Storia della Basilicata. 2. Il Medioevo (Italian Edition) 9788858147740, 885814774X


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INDICE DEL VOLUME
PRESENTAZIONE
STORIA DELLA BASILICATA2. IL MEDIOEVO
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Storia della Basilicata. 2. Il Medioevo (Italian Edition)
 9788858147740, 885814774X

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Storia e Società

Gabriele De Rosa   Antonio Cestaro STORIA DELLA BASILICATA

l’antichità

a cura di Dinu Adamesteanu il medioevo

a cura di Cosimo Damiano Fonseca l’età moderna

a cura di Antonio Cestaro l’età contemporanea

a cura di Gabriele De Rosa

Edizione pubblicata con il sostegno della Regione Basilicata

G. Bertelli  C. Bozzoni  G. Breccia  G.B. Bronzini F. Burgarella  C. Colafemmina  P. Dalena  N. De Blasi P. De Leo  L. Derosa  M. D’Onofrio  M. Falla Castelfranchi C.D. Fonseca   C. Gelao   M. Giannatiempo López H. Houben   A. Leone   P. Leone de Castris   N. Masini R. Mavelli  M. Miele  F. Panarelli  L. Pellegrini A. Pellettieri   F. Tateo

Storia della Basilicata 2. Il Medioevo a cura di Cosimo Damiano Fonseca

Editori Laterza

© 2006, 2021, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Edizione digitale: dicembre 2021

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858147740

NOTA DELL’EDITORE L’Opera Storia della Basilicata, composta da quattro volumi realizzati fra gli anni 1998-2006, e oramai esaurita, viene ristampata accogliendo l’impulso e il sostegno della Regione Basilicata che, insieme con il Comitato promotore e la Deputazione di Storia Patria per la Lucania, aveva già sostenuto la pubblicazione della prima edizione. Nella assoluta consapevolezza che il progredire degli studi e della ricerca renda necessario e inderogabile l’aggiornamento di questa storia regionale, si è voluto nel frattempo riprodurre la prima edizione al fine di rendere nuovamente disponibile la preziosa eredità lasciataci dai curatori dell’Opera, Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro, e dai curatori del primo e del secondo volume, Dinu Adamesteanu e Cosimo Damiano Fonseca. Ripubblicando la Storia della Basilicata si è inteso altresì onorare la memoria degli autori che ci hanno lasciato nell’arco dei circa vent’anni trascorsi dalla prima edizione. In occasione di questa ristampa si è deciso di inserire l’Opera nella prestigiosa Collana ‘Storia e Società’ conferendo alle copertine dei volumi una nuova veste grafica e, per quanto oggettivamente possibile, si è proceduto all’aggiornamento dei profili dei curatori e degli autori. novembre 2021

INDICE DEL VOLUME

Presentazione di Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro Introduzione di Cosimo Damiano Fonseca

v xiii

Parte prima  Quadri ambientali, popolamento e istituzioni politico-amministrative Quadri ambientali, viabilità e popolamento   di Pietro Dalena

5

1. Geografia dei nomi «Lucania» e «Basilicata», p. 5 - 2. I corsi d’acqua, p. 9 - 3. I boschi, p. 14 - 4. La viabilità alto-medievale, p. 18 - 5. La viabilità basso-medievale, p. 27 - 6. Il popolamento, p. 36

Goti, Bizantini e Longobardi   di Gastone Breccia

49

1. La guerra gotica, p. 49 - 2. La restaurazione giustinianea, p. 57 - 3. I Longobardi in Lucania, p. 60 - 4. Benevento e Salerno, p. 64 - 5. Il ritorno di Bisanzio, p. 70 - 6. Il monachesimo bizantino in Lucania, p. 78 - 7. La Lucania nella prima metà dell’XI secolo, p. 82

La vicenda normanna e sveva: istituzioni e organizzazione   di Francesco Panarelli

86

1. Prima dei Normanni: l’eclissi della «Lucania», p. 86 - 2. L’età normanna, p. 89 - 3. Età sveva, p. 113

L’età angioina e aragonese: gli assetti istituzionali   di Pietro Dalena

125

L’economia nel XIV e nel XV secolo   di Alfonso Leone

143

Il popolamento rupestre   di Cosimo Damiano Fonseca

164

1. Civita e Sassi, p. 169 - 2. Evoluzione storica e tipologie abitative,



Indice del volume

p. 173 - 3. Il modello materano nell’area delle Murge e delle Gravine: l’omogeneità culturale, p. 179 - 4. I segni del territorio rupestre materano tra omogeneità culturale e funzioni sociali, p. 184 - 5. Il popolamento rupestre nelle aree del «Mercurion», «Latinianon» e Vulture, p. 185

Borghi nuovi e centri scomparsi   di Antonella Pellettieri

192

1. La crisi alto-medievale e i centri di età classica, p. 194 - 2. I nuovi borghi e la rinascita normanno-sveva, p. 197 - 3. Spopolamento, diserzione dei centri e politica territoriale dei sovrani angioini, p. 206 - 4. Due casi di studio: Atella, terra di fondazione angioina, e «Satrianum», centro scomparso, p. 218 - 5. Le nuove fondazioni demiche della Basilicata aragonese, p. 226

Parte seconda  Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa Le istituzioni ecclesiastiche dal tardo antico al tardo Medioevo  di Cosimo Damiano Fonseca

231

1. Evangelizzazione della Lucania e assetti istituzionali alla fine del V secolo, p. 232 - 2. L’ordinamento ecclesiastico lucano tra crisi e persistenze, p. 240 - 3. L’organizzazione ecclesiastica della Lucania normanna, p. 248 - 4. Ubicazione e dedicazione delle cattedrali, p. 258 - 5. Il santorale della Chiesa lucana, p. 269 - 6. La distrettuazione ecclesiastica subdiocesana, p. 273 - 7. Gli assetti metropolitici, p. 283 - 8. Le istituzioni capitolari e i distretti archipresbiterali, p. 288 - 9. Le confraternite, p. 299 - 10. Gli ospedali, p. 301

Gli ebrei fra tarda antichità e Medioevo   di Cesare Colafemmina

307

1. Tarda antichità, p. 308 - 2. L’alto Medioevo, p. 314 - 3. Dai Normanni agli Angioini, p. 319

La religiosità bizantina   di Filippo Burgarella

328

1. Il contesto bizantino, p. 328 - 2. L’ortodossia, p. 331 - 3. Il monachesimo, p. 337

Immigrazioni albanesi tra basso Medioevo ed età moderna   di Pietro De Leo 348 Le istituzioni monastiche italo-greche e benedettine   di Hubert Houben 1. Il primo monachesimo benedettino, p. 357 - 2. Gli insediamenti monastici italo-greci, p. 358 - 3. I Normanni e il monachesimo, p.

