concezione del tempo musicale: anche là dove rispetta (entro certi limiti) gli schemi sonatistici, come nelle tre sonate iniziate nello stesso periodo e finite in anni di­ versi (op. 11, 1833-35; op. 14, 1833-36; op. 22, 1833-38), la fantasia schumanniana non perde slancio e freschezza. Come sonata era stato concepito originariamente un capolavoro tra i più significativi del primo periodo schumanniano, la Fantasia op. 17 (1835-38), pubblicata nel 1839 con dedica a Franz Liszt e con una citazione da Friedrich Schlegel come motto. E tipica del pensiero di Schumann la rete di relazioni interne che caratterizza l’ampio primo tempo con intreccio di allusioni, anticipazioni, rimandi (ad esempio la citazione di un frammen­ to dell’ultimo Lied di An die feme Geliebte (All’amata lontana) di Beethoven, che appare alla fine, svela affinità con entrambi i temi principali). Polo opposto e complementare all’appassio­ nata inquietudine del primo tempo è l’intensità lirica del terzo, dove il ricorrere in luce sempre nuova delle due idee principali sembra schiudere orizzonti di indefinita vastità.

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L’espandersi della produzione di Schumann verso altri ge­ neri inizia nel 1840, l’anno dei Lieder autobiograficamente da lui stesso collegati alla raggiunta felicità amorosa nelle nozze con Clara. I testi sono soprattutto di Heine (poeta di cui tal­ volta la musica tende ad attenuare l’amara ironia), ma anche di Eichendorff e Chamisso. Rispetto alla vastità del mondo del Lied schubertiano l’orizzonte sembra restringersi nella au­ tobiografia visionaria e trasfigurata di Schumann, che segna un altro momento essenziale nella storia del Lied romantico, fra l’altro con il Liederkreis (Ciclo di canti) op. 24 e con quello op, 39, e le raccolte Dichterliebe e Lrauenliebe und Leben (Amore di poeta e Amore e vita di donna) (seguirono, dopo il 1840, Lieder su testi di Goethe, Riickert e altri): nel linguag­ gio musicale va notata la trasformazione del rapporto schu­ bertiano voce-pianoforte con un arricchimento della scrittura strumentale e della sua funzione espressiva. Il matrimonio con Clara segna una svolta nella produzione come nella vita di Schumann. L’immagine che offre la sua carriera è assai meno felice di quella di Mendelssohn: sembra del resto che egli fosse poco dotato come direttore d’orche­ stra. Ai tempi del maggiore impegno di Mendelssohn a Lipsia Schumann ne aveva seguito con ammirazione e amicizia l’at­ tività, e aveva insegnato (come Clara) nel nuovo Conservatorio della città; nel 1845 aveva poi deciso di trasferirsi a Dre­ sda (dove ebbe occasione di conoscere Wagner e di ascoltarne il Tannhauser), dal 1850 infine si era stabilito a Diisseldorf, as­ sumendo l’incarico di direttore dei concerti: le iniziali speran­ ze furono amaramente deluse. Anche in seguito a ciò un grave peggioramento delle condizioni psichiche di Schumann (che già in precedenza aveva sofferto di crisi depressive) lo condus­ se ad un tentativo di suicidio e al ricovero nel 1854 in una ca­ sa di cura per malattie mentali a Endenich (dove gli fu vicino, fra gli altri, Brahms, di cui Schumann annunciò in un famoso articolo la grandezza). Dopo il matrimonio con Clara, Schumann sembra pianifi­ care la conquista di diversi generi illustri rivelando una volon­ tà di allargamento di esperienze e prospettive, l’esigenza di approfondire la propria dottrina compositiva e la riflessione sulla storia. Del 1841 è la prima delle 4 Sinfonie, cui segui su­ bito quella in re minore oggi nota come n. 4, perché fu rivedu­ ta nel 1851 e pubblicata nel 1853. Del 1845-46 è invece la Sinfonia in do maggiore pubblicata come n. 2, densa di inquie­ te tensioni, e il 1846 è l’anno del mirabile Concerto per piano­

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forte e orchestra op. 54. Del 1850 è la Sinfonia in mi bemolle maggiore n. 3 Renana, la cui ispirazione si lega al breve perio­ do felice dopo il trasferimento a Dusseldorf e allo stesso anno risale il concerto per violoncello, mentre quello per violino (1853) fa parte degli ultimi lavori. Se il 1841 è un anno sinfo­ nico, il 1842 vede un’attività cameristica di febbrile intensità, con i 3 Quartetti per archi op. 41, il Quintetto op. 44 e il Quar­ tetto op. 47, entrambi con pianoforte, probabilmente i culmi­ ni della musica da camera di Schumann, che prosegui con tre Trii (op. 63 e 80, 1847, °P- II0> 1851), una serie di pezzi bre­ vi nel 1849 e 1851, tre Sonate per violino e pianoforte (1851, 1853). Anche se non mancano negli ultimi anni alcuni ritorni di grande rilievo al ciclo di pezzi pianistici Waldszenen (Sce­ ne del bosco, 1849), Gesànge der Pruhe (Canti dell’alba, 1853), appare evidente che la fase iniziata nel 1841 si rivolge prevalentemente ai problemi delle grandi forme e di generi tradizionalmente codificati. Questa fase si pone sotto il segno di una volontà di allargamento di prospettive e non di tenta­ zioni restauratrici: è innegabile la continuità degli aspetti es­ senziali del linguaggio di Schumann, la coerenza interna della sua poetica. Perciò può riuscire problematica la tensione co­ struttiva costretta a conciliare strutture di ampio respiro e un pensiero fondato sul frammento, sull’illuminazione, sull’idea liederistica, su una concezione del tempo aperta ad accogliere, senza alcuna linearità, molteplici impulsi. Ma invece di giudi­ care il secondo Schumann alla luce della «inconciliabilità» di questi principi meglio vale analizzare la inquieta ricchezza che nasce dalla loro convivenza, la nuova duttilità e i nuovi signi­ ficati ai quali si piegano i percorsi formali secondo una logica non confrontabile con quella classica. Un discorso affine ri­ chiedono i capolavori sinfonico corali, a lungo misconosciuti. Nel 1843 fu composto il primo, l’oratorio profano Das Paradies und die Peri (Il paradiso e la Peri). Seguirono, fra le altre, due opere di ispirazione goethiana, le Szenen aus Goethes Paust (Scene dal Faust di Goethe, 1844-53), che sono «sce­ ne», frammenti, perché per un musicista romantico non appa­ riva accostabile la totalità del Paust e il Requiem fùr Mignon (1849). Per il teatro Schumann compose tra il 1847 e H 1849 l’opera Genoveva (Lipsia 1850), e le musiche di scena per il Manfred di Byron, personaggio che per alcuni aspetti sente vi­ cino alla propria inquietudine, al proprio inappagato anelito all’infinito. Genoveva, altro capolavoro a lungo ignorato, è un momento di rilievo nella storia dell’opera romantica tedesca

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per lo spirito liederistico che la percorre, per la tendenza a dissolvere in continuità le forme chiuse e ancor piu per l’in­ tensità poetica del suo tono fiabesco, della sua suggestione evocativa. Nelle ultime opere sinfonico-corali, delle quali fan­ no parte anche unaTlfesd ed un Requiem 1852-53, come nelle estreme pagine strumentali, si colgono lacerazioni, allucinazio­ ni, dolorose tensioni che conferiscono colori crepuscolari e accenti a tratti quasi stravolti al lirismo schumanniano. [pp]

3. La musica strumentale in Francia.

In Francia lo spettacolo teatrale, con la sua organizzazione impresariale e con le sue esigenze commerciali, con le sue tra­ me narrative, con gli allettamenti del divismo canoro, delle scenografie, dei balli, era in buona parte legato ai limiti cultu­ rali e alle richieste di divertimento di una borghesia impren­ ditoriale vittoriosa, ricca, spregiudicata e spesso cinica. Esi­ stevano tuttavia anche larghe fasce di pubblico, gli strati colti della società, che avevano esigenze di pensiero piu profonde e che attribuivano alla musica e all’arte funzioni meno frivole. I modelli musicali di questa minoranza colta avevano le loro matrici originarie nella produzione sinfonica e cameristica centro-europea, particolarmente in Beethoven (oltre che nei grandi romantici austriaci e tedeschi), nella sua concezione quasi sacrale della musica, nella sua retorica profetica e visio­ naria, nella sua capacità di elevarsi al di sopra del mondo me­ schino della quotidianità, di distanziarsi dagli interessi di quelli che Robert Schumann definiva col nome di «filistei». Nella seconda metà del Settecento Parigi era stato uno dei centri europei piu attivi nella divulgazione dei nuovi esempi di musica strumentale; le sue numerose sale da concerto ave­ vano ospitato non solo i virtuosi di grido, ma gli esempi più stimolanti della produzione sinfonica e cameristica di Mozart e Haydn. Gli eventi politici della Rivoluzione e degli anni na­ poleonici avevano messo in ombra tale tradizione, la quale tuttavia possedeva evidentemente radici tanto profonde da permettersi, nel giro di qualche decennio, a partire dagli anni Trenta dell’ottocento, un recupero progressivamente sempre piu deciso. Il punto di forza della continuità della tradizione strumen­ tale fu rappresentato inizialmente dal Conservatorio di Pari­

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gi. Luigi Cherubini, che lo diresse fino al 1842, vi lasciò in eredità un modello di altissimo artigianato e di severità infles­ sibile che rimase intatto quando la guida passò a musicisti di fama melodrammatica come Auber e Thomas (quest’ultimo lo resse fino al 1896). La severità degli studi parigini, se anche si venò di pedanteria accademica, costituì tuttavia un argine si­ curo contro i rischi della superficialità e uno stimolo al lavoro di approfondimento e di ricerca. Ma Cherubini non era solo un artigiano. Non è forse un caso che dal 1828 i concerti del Conservatorio abbiano ospitato importanti esecuzioni delle sinfonie beethoveniane dirette da Fran^ois-Antoine Habeneck, che suscitarono polemiche, ma polemiche salutari per la cultura musicale del paese. Polemiche di questo tipo furono salutari anche per la for­ mazione di un musicista come Hector Berlioz (La Cóte-SaintAndré, Isère 1803 - Parigi 1869), che per gli anni in cui visse, oltre che per la genialità delle sue proposte, può essere consi­ derato come una sorta di caposcuola o di pioniere della musica strumentale francese dell’ottocento. Le difficoltà che egli do­ vette affrontare non solo per far apprezzare, ma anche più semplicemente per far conoscere le Sue musiche, ci dicono molte cose sullo stato della cultura musicale parigina della pri­ ma metà del secolo. I riconoscimenti gli arrivarono, ma so­ prattutto postumi e circoscritti ad alcuni ambienti. Si dovette aspettare il Novecento perché un giudizio convinto sulla sua figura d’artista si diffondesse pienamente. Alle reticenze dei contemporanei non fu tuttavia estraneo il carattere stesso dell’uomo e dell’artista. Berlioz non era quel che si dice un diplomatico: la schiettezza dei suoi modi, la sua tendenza a farsi trascinare da entusiasmi o da avversio­ ni invincibili, il rifiuto di tener conto delle difficoltà pratiche ed economiche, la smodata fiducia in se stesso, gli inimicaro­ no molti autorevoli esponenti del mondo musicale. Più che apprezzato come musicista egli fu allora temuto (e a dire il ve­ ro anche ammirato) come critico per le rubriche stabili che tenne sulla «Gazette musicale» e sul «Journal des débats». D’altra parte la stessa sua musica era ben lontana dall’ade­ guarsi ai canoni, alle attese, ai gusti del pubblico e degli inten­ ditori suoi contemporanei. I punti di riferimento ideali della sua fantasia compositiva vengono da due fonti diverse. Da una parte dalla tradizione francese degli ultimi decenni del Settecento e dell’epoca napoleonica: suoi grandi modelli fu-

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tono infatti Gluck e Spontini, oltre che compositori francesi dell’epoca rivoluzionaria e post-rivoluzionaria, come Méhul e soprattutto il suo maestro Le Sueur. E di quell’epoca egli par­ ve ereditare non solo i modelli compositivi, ma anche certi aspetti ideali dei canti e inni della Rivoluzione: ne fa fede ad esempio il suo gusto per le grandi composizioni celebrative di massa come la Grande messe des morts del 1837 o la Symphonie funèbre et triomphale del 1840 entrambe composte su commis­ sione governativa e dedicate alla commemorazione di avveni­ menti della recente storia civile. Ma accanto a questo richiamo alla tradizione francese e alla solenne compostezza delle sue forme, un altro aspetto della sua fantasia compositiva è continuamente sollecitato dal ri­ chiamo ai grandi modelli del romanticismo tedesco: a Beetho­ ven in primo luogo Qe esecuzioni di Habeneck a cui prima si è fatto cenno ebbero per Berlioz l’effetto di una rivelazione ful­ minante), ma anche a Weber, a Schumann, a Mendelssohn. E non solo i musicisti, ma anche la letteratura tedesca egli assi­ milò con lo stesso entusiasmo e la stessa profondità; le letture di Hoffmann e di Goethe, ad esempio, lasciarono vive tracce nella sua opera (basterebbe ricordare a questo proposito la «legende dramatique» su La damnation de Faust, 1829 e 1846); Shakespeare, che fu uno dei suoi amori più travolgen­ ti, fu visto e capito attraverso la lente interpretativa degli scrittori romantici; l’Italia stessa, a cui Berlioz dedicò non po­ chi omaggi (dall’opera Benvenuto Cellini, 1834-38, all’altro te­ sto teatrale Les Troyens, 1856-58, ispirato di’Eneide di Virgi­ lio, alla sinfonia Harold en Italie, 1834) fu per lui, come per i romantici tedeschi, il paese della bellezza classica. Ai modelli musicali, civili o letterari della tradizione fran­ cese e tedesca egli non rimase tuttavia fedelmente legato. Al contrario agi su di essi con strumenti di dirompente trasfor­ mazione. L’estrosa indisciplina dei suoi procedimenti tecnici, gli aspetti visionari della sua fantasia, le irruzioni autobiogra­ fiche a cui amava abbandonarsi, conferirono alla sua musica caratteri di provocatoria originalità. Cosi la sua prima opera importante (la Symphonie fantastique del 1830) assume gli at­ teggiamenti profetici della grandiosa retorica beethoveniana, ma ne modifica la rigorosa severità etica trasformandola in una sorta di febbrile descrizione degli infelici amori dell’auto­ re per l’attrice Harriett Smithson (che più tardi tuttavia di­ venne sua moglie). I movimenti della sinfonia diventano cin­ que e ciascuno di essi assume caratteri esplicitamente descrit­

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tivi, da vero e proprio poema sinfonico. La stessa organizza­ zione tematica ne risulta stravolta perché uno dei temi (la co­ siddetta idée fixe che simboleggia l’ossessiva presenza dell’a­ mata) passa con procedimento «ciclico» (come direbbero i sinfonisti di fine secolo) da un movimento all’altro della sin­ fonia, assumendo le caratteristiche di una sorta di motivo conduttore (Leitmotiv). Fin dal suo primo importante lavoro Berlioz intuisce e an­ ticipa dunque soluzioni formali che poi sarebbero state ripre­ se, elaborate, sviluppate nel corso del secolo. Questa vocazio­ ne a sconvolgere i piani prestabiliti, a rimescolare le carte, è sistematicamente, quasi si direbbe irresistibilmente applicata da Berlioz in tutte le sue composizioni, nessuna delle quali ri­ spetta i generi musicali codificati: dall’HflroiZ en Italie che ha il nome di sinfonia, ma è una sorta di poema sinfonico e al tempo stesso anche una specie di concerto per viola e orche­ stra, a Romèo et Juliette (1839) sinfonia in forma di dramma con cantanti, al melologo (testo letterario recitato su accom­ pagnamento musicale) Lelio ou Le retour à la vie (1831), che è una seconda puntata, ancor più composita dal punto di vista formale, delle vicende biografiche successive a quelle confes­ sate nella Symphonie fantastique\ alle stesse opere teatrali, in­ fine, di dimensioni, trame e forme del tutto diverse da quelle richieste dalle consuetudini dell’epoca. Ma l’originalità di Berlioz non è riducibile all’imprevedibi­ lità delle sue proposte formali; la trama minuta del suo tessuto musicale è tutta piena di soluzioni nuove, talora più disconti­ nue, talora più persuasive, i cui punti nevralgici vengono di solito individuati nella qualità dell’invenzione melodica e nel­ l’uso sapiente dell’orchestra. Per quest’ultimo aspetto la pro­ duzione musicale di Berlioz (teoricamente sorretta, fra l’altro, dal suo importantissimo Trattato di strumentazione, 1843) si inserisce in un amore per la fisicità del suono che era sempre stato volentieri coltivato in area francese e che si tramanderà ancora, vivissimamente potenziato, nelle magie sonore di De­ bussy e di Ravel. E non si tratta solo degli esempi di sonorità potente immaginati per gli immensi apparati stereofonici delle già ricordate composizioni civili e celebrative da eseguire al­ l’aria aperta, non solo dell’orchestrazione brillante di brani vi­ stosi come l’ouverture Le camaval romain (1839), ma anche di sensibilissime dosature timbriche a sostegno delle voci can­ tanti (come nell’oratorio L'enfancedu Christ) o di arditissime

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esplorazioni ai confini fra suono e silenzio (come nell’adagio della Symphonie fantastique}. Altrettanto connessa con la tradizione francese è l’inven­ zione melodica di Berlioz. Da una parte la sua melodia tende al disegno ampio, quasi si direbbe neo-classicamente scolpito, secondo modelli originariamente gluckiani o spontiniani (tale è ad esempio la «scena lirica» La mort de Cléopàtre del 1829); d’altra parte essa sa anche dire per allusioni, sa usare ritegni e pudori con sottile discrezione, fissando in questo modo i pri­ mi modelli del canto da camera francese dell’ottocento, cioè della cosiddetta mélodie, che è il corrispondente nazionale del Lied tedesco. Fra gli esempi più significativi della copiosa pro­ duzione dell’autore in questo genere ci si può limitare a ricor­ dare i sei testi su poesie di Gautier che costituiscono il ciclo Les nuits d'été. Molti altri autori arricchirono poi il quadro della produzione di mélodies nel corso del secolo: da Félicien David a Liszt, da Saint-Saèns a Massenet, da Fauré a Duparc, per non parlare naturalmente di Debussy a cui si debbono gli esempi più illustri di questo genere musicale. Come s’è già detto la produzione di Berlioz fu tutt’altro che nota al grande pubblico dei suoi contemporanei, nono­ stante le energie che l’autore profuse, da instancabile propa­ gandista di se stesso, nel tentativo di farla conoscere. Con ca­ parbia ostinazione egli stesso riuscì più volte a dirigere a Pari­ gi, dal 1832 in poi, programmi comprendenti musiche di sua composizione, e dal 1842 ripetè l’esperienza in numerose tournées europee. Il risultato non fu quello che l’autore si at- fig. 21 tendeva, ma fu ugualmente positivo perché Berlioz scoperse in questo modo le sue straordinarie doti di direttore d’orche­ stra e «inventò», ancora una volta in anticipo sui tempi, la fi­ gura professionale del direttore di prestigio, del direttore vir­ tuoso, che tanto peso avrebbe avuto successivamente sulle sorti della musica europea. L’esperienza umana di Berlioz, con le sue difficoltà, le sue contraddizioni, le sue polemiche, ci rivela molte cose sull’am­ biente parigino di quegli anni. Pertanto non bisogna dimenti­ care che la capitale francese continuava pur sempre ad essere un centro di attrazione culturale primario per tutta l’Europa, e che molti musicisti illustri vi operarono e vi abitarono in quegli anni. Ad esempio Niccolò Paganini (Genova 1782 Nizza 1840), che nel «grand tour» europeo da lui compiuto negli anni tra il 1828 ed il 1834, si esibì a Parigi in diverse oc­ casioni. Nonostante le sue profonde radici nella cultura musi­

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cale italiana, la sua figura appartiene in senso più vasto alla cultura europea, alla quale con la sua vertiginosa bravura ese­ cutiva e la sua fama di artista «diabolico» impose con violen­ za la categoria mitica del virtuosismo trascendentale. Una ca­ tegoria che influì non solamente sul piano sociologico trasfor­ mando il concerto in un rito spettacolare, ma anche su quello più propriamente musicale e linguistico, aprendo la strada alla sperimentazione di tecniche strumentali ed espressive inedite, forzando lo strumento oltre quelli che sembravano limiti im­ posti dalle sue proprietà organologiche, in una violenta ed ap­ punto diabolica lotta tra l’estro e la natura. La ricerca musico­ logica ha riportato alla luce, a fianco della produzione concer­ tistica (concerti e variazioni su temi celebri e popolari) una messe di lavori cameristici (fra cui diversi lavori con chitarra di cui Paganini era appassionato e virtuoso esecutore) che al di là della componente virtuosistica rivelano un interesse compositivo più specifico orientato verso il gusto brillante della musica da salotto; è tuttavia l’aspetto virtuosistico che incise maggiormente sulla coscienza romantica. Prova ne sia l’interesse che diversi grandi compositori-pianisti (Liszt, Schumann, Brahms, e più tardi Rachmaninov) rivolsero a quella summa dell’arte paganiniana che sono i 24. Capricci (composti prima del 1817 e pubblicati nel 1820) di cui elabo­ rarono trascrizioni pianistiche sempre all’insegna del più ar­ duo virtuosismo.

All’epoca delle esibizioni parigine di Paganini all’inizio de­ gli anni Trenta del xix secolo, la capitale francese era divenu­ ta il centro del pianismo internazionale, con una legione di atleti della tastiera che si chiamavano Kalkbrenner, Herz, Hiller, Alkan, Pixis, Liszt, e con agoni che richiamavano col­ leghi dall’estero, come Thalberg, d’abitudine residente a Vienna. I termini agonistici testé impiegati non sono da in­ tendersi in senso puramente metaforico, in quanto il pubblico medio, come già per le grandi ugole che si producevano all’Opéra, stimolato da questa moltitudine di virtuosi, seguiva con passione agonistica le loro esecuzioni, facendo poi confronti e classifiche. E i pianisti, come veri e propri atleti, si tenevano in costante allenamento con tecniche ed esercizi che sviluppa­ vano una sbalorditiva agilità, impiegata poi nelle variazioni e nelle parafrasi su motivi celebri in cui il virtuoso poteva esibi­ re tutta la propria bravura quale improvvisatore e commenta-

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tore, decorando e sviluppando quegli stessi temi che godeva­ no di una vasta popolarità presso il pubblico del teatro d’ope­ ra. A questi atleti, che mettevano a dura prova la resistenza di corde e tastiere, case produttrici di pianoforti come Érard e Pleyel, fornivano strumenti perfezionati che, mediante l’im­ piego di principi costruttivi di recente invenzione come quella del doppio scappamento, rendevano possibile la pratica di tec­ niche esecutive nuove ed un rinforzo del volume sonoro ri­ spetto agli strumenti del passato; sicché i concerti pianistici potevano ora tenersi in sale piu vaste e capienti dal che la per­ formance ne guadagnava in spettacolarità. Inoltre, proprio le esibizioni parigine di Paganini avevano rappresentato un ulteriore stimolo all’esercizio del virtuosi­ smo, creando nel coté pianistico un fortissimo spirito di emu­ lazione incrementato dalla consapevolezza che i pianisti ave­ vano delle straordinarie qualità sonore e meccaniche del loro strumento. Primo fra tutti Liszt, cui la rivelazione del virtuo­ sismo di Paganini mise addosso un fuoco tale da spronarlo im­ mediatamente al cimento con una Grande Fantasia di bravura sulla Campanella (1831-32), vero e proprio fuoco d’artificio di virtuosismo pianistico che trae spunto dal celeberrimo capric­ cio violinistico. Un virtuosismo che se nella dimensione piu esteriore e spettacolare significa appunto atletismo ed esibi­ zionismo, in quella più schiettamente musicale significa inve­ ce sperimentalismo sonoro, violenza operata nei confronti dello strumento per ampliarne illimitatamente le possibilità foniche ed espressive, per carpirne i segreti più nascosti. Sic­ ché, se da un lato la carriera pianistica di Liszt appartiene alla storia del costume in quanto anticipa quel fenomeno cosi ca­ ratteristico dei nostri tempi che è il coinvolgimento delirante di un pubblico, l’adorazione ed il fanatismo di uno stuolo di fans che seguono il loro idolo e cercano di impossessarsi di qualche sua reliquia, nell’ambito della storia dell’arte esecuti­ va apre un capitolo nuovo in quanto Liszt riusciva ad infonde­ re alle opere musicali una carica comunicativa particolare: riu­ sciva a trasformare la musica in autentico linguaggio, in gesto fonico, mediante una mimica ed una gestualità che non sorti­ va solamente esiti spettacolari, ma con la partecipazione di tutto il corpo all’esecuzione, creava una straordinaria varietà di tocco. Una varietà di tocco che riusciva a trasporre sulla ta­ stiera, per mimesi timbrica, le sonorità e la volumetria sonora di un’intera orchestra come le minime sfumature espressive di una melodia vocale: donde un’intensa attività di trascrizione

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di opere sinfoniche del passato prossimo (come le sinfonie di Beethoven) e del presente (memorabile quella della Fantastica di Berlioz), di Lieder noti e famosi come quelli di Schubert, la cui esecuzione in concerto, in un’epoca in cui la diffusione della musica era molto piu lenta ed occasionale di oggi, svolge­ va tra l’altro un’importante funzione di divulgazione cultura­ le; tanto più che Liszt, anche in questo distinguendosi dai col­ leghi, inserì tosto nel proprio repertorio composizioni per ta­ stiera di maestri del passato più o meno prossimo, da Hàndel, Bach e Scarlatti a Weber, Beethoven fino ai suoi contempora­ nei, inaugurando quel tipo di concerto storico che, con le do­ vute modifiche e trasformazioni, è ancora in auge oggi. Il pia­ noforte di Liszt, con le sue straordinarie risorse sonore, di­ venne insomma un prodigioso strumento che poteva virtual­ mente riassumere tutta la produzione del presente e del pas­ sato. Dall’elencazione degli atleti della tastiera attivi nel centro parigino è stato escluso un grande protagonista del pianismo romantico: Fryderyk Chopin (Zelazowa Wola, Varsavia 1810 - Parigi 1849); esclusione determinata dal fatto che seb­ bene fosse un grandissimo pianista oltreché sommo composi­ tore, le sue doti esecutive erano di natura totalmente diversa da quelle coltivate dagli atleti della tastiera. Doti che, in ac­ cordo con il proprio mondo poetico e creativo, consistevano in un fraseggio mirabilmente sciolto e leggero e in un tocco straordinariamente sensibile che gli permetteva di realizzare una gamma timbrica sfumatissima, una tavolozza sonora con sottilissime gradazioni di mezze tinte. Come Liszt, era un émigré, ma mentre il suo collega di origine ungherese aveva ricevuto la sua prima formazione nella Vienna anni Venti, nel cuore dell’impero asburgico, aprendosi tosto ad un disinvol­ to cosmopolitismo, Chopin invece si formò a Varsavia, rice­ vendo una fortissima impronta dal clima ben più provinciale ed etnicamente caratterizzato della capitale polacca, da sem­ pre esposta alle mire espansionistiche della Russia. In patria Chopin aveva iniziato una carriera esecutiva e compositiva nell’ambito dei generi pianistici che andavano per la maggiore all’epoca: due Concerti per pianoforte e orchestra (in Fa minore op. 21, del 1829-30 e in Mi minore wp. 11, del 1830) con l’or­ chestra sullo sfondo ed il pianoforte che assume un ruolo di as­ soluto protagonismo, variazioni su temi celebri (le Variazioni su «La ci darem la mano», op. 2 per pianoforte e orchestra, del 1827), cimentandosi anche nella sonata (op. 4, in Do minore,

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del 1827-28) e nella composizione cameristica (il Trio op. 8, per pianoforte, violino e violoncello, del 1828-29). Quando, dopo uno sfortunato soggiorno viennese, costret­ to dalle vicende politiche, fissò la residenza a Parigi, la sua carriera di pianista e compositore subì una svolta brusca e ra­ dicale. Anziché gettarsi nell’affollatissimo agone pianistico, in accordo con la propria personalità umana e artistica, si inserì nel milieu dell’aristocrazia internazionale di censo e di sangue residente nella capitale francese (fra cui quella polacca), so­ stentandosi principalmente con le lezioni private ed esibendo­ si quasi esclusivamente in salotti frequentati dal fiore della cerchia intellettuale parigina. Al riparo dai condizionamenti del gusto imperante potè cosi concentrarsi con esclusività e continuità sulla ricerca attorno alla sonorità ed al linguaggio pianistico e sui generi prediletti: non più concerti e variazioni, bensì Polacche e Mazurche, Notturni ed Improvvisi, Studi e Pre­ ludi, Scherzi e Ballate. Generi o appartenenti alla sfera dell’in­ trattenimento salottiero come la stilizzazione di movenze o forme di danza (le Polacche, le Mazurche e i Valzer}, o della ro­ manza sentimentale patetica e sognante (il Notturno), opere legate a quella piu propriamente didattica (come gli Studi e i Preludi). Generi tutti che il genio chopiniano riplasma con so­ fisticatissime soluzioni armoniche che conferiscono agli accor­ di una funzione timbrica creando una sfumatissima gamma di risonanze e di atmosfere sonore, con leggiadre volute arabe­ scate: la Polacca diventa così un’appassionata trasfigurazione della danza cerimoniale di un tempo, già ridotta a dimensioni salottiere dal principe Oginski, reinterpretata da Chopin con un piglio fiero e cavalleresco, con una inclinazione nostalgica nei confronti della patria perduta; il Notturno, sull’esempio di John Field inventore del genere, un momento di intima con­ fessione, uno sfogo lirico ispirato ad una cantabilità di ascen­ denza vocale e operistica; lo Studio rivela come per Chopin l’esercizio tecnico non fosse mai disgiunto da un profondo contenuto compositivo, stimolo e non risultato del virtuosi­ smo esecutivo; il Preludio rinnova in versione romantica ed ottocentesca la memorabile sintesi del Clavicembalo ben tem­ perato - testo fondamentale nella formazione di Chopin - co­ stringendo un contenuto espressivo quanto mai vario e can­ giante in un ciclo strutturato secondo un preciso disegno ar­ monico ed espressivo. L’arte di Chopin, che suona spesso come esito naturale e spontaneo, quasi improvvisato, nonostante egli fosse anche

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un grande improvvisatore, è frutto di un sofferto travaglio creativo, di una costante ricerca di perfezione e di compiutez­ za formale. Quest’ultimo aspetto lo si può cogliere particolar­ mente nei generi piu complessi come le Ballate, le Sonate e gli Scherzi, o le Fantasie della stagione matura, nei quali Chopin si ricollega alle strutture formali tradizionali (come la formasonata e lo scherzo) reinterpretandole in termini di assoluta originalità; e specialmente in lavori dell’estrema stagione creativa come la Polacca-fantasia op. 61 del 1845-46, una delle composizioni piu inquietanti ed ermetiche in cui Chopin spe­ rimenta percorsi formali inediti. I due universi pianistici di Liszt e Chopin, cosi diversi ed anzi antitetici - il primo tutto proteso alla ricerca di un lin­ guaggio che traduca fedelmente in immagini sonore le sue fantasie poetiche e quelle evocate dalla musica altrui, il secon­ do totalmente calato nella ricerca creativa pura, assoluta, avulsa da qualsiasi contenuto extramusicale esplicito - non rappresentano solamente due risposte diverse al tormento creativo di due artisti profondamente coinvolti nel clima cul­ turale del ventennio che precede la metà del secolo xix; per vie di comunicazione anch’esse opposte tracceranno due pro­ fondissimi solchi nella cultura musicale francese non solo ot­ tocentesca, ma anche novecentesca: basti pensare a Debussy e Ravel. La figura di Chopin, come per motivazioni diverse anche quella di Liszt, esorbita comunque dai confini culturali ed ar­ tistici di Parigi, che lo ospitò in età matura. Anche per Cho­ pin vale ovviamente in parte il discorso sulla situazione cultu­ rale dell’emigrato, che nella sua condizione di sradicato si ren­ de disponibile ad aperture internazionali portandosi però sempre dentro la patria lontana e perduta. Ma per Chopin il problema è molto piu complesso perché, nonostante la sua fi­ gura e la sua musica siano state cooptate senza indugi dal ro­ manticismo europeo tramite quel vessillifero e banditore che fu Schumann, è piuttosto arduo definire quali siano in effetti i caratteri romantici della sua arte musicale e perfino della sua personalità. Se si spoglia la sua biografia dall’aura del martirio che la circonda a causa del decorso inesorabile e fatale della ti­ si, e da quella della trasgressione per via del legame irregolare con George Sand (che egli visse peraltro in modo conflittuale e tormentato) la sua vita professionale ricorda piuttosto quella dei musicisti di un tempo con la differenza della moltiplica­ zione degli aristocratici committenti e discepoli e della diversa

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situazione del mercato musicale. E cosi il suo ostinato rifiuto di compromissioni tra musica e immagini o programmi poetici di sorta, in un’epoca in cui il movimento romantico si stava orientando in tal senso, lo colloca in una posizione decisamen­ te eccentrica. Le motivazioni vanno quindi colte all’interno della sua arte musicale, le cui componenti specifiche, nella loro emancipa­ zione dalle funzioni tradizionali, nell’invenzione di atmosfere sonore inedite presentavano, nella personale dimensione sti­ listica, notevoli assonanze con il mondo poetico dei colleghi romantici tali per loro esplicita ammissione e volontà. Un ro­ manticismo inconfessato ed implicito, dunque; ma non è solo questo. Anche e specialmente nei momenti di massima astra­ zione formale l’arte musicale chopiniana presenta una strin­ gente logica strutturale che la apparenta piuttosto a certi esiti estremi e avveniristici dell’arte beethoveniana a lui peraltro probabilmente sconosciuti. Ad una extraterritorialità geogra­ fica bisogna aggiungerne una culturale, nel caso di Chopin, che contribuisce certamente a renderla inattaccabile dalla vo­ lubilità del giudizio estetico e delle mode culturali, e quindi perennemente vitale, [mb e g v]

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L’opera in Francia e in Italia

i. L "opera in Francia nell"Ottocento.

Quando Richelieu e poi Luigi XIV, per la prima volta, ave­ vano avvertito la necessità di promuovere, con qualcosa di più organico del tradizionale mecenatismo di corte, l’istaurazione di una cultura di stato, omogenea e nazionale, essi avevano già posto le premesse strutturali e ideologiche da cui muoverà l’opera francese, quali vedremo ancora mantenersi in epoca romantica. Dal punto di vista amministrativo la centralizzazione del­ l’attività teatrale si risolve nella sostanziale riduzione della vi­ ta e della cultura operistica a Parigi; l’opera francese dell’Ottocento finirà cosi per rappresentare l’elemento sociale carat­ teristico della metropoli, ossia la borghesia grande e piccola legata al fiorire dell’industria, del commercio e della finanza, assai più di quanto non rispecchiassero un proprio diretto committente l’opera italiana e quella tedesca coeve, espressio­ ne di interessi generali distribuiti in culture policentriche. opera, per come nasce e si afferma, resta investita di un ca­ rattere istituzionale che la fa essere, economicamente e spiri­ tualmente, emanazione diretta della società dominante. Sotto l’aspetto formale l’attitudine a una gestione centralizzata, si manifesta, fin dal principio, all’epoca della tragédie-lyrique lulliana, in una costituzione sincretica che mira a riunire, più che a fondere, azione drammatica, parola, danza, musica vocale e strumentale, disciplinate, quali elementi distinti ed autonomi, ai fini di uno spettacolo armonicamente composito, la cui im­ palcatura, pur con gli apporti successivi di Rameau e le inizia­ tive di riforma di Gluck, persisterà nel teatro della rivoluzio­ ne e in quello napoleonico: a prescindere dalle nuove temati­ che essi continueranno a reclamare, sia l’uno che l’altro, il to­ no celebrativo, il gesto magniloquente, la parata coreografica, e dunque la medesima facoltà di adattare liberamente a tali scopi gli ingredienti a disposizione.

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Di riflesso acquisterà nell’ottocento rappresentatività so­ ciale l’altra faccia dell’opera francese, il genere àeWopéracomique, visto che il carattere istituzionale se lo era già dovu­ to procurare nel Settecento debitamente comprando il privi­ legio di agibilità dall’Académie royale. Il genere dell’opéracomique aveva tratto origine da quel teatro popolare della foire (della fiera), ch’era cominciato coi lazzi dei saltimbanchi, contrapponendosi al teatro accademico ufficiale; nell’Otto­ cento esso giungerà ad affiancarsi all’opéra, acquisendo pari considerazione artistica, e distinguendosi da essa solamente per il ridotto apparato esecutivo, i recitativi parlati, l’assun­ zione di modi espressivi piu leggeri e psicologicamente fami­ liari, piu spesso giocosi, ma capaci anche di sopportare il pate­ tico o addirittura il tragico. Una volta fissata la divisione dei compiti, il sentimento diffuso di una rappresentatività sociale comune ai generi dell’opéra e dell’opéra-comique ai vari livelli del costume culturale, verrà poi modulato dai motivi roman­ tici recati dai tempi nuovi, dando adito a tutta una produzio­ ne peculiare, ricca di interconnessioni reciproche fra i generi e di tipologie intermedie. Cosi ecco penetrare nelTopéra-comique con Médée (Medea, 1797) di Luigi Cherubini, un soggetto che per l’ambientazio­ ne classicista e per l’austerità del mito sarebbe parso consono alla tragédie-lyrique, e che invece, fuori dalla convenzione di questa, segna l’approssimarsi del melodramma francese a una visione unitaria del dramma, secondo l’esempio gluckiano, e a modi espressivi fortemente accentuati, già nello spirito del­ l’opera romantica. I temi tipici del romanticismo europeo in­ vestono opera e opéra-comique, liberando il primo dal suo tra­ dizionale sussiego e temperando la leggerezza spesso superfi­ ciale del secondo con assunti seriosi e patetici. Il gusto dell’e­ sotico, già introdotto dall’illuminismo, si mescola - indiffe­ rentemente nell’opéra-comique e nell’opéra - a quello del pittoresco, volentieri congiunto all’elemento sovrannaturale, all’arcaico, al fantastico. Si aggiunga la tematica libertaria, re­ sa familiare dall’esperienza rivoluzionaria. Tutti motivi che si ritrovano nelle due opere che forse se­ gnano piu profondamente, nel teatro musicale francese, il mo­ mento di passaggio dall’epoca della restaurazione a quella di Luigi Filippo: La muette de Portici (La muta di Portici) di Daniel-Fran^ois-Esprit Auber e Guillaume Teli (Guglielmo Teli) di Gioacchino Rossini, rappresentate entrambe all’Opéra, nel 1828 e nel 1829. A prescindere dai valori estetici, cer-

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to incomparabilmente superiori in Rossini, in entrambe le opere slancio insurrezionale (la rivolta di Masaniello nella Na­ poli secentesca, quella di Teli nella Svizzera del xiv secolo), colore e suggestione paesaggistici (il quadro partenopeo, lo sfondo alpino), effusività romantica, si compongono abilmen­ te su libretti che tengon conto dello sfruttamento d’ogni pos­ sibile effetto teatrale, specialmente di quelli apportati dalla danza, componente inscindibile e istituzionale dello spettaco­ lo musicale francese (la parte della protagonista, nell’opera di Auber, essendo di una muta, è addirittura sostenuta da una ballerina). In queste opere il confluire dei nuovi caratteri ro­ mantici dentro una struttura di fondo di tradizione ufficiale derivata ancora dalla tragédie-lyrique, sta per risolversi, in pa­ rallelo coi principi drammatici banditi da Victor Hugo, in una disposizione ben calcolata di effetti di teatrale evidenza ce­ mentata da una materia storica; questo complesso scenicoteatrale non tarderà a stabilizzarsi in sistema nel periodo di relativa tranquillità sociale e di sviluppo economico della mo­ narchia costituzionale di Luigi Filippo, dando vita dLopérahistorique, meglio noto come grand-opéra. Simile poetica fu praticata da Eugène Scribe, librettista della Muta di Portici e di quasi tutti i lavori di Auber, nonché di Giacomo Meyerbeer (Tasdorf, Berlino 1791 - Parigi 1864), il piu rappresentativo fra gli autori di grand-opéras, e di innu­ merevoli altri musicisti. Essa consistette nell’adozione dei motivi del romanticismo senza che ciò implicasse un’adesione reale ai suoi ideali estetici e morali, ma unicamente perché es­ si si prestavano ad essere tradotti in un abile montaggio di ef­ fetti teatrali, potenziato da un allestimento scenico di notevo­ le sfarzo, da azioni coreografiche molto elaborate, da intrecci romanzeschi aventi sullo sfondo conflitti storici e religiosi che permettevano l’inserimento di grandi scene di massa. Scribe scrisse appunto per Meyerbeer libretti d’argomento storico, Robert le diable (Roberto il diavolo, 1831), patriottico, Les Huguenots (Gli Ugonotti, 1836), religioso, Leprophète (Il pro­ feta, 1849), esotico L'Africaine (L’africana, postuma), che il musicista seppe assecondare con sicuro intuito degli effetti teatrali e con acuta sensibilità strumentale; i grand-opéras nati da questa collaborazione ebbero enorme successo in Francia e all’estero, e promossero la diffusione internazionale di un genere che si prolungherà fino all\4ftfo di Verdi. Altro autore che Scribe servi con successo nel campo del grand-opéra fu Jacques-Frangois-Fromental Halévy, cui fornf il libretto di La

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juive (L’ebrea, 1835), anch’essa specialmente ammirata per la vivacità del colore strumentale. L’enorme dispendio di capitali che comportava l’allestimen­ to di grand-opéras era divenuto possibile grazie alla crescita economica d’una borghesia egemone che condizionava le scel­ te di un teatro finanziariamente e amministrativamente dipen­ dente, fin dalle sue origini, dal potere politico. Questo potere era costituzionalmente rimesso alla classe privilegiata, che spo­ sava gli ideali romantici ai propri interessi materiali (la libertà al patriottismo di stampo nazionalistico, l’empito religioso allo spirito di tolleranza, l’esotismo al colonialismo), e che dispone­ va del sistema organizzativo della stessa vita culturale e musi­ cale francese (vale a dire parigina): un sistema basato su princi­ pi nettamente imprenditoriali, che coinvolgevano anche il giornalismo e la pubblicistica, ormai modernamente intesi co­ me produttori di opinione pubblica. A misura che il grandopéra, col suo ponderoso impegno realizzativo e contenutisti­ co,. assumeva i criteri della impresa industriale, l’opéra-comique si affermava insinuandosi in quelle zone della pubbli­ ca sensibilità che il primo lasciava scoperte: quelle dell’intimità e dell’evasione. Provvidero a dar soddisfazione a queste più sottili disposizioni d’animo, frutto anch’esse del nuovo benes­ sere borghese, Auber con Fra diavolo (1830), Halévy con L'éclair (Il lampo, 1835), Ferdinand Hérold con Zampa ou La fian­ cee de marbré (1831), Adolphe-Charles Adam con Le postilion de Longjumeau (1840), lo stesso Meyerbeer con Dinorah (1859), nonché la travolgente moda del balletto a partire dagli anni trenta, che vide la sua più celebrata interprete in Maria Taglioni e in Giselle (1841) di Adam la sua eminente espressio­ ne musicale. Era sul versante dell’opéra-comique, comunque, che le istanze romantiche potevano trovare autentica espansione, sia nel senso di un approfondimento sentimentale e psicologico, sia in quello di un disincanto critico esercitato nei modi della ironia e della satira; nell’ambito del grand-opéra esse erano in­ vece accolte, quali mere occasioni di accadimenti teatrali d’e­ steriore successo spettacolare. Prova ne sia che quando in se­ de di grand-opéra quelle sollecitazioni, abbandonate al pro­ prio impulso, travolsero la formula di compromesso e volsero l’effetto spettacolare verso esiti di una visionarietà trascende­ te, andarono incontro all’insuccesso. Ciò accadde ad esempio col Benvenuto Cellini (1838) di Hector Berlioz. La cultura romantica poteva invece scoprirsi, nell’opéra-

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comique, sempre più in consonanza con lo spirito pubblico dettato dal ceto minore, piccolo borghese, emergente a mano a mano che le forze economiche più attive venivano liberan­ dosi dalla pesante tutela esercitata dall’oligarchia finanziaria e dalla notabilità fondiaria in auge sotto Luigi Filippo. L’ulte­ riore ascesa economica, senza precedenti, conosciuta dalla Francia durante il secondo impero si accompagnò, infatti, al diffondersi di una sensibilità e di un gusto particolari: la poe­ tica romantica, surrogata esteriormente dal grand-opéra me­ diante l’imponenza dei mezzi, traduceva questo gusto e que­ sta sensibilità nei termini di una liricità corrente, oppure U ri­ duceva, con intento umoristico e a volte dissacratorio, alle ragioni del gioco e della satira. Ciò darà origine, da un lato, al genere dell’opéra-lyrique, dall’altro a quello dell’opérabouffe, ovvero dell’operetta. L’opéra-lyrique nacque dunque dallo spirito dell’opéra- co­ mique, distinguendosene per l’abolizione frequente del parla­ to (ma non di norma, e conservando il nome di opéra- comi­ que se continuava ad usarlo), per i contenuti drammatici più impegnativi e per lo stile più complesso, in netta polemica, tuttavia, con le ambizioni al grandioso del grand-opéra, sul quale firn a sua volta per influire, prestando ad esso, talora, i toni liricamente soffusi che lo caratterizzavano. L’opéra- lyrique si collocò pertanto in una posizione intermedia fra grandopéra e opéra-comique, attirando nella propria orbita questo e quello; li omologò infine in un tipo d’opera percorso da un’armonia ricca di sfumature e da una suadente melodiosità, capaci di rendere i valori fonetici e prosodici della lingua fran­ cese lungo il trasmutare di una psicologia che emanava dall’in­ timità piccolo-borghese. Come in quest’ambito sentimentale avessero a disciogliersi le tematiche romantiche fin allora illu­ strate dal grand-opéra e dall’opéra-comique lo mostrano il Faust (1859) di Charles Gounod e la Mignon (1866) di Charles-Louis-Ambroise Thomas, che riducono alle domesti­ che storie d’amore delle due protagoniste la materia densa di implicazioni simboliche e filosofiche della tragedia e del ro­ manzo (G/z anni ài noviziato di Guglielmo Meister) di Goethe. Il dramma musicale si consuma cosi in quell’esclusivo ordine di interessi: in quello della passione amorosa, che si fissa quale nucleo dell’opéra-lyrique, trovando risonanza nel melodram­ ma piccolo-borghese internazionale di fine Ottocento. Una passione amorosa sentita quale sublimazione del vissu­ to quotidiano della classe emergente e dunque già disponibile

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a un’interpretazione realistica, presente nello stesso quadro rappresentativo. Il motivo esotico, caro al Romanticismo, si traduce cosi in un colore locale volto, più che all’ambientazio­ ne, a suscitare un clima musicale partecipe del sentimento do­ minante. Più intensamente di altri mira a simile identificazio­ ne Georges Bizet (Parigi 1838 - Bougival 1875) nei Pescatori di perle (1863), ambientati nell’isola di Ceylon, nelle musiche di scena per L’Artesiana (1872) di Alphonse Daudet, dramma d’amore tutto immerso nel paesaggio della Provenza, e so­ prattutto in Carmen (1875). Su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy tratto dal famoso racconto di Prosper Mérimée, Carmen mette in scena la semplice storia di un onesto giovane, Don José, portato alla rovina dal fascino perverso di una donna che alla fine egli uccide. A sostenere il turbamento che pervade l’intera opera anche nei momenti non passionali (quelli legati alla casta figura di Micaela, promessa sposa del protagonista, quelli illustrativi e bozzettistici) si adopera una musica costantemente accesa, scintillante e pungente per in­ venzione melodica, arricchita nei suoi smaglianti colori dalle pennellate di folclore spagnoleggiante. La Carmen a tutta pri­ ma non piacque al pubblico benpensante che frequentava le sale dell’opéra-comique, e già la mancanza di lieto fine doveva creare disagio e sconcerto tra gli spettatori, poco inclini a mu­ tare le loro categorie di ascolto. L’opera in origine si articola­ va in parti cantate e parti recitate, e solo dopo la morte di Bi­ zet quest’ultime furono trasformate in recitativi da Ernest Guiraud. Carmen, capolavoro isolato e perfetto, anche se non ebbe un’influenza immediata e diretta sul teatro francese, costituì un punto di riferimento, capace di costituire un punto di rife­ rimento intellettuale e musicale per la successiva generazione. Infatti per certi versi Bizet può essere visto come una terza via, accanto a Wagner e a Verdi, nel teatro musicale dell’Ot­ tocento. L’opéra-comique sembrava sino ad allora destinata ad accogliere sentimenti superficiali, situazioni artificiose e musica di maniera; Bizet riuscì ad abbattere tali frontiere in virtù del suo prepotente realismo, della vitalità prorompente della sua musica e proprio perciò suscitò a tutta prima la per­ plessità del pubblico. Nietzsche fu tra i primi ad intravederne la travolgente carica innovativa: negli scritti antiwagneriani degli ultimi anni (cfr. Il caso Wagner, 1888), identifica la Car­ men con la solarità e la chiarezza mediterranea; la sua musica, afferma ancora con acutezza, «è ricca, precisa. Costruisce, or­

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ganizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla “melodia infinita”. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E in che modo es­ si vengono raggiunti! Senza smorfie! Senza battere moneta falsa! Senza la menzogna dello stile! » Al prodotto nobile dell’opéra-comique fa riscontro il sotto­ prodotto di questo, costituito dall’operetta, altrimenti chia­ mata opéra-bouffe. Se per un verso la facoltà di introspezione sviluppata da una borghesia sempre più consapevole della pro­ pria identità e del proprio ruolo sociale si esercita nell’opéralyrique, specchiandovi un mondo interiore ormai diffuso nella coscienza collettiva, per altro verso la libertà dell’iniziativa economica reclamata dal montante capitalismo imprenditoria­ le induce un’altrettanta indipendenza di giudizio nei confron­ ti dei miti e dei valori costituiti, sgombra da preconcetti e da soggezioni. Codesta indipendenza critica, già avvertita nel se­ condo impero col sentore di una decadenza in atto e dell’av­ vento della terza repubblica, trova sfogo musicale nei modi divertiti e spesso corrosivi dell’opéra-bouffe, illustrata princi­ palmente da Jacques Offenbach (Colonia 1819 - Parigi 1880). Nelle sue circa cento operette Offenbach, con la collaborazio­ ne librettistica, per lo più, di Halévy e di Meilhac, prende di mira l’ambiente contemporaneo, il mondo circostante, le stes­ se autorità costituite, facendone la parodia e la satira sotto sembianze mitologiche (Orpbée aux enfers, 1858; La belle Hélène, 1864), o leggendarie (Barbe-Bleau, 1866), o attuali (La vie parisienne, 1866; La grande-duchesse de Gerolstein, 1867), in uno stile d’indole estemporanea e di grande immediatezza melodica e ritmica, memore di un ideale classico derivato dal­ le origini tedesche dell’autore, che conferisce particolare ica­ sticità alle sue immagini musicali. Egli fonde poi una simile lu­ cidità di sguardo con i toni dell’introspezione richiesti dal ca­ rattere lirico dell’unica opera che si decide a comporre e che non riuscirà a terminare (ne completerà la strumentazione Guiraud dopo la morte): I racconti di Hoffmann, Accanto e dopo Offenbach musicheranno operette, di natura meno cau­ stica però sempre eleganti, Florimond Ronger detto Hervé (Mammelle Nitouche, 1883), e Alexandre-Charles Lecocq (La fitte de Madame Angot, 1872, Giroflé-Girofla, 1874). In piena terza repubblica Alexis-Emanuel Chabrier rinnoverà i toni pungenti di Offenbach in operette, come Uétoile (La stella, 1877) e line éducation manquée (1879), che per la modernità scaltrita della scrittura armonica e strumentale

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prefigureranno un atteggiamento critico che diverrà tipico dell’arte contemporanea, [ps] 2. Gioacchino Rossini e l'opera italiana agli inizi del?Otto­ cento.

I diciannove anni, dal 1810 al 1829, della folgorante carrie­ ra teatrale di Rossini coincidono con la fine delle guerre napo­ leoniche e con l’età della Restaurazione e segnano una svolta nelle vicende del melodramma italiano nei suoi rapporti con l’Europa. Il carattere internazionale esclusivo che aveva man­ tenuto nel secolo xvm (quando un autore come Hasse poteva essere prediletto da Metastasio, e l’opera italiana era lo spet­ tacolo musicale per eccellenza presso le corti tedesche o a Vienna) conosce una profonda trasformazione. Non mancano certo, a Rossini (come poi a Bellini, Donizetti, Verdi), i trion­ fi in tutta Europa; ma egli appare l’esponente di una tradizio­ ne melodrammatica a se stante, con propri caratteri specifici, distinta da altre esperienze musicali che separatamente le si affiancano, anche polemicamente. Giudizi come quelli di Schumann su Rossini potrebbero da soli offrire una immagine eloquente di tale situazione, anche se non tutti nel mondo te­ desco condividevano le sue valutazioni, che si citano qui come documenti di un modo di pensare che appartenne anche a Wagner e ad altri musicisti in Germania. Per Schumann «Rossini è ottimo pittore di decorazioni, ma toglietegli la luce artificiale e la seduttrice lontananza teatrale e vedrete che co­ sa resta». Giudizio che si spiega se si osserva che la carriera di Rossini si sovrappone quasi per intero agli anni del «tardo sti­ le» di Beethoven: e di per sé questa coincidenza cronologica basta a rilevare con evidenza quanto accresciute fossero le di­ stanze tra i mondi italiano e tedesco. Da parte italiana il senso di tali distanze si manifestò spesso con le accuse di intellettua­ lismo ed artificiosità alla grande tradizione strumentale classico-romantica. In termini molto generali si può dire che il culto per il melodramma, che già nel secolo xvm aveva do­ minato la vita musicale italiana, diventa più esclusivo nel se­ colo xix, con uno sviluppo storico per molti aspetti autonomo e con caratteri peculiari rispetto alle altre manifestazioni mu­ sicali del Romanticismo nel resto d’Europa. Dopo la morte di Piccinni (1800) e di Cimarosa (1801) e la fine della carriera teatrale di Paisiello, nel periodo che prece­

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de e accompagna la carriera di Rossini (e mentre Cherubini e Spontini svolgono ormai la loro attività all’estero), la situazio­ ne dell’opera italiana si presenta singolarmente varia e artico­ lata. Il periodo napoleonico comporta infatti anche sul piano musicale una complessa molteplicità di stimoli di rinnovamen­ to che agiscono in vario modo nella continuità della tradizio­ ne tardosettecentesca: cosi, mentre il repertorio dei teatri si apre a lavori francesi, diversi compositori si rivelano sensibili a istanze non riconducibili al gusto fino ad allora predominan­ te nell’opera italiana. Fino all’avvento di Rossini non emergo­ no, in questa situazione, personalità di primo piano; ma le di­ verse prospettive che si aprono, anche in modo cauto e rudi­ mentale, all’inizio del secolo sono premessa indispensabile al­ la ricerca stessa del pesarese. Nel quadro complessivo va ricordata la presenza di epigoni della cosi detta «scuola napoletana», arroccati in una posizio­ ne sostanzialmente conservatrice: fra questi il piu significativo fu Nicola Antonio Zingarelli (Napoli 1752 - Torre del Greco 1837), autore di una vasta produzione teatrale e sacra e mae­ stro di Bellini, di Mercadante e di Morlacchi, rispetto ai quali rappresenta in un certo senso l’anello di congiunzione con il linguaggio melodico di tradizione napoletana. Di particolare fortuna e diffusione godette tra le sue opere Giulietta e Romeo (1796); da ricordare anche, fra le altre, Edipo a Colono (1802). A Napoli si formò e ottenne i suoi maggiori successi il roma­ no Valentino Fioravanti (Roma 1764 - Capua, Caserta 1837), noto soprattutto come autore di opere buffe, in particolare delle Cantatrici villane (1799), che furono care a Napoleone ed ebbero notevole fortuna anche in tempi moderni: in Fioravan­ ti rivivono con scioltezza i caratteri della tradizione comica tardosettecentesca. Un’opera buffa fu anche il lavoro piu for­ tunato di Stefano Pavesi (Casaletto Vaprio, Cremona 1779 Crema 1850), allievo di Piccinni e Fenaroli a Napoli, poi di Gazzaniga a Crema: il suo Ser Marcantonio (1810) fu la fonte del soggetto del Don Pasquale di Donizetti. Pavesi fu a Vien­ na dal 1826 al 1830, succedendo a Salieri come direttore dell’Opera di corte, e fu l’ultimo italiano in quella posizione: se­ gno anche questo di una situazione che stava mutando, nei rapporti tra l’opera italiana e l’Europa. Si stavano del resto trasformando profondamente i caratte­ ri stessi dei generi dell’opera italiana e il loro significato: dal punto di vista della ricerca di un certo rinnovamento l’opera buffa non era ormai, nell’Italia dei primi del secolo, il campo

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di azione più interessante. Non per caso i maggiori successi di autori come Fioravanti o di Pavesi (che presenta una maggior varietà stilistica) in campo buffo si presentavano essenzial­ mente con caratteri retrospettivi: si stava capovolgendo la si­ tuazione della seconda metà del Settecento, che aveva visto la crescènte vitalità dell’opera buffa accogliere contenuti pate­ tici e nutrire di linfa vitale la formalizzata tradizione seria. Gli scorrevoli ed efficienti meccanismi che garantivano il suc­ cesso di un Fioravanti sembravano aver perduto la capacità di assimilare le istanze dei tempi nuovi e nel loro sorridente, bo­ nario ottimismo apparivano sempre più confinati in un ambi­ to di cordiale, disimpegnata evasione, in stereotipi (la situa­ zione dell’opera buffa sarebbe radicalmente mutata, ma per l’ultima volta, con l’avvento di Rossini). Invece nell’opera se­ ria, fin dagli ultimi lavori di Paisiello e Cimarosa, potevano convergere sollecitazioni disparate, apporti diversi, e lo dimo­ stra il fatto che di carattere tragico sono alcune delle partiture che meglio rappresentano l’irrequieta condizione del teatro musicale italiano prima di Rossini. In questo contesto ebbe per qualche tempo notevole signi­ ficato l’esperienza di Giovanni Simone Mayr (Mendorf, Ba­ viera 1763 - Bergamo 1845), compositore tedesco che studiò a Bergamo e in seguito a Venezia con Ferdinando Bertoni. A Bergamo, dove dal 1802 fu maestro di cappella della cattedra­ le, ebbe tra i suoi allievi Donizetti. Già nelle sue prime opere alcuni soggetti rivelano una attenzione a modelli francesi di evidente attualità: Lodoi'ska (1796) e Le due giornate (1801) avevano precedenti in Cherubini e L'amore coniugale (1805) condivide con il Fidelio di Beethoven la fonte; tra i successi maggiori furono Ginevra di Scozia (1801), La rosa bianca e la rosa rossa (1813), e Medea in Corinto (1813). Soggetti classicheggianti si mescolano nell’opera di Mayr e di altri autori della stessa generazione a tematiche nuove, senza che ciò pe­ raltro comporti un ripensamento radicale dell’impianto librettistico dell’opera seria. Una ricerca formale più complessa, sensibile all’eredità della lezione di Gluck, e posta sotto il se­ gno di una volontà di elaborazione di vasto respiro, un arric­ chimento dell’armonia e della scrittura strumentale (che ave­ va però i suoi modelli soprattutto in una civiltà anteriore a quella del classicismo viennese) sono forse gli aspetti musicali più evidenti delle novità che nel contesto italiano introdusse Mayr. Ebbe un atteggiamento in complesso più conservatore e

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successi di più ampia portata il parmense Ferdinando Paèr (Parma 1771 - Parigi 1839), che iniziò la carriera in Italia per proseguirla a Vienna, Praga, Dresda ed infine in Francia, do­ ve si stabili nel 1812 e diresse il Teatro italiano prima di Ros­ sini. Particolarmente caro a Napoleone, che ne prediligeva Achille (1801), fu autore anche di Griselda (1798), Camilla o Il sotterraneo (1799), Leonora ossia L'Amore coniugale (Dresda 1804) sullo stesso soggetto del Fidelio. Una vena melodica tal­ volta non lontana dal miglior Cimarosa, un gusto incline an­ che a recuperi retrospettivi si uniscono in Paèr ad una atten­ zione a novità formali e strumentali. L’attenzione ad una scrittura strumentale più ricca si rico­ nosce anche in Pietro Generali (Masserano, Vercelli 1773 Novara 1832), che fu attivo prevalentemente in ambito buf­ fo, ma ottenne notevoli successi nel genere serio, in particola­ re con 1 Baccanali di Roma (1816), e in certa misura in France­ sco Morlacchi (Perugia 1784 - Innsbruck 1841), che fu il riva­ le di Weber a Dresda. In questo contesto spicca con eccezio­ nale rilievo il caso davvero unico di Nicola Manfroce (Palmi, Reggio Calabria 1791 - Napoli 1813), che dopo una tradizio­ nale formazione napoletana accolse come una autentica rive­ lazione la prima rappresentazione a Napoli della Vestale di Spontini nel 1811. Se ne riconosce subito il segno ndBEcuba (1812), la sua seconda opera, che sarebbe rimasta l’ultima per la morte prematura. Essa ha certamente un rilievo particolare tra i possibili punti di riferimento del giovane Rossini: nella entusiastica adesione alle novità di Spontini, Manfroce rivela una personalità autenticamente geniale anche se non ancora giunta a compiuta maturazione e dà voce ad un rovello dram­ matico, ad una ricerca di cupa tensione senza riscontro nel contesto napoletano del tempo. La molteplicità di stimoli di rinnovamento che caratteriz­ zava l’opera italiana tra la fine del Settecento e i primi anni del nuovo secolo è avvertita con consapevole ricettività da Gioacchino Rossini (Pesaro 1792 - Passy, Parigi 1868), prota­ gonista di una svolta che, senza troncare completamente i le­ gami con le radici tardosettecentesche, si sarebbe rivelata de­ cisiva per gli sviluppi futuri del melodramma in Italia, costi­ tuendone per qualche decennio il fondamento. Da questo punto di vista per comprendere la posizione storica di Rossini è essenziale la conoscenza delle sue opere di carattere dram­ matico ancor più di quella dei capolavori buffi; ma va subito sottolineato che la pur chiara distinzione fra i generi non gli

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impedisce di stabilire fra loro un fitto intreccio, un inten­ so rapporto di reciproci scambi ed arricchimenti, fondato fra E altro sulla tendenza tipica della poetica di Rossini, a va­ lersi anche di vocaboli neutri, ossia polivalenti, i cui sensi drammatico-musicali dipendono dal contesto. La produzione seria è quantitativamente superiore e abbraccia un arco cro­ nologico più ampio con maggiore continuità, offrendo l’im­ magine di una ricerca consapevole e costante, anche se non sempre lineare; la produzione buffa occupa una posizione pri­ vilegiata nella prima fase della carriera di Rossini e dopo aver toccato i culmini del Barbiere di Siviglia (1816) e di Cenerentola (1817) si interrompe quasi completamente fino all’isolato Le comte Ory (1828): i capolavori rossiniani segnano un verti­ ce conclusivo nella storia del genere, che non scompare, ma resta legato sostanzialmente a manifestazioni epigonali, e può superarle, nei casi migliori, aprendosi a patetici languori, ai chiaroscuri di delicate tenerezze, a nuove implicazioni espres­ sive: quelle che fanno del Don Pasquale di Donizetti un caso a sé, una commedia borghese soltanto in parte legata ai classici schemi buffi. Verdi affrontò il genere buffo una sola volta al­ l’inizio della carriera, in \Jn giorno di regno; ma creò il suo uni­ co capolavoro comico mezzo secolo dopo, con Falstaff in un contesto storico totalmente diverso e con caratteri stilistici or­ mai lontanissimi dalla tradizione buffa rossiniana. Una «farsa in un atto», La cambiale di matrimonio (libretto di G. Rossi, Venezia 1810) fu l’inizio della carriera teatrale di Rossini (che, dopo la prima formazione, era stato allievo al Conservatorio di Bologna di Stanislao Mattei, il successore del padre Martini, dal 1806 e si era dedicato anche allo studio delle partiture di Haydn e Mozart): l’esordio (preceduto da un’opera seria, Demetrio e Polibio che fu però rappresentata nel 1812) fu seguito da una intensissima esplosione creativa con nove opere nuove (6 buffe e 3 serie) rappresentate tra l’ottobre 1811 e il dicembre 1813. Il linguaggio comico rossi­ niano trova già una suggestiva pienezza di definizione con La pietra del paragone (Milano 26 settembre 1812), L’occasione fa il ladro (Venezia 24 novembre 1812) e 11 signor Bruschino (Ve­ nezia, gennaio 1813); seguirono subito il primo capolavoro se­ rio, Tancredi (libretto di G. Rossi da Voltaire, Venezia 6 feb­ braio 1813), e il primo capolavoro buffo, L’Italiana in Algeri (libretto di A. Anelli, Venezia 22 maggio 1813) che rapida­ mente conquistarono a Rossini una reputazione internaziona­ le. Due opere, fra le quali II Turco il Italia (libretto di F. Ro­

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mani, Milano 1814) furono rappresentate nel 1814; nel 1815 si ebbe una svolta decisiva per la carriera di Rossini, che fu chiamato a Napoli dall’impresario Domenico Barbaja come di­ rettore artistico e musicale dei teatri napoletani e come compo­ sitore. In tale posizione, dal 1815 al 1822, Rossini si impose co­ me incontrastato dominatore delle scene liriche italiane con di­ ciannove opere, dopo le quali Semiramide (libretto di G. Rossi, Venezia 1823) conclude questa fase centrale e determinante. Non tutte le opere degli anni 1813-22 furono composte per Napoli: a sedi diverse furono destinate, fra l’altro, due impor­ tanti opere semiserie, La gazza ladra (Milano 1817) e Matilde di Shabran (Roma 1821), ed i capolavori buffi più famosi, Il Barbiere di Siviglia (libretto di Cesare Sterbini, Roma 1816) e La Cenerentola (libretto di Jacopo Ferretti, Roma 1817). La loro posizione di culmini conclusivi dell’esperienza comica di Rossini in lingua italiana dipende dal rapporto che vi si in­ staura con gli schemi settecenteschi che vengono quasi fatti esplodere a contatto con la vitalità originalissima di una per­ sonalità che li stravolge, ne distrugge gli eleganti equilibri, li piega a nuovi significati immettendone le strutture in un gio­ co vorticoso. A proposito AdU*Italiana in Algeri Stendhal ave­ va osservato che le volute assurdità ed inverosimiglianze del libretto si convenivano perfettamente ad una musica che era essa stessa «una follia organizzata e completa»: la definizione coglie uno degli aspetti essenziali del comico rossiniano, il gu­ sto per l’effetto surreale, per l’iperbole grottesca, quale si ma­ nifesta ad esempio nelle sezioni conclusive dei grandi finali dell’atto primo dell’Italiana («Va sossopra il mio cervello») e del Barbiere («Mi par d’esser con la testa»). L’iperbole musi­ cale nasce spesso in Rossini dalla esasperazione di un nitidis­ simo ed inflessibile meccanismo astratto: cosi il disorienta­ mento dei personaggi alla fine del 1 atto, di per sé una situa­ zione frequente nell’opera buffa, si trasforma negli esempi ci­ tati, e in altri casi, in una sorta di disintegrazione mentale, perché tutti sono travolti in un frenetico meccanismo con­ trappuntistico e, nel caso AeB'Italiana, nell’intreccio delle imi­ tazioni onomatopeiche del campanello, della cornacchia, del martello, del cannone, in un gioco che approda al nonsense. L’implacabile precisione del ritmo e l’insistita ripetizione so­ no componenti essenziali, anche negli esempi citati, del voca­ bolario comico rossiniano, e appaiono determinanti nello sca­ tenare il celebre effetto del «crescendo», consistente nella ostinata iterazione di un disegno melodico-ritmico con la pro-

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gressiva aggiunta di strumenti (ed eventualmente voci). La tendenza del comico rossiniano a risolversi in inquietanti, di­ sincantati meccanismi astratti implica un rapporto di autono­ mia, per non dire di estraniazione, tra la musica e il testo, che può portare ad esilaranti contraddizioni (verso la fine del Bar­ biere la circolare ripetizióne di «Zitti zitti, piano piano» fa si che i personaggi restino fermi mentre continuano a dire di vo­ lersene andare). Un altro aspetto della tendenza rossiniana al­ la astrazione ed estraniazione in rapporto al testo si riconosce nella natura della vocalità e nei meccanismi della declamazio­ ne vocale. Ai suoi interpreti buffi Rossini chiede un virtuosi­ smo spesso non dissimile da quello degli interpreti dell’opera seria, con un significato espressivo diverso caso per caso (si pensi al grandioso effetto comicamente terribile della pompo­ sa scrittura vocale di Mustafà ne\TItaliana); ma sempre incline ad una stilizzazione. Da sottolineare anche la qualità di una scrittura orchestrale dalle scelte timbriche sempre nitidamen­ te individuate: si pensi, ad esempio, alla virtuosistica valoriz­ zazione degli strumenti a fiato più acuti. La costanza con cui si ripresentano alcuni lineamenti tipici del comico rossiniano non impedisce a ciascuna delle opere buffe del pesarese di avere i propri specifici caratteri: i fantasiosi aspetti grotteschi, spinti fino ad una paradossale astrazione, dell’ Italiana, sono per cosi dire contrappuntati e controbilanciati da situazioni poste sotto il segno della tenerezza amorosa, del languore sen­ suale, e perfino di una seriosa vena patriottica. Nel Barbiere il perfetto meccanismo teatrale della commedia di Beaumar­ chais che aveva già attirato altri compositori (fra i quali Paisiello con particolare successo) viene esaltato sotto il segno di un travolgente vitalismo, di cui recenti letture critiche hanno messo in discussione l’univocità ottimistica, scorgendo in Fi­ garo anche una significativa incarnazione dell’affarismo del­ l’uomo nuovo nell’Italia uscita dagli sconvolgimenti napoleo­ nici. Nella Cenerentola si inserisce nel gioco vorticoso e travol­ gente degli ingranaggi comici rossiniani la dolcezza della figu­ ra della protagonista, con i suoi accenti di tenera malinconia. Più lungo e molto più articolato è il percorso del Rossini se­ rio, denso di complesse ambiguità. Gli inizi, come alcuni aspetti essenziali della maturità, si collocano sotto il segno di un ideale di bellezza neoclassico: a questo gusto va certamen­ te ricondotto il primo capolavoro, Tancredi, di cui Goethe amò l’aura arcadico-pastorale, e nel cui misurato equilibrio d’insieme i rossiniani come Stendhal ravvisarono l’incanto ir­

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ripetibile di un sogno adolescenziale, il fascino di un idillio malinconico, sublimato in un clima di nobile, sospesa bellez­ za. Già in questa partitura si riconoscono in nuce soluzioni formali che Rossini avrebbe in seguito sviluppato nella com­ plessa articolazione dei pezzi d’insieme, dei finali d’atto e delle arie (con interventi del coro e cabaletta conclusiva). Dopo V Aureliano in Paimira (Milano, dicembre 1813) e il debutto a Napoli con Elisabetta regina d'Inghilterra (4 ottobre 1815), che costituiscono entrambi esiti di rilievo, gli anni napoletani pro­ pongono un consapevole anche se non lineare approfondimen­ to della ricerca nel genere serio: le tappe essenziali (talvolta al­ ternate ad esperienze meno ardite; ma non irrilevanti nel loro carattere retrospettivo, ad esempio Bianca e Pallierò composta per Milano alla fine del 1819) si possono riconoscere in Otello (1816) per l’originalità e la compattezza della concezione del m atto, Armida (11 novembre 1817: nello stesso anno erano state rappresentate La Cenerentola a Roma e l’opera semiseria La gazza ladra a Milano), Mose in Egitto (1818), Ermione (1819), La donna del lago (1819), Maometto II (1820), Zelmira (1822). La scomparsa dal repertorio di questi lavori dipese da pro­ fonde trasformazioni del gusto operistico e della vocalità. Le radici belcantistiche del virtuosismo vocale di Rossini non fu­ rono da lui mai messe in discussione nel corso della fase italia­ na della sua attività (e anche dopo in misura assai limitata), anzi i melodrammi napoletani rivelano una inclinazione cre­ scente ad una scrittura fastosamente ricca di colorature. Non ha riscontro nella realtà il vecchio luogo comune secondo cui Rossini avrebbe scritto per esteso le colorature per porre un freno agli arbitri dei cantanti: la ricchezza dell’ornamentazio­ ne è una necessità interna della sua musica matura, con la su­ blimata stilizzazione espressiva che comporta. Sarebbe tutta­ via semplicistico ricondurre il Rossini napoletano esclusivamente nell’alveo di una bellezza astratta, di un controllato gu­ sto neoclassico: il carattere di ciascuna delle opere citate è nettamente individuato, e al loro interno si schiudono in mo­ di di volta in volta diversi intuizioni che avrebbero offerto suggestioni determinanti al melodramma romantico, si deli­ neano strutture che si sarebbero poste come modelli impre­ scindibili in Italia. La ricerca rossiniana non puntava su una originalità radicale: da Gluck alla tradizione francese fino alle esperienze di Mayr o di Paèr e alle prime opere dello stesso Rossini il superamento del predominio dell’aria solistica e la ricerca di una certa continuità drammatico-musicale erano

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passati attraverso una variegata articolazione di cori, recitativi, pezzi d’insieme organizzati in una successione di variabile complessità e continuità. Rossini non mette in discussione l’e­ sistenza delle forme chiuse; le rinnova invece dall’interno, le sottopone ad una straordinaria espansione, ad un arricchimen­ to senza precedenti. In modo diverso di opera in opera gli aspet­ ti più avanzati della sua ricerca instaurano un peculiare equili­ brio con scelte più tradizionali (spesso attraverso una sapiente alternanza di zone di tensione espressiva e zone nobilmente astratte o sublimate nella adamantina bellezza dell’ornamen­ tazione vocale), evitando generalmente le soluzioni estreme. Un affascinante esempio di questo peculiare equilibrio può essere considerata La donna del lago, ispirata al poema di Wal­ ter Scott e ambientata in una Scozia dove sono accennate con poetica vaghezza, ma non sono ancora romanticamente sotto­ lineate, le suggestioni della natura e del paesaggio che saranno ben diversamente presenti nel Guglielmo Teli. Non mancano tuttavia, negli anni napoletani, momenti più radicali, dove l’e­ donismo tipico della poetica rossiniana passa decisamente in secondo piano: si pensi a ciò che potevano rappresentare nel­ l’opera italiana del tempo la complessità strutturale, l’artico­ lazione a grandi blocchi del Maometto II (su un non conven­ zionale libretto di Cesare Della Valle) o la tensione arroventa­ ta delTErmione (basata Andromaque di Racine); ma lo scarso successo di questi lavori deve aver indotto Rossini a proseguire su altre linee di ricerca e nella sontuosa ricchezza di Semiramide (libretto di G. Rossi, Venezia 1823) sembrano riassumersi le ambiguità e la complessità di prospettive stili­ stiche del Rossini serio italiano, le ambivalenze del suo collo­ carsi tra gusto neoclassico e Romanticismo. La febbrile intensità della produzione degli anni napoletani è seguita da una sosta e dai viaggi trionfali a Parigi e a Londra (dopo i successi di Vienna, dove nel 1821-22 Barbaja invitò Rossini e i cantanti di Napoli). Nell’estate 1824 Rossini si sta­ bili a Parigi assumendo la direzione del Theatre Italien; nel 1825 per l’incoronazione di Carlo X scrisse II viaggio a Reims, il suo primo lavoro teatrale composto in Francia e l’ultimo in lingua italiana. Una parte consistente di questa cantata sceni­ ca celebrativa (il cui carattere di circostanza non inibisce lo scatenarsi della fantasia di Rossini in una sorta di puro gioco, in un divertimento ricco di umorismo e di ironia) fu genial­ mente trasferita, con l’aggiunta di molta musica nuova, nel Comte Ory (libretto di E. Scribe e C. G. Delestre-Poirson, Parigi 1828), la terza opera francese di Rossini, che segna un

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ritorno al genere comico dopo un decennio: è un ritorno dove si insinuano accenti nuovi di sottile erotismo, accanto ad ele­ menti vicini alla tradizione delPopéra-comique e a nostalgie di incantate purezze mozartiane (nel sublime terzetto notturno che precede la fine del n atto); inoltre il ripresentarsi di certi vocaboli della comicità rossiniana assume un carattere quasi di riflessione, di consapevole ripiegamento. Le opere francesi precedenti erano state Le siège de Corinthe (L’assedio di Corinto, 1826), rifacimento del Maometto II e Moise et Pharaon (1827), rifacimento del Mosé in Egitto*. due delle più avanzate opere napoletane erano state trasfor­ mate da Rossini nella prospettiva del nascente grand-opéra, fra T altro ripensando alcuni aspetti della scrittura vocale. La­ vorare in Francia significava per Rossini comporre con tempi assai meno precipitosi di quelli imposti dalla vita teatrale ita­ liana e poter approfondire direzioni di ricerca che non aveva­ no trovato buona accoglienza in Italia. Il naturale coronamen­ to di questa ricerca fu Guillaume Teli (da Schiller, libretto di E. de Jouy e H.-L.-F. Bis, Parigi 1829), con la sua grandiosa architettura, con il soggetto attualissimo per il carattere patriottico-libertario, con le intense suggestioni del paesaggio e del colore locale. L’ultimo capolavoro teatrale di Rossini ebbe un ruolo storico molto significativo in Francia (per la defini­ zione dei lineamenti del grand-opéra) e in modo diverso in Italia, dove offerse un modello di costruzione dramma ticomusicale, in modo particolare con la continuità realizzata at­ traverso le forme chiuse del bellissimo secondo atto (aria di Matilde, duetto Arnoldo-Matilde, terzetto e scena corale con i rappresentanti dei cantoni svizzeri che preparano la rivolta). L’opera che segna il massimo avvicinamento di Rossini al me­ lodramma romantico (e contribuisce a determinarne la storia in Italia e in Francia) fu anche il suo congedo dalle scene: un congedo prematuro, al culmine del successo, e verosimilmente un rifiuto di allontanarsi ancora di più di quanto già aveva fat­ to dalle radici settecentesche della sua poetica. Il silenzio teatrale di Rossini negli anni delle felicissime pa­ gine vocali da camera raccolte con il titolo di Soirées musicales (1830-35) o dello Stahat mater (1832), poi nel periodo della grave malattia nervosa e della totale inattività, infine nella ri­ presa dell’ultimo decennio, vale una polemica e consapevole ammissione di inattualità ed è insieme il segno di una sorvegliatissima coscienza autocritica. Le pagine pianistiche e voca­ li raccolte nei quaderni dei Péchés de vieillesse (1857-68) sono

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313 una sorta di diario musicale di un osservatore acuto ed ironi­ camente distaccato, riflessioni talvolta cupe di un musicista deciso a tenersi in disparte. Il capolavoro degli ultimi anni è la Petite messe solennelle (1863) concepita per un organico ge­ nialmente ridotto (4 solisti, piccolo coro, due pianoforti e ar­ monium), ripensamento, con caratteri stilistici peculiari, di tradizioni sacre ricondotte ad una spoglia ed originale dimen­ sione cameristica. [pp] 3. Il melodramma romantico nell'epoca di Vincenzo Bellini e di Gaetano Donizetti. Il romanticismo italiano si sviluppa dopo quello tedesco e quello inglese, quasi contemporaneamente a quello francese. Il movimento romantico italiano, che viene elaborato soprat­ tutto nella più evoluta Lombardia ma che si diffonde con pari fervore in tutta quanta la penisola, si produce entro un am­ biente sociale e culturale analogo a quello francese; alquanto diverso quindi da quello che in Germania e in Inghilterra ave­ va promosso una disposizione preminente verso l’esplorazione della più profonda vita interiore ed anelante all’infinito e all’assoluto. Nonostante i sentimenti antifrancesi diffusi dopo il dominio napoleonico, questo movimento continua a nutrirsi dei succhi illuministici depositati da tale dominio; anzi, so­ prattutto dalla Francia, e solo in parte dall’Inghilterra, assimi­ la ancora, suo malgrado, gli stessi ideali romantici, più o meno filtrati dalla cultura tedesca, ma ridotti a motivi polemici che anziché opporsi alla tradizione classicista li continuano. Nella controversia fra classicisti e romantici, che segna il primo pro­ nunciamento dell’idea romantica in Italia, sentimento e ragio­ ne, libertà e regola finiscono per avvertirsi assai meno in con­ trasto di quanto sembrerebbero lasciare intendere. Non pote­ va darsi altrimenti, del resto, in un paese come l’Italia, in cui, al pari della Francia, la tradizione classica aveva radici troppo profonde, non facili a recidersi. Naturalmente ora al centro dell’attenzione viene a porsi l’individuo. Ma come progresso e conservazione, durante gli anni in cui si vanno preparando le lotte risorgimentali, giun­ gono a trovare un loro equilibrio sia pur precario nell’assetto sociale e ideologico della borghesia italiana, cosi nella cultura che l’egemonia borghese incrementa, libertà poetica e obbligo sociale, diletto e utilità pervengono a un modus vivendi, con­

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ciliando i rispettivi principi, anziché esasperarne l’opposizio­ ne, nell’ambito di una zona franca di comune pertinenza: sot­ to forma, cioè, di trasporto e di misura. Tale è la disposizione d’animo che traspare dal programma del foglio milanese «Il Conciliatore» (1818-19), manifesto del Romanticismo italia­ no; presumendo di contrapporsi all’azione dei classicisti e dei conservatori ripropone in realtà modelli tutt’altro che roman­ tici come quello del Parini. Nell’ambito della musica, simile conciliazione appare rifles­ sa quasi esclusivamente nel melodramma. Decaduta, infatti, in Italia la musica strumentale, alla fine del Settecento, resta il melodramma a dominare incontrastato la vita musicale dell’Ottocento, a differenza di quanto avviene nei paesi tedeschi, dove la sensibilità romantica trova sfogo, principalmente, at­ traverso il raffinamento della composizione e della pratica stru­ mentali. Nel melodramma il compromesso borghese fra con­ venzione morale ed empito poetico si estrinseca nella creazione di uno stile corrente che si sviluppa verso il 1830 sulle strutture portanti rossiniane e che è destinato lungo il resto del secolo ad acquistare in profondità e ad assumere tratti personali sino a ri­ fulgere e a trasformarsi radicalmente nel Verdi della maturità. Alla luce di tale rapporto, fra i tanti operisti della genera­ zione di Rossini (Nicola Vaccaj, Carlo Conti, Giuseppe Per­ siani, Pietro Antonio Coppola, ecc.), meritano considerazione Giuseppe Saverio Mercadante (Altamura, Bari 1795 - Napoli 1870) e Giovanni Pacini (Catania 1796 - Pescia, Pistoia 1867): Mercadante per aver introdotto intenzioni dramma­ turgiche fortemente caratterizzate all’interno delle forme tra­ dizionali, specie nei suoi capolavori: Il giuramento (1837) e 11 bravo (1839), melodrammi di vigore quasi verdiano, se non fossero affidati a un repertorio di gesti e di affetti risolti mi­ meticamente secondo categorie drammatiche stereotipe di ascendenza classicista; Pacini per aver tentato abilmente di dissimulare il divario fra recitativo e pezzo chiuso, specie nel­ la sua opera maggiore e piu fortunata, Saffo (1840), gonfiando il recitativo con enfatici incisi melodici confortati dall’orche­ stra e memori della tragédie-lyrique spontiniana. Ma a pre­ scindere dagli innumerevoli autori minori il melodramma ita­ liano dell’ottocento resta sostanzialmente illustrato dalle quattro grandi figure di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. A Rossini, come abbiam detto, spetta di concludere un’epo­ ca, quella dell’opera settecentesca, soprattutto buffa, di cui rinvigorisce gli schemi rinnovandone lo spirito; e a lui tocca an-