355

Indice del volume

363 - 4. L’abbazia della SS. Trinità di Venosa, p. 366 - 5. Dipendenze cavensi in Basilicata, p. 371

I Frati Minori: un’eccezione da interpretare   di Letizia Pellegrini

387

1. Geografia dei conventi lucani nel XIII secolo, p. 392 - 2. Per una cronologia dei conventi lucani entro il XIII secolo, p. 397 - 3. Il secolo XIII: da Federico II al consolidamento del regime angioino, p. 404 - 4. Angioini e Francescani in Basilicata, p. 409 - 5. Il secolo dell’Osservanza, p. 421 - 6. Conclusioni, p. 431

Gli Eremitani di sant’Agostino   di Letizia Pellegrini

435

1. L’ordine degli Eremitani di sant’Agostino: una soluzione romana, p. 435 - 2. Gli Agostiniani nel regno e la provincia di Puglia, p. 439

I Frati Predicatori   di Michele Miele

448

1. L’arrivo e le prime presenze, p. 448 - 2. I primi insediamenti stabili, p. 453 - 3. Il movimento osservante e la sua espansione in Basilicata, p. 458 - 4. L’organizzazione dei conventi e il loro ruolo specifico, p. 466 - 5. I vescovi domenicani della regione, p. 471

Gli ordini cavallereschi   di Antonella Pellettieri

475

1. La commenda dei Santi Giovanni e Stefano di Melfi e la sua grancia di Potenza, p. 477 - 2. La commenda giovannita di Santa Maria di Picciano, p. 482 - 3. La commenda di San Giovanni di Grassano, p. 485 - 4. Il baliaggio della SS. Trinità di Venosa, p. 488 - 5. L’ordine dei Cavalieri teutonici in Basilicata, p. 492 - 6. L’ordine dei Templari in Basilicata, p. 496

Parte terza   Urbanistica, architettura e arti figurative Il territorio fra tardo antico e alto Medioevo: la documentazione archeologica   di Gioia Bertelli

505

1. La cristianizzazione delle città, p. 505 - 2. Gli insediamenti monastici: Santa Maria di Banzi, Sant’Ippolito a Monticchio, Sant’Angelo a San Chirico Raparo, p. 536 - 3. Gli edifici religiosi rurali, p. 544 - 4. Necropoli e corredi funerari, p. 548 - 5. Gli affreschi della cripta del Peccato originale, p. 553

Edilizia religiosa e civile dall’alto Medioevo ai Normanni   di Corrado Bozzoni 1. Venosa e il Vulture, p. 565 - 2. L’architettura di matrice bizantina, p. 581 - 3. La conquista normanna, p. 598

564



Indice del volume

Il panorama artistico tra XI e XIV secolo: architettura e scultura  di Mario D’Onofrio

608

1. La tarda fase greca, p. 608 - 2. La conquista normanna, p. 611 - 3. Il passaggio dallo Stato normanno a quello svevo, p. 641

Edilizia religiosa e civile dell’età angioina e aragonese   di Lui­ sa Derosa

648

1. Premessa, p. 648 - 2. Tra Svevi e Angioini, p. 651 - 3. L’età angioina, p. 658 - 4. L’età aragonese: i casi di Venosa e Potenza, p. 680

Dai Normanni agli Angioini: castelli e fortificazioni   di Nicola Masini

689

1. Premessa, p. 689 - 2. L’incastellamento in età normanna, p. 690 - 3. Il sistema castellare in età sveva, p. 720 - 4. Castelli e cantieri in età angioina, p. 736

Arti figurative: secoli XI-XIII   di Marina Falla Castelfranchi

754

1. Tradizioni bizantine e influssi occidentali tra il X e il XII secolo, p. 755 - 2. La pittura del XIII secolo, p. 776 - 3. Corredi liturgici, p. 785

Arti figurative: il Trecento   di Pierluigi Leone de Castris

791

Arti figurative: il Quattrocento   di Clara Gelao

819

1. Pittura, p. 820 - 2. Scultura, p. 845 - 3. Argenti e oreficerie, p. 864

La scultura del Cinquecento   di Clara Gelao

873

Oreficeria e argenteria nel Cinquecento   di Rita Mavelli

899

Arti figurative: il Cinquecento   di Maria Giannatiempo López

920

Parte quarta  Lingua, cultura e produzione letteraria La cultura letteraria   di Francesco Tateo 1. Classicismo federiciano a Venosa, p. 959 - 2. L’egemonia umanistica napoletana, p. 964 - 3. Giuristi e naturalisti fra letteratura ed erudizione, p. 969 - 4. Manierismo cortigiano e rimeria sacra, p. 977 - 5. Da Luigi Tansillo all’Accademia venosina, p. 987

959

Indice del volume

Tradizioni agiografiche fra scrittura monastica e pittura rupestre  di Giovanni Battista Bronzini

993

1. Il bifrontismo bizantino-latino, p. 994 - 2. L’occidentalizzazione dello stile, p. 999 - 3. Le influenze aragonesi, p. 1001

Parole e popoli in movimento: «lombardi», Longobardi e Bizantini  di Nicola De Blasi 1005 1. La Basilicata tra lingua e storia, p. 1005 - 2. Immigrazione di settentrionali, p. 1006 - 3. Elementi linguistici settentrionali, p. 1013 - 4. Longobardi e longobardismi, p. 1020 - 5. Componente greca nei dialetti lucani, p. 1026 - 6. L’arcaicità dell’area Lausberg, p. 1031

Gli autori

1041

Indice dei nomi

1047

PRESENTAZIONE 1. La prima storia dei popoli della Lucania e della Basilicata fu quella ben nota di Giacomo Racioppi, la cui prima edizione uscì nel 1889, giustamente apprezzata da Benedetto Croce; la seconda reca la data del 1902, con una preziosa novità: che Racioppi – come egli stesso scrisse – si avvalse «del conforto di speciali aiuti da parte di Giustino Fortunato». Le ispirazioni ideali del meridionalismo classico, la visione che la società liberale postunitaria aveva del futuro della nazione italiana sono nell’opera di Racioppi. Nel quadro storico dell’unità nazionale vanno compresi anche gli studi di Enrico Pani Rossi e Raffaele Riviello. Nel 1970 uscì, a cura della Deputazione di Storia Patria della Lucania, una ristampa anastatica della edizione del 1902, con una breve avvertenza dell’illustre storico lucano Raffaele Ciasca, verso il quale i curatori di questa nuova impresa editoriale sono debitori per averne appreso l’insegnamento. Raccomandando nel 1902 la sua opera al lettore, Racioppi scrisse: «verrà presto il tempo che nuove fortunate indagini e scoperte, nuovi orizzonti aperti ai fasci di luce della scienza progrediente reclameranno altra opera, altro lavoro su questa specie di tela penelopea della storia, che altri tesse, altri sfila, altri ritesse»1. In effetti, da tempo gli studiosi hanno avvertito, in maniera sempre più urgente, la necessità di una nuova storia regionale organica, in cui ricomporre, in un ben articolato quadro complessivo, le linee di svolgimento della società lucana nel corso dei secoli. Tale esigenza si è accresciuta a partire dagli anni Settanta, da quando cioè è stato introdotto l’ordinamento regionale con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, che ha indotto gli studiosi a ripensare e a riscrivere la storia del passato con particolare attenzione alle vicende e ai caratteri originali di ciascuna componente 1 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Deputazione di Storia Patria della Lucania, vol. I, Roma 1970, p. 5.

­VI

Presentazione

regionale, per sottolinearne, senza indulgere a deteriori campanilismi e localismi, i caratteri distintivi, o meglio, per dirla con una sola parola, la ‘civiltà’ che segna la storia di queste terre. Le ricerche, la rilettura di antiche fonti, le novità emerse dalle esplorazioni o dagli scavi archeologici; le sollecitazioni che provenivano dalle tante domande sui ritardi dello sviluppo; le riflessioni alle quali gli studi di geografia economica e dei quadri ambientali ci stimolavano; la revisione in atto di monotoni giudizi sul ruolo della borghesia; le varie e distraenti letture sulla staticità o sull’immobilismo delle regioni interne, quasi al di fuori di ogni possibile storicizzazione; le nuove metodologie di ricerca che consentivano una rilettura più complessa e articolata del ruolo della Chiesa nei confronti delle classi dirigenti, delle popolazioni e dello stesso clero: in breve, la molteplicità degli aggiornamenti avvenuti nel campo ­della ricerca, dalla crescita ‘archeologica’ della regione (Metaponto e Hera­kleia-Policoro) agli archivi storici, con particolare riguardo a quelli ecclesiastici, ai criteri interpretativi, conducevano oramai alla realizzazione di una nuova storia regionale. Il terremoto del 23 novembre 1980, con i danni gravissimi non solo di edifici, opere d’arte, chiese, ma di importanti patrimoni archivistici, pubblici, privati, ecclesiastici, con la loro drammatica evidenza, rendeva non più rinviabile il tentativo di predisporre i materiali per una nuova storia della Basilicata. Eppure, prima che si incominciasse a elaborare il progetto, trascorsero ancora alcuni anni, e questa volta dovuti alla difficoltà di trovare i necessari finanziamenti dell’impresa editoriale. L’identità storico-culturale della Basilicata ha costituito certamente il problema di fondo che ha assillato e assilla storici e uomini di cultura, impegnati in questi ultimi decenni a mettere assieme gli sparsi frammenti necessari a ricostruire la vera immagine di una regione che nel corso dei secoli non ne ha mai avuta una ben definita a causa della sua collocazione geografica, delle sue vicende storiche oscillanti tra Oriente e Occidente, della varietà del suo territorio e dell’assenza di precisi confini naturali. Terra di feudi e non di città (solo quattro erano le ‘Terre’ regie o demaniali), per nulla influenzata dalla presenza del mare che pure lambiva le sue coste nella parte meridionale e occi­ dentale, la Basilicata ha espresso una tipica ‘civiltà della montagna’ e la sua storia è dominata – come del resto quella di gran parte delle regioni mediterranee – dalla dialettica montagna-pianura, ben visibile già nell’età antica con la comparsa delle colonie greche metapontine, ma con caratteristiche proprie e più diffuse nel periodo bizantino, con

Presentazione

VII

i grandi insediamenti monastici greco-italici sommitali. I caratteri peculiari che concorrono a definirne l’identità possono essere individua­ ti nella componente rurale-agraria e nella componente religiosa che come altrettanti fili rossi percorrono tutta la storia regionale dall’inizio del Cinquecento al secondo dopoguerra, con tutti i conseguenti riflessi nell’incremento della popolazione, nella mentalità, nel costume, nei generi di vita, nelle devozioni, nelle tradizioni storico-culturali, ma anche nel rapporto uomo-ambiente, dove il degrado dell’ambiente naturale ha assunto il ruolo di protagonista del sottosviluppo2. 2. Sui due nomi di Lucania e Basilicata, comunemente adoperati per indicare lo stesso territorio, Racioppi aveva indugiato per spiegare in che senso si potessero utilizzare. Lucania sarebbero state chiamate dalle genti osco-italiche le terre da loro occupate, perché poste «verso la plaga del cielo onde loro veniva la luce; verso l’Oriente». Più esplicitamente spiegava Racioppi: «I Lucani, mossi dalle regioni abitate dalle stirpi osco-sabelliche, per occupare le terre poste sulla sinistra del fiume Sìlaro (Sele), vennero in un paese, che è posto appunto all’oriente delle sedi originarie, onde essi uscirono». La radice di Lucania sarebbe nel tema Luc, che «ha significato o riferimento identico a luce non soltanto nell’idioma latino, ma [...] anche nell’idioma delle genti sabelliche». Chi consideri poi il posto che occuparono i popoli ovvero i cantoni più antichi della gente, che componevano la nazione dei Lucani (gli Atinati, i Bantini, gli Eburini, i Grumentini, i Potentini, i Sirini, i Sontini, i Tergiani, i Vulcentini, gli Ursentini e i Numistrani) – scrive Racioppi – «vedrà che essi si distendono tutti intorno alla spina arcuata degli Appennini lucani orientali e occidentali: sono paesi posti sulla parte più elevata della montuosa regione, onde hanno origine i fiumi che solcano la parte pianeggiante e piana che declina al mare»3. Ed era qui, nella parte pianeggiante, che i Lucani incontrarono «genti più forti e avanzate in civiltà, che è a credere elleniche». Non che le popolazioni italo-elleniche non si spingessero nell’interno; è certo che per la via del sale da Velia giunsero al Vallo di Diano o anche verso gli Appennini: «non

2 P. Coppola, A. Telleschi, Basilicata: un cammino incerto verso lo sviluppo. Atti del XXII Congresso geografico italiano (Salerno, 18-22 aprile 1975), vol. IV, Guida della escursione post-congressuale in Basilicata, Cercola 1979, p. 11. 3 Racioppi, Storia dei popoli della Lucania, cit., vol. I, p. 282.

Presentazione

­VIII

se ne ha traccia finora che verso Eboli, a giudicare dai sepolcri greci scoverti per i suoi campi»4. Luigi Ranieri, nel volume che dedica alla geografia della Basilicata, non si discosta dalla tesi di Racioppi: fra il 600 e il 500 a.C. le tribù sannitiche dei Lucani, mossesi dal territorio a oriente del corso del Sìlaro, «s’irradiarono verso le coste tirreniche e ioniche», sottomettendo gli Enotri e gli Ioni, occupando il Cilento sino oltre la montagna del Pollino, pervenendo alla piana di Crati. Assoggettati i Bruzi, raggiunsero lo stretto di Messina. Nel complesso un territorio molto vasto che si estendeva nel versante tirrenico fra i due fiumi Lao e Sele, e fra il Crati e il Bradano sul mare ionico fino ai monti del Vulture5. Per il resto della storia rinviamo al saggio di Angelo Russi su La romanizzazione: il quadro storico. Età repubblicana e età imperiale, dove viene ripresa nelle grandi linee la nota tesi di A.J. Toynbee, «secondo la quale le distru­zioni causate» dalla guerra annibalica e «più ancora i provvedimenti presi da Roma all’indomani di essa segnarono così profondamente quella parte d’Italia da lasciarne segni duraturi, per tanti versi, fino ad oggi». Una tesi che suscita oggi, se consideriamo i nuovi apporti della storiografia moderna e contemporanea seguiti a Toynbee, qualche esitazione, in particolare per quanto concerne la storia dell’età bizantina, la cui originalità e imponenza è nelle sue testimonianze culturali, artistiche e religiose e nel ruolo che vi ebbe ancora la grecità del mondo basiliano, collegato alla grande tradizione della Chiesa d’Oriente, da Costantinopoli a Tessalonica al monte Athos. D’altra parte, che di distruzioni profonde si debba parlare per il mondo antico, lo rileva Russi citando Strabone nella sua Geografia: Quanto ai Lucani, una parte – come si è detto – raggiunge la costa del mar Tirreno; la parte che è padrona dell’entroterra giunse a ridosso del golfo di Taranto. Ma essi e i Bruttii e i Sanniti, da cui discendono, sono tanto decaduti che è arduo anche distinguerne gli insediamenti. Ne è causa anche il fatto che non sussiste più alcuna organizzazione politica comune a ciascuno di questi popoli, e i loro costumi, di lingua, di armamento, di vestiario e di altre cose del genere, sono scomparsi, e d’altronde, considerati singolarmente e a parte, questi insediamenti sono assolutamente trascurabili.

Nella divisione augustea dell’Italia la Lucania, unita al Bruzio, costituì la «regio III: Lucania et Bruttii». In questo periodo, scrive Russi, 4 5

Ivi, p. 289. L. Ranieri, Basilicata, Torino 1972, p. 1.