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nunziare, nello stesso tempo, la nuova età romantica, di cui so­ no i segni nelle sue opere serie, dal Tancredi al Guglielmo Teli. Se però Rossini apre la via al romanticismo, è senza dubbio Vincenzo Bellini (Catania 1801 - Puteaux, Parigi 1835) la in­ dividualità più rappresentativa della prima epoca romantica italiana. Nella sua stessa persona fisica egli sembra incarnare l’ideale romantico, la delicatezza sentimentale che ispira del pari la sua musica. Felice Romani, suo librettista, lo descrive «biondo come il grano, dolce come un angelo, giovane come l’Aurora»; ij poeta tedesco Heinrich Heine, dopo averlo co­ nosciuto, dice: «La sua andatura era cosi verginale, cosi ele­ giaca, cosf eterea! Tutta la sua persona aveva l’aria di un so­ spiro... » Sono i caratteri stessi della sua musica: musica di un lirismo terso e assorto, tutto librato nella melodia e nel canto, di una lineare purezza, tale da trascendere gli schemi e le te­ matiche drammatiche volute dalla consuetudine operistica ed irrise dagli innovatori tedeschi. Per questo Bellini è l’unico operista italiano del suo tempo a godere dell’ammirazione di costoro, l’unico che si salvi ai loro occhi (fu apprezzato, fra al­ tri, da Wagner, da Liszt, da Chopin, che non sdegnarono per­ sino di subirne l’influenza). Il valore di Bellini non ha tuttavia da ridursi al mito della sua miracolosa melodia, del suo lirismo supremo e cristallino. Nell’ambito della poetica la sua importanza consiste, non me­ no, nell’aver egli realizzato quell’unità e quella coerenza del discorso drammatico che l’opera seria italiana del Settecento aveva quasi completamente trascurato e che Rossini aveva cercato solo nelle sue ultime opere. Bellini fu il primo operista italiano dell’ottocento ad avvertire come primaria esigenza che i personaggi di un dramma musicale dovevano vivere esteticamente anche nei recitativi, e a conferire anche a questi elevatezza lirica. Ciò egli realizzò anche in grazia della collaborazione con Felice Romani, che ad eccezione delle prime due opere, Adel­ son e Salvini e Bianca e Fernando, composte dal catanese ancor fresco degli studi compiuti alla scuola napoletana dello Zingarelli, gli form tutti i libretti delle successive, tranne dell’ulti­ ma, I Puritani. Romani fu il più apprezzato e conteso libretti­ sta dell’epoca e procurò testi a una quantità di compositori, ivi compresi Rossini, Donizetti e Verdi. Particolarmente feli­ ce per congenialità di ispirazione fu il suo incontro con Belli­ ni, alla cui vena di elegiaco abbandono congiunta alle struttu­ re melodrammatiche tuttora settecentesche faceva corrispon­

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dere un limpido lirismo poetico; un lirismo derivato dall’os­ servanza di uno stile classicheggiante fedele ai moduli meta­ stasiani e coniugato con trame avventurose o patetiche quasi sempre ricavate, come si soleva, dagli scrittori romantici allo­ ra in voga, come Byron, Scott, Hugo, Dumas. Nel breve arco dal 1827 al 1835, in cui si contiene la fugace carriera di Belli­ ni, morto all’età di appena 34 anni, Romani gli fornisce II pi­ rata, che segna nel ’27 alla Scala l’affermazione europea del musicista, poi nel ’29 La straniera e Zaira, quindi, nel ’30,1 Caputeti e i Montecchi (da Romeo e Giulietta di Shakespeare, autore particolarmente caro ai romantici), infine, prima della beatrice di Tenda, eh’è del ’33, i due capolavori, La sonnambu­ la e Norma, rappresentati entrambi a Milano nel 1831, l’una in marzo al Teatro Carcano, l’altra in dicembre alla Scala. La sonnambula, che ottenne subito grandissimo successo, discende dal genere semiserio o larmoyant di settecentesca memoria, ma l’ambientazione svizzera, lo sfondo della mon­ tagna, il tono idilliaco che la pervade da cima a fondo e che si trasfonde nella suggestione notturna del sonnambulismo della diafana e patetica protagonista, la immergono in un’atmosfe­ ra squisitamente romantica. La Norma, che fu accolta la prima sera in modo sfavorevole suscitando entusiasmi alle repliche, si ispira invece alla trage­ dia classica, svolgendo un argomento fortemente affine a quello della Vestale di Spontini: la vicenda della sacerdotessa che per amore vien meno ai sacri voti di castità e per amore affronta il sacrificio. Qui la classicità, che l’aurea misura dei versi di Romani predispongono, attinge con la musica a una purezza marmorea, il cui incanto trascende il modello accade­ mico; si sospende in assoluta emozione lirica, intimamente aderente alla temperie romantica, sia che si fissi nell’evidenza scultorea del declamato, sia che si disciolga nel protratto ab­ bandono della melodia e del canto, talora librati in un vuoto quasi metafisico, come nella celebre invocazione alla luna del­ la protagonista («Casta diva»). Nei Puritani, scritti nel 1835 per il Théàtre Italien di Parigi su libretto di Carlo Pepoli, Bellini accenna a sviluppi aperti in modo piu esplicito all’estetica romantica, che la morte pur­ troppo avrebbe subito troncato; sviluppi che si avvertono so­ prattutto nella particolare cura armonica e strumentale e nella funzione espressiva, e non solo di mero accompagnamento, assegnata all’orchestra. Nonostante lo sfondo romanzesco e

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guerriero del dramma*, è il colore elegiaco che finisce comples­ sivamente per prevalere. La mentalità sociale riflessa nell’opera belliniana si riespri­ me anche nel melodramma di Gaetano Donizetti (Bergamo 1797 -1848), ove trova diversa soluzione il medesimo accor­ do fra convenzione ereditata dal teatro settecentesco e da Rossini, ed effusione romantica. Donizetti ottiene questo ri­ sultato mediante un’operazione inversa rispetto a quella di Bellini: anziché dilatare liricamente e trascendere gli schemi tradizionali, rende immanente a quegli schemi stessi la pulsio­ ne romantica. Lo stile operistico di Donizetti si concreta nella fedeltà ad una maniera, in un empito e in un’espansione del canto che forse non trovano eguali nella storia del melodram­ ma italiano. Ma la norma e l’esuberanza non creano un con­ trasto; al contrario, rispetto formale ed effusione canora ri­ specchiano un equilibrio sociale e culturale bilanciato fra sen­ timenti di liberalità e di moderazione. Compositore fecondissimo, durante un’esistenza, anche la sua, relativamente breve (mori a 51 anni preda della follia), Do­ nizetti riuscì a scrivere 74 opere teatrali, fra comiche e serie. Tra le sue opere comiche, oltre 2$Elisir d’amore (1832), il suo capolavoro, ricordiamo L’ajo nell’imbarazzo (1824) e Don Pasquale (1843). Tra le opere serie non si può non ricordare oltre alla Lucia di Lammermoor (1835) su libretto di Cammarano, l’Anna Bolena (1836) su libretto di Felice Romani, Lu­ crezia Borgia (1833) e l’opera semiseria Linda di Chamonix (1842). Fra le opere scritte per il teatro francese vanno ricor­ date La favorita per il Theatre de l’Opéra e La figlia del reggi­ mento per l’Opéra-comique, entrambe del 1840. L’impalcatura formale delle sue opere giocose, a prescinde­ re dai recitativi che non sono secchi ma sempre accompagnati (cioè non dal cembalo ma dall’orchestra), è sostanzialmente quella dell’opera buffa di Rossini; la musica infonde però ai personaggi un calore sentimentale che li sottrae al mero ridi­ colo della farsa o al gioco del sublime agnosticismo del pesare­ se, e li rende psicologicamente familiari all’esperienza quoti­ diana. Persino il personaggio del dottor Dulcamara, nelTE/znr d’amore, tipologicamente stagliato sul tradizionalissimo basso buffo, acquista la realistica attualità di un imbonitore di piaz­ za che si adopera a smerciare il suo specifico, un elisir vanta­ to quale suscitatore di amore, in un quadro di paese ritratto dal vero. Anche l’ingenuità del contadino Nemorino, che si illude con tale espediente di conquistare il cuore di Adina,

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non si traduce nella trita babbuaggine della maschera, ma ri­ ceve il palpito di una creatura concreta. Cosi, anche nel Don Pasquale, la figura archetipa del vecchio smanioso regolar­ mente gabbato dai giovani innamorati (anch’esso appannag­ gio del basso buffo), viene a capovolgersi, in virtu della musi­ ca, in simbolo patetico d’un mondo che si sta estinguendo («E finita, è finita, Don Pasquale! ») il sopravvenite di una nuova realtà sociale. Lucia di Lammermoor, dal canto suo, è espressione, quanto piu tipica e intensa, dell’immaginazione romantica. Come il romanzo di Walter Scott, da cui è ricavata, Lucia di Lammer­ moor raggiunge una perfetta fusione fra la psicologia dei per­ sonaggi e l’ambiente evocato attorno a loro. Nell’opera al fo­ sco dramma della rivalità fra le famiglie degli Asthon e dei Ravenswood, fa da contrasto la segreta relazione amorosa di Lucia e di Edgardo appartenenti rispettivamente alle due fa­ miglie nemiche. Questo dramma, che sfocia alla fine nella tra­ gedia della pazzia di Lucia e del suicidio suo e dell’amante, trova compiuta e complementare estrinsecazione negli accenti individuali del canto solistico e nell’atmosfera sonora evocata. La travolgente passione è avvolta, sin dal primo istante, da una misteriosa aura notturna, dove il lirico incanto si fissa in una stupefazione allucinata e mortale, che culmina nella cele­ bre scena della pazzia del soprano, [ps]

4. La drammaturgia musicale di Giuseppe Verdi. La figura dominante nella cultura musicale italiana del xix secolo fu senza dubbio quella di Giuseppe Verdi, e non solo per la sua lunga vita (Roncole di Busseto, Parma 1813 - Mila­ no 1901) e per la sua genialità di compositore, ma anche per i profondi e positivi legami che egli ebbe con la società del suo tempo. Al contrario di tanti artisti dell’ottocento che mani­ festavano disagio e perfino disprezzo nei confronti del mondo borghese che li circondava, Verdi dimostrò sempre una sorta di condivisione spontanea per le idee e i valori della società in cui viveva, la quale a sua volta lo amò e lo apprezzò come uno dei suoi più autentici rappresentanti. Il sintomo più significa­ tivo di questa convergenza è offerto dalla identificazione dei contenuti drammatici delle sue primissime opere (a partire dal Nabucco che gli diede il successo nel 1842) con le tensioni e le

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speranze patriottiche del Risorgimento, con la sua ansia di in­ dipendenza e di unità nazionale. Ridurre tuttavia la complessità del suo teatro giovanile al­ l’unica dimensione del patriottismo è francamente arbitrario, sia perché egli non partecipò mai alla vita politica attiva, sia perché i personaggi delle sue opere raffigurano un universo psicologico e morale di portata ben piu vasta. In effetti le ra­ gioni stesse della sua adesione spontanea alle idee e ai valori della sua società non sono esclusivamente politiche. La bor­ ghesia e il mondo intellettuale italiano stavano attraversando allora, con decenni di ritardo rispetto alla Francia e all’Inghil­ terra, un periodo di profonda trasformazione. Nella sua con­ quista di nuove posizioni di prestigio sociale la nuova classe stava sottraendo all’aristocrazia non solo poteri economici e politici, ma anche il monopolio ideologico e culturale: ai valori basati sul diritto ereditario (diritto di sangue e di razza) la nuova classe opponeva valori basati sul lavoro, che idealmen­ te rivendicavano uguaglianza e solidarietà sociale; a ideali di bellezza, di delizia, di opulenza, che nascevano dalla coscien­ za e dall’orgoglio del privilegio aristocratico, opponeva ideali di sacrificio e di onestà che nascevano dalla pratica quotidiana della produzione e dello scambio di beni. Ora, in tutta la storia europea esiste sempre una fase di tra­ sformazione in cui lo scontro di poteri fra le classi sociali di­ venta anche scontro fra ideologie e sistemi morali; ciò avven­ ne di solito nei periodi «caldi», nelle epoche di rivoluzione. L’Italia, che per varie ragioni economiche e politiche non ave­ va messo in atto processi rivoluzionari nel xvm secolo, comin­ cia a viverli nella prima metà dell’ottocento, proprio nel mo­ mento in cui, in altri paesi d’Europa, le spinte ideali della bor­ ghesia in espansione si stavano ormai trasformando in prosai­ ca realtà: uguaglianza, solidarietà, onestà si stavano infatti avviando a diventare parole vuote di senso nell’epoca del­ la grande espansione industriale, dell’urbanizzazione, dello sfruttamento intensivo della forza lavoro piu debole, e ciò giustifica la diffidenza e l’ostilità mostrata da molti degli in­ tellettuali e degli artisti nei confronti della società in cui vive­ vano. Ma in Italia ciò non era ancora avvenuto e quegli ideali avevano ancora una carica propulsiva capace di scuotere for­ temente la coscienza di un artista come Verdi che infatti ne fece oggetto di narrazioni epiche in tutte le opere composte durante gli anni Quaranta. La sua sapienza di drammaturgo

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consiste nell’aver saputo incarnare tali ideali in personaggi vi­ vi e frementi e la sua genialità di grande autore tragico consi­ ste nel non aver mai dato per certa la loro vittoria; altrettanto vive e impetuose sono infatti sempre le forze che si oppongo­ no ai principi morali positivi e altrettanto vitali i personaggi che le incarnano. Proprio questa capacità di metter dubbi, di analizzare con impietosa schiettezza i grandi ideali, da lui stesso condivisi, della società nascente, fanno di Verdi la più alta coscienza morale della sua epoca e spiegano il suo immen­ so e immediato successo. La sua carriera, dopo un’infanzia e una giovinezza difficili vissute in un paesino della campagna parmense, cominciò re­ lativamente tardi (nel 1839) con la rappresentazione alla Scala di Milano di Oberto Conte di San Bonifacio che gli diede suffi­ ciente credito da spingere l’impresario Merelli a legarlo al suo teatro con altre opere da presentare nelle stagioni successive. Il Nabucco, l’abbiamo detto, ebbe un successo tale da assicu­ rare al suo autore immediata fama nazionale. Si trattava di un’opera ispirata alla narrazione biblica, una grande opera a sfondo corale del genere inaugurato da Rossini con il Mose; ma la facile trasposizione fra la prigionia degli ebrei in Babi­ lonia e quella degli italiani, la schematica ma efficace sempli­ ficazione dei caratteri e degli avvenimenti, la genialità irresi­ stibile di alcune invenzioni musicali, commossero ed entusia­ smarono il pubblico. Successivamente Emani (1844), ispirato all’omonimo dram­ ma di Victor Hugo che in quegli anni aveva fatto epoca sulle scene parigine, presenta l’altro grande tema della drammatur­ gia giovanile verdiana: quello delle vicende familiari e amoro­ se. Nel corso degli anni Quaranta Verdi alterna opere a sfondo corale e patriottico (La battaglia di Legnano, 1849; Attila, 1846 e ILombardi alla prima crociata, 1843) con drammi perso­ nali e familiari (I due Foscari, 1844 e I masnadieri, 1847, Luisa Miller 1849). I racconti che ricorrono più frequentemente in tutti questi drammi si aggirano attorno alle tematiche del po­ tere, della famiglia e dell’amore, tutte già largamente presenti nella tradizione melodrammatica precedente ma rinnovate da Verdi con varianti originali. Le narrazioni più delicate da trat­ tare, tenuto conto che la censura poliziesca era allora molto oculata nel proibire parole o episodi giudicati sconvenienti, erano quelle che avevano a che fare col potere: re, nobili, pa­ pi, alti prelati dovevano essere trattati con i dovuti riguardi. Ciononostante l’invincibile tendenza di Verdi era quella di

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mettere in scena divoranti ambizioni, esercizi spietati d’auto­ rità, ricatti, repressioni, ingiustizie, che il filtro della censura riusciva a mascherare, ma non a mutare nella sostanza. A que­ sto repertorio di raffigurazioni malvage si contrapponeva un repertorio altrettanto ricco di azioni di ribellione: c’è nel pri­ mo Verdi un’intera galleria di banditi, di corsari, di masnadie­ ri, che egli attingeva non solo dal romanzo popolare, ma an­ che e soprattutto dai grandi esempi letterari di Schiller, di By­ ron, di Hugo. Accanto all’area dei conflitti di potere e strettamente in­ trecciata a quella c’è l’altrettanto ricca costellazione dei con­ flitti familiari nella quale emerge una figura originalissima del teatro verdiano: quella del padre a cui spetta il compito di preservare l’unità morale della famiglia; del padre che, ad esempio, difende strenuamente, a costo della vita, l’onore in­ sidiato della propria figlia o si impegna in tremende battaglie contro le ribellioni e le devianze dei figli maschi. Infine da questo intreccio di temi emerge prepotentemente un’altra si­ tuazione: quella dell’amore fra i giovani, di un amore-passione sempre dotato di una forza tanto assoluta da resistere a qual­ siasi ostacolo e da sfidare le minacce, le convenzioni sociali, i pericoli e la morte. Cosi coppie sventurate di giovani amanti popolano il teatro verdiano di quegli anni e costituiscono per il suo pubblico un esaltante deposito di fantasie e di memorie. I rapporti di Verdi con i librettisti che gli dovevano fornire il testo letterario da musicare, rapporti incalzanti o addirittu­ ra tirannici (come quello che egli aveva col fedele Francesco Maria Piave) sono significativi della sua concezione del teatro musicale: ai librettisti egli chiedeva rapidità, concisione, po­ tenza di raffigurazione psicologica. La «parola scenica» che egli invitava a cercare, consisteva soprattutto nella capacità di schizzare la sostanza delle situazioni in pochi tratti suprema­ mente significativi. A questi tratti, che dovevano inquadrarsi in forme metriche vivide e ben variate, la sua musica avrebbe poi saputo dare il necessario risalto. Come le tematiche narrative cosf anche le forme musicali verdiane degli anni Quaranta accolgono ampiamente l’espe­ rienza del melodramma precedente rinnovandola tuttavia in alcuni aspetti essenziali. L’unità musicale non è ormai più da­ ta, come nel vecchio teatro di tradizione settecentesca, dalla schematica successione di recitativi e arie, ma non è neppure del tutto libera. La presenza di schemi formali precostituiti, di «numeri chiusi», è ancora viva in questo periodo e ancora

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pienamente funzionale alle attese del pubblico, che amava co­ stellare lo spettacolo degli applausi forniti a ciascun cantante alla fine del suo pezzo. Nella concezione verdiana l’unità mu­ sicale, il «pezzo chiuso», comprende di solito un’intera azio­ ne, cioè la narrazione esauriente di un episodio, basata sulla presenza dominante di un personaggio (o di piu personaggi nel caso di un duetto, di un terzetto ecc.). Nel suo schema piu consueto tale narrazione comprendeva almeno quattro fasi: una serie di recitativi iniziali (a dialogo fra i vari personaggi in scena) sostenuta e introdotta da temi e interpunzioni orche­ strali; una prima aria (detta spesso «cavatina») del protagoni­ sta, sostenuta da formule d’accompagnamento che avevano la funzione di creare il clima psicologico dell’episodio; una parte libera con interventi dei vari personaggi o del coro o con mu­ tamenti nella loro presenza in scena; e infine un secondo in­ tervento del o della protagonista (detto «cabaletta») di carat­ tere più brillante dal punto di vista vocale. Un’esemplificazione di questo tipo non esaurisce tutte le possibilità, ma può dare un’idea degli schemi formali verdiani e anche del loro carattere di duttilità e manipolabilità. A par­ tire da Emani Verdi codifica anche le relazioni fra il tipo di voce e il tipo di ruolo: soprano e tenore costituivano in genere la coppia eroica dei protagonisti amorosi; alla voce di basso e di baritono erano invece riservate di norma le funzioni anta­ gonistiche, per esempio quella del depositario del potere po­ litico, o anche del potere familiare, come nel caso della figura paterna. In anni successivi si preciserà anche il ruolo del mez­ zo soprano, generalmente anch’esso con funzioni di antagoni­ sta o di autorità familiare femminile. Verdi, che aveva una cu­ ra particolare per la realizzazione scenica delle sue opere, co­ struiva i personaggi anche in funzione della voce dei cantanti che poteva reclutare, e per di più cercava di ottenere da essi non solo le necessarie prestazioni vocali, ma anche un efficace gesto scenico. La sua cura per l’aspetto registico e scenografico è assiduamente documentata nelle lettere e nei numerosi appunti per la messinscena. Un caso particolare di attenzione alla realizzazione registi­ ca e scenografica fu quello del Macbeth (1847) che per tanti aspetti costituisce un’eccezione di tipo sperimentale nel teatro del primo Verdi. Anzitutto per la scelta del soggetto, che è una cupa tragedia di ambizione e di sangue, tutta concentrata sul tema del potere, senza i consueti eroismi e senza trame amorose; ma anche perché per la prima volta il musicista osa­

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va mettere in musica un testo di Shakespeare, per di piu ricco di apparizioni fantastiche e soprannaturali (streghe, profezie, evocazione di spiriti) sfidando le convenzioni piu diffuse e i gusti ancora largamente classicheggianti che predominavano nell’ambiente culturale e letterario italiano. I primi anni di carriera - anni di galera come egli li definì, per i forsennati ritmi di lavoro a cui si sottopose - si conclu­ sero con tre opere comparse agli inizi degli anni Cinquanta, Rigoletto (1851), Il trovatore e La traviata entrambi del 1853, che costituiscono un momento di maturità inventiva partico­ larmente felice. Il primo, tratto da Victor Hugo, narra le vi­ cende di un deforme buffone di corte a cui il suo principe insi­ dia la bella e ingenua figlia; nel tentativo di vendicare l’insulto Rigoletto provoca per errore la morte della fanciulla credendo di far assassinare il seduttore. L’opera, già singolare e coraggio­ sa per avere come protagonista un gobbo e per includere scene di paesaggio notturno di una suggestione del tutto inedita in quegli anni, dispiega tecniche drammaturgiche e musicali solo in parte tentate nel repertorio precedente: per esempio quella della contemporanea presentazione di episodi contrastanti e paralleli, come avviene nel quartetto (o per meglio dire nel doppio duetto) dell’ultimo atto in cui drammatiche battute di padre e figlia si intrecciano con la scena di libertinaggio che av­ viene fra il gran seduttore e una ragazza di vita allegra. Tecniche di questo tipo, di geniale efficacia scenico-musicale, vengono ampiamente adottate anche nelle altre opere, e incidono naturalmente sulle stesse strutture musicali, che ten­ dono sempre piu ad adattare le forme tradizionali alle esigen­ ze del teatro moderno. Cosi, ad esempio, il recitativo assume talora una continuità di linee melodiche e un impegno espres­ sivo che lo avvicina all’aria; e questa a sua volta può farsi me­ no compatta e meno formalmente rigorosa cosi da aderire piu prontamente alla concretezza delle situazioni rappresentate. La stessa scelta dei temi narrativi si allontana dalle convenzio­ ni, talora un po’ rozze, dell’epoca precedente e non teme di toccare temi di attualità scottante: nella Traviata ad esempio (da Dumas) Verdi spezza una lancia a favore del libero amore presentando in termini appassionatamente positivi il perso­ naggio di Violetta Valery a cui la morale corrente proibisce di vivere assieme all’uomo che ama. Del resto, analoga era in quegli anni la situazione stessa di Verdi. Dopo un primo matrimonio che si era concluso con la morte della moglie e dei due figli quand’egli era ancora uno sconosciuto maestrino di provincia, il musicista si era poi

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unito alla cantante Giuseppina Strepponi con cui si sposerà solo alcuni anni più tardi. Anche in altri casi egli non disde­ gnò comportamenti non conformistici, come dimostra ad esempio la sua non celata avversione per il potere clericale o la sua tendenza a difendersi dal «mito Verdi» ritirandosi nella sua villa di Sant’Agata, presso il paese natale di Busseto, quando gli impegni glielo concedevano. Ciò avvenne soprat­ tutto dal 1857 in poi. Nei quattro anni precedenti egli visse per Io più a Parigi dove presentò nel 1865 Les vépres siciliennes (I vespri siciliani) che è il primo lavoro composto espressamente per le scene francesi. Si tratta di una sorta di grandopéra rivisto e adattato secondo le esigenze della sua conce­ zione drammaturgica. Anche altre delle opere successive dal Simon Boccanegra (1857) fino ad Aida (1871) tendono a far propri alcuni aspetti del grand-opéra: maggiore articolazione delle trame narrative, aumento del numero dei personaggi, grandi insiemi collettivi e di massa, episodi coreografici, sce­ nografie più sontuose, cura particolare dell’orchestra, acqui­ stano spazio in questa nuova produzione, senza cancellare le caratteristiche già saldamente fissate dagli anni precedenti, ma dilatandone i confini e le possibilità. Verdi in questo periodo comincia a comporre in tempi più ampi, ha più agio di selezionare le proprie scelte, è meno coin­ volto dall’ansia degli impegni. Dopo Un ballo in maschera pre­ sentato a Roma nel 1839, assume anche un atteggiamento più critico nei confronti dell’ambiente italiano che accusa da un lato di eccessiva disinvoltura manageriale e di scarsa profes­ sionalità nelle orchestre e negli allestimenti scenici, e dall’al­ tro di schematismo culturale nei gusti del pubblico e di ecces­ sivo predominio divistico dei cantanti. Cosf per quasi tren­ tanni le nuove opere che Verdi compose non ebbero la loro prima rappresentazione in teatri italiani: La forza del destino (1862) fu eseguita a Pietroburgo, Don Carlos (1867) a Parigi e Aida (1871) al Cairo. Anche le figure dei protagonisti diven­ tano ora più sfaccettate, tagliate meno rudemente; ad esempio gli aspetti positivi e negativi del reale tendono a non incarnar­ si più in personaggi opposti, ma diventano oggetto di più sot­ tili meditazioni: basti pensare al Don Carlos (tratto ancora una volta da Schiller) e alla rappresentazione delle dilaniami con­ traddizioni del re Filippo II, costretto a dure scelte fra l’in­ transigente ferocia dell’inquisizione ecclesiastica e l’ansia di libertà delle Fiandre, tra l’affetto per la regina e per il figlio e la dolorosa consapevolezza delle loro ribellioni. Lo spirito

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analitico di Verdi si fa piu penetrante, ma non muta la sostan­ za dei suoi strumenti di stile e soprattutto non muta i fonda­ menti del suo pensiero morale. L’ideale irraggiungibile di una società capace di assicurare giustizia e piena dignità a tutti i suoi membri costituisce ancora, come nell’epoca del Risorgi­ mento, la molla segreta della sua fantasia di drammaturgo. Ciò perdura anche se profondi mutamenti sono intervenuti intanto nella società dell’epoca. Via via che passano gli anni, anche la borghesia italiana perde infatti gli originari caratteri di classe emergente, eroica, alla ricerca di sé. La graduale ac­ quisizione di capacità di governo, il confronto con la realtà dell’incipiente produzione industriale, il raggiungimento del­ l’indipendenza nazionale e dell’unità politica, le sottraggono i caratteri di forza ideale e morale che essa inizialmente posse­ deva. A poco a poco anche in Italia comincia a scavarsi un sol­ co fra gli interessi degli intellettuali e gli interessi dei detento­ ri del potere. Nell’area artistico-letteraria temi nuovi, prove­ nienti per lo più da suggestioni francesi, cominciano a compa­ rire con sempre maggiore insistenza: cosi ad esempio il gruppo della «scapigliatura» milanese introduce nell’ambiente lette­ rario italiano motivi di disperazione esistenziale che eredita dalla poesia e dalla filosofia europea. Nel volgere di pochi an­ ni compaiono anche i primi romanzi veristi e si comincia a parlare di quel fenomeno determinante per tutta la cultura tardo-ottocentesca che è il teatro di Wagner. In questo clima nascono i versi che un giovane «scapigliato», Arrigo Boito, scrisse nel 1863 deprecando la situazione di arretratezza e di chiusura provinciale in cui si trovava la cultura del paese e al­ ludendo in forme non troppo implicite allo stesso personaggio di Verdi. Da parte sua Verdi, che conosceva bene l’ambiente inter­ nazionale, era certamente sensibile alle necessità di aggiorna­ mento della cultura italiana. Egli stesso aveva ampiamente di­ mostrato di essere in grado di rinnovare e affinare le sue tec­ niche di scrittura musicale e la sua concezione teatrale, di ri­ chiedere al proprio pubblico una capacità di ascolto più sma­ liziata e sottile. Ciò che egli non poteva fare era invece di perdere i positivi e profondi legami che lo univano organicamente a quel pubblico: i temi del rifiuto della società borghe­ se, della solitudine esistenziale, del dialogo fra io e inconscio, dell’«arte per l’arte», che si stavano diffondendo in Europa negli ultimi decenni dell’ottocento, erano estranei agli orien­ tamenti di fondo del suo mondo morale. Una conferma del

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suo legame con gli ideali positivi del primo Romanticismo ita­ liano si ebbe nel 1874 con la composizione della Messa da re­ quiem che gli £u ispirata appunto dalla morte di uno dei gran­ di protagonisti dell’epopea risorgimentale: Alessandro Man­ zoni, al quale egli si senti sempre profondamente unito da for­ ti vincoli ideali. Forse non è azzardato pensare che negli ultimi anni di vita il mondo che lo circondava gli paresse percorso da venti di follia. Certo è che per ben due volte, in età ormai venerabile, egli si lasciò di nuovo sedurre da quel grande conoscitore delle follie umane che fu William Shakespeare, e compose nel 1887 V Otello, una raffigurazione vividissima dei deliri della gelosia, e nel 1893 il Falstaff, l’unica commedia da lui composta, in cui le fantasie erotiche di un vecchio fanfarone vengono descritte e messe in burla con elegante, ironica saggezza. In entrambi questi casi egli si servi come librettista di Arrigo Boito, a cui aveva perdonato lo sgarbo di vent’anni prima e che d’altra parte, superando le proprie intemperanze giovanili, si era av­ vicinato con ammirazione al vecchio maestro. Ancora una volta in queste opere estreme si misura la capacità di Verdi di acquisire al suo linguaggio alcune delle particolarità tecniche piu significative della musica teatrale europea di fine secolo: da un lato egli dimostra infatti di aver ascoltato con orecchio assai sensibile le sottigliezze armoniche e le raffinatezze stru­ mentali delle orchestre del suo tempo, e di saperle adattare e rendere funzionali al suo mondo espressivo, e d’altro canto egli riorganizza le proprie forme drammaturgico-musicali in una nuova maniera che non dimentica le tradizioni operisti­ che italiane, ma che ne cancella lo schematismo: tracce di arie, duetti, concertati, si intravedono ancora nei suoi ultimi melo­ drammi, ma le suture tra un episodio e l’altro acquistano una tale consistenza da sottomettere la logica della forma chiusa a quella di una forma fluida e ben adattabile alla narrazione.

[mb]

Capitolo decimo La musica del secondo Ottocento

i. La musica e «l’arte dell’avvenire»: Franz Liszt e Richard Wagner.

Fra i miti romantici, quello che intendeva l’arte come tra­ sfigurazione poetica dell’esistenza si radicò profondamente nella cultura europea. Talora questo mito travalicò i confini della sfera propriamente estetica combinandosi con utopie di rigenerazione dell’uomo e della società. Nell’ambito musicale ciò si verificò nel caso di Liszt, che, infiammato dalla rivolu­ zione parigina di luglio (1830), iniziò a dimostrare un vivo in­ teresse per le questioni politiche e sociali avvicinandosi alle dottrine di Lamennais e Saint-Simon. In età piu matura questi ideali socialisteggianti si attenua­ rono o si spensero del tutto, e rimase solamente vivo un pro­ fondo senso religioso e misticheggiante della creazione artisti­ ca, ma la poetica lisztiana continuò ad essere caratterizzata da un anelito verso una dimensione futura, avveniristica, dell’ar­ te musicale, che dal suo campo specifico doveva aprirsi per abbracciare le altre arti. L’idea della fusione di tutte le arti sembrava rispondere, secondo Liszt, ad una profonda esigen­ za dei tempi, per il raggiungimento di una piu ampia e profon­ da espressività. Inoltre l’ispirazione poetica ed anche quella pittorica per il musicista rappresentava quell’elemento capace di rinnovare totalmente le forme tradizionali. Solo il «mu­ sicista-poeta» può allargare i confini della sua arte «rompendo le catene che impediscono il libero volo della fantasia» (Liszt). Cosi anche l’inserimento di un programma nella musica diven­ ta un elemento dirompente, può indicare nuove vie al musici­ sta e aprire la strada alla «musica dell’avvenire». Anche Wagner preconizzava la creazione di un’«opera d’arte dell’avvenire», partendo però da presupposti totalmen­ te diversi da quelli di Liszt, come diversi erano i mezzi musi­ cali ed artistici usati per realizzarla. Per Wagner la rigenera­ zione dell’uomo attraverso l’arte non poteva compiersi che at-

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CAPITOLO DECIMO

traverso la liberazione dell’arte musicale dai vincoli economici con la civiltà borghese e mercantile che si serviva della musica per fini bassamente utilitaristici relegandola al ruolo di sem­ plice svago; la musica cosi liberata, fondendosi assieme al dramma ed alla parola nella celebrazione rituale del mito, avrebbe ricondotto l’arte alle sue funzioni sacrali e sociali che anticamente esplicava nella tragedia greca, e l’uomo nell’alveo della collettività mediante le comuni radici mitiche. La storia disattese totalmente le speranze di chi - come Wagner che partecipò ai moti di Dresda - aveva creduto in una rigenerazione umana per mezzo della rivoluzione. I moti rivoluzionari del ’48 che infiammarono tutta Europa furono seguiti da una restaurazione ancor piu dura e pesante di quella che all’inizio del secolo era seguita alla Rivoluzione Francese ed al periodo napoleonico che portò alla creazione dello stato prussiano di Guglielmo I e del «cancelliere di ferro» Otto von Bismarck. Il fallimento dei moti rivoluzionari e la restaurazione che ne segui non ebbe unicamente ripercussioni nel campo socio­ politico, ma anche in quello culturale, incidendo profonda­ mente su intellettuali e artisti. Tanto per Liszt che per Wag­ ner gli ardori giovanili e gli slanci rivoluzionari e socialisteggianti si attenuarono con l’avanzare degli anni. Già il ’48 non aveva infiammato più Liszt; anzi, pare che egli avesse condan­ nato violentemente quei moti rivoluzionari, cosi come, nel 1871, provò una grande diffidenza nei confronti della Comu­ ne. In Wagner il dissidio fra la sua volontà di potenza creativa e di rigenerazione artistica della nazione tedesca da un lato, e la delusione amara per la realtà presente dall’altro, lo condus­ sero a condividere il pessimismo schopenhaueriano ed a dare una svolta in tal senso alla sua «opera d’arte dell’avvenire». In entrambe le esperienze creative di Liszt e di Wagner l’arte musicale non si rivolge ad un pubblico specifico ed at­ tuale, bensì ad uno futuro ed ideale. Il rapporto tradizionale tra fruizione e creazione si ribalta in tal modo su questo se­ condo termine: l’arte musicale si crea liberamente le proprie forme ed il proprio linguaggio. Ponendosi da questo angolo visuale si può comprendere quel processo di emancipazione linguistica cui tali esperienze creative conducono: il disanco­ raggio dalle strutture tradizionali per aprire la forma musicale ai percorsi della poesia nel poema sinfonico lisztiano, ed all’«arte della transizione» nel dramma musicale wagneriano in cui un’elaborazione sinfonica, in continuo divenire, della

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«melodia orchestrale», accompagna il lento progredire dell’a­ zione sincronizzata con una dimensione psicologica del tem­ po; l’allargamento del campo armonico mediante un impiego espressivo della tonalità che, svincolandosi da rapporti fun­ zionali di carattere strutturale, asseconda il libero evolversi del discorso musicale; l’impiego di impasti timbrici inediti in un’orchestrazione che adegua il colore del suono all’espressio­ ne dell’idea poetica (in Liszt) ed alla continua mutevolezza dell’azione drammatica in una dimensione agglutinata del suono orchestrale che cementa le diverse componenti del dramma musicale (in Wagner); l’abbandono della quadratura del periodo musicale e della regolarità sintattica per la creazio­ ne di una prosa musicale che corrisponda alle nuove esigenze espressive imposte dall’apertura della forma (nel dramma wag­ neriano). Questa concezione dell’opera d’arte intesa come realtà au­ tonoma superiore, come «unica giustificazione della vita» (Nietzsche), come ripiegamento e rifugio, nel suo estremismo estetico sanciva il fallimento di quell’utopia, di quel sogno di trasformazione poetica dell’esistenza e della realtà che ancor prima di Liszt e di Wagner aveva attratto i compositori tede­ schi della prima stagione romantica; nonostante le sue pro­ messe di palingenesi future, recava già i germi di quel deca­ dentismo, di quel pessimistico isolamento in una realtà altra da quella contingente, che emergerà vieppiù con l’approssi­ marsi della fine del secolo. E sarà proprio il lato oscuro e «ne­ gativo» dell’arte wagneriana - che nelle intenzioni del suo ar­ tefice voleva essere chiara e comunicativa - a dare l’esca, spe­ cialmente nell’ambito francese, ad interpretazioni di tipo de­ cadentistico (Baudelaire in primis) da cui sorgeranno le teorie dell’«arte per l’arte». Al di là delle sue enormi influenze nel campo specificamente musicale, l’arte wagneriana diventerà un «caso», un fatto culturale che avrà enormi ripercussioni non solo in Germania ma in tutti i principali centri europei, diventando fatto di costume, moda intellettuale, soggetto let­ terario e filosofico, con una riconversione del fatto musicale in altre sfere di competenza artistica e culturale che rappre­ senta indubbiamente una proiezione nell’avvenire dell’utopia wagneriana. Sullo sfondo di queste premesse analizzeremo ora più in dettaglio la produzione dei due compositori. Franz Liszt (Rai­ ding, Ungheria 1811 - Bayreuth 1886) è una delle personalità musicali romantiche meno circoscrivibili in una specifica area

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geografica. Il suo nomadismo e il suo internazionalismo che dalla patria ungherese lo spinsero a continui viaggi e trasferi­ menti, con alcuni periodi di piu lunga stanza in centri culturali quali Parigi, Weimar, Roma, fanno sf che l’inserimento nell’a­ rea culturale tedesca della sua figura di compositore richieda almeno una giustificazione: la prima è che nel suo più intenso periodo creativo fu attivo a Weimar; la seconda che, per le considerazioni preliminari teste fatte, è impossibile scollegarlo da Wagner. A Weimar, nel 1848, Liszt si era trasferito con la sua nuova compagna, la principessa di Sayn und Wittgenstein e là in qualità di direttore artistico dell’opera di corte, rimase per più di un decennio. L’accettazione di un incarico alle di­ pendenze di una corte proprio nell’anno in cui divampava in tutta Europa un incendio rivoluzionario è una prova lampante di quell’affievolirsi dell’ardore rivoluzionario di cui già si è detto. Ciò non significa che questa nuova svolta della coscien­ za artistica ed etica di Liszt sia in totale contraddizione con le sue scelte creative ed esistenziali del suo precedente periodo. Tra il Liszt parigino incantatore di folle, socialista utopista ardente, ed il Liszt di Weimar profeta della «musica dell’av­ venire» c’è un elemento in comune: l’arte musicale intesa co­ me missione. Allora era il missionario Liszt che, incalzato dal successo e dal proprio narcisistico autocompiacimento, si spingeva nelle più remote regioni d’Europa a catechizzare con la propria inimitabile arte pianistica i pubblici più disparati e culturalmente eterogenei (da Lisbona a Costantinopoli, da Napoli a Glasgow, a San Pietroburgo e a Mosca). Ora è l’al­ fiere del nuovo evangelio artistico che cerca di trasformare Weimar in una nuova Atene della «musica dell’avvenire»: in­ nanzitutto promuovendo l’esecuzione delle opere e delle com­ posizioni degli esponenti di punta della tendenza «progressi­ sta» - Wagner e Berlioz in primis -, quindi dedicandosi con intensità e continuità alla creazione dei suoi poemi sinfonici. Già negli anni parigini, Liszt aveva affiancato alla sua atti­ vità concertistica ed a quella di trascrittore ed improvvisatore e compositore di parafrasi e di variazioni su temi celebri di cui ci occuperemo a tempo e luogo, un’attività compositiva più autonoma ed impegnata sotto il profilo creativo, contraddi­ stinta da una particolare capacità di evocare con atmosfere so­ nore di straordinario fascino armonico e timbrico, immagini poetiche ispirate da impressioni naturalistiche (Au lac de Wallenstadt, Vallèe d'Obermann, Les cloches de Genève, concepite verso la metà degli anni ’30 per un Album d’un voyageur, e poi inserite nel primo anno delle Années de Pèlerìnage dedicato al­

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la Svizzera), letterarie ed artistiche (il secondo anno delle Années de Pèlerinage dedicato all’Italia, concepito fra la fine degli anni ’30 e il decennio successivo) e religiose (come la Bénediction de Dieu dans la solitude, del 1845, poi inserita nella rac­ colta intitolata Harmonies poétiques et religieuses) o politico­ umanitarie (come Lyon ispiratogli dalle miserevoli condizioni del proletariato della città quali ebbe modo di osservare nel corso di un viaggio compiuto nel 1837, e che reca come epi­ grafe il motto dei lavoratori lionesi che nel ’31 avevano dato vita ad un’insurrezione popolare violentemente repressa: «vivre en travaillant ou mourir en combattant»). L’arte musicale diventa esplicita e programmatica sublimazione poetico-sonora del vissuto, processo osmotico tra le emozioni estetiche e personali e le fantasie sonore; e il vissuto di Liszt, massimamente in quegli anni giovanili era quanto mai movimentato e pregno di eventi, alimentato com’era da una passione esube­ rante e sfrenata. Nonostante nel periodo di Weimar venga alla luce la sua composizione pianistica di maggior impegno, la Sonata in si minore (1853), è nell’ambito orchestrale che Liszt concepisce i suoi progetti più ambiziosi, con una serie di 13 poemi sinfo­ nici e due sinfonie programmatiche dedicate l’una al Faust di Goethe (Faust-Symphonie, in tre parti, del 1854-57) e l’altra alla Commedia dantesca (Dante-Symphonie, del 1856) che già gli aveva ispirato una Fantasia quasi sonata per pianoforte (nel 1849) inserita nel secondo anno delle Années de Pèlerinage de­ dicato all’Italia. Progetti che da un lato rivelano la piena ma­ turazione di quella concezione già operante nella sua prece­ dente fase compositiva per cui la creatività musicale si impre­ gna fortemente di contenuti poetici extramusicali, d’altro lato mostrano l’esigenza di ampliare le dimensioni delle composi­ zioni mediante criteri diversi da quelli tradizionali: criteri ba­ sati su continue metamorfosi tematiche e che possono recupe­ rare certi principi o ricalcare certi schemi tradizionali come la forma-sonata, ma in un’ottica defunzionalizzata, in cui lo schema poetico funge da guida narrativa, orientando l’itine­ rario espressivo lungo traiettorie impreviste e imprevedibili. In tal senso anche la Sonata in si minore è un poema sinfonico per pianoforte, privo di un esplicito e dichiarato programma ancorché animata da un tormento faustiano, mentre i due concerti per pianoforte (entrambi conclusi nel 1849) e specialmente il secondo, conferiscono al tradizionale schema del concerto un andamento ciclico. Questi concerti, assieme alla

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mefistofelica parafrasi sul Dies Irae per pianoforte e orchestra, intitolata Totentanz (danza macabra) in quanto ispirata al Trionfo della morte raffigurato al cimitero di Pisa, rappresen­ tano inoltre il banco di prova dell’orchestrazione lisztiana. Già nel periodo di Weimar, sotto l’influsso della principes­ sa Carolina e specialmente nel successivo periodo romano, la religiosità di Liszt fino ad allora oscillante fra mistici rapimen­ ti e slanci umanitari, subì una svolta in senso più confessiona­ le, che lo condusse all’improvvisa decisione di abbracciare gli ordini minori proprio quando, alla morte del marito della principessa, avrebbe potuto sposarla dopo anni di falliti ten­ tativi perché potesse ottenere il divorzio. Sul piano creativo ha inizio una produzione sacra che oscilla tra lavori grandiosi come la Messa di Gran (1855) o gli oratori La leggenda di Santa Elisabetta (1857-62) e Christus (1862-66) in cui traspone la magniloquenza e la complessità formale dei poemi sinfonici, e composizioni volutamente spoglie e funzionali, improntate ad una concezione severa e penitente secondo gli ideali del movimento ceciliano che mirava ad una restaurazione contro­ riformistica modellata sull’esempio di Palestrina. Ma a ben altro ascetismo creativo Liszt perviene nella sua tarda stagione, con una serie di brani pianistici, tutti concepi­ ti negli anni ’80 di carattere rievocativo e funebre, in memo­ ria di Wagner (La lugubre gondola, R. W. - Venezia, Sulla tom­ ba di R. W.) o di eroi ungheresi (Ritratti storici ungheresi) in cui, con una spoliazione drastica delle squillanti o trasparenti sonorità d’un tempo, il discorso musicale si svolge su incolori disegni atonali, su aspri urti dissonanti, manifestando atteg­ giamenti schiettamente sperimentali. La sperimentazione, connaturata in tutta l’arte lisztiana, è identificabile non sola­ mente nella sua ricerca di creare un linguaggio poetico con la musica e con i mezzi formali di cui già si è parlato, ma proprio nelle sue intime strutture, nell’inedita ricerca di mezzi espres­ sivi nuovi e avveniristici, talora esplicitati fin nel titolo (come nel caso della Bagatelle sans tonalité del 1855): sovrapposizioni di quarte e di quinte, impiego di strutture scalari che esulano da quelle tonali ed altro ancora. Soltanto che, mentre nelle composizioni di un tempo la gestualità romantica tende ad as­ sorbire il risultato espressivo di queste strutture inedite, in quelle dell’estrema stagione creativa esse vengono in piena lu­ ce poiché diventano mezzo espressivo, veicolo di comunica­ zione musicale. Investita da un fuoco di passioni diverse e spesso contra-

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stanti quanto lo erano le motivazioni creative, Parte musicale di Liszt, osservata nel suo complesso, non risulta un’arte per­ fetta quale può esserlo ad esempio quella wagneriana che da quella lisztiana tanti stimoli e suggestioni (armoniche, tema­ tiche, formali) trasse, ma proprio i suoi squilibri, che sotto il profilo estetico possono risultare una debolezza, sotto quello storico sono rivelativi di una coscienza estetica tormentatissima che proprio nel suo tormento e nelle sue contraddizioni, nel suo conflitto tra le opposte istanze estetiche del «bello» e del «caratteristico», e nel suo squilibrio verso questo secondo principio anticipa tratti ed atteggiamenti che saranno tipici dell’arte musicale del nostro secolo: in tal senso e sotto questo profilo Liszt, fra tutti i compositori romantici fu il più avan­ guardista, il più proiettato nel futuro, o quanto meno in un certo futuro dell’arte musicale, [gv] A differenza di Liszt, Wagner trovò nel teatro musicale la sua forma privilegiata di espressione. Per Wagner infatti il dramma musicale è stato una precisa scelta ideologica: non un genere tra gli altri, ma l’unico luogo in cui potesse trovare pie­ na attuazione l’« opera d’arte dell’avvenire». Il teatro di Wag­ ner (Lipsia 1813 - Venezia 1883) prende corpo in un contesto artistico in cui è già venuto coagulandosi l’ideale di un teatro musicale nazionale che a partire da Mozart, segnatamente dai suoi Singspiele, passando per il Fidelio di Beethoven, e poi at­ traverso le opere di Hoffmann, di Weber, di Spohr, di Marschner, era maturato via via elaborando un complesso tipico di caratteri (dall’esoterico al libertario, dal fiabesco al leggenda­ rio, dal demoniaco al popolaresco), per pervenire alla scoperta del mondo del sentimento e dell’irrazionale. In tale temperie Wagner arriverà a porre alla base del suo dramma musicale il mito quale rappresentazione simbolica di una verità universa­ le cui sarà dato di accedere per adesione immediata invece che per via razionale. Ma proprio nel far ciò, mentre da un lato di­ chiarerà superate le forme espositive del melodramma tradi­ zionale, d’altro lato, per le innovazioni formali, linguistiche e tecniche d’indole fortemente speculativa che la sua concezio­ ne comporta sul piano musicale, poetico e teatrale, egli collo­ cherà il suo pensiero alle soglie dell’arte contemporanea, già annunciandone la mentalità critica. Wagner muove da opere - Die Feen (Le fate, 1833) ricava­ ta da una fiaba di Gozzi e Das Liebesverbot (Il divieto di ama­ re, 1835) tratta da Misura per misura di Shakespeare - che si rifanno l’una alla recente tradizione romantica di Hoffmann,

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di Weber, di Marschner, l’altra agli stili, ecletticamente in­ trecciati, di Donizetti e di Auber, che egli trova ugualmente diffusi nei repertori operistici dei teatri tedeschi in cui, negli anni giovanili, svolge la sua attività, in qualità di direttore d’orchestra, a Magdeburgo, a Konigsberg, a Riga, prima di trasferirsi a Parigi nel 1839; qui l’anno seguente completa la partitura del Pienti, wto e proprio grand-opéra d’argomento storico. Ma una volta mirata nel grande apparato meyerbeeriano l’idea di una totalità convergente e paritetica degli in­ gredienti dell’opera teatrale, egli procederà, nei lavori seguen­ ti, a una progressiva trasfigurazione di essa, assumendo il grand-opéra a modello negativo e volgendo all’identificazione di una vera opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), le cui com­ ponenti avranno a concorrere, in modo unitario e in base a una poetica rigorosa, all’esperienza assoluta del mito, ovvero della sua mistica sfera di verità, intesa al di là della vicenda rappresentativa. Il trapasso si compirà attraverso L’olandese volante, il Tannhduser e il Lohengrin per sfociare nei capolavori della maturità: la tetralogia intitolata L’anello del Nibelungo, Tristano e Lotta, I maestri cantori di Norimberga e Parsifal, con­ cepiti secondo un sistema ideativo teoricamente definito in ogni suo particolare poetico e tecnico. Già nel Derfliegende Hollander (L’olandese volante), rap­ presentato nel 1842 a Dresda, dove Wagner si era trasferito da Parigi per poi assumervi la carica di maestro di cappella presso la corte di Sassonia, i personaggi vivono all’interno del­ le tematiche simboliche che li avviluppano lungo il dispiegarsi di una leggenda. La leggenda, tratta da Heine, narra di un na­ vigatore olandese condannato dal diavolo a vagare sui mari per l’eternità, fin tanto che l’amore fedele di una donna non l’abbia redento. L’opera, più che quelle di un dramma, assu­ me cosi le sembianze di una grande ballata scenica, dove a contare sono essenzialmente i significati ideali contenuti nei pensieri fissi della maledizione e della redenzione, temi che vedremo insediati stabilmente nel teatro wagneriano. La mu­ sica, peraltro, ricalca ancora le forme chiuse e quelle recitative dell’opera tradizionale, anche se la separazione fra le due ten­ de ad essere assorbita dalla costituzione di scene di ampio re­ spiro e dalla ricorrenza di alcuni occasionali motivi musicali «conduttori». A Dresda Wagner compone ancora, e rappresenta nel 1845, il Tannhduser. Il libretto è scritto dal musicista stesso,

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come ogni altro dei suoi drammi, e fonde varie leggende me­ dievali nordiche che hanno per protagonista il Minnesanger Tannhauser, con quella di santa Elisabetta contenuta in un poema alto-tedesco. I temi, già acquisiti nell’opera preceden­ te, della dannazione e della redenzione, si integrano cosi con quelli dell’amore sensuale, rappresentato da Venere e dalla sua corte, il Venusberg, e dell’amore spirituale: Tannhauser, irretito da Venere, cerca, come l’Olandese volante, una salva­ zione dal peccato, che soltanto la morte di una vittima sacri­ ficale, Elisabetta, può procurargli. Come Olandese volan­ te, la tematica ideale intrinseca all’elemento mitico domina sul racconto e sui personaggi, anche perché, nonostante qualche concessione residua al teatro tradizionale come nelle scene il­ lustrative di massa, il discorso musicale fluisce ormai ininter­ rotto, fuori da forme precostituite. La tecnica del motivo «conduttore» (del Leitmotiv, come verrà chiamato non da Wagner), vi compare chiaramente anche se non è ancora eret­ ta a sistema. Essa riappare, invece, pienamente definita nel Lohengrin, che Wagner completa ancora a Dresda nel 1848 e che verrà rappresentato due anni dopo a Weimar, appena il musicista si sarà rifugiato in Svizzera dopo aver partecipato ai falliti moti insurrezionali della città sassone. Le parti essenziali del Lo­ hengrin, infatti, si sviluppano da cinque motivi musicali prin­ cipali che generano la struttura interna delle scene senza il concorso di forme chiuse (arie, cori, duetti, recitativi). La me­ moria del grand-opéra persiste, soprattutto nelle parti corali, e tuttavia in funzione, questa volta, della contrapposizione fra un mondo storico e terreno, cosi richiamato, e un mondo fia­ besco e ultraterreno, evocato dallo stile interno del dramma musicale, che immerge il mito (la leggenda dell’ignoto cavalie­ re condotto miracolosamente da un cigno a salvare l’innocen­ za minacciata) in epoca e luogo definiti (nel secolo x nel Brabante durante il regno di Enrico I). Di nuovo è la salvezza in questione, ma qui sono in gioco le condizioni per cui essa si rende possibile: la dedizione cieca e assoluta, onde la giovane Elsa non dovrà mai chiedere al suo salvatore, divenuto suo sposo, chi egli sia, e l’inconciliabile separatezza fra le ragioni umane e l’ineffabile che le trascende suggerita dalla costitu­ zione stessa dell’opera. Inoltre nel Lohengrin la timbrica stru­ mentale, in perfetta simbiosi con l’armonia, raggiunge tale grado di emancipazione dalle componenti del linguaggio musi­

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cale cui soleva andare applicata, da valere ormai come dimen­ sione autonoma. A Zurigo Wagner rimane per circa nove anni, durante i quali scrive il saggio programmatico L’opera d’arte dell’avveni­ re (1849) e mette a punto definitivamente la propria poetica esponendola nel voluminoso trattato Opera e dramma (1851), ispirato all’idea di una sintesi di tutte le arti dello spettacolo in un’opera totale che, rifiutando le forme del melodramma tradizionale, dia vita a una rappresentazione in cui parola, musica e dramma, intimamente fuse ( Wort-Ton-Drama) con­ corrano a ridestare il mito: vale a dire, ad uno svolgimento simbolico di contenuti immaginari i cui significati universali siano comunicati e direttamente vissuti dal sentimento. Tale aderenza di significato e sentimento verrà assicurata dalla mu­ sica, in virtù della sua facoltà di rivolgersi al secondo senza la mediazione della ragione. Una musica perennemente presen­ te, in tale funzione, grazie all’orchestra, cui sarà assegnato il compito di esprimere ciò che è inesprimibile a parole: median­ te l’armonia e il trasmutare dei timbri strumentali, i più sottili trapassi mentali e psicologici; mediante i temi conduttori sim­ bolicamente connessi a figure o a sensi ideali, il flusso di co­ scienza che scorre nel corso dell’azione. Questa, con il gesto e la scena, completerà la comunicazione dell’idea. La poesia, in­ vece, riecheggerà dentro di sé i contenuti concettuali della pa­ rola nella rima e soprattutto nell’allitterazione (lo Stabreim, che è la ripetizione di lettere o di sillabe uguali all’inizio di due o più parole successive), la quale, esercitandosi sull’asso­ ciazione fonica delle radici verbali, unificherà psichicamente le immagini espresse dal testo. In base a tali dettami Wagner intraprende la composizione di un lavoro colossale costituito da quattro drammi collegati, denominato Tetralogia, al modo che ordinavano i cicli delle lo­ ro tragedie gli antichi greci, e precisamente distinto in una vi­ gilia e tre «giornate», che finiranno globalmente per intitolar­ si Ber Ring des Nibelungen (L’anello del Nibelungo), e singo­ larmente Das Rheingold (L’oro del Reno), Die Walkùre (La Walkiria), Siegfried (Sigfrido) e Gòtterddmmerung (Il crepusco­ lo degli dei). Il lavoro di composizione viene portato avanti dal musicista sino al 1857, interrompendosi alla fine del se­ condo atto del Sigfrido per lasciar posto alla creazione del Tri­ stan und Isolde (Tristano e Isotta), ispiratogli dalla passione per Mathilde Wesendonck, moglie di un suo protettore, e dal­ la lettura di Schopenhauer.

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Nel Tristano e Isotta Wagner reinterpreta i temi della colpa e della redenzione nell’eccitazione delle sue nuove personali esperienze. Per l’ardore amoroso di Tristano e di Isotta, per la brama insaziabile che li travolge e li porta a tradire re Marco, protettore e marito, unica, estrema redenzione non può essere che la morte, la dissoluzione, la notte perpetua, intesi, quali in Schopenhauer, come annullamento, come liberazione dalla volontà, ch’è origine del mondo e degli egoismi individuali. I due temi ideali si traducono, pertanto, nel nesso, tipicamente romantico, di amore e morte, dispiegato lungo i tre atti di un’azione poverissima di accadimenti esteriori quanto densa di dialettica e di tensione interiori procurate dall’intreccio sinfonico dei motivi conduttori e da un esasperato cromati­ smo armonico. A Lucerna, dove si è stabilito dopo Zurigo, Wagner com­ pleta la partitura del Tristano e Isotta. Poi attende a una revi­ sione per Parigi di quella del Tannhauser, componendone nuo­ ve parti (fra cui l’episodio ballettistico, di rigore all’Opéra, co­ stituito dal Baccanale). Risoltasi la rappresentazione parigina (1861) in un memorabile fiasco, Wagner, assillato da proble­ mi finanziari, conduce per qualche tempo vita movimentata e randagia, finché il giovane re Luigi II di Baviera, suo ammira­ tore, non gli viene in aiuto, offrendogli sicurezza economica e facendogli rappresentare a Monaco, nel 1865, il Tristano e Isotta. Nel 1866 egli prende dimora in una villa a Tribschen, pres­ so Lucerna, e l’anno dopo vi completa la partitura di Die Mei­ stersinger von Nurnberg (I Maestri cantori di Norimberga). Questa è l’unica opera sua che non sia tragica e, salvo il giova­ nile Rienzi, che non sia d’argomento mitico. Eppure la teoria del Wort-Ton-Drama non vi è essenzialmente contraddetta, perché la storia ivi trattata, al di là dei fatti, collocati in epoca ben determinata, e dei motivi polemici e autobiografici cui es­ si alludono, si costituisce egualmente a rappresentazione sim­ bolica di una verità universale. La stessa verità che fonda la fi­ losofia wagneriana dell’arte espressa, negli altri drammi, sotto le sembianze del mito: l’arte, per essere tale, deve dissimulare se stessa e apparire come natura, la riflessione deve convertir­ si in spontaneità, in immediatezza; il sentimento, che assorbe la ragione, diventa organo della conoscenza. Nell’atmosfera borghese della corporazione cinquecentesca dei Meistersinger si svolge la storia d’amore di Walther, che per guadagnare la mano della giovane Èva messa in palio dal padre, tenta di con­

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quistare il titolo di maestro cantore, e poi gareggia nel canto col suo severo censore, Beckmesser (in cui Wagner ritrae sa­ tiricamente il suo critico ostile Eduard Hanslick), vincendolo grazie all’aiuto del saggio e sapiente Hans Sachs. Oltre i con­ tenuti narrativi questa storia vale quale riaffermazione, vissu­ ta nell’opera stessa, di una comprensione che non si può misu­ rare razionalmente pur se nutrita dalla speculazione. Il che si coglie specialmente nel recupero arcaicizzante del diatonismo e del contrappunto entro il principio stilistico latente del cro­ matismo poc’anzi ratificato dal Tristano e Isotta. Gli otto anni passati da Wagner a Tribschen (dal 1866 al 1874), dopo la morte della prima moglie dalla quale viveva se­ parato, sono segnati da due eventi di capitale importanza per la sua vita spirituale e materiale: l’amicizia stretta col filosofo Friedrich Nietzsche, che da sostenitore appassionato si tra­ muterà successivamente in acerrimo demolitore della sua arte, scorgendo nella sua mitologia l’espressione ideologica di una coscienza reazionaria, e il matrimonio con Cosima, figlia di Liszt, finalménte divorziata dal direttore d’orchestra Hans von Bùlow. Hg. 24 A Tribschen egli riprende anche la composizione della Te­ tralogia, lasciata interrotta dodici anni prima, e che complete­ rà nel 1874, appena si sarà trasferito nell’ultimo suo domici­ lio, la villa detta Wahnfried in Bayreuth. La realizzazione delV Anello del Nibelungo avrà finito per occupare, pertanto, un quarto di secolo abbondante. L’idea drammatica che sta all’o­ rigine del ciclo, in accordo con i trasporti anarchico-socialisti del musicista nel momento in cui ne aveva concepito il dise­ gno (1848), consiste nel tramonto d’un mondo basato sulla legge e sulla violenza, quello degli dei e del loro re, Wotan, che simboleggia lo stato cui doveva seguire l’alba d’un’età utopica, di un nuovo ordine, che si annuncia con Sigfrido e con Brunilde, e che avrebbe dovuto essere quello della libertà, della libera autodeterminazione dell’individuo, comune a tut­ ti i membri della società. Lungo la via il motivo propulsore dell’azione torna però ad essere, da contingente, universale: quello della rinuncia all’amore in cambio del potere, formula­ to all’inizio dal nano Alberico nell’atto di carpire l’oro che do­ na il potere; quindi nuovamente, quello connesso della salvez­ za, segnata dalla restituzione dell’oro al fiume, dal crollo della reggia degli dei, il Walhalla, e dalla riaffermazione o dalla spe­ ranza superstite dell’amore tramite il sacrificio di Sigfrido e di Brunilde. La Tetralogia si configura come una grandiosa epo­

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pea ispirata agli antichi miti germanici molto liberamente ri­ presi soprattutto dall’E^d^ (una raccolta poetica in lingua scandinava risalente al xm secolo circa) e dal Nibelungenlied, poema epico del medioevo tedesco. Nell’Oro del Reno, che ne costituisce la «vigilia», si assiste al trafugamento dell’oro cu­ stodito nel Reno da parte del nibelungo Alberico, con il quale forgia un anello magico in grado di conferirgli un potere su­ premo e che gli viene a sua volta sottratto da Wotan, re degli dei, per essere poi consegnato ai giganti che gli hanno costrui­ to la reggia chiamata Walhalla. La prima «giornata», La Walkiria, introduce la storia dei Welsunghi: Sigmundo, figlio di Wotan, commette incesto con la sorella Siglinda sposa di Hunding, violando quindi la legge che Wotan è tenuto a far rispettare, e genera Sigfrido. Egli comparirà, ormai giovinet­ to, nella seconda «giornata» a lui intitolata, accudito dal fra­ tello di Alberico, il nibelungo Mime, che intende servirsene per venire in possesso dell’anello fatale custodito dal gigante Fafner sotto le sembianze di drago; Sigfrido uccide Fafner, si impadronisce dell’anello, poi uccide anche Mime e corre a li­ berare Brunilde, una delle walkirie (figure mitologiche di ca­ rattere guerriero) figlie di Wotan, collocata dal padre su una roccia circondata dal fuoco per punirla di aver trasgredito la legge avendo posto in salvo, a suo tempo, lo stesso Sigfrido ancora infante. Infine nella terza «giornata», Il crepuscolo de­ gli dei, l’ingenuo Sigfrido, vittima della macchinazione di Ha­ gen, figlio di Alberico, abbandona Brunilde sposando Gutrune, della stirpe dei Ghibicunghi, ed è a sua volta trafitto dalla lancia di Hagen; sul rogo del suo cadavere si sacrifica la stessa Brunilde, mentre l’oro dell’anello, dal dito dell’eroe, cola di nuovo nel Reno e il Walhalla rovina. A tenere insieme tutta questa fitta e intricata moltitudine di fatti, di vicende, di sim­ boli, provvede la tecnica del Leitmotiv, qui applicata da Wag­ ner in misura intensiva, in modo che non vi sia momento che non possa essere riferito all’unità del tutto mediante il richia­ mo musicale. Più di 90 temi, con forte valenza segnaletica, condensano i sensi ideali che penetrano nel dramma e ne co­ stituiscono il continuo tessuto connettivo. Con i temi del Sig­ frido Wagner compone anche il sognante Idillio di Sigfrido per piccola orchestra, la cui esecuzione offre in omaggio a Cosima nel 1870 per festeggiare il suo trentatreesimo anniversario a un anno dalla nascita del secondogenito, battezzato col mede­ simo nome. Nell’ultimo dramma musicale, Parsifal, Wagner conduce

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l’antico motivo ideale di tutta la sua opera - quello della col­ pa e della redenzione affinato lungo la strada dal concetto schopenhaueriano della rinunzia - a un estremo grado di in­ teriorizzazione, concependone la rappresentazione come quella di un percorso spirituale che si rende di per sé azione visibile scavalcando gli eventi. Risultato ottenuto ora assor­ bendo gli eventi nella contemplazione statica dell’idea (come durante i lunghi episodi, meramente narrati, di Gurnemanz e di Kundry per mettere al corrente degli antefatti, oppure du­ rante i rituali liturgici al castello del Graal); ora conferendo al­ l’idea, in sé statica, dell’evoluzione spirituale di Parsifal verso la conoscenza redentrice, il movimento di un evento scenico reale (come nelle due peregrinazioni dell’eroe verso il castello del Graal, nel primo e nel terzo atto, descritte mediante lo scorrimento materiale della scena). Parsifal, più ancora di Tri­ stano, è un personaggio passivo, che sopporta il percorso dal­ l’ignoranza (egli all’inizio è un «puro folle», ignaro di tutto) alla chiaroveggenza finale, simboleggiata dal sacro calice del Graal, mediante la compassione e la rinuncia, con cui redime dal suo peccato Amfortas, re dei cavalieri di Monsalvato: l’a­ zione del Parsifal consiste nel mostrare tale processo interiore. E la «festa scenica sacrale», come vien chiamata, non è, un’ultima volta, che la trasposizione mitologica di motivi re­ ligiosi, cristiani ma anche buddisti e in genere di una religio­ sità filosofica e non confessionale, in larga misura imbevuti del pensiero di Schopenhauer. Il linguaggio musicale è ancora significativamente governato dal contrasto fra cromatismo e diatonismo: tra un cromatismo che sta a rappresentare il lato peccaminoso della materia (la natura malefica del mago Klingsor, quella perversa della seduttrice Kundry, lo strazio di Am­ fortas) e un diatonismo che ne esprime gli aspetti benefici (dalla primitiva ingenuità di Parsifal alla sublimità del Graal). Il Parsifal, la cui composizione fu portata avanti da Wagner anche durante alcuni soggiorni in Italia, venne completato nel 1882 e sùbito rappresentato a Bayreuth nel teatro apposi­ tamente costruito per essere esclusivamente dedicato ai suoi lavori, sette mesi prima ch’egli andasse a morire a Venezia. [ps] 2. La Vienna di Johannes Brahms, di Anton Bruckner e di Hugo Wolf

Alle cause endogene della crisi dell’impero asburgico - pri­ ma fra tutte la varietà etnica dei popoli sottomessi - che lo

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stavano spingendo progressivamente sulla china di un lungo ma inarrestabile declino, si aggiunsero nella seconda metà dell’Ottocento le mire espansionistiche ed egemoniche dell’im­ pero prussiano. Nulla di ciò traspariva dalla facciata esterna della sua capitale, Vienna, che proprio in questo periodo, con la creazione del Ring e la costruzione di alcuni fra i suoi palaz­ zi piu monumentali, assunse un aspetto ancor piu imperiale; né dalla vita sociale che anzi si fece ancor piu intensa e ricca, di stimoli di ogni genere. Nonostante dopo la morte di Bee­ thoven e Schubert nessun altro grande musicista vi avesse fis­ sato stabile dimora, rimaneva comunque uno dei centri musi­ cali più importanti d’Europa, con un’attività concertistica ed operistica di altissimo livello ed un grandissimo consumo di Hausmusik e di musica di intrattenimento. Con il trasferi­ mento a Vienna di Brahms, Bruckner e Wolf, furon poste le premesse di quel periodo di decadenza politica ma di splendo­ re culturale che tra la fine-secolo e la Prima Guerra Mondiale, riconsegnò alla capitale asburgica il primato artistico fra i pae­ si di lingua tedesca. A Vienna Johannes Brahms (Amburgo 1833 - Vienna 1897) diede i suoi primi concerti nel 1862, stabilendo con la città un legame destinato a durare fino alla morte. Si era af­ facciato alla ribalta della storia un decennio prima, nel 1853. Allora nel fiore della giovinezza - aveva appena vent’anni si era presentato in casa Schumann con un fascio di saggi compositivi fra cui alcune sonate pianistiche, li aveva eseguiti davanti a Robert e Clara che ne erano rimasti affascinati e Robert, consapevole di avere di fronte a sé un formidabile ta­ lento, lo presentò al mondo musicale con un articolo elogiati­ vo sulla rivista «Neue Zeitschrift fiir Musik» intitolato Vie Nuove. Le vie nuove che il genio di Brahms avrebbe dischiuso all’arte musicale erano già fin d’allora nettamente divergenti da quelle battute dai neotedeschi che avevano i loro modelli in Liszt e in Wagner: «si chiama alle forme piu difficili del­ l’arte», aveva scritto Schumann in quel famoso articolo co­ gliendo una delle caratteristiche salienti della sua vocazione creativa: un saldo ancoraggio ai generi della tradizione. In un’epoca in cui Liszt con il poema sinfonico e Wagner con il dramma musicale, realizzavano, ognuno nel proprio ambito, ambiziosi progetti di trasfigurazione poetica della creazione musicale, Brahms, come un compositore del passato, scriveva mottetti, grandi affreschi sinfonico-corali, sinfonie, concerti e composizioni cameristiche, Lieder, rispettando, nell’ambito

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dei generi strumentali, le categorie formali codificate dalla tradizione - prima fra tutte la forma-sonata - e traendo, nel­ l’ambito corale, ispirazione e tecniche compositive, dai grandi maestri della tradizione barocca, Bach, Hàndel, Schiitz. Nonostante ciò, e nonostante le critiche dei suoi detrattori che dall’opposto campo lo incolpavano di conservatorismo e di accademismo, l’arte musicale di Brahms non è soltanto pro­ fondamente radicata nella civiltà romantica austrotedesca e nei suoi valori estetici e creativi, ma anche sincronizzata con la sua evoluzione, con quel progressivo smorzamento delle esaltazioni eroiche e passionali che condurrà al decadentismo della fine secolo, determinata dalla crisi della stessa civiltà che Brahms ebbe modo di vivere nel punto cruciale e più sensibile di essa dopo il suo trasferimento a Vienna. La sua interpreta­ zione creativa del Romanticismo ed il suo modo di porsi nel suo alveo è molto personale, in quanto egli sostanzialmente si dimostrò insensibile nei confronti di uno dei suoi assunti fon­ damentali: il senso della lontananza e dell’inattualità del pre­ sente. In luogo di un’esaltata ricerca di forme artistiche che potessero incarnare ideali antagonistici al mondo presente e prefigurare palingenesi future, Brahms rinsalda fortemente i suoi legami con i valori tradizionali della creazione e della co­ municazione artistica, con una defatigante ricerca della perfe­ zione formale; e che in luogo di evocazioni di un passato e di una tradizione mitizzata in quanto inattuale, Brahms ha una tranquilla certezza di appartenere ad una solida tradizione quella austrogermanica appunto - che con continuità, senza scosse violente e traumi, da Schiitz, Bach, Hàndel, Beetho­ ven, Schubert e Schumann, giunge fino a lui ed al suo tempo. Solamente con una simile certezza Brahms avrebbe potuto concepire lavori maestosi come Un Requiem tedesco (1868), che ripropone in termini attuali le grandi costruzioni polifoni­ che dei maestri del passato, o accostarsi, seppure con molta ti­ tubanza ed apprensione, alla sinfonia con il primo risultato concreto, seguito dalle altre tre, all’età di quarantanni suona­ ti (la Prima sinfonia in do minore fu appunto ultimata nel 1876), o proporre, in un’epoca nella quale andava per la mag­ giore una tradizione concertistica in cui l’orchestra forniva uno sfondo all’esibizione solistica, un ideale sinfonico del concertismo (con i due Concerti per pianoforte, rispettivamen­ te del 1854-58 e del 1881, quello per violino, del 1878, ed il Doppio concerto per violino e violoncello, del 1887). Altre inquietudini riconsegnano però la sua arte musicale al

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turbamento romantico ed alla modernità, impedendo che l’as­ senza di questo travaglio la isterilisca in atteggiamenti manie­ ristici, e rendendola invece quanto mai problematica e inquie­ tante. Le grandi composizioni sinfonico corali come Un Re­ quiem tedesco, il Canto del destino, il Canto delle Parche o la Rapsodia per contralto, concepite fra il 1868 ed il 1871, sono sublimi creazioni che non derivano da una supina accettazio­ ne del testo poetico (rispettivamente tratto dalla Bibbia, da Holderlin e, le ultime due, da Goethe), bensì intendono co­ municare un messaggio profondamente umano attraverso un conflitto ideologico ed emozionale tra il significato originario e quello imposto con violenza da Brahms: Un Requiem tedesco orienta il testo biblico verso un tormentato confronto tra la caducità dell’uomo e la beatitudine, la pace del riposo eterno, senza però la mediazione di un redentore; e cosf gli altri lavori ribaltano questo confronto su un piano mitico, traendo spun­ to dai testi dei sommi poeti tedeschi (ma anche qui usando violenza al testo quando è ritenuto opportuno): nel brahmsiano «crepuscolo degli dei», l’uomo tormentato dal dubbio e dall’incertezza della propria sorte, si consuma nel suo inestin­ guibile anelito verso l’infinito, verso la luce. Una luce che sembra estinguersi quasi del tutto nei Quattro canti seri dell’e­ strema stagione compositiva i cui testi, ancora una volta, sono tratti dalla Bibbia. Anche sul piano più strettamente compositivo il rapporto con la tradizione è tutt’altro che passivo e pacificato. Se Brahms trae da Beethoven - e dall’ultimo Beethoven in par­ ticolare - il principio della variazione di sviluppo e della mas­ sima condensazione ed «economia» dell’elaborazione temati­ ca, e da Schubert una dimensione armonicamente ed espres­ sivamente policentrica della forma-sonata, conduce poi queste acquisizioni ad una sintesi creativa originalissima, piegandole di volta in volta a funzioni espressive, a significati quanto mai vari e sfumati. Nei lavori della prima stagione come i diversi cicli di variazioni pianistiche e le prime composizioni cameri­ stiche (i due Sestetti per archi op. 18 e op. 36, i due Quartetti con pianoforte op. 25 e op. 26, il Quintetto con pianoforte op. 34, il Trio per violino, corno e pianoforte op. 40, concepiti negli anni fra il i860 ed il 1865) una forte carica emotiva e passio­ nale domina incontrastata guidando su tracciati retorici molto evidenti le complesse architetture dell’elaborazione brahmsiana; nella tarda produzione, invece, e massimamente nei lavori cameristici con clarinetto degli anni ’90 (Trio op. 114, Quin­

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tetto con clarinetto op. 115, due Sonate per clannetto e pianofor­ te op. 120), Brahms perviene invece ad una nuova concezione del discorso musicale che tende a spogliare da troppo evidenti costruzioni retoriche di cui si serviva un tempo per mantenere incandescente il pathos e le valenze emotive, e si tiene invece in una dimensione espressiva più neutra, meno contrastata, come per germinazione continua di idee, frasi, periodi musi­ cali fra loro correlati da nessi tematici più o meno evidenti, più o meno nascosti. Il tema tende a perdere sempre più im­ portanza come entità espressiva autonoma, autosufficiente. L’eloquio musicale si trasforma in prosa, in linguaggio prosa­ stico, si avvolge nelle spire di emozioni sottili, di stati d’ani­ mo intimi e segreti: una prosa musicale che rivela molte affi­ nità con il raffinato psicologismo del romanzo fine Ottocento e che rappresenterà uno dei punti di partenza dell’arte musi­ cale di Schonberg. In questa estrema stagione creativa la coe­ renza motivica non serve più a rinsaldare organismi maestosi attraverso ricorsi di cellule tematiche ricorrenti, come nelle quattro sinfonie, bensì cicli di piccoli brani pianistici (le op. dal 116 al 119) che condensano in breve spazio un pensiero musicale densissimo e quanto mai vario e sfumato. E molto emblematico che Brahms, approdato alla sua pri­ ma maturità creativa nell’ambito della musica cameristica, af­ fidi ad essa le ultime preziosissime gemme ritornando ad essa con amore esclusivo nella tarda maturità. L’ambito cameristi­ co fu per Brahms il luogo ideale della sua arte, quello in cui realizzò il maggior numero di capolavori, in cui il suo genio creativo si trovava maggiormente a suo agio. Le motivazioni per cui un compositore eccelle in un genere sono spesso molto misteriose; le relazioni che collegano la sua personale sfera psicologica e creativa a quella storica e sociale quanto mai complesse. Nel caso di Brahms e della musica cameristica, co­ munque, si realizzò innegabilmente una straordinaria conver­ genza tra la concezione compositiva e poetica personale del compositore e l’ambito specifico - sonoro e sociologico - cui la sua musica era destinata. La concezione compositiva brahmsiana diverge profondamente da quella della corrente wagneriana e lisztiana non solo nei riguardi del linguaggio musicale, delle sue componenti strutturali e formali, ma anche nei riguardi della sua espressione sonora. Semplificando, si può dire che ove il partito neotedesco esplorava nuovi mondi sonori, Brahms invece ricercava, nell’alveo della tradizione classico-romantica, la più equilibrata e chiara veste sonora per

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le sue idee musicali. Come nei riguardi dell’elaborazione com­ positiva in senso più specificamente formale e strutturale, Brahms si muove con estrema cautela in questa continua ri­ cerca, applicandosi a combinazioni strumentali di cui può controllare perfettamente la resa sonora: usa il pianoforte co­ me pilastro ideale di molte combinazioni cameristiche, impie­ ga strumenti a fiato di cui conosce perfettamente le qualità so­ nore e la tecnica (il corno e il clarinetto, in quest’ultimo caso sotto la guida di un grande virtuoso), approda a certi generi quando si sente perfettamente maturo per farlo (il quartetto). Cosi, per consolidare il traguardo raggiunto in una combina­ zione strumentale, adotta la strategia di creare un secondo la­ voro concepito contemporaneamente al primo o di li a poco (è il caso dei 2 Quartetti con pianoforte op. 25 e 26, dei 2 Quartet­ ti per archi op. 51, delle 2 Sonate per clarinetto op. 120 e, con un intervallo di tempo più ampio, dei 2 Sestetti op. 18 e op. 36, dei 2 Quintetti per archi op. 88 e op. 111). Sotto l’aspetto sociologico la convergenza fra la sfera per­ sonale e la destinazione comunicativa dell’arte brahmsiana si realizza attraverso gli ideali, formali ed espressivi pienamente condivisi dalla sfera sociale cui Brahms elettivamente si rivol­ ge: quella borghesia erudita di cui facevano parte gli amici più intimi e fedeli e di cui Brahms non solo condivise gli ideali estetici ma anche quelli etici di laboriosità tenace, ripiega­ mento nella sfera del privato, tranquillità, sicurezza economi­ ca e comfort che orientarono le sue personali scelte esistenzia­ li. La musica da camera come genere e come luogo (il salotto) incarnò pienamente gli ideali di questa borghesia erudita: l’i­ deale culturale di una «musica reservata» creata per una cer­ chia di persone colte che si appassionano alle più sottili com­ plicazioni linguistiche e l’ideale privato della «conversazione fra amici ragionevoli» di cui parla Goethe a proposito del quartetto. Anche il rituale delle richieste di giudizi nei con­ fronti di composizioni non ancora ultimate ad amici di questa cerchia, delle prove in casa loro, dice molto dei profondi vin­ coli spirituali ed estetici che legavano Brahms ad essa, e della concezione artigianale della musica intesa come oggetto d’arte solidamente costruito e accuratamente rifinito. Nonostante questa convergenza, l’arte di Brahms non è pe­ rò un’arte «filistea», non indulge a soddisfazioni pacificate e quotidiane, bensì comunica, in un’infinita gamma di emozio­ ni che vanno dall’esaltazione passionale alla depressione e alla

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malinconia più disperata, il dramma segreto dell’artista bor­ ghese e della sua solitudine esistenziale che Brahms elesse a sua norma di vita non senza crisi spirituali e violente lacera­ zioni interiori. Il legame duraturo che Brahms strinse con Vienna fece si che la sua presenza nella capitale asburgica divenisse un punto di riferimento importante. A Vienna Brahms godeva dell’ap­ poggio di molta parte dell’opinione pubblica che contava, e dell’ammirazione senza riserve di Eduard Hanslick, critico dal 1864 della «Neue freie Presse» e professore di storia della musica all’università dal 1856. Quando, negli anni ’60, scop­ piò la polemica fra la scuola dei neotedeschi (Liszt e Wagner) e Brahms, divenuto suo malgrado il vessillifero del partito an­ tiwagneriano, Hanslick intervenne in favore di quest’ulti­ mo, ravvisando nell’arte brahmsiana l’estrinsecazione di quei principi estetici che egli aveva espresso in un famoso saggio intitolato II bello musicale (1852). Secondo la teoria hanslickiana, la musica non è «espressione» come avevano inteso tutti i romantici, anzi il mondo dell’espressione è del tutto fuori delle sue possibilità e delle sue intenzioni. Il mondo del­ la musica è la forma in cui risiede, la sua bellezza e il suo valo­ re artistico; cosi il suo scopo non è suscitare alcuna emozione o sentimento. La bellezza propria della musica (a cui allude già polemicamente nel titolo della sua opera) risiede unica­ mente nelle sue forme e nella tecnica che le realizza e le rinno­ va. Queste premesse esposte sinteticamente in questo famoso libretto ma esemplificate nella sua opera di critico e di storico della musica, rappresentarono un punto fermo negli studi dell’Ottocento: per la prima volta si apre esplicitamente una ra­ dicale polemica contro il Romanticismo, ponendo le basi di un’estetica e di una critica formalistica. La musica non deve più essere ascoltata impressionisticamente, sull’onda delle emozioni che suscita, ma deve essere studiata scientificamen­ te, nelle sue forme, nelle tecniche che storicamente l’hanno prodotta. La figura dell’artista, uomo di genio, il compositore ispirato, passa in secondo piano rispetto all’opera e all’analisi della sua struttura interna. Una nuova era si apre per gli studi musicali: la Musikwissenschaft, cioè la scienza della musica, co­ me è stata chiamata in Germania, si afferma ormai come il nuovo modello per gli studi musicologici. Nuovi interessi af­ fiorano di conseguenza nella seconda metà dell’ottocento: al­ la minore attenzione per la personalità creatrice si accompa­ gna una maggiore attenzione a tutti gli aspetti tecnici e storici

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dell’opera. Fioriscono cosi gli studi sui fondamenti dell’armo­ nia, sulla fisiologia del suono, sull’acustica; iniziano anche i primi studi di sociologia della musica. Tra i grandi studiosi della seconda metà del secolo prevalgono indubbiamente i te­ deschi: basterà ricordare i nomi di H. Riemann, di H. Helm­ holtz, di F. C. Stumpf. Almeno per quanto riguarda gli studi musicologici il Romanticismo è ormai lontano: Hanslick e i primi studi musicologici aprono l’età del positivismo e della scienza della musica, [gv] Nonostante le contrapposizioni frontali tra neotedeschi e questa nuova corrente tendenzialmente formalista, esasperate dalla vivacità della querelle estetica del momento, per molti musicisti formatisi a Vienna alla fine del secolo, come Zemlin­ sky o Schonberg, la lezione di Brahms appariva decisiva uni­ tamente a quella di Wagner; ma la contrapposizione dei due musicisti durante la loro vita fu assai netta, e la violenza degli attacchi di Wagner a Brahms trovò seguaci anche a Vienna, in modo particolare in Hugo Wolf, la cui antipatia per l’am­ burghese era pienamente condivisa dall’amico e compagno di studi Gustav Mahler. In una condizione diversa venne a trovarsi, fin quasi agli ultimi anni, Anton Bruckner (Ansfelden, Linz, 1824 - Vienna 1896). Certamente non gli giovarono il candore e la franchez­ za con cui si proclamò wagneriano, ma sarebbe semplicistico spiegare soltanto cosi il disprezzo e l’ostilità manifestati nei suoi confronti da Brahms e dalla sua cerchia (che contarono assai piu della simpatia di cui Bruckner godeva a corte). Bruckner si era formato nella provincia austriaca, vi aveva iniziato l’attività come maestro di scuola e poi organista, solo lentamente aveva scoperto le proprie doti di compositore: nel 1855, a 31 anni, decise di approfondire la propria formazio­ ne studiando con Simon Sechter (1788-1867), insegnante al Conservatorio di Vienna e teorico molto stimato, dottissimo nel contrappunto (da lui aveva voluto prendere lezioni Schu­ bert nell’anno della morte). Alla fine del 1855 Bruckner di­ venne organista della Cattedrale di Linz. Nel 1861 prese il di­ ploma di armonia e contrappunto a Vienna e senti poi ancora il bisogno di lezioni di strumentazione con Otto Kitzler a Linz. Nel 1863, infine, ascoltò per la prima volta un’opera di Wagner (Tannhduser) e nel 1865, in occasione della prima del Tristano a Monaco, conobbe personalmente il compositore che ammirò con una devozione pari alla ingenuità e alla so­ stanziale estraneità alle ragioni della sua poetica.