Presentazione

IX

«le città lucane, passate ormai dal ruolo di protagoniste dirette del loro destino a quello di membri di un enorme organismo internazionale come l’impero romano, vivono senza grandi sussulti ciascuno la propria storia, fatta per lo più di piccoli continui assestamenti, nonché di vicende legate essenzialmente alla routine del quotidiano». Un discorso che Russi conforta con riferimento a un’altra Storia della regione Lucano-Bruzzia nell’antichità, di Luigi Pareti, deceduto nel 1962, rimasta inedita fino al 1997 e ora pubblicata, a cura dello stesso Russi, per le Edizioni di Storia e Letteratura, la casa editrice che fu di don Giuseppe De Luca, un lucano autentico, innamorato delle sue antiche terre. 3. Il termine Basilicata sarebbe invece emerso, secondo Racioppi, molto più tardi, durante la dominazione bizantina, che abbracciava la parte più prossima al mare Ionio, «dove l’uso dell’idioma popolare accolse senza dubbio molti elementi greci, ma non cessò d’essere l’italico, meno che tra le colonie degli immigranti bizantini. Esso col nome generico di Basilico e basilici significò gli uffiziali del governo bizantino che governavano la contrada»6, allo stesso modo che Capitanata «fu regione o compartimento retto da un uffiziale imperiale supremo, il Catapano»7. Tuttavia, il termine Basilicata entrò in uso successivamente, nel 1130, al tempo della monarchia normanna, per indicare una delle province o giustizierati al tempo di Federico II. Peraltro – osserva Ranieri – non sembra sia stato molto gradito agli abitanti del paese il termine Basilicata, «i quali nel 1820 furono lieti che la provincia di Basilicata si chiamasse Lucania orientale», anche se tale denominazione durò solo per 280 giorni. Nel 1873 il Consiglio provinciale chiese ufficialmente l’abolizione del nome Basilicata, perché considerato «servile, intruso ed estranio di Basilicata»8. Nel 1932, il governo ripristinò il nome di Lucania, che però la Costituzione repubblicana sostituì ancora con quello di Basilicata. Commenta Ranieri: «Pure, anche se l’uso dotto sembra avere ormai optato per basilicatese, sta di fatto che nei ceti colti è preferito il termine lucano, che ha trovato maggiore fortuna anche nella nomenclatura geografica e nella toponomastica, tanto da varcare i limiti dell’attuale Basilicata»9. Tutto tranquillo? Non sembra, poiché una qualche riviviscenza Racioppi, Storia dei popoli della Lucania, cit., vol. II, p. 27. Ivi, p. 29. 8 Ranieri, Basilicata, cit., pp. 1-2. 9 Ivi, p. 2. 6 7

Presentazione

­X

della antica questione del nome si è registrata recentemente in ordine ai dibattiti sulla riforma costituzionale e sul federalismo. Comunque sia, senza danno per l’immagine e l’identità del paese, non ci sembra che il termine Basilicata sia da ritenersi servile o estraneo alla storia della regione, quando molte cose, dall’arte alla cultura alla vita religiosa, parlano dell’influsso di Bisanzio e dei segni della sua presenza nella lingua e nel paesaggio. Quanto poi alla delimitazione geografica, fisica come anche amministrativa del territorio la situazione non può dirsi caratterizzata da elementi peculiari e propri, ben definiti, il che è la sorte anche di altre regioni d’Italia, la cui unità amministrativa non coincide sempre con i confini fisici. Le considerazioni di Ranieri ci sembrano validissime: La Basilicata costituisce, dunque, una regione morfologica a sé stante soltanto nella zona centrale, se pur anche in questa nelle linee generali può vedersi come un poderoso, vasto, interessante contrafforte della Campania e della Calabria. Ma nel suo insieme è e resta una regione soltanto amministrativa e non geografica: non solo per il fatto in sé che i suoi confini sono prevalentemente convenzionali e perché si trova creata da una successione di contingenze storiche, come le altre consorelle, ma fondamentalmente perché si presenta come un’associazione di territori, una volta ordinati in compartimenti, ciascuno dei quali ha una veste geografica propria, alcune totalmente, altre solo in parte riunite dalle vicende storico-amministrative.

Tuttavia, ciò non significa negare all’attuale territorio della Basilicata «alcune delle caratteristiche che si sogliono considerare precipuamente nell’individuazione di una regione» e il raffronto può farsi, ad esempio, con la parte centrale del paese, che «presenta caratteri morfologici propri»10. Potremmo anche aggiungere il riferimento ­alla regione, così come si è articolata e organizzata attraverso la continuità di una secolare e persistente denominazione storica come Basilicata. 4. Diversamente dalla Storia di Giacomo Racioppi, tutta opera sua, la nostra si avvale di più collaboratori, con le tante distinzioni di competenze e di interessi, che caratterizzano oggi il campo molto variegato della ricerca storica, con gli spostamenti, a cui ci ha abituato la storiografia moderna e contemporanea, dalla ricerca politico-istituzionale a quella sociale, dalla storia culturale a quella economica, infine alla storia religiosa. Nessuna pretesa, da parte nostra, di riscrivere o di 10

Ivi, pp. 14-15.

Presentazione

XI

scoprire finalmente l’identità della Basilicata, che, alla verifica storica delle multiformi vicende etniche, demografiche, economiche, culturali di tanti secoli, dall’antichità a oggi, non potrebbe definirsi omogenea, anche per l’asimmetria ovvero la discontinuità dei quadri ambientali e degli spazi regionali, unificati solo dagli ordinamenti amministrativi che si sono susseguiti nei secoli. Tuttavia, la rivisitazione critica, che qui vien fatta, nel suo complesso, delle vicende storiche dall’antichità a oggi non modifica, anzi ci sembra rafforzi la consapevolezza dello spesso­re e della ricchezza di un passato, che rifluisce nell’immagine di una regione, che se non trova una uniforme caratterizzazione fisica nella geografia, la trova nella sua cultura, nella profonda articolazione della sua storia civile e religiosa, più che secolare. 5. L’idea di una Storia della Basilicata dall’Antichità all’Età contem­ poranea fu discussa e approvata dal Consiglio di amministrazione e dall’Assemblea dei soci della Associazione per la Storia del Mezzogiorno e dell’area mediterranea nel 1988, anno in cui furono indicati gli obiettivi da raggiungere, l’impianto generale e le modalità di realizzazione. Fu costituito un Comitato promotore, nelle persone del prof. Gabriele De Rosa, presidente dell’Associazione, del prof. Cosimo Damiano Fonseca, per l’Università di Basilicata, del prof. Vincenzo Verrastro, vicepresidente, del prof. Antonio Cestaro, segretario della stessa Associazione, e del dr. Mario Di Nubila, presidente del Consiglio regionale di Basilicata. Nella riunione del 21 novembre 1988, il Comitato promotore si riuniva nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, a Roma, per procedere alla formazione della segreteria organizzativa e all’allargamento del Comitato promotore agli enti finanziatori. Il Comitato scientifico, dopo le successive riunioni del Comitato promotore del 15 gennaio e 16 febbraio 1990, risultò così composto: G. De Rosa, C.D. Fonseca, G. Pugliese Carratelli, D. Adamesteanu, A. Stazio, V. Verrastro, A. Cestaro, R. Ajello, G. Aliberti, G. Angelini, A. ­Bottini, G.B. Bronzini, N. Calice, R. Colapietra, L. Cuoco, G. D’Andrea, M. D’Elia, G. Galasso, R. Giura Longo, R. Grispo, L.G. Kalby, M. Nenni, T. Pedio, F. Sisinni, P. Villani, F. Volpe, G. Zampino, S. Zotta. Del Comitato promotore entrarono a far parte la Giunta della Regione Basilicata, la Banca di Lucania, il Mediocredito e la Banca popolare di Pescopagano e Brindisi (ora Banca Mediterranea). Curatori delle parti dell’opera furono nominati: il prof. Dinu Adamesteanu per l’Antichità, il prof. Cosimo Damiano Fonseca per il Me-

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dioevo, il prof. Antonio Cestaro per l’Età moderna, il prof. Gabriele De Rosa per l’Età contemporanea. Fu presa in considerazione anche la possibilità di un volume aggiuntivo di Documenti. Alla fine del 1991 e nel 1992 il prof. Fonseca tenne a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo riunioni con i collaboratori dell’opera, per definire tempi e modalità per la redazione del volume sul Medioevo. Altrettanto fece il prof. Adamesteanu con riunioni tenute a Metaponto e a Potenza. Riunioni dei gruppi furono tenute anche negli anni successivi a Potenza, presso la sede dell’Associazione (piazza Vittorio Emanuele 14) per stabilire orientamenti il più possibile omogenei e fissare limiti cronologici e contenuti delle parti assegnate a ciascun collaboratore. In tutto furono impegnati per l’opera 82 studiosi di università italiane e straniere (Canada e Germania). A partire dal 1996, l’Associazione rivolse istanze agli enti regionali al fine di ottenere i fondi necessari alla stampa dei cinque volumi preventivati della Storia della Basilicata. Il progetto di questa storia ha goduto sin dall’inizio il sostegno morale del Consiglio regionale e della Giunta regionale. Alla fine del 1997 si è ottenuto anche l’impegno finanziario, con l’approvazione di una apposita legge, senza la quale difficilmente l’impresa sarebbe giunta in porto. Gabriele De Rosa   Antonio Cestaro Potenza, marzo 1998

INTRODUZIONE di Cosimo Damiano Fonseca La Lucania/Basilicata, «più che una regione ben definita è un’area residuale delimitata dalla Campania a nord-ovest, dalla Calabria a sud, dalla Puglia a sud-est: regioni, queste, che hanno una individualità ben definita»: così scriveva Umberto Toschi nel tentativo di giustificare la formazione di un’area geo-politico-amministrativa, quale è quella della Basilicata, dai confini estremamente labili e dalle polarizzazioni articolate e composite1. E che non si tratti di un giudizio esterno, sovrapposto artificialmente alla realtà regionale, varrà a dimostrarlo, sul piano più squisitamente storico, la polemica che nel 1873 oppose Giacomo Racioppi (1827-1908) a Michele Lacava (1840-1896) allorquando dal Consiglio provinciale di Basilicata, su proposta di Leonardo Belmonte (18201874), venne approvato un voto inteso a chiedere al governo nazionale la modifica in Lucania della provincia di Basilicata2. Racioppi dimostrò quanto fosse differente l’attuale circoscrizione della Basilicata da quella dell’antica Lucania, riproponendo una scansione cronologica tra la storia della Lucania e quella della Basilicata nei nuovi assetti istituzionali introdotti dalla dominazione longobarda nel Mezzogiorno d’Italia. E non è un caso che quando nel 1889 Racioppi darà alle stampe la prima edizione dell’ancora insuperata storia complessiva della preunitaria provincia di Basilicata egli inserisse già nel frontespizio il titolo

La definizione di Toschi è riferita da L. Ranieri, Basilicata, Torino 1972, p. 14. M. Lacava, La Lucania, Potenza 1874; Id., La Lucania rivendicata nel suo nome, Napoli 1874; Id., Citazioni storiche e documenti raccolti in ridifesa del nome Lucania, Potenza 1875. 1 2

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di Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, ponendo come discrimine cronologico per la formazione della nuova realtà geostorica la divisio ducatus tra Radelgisio e Siconolfo dell’849, rilevando come il gastaldato longobardo di Lucania «non indica né l’antica provincia, né la città di Pesto, né altra città», ma «un circondario o distretto e risponde a quello che si disse Cilento» e sostenendo a chiare lettere come il termine «Basilicata» fu sinonimo o di quella regione «retta da Basilici, uffiziali imperiali [...] ovvero appartenente al dominio dei Basilici per eccellenza cioè gli Imperatori di Costantinopoli»3. In definitiva, Racioppi metteva in significativo risalto la pluralità e, nel contempo, la coesistenza di differenti e articolate componenti etniche come anche una dicotomica bivalenza di questa regione. Infatti, se il nome «Lucania» si riferisce alla prima stirpe italica che l’abitò e successivamente agli insediamenti ellenici costieri e alla più recente colonizzazione romana che approdò a una marginalizzazione del ceppo italico-lucano, questo retroterra culturale e questa nobilissima eredità storica conclusero un processo e non incisero sul successivo svolgimento degli accadimenti storici della realtà complessiva della regione, sino a tal punto da dare rilevanza a quella Basilicata che nel Medioevo sarebbe assurta a un suo specifico protagonismo condizionando un processo che in futuro si sarebbe connotato con le categorie della marginalità e della dipendenza in seguito a un periodo di alterne e drammatiche vicende causato dalle varie dominazioni di segno, se non opposto, certamente diverso. Ma con Racioppi siamo all’epilogo di un itinerario storiografico che individuava nella loro specificità e originalità i caratteri propri di un «Medioevo della Basilicata» intesa, questa, come area omogenea a se stante. In realtà nella storiografia precedente, a cominciare dal XVII secolo, quando compaiono le prime opere complessive riguardanti lo sviluppo storico di quel mosaico di etnie che concorsero a definire lungo il corso dei secoli la facies culturale della regione, il Medioevo della «Basilicata» è quello della «Lucania». Ci si intende riferire a La Lucania sconosciuta di Luca Mannelli, un frate agostiniano nato a 3 Homunculus (G. Racioppi), Storia della denominazione di Basilicata, Roma 1874; Id., Paralipomeni della storia della denominazione di Basilicata, Roma 1875; Id., Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Torino 1889. Per la citazione riferita nel testo cfr. l’edizione romana del 1902, vol. II, p. 29.

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Diano (l’attuale Teggiano) e morto a Salerno nel 16724, la cui opera si pone cronologicamente dopo la Storia della Lucania del barone Francesco Sanseverino scritta nel primo quindicennio del Seicento. Come è noto, il manoscritto del Sanseverino, in seguito a una lunga fase di oblio, venne rinvenuto e inserito da Giacomo Tropea nella Bibliografia critica relativa alle opere riguardanti la Basilicata comparse tra il 1601 e il 1689, ma di nuovo se ne persero le tracce nei primi anni del Novecento5. Tornando alla Lucania sconosciuta di Mannelli va innanzitutto rilevato che sebbene inedita – ancorché già munita del placet delle autorità del suo ordine per la stampa – essa costituì un punto di riferimento per eruditi e storici degli ultimi decenni del Seicento che ad essa attinsero a piene mani, come Costantino Gatta nella Lucania illustrata, pubblicata a Napoli nel 1723, o Giuseppe Antonini nella Lucania, edita sempre a Napoli nel 1745, pur negando l’uno e l’altro ogni debito nei confronti dell’autore6. Anche nella storiografia dell’Ottocento la Lucania sconosciuta godette di diffusa conoscenza, come è attestato dalle opere di Lorenzo Giustiniani, di Pietro Napoli-Signorelli, di Domenico Romanelli, di Luigi Volpicelli, di Stefano Macchiaroli ecc.7. La consultabilità dell’opera era assicurata dalla molteplicità dei manoscritti, come il codice X-D-1-2 pervenuto alla Biblioteca nazionale di Napoli nel 1935, di cui sono stati considerati da Strazzullo apografi il codice XVIII-24 della fine del XVII secolo e il codice San Martino 371, l’uno e l’altro nella Biblioteca nazionale di Napoli8. Nella struttura dell’opera mannelliana il Medioevo occupa i primi sei capitoli del libro quinto della prima parte e le relative vicende vengono inserite in un arco cronologico che va dalla caduta dell’impero romano d’Occidente – per il quale Mannelli utilizza un termine consueto alla storiografia umanistica quale è quello della inclinatio,