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Gli studi con Sechter e Kitzler e la conoscenza di Wagner segnarono una svolta netta nella produzione di Bruckner e fu­ rono determinanti per fargli scoprire la sua vocazione piu au­ tentica: dopo un primo tentativo con la Sinfonia in fa minore (1863), rifiutata, venne nel 1863-64 la Sinfonia in re minore cui egli diede il n. o (J)ie Nullte) e infine la prima opera matu­ ra, la Messa n. 1 in re minore (1864), assai diversa dalla tradi­ zionale produzione sacra anteriore al 1855: eseguita a Vienna nella cappella imperiale nel 1867, sotto la direzione di J. Herbeck, gli valse la stima di quest’ultimo, che lo aiutò ad ottene­ re il posto di insegnante di armonia e contrappunto in Con­ servatorio (come successore di Sechter) nel 1868 e di organi­ sta nella cappella imperiale. Intanto Bruckner aveva compo­ sto nel 1865-66 la sua Sinfonia n. 1 in do minore, la prima delle 9 accettate nel suo catalogo. In queste si riassume quasi tutta la produzione matura, perché in campo sacro, dopo la Messa n. 2 (1866) e la Messa n. 3 (1867-68) vennero soltanto il gran­ dioso Te T)eum (1881-84) e poche altre pagine. La Messa n. 3 ebbe la prima esecuzione a Vienna nel 1872 e fu accolta favo­ revolmente anche da Hanslick; la Sinfonia n. 2 in do minore (1871-72), grazie all’appoggio di Herbeck (che superò le resi­ stenze dei Wiener Philharmoniker), potè essere eseguita con un certo successo; ma il 16 dicembre 1877 la Sinfonia n. 3 in re minore dovette essere diretta dall’autore (dopo la morte di Herbeck) e fu un disastro; era presente Mahler, uno dei pochi che rimasero in sala fino alla fine, che curò poi con l’amico e compagno di studi Kryzanowsky la riduzione per pianoforte a 4 mani. Soltanto quattro anni dopo, quando Hans Richter diresse la prima esecuzione della Quarta (1874, rev. 1878-80) la fortuna di Bruckner a Vienna cominciò a ri­ sollevarsi; maggiori riconoscimenti egli ebbe dopo il 1890, mentre altrove ambienti come quelli di Lipsia e Monaco gli erano piu favorevoli. La Terza Sinfonia (che, nonostante l’in­ successo, fu la prima pubblicata) portava la dedica a Wagner; ma non nascevano certo da qui le perplessità di Hanslick, quando la paragonava ad «una visione in cui la Nona di Bee­ thoven si unisce alla Walkiria di Wagner e finisce sotto gli zoccoli del suo cavallo» e confessava di non essere riuscito a comprendere «la coesione puramente musicale». Anche in seguito, a proposito del Quintetto in fa maggiore per archi (1879), che è l’unico capolavoro cameristico di Bruckner, Hanslick, pur riconoscendo la presenza di « scintille geniali », lamentava che fossero poste «nella connessione piu arbitraria

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con discorsi piatti, confusi, infinitamente lunghi» (1885). Hanslick, come molti altri, era colpito anche dal singolare contrasto tra la personalità umana schiva, dimessa, apparen­ temente tranquilla di Bruckner e il suo modo di comporre co­ me «un anarchico che sacrifica senza pietà tutto quello che si chiama logica e chiarezza, unità della forma e tonalità». L’assenza di logica e chiarezza lamentate da Hanslick di­ pendono dal radicalismo con cui il pensiero di Bruckner tende alla monumentalità ignorando i procedimenti della tradizione classico-romantica e instaurando un tipo di costruzione del tutto diverso, estraneo a Brahms, in realtà, non meno che all’ammiratissimo Wagner. La mistica eloquenza bruckneriana, la spontanea vocazione agli affreschi sconfinati, alla dilatazio­ ne formale, non si valevano di tecniche di variazione o svilup­ po, di elaborazione tematico-motivica, ma si manifestavano con la costruzione di grandi blocchi, definiti attraverso insi­ stite ripetizioni, procedimenti di accumulazione di tensione (dove è primaria l’importanza caratterizzante delle strutture ritmiche), attraverso sistemi di associazione che creano colle­ gamenti di natura profondamente diversa da quelli della va­ riazione continua. Nelle estatiche contemplazioni, nella gran­ diosa architettura a blocchi (che si fa singolarmente tormen­ tata e complessa nelle ultime tre sinfonie), Bruckner, che si può idealmente ricollegare ad alcuni aspetti dell’eredità schubertiana, manifesta un anelito visionario alla trascendenza e al sublime cosf scoperto e fin disarmato da indurre Mahler al­ la celebre definizione «per metà un dio, per metà un bab­ beo». La grandezza di Bruckner che nel carattere e nel com­ portamento era rimasto anche a Vienna il contadino cresciuto fra le mura del convento di Sankt Florian, di disarmante inge­ nuità, timido ed insicuro, nasceva in primo luogo da un talen­ to istintivo che rimase estraneo ai più complessi temi del di­ battito culturale del tempo, in primo luogo al venerato Wag­ ner (di cui, ad esempio, Bruckner ignorava i testi musicati). Il «wagnerismo» di Bruckner non poteva sottrarlo all’isolamen­ to ed era davvero sui generis', già componendo sinfonie egli contraddiceva alcune tesi fondamentali di Wagner, che rite­ neva il genere esaurito. Vi sono certamente in Bruckner aspetti della strumentazione e pagine di rovello cromatico (af­ fiancate però da altre assolutamente diatoniche) visibilmente ricollegabili a Wagner; ma appare chiaro che i materiali di ascendenza wagneriana sono collocati in un contesto estraneo a quello originario, servono appunto come materiali per la

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costruzione di grandiosi blocchi edificati con criteri del tutto originali. Dopo la dedica della Terza, Bruckner rese un diretto omaggio a Wagner con la Sinfonia n. 7 in mi maggiore (18811883), che segnò anche il suo primo entusiastico successo di pubblico: la coda dell" Adagio è una sorta di elegia funebre do­ po la morte di Wagner. Seguirono V Ottava (1884-87) e la No­ na (1891-96), di cui Bruckner non potè completare il Finale. Di natura personalissima fu anche il «wagnerismo» di Hugo Wolf (Windischgràtz, oggi Slovenjgradec i860 - Vienna 1903), come appare evidente anche soltanto osservando il suo cata­ logo, dove lo spazio più ampio (e decisivo) è riservato ad un genere che agli occhi di Wagner appariva minore, il Lied. Coetaneo di Mahler, e suo amico e compagno di studi al Con­ servatorio di Vienna dal 1875, Wolf viene trattato in questo capitolo perché la sua attività creativa fu precocemente stron­ cata nel 1897 dalla malattia mentale. Con la Vienna ufficiale Wolf entrò in rotta fin dagli anni della sua formazione (fu espulso dal Conservatorio nel 1877), svolse per qualche tem­ po (1884-87) una attività polemica ed appassionata di critico musicale sul «Wiener Salonblatt», lavorò come compositore in modo disordinato, alternando periodi di felicità creativa a lunghi silenzi. La sua musica strumentale, dal giovanile Quar­ tetto in re minore (1878-84) alla luminosità felice della Italienische Serenade (1887, rielaborata per piccola orchestra nel 1892) al poema sinfonico Penthesilea (da Kleist, 1883-85) ri­ vela in modo più o meno riuscito direzioni di ricerca che in parte avrebbero potuto forse trovare seguito; ma essenziale nella sua produzione appare l’uso della voce, nei Lieder e nel teatro musicale. Come un mirabile ciclo di Lieder si presenta, in un certo senso, l’opera comica Der Corregidor (Mannheim 1896, dal Cappello a tre punte di Alarcón), ambientata in una Spagna musicalmente del tutto immaginaria, con luminosa ricchezza coloristica e con una vena melodica di straordinaria felicità inventiva. Tale vena si esprime compiutamente nei Lieder: dopo una interessante produzione giovanile (circa 90 Lieder 1875-83) Wolf giunse alla prima folgorante rivelazione del suo genio nel 1888 con i Lieder su testo di Mòrike, imme­ diatamente seguiti da quelli su testi di Eichendorff, dai 51 di Goethe, dallo Spanisches Liederbuch e dalla prima parte dell’Ztalienisches Liederbuch (1891), completato nel 1896 (gli anni 1892-94 furono un periodo di totale impossibilità a compor­ re). Gli ultimi Lieder, del marzo 1897, intonano tre poesie di Michelangelo nella traduzione tedesca.

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Questa produzione, frutto della febbrile attività di meno di dieci anni, segna il culmine conclusivo nella storia del Lied ro­ mantico, con significative aperture nella direzione del Lied del primo Novecento. Un carattere in un certo senso «conclu­ sivo» presentano le stesse scelte poetiche, tutte rigorosamente selettive e quasi tutte rivolte al passato; di Wolf è la «scoper­ ta» musicale di Mòrike, mentre di Goethe e Eichendorff egli cerca o testi tralasciati dai maestri del Lied a lui cari, Schubert e Schumann, o testi da loro musicati in modo a suo giudizio inadeguato (si veda l’accento radicalmente pessimistico e di­ sperato conferito al celebre canto di Mignon Kennst du das Landy già intonato da Beethoven, Schubert, Schumann, Liszt e altri). L’incontro con la poesia è di volta in volta vissuto con un massimo di impegno e rigore, racchiudendo nel breve arco di una pagina illuminazioni sconvolgenti: il rapporto con la parola viene scavato ed approfondito con una sottigliezza sen­ za precedenti, inseparabile però dall’arricchimento della scrit­ tura pianistica, di grande densità e di intenso, complesso cro­ matismo, incline spesso a stabilire un fitto intreccio di rappor­ ti motivici al proprio interno e con la parte vocale. Di qui an­ che la complessità di un’armonia talvolta fitta di ambivalenze tonali, e la intensità febbrile della concentrazione espressiva.

[pp] 3.

Il valzer e Voperetta.

A fianco della produzione musicale di grande impegno ar­ tistico di Brahms e degli altri compositori gravitanti attorno la capitale asburgica, generi piu «leggeri» allietavano l’intensa vita sociale che si svolgeva a Vienna. Generi «leggeri» ma non per questo meno importanti per la cultura e la società del­ l’epoca, che disponeva di un’offerta musicale quanto mai ab­ bondante da cui poteva scegliere generi e spettacoli adeguati alle circostanze; generi «leggeri» ma non per questo meno im­ pegnativi sul piano compositivo, che, rivolgendosi ad un pub­ blico esigente e smaliziato, richiedevano un alto grado di pro­ fessionalità e di talento creativo. Primo fra tutti quello dell’o­ peretta, che, assieme al valzer, divenne tosto il simbolo musi­ cale di una certa immagine della capitale asburgica. L'operetta viennese viene dal Singspiel come l’operetta pari­ gina (l’opéra-bouffe) viene opéra-comique. Opéra-comique e Singspiel hanno forme affini, essendo rappresentazioni in cui la recitazione parlata si alterna al canto e affondano en­

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trambi le loro radici nell’elemento popolare: e precisamente, l’opéra-comique in quel teatro della foire, ossia delle fiere pa­ rigine, cominciato coi lazzi dei saltimbanchi alla fine del seco­ lo xvn; il Singspiel in quei repertori di farse (di Possen) e di musiche di strada (di Gassenhauem) diffusi in area tedesca nella seconda metà del Settecento e riconducibili alle varie condizioni locali e d’ambiente. Ma, mentre l’opéra-comique, nel suo secolare sviluppo dalle ingenue forme primitive all’im­ pegno dell’ottocentesco opéra-lyrique, non avrà fatto che tra­ smettere i medesimi connotati locali (ch’eran quelli di Parigi, centro e sintesi suprema della nazione francese) alla mutata realtà sociale ora costituita dalla borghesia in ascesa, il Sing­ spiel, nell’innalzarsi dalle sue origini popolari verso l’opera ro­ mantica, verrà a sanzionare l’opera nazionale tedesca nella misura in cui andrà liberandosi dai caratteri regionali che ne impedivano l’idea unitaria. Se Parigi si era sempre identifica­ ta con la stessa idea nazionale francese, quella tedesca, al con­ trario, doveva mirare a un’identità superiore, spogliandosi di tutti i numerosi caratteri locali della confederazione germani­ ca. E dunque anche di quelli viennesi. I quali, ancor molto sensibili nei Singspiel e mozartiani (Il ratto dal serraglio e II flauto magico) si separeranno dai grandi temi romantici agitati dall’opera nazionale tedesca, per restare confinati al filone po­ polaresco e ridanciano che nella capitale austriaca era pratica­ to da compositori come Johann Baptist Schenk e Wenzel Muller, nonché alla tradizione d’incantato realismo della farsa locale (in particolare della Zauberposse, della farsa magica) col­ tivata, dopo Schikaneder, da autori-attori altrettanto impor­ tanti, quali Ferdinand Raimund e Johann Nepomuk Nestroy. In questo substrato culturale locale venne ad innestarsi l’o­ peretta francese di Offenbach, introdotta a Vienna proprio da Nestroy. Essa attecchì immediatamente su un terreno già predisposto in virtù del processo di elaborazione della musica popolare avviato nella musica classica e ora dilagante anche nella musica d’intrattenimento leggero di una borghesia citta­ dina divenuta, dopo la restaurazione, socialmente dominante, a Parigi come a Vienna: in una Vienna che durante la lunga decadenza dell’impero asburgico veniva cosi fondendo i suoi vecchi caratteri provinciali con quelli nuovi della grande capi­ tale cosmopolita nella quale confluivano molti paesi e nazioni. L’esito più clamoroso di tale fusione di caratteri e di code­ sta elaborazione cittadina della musica popolare (che in un paese essenzialmente agricolo non poteva essere che di origine

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contadina) era stata la creazione del valzer viennese ad opera di Josef Lanner e di Johann Strauss senior (Vienna 1804-49; autore, fra l’altro, della famosa Marcia Radetzky), che lo aveva­ no derivato dal villereccio Làndler. Alla pesante scansione ter­ naria della vecchia danza contadina essi avevano sostituito una pulsazione veloce e briosa, rilevata entro una forma archi­ tettonicamente sapiente, costituita da un’introduzione in tempo binario seguita da cinque 0 sei sezioni di valzer e da una coda, che riprende in modo serrato i temi principali. La danza, della cui spregiudicatezza era segno e motivo di scan­ dalo l’abbraccio della coppia di ballerini, avrebbe poi raggiun­ to la sua apoteosi con Johann Strauss figlio (Vienna 1825-99), autore di oltre 170 valzer, di cui i piu famosi, oltre al celeber­ rimo Al bel Danubio blu (1867) assurto quasi ad inno naziona­ le austriaco, sono Storielle del bosco viennese, Vino, donne e canto, Sangue viennese, Voci di primavera, Kaiser-Walzer, Rose del sud, Vita d'artista. In essi veniva riflesso l’ambiente spen­ sierato e gaudente della città asburgica, lo spirito di una bor­ ghesia culturalmente provveduta, specchiata nell’ampiezza e nell’originalità della composizione musicale stessa; la quale, anche per essere concepita per grande orchestra, si collegava alla illustre tradizione del sinfonismo viennese, distinguendo­ si per gli struggenti colori strumentali e per il romantico ab­ bandono della vena melodica, spesso soffusi della nostalgia delle popolari origini agresti. La vitalità di simile musica pareva fatta apposta per acco­ gliere l’effervescenza dell’operetta offenbachiana. In realtà Franz von Suppé (Spalato 1819 - Vienna 1895), c^e Pr^" mo ad imitarla con La bella Galatea (1865), satira ambientata nel mondo antico al modo della Bella Elena di Offenbach, e con Cavalleria leggera (1866), satira dell’ambiente militare asburgico, si avvide presto che la corrosiva vena parodistica dell’operetta francese era poco congeniale alla musicalità viennese; che la briosità di questa, benché dinamicamente af­ fine, rispondeva a una diversa indole, spregiudicata sf, ma in­ cline a un certo sentimentalismo languido e sensuale. Quale era ben avvertita nei valzer di Strauss jr, e quale resterà conva­ lidata dalle sue operette, Il pipistrello (1874), Una notte a Vene­ zia, Lo zìngaro barone, e dalle successive dello stesso Suppé, fra cui Eatinitza e Boccaccio (1879), la sua piu riuscita. Sui valzer e sulle operette di Strauss jr si venne, anzi, foggiando l’immagi­ ne del tipico spirito viennese, destinata a caratterizzare, sino alla fine dell’impero austro-ungarico, l’operetta locale;

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Vale a dire le operette degli autori delle generazioni se­ guenti, da Karl Millócker e Cari Johann Adam Zeller a Franz Lehar, che ne accentuò i tratti sentimentali, producendo nel 1905 la tutt’oggi popolarissima Vedova allegra. Dopo Lehar, ch’era ungherese, emersero, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, altri compositori di operette del settore orientale dell’impero, che immisero nel genere elementi del folklore, fra cui il boemo Oskar Nedbai e l’ungherese Emme­ rich Kàlmàn {La principessa della czarda, 1915). Dopo di che, col crollo della monarchia asburgica, anche l’operetta vienne­ se si spense, [ps]

4. L "emergere dei particolarismi e dei nazionalismi.

La civiltà musicale barocca ed illuminista è stata essenzial­ mente improntata ad uno spirito universalistico: ma l’univer­ so di allora era assai piccolo e limitato sia dal punto di vista geografico che da quello sociale: solo un’élite poteva parteci­ pare ai valori elaborati da quel mondo. Era l’Europa dei dotti, di un piccolo e ristretto mondo che comprendeva l’Italia, la Francia, la Germania, l’impero austroungarico e l’Inghilterra. Centrale nella civiltà illuministica era l’idea che il sapere cosi come le arti dovessero essere un patrimonio universale di tutti gli uomini civilizzati e quindi anche di coloro che volessero uscire dall’oscurità dell’ignoranza e dei pregiudizi. Dalla metà del Settecento in poi, incomincia a farsi strada l’idea che la civiltà non sia un blocco monolitico e che anche le culture cosiddette primitive siano portatrici di valori auten­ tici anche se diversi. Il dibattito sul linguaggio e sulla sua ori­ gine che ha avuto una parte cosf importante nella cultura illu­ ministica - in particolare in quella francese - è stato uno dei punti di partenza per una riconsiderazione delle differenze e per una loro rivalutazione. Parallelamente a questo processo si profila un nuovo modo di considerare la storia e la civiltà umana: non più come un fiume che scorre ininterrottamente portando ad una perenne e positiva crescita, bensì un cammi­ no tortuoso che spesso ritorna su se stesso invertendo la rotta e distruggendo valori originali che non riesce più a recuperare se non con grandi fatiche e a prezzo di grandi sacrifici. La ci­ viltà perciò non è di per sé progresso; anzi, molti pensatori al­ la fine del Settecento passarono dalla precedente mitizzazione

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del futuro ad una mitizzazione del passato, del primitivo, del primigenio. Questi tentativi di mitizzazione di un uomo primigenio il cui linguaggio è musica e poesia insieme nel senso piu alto e completo del termine hanno avuto una risonanza immensa nel mondo romantico e hanno lasciato un solco profondo nella musica dell’ottocento. Non è che prima di allora non si cono­ scesse e non ci si servisse mai della musica popolare, ma si trattava per lo piu di una citazione, di un’allusione all’interno di un contesto del tutto diverso. Il popolare veniva cosi del tutto assunto all’interno di un linguaggio diverso che lo tra­ sformava e lo riplasmava secondo il proprio stile. Cosi spesso Haydn più ancora di Mozart, Beethoven, Schubert e molti al­ tri musicisti alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, nelle loro sinfonie, concerti, quartetti ecc., si servono di motivi popolari, di ritmi propri ai canti e alle danze contadine per lo più ungheresi, boemi o tzigani. Ma ciò non arriva mai a conferire un’impronta autenticamente popolare alla loro mu­ sica, la quale malgrado ciò conserva il suo carattere dotto e viennese, pur compiacendosi a volte di queste irruzioni di ac­ centi meno accademici nell’aulico linguaggio della loro musi­ ca. Ma la struttura portante, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista dei contenuti non risultava affatto intacca­ ta, al punto che ormai la marcia «alla turca» o il finale all’un­ gherese poteva tranquillamente essere considerato un tratto proprio, quasi un vezzo dello stile viennese. Ma a mano a ma­ no che ci si inoltra nell’ottocento ben diverso incomincia ad apparire l’elemento popolare nella musica. Non si tratta più di un’utilizzazione all’interno di forme classiche, ma piuttosto di un movimento che porta il musicista, anche se attraverso esperienze personali, storiche e geografiche diverse, verso le forme della musica popolare. Le melodie e i ritmi contadini, soprattutto slavi, hanno il potere di rinnovare le forme stesse della tradizione classiche, fornendo nuovi modelli armonici, tonali e modali, un patrimonio di melodie che agli orecchi oc­ cidentali conservavano ancora il sapore della freschezza e del­ la novità, ritmi inediti per il tipo di quadratura a cui si era abi­ tuati nella tradizione viennese. Questa vera e propria irruzione del popolare nella musica occidentale assume caratteri assai diversi da regione a regio­ ne: l’impatto più violento e più fecondo è stato quello prove­ niente dai paesi che sino alla rivoluzione francese erano stati praticamente ai margini della civiltà europea, esclusi per mo-

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tivi geografici e politici dallo sviluppo artistico e culturale del­ le grandi capitali europee, Parigi, Vienna, Londra, Berlino, Roma, Venezia, Napoli ecc. I paesi slavi, quelli ai margini del­ l’impero austriaco, lo sconfinato impero della Russia zarista, l’Ungheria, la Polonia, ma anche la Spagna e i paesi nordici scandinavi, rappresentavano un immenso serbatoio ancora in­ tatto di musica e di canti popolari e contadini sopravvissuti per secoli fuori dalla tradizione accademica e pressoché scono­ sciuti ai musicisti vissuti ed educati nella tradizione occiden­ tale. U presupposto perché potesse avvenire questo contatto fecondatore con la tradizione popolare di questi paesi emer­ genti era il decadere del predominio assoluto della piccola Eu­ ropa illuminista sul resto del mondo e la conseguente nascita di una nuova coscienza della propria identità nazionale e cul­ turale da parte dei popoli sin qui tenuti ai margini dell’Euro­ pa. Non per nulla questo movimento, che diede origine alle cosiddette scuole nazionali, è parallelo ai movimenti risorgi­ mentali che si sono sempre piu andati affermando a comincia­ re dai primi decenni dell’ottocento. Ma questo movimento di recupero di un’eredità sconosciu­ ta o dimenticata non avrebbe potuto aver luogo senza quella corrente di pensiero tardo illuminista e romantico di rivaluta­ zione del primitivo, dell’autoctono, del particolare di fronte all’universale, del dialetto di fronte alla lingua dei dotti; que­ sta forte spinta verso le culture subalterne, verso le forme espressive non codificate, ha assunto nel corso dell’ottocento connotazioni anche molto diverse. Da una parte essa è stata fatta propria dai nascenti movimenti populisti e socialisti as­ sumendo una coloritura progressista, in quanto rivalutazione di una cultura popolare che non aveva mai avuto modo di affer­ marsi di fronte al potere delle classi nobiliari e borghesi; dal­ l’altra essa ha assunto anche caratteri spiccatamente involuti­ vi, in quanto il popolare è stato anche sentito come regressio­ ne mitica ad origini autoctone, espressione di caratteri razziali di un popolo in virtù dei quali si afferma come superiore ad al­ tri. D’altra parte questi aspetti contrastanti e di segno oppo­ sto si trovano spesso intrecciati in modo indisgiungibile tra lo­ ro, per cui spinte sciovinistiche e nazionalistiche si associano non infrequentemente a spinte autenticamente socialistiche e populistiche e ciò in particolare nei musicisti slavi. Comunque l’emergere di quelle che si possono veramente chiamare scuole nazionali è stato nel corso dell’ottocento un fatto rivoluzio-

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nario, che ha portato una ventata di novità i cui effetti si sono fatti sentire ancora nel nostro secolo, [ef]

5. Le scuole nazionali. La scuola nazionale russa si delinea soprattutto a partire da Glinka, Dargomyzskij e Serov nella prima metà dell’Ottocen­ to, dopo un predominio, nella vita musicale del paese, del me­ lodramma italiano, durato circa un secolo. Già prima del re­ gno della grande Caterina (1760-96) Pietroburgo e Mosca avevano cominciato ad ospitare compagnie d’opera e compo­ sitori italiani fattisi poi via via piu numerosi al punto da infor­ mare dello stile italiano la stessa produzione musicale locale. Ancora i primi autori di melodramma in lingua russa, i piu im­ portanti dei quali sono Fomin e Matinskij, si erano sentiti in dovere di completare la loro educazione in Italia, osservando­ ne poi lo stile operistico, sia pur condito con qualche tratto di canto popolare nazionale. Ma solo nella musica di Michail Ivanovic Glinka (Novospasskoe, Smolensk 1804 - Berlino 1857) si arriva a riconosce­ re uno stile nazionalmente contraddistinto, derivato dal patri­ monio nazionale del popolo russo. Di formazione cosmopoli­ ta, partecipe del movimento romantico europeo, Glinka usa tutti gli ingredienti musicali a lui contemporanei, il grandopéra francese, il canto italiano, la sapienza contrappuntistica tedesca, ma vi immette in modo continuativo una componen­ te russa, che li fonde in un’espressione caratteristica e in certa misura unitaria. Nella Vita per lo zar (1836), la presenza mas­ siccia della tipica coralità del suo paese, fa assurgere il popolo a protagonista dell’opera e fonda il presupposto di una conce­ zione drammaturgica che troverà in Musorgskij la sua acme. In Russian e Ludmilla (1842), prevale invece il gusto dell’eso­ tismo orientaleggiante, quale avrà poi a riflettersi in tante composizioni di Rimskij-Korsakov, di Borodin, di Cajkovskij e di tanti altri russi. All’individuazione di un recitativo propriamente russo e di un’espressione peculiare affatto libera da moduli occidentali si applicò invece, con determinazione, Aleksandr Sergeevic Dar­ gomyzskij (Tuia 1813 - Pietroburgo 1869), cercando di farli valere nelle opere Rusalka (1848) e II convitato di pietra (rima­ sta incompiuta), che a loro volta costituiscono - soprattutto la

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seconda - gli immediati precedenti delle analoghe ricerche poi condotte da Musorgskij. Ciò mentre venivano formandosi due movimenti opposti: coloro che accoglievano con favore gli apporti della musica oc­ cidentale e coloro che invece li respingevano in nome di una genuina musica nazionale russa tutta da istituire fuori da com­ promessi. Nella polemica fra i due partiti, che miravano en­ trambi, in realtà, ad un incremento dell’animo nazionale, ed erano meno divisi, in pratica, di quanto mostrassero le diatri­ be, si impegnarono a fondo due personalità, quelle dei critici musicali Aleksandr Nikolaevic Serov e Vladimir Vasil'evic Stasov. Anche compositore, il primo, fu un fervente sosteni­ tore di Liszt e di Wagner; il secondo fu invece fautore del rea­ lismo estetico dei giovani compositori di tendenza slavofila, in particolare di un gruppo costituitosi attorno al i860, di cui egli stesso volle farsi portavoce, e che si suole oggi indicare col nome di «Gruppo dei Cinque». U gruppo si proponeva di dar vita ad una musica di caratte­ re nazionale; liberata dalle pastoie delle forme accademiche ed affrancata dalle tendenze occidentali, la nuova musica rus­ sa doveva attingere direttamente al folclore ed al canto litur­ gico. Il sodalizio ebbe origine da un incontro fra Balakirev e Cui, ai quali si unirono successivamente Musorgskij, RimskijKorsakov e Borodin. Che la polemica fra slavofili e occiden­ talisti rispondesse però più a un’estremizzazione di posizioni ideali che non a una realtà di fatto, lo prova la breve vita del «Gruppo dei Cinque», durata appena un anno, a causa dei di­ saccordi sorti internamente fra personalità connotate da ca­ ratteri molto diversi fra loro. Milij Alekseevic Balakirev (Niznij-Novgorod 1837 - Pietro­ burgo. 1910) fu più importante come promotore ed ideologo del gruppo che non per la sua attività compositiva specifica. Fu lui a fissare quei punti programmatici che orienteranno la poetica dei «cinque», ed a catalizzare attorno ad essi l’attività creativa dei suoi colleghi. In sintonia con questi assunti scrisse poemi sinfonici Samara, 1882 e Russia, 1884) e fantasie pia­ nistiche (celeberrima Islamey, 1867-68, trascritta poi da Ca­ sella per orchestra) di ispirazione lisztiana ricchi di inflessioni folcloristiche e di colore orientale, oltre a due sinfonie, due concerti per pianoforte (di cui il secondo incompiuto) e diver­ se composizioni cameristiche. Cezar Antonovic Cui (Vilna 1835 -1918) esercitava la pro­ fessione di ingegnere militare e svolse anche attività di critico

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musicale. Su consiglio di Balakirev si dedicò al teatro musicale sortendo esiti molto discontinui. Se nella sua prima opera, Il prigioniero del Caucaso (1857-58, rappresentata nel 1883), vi sono inflessioni russe che rivelano una sua intenzione di ade­ guarsi all’estetica nazionalistica, nella maggior parte dei suoi lavori successivi nel genere teatrale le influenze predomi­ nanti sono quelle della scuola francese (ad es. di Auber e di Meyerbeer nel William Ratcliff\ del 1861-68, rappresentata nel 1869). Cui, del resto, era scarsamente dotato di talento drammatico e trovò invece nel genere liederistico e in quello del breve pezzo pianistico il suo ambito espressivo più conge­ niale, dando sfogo alla sua vena lirica, da cesellatore e minia­ turista di bozzetti musicali. Aleksandr Porfir'evic Borodin (Pietroburgo 1834-87), fra i suoi cinque colleglli, fu quello che rimase maggiormente fe­ dele all’ideale di dilettantismo musicale che, con intento an­ tiaccademico, rappresentava uno degli assunti del programma estetico del gruppo. Chimico-medico di professione, impegna­ to in attività di carattere umanitario, si considerava «un com­ positore domenicale che si sforza di restare oscuro ». La sua produzione sotto l’aspetto quantitativo risulta piuttosto limi­ tata, con lavori importanti (la Sinfonia n. 3 in la minore, Il principe Igor) rimasti incompiuti e completati poi da colleghi; ma alcune sue composizioni come la Sinfonia n. 2 in si minore (1869-76) e i due Quartetti (1875-79 e 1881-85) rappresenta­ no sintesi perfette di ispirazione popolare, chiarezza di dise­ gno formale e unità espressiva: la componente orientale del­ l’anima russa è particolarmente esaltata nello schizzo sinfoni­ co Nelle steppe dell'Asia centrale (1880) ma è presente nella sua musica anche la componente lucida e razionale di una certa tendenza del Romanticismo tedesco (Mendelssohn, ad esem­ pio). La presenza di quest’ultima non gli impedì tuttavia di stringere una durevole amicizia con l’esponente di punta della tradizione romantica più radicale, Franz Liszt. Il principe Igor, tratto da un anonimo poema russo del ix se­ colo, il Canto della schiera di Igor, assorbì gli ultimi vent’anni della sua attività di compositore «dilettante». È un’opera am­ biziosa che, più che essere risolta sul piano drammatico com­ plessivo, lo è su quello delle singole scene, in cui Borodin pro­ fuse una dovizia di pagine musicali divenute tosto memorabili per il loro fascino atmosferico e coloristico (famosissime, po­ polari anche in occidente, le danze polovesiane). Tratti salienti della personalità di Modest Petrovic Musorgskij (Karevo, Pskov 1839 - Pietroburgo 1881) sono la sua

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poetica realistica e il suo sperimentalismo alla ricerca dello specifico musicale russo, affatto svincolato dai modelli musi­ cali occidentali, cosi come appaiono nelle sue quattro opere teatrali, il matrimonio, Boris Godunov, 1869-74; Chovanscina 1872-81 e La fiera di Sorocincy, e nelle penetranti liriche da camera. Tanta parve l’arditezza formale della musica di Mu­ sorgskij, tanta la primordialità della sua scrittura melodica e armonica, fraseolologica e timbrica, mostrate altresì nel poe­ ma sinfonico Una notte sul Monte Calvo e nei pianistici Quadri di un'esposizione, da indurre diversi compositori, e in primo luogo Rimskij-Korsakov, a rielaborarne le partiture. Due ver­ sioni, del resto, ad opera dello stesso autore, doveva conosce­ re il Boris Godunov, il suo capolavoro, prima di essere rappre­ sentato al Teatro dell’opera di Pietroburgo nel 1874; e altre due revisioni doveva subire in seguito, da parte di RimskijKorsakov intese a correggere presunte scorrettezze armoni­ che e formali e a dotare la partitura di una veste colorita e brillante in modo da renderla accetta ai gusti di fine secolo. Solo di recente si è cominciato a riscoprire nei tratti irregolari e scabri del testo musicale originale il dispositivo stilistico stesso del «realismo» perseguito da Musorgskij. Musorgskij mirava, infatti, a cogliere, in termini musicali, quella che egli chiamava la verità dell’essere umano e soprattutto la fisiono­ mia antica del contadino russo. Ora, tale obiettivo realistico egli lo otteneva proprio venendo meno alle regole della tradi­ zione e facendo emergere, mediante l’infrazione stessa, una sorta di «verità» nascosta nelle pieghe del linguaggio musicale e occultata dalle convenzioni stilistiche «classiche». Per que­ sto Musorgskij operava senza alcun rispetto nei confronti del­ la logica musicale convenzionale, mostrandosi restio a svilup­ pare i temi in modo conseguente secondo il modello sonatisti­ co romantico, a collegare tonalità contrastanti attraverso ca­ librate modulazioni, a inquadrare idee melodiche in arie ben scandite in periodi regolari di otto battute, a ricercare sonori­ tà e orchestrazioni suadenti; al contrario, in opposizione aper­ ta alle norme del mestiere, contrapponeva rudemente un mo­ tivo all’altro, combinava gli strumenti senza ricercare squisi­ tezze timbriche, faceva scontrare le tonalità senza mediazio­ ni, dissolveva la quadratura musicale per trasformarla in una sorta di prosa musicale, ovvero, riguardo al canto, in un decla­ mato continuo e arioso. Nelle composizioni strumentali, nelle liriche per canto e pianoforte, nelle opere teatrali, e soprattutto nelle due mag-

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gioii, il Boris e la Chovanscina^ questo drastico stravolgimento dei termini tradizionali della sintesi musicale riesce a scolpire situazioni, personaggi, atmosfere con una forza inedita alla quale i contemporanei reagirono con accoglienze estremistiche, ossia con straordinario entusiasmo oppure, assai piu spes­ so, con scandalo. Boris Godunov fu composto in una prima versione fra il 1868 e il 1869 e fu proposto per l’esecuzione ai Teatri Imperiali. La risposta fu negativa e le motivazioni pare fossero soprattutto di natura accademica; non è detto tuttavia che le diffidenze non nascessero anche da sospetti di carattere ideologico. In realtà la narrazione, che si riferiva a uno dei pe­ riodi più torbidi dell’antica storia russa, metteva in primo pia­ no soprattutto due grandi figure di protagonisti: lo zar da un lato e il popolo dall’altro, e analizzava con sguardo impietoso il tema cruciale dei loro rapporti. Tema quanto mai delicato anche nell’epoca dello zar Nicola I che regnava negli anni musorgskiani. Boris Godunov, che è salito al trono dopo aver assassinato il piccolo Dmitrij erede legittimo e figlio dello zar precedente, vive il suo potere in situazione di tragica solitudine: è minac­ ciato dalla nobiltà, è odiato dal popolo, è insidiato dalle ambi­ zioni di un falso pretendente che afferma di essere Dmitrij e si appoggia ai nemici esterni della Russia: la chiesa cattolica e il regno di Polonia. L’opera, che non presenta i fatti in succes­ sioni logicamente sequenziali, ma li schizza in poderosi pan­ nelli che mettono in luce esclusivamente le situazioni-chiave, si conclude con la morte di Boris, ossessionato e sfinito dalle angosce e dai rimorsi, e infine con una descrizione della rivol­ ta popolare sollecitata dall’arrivo del falso Dmitrij. Ma non si tratta di una conclusione di sapore trionfalistico. Musorgskij era troppo consapevole delle tragedie storiche del popolo rus­ so e delle servitù che avevano continuato a opprimerlo negli ultimi secoli per potere abbandonarsi a premature fantasie di riscatto. Cosi le ultime battute sono affidate all’antica nenia dell’innocente, che è al tempo stesso l’ultimo degli emargina­ ti, il pazzo del villaggio e il veggente dotato di doti profetiche. Sul lamento di questo personaggio, che è una delle più straor­ dinarie creazioni della fantasia del musicista, l’opera ambigua­ mente si conclude. Dopo il rifiuto del 1871 e un sostanzioso rifacimento del­ l’anno successivo l’opera venne finalmente rappresentata nel gennaio del 1874 e ottenne un successo cosi straordinario, so­ prattutto da parte del mondo intellettuale e studentesco, da

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mettere per qualche tempo il musicista al centro dell’attenzio­ ne nazionale. Ciò non gli permise tuttavia di godere dei frutti di una carriera brillante; lui vivente l’opera non venne piu ri­ presa e gli stessi suoi amici del «gruppo», che ne avevano se­ guito e incoraggiato la composizione e che ne avevano favorito l’esecuzione, avanzarono piu di una perplessità sugli «estremi­ smi» a cui Musorsgkij si era abbandonato e soprattutto appli­ carono disinvoltamente alla sua realizzazione un’etichetta di «dilettantismo» in senso negativo che nasceva evidentemente dalla sua ostentata incuria per le raffinatezze tecniche della tradizione europea, ma che non teneva conto dei presupposti di ideologia e di poetica che in tale incuria erano impliciti. Questa etichetta durò a lungo nella tradizione critica riguar­ dante Musorsgkij, e permise fra l’altro le universali fortune di cui godettero (e in parte godono tuttora) le versioni dei testi musorgskiani riviste dall’abile penna di Rimskij-Korsakov. Negli ultimi anni il musicista si isolò sempre piu dalla vita culturale e musicale del suo paese fino a morire in abbandono e in miseria, lasciando incompiute le ultime partiture alle qua­ li stava lavorando, fra le quali l’altro grande affresco di storia russa che ha per titolo Chovanscina. Anche in questo caso, e forse ancor più che nell’esempio precedente, la drammatur­ gia di Musorsgkij sceglie vie radicalmente anticonvenzionali. Scompare anzitutto la figura stessa del protagonista: la storia è ancora una volta basata su un dramma di successione dina­ stica, in questo caso quella che precede l’avvento di Pietro il Grande, ossia dello zar che promosse l’occidentalizzazione della Russia e la sua integrazione nel contesto culturale euro­ peo. Ma Pietro il Grande non compare mai in scena, anche se la sua figura incombe per tutto il corso dell’opera. Vi compaio­ no invece tre contendenti che con il loro conflitto simboleggia­ no tre diverse grandi tradizioni di cultura e di storia russa: quella filo-occidentale, quella dell’antico potere feudale, e quella della profonda tradizione di religiosità ortodossa. Cia­ scuna di queste tradizioni è musicalmente raffigurata con ac­ corte mescolanze e dosature di linguaggio che ne scolpiscono i tratti con la consueta essenzialità e capacità di penetrazione. Ma al di là dei personaggi altolocati l’opera è soprattutto con­ tinuamente intessuta di episodi popolari, o affidati al coro o a figure di personaggi su cui l’attenzione si concentra momenta­ neamente. Il popolo ancora una volta è visto come protagonista della storia e al tempo stesso come vittima degli scontri di pote­ re di chi ha in mano le leve del comando. E ancor più che in

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Boris, si accentua in Chovansèina quella tipica strutturazione drammaturgica a pannelli separati che era la più adatta a ca­ ratterizzare lo spirito epico che animava la vocazione narrati­ va dell’autore. Nikolaj Andreevic Rimskij-Korsakov (Tichvin, Novgorod 1844 - Ljubensk, Leningrado 1908) fu, assieme a Musorgskij, il musicista di maggior rilievo del gruppo. Avviato alla carrie­ ra navale per una tradizione di famiglia, iniziò a coltivare la musica come dilettante ed autodidatta; agli inizi degli anni ’60, nei tre anni di continua navigazione in qualità di cadetto dell’Accademia imperiale, ricevette lezioni per corrisponden­ za da Balakirev che lo aveva avvicinato al gruppo in corso di formazione. Agli inizi degli anni Settanta accettò l’incarico di professore di composizione e di strumentazione al Conservatorio di Pietroburgo, il che provocò la rottura con Musorgskij - fino ad allora a lui particolarmente vicino - che interpretò il fatto come un tradimento. Il desiderio di acquisire una pro­ fessionalità lo aveva spinto allo studio delle tecniche tradizio­ nali (in quegli anni, attorno al ’75, si era dedicato alla compo­ sizione di lavori cameristici di apprendistato contrappuntisti­ co) contravvenendo cosi a quell’ideale di libertà espressiva che rappresentava uno dei punti chiave dell’estetica del grup­ po e della pratica di Musorgskij in particolare. In realtà i motivi di disaccordo - specialmente con Mu­ sorgskij - erano ben più profondi, intrinseci alla sua natura musicale ed alla sua personale inclinazione poetica. Fin dal suo primo periodo creativo, nel decennio compreso tra il 1865 ed il 1875, Rimskij-Korsakov aveva dimostrato una particola­ re predilezione per il fiabesco (il poema sinfonico Sadko\ ia versione 1867, la sinfonia a programma Antar, 1868) che, pur nutrito di linfa popolare, lo stava sempre più allontanando da certe istanze realistiche del gruppo e relative tecniche espres­ sive; e ciò si verificava tanto più nel campo operistico, che di­ verrà il genere da lui prediletto. Se si confronta la sua prima opera, La fanciulla di Pskov (composta tra il 1868 e il 1872) con le due successive, Notte di maggio (1878) e La fanciulla di neve (1880-81) si può notare che, mentre nella prima è impie­ gato un declamato melodico di ascendenza dargominskiana, con scene corali che mostrano l’influenza del Boris in cantiere nello stesso periodo, nelle altre due Rimskij-Korsakov appro­ da ad una sua dimensione specifica in cui il tema popolare è usato per evocare una ritualità fantastica e fiabesca, per nulla realistica. Strumenti di questa evocazione sono un’invenzione

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tematica capace di delineare in modo icastico personaggisimbolo ed atmosfere naturalistiche seducenti, e il colore or­ chestrale di cui, nell'ambito della scuola russa del secondo Ot­ tocento, egli divenne insuperato maestro; un colore orchestra­ le quanto mai variopinto e cangiante, che profuse tanto nella decina di opere successive (da La notte di Natale, 1895 e Sadko, 1898, zìi gallo d'oro, 1906-907, satira allegorica antigoverna­ tiva che subf censure e fu rappresentata l’anno dopo la morte del compositore) tanto in lavori orchestrali tosto divenuti po­ polari (Shéhérazade, 1888; Capriccio spagnolo, 1887 e La gran­ de Pasqua russa, 1888), quanto nelle numerose revisioni delle opere dei suoi colleghi, quelle di Musorgskij in primis. Fu spe­ cialmente questo aspetto coloristico della sua arte che influen­ zò a lunghissimo raggio la musica di compositori che si stava­ no formando negli anni a cavallo tra i due secoli: non sola­ mente i russi (Lyadov, Glazunov, Mjaskovskij, Stravinskij, Prokof'ev) ma anche i francesi (Ravel, Debussy, Dukas) e gli italiani (Respighi). Quanto all’indirizzo occidentale della scuola nazionale rus­ sa esso fu sostenuto inizialmente da Anton Rubinstejn, ma fu rappresentato al suo piu alto livello dall’allievo Pètr Il'ic Cajkovskij (Votkinsk, Urali 1840 - Pietroburgo 1893). Cajkovskij è l’espressione massima dello spirito e della psicologia della borghesia russa permeata dalla cultura occidentale, con le sue estroversioni e le sue introversioni, con i suoi formalismi e i suoi traumi segreti. Il dramma della vita di Cajkovskij, la sua personalità, tormentata da una sofferta omosessualità, evoca­ no un incombente sentimento tragico sotto le forme spesso convenzionali e fin salottiere della sua musica: che sono, di volta in volta, la romanza da salon, costituente la struttura stessa delle sue opere liriche (specie AdP Eugenio Onegin del 1879, e della Dama di picche del 1890, entrambe tratte da Puskin), il pezzo di carattere, allineato in suite nei balletti famo­ si (Il lago dei cigni, 1876; La bella addormentata, 1889; Schiac­ cianoci, 1892), la forma-sonata classica tenuta quale modello ideale malgrado gli impulsi ad evaderne romanticamente (i quartetti, i celebri concerti per pianoforte e per violino, so­ prattutto le sinfonie, in particolare la Quarta, 1877, la Quinta, 1888 e l’ultima, la Sesta, detta Patetica, 1893). L’affiorare del sentimento tragico, in tante pagine di Caj­ kovskij, legato alla coscienza d’una condizione infelice e di un destino ineluttabile, e il tono che vi assume talora d’intima confessione, si trovano appunto a fronte delle forme stilisti­

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camente levigate e fin brillanti, esteriormente ligie al profes­ sionismo occidentale, entro cui premono. Ne scaturisce un’ar­ te musicale che oscilla tra momenti di superba e raffinata ele­ ganza - talora perfino con consapevoli intenti di recupero neoclassico (le Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra del 1876) - tanto ammirati da compositori come Stravinskij che elesse Cajkovskij a modello di perfezione e di stile, e momenti di grande trasporto passionale e patetico (le ouvertures-fantasie sinfoniche Romeo e Giulietta, 1869-70, prima versione, Francesca da Rimini, 1876; primo movimento della Quarta sinfonia-, i movimenti estremi della «Patetica») in cui le componenti musicali si squilibrano totalmente dal lato dell’espressione, con emergenza di forti tinte orchestrali, di toni enfatici ed eloquenti, di languori e malinconie confessate dalla voce di strumenti solistici. La seducente bellezza dei suoi temi, cui Cajkovskij sapeva imprimere una forte carica emotiva e comunicativa, e la mobilissima orchestrazione, con le sue improvvise esplosioni foniche e i suoi estatici rapimenti melodici, sono caratteri che entrarono tosto in circolo nella cultura musicale russa, lasciando tracce altrettanto indelebili nella musica del Novecento quanto il declamato e le intempe­ ranze armoniche e timbriche del realismo musorgskiano. Anche nella produzione operistica di Cajkovskij l’effusione melodica è un elemento prevalente; una effusione melodica che è espressione della confessione sentimentale, dell’intro­ spezione psicologica, che rimane chiusa soggettivamente nei singoli personaggi senza mai dar luogo ad un vero e proprio contesto drammatico interpersonale. Tenendo conto di que­ sta particolare sensibilità di Cajkovskij si può capire come nell’affrontare argomenti storici o nazional popolari (La pulzella d'Orléans, Mazeppa, L'ufficiale della guardia, rispettivamente rappresentati nel 1881, nel 1884 e nel 1874) con cori e scene spettacolari da grand-opéra, il compositore si sentisse meno a suo agio che non in opere come Eugenio Onegin e La dama di picche incentrate sui temi prediletti della passione infelice e della fatalità tragica: opere costruite come una suite di scene liriche e amorose sullo sfondo di una caratterizzazione am­ bientale quanto mai curata e ricca di colore. Sino alla metà dell’ottocento la vita musicale in Cecoslo­ vacchia sembra del tutto assimilata a quella della capitale del­ l’impero asburgico, con venature più o meno accentuate di italianismi. La grande ricchezza della musica popolare di quel­ la terra non aveva trovato ancora una via per dimostrare la

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sua fecondità e la sua prepotente vitalità. Forse la mancanza di personalità originali e la salda collocazione della Cecoslo­ vacchia all’interno dell’impero avevano impedito l’emergere di una scuola nazionale in cui le esperienze romantiche si in­ contrassero con il ricco humus culturale e musicale autoctono. Solo con la comparsa di due grandi personalità, dapprima quella di Bedfich Smetana (Litomysl 1824 - Praga 1884), poi quella di Antonin Dvofàk (Nelahozeves, Kralup 1841 - Praga 1904) si può parlare di una vera e propria scuola nazionale ce­ ca. Per Smetana l’incontro con Liszt che nel 1840 si trovava a Praga per dei concerti è stato determinante, non solo per l’a­ micizia che ne è nata ma anche per la sue stesse concezioni musicali e la sua carriera. Con il suo aiuto pochi anni piu tar­ di, nel 1848, fondò una propria scuola a Praga; pochi mesi do­ po partecipò ai moti nazionalistici e compose Y Ouverture trionfale. Tutta la sua opera di musicista è fortemente segnata da questo profondo amore per la sua terra che doveva diven­ tare la sua prima fonte d’ispirazione. Le melodie e i vivaci rit­ mi popolari contadini rappresentarono uno dei poli della sua musica, sia per quanto riguarda le composizioni strumentali che le opere teatrali. Nel 1862 si fece promotore di un mani­ festo programmatico in cui elaborava le linee di un’opera na­ zionale ceca che affondasse le sue radici nella cultura, nelle tradizioni e nella musica del proprio paese. L’anno seguente fu rappresentata la sua prima opera I brandeburghesi in Boe­ mia y con grande successo; nel 1866 raggiunge una piena origi­ nalità con il suo capolavoro La sposa venduta, opera comica, che conobbe un’immensa popolarità. In essa lo spirito della musica popolare viene rivissuto con grande libertà e inventi­ va: le vivaci danze contadine, le situazioni burlesche, la ric­ chezza melodica non scadono mai nel cliché folkloristico. Se­ guirono altre opere, alcune di soggetto romantico (Dalibor e Libuse), altre ancora nel genere comico e brillante (Le due ve­ dove, Il bacio, Il segreto, ecc.); in esse l’ispirazione popolare non gli impedì di recepire gli influssi sia di Liszt che di Wag­ ner (in particolare in Dalibor). L’influenza di Liszt si può no­ tare soprattutto nel ciclo dei poemi sinfonici La mia patria (1872-79), grandi affreschi pittorici in cui pur nelle forme del poema sinfonico listziano si avverte l’originalità del suo stile intessuto di melodie slave, di echi di leggende e di paesaggi cechi, a lui tanto cari. Con queste grandiose composizioni Smetana raggiunse una grande notorietà ben oltre i confini della sua terra. Afflitto negli ultimi anni della sua vita dalla

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sordità oltre che da disturbi mentali, non perse il suo slancio creativo. Ricordiamo ancora il famoso quartetto Dalla mia vi­ ta (1879) in cui volle rendere nel linguaggio della pura musica strumentale gli echi della propria esperienza esistenziale, pur senza cadere nel descrittivismo deteriore. Il grande merito di Smetana pertanto è di essere riuscito a proporre una valida alternativa alla tradizione classica vienne­ se e sulla sua strada si muove, anche se con esiti diversi Anto­ nin Dvorak. Se Smetana riuscì in parte a svincolarsi dalle for­ me classiche viennesi riversando l’ispirazione popolare nelle nuove forme del poema sinfonico, della musica a programma, sotto la suggestione di Liszt, Dvorak, invece, più legato alla scuola brahmsiana, cercò la sua via nel difficile compromesso tra la freschezza e la genuinità sorgiva della melodia popolare slava con l’architettura sonatistica delle forme classiche. Nato da modesta famiglia, fu avviato agli studi musicali dal padre dilettante di musica; sino al 1873 fece parte come violinista dell’orchestra del Teatro Nazionale a Praga, finché, grazie al­ l’intervento di Hanslick e di Brahms, ottenne una borsa di studio e potè dedicarsi alla composizione. La sua fama è affi­ data soprattutto alle composizioni strumentali e in particolare alle sue nove sinfonie. Il folklore slavo - e non solo quello ce­ co - è all’origine della sua ispirazione, ma esso viene sempre rivissuto in una cornice di classicità. Perciò spesso le melodie e i ritmi popolari diventano mate­ riale tematico delle sue composizioni (sinfonie, concerti, trii, quartetti) che pur non discostandosi dalla grande tradizione viennese per la loro struttura formale, ritrovano però una nuova freschezza inventiva nell’humus musicale nuovo e inu­ sitato rispetto alla tradizione classica. Dvorak conobbe la no­ torietà già con le giovanili Danze slave e con lo Stabat Mater (1877). Tra la sua produzione operistica incontrò una certa fortuna l’opera Rusalka (1901), intessuta di motivi e echi ro­ mantici. Più aderenti alla sua personalità le opere sinfoniche e cameristiche, in cui potè esprimere il meglio di se stesso, riu­ scendo nel difficile compromesso di fondere l’ispirazione po­ polare con le forme classiche. Nella famosa sinfonia Dal nuo­ vo mondo, ultima delle sue sinfonie, scritta negli Stati Uniti dove soggiornò dal 1892 al 1895, dirigendo il Conservatorio di New York, seppe trarre felici spunti musicali dal folklore del nuovo paese. Infatti in quegli anni viaggiando nel nuovo continente ebbe modo di conoscere la musica sia degli indiani che dei neri d’America ed anche in altre sue opere di quel

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periodo, come nel quartetto cosiddetto «americano», riecheg­ giano motivi che ricordano ritmi jazzistici, anche se rielabora­ ti e purificati in modo tale da non compromettere mai la so­ stanziale aderenza ai modelli cameristici classici. Cosi avviene nel bellissimo Dutnky trio (dall’omonimo canto popolare sla­ vo), dove i fluenti motivi slavi, i suoi germoglianti temi e i suoi vivaci ritmi vengono rivissuti e stilizzati nell’ambito della nobile tradizione brahmsiana. Dvorak pertanto ha realizzato nell’ambito delle scuole nazionali un’alternativa importante rispetto alla via segnata da Smetana, poi continuata da Janàcek. Dvorak infatti, piu legato alla tradizione romantica, si servi del canto popolare di tutto il mondo slavo come li­ bera fonte d’ispirazione, conservandone solamente le in­ flessioni, lo spirito e le movenze, ma reinventandolo total­ mente. Aperta alla cultura musicale francese, oltre che tedesca, ap­ pare la scuola nazionale polacca, che sposa volentieri l’ispira­ zione folkloristica, piu che al criterio costruttivo, alla brillan­ tezza dell’esecuzione virtuosistica e alla preziosità timbrica, mutuate specialmente dall’ambiente artistico parigino. Muo­ ve, non a caso, dalla somma lezione di Chopin (le Mazurche, le Polacche), e proseguendo con altri grandi interpreti della sta­ tura di Henryk Wieniawski e di Ignacy Jan Paderewski. Essa è capace di fondere, specie in ambito operistico, il dato origi­ nariamente polacco con il tratto, oltre che francese, italiàno e centro-europeo, sfociando in risultati di notevole raffinatez­ za; cosi in Stanislaw Moniuszko (Ubiel, Minsk 1819 - Varsa­ via 1872), autore dell’opera Halka (1848), considerato il fon­ datore di quella scuola nazionale, associata alle vicende poli­ tiche e alle lotte insurrezionali del paese. Si capisce come il raffinato eclettismo cosmopolita di cui si sostanzia l’ispirazio­ ne nazionale di Moniuszko avesse a influenzare l’omologa so­ luzione russa della musica di Cajkovskij, e costituisse l’aspetto piu tipico della scuola polacca.

Debitrice anch’essa del Romanticismo e poi del tardo Ro­ manticismo tedesco è la scuola scandinava (Danimarca, Sve­ zia, Norvegia, Finlandia), che, però, pur coltivando le grandi forme della tradizione austro-germanica si caratterizza nelle sue espressioni maggiori, per una sua interna tendenza ad una autonomia di procedimenti confortata dall’immissione dell’e­ lemento popolare autoctono. A cominciare dalle eccentriche

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composizioni dello svedese Franz Adolf Berwald (5 sinfonie, fra cui la più famosa detta Singolare), per continuare coi più ossequienti Niels Wilhelm Gade (danese, mendelssohniano) e Johan Severin Svendsen (norvegese), fino al massimo rap­ presentante, il norvegese Edvard Hagerup Gtieg (Bergen 1843-1907). Con Grieg l’ispirazione popolare sentita come momento di autonomia formale arriva a concepire soluzioni armoniche personalissime, di effetto impressionistico e di intensa sugge­ stione; spesso tali soluzioni derivano dall’accostamento di ac­ cordi senza legami funzionali e più che nelle classiche forme sonatistiche (Concerto in la minore per pianoforte e orchestra, 1868; Quartetto per archi in sol minore, 1877-78; sonate, per violino e pianoforte, per violoncello e pianoforte) risaltano nell’intimità delle piccole forme (i dieci quaderni di Pezzi lirici per pianoforte, i circa 150 Lieder, le celebri musiche di scena per il Peer Gynt di Ibsen 1874-75). Di inclinazione impressionistica, pur mitigata dalla forma­ zione sostanzialmente tedesca dei loro autori, sono le musiche degli ultimi maggiori rappresentanti della scuola scandinava: il danese Carl August Nielsen (autore di 6 sinfonie, fra cui la più nota è intitolata Uinestinguibile), il norvegese Christian August Sinding (fortemente influenzato da Wagner, ma spe­ cialmente valido nei circa 250 Lieder e nei numerosi pezzi di genere per pianoforte, fra cui il celebre Mormorio di primave­ ra) e soprattutto il finlandese Jean Sibelius (Hàmeenlinna 1865 - Jàrvenpàà 1957). Pur legato ai modelli del tardo Romanticismo tedesco, Si­ belius ha per altro verso contribuito in modo decisivo allo svi­ luppo di una scuola nazionale finlandese, ispirandosi in molte sue opere ai motivi popolari della musica scandinava. Ciò è ravvisabile soprattutto nei suoi poemi sinfonici che traggono spesso spunto da saghe popolari nordiche e da leggende della sua patria, non di rado legate a motivi patriottici. Basterà ri­ cordare Una saga (1892), poema sinfonico che gli diede grande notorietà, senza un preciso «programma», ma denso di richia­ mi sottili e melanconici ad atmosfere nordiche e romantiche; più chiaramente popolaresco Karelia (1893) con espliciti ri­ chiami al folklore popolare; Il cigno di Tuonela è una leggenda sinfonica dalle tinte particolarmente delicate, dalla concezio­ ne libera da schemi. Tra i suoi poemi sinfonici il più famoso è indubbiamente Finlandia (1899); in esso l’atmosfera musicale

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ispirata al paesaggio nordico, i richiami a temi popolareschi e al patrimonio etnico scandinavo è in chiara funzione patriot­ tica, nella rivendicazione della libertà della propria terra con­ tro l’oppressione zarista. Tra il 1899 e il 1924 Sibelius scrisse le sue sette sinfonie, le opere a cui doveva affidare la sua fa­ ma: esse, pur rivelando la sua matrice tardoromantica e l’in­ fluenza di musicisti quali Cajkovskij anzitutto, ma anche Strauss, Mahler, Reger e non ultimo Busoni di cui era stato anche allievo, hanno una loro spiccata individualità. Infatti Sibelius ebbe spesso parole di polemica contro il gigantismo sinfonico degli ultimi decenni dell’Ottocento: le sue sinfonie, forse ad eccezione della prima in cui è piu evidente il clima del tardoromanticismo tedesco, conservano una brevità e una concisione che deriva dalla stretta attinenza allo schema sin­ fonico classico, senza cedere alla tentazione delle proliferazio­ ni tematiche e alle troppo ricche divagazioni proprie dei sin­ fonisti della sua generazione. La sua ricca vena si è andata esaurendo dopo il 1925 e la sua personalità rimase perciò lega­ ta al mondo espressivo della fine dell’ottocento e alla nascita e allo sviluppo delle scuole nazionali. In Inghilterra il richiamo nazionalista, piu che teso ad esal­ tare il patrimonio musicale nazionale, la cui incidenza è mino­ re rispetto ai paralleli movimenti europei, risponde all’aspira­ zione ad affermare una creatività colta locale finalmente emancipata dall’importazione straniera. In realtà ciò si tradu­ ce in un programmatico impegno di aggiornamento e di emu­ lazione, venato, quando occorra, di appelli alla tradizione col­ ta e popolare britannica, a fronte delle grandi culture musicali contemporanee continentali linguisticamente piu elaborate, la tedesca e la francese. H movimento parte da Charles Hubert Parry e dall’irlandese Charles Villiers Stanford, stilisticamente improntati al tardoromanticismo tedesco, e culmina in Edward Elgar (Broadheat, Worcester 1857 - Worcester 1934) e Frederick Delius (Bradford, Yorkshire 1862 - Grez-surLoing, Fontainebleau 1934), autori l’uno di composizioni sin­ foniche (le 14 Variazioni sul tema «Enigma», 1899; Introduzio­ ne e Allegro per archi e quartetto d'archi, 1907) e oratoriali (Il sogno di Gerontius, 1900) di stampo postromantico, l’altro di pezzi per orchestra di stile vagamente impressionistico, medi­ tativo e malinconico, sensibile all’influenza dei francesi e di Grieg (come la Fantasia in un giardino d'estate). Tale volontà di aggiornamento e di affermazione si prolungherà nella genera­ zione seguente, e farà si che la scuola inglese, piu che esibire

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una peculiarità nazionale, pur non trascurando l’elemento au­ toctono, conforme alle tendenze dell’epoca, si presenti come l’eclettico assorbimento dei portati delle esperienze musicali moderne continentali. Ciò si può cogliere nella produzione di Gustav Theodore Holst (Cheltenham 1874 ■ Londra 1934) (la suite I pianeti, 1916), ove trovano inopinata fusione le in­ fluenze, insieme, di Wagner, dei Sei e di Stravinskij, e in quella di Ralph Vaughan Williams (Down Ampney, Glouces­ tershire 1872 - Londra 1958) capace di accordare le suggestio­ ni della musica inglese popolare e antica con quella del Neo­ classicismo e di Ravel.

Diverso è il caso della Spagna, la cui civiltà musicale aveva conosciuto sviluppi indigeni secolari, da sempre nutriti di una linfa originaria d’estrazione sia colta che popolare. Per la scuola spagnola si trattava pertanto non già di acquisire a di­ gnità d’arte un patrimonio locale prima negletto, come acca­ deva alle parallele scuole orientali, bensì di rilevare le radici stesse della tradizione illustre. A tale compito si accinse il compositore e musicologo Felipe Pedrell (Tortosa 1841 - Bar­ cellona 1922). Pedrell, infatti, intendeva valorizzare il patri­ monio musicale spagnolo nella sua interezza popolare e colta, sia conducendo rigorosi studi su di esso e curando la pubblica­ zione di importanti raccolte (la serie dei grandi polifonisti sa­ cri, gli opera omnia di Victoria, il monumentale Canzoniere musicale popolare spagnolo, 4 voli., pubblicato nel 1919-1922), sia facendo confluire i vari apporti, - dalle melodie mozarabiche alle antiche pagine polifoniche, dalle canzoni catalane alle villanelle secentesche, - entro le proprie composizioni, con­ cepite con linguaggio moderno. Mirando ad acquisire anche alla Spagna un’opera nazionale egli tentò di attuare tale sinte­ si generale della musicalità spagnola in una grande trilogia tea­ trale, intitolata I Pirenei (1902) modellata sul modello wagne­ riano. L’ideale di Pedrell fu accolto dai suoi allievi Albéniz, Gra­ nados e Falla. Pianisti e concertisti di fama internazionale, i primi due, riversarono la concezione pedrelliana nelle compo­ sizioni per il proprio strumento, per lo più pezzi brevi, spesso di carattere estemporaneo e brillante. Isaac Albéniz (Camprodón, Catalogna i860 - Cambo-les-Bains, Bassi Pirenei 1909) si mostrò sensibile al preziosismo armonico e timbrico di mar­ ca francese e impressionistica (la famosa Seguidilla dalla prima

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Suite espanola, i quattro quaderni di Iberia 1905-1908); Enri­ que Granados y Campina (Lerida 1867 - Stretto della Manica 1916) si conservò piu legato alla grande tradizione strumenta­ le romantica di Schumann, Chopin, Liszt (i due quaderni di GoyescaSy poi tradotti anche in un’opera teatrale). Di Falla si parlerà più avanti appartenendo egli ormai all’avanguardia del Novecento, [ps] 6. Italia e Francia alla fine del secolo. La conoscenza di alcuni autori tedeschi del secondo Otto­ cento (Brahms e soprattutto Wagner), il successo e la diffusio­ ne europea dei modelli elaborati dalle scuole nazionali, i mu­ tamenti più generali della cultura letteraria e filosofica incido­ no profondamente anche sulla situazione musicale di paesi co­ me la Francia e l’Italia in cui la radicata tradizione dello spet­ tacolo d’opera tendeva ad assorbire buona parte delle ehergie creative e dell’attenzione del pubblico. In Italia la tradizione della musica strumentale si era pressoché interrotta alla fine del Settecento; in Francia aveva avuto vita difficile ma aveva saputo conservare posizioni significative se non altro grazie a Berlioz e a quei musicisti non francesi che come Chopin e Liszt avevano abitato a Parigi. Dopo gli anni Cinquanta i se­ gni di ripresa di una tradizione strumentale locale si fanno sempre più evidenti. Anzitutto sul piano istituzionale: accan­ to al Conservatorio si affermarono ad esempio altre scuole di prestigio: YEcole de musique religieuse et classique di Niedermeyer (nata nel 1853 per incrementare la qualità delle esecu­ zioni musicali nelle chiese) dove insegnò Saint-Saèns, avendo­ vi come allievi Messager e Fauré; e successivamente negli an­ ni Novanta, la famosa «Schola Cantorum» di Vincent d’Indy, dove studiarono fra gli altri Dukas, Roussel e Albéniz. A fianco di queste istituzioni didattiche cominciarono a prende­ re piede anche nuove società concertistiche, fondate più spes­ so per iniziativa di compositori e direttori d’orchestra che non per volontà d’impresari. Le più note fra queste furono i cosid­ detti concerti Pasdeloup, i concerti Colonne e i concerti La­ moureux, tutti nati fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta e indicati col nome dei loro fondatori. Ma sicuramente la più si­ gnificativa fra queste istituzioni fu la Societé national de musi­ que fondata nel 1870 (Camille Saint-Saèns ne fu eletto allo­ ra vicepresidente) allo scopo di favorire e sostenere le esecu­

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zioni di musica sinfonica e cameristica francese. Segno che i tempi erano maturi per ospitare i rappresentanti di una cor­ rente nazionale che si andava affermando. La stessa presenza di Wagner che fu a Parigi più volte nel corso della sua carriera lasciò non poche tracce. Non si deve valutare l’importanza dei suoi soggiorni dal successo di pub­ blico che essi ottennero, perché questo successo non ci fu. Ci furono anzi polemiche violente fra il pubblico e nei giudizi dei giornalisti, sia quando nel 1861 fu rappresentato il Tannhauser sia quando nel ’69 si esegui il Rienzi, sia nelle altre rare oc­ casioni in cui furono eseguiti brani di opere wagneriane. Ma l’indizio più significativo della decisiva traccia che Wagner la­ sciò non solo nel mondo musicale, ma anche in quello lettera­ rio e artistico parigino, è costituita dalla rivista a lui dedicata, la «Revue Wagnerienne» che usci fra il 1885 e H 1888 e a cui collaborarono i più bei nomi della cultura francese dell’epoca. Su questo tessuto di sforzi organizzativi, di attività divul­ gative, di tensioni polemiche, si innesta e cresce la generazio­ ne dei nuovi compositori. Ai suoi tempi il più autorevole di questi fu senza dubbio Camille Saint-Saèns, la cui lunghissima esistenza (Parigi 1835 - Algeri 1921) gli fece conoscere inizialmente gli stessi tipi di difficoltà che aveva affrontato Berlioz (una volta egli ebbe ad affermare che prima del 1870 era una follia arri­ schiarsi in Francia sul terreno della musica strumentale), e lo portò alla fine dei suoi anni a schierarsi invece con virulenza contro la Sagra della primavera di Stravinskij. In queste sue sintomatiche prese di posizione si riassume in un certo qual modo tutta la vicenda dei musicisti di una generazione che vi­ de un cosi rapido mutamento di circostanze storiche e cultu­ rali da avere serie difficoltà a tenere il passo con i tempi. Lo stesso Fauré (Palmiers, Ariège 1845 - Parigi 1924) che di Saint-Saèns fu discepolo prediletto, nacque all’epoca della Damnation de Fauste mori all’epoca di Wozzeck. Il suo atteg­ giamento nei confronti delle nuove tendenze europee fu tut­ tavia più aperto e più meditato di quello del suo maestro e le sue mélodies (alcune su testi di poeti come Verlaine) e le sue composizioni, soprattutto quelle da camera, si imposero alle generazioni più giovani per quei caratteri di sottile discrezio­ ne e di aristocratico distacco che cominciarono a venire avver­ titi come tratti distintivi della nuova «scuola» francese. Non si tratta certo di una scuola in senso stretto ma piuttosto di un’area stilistica alla quale appartengono compositori fra loro

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nettamente distinguibili come César-Auguste Franck (Liegi 1822 - Parigi 1890), Ernest Chausson (Parigi 1855 - Limay, Senna et Oise 1899) o Alexis-Emanuel Chabrier (Ambert, Alvernia 1841 - Parigi 1894). Fra tutti questi Franck è quello che ottenne piu duratura fama, ma è anche quello che meno agevolmente si inserisce nella tendenza evidente degli altri musicisti a dar vita a una sorta di autoidentificazione naziona­ le. I caratteri «francesi» della musica del secondo Ottocento vengono di solito individuati nella leggerezza e trasparenza della tessitura sonora, nell’uso sapiente dell’orchestra, nel ca­ rattere elegante e allusivo delle linee melodiche, in una cono­ scenza tecnica molto solida ma non esibita, nel gusto per le evocazioni di cultura «altra» (allusioni a esotismi, folklorismi, arcaismi); tali caratteri si manifestano soprattutto nella diffi­ denza nazionalistica (che emerge sempre più chiaramente via via che passano gli anni) per tutto ciò che appariva più tipica­ mente «tedesco», e dunque nel rifiuto per la grande retorica romantica di matrice beethoveniana, e (quando ci si avvicina alla fine del secolo) anche per le sonorità composite e massicce di ascendenza wagneriana. César Franck fa un po’ eccezione in questo contesto, per certi suoi evidenti legami con la musica tedesca: con Bach, ad esempio, a cui lo unisce la sua attività di organista, e con Wagner, la cui ombra si proietta sulle sue opere sinfoniche e cameristiche dall’epoca dell’incontro rivelatore con il Tristano che avvenne nel 1874. Ma ai modelli musicali centro-europei Franck guardò sempre con devozione, a Liszt in particolare e più largamente a tutta la tradizione classica e proto-romanti­ ca, alla cui saldezza ideale e formale egli rimase sempre fonda­ mentalmente fedele anche se tese a contemperarla con le ten­ denze più libere del sinfonismo tardo-ottocentesco e con le correnti estetiche coeve. A questa dialettica fra sperimenta­ zione e tradizione si deve ad esempio la sua concezione «cicli­ ca» della forma che prevede la circolazione costante di temi fra un tempo e l’altro della composizione. Oltre che pezzi per organo, per gruppi da camera e per pianoforte (il più famoso è Preludio, corale e fuga del 1884) altre opere, quasi tutte degli ultimi anni di vita, appartengono ancor oggi al repertorio cor­ rente: ad esempio le Variazioni sinfoniche per pianoforte e or­ chestra del 1885, la Sinfonia in re minore del 1886-88 e l’ora­ torio Les Béatitudes del 1880 in cui l’autore paga il suo tributo al misticismo estetizzante tipico della sua epoca. Un parallelo movimento di rinascita strumentale si verificò

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anche in Italia, sia pure in tono minore e con rappresentanti assai meno autorevoli. Il secolare dominio del melodramma aveva gravemente ri­ tardato l’affermarsi del concerto pubblico a pagamento, e una borghesia modernamente evoluta, sensibile all’elaborazione di un pensiero musicale distinto dal melodramma, quale il Ro­ manticismo aveva prodotto nei paesi tedeschi, si impose più lentamente che altrove. Si che soltanto raramente comincia­ rono a sorgere nella seconda metà del secolo istituzioni con­ certistiche (ad esempio le «società del quartetto»), talora guardate con occhio ostile dall’ambiente operistico. Ne furo­ no promotori pochi musicisti, compositori e per lo più inter­ preti esecutori, maturati a contatto con le esperienze sinfoni­ che e cameristiche coltivate all’estero: nel sollecitare una vita concertistica italiana, essi tentarono anche di contribuire ad arricchire il repertorio con una produzione ricalcata sui mo­ delli del Romanticismo e del tardo Romanticismo tedesco. Uno dei primi fu Antonio Bazzini (Brescia 1818 - Milano 1897), virtuoso del violino vissuto lungamente in Germania e a Parigi prima di diventare direttore del Conservatorio di Mi­ lano, autore di quartetti, di concerti e di altri pezzi violinistici (fra cui la famosa Ridda dei folletti). Contemporaneo a lui fu Stefano Golinelli (Bologna 1818-91), concertista di pianofor­ te noto internazionalmente ed autore di molti pezzi per il suo strumento; anche Luigi Mancinelli (Orvieto 1848 - Roma 1921), fondatore di una Società di Quartetto a Bologna, di­ rettore d’orchestra di grande autorità in Italia e all’estero, la­ sciò pagine sinfoniche di rilievo (come quelle della suite Scene veneziane)} ma soprattutto raggiunsero più duratura fama Giovanni Sgambati, Giuseppe Martucci, Marco Enrico Bossi e Leone Sinigaglia, tutti adopratisi, nella composizione e nella pratica esecutiva ed organizzativa, per la rinascita in Italia della musica strumentale, nello spirito della tradizione tede­ sca. In particolare questi ultimi, trascurando del tutto l’ope­ ra lirica, si dedicarono alla composizione strumentale e oratoriale, producendo lavori sinfonici, sacri e da camera, in cui si avvertono le influenze di Schumann, di Brahms, di Wagner: celebrato interprete pianistico Sgambati (Roma 1841-1914), che fu allievo di Listz e amico di Wagner; direttore d’orche­ stra e pianista Martucci (Capua 1856 - Napoli 1909); diffusore in Italia del sinfonismo tedesco e di Wagner (vi diresse per la prima volta il Tristano a Bologna) e autore di note composizio­ ni pianistiche e sinfoniche (2 sinfonie, 1 concerto, i popolari

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Notturno e Novelletta)', rinnovatore della tecnica dell’arte or­ ganaria Bossi (Salò, Brescia 1861 - peri durante la traversata New York - Le Havre 1925); sensibile alla lezione di Dvorak, Sinigaglia (Torino 1868-1944), volle fondere le suggestioni del tardo romanticismo tedesco col patrimonio etnofonico del Piemonte. In entrambi i paesi queste tendenze alla rinascita della mu­ sica strumentale vivono all’interno di un contesto operistico ancora ben saldo e sorrette dai favori di un largo pubblico. In Francia, dopo la scomparsa di Bizet, il rapporto complemen­ tare tra vena drammatica e sentimentale e colore locale inse­ diato dall’opéra-lyrique ed esperito con tanta pregnanza da Bizet soprattutto nella Carmen, verrà ormai coltivato dal tea­ tro musicale francese in ogni sua accezione, specialmente in presenza di soggetti d’ambiente esotico, favoloso o fantastico: quelli dell’opéra-comique Lakmé (1883) di Léo Delibes, che è una tragedia d’amore consumata in India, o dei balletti Cop­ pella e Sylvia del medesimo autore, o dell’opéra-lyrique II re d’Ys (1888) di Edouard Lalo, su leggenda medievale, o persi­ no di un tardo grand-opéra quale Sansone e Dalila (1887) di Saint-Saèns, che tratta l’episodio biblico con gusto neoclassi­ co ed estetizzante. L’interazione reciproca fra una crescente capacità d’intro­ spezione e una realtà esterna ritratta in modi ispirati alla quo­ tidianità avrebbe conosciuto ulteriore raffinamento, allo scor­ cio del secolo, nel teatro di Jules Massenet (Montaud, SaintEtienne 1842 - Parigi 1912). Nella Manon (1884) e nel Wer­ ther (1892), i suoi capolavori, dramma dei sentimenti e illu­ strazione musicale d’ambiente si fondono in un’unica attitu­ dine globale in una disposizione poetica generale mantenuta nel corso dell’intero lavoro; l’azione è contemplata da quel fis­ so punto di vista, e la musica che la sottolinea trascolora entro un’atmosfera ininterrotta, insieme ambientale e psicologica, animata da una sottilissima sensibilità armonica e melodica. Il risultato assomiglia al convergere del naturalismo nel simbo­ lismo riscontrato contemporaneamente nell’arte e nella lette­ ratura francesi; ciò spiega come lo stesso Debussy fosse un sincero ammiratore dell’opera di Massenet. Il naturalismo, peraltro, non avrebbe tardato a rivolgersi all’attualità e a tradursi in verismo con l’emergere dei conflitti e delle tematiche sociali conseguenti al processo di industria­ lizzazione. Scrissero opere di tale ispirazione Alfred Bruneau,

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che trasse tutti i suoi soggetti da Emile Zola, e Gustave Char­ pentier, di cui si mantiene tuttora in repertorio Louise (1900), d’argomento proletario e formalmente d’osservanza wagne­ riana per quanto attiene al trattamento dei motivi conduttori, benché stilisticamente e poeticamente ancora vicina a Mas­ senet. Analoga integrazione fra temi ispirati alla letteratura del verismo, spunti di suggestione wagneriana, elementi tratti dalla tradizione del grand-opéra francese, suggerimenti esotici in chiave di estetismo «decadente», caratterizza anche il me­ lodramma italiano degli ultimi anni del secolo e dei primi de­ cenni del Novecento. Dopo Verdi, in Italia, guarderanno al grand-opéra Filippo Marchetti, Carlos Antonio Gomes, e soprattutto Amilcare Ponchielli (Paderno Fasolaro, Cremona 1834 - Milano 1886) la cui popolare Gioconda, del 1876, presenta effetti di grande richiamo spettacolare, come la famosa Danza delle ore, e forti tinte passionali e drammatiche. Alla nota intimistica, pure di ascendenza francese, fu piu sensibile Alfredo Catalani (Lucca 1854 “ Milano 1893): tale carattere si ritrova nelle atmosfere sognanti della Lorelay (di cui è celebre saggio la Danza delle on­ dine) e nelle effusioni elegiache del suo capolavoro, La Wally (1892). A Wagner pretese di rifarsi Arrigo Boito (Padova 1842 - Milano 1918) col suo ambizioso Mefistofele (1868). Prezioso e dotto letterato, più che sapiente compositore, Boi­ to concentrò abilmente, nel libretto del Mefistofele da lui stes­ so confezionato, la materia del primo e del secondo Faust goethiano, richiamando le istanze avveniristiche diffuse da Wag­ ner per certa filosofica attitudine della concezione drammati­ ca; non assunse però quasi nulla della poetica e della tecnica propriamente musicale del tedesco, e restò sostanzialmente li­ gio agli schemi dell’opera romantica italiana e del grandopéra. Procedimenti musicali effettivamente wagneriani adot­ tò invece Antonio Smareglia (Pola 1854 - Grado, Gorizia 1929), istriano e dunque di formazione mitteleuropea, in ope­ re (Nozze istriane, 1895; La falena, 1897; Oceana, Uabisso, 1914) in cui appaiono aboliti i pezzi chiusi in favore del­ lo sviluppo continuo assicurato dall’elaborato sinfonico. Sotto l’attacco concentrico prima del grand-opéra, quindi dell’opéra-lyrique, e più o meno direttamente del dramma wa­ gneriano, il processo di disgregazione dei vecchi schemi del melodramma romantico italiano finisce per giungere, nell’ul­ timo decennio dell’Ottocento, al suo compimento. Ciò che ri­

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sulta è il permanere di un’abitudine melodrammatica confor­ me alla retorica romantica, senza che i suoi elementi costitu­ tivi rispondano piu con coerenza al mondo spirituale a cui ap­ partenevano. Tale è la percezione cui approda il melodramma italiano che sarà chiamato verista o naturalista. Se il melo­ dramma romantico costituiva un mondo formalmente omoge­ neo, in cui vocalità, melodia, accompagnamento sinfonico, li­ bretto, intrigo romanzesco, gestualità retorica si intendevano reciprocamente integrati e armonicamente composti, il melo­ dramma naturalista si presenta scisso nei suoi costituenti for­ mali, i quali cosi perpetuano gli atteggiamenti di allora senza conservarne la congruenza: la vocalità tende ad affermarsi per se stessa, la melodia perde la sua organicità, l’orchestra si ren­ de sofisticata, il libretto, conservando una quantità di scorie romantiche, diventa ibrido e mescola livelli di lettura molto diversi. L’opera naturalistica italiana fu appunto l’espressio­ ne di tale situazione, il fluttuare dei relitti del gran sistema del melodramma romantico nazionale entro le innovazioni di marca francese e tedesca. Gli operisti del periodo furono raggruppati, dalla critica corrente, sotto l’etichetta di «Giovane scuola», che compren­ deva principalmente Mascagni, Leoncavallo, Puccini, Cilea e Franchetti. Le loro personalità si distinguono per il risalto a volte abnorme, che essi danno a elementi della tradizione me­ lodrammatica, ora dissociati, un tempo in equilibrio e per l’accoglimento di motivi culturali di piu disparata origine; o persino, in Puccini, per la capacità di evidenziare la condizio­ ne psicologica disgregata dell’uomo contemporaneo. Il loro teatro prese il nome di «verista» solo perché Mascagni ne fu iniziatore con Cavalleria rusticana (1890) e immediatamente dopo Leoncavallo, nei Pagliacci (1892), ne formulò una poeti­ ca ch’ebbe vigore momentaneo. Ma a cominciare da Masca­ gni, gli argomenti da essi trattati furono d’ogni genere, da ve­ risti a fiabeschi, da decadenti a intellettualistici. Al sanguigno dramma siciliano della Cavalleria rusticana, tratto da Verga (Turiddu tradisce Santuzza con Lola, sposa di Alfio, e costui lo accoltella in duello), Pietro Mascagni (Livor­ no 1863 - Roma 1945) era pervenuto dal romantico Gugliel­ mo Ratcliff, da Heine; per passare subito dopo all’idillio pae­ sano dell’Amico Fritz (1891), e piu in là all’impressionismo dellTrà (1898), all’intellettualismo delle Maschere (1901), al simbolismo medievaleggiante di Isabeau (1911), al dannunzia­

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nesimo di Parigina (1913). Analoga varietà di scelte presente­ ranno le produzioni teatrali degli altri autori della «Giovane scuola». Caratteri specifici dello stile di Mascagni sono la vi­ rulenza espressiva specialmente sfogata nella vocalità, segna­ tamente tenorile, che permane anche quando egli rinuncia a contenuti veristici, e l’eccitazione canora che si svincola in lui dalla stessa opportunità drammatica per divenire manifesta­ zione di personale vigoria. A definire il suo teatro musicale sono la sopraffazione emotiva, l’esaltazione espressiva, riba­ dite senza posa ad ogni frase del canto, ad ogni svolta melodi­ ca, esasperate da armonizzazioni e da strumentali ricercati, tese all’ostentazione di un’attitudine gagliarda e infaticabile. L’opera di Mascagni si offre cosi quale incarnazione artisti­ ca della volontà di potenza approdata alla provincia culturale italiana e volgarizzata nel costume, che egli coglie nel momen­ to della sua piena emergenza storica, nell’atto del suo ergersi ad etica, ad ideologia, a politica. Se è la vocalità del melodramma romantico italiano ad as­ sumere in Mascagni proporzioni abnormi, l’impressione di di­ sorientamento che possono destare i Pagliacci è procurata dal contrasto fra la prosopopea melodrammatica con cui Ruggero Leoncavallo (Napoli 1857 - Montecatini Terme, Pistoia 1919) presume di interpretare il soggetto passionale e sanguigno (an­ che qui un dramma contadino della gelosia, ambientato in Ca­ labria, e concluso con l’accoltellamento degli adulteri) e l’ef­ fettiva sensibilità del musicista, ch’era da operetta e da ro­ manza da salon. A sua volta Umberto Giordano (Foggia 1867 - Milano 1948), nei suoi esiti migliori, fa perno sull’elemento tradizionale del­ l’intrigo, scegliendo soggetti dalla trama complessa e densa di eventi, si che ogni crudezza d’effetto, ogni turgore lirico resti­ no come alleggeriti dal rapido incalzare degli avvenimenti sce­ nici. Cosi avviene nella storia romanzesca di Andrea Chénier (poeta della rivoluzione francese che finisce ghigliottinato con la sua amata), del 1896, nel dramma poliziesco di Fedora (1898), nella epopea lirica di Siberia (1903), nella commedia d’ambiente di Madame Sans-Gène (1915). Nonostante le suggestioni del teatro naturalista francese, per l’afflato melodico che lo pervade e per la chiarezza della struttura generale, il melodramma di Francesco Cilea (Palmi, Reggio Calabria 1866 - Varazze, Savona 1950), autore dell’Artesiana (1897) e dell’Adriana Lecouvreur (1902), appare ti­ picamente italiano.