4 F. Strazzullo, «La Lucania sconosciuta» in un Ms. di Luca Mannelli della Biblioteca Nazionale di Napoli, in P. Borraro (a cura di), Studi Lucani. Atti del II Convegno Nazionale di storiografia lucana, Montalbano Jonico-Matera, 10-14 settembre 1970, parte II, Galatina 1976, p. 279, nota 1. 5 G. Tropea, Contributo alla storia della Basilicata. Documenti illustrati, Potenza 1890, p. 7. 6 Strazzullo, «La Lucania sconosciuta», cit., pp. 291-92. 7 Ivi, pp. 293-97. 8 Ivi, p. 297.

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tradotto come «dechinazione del Romano Imperio» – al «dominio degli Aragonesi»: un periodizzamento, come è facile osservare, di tipo tradizionale – e non solo per la storia del Mezzogiorno – e il cui profilo viene sintetizzato in settanta pagine comprese anche quelle dedicate all’occupazione austriaca del regno9. Ma, come è stato già ricordato, una svolta di indubbia rilevanza storiografica rispetto alla tradizione erudita del Seicento e del Settecento e a una visione onnicomprensiva di un «Medioevo della Lucania» va attribuita a Giacomo Racioppi e alla sua opera, in cui con rinnovati strumenti metodologici e consapevole impegno politico-culturale conferiva, questa volta al «Medioevo della Basilicata», una sua più specifica connotazione e una riconoscibile autonomia. Nell’arco di un quindicennio, tra il 1874 e il 1889, lo storico di Moliterno pubblicò le tre opere di maggiore importanza sull’argomento che qui interessano: la Storia della denominazione di Basilicata, i Paralipomeni della storia della denominazione di Basilicata, ambedue comparse a Roma con lo pseudonimo di Homunculus rispettivamente nel 1874 e nel 1875, e la Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, edita per la prima volta a Torino nel 1899 e in edizione definitiva a Roma nel 190210. La tesi sostenuta con convinta determinazione riconosceva la migrazione del nome «Lucania» ai territori ubicati tra il Sele e l’Alento, inseriti in uno dei gastaldati del principato longobardo di Salerno, a differenza dei tre territori del Latinianon, del Mercurion e di Lagonegro, con il centro politico-amministrativo di Tursi delimitato nei confini orientali dal Basento e in quelli occidentali dai bacini del Tanagro e del Vallo di Diano, ricadenti, in seguito alla riforma amministrativa di impronta centralizzatrice effettuata da Niceforo II Foca, nel catepanato d’Italia11. Dal tema della Lucania bizantina risulterebbe esclusa l’area del basso Basento e tutto il litorale sabbioso del golfo di Taranto, cioè Biblioteca nazionale di Napoli, ms. X-D-1, pp. 235-95. Su Giacomo Racioppi e sul suo impegno culturale e politico cfr. P. Borraro (a cura di), Giacomo Racioppi e il suo tempo. Atti del I Convegno nazionale di studi sulla storiografia lucana, Rifreddo-Moliterno 26-29 settembre 1971, Galatina 1975 e il saggio di N. Calice, La lunga durata della storia del Mezzogiorno da Fortunato a Racioppi a Ciccotti, in G. De Rosa (a cura di), Storia della Basilicata, vol. IV, L’età contemporanea, Roma-Bari 2002, pp. 173-200. Cfr. altresì T. Pedio, Storia della storiografia lucana, Bari 1964, pp. 107-17 (rist. anast. Venosa 1984). 11 La bibliografia in merito è indicata supra, nota 3. 9

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quell’area cuscinetto che dal Materano degrada verso il mare, dove, sul piano delle testimonianze artistiche, si constata questo suo carattere di terra liminare propria delle civiltà a contatto e di terreno di incontro fra tradizioni occidentali e bizantine. Il termine «Lucania» scompare successivamente dal linguaggio amministrativo con il suo contenuto tradizionale, ma rimane negli scritti dei letterati come Alfano di Salerno, Guglielmo di Puglia, l’Anonimo di Venosa (tutti dell’XI secolo) e Romualdo di Salerno (fine XII) per designare una regione senza precisi confini tra la Puglia e la Calabria12. La monarchia normanna consacrerà questa frammentazione della facies politico-culturale con l’istituzione dei due giustizierati di Salerno e di Basilicata, quest’ultimo includente solo parzialmente i territori dell’antica Lucania13. Era ovvio allora come su questo retroterra dalle non ben definite partizioni geostoriche e dagli oscillanti assi gravitazionali non fosse possibile nel concreto lavoro di ricerca operare rigide delimitazioni tra le due grandi realtà territoriali della Lucania e della Basilicata, per cui non rare volte, specialmente dal punto di vista istituzionale, le interconnessioni, gli sconfinamenti, gli ampliamenti di prospettiva con aree viciniori sono risultati assolutamente necessari per cogliere la dinamicità dei processi e gli esiti che hanno interessato gli uomini e le strutture organizzative, siano esse politico-amministrative o ecclesiastiche. Comunque, nonostante la mancanza di un’etnografia omogenea, nonostante la complessità delle influenze e delle forze in campo, nonostante l’articolazione dei flussi migratori, nonostante la molteplicità delle polarizzazioni politico-amministrative, ciò che conta è che si è inteso far emergere da questa silloge di contributi sul «Medioevo della Basilicata» alcuni, e non certo secondari, caratteri identitari entrati ormai e ben a ragione nell’ethos civile e culturale della regione. Massafra, Verdemare, agosto 2004

Cosimo Damiano Fonseca

12 Cfr. A. Guillou, La Lucanie byzantine. Étude de géographie historique, in «Byzantion», XXXV, 1965, p. 124. 13 Ivi, p. 126.

STORIA DELLA BASILICATA 2.  IL MEDIOEVO

Parte prima QUADRI AMBIENTALI, POPOLAMENTO E ISTITUZIONI POLITICO-AMMINISTRATIVE

QUADRI AMBIENTALI, VIABILITÀ E POPOLAMENTO di Pietro Dalena 1. Geografia dei nomi «Lucania» e «Basilicata» Porro octava Lucania, quae nomen a quodam luco accepit, a Silere fluvio inchoat, cum Brittia, quae ita a reginae quondam suae nomine appellata est, usque ad fretum Siculum per ora maris Tyrreni, sicut et duae superiores, dextrum Italiae cornu tenens pertingit; in qua Pestus et Lainus, Cassianum et Consentia Regiumque sunt positae civitates1.