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CAPITOLO DECIMO

Mentre Alberto Franchetti (Torino i860 - Viareggio, Luc­ ca 1942), pur tenendo d’occhio Wagner, per quanto attiene alla scrittura sinfonica e all’uso del Leitmotiv, mostra anche lui di sapersi adattare ad ogni ispirazione culturale, sia essa memore di Meyerbeer o aggiornata secondo il gusto verista, appropriata alla commedia musicale o al dramma storico (co­ me nella sua opera piu nota, Germania, del 1902), d’origine decadente o dannunziana. Tutti costoro, comunque, non alterano, nella sostanza, la concezione del melodramma tradizionale, sia pure ridotto presso di loro, a mero involucro dei vecchi e dei nuovi ingre­ dienti. Invece Giacomo Puccini (Lucca 1858 - Bruxelles 1924) la pone decisamente in crisi, perché individua nella sua opera una percezione del tempo affatto nuova per il linguag­ gio musicale, tale da annunciare, nel melodramma, modi e strumenti della moderna comunicazione. Puccini individua, all’atto dello scadere della tradizione melodrammatica, il di­ sfarsi del vecchio tempo rappresentativo in un tempo discon­ tinuo, relativo, multidirezionale, in cui è immersa la vivente quotidianità. Fin allora l’arco di tempo lungo cui si distribui­ vano le azioni dei personaggi dell’opera si era identificato con la traiettoria a direzione unica percorsa dall’attenzione dello spettatore e commisurata allo svolgimento dell’intreccio drammatico e musicale. Tale non è il tempo della quotidianità scoperto dal romanzo moderno e individuato musicalmen­ te da Puccini. Un tempo che risulta da una catena di eventi drammatico-musicali momentanei protesi di continuo fuori della propria attualità, verso il passato e verso il futuro, palpi­ tanti nel ricordo e nel presentimento, colti da punti di vista ora soggettivi, ora oggettivi secondo angolazioni sempre di­ verse. Un modo di sentire il tempo che Puccini mutua proprio dalla scissione fra gli ingredienti del vecchio melodramma; scissione, in primo luogo, fra melodia, parola, commento sin­ fonico e andamento agogico, ch’egli riassociando mette a frut­ to. La percezione di questa intima, sottile sconnessione crea il sentimento di una temporalità discontinua e aperta, che si fonde psicologicamente con i casi della rappresentazione, sino a riflettervi le insicurezze e le trepidazioni esistenziali del­ la condizione piccolo-borghese contemporanea, obbligando l’ascoltatore a riconoscervisi in prima persona e a provarne intenso turbamento. Tale temporalità nella Manon Lescaut (1893) è appena allusa dalla frammentarietà narrativa dell’o­ pera, ch’è tratta dal romanzo di Prévost. Ma nella Bohème

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(1896) è già pienamente vissuta nella percezione dominante del consumo irrevocabile d’ogni attimo, ossia dell’esistenza come addio costante alla vita, raffigurata nel dileguarsi della giovinezza povera e spensierata dei personaggi, tratto dal ro­ manzo di Murger, insieme allo spegnersi di Mimi. Nella Tosca (1900) essa è sentita nella durata di una consuetudine dome­ stica (il ménage amoroso fra l’attrice Fioria Tosca e il pittore Mario Cavaradossi) cui il bieco capo della polizia Scarpia e la macchina drammatica stessa (fornita da Sardou) vengono a far violenza. In Madama Butterfly (1904) la temporalità si di­ stende, dilatata, nella vana attesa protratta per tutta l’opera, dello sposo americano da parte della piccola giapponese che l’ha incautamente sposato. Cosi nelle opere successive sarà esperita, con linguaggio sempre piu tecnicamente aggiornato, nell’ambito dei miti moderni della cultura di divulgazione: il western della Fanciulla del West (1910), l’operetta della Ron­ dine (ch’è però un’opera), il bozzettismo rispettivamente pa­ rigino, toscano e dugentesco del Tabarro, di Suor Angelica e di Gianni Schicchi (costituenti il cosiddetto Trittico), infine l’e­ stetismo intellettualistico dell’incompiuta Turandot (1926, col finale completato da Franco Alfano), tratta da una fiaba di Carlo Gozzi (la principessa Turandot concederà la sua mano a chi saprà risolvere i tre enigmi ch’ella proporrà, e Calaf vi riuscirà). Con Riccardo Zandonai (Sacco di Rovereto, Trento 1883 Pesaro 1944) e con Ermanno Wolf-Ferrari (Venezia 18761948), della generazione successiva a quella di Puccini, l’ope­ ra naturalistica si trovò a perdurare con una certa consistenza sino agli anni Trenta, ora abbandonandosi a un sinfónismo lussureggiante, come nel capolavoro del primo, Francesca da •Rimini (1914), ora svaporando in un realismo delicato e inti­ mistico evocato dal mondo goldoniano, nei Quattro rusteghi (1906) e nel Campiello (1936) del secondo, per poi vegetare fi­ no ai giorni nostri in sporadiche rappresentazioni, per lo piu, di storie attuali, come negli abili lavori di Giancarlo Menotti (Cadegliano, Varese 1911). Trasferitosi negli Stati Uniti, do­ po aver iniziato gli studi al Conservatorio di Milano, si è af­ fermato come operista di successo con opere quali The Me­ dium (1946), The Telephone (1947), The Consul (1950) ed al­ tre più recenti (The Saint of Bleecker Street, 1954; Maria Golo­ vin, 1958; Juana la loca, 1981) che fondono un linguaggio di derivazione verista-pucciniana con i meccanismi scenicodrammatici hollywoodiani. [ps]

Capitolo undicesimo

La musica tra Ottocento e Novecento

i. Tra simbolismo, decadentismo e «Art Nouveau ».

Nella musica e nelle altre arti il periodo compreso tra gli ul­ timi decenni del secolo xix e i primi anni del Novecento, l’età del decadentismo e del simbolismo, si pone sotto il segno di inquiete ricerche, di trasformazioni profonde, in diverse dire­ zioni: per ciò che riguarda il linguaggio musicale si è soliti rias­ sumerle sotto il segno della crisi del linguaggio tonale (ma si potrebbe parlare anche di arricchimento e dilatazione fino ad un massimo di ambivalenze) e del superamento o rinnova­ mento delle forme e delle categorie stesse del pensiero musi­ cale della tradizione classico-romantica. La formazione dei maggiori musicisti nati tra il i860 e il 1875 si radica, in modi diversi per ognuno di loro, in qualche aspetto delle tradizioni ottocentesche, rispetto alle quali una svolta netta si delinea con chiarezza intorno al 1890: basti ricordare qui le date delle prime esecuzioni della Prima sinfonia di Mahler e del Don ]uan di Strauss (1889) e del Prélude à Paprès-midi d’un faune (1894). Non tutti gli autori che scrissero opere determinanti a cavallo tra i due secoli ebbero una presenza incisiva nelle successive vicende della nuova musica, anche se alcuni di loro vissero molto oltre la fine del primo conflitto mondiale, come accadde a Strauss. Ma non si può dimenticare il significato storico della svolta di cui erano stati protagonisti intorno al 1890, incarnando agli occhi dei contemporanei gli inizi della musica moderna: va dunque giudicato improprio e fonte di equivoci l’abuso dell’aggettivo «tardoromantico» riferito al­ l’esperienza di musicisti come Mahler, Richard Strauss e ad autori della generazione immediatamente seguente, come il giovane Schonberg, Zemlinsky, Schreker, Reger. Nessuno ovviamente potrebbe negare l’importanza, per la loro forma­ zione, di Wagner, Brahms o di altri aspetti dell’ottocento ro­ mantico, e l’esistenza di elementi di continuità storica con es­ so. Ma deve essere cancellata l’implicazione tendenziosa e

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vagamente spregiativa presente in un aggettivo che fa pensare semplicemente a degli epigoni di Wagner o di altri aspetti del secondo Ottocento, e che non per caso risale agli anni fra le due guerre, all’epoca del trionfo del gusto cosiddetto «neo­ classico», davvero agli antipodi rispetto alle esperienze della fine del secolo. Il rifiuto delle implicazioni riduttive ed improprie del ter­ mine «tardoromantico» si è accompagnato in tempi recenti ad un rinnovato interesse per figure dimenticate come quelle di Zemlinsky e Schreker e ad una discussione sull’opportunità di ricorrere ad altri termini per definire sotto il segno di cate­ gorie stilistiche generali alcune esperienze musicali dei decen­ ni fra i due secoli: negli studi su Debussy si è discusso il rap­ porto della sua musica con impressionismo e simbolismo, e piu recentemente ci si è chiesti in che misura era possibile par­ lare di una Secessione o di uno Jugendstìl musicale con riferi­ mento ad esperienze vicine al clima culturale degli anni della Secessione, e comunque aliene dal radicalismo della compiuta sospensione tonale e delle poetiche che si è soliti chiamare espressionistiche. E in verità difficile trasferire in campo mu­ sicale termini come Jugendstìl o Sezession, che hanno un preci­ so significato nella storia dell’arte, se si vuole darne una defi­ nizione rigorosa, ed è più agevole indicare caso per caso, sen­ za rigidezza, elementi di convergenza ed incontro. Tuttavia si può forse individuare un aspetto determinante nel clima, non soltanto musicale, della fine del secolo in Francia come nei paesi di lingua tedesca e in alcuni compositori russi: alludiamo all’incidenza dell’eredità wagneriana, che fu allora una pre­ senza incombente e decisiva anche per chi, come Debussy, se ne distaccò polemicamente. L’idea wagneriana (e non solo wagneriana: le sue radici romantiche sono anteriori a Wag­ ner) del Gesamtkunstwerk, dell’opera d’arte totale, esercita una riconoscibile suggestione sulla cultura simbolista e anche in seguito, fino alle ricerche sinestetiche di Kandinskij, Skrjabin, Schonberg, ovviamente conoscendo di volta in volta mu­ tamenti profondi. E un rilevante punto di contatto fra le ri­ cerche di pittori, scrittori, musicisti a fine secolo proprio l’in­ teresse per l’incontro fra le arti, per i loro rapporti e scambi di suggestioni. Gli esempi più celebri sono forse le idee di Mal­ larmé o di Verlaine sulla poesia che doveva riconquistare dalla musica ciò che più intimamente le apparteneva. Per Mallarmé (che verosimilmente esercitò su Debussy una influenza deter­ minante, ben al di là dei pochi testi che ispirarono il compo­

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sitore) la poesia doveva come una sorta di metalinguaggio racchiudere in sé suggestioni di arti diverse. Rilevante incidenza hanno altri aspetti dell’ideologia wag­ neriana, dall’ambiguo misticismo del Parsifal alla religione dell’arte come portatrice di salvezza e redenzione. Ma al di là della diffusione, oggi inimmaginabile, di alcuni scritti teorici di Wagner, sono proprio le sue partiture che, senza offrire propriamente modelli di Jugendstìl musicale, introducono mo­ di di pensare il tempo e la forma suscettibili di feconda rifles­ sione a fine secolo. Uno sguardo alle vicende politico-sociali che seguirono al 1870, alla Comune di Parigi e all’unificazione tedesca, e che condussero alla catastrofe del conflitto mondiale, rivela negli ultimi due decenni del secolo l’aprirsi di una fase nuova nella storia europea, caratterizzata da un consolidamento e raffor­ zamento del capitale economico, grazie anche alle conquiste coloniali che conoscono in quest’epoca la massima espansione (nel 1885 ad esempio il Congresso di Berlino promosso da Bis­ marck definiva la spartizione dell’Africa centrale). In quella che fu chiamata belle epoque si crea e approfondisce il divario tra un’arte ufficiale, integrata e pompier, e l’inquietudine di una ricerca artistica che vede un crescente distacco ed isola­ mento tra i suoi protagonisti e la società. All’esaurirsi del po­ sitivismo e del naturalismo si accompagna un senso di estra­ neità per le ideologie del progresso tecnico e del riscatto socia­ le. Le irrequiete ricerche nei diversi linguaggi artistici si lega­ no al venir meno di ogni certezza, di ogni consolidato valore, e costituiscono le premesse delle avanguardie radicali del no­ stro secolo. E opportuno avvertire che questo capitolo non intende for­ nire un quadro esauriente della situazione della musica a ca­ vallo fra i due secoli in tutti i paesi d’Europa. Ragioni di fun­ zionalità espositiva hanno fatto preferire un criterio empirico inducendo cosi a trattare in altra sede, ad esempio, il melo­ dramma di Puccini e dei suoi contemporanei italiani, e a limi­ tare il discorso alla Francia, ai paesi di lingua tedesca e ai paesi slavi. A questo proposito va notato che la presenza di Janàcek resta isolata e anomala in questo capitolo, cui peraltro crono­ logicamente appartiene; ma sarebbe stata assai piu fuori luogo in appendice alle vicende ottocentesche delle scuole nazionali. Una giustificazione empirica, legata all’esigenza di evitare frammentazioni in paragrafi diversi, ha inoltre l’assenza del

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primo Schonberg, quello di Verkldrte Nacht o del poema sin­ fonico Pelleas und Melisande^ mentre Ravel è inserito in que­ sto capitolo soprattutto per comodità di esposizione, per ri­ cordarne le radici nello stesso humus culturale di Debussy.

[pp] 2. La musica francese da Claude Debussy a Maurice Ravel. Si è visto nei capitoli precedenti che la musica francese si va organizzando in una stratificazione di stili che si intreccia­ no fra loro (da quello della canzone popolare a quelli dell’ope­ retta e dell’opera, a quelli della tradizione sinfonica e da ca­ mera). Su questa stratificazione si inseriscono, negli ultimi an­ ni del secolo, le nuove proposte dei musicisti di una genera­ zione piu giovane: anzitutto quelle di Claude Debussy e, qual­ che anno più tardi, quelle di Maurice Ravel. Accanto a questi due nomi di spicco altri se ne affiancano di compositori di buon livello, in vario modo legati alle nuove tendenze, come ad esempio quelli di Paul Dukas e Albert Roussel. Un posto a parte spetta infine ad Erik Satie, la cui singolare e bizzarra fi­ gura di ideologo provocatore si lega in maniera particolare a certe tendenze dell’avanguardia emerse nel secondo decennio del Novecento, anche se per ragioni di datazione e di biogra­ fia le sue origini culturali sono comuni a quelle dei musicisti di cui ci stiamo occupando. Gli anni formativi di Claude Debussy (Saint-Germain-enLaye 1862 - Parigi 1918) si collocano in una atmosfera straor­ dinariamente ricca e stimolante: quella della Parigi dell’arte impressionista e post-impressionista e di scrittori come Mal­ larmé, Verlaine, Rimbaud, Huysmans. Non c’è da stupirsi se per la sua maturazione il rapporto con gli ambienti musicali fu meno decisivo di quello con artisti e poeti (anche se il Conser­ vatorio gli diede una solida preparazione tecnica) e in senso più generale con lo stile di vita «eterodosso» dell’intellettua­ lità parigina. Paul Dukas ebbe ad osservare che la più forte in­ fluenza ricevuta da Debussy era stata quella dei letterati, non dei musicisti. La base di partenza su cui si innesta l’esperienza composi­ tiva di Debussy è naturalmente quella offerta dalle opere dei musicisti francesi della generazione precedente e, più ampia­ mente, dalla tradizione musicale europea della seconda metà del secolo, da Wagner in primo luogo. Il Tristano, opera capi­ tale per le poetiche decadentistiche e simbolistiche, anche sul

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piano letterario, è al tempo stesso una pietra miliare dal punto di vista delle tecniche compositive. Si afferma comunemente, puntando forse indebitamente sul solo aspetto del linguaggio armonico-tonale, che il cromatismo del Tristano preannuncia la dissoluzione delle secolari convenzioni di strutturazione del suono che va sotto il nome di sistema tonale e a quell’opera capitale si usa fare riferimento per cercare le origini di tutti gli aspetti innovativi della musica tardo ottocentesca. Ma per quanto riguarda Debussy le sue relazioni con l’armonia wa­ gneriana sono in un certo senso indirette, o meno dirette che in altri casi. Wagner in questo caso non agisce tanto come modello spe­ cifico quanto come stimolo alla libertà, come strumento di di­ sinibizione nei confronti della tradizione. Nel caso di Debus­ sy la libertà dai vincoli del sistema tonale e dai modelli teorici di scala (maggiore e minore) su cui esso si basava, passa anche certamente attraverso l’uso della scala cromatica a dodici suo­ ni, ma non solo attraverso quello: impiega per esempio scale arcaiche (modali) di tradizione medievale, scale difettive (a cinque o sei suoni) di tradizione orientale o ispirate alla tradi­ zione orientale, o anche semplicemente moduli melodici non formalizzati in sistemi di scale storicamente codificati, ma ugualmente tendenti a uscire dai limiti delle leggi fissate dalla musica occidentale. In altri termini, non solo il cromatismo di Wagner, ma anche suggestioni «esotiche» agiscono potentemente sulla fantasia compositiva dell’autore. L’armonia debussiana, il suo uso degli accordi codificati dalla tradizione tonale, tiene conto di queste intrusioni e si adatta alla loro presenza de­ formando cosi il sistema sintattico dei concatenamenti fra ac­ cordi e delle attese prefissate del passaggio fra un accordo e l’al­ tro. In altri termini vengono modificate quelle che si chiamano in gergo le « funzioni» tradizionali degli accordi, la loro capaci­ tà di stabilire premesse e conseguenze prevedibili. Ma se questo sistema di armonia «non funzionale» può avere alcuni presupposti nel linguaggio wagneriano, esistono invece nella musica di Debussy altre caratteristiche che si pos­ sono considerare volutamente o addirittura polemicamente anti wagneriane: la discrezione espressiva, il dire per allusio­ ni, il suggerire per sottointesi, è agli antipodi di quella ridon­ danza, di quell’uso enfatico della ripetizione che Debussy nei suoi scritti critici rimproverava a Wagner in termini di pedan­ teria teutonica. In questo caso la «francesità» delle scelte debussiane, usata ideologicamente come antidoto nazionalisti­

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co, ha la funzione benefica di stimolo all’invenzione di modu­ li stilistici nuovi: ad esempio la limpida leggerezza del tessuto sonoro, intuita come rivendicazione di originalità nazionale, si tramuta in raffinatissime tecniche di strumentazione, in in­ novazioni spesso radicali che anticipano soluzioni poi riprese e valorizzate nel Novecento; si può ricordare ad esempio la frammentazione dell’orchestra in gruppi solistici, l’uso accor­ to di modi d’attacco rari {frullati, tremoli, suoni armonici), il potenziamento di strumenti particolari come celesta, arpa, piccole percussioni inconsuete, ma soprattutto il fatto che in molti casi le soluzioni timbriche non sono subordinate a quel­ le melodiche o armoniche, non servono ad «abbellire» o a evi­ denziare strutture preesistenti, ma diventano esse stesse ele­ mento primario e luogo centrale dell’invenzione. Altrettanto in linea con la tradizione francese è il tratta­ mento debussiano della declamazione vocale, che ricalca con grande scrupolo di fedeltà nei profili melodici e nelle inflessio­ ni ritmiche gli accenti e le durate della parola parlata. Le mo­ tivazioni di questo orientamento sono ovviamente di natura espressiva: si tratta di un modo di evitare il tono «alto» della declamazione poetica e di avvicinarsi a una sorta di «prosa» colloquiale, di discorso confidenziale e intimo che trova il suo atteggiamento più appropriato nel sussurro e nella mezza vo­ ce. I capolavori degli anni Novanta {Cinq poèmes de C. Baude­ laire, 1887-89; Fétes galantes, 1892; Chansons de Bilitis, 18971898), che in un certo senso preparano al momento culminan­ te di Pelléas et Mélisande, sono una dimostrazione ulteriore di una scelta di campo antagonista rispetto ai modelli di decla­ mazione del melodramma di tradizione italiana o francese e soprattutto del teatro di Wagner. A questa descrizione sommaria di alcuni tratti salienti delle scelte stilistiche di Debussy nel periodo della sua prima matu­ rità va aggiunto infine un accenno alla sua concezione della forma musicale. Anche in questo caso non si può prescindere dalla eredità europea che egli raccoglie, sintetizza e riorganiz­ za in modi personali. La libertà formale che Debussy persegue trova antecedenti nel poema sinfonico, cosi come negli sche­ mi rapsodici e fantastici del pianismo di Liszt e nell’arte del­ l’arabesco chopiniano, mentre rifiuta l’ancor viva e fertilissi­ ma prassi tedesca dello sviluppo motivico che accusa di pe­ danteria. Nei confronti di Wagner, come sempre amato e odiato, si ripresentano anche in questo campo i soliti rapporti di inconfessata fascinazione e di fin troppo esibito fastidio.

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fig. 26

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Nel Prélude à raprès-midi d'un faune (1892-94) restano trac­ ce evidenti di «tematismo» (se non altro perché la melodia iniziale del flauto, tante volte ribadita nel corso della compo­ sizione, funge da vera e propria idea ricorrente e appunto te­ matica) e tracce di partizione formale nella divisione in tre zo­ ne con un episodio centrale di carattere e contenuto diverso dai due episodi laterali. Ma al tempo stesso Debussy ricorre a una quantità di smentite e occultamenti di questa chiarezza e proporzione di forme: l’idea principale si mescola ad altri mo­ tivi ed episodi, ciascuno emergente a tratti senza regolarità prevedibili, e la stessa divisione in tre parti è continuamente messa in dubbio da caratteristiche sonore che non la rafforza­ no ma tendono piuttosto a suscitare il dubbio di altre divisio­ ni possibili. In opere strumentali successive, nei Nocturnes (1897), 1° La mer (1903) e in Images (1905) il gioco degli occultamenti formali si fa ancora piu sapiente. Il flusso sonoro si addensa in immagini che solo a tratti acquistano consistenza tematica e profili precisi e definibili e raramente il tempo è diviso in par­ ti proporzionate ben memorizzabili e percettivamente ricono­ scibili. E vero che un esame più accurato dei testi debussiani ha messo recentemente in luce come un calcolo di proporzioni esista e abbia anche proprietà simmetricamente precise, ma è anche vero che Debussy evita sempre di metterlo in rilievo e di renderlo evidente all’ascolto. Il risultato è quello di una sorta di atomizzazione del discorso, di suddivisione del testo in brevi frammenti ciascuno dei quali gode di una propria re­ lativa indipendenza. Proprio questo problema della strutturazione formale ha suscitato da sempre la questione della interpretazione della musica di Debussy in termini di «impressionismo». Già nei primi anni di carriera, quando l’autore, vincitore del famoso Prix de Rome (un premio di soggiorno a Roma che veniva concesso per concorso a studenti del conservatorio di Parigi), inviava ai suoi maestri gli schizzi compositivi che egli veniva elaborando durante la sua dimora in Italia, alcuni dei membri della commissione che l’aveva premiato osservavano con dif­ fidenza che il suo metodo compositivo stava assumendo carat­ teri troppo «impressionistici». In quell’occasione la parola non veniva usata in riferimento al famoso gruppo di pittori al­ lora al centro dell’attenzione, ma piuttosto per affermare che le sue musiche procedevano per immagini sonore fra loro qua­ si dissociate e non per temi e sviluppi connessi da ragioni di

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continuità. E ciò infastidiva i buoni docenti della scuola. Questa accusa si trasformò in seguito nell’osservazione, molto diffusa nella letteratura critica del primo Novecento, che la musica di Debussy procedeva per «macchie» sonore. Proba­ bilmente da questa metafora della macchia non era lontano il richiamo ai modi pittorici degli impressionisti i quali (anche se non si definivano «macchiaioli» come i loro corrispondenti italiani) usavano tuttavia il colore come strumento principale di elaborazione del quadro e lo preferivano al disegno lineare. In anni recenti l’uso dell’etichetta di «impressionismo» è diventato tuttavia piu problematico e meno generico. Ci si è chiesti quali piu profonde relazioni di intenzione espressiva esistessero di fatto fra Debussy e gli impressionisti: per esem­ pio si è osservato come quei pittori usino spesso dividere il co­ lore in piccoli frammenti accostati che osservati nel loro insie­ me producono effetti ottici cangianti e luminosi, e ci si è chie­ sto se questa tecnica possa essere accostata al modo debussiano di trattare l’orchestra (che è analogia talora discutibile, ma talora tutt’altro che infondata). Ci si è anche chiesto, e anche in questo caso con risposte parzialmente positive, se la ten­ denza degli impressionisti a fissare sulla tela attimi fuggenti e irripetibili (la luce colta in un momento particolarissimo del paesaggio e della giornata) non abbia a che fare con le atmo­ sfere sonore che Debussy fissa attimo per attimo nella sua partitura. Ma si è andati anche oltre. Ci si è chiesto ad esempio se non fosse assai piu pertinente parlare di legami con le poeti­ che simboliste piuttosto che con quelle della pittura impres­ sionista. E in questo caso le risposte sono state francamente positive. In particolare si è osservato come esistano analogie profonde fra la parola ambigua dei poeti simbolisti (di Mallar­ mé in particolare), la parola deviata verso accezioni improprie rispetto all’uso comune, ma tali da suscitare miriadi di conno­ tazioni e suggestioni, e le immagini sonore di Debussy, che sempre suggeriscono potenziali significati, ma mai li defini­ scono pienamente. A questo proposito sono indicativi i due li­ bri di Preludi per pianoforte (19io-13) dove la suggestione del titolo (Le vent dans la piaine, Les collines d’Anacapri, La catte­ drale engloutie, Peuilles mortes, ecc.) è collocata alla fine del pezzo e non all’inizio, come si usa comunemente. E ancora si è osservato come le immagini sonore di Debussy (cosi come quelle verbali e visive dei poeti e dei pittori) rispondano all’i­ dea tipica delle poetiche simboliste secondo la quale ogni im­

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magine artistica non imita e non riflette le apparenze del mon­ do, ma rinvia suggestivamente ad un mondo «altro», diverso da quello comune ed apparente, ad un mondo che sfugge mi­ steriosamente ai nostri strumenti di conoscenza. Il lavoro debussiano piu tipico, da questo punto di vista, è parso Pelléas et Mélisande, anche perché si legava ad un testo del maggiore esponente del teatro simbolista, Maurice Mae­ terlinck (scrittore che, sia detto per inciso, fu particolarmente amato dai musicisti nei decenni a cavallo fra i due secoli: a suoi testi si ispirano, oltre a Debussy, Dukas e Fauré, anche Schonberg, Zemlinsky e Sibelius, e perfino Webern per pro­ getti non realizzati): nel suo dramma, che Debussy musicò di­ rettamente in prosa, senza neppur pensare ad una trasposizio­ ne librettistica (ma compiendo alcuni tagli significativi), il compositore potè scorgere una totale congenialità. Esso coin­ cideva infatti con l’ideale che Debussy aveva descritto in un famoso colloquio con Guiraud del 1889, parlando di un poeta che «dicendo le cose a metà, mi consentirà di innestare il mio sogno sul suo; che concepirà personaggi la cui vicenda e la cui dimora non appartengono ad alcun tempo, ad alcun luogo... personaggi che non discutono, ma subiscono la vita e il desti­ no». Non sorprende che Debussy decidesse di comporre il Pelléas subito dopo aver conosciuto il dramma, su cui lavorò, in diverse riprese, tra il 1893 e il 1902. La data della prima rappresentazione (Parigi, Opéra-comique, 30 aprile 1902) se­ gna anche l’inizio delle vicende del teatro musicale novecen­ tesco. Fra i caratteri più emblematicamente moderni del Pel­ léas c’è il rifiuto del canto spiegato, che si traduce in una de­ clamazione vocale di estrema sobrietà, affine a quella che si è descritta a proposito delle liriche per canto e pianoforte. La sensibilissima sottigliezza di questa declamazione spegne e de­ pura ogni aspetto eroico, ogni carica vitale del dramma musi­ cale wagneriano: di Wagner semmai si possono cogliere lonta­ ni echi dei colori del Parsifal nella mirabile scrittura orchestra­ le, alla cui mobilità inventiva sono affidate molte suggestioni decisive del capolavoro teatrale di Debussy. Esso rimane uni­ co: un progetto dal Crollo della Casa Usher di Poe occupò il compositore negli ultimi anni; ma l’opera non va oltre alcuni abbozzi. La scelta di Poe si lega comunque ad uno degli scrit­ tori più amati da Debussy e getta luce anche sul suo modo di leggere il Pelléas di Maeterlinck. Le altre sue esperienze tea­ trali comprendono due balletti, Khamma e il fondamentale

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JeuXy e le musiche di scena per il Martyre de Saìnt-Sébastìen (Parigi 1911) di D’Annunzio. Ritornando ora ai rapporti tra Debussy e l’impressionismo, il simbolismo, l’Art Nouveau o altri aspetti dell’arte dell’epo­ ca (dai preraffaelliti a Turner) dai quali egli accolse suggestio­ ni con sensibilità apertissima, si nota che la sua musica sfugge a etichette troppo esterne ad essa e troppo vincolanti, come «impressionismo» e «simbolismo», che si creano sulla base di linguaggi diversi da quello musicale. Debussy ha certo a che fare con le tendenze artistiche della sua epoca, ma le ritraduce nei termini specifici del linguaggio sonoro. In ultima analisi tutto ciò che s’è detto deve fare i conti con la forma musicale e in particolare con il suo compito specifico, che è quello di organizzare la costruzione del tempo, dal momento in cui un brano comincia al momento in cui si conclude. Da questo punto di vista Debussy altera radicalmente il senso classico e romantico del tempo basato sulla enunciazione iniziale di for­ mule fondanti (i «temi»), sul loro sviluppo logico, sul loro in­ treccio e sulla loro conclusione o trasformazione finale. Il tempo in questi casi era occupato da una concatenazione coe­ rente di eventi, da una solida razionalità interna, da attese che via via venivano procrastinate, ma che alla fine trovavano un esaudimento. Nulla di tutto questo in Debussy, per il qua­ le il tempo è invece scisso in istanti più o meno duraturi, ma sempre caduchi, in momenti che non rinviano necessariamen­ te a momenti successivi, e arriva a conclusioni che in molti ca­ si non concludono affatto, ma si dissolvono per estinzione. Tutta la tecnica di Debussy (l’assenza di armonie «funziona­ li», la proliferazione delle immagini, l’occultamento delle sim­ metrie e dei ritorni tematici) sembra volta a creare nell’ascol­ tatore questo senso di caducità del tempo, di dissoluzione de­ gli istanti, di perdita della continuità. Ed è questo forse l’ap­ porto più originale del musicista all’estetica del «mistero» ti­ pica del simbolismo. Tale apporto non viene meno neppure nelle opere degli ul­ timi anni, quando gradualmente si attenua o scompare del tutto il ricorso alle suggestioni immaginarie tipiche del reper­ torio simbolistico. Il balletto Jeux, ad esempio (1913), che fu eseguito a Parigi dalla compagnia di Djagilev, descrive provo­ catoriamente una partita di tennis in costume sportivo. Cosf le ultime opere da camera (le tre Sonate per violoncello e pia­ noforte, per flauto viola e arpa, per violino e pianoforte, 1915-17), si astengono dai titoli tipici della maniera precèden­

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te, e assumono apparenze più asciutte e quasi implicitamente neo-classiche. Ma il loro contenuto non muta, il gioco formale resta identico. Gli avvenimenti clamorosi della vita musicale parigina di quegli anni distrassero l’attenzione dalle sottili e sapienti pro­ poste debussiane. Solo cinquantanni dopo ci si accorse di quanto l’intera musica del Novecento dovesse a questo suo grande padre. Al di là tuttavia delle sue anticipazioni profetiche, l’in­ fluenza più visibile e diretta di Debussy sulla musica francese e più generalmente sulla musica europea dei primi decenni del Novecento fu assai rilevante. Lo stesso Maurice Ravel (Ciboure 1875 - Parigi 1937), che pure fu musicista di forte indi­ vidualità, deve i fondamenti del suo linguaggio alla conoscen­ za delle opere debussiane degli anni Novanta (l’incontro con il Pomeriggio d’un fauno fu per lui straordinariamente rivela­ tore), al punto che Ravel fu inizialmente considerato dai suoi contemporanei come una sorta di seguace (e da alcuni come una sorta di rivale) di Debussy. Ciò gli creò non poche diffi­ coltà, sia perché Debussy era ancora in odore di eresia per la maggioranza dei musicisti e del pubblico (e per la maggioran­ za forte, che deteneva le leve del potere istituzionale), sia per­ ché Ravel stesso, per ragioni elementari di autoidentificazio­ ne, non poteva accettare pacificamente una collocazione che rischiava di mettere in ombra la sua originalità. Nei confronti del mondo musicale ufficiale Ravel ebbe ini­ zialmente rapporti non facili: nel 1905, ad esempio, gli fu ri­ fiutato il Prix de Rome nonostante egli fosse ormai un artista ben noto nell’ambiente parigino (e il clamore che ne segui eb­ be fra l’altro strascichi vistosi, perché Theodore Dubois, di­ rettore del Conservatorio, dette le dimissioni cedendo il posto a Gabriel Fauré). Più tardi, nel 1910, Ravel, per aggirare gli ostruzionismi che trovava nella Société Nationale de Musique (la già ricordata organizzazione di concetti fondata da SaintSaèns per favorire le esecuzioni di musica francese, ma ormai legata a un pubblico di gusti tradizionali), riuscì a convincere un gruppo di giovani musicisti, quasi tutti come lui allievi di Fauré, a fondare una nuova associazione, la Société Musicale Indépendante, che doveva avere scopi analoghi, ma tendenze più avanzate, e che rimase poi attiva e fiorente anche nei de­ cenni successivi. Lo stesso Fauré ne fu eletto presidente. Nonostante questi episodi, il rispetto di Ravel per la tradi­ zione francese ottocentesca e per i suoi rappresentanti ancora

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attivi fu sempre vivo: a parte la grande stima per Fauré (che peraltro era ampiamente ricambiata) egli dimostrò piu volte apprezzamento per lo stesso Saint-Saèns o per Massenet. Un po’ meno per d’Indy, che ai suoi tempi godeva di un prestigio di «caposcuola» assai maggiore di quello che poi gli fu conces­ so dagli storici dell’epoca successiva. Quanto a Debussy egli lo considerò sempre con grande ammirazione, anche se le sue relazioni personali con lui non furono particolarmente strette; ma ciò fu probabilmente dovuto alle spiacevoli conseguenze di campagne d’opinione inopportunamente fomentate dai so­ stenitori dei due personaggi. Con i musicisti della sua genera­ zione invece, con Stravinskij in primo luogo, ebbe rapporti di sincera solidarietà, e dimostrò curiosità e apprezzamento an­ che per compositori apparentemente a lui lontani come Schonberg e gli altri rappresentanti della scuola viennese. In realtà Ravel fu sempre un formidabile assimilatore, e non solo degli stili musicali a lui vicini, ma anche di molti aspetti della tradizione: alla musica rinascimentale e barocca dedicò più d’un omaggio (ad esempio nel 1899 la Pavane pour une infante défunte e nel 1917 Le tombeau de Couperin)-, al folklore spagnolo si ispirò innumerevoli volte (basterà ricorda­ re la Rapsodia spagnola del 1908 e il famoso Bolero del 1928); per la musica russa ebbe sempre un’attenzione particolarissi­ ma, ad esempio per la strumentazione di Rimskij-Korsakov e per la declamazione parlata e prosastica di Musorgskij (per non ricordare la fin troppo nota trascrizione orchestrale dei Quadri di un'esposizione); alla tradizione viennese dedicò più d’un’opera, a cominciare dai Vaises nobles et sentimentales del 1911; per lo stesso jazz ebbe orecchie estremamente attente e le tracce di quest’attenzione si trovano in parecchi episodi dell’opera l’Enfant et les sortilèges 1920-25 (che è una sorta di virtuosistica manipolazione di stili diversi) oltre che nella So­ nata per violino e pianoforte del 1927. Ma al di là di questi esempi evidenti si può dire che tutta la sua musica è costantemente percorsa da una ramificazione fitta di memorie e di al­ lusioni che vanno dagli esotismi orientali al folklore basco, al­ la tradizione pianistica lisztiana (in Jeux d'eau per esempio) al­ le esperienze politonali o atonali dei musicisti suoi contempo­ ranei. Questa vocazione assimilativa, non certo presente in De­ bussy, è un sintomo chiaro del cambiamento dei tempi. Nelle mani di Ravel la musica sembra rinnovare il suo statuto este­ tico: da strumento di manifestazione dei moti dell’animo si

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muta a poco a poco in strumento di compiaciuta elaborazione del lessico musicale: il gioco sottile dei riferimenti a un sapere culturale amato e memorizzato diventa oggetto specifico dell’attenzione. In altri termini, il linguaggio, secondo una pro­ spettiva caratteristica dell’arte colta del Novecento, tende ad assolutizzarsi, a trasformarsi da strumento d’espressione in contenuto dell’espressione. Le premesse di questa trasforma­ zione erano del resto implicite nella stessa poetica del simbo­ lismo letterario: le alchimie verbali di Mallarmé, ad esempio, il suo sforzo di raggiungere vertici di assoluta purezza stilisti­ ca, di liberare la sua poesia dalle scorie del «vissuto», sono una sorta di glorificazione della parola, un gioco quasi astratto di rinvìi semantici basati sulle facoltà evocative dello stru­ mento significante. Ma altri indizi esistono di questa vocazione di Ravel a identificare la sua personalità d’artista nel piacere della scrit­ tura piu che nella confessione intima. La sua ritrosia di uomo, ad esempio, era proverbiale ai suoi tempi, e altrettanto pro­ verbiale era la sua altissima, quasi maniacale coscienza d’arti­ giano. Esistono innumerevoli testimonianze dei suoi allievi che descrivono il suo metodo di lavoro e d’insegnamento co­ me caratterizzato dalla passione invincibile di offrire al pub­ blico opere totalmente rifinite, pulite fin nei minimi partico­ lari. Gli scarsi appunti manoscritti che ci sono rimasti confer­ mano tali testimonianze, pieni come sono di piccole rifiniture, di modifiche, di abolizioni o sostituzioni di note. Non c’è dunque da stupirsi che il suo ben noto amore del paradosso lo portasse una volta a definire la musica come una sorta di «me­ ravigliosa impostura», dove il secondo termine sottolinea iro­ nicamente il distacco critico fra il Ravel musicista e il Ravel uomo. La sua fantasia e il suo stesso calore comunicativo sem­ brano svegliarsi proprio a contatto con i problemi artigianali a cui Ravel si dedica con la pazienza e l’entusiasmo di un mi­ niatore antico. Ciascuno degli aspetti della scrittura musicale lo interessa da vicino: l’armonia, il profilo melodico (sempre netto e ben distinto da quello debussiano che invece è ricco di sfumature e di indeterminazioni), la declamazione verbale, gli intrecci polifonici, ricevono uguale cura e uguale attenzione. Ma la sua passione predominante si riferisce alla materia sonora e in particolare al trattamento dell’orchestra. E su questo terreno che la sua creatività diventa inesauribile. Gli strumenti si tra­ sformano e assumono capacità di comunicazione inedite: ba­

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sti pensare al saxofono de II vecchio castello dai Quadri di un'e­ sposizione o al flauto che in certi episodi delle Chansons madécasses del 1926, per voce e complesso da camera, è utilizzato per evocare sonorità lontane di trombe. Se dunque l’ambiente culturale nel quale Ravel si forma è quello parigino del decadentismo e del simbolismo, indelebil­ mente segnato dai modelli creati dalla fantasia debussiana, e se a questa cultura, alle sue suggestioni, alle sue ideologie, Ra­ vel continua a rimanere fedele fino alla conclusione della sua carriera, la sua produzione musicale si ritaglia tuttavia, all’in­ terno di questo ambiente, uno spazio inconfondibile, caratte­ rizzato dal distacco fra l’intimità del mondo personale e l’oggettività della sua realizzazione sonora. In alcuni casi tale di­ stacco assume connotazioni chiaramente ironiche, talora più pungenti come nella commedia in musica L'heure espagnole (1907-08), talora più tenere come nei brani dedicati al mondo infantile (citiamo a titolo d’esempio Ma mère l'Oye, 1908), o al mondo fantastico degli animali (Histoires nature lies, 1906, per voce e pianoforte). In altri casi assume invece connotazio­ ni drammatiche, ma di una drammaticità austera, senza inviti alla commozione, come avviene per esempio nel Bolero, nel poema coreografico La valse, 1920-25; o nel Concerto per la mano sinistra (1930). In Daphnis et Chloé (1912) Ravel rende omaggio al mito greco, che è uno dei temi più amati dalla cul­ tura simbolista, disegnandone i profili con la consueta infalli­ bile precisione e con un entusiasmo che fa di questo balletto una delle sue musiche più fortunate. Non è forse improprio pensare che tale entusiasmo sia l’en­ nesima manifestazione del suo amore assolutizzante per quel­ lo che egli chiamava il «regno della bellezza» e che noi po­ tremmo definire come memoria delle fantasie dell’uomo og­ gettivate nelle raffigurazioni artistiche. E il mito greco, arche­ tipo di una tradizione costantemente presente nella storia d’Europa, aveva quasi il potere di sintetizzarle tutte. Si è già ricordata, all’inizio di questo paragrafo, la figura di Paul Dukas (Parigi 1865-1935) come una delle voci più rap­ presentative del gusto musicale francese agli inizi del secolo. Nell’estrema esiguità del suo catalogo, conseguenza di un fe­ roce spirito di autocritica, spicca, accanto ad una vasta sonata pianistica (1901), l’unica opera teatrale, Ariane et Barbe-Bleue su testo di Maeterlinck (Parigi 1907). Vi si colgono suggestio­ ni del Pelléas\ ma anche di Franck e Wagner. Dukas infatti, che di Debussy fu amico ed ammiratore, non ne condivise il

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radicalismo: la sua scrittura vocale non rifiuta i grandi archi melodici, i suoi temi si profilano con incisiva plasticità e si in­ trecciano in svolgimenti sinfonici compatti. Agli antipodi della raffinatezza timbrica e della ricchezza della scrittura orchestrale che Dukas condivise con Albert Roussel (1869-1937) o con altri autori significativi fioriti sulla scia di Debussy, come Charles Koechlin (1867-1950, allievo di Fauré e autore di un vasto affresco sinfonico in 4 parti, Le li­ vre de la jungle, ispirato a Kipling), in una dimensione provoca­ toriamente isolata si colloca l’esperienza di Erik Satie, [mb]

3. Erik Satie e Parte povera. Erik Satie (Honfleur, Calvados, 1866 - Parigi 1925) condi­ vide della generazione di Debussy, cui appartiene, forse sol­ tanto certe inclinazioni mistico-esoteriche (nel 1891-92 fu maestro di cappella dell’ordine Rosa Croce di Sar Péladan). Nella sua solitaria povertà, scelta ed accettata come scudo protettivo contro la corruzione ed il compromesso, confortata dall’amicizia e dalla stima di Debussy e poi da quella di Ravel, anticipò atteggiamenti compositivi e poetici condivisi poi dal­ l’avanguardia francese degli anni Venti. Quando fu scoperto e lanciato nel mondo musicale da Ravel, attorno al 1910, aveva alle spalle una produzione compositiva avviata all’insegna di uno sperimentalismo armonico arcaicizzante e neo-modale e da un’ispirazione gotico-misticheggiante (Ogives, 1886; Gymnopédies, 1888; Gnossiennes, 1889-91; Danses Gothiques, 1893; Pages mystiques, 1899-95) e populista (Messe depauvres, 1895) tosto apertasi ad una vena ironica palese fin dal titolo (Trois morceaux en forme de poire, vyyy, «poire» significa tan­ to «pera» che «sciocco» in gergo) ed alla stilizzazione della musica da intrattenimento (Poudre d'or, 1900 ca); Satie in quegli anni, per campare, si produceva come accompagnatore e compositore di canzoni (la famosa Diva de PEmpire, 1900 ca) nei cabarets di Montmartre. Dopo un periodo di perfezionamento compositivo presso la «Schola cantorum» - istituzione antiaccademica e antagoni­ sta al Conservatorio - in cui consolidò la sua preparazione specialmente contrappuntistica, negli anni compresi tra il suo lancio nel mondo musicale e Parade, la produzione di Satie as­ sume vieppiù caratteri ironici e satirici, evidenti già fin nei ti­ toli umoristici (Embryons desséchés, Chapitres toumés en tout

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sens, 1913; Sports et divertissements, Les trois valses distinguées du précieux dégoùté, 1914) e resi espliciti, all’interno dei brani, oltreché dai contenuti musicali talora decisamente parodistici (la Sonatine bureaucratique, del 1917, parodia della famosa So­ natina op. 36 n.i di Clementi) da commenti letterari distri­ buiti tra i righi. Furono proprio queste caratteristiche «etiche» della sua ar­ te musicale, questo ideale di una Nuova Semplicità, con i suoi annessi e connessi ideologico-creativi (antiborghesismo, sar­ casmo, antipsicologismo, quotidianità, oggettività) a far si che Cocteau nel manifesto del «Gruppo dei Sei», Le Coq et VArlequin, lo additasse come esempio da imitare e lo eleggesse ca­ po carismatico di quel sodalizio. Il «Gruppo dei Sei» si sciolse alla vigilia della morte.di Sa­ tie, nel 1924, ma erano già alcuni anni che il maestro, amareg­ giato dalle incomprensioni e dai tradimenti, si era messo in di­ sparte. La vicenda dei Sei per lui ebbe un breve corso di quat­ tro o cinque anni; si consumò tra Parade (1917) e Socrate (1920), opere provocatorie entrambe, entrambe accolte con fischi e lazzi, ma opere diverse, opposte. Il «balletto realista» Parade è un’opera-manifesto provocatoria nel suo improbabile «realismo», nella rappresentazione di una realtà straniata da music-hall e da circo congestionata di suoni, rumori e compa­ rizioni di personaggi senza ruolo né parte. Socrate è un «dram­ ma sinfonico» (vale a dire accompagnato da consonanze «sin­ foniche» secondo la teoria greca: quarte, quinte e ottave) au­ tobiografico e introverso in cui Satie ormai vecchio e malato con un atto di malinconico e stanco narcisismo contempla la figura di Socrate, specchiandosi in essa, ne rievoca la morte prefigurando la sua, servendosi dei sacri testi di Platone tra­ dotti da Victor Cousin, di una declamazione sillabica e di un accompagnamento ripetitivo e ostinato. Prima di morire scrisse ancora la musica per Mercure e Relache, quest’ultimo su soggetto, scena e costumi di Picabia, la­ vori teatrali che manifestavano l’adesione alla poetica dadai­ sta, la fedeltà di Satie ad una concezione provocatoria dell'ar­ te d’avanguardia, in un ambiente culturale che, ormai saturo e stanco di sperimentalismi e provocazioni, si stava orientan­ do verso tendenze più costruttive. Il pauperismo musicale di Satie, surclassato in Francia da queste nuove tendenze, trovò una sua continuazione sul suolo americano, ad opera di Virgil Thomson che, tornato in patria dopo gli anni di apprendistato parigino, oltre a promuovere

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diverse esecuzioni di Socrate, si dedicò egli stesso, specialmen­ te nei lavori in collaborazione con la Stein, ad un’arte musica­ le spoglia e ripetitiva, aprendo la strada ad esperienze succes­ sive come quella di Cage. [gv] 4. Gustav Mahler, Richard Strauss e la musica austriaca e tedesca.

Si è soliti identificare con una data precisa l’irrompere del «moderno » nella musica dei paesi di lingua tedesca: è la data della prima esecuzione del poema sinfonico Don Juan di Ri­ chard Strauss, diretto dall’autore a Weimar nel novembre 1889. Pochi giorni dopo a Budapest Mahler presentò la sua Prima sinfonia (composta tra il 1885 e il 1888), allora intitola­ ta Titan e definita «poema sinfonico in forma di sinfonia». Nel 1888 inoltre Mahler aveva scritto un poema sinfonico, Totenfeier (Rito funebre) che sarebbe poi divenuto il primo tempo della Sinfonia n. 2 ; a sua volta Strauss tra il 1886 e il 1898 dedi­ cò al poema sinfonico la maggiore attenzione. I primi capola­ vori di Gustav Mahler (Kaliste, Boemia, i860 - Vienna 1911) e Richard Strauss (Monaco 1864 “ Garmisch 1949) sembrano dunque appartenere allo stesso genere; ma questa coincidenza documenta soltanto la fortuna della «musica a programma» nel mondo tedesco degli ultimi decenni del secolo, la diffusio­ ne delle idee di Wagner sul «problema sinfonico », sull’eredità di Beethoven e sulla «necessità» di un contenuto poeticomusicale. La riflessione su queste idee, certamente determi­ nanti a fine secolo, stimolò Mahler e Strauss a chiarire in dire­ zioni diverse l’autonomia della propria posizione. Mahler revocò il titolo e il programma della Prima sinfonia, diede un seguito a Totenfeier con la sua Seconda (1888-1894), di cui pure rese inizialmente noto e poi ritirò il «programma», si comportò in modo analogo con la Terza sinfonia’, non per ca­ so proprio all’epoca della composizione di questo lavoro (1895-96) la riflessione mahleriana sull’argomento giunse a compiuta chiarezza. Nel 1895 Mahler ebbe a dire che per lui scrivere una sinfonia significava «costruire un mondo con tut­ ti i mezzi tecnici a disposizione», e in una famosa lettera al critico praghese Richard Batka, del 18 novembre 1896, scris­ se a proposito della sua concezione della musica: «Essa è per me sempre e in ogni caso soltanto suono della natura (Naturlaut)\... Non riconosco altro genere di programma, almeno per

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le mie opere». Le sinfonie di Mahler si collocano al di là della contrapposizione musica a programma-musica assoluta, rifiu­ tando la dimensione riduttiva del riferimento programmatico, descrittivo, ma non resistenza di un «programma interiore», di una idea poetica. L’idea della musica come Naturlaut, come suono della natura, va intesa in un senso molto ampio, e ab­ braccia l’insieme dei vocaboli musicali che consentono di dare voce alla «natura come tutto» e di costruire con la sinfonia un intero mondo con tutti i mezzi disponibili. Tali vocaboli si ca­ ricano di tutte le associazioni, dirette o indirette, che appar­ tengono ad esempio alle marce, alle danze, alle tradizioni po­ polari, o colte, o di consumo; possiedono, insomma, la forza evocativa intrinseca al fatto che si presentano spesso come materiali noti, familiari, se non addirittura «banali», e co­ munque impregnati di un carattere di reminiscenza. Sono vo­ ci di una totalità aperta, non compatta e non conciliata, dove trovano posto linguaggi diversi e dove nel contesto colto ir­ rompono gli stili «subalterni». La concezione mahleriana del­ la musica come Naturlaut non si pone il problema della «mu­ sica assoluta» per la sua volontà stessa di «costruire un intero mondo», di dare concreta voce alla complessità e molteplicità di una esperienza del reale aperta e frantumata. Cosi nelle va­ ste e rigorose costruzioni delle sinfonie di Mahler si addensa­ no materiali eterogenei, trovano posto gesti parossisticamente teatrali e momenti di straziato intimismo, vocaboli di inno­ cenza «popolare» e banali musiche di consumo, reminiscenze di marce militari, stilemi da operetta, corali bruckneriani, im­ magini di vagheggiata bellezza o di feroce sarcasmo, dando vi­ ta ad organismi formali pensati secondo una logica sapiente e che pure sembrano esplodere in una caotica molteplicità, de­ finendo percorsi ambigui, aperti a direzioni diverse, ad un tempo musicale di libertà e duttilità orginalissime. La violen­ za esercitata sulla forma sinfonica tradizionale si manifesta nella coesistenza di un solido impianto costruttivo e di ele­ menti disgreganti, centrifughi, come bruschi dislivelli stilisti­ ci, dolorose lacerazioni, fratture emblematiche di una impos­ sibilità di conciliazione. L’opera di Mahler va letta anche alla luce del disgregarsi dei valori sui quali si reggeva il mito asbur­ gico, della condizione di instabilità dell’epoca che vide frana­ re inesorabilmente l’idea sovranazionale dell’impero e l’illuso­ rio cosmopolitismo culturale che ne era un riflesso. Ebreo boemo, Mahler proveniva dalla provincia dell’impe­ ro, aveva studiato al Conservatorio di Vienna dal 1875 al

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1878, nel 1880 aveva iniziato la carriera direttoriale e aveva portato a termine l’opera che può essere considerata l’atto di nascita del suo linguaggio, la «fiaba» per soli, coro e orchestra Das klagende Lied (Il canto del lamento e dell’accusa). Ante­ riormente alla Prima sinfonia aveva composto alcuni Lieder, fra i quali il ciclo dei Lieder eines fahrenden Gesellen che vi è citato. Dopo gli esordi gli unici generi musicali coltivati da Mahler furono Lieder (prevalentemente per voce e orchestra) e sinfonie, in un rapporto strettissimo, in un intreccio che è caratteristico della sua poetica. Apprezzato in molti ambienti più come direttore che come compositore, Mahler ottenne re­ lativamente presto, nel 1897, l’incarico forse di maggior pre­ stigio nel mondo musicale austro-tedesco, quello di direttore dell’opera di corte di Vienna. Nel decennio della sua perma­ nenza a capo di questo teatro (che lasciò nel 1907) Mahler fu una presenza molto incisiva nella vita musicale e culturale viennese, imponendo fra l’altro la sua concezione dello spet­ tacolo operistico come un tutto unitario, da studiare ed ap­ profondire coerentemente in ogni particolare musicale e sce­ nico. Il matrimonio con Alma Schindler, figlia di un pittore, nel 1901, lo pose inoltre in contatto con l’ambiente artistico viennese della Secessione: da qui nacque la sua collaborazione con Alfred Roller, cui Mahler affidò le scene di molti memo­ rabili allestimenti all’Opera. Questi nuovi rapporti sembrano coincidere con una svolta nella ricerca di Mahler, di cui converrà delineare brevemente il percorso, che presenta una singolare compattezza, un carat­ tere sostanzialmente unitario. Anche se la sua poetica si pro­ fila con originalità inconfondibile nella Prima sinfonia, l’idea della sinfonia come mondo appare più evidente nella comples­ sa ed eccentrica struttura della Seconda (dove il rito funebre iniziale e la visione conclusiva di un giudizio finale eterodos­ so, che trasforma la sinfonia in un messaggio di salvezza uni­ versale, inquadrano pagine di natura diversissima) e si impone in modo esplicito e coerente soprattutto nella Terza. Nel pro­ gramma che il compositore poi ritirò si parla del destarsi di forze primordiali, del dio Pan, di rocce, fiori, animali da bo­ sco, della notte e degli angeli, proponendo una immagine in­ genua di un utopico progetto di totalità dei linguaggi musicali, dove trovano posto marce, canti di bambini, solennità sacra­ le, stilemi dialettali o popolareggianti. Nel quarto tempo il contralto intona versi di Nietzsche (da Cosi parlò Zarathustra), nel quinto invece è musicata una semplice poesia popolare da

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Des Knahen Wunderhom (Il corno magico del fanciullo), la ce­ lebre raccolta di Arnim e Brentano, che ebbe un rilievo deter­ minante nella storia del Lied mahleriano fino al 1901, e da cui sono tratti anche testi inclusi nella Seconda e nella Quarta sin­ fonia. La scelta di queste poesie è del tutto anomala nella sto­ ria del Lied di fine secolo, per lo più legato a testi contempo­ ranei. I Lieder mahleriani dal Wunderhom hanno per protago­ nisti soldati e contadini, bambini, disertori condannati a mor­ te, diseredati e schiudono nel linguaggio musicale e nei carat­ teri poetici un mondo diverso da quello della seconda fase del Lied mahleriano, comprendente io Lieder su testo di Riickert composti tra il 1901 e il 1905, fra i quali i Kindertotenlieder (Canti dei bambini morti). Anche per questo si è soliti parlare di Wunderhom-Symphonien con riferimento alle prime quat­ tro e si individua un gruppo a sé nelle tre sinfonie successive. La schematica suddivisione implica discutibili approssimazio­ ni, ma non è priva di fondamento: Mahler stesso riteneva di aver compiuto una svolta con la complessità e densità del lin­ guaggio polifonico della Quinta (1901-902), con la sua logica strutturale sempre più rigorosa e stringata, capace di control­ lare T accumulazione di materiali eterogenei e di costringerla in strutture di serrata compattezza. Va sottolineato fra l’altro che la maturazione della scrittura contrappuntistica mahleriana comporta il delincarsi di una frantumata, analitica conce­ zione timbrica, che in nome di una esigenza di funzionalità e di chiarezza cerca di far percepire con la massima evidenza le singole voci della complessa architettura polifonica, appro­ dando ad una strumentazione ricca di geniali intuizioni, in una prospettiva che sarà oggetto di attenta riflessione da par­ te di Schonberg e dei suoi allievi. Rispetto alla lacerata com­ plessità e alle drammatiche tensioni di sconvolgenti edifici sinfonici come la Quinta, Sesta (1903-904) e Settima (19041905), fra loro diversissime, i Lieder su testo di Riickert se­ gnano i momenti del lirico raccoglimento. Anche nei Lieder sono essenziali la polifonia e la sottigliezza della scrittura stru­ mentale, ridotta a dimensioni quasi cameristiche e incline pre­ valentemente alla valorizzazione dei timbri puri. Essi appaio­ no determinanti nella definizione dello fugendstil funerario dei Kindertotenlieder come nelle struggenti tenerezze di altre pagine: nude linee strumentali, frammenti melodici nitida­ mente individuati vengono a comporre un discorso in cui la voce si inserisce come un altro strumento, stabilendo un rap­ porto complesso, tra rifrazioni e interrogazioni, tra immagini

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frantumate e irreali, che prefigurano talvolta il linguaggio dis­ solto del Lied von der Erde. In questa « Sinfonia di Lieder» del 1908-909 culmina l’intreccio mahleriano tra Lied e sinfonia con una sorta di originale fusione dei due generi. Prima tutta­ via V Ottava (articolata in due parti, l’inno Veni Creator e la scena finale del Faust di Goethe) segna nel 1906 un momento a sé: fu uno dei maggiori successi di Mahler per divenire poi una delle sue opere piu discusse, per la tensione utopico visio­ naria con cui vi trova espressione un anelito alla redenzione e alla ricomposizione delle lacerazioni. Con il Lied von der Erde, la Nona (1909-10) e l’incompiuta Decima Mahler giunge al suo «tardo stile»: procedimenti dissociativi investono diversi aspetti del suo linguaggio per dar vita ad una prosa musicale che sembra aprirsi liberamente ad un andamento frammenta­ rio e insieme definisce logiche costruttive nuove. Più che mai nell’ultimo Mahler il persistere della tonalità e di vocaboli no­ ti suscita l’impressione di una materia musicale liberata, in grado di dar vita ad aggregazioni aperte, come un collage di rovine, guardate nella prospettiva della memoria e accolte nel contesto dissolto come reminiscenze o citazioni. Nel primo tempo della Nona si definiscono inoltre funzioni polifoniche nuove, con linee melodiche che stabiliscono fra loro rapporti assai liberi in uno spazio musicale aperto. Mahler considerava se stesso l’inattuale per definizione, e vedeva invece nel collega Strauss (con cui ebbe cordiali rap­ porti personali e professionali) il «grande attuale». Come già si è ricordato l’apparizione del primo capolavoro di Strauss compiutamente rivelatore, il poema sinfonico Don Juan (com­ posto nel 1888) segna una data. Il Don Giovanni straussiano si ispira a Lenau, ma le suggestioni che il compositore accolse non vanno cercate in specifici episodi del testo: determinante è l’immagine di una vitalità erotica incessante, di uno slancio impetuoso che si brucia e si rinnova istante per istante. Come Don Giovanni, in Lenau, vorrebbe vivere ogni esperienza so­ lo nella magica intensità dell’attimo, di un sempre nuovo pre­ sente, cosf la musica straussiana si basa sul principio della sor­ presa, sul nervoso e mutevole accumularsi dei colpi di scena, su una trascinante inventiva, su una insaziabile sensualità so­ nora. Una lettera a Hans von Bùlow (che protesse e apprezzò Strauss e Mahler nella loro carriera direttoriale, guardandone invece con perplessità le opere) scritta il 24 agosto 1888, du­ rante la composizione del Don Juan, contiene significative riflessioni di Strauss sulla musica a programma: secondo

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Strauss, se l’opera «deve avere plasticamente efficacia sull’a­ scoltatore, bisogna che davanti agli occhi spirituali del pubbli­ co sia plasticamente evidente ciò che l’autore voleva dire. Ciò è possibile soltanto grazie alla fecondazione attraverso un’i­ dea poetica, che venga o non venga aggiunta all’opera come programma». Strauss appare consapevole della magistrale si­ curezza con cui la sua fantasia risponde ad ogni spunto imma­ ginifico, creando gesti di plastica evidenza. Con Don Juan si lasciò definitivamente alle spalle la formazione e le prime esperienze, di natura classicheggiante, post-brahmsiana (se­ guite da un accostamento a Wagner), e aperse la stagione dei poemi sinfonici, legati ciascuno ad una idea poetica; ma anche all’evidente preoccupazione di definire di volta in volta un progetto formale dotato di autonoma coerenza musicale, at­ traverso un ripensamento delle problematiche legate alla tra­ dizione sinfonica, in particolare quelle della forma sonata e del rondò, sempre vitalizzate peraltro da sorprendenti colpi di scena. Un rondò, è, secondo la definizione dello stesso Strauss, Till Eulenspiegels lustige Streiche (I tiri burloni di Till Eulenspiegel, 1894-95); alla forma sonata si può ricondurre Tod und Verkldrung (Morte e trasfigurazione, un tema massi­ mamente attuale nel clima culturale della fine del secolo), del 1888-89, in modo tuttavia piuttosto complesso, riferibile an­ che al modello lisztiano di sovrapposizione in un unico blocco di forma sonata e ciclo in più tempi. Di più ampio respiro Al­ so sprach Zarathustra (Cosi parlò Zarathustra, 1895-96), dove Nietzsche è molto liberamente preso come spunto per una ce­ lebrazione dell’evolversi dell’umanità «fino alla concezione nietzschiana del Superuomo». E in una celebrazione si risolve l’«idea poetica» di Ein Heldenleben (Vita d’eroe, 1897-98), dove la violenza fonica della sezione corrispondente ai vitto­ riosi conflitti dell’eroe con i suoi avversari è un eloquente esempio della rassicurante cautela con cui per lo più si presen­ tano, in Strauss, le innovazioni linguistiche. Nella sua poetica esse non mirano mai allo scardinamento eversivo, e nel caso dell’esempio citato il dissonante fragore appare «giustificato» dall’evidenza dell’immagine della battaglia. Si può osserva­ re, del resto, che nelle idee poetiche dei poemi sinfonici di Strauss ricorre spesso uno schema che dal trascinante impeto vitale dell’inizio conduce ad una pacata, trasfigurata, concilia­ ta quiete conclusiva: un aspetto che conferma l’immagine di Strauss come l’interprete per eccellenza «attuale» della sicu­ rezza dell’era guglielmina, anche se non si possono dimentica­

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re le ombre e le inquietudini che si addensano, ad esempio, nella mortale conclusione del Don Juan. Una definizione di in­ cisiva esattezza, innegabile anche per chi non volesse condivi­ derne gli umori polemici, si legge in un celebre passo del Doc­ tor Faustus di Thomas Mann (ispirato dalla consulenza musi­ cale di Adorno) a proposito della Salome. Strauss vi è definito «rivoluzionario fortunato, audace e conciliante», e si osserva: «Mai avanguardismo e sicurezza di successo si sono uniti in maggiore confidenza. Non mancano gli affronti e le dissonan­ ze, e poi quella bonaria condiscendenza che fa la pace con il timorato di Dio e gli fa capire che, in fondo, la cosa non è tan­ to grave...» Motivi di scandalo e un successo strepitoso caratterizzaro­ no la fortuna della Salome (Dresda 1905), terza opera teatrale di Strauss, che dai primi del secolo rivolse la sua attenzione in primo luogo al teatro musicale (e nel 1901 era già giunto ad un esito personalissimo con Feuersnot, che appare oggi quasi co­ me un manifesto del gusto Jugendstil). Salome fu composta tra il 1903 e il 1905 direttamente sulla traduzione tedesca del ce­ lebre dramma di Wilde, opportunamente sfrondato: con una travolgente foga inventiva, con autentica frenesia evocativa, Strauss reagisce con istantanea prontezza agli stimoli della si­ tuazione scenica, conferisce ad ogni gesto una eccitata eviden­ za, con una rapida mobilità che diventa legge formale di que­ sta partitura, la cui disponibilità non ammette altri principi di necessità costruttiva. La trasformazione del tema in motto, segno, arabesco, già chiara nei poemi sinfonici, investe qui i Leitmotive, la cui funzione è sensibilmente diversa da quella wagneriana. E i momenti di piu notevole arditezza della visci­ da, spesso sfuggente armonia, come le molte mirabili intuizio­ ni timbriche, non possono essere separati dalla loro funzione evocativa. Ad arditezze anche maggiori la fantasia straussiana fu sti­ molata dal testo Elektra di Hofmannsthal (anch’esso con­ cepito come lavoro autonomo, non destinato alla musica, risa­ lente al 1903): quest’opera, composta tra il 1906 e il 1908 e rappresentata a Dresda nel 1909, segna il massimo avvicina­ mento di Strauss all’espressionismo. Nel dar voce alla osses­ sione di vendetta che domina questa tragedia, dove la saga de­ gli Atridi è vista fuori da implicazioni etiche, nei suoi aspetti di sanguinosa violenza, Strauss tocca punte di allucinata esa­ sperazione espressiva. In questa direzione Strauss non prose­ gui: il 1909 è l’anno di una svolta, chiarissima fin dall’opera

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immediatamente successiva, una commedia impregnata di malinconie retrospettive, il Rosenkavalier. A spingere Strauss nella direzione di un nobilmente manieristico e riflessivo ri­ piegamento contribuì anche la lunga collaborazione con Hof­ mannsthal, che fino alla morte (1929) fu per lui un librettista supremamente congeniale (ferma restando l’autonomia delle due personalità, avvertibile sempre in una certa divaricazione tra le intenzioni dell’uno e dell’altro). Il primo frutto della collaborazione fu anche il piu fortunato, Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa), composto nel 1909-10 e rappresentato a Dresda nel gennaio 1911 : è una commedia ambientata nella Vienna di Maria Teresa, dove alcuni personaggi sembrano al­ ludere a figure delle Nozze di Figaro di Mozart (dietro Octa­ vian si può scorgere in trasparenza Cherubino, dietro la Marescialla la malinconia della Contessa) e dove sono accortamente mescolate, intorno al nucleo poetico della mesta rifles­ sione della Marescialla sul trascorrere del tempo, situazioni comiche e tenerezze amorose, e l’evocazione di una Vienna settecentesca vista come un mito fuori dalla storia (anche gra­ zie al felice anacronismo dei valzer che percorrono la parti­ tura). Hofmannsthal scorgeva nella personalità di Strauss un aspetto mozartiano e uno wagneriano, e diceva di voler esal­ tare il primo: di fatto una orchestra di dimensioni molto ri­ dotte viene trattata da Strauss con supremo virtuosismo nel lavoro successivo, Ariadne auf Naxos (Arianna a Nasso, 191112), che originariamente doveva legarsi alla rappresentazione del Borghese gentiluomo di Molière (la cui funzione introdut­ tiva fu sostituita nel 1916 da un prologo, che contiene le pagi­ ne piu alte dell’opera). Hofmannsthal aveva voluto mescolare i lazzi dei comici dell’arte e la storia di Arianna abbandonata a Nasso, dove incontra Bacco, per sperimentare una incon­ sueta mescolanza di generi e creare per questa via una imma­ gine della contraddittoria complessità della vita. Il musicista è sollecitato a ripensare liberamente diverse convenzioni del passato operistico. Con 1’Ariadne, e poi con Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra) si ribadisce in modo definiti­ vo la fedeltà di Strauss alla propria poetica, al proprio linguag­ gio, il suo estraniarsi dalle novità radicali degli anni dell’Espressionismo. Soggetto di quest’opera, composta tra il 1914 e il 1918, è una fiaba densa di simboli (che Hofmannsthal senti il bisogno di sviluppare autonomamente in un lungo rac­ conto, scritto parallelamente al libretto), una fiaba dunque

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che rimanda idealmente al Flauto magico di Mozart: la fanta­ sia straussiana ne coglie mirabilmente, con tutte le seduzioni dell’arabesco, soprattutto gli aspetti fatati, le magiche fascina­ zioni del mondo della coppia «nobile» (quella dell’imperatore e dell’imperatrice, ai quali si contrappone il bozzettismo rea­ listico del tintore Barak e della moglie), tra incanti sonori di incredibile leggerezza, o arcane dissolvenze, ed evocazioni trascinanti di eventi e paesaggi prodigiosi. Nel primo dopoguerra Strauss, che nei decenni a cavallo fra i secoli aveva rappresentato agli occhi di molti il musicista «moderno» per eccellenza, è sempre più estraneo ai muta­ menti del gusto e si isola in crescente misura in una posizione che ai nuovi compositori parve «tardoromantica», e che era semplicemente coerente con il mondo della sua giovinezza. Le otto opere teatrali che seguirono la Frau ohne Schatten non so­ no ripetitive (almeno per ciò che riguarda le pagine più felici), ma restano legate a questa posizione isolata e retrospettiva. Giunge a culmini di raffinatezza e di fluida scorrevolezza lo stile di conversazione già individuato nel prologo dell’Ariadne (e approfondito fra l’altro nell’ultima opera su testo di Hof­ mannsthal, Arabella)', nell’ultima stagione, poi, si tende ad una sorta di attenuazione delle tinte, a suggestioni più rarefat­ te, come nei morbidi colori a pastello, nel sobrio lirismo del clima pastorale della Daphne (1935-37), o nella riflessione e nei colori argentei di Capriccio (Monaco 1942), «conversazio­ ne per musica» dove non c’è una vera vicenda, dove tutto lo svolgimento appare giocato su puri pretesti, posto sotto il se­ gno della rinuncia, della suprema celebrazione dell’artificio, in un clima sospeso tra ironia e mestizia. Un carattere di con­ gedo hanno anche le Metamorphosen per 23 archi, una medita­ zione sul tema della «marcia funebre» dell’Eroica composta nel 1945, di fronte al crollo della Germania, e i mirabili Quat­ tro ultimi Lieder del 1948, che concludono il catalogo straussiano in un clima struggente, in una luce di autunnale splen­ dore, di filtrata rievocazione. Si è visto come nel percorso di Strauss si possa agevolmen­ te riconoscere una svolta netta in senso retrospettivo nel 1909, dopo Elektra. Il 1909 fu l’anno di alcuni dei più radicali lavori dello Schonberg «atonale» (i pezzi pianistici op. 11 e quelli orchestrali op. 16, Erwartun^'. queste pagine segnarono una sorta di cesura nelle vicende della musica nuova, e ci fu chi, di fronte al loro radicalismo, si ritrasse perplesso, pur avendo condiviso in precedenza almeno alcuni aspetti della

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ricerca «moderna». Cosi fece Strauss, e cosi fece anche un compositore quasi coetaneo di Schonberg, Max Reger (Brand 1837 - Lipsia 1916). Partendo dall’eredità del cromatismo del Tristano il suo linguaggio armonico si spinse alle soglie della sospensione tonale; ma i generi di cui si occupò furono preva­ lentemente quelli classici della «musica assoluta»: non per questo la sua musica da camera può essere ridotta semplicemente ad una prosecuzione di modelli brahmsiani, perché va vista in rapporto al nuovo rilievo che assunse il genere came­ ristico agli inizi del secolo, in primo luogo in Schonberg in una fase essenziale della sua ricerca. Anche Reger perviene ad esiti innovativi riflettendo sulle piu severe implicazioni del genere, attraverso l’estremo rigore del lavoro motivico, ad esempio in opere come il Quartetto con pianoforte in do minore op. 64 (1902) e il Quartetto per archi in re minore op. 74 (19031904). Nella sua ultima fase egli accolse anche suggestioni programmatiche, nei 4 Poemi sinfonici ispirati a quadri di Bocklin (1913), dove si sente l’influenza di Debussy, mentre una classicheggiante inclinazione ad operare sintesi stilistiche di ampio respiro si riconosce nelle orchestrali Variazioni e fuga su un tema di Mozart (1914). E un luogo comune universalmente accettato l’accostamen­ to tra Strauss e il gusto ]ugendstil\ piu problematica invece ap­ pare l’individuazione di affinità tra la musica di Mahler e la Secessione viennese, indipendentemente dai documentati rapporti personali con Klimt o Roller. Affinità sono state ri­ conosciute nei Lieder su testo di Riickert e nell’«esotismo» del Lied von der Erde, in particolare nell’eleganza irreale delle immagini del terzo Lied, Von der Jugend. La situazione vien­ nese offre comunque alcuni innegabili parallelismi tra il rinno­ varsi della vita artistica e di quella musicale. La data di nascita della Secessione è il 1897: nello stesso anno morf Brahms e Mahler fu chiamato a Vienna. L’anno dopo Guido Adler pre­ se il posto di Hanslick all’Università e nel 1899 Schonberg compose Verkldrte Nacht (Notte trasfigurata). Soltanto in una prima fase è possibile trovare punti di contatto tra la musica di Schonberg e la Secessione viennese; ma a Vienna si forma­ rono altri compositori che invece a quel clima rimasero lega­ ti assai piu a lungo. E il caso di Alexander von Zemlinsky (Vienna 1871 - Larchment, New York 1942) e di Franz Schreker (Principato di Monaco 1878 - Berlino 1934). Appena uscito dal Conservatorio di Vienna Zemlinsky ave­ va conquistato una buona reputazione nella cerchia brahmsia-

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na; ma negli orientamenti del giovane compositore, come dì molti altri della sua generazione (compreso Schonberg, che, autodidatta, ebbe da Zemlinsky preziosi consigli), era stata fondamentale anche la conoscenza di Wagner. Per Zemlinsky poi fu determinante rincontro con Mahler a Vienna (dove nel 1904 assunse la direzione della Volksoper, che lasciò nel 1911). La musica di Zemlinsky composta agli inizi del secolo rivela scelte stilistiche parallele a quelle di Schonberg; ma le loro strade si separarono già intorno al 1905 e nella cerchia di Schonberg, cui rimase legato da rapporti di amicizia, di colla­ borazione e di parentela (quando Schonberg ne sposò la sorel­ la) Zemlinsky mantenne una posizione retrospettiva, aliena da scelte radicali e legata al clima e al gusto degli anni della Secessione. Di tale gusto possono essere considerati maturi frutti, di intensa suggestione, i capolavori composti da Zem­ linsky nella pienezza della maturità a Praga (dove dal 1911 al 1927 fu direttore del Teatro d’Opera tedesco): fra questi il Se­ condo Quartetto (1914), la Lyrische Symphonie (1923), che è una «sinfonia di Lieder» su testi di Tagore al modo del mahleriano Lied von der Erde e che fu citata nella Lyrische Suite di Berg, i sei Canti su testo di Maeterlinck (19io-13) e diverse opere teatrali, fra le quali due atti unici su testo di Wilde, Bi­ ne florentinische Tragèdie (Una tragedia fiorentina, Stoccarda 1917) e DerZwerg (Il nano, Colonia 1922). Si radica nel clima della Secessione viennese anche l’espe­ rienza di Franz Schreker, che si formò al Conservatorio di Vienna e vi consegui il primo importante successo proprio con un balletto composto per l’apertura di una mostra promossa nel 1908 da Klimt, Der Geburtstag der Infantin (Il compleanno dell’infanta: dalla stessa novella di Wilde Zemlinsky trasse poi Der Zwerg). La seconda opera teatrale di Schreker, Derfer­ ne Klang (Il suono lontano, Francoforte 1912), di cui Berg cu­ rò la riduzione per canto e pianoforte, fece del suo autore uno degli operisti di maggior successo in Germania e può essere considerata un documento particolarmente significativo di un clima musicale vicino alla Secessione nel suo sfrenato ecletti­ smo, nelle straordinarie, sontuose suggestioni coloristiche, che del linguaggio di Schreker costituiscono l’aspetto piu ori­ ginale ed affascinante (si pensi anche alla sua Sinfonia da ca­ mera, posteriore di un decennio a quella di Schonberg e posta sotto il segno di una fascinosa decorazione sonora). Tra i lavo­ ri teatrali successivi spicca Die Gezeichneten (I segnati, Fran­ coforte 1918), forse il suo capolavoro.

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Una presenza a sé nella vita musicale tedesca ed europea tra Ottocento e Novecento è quella di Ferruccio Busoni (Empoli 1866 - Berlino 1924), italiano di origine, ma tedesco di forma­ zione (studiò a Graz e Lipsia), attivo prevalentemente a Berli­ no (dal 1894 al 1913 e dal 1920 alla morte), affermato assai piu come pianista che come compositore, autore di scritti che eb­ bero una incidenza nel dibattito sulla musica dei primi decenni del secolo. Hans Pfitzner (Mosca 1869 - Salisburgo 1949) pub­ blicò nel 1917 un violento pamphlet contro V Abbozzo di una nuova estetica della musica (Trieste 1907, una nuova edizione ampliata era uscita a Lipsia nel 1916): una incisiva risposta al­ l’attacco di Pfitzner fu scritta da Alban Berg. Per inciso ricor­ diamo che nella musica tedesca del tempo Pfitzner può essere considerato il piu significativo esponente di una poetica che va definita in senso proprio « tardoromantica» per il suo dichiara­ to e tenace legame con l’eredità di Wagner. Fra le tesi care al Busoni teorico, che presenta una contrad­ dittoria complessità ed esercitò influenze in direzioni diverse, ci fu il vagheggiamento di una «nuova classicità» (junge Klassizitat} che non ha nulla a che vedere con quello che poi sareb­ be stato chiamato neoclassicismo: per Busoni infatti essa do­ vrebbe collegarsi al passato interpretandolo in senso attivo, radicarsi nella storia per approdare a nuove mete. Busoni pen­ sò anche al superamento di ogni limite, ad una ricerca conti­ nua, all’impiego di nuove scale, nuovi strumenti, intervalli microtonali (idee che non trovarono alcuna applicazione nella sua attività di compositore); ma nel suo pensiero sono formu­ late anche altre istanze di natura opposta, come l’aspirazione alla chiarezza, alla semplicità, alla leggerezza. Bach e Mozart furono punti di riferimento determinanti per la sua poetica di compositore. Di ispirazione bachiana so­ no alcune delle pagine dove Busoni piu compiutamente realiz­ za la sua aspirazione ad una musica di astratta spiritualità, al­ la metafisica purezza di architetture traslucide, ad una fred­ dezza rarefatta e cristallina (come nella Sonatina seconda del 1912, una delle sue pagine piu avanzate dal punto di vista ar­ monico, o nella Fantasia contrappuntistica del 1910). Accanto all’amore per Bach e Mozart va ricordato il rapporto con la tradizione ottocentesca, in particolare con Liszt, di cui Buso­ ni accolse l’influenza depurandola dagli aspetti di piu elo­ quente estroversione. Per l’ideale di Busoni la spiritualità del­ la musica deve affermarsi in una dimensione lontana da quel­ la della passionalità, dell’eloquenza diretta: o si sublima nel­

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l’apparente freddezza di una metafisica trascendenza, nella tensione visionaria rivolta ad atmosfere sideree e cristalline (quali potè amare in lui un Daliapiccola), oppure tende al puro gioco, al fiabesco, al divertimento astratto. Tra gli esempi più significativi di questo secondo aspetto della sua poetica vi so­ no il «capriccio teatrale» Arlecchino dai caratteri aspramente burleschi e parodistici (1914-16) e l’opera Turandot (finita nel 1916, includendo materiali di una suite da musiche di scena del 1904). Lavorando sulla celebre fiaba teatrale di Gozzi Bu­ soni muove in una direzione radicalmente diversa da quella che poi avrebbe seguito Puccini, puntando sullo spirito della commedia dell’arte e su caratteri fantastico-fiabeschi, con l’e­ sclusione rigorosa di aspetti drammatici o patetici, per esalta­ re, come egli scrisse, «il continuo e variopinto alternarsi tra passione e gioco, tra reale e irreale, tra atmosfera quotidiana e fantasia esotica». Dal 1917 alla morte Busoni lavorò alla sua ultima opera teatrale, Doktòr Faust, che non potè finire e che riprende la vicenda di Faust non da Goethe, ma dalla antica tradizione degli spettacoli di marionette. In questa partitura convergono alcuni degli aspetti più originali e complessi del linguaggio di Busoni, che nella tensione all’illimitato propone il volto della sua poetica più vicino all’espressionismo: in una prospettiva, però, che ne elude gli abissi vertiginosi e aspira a climi di fredda, siderea, misteriosa astrazione, alla ricerca di una dimensione inafferrabile, enigmaticamente controllata.

[pp] 5. Simbolismo e decadentismo nella Russia prerivoluziona­ ria: Aleksandr Skrjabin. Gli anni compresi tra la salita al trono dello zar Nicola II ( 1894) e la rivoluzione bolscevica furono particolarmente dram­ matici e tormentati. L’autocrazia zarista, sempre più inade­ guata a fronteggiare gli enormi problemi sociali causati dalla questione agraria e dal recente sviluppo industriale, risponde­ va con ferocia alle proteste ed alle provocazioni, istigando vieppiù il popolo ed i movimenti rivoluzionari all’insurrezione che, soffocata nel sangue una prima volta nel 1905, riuscì vit­ toriosa la seconda, nel 1917. Il presentimento della fine immi­ nente di una civiltà, in un clima cosi torbido ed in una situa­ zione cosi precaria, acuì particolarmente la sensibilità di intel­ lettuali ed artisti portandoli ad esasperare il fondo di deca­ dentismo insito in modo più o meno accentuato nei movi­

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menti culturali sorti in quel periodo nell’area mitteleuropea. E il caso del simbolismo che, combinandosi in Russia con le componenti religiose e teosofiche di pensatori e filosofi co­ me Solov'ev e Fèdorov, fu interpretato in chiave misticheggiante. Nel campo musicale il maggior interprete di questa stagio­ ne crepuscolare della Russia prerivoluzionaria fu Aleksandr Skrjabin (Mosca 1872-1915). Diplomatosi nel 1892 al Con­ servatorio di Mosca dove aveva studiato contrappunto e com­ posizione con Taneev e Arenskij, e pianoforte con Safonov, iniziò una brillante carriera pianistica internazionale che lo portò a contatto con i più importanti centri culturali europei. Gli stimoli che ricevette in quegli anni a cavallo fra i due seco­ li lo condussero ad iniziare una nuova stagione della sua arte musicale, cha da un’assunzione di modelli chopiniani, schumanniani, lisztiani, wagneriani, debussyani ed altri ancora, lo condusse all’approdo di uno stile personalissimo proiettato verso esiti novecenteschi d’avanguardia. Stimoli non solo mu­ sicali e linguistici, ma anche e specialmente filosofici (Fichte, Nietzsche oltre ai simbolisti ed ai teosofi russi) con cui Skrja­ bin elaborò una sua poetica personale basata su uno straordi­ nario potenziamento delle componenti sensuali ed irrazionali della creazione artistica - una sorta di erotismo mistico o di misticismo erotico - che irrompono nelle forme e negli ele­ menti musicali (in quelli armonico-ritmici, specialmente) im­ ponendo al tempo musicale una scansione basata sull’istanta­ neità dell’emozione. Questo mutamento stilistico e poetico si realizzò nel corso del primo decennio del nostro secolo. Dalla Quarta sonata per pianoforte (1907) fino alla 'Decima ed ultima (1912-13) Skrja­ bin svincolò definitivamente la sonata dalla struttura tradizio­ nale in più movimenti - già peraltro molto personalizzata nei suoi primi quattro lavori del genere pubblicati in precedenza - sprigionando nel movimento unico il proprio estro creativo in un baluginare continuo di motti aforistici, grumi sonori, arabeschi, gesti improvvisi, vincolati però da legami tematici e formali in un contrasto quasi drammatico fra le esigenze ra­ zionali della forma e l’estrema irrazionalità dell’istinto. Quan­ do il vincolo formale si allenta ulteriormente e il pensiero mu­ sicale si addensa nella piccola forma, come nei Cinque preludi op. 74 allora ci troviamo alle soglie dell’informale e delì’aforismo, ad un momento limite oltre il quale Skrjabin non potè

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andare, essendo stroncato dalla morte nella piena maturità creativa ed esistenziale. Dalla sinfonia in diversi movimenti però già concatenati secondò un prestabilito disegno dal significato esoterico (la Terza sinfonia, del 1902-904, è intitolata Poema divino) Skrjabin con il Poema dell’estasi (1905-908) passa ora al poema sin­ fonico in un unico movimento che sviluppa un contenuto mi­ stico e teosofico per mezzo di suoni e dei colori dell’orchestra e, nel caso del secondo di tali lavori, Prometeo o II poema del fuoco, anche dei colori veri e propri, quelli ottici, attraverso uno strumento concepito appositamente per porre in relazio­ ne suoni e colori secondo una scala prefissata dallo stesso compositore. Uno degli elementi che conferisce maggiormen­ te a quest’ultima produzione di Skrjabin carattere d’avan­ guardia è l’aspetto armonico che, già aperto nelle composizio­ ni precedenti ad esiti quanto mai originali e personali, ora pre­ dilige l’intervallo di quarta per creare aggregati e concatena­ zioni accordali ormài estranei alla tonalità (famosissimo l’ac­ cordo di Prometeo', do-fa diesis-si bemolle-mi-la-re). Nonostante la brevità della carriera creativa di Skrjabin, le novità linguistiche della sua musica influenzarono la genera­ zione successiva (Roslavec, Obuchov, Lourié, Polovinkin, Mosolov, ad es.) con un raggio d’azione che superò anche i confini della Russia. Perfino nella musica pianistica di un mu­ sicista lontano anni luce dalla poetica e dal clima culturale in cui visse Skrjabin, e cioè in quella di George Gershwin, si possono scorgere tracce stilistiche e talora anche manierismi skrjabiniani. Negli Stati Uniti tra le due guerre fu tuttavia un altro compositore-pianista russo a sollevare consensi entusiastici: Sergej Rachmaninov, di un anno appena piu giovane di Skrja­ bin (Oneg, Novgorod 1873 - Beverly Hills 1943) di cui fu amico e compagno di studi al Conservatorio di Mosca. Ripro­ ponendo nei suoi Quattro concerti per pianoforte (1891, 1901, 1909, 1927) una gestualità romantica ed una vena melodica prive di inibizioni, si guadagnò tosto una fama popolare, of­ frendo alle platee dei due continenti emozioni spettacolari di sicuro effetto. Quando il compositore-pianista passava da questo tipo di comunicazione, impiegata non solo nei concerti ma anche nelle sinfonie e nei poemi sinfonici (famoso L’isola dei morti, 1908, ispirato ad un celebre quadro di Bòcklin), ad un ambito più intimo e riservato come quello degli Étudestableaux op. 33 (1911) e op. 39 (1916-17), allora un altro

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Rachmaninov ci appare, che dimostra di non esser stato affat­ to insensibile a certi stimoli di cui era saturo il clima culturale della Russia prerivoluzionaria, e di esser maturato come il suo ben piu profondo amico e compagno di studi di un tempo, alla medesima, altissima scuola, [gv]

6. Il realismo espressionistico: Leos Janacek, Fra i compositori nati all’inizio della seconda metà dell’Ot­ tocento e che raggiunsero la piena maturità tra la fine del se­ colo scorso e l’inizio del Novecento, Leos Janàcek (Hukvaldy 1854 " Ostrava 1928) rappresenta un caso a sé, poiché prima di Bartók maturò uno stile basato su un impiego personalissi­ mo del canto popolare nazionale (nel caso specifico, cecoslo­ vacco) rifiutando i condizionamenti della cultura musicale egemone (quella austro-tedesca) e raggiungendo esiti che nella frantumazione delle categorie linguistiche e poetiche ottocen­ tesche non appartengono alla tradizione delle scuole naziona­ li, bensì alla sensibilità moderna e novecentesca. La matura­ zione di Janàcek fu lenta ma, da quando nell’ultimo quarto del secolo riconobbe la sua vera vocazione creativa, inarresta­ bile: da lavori corali come Hello stile del canto popolare (18751876) alle Danze di Lacfri (1889-90), alla cantata Amarus (1897), a Jenufa (1894-1903) è un progressivo approdo ad un linguaggio articolato sull’intonazione del canto popolare e del­ la lingua parlata e su una concezione armonica, ritmica e me­ lodica diversa dalla tradizione colta mitteleuropea - anche da quella piu avanzata - frutto non solo di sperimentazioni crea­ tive ma anche di ricerche condotte personalmente e di conse­ guenti teorizzazioni. Il luogo di temi di ampio respiro, Janà­ cek iniziò ad impiegare brevi incisi tematici essenziali e ta­ glienti come le inflessioni della sua lingua e come le cadenze del canto popolare, e ad elaborarli mediante ripetizioni e tra­ sformazioni timbriche, ritmiche e armoniche, sintonizzate con lo sviluppo dell’azione drammatica. I generi vocali, ed in special modo l’opera, per una coscien­ za creativa cosi sensibile alle riverberazioni emotive, musicali e drammatiche della lingua verbale, rappresentano l’ambito creativo prediletto da Janàcek. Da Jenufa alla sua ultima opera tratta dai Ricordi dalla casa dei morti di Dostoevskij {Da una casa di morti, del 1927-28) Janàcek afferma nel teatro musica­ le un suo prepotente talento che oltre a riverberare musical-

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mente le minime sfumature psicologiche dei personaggi e del­ le situazioni, le carica di forti contenuti passionali realizzando una sorta di singolarissimo realismo espressionistico. Temi che nel suo teatro musicale ricorrono frequcu cernente come immagini ossessive sono quello della passione erotica che tur­ ba e disgrega l’ordine sociale conducendo ad esiti tragici (Jenufa, Kdla Kabanova, 1921, e fra le opere meno note, Destino, ultimata nel 1905), quello della morte come riscatto e libera­ zione (La volpe astuta, 1921-23 e L'affare Makropulos) unita­ mente all’opposizione fra l’uomo e la natura verso la quale Janacek provava un particolare trasporto, l’impegno patriottico e sociale espresso attraverso la sferza della satira e dell’ironia (I viaggi del signor Broucek sulla luna, 1908-17), per giungere infine al più cupo pessimismo che non può far altro che regi­ strare, impotente, l’aberrazione e la degradazione dell’uomo (Da una casa di morti). Temi che ricompaiono pure nella pro­ duzione vocale non operistica anch’essa fortemente impre­ gnata di una carica di tensione drammatica tanto nella prote­ sta politica e nella passione nazionalistica (nei lavori corali II maestro Halfar, Marycka Magdonovd, I settantamila, composti tra il 1906 e il 1909) quanto nella lirica trasfigurazione del motivo erotico (Il diario di uno scomparso, per contralto, teno­ re, 3 voci femminili e pianoforte, del 1917-19). Un linguaggio musicale cosi legato a quello verbale ed alle sue suggestioni drammatiche e sonore ebbe difficoltà a trova­ re una sua identità ed una sua coerenza stilistica nell’ambito della musica strumentale. Dapprima Janàcek ricorse a forme brevi, a pezzi caratteristici come gli schizzi pianistici della raccolta Sul sentiero di rovi (1901-08) e Hella nebbia (1912) ci­ mentandosi anche nella forma-sonata con una sonata pianisti­ ca intitolata Hella strada i.x.1905 in quanto dedicata ad un giovane martire ceco ucciso dalla polizia austriaca durante una manifestazione svoltasi appunto in quella data. Quindi si dedicò al poema sinfonico (Il bambino del suonatore, 1912, Ta­ ras Bul'ba, 1918, La ballata di Blanik, 1919) per raggiungere negli anni Venti la più perfetta e moderna soluzione con la smagliante Sinfonietta (1926), culmine di una ricerca creativa condotta con una serie di lavori cameristici incentrati sulla so­ norità dei fiati, o con il Secondo quartetto (1928); intitolato Lettere intime poiché ispirato da un suo amore senile, è una trasfigurazione dei diversi stati d’animo suscitati dalla perso­ na amata, realizzata mediante una varietà espressiva ed una sottigliezza psicologica in tutto equivalente, nella dimen­

LA MUSICA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

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sione astratta della piu classica fra le combinazioni cameristi­ che, ai suoi piu grandi raggiungimenti nel campo operistico. Altro capolavoro degli ultimi anni è la Messa glagolitica (1926) in cui VOrdinarium missae in versione slava, incorniciato da un’introduzione ed una conclusione strumentale, è interpre­ tato in uno spirito per nulla liturgico, bensì profondamente umano, in accordo con la coscienza laica del compositore straordinariamente sensibile a tutto quanto concerne Tuomo ed il mistero della vita e della natura, ma del tutto refrattario a qualsiasi genere di confessionalismo religioso, [g v]

Capitolo dodicesimo

L’epoca delle avanguardie storiche

i. Dalla «crisi» ai nuovi linguaggi.

Gli ultimi decenni del secolo xix (come si è ricordato nel capitolo precedente) vedono profilarsi, non soltanto in campo musicale, una ricerca artistica consapevole della problemati­ cità del linguaggio di fronte al venir meno di ogni certezza, di ogni consolidato valore. La consapevolezza di questo atteggia­ mento critico è l’unico denominatore comune riconoscibile nella complessità e frammentatissima varietà delle esperienze musicali del secolo xx, delle quali si traccia nei paragrafi che seguono un sintetico quadro, limitato essenzialmente ai loro aspetti «colti» (che, comunque, da tempo e sempre più netta­ mente si sono separati dagli altri: nessuno forse oggi sarebbe disposto a riconoscere elementi comuni tra il Pipistrello ed il Parsifal, eppure l’uno e l’altro potrebbero legittimamente pro­ clamarsi eredi, per ragioni diverse, del Plauto magico di Mo­ zart). Sospensione radicale della tonalità o svuotamento delle sue funzioni, riduzione delle forme e dei vocaboli del passato a fossili pietrificati o loro superamento, ricerca di nuove linfe e di vocaboli «autentici» nel canto popolare o ancora vagheg­ giamento di lontane radici in una tradizione collocata fuori dalla storia, sono soltanto alcuni dei motivi ispiratori di poe­ tiche musicali novecentesche, e hanno in comune, come si è detto, soltanto l’atteggiamento critico (più o meno radicale), la impossibilità di ricondursi senza problemi ad una tradizio­ ne codificata, e soprattutto la consapevolezza di tale impossi­ bilità. Se tra i compiti di una storia della musica c’è anche quello di tracciare le vicende di generi e tradizioni nel loro unitario sviluppo, il discorso potrebbe arrestarsi alle soglie del nostro secolo o comunque accontentarsi di mostrare la estre­ ma frantumazione dei suoi avvenimenti musicali, di forme e generi, non perché si cancelli il rapporto con il passato e con la storia, ma perché lo si vive, come si è detto, in modo estremamente problematico.

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Ciò può essere constatato con particolare chiarezza nel tea­ tro musicale: sarebbe impossibile tracciare una storia dell’ope­ ra novecentesca al modo in cui si delinea quella dell’opera ita­ liana da Rossini a Verdi, o dell’opera francese da Auber e Meyerbeer a Massenet. Pelléas etMélisande è la prima opera del Novecento non perché andò in scena nel 1902, ma perché costituisce un capolavoro a sé, che non è in grado di fondare una tradizione né di inserirvisi, ed appare invece la geniale so­ luzione di un «problema». Solo in questo senso si può parlare di «crisi» e problematicità dell’opera in un secolo ricco di ca­ polavori nell’ambito del teatro musicale: nessuno di tali capo­ lavori può essere collocato all’interno di una evoluzione stori­ ca. Ne era ben consapevole Berg, quando diceva di non avere affatto la pretesa, con il Wozzeck, di «riformare» l’opera: di fatto il suo secondo capolavoro teatrale avrebbe proposto una drammaturgia e soluzioni formali e musicali totalmente diver­ se. Una osservazione anche sommaria della varietà dei com­ portamenti vocali nell’opera novecentesca rivelerebbe un al­ tro aspetto fondamentale della sua «crisi»: il venir meno alle possibilità del canto spiegato, del canto che può nascere con sorgiva spontaneità solo dalla certezza di valori morali comuni che uniscono il compositore e il suo pubblico. Tale certezza, tale consenso non sono dati al compositore del nostro secolo e questa situazione si riflette in una molteplicità di consape­ voli stilizzazioni o di eterodosse ricerche. Questo accenno alla situazione del teatro musicale (che of­ fre un esempio particolarmente significativo data la peculiare natura del rapporto che vi si instaura tra opera e spettatori) ci ha condotto a constatare quella separazione tra compositore e pubblico che è uno dei dati più evidenti della situazione della musica colta nel Novecento. Di fatto, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, la vita dei teatri e delle sale da con­ certo comincia ad assumere le omogenee caratteristiche inter­ nazionali che sono le premesse di quelle attuali, con la selezio­ ne di un limitato repertorio basato essenzialmente sulla musi­ ca del passato e teso a dilatarsi unilateralmente soltanto in quella direzione. In nessuna altra epoca la vita musicale è mai stata «archeologica» ed incline ad irrigidirsi in stereotipe ri­ petizioni come nel secolo xx. Sarebbe semplicistico tentare di discutere in poche righe le ragioni e gli aspetti del fenomeno; ma va notato che esso è parallelo alle difficoltà del rapporto tra una larga parte del pubblico e la musica nuova, come se molti cercassero nel noto una rassicurazione ed evitassero Fin-

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CAPITOLO DODICESIMO

quietante problematicità della musica contemporanea. Fin dalla seconda metà del secolo scorso la posizione polemica e critica delle avanguardie aveva del resto comportato, non sol­ tanto in campo musicale, una condizione inevitabilmente eli­ taria, la necessità di lavorare in piccoli cenacoli. Anche a tale condizione si lega la rapidità delle trasformazioni, il radicali­ smo delle svolte nelle vicende della musica del nostro secolo. La frantumata molteplicità delle poetiche della prima metà del secolo era stata interpretata da Adorno sotto il segno della polarità Schonberg-Stravinskij, visti come alfieri rispettiva­ mente di una concezione della musica come voce dell’interio­ rità e di una alienata oggettivazione. A quasi mezzo secolo di distanza la provocazione adorniana ha inevitabilmente perso molta della sua incisività, e non sembra utile la intenzionale semplificazione che comporta il ricondurre alla sola polarità Schonberg-Stravinskij poetiche molto diverse fra loro. Non si dovrà tuttavia dimenticare il contesto in cui nacque questa polemica semplificazione, in un’epoca in cui l’opinione comu­ ne vedeva in Schonberg un tardoromantico che si era ridotto con la propria ricerca in un vicolo cieco e in cui l’esperienza dei tre grandi viennesi era quasi messa tra parentesi. Allora la cesura segnata dal nuovo clima instauratosi in Francia nel pri­ mo dopoguerra appariva il vero inizio della musica «moder­ na», che si faceva coincidere con il gusto «neoclassico». Og­ gi è un dato pacificamente acquisito che gli anni 1908-909 a Vienna segnino una data fondamentale per la musica del No­ vecento; ma la consapevolezza di questa prospettiva storica non è sempre stata scontata, e non lo era certamente negli an­ ni della stesura della Filosofia della musica moderna, [pp]

2. La scuola di Vienna: Arnold Schonberg, Alban Berg e Anton Webern. Negli anni della formazione e della prima maturità di Schonberg, Vienna può essere considerata quasi il punto ne­ vralgico della cultura europea: nella città che Karl Kraus ebbe a chiamare «stazione metereologica per la fine del mondo» maturarono allora in campi diversi idee e riflessioni fonda­ mentali per la cultura del nostro secolo. Nella stessa città e ne­ gli stessi anni vissero Freud (che nel 1895 pubblicò gli Studi sull"isteria insieme con Breuer e nel 1900 Interpretazione dei so­ gni), Hofmannsthal, Schnitzler, Weininger (che mori suicida

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nel 1903, nello stesso anno della pubblicazione del suo Sesso e carattere), Kraus, Mach, Musil, Wittgenstein. Si è già ricorda­ ta la coincidenza tra l’arrivo di Mahler a Vienna e la nascita ufficiale della Secessione: su quel terreno si formarono Schie­ le, Kokoschka e Loos, che presto presero vie autonome. L’e­ lenco potrebbe continuare; ma qui importa sottolineare che personalità tanto diverse e attive in campi disparati sembrano trovare un punto di incontro, uri terreno di indagine comune nella riflessione sulla crisi della nozione tradizionale del sog­ getto e del suo linguaggio. E la crisi testimoniata da Hof­ mannsthal in Ein Brief {« Lettera di Lord Chandos »), dove si legge «Mi è venuta completamente a mancare la capacità di pensare o di parlare su qualsiasi cosa in maniera coerente»: è la percezione del dissolversi della capacità del soggetto di por­ si come principio ordinatore della realtà. E la scoperta di una molteplicità di esperienze che distruggono la salda nozione tradizionale dell’io, il suo controllo sul reale, e lo inducono ad una tormentosa, inquieta indagine, a rivedere criticamente l’ordine convenzionale dei linguaggi esistenti, a cercare nuovi sistemi: in questo ambito non è difficile individuare legami tra la scoperta dell’inconscio in Freud e il lavoro letterario di Musil e Schnitzler o la radicale revisione della riflessione sui processi conoscitivi e sulla logica operata da Wittgenstein e dal Circolo di Vienna. In campo musicale si è già visto quali immagini intimamen­ te lacerate, non conciliate, crei il mondo di Mahler: egli fu og­ getto di incondizionata ammirazione per Berg e Webern, di perplessità prima e di adesione senza riserve poi per Schon­ berg. Si è fin troppo insistito sulla banale constatazióne che Mahler, a differenza dei viennesi, non approda alla compiuta sospensione della tonalità; ma la sua eredità non riguarda sol­ tanto le tracce direttamente riconoscibili nella loro opera, in modo particolare in quella di Berg: a Mahler li accomuna in­ fatti in primo luogo la tensione etica, l’ansia di «verità». «La musica non deve ornare, deve essere vera», ebbe a scrivere Schonberg, e la sua frase rivela un punto di contatto non sol­ tanto con Mahler, ma con tutti i grandi protagonisti della cul­ tura viennese, le cui diversissime esperienze si possono ricon­ durre sotto il segno della ricerca sul linguaggio vissuta con strenuo impegno etico nella consapevolezza della impossibili­ tà di chiudersi nell’ordine dei linguaggi tramandati, della ne­ cessità di sperimentare ordini nuovi sapendo che non vi sono soluzioni su cui contare, vie d’uscita certe e rassicuranti. Dal­

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la perdita del centro e dalla denuncia della crisi del linguaggio discendono in Schonberg, Berg e Webern vie diverse, auto­ nome e nettamente individuate. Arnold Schonberg (Vienna 1874 - Los Angeles 1951), autodidatta che ebbe lezioni e con­ sigli da Zemlinsky, si confrontò inizialmente con l’eredità di Brahms e di Wagner, e con Strauss. Dal mondo della sua for­ mazione egli si rese rapidamente autonomo nel nome, si di­ rebbe, di una insopprimibile esigenza di spiritualizzazione ed interiorizzazione, di essenzialità. Dopo le prime raccolte di Lieder il suo lavoro d’esordio piu significativo fu Verklarte Nacht (Notte trasfigurata) del 1899 per sestetto d’archi: ri­ spetto all’ortodossia brahmsiana di un precedente Quartetto che rimase inedito, questo pezzo accoglie ben assimilate sug­ gestioni da Wagner e Strauss e significativi tratti originali, con un cromatismo che giunge talvolta ad ardite ambivalenze dal punto di vista armonico-tonale, con una notevole densità contrappuntistica, con la proliferante ricchezza dell’invenzio­ ne melodica, con l’acceso calore espressivo. Originale è poi l’i­ dea stessa di trarre ispirazione da una poesia di Richard Dehmel, poeta assai caro al giovane Schonberg: questo sestetto (in seguito trascritto anche per orchestra d’archi) è dunque una sorta di «poema sinfonico da camera» di un genere quasi sen­ za precedenti. La musica da camera ha un rilievo essenziale nell’opera del giovane Schonberg: se ai tempi di Brahms l’importanza della sua produzione cameristica poteva apparire un segno di con­ servatorismo dal punto di vista della scuola neotedesca, in Schonberg (e in altri, ad esempio anche in certi lavori contem­ poranei di Reger) tale prospettiva veniva rovesciata, e proprio le istanze di massimo rigore ed essenzialità di scrittura impli­ cite nella natura e nelle tradizioni del genere cameristico ap­ parivano il mezzo di un maggiore radicalismo, perché le novi­ tà che si legavano alla densità e complessità formale e armo­ nico-contrappuntistica non trovavano «giustificazione» in elementi descrittivi o comunque extramusicali (anche in Ver­ klarte Nacht il programma poetico riguarda una azione tutta interiore). La ricerca di essenzialità unita all’urgenza del calo­ re espressivo non sono peraltro meno rilevanti in opere del giovane Schonberg destinate ad un organico gigantesco, come i Gurrelieder (composti nel 1900-901, ma strumentati in due fasi, nel 1901-903 €1910-11)0 alla grande orchestra, come il poema sinfonico Pelleas undMelisande (1902-903, ispirato a Maeterlinck senza conoscere l’opera di Debussy); ma le opere

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riassuntive della prima fase possono essere considerate il Quartetto n.i in re minore op. 7 del 1904-905 e soprattutto la Sinfonia da camera op. 9 del 1905-906. L’uno e l’altra sono concepiti come un blocco unico (come era accaduto nella So­ nata di Liszt): all’interno di un solo movimento in forma sona­ ta si inglobano i quattro tempi tradizionali (lo scherzo e l'ada­ gio si inseriscono tra esposizione, sviluppo e ripresa). La sin­ fonia, composta per 15 strumenti (8 legni, 2 corni, 5 archi, con esiti sonori di trasparenza e allucinata tensione originalis­ sime) presenta un grado di densità e concentrazione portato all’estremo, con incandescente tensione inventiva, nella quale sembrano bruciare le tracce ancora riconoscibili degli influssi che il giovane Schonberg aveva accolto. Si integrano compiu­ tamente le dimensioni melodica e armonica, orizzontale e ver­ ticale (cosi ad esempio i temi d’apertura generano accordi, ba­ sati sulla successione di quarte e sulla scala per toni interi): in­ sieme con la densità contrappuntistica è questa una via che porta al superamento della tonalità. Con la prima Sinfonia da camera Schonberg credeva di aver raggiunto un punto fermo nella sua ricerca; ma in meno di due anni si profilò la «necessità interiore» di una nuova svol­ ta, che giunse a compimento con Lieder su testo di Stefan George e con l’ultimo tempo del Quartetto n. 2 op. io del 19071908 (dove nel terzo e quarto tempo una voce di soprano in­ tona testi di George). La musica sembra nascere con visiona­ ria immediatezza (ma anche con essenziale rigore contrappun­ tistico) dalla risonanza delle parole, da una sorta di suono in­ teriore da loro destato: nella febbrile tensione del linguaggio schònberghiano e nella sua ricerca di essenzialità non c’è più posto per le leggi che convenzionalmente reggono il sistema tonale. L’anno cruciale, il 1908, coincide con l’intensificarsi dell’interesse di Schonberg per la pittura (grazie anche allo stimolo che gli venne da Richard Gerstl e Oskar Kokoschka) e con una grave crisi personale (la moglie di Schonberg, Ma­ thilde Zemlinsky, si innamorò di Gerstl, che si uccise quando la donna tornò dal marito): tale crisi potrebbe secondo alcuni aver contribuito ad imprimere una sorta di inquieta accelera­ zione agli aspetti più radicali della ricerca di Schonberg, che proprio in questa fase sembra bruciare le tappe. Tra il 1908 e il 1909 egli compose i 15 Lieder op. 15 dal Libro dei giardini -pensili di George, nel 1909 nacquero con febbrile rapidità i Tre pezzi op. 11 per pianoforte, i Cinque pezzi op. 16 per or­ chestra e il «monodramma» Erwartung. Pochi mesi, tra feb­

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braio e settembre, furono sufficienti per la composizione di capolavori che segnano una data fondamentale nelle vicende musicali del nostro secolo e definiscono compiutamente la poetica dello Schonberg che si è soliti chiamare «espressio­ nista». Schonberg rifiutava termini come atonale o atonalità, che sono comunque entrati nell’uso corrente: si preferisce parlare di emancipazione della dissonanza (perché non ha piu alcun significato l’obbligo di «risolvere» le dissonanze e si cancella la distinzione stessa tra consonanza e dissonanza), e di «so­ spensione della tonalità». Vengono scardinate le gerarchie della organizzazione tonale, e il concatenarsi degli accordi non rimanda più a funzioni tonali; ma lo stravolgimento e rin­ novamento del linguaggio riguarda molti altri aspetti del «ge­ sto» musicale, che rifiuta gli automatismi, le convenzioni di­ scorsive del linguaggio tradizionale, ne distrugge gli schemi, le simmetrie e le ripetizioni, crea nuovi mezzi di costruzione coerenti con le istanze di interiorizzazione, concentrazione, essenzialità. Frasi, temi, motivi tendono a concentrarsi in di­ mensioni ridotte o minime, l’armonia, il contrappunto, il tim­ bro assolvono a nuove funzioni in una sintassi che deve ritro­ vare soltanto in se stessa, all’interno della propria logica, le nuove strutture su cui reggersi. Le visionarie intuizioni, le in­ teriorizzate folgorazioni espressive rispondono alla logica.di una pura «necessità interiore»: è questo un concetto che ri­ corre spesso nell’epistolario tra Schonberg e Kandinskij (che iniziò nel 1911, quando entrambi avevano già dato vita ad in­ novazioni decisive) e nei loro scritti. Il musicista viennese e l’artista russo riconoscevano affinità elettive nelle loro crea­ zioni, e a questo proposito, senza indulgere ad approssimativi giochi di corrispondenze tra linguaggi e personalità differenti, è forse inevitabile instaurare confronti tra la sconvolta visione dello spazio pittorico del primo astrattismo di Kandinskij (uno spazio privato di un «centro» di riferimento) e il vertigi­ noso stravolgimento dello spazio sonoro che negli stessi anni produce in Schonberg l’abolizione di un centro tonale. Una condizione emblematica dell’espressionismo schónberghiano è quella di angosciosa e totale solitudine dell’unica protagonista di Envartung (Attesa), chiamata «monodram­ ma» perché c’è un solo personaggio, una donna: il testo di Marie Pappenheim (che era una dottoressa in medicina e ave­ va conosciuto Freud) presenta non a caso un sapóre psicana­ litico, ed è l’allucinato delirio di una donna che attende l’uo-

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mo amato e lo trova morto. Nella musica Adorno ravvisò la registrazione dell’inconscio, di moti corporei, shock, traumi: come da un sismografo sembrano essere direttamente rappre­ sentati processi psichici, un «flusso di coscienza oggettivato» (Schnebel), perché il flusso della musica si frantuma in una in­ calzante successione di idee, di brevi illuminazioni, con una re­ pentina mobilità suggerita anche dal disgregato frammentarsi del testo. Mentre in Envartung Schonberg disse di aver voluto «rappresentare tutto quanto si svolge in un secondo di massi­ ma eccitazione spirituale, diluito nel tempo, per cosi dire al ral­ lentatore», nell’atto unico successivo, Dìe gluckliche Hand (La mano felice, 1910-13) aveva progettato «un grande dramma concentrato in circa venti minuti, per cosi dire ripreso all’acceleratore»: oltre alle implicazioni autobiografiche e alle sugge­ stioni strindberghiane e simboliste riconoscibili nel testo (scritto da Schonberg) colpisce qui la ricerca di un convergere di mezzi espressivi (scene, luci, colori) in una prospettiva per qualche aspetto affine a quella del Suono giallo di Kandinskij (in verità di natura piu marcatamente astratta, e comunque concepito del tutto indipendentemente). I due lavori rappre­ sentano in modo diverso il rivivere negli anni dell’Espressionismo, con segno radicalmente mutato, dell’idea wagneriana del Gesamtkunstwerk‘. nella tensione visionaria verso una rappre­ sentazione totale, l’ansioso anelito di ricondurre tutto all’im­ mediatezza interiore approda ad un esito frantumato, dalle convergenze ed interazioni problematiche, che si inverano nel­ la invenzione musicale, di intensità lacerante. L’esplosione creativa del 1909 non si ripete negli anni suc­ cessivi, che videro un forte rallentamento dell’attività compo­ sitiva e la pubblicazione, nel 1911, del Manuale d'armonia (na­ to dalle concrete esigenze della intensa attività didattica di Schonberg, ma aperto anche alla riflessione sulle nuove espe­ rienze compiute in quegli anni: oltre che del superamento del­ la tonalità vi si parla, fra l’altro, dell’ipotesi di una «melodia di timbri» che si è voluta veder realizzata nel terzo dei pezzi per orchestra op. 16, dove in verità l’invenzione timbrica è determinante: all’inizio lo stesso accordo è intonato da stru­ menti diversi, e muta soltanto il colore sonoro). Nel 19n Schonberg compose i Sei piccoli pezzi op. 19 per pianoforte, dove si attua nel modo piu radicale, nella sua opera, la tensio­ ne ad una assoluta interiorizzazione: si procede per brevissi­ me illuminazioni, improvvise interiezioni, ed il timbro del pianoforte sembra rivolto ad una raggelata astrazione. Negli

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fig. 31

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stessi anni Webern approfondi in una serie di pezzi la ricerca nell’ambito della massima concentrazione in modi diversi da Schonberg, che già nel 1912 con il Pierrot lunaire muoveva verso il recupero di una certa continuità discorsiva. Nel Pier­ rot si trovano forme libere, ma anche rigorose forme contrap­ puntistiche come il canone per moto retto e retrogrado, e inoltre una passacaglia, e andamenti di valzer, di barcarola e cosi via: queste e altre allusioni a gesti tradizionali vanno po­ ste in rapporto con il testo e si proiettano in una dimensione irreale, stravolta ed ironica. Il testo è una scelta di 21 poesie di un simbolista belga, Albert Giraud, nella libera traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben e si pone sotto il segno del­ l’ironia, del paradosso, dell’immagine grottesca o malata, del fantasticare sul vuoto, del narcisismo o del sarcasmo: questo Pierrot è una sorta di clown sonnambulo, emblema, in mano a Schonberg, quasi di una regressione del soggetto, di una svagata follia, della perdita dell’identità. La musica si presen­ ta infatti come un variegato ed elaboratissimo caleidoscopio di immagini, dove è decisivo anche il rapporto per lo piu sghembo che si instaura tra il discorso strumentale e la parte vocale. Essa è costituita da una forma di recitazione intonata che Schonberg chiamò Sprechgesang (canto parlato), dove l’in­ terprete deve rispettare rigorosamente il ritmo ed intonare le note scritte con emissione parlata. Al di là dei complessi pro­ blemi che pone la realizzazione dello Sprechgesang va sottoli­ neata la sua natura di canto ibrido, estraniato, di fantasma di canto, di aggressione, quasi, ai canoni convenzionali della vo­ calità. Negli anni della guerra e in quelli immediatamente succes­ sivi Schonberg lavorò soltanto ai bellissimi Lieder op. 22 con orchestra (1913-16) e all’incompiuto oratorio Die Jakobsleiter (La scala di Giacobbe, 1917-22). Le istanze di ricostruzione di una maggiore continuità discorsiva, di una nuova organiz­ zazione del linguaggio che consentisse (diceva Schonberg) il recupero di forme di ampio respiro anche nell’ambito pura­ mente strumentale, condusse il musicista viennese alla propo­ sta del metodo dodecafonico, elaborato alla fine di un decen­ nio circa di attività creativa, come si è visto, assai limitata, an­ che se di qualità altissima. Il «metodo per la composizione con 12 note che stanno in rapporto soltanto fra loro» (comu­ nemente chiamato dodecafonia) è un metodo di organizzazio­ ne e controllo del materiale che ammette, quindi, le soluzioni stilistiche e formali piu disparate. Nucleo del materiale di una

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composizione è una serie comprendente i dodici suoni della scala cromatica temperata: la loro successione può presentarsi in quattro forme diverse (che sembrano rimandare a tecniche ben note al contrappunto fiammingo): quella originale, quella retrograda (dall’ultima nota alla prima), il rovescio o inversio­ ne (dove ogni intervallo è rovesciato in direzione opposta, ad esempio al posto di una terza minore ascendente si ha una ter­ za minore discendente), e infine il rovescio del retrogrado. Sono inoltre ammesse tutte le possibili trasposizioni; non è consentito invece di ripetere una nota al di fuori dell’ordine della serie. La dodecafonia si presenta come una sistemazione dell’organizzazione delle altezze sulla base acquisita dell’atonalismo e come uno sforzo di estendere al massimo il princi­ pio della riconducibilità della composizione ad un unico nu­ cleo di partenza, la serie. Schonberg propose questo metodo come una soluzione personale, anche se fondata sulla riflessio­ ne su alcuni aspetti della evoluzione del linguaggio musicale a partire dagli ultimi decenni del secolo xix, come uno strumen­ to utile per la sua attività di compositore (sebbene nella scuola vi sia stata qualche ambiguità su questo punto, nel teorizzare là «necessità storica» del metodo). E fin troppo ovvio osser­ vare che esso non sostituisce l’«ordine» tonale esaurito e su­ perato, non ne può riprodurre la funzionalità (basti dire che i procedimenti di organizzazione del materiale con la serie non sono ovviamente verificabili all’ascolto): non è un ordine nor­ mativo, ma un metodo di lavoro che si rivelò assai utile non soltanto per il suo creatore. Nel solo ambito della scuola di Vienna, in Schonberg, Berg e Webern, si assiste a tre modi radicalmente diversi di concepire il nuovo metodo. In Schon­ berg la sperimentazione della dodecafonia coincise con una svolta stilistica piuttosto netta, che è agevole ricollegare allo spirito del «ritorno all’ordine» che percorse l’Europa negli anni Venti, e soprattutto ad un aspetto essenziale della perso­ nalità di Schonberg e della sua poetica, la coesistenza di un consapevole rapporto di continuità storica con il passato e di un impulso radicalmente innovativo, utopico, proiettato ver­ so l’apertura di nuovi orizzonti. I due volti del compositore che Willi Reich definì «conservatore rivoluzionario» sono spesso inseparabili. Per questo all’inizio degli anni Cinquanta Boulez potè, dal suo punto di vista, deplorare la contraddizio­ ne tra la creazione di un nuovo metodo, la dodecafonia, e il suo impiego nell’ambito delle forme classiche, dei generi co­ dificati. Ma tale contraddizione fa parte della personalità e

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della poetica di Schonberg, soprattutto nella pienezza della sua maturità. Dopo le sconvolgenti esperienze degli anni 1909-n, che videro nascere le opere più radicali, già il Pierrot lunaire segna, come si è visto, una svolta. Ma una svolta più netta è quella che si profila tra le due raccolte di composizioni pianistiche degli anni 1920-23, i Cinque pezzi op. 23 e la Suite op. 25. L’op. 23 prosegue idealmente le esperienze del Pierrot e della Jakobsleiter. il rigore e la concentrazione dell’impegno costruttivo, fondato sull’unità del materiale musicale (ricon­ ducibile ad un principio unificatore), non comportano uno stacco netto dai principi espressivi delle opere precedenti, dal­ la loro intensità, dalle loro lacerazioni; nella Suite invece tro­ vano posto anche forme di danza settecentesche riprese con atteggiamento «neoclassico». Il gesto di Schonberg tende qui a raffreddarsi in linee dure e rigide, quasi ad oggettivarsi fa­ cendo propria la tipologia espressiva delle forme che adotta: si comprende con chiarezza il genere e il carattere ritmico della Giga o della Gavotta. Si produce un effetto di inquietante estraniazione, perché la logica delle forme settecentesche si legava alla tonalità, qui sistematicamente negata. L’uso della dodecafonia in Schonberg andò rapidamente oltre la rigida stilizzazione di parte dell’op. 25, recuperando una nuova libertà inventiva. In generale, comunque, negli an­ ni Venti e Trenta si nota la tendenza a ripristinare strutture simmetrico-estensive che in precedenza la espressionistica «necessità interiore» aveva distrutto. Gli anni dopo il 1920 sono caratterizzati da una ritrovata fecondità e da un suc­ cedersi di lavori significativi, fra i quali forse soprattutto il Quartetto n. j op. 30 (1927) e le Variazioni op. 31 per orche­ stra (1926-28) possono meglio rappresentare lo stile di Schon­ berg dopo che aveva preso compiutamente confidenza con il metodo dodecafonico. Nelle Variazioni un implacabile sforzo costruttivo, un sovrano magistero contrappuntistico sembra voler porre ordine in un vortice caotico, producendo l’effetto di un freddo delirio. In una luce livida ed allucinata emergono intuizioni e soluzioni che non appartengono al passato e che pure non possono rivelarsi senza trattenerne scorie, in un denso magma cui anche quei relitti sono necessari. La totale padronanza del nuovo metodo si manifesta anche nei due atti dell’incompiuta opera Moses und Aron (1930-32), che rappre­ senta forse la più straordinaria sintesi della maturità di Schon­ berg, una sintesi nata da uno strenuo impegno, da una tensio­ ne all’estremo, da un anelito all’inesprimibile che ne fa un ca­

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so unico nella storia del teatro musicale. Piu che di incompiu­ tezza per il Moses und Aron bisognerebbe parlare di conclusio­ ne aperta e sospesa, alla fine del secondo atto (sulla disperata invocazióne di Mose «O parola, parola che mi manchi!»): Schonberg scrisse e corresse piu volte il testo del terzo atto, con la morte di Aronne, ma non ne compose mai la musica. Rimane cosf senza esplicita soluzione l’antitesi tra Mose, in­ transigente difensore della purezza del pensiero (dell’idea del Dio unico, onnipresente, invisibile, irraffigurabile), ma inca­ pace di esprimerlo, e Aronne, che dovrebbe rendere accessi­ bile con la parola e l’azione l’inesprimibile assolutezza dell’i­ dea: Aronne (voce di tenore lirico contrapposta allo Sprechgesang di Mosè) può esprimersi solo per immagini, a prezzo di ri­ duttivi compromessi, e durante l’assenza di Mosè sul Sinai ce­ de alle pressioni del popolo che vuol tornare all’idolatria e consente il culto del Vitello d’oro, davanti al quale si scatena­ no l’irrazionale e il represso nell’orrore dei sacrifici umani. L’eccezionale rilievo conferito alla partecipazione del popolo, con il coro terzo protagonista, è un altro aspetto della com­ plessità della concezione dell’opera, che è stata oggetto di di­ verse interpretazioni, e che, con coerenza viennese, si incen­ tra in primo luogo su un problema di inadeguatezza di lin­ guaggio. Nella vita di Schonberg l’unico periodo privo di affanni economici era iniziato nel 1926, quando era succeduto a Bu­ soni sulla cattedra di composizione alla Accademia delle Arti di Berlino; ma all’avvento del nazismo egli decise di lasciare la Germania e si stabili negli Stati Uniti. Si delineò allora nella musica di Schonberg (soprattutto dopo il 1936) una tendenza nobilmente retrospettiva, una vocazione piu marcata a recu­ peri e ripensamenti, che si spinsero fino a ritorni alla tonalità. Furono gli anni di diverse trascrizioni, dei Concerti per violi­ no (1935-36) e per pianoforte (1942), del Quarto quartetto (1936), della ripresa e compimento della Seconda sinfonia da camera (1939) o dell’Ode to Napoleon (1942) per voce recitan­ te, pianoforte e quartetto d’archi. Poi, intorno al 1945, si profila un’ulteriore svolta: sembra che Schonberg ritrovi una libertà ed immediatezza nuove (che includono tutta la complessità delle esperienze fino a quel momento compiute). Riemerge la tendenza ad inventare forme liberissime, la materia sonora si accende di nuove intui­ zioni timbriche. La libertà che caratterizza il gesto inventivo schònberghiano nella splendida ultima stagione trova forse gli

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esiti culminanti nel Trio op. 45 (1946), che nella sua tensione visionaria è quasi una sintesi del pensiero di Schonberg nella sua complessità e molteplicità di aspetti, e in opere «ebrai­ che » (dai tempi del nazismo Schonberg era tornato alla fede dei padri) come A Survivor from Warsaw (Un sopravvissuto di Varsavia), basato su una sconvolgente testimonianza, De Pro­ fundis e i Salmi moderni, estrema formulazione della tormen­ tata religiosità del compositore.

Webern e Berg furono tra i primi allievi che Schonberg eb­ be a Vienna quando apri un corso presso una scuola privata nell’autunno 1904. Per Alban Berg (Vienna 1885-1935) egli fu l’unico maestro. Si era soliti definire la posizione di Berg nella scuola di Vienna come « coscienza del passato », ed è una defi­ nizione insufficiente, perché l’inclinazione a mediare tra recu­ peri retrospettivi e intuizioni innovatrici, il decisivo rapporto con l’eredità mahleriana, i legami con il gusto Jugendstìl, l’at­ tenzione per Debussy sono tutte componenti della complessità di una poetica che si pone sotto il segno dell’eterogeneo, del la­ birintico, intrecciando e facendo convivere una poderosa ten­ sione costruttiva (sorretta dalla predilezione per una minuzio­ sa sottigliezza di procedimenti, che impegna ad analisi inesau­ ribili) e una forza inventiva capace di immediata seduzione. Il riconoscimento della vocazione di Berg all’eterogeneo e al la­ birintico, della sua capacità di controllare con sovrana coscien­ za stilistica complesse ambivalenze è stato determinante per una piu approfondita comprensione della poetica berghiana: ricordiamo ad esempio la ritrattazione di Boulez, passato dal polemico articolo del 1948 all’invito ad approfondire la «poli­ valenza dei livelli di lettura» che schiudono le partiture di Berg. All’interno della Scuola di Vienna la poetica di Berg ap­ pare quindi in un certo senso opposta a quella di Webern; ma sarebbe semplicistico, anche alla luce della situazione attuale, porre questa netta differenziazione tra i due compositori (per­ altro legati da un profondo rapporto di amicizia e stima) sotto il segno della « coscienza del passato » per Berg e dell’apertura radicale verso il futuro per Webern. Alla poetica di Berg era estraneo l’anelito weberniano ad un’assoluta purezza stilistica, ad una cristallina concentrazione lirica: non a caso appare tan­ to diversa, nella loro opera, l’importanza del Lied, In Berg l’interesse per il Lied rimase sostanzialmente con­ finato al periodo dell’apprendistato. Questa produzione cul­ mina nei Sieben friihe Lieder (Sette Lieder giovanili, 1905-908) che il compositore rivide ed orchestrò nel 1928 e soprattut-

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to nei Quattro Lieder op. 2 (1908-909), che al loro interno se­ gnano il trapasso dall’oscuro clima post-tristaniano del primo (su testo di Hebbel) alla violenza espressionistica del quarto (su testo di A. Mombert), che è il primo pezzo «atonale» di Berg e fu il suo contributo all’almanacco Der Blaue Reiter cu­ rato da Kandinskij e Marc e pubblicato nel 1912 (conteneva anche un Lied di Webern, op. 4 n. 5, e di Schonberg un arti­ colo, riproduzioni di quadri e il Lied per soprano, celesta, ar­ monium, arpa Herzgewdchse su testo di Maeterlinck). Con questa intensissima pagina il congedo di Berg dalla dimensio­ ne del Lied per canto e pianoforte rimanda, implicitamente, ad una drammatica gestualità teatrale. Al di là della qualità dei Lieder op. 2 e di alcuni dei precedenti si può dire che la breve pagina per canto e pianoforte non apparteneva ad un genere specificamente congeniale alla vocazione di Berg a creare percorsi labirintici in articolazioni formali di più ampio respiro. Tale vocazione si profila chiaramente nella Sonata op. 1 (1907-908), unico lavoro per pianoforte pubblicato da Berg, e in modo ancor più originale e compiuto nel Quartetto op. 3 (1910). E naturale che per Berg la ricerca weberniana degli anni 1909-13 nell’ambito della massima concentrazione non possa avere un rilievo centrale: essa è limitata ai Quattro pezzi op. 5 per clarinetto e pianoforte (1913), la cui brevità è piega­ ta alle ragioni della poetica berghiana con un effetto dirom­ pente. Di grande concisione sono anche i 5 Lieder per voce e orchestra op. 4 su testi di Peter Altenberg (1912), che furono al centro di un clamoroso scandalo nel 1913 quando Schon­ berg ne diresse due a Vienna. Dopo l’autocostrizione della brevità dell’op. 5 Berg sembra lasciar esplodere la sua vena più autentica in un nuovo lavoro orchestrale, punto d’arrivo e momento culminante (insieme con il Wozzeck) della prima fase della sua attività, nei Tre pezzi per orchestra op. 6, compo­ sti quasi per intero nel 1914, ma finiti nel 1915. Nell’op. 6 la densità del lavoro tematico, basato per lo più su motivi brevi, su cellule minime, sottoposte a continua tra­ sformazione, è portata all’estremo e sembra giungere ad un vertice la vocazione di Berg ad «organizzare il caos», la sua capacità di addensare molteplici materiali, mediati da relazio­ ni complesse, in un organico proliferare non riconducibile (so­ prattutto nel terzo pezzo, Marsch) a strutture formali schema­ ticamente definibili, schiudendo prospettive apocalittiche di inaudita violenza. In aggrovigliatissime accumulazioni mate­ riali eterogenei sono compressi in un flusso magmatico, dove

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sembrano galleggiare come relitti, oppure dove i loro contorni tendono a cancellarsi in una dimensione quasi materica. La vicinanza dell’op. 6 con il Wozzeck non è soltanto stili­ stica e spirituale, ma anche cronologica, perché il progetto dell’opera, finita nel 1922 e rappresentata a Berlino sotto la direzione di Erich Kleiber il 14 dicembre 1925, si profilò fin dal 1914, subito dopo che Berg ebbe visto in teatro a Vienna il dramma di Biichner (di cui egli ignorava inizialmente la in­ compiutezza, cosf come non conosceva le manipolazioni ope­ rate sul testo dal primo editore, Emil Franzos). Partendo da un fatto di cronaca nera, un omicidio per gelosia, Biichner aveva caricato di implicazioni politico-sociali ed esistenziali molto complesse la vicenda del soldato emarginato e ridotto ad una condizione di disperata alienazione, che finisce per distruggere la donna amata e se stesso, e ne aveva tratto un dramma originalissimo, frantumato in atomi drammatici di incisiva rapidità, in improvvise folgorazioni affioranti dal buio. La musica di Berg esalta questi aspetti della drammatur­ gia di Biichner (aderendo alla polemica sociale, ma sottoli­ neando certi tratti di pessimistico nichilismo) e fa esplodere le potenzialità espressive, la forza visionaria ed allucinata del suo linguaggio, colmando, come notò Adorno, il divario cro­ nologico con il testo (anteriore all’opera di circa 80 anni) at­ traverso l’intuizione della sua «attualità» espressionistica. Berg caratterizzò ognuna delle 15 scene con una specifica so­ luzione formale che le conferiva conclusa coerenza, cercando di definire di volta in volta una perfetta coincidenza tra ragio­ ni drammatiche e musicali; ma le collegò con interludi e con l’uso di temi e motivi ricorrenti, cosf da garantire la unità e continuità di ogni atto. Accanto alla timbrica visionaria di una scrittura orchestrale di grande varietà e complessità, va notata nella partitura la coesistenza di piani stilistici diversi, sempre legati a precise esigenze di individuazione drammati­ ca, con la «mahleriana» presenza di marce e danze. Alcune si­ tuazioni suggeriscono ambiguità tonali (solo poche pagine so­ no propriamente tonali), adombrano e smentiscono un rap­ porto con la tonalità, traendo significati espressivi dalla diffe­ renziazione tra i diversi gradi di tali ambiguità e la vertigine della totale dissoluzione. Con il Concerto da camera per violi­ no, pianoforte e 13 fiati (1923-25) si profila una svolta, che va posta in rapporto con le prime opere dodecafoniche di Schon­ berg e con il nuovo clima degli anni Venti (non si era mai tro­ vata in Berg una indicazione come quella del primo tempo,

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che è un «tema scherzoso con variazioni»), ma che non deter­ mina cesure nette nella continuità della poetica berghiana. Nel 1925 segui il primo pezzo dodecafonico di Berg, un breve Lied su testo di Storm, la cui serie è usata anche nella Lyrische Suite (1925-26) per quartetto d’archi. Qui solo il i e il rv mo­ vimento, e parti del m e del v adottano il metodo dodecafoni­ co, in una variante caratteristica di Berg, perché la serie subi­ sce mutazioni nel corso del pezzo. Esso delinea una sorta di interiore azione drammatica (di cui si è scoperto nel 1977 il «programma segreto») che si conclude con accenti di abissale desolazione, nel fluire verso l’annientamento del Largo deso­ lato il cui mortale estinguersi offre un suggestivo esempio al­ l’interpretazione adorniana della musica di Berg come imma­ gine dello svanire. La Lyrische Suite è la piu fortunata opera strumentale di Berg insieme con il Concerto per molino (1935), dove il musi­ cista sembra voler trarre dal proprio linguaggio l’essenza liri­ ca, filtrata in una luce retrospettiva. In questo doloroso con­ gedo è particolarmente evidente una tendenza caratteristica della concezione berghiana della dodecafonia, quella di trarre dall’uso della serie tutte le possibili ambiguità tonali (il pezzo contiene anche una citazione di musica tonale, quella di un corale di Bach dalla Cantata B WV 66). Questo e altri aspetti del suo modo di intendere la serie (anche in funzione del biso­ gno di accumulare la maggior varietà possibile di materiale te­ matico) si ritrovano con esiti di particolare complessità nell’o­ pera che assorbì la massima parte delle energie di Berg tra il 1928 e il 1935, Lulw. la morte gli impedì di finire la strumen­ tazione (e la definizione di alcuni dettagli) di parte del m atto, cosi che l’opera potè avere una prima rappresentazione (limi­ tata a 2 atti) a Zurigo nel 1937 e andò in scena completa con le integrazioni di F. Cerha a Parigi nel 1979. Dai sette atti dei due drammi di Wedekind che hanno per protagonista Lulu, Lo spirito della terra e II vaso di Pandora, Berg trasse le sette scene del suo libretto operando una drastica riduzione e po­ nendo in luce precise simmetrie nella «carriera» di Lulu (vit­ tima di un «ordine» di cui rifiuta i principi e cui appare in­ commensurabile) dall’ascesa sociale alla morte per mano di Jack lo sventratore. La musica della Lulu conosce trasparenze e colori nuovi rispetto alla densità, alle tinte scure, alla dram­ maticità incandescente del Wozzeck'. non c’è piu la coinciden­ za tra una scena e una forma, perché le scene, assai piu lun­ ghe, intrecciano forme complesse di ampio respiro (come il

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rondò o la forma sonata) con pezzi chiusi (canzonetta, duettino, cavatina, Lied, arietta ecc.) in un complesso gioco di incastri. Tra forme «chiuse» (da intendersi come oggetto di allusione o citazione, al modo in cui si allude a diversi caratteri stilisti­ ci) e forme «aperte» (come recitativo, arioso, melologo) sembra che Berg intenda riassumere una densa rete di allusioni alla tradizione operistica da Mozart a Wagner. Con questi mezzi la vicenda sembra narrata in modo più lineare, rispetto alle ra­ pide folgorazioni drammatiche del Wozzeck*, ma si proietta in una dimensione surreale, come un vaudeville tragico, un folle girotondo, una onirica danza di morte, dove si addensano enigmaticamente ironia e struggenti tenerezze, inflessioni tra­ giche inestricabilmente miste anche al triviale, e ad una comi­ cità grottesca. Nella triade viennese Anton Webern (Vienna 1883 - Mittersill, Salisburgo, 1945) assunse la posizione del puro lirico: la sua scarna produzione possiede una continuità che non co­ nosce cedimenti e si pone sotto il segno di una ricerca condot­ ta con costante, ascetica tensione. Non per caso gli rimase estraneo il genere «ibrido» dell’opera, sfiorato solo in vaghi progetti da Maeterlinck, mentre al Lied è dedicata gran parte delle sue composizioni: la musica vocale comprende 18 dei 31 lavori pubblicati. Non venne mai meno in Webern la tensione verso un ideale di lirica purezza, di essenziale concentrazione, rivolto ad un’idea della musica come costruzione definita da leggi interne di assoluta coerenza e cristallina limpidezza, an­ che se il suo percorso presenta fasi diverse, delle quali l’ulti­ ma, come vedremo, ebbe una incidenza particolare sulle vi­ cende musicali del secondo dopoguerra. Laureato in musicologia a Vienna con una tesi sul Choralis Constantinus di Isaak, Webern studiò con Schonberg dal 1904 al 1908: a questi anni risalgono i più notevoli tra i lavori gio­ vanili che egli lasciò inediti, facendo iniziare il proprio catalo­ go con la Passacaglia op. 1 per orchestra del 1908. Una Passa­ caglia aveva concluso la Quarta di Brahms e anche una sinfo­ nia giovanile di Zemlinsky (del 1897): quella di Webern è una sorta di magistrale sintesi conclusiva e di congedo dal mon­ do musicale dell’inizio del secolo. Nell’intensità espressiva di questa pagina il gesto non è ancora prosciugato ed interio­ rizzato come nelle opere immediatamente successive, e non mancano momenti di abbandono ad una sensuale ebbrezza sonora (caso unico di Webern); ma il fascino di questo capo­

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lavoro deriva anche dalla tensione che si stabilisce tra tali aspetti e il rigore del controllo formale, l’austera liricità medi­ tativa, la essenzialità dell’elaborazione tematica e della scrit­ tura contrappuntistica. Tra il 1908 e il 1909 Webern musicò 15 poesie di Stefan George (soltanto un coro a cappella ero Lieder furono pubblicati come op. 2, 3, 4): come per Schon­ berg (ma con esiti musicali del tutto autonomi), anche per lui il rapporto con i versi di George fu decisivo nel momento del superamento della tonalità e della prima definizione della poetica più originale e matura. Il nuovo mondo sonoro rivela­ to in questi Lieder viene approfondito nelle composizioni strumentali del 1909, i 5 Sàtze op. 5 (Cinque movimenti) per quartetto e i 6 Pezzi op. 6 per orchestra. Inizia cosi una fase cruciale della ricerca weberniana, quella nell’ambito di una crescente concentrazione (che impropriamente si suole chia­ mare «aforistica»), tesa ad esiti sempre più radicali fino ai pic­ coli pezzi per violoncello e pianoforte op. 11. Le bagatelle op. 9 per quartetto (1911-13) e i 5 Pezzi op. io per orchestra (1911-13) sembrano esprimere «un romanzo con un unico ge­ sto» (per riprendere una famosa immagine di Schonberg), contraendo e rarefacendo tutti gli elementi compositivi anche rispetto ai lavori del 1909 (non mancano nell’op. 5 e nell’op. 6 pagine di una certa estensione, come la violenta marcia fu­ nebre op. 6 n. 4). Anche il rapporto con Mahler (compositore di cui Webern nella sua notevole attività direttoriale fu inter­ prete insigne) appare più che mai filtrato. Ogni nota, ogni pausa, ogni scelta timbrica si caricano di una intensità rivela­ trice, che attimo per attimo presenta una lirica assolutezza e una pregnanza espressiva estreme. Con il suo «cromatismo organico» (come lo definì Pousseur) Webern cancella ogni possibile allusione alla tonalità (spesso adombrata e negata nelle esperienze schònberghiane degli stessi anni). L’estrema frantumazione e differenziazione timbrica assume un signifi­ cato poetico ed espressivo della massima suggestione, trasfor­ ma ogni suono in un evento, ed anche per questa via l’estrema concentrazione e rarefazione comincia a definire uno spazio musicale nuovo, sottratto alle categorie tradizionali di polifo­ nia e armonia (uno spazio sonoro radicalmente nuovo sarà poi il punto d’arrivo della dodecafonia weberniana). Nel 1914 si apre una nuova fase nella musica di Webern: dopo aver approfondito all’estremo la ricerca nell’ambito del­ la massima concentrazione egli ritornò alla musica vocale, unendo al canto il pianoforte (nell’op. 12) o piccoli ed atipici gruppi strumentali (op. 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19). Trai poeti

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musicati vi sono Strindberg, Goethe, Kraus, canti popolari e Georg Trakl. Va sottolineato almeno lo straordinario signifi­ cato dell’incontro con Trakl nell’op. 14 (1917, 1919, 1921): appropriandosi delle lacerate, ermetiche immagini del testo la voce si carica di una tensione espressiva estrema, con il fre­ quente ricorso a linee spezzate in ampi intervalli esalta la vio­ lenza delle accensioni liriche di Trakl in una declamazione an­ tinaturalistica, la cui libertà trova stimolo anche nella irrego­ larità metrica dei versi. A partire dai 5 Volkstexte op. 17 (1924-25) Webern adotta il metodo dodecafonico proposto da Schonberg, usandolo in modo piuttosto semplice e senza che si determini una netta svolta stilistica. Ma nel nuovo me­ todo egli trova lo stimolo per tornare, dopo piu di dieci anni, alla musica strumentale, con brevi pagine che lasciò inedite e con il Trio op. 20 (1926-27), uno dei suoi più complessi capo­ lavori, che occupa una posizione a sé alle soglie dell’ultimo pe­ riodo. A partire dalla Sinfonia op. 21 (1927-28) si precisano i ca­ ratteri più tipici del modo weberniano di intendere la dodeca­ fonia negli anni della avanzata maturità. Webern tende in un certo senso a «comporre la serie», a pensarla cioè come un materiale di partenza che unifichi compiutamente diversi aspetti della composizione, che ne sia davvero il nucleo gene­ ratore in un modo che lo stesso compositore paragona alla im­ magine della Urpflanze, della «pianta originaria» della teoria goethiana della natura, dove le radici, il gambo e la foglia si identificano come «variazioni dello stesso pensiero». Attra­ verso la serie Webern persegue la massima coerenza interna, che stabilisca tra ogni elemento il maggior numero possibile di relazioni. Di qui anche l’ossessione, in alcune opere di questa fase, per simmetrie interne alla serie e per procedimenti a ca­ none. Le linee dei canoni della Sinfonia o di molte altre pagine non sono però percepibili come tali: si frantumano passando da uno strumento all’altro (con la massima differenziazione timbrica), si proiettano in diversi registri con intervalli spesso di grande ampiezza, sono interrotte da pause che assumono un peso fondamentale e riducono le linee del canone ad esili trame sonore che sembrano vacillare nel vuoto. Cosi la dode­ cafonia in Webern crea uno spazio sonoro del tutto nuovo, estremamente rarefatto e non più interpretabile secondo i tra­ dizionali concetti di armonia o polifonia, fatto non di linee e accordi, ma di «punti» e costellazioni. Esili trame strumentali si frantumano in continue mutazioni timbriche e il soffio liri­

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co weberniano appare, negli esiti piu radicali, rarefatto e fil­ trato in un clima di geometrica astrazione, di cristallina limpi­ dezza. La voce di una solitudine estrema sembra opporre alla disumanità del mondo il rigore di una raggelata perfezione, nella assoluta purezza di arcane geometrie sonore. Al loro ra­ dicalismo guardarono all’inizio degli anni Cinquanta i «postweberniani», che videro però in modo unilaterale una imma­ gine di Webern separata dalle sue radici nell’espressionismo, dalla sua vocazione lirica. Accanto a pagine strumentali deter­ minanti per i «postweberniani» come il Concerto op. 24 (1931-34), le pianistiche Variazioni op. 27 (1935-36),.il Quar­ tetto op. 28 (1936-38) e le Variazioni op. 30 per orchestra (1940-41) si trovano lavori vocali, tutti su testo di Hildegard Jone, poetessa che Webern predilesse nelle tre cantate e nei Lieder dell ’ ultima fase. [p p]

3. Igo/ Stravinsky, dall'epoca dei «Ballets russes» al periodo seriale. Verso la fine del primo decennio del xx secolo Parigi si era arricchita di una nuova iniziativa artistica che di li a poco avrebbe determinato importanti conseguenze anche nel cam­ po musicale. Si tratta dei «Ballets russes», una compagnia di balletti fondata da Sergej Djagilev (Novgorod 1872 - Venezia 1929). Avendo di mira la realizzazione di un’«opera d’arte to­ tale» di stampo modernistico nell’ambito coreutico, il geniale impresario attrasse intorno a sé numerose personalità di spicco e che stavano allora emergendo nei diversi campi: scenografi come Bakst e Benois (che già facevano parte di un sodalizio ar­ tistico animato dallo stesso Djagilev in Russia, il gruppo «Mir Iskusstva» [Il mondo dell’arte]), quindi Picasso, Braque ed al­ tri; danzatori-coreografi come Fokine, Massine, Lifar, Nijin­ sky, Balanchine; musicisti come Debussy (Jeux, 1911), Ravel (Daphnis et Chloé, 1912), R. Strauss (La légend de Joseph, 1914), Satie (Parade, 1917), Prokof'ev (Chout, 1921; Pasd’acier, 1927; Le fils prodigue, 1929), Milhaud (Le train bleu, 1924), Stravinsky (Uoiseaudefeu, 1910; Petruska, 1911; Le sa­ cre du printemps, 1913; Le rossignol, 1914; Pulcinella, 1920; Mavra, 1922; Noces, 1923; Apollon Musagète, 1928). In questo elenco di importanti musicisti che composero ap­ positamente per i «ballets russes» nel ventennio di attività del gruppo, spicca per rilevanza numerica e per continuità la pròdu-

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zione di Igor7 Stravinskij (Oranienbaum, Pietroburgo 1882 New York 1971). La collaborazione con i «Ballets russes» fu un’esperienza fondamentale per la carriera artistica del com­ positore russo. Quando Djagilev commissionò al musicista l’orchestrazione di un paio di brani di Chopin per Les Sylphides, e quindi L’oiseau de feu) Stravinskij era considerato un giovane promettente che, dopo un periodo di apprendistato sotto la guida di Rimskij-Korsakov, aveva al suo attivo un paio di composizioni di successo {Scherzo fantastique e Peu d'artìficè). L’oiseau defeu lo impose d’un balzo all’attenzione internazionale attestandolo quale legittimo erede di quella tradizione russo-francese che assegna alle metamorfosi timbri­ che una funzione primaria nell’elaborazione musicale. L’Ozseau defeu non è però solamente un lavoro riassuntivo, una dimostrazione di grande capacità assimilativa e sintetica di in­ flussi che vanno da Rimskij-Korsakov e a Musorgskij a Ravel e Dukas; fra le pieghe dell’orchestrazione rutilante già traspa­ re una nuova coscienza creativa che raggiungerà tosto la piena identità stilistica con Petruska e Le sacre du printemps. Questi due balletti rappresentano il momento saliente di quel periodo creativo che dall’impiego di fonti popolari russe è stato appunto definito «periodo russo» del compositore. In Petruska queste fonti sono particolarmente evidenti - almeno otto ne sono state identificate - in quanto, essendo gli esterni della vicenda ambientati nella Piazza dell’Ammiragliato a Pie­ troburgo, durante il Carnevale, Stravinskij riprende direttamente certi temi per creare l’atmosfera da fiera che incornicia la vicenda e funge da esterno al teatro da baraccone in cui si svolge la vera e propria azione burattinesca. A parte queste ci­ tazioni dirette, il linguaggio stravinskiano. è fortemente im­ pregnato di elementi desunti dall’ambito popolare: l’incande­ scente propulsione ritmica degli ostinati e dei ritmi asimme­ trici, il modalismo, la violenza fonica. Stravinskij non indulge però minimamente ad un folklorismo di maniera; si serve di tali elementi per ricavare ispirazioni, strutture e sviluppi, or­ ganizzati da un processo compositivo estremamente persona­ le: la piazza di Pietroburgo non è una cartolina illustrata, ma un centro di vita pulsante. E di questi elementi Stravinskij si serve anche per caratterizzare i tre burattini animati e i loro differenti caratteri: la stizza e la malinconia di Petruska, l’a­ nimalità del Moro, la frivolezza e la civetteria della Ballerina. La pubblicazione in facsimile degli schizzi del Sacre du prin­ temps ha posto in evidenza come anche queste «scene della

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Russia pagana» che per la loro aggressività fonica e ritmica provocarono uno dei più clamorosi «scandali» della storia del­ la musica del Novecento, siano state influenzate da fonti ispirative di natura folklorica in misura ben maggiore di quanto lo stesso Stravinskij fosse disposto ad ammettere. D’altro can­ to studi recenti dimostrano come nel Sacre Stravinskij impie­ ghi un tipo personalissimo di elaborazione seriale ante lìtteram\ fin dal Sacre si possono quindi riscontrare in nuce due aspetti dell’arte stravinskiana - l’appropriazione di modelli preesistenti ed una particolare predisposizione ad una elabo­ razione tematica di tipo permutatorio - che, su modelli di­ versi, saranno anche alla base dei suoi successivi periodi crea­ tivi. Il Sacre è, insomma, ancor più di Petruska^ un prototipo stilistico che contiene racchiusi in sé i tratti salienti del lin­ guaggio stravinskiano: strutturazione armonica e melodica di tipo scalare, elaborazione «permutativa» dei materiali tema­ tici, priorità costruttiva dell’elemento ritmico-temporale. Prima che Stravinskij fosse invitato da Djagilev a collabo­ rare con i «Ballets russes» aveva già in cantiere un’opera trat­ ta da una favola di Andersen, Le rossìgnol, che fu poi ripresa ed ultimata l’anno successivo la creazione del Sacre. Sebbene tra il primo atto, composto in precedenza, e i due successivi, si possa cogliere il salto stilistico determinato dalle ultime esperienze creative, la struttura «a quadri» dell’opera ne atte­ nua i dislivelli, fornendo una giustificazione drammatica, fun­ zionale. Fino a Mavra (1922), opera buffa che parodizza l’ope­ ra comica italo-russa traendo il soggetto da un poema di Puskin, Stravinskij non comporrà più un lavoro teatrale in cui si realizza un’identificazione fra voce e personaggio. Tanto in Renard che in Noces, tratti entrambi da testi popolari russi, le voci sono mescolate agli strumenti dell’orchestra ed, unita­ mente ad essi, fungono da commento musicale «esterno» al­ l’azione, sebbene con essa sincronizzate. Inoltre, con una dra­ stica riduzione dell’organico strumentale ad un piccolo com­ plesso formato, nel caso di Noces, unicamente da strumenti a percussione, le qualità ritmiche-iterative del linguaggio musi­ cale stravinskiano raggiungono un’inaudita forza espressiva, in sintonia con la scansione narrativa del mito favolistico e con la celebrazione rituale. Una situazione analoga si realizza neW Histoire du soldat (1918) con la riduzione dell’orchestra «ai minimi termini» di un unico strumento in rappresentanza di ogni famiglia stru­ mentale e con l’abolizione del canto, sostituito dalla narra­

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zione e dalla recitazione. Questa storia tratta da un racconto di Afanasjev, del soldato insidiato dal diavolo che vuole car­ pirgli l’anima, fra le diverse interpretazioni simboliche, può essere intesa come la parabola delTemigré che per continue macchinazioni diaboliche perde la patria tutte le volte che crede di averla ritrovata: versione aggiornata e ammodernata del motivo dell’Errante, un motivo conduttore dell’esistenza di Stravinskij. Con il balletto Pulcinella, la sua prima composizione espres­ samente parodistica (nel senso barocco, di ri-creazione me­ diante l’impiego di materiali musicali preesistenti - nel caso specifico, di Pergolesi o comunque a lui erroneamente attri­ buiti) Stravinskij inaugura quel nuovo periodo creativo dura­ to un trentennio (l’opera di confine è La carriera del libertino, del 1951) che con termine equivoco è stato definito «neoclas­ sico»: equivoco perché pone in risalto uno solo dei suoi tratti salienti, e cioè il recupero della tradizione del passato, sicché l’esperienza creativa di Stravinskij tende a venir accostata e confusa con quella di tutti i compositori che fra le due guerre, con diversi esiti ed intenti, trassero ispirazione e materiali musicali da epoche storiche precedenti ed in particolar modo dal Settecento. Il cosiddetto neoclassicismo di Stravinskij è invece altra cosa, in quanto, al di là di atteggiamenti mera­ mente rievocativi, restaurativi, ironico-grotteschi, è un modo personalissimo di porsi in rapporto non dialettico e non evo­ lutivo nei confronti della tradizione storica e di catturarla sti­ listicamente. Certamente Stravinskij, al pari dei suoi colleghi, è particolarmente attratto dai temi propriamente classici, co­ me quelli della mitologia greca (l’opera-oratorio (Edipus rex, del 1926-27, i balletti Apollon Musagète, 1927-28; Perséphone, 1933'345 Orpheus, 1947) e dagli stilemi del linguaggio tardobarocco di cui si serve come materiale da costruzione «neu­ tro» dall’ Ottetto di fiati (1922-23) e dal Concerto per pianoforte e fiati (1923-24) in poi; nella sua concezione ontologica del tempo come di un continuo presente, Stravinskij non pone gerò barriere storiche ed epocali, ma si riappropria tanto di Cajkovskij (il balletto Le baiser de la fée, del 1928), quanto del sinfonismo classico {Sinfonia in do, del 1938-40) come della polifonia antica (Messa, del 1944-47). Cosi come i materiali storici sono inglobati nelle sue personali strutture intervallati e scalari, cosi come i procedimenti di sviluppo tradizionali so­ no ricondotti ai tratti salienti della propria concezione dell’e­ laborazione tematica, le forme ed i generi tradizionali (sonata,

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variazione, sinfonia, concerto, ecc.) prestano al neoclassici­ smo stravinskiano stutture che, spogliate delle loro originarie funzioni dinamiche dalla sua concezione statica del tempo musicale, servono da contenitori ai materiali tematici animati dalla propulsione motorica dei suoi ritmi. La coincidenza dell’inizio del periodo neoclassico con la conversione religiosa, che aprirà un nuovo importante canale ispirativo all’arte di Stravinskij, tosto inaugurato con un capo­ lavoro assoluto (la Sinfonia di Salmi, del 1930), non è un fatto casuale. Cosi come quella rappresentò per Stravinskij, sradi­ cato per sempre dalla propria patria dopo la Rivoluzione rus­ sa, un importante ancoraggio alle proprie radici culturali (la sua confessione era quella ortodossa), anche il suo neoclassici­ smo, nonostante le apparenti aperture nei confronti della tra­ dizione europea, rappresentò, nel suo splendido isolamento stilistico, uno scudo protettivo nei confronti degli influssi esterni, una personale prassi creativa cui la poetica musicale (Poétique musicale, pubblicato a Parigi nel 1942), costruita cu­ cendo assieme riflessioni personali e altrui, intese attribuire una veste di sistematicità e di coerenza estetica. Esposta in una serie di conferenze tenute alla Harvard University di Cambridge (Mass.), venne tosto pubblicata all’inizio degli an­ ni Quaranta. Il passaggio dall’aggressività fonica, dall’incandescenza timbrica e dall’inesorabile pulsazione ritmica del periodo rus­ so ai raddolcimenti neoclassici che dall’ Apollon Musagète in poi cominciarono a manifestarsi con sempre maggior evidenza nella sua produzione musicale, furono interpretati, nella logi­ ca evoluzionistica della critica occidentale, come un tradimen­ to dell’avanguardia ed una regressione restauratrice, oppure come un salutare ritorno alla tradizione e non come moduli espressivi diversi, maniere diverse, all’interno di uno stile che manteneva inalterate le proprie caratteristiche. Maniere che in certi lavori concepiti nel corso degli anni Quaranta (ad es. nelle Danses concertantes, del 1941-42) giustapponendosi in modo un po’ troppo casuale, rischiano di sconnettere la stessa unità, la stessa coerenza dello stile stravinskiano. All’inizio degli anni Quaranta la produzione stravinskiana risente infatti della crisi del trasferimento negli Stati Uniti, della seconda emigrazione del compositore in seguito al preci­ pitare degli eventi in Europa. La maggior parte della produ­ zione stravinskiana concepita all’epoca della Seconda guerra mondiale è costituita da lavori d’occasione o su commissione quanto mai disparati: elabora un’armonizzazione «alla Stra-

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vinskij » dell’inno statunitense, scrive per un balletto di ele­ fanti del Circo Barnum (Circus Polka, del 1942), per le scene di Broadway (Scènes de ballet, 1944), per la band di Woody Herman (Ebony concerto, del 1945), si cimenta nella musica da film e ricicla poi i prodotti musicali di tutti i progetti abor­ titi in suites orchestrali 0 in altri lavori; deciso a rimanere ne­ gli Stati Uniti, che diventò la sua ultima patria di adozione in vita, spinto da problemi economici e dal desiderio di inserirsi in quella nuova realtà, cercò insomma di rendersi disponibile ed aperto nei confronti dei suoi valori, dei suoi gusti e del suo mercato musicale. Con i lavori composti nella seconda metà degli anni Qua­ ranta, dal Concerto in re (1946) per orchestra d’archi alla Car­ riera del libertino (1948-51), Stravinskij supera brillantemente la crisi e crea capolavori che rappresentano una superba sinte­ si delle migliori qualità del suo neoclassicismo; in particolar modo l’opera, ispirata da una serie di Hogarth che illustra la progressiva degradazione del libertino, trasformata da Stra­ vinskij e dal librettista Auden in una favola di diaboliche ten­ tazioni operate ai danni del protagonista Tom Rackwell dal suo servitore Nick Shadow - alias il Maligno - con redenzio­ ne finale prodotta dalla amorevole Anne Trulave ( = vero Amore), un tempo fidanzata dello scapestrato Tom. La sua natura favolistica permise a Stravinskij di spremere, mediante la finzione parodistica, il succo della tradizione operistica da Monteverdi a Mozart, a Verdi, rigettando però l’aborrito psi­ cologismo drammatico. Nei lavori successivi, la Cantata (1951-52), il Settimino (1952-53), i Tre canti di William Shakespeare (1953) e In memoriam Dylan Thomas (1954), Stravinskij manifesta un sem­ pre piu spiccato interesse per l’impiego delle permutazioni e delle elaborazioni canoniche della tecnica seriale. Ha inizio cosi l’ultimo perido creativo di Stravinskij che, osservato dal­ l’esterno del suo itinerario compositivo e giudicato usando le categorie estetiche della contrapposizione frontale tra neo­ classicismo e dodecafonia, sembrò un ennesimo voltafaccia, una delle tante trasformazioni camaleontiche del composito­ re; se osservato dall’interno della sua evoluzione creativa, ap­ pare come un inevitabile aggiornamento stilistico. Ancora una volta è il suo stile ad inglobare le tecniche seriali ed a piegarle alle proprie esigenze creative. Prova ne sia che in quel com­ piuto approdo alla serialità che sono i Threni: id est Lamentationes ]eremiae Prophetae (1957-58) il rigore della costruzione

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musicale è funzione di una severità liturgica, di un ascetismo arcaicizzante. Il precedente Cantìcum Sacrum (1955) in cui la serialità è ancora impiegata assieme a parti libere da vincoli seriali, dalla sede per la quale fu composta - la Basilica di San Marco a Venezia - trae ispirazione per far rivivere la solenni­ tà rituale e la magnificenza timbrica degli antichi maestri ve­ neziani in un’aura sonora quasi atemporale e sospesa. Lavori del genere testimoniano come la serialità non rappresentò af­ fatto per Stravinskij un rifiuto del passato - di quello storico come di quello personale - bensì un altro modo di avvalorar­ lo. Stravinskij del resto non aveva perso affatto la sua prece­ dente attrazione per la rigenerazione di testi musicali del pas­ sato, per l’atteggiamento parodistico in senso più stretto. In occasione della prima esecuzione del Cantìcum Sacrum il com­ positore scrisse per un organico affine a quello impiegato nella cantata sacra una trascrizione delle variazioni bachiane sul co­ rale Vom Himmel hoch da komm ich her con diverse licenze stravinskiane rispetto all’originale, seguita qualche anno dopo da un paio di elaborazioni orchestrali di canzoni sacre (Tres Sacrae Cantiones, del 1957-59) e di madrigali di Gesualdo da Venosa (JAonumentum pro Gesualdo di Venosa ad CD annum, del i960). Dai Threni fino alle ultime composizioni della metà degli anni ’60 la creatività stravinskiana, d’ora in poi fedele alla se­ rialità integrale, si concentrò principalmente sulla composizio­ ne di lavori d’ispirazione sacra (A Sermon, a Narrative and a Prayer, 1960-61; The Flood, Il diluvio, espressamente conce­ pito per la televisione del 1961-62; Abraham and Isaac, del 1962-63, sul testo biblico in ebraico) e particolarmente di ca­ rattere funebre (i Requiem Canticles, 1965-66) di cui diversi dedicati ad amici ed a personalità scomparse (Epitaphium, 1959; Double Canon Raoul Dufy in memoriam, sempre del 1959; Elegy for J. F. Kennedy, del 1964; Introitus alla memoria di T. S. Eliot, del 1965). In tutti questi lavori la serialità è uti­ lizzata in funzione espressiva del testo: lo sostiene con una sorta di accordalità atonale, lo contorna con episodi prolusivi o di transizione dalle sonorità ora cupe, ora taglienti, sempre più affilate ed essenziali, o gli porge la struttura intervallare per cantillazioni solenni, melismi e vocalizzi che si alternano a canoni atonali, declamazioni corali, ad una gamma quanto mai vasta di soluzioni vocali. Le due ultime composizioni strumentali di maggior respiro, i Movements (1958-59) per pianoforte e orchestra e le Variazioni orchestrali in memoria

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di A. Huxley (1963-64) per la concentrazione di un discorso musicale densissimo in continua rapidissima trasformazione nel minimo spazio, per la compressione estrema del tempo musicale da parte di un compositore che sempre aveva asse­ gnato un’importanza strutturale primaria a questa dimensione musicale, rappresentano i punti di massimo avvicinamento di Stravinskij all’avanguardia contemporanea e sono un’ennesi­ ma dimostrazione della straordinaria capacità di autorigene­ razione creativa che ha contraddistinto l’intero suo cammino artistico protrattosi per piu di mezzo secolo, [gv] 4. Canto popolare e apertura intemazionale nei paesi dell'Est europeo: Karol Szymanowski, Zoltdn Kodaly e Béla Bar­ tók. Parlando delle scuole nazionali si è visto come nel corso dell’ottocento nelle regioni ai margini della Mitteleuropa e dei paesi mediterranei di consolidata tradizione storica (Fran­ cia e Italia) fossero maturate, nella coscienza dei compositori particolarmente sensibili a certe istanze, aspirazioni ad una ri­ scossa culturale che nella maggior parte dei casi avevano pro­ dotto come risultato artistico un innesto di temi e ritmi de­ sunti dal folclore locale sul corpo di linguaggi fortemente in debito con la cultura egemone. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio del Novecento queste istanze furono avvertite con crescente e drammatica urgenza, da un lato stimolate da un nazionalismo sempre piu acceso, rinfocolato dalla coscienza del progressivo sgretolamento politico delle potenze egemoni, dall’altro dall’urgenza di partecipare a quel movimento di rin­ novamento linguistico che, corrodendo all’interno il processo evolutivo della stessa cultura egemone, stava facendola appro­ dare alla modernità. Specialmente nei paesi dell’Est, sui quali aveva pesato maggiormente il giogo politico e culturale dell’impero asbur­ gico e in minor misura quello della Russia zarista, i composi­ tori che si affacciavano ventenni al nuovo secolo ed erano ani­ mati da un insopprimibile bisogno di riscatto e di mutamento politico e culturale, per svincolarsi dai modelli tradizionali ag­ giornarono la propria cultura e il proprio linguaggio parteci­ pando al movimento dell’avanguardia mitteleuropea e cercan­ do però al tempo stesso di salvaguardare la propria personalità creativa e la propria identità culturale. Posizione non sempli­ ce perché si trovarono come in una morsa di condizionamenti

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e di pressioni culturali opposte, di fronte alle quali dovevano in egual misura reagire. La reazione iniziale degli esponenti di punta dell’avanguardia musicale delle diverse culture, del po­ lacco Szymanowski, del rumeno Enescu, dell’ungherese Bar­ tok, dopo una iniziale attrazione verso l’avanguardia austro­ tedesca del momento (Richard Strauss in particolare) seguita da una successiva scalmana per quanto di nuovo stava matu­ rando a Parigi, fu la ricerca di alternative stilistiche più auto­ nome. Karol Szymanowski (Timosovka, Kiev 1882 - Losanna 1937), attratto del pari dalle iridescenze sonore di Skrjabin e dalla cultura orientale, maturò uno stile in cui un lirismo esta­ tico, il florilegio e l’arabesco, le atmosfere sensuali e preziose, ricevono un particolare spicco in lavori come la Terza sinfonia con tenore o soprano e coro, sottointitolata Canto della notte (1916), come l’opera Re Ruggero (1926) o lo Stabat mater (1925-26). Nell’ultimo periodo creativo dimostrò anche un notevole interesse nei confronti del folklore, che integrò nel suo stile, cosi come fece anche George Enescu (Liven-Virnav, Moldavia 1881 - Parigi 1955) fin dagli anni giovanili (la Suite per orchestra op. 9, 1903, le 2 Rapsodie rumene op. 11, del 1901) ispirandosi poi ad esso nella maturità per estrarne libe­ ramente elementi idiomatici e linguistici, come il caratteristi­ co «parlando-rubato» ed i micro-intervalli. Laddove in questi itinerari creativi il riferimento al folklo­ re come mezzo di affermazione di una propria identità assu­ me un valore almeno equivalente all’aggiornamento culturale ed alla partecipazione all’avanguardia internazionale del pri­ mo Novecento, in quello dei due più importanti compositori ungheresi del nostro secolo, Zoltàn Kodàly e Béla Bartók in­ vece è prioritario. Dalla metà del primo decennio del Nove­ cento i due musicisti collaborarono appassionatamente ad una sistematica ricerca etnomusicologica impostata su basi scien­ tifiche ed alla pubblicazione del materiale raccolto che, in ac­ cordo con il loro acceso spirito di ribellione antiasburgica, li indirizzò pure ad un’utilizzazione creativa dei tratti salienti di quel folklore, conducendoli ad esiti artistici molto diversi. Zoltàn Kodàly (Kecskemét 1882 - Budapest 1967), interes­ sato prioritariamente alla rifondazione della cultura musicale della nazione su basi folkloristiche, utilizzò il canto popolare come mezzo educativo e come mezzo comunicativo: una co­ municazione musicale che, volendo raggiungere un’estensione popolare, rinuncia a complicazioni ed a sperimentazioni lin­ guistiche. Trovò tosto nella creazione corale (Psalmus hunga-

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rìcus, per tenore, coro e orchestra, 1923; Budavari Te Deum, 1936; Missa brevis, 1944) il mezzo più idoneo e più consenta­ neo alla propria sensibilità artistica trasfondendovi una vee­ mente eloquenza, frutto del connubio tra un temperamento drammatico naturalmente passionale e il recupero di gesti so­ lenni mutuati dalla tradizione storica del passato. Nonostante diverse composizioni di Kodàly siano entrate stabilmente nel repertorio concertistico europeo (lo Psalmus hungaricus, le Danze di Galanta, del 1933, la suite dalle musiche di scena per Hary Jdnos, 1926), gli stretti legami stabiliti dal musicista con la cultura, il linguaggio e la vita musicale ungherese, fanno as­ sumere alla sua esperienza artistica una forte caratterizzazio­ ne nazionale. Caso diametralmente opposto è quello dell'amico e collega Béla Bartók (Nagyszentmiklós, Transilvania 1881 - New York 1945) i cui esiti creativi, nonostante affondino profonde radici nella cultura e nel folklore ungherese, non solamente si collo­ cano su un piano internazionale, ma rappresentano un’espe­ rienza creativa cosf originale e complessa da porsi in alternati­ va, stilistica e culturale, a quella dei massimi compositori del­ l’epoca, Schonberg e Stravinskij. Momento cruciale della car­ riera artistica bartokiana è il biennio 1907-908. Fino ad allora Bartók aveva dimostrato una grandissima capacità di assimila­ zione stilistica rivolgendosi a modelli tardottecenteschi come Liszt e Brahms (ad es. nel Quintetto con pianoforte in do mag­ giore , 1903-904) prendendosi poi anch’egli una scalmana per Richard Strauss che, unendosi al suo acceso nazionalismo, lo spinse alla composizione del poema sinfonico Kossuth (1903). Qualche anno dopo iniziò a raccogliere e studiare il canto popolare assieme a Kodàly, che di ritorno da un viaggio a Pa­ rigi gli fece conoscere le più recenti composizioni pianistiche di Debussy. La duplice scoperta di un ricchissimo patrimonio di canti che, incontaminati dalla tradizione colta, manteneva­ no inalterate caratteristiche linguistiche proprie (modali, rit­ miche, intonative) e di un’avanguardia che poneva soluzioni innovative diversissime ed anzi opposte al wagnerismo ed alle sue derivazioni - e per di più presentava certe affinità con il folklore autentico come l’impiego di scale pentafoniche, della modalità, di originali strutture intervallari - determinò una brusca svolta nell’arte musicale di Bartók. Il suo strumento il pianoforte - col quale aveva già ottenuto brillanti risultati in campo esecutivo, divenne il mezzo prediletto per una ricer­ ca creativa che mettesse a frutto queste nuove importanti