La Lucania e il suo prolungamento geografico, il Bruttium (l’attuale Calabria), formavano la III regione nella divisione amministrativa di Augusto, conservata da Giustiniano e rimasta immutata sino all’invasione longobarda, come ci ricorda Paolo Diacono. Nel Catalogus Provinciarum Italiae, da lui redatto, la Lucania (che compare come sesta provincia insieme al Bruttium)2 si estende a sud del fiume Sele, tra il Bruzio – delimitato dal Lao, dalla parte alta del Crati e dal mare a ovest – e l’Apulia, delimitata dal monte Vulture (compreso nell’Apulia), dal Bradano a est e dal golfo di Taranto. Tra le città più importanti figurano Paestum, Laino e Cassano3. Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 17, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, 48, Hannover 1987, pp. 97-98. 2 «Sexta provincia Lucana inchoat a fluvio Silere cum Oritia usque ad fretum Siculum per ora maris Tirreni, sicut et due superiores provinciae, dextrum Italie cornu tenens, pertingit. In qua posite sunt civitates, id est Pestus, Laynus, Cassanus, Cosentia, Malvitus et Regium» (ivi, p. 244). 3 A. Guillou, La Lucanie byzantine. Étude de géographie historique, in «By­ zantion», XXX, 1, 1965, p. 122. 1

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Parte prima. Quadri ambientali, popolamento e istituzioni

Procopio, nella sua relazione sulla campagna contro i Goti, ricorda che i monti della Lucania si estendevano sino al Bruzio lasciandovi solo due accessi molto stretti, «uno dei quali i Latini in loro lingua chiamano Pietra del Sangue, l’altro è chiamato da quei del paese Labula»4: il primo passaggio può essere identificato con il «Timpone rosso», situato a circa 1 km a sud-est di Cassano, lungo la traiettoria Sarmento-Raganello-Eiano, un diverticolo di collegamento tra la litoranea via de Apulia e la via ab Regio ad Capuam5; il secondo si troverebbe lungo la via de Apulia, a Torre Bollita presso Nova Siri Scalo6. Solo nel IX secolo, con la divisio ducatus tra Radelchi e Siconolfo (849), l’antica provincia romana si smembrò in una serie di «gastaldati». Al duca Siconolfo venne attribuita la parte sud-ovest dei domini longobardi del Meridione, composta dai gastaldati di Taranto, Latiniano, Cassano, Cosenza, Malvito (nel codice Cassinese 353: Laino e Lucania), Conza, Montella, Rota, Salerno, Sarno, Cimitile, Forchia, Capua, Teano, Sora e metà del gastaldato di Acerenza, a confine tra i gastaldati di Latiniano e di Conza7. Pertanto la Lucania longobarda, molto ridotta rispetto alla Lucania romana, avrebbe preso il suo nome, come del resto gli altri gastaldati, dalla città più importante del territorio, Lucania, città scomparsa, ma attestata dalla documentazione del IX-XII secolo8. Dopo la riconquista bizantina, promossa nella seconda metà del IX secolo da Basilio I il Macedone, e la creazione del tema bizantino della Lucania (documentato nella prima metà dell’XI secolo)9 con centro amministrativo in Tursi, legata alle vie fluviali e 4 Procopio, La guerra gotica, a cura di D. Comparetti, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 24, vol. II, Roma 1896, III, 28, p. 380. 5 G. Noyé, La Calabre et la frontière, VIe-Xe siècle, in J.-M. Poisson (a cura di), Castrum 4. Frontière et peuplement dans le monde méditerranéen au Moyen Âge. Actes du colloque d’Erice-Trapani (Italie) tenu du 18 au 25 septembre 1988, «Collection de l’École Française de Rome», 105, Roma 1992, p. 290. 6 Guillou, La Lucanie byzantine, cit., p. 123. 7 Chronicon Salernitanum, edidit G.H. Pertz, in MGH, SS, III, Hannoverae 1839, p. 510. 8 Una città denominata Lucania è presente in documenti del IX-XII secolo: nell’817 e 819 è ricordata dal monaco Giovanni (Chronicon Vulturnense, a cura di V. Federici, 3 voll., «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 58-60, vol. I, Roma 1925-40, pp. 232 e 264); nell’877 è ricordata da Erchemperto (Historia Langobardorum, in MGH, SS, III, cit., p. 243); nel 1113 negli Annales Cavenses (MGH, SS, III, cit., p. 191). Pertz la identifica con Paestum (MGH, SS, III, cit., p. 243); e la sua esistenza è accettata anche da André Guillou (La Lucanie byzantine, cit., pp. 125-26). 9 André Guillou ritiene che il tema di Lucania, istituito verso il 975, fosse costituito dalle turme del Latinianon – comprendente Tursi, Acerenza, Pietrapertosa,

P. Dalena   Quadri ambientali, viabilità e popolamento

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terrestri della regione, si definì la duplicità politica e geografica della regione in una parte longobarda a nord e una bizantina a sud, aventi come demarcazione una linea immaginaria che dal Basento toccava Acerenza, il cui territorio a sud era compreso nell’Apulia. All’indomani della conquista normanna, la Lucania venne divisa nei due giustizierati di Salerno e di Basilicata: un termine, quest’ultimo, che compare per la prima volta nel XII secolo10. Un privilegio di Guglielmo II del 1168, a favore dell’igumeno Bartolomeo del monastero di Carbone, consente di delineare l’estensione geografica della Lucania storica, che coincideva approssimativamente con la circoscrizione archimandritale del XII secolo: «a Salerno et veniunt per Ebolum et Olivetum et Consiam et inde Melfiam, sicut descendit flumen Aufidum et vadit ad Oliventum, et ab Olivente usque ad Basentellum, quod vadit subtus montem Solicolum, et sic descendit Basintellum ad Bradanum et sicut descendit Bradanum ad turrem maris [Metaponto] et inde per maritimam maritimam usque ad crucem Orgeoli [Oriolo]11 et sicut itur per terram, que fuit Alexandri

Tricarico, Carbone, San Chirico Raparo e Oriolo –, del Mercurion nell’alta valle del Lao e di Lagonegro con Lauria, Lagonegro e Rivello (Guillou, La Lucanie byzantine, cit., pp. 119 sgg.). Vera von Falkenhausen, invece, sostiene che il tema, istituito tra il 1031 e il 1042 in una fascia di territorio tra il fiume Lao e il Crati con capoluogo Cassano, si estinse prima del 1051 (V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, pp. 65-72). Filippo Burgarella ritiene che l’istituzione del tema sia da ascriversi ai primi decenni dell’XI secolo, forse in relazione alla conquista normanna e alle mire egemoniche del principe longobardo Guaimario V (F. Burgarella, Le Terre bizantine, in G. Galasso, R. Romeo [a cura di], Storia del Mezzogiorno, vol. II/2, Il Medioevo, Napoli 1989, pp. 485-86). 10 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, vol. II, Roma 1889, p. 17. 11 Ugo Falcando attesta che a metà del XII secolo Oriolo rappresentava il confine tra Apulia e Calabria: «Orgeolum, quod in Apulie Calabrieque confinio situm est» (U. Falcando, La Historia o Liber de Regno Sicilie e la Epistola ad Petrum panormitane Ecclesie thesaurarium, a cura di G.B. Siragusa, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 22, Napoli 1968, p. 75. Idrisi, invece, nello stesso periodo, indica il confine tra Franchi e Longobardi a Pietra di Roseto e lo segna a una distanza di 12 miglia da Roseto Capo Spulico e a 6 miglia dal fiume Sinni (Idrisi, Il Libro di Ruggero. Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, traduzione e note di U. Rizzitano, Palermo 1994, p. 71). Questa distanza corrisponde esattamente a Torre Bollita presso Nova Siri Stazione (P. Dalena, Strade e percorsi nel Mezzogiorno d’Italia (secc. VI-XIII), Cosenza 1995, pp. 25-26, nota 75).