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acquisizioni, e lo condusse ad un progressivo consolidamento linguistico: dall’acceso sperimentalismo delle 14 Bagatelle op. 6 e dei io Pezzi facili del 1908 in cui Bartók inizia a crearsi una propria sintassi musicale basata su una nuova concezione intervallare, armonica e ritmica, e su una inedita trasfigura­ zione musicale del canto popolare, alla Suite op. 14 (1915) ed alle 8 Improvvisazioni su canti contadini ungheresi op. 20 (1920) è una progressiva conquista di un proprio inconfondibile stile a cui il canto popolare presta non solamente ispirazione tema­ tica, bensì anche e specialmente strutture scalari e modali, schemi ritmici, prassi esecutive, gesti espressivi ora malinco­ nici e sognanti che indugiano in un lento dipanarsi di nostal­ giche melopee, ora irruenti ed esplosivi come nell’ Allegro bar­ baro (1911) che afferma una nuova concezione percussiva del tocco pianistico. Negli anni della svolta stilistica, Bartók si cimenta pure nel Primo quartetto per archi op. 7 (del 1908), rivelando in questo ambito una concezione quanto mai integrata, sintetica e orga­ nica del processo compositivo, ispirata all’esempio tardobeethoveniano: in luogo di uno sviluppo tematico amplifica­ tivo, vi è una continua elaborazione di nuclei tematici - pe­ raltro riconducibili ad un unico nucleo primigenio - median­ te procedimenti fugati, inversioni, variazioni e simili. Conse­ guentemente a questo ideale di costruzione organica, si com­ pie la ricerca di una forma compatta che leghi assieme i movi­ menti in una logica musicale stringente: i tre movimenti dell’op. 7 si susseguono senza soluzione di continuità, mentre nel Secondo quartetto op. 17 concepito una decina d’anni dopo (nel 1917) Bartók accentua i contrasti espressivi facendo se­ guire ad un secondo movimento ricco di sonorità barbariche (glissandi, pizzicati e simili) uno conclusivo di glaciale fissità, come già nella Suite op. 14. Nel corso del secondo decennio del nostro secolo, Bartók, compositore eminentemente strumentale, si dedicò pure al teatro musicale. I primi due lavori, l’opera II castello del prin­ cipe Barbablù (1911) ed il balletto II principe scolpito nel legno (1914-16), assecondano il tormentato simbolismo di Béla Ba­ lazs mediante una drammaturgia musicale attentissima a co­ gliere musicalmente i nessi simbolici mediante metafore sono­ re, equivalenze e trasformazioni tematiche, complessi schemi tonali. Mentre in questi due lavori incentrati sul conflittuale rapporto tra uomo e donna e sulla complessa costellazione simbolica che esprimono e di cui sono espressione metàforica,

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Bartók trae evidenti ispirazioni da recenti soluzioni espressive del teatro contemporaneo (Debussy e Stravinskij) ed anche meno recenti (l’inizio wagneriano del balletto, con quel lungo pedale germinale, memore dell’Oro del Reno), nel balletto II mandarino meraviglioso (1918-19) la violenza espressionistica con cui è interpretato il truculento soggetto - una celebrazio­ ne dell’impulso sessuale - piega il linguaggio bartokiano ad un uso esasperato, parossistico, delle componenti timbriche e ritmiche, con esiti che anticipano le intemperanze sonore di Varese. All’inizio degli anni Venti, dopo un decennio di consolida­ mento linguistico, Bartók si era forgiato uno stile personalis­ simo. Dall’avanguardia musicale dell’epoca non subirà dun­ que piu vere e proprie influenze, ma con essa instaurerà con­ fronti su un medesimo terreno esplorativo: nelle due Sonate per violino e pianoforte (1921 e 1922) certamente si può ravvi­ sare un tormento cromatico che dimostra convergenze con l’arte schònberghiana, cosi come nella Sonata per pianoforte (1926) si possono cogliere assonanze stravinskiane, ma tutto viene riportato al denominatore comune del suo stile. Uno sti­ le in cui la confluenza di elementi tratti dalla tradizione popo­ lare e di altri desunti da quella colta è il crogiolo di una fusio­ ne che realizza una sintesi mai prima tentata con tanto rigore e con tanta determinazione. Analisi condotte dal musicologo Ernò Lendvai dimostrano come le principali componenti del­ la sintassi armonica di Bartók derivino dalla combinazione di due sistemi, l’uno che affonda le sue radici nella musica folklorica dell’est europeo, e l’altro che invece deriva dal campo armonico occidentale. Il musicologo ungherese ha inoltre di­ mostrato come anche alla base della concezione formale di Bartók vi siano criteri riconducibili a principi matematici co­ me la sezione aurea o la serie numerica di Fibonacci, che rea­ lizzano strutture aperte e dinamiche. Quello della forma fu per Bartók un problema costante, nella sua continua aspirazione a realizzare sintesi creative e soluzioni organiche sempre piu ardite. La ricerca di una forma organica che stringa sempre piu le continue metamorfosi te­ matiche, e quella condotta sul suono non come elemento pre­ stabilito, ma come sua continua creazione e rigenerazione, condussero Bartók, nel decennio tra il 1927 ed il 1937, alla creazione di alcuni dei suoi capolavori più perfetti e affasci­ nanti: i tre quartetti, dal Terzo al Quinto (1927, 1928, 1934), la Musica per archi, celesta e percussione (1936) e la Sonata per

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due pianoforti e percussione (1937). La macroforma prediletta (ad eccezione del Terzo quartetto, in forma A B A'B') è quella cosiddetta «ad arco» o «a ponte», in cui attorno ad un movi­ mento centrale che funge da perno, quattro altri movimenti si dispongono specularmente attorno ad esso, nel senso che gli ultimi due elaborano elementi tematici dei primi due costi­ tuendo cosi una sorta di ripresa variata (AB C B' A') ricca di possibilità strutturali ed espressive, nel gioco della rifrazione speculare, con tutte le deformazioni ad esso connesse. Nel campo della ricerca sonora, Bartók violenta la natura degli strumenti e delle formazioni tradizionali (il quartetto d’archi, appunto) per esplorare possibilità timbriche nuove che lasceranno un segno indelebile nella musica moderna e con temporanea: ora clusters e arabeschi evanescenti come ba­ gliori, clangori e fruscii appena percettibili in movimenti lenti di carattere estatico e visionario, ora movimenti di trascinan­ te vitalismo sonoro che aggrediscono con la violenza barbari­ ca di effetti inediti e con la loro frenesia ritmica. A suggello di questa prodigiosa stagione compositiva, Bartók terminò in quegli anni la raccolta pianistica dei Mikrokosmos, 153 pezzi in ordine di difficoltà crescente che rappresentano il Gradus ad Pamassum del pianismo moderno. Giunto al punto zenitale della sperimentazione sonora e della sintesi creativa e formale, l’arte di Bartók con i Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte (1938) commissionatigli da Benny Goodman, il Secondo concerto per violino e orchestra (1937-38), il Divertimento per orchestra d'archi (1939) inizia un progressivo smorzamento delle sonorità più accese, sfavillan­ ti, percussive, il recupero di un tematismo più memorizzabile: un’inclinazione verso una comunicazione più facile e diretta, insomma, che si accentuerà vieppiù con il suo trasferimento negli Stati Uniti raggiungendo il suo acme nel Concerto per or­ chestra del 1943 in cui i caratteristici stilemi bartokiani sono come smussati delle loro angolosità, immersi in un’atmosfera più diatonica e in un’orchestrazione che intende porre in lu­ ce le qualità virtuosistiche delle diverse sezioni orchestrali. Con il Sesto quartetto per archi (1939) che rinuncia alla forma a ponte per una successione di quattro movimenti introdotti da una tortuosa formula prolusiva in progressiva espansione, Bartók sembra quasi voler ridimensionare la sua arte quartettistica sulla falsariga delle prime esperienze. Con il Terzo con­ certo per pianoforte, concepito, assieme a quello per viola (que­ st’ultimo solamente abbozzato e poi rielaborato da Tibor

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Serly) nel suo ultimo anno di vita, relegando l’orchestra ad una funzione di sfondo e recuperando un pianismo sottile e li­ neare, sembra invece volersi ricollegare alla tradizione classi­ ca, e questo collegamento è quanto mai scoperto nell" Adagio religioso, che è una suggestiva e libera parafrasi della « Canzo­ ne di ringraziamento» del Quartetto op. 132 di Beethoven. Anche Bartók, insomma, come molti altri compositori, dopo una piena maturità di incandescente sperimentazione, adotta negli ultimi anni un «terzo stile»; e anche per Bartók è molto difficile penetrare a fondo le motivazioni di questa svolta. La ricerca di una motivazione soddisfacente richiede co­ munque un riesame del suo intero arco creativo e del signifi­ cato di esso. L’arte bartokiana non è solamente il punto di in­ contro e di saldatura, la sintesi fra due linguaggi, bensì di due culture, quella folklorica (non solo ungherese, per l’interesse sempre dimostrato da Bartók per altre culture) e quella colta. L’emergenza di quella popolare nella creazione artistica dei tre decenni compresi tra il 1907 ed il 1937 realizzò quel con­ solidamento stilistico che gli permise di confrontarsi con l’a­ vanguardia contemporanea mantenendo una propria ben pre­ cisa identità, ma mai Bartók tagliò i ponti con la tradizione del passato come fecero compositori più radicali e sperimen­ tali (ad esempio Varèse). Una volta che egli si affermò come «terza via» dell’avanguàrdia europea (almeno nella sua co­ scienza), le barriere difensive opposte dalla componente folklorica della sua arte in parte caddero (pur rimanendo essa in­ separabile dal suo linguaggio), ed emersero con sempre mag­ gior evidenza quelle della componente colta, i suoi profondi legami, mai recisi, con la tradizione del passato. Ne scaturì una sorta di singolare e personalissimo neoclassicismo o me­ glio, per non equivocare, di personale ri-evocazione classica favorita, con il suo trasferimento in America, anche da una nostalgia per l’Europa e per i suoi valori culturali di cui la pa­ rafrasi della «Canzone di ringraziamento» è il documento più commovente e che più di ogni altro ci comunica lo strazio di quel brusco, benché inevitabile, sradicamento, [gv]

5. La Spagna di Manuel de Falla. Un’altra esperienza creativa basata sull’utilizzazione dei caratteri salienti del folklore per la creazione di un linguaggio originale ed affatto moderno, è quella dello spagnolo Manuel

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de Falla (Cadice 1876 - Alta Gracia, Argentina 1946). Avvia­ to allo studio ed al recupero della cultura nazionale da Felipe Pedrell, come già Albeniz e Granados, ebbe tempo e modo, nel periodo di formazione, di aprirsi alle esperienze dell’avan­ guardia europea nel corso di un soggiorno parigino tra il 1907 e l’inizio della Prima guerra mondiale. Il trentenne composi­ tore aveva potuto permettersi di compiere il viaggio di studio a Parigi con il premio di un concorso bandito dall’Accademia delle Belle Arti di Madrid che aveva vinto presentando La vida breve, opera in un atto in cui le esperienze maturate nel­ l’ambito della zarzuela, gli influssi del verismo italiano e fran­ cese e perfino di Wagner, si fondono in un complesso dram­ maturgico ed in un linguaggio operistico quanto mai originali. Nei primi due decenni del xx secolo, Parigi funzionò come luogo di scambi tra la cultura francese e quella spagnola. I gio­ vani compositori spagnoli si recavano a Parigi attratti dalla vi­ vacità del clima culturale e dai nuovi fermenti che vi si agita­ vano, e trovavano i due massimi compositori francesi del pri­ mo Novecento, Ravel e Debussy, perfettamente padroni del­ l’idioma nazionale spagnolo. Ciò che stupì maggiormente Fal­ la non fu tanto il fatto che con la Spagna autentica entrambi i compositori avevano avuto soltanto rapporti indiretti e occa­ sionali, quanto piuttosto la naturalezza e l’originalità degli esi­ ti espressivi che i due compositori sapevano ricavare dall’im­ piego del folklore della sua patria d’origine: la «verità senza autenticità» aveva definito Falla questo modo di impiegare il folklore, che senza la benché minima concessione ad un esoti­ smo di maniera, distilla il colore locale attraverso un processo di pura astrazione e lo ricompone in una nuova unità lingui­ stica. Il problema di Falla era, al pari di tutti i giovani composito­ ri e specialmente di quelli che dalla periferia della cultura eu­ ropea si trasferivano nell’epicentro dell’avanguardia, come salvaguardare la propria identità stilistica, la propria persona­ lità creativa, di fronte a colossi di originalità come Stravinskij, Debussy e Ravel. La sua autodifesa fu appunto il folklore in­ teso come «verità senza autenticità». Per Debussy e Ravel l’i­ spirazione spagnola era una delle tante che servivano ad inne­ scare i loro processi creativi; per Falla, che poi in Spagna fece ritorno, divenne la sua dimensione esclusiva e specifica. A Pa­ rigi Falla mise a fuoco le qualità salienti del suo stile tanto traendo diretta ispirazione dalle forme caratteristiche del can­ to popolare spagnolo (Quattro pezzi spagnoli, pubblicati da

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Durand nel 1909, Siete canciones populates espanolas, del 1914), quanto evocando i profumi ed i colori della Spagna con soluzioni timbriche originalissime (Notti nei giardini di Spagna, per pianoforte e orchestra, composti tra il 1909 e il 1915). I due lavori successivi, Elamorbrujo (L’amore stregone) origi­ nariamente (1915) concepito come «gitaneria in un atto e due quadri scritta espressamente per Pastora Imperio», una «bailaora» gitana, quindi trasformato in balletto (1925), e il Cap­ pello a tre punte (1916-19), un balletto tratto da un famoso racconto di Pedro de Alarcón, rappresentano il culmine della trasfigurazione folklorica del linguaggio musicale di Falla. Epurato delle evanescenze sonore, degli ultimi residui chiaro­ scuri dell’impressionismo, il suo stile acquista d’ora in poi sec­ chezza e incisività sempre piu accentuate, che raggiungono il loro culmine nel Retahlo de maese Pedro, rappresentato nel 1923, tratto da un famoso episodio del Don Chisciotte, e nel Concerto per clavicembalo e cinque strumenti (1926). In questi due lavori Falla dimostra inoltre una certa volon­ tà di trarre ispirazione dalla tradizione del passato (di quella clavicembalistica di Cabezón e di Scarlatti nel menzionato concerto) rievocata attraverso le qualità salienti del suo stile e in modo comunque indipendente da certe tendenze ironiche, da certi ricuperi classicistici effettuati da altri suoi colleghi eu­ ropei. Il suo progetto piu ambizioso, la «cantata scenica» Atlantida con cui Falla intendeva celebrare la Spagna ritor­ nando alle sue sorgenti mitologiche, non ebbe il tempo di ul­ timarlo; sconfortato dalle vicende politiche che avevano semi­ nato la violenza e il terrore nella sua amata patria, mori esule in Argentina, [gv]

6. La musica in Germania fra le due guerre: Paul Hindemith, Kurt Weill e Hanns Eisler.

Dopo la fine della prima guerra mondiale Vienna non ebbe piu nel mondo tedesco l’egemonia culturale degli inizi del se­ colo, mentre assunse crescente rilievo il ruolo di Berlino, che conobbe soprattutto negli anni Venti una eccezionale vitalità, stroncata dall’avvento del nazismo: fu una delle capitali-guida nel radicale rinnovamento del clima culturale postbellico. In Germania il nuovo clima riflette la complessa e contradditto­ ria realtà della Repubblica di Weimar, dalla sanguinosa re­ pressione dei moti spartachisti agli anni della ripresa econo-

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mica, alla crisi della fine degli anni Venti. Una insofferenza per il gusto espressionista diffuso prima della guerra si mani­ festa nell’asciutto realismo e nella impassibile constatazione della disfatta della «Nuova oggettività» (e accanto alla oggettivata, crudele allucinazione di un Otto Dix trova posto il fe­ roce sarcasmo dei disegni di Grosz); una radicale revisione del modo di concepire i rapporti fra l’artista e la società fa nascere le preoccupazioni didattiche e razionalistiche della «musica d’uso» (Gebrauchsmusik}\ finalità «didattiche» e d’uso carat­ terizzate da una precisa consapevolezza politico-morale so­ stengono le esperienze teatrali di Piscator e Brecht. Anche la fondazione del Bauhaus presuppone un ripensamento del rap­ porto tra l’artista e la società. Nel nuovo clima del dopoguerra le prime opere significati­ ve di Paul Hindemith (Hanau 1895 - Francoforte sul Meno 1963) si imposero con una forza d’urto capace di suscitare scandalo: fecero scalpore i brevi atti unici Morder, Hoffnung der Frauen (Assassino, speranza delle donne, sul celebre testo di Kokoschka, 1919), la ironico-grottesca «commedia per ma­ rionette birmane» Das Nusch-Nuschi (1920) e Sancta Susanna di Stramm (1921), tre lavori solo apparentemente, nella scelta dei testi, legati ad un clima espressionistico, in realtà caratte­ rizzati da un vitalismo ribelle e provocatorio alieno da soluzio­ ni stilistiche radicali. In una direzione decisamente antiespressionistica, nel senso del rifiuto della musica come linguaggio dell’interiorità, sembra muovere il piu famoso lavoro strumen­ tale composto da Hindemith all’inizio degli anni Venti, la Kammermusìk n. 1 mit Finale 1921 (1921), il primo di una se­ rie di pezzi per diversi organici tutti intitolati Kammermusìk\ è «musica da camera» in un significato che non ha nulla a che vedere con problematiche ottocentesche o primonovecente­ sche, vuol essere «musica come musica» e basta. La partecipa­ zione di Hindemith al clima culturale del primo dopoguerra sembra inizialmente porsi sotto il segno della vitalistica affer­ mazione di una immediata spontaneità, che rifiuta una conce­ zione problematica del linguaggio musicale. In modo partico­ lare la Kammermusik n. 1 e la Suite 1922 per pianoforte posso­ no apparirci oggi testi emblematici del clima disincantato di allora, con l’asprezza aggressiva e con Patteggiarsi vagamente dadaistico che porta fra l’altro all’inserimento di materiali tratti dalla quotidianità della musica di consumo. Ad esempio nel «Finale» della prima Kammermusik si cita un fox-trot alla moda: non va dimenticata in questa partitura la malinconica e sobria suggestione del tempo lento, ma altrove prevale la

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ruvida articolazione dei piani sonori, la rigidezza « macchini­ stica» del vorticare di spigolosi contrappunti. E le danze della Suite 1922 sono state accostate al segno livido e graffiante di un Grosz. I lavori fin qui citati rilevano però soltanto alcuni aspetti della esuberante attività del primo Hindemith (che, allievo di Arnold Mendelssohn e Bernhard Sekles a Francoforte, fu an­ che attivo come virtuoso di viola e membro di un celebre quartetto, e dal 1921 fu tra i responsabili del Festival di Do­ naueschingen: dal 1927 cominciò anche ad insegnare, alla Hochschule fiir Musik di Berlino): dopo una iniziale disponi­ bilità ad un certo eclettismo (dove pure si scorge l’inclinazio­ ne ad un far musica non problematico) egli approdò alla defi­ nizione di una poetica «neobarocca» e oggettivistica, nel no­ me di un ideale di artigianale concretezza, che si manifestò anche nel suo interesse per la Gebrauchsmusik, per la «musica d’uso» rivolta all’intrattenimento dei dilettanti e ad una fun­ zione didattica. Nelle opere degli anni Venti prevalgono solidi ed aspri contrappunti, incessanti andamenti macchinisticomotorici, un largo impiego della tecnica dell’ostinato. Tali ca­ ratteri non riguardano soltanto la musica strumentale, e si ma­ nifestano anzi con particolare vitalità nella prima versione dell’opera Cardillac (Dresda 1926) stabilendovi un singolaris­ simo rapporto con l’argomento, tratto da una novella di Hoff­ mann, Das Fraulein von Scuderia e segnato da un’impronta espressionistico-visionaria. La figura dell’orefice Cardillac che non riesce a separarsi dalle proprie creazioni e uccide perciò i suoi clienti, rubando loro i gioielli che ha venduto, è la prima di quelle che nel teatro di Hindemith affrontano il problema del rapporto tra l’artista e la società. A tale tema Hindemith sarebbe ritornato nel 1934-35 con i sette quadri del Mathis der Maler, dopo aver partecipato, pe­ rò, alla breve voga della Zeitoper, dell’«opera d’attualità», ef­ fimera, ma caratteristica manifestazione del clima culturale in Germania prima del 1930: non la ignorò, pur accostandola in modo del tutto personale, neppure Schonberg nell’atto uni­ co Von heute auf morgen (Da oggi a domani, 1928-29) ed essa coinvolse fra gli altri Krenek e lo Hindemith di Neues vom Ta­ ge (Novità del giorno, 1928-29). Nel 1929, inoltre, Hinde­ mith collaborò con Brecht nel Badener Lehrstuck vom Einverstandnis (Lehrstiick di Baden Baden sull’accordo); ma le radi­ cali divergenze sul modo di intendere la dimensione «didatti­ ca» (che per Hindemith era solo musicale-artigianale, indi­

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pendentemente dall’insegnamento politico del testo) portaro­ no in breve ad una rottura. La composizione del Mathis der Maier segna una svolta nella maturità di Hindemith (che dopo l’avvento del nazismo si ap­ partò in misura crescente e lasciò la Germania definitivamen­ te nel 1938): il libretto dello stesso Hindemith racconta la cri­ si creativa del pittore Mathias Grunewald di fronte alla Ger­ mania sconvolta dalle guerre dei contadini e il suo superamen­ to nella consapevolezza di dover soltanto seguire la vocazione artistica. Il problema del protagonista è sentito da Hindemith in modo autobiografico, e la soluzione sembra riflettere la sua affermazione di una artigianale devozione alla musica come assoluto. Essa si può collegare a certe scelte stilistiche dell’o­ pera, ad esempio alla tendenza ad una certa semplificazione e chiarificazione della scrittura contrappuntistica: si delinea nel Mathis una tendenza che Hindemith avrebbe proseguito negli ultimi anni, volgendosi ad un piu chiaro diatonismo, ad un più esplicito legame con la tonalità ripensata secondo un « si­ stema» teso a definirne i fondamenti da lui ritenuti «natura­ li» (anche in sede teorica, r^Dnterweisung im Tonsatz). Già le implicazioni ideologiche del Mathis indicavano la ricerca di un ideale astratto di musica assoluta e tutta l’ultima fase di Hindemith sembra dominata dall’aspirazione a trovare stabili e salde certezze. In Die Hannonie der Welt (L’armonia del mondo, 1956-57) Hindemith si identifica con la contempla­ zione dell'armonia delle sfere, con l’atteggiamento speculati­ vo di Keplero. Si fa piu evidente nella tarda attività dì Hinde­ mith il rischio dell’accademismo e dell’ottusa artigianalità del «musicante» polemicamente denunciato da Adorno; ma la sua posizione retrospettiva e la sua aspirazione ad una musica dai fondamenti e valori assoluti, fuori dalla storia, possono portarlo anche nell’ultima fase ad esiti tutt’altro che accade­ mici, tra severe malinconie e variegati umori fantastici. Ad esempio nel Ludus tonalis (1942) per pianoforte i moti di una fantasia vitalissima sembrano oggettivarsi in una dimensione di lucida, disincantata nitidezza, di spoglia e severa sobrietà. Fra gli esempi caratteristici del clima culturale tedesco ver­ so la fine degli anni Venti e della voga della Zeitoper va ricor­ dato il caso di Jonny spielt auf (Lipsia 1927) del viennese Ernst Kfenek (1900), allievo di Schreker. Kfenek in seguito si acco­ stò alla dodecafonia (fu amico di Berg e Webern) e si volse ad ideali musicali di severa austerità ad esempio nel Karl V

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(1930-33); ma la fortuna del suo Jonny spielt auf (titolo che si è soliti tradurre Jonny suona per voi), largamente sopravaluta­ to, documenta un gusto allora attualissimo nel taglio teatrale della vicenda, di sapore quasi cinematografico, nell’ingenuo ottimismo della contrapposizione tra il vecchio mondo euro­ peo e un assai vago «nuovo mondo» americano, nella funzio­ nalità scenica di un linguaggio eclettico (da una solida scrittu­ ra contrappuntistica a inflessioni melodiche pucciniane), dove un particolare colore era conferito da echi di Gershwin e Cole Porter: bastò questo per dare a Jonny l’immeritata fama di «opera jazz». Con esiti di molto maggiore coerenza stilistica e di ben di­ verso rilievo si rifece talvolta al linguaggio della canzone e di quello che allora in Europa era chiamato il «jazz » Kurt Weill (Dessau 1900 - New York 1950), che proprio nel 1927 iniziò la sua collaborazione con Brecht con il breve MahagonnySongspiel. Questo lavoro in sé compiuto (Songspiel è un neolo­ gismo che combina Singspiel con songj è anche il nucleo dell’o­ pera in 3 atti Aufstieg uni Fall der Stadt Mahagonny (Ascesa e caduta della città di Mahagonny, Lipsia 1930), che fu peraltro preceduta, nel 1928, dal maggior successo della coppia Brecht-Weill, Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, Ber­ lino 1928). Weill era stato allievo di Busoni a Berlino e aveva tenuto presenti anche le esperienze di Stravinskij e Hinde­ mith: già prima di conoscere Brecht la sua evoluzione stilisti­ ca si era rivolta alla ricerca di una semplificazione, di un gesto incisivo, chiaro e nitido. La poetica di Weill era quindi già de­ finita in una direzione che poteva felicemente incontrarsi con la concezione brechtiana della musica e della sua funzione nel teatro. Brecht, che fu sempre estraneo alle esperienze musica­ li piu complesse e radicali del suo tempo, elogiò in Weill la apertura al linguaggio della canzone, del cabaret, la ricerca di una semplificazione in nome di una immediata evidenza ge­ stuale. Nel teatro di Brecht la musica, come gli altri elementi e separatamente da quelli, deve contribuire a stimolare una chiara consapevolezza critica: non deve illustrare il testo, ser­ virlo o accrescere il potere emozionale, ma deve mediarlo, in­ terpretarlo, spiegarlo, prendere partito. Nei songs di Weill gli schemi stereotipati e consunti del linguaggio della canzone sono lucidamente svelati nel loro ca­ rattere di fittizia evasione e di merce e assumono un carattere inquietante, di critica denuncia. Sotto il segno di un gesto graffiante e lucidamente incisivo si colloca anche il rapporto

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di Weill con vocaboli e caratteri della tradizione «colta», pre­ senti in misura rilevante, accanto alle pagine piu vicine alla canzone, soprattutto nella citata favola anticapitalistica della città di Mahagonny e nel balletto Die siehen Todsunden (I set­ te peccati capitali, Parigi 1933). Con esso si concluse il perio­ do breve e fecóndo della sua collaborazione con Brecht, che aveva portato anche a soluzioni stilistiche piu sobrie e austere nel dramma didattico Der Jasager (Colui che dice di si, 1930). Il musicista che con Brecht collaborò piu a lungo e con piu profonda identità di vedute, senza perdere la propria autono­ mia, fu Hanns Eisler (Lipsia 1898 - Berlino 1962), che lo in­ contrò a Berlino quando già si era lasciato alle spalle la forma­ zione con Schonberg e le prime esperienze dodecafoniche (fra l’altro nella notevole Sonata op. 1 del 1923), perché all'epoca della sua adesione al Partito comunista (1926) aveva ritenuto di poter e dover fornire, con la sua musica, un contributo di­ retto al movimento rivoluzionario. Autore di molte musiche per il teatro di Brecht (La madre, Galileo, Schweijk e altro), di canzoni di lotta, i Massenlieder, o di musica «colta» segnata da una piu complessa ricerca, Eisler distinse diversi livelli di im­ pegno stilistico in rapporto alla destinazione del pezzo, sem­ pre perseguendo una incisiva evidenza gestuale ed evitando di cadere nel rischio di una sciatta banalità. Con Brecht collaborò anche Paul Dessau (1894-1979), che all’incontro con Brecht dovette gli stimoli decisivi e il suo la­ voro piu fortunato, Die Verurteilung des Lukullus (La condan­ na di Lucullo, 1951), ecletticamente aperto a suggestioni da Stravinskij, Weill e Hindemith. Tutti i musicisti finora menzionati scelsero l’esilio al mo­ mento dell’affermazione del nazismo. Per altri di poco piu giovani, come Boris Blacher (1903-75), Karl Amadeus Hart­ mann (1905-63) e Wolfgang Fortner (1907) restare in Germa­ nia significò chiudersi in un sostanziale isolamento, tanto che la loro produzione più significativa, pur stabilendo eclettici rapporti con le esperienze della prima metà del secolo, nacque soprattutto dopo il 1945. Fu Hartmann, il più notevole fra questi autori, che parlò per la propria situazione negli anni del nazismo di «emigrazione interna». Nelle sue otto sinfonie e nell’opera da camera Simplicius Simplicissimus (composta nel I934‘35 e in seguito riveduta) si nota la attenzione a Reger, ad un gusto polifonico «neobarocco», a Bartók, allo Stravin­ skij neoclassico e ad altri, con un eclettismo incline ad assu­ mere funzioni drammatico-espressive.

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Il concetto di «emigrazione interna» potrebbe in una certa misura essere riferito anche alTisolamento di Strauss nei suoi ultimi anni: considerando il suo un caso a sé si può dire che il nazismo ridusse all’esilio, oppure al silenzio o all’isolamento totale tutti i compositori tedeschi di un qualche rilievo. Il piu noto fra coloro che non rappresentano un’arte «degenerata» fu Carl Orff (1895-1982), che giunse alla maturità con i Car­ mina burana del 1935-36. La ricerca della semplificazione, dell’elementare, di un vitalismo primordiale punta sulla itera­ tiva insistenza del ritmo, su una scrittura a blocchi, sull’osti­ nato, sul diatonismo, sull’assenza (o la scarsa presenza) della polifonia e dello sviluppo tematico. Il modello è facilmente ri­ conoscibile: lo Stravinskij delle Noces e, per altri aspetti, delVCEdipus; ma si tratta di un modello brutalmente semplificato ed involgarito. I Carmina burana trovarono un seguito nei Catulli carmina e nel Trionfo di Afrodite, che formano una trilo­ gia di cantate sceniche, [pp]

7. Il «Gruppo dei Sei». La netta cesura che la prima guerra mondiale segnò nella storia politica ed artistica europea, nel centro parigino portò a completa estinzione gli ultimi residui delle correnti legate al gusto raffinato e prezioso dell’Art Nouveau. In campo musi­ cale si affermò allora una tendenza antidecadentistica che professava un’estetica musicale oggettiva e quotidiana epura­ ta da ogni barlume di psicologismo e di tormento estetico, di cui si fece portavoce Jean Cocteau in un manifesto poetico in­ titolato Le Coq et l'Arlequin (1918). Quale maestro e capo ca­ rismatico di questa «Nuova Semplicità» musicale fu indicato da Cocteau, Erik Satie, che già nell’anteguerra aveva orienta­ to la sua singolare esperienza creativa verso esiti ironici e sa­ tirici in una serie di composizioni pianistiche dai titoli umori­ stici. Fu proprio questo spirito ironico, umoristico, assieme al modernismo ed al vitalismo di Parade (1917), questo «Esprit Nouveau » come lo aveva definito Apollinaire, ad attrarre at­ torno a Satie ed a Cocteau un gruppo di giovani compositori denominato dal giornalista Henri Collet «Gruppo dei Sei»: Georges Auric, Louis Durey, Arthur Honegger, Darius Mil­ haud, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre. Vi furono, nella vita del gruppo, momenti di particolare aggregazione, quali la partecipazione collettiva di quasi tutti i membri a Les mariés

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de la Tour Eiffel (1921) o la scelta di temi ispirativi comuni (ad es. l’ispirazione pastorale: Machines agricoles, 6 pastorali per voce e 7 strumenti, di Milhaud, Pastorali, per pianoforte di Auric e Tailleferre, Pastorale d'Eté di Honegger, degli anni 1919-20). L’emergere di personalità artistiche individuali nei compo­ sitori piu creativi cominciò a produrre spaccature e defezioni. Lo stesso capo carismatico, Satie, indignatosi per un atto d’«infedeltà» di Poulenc e di Auric, si allontanò dal gruppo un paio d’anni dopo. Non è un caso che la prima crepa del gruppo si sia creata a causa del salmo drammatico Le Roi David (1921) di Honegger (Le Havre 1892 - Parigi 1955), il compositore piu distante dalle istanze poetiche di Satie e dell’«Esprit Nouveau ». Negli anni Venti e Trenta lo attrassero particolarmente, in ambito teatrale, il dramma con musica, l’oratorio sceneggiato di argo­ mento biblico o mitologico (Judith, 1922; Antigone, 1927, dal testo sofocleo rimaneggiato da J. Cocteau, Amphion, 1931, su testo di P. Valéry) e il «mistero» medievale (Jeanne d'Arc au bùcher, 1935 su testo di P. Claudel), sicché partecipò attiva­ mente a quel movimento di modernizzazione dei temi tragici e mitologici caratteristico della cultura francese di quegli an­ ni, come del resto fece anche Milhaud {Les malheurs d'Orphée, 1925, su testo di A. Lunel, le opere in un atto L'enlèvement d’Europe, L3abandon d3Ariane e La délivrance de Thésée, del 1925 su testo di H. Hoppenot e le musiche di scena per l’Oresteia in collaborazione con P. Claudel). Nell’ambito della musica strumentalé le ascendenze tede­ sche della sua formazione culturale presero tosto il sopravven­ to su quelle francesi conducendolo, dopo qualche bozzetto sinfonico come quello famoso di ispirazione ferroviaria {Paci­ fic 231, dal nome di una locomotiva che si lancia nella corsa), alla sinfonia vera e propria con una produzione complessiva di cinque sinfonie composte tra il 1929 ed il 1947. Darius Milhaud (Aix-en-Provence 1892 - Ginevra 1974) fra i membri di quel sodalizio fu il piu fecondo, cón una pro­ duzione complessiva che supera i 700 lavori. Stilisticamente rimase fedele ad un linguaggio politonale di chiara evidenza melodica e di esuberante vitalità ritmica che si presta alle più disparate ibridazioni catturando ora le inflessioni della musica popolare sudamericana {Le boeufsur le toit, 1920), ora quelle del jazz (il balletto La Création du monde, del 1923), ora quel­ la della musica popolare della Provenza {Suite provengale,

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1936), la regione natia cui rimase sempre legato affettivamen­ te in una carriera artistica quanto mai ricca di viaggi e di espe­ rienze internazionali. Oltre ai lavori teatrali di cui già si è par­ lato, Milhaud si dedicò anche alla composizione di opere di vasto respiro ispirate da figure di eroi storici la prima delle quali, Christophe Colombe (1928), esibisce un grande dispiega­ mento di mezzi musicali e scenici e l’ultima, David (1952), fu scritta in occasione del 3000° anniversario della fondazione di Gerusalemme ed è uno delle numerose testimonianze della sua fede ebraica. Francis Poulenc (Parigi 1899-1963) dei «Sei» fu forse quel­ lo piu a lungo fedele allo spirito originario del gruppo. Prova ne sia che venticinque anni dopo la nascita di quel sodalizio, nel 1944, scrisse un’opera buffa su testo di Apollinaire, Les mamelles de Tirésias che ci restituisce l’atmosfera di quell’epo­ ca ormai lontana. Impostosi all’attenzione del mondo musica­ le con Les biches (1924) per i «Ballets russes» ed il Concert champètre (1927-28), ricco di influssi di Scarlatti e di Stravin­ skij ed ispirato dal clavicembalismo di Wanda Landowska co­ me già il Concerto per clavicembalo e cinque strumenti di Falla, Poulenc mantenne una sua vocazione di melodista che trovò il suo naturale sfogo nella composizione di pagine per canto e piano dall’estro elegante e garbato. Nel secondo dopoguerra due lavori teatrali ormai lontani dallo spirito dei Sei, si impo­ sero particolarmente all’attenzione del pubblico, i Dialogues des Carmélites (1959, su testo di G. Bernanos) in cui è rappre­ sentato il martirio psicologico, prima che fisico, di un gruppo di suore ghigliottinate durante la Rivoluzione Francese, e La voix humaine (1959, su testo di Cocteau). Tenendo conto della diversità degli esiti creativi dei tre compositori che si imposero al mondo musicale dopo che il «Gruppo dei Sei» si sciolse, c’è da chiedersi se proprio nulla sia rimasto della comune intesa di un tempo. Forse un ele­ mento, almeno, e cioè la concezione artigianale della compo­ sizione musicale che spinse tutti questi musicisti, ognuno nel­ la sua specifica orbita stilistica, verso un’attività creativa che privilegia il fare e il comunicare in qualsiasi circostanza e con qualsiasi mezzo rispetto alla ricerca di una sintesi stilistica. [gv]

8. La musica italiana fra le due guerre.

Quando si parla di «generazione dell’Ottanta» con riferi­ mento alle vicende della musica italiana novecentesca non si

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intende fornire una indicazione puramente cronologica: ci si riferisce invece alla prospettiva definita da Alfredo Casella, uno dei maggiori protagonisti di quella generazione, nei ter­ mini seguenti: «La creazione di uno stile moderno nostro è stato il problema assillante della mia generazione. Quando questa generazione cominciò a pensare, l’unica musica tipica­ mente italiana era quella operistica ottocentesca e verista piccolo-borghese. Urgeva dunque scuotere a tutti i costi que­ sta idea angusta e antistorica e ricondurre i musicisti prima e le masse più tardi a pensare che ben altre, più profonde, più varie erano le fondamenta della nostra musica». Sarebbe difficile riassumere con maggior chiarezza il punto di vista di chi mirava ad una «sprovincializzazione» della cul­ tura musicale italiana dominata dal melodramma naturalista, intendeva reinserirla in un dibattito europeo e per conferirle nuova dignità cercava di ritrovare antiche radici in un passato remoto in cui la musica strumentale italiana aveva conosciuto una storia gloriosa. Se questo programma di rinnovamento si profilava con chiarezza già all’epoca della Prima guerra mon­ diale, esso si sviluppò poi nel ventennio fascista. Si creò nel­ l’Italia fascista una situazione assai diversa da quella di totale chiusura della Germania nazista, che ridusse al silenzio o al­ l’esilio quasi tutti i musicisti migliori: in una situazione più complessa e contraddittoria si contrapposero una retorica uf­ ficiale populistico-strapaesana, che tentò di trovare un vessil­ lifero nel vecchio Mascagni, e aperture interne allo stesso re­ gime, riconoscibili ad esempio nella politica culturale di Giu­ seppe Bottai. Sono state recentemente esaminate e discusse le convergenze tra il programma della generazione dell’ottanta e la formula politica del fascismo progressivo, intento a pren­ dere le opportune distanze, cercando di barcamenarsi, dal fa­ scismo agrario e ardimentoso delle origini, quello con cui era giunto al potere. Sf che l’ideologia fascista, in una Italia avvia­ ta a divenire potenza industriale fra le altre europee e mon­ diali, poteva riconoscersi nella istanza di rinnovamento dei nuovi compositori italiani. L’omologia fu vista in modo luci­ dissimo da Casella, che del moto di rinnovamento fu il portabandiera e che si adoperò per l’internazionalismo che nell’Ita­ lia del ventennio fascista fu incarnato dalla creazione del Fe­ stival di musica contemporanea di Venezia (1930) o dalla fon­ dazione del Maggio musicale fiorentino (1933). Insieme con Malipiero e Labroca, e con l’entusiastico appoggio di D’An­ nunzio, Casella partecipò alla fondazione della Corporazione

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delle nuove musiche (1923-28), che poi si legò all’attività della Società Internazionale di Musica Contemporanea. Si delinea­ va cosi anche in Italia il superamento di un rapporto diretto di condizionamento mercantile fra produzione e consumo, fra opera e pubblico, attraverso la mediazione dell’intervento dello stato. La fuga dal provincialismo ravvisato nel melo­ dramma coincideva con l’abbandono di un’ottica condiziona­ ta dal vecchio capitalismo concorrenziale per adottare quella del nuovo capitalismo statuale ed assistenziale. E poiché la tradizione piu vicina dell’it alletta liberale da un lato e del me­ lodramma provinciale dall’altro non era cosa degna, ci si rifa­ ceva all’antico veramente glorioso, alla grande musica del pas­ sato remoto, dichiarata autenticamente italiana. In realtà abito naturalistico e ideali modernistici non appa­ rivano cosi separati e contrapposti, nella musica italiana della prima metà del secolo, quanto i programmi innovatori poteva­ no lasciar credere. Essi convissero per un buon quarantennio, condividendo volentieri motivi e caratteri, per lo più spiritua­ listici (di stampo dannunziano o idealistico) e nazionalistici (d’ispirazione folclorica, arcaica o neoclassica). Le distinzioni emergevano negli autori di punta, eh’erano da una parte i su­ perstiti della « Giovane scuola» e del melodramma naturalista (da Puccini a Zandonai e a Wolf-Ferrari) e dall’altra Alfano, Respighi, Pizzetti, Casella, Malipiero; ma si annullavano in una quantità di autori minori difficilmente collocabili a preferenza su questo o quel fronte (Vincenzo Tommasini, Riccardo PickMangiagalli, Adriano Lualdi, Vito Frazzi, Ludovico Rocca). Del resto, la modernità attribuita a Franco Alfano (Napoli 1875 - San Remo 1954) si riconosce fin dall’opera Risurre­ zione (1904) e si mantiene ravvisabile allo stesso modo nelle composizioni da camera e nella produzione teatrale posterio­ re, dalla Leggenda di Sakuntala (1921), ch’è la sua opera mag­ giore, al Dottor Antonio (1949), e persino nel completamento dell’incompiuta Turandot pucciniana, a lui affidato nel 1925; una modernità che consiste in una scrittura armonica e tim­ brica dottamente elaborata entro la quale viene lasciato flut­ tuare liberamente un melodismo di matrice napoletana. Ottorino Respighi (Bologna 1879 - Roma 1936), dimostra addirittura la convergenza della tendenza naturalistica e di quella modernistica, e persino la loro organicità, ossia la so­ stanziale unanimità della realtà musicale italiana. Egli segna la perfetta fusione di gesto intellettuale e di abbandono sensua­ le, di modalità arcaicizzante e di colore, di lessico moderno

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e di suggestione; mentre arcaicizza e folklorizza, egli vive mu­ sicalmente la totalità unificante della società italiana in cui il fascismo germoglia. Nella sua produzione musicale piu riusci­ ta e più popolare (i tre poemi sinfonici ispirati a Roma: Le fon­ tane di Roma (1916); 1 pini di Roma (1924); Feste romane (1929); il balletto La boutique fantasque (1919) su musiche di Rossini; le tre suites di Antiche arie e danze per liuto del 1917, 1924 e 1932 e quella, pure per orchestra, degli Uccelli del 1928, su musiche del Sei e Settecento la confluenza ideologi­ ca che sta alla base della sua musica assume un particolare spicco. Analogamente Ildebrando Pizzetti (Roma 1880-1968) si ri­ volge all’arcaico adottando il modalismo greco-medievale. Più che collegarsi a una precisa tradizione musicale questo moda­ lismo viene a valere per la sua funzione ideologica, in quanto l’afflato religioso sublima l’andamento drammatico della com­ posizione pizzettiana, e le conferisce un che di ascetico al di sopra delle passioni che vi si agitano. Ne emana una presenza etica e carismatica superiore, cui ogni dramma umano, espres­ so dallo sviluppo musicale, deve ricondursi. L’atteggiamento carismatico appare naturalmente evidente quando la musica si sposa alla poesia di D’Annunzio, soprattutto nel primo perio­ do creativo di Pizzetti (nella lirica dei Pastori per canto e pia­ noforte nel 1908, nella tragedia di Fedra nel 1915), ma si con­ serva poi sempre nella sua produzione, sia teatrale (fra cui De­ bora e Jaéle nel 1922), sia da concerto (fra cui la Sonata per violino e pianoforte del 1918). Alfredo Casella (Torino 1883 - Roma 1947), a partire dal 1923, abbraccia invece l’ideale neoclassico e mediterraneo. La funzione strutturale della neoclassicità e della mediterraneità nello stile di Casella (si ascoltino, ad esempio, il balletto da La giara di Pirandello del ’24 o il pastiche della Scarlattiana per pianoforte e strumenti del ’26), consiste nella loro accentuata esibizione. Il neoclassicismo e il folklorismo caselliani infatti non hanno un carattere nostalgico ed oblivioso, ma estrover­ so, aggressivo, imperativo: l’immagine diatonica della classi­ cità è integrata dal sentimento di una salute e di un’esuberan­ za vitale impresse da una luminosità solare e mediterranea. Neoclassicismo e folklorismo adempiono, nella musica di Ca­ sella, la funzione di un’affermazione culturale mediante la quale affiora la volontà e la ricerca di identità di una società in via di sviluppo capitalistico che si richiama ai propri miti.

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Essa interpreta, esplicitamente, le aspirazioni sociali e politi­ che del suo contesto storico. Con Gianfrancesco Malipiero (Venezia 1882-1973) abbia­ mo il rovescio della medaglia. Per lui i luoghi aurei della tradi­ zione musicale italiana, segnatamente del barocco cui si rifa il suo stile, sono ideali vagheggiati secondo la loro immagine storica, e collocati in una regione poetica irrimediabilmente remota e irraggiungibile. Ascoltando la musica di Malipiero si desta in noi la visione di un mondo trapassato i cui tratti e i cui colori, cupi e fanta­ smagorici, si evocano in lontananza. Ma esso, lungi dal suona­ re pateticamente nostalgico, ha qualcosa di ebbro, di allucina­ to, di disperato, di protervo, talora addirittura di cinico e di beffardo. E il mondo paradigmatico delle Sette canzoni (1919) e del Tomeo notturno (1929), le sue due opere teatrali più no­ te. Rispetti e strambotti (1920), Stornelli e ballate (1923), Ricer­ cati (1925), Ritrovati (1926), Cantàri alla madrigalesca (1931) - per non citare che alcune delle sue composizioni da camera per quartetto d’archi e per più strumenti - sono i fantasmi di una mancanza irrimediabile, e segnano amaramente la preca­ rietà del contingente, della situazione presente, che nel lumi­ noso confronto con ciò che ha perduto constata la propria de­ solazione. Mentre il neoclassico e il folklorico si rendono, in Casella, strumento di ostentazione e di vitalità, in Malipiero l’arcaico, colto e popolaresco che sia, comunica invece un sen­ so di estinzione e di morte. Poiché tutti costoro tendevano a riallacciarsi a una tradi­ zione lontana nel tempo e ad ispirarsi a motivi meramente ideali, le loro soluzioni non potevano esprimersi che in termi­ ni di poetica lontana dalle ricerche dell’avanguardia contem­ poranea. Dal punto di vista della tecnica musicale essi non re­ cano alcuna vera innovazione. Non stupisce, perciò, che nel quadro europeo delle avanguardie musicali, tutte, invece, concentrate sullo sviluppo del linguaggio e della tecnica, il movimento rinnovatore italiano finisse per essere relegato in una posizione marginale. Anche la musica contemporanea ita­ liana avrebbe cominciato veramente a entrare nel circolo in­ ternazionale dell’avanguardia con Dallapiccola e Petrassi, nati entrambi nel 1904, dopo un periodo di transizione, durante il quale sarebbe emersa la personalità isolata di Ghedini, della generazione intermedia. La personalità creatrice di Giorgio Federico Ghedini (Cu­ neo 1892 - Nervi, Genova 1965) si manifesta in un periodo

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della musica italiana che assiste al tramonto degli ideali uma­ nistici nutriti da quelle poetiche, quando non si profila ancora all’orizzonte la nuova sperimentazione. A lui non resta che cogliere, pertanto, la transizione stessa, fissando lo stato delle cose, ciò che resta di un’unanimità (quella ritratta tanto bene da Respighi) che proprio negli anni del fascistico consenso (gli anni trenta) va perdendosi. L’immobilità di simile sguardo, privo di orientamento, si esprime in lui come contemplazione timbrica, non importa in che stile o in che contesto, come un puro gusto della sonorità, attonito e stupefatto, quale si ascol­ ta, per esempio, in Architetture per orchestra (1940) o nel Concerto dell'albatro per strumenti e voce recitante (1945). Per gli inizi di Luigi Dallapiccola (Pisino, Istria 1904 - Fi­ renze 1975), che condividono il gusto arcaicizzante della ge­ nerazione precedente in opere come la Partita (1930-32) o i Cori di Michelangelo Buonarroti il giovane (1933-36), si rivela importante la lezione di Busoni, Debussy e Malipiero. L’ap­ prodo all’adozione della tecnica dodecafonica avviene attra­ verso lo sviluppo di un cromatismo che finisce gradualmente per erodere il diatonismo iniziale, dopo una fase di equilibrio e giustapposizione riconoscibile nelle Tre laudi (1936-37), nel Volo di notte (1937-39), dove si avvertono suggestioni etero­ genee, da Puccini a Berg, e nei Canti di prigionia (1938-41). Con questi ultimi il compositore tocca per la prima volta esplicitamente il tema per lui centrale della riflessione sull’e­ sperienza della libertà. Nella costruzione del pezzo si crea una sorta di contrappunto tra linee modali e serie dodecafoniche, con esiti di incisiva violenza espressiva e zone di calma estati­ ca, di siderea dolcezza. Il lirismo di Dallapiccola tocca esiti tra i piu intensi ed essenziali nei tre gruppi delle Liriche greche (1942-45), dove per la prima volta egli adotta integralmente la dodecafonia; poi nel Prigioniero (1944-48) il musicista dà voce ad un cupo e angosciato pessimismo, in un’opera i cui valori musicali e drammatici risultano compenetrati attraverso la tortuosa complessità della scrittura contrappuntistica, l’inci­ siva caratterizzazione vocale, la logica della articolazione for­ male a pezzi chiusi che fanno coincidere le ragioni costruttive e drammaturgiche. Sotto il segno di una dolorosa ed interio­ rizzata tensione espressiva si colloca anche il breve atto unico seguente, Job (1950). A partire dagli anni Cinquanta, Dallapiccola, ormai defini­ te le premesse essenziali della sua poetica, muove nella dire­ zione di una crescente astrazione, di un linguaggio piu rare­

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fatto, in cui guardando a Webern adotta la dodecafonia in modo sempre più rigoroso, senza rinunciare peraltro alle ca­ ratteristiche più personali del suo stile. Tra i suoi frutti mag­ giori alcune pagine per voce e strumenti (o orchestra), come i Goethe Lieder (1953), An Mathilde (1955), o il conclusivo Commiato (1972), lavori corali come i Canti di liberazione e l’ultima opera teatrale, Ulisse (1960-68). Il protagonista vi è visto come eroe del dubbio esistenziale che approda alla fede nel trascendente nella scena conclusiva, culmine dell’opera e momento fra i più alti della poesia timbrica di Daliapiccola, all’interno di una partitura che appare come una sintesi delle sue esperienze. Il percorso stilistico di Goffredo Petrassi (Zagarolo, Roma 1904) si è rinnovato per più di un cinquantennio con grande ricchezza di aperture, con continui mutamenti e insieme con logica, organica coerenza. Gli esiti più rappresentativi della sua prima maniera sono la Partita (1932), il Primo concerto per orchestra (1933-34) e il Salmo IX (1936): posti sotto l’influen­ za di Casella, Stravinskij, Hindemith rivelano però un gusto di assoluta serietà e la ricerca di una solida compattezza archi­ tettonica. Per la sua prima maniera si è parlato di Petrasssi musicista del barocco romano e della Controriforma, incline allo splendore fonico di sonorità massicce e vigorose, di gesti eloquenti e solenni, e tuttavia non ignari di una «spessa pati­ na di metafisico », come ebbe ad osservare Aldo Clementi, che di Petrassi fu uno degli allievi più insigni. Alcuni momenti del successivo Magnificat (1940) abbando­ nano la scrittura nettamente diatonica che prevale in questa fase; ma è con il Coro di morti (1940-41) che Petrassi giunge ad una svolta, coincidente con uno dei suoi capolavori. La scelta del testo leopardiano (dalle Operette morali} e la dedica della composizione a se stesso sono spie dell’impegno di una riflessione grave e amara, in una meditazione di stoico pessi­ mismo. Il coro maschile presenta un piano sonoro nettamente distinto dal gruppo strumentale formato da tre pianoforti, ot­ toni, contrabbassi e percussione, trattato in modo da creare un colore opaco, allucinato, livido. Il Coro di morti inizia un decennio decisivo, in cui prosegue la costante corrosione dei legami con la tradizione: esso culminerà in Noche oscura (1950-51) dopo due balletti e due atti unici, Il Cordovano (1944-48) e Morte dell'aria (1949-50), le sole esperienze teatra­ li di Petrassi. Vi si profila una maturazione ulteriore della sua personalissima timbrica, del rapporto con la concretezza del

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suono, e insieme si accentua la tendenza ad uno scavo interio­ rizzato, ad una essenziale scarnificazione linguistica, sempre più risolutamente avviata verso la sospensione della tonalità. Sotto il segno di un’amara, disincantata ironia si pone la co­ micità del Cordovano, con la sottigliezza della mobile scrittura contrappuntistica e con una vocalità che recupera formule da opera buffa e rossinismi. Esplicitamente pessimistica è Morte dellaria che ha come tema una utopia disperata e in un clima di staticità oratoriale punta su mezzi di essenziale, austera so­ brietà e su un colore orchestrale oscuro. Si riconosce qui il di­ retto precorrimento di bioche oscura, cantata su testo di San Giovanni della Croce che è quasi il corrispondente mistico dell’atto unico. Anche nella cantata, come nell’opera, il mate­ riale compositivo può ricondursi ad un’unica cellula germina­ le, con un esito tra i più alti di Petrassi. Segui una intensa concentrazione sull’orchestra con il suc­ cedersi di cinque dei Concerti. Nel terzo (1952-53) si nota l’e­ pisodico uso della dodecafonia e l’addensarsi di complesse ambiguità, in un gioco estroso e caleidoscopico, tra svagatezze e pensose introversioni. Particolare rilievo presentano poi so­ prattutto il quinto (1955) e il sesto (1956-57); ma tutta la serie dei concerti per orchestra, che nel 1972 è giunta all’ottavo, è essenziale per comprendere la ricchezza problematica del cammino di Petrassi. Nei sette anni che separano il sesto dal settimo concerto (1964) si profilano i primi risultati radicali della sua ricerca: svuotando dall’interno la figura sonora, essa mette in discussione nessi ed atteggiamenti tradizionali ridu­ cendoli a minimi residui o fantasmi nel contesto di un astrat­ tismo che si appropria in modo del tutto personale delle tecni­ che della nuova musica, approdandovi però alla fine di un proprio logico percorso, dove gradualmente si annulla la no­ zione di tema. La funzione del timbro del discorso petrassiano, da sempre fondamentale, diventa più che mai decisiva; mentre alla costruzione bastano ormai cellule minime. Senza ricondursi a schematica linearità, la ricerca dell’ultimo Petras­ si tende agli esiti più radicali, soprattutto nelle pagine da ca­ mera o per piccolo complesso, come il Trio (1959) o Estri (1966-67) o Tre per sette (1964), mentre dove interviene la vo­ ce proprio la parte vocale si caratterizza per una scrittura più vicina alle esperienze precedenti: cosi ad esempio nei Propos d*Alain (i960), nelle Beatitudines (1968) e nelle Orationes Christi (1974-75) per coro, ottoni, viole e violoncelli, [ps]

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9. La musica nelLUnione Sovietica: Sergej Prokof'ev e Dmi~ trij Sostakovic.

La rivoluzione russa, cosi come provocò una brusca svolta nella storia politica ed economica, altrettanto fece nel campo artistico e culturale. Dopo un primo decennio (gli anni Venti) di intensa ricerca di soluzioni adeguate alla nuova società nata dalla Rivoluzione d’ottobre, all’inizio degli anni Trenta, in as­ sonanza con la linea staliniana del «socialismo in un solo pae­ se» si passò ad una chiusura nazionalistica, ad un dirigismo statale ed all’imposizione del canone estetico del «realismo socialista». Nell’ambito musicale l’imposizione di questo ca­ none consistette sostanzialmente nella promozione di un at­ teggiamento comunicativo ottimistico e celebrativo ed in una relativa condanna di tutti i modernismi bollati come devia­ zioni «formulistiche»: condanna che si fece particolarmente pesante nel periodo delle grandi purghe staliniane quando l’ope­ ra Lady Macbeth del distretto di Mzensk (1934) di Sostakovic fu aspramente criticata in un articolo sulla « Pravda » intitola­ to Confusione anziché musica e, nell’immediato dopoguerra, quando l’allora segretario del Comitato centrale Andrej Zdanov lanciò un’offensiva sull’intero fronte ideologico e cultu­ rale, accentuando gli aspetti antioccidentali, anticosmopoliti e nazionalisti impliciti nella dottrina del realismo socialista; traendo spunto questa volta dall’opera La grande amicizia (1947) di Vano Muradeli, bollò di «formalismo» i più impor­ tanti compositori sovietici (Sostakovic^ Prokof'ev, Mjaskovskij, Chacaturjan, Popov, Kabalevskij, Sebalin) che dovettero fare umilianti autocritiche. Con la morte di Stalin (1953) e il «disgelo» del periodo crusceviano la morsa censoria, dopo un ventennio, si allentò un poco per la prima volta e caute aper­ ture si realizzarono di conseguenza anche nel campo artistico e musicale. L’isolazionismo imposto alla cultura russa dal regime stali­ niano ha fatto sf che la storia della musica sovietica sia in buo­ na parte una storia separata, con risultati creativi che più han­ no soddisfatto le scelte estetiche della dirigenza politica, me­ no sono vicine alla sensibilità del mondo occidentale e quindi richiedono un discorso a sé stante. In una sintesi stringata di storia della musica colta occidentale più che entrare nei detta­ gli di questa storia separata è forse maggiormente utile consi­ derare, sullo sfondo delle vicende politiche, l’itinerario crea­

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tivo dei due massimi compositori sovietici, Sergej Prokof'ev e Dmitrij Sostakovic, e cercare di capire nella loro arte musica­ le, che si è imposta anche al gusto europeo per la portata in­ ternazionale dell’intrinseco valore estetico, in che modo agi­ rono i condizionamenti della politica culturale sovietica. Due itinerari profondamente diversi non solamente per la diversi­ tà di temperamento umano ed artistico dei due compositori, ma anche perché mentre Sostakovic non si allontanò mai dal­ la patria se non in viaggi ufficiali di rappresentanza, Prokof'ev visse invece continuativamente in Europa ed in America du­ rante tutto il periodo piu animato della cultura e dell’arte so­ vietica, quello che dall’anno seguente la Rivoluzione di otto­ bre va fino all’inizio dell’età di Stalin. All’epoca del suo trasferimento in occidente dove era già stato nell’immediato anteguerra, Prokof'ev (Soncovka 1891 Mosca 1953) si era già imposto all’attenzione del pubblico e della critica specialmente con il suo personalissimo pianismo in lavori come i Quattro pezzi op. 4 (1910-12), la Toccata op. 11 (1912), iSarcasmes (1912-14), le Visions fugitives (1915-17), le prime quattro sonate (1907, 1912, 1917) ei primi due con­ certi per pianoforte (1911,1912 e 1913); un pianismo che con le sue sonorità percussive e martellanti, esalta i taglienti pro­ fili tematici, i ritmi incalzanti ed ostinati dell’invenzione mu­ sicale affermandosi imperiosamente come alternativa affatto modernistica ad altre vie pure moderne come quelle di Debus­ sy e Ravel che intrattengono tuttavia evidenti legami con le grandi scuole del pianismo romantico. Che del resto in quegli anni Prokof'ev nutra una profonda avversione nei confronti del retaggio romantico è palese non solo in questo suo acceso modernismo ma anche in certe sue tendenze esplicitamente neoclassiche ante litteram che si rile­ vano pienamente nella celebre Sinfonia classica (1914-15) ri­ calcata sul modello del sinfonismo haydniano. Il soggiorno occidentale di Prokof'ev fu un periodo di feb­ brile attività creativa e concertistica spesa tra i due continen­ ti. Specialmente nell’ambito teatrale, dove con II giocatore (1915-16) già aveva dimostrato una grande capacità di riap­ propriarsi in chiave modernissima della grande tradizione del declamato melodico di ascendenza musorgskiana e rimskiana, Prokof'ev affermò un grande talento che gli permetteva di in­ fondere intensa vitalità drammatica a soggetti operistici quan­ to mai diversi come la favola gozziana (L'amore delle tre me­ larance, 1919) ed il racconto gotico (L'angelo di fuoco,

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1919-27) passando bruscamente e con disinvoltura da una verve briosa e scintillante ad una cupa ed inquietante atmo­ sfera espressionistica; come il racconto favolistico russo (Il buffone, 1915-20), l’ispirazione macchinistico-futurista (Ilpas­ so d'acciaio, 1925) e la storia biblica (Il figliuol prodigo, 1928) trasposte in chiave ballettistica. Nonostante questi traguardi ed altri in campo concertistico come il Terzo concerto per pianoforte (1921), matura sintesi del suo inconfondibile stile pianistico, la personalità umana ed ar­ tistica di Prokof'ev era turbata da un profondo dissidio inte­ riore tra la tendenza modernistica che, sollecitata dalle attese del pubblico e della critica occidentali, era divenuta una sorta di etichetta imposta, e le sue profonde radici nella tradizione russa che venivano allo scoperto tutte le volte che il composi­ tore lasciava libero sfogo alla sua inclinazione lirica. La sua decisione di ritornare in patria fu sicuramente determinata anche da motivazioni esteriori come il confronto tra la preca­ rietà e la discontinuità del suo successo in occidente e l’acco­ glienza trionfale che gli venne tributata nel 1928 in occasione di una sua tournée in Unione Sovietica: ma sicuramente un gran peso ebbe la soluzione di questo dissidio, che lo portò ad aderire dapprima entusiasticamente al nuovo impegno politi­ co di comunicazione artistica che il «realismo socialista» ri­ chiedeva ai compositori sovietici. Questo brusco mutamento di temperie culturale e politica rappresentò, per la creatività musicale di Prokof'ev, certa­ mente un’ardua prova che egli superò brillantemente nei ge­ neri che gli erano più congeniali: nel teatro musicale, in cui con Romeo e Giulietta (1935-36) e Cenerentola (1940-44) rin­ verdì la grande tradizione del balletto cajkovskiano, e con Guerra e pace (1941-43) pagò il suo tributo alla monumentalità dell’opera a quadri; nel commento sonoro cinematografico, in cui mise a servizio dell’immagine filmica il suo grande ta­ lento nella raffigurazione sonora con collaborazioni divenute memorabili come quelle con Ejzenstejn (Aleksandr Nevskij, 1938 e Ivan il Terribile, 1942-45); nell’ambito pianistico in cui prosegui la serie di sonate organizzando le qualità salienti del proprio pianismo in percorsi formali più chiari ed evidenti (nel trittico delle cosiddette «sonate di guerra», composte tra il 1940 ed il 1944). Più laboriosa e travagliata fu invece l’as­ sunzione di quel canone estetico in generi musicali come la sinfonia (dalla Quinta, del 1944, alla Settima, 1951-52) o il quartetto (Secondo quartetto, 1941) per i quali già nel periodo

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occidentale non aveva dimostrato particolare congenialità. I rigori zdanoviani, invece, sortirono effetti raggelanti anche in quell’ambito teatrale (La storia di un vero uomo, 1947-48; il balletto La favola del fiore di pietra, 1948-50) in cui Prokof'ev aveva sempre dato il meglio di sé. La tormentata carriera artistica di Dmitrij Sostakoviè (Pie­ troburgo 1906 - Mosca 1975), vincitore di numerosi premi uf­ ficiali e membro del direttivo dell’Unione dei compositori so­ vietici da un lato, vittima di pesanti censure e di violenti at­ tacchi della critica di partito dall’altra, racchiude in sé tutti i paradossi, le perplessità, le contraddizioni del compositore so­ vietico preso fra la morsa delle opposte istanze della libera estrinsecazione del proprio genio e degli imperativi estetici di regime. La coincidenza tra rilevanti mutamenti d’indirizzo stilistico e di importanti mutamenti di politica^ culturale ha suggerito di suddividere la carriera creativa di Sostakovic in tre successive fasi. Il primo periodo, compreso tra la Prima sinfonia op. io (1925), presentato come saggio di composizione per il conse­ guimento del diploma e che ottenne un successo internaziona­ le e la Quarta op. 13 (1935-36), è caratterizzato dall’impiego di un linguaggio animato da intemperanze «moderniste»: te­ mi acuminati e citazioni distorte, dissonanze provocatoria­ mente ostentate, orchestrazione incandescente per il ricorso frequente di voci strumentali soliste, frenesia ritmica, sono le cifre stilistiche più rilevanti, ed II naso (1930) tratto dall’omo­ nimo racconto di Gogol' è l’opera in cui esse comunicano con maggior efficacia e coerenza la concezione parodistica e dissa­ crante da cui traggono ispirazione. La Quarta sinfonia, ritirata dall’autore in seguito all’attacco della «Pravda» ed eseguita solamente 25 anni più tardi (nel 1961), è una sinfonia di tran­ sizione in cui le intemperanze del primo Sostakovic vengono a patti con un epos narrativo, una dilatazione del tempo, di ascendenza tardoromantica che caratterizzeranno le sinfonie successive. La Quinta sinfonia, che Sostakovic intese quale «risposta creativa alla critica», segna una svolta nell’«iter» stilistico del compositore. In conformità con gli imperativi estetici del «realismo socialista», Sostakovic ripudiò il «modernismo» di cui era stato pesantemente accusato e ricondusse lo schema ed il linguaggio sinfonico alle categorie formali ed espressive del sinfonismo classico-romantico. Ciò non significa per nulla ac­ cettazione supina e rassegnata di principi imposti; all’interno

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delle successive sinfonie «riformate» una coscienza creativa quanto mai attiva impone a sua volta una violenta carica pas­ sionale che piega forme e categorie tradizionali ai propri fini espressivi. Successo internazionale ebbe la Settima (1941), de­ dicata a Leningrado e ivi concepita durante i primi mesi d’as­ sedio, resa popolare dalla famosa iterazione, nel primo movi­ mento, di un motivetto di marcia che vuole rappresentare, in un impressionante crescendo, l’invasione nazista. Ad una No­ na (1945) dal carattere di divertimento orchestrale interpreta­ to in uno spirito quasi neoclassico, segue una Decima (1953) che rappresenta la massima realizzazione del compositore nel­ la dimensione della sinfonia monumentale di ispirazione tardo-romantica. In questo periodo, che coincide interamente con l’epoca staliniana, la produzione cameristica si infittisce. Stimolato dal successo riportato dal Quintetto con pianoforte op. 57, opera chiave nel suo itinerario cameristico in quanto realizza una equilibrata fusione di densità di pensiero musica­ le, complessità formale e pathos, Sostakovic compose un Trio per violino, violoncello e pianoforte op. 67 (1944) ed iniziò quindi la serie di quartetti per archi. Nel campo pianistico una tappa importante sulla scia del recupero del contrappunto so­ no i Ventiquattro preludi e fughe op. 87, concepiti come espli­ cito omaggio a Bach. Nell’ultimo ventennio creativo, conseguentemente alla maggior tolleranza dimostrata dal regime nei confronti dei «modernisti», il linguaggio musicale e lo stile di Sostakovic subirono ulteriori trasformazioni. Nel campo sinfonico, dopo due sinfonie «a programma» dedicate rispettivamente alla fal­ lita rivoluzione del 1905 $ Undicesima, del 1957, intessuta di canzoni rivoluzionarie) ed a quella del 1917 (la Dodicesima, del 1961, in cui sono assenti invece citazioni testuali) la Tredicesi­ ma (1962) per basso, coro di bassi e orchestra, in forma di suite lirica, dà l’avvio ad un’intensa produzione di cicli di liriche con accompagnamento pianistico e/o orchestrale su testi di autori diversi in cui è compresa anche, per concezione e struttura, la Quattordicesima (1969) per soprano, basso e orchestra, una meditazione sinfonica-vocale sul tema della morte. Questo rinnovato interesse per la vocalità, assieme ad una ripresa del genere concertistico (quattro dei sei concerti furo­ no composti nel periodo del disgelo e solamente in questo pe­ riodo fu eseguito il Primo concerto per violino la cui composi­ zione risale però all’epoca della burrasca zdanoviana) ed a una cauta utilizzazione tematica della serie dodecafonica nell’am­

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bito cameristico (nel Dodicesimo e nel Tredicesimo quartetto, rispettivamente del 1968 e del 1970, e nella Sonata per violino e pianoforte, op. 134) rappresenta uno dei tratti salienti dell’e­ strema stagione creativa di Sostakovic. In queste opere, come pure negli ultimi lavori sinfonici e cameristici (la Quindicesima sinfonia del 1971, il Quindicesimo quartetto e la Sonata per vio­ la e pianoforte, rispettivamente del 1974 e del 1975) il linguag­ gio di Sostakovic, epurato da perorazioni retoriche che talora gravavano su lavori precedenti, esalta con la sua gamma sfu­ matissima di amalgami timbrici le zone piu lugubri e piu solari della sua ispirazione: la funebre successione dei sei movimenti lenti nel Quindicesimo quartetto come la sbarazzina citazione Ouverture del Guglielmo Teli nella Quindicesima sinfonia. Nella sua indefessavopera di mediazione tra conservatori­ smo e rinnovamento, Sostakovic, con l’esempio delle sue ope­ re e con la sua attività didattica, ha costituito una guida ed un punto di riferimento per i compositori sovietici delle genera­ zioni successive assumendo, alla morte di Prokof'ev, anche nella stima del mondo occidentale, la «leadership» della mu­ sica sovietica. [gv] io.

La musica negli Stati Dniti e nell'America Latina.

Dalla guerra di secessione fino alla Prima guerra mondiale, la tradizione colta statunitense fu fortemente influenzata da quella tedesca: i tardoromantici, e Brahms in particolare, era­ no assunti come modelli da imitare. Nel corso dei primi de­ cenni del secolo xx, invece, si fece sempre più viva l’esigenza di rivolgersi verso altre fonti di ispirazione, come a quelle folkloriche, sull’esempio di Dvorak (diversi compositori im­ piegarono temi negri o indiani in strutture linguistiche tradi­ zionali, come H. F. Gilbert, A. Farwell, ad es.) o di sperimen­ tare nuovi linguaggi. Un posto a sé occupa, nella storia della musica statunitense di quegli anni, la figura di Charles Edward Ives (Danbury, Connecticut 1874 - New York 1954). Fondendo le categorie estetiche del trascendentalismo con una spiccata tendenza sperimentale ereditata dal padre - singolare figura di capo­ banda estroso - e con la variopinta realtà fonica (rurale ed ur­ bana) dell’America di quel periodo, si creò un linguaggio mu­ sicale estremamente personale; oltre ad interpretare l’ecletti­ smo caratteristico della cultura statunitense, anticipò nume-

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rose tecniche espressive dell’avanguardia storica e contem­ poranea (l’atonalità, la poliritmia, la spazialità del suono, l’im­ piego di organici inusuali, e numerose altre). Ives difese gelo­ samente la sua libertà espressiva. Dopo aver compiuto gli stu­ di presso l’Università di Yale, anziché divenire compositore professionista intraprese la carriera di assicuratore e dedicò alla composizione il tempo libero dal suo lavoro. Nonostante il menzionato impiego di tecniche sperimenta­ li, lo sperimentalismo ivesiano appartiene a categorie espres­ sive e poetiche molto diverse da quelle dello sperimentalismo europeo. Lungi dal creare un linguaggio esclusivamente basa­ to su strutture formali astratte, lo sperimentalismo ivesiano o assolve a funzioni ludiche (come, in modo esplicito, nel se­ condo movimento del Trio per violino, violoncello e pianoforte del 1904-11, sottointitolato con le iniziali T.S.I.A.J. = This Scherzo is a Joke [Questo Scherzo è uno scherzo]) e fa parte di un gusto per la trovata e l’esercizietto difficile che, sull’e­ sempio paterno, serviva a «rinforzare i muscoli dell’udito, della mente, e forse anche quelli dello spirito »; o intende evo­ care atmosfere naturalistico-metafisiche fortemente suggesti­ ve (ad es. in From the Steeples and the Mountains [Dai campa­ nili e dalle montagne], del 1901, e in The Unanswered Ques­ tion [La domanda senza risposta], del 1908). Può cosi convi­ vere tranquillamente con le strutture più tradizionali: nella Browning Overture, del 1908-12, ad esempio, al clima tardoromantico dei tempi lenti si contrappone il caos, fonico e ritmi­ co, di quelli veloci; nella Quarta sinfonia, ultimata nel 1916, vera e propria summa dell’arte ivesiana, ad un secondo movi­ mento animato dalla contrapposizione caotica di linee melo­ diche e di ritmi contrastanti, segue una fuga tradizionale (tra­ scrizione orchestrale del movimento introduttivo del Primo quartetto) e si conclude con un movimento in cui sullo sfondo di due organismi che mantengono una loro specifica identità ritmica, sono triturati contrappuntisticamente motivi popola­ ri e frammenti tematici in una densissima e suggestiva etero­ fonia. Questo mistilismo ha la sua giustificazione nella poetica di Ives, che intendeva assegnare alla sua musica non solo una forte carica evocativa, ma anche comunicare attraverso di es­ sa un contenuto spirituale (una «substance» diceva lui), se­ condo i principi del trascendentalismo. La Quarta sinfonia in­ tenderebbe infatti simboleggiare le diverse risposte degli uo­ mini alle «assillanti domande sul Che Cosa? e sul Perché? che lo spirito dell’uomo si pone intorno all’esistenza»; cosi come

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la Concord sonata (terminata nel 1915) intende invece «rap­ presentare le impressioni che una persona riceve dallo spirito del trascendentalismo che nelle menti di molti individui è as­ sociato al villaggio di Concord (Mass.), com’era piu di mezzo secolo fa» in quattro movimenti che sono altrettanti ritratti impressionistici rispettivamente di Emerson, Thoreau, degli Alcotts e di Hawthorne. In questa arte musicale che vuole comunicare messaggi e immagini spirituali, la citazione assume quindi un marcato si­ gnificato simbolico ed evocativo. Citazioni di temi oracolari come quello della Quinta di Beethoven nella Concord sonata: il tradizionale significato di «destino che batte alla porta», in chiave trascendentalista diventa «il messaggio spirituale delle rivelazioni di Emerson proprio al cuore comune» di Concord, «l’anima dell’umanità che bussa alla porta dei divini misteri, raggiante nella fede che le sarà aperto e che l’umano diventerà divino». Piu spesso citazioni di temi popolari e innodici i qua­ li, mediante la loro sovrapposizione che crea tessuti sono­ ri densissimi, politonali e poliritmici, rievocano suggestivi paesaggi della memoria, luoghi e festività del New England (Three Places in New England, 1903-13; Holidays Symphony, 1904-13) o paesaggi urbani (Central Park in the Dark some For­ ty Yearsago, 1898-1906). La scelta di isolamento dal mondo musicale professionale e le difficoltà oggettive che Ives incontrò nel far eseguire la sua musica in un’epoca ancora impreparata a un linguaggio cosi complesso ed innovativo, fecero si che il musicista-assicura­ tore iniziasse ad esser considerato, apprezzato e valutato cri­ ticamente, solo nei decenni successivi all’interruzione forzata della sua attività compositiva e lavorativa in seguito ad una crisi cardiaca che lo colse nel 1918 rendendolo seminfermo. Le radici che la sua arte musicale affonda nel terreno della tra­ dizione autenticamente americana del secondo Ottocento e le profezie di quella futura, oggi ne fanno, nella considerazione storica retrospettiva, un padre spirituale, un autentico pa­ triarca della musica statunitense, profeta di un rinascimento musicale americano; un rinascimento che si realizzò però su basi totalmente diverse da quelle poste da Ives in quanto, nel suo splendido isolamento, era destinato ad essere un patriarca senza discendenza diretta. Negli anni Venti, quando lentamente ma progressivamente iniziavano a crearsi anche in America le premesse per un’a­ vanguardia musicale che avrebbe potuto comprendere ed

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apprezzare le tendenze innovative dell’arte ivesiana, le nuove generazioni erano ormai attratte da sollecitazioni culturali e musicali diverse da quelle che avevano ispirato la musica di Ives. Numerosi musicisti, in quegli anni, si erano recati a Pa­ rigi, che era divenuto il nuovo polo di attrazione internazio­ nale, dove, alla scuola di Nadia Boulanger, si stavano forman­ do schiere di compositori statunitensi che raggiunsero la pie­ na maturità artistica nel decennio successivo: M. Blitzstein, E. Carter, A. Copland, R. Harris, W. Piston, V. Thomson. In quegli anni negli Stati Uniti il jazz era divenuto il genere piu popolare di intrattenimento. Vi era il jazz negro autenti­ co, che dopo la chiusura dei bordelli di Storyville si era stabi­ lito a Chicago: la «Creole Jazz Band» di Joe «King» Oliver che tosto si arricchì della piu prestigiosa tromba jazz dell’in­ tera sua storia, Louis Armstrong, il pianista Jelly Roll Morton che si autodefiniva «il piu grande compositore di temi hot del mondo», e tanti altri. Vi era il jazz bianco, che con esponenti come il trombettista Bix Beiderbecke manteneva anch’esso un’altissima temperatura ed un altissimo grado di creatività improv visa tiva. Vi era il jazz delle orchestre da ballo, che re­ cuperava certi elementi del linguaggio originale smussandone le asperità per intrattenere la buona società del tempo. Tutto questo era jazz: un idioma musicale che, negli anni immedia­ tamente successivi la prima guerra mondiale, era divenuto il simbolo stesso degli Stati Uniti, l’espressione del suo folklore urbano. Il jazz era nato all’inizio del secolo dalla contamina­ zione di certi elementi della tradizione bianca con generi mu­ sicali prettamente negri: canti spirituali (spirituals e gospels}, canti di lavoro (work songs) da cui il jazz ha tratto la caratteri­ stica tendenza antifonica (call and response) tra le voci stru­ mentali solistiche e il gruppo orchestrale; il blues, espressione lirica della solitudine e dell’emarginazione del negro america­ no che, oltre a prestare tanti temi famosi all’improvvisazione jazzistica, ha trasmesso al jazz caratteristiche melodiche e ar­ moniche salienti; il ragtime, un genere sincopato e sofisticato il cui più importante esponente fu Scott Joplin (1868-1917), autore dell’opera-rag Treemonisha. Il jazz esercitava anche sull’immaginazione degli europei un notevole fascino esotico, tant’è che alcuni compositori di musica colta, in un momento di particolare disponibilità all’i­ bridazione di stili diversi, del passato e del presente, non tar­ darono ad utilizzarlo creativamente (ad es. Ravel nel secondo movimento della Sonata per violino e pianoforte scritta tra il

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1923 ed il ’26, ispirato al blues, o Milhaud nel balletto La création du monde, del 1923). Naturalmente anche i composi­ tori americani di musica colta non tardarono a servirsi dell’i­ dioma jazzistico: cosi Aaron Copland in Music for the Theatre del 1925, oppure nel Concerto per pianoforte e orchestra del 1926, cosi Alden Carpenter nei balletti Krazy Gtf del 1921 e Skyscrapers del 1926, cosi Louis Gruenberg in The Creation del 1924 e in Daniel Jazz del 1925. L’impiego di moduli jazzi­ stici da parte dei compositori americani non differiva sostan­ zialmente da quello dei colleglli europei: «era un facile mezzo per far musica americana», ebbe a dire Copland ad esperienza conclusa. A differenza di questi compositori, George Gershwin (New York 1898 - Hollywood 1937) compì il processo inver­ so; anziché assumere il popular dal cultivated, provenendo dal primo ambito come songstar di grandissimo successo, aspirò ad elevarsi al secondo con una serie di composizioni orche­ strali in cui l’ispirazione jazzistico-canzonettistica viene ela­ borata mediante tecniche che alludono a gesti compositivi della tradizione colta passata al vaglio di una sensibilità arti­ stica formatasi nell’ambito del mondo dello spettacolo. La prima fra queste, la Rhapsody in blue (1924), era stato un in­ contro fortuito di Gershwin con un impegno compositivo di largo respiro in quanto gli era stata commissionata da Paul Whiteman per un concerto che voleva essere «Un esperimen­ to di Musica Moderna» e che sotto l’apparenza di un’opera­ zione culturale celava intenti schiettamente commerciali. Le successive composizioni orchestrali furono invece un volonta­ rio cimento con le «grandi forme»; dapprima con il concerto per pianoforte (Concerto in Fa, del 1925) interpretato in chia­ ve spettacolare, quindi con il poema sinfonico (Un americano a Parigi, 1928) in chiave cinematografica; una sfilata di gusto­ sissime immagini musicali che si susseguono velocemente co­ me tanti fotogrammi di un film, immerse in atmosfere timbri­ che e contornate da episodi che ora suggeriscono Ravel, ora Milhaud, ora Debussy, ora Stravinskij. Nei suoi ultimi tre la­ vori orchestrali (la Seconda rapsodia, la Ouverture cubana e le Variazioni su «I Got Rhythm») l’impegno delle conoscenze tecniche successivamente acquisite attraverso uno studio fa­ ticoso tende a scollarsi dalle migliori qualità inventive del mu­ sicista. Porgy and Bess (1935), il capolavoro della carriera mu­ sicale «colta» di Gershwin, è uno straordinario ingranaggio teatrale in cui il fascino dei songs e la spettacolarità del folklo­

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re negro rivissuto in edizione Broadway sostituiscono le qua­ lità fondamentali di una vera e propria opera, cui Gershwin peraltro aspirava moltissimo. Conclusasi l’età del jazz con il crollo di Wall Street, non si realizzarono più in epoche successive momenti di cosi intensi scambi transculturali tra jazz e musica colta, e neppure sintesi transculturali cosi personali e originali come quella di Gersh­ win. Il jazz prosegue il suo cammino con una storia ed una periodizzazione parallela a quella della musica colta ma autono­ ma, nonostante gli scambi siano continuati tanto con essa che con la musica di consumo. La storia del jazz è il riflesso delle opposte tendenze all’in­ tegrazione ed alla protesta dei negri d’America, alla maggiore o minore disponibilità a fondersi con elementi della cultura bianca e, d’altro canto, da parte dei jazzisti bianchi, ad avvi­ cinarsi più o meno alla cultura negroamericana. Ad un’epoca come l’era dello swing in cui, negli anni Trenta e fino alla Se­ conda guerra mondiale, il jazz delle big bands assunse un ruo­ lo preminente di intrattenimento, segui nell’immediato dopo­ guerra il bebop, che con la sua aggressività e gli atteggiamenti anticonvenzionali dei suoi esponenti, ricondusse il jazz alle sue radici culturali negre innestandole però su un ceppo affat­ to moderno. Alla scansione regolare di 4/4 della sezione percussiva dello swing, nel bebop la batteria rende il ritmo quan­ to mai incandescente con controtempi ed interventi solistici che stimolano gli altri strumenti del piccolo complesso (com­ bo) ad una creatività pulsante e nevrotica; alle variazioni improwisative dello swing che si attenevano sostanzialmente ad un tematismo di origine canzonettistica, nel bebop l’improv­ visazione tende ad una deformazione armonica, melodica e ritmica molto accentuata, si potrebbe dire quasi espressioni­ stica. Maestri di questa prima grande stagione del jazz post­ bellico e moderno furono il trombettista « Dizzy » Gillespie (Cheraw, South Carolina, 1917), il sassofonista «Charlie» Parker (Kansas City 1920 - New York 1955) che bruciò la sua breve esistenza in una straordinaria creatività improwisativa al limite dell’astrazione, i pianisti «Budd» Powell (New York 1924-66) e Thelonius Monk (New York 1920 - Englewood, New Jersey 1982) e il batterista Maxwell Roach (Brooklyn, New York 1925). Il cool jazz, che si affermò come tendenza nuova fra gli an­ ni Quaranta e Cinquanta, con le sue atmosfere raffinate ed estetizzanti, con i riferimenti ed i recuperi di forme e stilemi

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della tradizione colta, rappresentò una sorta di manierismo di altissimo livello in quanto i suoi principali esponenti furono musicisti di grandissimo talento e di finissimo gusto: il trom­ bettista Miles Davis (Alton, Illinois 1926), i sassofonisti Lee Konitz (Chicago 1927) e Gerry Mulligan (Long Island, New York 1927), il pianista John Lewis (La Grange, Illinois 1920) fondatore del «Modern Jazz Quartet» il cui sound controllatissimo divenne la sigla stessa del cool jazz, e «Dave» Bru­ beck (Concord, California 1920), anch’egli pianista e leader di diverse piccole formazioni. Con le intemperanze foniche e ritmiche dello hard bop (letteralmente bop «duro») e con le improvvisazioni collettive realizzate nell’ambito dei Jazz Workshops (laboratori di jazz) di Charles Mingus (Nogales, Arizona 1922 - Cuernavaca, Messico 1979), il jazz si carica di contenuti ideologici manifestamente protestatari, che negli anni ’60, in contemporaneità con i movimenti negri di prote­ sta (Black Power e simili), esplose nella stagione del free-jazz, un jazz «libero» di elaborare collettivamente senza vincoli di schemi tematici e armonici prefissati le proprie improvvisa­ zioni: un jazz d’avanguardia, insomma, quanto mai aspro e ta­ gliente i cui maestri furono l’altosassofonista Ornette Coleman (Fort Worth, Texas 1930), il tenorsassofonista John Col­ trane (Hamlet, North Carolina 1926 - New York 1967) e il pianista Cecil Taylor (Long Island, New York 1933), e nume­ rosi proseliti (i sassofonisti Albert Ayler e Archie Shepp, il trombettista Don Cherry, il contrabbassista bianco Scott La Faro e diversi altri). Nel corso degli anni Settanta si è manifestata la propensio­ ne ad una sempre piu spiccata contaminazione del jazz con il rock e con il pop, una tendenza alla quale hanno dato vita tan­ to musicisti delle nuove generazioni come il pianista Chick Corea (Boston 1941) quanto importanti protagonisti di al­ tre stagioni del jazz moderno, come Miles Davis. E difficile prevedere se il jazz, in una società consumistica sempre piu coinvolta nella comunicazione multimediale, potrà conservare una sua precisa identità. La sua storia insegna comunque che anche nei periodi di maggior disponibilità del jazz nei con­ fronti del consumo e dell’intrattenimento, vi è sempre stato chi ha mantenuto salde radici nello spirito del jazz autentico. In piena era dello swing, a fianco di big bands come quella di Paul Whiteman che propinavano una versione edulcorata e commerciale del jazz, altre come quella di «Count» Basie (Red Bond, New Jersey 1904-84) e di Duke Ellington (Wash-

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ington 1899 - New York 1974) mantenevano vive le genuine caratteristiche del genere, e furono un vivaio di grandi solisti che contribuirono in maniera decisiva alle successive trasfor­ mazioni del jazz. Duke Ellington, con il suo straordinario ta­ lento di orchestratore e di arrangiatore, oltreché di melodista e compositore, creò, in piena era dello swing, una sua perso­ nalissima cifra in cui le voci strumentali di solisti di eccezione sono concertate in una dimensione che si potrebbe definire sinfonica, quanto mai ricca di effetti e di colori. Nessuno co­ me lui riuscì a contemperare una creatività altamente raffina­ ta con uno spirito jazzistico genuinamente negro. Oltre alle ibridazioni con il jazz, un’altra tendenza che, affermatasi nel corso degli anni Venti, divenne tosto particolarmente pro­ nunciata nella musica statunitense del Novecento è quella del­ la sperimentazione musicale. I principali esponenti di quegli anni furono: George Antheil (Trenton, New Jersey 1900 New York 1959), autore di un famoso Ballet mécanique ese­ guito alla «Carnegie Hall» nel 1927 che, con il suo organico di 16 pianoforti, eliche d’areoplano, campanelli elettrici e trombe d’automobile, è una pietra miliare nella storia del bruitismo futuristico; Henry Dixon Cowell (Menlo Park, Ca­ lifornia 1982 - Bady, New York 1965), che sperimentò sul pianoforte clusters (vale a dire aggregati sonori formati dalla sovrapposizione di seconde maggiori e minori) e manipolazio­ ni diverse adottate poi dall’avanguardia postbellica; Carl Rug­ gles (Marion, Massachusetts 1876 - Bennington, Vermont 1971), autore di pochi lavori frequentemente rielaborati e concepiti secondo criteri di strutturazione intervallare {Men and Angels, 1921, Men and Mountains, 1924, Portals, del 1926). Il più importante fra tutti è però Edgar Varese (Parigi 1883 - New York 1965), compositore di origine francese che, trasferitosi a New York nel 1915, persegui nella sua opera l’abbattimento della barriera tra suono e rumore. Non nel se­ gno del bruitismo futuristico italiano (Balilla Pratella, Luigi Russoio) che nell’ambito dello stesso movimento futurista rappresentò un’esperienza marginale e artisticamente irrile­ vante; nel segno invece della lucida e razionale creazione di un universo sonoro in cui i timbri di strumenti dal suono de­ terminato o indeterminato sono cellule germinali di un pro­ cesso di aggregazione quasi-materica del suono. E emblematico del fascino esercitato dal Nuovo Continen­ te su un compositore insofferente degli accademismi che si opponevano alla diffusione della musica moderna, il titolo del

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primo lavoro concepito negli Stati Uniti con cui inizia l’indi­ viduazione del suo stile ed il catalogo delle sue opere: Amériques (1918-22). Già questa prima composizione del periodo americano, dalle dimensioni orchestrali molto vaste e dall’e­ stensione di un poema sinfonico, contiene, oltre a riferimenti stravinskiani, debussyani e tardoromantici, molti elementi del cosmo varesiano: la riduzione delle presenze tematiche a mot­ ti aforistici, l’impiego di impasti timbrici crudi, di sonorità spesso violente, la finissima trina percussiva che borda l’inte­ ro lavoro, il gusto per i glissandi eseguiti dagli strumenti tra­ dizionali e dalla sirena. Confrontandola con l’altra opera per orchestra sinfonica di questo periodo, Arcana (1925-27), ap­ pare evidente l’evoluzione linguistica maturata: scomparsa ogni traccia di chiaroscuri debussyani, l’orchestra è divenuta un serbatoio di impasti timbrici incandescenti; il nobilissimo intreccio di piani sonori raggiunge momenti di parossismo fo­ nico per poi assottigliarsi a poche voci strumentali e tendere ad un nuovo clima. Tappe fondamentali in questo processo di maturazione stilistica sono tre composizioni di cui due per fia­ ti e percussioni (Hyperpristn, 1922 e Integrates y 1924) ed una per soli fiati e contrabbasso (Octandre, 1923), scritte in suc­ cessione dopo un dittico per soprano e piccola orchestra, Offrandes (1921), la cui parte vocale prevalentemente sillabica è accompagnata da impasti timbrici e spunti melodici segnatamente varesiani nella seconda lirica (La Croix du sud). Conclu­ de questo periodo creativo un’opera concepita per soli stru­ menti a percussione, Ionisation (1930-31) in cui i temi ritmici, evidenziati dal timbro dei 41 strumenti impiegati, dialogano tra loro costituendo un universo sonoro assolutamente razio­ nale, senza indulgere a effetti o ad esotismi di sorta. Le due opere centrali dell’itinerario creativo varesiano, Ecuatorial (1933-34) e Density 21,5, rispecchiano una tenden­ za alla rarefazione linguistica, alla coagulazione del discorso attorno ad un nucleo melodico: la linea vocale di Ecuatorialora rinforzata dalle onde Martenot (originariamente onde Teremin) ora dall’organo, ora dai tromboni - in cui il sillabi­ smo, i glissandi vocali, le mormorazioni e le esclamazioni ag­ giunte da Varèse al testo, contornate da una germinazione di raffinatissime condensazioni timbriche, intendono evocare l’aura misterica della celebrazione pagana (il testo è tratto dal Popul Vuh) libro sacro dei Maya); le ipnotiche spire melodi­ che che si dipanano attorno ad un nucleo iniziale in Density

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fig. 33

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21,5 per flauto solo, danno vita ad una sorprendente varietà di moduli melodici, ritmici, dinamici, timbrici. La più perfetta realizzazione orchestrale del mondo espres­ sivo varesiano è forse Déserts (1949-54) la cui parte strumen­ tale è interrotta tre volte da altrettanti episodi di «suono or­ ganizzato» inciso su nastro magnetico, che conferiscono al la­ voro una dimensione antifonica; esclusa da quest’opera ogni traccia di riferimento tematico, il discorso musicale procede in una continua alternanza di aggregati sonori lungamente te­ nuti e di improvvise impennate dei fiati, sullo sfondo crepi­ tante della percussione: quell’«opposizione di piani e volumi» di cui parla Varese commentando il lavoro. Interamente rea­ lizzato con suono elaborato elettronicamente è il successivo Poème électronique concepito per una diffusione spaziale all’interno del padiglione Philips progettato da Xenakis e Le Corbusier per l’Exposition Universelie del 1958. Anche l’ul­ tima opera di Varèse pervenutaci incompleta, Nocturnal, di­ mostra l’alto grado di rarefazione linguistica raggiunta dal compositore nella tarda maturità: rarefazione qui intesa non solo nel senso di scorporazione del tessuto sonoro, ma anche del testo verbale, in una successione di frasi slegate, di pero­ razioni, di sillabe prive di senso, evocatrici di una scena oni­ rica di allucinante efficacia. Il crollo di Wall Street e la Grande Depressione che ne se­ gui determinarono la fine di un’epoca nella storia degli Stati Uniti. Il periodo successivo, dominato in campo politico dalla figura di F. D. Roosevelt, rieletto presidente per tre legisla­ zioni successive, segnò una relativa stasi nell’ambito della spe­ rimentazione musicale. A fianco di compositori che continua­ rono ad ispirarsi alla tradizione del passato, altri invece si di­ mostrarono sensibili all’esigenza di diffondere la comunica­ zione artistica a più larghi strati della popolazione. Blitzstein e Copland affrontarono il problema da ottiche diverse. Marc Blitzstein (Filadelfia 1905 - Fort-de-France, Martinica 1964) si dedicò ad un teatro didattico di satira e denuncia politica ispirato a Brecht (The Cradle will rock, 1937, I’ve got the tune, 1937, No for an Answer, 1941). Aaron Copland (Brooklyn, New York, 1900), invece, si mise a comporre una serie di la­ vori che uno stile di ascendenza stravinskiana e l’impiego di motivi popolari rendono di facile ascolto e fruizione (ElSalón Mexico, 1936; i balletti Billy the Kid, 1938, Rodeo, 1942, Ap­ palachian Spring, 1944). Un’altra tendenza che si manifestò in quegli anni, in con-

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comitanza con la riscoperta dell’innodia puritana da parte del­ la musicologia statunitense, fu l’impiego di motivi innodici in composizioni sinfoniche e orchestrali (ad es. nella Sympho­ ny on a Hymn Tune, 1928, di V. Thomson, in Hymn, Fuguing and Holiday per orchestra, 1943, di R. L. Finney, nella Wil­ liam Billings Overture, 1943, di W. H. Schuman). Oltre a Cop­ land, autore di un Lincoln Portrait (1942) e di una Fanfare for the Common Man (1942), Roy Harris (Lincoln County, Okla­ homa 1898 - Santa Monica, California 1979) fu un interprete di questo tipo di americanismo in lavori come il Quintetto con pianoforte (1936) e la Terza sinfonia (1939). Due importanti compositori che in questo periodo iniziaro­ no una carriera artistica dagli esiti espressivi antitetici sono Roger Sessions e Virgil Thomson. Roger Sessions (Brooklyn, New York 1896) ha maturato uno stile caratterizzato da com­ plesse strutture formali, dall’impiego di nuclei tematici elabo­ rati e da un tessuto armonico dissonante e dalla frequente al­ ternanza di timbri strumentali che determinano in alcuni suoi lavori (ad es. nella Seconda sinfonia, del 1946) una tensione quasi espressionistica. Virgil Thomson (Kansas City, Missouri 1896), invece, stimolato dalla frequentazione del «Gruppo dei Sei» e di Gertrude Stein, ha assorbito da quel clima pari­ gino un gusto neoclassico ed un atteggiamento ironico. Le sue opere Four Saints in Three Acts (1928) e The Mother of Us All (1947), entrambe su testo della Stein, per il rapporto simbio­ tico con l’«estasi verbale» della scrittrice e la riduzione ai mi­ nimi termini dell’arte musicale ispirata da Satie, rappresenta­ no singolari tappe del teatro musicale statunitense. Nel corso degli anni Trenta, John Cage aveva già iniziato a rivelare, controcorrente, una spiccata tendenza sperimentale; la sua in­ fluenza su scala internazionale si manifestò però nel dopoguer­ ra, per cui si rimanda la trattazione della sua figura al prossi­ mo capitolo.

I problemi del primo Novecento musicale in America Lati­ na sono per molti aspetti analoghi a quelli dei paesi periferici europei; vale a dire, la ricerca di un’identità culturale che non conduca ad una chiusura nazionalistica bensì si apra ad una prospettiva internazionale. Tanto il brasiliano Villa-Lobos che il messicano Carlos Chàvez e l’argentino Alberto Ginastera hanno cercato soluzioni creative che potessero contem­ perare l’impiego di elementi di ispirazione folklorica con un

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linguaggio aggiornato secondo i modelli dell’avanguardia del­ l’epoca, e in particolar modo quella parigina. Fra la sterminata produzione di Villa-Lobos (Rio de Janeiro 1887 -1959), comprensiva di ben 1700 titoli, particolarmente famose e rivelative di questa volontà di sintesi transculturale sono le Bachianas brasileiras e i Chòros. Le prime sono una se­ rie di nove suites per diversi organici in cui l’ispirazione bachiana si fonde con l’evocazione del folklore brasiliano per realizzare un ibrido stilistico piuttosto singolare; i Chòros, in­ vece, sono sedici brani anch’essi per diversi organici - dalla chitarra e dal pianoforte all’orchestra ed alla doppia orchestra con banda - in cui sono sviluppati ed amplificati elementi ca­ ratteristici del folklore brasiliano. Nella produzione di Chàvez (Città di Messico 1899-1978) oltre all’impiego della musica folklorica e popolare è molto rivelativo della sua volontà di radicarsi culturalmente nella tra­ dizione del proprio paese la rievocazione della cultura azteca attuata, oltreché attraverso un’atmosfera di magica ritualità, mediante l’impiego di strumenti in uso presso quel popolo (ad es. nel brano orchestrale Xochipilli-Macuilxochitl, del 1940). Ginastera (Buenos Aires 1916 - Ginevra 1983), affermato­ si con il balletto Panambi (1937) ricco di influssi francesi e stravinskiani, ha dato libero sfogo alla sua vena folklorica in composizioni ispirate ora alla musica creola (la Suite de danzas criollas, per pianoforte, del 1946, o ElFausto Criollo del 1943, ouverture per orchestra), ora all’evocazione del mistero della pampa (ad es. in Las Horas de una estancia, 1943, una serie di liriche su testo di Silvina Ocampo). Specialmente in questi due ultimi compositori considerati, l’ispirazione folklorica non esaurisce la loro produzione musicale, comprensiva di nu­ merose opere prive di riferimento folklorico, che rivelano ap­ punto il desiderio di non rinchiudere l’arte musicale nell’am­ bito di un nazionalismo folkloristico, bensì di darle un respiro internazionale, [gv]

Capitolo tredicesimo

La musica del secondo dopoguerra

i. La «nuova musica » dopo il 1945. Gli orientamenti dei piu significativi protagonisti della ge­ nerazione che si affacciò sulla scena musicale nel secondo do­ poguerra furono subito radicalmente polemici nei confronti delle tendenze dominanti nei decenni fra le due guerre, del gusto «neoclassico» largamente affermato. Fin dal 1946, con la Sonatine per flauto e pianoforte e con la Prima Sonata per pianoforte il ventunenne Pierre Boulez avviò una svolta radi­ cale nel pensiero compositivo, che comportava fra l’altro un nuovo modo di vedere il ruolo storico dei tre grandi viennesi e tutte le vicende della musica del primo Novecento. Boulez era allievo di Olivier Messiaen e aveva seguito i corsi di René Leibowitz sulla dodecafonia; ma assai presto dal suo interesse per il nuovo metodo trasse conseguenze eterodosse e radica­ li, aprendo una direzione di ricerca che per alcuni aspetti sa­ rebbe stata condivisa da altri protagonisti della sua generazio­ ne. Occorre subito sottolineare che sarebbe riduttivo e fuor­ viarne ricondurre le esperienze radicali dei primi anni Cin­ quanta esclusivamente ad una matrice viennese, e in partico­ lare weberniana. La fondamentale importanza della lezione di Webern, o, se si preferisce, di un certo modo di accoglierne l’eredità, fece si che allora i nuovi compositori si definissero «postweberniani»; ma essi stessi ebbero ad annoverare, tra i loro padri «storici», oltre ai viennesi, anche altri musicisti. Oggi il nostro modo di vedere la libertà del tempo musicale di Debussy, il materismo di Varèse e l’invenzione ritmica dello Stravinskij «russo», per citare solo tre esempi, non può pre­ scindere dalla prospettiva nuova in cui si cominciò a guardarli negli anni Cinquanta grazie a Boulez e a quella che si è soliti chiamare «neoavanguardia» per distinguerla dall’avanguardia propriamente detta, quella «storica» della prima metà del se­ colo. Tra i padri riconosciuti della generazione che si affermò nel

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secondo dopoguerra c’è anche Olivier Messiaen (Avignone 1908). Maestro di Boulez e, per qualche tempo, di Stockhau­ sen, dal 1947 per vent’anni tenne al Conservatorio di Parigi corsi di analisi musicale che furono particolarmente fecondi di stimoli (anche la famosa analisi ritmica del Sacre di Stravinskij pubblicata da Boulez trae ispirazione da questi corsi): come compositore è una figura isolata, ed anche l’influenza che esercitò sulla nuova generazione riguarda solo alcuni aspetti della sua ricerca, del tutto indipendentemente dalle premes­ se spirituali della sua poetica. Il giovane Messiaen appartenne per breve tempo ad un gruppo, quello detto «Jeune France » formato nel 1936 anche da Jolivet, Baudrier e Daniel-Lesur, che in comune avevano soltanto la insofferenza per il gusto «neoclassico» dominante. Incline a servirsi di elementi etero­ genei, la fantasia di Messiaen accolse suggestioni dall’eredità di Debussy e Skrjabin con una sensibilità timbrica originale, con un colorismo sempre sostenuto da una tensione mistico­ visionaria ed unito ad un gusto vagamente arcaizzante, che si vale però di un personale sistema di modi divèrso da quello medievale. Dopo una produzione giovanile comprendente fra l’altro il Quatuor pour la fin du temps (1940) e dopo una serie di lavori ispirati a temi amorosi e al ciclo di Tristano (una fase di cui può essere considerata sintesi la sinfonia Turangalila del 1946-48) avviò nuove ricerche sul ritmo, traendo dallo studio dei ritmi orientali e della musica greca stimoli per soluzioni molto complesse. Per questa via Messiaen approdò a compo­ sizioni che nella sua opera segnano un punto limite di astra­ zione e ricerca sperimentale, ma che interessarono particolar­ mente gli autori allora più giovani come premesse per la seria­ lità integrale. Fra queste il pianistico Mode de valeurs et d'intensités (1949), le Etudes de rhytme e parte del Livre d'orgue (1951), dove peraltro alla spoglia astrazione di alcuni pezzi si affianca una delle prime pagine di Messiaen ispirate al canto degli uccelli. I canti degli uccelli diventarono oggetto di stu­ dio e di sistematica elaborazione in una serie di lavori succes­ sivi, per pianoforte, per pianoforte e orchestra (Oiseaux exotiqueSy 1956) o per orchestra con Chronochromie (i960), dove l’intersecarsi di intuizioni timbriche e complesse sovrapposi­ zioni ritmiche raggiunge un esito particolarmente significa­ tivo. Qualcosa della fantasia timbrica e soprattutto della com­ plessità ritmica di Messiaen si ritrova nei primi lavori di Pier­ re Boulez (Montbrison, Loire 1925), che si legano inoltre ad

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alcuni aspetti della lezione di Schonberg e Webern e presen­ tano tecniche seriali assunte con originalità. La Sinfonia da ca­ mera op. 9 di Schonberg è il modello dichiarato della conce­ zione formale della Sonatine per flauto e pianoforte, ma è un modello bene assimilato, in piena autonomia stilistica. Il gesto inventivo dello Schonberg delle prime opere atonali è tuttavia meno lontano dal primo Boulez dei silenzi disincarnati, delle ascetiche rarefazioni di Webern, da cui invece il compositore francese trasse stimoli a radicalizzare i procedimenti seriali, a superare le categorie costruttive e discorsive tradizionali. An­ che il raffinato sensualismo sonoro delle cantate su testo di Char, Le Visage nuptial (1946-47, rev. 1951-52) e LeSoleildes eaux (1948, rev. 1958 e 1965), rimanda ad ascendenti francesi assai più che a Webern: queste pagine presentano nella loro freschezza gli aspetti più accattivanti della poetica bouleziana. Nel giovane Boulez il superamento della dodecafonia classica avviene attraverso continue trasformazioni di cellule e attra­ verso il tentativo di stabilire una coerenza interna tra le tecni­ che di elaborazione delle altezze e quelle riguardanti il ritmo. Ancor più che nelle opere precedenti questi aspetti si profila­ no nella Seconda sonata per pianoforte (1948), un vasto lavoro dove si manifesta pienamente la «lucida furia» del gesto bouleziano. Nel pensiero di Boulez in questi anni si manifesta con intransigente chiarezza l’ansia di un rinnovamento radicale del linguaggio, l’insofferenza per ogni indugio retrospettivo: di qui gli attacchi a Berg (in un articolo del 1948, che lo stesso Boulez poi rimise in discussione) e il celebre Schonberg è morto del 1951, in cui si censurava la «contraddizione» in Schon­ berg tra la novità del metodo dodecafonico da lui creato e la tendenza ad applicarlo in contesti che dal punto di vista for­ male e stilistico erano tradizionali. Questa critica si accompa­ gna all’ipotesi di rovesciare le prospettive dello Schonberg do­ decafonico estendendo le potenzialità innovative della serie. In Webern si riconosceva un precursore, da questo punto di vista; se ne aveva una immagine certamente forzata, tenden­ ziosa, unilaterale; ma la forzatura era funzionale alla ricerca che allora Boulez e altri della sua generazione intrapresero. Dal Livre pourquatuor (1948-49) al primo libro delle Structures per due pianoforti (1951-52), anche in partiture oggi ritirate, come Polyphonic X (1951) Boulez radicalizza la tendenza a fa­ re tabula rasa di ogni traccia o residuo di discorsività legata al passato, alla storia, attraverso i procedimenti della serialità in­

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tegrale, cioè attraverso l’estensione di criteri seriali a tutti i cosi detti «parametri» (altezze, durate, timbro, dinamica ecc.), come accade nel primo libro delle Structures. All’epoca dell’articolo polemico su Schonberg e di questa composizione Boulez non era piu isolato in tale direzione di ricerca. Anche in altri aveva suscitato particolare interesse il Mode de valeurs et d’intensités di Messiaen, con la sua costruzione di una serie ritmica: si erano allora mossi nella direzione della serialità in­ tegrale anche il belga Karel Goeyvaerts (1923) e il tedesco Karlheinz Stockhausen (Mòdrath, Colonia 1928). Kreuzspiel (1951) può essere considerato la radicale risposta di Stockhausen (i cui primi lavori non fanno presagire scelte «postweberniane») alla provocazione del Mode di Messiaen. Si parlò allora di «puntillismo» con riferimento all’effetto di­ sgregante, dissociativo della serialità integrale. Le singole no­ te erano trattate come «punti» isolati, in assoluta libertà ed indipendenza: invece di aggregarsi in configurazioni suggerite in qualche misura da una logica tradizionale venivano orga­ nizzate con criteri seriaE tenendo conto soltanto della pura fi­ sicità dei loro «parametri», definendo una serie di altezze, una di timbri, una di durate ecc. e sottoponendo cosi ogni aspetto della composizione ad un controllo ferreo, che poteva cancellare qualsiasi residuo di discorsività tradizionale, di ri­ flesso condizionato della memoria, di rapporto con la storia. Il rischio di procedere con rigida, astratta meccanicità fu su­ bito avvertito, e il dibattito sulle tecniche seriali e sul loro su­ peramento costituì forse l’ultimo tentativo di fondare un lin­ guaggio in qualche misura comune per la «neoavanguardia», anche se, all’interno di una linea di ricerca che in senso mol­ to generale poteva sembrare condivisa da tutti, si potevano cogliere i segni di ben definite autonomie. L’originalità dei protagonisti dei primi anni della «nuova musica» non impedì però che per qualche tempo il dibattito sulle ricerche piu radi­ cali fosse in una certa misura comune: esso ebbe alcune sedi privilegiate, che divennero un punto di riferimento per chi voleva accostarsi a tali esperienze. Fra queste sedi si conqui­ starono particolare fama gli Internationale Ferienkurse (Corsi estivi internazionali) di Darmstadt, tanto che ancora oggi se ne parla impropriamente come di una vera e propria scuola e come sinonimo di un particolare indirizzo compositivo, legato in realtà soltanto alla problematica degli anni Cinquanta (i corsi si tengono ancora e attualmente offrono una informazio­ ne ampia ed aperta su ciò che accade oggi, dunque su una si­

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tuazione ben diversa da quella di trentanni fa). A Darmstadt nel 1946 il musicologo Wolfgang Steinecke fondò dei corsi che avrebbero dovuto contribuire a superare le chiusure, le la­ cune, la mancanza di informazione cui la musica tedesca era stata costretta negli anni del nazismo. Inizialmente i corsi fu­ rono diretti da Wolfgang Fortner e videro emergere nei pri­ missimi anni fra gli altri un suo allievo, Hans Werner Hen­ ze (Giitersloh 1926), un compositore che è stato per qualche tempo associato alle vicende della «nuova musica», ma che ha sempre mantenuto una posizione a sé, nella sua eclettica di­ sponibilità ad accogliere stimoli diversi. Nel 1947 era stato in­ vitato a Darmstadt Hindemith, nel 1948 Leibowitz, nel 1949 Messiaen, nel 1950 Varese: si allargava intanto la cerchia in­ ternazionale dei giovani compositori presentati in quella sede, a cui presto si affiancò il Festival di Donaueschingen. I primi autori italiani eseguiti a Darmstadt furono Bruno Maderna (Venezia 1920 - Amsterdam 1973) e Luigi Nono (Venezia 1924), a partire dal 1950; Luciano Berio (Oneglia 1925) vi fu presente per alcuni anni dal 1954. Nello stesso periodo in cui i seminari di composizione dei «Ferienkurse» di Darmstadt divennero un punto di riferi­ mento fu creato a Colonia (1951) il primo studio europeo di musica elettronica, diretto inizialmente da H. Eimert: vi la­ vorarono tra gli altri Stockhausen e il belga Henri Pousseur (1929). Intanto a Parigi fin dal 1948 Pierre Schaeffer (1910) aveva compiuto esperienze che portarono alla creazione del Groupe de Recherche de Musique Concrète: i nomi di musica elettronica e di musica concreta indicano con chiarezza i di­ versi orientamenti seguiti a Colonia (dove in un primo mo­ mento la sperimentazione si concentrò esclusivamente sulla manipolazione del suono prodotto elettronicamente) e a Pari­ gi (dove invece il punto di partenza era la registrazione ed ela­ borazione di suoni naturali, «concreti»). Non per caso l’inte­ resse per la ricerca elettronica si fece particolarmente acuto di fronte alle difficoltà, pratiche e teoriche, della serialità inte­ grale: in un primo momento Stockhausen esplorò nel nuovo mezzo soprattutto le possibilità di creare e manipolare nuovi timbri e di esercitare un controllo assoluto su questi, sulle du­ rate, sulle dinamiche. L’estensione di criteri seriali a tutti i «parametri» poneva comunque il problema che non esistono reali corrispondenze fra una serie di altezze e una serie, ad esempio, di durate o di timbri, né sul piano percettivo né su quello matematico.

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«Un monumento ai limiti della terra fertile» aveva definito Boulez la più «rigorosa», la più astratta e spoglia sezione (la prima) delle Structures. Già all’interno di questa partitura, tut­ tavia, le sezioni composte successivamente, la terza e soprat­ tutto la seconda (la più lunga e complessa) propongono una concezione più flessibile dei procedimenti seriali. Proseguire la ricerca dopo l’esperienza della serialità integrale appariva allora come un ripartire da una sorta di grado zero fuori dalla storia, dopo aver fatto tabula rasa di ogni residuo «discorsivo» tradizionale, ed in questa situazione le poetiche di Boulez e Stockhausen si precisarono nella loro autonomia. Boulez era teso a fondare un linguaggio in cui fossero ancora possibili per il compositore scelte di gusto, di natura estetica. A Stockhau­ sen sembrava prioritariamente essenziale definire di volta in volta un nuovo sistema di organizzazione, dove il procedi­ mento contava, in linea di principio, più dell’opera compiuta. Nella ricerca di Stockhausen il superamento della fase «puntillistica» fu costituito dal passaggio alla «composizione per gruppi». Si intende per «gruppo» un insieme di più suoni avente una propria specifica caratterizzazione complessiva, grazie alla densità, al timbro, alla dinamica, alla velocità delle note, all’intervallo tra l’altezza più acuta e la più grave e cosi via. La qualità percettiva d’insieme del gruppo è diversa da quella che darebbe la somma delle singole componenti. Inol­ tre, nota Stockhausen, «i diversi gruppi in una composizione hanno diverse caratteristiche proporzionali, diversa struttura, ma sono in rapporto fra di loro in quanto si capiscono le pro­ prietà di un gruppo solo se lo si confronta con gli altri». Que­ sta citazione è tratta dall’analisi del Klavierstiick I, che è in realtà l’ultimo composto del ciclo dei primi quattro. Essi furo­ no composti tra il 1952 e il 1953 e pubblicati insieme: all’in­ terno del ciclo si delinea il passaggio «da una musica puntilli­ stica alla composizione per gruppi». Tale passaggio appare an­ cora più chiaramente compiuto in Kontra-Punkte (1952-53), una pagina per io strumenti (cosi intitolata in contrapposizione alla prima versione di Punkte, che fu poi modificata radi­ calmente), uno dei capolavori decisivi del primo Stockhausen. La composizione per gruppi tendenzialmente esclude un decorso temporale avente una direzionalità, e comporta l’i­ stantaneità di ogni evento. Un tema centrale della ricerca di Stockhausen negli anni seguenti è la riflessione sulle strutture del tempo musicale e sulla sua progettazione, oggetto di una serie di scritti, ai quali sono contemporanei lavori fondamen­

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tali come l’elettronico Gesang der Junglinge (Canto degli ado­ lescenti, 1955-56), Zeitmasse per 5 legni (Misure del tempo, 1955-56) e Gruppen per 3 orchestre (1955-57). H Gesang der Junglinge è il primo lavoro elettronico di Stockhausen dove il materiale elaborato è anche «naturale», la registrazione di una voce di bambino: la presenza della voce comporta anche quella di un testo (per la prima volta in Stockhausen, se si tra­ lasciano i lavori degli anni di apprendistato); ha inoltre rilievo fondamentale la diffusione del suono nello spazio (il nastro è a cinque piste), l’uso dello spazio come vera e propria dimen­ sione compositiva. Tale dimensione è centrale anche in Grup­ pen, insieme con l’invenzione del suono e con la complessa de­ finizione del rapporto tra la «composizione per gruppi» e le strutture temporali. Il movimento del suono nello spazio è esplorato anche in Carré per quattro cori e quattro orchestre (1959-60), che appartiene peraltro ad una fase in cui Stock­ hausen sembra aprirsi a suggestioni nuove nella sua ricerca (anche attraverso una attenzione piu diretta ed immediata al suono). La riflessione critica sulla serialità integrale si manifestò in Stockhausen (e contemporaneamente, in modo diverso, in Boulez) anche nella sperimentazione di un certo grado di in­ determinazione: più che dell’influenza di Cage (la cui presen­ za si sarebbe fatta più incisiva, nella nuova musica europea, a partire dal 1958) questa esperienza appare frutto di una ricer­ ca coerente, del superamento della serialità integrale, del bi­ sogno di creare percorsi temporali aperti e discontinui. La via della indeterminazione parziale, della cosi detta «alea control­ lata» (alea è il termine che diviene d’uso corrente per indicare procedimenti in parte o totalmente aperti ed indeterminati) ha un significato diverso dalle operazioni di Cage. In Stock­ hausen la prima esperienza in questo ambito è il Klavierstuck XI (1956), che lascia all’interprete una libertà senza preceden­ ti nella tradizione musicale europea. E scritto su un unico grande foglio che contiene 19 gruppi di note, alla fine di cia­ scuno dei quali vi sono indicazioni di tempo, di intensità e di tipi d’attacco. Le istruzioni per l’uso dicono: «L’esecutore guarda il foglio a caso e comincia a suonare il primo gruppo su cui gli è caduto l’occhio, e lo suona scegliendo a piacere il tem­ po, la dinamica e il tipo d’attacco. Terminato il primo gruppo legge in coda le indicazioni di tempo, dinamica e attacco e le applica all’esecuzione di un altro gruppo, anch’esso scelto a caso sul foglio...» Presupposto di questa concezione è l’idea

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dei «campi di tempo» (Zeitfelder), che prevede agglomerati so­ nori piuttosto fitti e tali da non perdere l’interna coerenza se se ne modificano alcune componenti. Nell’ambito di una vi­ sione del tempo musicale discontinua, volta ad isolare singoli pannelli nel decorso del pezzo, anche la multivalenza formale, la pluripolarità del Klavierstùck XI trovano una logica colloca­ zione. Per vie diverse Boulez (che trovava eccessiva la libertà la­ sciata all’interprete nel Klavierstùck XI) era approdato anch’e­ gli ad un certo grado di indeterminazione, di apertura all’alea nella Terza Sonata per pianoforte del 1955-57. Negli anni pre­ cedenti Boulez aveva teorizzato l’uscita dal rigore seriale (in un articolo del 1954, Ricerche ora) proponendo «una dialetti­ ca che si instauri tra un’organizzazione globale rigorosa e una struttura momentanea sottomessa al libero arbitrio... Riven­ dichiamo per la musica il diritto alla parentesi e al corsivo». La dialettica e il diritto di cui parla Boulez si trovano realizza­ ti in una delle sue partiture più famose, composta in quel pe­ riodo, nel 1953-54, LeìAarteau sans maitre, un ciclo per con­ tralto e per un organico strumentale originalissimo, trattato con straordinaria raffinatezza (flauto in sol, viola, chitarra, xilorimba, vibrafono, percussioni), comprendente 4 pagine vo­ cali su 3 poesie surrealiste di René Char e cinque pagine stru­ mentali che fungono da premessa o commento. Il rapporto con il testo comporta situazioni variabili, dalla immediata comprensibilità, al suo celarsi nell’arabesco vocale, o alla si­ tuazione in cui la voce stessa si fonde nel complesso strumen­ tale. E nella nitida concezione strutturale di questo capolavo­ ro trovano posto ora siderali costellazioni memori della purez­ za weberniana, ora scatti di «lucida furia», addensamenti di violenta concitazione, di incandescente tensione, ora zone di sospesa, incantata stupefazione timbrica. Nel lavoro immediatamente successivo, la Terza Sonata, l’e­ sigenza di lasciare spazio alla parentesi e al corsivo si manife­ sta in una parziale apertura all’indeterminazione, concepita indipendentemente da Stockhausen e in modi assai diversi. Boulez fu colpito semmai, più che da Cage o dal Klavierstùck XI, dalla coincidenza tra il progetto che andava definendo (e che ancora oggi è realizzato soltanto in parte) e le idee ispira­ trici del Livre di Mallarmé, su cui Jacques Scherer pubblicò un fondamentale saggio nel 1957. L’idea di Boulez è quella di «non concepire più l’opera co­ me un semplice percorso da un punto di partenza ad un punto

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di arrivo», ma di costruire un ramificato labirinto, senza tut­ tavia che venga messa in discussione la presenza di un pensie­ ro organizzante e di uno stile (l’alea «controllata» di Boulez è in tal senso esattamente agli antipodi della concezione di Cage dell’indeterminazione). Qualche circoscritta apertura aleatoria si trova anche nel­ l’omaggio che Boulez rese a Mallarmé con il ciclo Pii selon pii, composto tra il 1958 e il 1962 e comprendente tre Improvisa­ tions sur Mallarmé per soprano e complesso da camera, incor­ niciate da due pezzi per orchestra (con pochi interventi della voce), Don e Tombeau. Confrontandosi con alcuni testi subli­ mi, fra i piu ardui del poeta francese, Boulez instaura con essi un rapporto complesso, cerca rispondenze strutturali e forma­ li, ne accoglie le sollecitazioni in diverse direzioni e offre una formulazione compiuta della propria poetica matura, fra l’al­ tro con il dispiegarsi di una grande seduzione sonora, di una fantasia timbrica che conosce luci e colori cangianti, durezze e rifrazioni di mirabile raffinatezza. La ricerca di Boulez e di Stockhausen, di cui si sono qui sommariamente narrate le prime fasi, non riassume la molte­ plicità e ricchezza delle esperienze del secondo dopoguerra, che soltanto a grandissime linee ed in termini molto schema­ tici possono essere ricondotte ad una qualche unità (non è mai esistito, in concreto, un modo univoco di intendere la seriali­ tà). Tra i protagonisti che subito si imposero con autonomia particolarmente evidente c’è Luigi Nono, che fin da principio non condivise né il riferimento ad una immagine di Webern sradicata dalla storia, né l’adozione di tecniche seriali in una direzione puntillistica, totalmente dissociativa. Gli fu estra­ neo quanto di neopositivistico c’era nella considerazione dei fatti musicali attraverso i «parametri», e ciò si riflette chiara­ mente in lavori come Polifonica-Monodia-Pitmica (1951), Canti per zj e Incontri (1955), e a maggior ragione nelle pagine vocali degli stessi anni. Nono non condivise la tendenza a pri­ vilegiare la «purezza» della musica strumentale, e in alcune delle sue prime pagine vocali, ad esempio nel Liebeslied del 1954 (per coro e strumenti) definì alcuni caratteri essenziali del terso lirismo che parve subito uno degli aspetti fondamen­ tali della sua poetica. Per soli, coro e orchestra è composto il piu noto capolavoro nomano degli anni Cinquanta, Il Can­ to sospeso (1955-56), su frammenti di lettere di condannati a morte della Resistenza europea: visioni allucinate, aspre ten­ sioni si intrecciano in questa partitura con accenti di lirismo

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desolato, di struggente intimismo. Il Canto sospeso offre un maturo esempio dell’originale tecnica noniana di sfaccettate fasce sonore, tra addensamenti e rarefazioni, dilatazioni e dis­ solvenze. Anche a questa tecnica si collega la complessità del rapporto con il testo, che non è mai trattato come semplice materiale fonetico (come a torto sostenne Stockhausen), ma non è sempre direttamente percepibile perché sottoposto in alcune pagine ad un complesso procedimento di frammenta­ zione e sovrapposizione che apre allo spazio musicale nuove dimensioni. Di una ricerca sul movimento del suono nello spazio è documento assai significativo la Composizione per or­ chestra n. 2: Diario Polacco 58 (1958-59): qui i quattro gruppi orchestrali sono disposti tutti di fronte al pubblico, e il movi­ mento è interno, per cosi dire, all’orchestra (diversamente da quanto accade nello Stockhausen di Gruppen e Carré). Una poetica già definita con autonomia negli anni del radi­ calismo seriale rivelò Luciano Berio, nella cui scrittura è sem­ pre stata riconoscibile una concreta, spontanea adesione alla materia sonora e alle sue potenzialità fisico-percettive. Si è fe­ licemente parlato, per Berio, di «golosità fonica» ed è stata concordemente sottolineata la sua sostanziale estraneità alle ricerche compiute per via di astratto e rigoroso razionalismo, la spregiudicatezza con cui sa far coesistere sperimentalismo e rapporto con la tradizione, radicalismo e piacevolezza, la sua totale disponibilità, insomma, ad affrontare ogni situazione sonora liberandone in molteplici direzioni le potenzialità. Nella poetica di Berio è impensabile quello sradicamento dalla storia che fu perseguito nei primi anni dell’esperienza seriale; ma ciò non gli impedì di partecipare in modo autonomo alle vicende della «nuova musica» dall’elettronica all’alea control­ lata, dalla definizione di una nuova vocalità a quella di un nuovo virtuosismo strumentale. Nel 1954 insieme con Bruno Maderna fondò a Milano lo Studio di Fonologia della Rai (che diresse fino al i960), e fra le sue opere in ambito elettronico va ricordato in modo particolare Thema (Omaggio a Joyce) (1958), dove l’unico materiale di partenza è la voce di Cathy Berberian (1925-83) che legge in tre lingue pagine dall’undi­ cesimo capitolo dell’ Ulisse. Questo materiale verbale diventa oggetto di uno straordinario sviluppo musicale. La Berberian fu il duttilissimo strumento e il punto di riferimento della ri­ cerca sulla vocalità di Berio e di molti altri compositori. Tra le prime pagine vocali di Berio ricordiamo Chamber Music (1953) e Circles (i960), dove gli itinerari circolari percorsi dal­

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la voce, dall’arpa e dai due percussionisti attraverso diversi ti­ pi di articolazione a tratti si incontrano e sovrappongono, producendo corti circuiti, scambi, con una ricerca timbrica collocata sulla soglia tra vocale e strumentale e tra suono e ru­ more. Famosissima è poi la Sequenza III (1965) per voce, che fa parte della fortunata serie delle Sequenze destinate ad un solo esecutore (iniziata nel 1958 con un pezzo per flauto): in tale serie si rivelano aspetti tipici del pensiero di Berio attra­ verso la concezione di un virtuosismo che presenta e sovrap­ pone modi d’azione e caratteri diversi, cosi che la esplorazio­ ne di inedite potenzialità dello strumento impiegato viene po­ sta in rapporto con un repertorio di immagini e tecniche che appartengono alla sua storia e lo condizionano. Tra i piu signi­ ficativi lavori di Berio negli anni Cinquanta citeremo ancora Allelujah II per cinque gruppi di strumenti (1957-58) e Tempi concertati (1958-59).

Quando si ripercorrono le vicende della «nuova musica» si è soliti indicare il 1958 come una data particolarmente signi­ ficativa: fu l’anno della prima presenza di Cage a Darmstadt. John Cage (Los Angeles 1912) era già noto in Europa fin dai primi anni Cinquanta; ma soltanto allora, verso la fine del de­ cennio, la sua influenza divenne rilevante, ed egli sembrò as­ sumere di fatto la funzione di una sorta di catalizzatore di dubbi, interrogativi, contraddizioni agli occhi di alcuni di co­ loro che avevano dato vita alle radicali esperienze di quel pe­ riodo. Fra le premesse della poetica di Cage occorre ricordare una attenzione alla lezione di Varèse (al suo modo di concepi­ re la materia sonora al di là della tradizionale distinzione tra suono e rumore), una ampia disponibilità sperimentale, la co­ noscenza di Marcel Duchamp e soprattutto l’interesse per la musica e la filosofia orientale. Nella prima fase della ricerca di Cage, del tutto indipendente da modelli europei, ricordiamo la sperimentazione di schemi ritmici e la «invenzione» del pianoforte preparato (fin dal 1938), di un pianoforte cioè il cui suono è deformato dall’inserimento tra le corde di viti, gomme, pezzi di legno, carta o altro materiale: il timbro dena­ turato che si ottiene presenta affinità con quello dei gamelan giavanesi. Per pianoforte preparato fu scritto, fra l’altro, il va­ sto ciclo Sonatas and Interludes (1946-48). Ispirandosi alla filo­ sofia Zen (e, in qualche misura, a Satie) Cage perseguiva già nella sua musica scritta in modo apparentemente «normale»

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una sorta di atarassia contemplativa in cui annullare ogni trac­ cia di soggettività ed ogni possibilità discorsiva. Dai primi an­ ni Cinquanta approdò ad una radicale indeterminazione, alla negazione stessa dell’opera d’arte come prodotto finito di cui l’artista si assume la responsabilità: ogni suono è musica, e dunque non c’è per Cage alcuna ragione di organizzarlo se­ condo precise intenzioni. Ciò ripetono in modi sempre diversi le sue opere, che possono essere semplici indicazioni di com­ portamento per l’interprete, o prevedono una molteplicità di usi per le note scritte, quando ve ne sono (a sua volta la scrit­ tura potrà valersi delle imperfezioni della carta o di altri pro­ cedimenti, essendo l’uno perfettamente equivalente all’altro). L’influenza esercitata da Cage nel contesto della nuova musi­ ca si legò ad un momento in cui essa prendeva coscienza di certi possibili sbocchi della sua stessa vicenda; l’indifferenzia­ zione cageana, frutto di totale indeterminazione, poteva al li­ mite trovarsi a coincidere con l’indifferenziazione provocata dall’iperdeterminata organizzazione seriale e dalla sua assenza di articolazione interna. E l’azione di Cage stimolava all’acco­ glimento di ogni aspetto del vitale, sollecitando per tale via esperienze tra loro diversissime. Intorno al i960, quindi, viene meno ogni residua illusione sulla possibilità di fondare un linguaggio comune, e si crea una situazione ancora più complessa e frantumata, che vede emergere nuovi protagonisti e linee di ricerca non riconduci­ bili a principi ispiratori di natura seriale. Perdono significato le vecchie parole d’ordine e sempre meno si crede alla possibi­ lità di sostituirle con parole d’ordine nuove; ma il radicale sconvolgimento che negli anni Cinquanta si era prodotto in tutte le categorie del pensiero musicale è la premessa di una si­ tuazione aperta, dove, accantonata ogni preoccupazione puri­ stica, la materia sonora può essere esplorata dai punti di vista più diversi e dove c’è spazio anche per il collage o per altre esperienze che reintroducano aspetti del passato storico in precedenza rimosso o cancellato. E c’è spazio per il vissuto in tutte le sue manifestazioni, per l’irrompere di una gestualità «teatrale», per notazioni non convenzionali, per un radicale ripensamento delle possibilità dell’elettronica, che molti esplorano soprattutto nella unione con altre fonti sonore «dal vivo». Nelle pagine conclusive di questo volume sarebbe impossi­ bile anche soltanto accennare a tutto ciò che di significativo è accaduto nella musica «colta» nell’ultimo quarto di secolo,

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riassumere esperienze che per definizione mal si prestano ad essere discusse ricorrendo a schematici raggruppamenti per tendenze. La «oggettività» di lunghi elenchi di nomi non avrebbe, d’altra parte, alcuna utilità: si è preferita la strada, inevitabilmente arbitraria, di ricordare alcuni casi rappresen­ tativi senza pretendere di tracciare un quadro esauriente, neppure degli autori italiani ai quali si è prestata, in comples­ so, maggiore attenzione. Come figura a sé va ricordato un autore già attivo con esiti significativi negli anni Cinquanta, ma fin da allora critico nei confronti delle esperienze seriali, il greco naturalizzato fran­ cese Iannis Xenakis (1922). Laureato in architettura (lavorò con Le Corbusier), Xenakis è sempre stato incline a pensare la musica per masse sonore, per agglomerati di materiale, che egli elabora servendosi del calcolo della probabilità e di proce­ dimenti della logica matematica (di qui il nome di musica «stocastica»), senza peraltro che ciò comporti una vocazione all’astrazione. La poetica di Xenakis si caratterizza, al contra­ rio, per la violenta immediatezza del suo materismo, per l’a­ sprezza e l’incandescenza della concezione del suono. Sono queste alcune delle costanti di una vasta produzione, che da Metastasis (1953-54) al recente concerto per pianoforte e or­ chestra Keqrops (1986) si è valsa dei più diversi organici ed ha sperimentato nuove tecnologie. Uno sguardo all’opera di Boulez e Stockhausen dopo il i960 rivela due situazioni significativamente opposte. Nel cammino di Boulez colpisce in primo luogo la coerente conti­ nuità, che si manifesta in un numero limitato di lavori di grande rilievo, separati da lunghe pause di riflessione. L’espe­ rienza di direttore d’orchestra, particolarmente intensa tra il 1962 e il 1975, offre l’occasione di rimeditare sul passato, mentre le poche composizioni mantengono la dialettica tipica­ mente bouleziana tra impianto di rigorosa nitidezza struttura­ le e duttile flessibilità e lasciano crescente spazio al piacere del suono, alle seduzioni timbriche, tra arabeschi di gelida lumi­ nosità e rifrazioni cangianti, nella alternanza di zone statiche e di sezioni di maggior densità costruttiva. Da Eclat/Multiples (1965-70) e anche dall’ossessione rituale-ripetitiva di Rituel (1975) diversi fili rimandano a Répons (1981), sebbene que­ st’ultimo vasto lavoro faccia ricorso alle nuove tecnologie di­ gitali dell’Ircam1 di Parigi contrapponendo il suono naturale 1 Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/Musique.

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di un complesso di 36 strumenti a quello di sei solisti manipo­ lato e trasformato attraverso il 4X, la macchina che lo frantu­ ma, moltiplica e rifrange in un inesauribile gioco di specchi. Boulez usa infatti le nuove possibilità come strumenti di am­ pliamento e approfondimento dei caratteri del proprio pensie­ ro musicale, senza fratture nette nella continuità del suo svol­ gimento. Non si può invece parlare di continuità per l’irrequieto per­ corso di Stockhausen, di cui potremo citare soltanto alcuni momenti di rilievo. La ricerca elettronica prosegue con coe­ renza in Kontakte (1958-60), che esiste però in due versioni, per solo nastro e con l’aggiunta di strumenti dal vivo. In que­ sto ampio lavoro (dove i «contatti» sono quelli fra i parame­ tri, ed anche fra suono intonato e rumore) Stockhausen viene precisando la sua idea di Momentform y di una forma cioè dove si raggiunge una dimensione fuori dal tempo concentrandosi di volta in volta sul « momento », entità più ampia ed autono­ ma dei «gruppi». L’idea di questa «forma momentanea» tro­ va la più vasta realizzazione in Vomente (1961-64, poi rivedu­ to e ampliato nella versione del 1972). La rinuncia al radicali­ smo purista si manifesta nell’impiego di molteplici inni nazio­ nali integrati in Hytnnen (1966-67, musica elettronica in 4 se­ zioni, nella terza delle quali nel 1969 fu aggiunta l’orchestra): questi materiali noti affiorano o si disperdono in un flusso so­ noro di visionaria ricchezza fantastica che, lungi dall’evocare la proclamata utopia della pace universale, crea una sorta di sconvolto collage e suggerisce un senso di apocalittico sfacelo. La concezione di Stimmung (1968, per sei voci) rivela la com­ presenza di serialità e misticismo, due poli nei quali sembra ri­ solversi l’opera stockhauseniana, tra minuziosa progettazione ed aperture all’indeterminazione. Ci si concentra qui su una statica contemplazione del suono, sul cangiare del timbro vo­ cale, con effetti di magica sospensione. Ad ogni organizzazio­ ne rinunciano le esperienze di musica «intuitiva», fondata sulla comunicazione soltanto intuitiva con i musicisti che par­ tecipano ad un’improvvisazione. Invece l’attenzione ad una timbrica visionaria e ad eterogenee dimensioni stilistiche sono tra i caratteri dominanti di lavori come Mantra, per due piano­ forti il cui suono è trasformato da modulatori ad anello (1970), Tram per orchestra (1971) e Inori per un solista («uno che pre­ ga») e orchestra (1973-74). Già nei titoli Mantra e Inori riman­ dano al pensiero religioso orientale: sempre più negli ultimi anni Stockhausen ha vestito i panni del santone, del guru, del

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497 veggente e si è riproposto effetti di coinvolgimento «magico» nei confronti dell’ascoltatore. A partire da Mantra si profila la tendenza a basare l’intera organizzazione di un pezzo sulla elaborazione ed espansione di formule (intese come nucleo ge­ neratore che, a differenza della serie, hanno una precisa, con­ creta configurazione), ad esempio in Sirius (1975-77) e nel va­ sto progetto di sette opere (una per ogni giorno della settima­ na) che da diversi anni assorbe tutte le energie del composito­ re, il ciclo Licht (Luce) di cui finora sono realizzati compiutamente Donnerstag (Milano 1981), Samstag (Milano 1984) e Montag (Milano 1988). Lavorando sulle formule Stockhausen non rinuncia al razionalismo costruttivo tipico della sua poe­ tica, ma al radicalismo sperimentale e al purismo di un tempo, riscoprendo i piaceri della melodia e della eterogeneità stili­ stica. Il teatro musicale è per Stockhausen un approdo tardivo, legato ad una sorta di cosmologia e mitologia personale; ma per molti altri protagonisti della musica d’oggi il crescente in­ teresse per questa forma complessa di ricerca e comunicazione coincise, in modi diversissimi, con l’epoca della crisi della se­ rialità: non è una coincidenza casuale, dato che il teatro musi­ cale è per sua natura «ibrido», e tendenzialmente refrattario al purismo stilistico. Nono, che aveva già composto un ballet­ to nel 1953, lavorò tra il i960 e il 1961 alla «azione scenica in 2 atti» Intolleranza i960; Berio negli stessi anni scrisse Passag­ gio, dopo altre due esperienze teatrali, e tra il 1963 e il 1965 Laborintus II; Maderna pose mano nel 1964 al ciclo Hyperion, che conobbe in quell’anno a Venezia la prima forma scenica e fu poi oggetto di complesse rielaborazioni; Giacomo Manzoni (1932) compose nel i960 la sua prima opera, La sentenza e af­ frontò nel 1965 la seconda esperienza teatrale, Atomtod; ma l’elenco potrebbe essere molto piu lungo, includendo Niccolò Castiglioni (1932) e molti altri. Si dovrebbe anche ricordare il diffondersi di esperienze di «teatro musicale» legate a poeti­ che néodadaistiche, o ad una sorta di happening musicale, o comunque alla teatralità del gesto dell’interprete, in autori co­ me Mauricio Kagel o Sylvano Bussotti (Firenze 1931), un mu­ sicista, quest’ultimo, nella cui opera è in un certo senso arbitra­ ria la distinzione fra ciò che è o non è teatrale, perché tutto può essere ricondotto quanto meno ad una dimensione di teatro immaginario. Uno dei capolavori di Bussotti, le Pieces de chair II (1958-60) deve essere citato tra gli esempi significativi della nuova situazione che si creò nella ricerca musicale alla fine

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degli anni Cinquanta: è un ciclo di 14 pezzi (in parte legati a notazioni «grafiche» di interpretazione apertissima) per canto e piano, canto e strumenti o pianoforte solo, una collana di frammenti. Qui il caleidoscopico succedersi di invenzioni, il personalissimo lirismo ha le radici in una poetica che, lonta­ nissima da atteggiamenti puristico-razionalistici, accoglie di­ chiaratamente la sfera del «privato», la dimensione autobio­ grafica, la rappresentazione dell’esperienza. Tra raffinatezze preziose, sospese estenuazioni e magmatici addensamenti il gesto inventivo di Bussotti sembra rispondere ad una onnivo­ ra frenesia, ad una concezione del suono come evento magico. Questi aspetti rimangono dati costanti nelle molteplici espe­ rienze compositive di Bussotti, fra le quali è indispensabile al­ meno citare The Rara Requiem (1969-70) e il balletto per or­ chestra Bergkristall (ispirato alla novella di Stifter che porta lo stesso titolo). Ma l’elenco dovrebbe essere assai lungo: non soltanto The Rara Requiem assomma in una sorta di catalogo allusioni a pagine del decennio precedente; ma in generale è tipica di Bussotti la concezione dei suoi lavori come frammen­ ti di un disegno piu vasto e aperto, in cui tutto trova posto e in cui molteplici fili legano un’opera all’altra. Non poteva re­ starne escluso, come già si è ricordato, il teatro musicale in tutte le sue forme. Dalla Passion selon Sade (1962) a Lorenzaccio (Venezia 1972), da Nottetempo (Milano 1976) a Le Rarità, Potente (Treviso 1979) ad altri lavori, ai balletti, il teatro di Bussotti ha ricondotto Musset come Vasari, la Resistenza co­ me Racine sotto il segno di un autobiografismo totale, di una drammaturgia personalissima che si definiva come affastella­ mento di molteplici vocaboli e prospettive, come complessa somma di frammenti, lontanissima da ogni criterio dramma­ turgico tradizionale. Ad una concezione del teatro musicale posta sotto il segno di atteggiamenti surreali o neodadaisti, o anche di qualche sug­ gestione del teatro dell’assurdo si improntano molti lavori del­ l’argentino Mauricio Kagel (Buenos Aires 1931), che, attivo in Germania da più di 30 anni, fu a Colonia e Darmstadt, ma non condivise l’interesse per il rigore delle tecniche seriali. Dopo Transición II (1958-59) per pianoforte, percussione e nastri ma­ gnetici, aperto a tecniche aleatorie, precisò la sua ricerca in un ambito che coinvolgeva anche la dimensione visiva e gestuale, ad esempio in Ahz/cA per 3 esecutori (1964). Soprattutto a par­ tire dagli anni Settanta il montaggio, il collage, lo stravolgi­ mento di atteggiamenti stilistici o di musiche preesistenti

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sono diventati i mezzi prediletti dall’umorismo o dall’ironia di Kagel. Una esperienza di non convenzionale «teatro immagina­ rio» fra le più significative dei primi anni Sessanta è quella di Aventures (1962) e Nouvelles aventures (1962-65) dell’unghe­ rese Gyórgy Ligeti (Dicsószentmartón, Transilvania 1923). A differenza delle partiture «gestuali» di un Kagel o di Glosso­ lalie (i960) di Dieter Schnebel (Lahr, Foresta Nera 1930), aperta per diversi aspetti all’indeterminazione, le Aventures di Ligeti sono composte in ogni dettaglio e indicano anche minu­ ziosamente ogni gesto e ogni fonema degli interpreti (3 voci e sette strumentisti; non c’è un testo, ma solo fonemi aseman­ tici). La frammentatissima molteplicità degli atteggiamenti che caratterizza queste partiture rientra nel gusto di Ligeti per un linguaggio compreso tra i due estremi di una massima mobilità e frantumazione (spesso di una «micropolifonia» co­ stituita da un variegato reticolo di sovrapposizioni) e di una massima staticità, quale si manifesta nelle fasce sonore lenta­ mente cangianti di Atmosphères (1961) o di Lontano (1967). In molte pagine i due atteggiamenti si trovano variamente compresenti, fra l’altro nel Requiem (1963-65) e nel secondo quartetto (1968). Ligeti, che in Ungheria aveva avuto una for­ mazione di impronta bartokiana, si era accostato alla nuova musica dopo essersi stabilito a Vienna nel 1956, e aveva par­ tecipato alla discussione sulle tecniche seriali partendo dall’e­ sigenza del loro superamento e da un rapporto di diversa na­ tura con la materia sonora. Nei lavori piu recenti si è rivolto a recuperi retrospettivi, fra l’altro nell’opera Le Grand Macabre (Stoccolma 1978) da Ghelderode. Nell’esperienza di autori come Kagel o Schnebel l’indeter­ minazione cagiana veniva assunta come manifestazione di una poetica «negativa», come distruzione dell’opera attraverso l’apertura alla dimensione casuale. In Franco Donatoni (Vero­ na 1927) la riflessione su questa problematica conduce ad altre pratiche. Partito da esperienze vicine a Bartók e Hindemith, Donatoni era approdato alla nuova musica negli anni della cri­ si delle strutture seriali, che egli ebbe a definire «ultima tenta­ zione linguistica», in quanto ultimo tentativo di un linguaggio comune per la neoavanguardia. Dal rifiuto di quella tentazio­ ne muove la poetica di Donatoni, il suo rendere testimonianza del negativo, delia impossibilità della ricostruzione dei «valo­ ri». In uno scritto del 1977 egli ebbe a ricordare la propria «privata sintonia» con idee come quella espressa dalla seguen­ te frase di Adorno: «la musica ha preso su di sé la tenebra e la

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colpa del mondo ». Di qui il capovolgimento del tradizionale rapporto creatore-opera, la negazione dell’atto compositivo nel suo aspetto «demiurgico», la rappresentazione, di opera in opera, di una autonegazione, prima attraverso le pratiche del­ l’indeterminazione (la maggiore partitura parzialmente aleato­ ria di Donatoni è Per orchestra del 1962), poi attraverso la loro interiorizzazione nell’«abbandono al materiale»: in questa prospettiva l’attività del comporre si riduce a tecniche di ela­ borazione, manipolazione, trasformazione del materiale, e il compositore si nega come soggetto attraverso procedimenti automortificatori, consegnandosi a pratiche autocostrittive, a comportamenti automatici. Sulla passività dei quali si dovrà riflettere caso per caso, per cogliere tra le maglie severe dell’autocostrizione alcuni degli esiti piu significativi degli ultimi decenni, nati dalla condizione di chi sembra strappare i voca­ boli in una posizione alle soglie dell’afasia, e la rovescia nel pullulare di una materia sonora brulicante ed inquieta. Dopo pagine determinanti come Puppenspiel II (1966), Etwas ruhiger im Ausdruck (1967), Voci (1972-73), soprattutto in Duo pour Bruno (1974-75) si nota il profilarsi di una svolta: Donatoni per la fase piu recente della sua attività ha parlato di recupero dell’«esercizio ludico dell’invenzione». Nella mutata prospet­ tiva le tecniche di manipolazione e trasformazione del mate­ riale non esercitano piu una funzione coercitiva nei confronti dell’inconscio, di tutto ciò che prima veniva rimosso. Nell’ul­ timo decennio Donatoni ha affrontato anche la musica vocale ed una esperienza di teatro musicale, Atem (Milano 1985). Al teatro è potuto approdare qualche anno fa, sempre senza rinunciare alle ragioni di fondo della propria poetica, anche un altro compositore che ad esso sembrava si potesse difficilmen­ te accostare, Aldo Clementi (Catania 1925): il superamento dello strutturalismo di Darmstadt, infatti, coincide per il com­ positore catanese con la definizione di una poetica «informa­ le », volta alla rigorosa cancellazione di ogni possibile dialetti­ ca e svolgimento discorsivo attraverso l’annullamento in un denso magma sonoro della percepibilità del singolo intervallo, o della singola linea. In Clementi tale situazione si produce at­ traverso la accumulazione di fittissimi contrappunti, il cui sfingeo ruotare determina l’effetto di una cangiante massa so­ nora, di una musica concepita come «spazio-colore» (dove possono mutare soltanto gli spessori, i colori, la densità della materia) e realizzata in modi diversi, ma sempre con lo stesso rigoroso procedimento costruttivo, in opere come i 3 Infor-

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mels (1961-63), Variante A e Variante B (1964) o i Concerti per piano e 7 strumenti (1970), per piano, 24 strumenti e carillons (1975) e per altri organici. II «rondeau in un atto» Es (Vene­ zia 1981) propone una situazione drammaturgica totalmente bloccata, una impossibilità di azione, una condizione senza via di uscita, coerente con gli ossessivi meccanismi contrap­ puntistici che regolano lo scorrere circolare e caleidoscopico della materia sonora. In una prospettiva radicalmente diversa per Nono l’appro­ do al teatro era stato la naturale conseguenza di una concezio­ ne della musica come «presenza storica», come «testimonian­ za degli uomini che affrontano coscientemente il processo sto­ rico », secondo una prospettiva che si contrapponeva polemi­ camente a Cage e a coloro che dall’ottica cagiana avevano tratto suggestioni: le parole citate sono tratte da una celebre conferenza, Presenza storica nella musica d’oggi, che fu letta a Darmstadt nel 1959. In modo esplicito soprattutto da Intolle­ ranza i960 al lavoro teatrale successivo, Al gran sole carico d’a­ more (Milano 1975, seconda versione 1978), Nono lega il pro­ prio lavoro ad un impegno politico-morale che investe diret­ tamente temi di bruciante attualità, dalla condizione alienata del lavoro in fabbrica (La fabbrica illuminata, 1964) alle lotte di liberazione in Vietnam, in Africa, a Cuba (A floresta è jovem e cheja de vida, 1965-66), al ’68 (Non consumiamo Marx, 1969, seconda parte, insieme con Un volto, del mare, su testo di Pavese, di Musica manifesto n. r). In queste e altre pagine dello stesso periodo Nono si accosta al mezzo elettronico usandolo sempre insieme con voci e strumenti dal vivo, se­ condo una prospettiva di ricerca personalissima, con un lavo­ ro a stretto contatto con gli esecutori, secondo principi di ela­ borazione che perseguivano una peculiare immediatezza e mobilità nel rapporto con il suono. Nono accoglie anche, tra i suoi materiali, la vitalità di documenti in presa diretta, come la registrazione di moti di piazza. Tra i poli estremi del violen­ to scatenamento di materia sonora e di un terso, doloroso li­ rismo il Nono degli anni del più esplicito impegno politico ri­ vela una costante inquietudine esistenziale, che si manifesta anche nella sintesi di Al gran sole carico d’amore. Quest’opera conclude una fase della ricerca di Nono: negli anni successivi, soprattutto nel quartetto Pragmente-Stille, an Diotima (197980) e lavorando con i nuovi mezzi per l’elettronica dal vivo dello Studio Sperimentale di Friburgo, il compositore vene­ ziano ha approfondito un pensiero musicale che tende sempre

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più a procedere per frammenti, per illuminazioni che sembra­ no emergere dal silenzio. Sintesi dei suoi primi lavori con l’e­ lettronica dal vivo può essere considerato il Prometeo (Vene­ zia 1984), «tragedia dell’ascolto» progettata come esperienza di teatro musicale e approdata ad un’idea «negativa» di teatro dove tutto accade soltanto come evento sonoro nello spazio. Ancora una volta l’uso delle nuove tecnologie è concepito da Nono in stretto rapporto con interpreti dal vivo, e nel suono trasformato, filtrato, frantumato, moltiplicato, proiettato nel­ lo spazio si riconoscono come tracce, echi, frammenti alcuni vocaboli tipici dello stile noniano, ma prosciugati, scarnificati, ridotti all’essenziale. Accanto al nome di Nono ci è già accaduto più volte di menzionare quello di Bruno Maderna, come lui veneziano, e come lui partecipe fin dagli inizi delle esperienze più radicali degli anni Cinquanta. Si sarebbero potute citare opere sue a proposito della complessità non univoca delle tecniche seriali in quel periodo: le esperienze di Maderna, infatti, si colloca­ vano fin da allora in una prospettiva personale, in nome di una poetica aliena da soluzioni legate ad un rigore di tipo sistematico-speculativo. Essa è pervenuta forse agli esiti più rappresentativi nell’ultima stagione creativa. Perciò ricordia­ mo la sua presenza nelle vicende della nuova musica (che lo videro protagonista anche in veste di direttore d’orchestra, come interprete di moltissime prime esecuzioni) in questo sommario quadro della frantumata e aperta situazione dopo gli anni Cinquanta. In Madèrna il rapporto inventivo con la materia sonora sembra nutrirsi dell’eredità ideale di Mahler e Berg e insieme delle esperienze radicali del secondo dopo­ guerra: alla inquieta mobilità del gusto materico si unisce l’in­ clinazione ad un melodismo venato di echi e rimpianti, una tendenza lirico-elegiaca, una propensione ad accenti intimisti­ ci e liberamente svagati. Questi aspetti giungono a compiuta sintesi in modo particolare nei capolavori tardi, fra i quali ci­ tiamo Quadrivium (1969), Grande Aulodia (1970), Ausstrahlung (1971), Biogramma e Aura (1972). Si è già ricordato che Maderna fu insieme con Berio fonda­ tore del primo studio elettronico in Italia, quello di fonologia presso la Rai di Milano. Fu anche il primo a sperimentare l’u­ nione tra musica elettronica e dal vivo, in una Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico del 1952 che è altra cosa rispetto al pezzo del 1957 che porta lo stesso titolo, e che è uno dei più fortunati di Maderna. Nel 1959 Luciano Berio

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compose Differences per 5 strumenti e nastro, un altro dei pri­ mi lavori dove si uniscono il suono dal vivo e quello elettroni­ co. Non va dimenticato il felice rapporto Berio-Maderna, che in quegli anni firmarono insieme un Divertimento per orche­ stra (pubblicato nel 1959), condividendo fra le altre cose un gusto per la musica concepita anche come diletto che nel se­ condo dopoguerra apparteneva soltanto a loro. Si è già accen­ nato alle prime compiute definizioni della poetica di Berio, al­ la sua concretezza, alla sua disponibilità ad affrontare ogni ti­ po di situazione sonora e a far coesistere sperimentalismo é rapporto con la storia. E naturale che con queste premesse la sua poetica riveli, nei caratteri essenziali, una grande coerenza attraverso la molteplicità delle esperienze compiute dal com­ positore ligure dopo il i960, dalla vitalità di un pezzo elettro­ nico come Visage (1961) alla polimorfa apertura del ciclo di pezzi vocali e strumentali (eseguibili in ordine variabile) Epi­ fanie (1961-63, un titolo da intendersi in senso joyciano per un esempio tra i più felici del «disordine» beriano); dalle Se­ quenze agli Chemins che ne commentano alcune ripensandole e ponendole in rapporto con un organico più ampio; da Sinfo­ nia a Coro (1975-76) a II ritorno degli Snovidenia per yioloncello e orchestra (1976) alle esperienze teatrali. Già il titolo di Sinfonia (1968-69) è emblematico della poetica di Berio, per­ ché va inteso nel senso etimologico del « suonare insieme », adattissimo all’insaziabile accumulo di invenzioni, citazioni e allusioni che caratterizza questo pezzo nonché al modo in cui vi si combinano e fondono suoni vocali e strumentali. Per il teatro, che costituisce una esperienza perfettamente conge­ niale alla sua poetica, Berio compose ancora Opera (1969-70, rev. 1977), dove il mito di Orfeo si intreccia con l’affonda­ mento del Titanic e con uno spettacolo dell’Open Theatre, Terminal (e dove il titolo va inteso come un neutro plurale la­ tino), La Vera Storia (Milano 1982), su libretto di Calvino, ri­ pensamento dello schema del Trovatore collocato in una situa­ zione di festa popolare, Un re in ascolto (Salisburgo 1984), do­ ve un’idea di Calvino è posta da Berio in rapporto con la Tem­ pesta di Shakespeare e altre fonti letterarie. Una presenza appartata nella generazione dei «postweberniani» è quella di Camillo Togni (Gussago 1922), nella cui ope­ ra il rapporto con l’eredità della Scuola di Vienna, di Webern e Schonberg in modo particolare, ha un peso decisivo; in mano sua, però, tale eredità conosce un significativo ed originale mu­ tamento, decantandosi in trame di sottile, preziosa e rag­

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gelata eleganza, in illuminazioni timbriche magistrali. Accan­ to ad alcune pagine strumentali di intensa raffinatezza, come Some Other Where (1977), Togni ha composto musica vocale, in modo particolare su testo di Georg Trakl, un poeta cui è le­ gato da una sorta di affinità elettiva e su cui si basa anche l’o­ pera Blaubart (1972-77). Si è già ricordato il nome di Giacomo Manzoni a proposito del diffondersi dell’interesse per il teatro musicale all’inizio degli anni Sessanta. Anche le prime esperienze teatrali di Manzoni (e altre sue pagine degli stessi anni) si possono ricon­ durre ad un esplicito impegno politico-morale, e ciò ha fatto si che il compositore milanese venisse fino a qualche anno fa as­ sociato a Nono, da cui tuttavia lo separano scelte musicali au­ tonome. Sono scelte improntate ad un continuo interrogare la materia sonora da diverse angolature e prospettive, con lucida tensione analitica, con un rigore e una sensibilità che spesso presentano un volto austero, scabro nella sua intransigente concretezza, ma che svelano anche risvolti segreti ed inquieti. Fra le tappe del percorso di Manzoni ricordiamo Ombre (alla memoria di Che Guevara} (1968), Parole da Beckett (1970-71), la terza opera, Per Massimiliano Robespierre (Bologna 1975), l’indagine sui suoni multipli dei legni in Masse per piano e orchestra (1977) e Modular (1979), le ricerche più recenti di Ode (1982) e delle Scene sinfoniche per il Doktor Paustus (1984), premessa dell’opera attesa per il 1989. Dopo il 1970 le esperienze degli autori fin qui citati (che comunque non esauriscono organicamente il quadro generale) si intrecciano con quelle di una nuova generazione che solo per ragioni contigenti resta esclusa da questo panorama; an­ che se una riflessione sulla situazione di oggi non può prescin­ dere dall’indagine di Salvatore Sciarrino (Palermo 1947) su fantasmi sonori alle soglie del silenzio, dell’incandescente densità di Brian Ferneyhough (1943), dall’analisi del suono e dello spettro sonoro su cui si fondano le ricerche recenti di au­ tori francesi come Hugues Dufourt (1943) e Gérard Grisey (1946), dalle presenze di musicisti come Adriano Guarnieri (1947), Fabio Vacchi (1949), Gilberto Cappelli (1952), Clau­ dio Ambrosini (1948), dallo spregiudicato vitalismo del tede­ sco Wolfgang Rihm, per limitarci alla citazione di alcuni nomi. Un panorama adeguato dovrebbe inoltre tenere conto di paesi come la Spagna, la Germania democratica, l’Ungheria e l’Unione Sovietica che per diverse ragioni hanno stabilito soprat­ tutto negli ultimi decenni un rapporto con la ricerca musicale

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del secondo dopoguerra, e che costituiscono realtà nuove in fase di trasformazione. Delineando le vicende di tale ricerca abbiamo tralasciato, fra l’altro, musicisti che la hanno sfiorata per prenderne le di­ stanze, come Hans Werner Henze, nella cui vastissima e mul­ tiforme produzione il teatro occupa un posto di particolare ri­ lievo, o che vi hanno partecipato per qualche anno, come il polacco Krzysztof Penderecki (D^bica 1933), che dalla ricerca materica di Anaklasis (i960) e di Threni per le vìttime di Hiro­ shima (1961, dove gli archi producono effetti affini alla musi­ ca elettronica) è passato ad un eclettico ed effettistico recupe­ ro di materiali di svariata provenienza. In diversa misura, dal­ la Passione secondo Luca (1962-65) ai Diavoli di Loudon (1969) al wagnerismo del Paradise lost (1975-78). Fra coloro che per ragioni di formazione, cultura e poetica sono rimasti sempre estranei alle ricerche radicali, dobbiamo menzionare qui almeno Benjamin Britten (Lowestoft, Suffolk 1913 - Aldeburgh 1976), che cronologicamente appartiene, con un ruo­ lo da protagonista, al secondo dopoguerra: il suo primo capo­ lavoro teatrale Peter Grimes fu rappresentato a Londra nel 1945, segnando la data di nascita dell’opera inglese moderna. Nell’eclettico gusto di Britten, incline a fondere con abilità suggestioni da autori come Berg, Mahler, Sostakovic, Stra­ vinskij, ma anche dall’opera italiana, l’aspetto specificamente inglese riguarda alcuni caratteri della vocalità nel suo rapporto con il melos popolare e nella sua attenzione alla parola e com­ prende anche una riflessione sulle tradizioni del passato na­ zionale, da Purcell a Hàndel. Ad accenti di rara sobrietà e di inquietante duttilità Britten piega il proprio linguaggio nel suo capolavoro teatrale, The Turn of the Screw (Il giro di vite, 1954), dal celebre racconto di James. Scelte stilistiche eclettiche come quelle di Britten o Henze, ma anche di Rihm o di alcuni altri autori delle ultime genera­ zioni (alcuni dei quali rifiutano le esperienze della ricerca de­ gli ultimi decenni) sembrano difficilmente evitabili per i mu­ sicisti che si rivolgono ad un teatro musicale legato ad una drammaturgia di tipo tradizionale, lineare e narrativa. Ad es­ sa non per caso rinunciano, in modi diversissimi, tutti i lavori teatrali che si sono citati in questo capitolo: chi ha partecipato alle esperienze della nuova musica dovrebbe reinventare da capo problematici strumenti di continuità narrativa, singolar­ mente ardui per una musica che rinuncia a punti di riferimen­ to precostituiti, che inventa al proprio interno, di volta in vol­ ta, i percorsi formali, che interroga per vie sempre diverse la

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materia sonora: senza un solido sistema di convenzioni, di co­ dici di comune intesa con l’ascoltatore sembra molto difficile raccontare una vicenda. Il rifiuto della narrazione lineare, di un teatro di vicende^ di personaggi, e l’apertura a nuove forme di teatro musicale è infatti l’unico aspetto comune alle espe­ rienze citate, che da punti di vista diversi confermano la vitali­ tà del mai spento interesse per le possibilità del palcoscenico.

[pp] 2. Tecnologia e comunicazione di massa.

Un discorso sulla musica del Novecento non può prescin­ dere infine da due fenomeni che hanno inciso e continuano a incidere in maniera determinante sulla coscienza musicale del nostro secolo: le invenzioni tecnologiche e il sistema di distri­ buzione commerciale di massa dei prodotti musicali. Si tratta di due fenomeni distinti ma anche strettissimamente correlati fra loro se non altro perché la distribuzione commerciale si basa primariamente sulla vendita dei dischi e questi si basano a loro volta sullo sviluppo delle invenzioni tecnologiche che hanno reso possibile il processo della riproduzione del suono. Per quanto riguarda le più importanti invenzioni tecnolo­ giche della prima metà del secolo converrà anzitutto distin­ guere tre tipi di tecnologia: ci sono invenzioni che si riferisco­ no alla registrazione, conservazione e riproduzione delle onde sonore, invenzioni che si interessano alla diffusione a distan­ za, via etere, di messaggi sonori e infine invenzioni che ri­ guardano la produzione del suono tramite dispositivi elettrici: in termini di linguaggio oggi corrente parleremo rispettiva­ mente di dischi, radio e strumenti elettronici. Il 1877 è la pri­ ma data a cui di solito si fa riferimento quando si parla di tec­ nologie sonore; a quell’anno infatti risale l’invenzione del fo­ nografo a cilindri di Thomas Edison che riusciva a captare con mezzi meccanici le variazioni di pressione dell’aria che il nostro orecchio percepisce come suono e a imprimerne l’anda­ mento (la forma d’onda) su di un rullo ruotante: il segno inci­ so sul rullo poteva poi essere ritrasformato, mediante un pro­ cesso analogo e inverso, in onde sonore che, se non erano del tutto uguali perlomeno avevano forti somiglianze con quelle di partenza. Alcuni anni dopo, nel 1888, Emile Berliner pro­ poneva e brevettava un procedimento analogo che riproduce­ va il suono per mezzo di un disco, anziché di un rullo e che veniva chiamato col nome di grammofono.

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Entrambi i procedimenti ebbero subito un'immediata ap­ plicazione commerciale e si contesero le preferenze degli ac­ quirenti per almeno 25 anni, continuamente perfezionando le tecniche d’impiego e rendendole piu agevoli e piu fedeli. In­ torno al 1920 il grammofono aveva ormai consolidato la sua supremazia ed esisteva già in molte case d’America e d’Euro­ pa, avendo a sua disposizione un repertorio di dischi conside­ revolmente vasto. Negli stessi anni si veniva sviluppando un altro rivoluzio­ nario tipo di tecnologia: dal 1896, quando Guglielmo Marco­ ni mise in atto i suoi esperimenti di trasmissione a distanza del suono, servendosi di onde elettromagnetiche che viaggia­ vano per l’aria e non avevano bisogno di cavi telefonici, ne iniziò una ricerca immediata di applicazioni pratiche di carat­ tere pacifico e successivamente, durante la Prima guerra mon­ diale, di carattere militare. Anche in questo caso gli anni Venti costituiscono una tap­ pa significativa: la prima stazione radio dotata di programmi stabili e pubblicamente captabili nacque a Pittsburgh in Pennsylvania appunto nel 1920 e fu seguita immediatamente da una quantità di altre trasmittenti in America e in Europa. La Uri (Unione Radiofonica Italiana) nacque nel 1924 con stazioni a Roma, Milano, Napoli e Palermo e subito fu utiliz­ zata dal governo fascista quale formidabile strumento di pro­ paganda. Divenne Eiar (Ente Italiano Audizioni Radiofoni­ che) nel 1927. In Francia, in Germania, in Gran Bretagna (la Bbc fu fondata nel 1922) si crearono reti nazionali analoghe. La diffusione di trasmissioni musicali fu subito assai ampia in tutte le stazioni radio e la rete di relazioni fra le stazioni ra­ dio e le case produttrici di dischi divenne inevitabilmente stretta: da un lato infatti i dischi erano un materiale indispen­ sabile al buon funzionamento di un’emittente e d’altro canto la radio costituiva per le case discografiche un prezioso stru­ mento per la pubblicità di massa dei loro prodotti. Negli anni Venti la qualità della riproduzione discografica del suono eb­ be fra l’altro un incremento notevolissimo grazie alla diffusio­ ne su larga scala dei microfoni e degli altoparlanti elettrici. La produzione elettrica del suono cioè la trasformazione della corrente elettrica in impulsi capaci di mettere in moto la membrana di un altoparlante, era stata ampiamente adottata nella radiofonia, ma aveva avuto anche applicazioni pionieri­ stiche nei primi esperimenti di strumenti a generazione elet­ trica del suono. Del Telharmonium, ad esempio, inventato da

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Thaddeus Cahill nel 1906 parla fra l’altro con grande entusia­ smo anche Busoni che vedeva in questa invenzione la possibi­ lità di oltrepassare i limiti imposti alla musica dall’uso degli strumenti tradizionali. Fra altri inventori di congegni elettrici ebbe una certa notorietà Lev Theremin la cui macchina pro­ duceva suono tramite due antenne a cui le mani dell’esecutore dovevano avvicinarsi e allontanarsi. Nel 1928 nacquero poi le Onde Martenot che sono ancor oggi in uso e godettero di particolare fortuna presso musicisti di fama non secondaria, come Olivier Messiaen. Tutto ciò può dare un’idea del livello già assai notevole di perfeziona­ mento che la tecnologia aveva raggiunto attorno agli anni Venti. Nel periodo fra le due guerre la produzione discografica e radiofonica consolidò e ampliò la sua gamma d’interventi e cominciò a diventare un fenomeno di massa assai rilevante. Nel 1946 furono venduti negli Stati Uniti quasi trecento mi­ lioni di dischi e piu di quattrocento l’anno dopo. Contempo­ raneamente i perfezionamenti tecnici che l’industria discogra­ fica metteva in campo per migliorare il prodotto e incremen­ tare le vendite portarono la Columbia nel 1948 a lanciare il disco «long playing» a 33 giri e poco dopo la Rea a mettere in circolazione i 45 giri sostanzialmente dedicati al mercato della musica leggera. Fra i nuovi apporti che la tecnologia del no­ stro secolo offri alla diffusione e al consumo della musica va infine ricordato quello del cinema sonoro che, a partire dagli anni Trenta non solo diffuse a livelli ampiamente popolari re­ pertori musicali leggeri o colti che attraverso questo canale vi­ dero moltiplicarsi vertiginosamente il loro pubblico, ma gene­ rò anche, sempre a livelli di massa, un nuovo tipo di meccani­ smo di rinvii fra suono e immagine che nella tradizione musi­ cale non era mai esistito prima d’allora. Gli stessi fenomeni si moltiplicarono sterminatamente con la diffusione della televi­ sione che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, raggiun­ se capillarmente e quotidianamente miliardi di ascoltatori. La diffusione della televisione mise piu in ombra, o perlomeno assegnò un ruolo diverso, all’ascolto radiofonico. Tuttavia al­ cune emittenti radio ebbero ancora, nel dopoguerra, un peso rilevante nello sviluppo di nuove tecnologie di produzione so­ nora. I primi studi di musica elettronica, nei quali lavorarono più o meno assiduamente tutti i compositori d’avanguardia che si affermarono sulla scena mondiale all’inizio degli anni Cin­

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quanta, furono infatti messi in opera per lo più da stazioni ra­ dio particolarmente aperte alla cultura nuova. Tre di questi furono fondati nel 1951; a parte quello di Princeton negli Sta­ ti Uniti, che sorse nell’ambito della ricerca universitaria (a questo centro della Columbia University lavorarono fra gli al­ tri Milton Babbitt e Edgar Varèse), gli altri due ebbero l’ap­ poggio tecnico di emittenti radiofoniche. Il Groupe de Re­ cherche de Musique Concrète fondato da Pierre Schaeffer, aveva sede presso la radio parigina e lo Studio di Colonia, promosso da Herbert Eimert, presso il Westdeutscher Rundfunk (Radio Germania Occidentale). Nel 1954 fu fondato an­ che lo Studio di fonologia della Rai di Milano per iniziativa, fra altri, di Luciano Berio e Bruno Maderna. Le tecnologie di produzione sonora sperimentate in questi studi erano diverse: a Parigi prevaleva il metodo di registrare materiali dal vivo che poi venivano elaborati mediante partico­ lari forme di montaggio. A Colonia prevaleva invece la produ­ zione di onde sinusoidali, cioè di suoni privi di armonici, che venivano combinati fra loro per creare timbri mai uditi e co­ munque diversi da quelli degli strumenti tradizionali. In altri studi i metodi impiegati dipendevano dagli strumenti disponi­ bili e dalla fantasia inventiva dei tecnici e dei musicisti che vi lavoravano. In ogni caso il supporto tecnico fondamentale era costituito dalla registrazione dei suoni su nastro magnetico, in­ ventata dai tedeschi durante la guerra e poi universalmente diffusa negli studi radiofonici per la sua semplicità e manegge­ volezza. Utilizzando il nastro era possibile modificare il suono mediante variazioni di velocità o inversioni di direzione, era possibile operare tagli e cuciture, sovrapposizioni di suoni su più canali, filtraggi, riverberazioni, ripetizioni continue che i precedenti sistemi di registrazione non consentivano. I centri di musica elettronica si moltiplicarono negli anni seguenti sia appoggiandosi a istituzioni già esistenti sia anche creandole ex novo. Questo sviluppo favori la commercializza­ zione di nuove procedure tecnologiche e anche l’apertura di sofisticati studi di registrazione per la musica leggera. In que­ st’ultimo campo la richiesta di sistemi che potessero offrire prodotti acusticamente attraenti e al tempo stesso diminuire i costi di produzione, favori la ricerca industriale e la immis­ sione sul mercato di strumenti nuovi, di una «liuteria» mo­ derna fondata sull’uso dell’elettronica e capace di potenziare artificialmente sia le prestazioni umane sia quelle dell’artigia­ nato tradizionale. La chitarra elettrica fu il primo di questi

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strumenti, già in uso, come l’organo Hammond, negli anni Trenta. Ma oltre all’amplificazione elettrica entrarono in uso altri artifici capaci di modificare il suono, come modulatori ad anello, pedali wa-wa, filtri e altri ancora, in grado di produrlo direttamente, come i sintetizzatori, che venivano manovrati da tastiere e potevano anche generare fasce sonore d’atmosfe­ ra o d’accompagnamento. La diffusione commerciale di at­ trezzature di questo tipo ha modificato radicalmente, dagli anni Sessanta, il suono della musica leggera, e con esso anche l’orecchio e il gusto di sterminate quantità di utenti. In anni più recenti gli sviluppi dell’informatica hanno co­ stituito un ulteriore stimolo all’invenzione di tecnologie ine­ dite. Anche in questo caso, come in quello elettronico tradi­ zionale (che da questo momento comincia a venir detta «ana­ logica» per distinguerla da quella «digitale», basata sull’uso degli elaboratori elettronici) il processo avviene in due fasi: una di ricerca, affidata soprattutto ad alcuni pionieri della musica colta di avanguardia, e una di applicazione su vasta scala, che interessa soprattutto l’industria del disco e la pro­ duzione di musica leggera. Ciò che distingue uno strumento elettronico analogico da uno digitale è che in quest’ultimo il flusso della corrente elettrica (anche qui poi trasformato in impulsi meccanici che producono onde sonore) può essere controllato in termini numerici, può venire per cosi dire con­ tato. Da qui appunto il termine «digitale» che si riferisce al­ la numerabilità delle operazioni compiute. Le prime esperienze in questo campo risalgono agli Stati Uniti degli ultimi anni Cinquanta. Ebbe allora una certa riso­ nanza la Illiac Suite di L. Hiller che era una sorta di quartetto eseguito appunto da un computer. Due problemi furono subi­ to al centro dell’attenzione, entrambi volti a utilizzare oppor­ tunamente la velocità di calcolo e la potenza di memoria dello strumento: uno era quello di produrre timbri consapevolmen­ te controllati, cioè di «comporre» il suono, entrando nel mi­ croscopico dettaglio del funzionamento acustico e psicologico delle onde sonore al quale l’uomo non aveva mai avuto fino a quel momento un accesso cosi preciso; l’altro era quello di or­ ganizzare strutture sonore libere dai limiti tecnici che l’uso degli strumenti tradizionali aveva sempre fissato all’immagi­ nazione umana: per esempio combinare suoni a velocità molto più elevate di quelle delle dita, ammassare o diversificare tim­ bri con un’elasticità superiore a quella di qualsiasi orchestra. Sia il progetto di comporre suoni, sia quello di comporre

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strutture sonore non dipendenti dalla fisiologia delTesecuto­ re, erano nuovi e straordinariamente affascinanti. Non sem­ pre i risultati concreti si sono poi dimostrati, sul piano musi­ cale, all’altezza delle speranze; è emerso ad esempio in tutta evidenza che la comunicazione musicale è un fenomeno estre­ mamente più complesso della pura e semplice costruzione di strutture sonore. Ma proprio anche grazie a constatazioni di questo tipo l’uso dell’elaboratore ha aperto alle ricerche degli ultimi anni un campo d’azione nuovo e fertile, non solo per quanto concerne l’analisi fisica dei fenomeni sonori ma anche e soprattutto per ciò che si riferisce al rapporto fra il suono e la mente umana. Ricerche di questo tipo hanno immediatamente stimolato le industrie a mettere sul mercato strumenti basati su tecniche digitali. Ad esempio l’invenzione della modulazione di fre­ quenza, dovuta a Chowning, che rendeva possibile la produ­ zione di timbri inediti con un metodo di controllo semplice ed efficace, ha stimolato produttori, particolarmente giapponesi, a diffondere strumenti relativamente poco costosi e sufficien­ temente interessanti anche per utenti non sofisticati. Lo stes­ so «compact disc», che si basa su una registrazione non grafi­ ca bensì numerica delle onde sonore, e che perciò non è sotto­ posto come il disco tradizionale né ai limiti fisici della pre­ cisione del solco né al pericolo del suo progressivo deterio ramento, è anch’esso frutto di applicazioni tecnologiche alta­ mente specialistiche dell’informatica musicale. Uno dei campi di applicazione più frequentemente toccati negli ultimi anni è stato quello della simulazione artificiale degli strumenti tradi­ zionali, voce compresa. Questo campo di ricerca, estremamente delicato e tuttora aperto, ha anch’esso immediatamen­ te prodotto conseguenze di carattere industriale, ossia la ten­ denza dei costruttori a rendere commercialmente disponibili vere e proprie «orchestre» simulate di basso costo e di resa acustica accettabile, perlomeno entro certi limiti e per certi ti­ pi di musiche. I procedimenti di conservazione e produzione del suono, non hanno abolito, come molti pensavano e temevano, la pra­ tica della musica dal vivo, hanno però favorito il sorgere di nuove funzioni dell’ascolto: quella dell’ascolto domestico e isolato, quella dell’ascolto ripetibile con finalità didattiche o di studio, quella dell’ascolto distratto e parziale, dell’orna­ mento d’ambiente o del sollievo dalla solitudine. C’è tuttavia un settore di cui la tecnologia ha sconvolto radicalmente l’as­

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setto tradizionale, ed è il settore della musica leggera, o «po­ pular music» che dir si voglia. Agli inizi del Novecento e pri­ ma della diffusione di massa degli strumenti tecnologici la musica leggera europea, o per meglio dire, quella musica urba­ na che si era sviluppata in connessione con l’affermarsi e il consolidarsi della borghesia come classe dominante, aveva or­ mai creato le proprie tradizioni, aveva assunto assetti abba­ stanza stabili, funzioni sociali precise, stili consolidati. Al di là dell’uso domestico (romanze da camera, pezzi caratteristici, riduzioni e adattamenti di brani famosi, tutto il repertorio già menzionato della Hausmusìk) e al di là anche dei fortunati esempi dell’operetta e del valzer viennese che avevano ottenu­ to riconoscimento e legittimazione in teatri e sale da concer­ to, la vita sociale corrente prevedeva l’uso della musica in molte situazioni quotidiane collettive. Prima fra tutte quella del ballo. La danza (dopo la travolgente affermazione del val­ zer, e poi della polka, altri balli entrarono nell’uso e trasfor­ marono le mode precedenti) veniva usata in casa, ma aveva anche luoghi di maggiore o minore prestigio in cui veniva pra­ ticata collettivamente, e orchestre che vivevano dei proventi di questo lavoro. Le stesse orchestre o altri complessi (spesso in questo caso anche bande) avevano ulteriori occasioni di lavoro nei concer­ ti all’aperto che si tenevano di solito in giardini o piazze dove la gente era usa passeggiare (concerts-promenade si chiamava­ no in Francia), oppure in locali, come il caffè concerto o la music-hall, dove ci si poteva sedere al tavolo e dove esisteva­ no piattaforme per lo spettacolo. I repertori si adattavano alle circostanze e potevano andare da pezzi sinfonici celebri (ouvertures di opere e cosi via) a danze, a marce, a trascrizioni di melodie in voga, a brani d’opera o canzoni popolari spesso in­ terpretate da cantanti di valore o da divi di successo. Queste situazioni potevano avere innumerevoli varianti, dallo spetta­ colo di cabaret, allo spettacolo di rivista con ballerine o nume­ ri d’attrazione e d’arte varia, alla strada medesima che affida­ va la trasmissione delle melodie piu amate alle pianole o ai suonatori ambulanti. Innanzi la Prima guerra mondiale co­ minciò anche a mettersi in moto un intenso scambio di espe­ rienze fra la tradizione europea e quella americana che a New York aveva intanto posto le basi di una rete organizzativa e commerciale molto efficiente che aveva sede soprattutto in una famosa strada, la Tin Pan Alley, dove si trovavano gli uf­ fici dei manager piu potenti. Lo scambio era bidirezionale: da

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una parte negli Stati Uniti la richiesta di buoni «numeri» di musica europea era molto intensa, d’altra parte esisteva in Europa una forte curiosità per ciò che si faceva oltre oceano. Ad esempio alcuni complessi di ragtime trovarono entusiasti­ ca accoglienza in quegli anni in molti locali europei, e alcune danze come il fox-trot diventarono addirittura veri e propri fatti di costume. Negli anni Venti e Trenta l’espansione del disco e della ra­ dio come mezzi di comunicazione di massa favorirono non so­ lo le fortune dell’organizzazione manageriale americana (che aveva già cominciato a creare un’aura mitologica intorno agli spettacoli di Broadway e poco piu tardi riuscirà a imporre an­ che il mito cinematografico di Hollywood) ma invertirono de­ cisamente il flusso delle comunicazioni fra l’Europa e l’ Ame­ rica a netto favore dei prodotti statunitensi. La moda del jazz prese piede in quell’epoca in tutta Europa sulla base di model­ li che non erano quelli originari del jazz nero, ma adattavano quella musica al gusto europeo: l’orchestra di Paul Whiteman fu accolta trionfalmente nei primi anni Venti e cosi avvenne poco dopo per le musiche di Gershwin e negli anni Trenta per alcune big bands che mischiavano il jazz con l’orchestra sinfo­ nica e con la canzone alla Tin Pan Alley. Nella musica leggera europea si impose allora il genere cosiddetto swing che mesco­ lava aspetti ritmici e timbrici di provenienza statunitense con inflessioni melodiche radicate nella tradizione locale. Tutto ciò non cancellò naturalmente il gusto per la canzone europea, ma introdusse elementi concorrenziali spesso legati a fattori generazionali; e la stessa cosa avvenne per le danze, in cui mo­ delli di importazione, come il charleston, si sovrapposero a quelli già esistenti. In questo insieme di fenomeni l’impatto della tecnologia e dell’industria culturale furono determinanti. Negli intratteni­ menti privati e pubblici e nelle emissioni radiofoniche il disco era ormai diventato uno strumento indispensabile e la sua dif­ fusione capillare si cominciava a contare in milioni di pezzi. Ciò modificò gradualmente lo statuto stesso della musica leg­ gera. Fino ai primi vent’anni del secolo infatti la trasmissione di questo genere musicale era estremamente effimera. Quan­ do il brano per qualche ragione usciva dal repertorio, di solito cessava di esistere. E vero che la trasmissione della musica «popolare» urbana non era del tutto orale come quella del folklore musicale contadino; esistevano case editrici, anche assai prospere, che pubblicavano quei testi; ma in genere si

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trattava di pubblicazioni non prescrittive: ogni cantante ed ogni gruppo di esecutori adattava di fatto quelle musiche alle proprie esigenze (alla voce del cantante, all’organico strumen­ tale ecc.). Fra il testo eventualmente scritto e la sua diffusione c’era sempre l’«arrangiamento», che era l’operazione più im­ portante, perché determinava di fatto il successo o l’insucces­ so della prestazione. Ma appunto di questa pratica di norma non restavano tracce. Quando invece il disco cominciò ad im­ porsi, la sua presenza materiale assunse gradualmente l’impor­ tanza del documento, anzi del documento storico, se si inten­ de per storia la possibilità di ricostruire il passato sulla base di testimonianze materiali sopravvissute al tempo. Si potrebbe dunque dire che l’invenzione del disco permette alla musica leggera di entrare a pieno titolo nel processo della storia. Se ciò passò allora inavvertito, non può più essere inavvertito og­ gi, quando le musiche degli anni Venti già fanno parte della nostra coscienza e della nostra memoria come documenti di costume. Nel secondo dopoguerra la diffusione e il commercio dei dischi, dei films, dei prodotti radiofonici e televisivi ha assun­ to dimensioni sempre più nettamente mondiali. E vero che esistono ancora mercati locali basati su tradizioni particolari, su gusti radicati, su organizzazioni commerciali limitate ma solide, ma è vero anche che la diffusione di massa dei prodotti musicali è sempre più legata alle fortune delle grandi case mul­ tinazionali, ben più capaci di determinare orientamenti e di diffondere mode, ma anche di intuire richieste e bisogni emergenti, e comunque di controllare a fondo il mercato. Cosi il dominio dei modelli statunitensi, che già aveva cominciato ad imporsi nella prima metà del secolo, ha continuato il suo corso con sempre maggiore decisione e con sempre più capil­ lare capacità di diramazioni. La legge della massima diffusio­ ne internazionale del prodotto ha reso assolutamente indi­ spensabile nella musica leggera l’uso del medium tecnologico, il che ha fatto scomparire in breve tutte le vecchie forme an­ cora sopravvissute di musica dal vivo e ha imposto universal­ mente l’abitudine al suono artificialmente trattato. Le stesse esecuzioni pubbliche di musica da ballo o da concerto si ser­ vono del medium tecnologico, vuoi per ragioni di potenza so­ nora, vuoi per l’uso di strumenti musicali elettronici, vuoi perché in molti casi la presenza fisica del cantante o del grup­ po serve ad incrementare le vendite del disco di cui deve ri­ produrre fedelmente i contenuti.

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In questo processo di internazionalizzazione della musica leggera gli anni intorno al 1955 sono determinanti: negli Stati Uniti, e soprattutto nei centri urbani che dopo la guerra si sta­ vano enormemente ampliando, la mescolanza delle prove­ nienze sociali, delle razze, delle culture era massima e altret­ tanto ricca era la presenza di musiche diverse. E in questo contesto che nasce il rock and roll come sottogenere capace di mescolare tradizioni nere con elementi di country music. Le sue fortune iniziarono appunto attorno al 1955 quando alcune grandi compagnie di produzione ne intuirono la potenzialità e ne organizzarono il lancio commerciale. Qualche divo delT epoca ebbe il felice intuito di metterne in rilievo le compo­ nenti erotiche e di farle emergere come simbolo del nuovo ge­ nere, sottolineandole nei caratteri vocali, nei gesti dello spet­ tacolo, nelle figure del ballo. Ciò bastò a collegare questa mu­ sica con processi e movimenti sociali di grande portata: in particolare con la crisi generazionale degli adolescenti nati ne­ gli anni Quaranta che ora vedevano intorno a sé un mondo ben diverso e ben piu complesso di quello dei propri padri e che si rifiutavano ormai di accettare i valori di patriottismo e di puritanesimo familiare dominanti nella grande maggioran­ za della classe media. Le rivendicazioni di libertà sessuale in­ torno a cui i movimenti giovanili cominciarono a coalizzarsi trovarono nei suoni, nei ritmi, nei gesti, nelle voci del rock and roll una sorta di bandiera. E l’industria culturale dell’epo­ ca fu abbastanza accorta da gestire con abilità questo insieme di componenti evitando i pericoli di un coinvolgimento ecces­ sivo nei conflitti sociali. Già verso la fine degli anni Cinquanta il nuovo genere si era ampiamente diffuso in Europa e stava diventando anche qui un simbolo specifico dell’opposizione fra generazioni. Particolarmente la Gran Bretagna, che per tradizioni storiche e per comunanza di linguaggio era piu esposta degli altri paesi europei ai modelli americani, fu a sua volta produttrice di mo­ delli nuovi e originali. Il primo disco dei Beatles fu inciso nel 1962. Sia in Europa, sia negli Stati Uniti la tradizione del rock si suddivise in tendenze e stili diversi, ma da quell’epoca in poi la diffusione di quel tipo di musica si generalizzò e di­ venne una sorta di linguaggio internazionale capace di adat­ tarsi a tutte le occasioni e a tutte le tradizioni. Le sue fortune continuarono a collegarsi con quelle dei mo­ vimenti giovanili e studenteschi degli anni Sessanta. Alla pro­ gressiva radicalizzazione di questi movimenti, che culminò

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nelle manifestazioni del 1968, corrispose una parallela radicalizzazione del genere musicale che, non ignaro di altri feno­ meni di quegli anni come quello del free-jazz, rinnovò le con­ venzioni del suo linguaggio portandole talora a limiti di tre­ menda violenza, ma spesso anche irrobustendole di nuova in­ ventiva. Nel 1969 si tenne a Woodstock il primo di una serie di grandi raduni giovanili che fecero epoca in quegli anni. In questo periodo l’industria dello spettacolo ebbe serie difficol­ tà a governare i destini dei suoi prodotti, ma quando agli inizi degli anni Settanta cominciarono a farsi sentire i primi sinto­ mi di riflusso, quando alcuni degli stessi protagonisti musicali dell’epoca precedente, Jim Morison, Jimmy Hendrix, Janis Joplin, scomparvero stroncati dagli stress e dalla droga, l’or­ ganizzazione internazionale dello spettacolo musicale ebbe buon gioco nel mettere freno alle punte estremistiche senza lasciarsi sfuggire tuttavia la connessione stretta con le nuove generazioni. Sull’onda di queste premesse le fortune interna­ zionali della musica «giovanile» continuarono ininterrotte ne­ gli anni seguenti sfornando mode, generi, divi, di durata effi­ mera ma di portata economica cospicua. Rispetto a questo dilagare delle fortune della musica «po­ pular», rispetto anche alla sua capacità di diventare imponen­ te fenomeno di costume, di legarsi a fatti sociali di rilievo, di entrare nella vita quotidiana di milioni di persone, la musica di tradizione colta non ha dato segni di particolare irrequie­ tezza né di particolare vivacità. La tradizione dei concerti dal vivo è sempre rimasta forte e vitale, l’utilizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, dalla radio, al disco, alla televisio­ ne è entrata nelle abitudini senza difficoltà, ma anche senza generare gravi distorsioni o perdite di identità. C’è un punto tuttavia su cui il processo della storia ha agito provocando conseguenze vistose: si tratta del peso sempre piu ridotto che la musica colta scritta nel nostro secolo, e soprattutto la musi­ ca d’avanguardia degli ultimi anni, possiede nella coscienza collettiva della società, indipendentemente dalla sua impor­ tanza estetica e dal suo valore storico. La situazione è del tut­ to nuova nella storia occidentale, ed è determinata da un in­ sieme complesso di cause fra le quali gioca certamente un ruo­ lo importante anche il peso assunto dalla tecnologia e dai mez­ zi di comunicazione di massa. Non mancano naturalmente né gli studi sull’argomento, né le ideologie che tendono a giusti­ ficare il fenomeno. Resta tuttavia il fatto che si tratta di un

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fenomeno aperto a soluzioni attualmente del tutto imprevedi­ bili. Un secondo aspetto, anch’esso inedito nella storia umana, è tipico della situazione di oggi e strettamente collegato con la diffusione delle tecnologie della comunicazione: si tratta della vertiginosa moltiplicazione dei repertori storici ed etnologici che oggi è possibile reperire sul mercato del disco. Tale au­ mento di conoscenze tende a creare nella coscienza musicale conseguenze singolari. Da un lato infatti il contatto con tante tradizioni sonore può costituire uno stimolo all’arricchimento del sapere e anche alla fantasia creativa. D’altro lato tuttavia la disinvolta pratica di repertori diversi e il continuo passag­ gio dall’uno all’altro toglie sicuramente spessore all’esperienza d’ascolto, poiché ogni stile musicale esprime le sue possibilità solo se viene rispettata la sua coerenza interna, che non è coe­ renza sonora, ma è ricchezza di contenuti ideali, di conoscen­ ze, di vissuti emotivi. La situazione cosiddetta «postmoder­ na» è esposta appunto a questi rischi. Ma anche in tal caso è del tutto impossibile prevedere quali potranno essere gli svi­ luppi della situazione. [mb]

Indice dei nomi

Abbatini, Antonio Maria, 137. Adam, Adolphe-Charles, 299. Adam de la Halle, 53, 63. Adamo di San Vittore, 38. Adler, Guido, 407. Adorno, Theodor Wiesengrund, 267, 273, 404, 418, 422, 430^ 453,499Afanasjev, Aleksandr N., 438. Agricola, Alexander, 95. Alarcon, Pedro de, 350, 450. Albéniz, Isaac, 371, 372, 449. Alberti, Domenico, 214. Albinoni, Tommaso, 163, 179, 201. Albrechtsberger, Johann Georg, 246. Alcmane di Sparta, 18. Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, detto d’, 192. Alfano, Franco, 381, 460. Alfonso X, re di Castiglia e di Leon, detto il Saggio, 55. Alfonso II d’Este, duca cu Ferra­ ra, Modena e Reggio, 102. Alkan, pseudonimo di CharlesHenri-Valentin Morhange, 290. Allegri, Domenico, 128. Altenberg, Peter, 429. Ambrogio, santo, 29. Ambrosini, Claudio, 504. Andersen, Hans Christian, 437. Anelli, Angelo, 307. Anerio, Felice, 93. Anerio, Giovanni Francesco, 138. Angiolini, Gasparo, 207. Antheil, George, 478. Apel, Johann August, 273.

Apollinaire, Guillaume, pseudoni­ mo di Guillaume de Kostrowitsky, 456, 458. Arcadelt, Jacob, 98. Archilei, Vittoria, detta la Romanina, 121. Archita di Taranto, 23. Arenskij, Anton Stepanovic, 411. Arione di Metimna, 18. Ariosto, Ludovico, 96. Aristofane, 11, 14, 15, 19. Aristosseno, 17, 21-25. Aristotele, 15-17. Armstrong, Louis Daniel, detto Satchmo, 474. Arnaut, Daniel, 51. Arnim, Ludwig Achfm von, 401. Artusi, Giovanni Maria, 129. Asburgo, Rodolfo d’, arciduca d’Austria, 247. Attaingnant, Pierre, 103,141. Auber, Daniel-Fran^ois-Esprit, 286,297-99,334,^59,417. Auden, Wystan Hugh, 440. Augusto III, re di Polonia, 184. Auric, Georges, 456, 457. Ayker, Albert, 477. Babbitt, Milton, 509. Bach, Anna Magdalena, 180, 181. Bach, Cari Philipp Emanuel, 179, 214, 215, 219, 225. Bach, Johann Christian, 179, 202, 217,231,233. Bach, Johann Sebastian, 141,143, 147, 171, 172, 175, 177-86, 211, 221, 229, 235, 254, 255, 276, 278, 292, 293, 342, 374, 409,431,470.

522 Bach, Maria Barbara, 179. Bach, Wilhelm Friedemann, 180. Bai'f, Jean-Antoine de, 104. Baini, Giuseppe Giacobbe Baldas­ sarre, 255. Bakst, Léon, 435. Balakirev, Milij Alekseevic, 358, 359> 363Balanchine, George, pseudonimo di Georgiy Meli tonovic Balancivadze, 435. Banchieri, Adriano, 101,140. Barbaja, Domenico, 274, 308, 311Barberini, famiglia, 136. Bardi, Giovanni Maria de’, 112, 121. Barmann, Heinrich, 270. Bartók, Béla, 413, 443-48, 455, 499Bartolucci, Ruffino, 93. Basie, Bill, detto Count, 477. Basile, Adriana, 121. Batka, Richard, 398. Baudelaire, Charles, 329. Baudrier, Yves, 484. Bazzini, Antonio, 375. Beatrice di Burgundia, imperatri­ ce, 53. Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 236, 309. Beethoven, Johann van, 244. Beethoven, Karl van, 247. Beethoven, Ludwig van, 194, 223, 240, 241, 243-51, 254, 255, 259, 260, 264, 267, 275, 278, 282, 285, 287, 292, 303, 305, 333» 341-43» 348, 351, 355» 398, 448. Beiderbecke, Bix, 474. Bellini, Vincenzo, 303, 304, 3I3-I7Bembo, Pietro, 95, 96. Bendidio, Lucrezia, 121. Benois, Alexandre, 435. Berberian, Cathy, 492. Berg, Alban, 408, 409, 417-19, 425» 428-32, 453, 463, 485, 502, 505. Berio, Luciano, 487, 492, 493, 497» 502, 503, 509. Berliner, Emile, 506.

INDICE DEI NOMI

Berlioz, Louis-Hector, 241, 260, 275, 279, 286-89, 292, 299, 330,372,373- , Bernacchi, Antonio Maria, 195. Bernanos, Georges, 458. Bernard de Ventadorn, 51. Bernardi, Francesco, detto il Senesino, 188. Bernini, Gian Lorenzo, 136. Bertati, Giovanni, 236. Bertoni, Ferdinando Giuseppe, 305. Bertrand de Born, 51. Berwald, Franz Adolf, 369. Besseler, Heinrich, 65. Biber, Heinrich Ignaz Franz von, 176. Binchois, Gilles, 80. Bis, Hippolyte-Louis-Florent, 312. Bismarck-Schonhausen, Otto, principe von, 328, 384. Bizet, Georges, 301, 376. Blachet, Boris, 455. Blitzstein, Marc, 474, 480. Boccherini, Luigi, 198, 218, 227. Bocklin, Arnold, 407, 412. Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino, 21, 22, 28, 32, 43. Boieldieu, Francois-Adrien, 242, 271. Boito, Arrigo, 325,326, 377. Bonaparte, Girolamo, 247. Bordoni, Faustina, 188. Borodin, Aleksandr Porfir'evic, 357-59Bossi, Marco Enrico, 375. Bottai, Giuseppe, 459. Bouilly, Jean-Nicolas, 241. Boulanger, Nadia, 474. Boulez, Pierre, 425, 428, 483-86, 488-91, 495, 496. Brahms, Johannes, 258, 262, 275, 283, 290, 340-47, 349, 351, 367» 372, 375» 382, 420, 432, 444» 471Braque, Georges, 435. Brecht, Bertolt, 451, 452, 454, 455» 480. Brentano, Clemens Maria, 401. Breuer, Josef, 418. Britten, Benjamin, 505.

INDICE DEI NOMI

Broschi, Carlo, detto Farinello, J95Brubeck, Dave, 477. Bruckner, Anton, 340, 341, 347-5°Bruneau, Alfred, 376. Brunetti, Giovanni Battista, 93. Buchner, Georg, 430. Bull, John, 142. Bulow, Hans Guido von, 338 402. Burnacini, Ludovico Ottavio, x55Burney, Charles, 255. Busnois, Antoine, 81. Busoni, Ferruccio Benvenuto, 370, 409, 410, 427, 454, 463, 508. Bussotti, Sylvano, 497, 498. Buxtehude, Dietrich, 174-76, I79> 255Byrd, William, 105, 142. Byron, George Gordon, Lord, 284,316,321.

Cabezon, Antonio de, 450. Caccini, Giulio, detto Romano, 121-23, 125,126,129. Caffarelli, Gaetano Majorano, det­ to, 195. Cage, John, 398, 481, 489-91, 493,494,501Cahill, Thaddeus, 508. Cajkovskij, Petr Il'ic, 357, 364, 365,368,370,438. Caldara,. Antonio, 201. Calvino, Giovanni, 103,109, 503. Calzabigi, Ranieri de’, 208. Cambert, Robert, 168. Cambini, Giovanni Giuseppe, 218. Cammarano, Salvatore, 317. Campra, Andre, 169. Capello, Bianca, 121. Cappelli, Gilberto, 504. Cara, Marchetto, 86. Carafa, Fabrizio, 102. Carestini, Giovanni, detto il Cusanino, 195. Carissimi, Giacomo, 138, 156, 157Carlo V, re di Francia, 62.

523 Carlo X, re di Francia, 311. . Carlo II, re di Navarra, detto il Malvagio, 62. Carlo Teodoro di Mannheim, principe elettore del Palatinato, 217. Carolina di Brandeburgo, regina di Gran Bretagna e Irlanda, 190. Carpenter, John Alden, 475. Carter, Elliott Cook, 474. Casella, Alfredo, 358, 459-62, 464. Caspar, Franz Xaver, 273. Cassiodoro, Flavio Magno Aure­ lio, 21. Cassola, Luigi, 96. Castiglione, Baldesar, 71,120. Castiglioni, Niccolò, 497. Catalani, Adfredo, 377. Caterina II, imperatrice di Russia, 357Cavalieri, Emilio de’, 121, 123, 138. Cavalli, Francesco, 151, 157, 158, 161. Cavazzoni, Girolamo, 140. Cazzati, Maurizio, 160. Cerha, Friedrich, 431. Cervantes Saavedra, Miguel de, 210. Cesti, Antonio, 152, 155,157, I59-. , , Chabrier, Alexis-Emanuel, 302, 374Chacaturjan, Aram Il'ic, 466. Chamisso, Adalbert von, 283. Chandos, James Brydges, duca di, 190. Char, René, 485, 490. Charpentier, Gustave, 377. Charpentier, Marc-Antoine, 169. Chausson, Ernest, 374. Chavez, Carlos, 481, 482. Cherry, Donald, detto Don, 477. Cherubini, Luigi Carlo, 240-42, 271,272,286,297,303,305. Chézy, Helmina von, 274. Chopin, Fryderyk, 262, 275, 292295»315,368, 372. Chowning, John, 511. Christian Ludwig, margravio del Brandeburgo, 180.

INDICE DEI NOMI

Cicerone, Marco Tullio, 21. Ciconia, Johannes, 79. Cilea, Francesco, 378, 379. Cimarosa, Domenico, 202, 205, 206, 213, 241, 303, 305, 306. Claudel, Paul, 457. Clemente IX, papa, 136, 137. Clemente di Alessandria, 42. Clementi, Aldo, 464, 500. Clementi, Muzio, 198, 232, 243, 397Cleonide, 17. Cocteau, Jean, 397, 456-58. Codax, Martin, 54. Coleman, Ornette, 477. Collet, Henri, 456. Colloredo, Hieronymus, arcive­ scovo di Salisburgo, 231-34, 259. Coltrane, John William, 477. Compere, Loyset, 95. Conti, Carlo, 314. Copland, Aaron, 474, 475, 480, 481. Coppola, Pietro Antonio, 314. Corea, Chick, 477. Corelli, Arcangelo, 153, 161-63, 165, 172, 176, 179, 190, 210, 219. Corneille, Pierre, 167. Corsi, Jacopo, 121. Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, 120. Costelay, Guillaume, 103. Cotton, John, 39. Couperin, Francois, detto le Grand, 169, 170, 211. Cousin, Victor, 397. Cowell, Henry Dixon, 478. Cristina, regina di Svezia, 161, 165. Cromwell, Oliver, 116, 198. Cui, Cézar, 358. Cuzzoni-Sandoni, Francesca, 188. Czerny, Carl, 223.

Dalayrac, Nicolas-Marie, 271. Dallapiccola, Luigi, 410, 462-64. Damone, 10, 15. Daniel-Lesur, pseudonimo di Daniel-Jean-Yves, Lesur, 484.

D’Annunzio, Gabriele, 391, 459, 461. Dante Alighieri, 69. DaPonte, Lorenzo, 235, 236. Dargomyzskij, Aleksandr Sergeevic, 357. Daudet, Alphonse, 301. David, Félicien-César, 289. Davis, Miles Dewey jr, 477. Debussy, Achille-Claude, 277, 288, 289, 294, 364, 376, 383, 385'93i 395, 407, 420, 428, 435, 444, 446> 449, 4^3, 4^7, 475,483,484Dehmel, Richard, 420. Delalande, Michel-Richard, 169. Delestre-Poirson, C. G., 311. Delibes, Clément-Philibert-Léo, pseudonimo di Eloi Delbès, 376. Delius, Frederick, 370. Della Valle, Cesare, 311. Della Valle, Pietro, 91. Democrito di Abdera, 14. Desprès, Josquin, 82, 88, 92, 95, 98, 103,104,139. Dessau, Paul, 455. Diabelli, Anton, 251. Diderot, Denis, 192, 206. Didimo, 23. D’India, Sigismondo, 126. Djagilev, Sergej Pavlovc, 391, 435-37Donatoni, Franco, 499, 500. Donizetti, Gaetano, 303-5, 307, 3i3-i5,3i7,334. Dorn, Heinrich Ludwig Egmont, 282. Dostoevskij, Fèdor Michajlovic, 413. Dowland, John, 106, 155. Draghi, Antonio, 156, 159. Dragoni, Giovanni Andrea, 93. Dubois, Fran^ois-ClémentThéodore, 392. Duchamp, Marcel, 493. Dufay, Guillaume, 80-82. Dufourt, Hugues, 504. Dukas, Paul, 364, 372, 385, 390, 395, 396, 436. Dumas, Alexandre, 316, 323. Duni, Egidio Romoaldo, 210. Dunstable, John, 78.

INDICE DEI NOMI

Dopare, Henri, 289. Durand, editrice musicale, 449. Durazzo, Giacomo, conte, 207, 208,223. Durey, Louis, 456. Du Roullet, Fran^ois-Louis-Gaud Lebland, 209. Dvorak, Antonin, 366-68, 373, 471-

Edison, Thomas Alva, 506. Eichendorff, Joseph Karl Bene­ dikt, 283, 350, 351. Eimert, Herbert, 487, 509. Einstein, Alfred, 76. Eisler, Hanns, 450, 455. Ejzenstejn, Sergej Michajlovic, 468. Eleonora di Aquitania, regina dTnghilterra, 52. Elgar, Edward, 370. Eliot, Thomas Stearns, 441. Elisabetta I, regina dTnghilterra, 142. Ellington, Edward Kennedy, detto Duke, 477, 478. Enescu, George, 443. Enrico d’Angió, re dTnghilterra, 52. Eratostene di Cirene, 23. Ermanno il Contratto, 33. Eschilo, 14. Este, Eleonora d’, 102. Esterhazy, famiglia, 224, 225, 229. Esterhazy di Galantha, Miklos, detto il Magnifico, 224, 225, 227. Esterhazy di Galantha, Pal Antal, 196, 224. Euripide, 12,14, 19, 21. Falla, Manuel de, 371, 372, 448450, 458. Farwell, Arthur, 471. Fauré, Gabriel, 289, 372, 373, 390, 392, 393, 396. Favart, Charles-Simon, 210. Federico I Barbarossa, imperato­ re, 53. Federico Augusto II, principe di Sassonia, vedi Augusto III re di Polonia.

525 Federico Guglielmo IV, re di Prussia, 276. Fedorov, Nikolaj Fèdorovic, 411. Fenaroli, Fedele, 304. Ferdinando III, imperatore, 159. Ferdinando I de’ Medici, grandu­ ca di Toscana, 120,121,186. Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, 228. Ferneyhough, Brian, 504. Ferretti, Jacopo, 308. Festa, Costanzo, 98. Fétis, Francois-Joseph, 255. Fibonacci, Leonardo, detto Leo­ nardo Pisano, 446. Fichte, Johann Gottlieb, 411. Ficino, Marsilio, 85. Field, John, 243, 293. Fielding, Henry, 210. Filippo II, re di Spagna, 105. Filippo Neri, santo, 137. Filodemo di Gadara, 14. Filolao, 8, 9. Finney, Ross Lee, 481. Fioravanti, Valentino, 304, 305. Folcine, Michel, 435. Folquet de Marseille, 51. Fomin, Evstignej Ipatovic, 357. Forkel, Johann Nikolaus, 255. Fortner, Wolfgang, 455, 487. Fouqué, Friedrich Karl de la Mot­ te, 270. Francesco, santo, 55. Francesco I, re di Francia, 103. Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana, 120. Francesco da Milano, 140. Franchetti, Alberto, 378, 380. Franck, César-August, 374, 395. Franco di Colonia, 57, 61. Franzos, Emil, 430. Frazzi, Vito, 460. Frescobaldi, Girolamo, 114, 140, 144,145,165,172,175. Freud Sigmund, 418, 419, 422. Fricken, barone von, 282. Fricken, Ernestine von, 281, 282. Froberger, Johann Jakob, 172, 175,176. Fux, Johann Joseph, 158, 159, 224.

526 Gabrieli, Andrea, 94, too, 103, 140. Gabrieli, Giovanni, 94, 127, 128, 134,140, 143,172,173. Gade, Niels Wilhelm, 369. Galilei, Vincenzo, 21, 112, 121. Galoppi, Baldassarre, 202, 205, 213,216. Gardano, Antonio, 124. Gastoldi, Giovanni Giacomo, 100. Gaultier, famiglia, 166, 167. Gaultier, Denis, detto le Jeune, 167. Gaultier, Ennemond, detto le Vieux, 167. Gautier, Théophile, 289. Gautier de Coinci, 54. Gaveaux, Pierre, 241, 250. Gay, John, 188. Gazzaniga, Giuseppe, 236, 304. Geminiani, Francesco Saverio, 211. Generali, Pietro, 306. George, Stefan, 421, 433. Gershwin, George, 412, 454, 475, 476,5i3Gerstl, Richard, 421. Gervais du Bus, 61. Gesualdo, Carlo, principe di Ve­ nosa, 101,102,125,441. Ghedini, Giorgio Federico, 462. Ghelderode, Michel de, 499. Gherardi, Giovanni, 68. Giamblico, 9. Gibbons, Orlando, 106, 142. Gilbert, Henry Franklin Belknap, 47 TGillespie, John Birks, detto Dizzy, 476. Ginastera, Alberto Evaristo, 481, 482. Giordano, Umberto, 379. Giorgio I, re di Gran Bretagna e Irlanda, 187. Giorgio II, re di Gran Bretagna e Irlanda, 190. Giorgio Ludovico, principe eletto­ re di Hannover, vedi Giorgio I, re di Gran Bretagna e Irlanda. Giovannelli, Ruggero, 93. Giovanni, duca di Berry, 62.

INDICE DEI NOMI

Giovanni XXII, papa, 58-60, 65. Giovanni da Cascia, 67. Giovanni da Prato, vedi Gherardi Giovanni. Giovanni della Croce, santo, 465. Giovanni Diacono, 30, 43. Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia, 62. Giulio II Della Rovere, papa, 89. Giraud, Albert, pseudonimo di Marie-Emile-Albert Kayenbergh, 424. Giuseppe II, imperatore d’Au­ stria, 194, 235, 236, 244. Gizziello, Gioachino Conti, detto, T95Glareanus, Henricus, 33, no. Glazunov, Aleksandr Konstantinovié, 364. Glinka, Michail Ivanovic, 357. Gluck, Christoph Willibald, 76, 206-9, 223> 227> 236, 287, 296, 305,310. Goethe, Johann Wolfgang von, 243, 245, 254, 266, 276-78, 283, 287, 300, 309, 331, 343, 345, 35°, 351, 42> 4jo, 434Goeyvaerts, Karel August, 486. Gogol', Nikolaj Vasil'evic, 469. Goldoni, Carlo, 205. Golinelli, Stefano, 375. Gombert, Nicolas, 134. Gomes, Carlos Antonio, 377. Gonzaga, famiglia, 159. Gonzaga, Ferrante, 104. Goodman, Benjamin David, detto Benny, 447. Gossec, Francois-Joseph, 197, 240, 241. Goudimel, Claude, 104. Gounod, Charles, 300. Gozzi, Carlo, 272, 333, 381, 410. Graciàn y Morales, Baltasar, 117. Granados y Campirla, Enrique, 37U 372,449Grandi, Alessandro, 126, 127. Gregorio I, papa, santo, detto Ma­ gno, 30, 43. Grétry, André-Ernest-Modest, 210, 241, 271. Grieg, Edvard Hagerup, 369, 370-

INDICE DEI NOMI

Grillparzer, Franz, 265. Grisey, Gérard, 504. Grossi, Lodovico, vedi Viadana, Lodovico. Grosz, Georg, 451, 452. Gruenberg, Louis, 475. Grunewald, Mathias, 453. Guadagni, Gaetano, 195, 208. Guami, Gioseffo, 140. Guarini, Giovan Battista, 96, 129,130. Guarnieri, Adriano, 504. Guglielmo IX, conte d’Alvernia e di Poitiers, duca di Aquitania, 5\Guglielmo I di Hohenzollern, im­ peratore, 328. Guidiccioni, Giovanni, 96. Guido d’Arezzo, 33, 39, 44. Guillaume de Machaut, 47, 48, 62-65,72. Guiot de Provins, 53. Guiraud, Ernest, 301, 302, 390. Guiraut de Bornelh, 51. Guiraut, Riquier, 51. Habeneck, Francois-Antoine, 286, 287. Halévy, Jacques-FrangoisFromental, 298, 299. Halévy, Ludovic, 301, 302. Handel, Georg Friedrich, 147, 177, 183, 186-90, 207, 211, 229, 235, 276, 278, 292, 342, 505. Hanslick, Eduard, 338, 346-49, 367, 407. Harris, Roy, 481. Hartleben, Otto Erich, 424. Hartmann, Karl Amadeus, 455. Hasse, Johann Adolf, 202, 207, 216, 226, 303. Hassler, Hans Leo, 177. Hawkins, John, 225. Hawthorne, Nathaniel, 473. Haydn, Franz Joseph, 196, 218, 223-29, 231, 232, 235, 2yj\ 240, 246, 248, 254, 259, 278, 285,307,355- . Haydn, Johann Michael, 270. Haym, Nicola Francesco, 188.

527 Hebbel, Friedrich, 429. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 254, 276. Heine, Heinrich, 266, 283, 315, 334,378. Helmholtz, Hermann von, 347. Hendrix, Jimmy, 516. Henze, Hans Wener, 487,505. Herbeck, Johann von, 348. Herder, Johann Gottfried von, 209,243. Herman, Woodrow Charles, detto Woody, 440. Hérold, Ferdinand, 299. Hervé, pseudonimo di Florimond Ronger, 302. Herz, Henri, 290. Hiller, Ferdinand, 290. Hiller, Lejaren A. jr, 510. Hindemith, Paul, 450-55, 464, 487,499Hoffmann, Ernst Theodor Ama­ deus, 254, 270, 271, 280, 281, 287,333,452. Hofmannsthal, Hugo von, 404-6, 418, 419. Hogarth, William, 440. Holderlin, Friedrich, 343. Holst, Gustav Theodore, 371. Honegger, Arthur, 456, 457. Hoppenot, H., 457. Hugo, Victor, 298, 316, 320, 321, 323. Huxley, Aldous, 441. Huysmans, Joris-Karl, 385.

Indy, Vincent-Paul-MarieThéodore d’, 393. Ingegneri, Marc’Antonio, 128, 129. Isaak, Heinrich, 85, 88, 95, 106, 139, 432. Isabella d’Este, marchesa di Man­ tova, 86. Isouard, Nicolò, 271. Ives, Charles Edward, 471-74, Jaches de Wert, 129. Jacobus Leodiensis, 58, 60. Jacopo da Bologna, 67. Jahn, Otto, 255.

528 Janàcek, Leos, 368, 384, 413, 4*4Janequin, Clément, 103. Jaufre Rudel, 51. Jeunehomme, Mademoiselle, 232. Johannes de Grocheo, 47. Johannes de Muris, 58, 59. Jolivet, André, 484. Jommelli, Niccolò, 202, 208. Jone, Hildegard, 435. Joplin, Janis, 516. Joplin, Scott, 474. Josquin, vedi Desprès, Josquin. Jouy, Etienne de, 312. Kabalevskij, Dmitrij Borisovic, 466. Kagel, Mauricio, 497-99. Kalkbrenner, Friedrich Wilhelm Michael, 290. Kàlman, Emmerich, 354. Kandinskij, Vasilij Vasil'evie, 383,422,423,429. Kant, Immanuel, 243, 245. Keiser, Reinhard, 177. Keplero, Johannes, 453. Kind, Johann Friedrich, 271. Kinsky, Ferdinand, principe von, 247Kipling, Rudyard, 396. Kircher, Athanasius, 21, 119. Kitzler, Otto, 347, 348. Kleiber, Erich, 430. Kleist, Heinrich von, 350. Klimt, Gustav, 407, 408. Klopstock, Friedrich Gottlieb, 209, 214. Kochel, Ludwig Alois Ferdinand von, 232. Kodaly, Zoltan, 442-44, Koecbdin, Charles, 396. Kokoschka, Oskar, 419, 421, 451. Konitz, Lee, 477. Kraus, Karl, 418, 434. Krenek, Ernst, 452, 453. Kryzanowsky, Rudolf, 348, Kuhnau, Johann, 176, 179. Labroca, Mario, 459. La Faro, Scott, 477. La Fontaine, Jean de, 210. Lalo, Edouard, 376.

INDICE DEI NOMI

Lamennais, Félicité-Robert de, 327Landi, Stefano, 137. Landino, Francesco, 68, 69. Lanner, Josef, 353. Lasso, Orlando di, 104-6. Lecocq, Alexandre-Charles, 302. Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret, 480, 495. Legrenzi, Giovanni, 152, 157, 161,179. Lehar, Franz, 354. Leibowitz, René, 483, 487. Lenau, Nikolaus, 402. Lendvai, Erno, 446. Lenz, Wilhelm von, 247. Leo, Leonardo, 202, 203, 216, 226. Leoncavallo, Ruggero, 378, 379. Leoninus (Léonin), Magister, 40, 55Leopardi, Giacomo, 261. Leopoldo I, imperatore, 155. Le Sueur, Jean-Francois, 240, 241,287. Lewis, John Aaron, 477. Lifar, Serge, 435. Ligeti, Gyorgy, 499. Lino, 6. Liszt, Franz, 263, 269, 275, 282, 289-92, 294, 315, 327-33, 338, 341, 346, 35L 358, 359» 366, 367» 372, 374» 375» 387» 409» 421,444Lobkowitz, Franz Joseph Maximi­ lian, principe di, 247. Locatelli, Pietro, 211. Loos, Adolf, 419. Lorenzo I de’ Medici, detto il Ma­ gnifico, 85, 86, 95. Lortzing, Gustav Albert, 274, 275. Lourié, Arthur Vincent, 412. Lualdi, Adriano, 460. Luigi II, re di Baviera, 337. Luigi VII, re di Francia, detto il Giovane, 52. Luigi XIII, re di Francia, 166, 169. Luigi XIV, re di Francia, detto il Re Sole, 116, 165-68, 209, 296.

INDICE DEI NOMI

Luigi XVI, re di Francia, 209. Luigi Filippo, re di Francia, 297, 298, 300. Lully (Lulli), Jean-Baptiste, 154, 168,169,172,176, 206, 209. Lunel, A., 457. Luther, Martin, 106-9. Luzzaschi, Luzzasco, 121-29, 144. Lyadov, Anatolij, 364. Mach, Ernst, 418. Maderna, Bruno, 487, 492, 497, 502,503,509. Maeterlinck, Maurice, 390, 395, 408, 420, 429, 432. Mahler, Alma, 400. Mahler, Gustav, 271, 347-50, 370, 382, 398-402, 407, 408, 4i9> 433,5O2> 505Malipiero, Gianfrancesco, 459, 460,462, 463. Mallarmé, Stéphane, 383, 385, 389, 394, 490, 491. Mancinelli, Luigi, 375. Manfredi, Filippo, 218. Manfroce, Nicola Antonio, 306. Mann, Thomas, 273, 404. Manzoni, Alessandro, 326. Manzoni, Giacomo, 497, 504. Marazzoli, Marco, detto Marco dell’Arpa, 137. Marcabruno, 51. Marchetti, Filippo, 377. Marchetto da Padova, 66. Marco da Gagliano, 131. Marconi, Guglielmo, 507. Marenzio, Luca, 4, 101,102, 129. Margherita di Savoia, duchessa di Mantova, 132. Maria Antonietta d’AsburgoLorena, regina di Francia, 209, 241Maria d’Asburgo, imperatrice, i°5Maria de’ Medici, regina di Fran­ cia, 132. Maria Teresa d’Asburgo, impera­ trice, 194, 234. Marino, Giambattista, 96, 126, 132.

529 Marot, Clément, 103,104. Marschner, Heinrich August, 274» 275,333,334. Martini, Giovanni Battista, 158, 226,231,255,307. Martucci, Giuseppe, 375. Marx, Adolph Bernhard, 223, 255 ♦ Marziano Capella, Minneo Felice, 2I,32. Mascagni, Pietro, 378, 379, 459. Massenet, Jules, 289, 376, 377, 393,417Massimiliano II, imperatore, 90. Massimiliano Ferdinando France­ sco, elettore di Colonia, 244, 246. Massine, Léonide, 435. Matinskij, Michail, 357. Mattei, Stanislao, 307. Mattheson, Johann, detto Aristoxenos jr, 119. Maurizio, langravio d’Assia, 172. Mayr, Giovanni Simone, 241, 305,310. Mayrhofer, Johann, 265. Mazzarino, Giulio Raimondo, car­ dinale, 167. Mazzocchi, Domenico, 136. Mazzocchi, Virgilio, 128, 137. Méhul, Etienne-Nicholas, 240, 241,271, 272, 287. Meilhac, Henri, 301, 302. Melani, Jacopo, 152. Melzi d’Eril, Francesco, conte, 207. Mendelssohn, Arnold Ludwig, 452. Mendelssohn, Moses, 276. Mendelssohn-Bartholdy, Felix, 262, 264, 274, 276-79, 283, 287,359Menotti, Giancarlo, 381. Mercadante, Giuseppe Saverio Raffaele, 304, 314. Merelli, Bartolomeo, 320. Mérimée, Prosper, 301. Mersenne, Marin, 119. Menilo, Claudio, 140, 142, 143. Mesomede di Soli, 21. Messager, André-Charles-Prosper, 372.

530 Messiaen, Olivier, 483, 484, 486, 487,508. Metastasio, Pietro, 157, 201-3, 207,208,223,303. Metternich-Winneburg, Klemens Wenzel Lothar, principe di, 275Meyerbeer, Giacomo, 270, 298, 299,359,380,417. Michelangelo Buonarroti, 350. Milhaud, Darius, 435, 456-58, 475Millocker, Karl, 354. Mingus, Charles, 477. Mjaskovskij, Nikolaj Jakovlevic, 364, 466. Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto, 168, 236, 405. Molino, Antonio, too. Molza, Tarquinia, 121. Mombert, Alfred, 429. Moniuszko, Stanislaw, 368. Monk, Thelonius 476. Monn, Mathias Georg, 217. Monsigny, Pierre-Alexandre, 210. Monte, Philippe de, 105. Monteverdi, Claudio, 94, 101, 114, 118, 119, 127-36, 147, 152, 157-59, 172, 203, 440. Monteverdi, Giulio Cesare, 129. Morales, Cristobal de, 105. Morike, Eduard, 350, 351. Morison, Jim, 516. Morlacchi, Francesco, 271, 304, 306. Morley, Thomas, 106. Moro, Maurizio, 130. Morton, Ferdinand Joseph, detto Jelly Roll, 474. Mosciov, Aleksandr Vasil'evic, 412. Mote, Jean de la, 64. Mozart, famiglia, 230. Mozart, Johann Georg Leopold, 230,234. Mozart, Maria Anna Walburga Ignatia, detta Nanneri, 230. Mozart, Wolfgang Amadeus, 208, 218, 223, 227, 229-35, 237-40, 243, 245, 246, 248, 254, 255, 259, 270, 275, 277, 278, 285,

INDICE DEI NOMI

307, 333, 355, 405, 406, 409, 416, 432, 440. Muffat, Georg, 172, 176, 190. Muller, Wenzel, 352. Muller, Wilhelm, 267. Mulligan, Gerald Joseph, detto Gerry, 477. Muradeli (Muradov), Vano II'ic, 466. Murger, Henri, 381. Musil, Robert, 418, 419. Musorgskij, Modest Petrovic, 357-64.393.436. Musset, Alfred de, 498.

Narrino, Giovanni Maria, 93. Napoleone I Bonaparte, imperato­ re dei Francesi, 242, 246, 304, 306. Napoleone III Bonaparte, impera­ tore dei Francesi, 329. Nardini, Pietro, 216, 218. Narvàez, Luis de, 142. Nedbai, Oskar, 354. Neefe, Christian Gottlob, 245. Neidhart von Reuental, 54. Nestroy, Johann Nepomuk, 352. Neumeister, Erdmann, 174, 180. Nicola I, imperatore di Russia, 361. Nicola II, imperatore di Russia, 410. Nicolai, Cari Otto Ehrenfried, 275Niedermeyer, Abraham-Louis, 372. Nielsen, Carl August, 369. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 254, 301, 329, 338, 400, 403, 411Nijinsky, Waslaw, 435. Nono, Luigi, 487, 491, 497,501, 502,504. Notker, Balbulus, 37. Novalis, pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg, 254. Noverre, Jean-Georges, 233. Obrecht, Jacob, 95. Obuchov, Nikolai, 412. Ocampo, Silvina, 482. Ockeghem, Johannes, 81, 82.

INDICE DEI NOMI

Odington, Walter, 57. Offenbach, Jacques, 302, 352, 353Oginski, Michal Kleofa, 293. Oliver, Joe Joseph, detto Kins 474Omero, 7. Orefice, Antonio, 203. Orff, Carl, 456. Ottoboni, Pietro, 161,165.

Pacheco, Francisco, 117. Pacini, Giovanni, 314. Paderewski, Ignacy Jan, 368. Padovano, Annibale, 103, 140. Paèr, Ferdinando, 241, 306, 310. Paganini, Niccolò, 289-91. Paisiello, Giovanni, 202,205,206, 303^305,309. Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 4, 90-93, 98, 105, 128, 158, 226,254, 255,332. Pallavicino, Carlo, 152. Pamphilj, Benedetto, 161,165. Pappenheim, Marie, 422. Parini, Giuseppe, 314. Parker, Charlie Christopher jr, detto Bird, 476. Parry, Charles Hubert, 370. Pasquini, Bernardo, 165. Pavese, Cesare, 501. Pavesi, Stefano, 304, 305. Pedrell, Felipe, 371, 449. Penderecki, Krzysztof, 505. Peperara, Laura, 121. Pepoli, Carlo, 316. Pepusch, John Christopher, 188. Pergolesi, Giovanni Battista, 158, 202-5, 226, 438. Peri, Jacopo, 122, 123, 129. Perotinus (Pérotin), Magister, 40, 55Perrin, Pierre, 168. Persiani, Giuseppe, 314. Perti, Giacomo Antonio, 160. Petrarca, Francesco, 61, 95, 96, 99- . Petrassi, Goffredo, 462, 464, 465. Petrucci, Ottaviano, 87,102,120, 140. Petrus de Cruce, 61. Pfitzner, Hans Erich, 409.

531 Phalèse, Pierre, 141. Philidor, Francois-Andre, 210. Philippe de Vitry, 58, 61. Piave, Francesco Maria, 321. Picabia, Francis, 397. Picasso, Pablo, 435. Piccinni, Niccolò Vito, 202, 205, 206, 209, 303, 304. Pick-Mangiagalli, Riccardo, 460. Piero da Firenze, 67, 68. Piero della Francesca, 82. Pindaro, 21. Pirandello, Luigi, 461. Piscator, Erwin, 451. Piston, Walter Hamor, 474. Pitagora, 8-10, 23, 43. Pixis, Johann Peter, 290. Pizzetti, Ildebrando, 460. Planché, James Robinson, 274. Platone, 10-15, 397. Piatti, Giovanni Benedetto, 213. Plotino, 17. Poe, Edgar, Allan, 390. Poliziano, Angelo Ambrogini, det­ to il, 85. Polovinkin, Leonid Alekseevic, 4I2: Ponchielli, Amilcare, 377. Popov, Gavriil Nikolaevic, 466. Porfirio di Tiro, 17. Porpora, Nicola Antonio Giacin­ to, 202,223. Porter, Cole, 454. Postel, Christian Heinrich, 186. Poulenc, Francis, 456-58. Pousseur, Henri, 433, 487. Powell, Budd, 476. Pratella, Francesco Balilla, 478. Prevost, Eugène-Prosper, 380. Prokof'ev, Sergej Sergeevic, 364, 435,466-69,471. Protagora, 13. Pseudo-Plutarco, 6, 7, 13,14. Puccini, Giacomo, 304, 378, 380, 381, 384, 410, 460, 463. Pugnani, Gaetano, 216. Purcell, Henry, 154, 155, 505. Puskin, Aleksandr Sergeevic, 364, 437‘

Rachmaninov, Sergej Vasil'evic, 290,412,413.

532 Racine, Jean, 209, 311, 498. Raimbaut de Vaqueiras, 51. Raimund, Ferdinand, pseudonimo di Ferdinand Raimann, 352. Rameau, Jean-Philippe, in, 119, 150, 151, 169-71, 206, 209, 211, 213, 296. Rasi, Francesco, 121. Ravel, Maurice, 288, 294, 364, 371, 385, 392-96, 435» 436, 449, 467, 474, 475Reger, Max, 370, 382, 407, 420, 455Reich, Willi, 425. Rellstab, Heinrich Friedrich Lud­ wig, 266. Respighi, Ottorino, 364, 460, 463. Richelieu, Armand-Jean du Ples­ sis, duca di, 296. Richter, Hans, 348. Richter, Johann Paul, detto Jean Paul, 254, 279, 280. Riemann, Hugo, 347. Rihm, Wolfgang, 504, 505. Rimbaud, Jean-Arthur, 385. Rimskij-Korsakov, Nikolaj Andreevic, 357, 358, 360, 362, 363, 393,436. Rinuccini, Ottavio, 122, 123, 130-32. Roach, Maxwell, 476. Rocca, Ludovico, 460. Rodolfo, arciduca, vedi Asburgo, Rodolfo d’, arciduca d’Austria. Roger, 164. Roller, Alfred, 400, 407. Rolli, Paolo, 188. Romani, Felice, 307, 315-17. Ronsard, Pierre de, 103. Roosevelt, Franklin Delano, 480. Rore, Cipriano de, 99, 103. Roslavec, Nikolaj Andreevic, 412. Rospigliosi Giulio, vedi Clemente IX, papa. Rossi, Gaetano, 307, 308, 311. Rossi, Girolamo, 188. Rossi, Luigi, 167. Rossi, Michel Angelo, detto Mi­ chel Angelo del Violino, 137. Rossini, Gioacchino, 269, 297,

INDICE DEI NOMI

303-12, 314, 315, 3i7> 32O) 417,461. Rousseau, Jean-Jacques, 114, 192, 206, 272. Roussel, Albert, 372, 385, 396. Rubinstejn, Anton Grigor'evie, 364. Riickert, Friedrich, 283, 401, 407. Ruffino d’Assisi, vedi Bartolucci, Ruffino. Ruggles, Carl, 478. Russoio, Luigi, 478. Rutini, Giovanni Maria, 213, 215. Sacchetti, Franco, 69. Sachs, Curt, 114. Sachs, Hans, 84. Safonov, Vasilij Il'ic, 411. Saint-Saèns, Camille, 289, 372, 373>376,392,393Saint-Simon, Claude-Henri de Rouvroy, conte di, 327. Salieri, Antonio, 202, 304. Salisburgo, arcivescovo di, vedi Si­ gismondo von Schrattenbach. SaUé, Marie, 188. Salomon, Johann Peter, 228. Sammartini, Giovanni Battista, 207,216,224. Sand, George, pseudonimo di Au­ rore Dupin, 294. Sannazzaro, Jacopo, 96. Santa Croce, Francesco, 93. Saracini, Claudio, 127. Sardou, Victorien, 381. Sartorio, Antonio, 152. Satie, Erik, 385, 396, 397, 435, 456, 457>48i,493Savonarola, Girolamo, 86. Sayn und Wittgenstein, Carolina, principessa di, 330, 332. Scarlatti, Alessandro, 153, 154, 157, 158, 165, 201-3. Scarlatti, Domenico Giuseppe, 165, 190, 201, 213, 214, 221, 292, 450, 458. Schaeffer, Pierre, 487, 509. Scheibe, Johann Adolf, 178. Scheidt, Samuel, 143, 174, 175. Schein, Hermann Johann, 174, T77-

INDICE DEI NOMI

Schelling, Friedrich Wilhelm Jo­ seph, 254. Schenk, Johann Baptist, 352. Scherer, Jacques, 490. Schiele, Egon, 419. Schikaneder, Emanuel Johann Jo­ seph, 238, 239, 352. Schiller, Friedrich, 243, 245, 251, 254, 266, 272, 312, 321, 324. Schindler, Alma, vedi Mahler Alma. Schindler, Anton, 247. Schlegel, August Wilhelm von, 254Schlegel, Friedrich von, 254, 272, 280, 282. Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst, 254. Schmidt von Lubeck, G., 267. Schmieder, Wolfgang, 182. Schnebel, Dieter, 423, 499. Schnitzler, Arthur, 418, 419. Schonberg, Arnold, 344, 347, 382, 383, 385, 390, 393, 401, 406-8, 418-30, 432-34, 444, 452, 455» 485, 486, 503. Schopenhauer, Arthur, 254, 336, 337» 34°Schreker, Franz, 382, 383, 407, 408,453. Schubert, Franz Peter, 215, 223, 258, 262, 264-69, 275, 276, 292,341-43,347,351,355. Schuman, William Howard, 481. Schumann, Clara Josephine, 341. Schumann, Robert Alexander, 258, 261, 262, 264, 265, 267, 274-77» 279-85» 287, 290, 294, 303» 341» 342, 351» 372, 375Schutz, Heinrich, 171-74, 177, 255» 342. Sciarrino, Salvatore, 504. Scott, Walter, 242, 275,311, 316 318. Scribe, Eugene, 242, 298, 311. Sebalin, Vissarion Jakovleviè, 466. Sechter, Simon, 347, 348. Seidl, Johann Gabriel, 266. Sekles, Bernhard, 452. Seneca, Lucio Anneo, 21. Senfl, Ludwig, 85,106,108.

533 Senn, J., 265. Serly, Tibor, 447. Sermisy, Claudin de, 103. Serov, Aleksandr Nikolaevic, 357, 358. Sessions, Roger, 481. Sgambati, Giovanni, 375. Shakespeare, William, 155, 275, 278, 316, 323, 326, 333, 503. Shepp, Archie, 477. Sibelius, Jean, 369, 370, 390. Sigismondo von Schrattenbach, arcivescovo di Salisburgo, 231. Sinding, Christian August, 369. Sinigagfia, Leone, 375. Skrjabin, Aleksandr Nikolaevic 383,410-12, 443»484Smareglia, Antonio, 377. Smetana, Bedfich, 366-68. Smithson, Harriett, 287. Socrate, 10, 11. Soler, Antonio, 213. Solov ' èv, Vladimir Sergeevic, 411. Somis, Giovanni Battista, 211. Soriano, Francesco, 93. Sostakovic, Dmitrij Dmitrieviè, 466, 467,469-71, 505. Spagna, Arcangelo, 157. Spitta, Philip, 180, 255. Spohr, Ludwig, 270, 275, 333. Spontini, Gaspare Luigi Pacifico, 242, 271, 287, 304, 306, 316. ’ Stabile, Annibale, 93. Stalin (Dzugasvili), Josif Vissarionovic, 466, 467. Stamitz, Jan Vaclav Antonin, 196 217. Stanford, Charles Villiers, 370. Stasov, Vladimir Vasil'eviè, 358. Steffani, Agostino, 156. Stein, Gertrude, 398, 481. Steinecke, Wolfgang, 487. Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle, 308, 309. Sterbini, Cesare, 308. Stifter, Adalbert, 498. Stobeo, 8. Stockhausen, Karlheinz, 486-92 495-97 • Storm, Hans Theodor, 431. Stradella, Alessandro, 15 2 j 157 203. ’

534 Stramm, August, 451. Strauss, Johann jr, 353, 370. Strauss, Johann sr, 353. Strauss, Richard, 382, 398, 402-7 420, 435, 443>444,455Stravinskij, Igor'Fedorovic, 364, 365, 37b 373, 393, 418, 435’ 444, 446, 449, 454-56, 458, 464, 475,483,484, 505. Strepponi, Giuseppina, 324. Striggio, Alessandro, 101, 131, Strindberg, Johan August, 434. Stumpf, Friedrich Carl, 347. Suppé, Franz von, 353. Susato, Thylman, 141. Svendsen, Johan Severin, 369. Sweelinck, Jan Pieterszoon, 143, 175Swieten, Gottfried van, 229. Szymanowski, Karol, 443. Taglioni, Maria, 299. Tagore, Rabindranath, 408. Tailleferre, Germaine, 456, 457. Taneev, Sergej Ivanovic, 411. Tannhauser, 54, 335. Tartini, Giuseppe, 216. Tasso, Torquato, 96, 126, 130, T33Taylor, Cecil, 477. Telemann, Georg Philipp, 177, 183,185. Teodosio I, imperatore, detto il Grande, 29. Teofrasto di Ereso, 17. Terpandro, 13, 18. Thalberg, Sigismund, 290. Theremin (Teremin), Lev, 508. Thomas, Charles-Louis-Ambroise, 286,300. Thomson, Virgil, 397, 474, 481. Thoreau, Henry David, 473. Tieck, Johann Ludwig, 254, 280. Timoteo di Mileto, 19. Tinctoris, Johannes, 79, no. Tirso de Molina, pseudonimo di Gabriel Tellez, 236. Togni, Camillo, 503, 504. Tolomeo, Claudio, 23. Tommasini, Vincenzo, 460. Torelli, Giuseppe, 160, 163. Traetta, Tommaso, 202, 208.

INDICE DEI NOMI

Trakl, Georg, 434, 504. Tromboncino, Bartolomeo, 86. Vaccaj, Nicola, 314. Vacchi, Fabio, 504. Valderràbano, Enriquez de, 142. Valery, Paul, 457. Varese, Edgar, 446, 448, 478-80, 483,487, 493,5O9Vasari, Giorgio, 498. Vaughan Williams, Ralph, 371. Vecchi, Orazio Tiberio, 101. Veracini, Francesco Maria, 216. Verdelot, Philippe, 97, 98,’120. Verdi, Giuseppe, 298, 301, 303, 307, 314, 315, 318-26/377; 417,440. Verga, Giovanni, 378. Verlaine, Paul, 373, 383, 385. Viadana, Lodovico, 125 127 128. Vicentino, Nicola, 112. Victoria, Tomas Luis de, 105, 371Villa-Lobos, Heitor, 481, 482. Vincenzo Gonzaga, duca di Man­ tova, 131. Vinci, Leonardo da, 202, 203, 216, 226. Viotti, Giovanni Battista, 198 216. Virgilio Marone, Publio, 287. Vivaldi, Antonio, 163-65, 179, 201, 216, 219,221. Vogl, Johann Michael, 265. Vogler, Georg Joseph, detto l’Ab­ be, 270, 272. Voltaire, Francois-Marie Arouet, detto, 192, 307.

Wackenroder, Wilhelm Heinrich, 254Wagner, Cosima, 338, 339. Wagner, Richard, 84, 272, 274, 275> 277> 283, 301, 303, 315, 325 327-30, 332-41, 346-50, 358, 366, 369, 371-75, 377, 380, 382-87, 390, 395, 398, wz4i°3, 1°?’ 4°9, 42O> 432> 449Walter, Johann, 109. Walther von der Vogelweide, 54. Weber, Aloysia, 233.

INDICE DEI NOMI

Weber, Carl Maria von, 260, 264, 269-75, 2$7> 292> 3°b, 333, 334Weber, Franz Anton von, 270. Weber, Konstanze von, 233, 235, 270. Webern, Anton, 390, 418, 419, 423> 425, 428, 429, 432-35, 453 464,483 485,491,503. Wedekind, Frank, 431. Weill, Kurt, 450, 454, 455. Weimar, Johann Ernst, principe di, 179Weininger, Otto, 418. Werkmeister, Andreas, 181. Wesendonck, Mathilde, 336. Whiteman, Paul, 475, 477, 513. Wieck, Friedrich, 280, 282. Wieland, Christoph Martin, 209, 274- f Wieniawski, Henryk, 368. Wilde, Oscar, 404, 408. Willaert, Adrian, 88, 93, 98, 99, 103,120. Wittgenstein, Ludwig, 418, 419. Wizlaw III von Rugen, 54. Wolf, Hugo, 340, 341, 347,350, Wofff, Pius Alexander, 271. Wolf-Ferrari, Ermanno, 381, 460. Wolfflin, Heinrich, 114. Wolkenstein, Oswald von, 54.

Xenakis, Iannis, 480, 495. Zachow, Friedrich Wilhelm, 186. Zandonai, Riccardo, 381, 460. Zarlino, Gioseffo, 110-13,129Zdanov, Andrej Aleksandrovic, 466. Zeller, Carl Johann Adam, 354. Zelter, Carl Friedrich, 276. Zemlinsky, Alexander von, 347, 382, 383, 390, 407, 408, 420, 432. Zemlinsky, Mathilde, 421. Zeno, Apostolo, 154, 157, 200, 201. Ziani, Pietro Andrea, 152. Zingarelli, Nicola Antonio, 304, 3T5Zoilo, Annibale, 90. Zola, Emile, 377.

535

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi dalla Eantonigrafica - Elemond Editori Associati

C.L. 59976 Ristampa 23456789 io

Anno 91 92 93 94 95 96 97

Gli struzzi Ultimi volumi pubblicati

231 Brecht, Drammi didattici. 2^2 Dostoevskij, L'idiota. 233 Volponi, Memoriale. 234 Broch, Gli incolpevoli. 235 Thomas, Poesie. 236 Schulz, Le botteghe color cannella. 237 Dostoevskij, Delitto e castigo. 238 Pasolini, Le ceneri di Gramsci. 239 Dostoevskij, I fratelli Karamazov (due volumi). 240 Levi (Primo), La ricerca delle radi­ ci. Antologia personale.

204 205 206 207 208-10

211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222

Sciascia, Nero su nero. Revelli, La guerra dei poveri.

241 Lewis, IlMonaco. 242 Eluard, Poesie. 243 Pasolini, La nuova gioventù.

244

Fiabe africane. Roncaglia, Il jazz e Usuo mondo.

245-46 Il teatro italiano. II teatro italiano. V: La tragedia dell'ottocento V: La commedia e il dramma (due tomi). borghese dell'Ottocento (tre 247 Fabre, Ricordi di un entomologo. tomi). Studi sull'istinto e i costumi degli Ponchiroli, Le avventure di Barzainsetti. mino. 248 Mark Twain, Le avventure di Bruzzone, Ci chiamavano matti. Huckleberry Finn. Reed, Il Messico insorge. 249 Casula, Tra vedere e non vedere. Gallo Barbisio, Ifigli piu amati. Una guida ai problemi della per­ Un processo per stupro. Pasolini, Lettere luterane. Belyj, Pietroburgo. Michelet, La strega. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società. 2-2 Barthes di Roland Barthes. Butler, Cosi muore la came.

cezione visiva.

250 Pasolini, L'usignolo

della Chiesa

Cattolica.

251 Salvatorelli,

Vita di san Francesco d'Assisi. Flaubert, Bouvard e Pécuchet. 2„ Casula, Il libro dei segni. 254 Puskin, Romanzi e racconti. Opere di Elio Vittorini: Hawthorne, La lettera scarlatta. 1. Piccola borghesia. Kipling, Capitani coraggiosi. 2. Sardegna come un 'infanzia. y II garofano rosso. 57‘bo Dòblin, Novembre 1918. Una rivo­ luzione tedesca. 4. Conversazione in Sicilia. (257) Borghesi e soldati. 5. Uomini e no. (258) Il popolo tradito (in pre­ G. Il Sempione strizza rocchio parazione). al Frejus. (259) Ritorno dalfronte (in pre­ 7. Le donne di Messina. parazione). 8. Erica e i suoi fratelli - La (260) Karl e Rosa (in prepara­ garibaldina.

9. Diario in pubblico. io. Le città del mondo. 223 Rodari, Il gioco dei quattro cantoni. 224 Signoret, La nostalgia non è più quella d'un tempo.

225 Malerba, Le galline pensierose. 226 Einstein, Il lato umano. Nuovi

zione). 261 Marin, La vita xe fiama e alai versi 1978-1981.

262 263 264 265

Volponi, Sipario ducale. Lawrence, Donne innamorate. Dickinson, Lettere 1845-1886. Sciascia, La corda pazza. Scrittori e

266 267 268 269

Dostoevskij, Umiliati e offesi. Persio Fiacco, Le Satire. Tolstòj, Resurrezione. Pasolini, La religione del mio

cose della Sicilia.

spunti per un ritratto.

227 228 229 230

Poesie friulane 1941-1974. Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer.

Revelli, La strada del davai. Beauvoir, Lo spirituale un tempo. Fellini, Fare un film. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia.

tempo.

Quando tutte le donne 307 Ginzburg (Natalia), Lessico fami­ del mondo... gliare. Wu Ch’èng-én, Lo Scimmiotto. 308 Barthes, La grana della voce. Inter­ Dostoevskij, L'adolescente. viste 1962-1980. Dickens, Il nostro comune amico. 309 Vassalli, L'alcova elettrica. De Sanctis, Saggio critico sul Pe- 310 Szymusiak, Il romanzo di Peuw, trarca. bambina cambogiana (19/5-1980). Conrad, Vittoria. Un racconto delle 311 Saba, Antologia del «Canzoniere». isole. 312 Einaudi, Le prediche della dome­ De Sanctis, Manzoni. nica. Rodari, Storie di re Mida. Leandri, Scusa i mancati giorni. Brecht, Diari 1920-1922. Appunti Liriche cinesi. A cura di Giorgia autobiografici 1920-1954. Valensin. Frank, Racconti dell'alloggio se- 315 Fo, Manuale minimo dell'attore. greto. 316 Ara-Magris, Trieste. Un’identità di De Sanctis, Leopardi. frontiera. Sciascia, Cruciverba. 317 Balzac, Fisiologia del matrimonio. Queneau, Esercizi di stile. 318 Storici arabi delle Crociate. A cura Giovenale, Le satire. di Francesco Gabrieli. Hugo, Imiserabili (tre tomi). 319 Acton, Gli ultimi Medici. Il teatro italiano. James, Daisy Miller. V: Il libretto del melodramma 321 Stevenson, Emigrante per diletto dell'ottocento (tre tomi). seguito da Attraverso le pianure. Barthes, L'impero dei segni. 322 Cummings, Poesie.

270 Beauvoir, 271 272 273 274

275

276 277 278 279

280 281 282 283 284 285-87

288 323-24 Il teatro italiano. 289 Le commedie di Dario Fo. VI:La Marcolfa - Gli imbian­ IV: La commedia del Settecento chini non hanno ricordi - I tre (due tomi). bravi - Non tutti i ladri vengono 325 Breton, Manifesti del Surrealismo. per nuocere - Un morto da ven­ 326 London, La crociera dello Snark. dere -1 cadaveri si spediscono e 327 Rodari, Gli esami di Arlecchino. le donne si spogliano - L'uomo 328 Gadda, La cognizione del dolore. nudo e l'uomo in frak - Canzo­ Edizione critica a cura di Emi­ ni e ballate. lio Manzotti. 290 Rodari, Giochi nell'Urss. Appunti 329 Levi (Primo) - Regge, Dialogo. di viaggio. 291 Revelli, L'anello forte. La donna: 330 Le commedie di Dario Fo. VII: Morte accidentale di un astorie di vita contadina. narchico - La signora è da but­ 292 Levi (Primo), L'altrui mestiere. tare. 293 Morante, Lo scialle andaluso. 294 'O penziero e altre poesie di 331 E^a de Queiroz, Il Mandarino se­ Eduardo. guito da La buonanima. 295 Asor Rosa, L'ultimo paradosso. 332 Lastrego-Testa, Dalla televisione al Comandante ad Auschwitz. Memo ­ 296 libro. 297 298

299 300 301 302 303 304 305 306

riale autobiografico di Rudolf Hóss. Fiori, Il cavaliere dei Rossomori. Vita di Emilio Lussu. Barthes, L'ovvio e l'ottuso. Saggi critici III. Rodari, Il secondo libro delle fila­ strocche. Vassalli, Sangue e suolo. Viaggio fra gli italiani trasparenti. Lévi-Strauss, La via delle maschere. Kipling, Qualcosa di me. Zamponi, I Draghi locopei. De Filippo, Lezioni di teatro. Levi (Primo), I sommersi e i salvati. Thiess, Tsushima.

333 Dostoevskij, Le notti bianche. 334 Baroni-Fubini-Petazzi-SantiVinay, Storia della musica. 335 Zamponi-Piumini, Calicanto. La poesia in gioco. Memorie del sotto­ suolo. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il po­ pulismo nella letteratura italiana contemporanea. Queneau, Piccola cosmogonia por­ tatile seguita da Piccola guida al­ la Piccola cosmogonia di Italo

336 Dostoevskij,

337 338

Calvino.

339 Grimmelshausen,

341

Vita dell'arcìtmf fatrice e vagabonda Coraggio. Yourcenar, Memorie di Adriano se­ guite dai Taccuini di appunti. Teatro Dada. A cura di Gian Ren­

342 343 344 345 346 347 348

zo Morfeo e Ippolito Simonis. Frank, Diario. Tozzi, Con gli occhi chiusi. Barthes, Il brusio della lingua. Proust, Poesie. Conrad, La linea d'ombra. Beauvoir, La terza età. Dossi, L'Altrieri. Vita di Alberto

340

Pisani.

349 Bodini, I poeti surrealisti spagnoli (due volumi). 350 Laclos, Le amicizie pericolose. 351 James, La fonte sacra. 352 Hoffmann, Gli elisir del diavolo. 353 Naldini, Pasolini, una vita. 354 Fortini, Verifica dei poteri. 355 Bontempelli, Nostra Dea e altre commedie

356 Le commedie di Dario Fo Vili: Venticinque monologhi per una donna di Dario Fo e Franca Rame. 357 Conrad, Cuore di tenebra. 358 Chlébnikov, Poesie. 359 Cervantes, Intermezzi. 360 Revelli, L'ultimo fronte. Lettere di

361 362 3 63 364 365

366 367 368 369

370

371 372 373 374 375

soldati caduti o dispersi nella se­ conda guerra mondiale. Cabeza de Vaca, Naufragi. Ginzburg (Natalia), La famiglia Manzoni. Gogol7, Le veglie alla fattoria di Dikanka. Vargas Liosa, La zia Julia e lo scri­ bacchino. Hoffmann, La principessa Bram­ billa. Cechov, Vita attraverso le lettere. Huysmans, Controcorrente (A rebours). Barilli, Capricci di vegliardo e tac­ cuini inediti (1901-1952). Lautréamont, I canti di Maldoror. Poesie. Lettere. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo­ guerra a oggi (due volumi). Chopin, Il R isveglio. Fortini, Versi scelti. 1939-1989. Tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterie. Gozzano, Le poesie. Diari di dame di corte nell'antico Giappone. A cura di Giorgia

Valensin.

376 Argilli,

Gianni Rodari. Dna bio­ grafia. 377 Sterne, La vita e le opinioni di Tri­ stram Shandy, gentiluomo. 378 Miller (Arthur), Dna specie di sto­ ria d’amore e altre commedie. 579 Ginzburg (Natalia), Serena Cruz o la vera giustizia. 380 Ripellino, Poesie. 381 Lastrego-Testa, Istruzioni per l'uso del televisore. 382 Fayenz, Jazz domani. 383 I capolavori di Federico Garda Lorca. 384 Ghirelli, Storia del calcio in Italia. 385 Dalla Chiesa, Storie di boss ministri tribunali giornali intellettuali cit­ tadini. 386 Machado de Assis, La cartomante e altri racconti. 387 Conrad, La freccia d’oro. 388 London, Martin Eden. 389 Bulgakov, Romanzi brevi e racconti (1922-1927). 3 90 I capolavori di Eugene O ’Neill (due

volumi). 391 Pavese, La letteratura americana e altri saggi.

392 Holderlin, La morte di Empedocle. 393 De Quincey, Confessioni di un op­ piomane.

394 Hardy, Jude l’oscuro. 395 Friedlander, A poco a poco il ri­ cordo.

396 Gautier, Capitan Fracassa. Cechov, Caccia tragica. 398 Le commedie di Dario Fo IX: Coppia aperta, quasi spa­ lancata di Dario Fo e Franca Rame. 399 Berg, Il ghetto di Varsavia. 400 Schneider, Glenn Gould. Piano solo.

401 402 403 404 405 406 407

Fruttero-Lucentini, Storie america­

408 409 410 411

Ginzburg C., Il giudice e lo storico. Dickinson, Lettere. 1845-1886. Pérez Galdòs, Tristana Sta]ano, Dn eroe borghese. Il caso

412 413

dell'avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica: Graziosi, Lettere da Kharkov. Ben Jelloun, Dove lo stato non c'è.

Pittateli©, Il tempo segreto. Berlinguer, Questioni di vita. Laing, L'io diviso. Vargas Liosa, La Casa Verde. Tolstoj, La sonata a Kreutzer. Langhe.

ne di guerra.

4i4 Naldini, De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore.

Goldoni, Teatro-.

415 l II servitore di due padroni. Il tea­ tro comico. La famiglia delTan­ tiquario. Le femmine puntiglio­ se. La bottega del caffè.

416 n. La locandiere. La sposa persiana.

417 418 419 420

Il campiello. Gl*innamorati. I rusteghi. Le smanie per la villeg­ giatura. m. Le baruffe chiozzotte. Una delle ultime sere di carnovale. Il ven­ taglio. Cooper, La morte in famiglia. Laing, Nodi. Stevenson, Il relitto.

La musica occupa uno spazio crescente nella vita di tutti i giorni, ma non è facile trovare delle sintesi che rispondano alle esigenze di chi la studia a scuola, o vuole semplicemente approfondirne gli aspetti per il proprio piacere personale. Il volume che presentiamo nasce proprio dall’intento di soddisfare queste esigenze, ed esamina il fatto musicale sia nei suoi aspetti più propriamente storici (il rapporto con gli avvenimenti sociali, con le idee dominanti, con il gusto e la mentalità) sia nei suoi elementi espressivi (l’evoluzione delle forme, le invenzioni di linguaggio, le tecniche esecutive) dall’antica Grecia sino ad oggi. Gli autori hanno cercato di fornire un quadro quanto più possibile esauriente, usando un lessico accessibile ma non per questo semplicistico. Un ricco inserto iconografico riprende e sviluppa le indicazioni del testo, col proposito di offrire al lettore una ulteriore chiave interpretativa per cogliere il fatto musicale nella sua globalità. Mario Baroni (Mantova 1934) insegna Storia della musica all’università di Bologna. Ha pubblicato Studi sul dramma in musica (1979), // declino del patriarca. Verdi e le contraddizioni della famiglia borghese (1979), Bruno Madama. Documenti (1984) e vari contributi sulla lìbrettistica e sulle tecnologie informatiche della musica di massa.

Paolo Petazzi (Venezia 1944) insegna al Conservatorio di Milano e si occupa prevalentemente di musica moderna e contemporanea. Ha pubblicato Aspetti dell'ultima produzione di Rossini (1970), Alban Berg (1977), Introduzione a Webern (1983). Piero Santi (Milano 1923) critico musicale e direttore d’orchestra, ha insegnato in vari Conservatori. Autore di numerosi saggi, ha curato l’Enciclopedia della musica (Garzanti, 1983?).

Gianfranco Vinay (Torino 1945) insegna Storia della musica presso il Conservatorio G. Verdi di Torino. Autore di monografie su Charles Ives (Einaudi, 1974) e su Stravinsky neoclassico (Marsilio, 1987), è impegnato nella divulgazione storico-musicologica e ha firmato un volume della sezione novecentesca della Storia della musica (Edt, 1978).

ISBN 88-06-59976-3

[email protected] Lire 45000

In copertina: Giacomo Balla, La mano del violinista o Ritmi del violinista, 1912.

Enrico Fubini (Torino 1935) insegna Storia della musica all’università di Torino . e si interessa principalmente di storia dell’estetica musicale. Tra le sue opere in edizione Einaudi: L'estetica musicale dal Settecento a oggi (1964, nuova ed. 1987), Gli Enciclopedisti e la musica (1971), Musica e linguaggio nell'estetica contemporanea (1973), L'estetica musicale dall'antichità al Settecento (1976), Musica e pubblico dal Rinascimento al Barocco (1984). Presso Edt, Musica e cultura nel Settecento europeo (1987).