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Parte prima. Quadri ambientali, popolamento e istituzioni

Clarimontis absque Cassano et sicut itur per vallem Layni et descendit ad Bellum viderem et inde revertuntur per maritimam maritimam et vadit usque Salernum»12. Per l’età normanno-sveva è difficile ricostruire con maggiore precisione i confini del giustizierato di Basilicata per l’insufficiente documentazione; invece, è più semplice per l’età angioina sulla base dei numerosi dati forniti dai cedolari. Nel 1277 i limiti amministrativi erano scanditi a nord dall’alto corso dell’Ofanto e a nord-est da Lavello; poi, lasciando Montemilone al giustizierato di Terra di Bari, oltrepassavano il torrente Basentello comprendendo Spinazzola. A est erano costituiti dal corso del Bradano, che includeva Montescaglioso e lasciava Matera, Metaponto e Torre di Mare al giustizierato di Terra d’Otranto. A sud, a confine col giustizierato di Val di Crati, sul versante ionico comprendevano Rocca Imperiale e Nocara e sul versante tirrenico Avena e Papasidero. A ovest erano distinti dal giustizierato di Salerno, che comprendeva Vietri di Potenza, Salvia, Sant’Angelo le Fratte, Brienza e Marsico Nuovo. Questo limes risulta fluttuante, riducendosi già nel 1320 per la perdita di Nocara, Saponara e Marsico Nuovo13. Dal quadro giurisdizionale appena disegnato a grandi linee emerge un tessuto geografico e politico disomogeneo, con il Melfese e il Materano gravitanti sull’Apulia, mentre il baricentro regionale risulta per lungo tempo spostato verso la Campania, accorpando gran parte del Cilento e il Vallo di Diano. Pertanto, la Lucania/Basilicata si connota con una matrice storica di scarsa coesione territoriale, in cui il processo di regionalizzazione non si fonda su alcune costanti geografiche e storiche rivolte a renderla omogenea, con un centro e una periferia che risultino complementari e integrati l’uno con l’altra14. La duplice 12 W. Holtzmann, Papst- Kaiser- und Normannen-urkunden aus Unteritalien, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», XXXVI, 1956, pp. 67-69. Puntuali considerazioni sulla geografia politica dell’archiman­ dritato di Carbone sono state fatte da V. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in epoca bizantina e normanna, in C.D. Fonseca e A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 84-85. 13 G. Luisi, Territorio e popolazione della Basilicata nel Medioevo, in A. Giganti, R. Maino (a cura di), Popolazione, paesi e società della Basilicata, Bari 1989, p. 11. 14 N. Cilento, La Lucania Bizantina, in «Bollettino storico della Basilicata», 1, 1985, p. 96.

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denominazione Lucania/Basilicata persiste a lungo per identificare una regione complessa dai confini instabili, come ricorda nei primi decenni del XVI secolo Leandro Alberti, che, nel descriverla quale sesta regione d’Italia, distingue la parte geografica corrispondente alla Lucania di tradizione longobarda, ricadente approssimativamente tra il Sele e il Lao, da quella di tradizione bizantina, propriamente detta Basilicata, a sud di Rocca Imperiale, cioè tra l’antico confine di Torre Bollita (Nova Siri Scalo) e il Bradano, sino a comprendere tutto il Materano15. 2. I corsi d’acqua In un’epistola di Atalarico a Severo del 527 si ricorda come il nome Lucania, secondo un’antica superstizione, derivi dalla ninfa marina Leucotea: «Leucothea nomen accepit, quod ibi sit aqua nimio candore perspicua»16. Infatti il suo territorio è solcato da numerosi corsi d’acqua, di media o scarsa portata – fiumi, torrenti, fiumare, bacini –, che nel Medioevo scandirono le alterne vicende del popolamento e i ritmi lenti dei processi economici e di urbanizzazione. I fiumi Bradano, Basento, Cavone, Agri, Sinni e Sarmento incidendo la morfologia di una vasta area regionale, compresa tra Potenza, Matera e lo Ionio, formano i bacini naturali che condizionarono il sistema di comunicazioni, le attività economiche e persino la mentalità e la fortuna delle popolazioni delle valli. Nelle fonti agiografiche, a questi fiumi, alle loro acque, ai loro straripamenti, alle inondazioni si legano numerose vicende civili e religiose. L’acqua come referente principale di ogni forma insediativa e di sopravvivenza, ma anche come strumento di ascesi, di purificazione e di penitenza: san Vitale, giunto in Lucania, si trasferì presso Rapolla, dove fondò un monastero in un luogo ricco di acqua: «Inde rursum profectus venit, et habitavit secus flumen in partibus civitatis Rapollae, ibi silvestrem nactus locum, jeiuniis deditus, et orationibus semper intentus, suam

15 L. Alberti, Descrittione di tutta l’Italia et Isole pertinenti ad essa, Venezia 1596, ff. 193r-197v e 221v-223v. 16 Cassiodoro, Variae, a cura di Th. Mommsen, in MGH, Auctores Antiquissimi, 12, München 1981, VIII, 33, pp. 261-63.

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constituit mansionem»17. Quelle medesime acque – fiumi e fiumare – rievocavano anche momenti di paura e di terrore per le devastanti alluvioni che cancellavano strutture insediative e segni di attività economica: «Alluvionibus copiosis per Latiniani regiones ingruentibus, et torrida colluvie in flumen Signum praecipiti adducta, illud ita crescere coepit, ut non modo proximas vineas destruere minaretur»18. Dopo la fase alto-medievale, distintasi per la povertà di fonti topografiche, dai primi decenni del XII secolo i corsi d’acqua colpiscono l’immaginario dei geografi, che, richiamandosi ai valori del passato, li contestualizzano cogliendone la loro funzione e il senso del cambiamento ambientale, gli aspetti nuovi e più significativi del paesaggio che via via si urbanizza: Metapontus, fulgentissima ac fertilis atque nobilitate insignis [...], huius menia duo irrigui ac pulcherrimi amnes ambiunt, dextra levaque mari influentes vastissime, Bradanus amenissimus, qui et Tardus propter sinuosos orbes sui discursus, unde et Bradinos grece dicitur, et Basentius defluus et omni gravitate fecundus, propter quod grece Basintos quasi badizon sintomos appellatur19.

Nella descrizione dei geografi medievali i fiumi più rilevanti rappresentano un’importante costante ambientale di cui si cominciano a rilevare tutti i connotati fisici e gli aspetti concreti e funzionali legati a un più razionale governo del territorio. Ruggero II, per esempio, «quando i territori dei Rum gli prestarono ubbidienza e le loro genti passarono sotto la sua sovranità», per meglio governarli, volle conoscere «la reale situazione dei suoi domini ed averne notizie chiare e precise: conoscerne i confini, gli itinerari terrestri e marittimi, l’ubicazione di ciascun territorio in rapporto ai climi, i relativi mari e golfi»20. E la Lucania, ora Basilicata, appare pienamente incardinata 17 De S. Vitale siculo, in Acta Sanctorum Martii, II, Parisiis et Romae 1865, p. 32. Sul valore di sopravvivenza, di ascesi, di purificazione e di penitenza dell’acqua nel contesto dell’agiografia italo-greca cfr. C.D. Fonseca, «Et habitavit secus flumen...»: i percorsi fluviali di Basilicata in età medievale, in AA.VV., Le vie dell’acqua in Calabria e in Basilicata, Soveria Mannelli 1995, pp. 249 sgg. 18 Historia et laudes SS. Sabae et Macarii iuniorum e Sicilia auctore Oreste Patriarcha Hierosolymitano, a cura di I. Cozza-Luzi, Roma 1893, p. 23. 19 Guidone, Geographica, a cura di J. Schnetz, in Itineraria Romana, vol. II, Stuttgart 1990, p. 118. 20 Idrisi, Il Libro di Ruggero, cit., p. 18.

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nel progetto politico dei Normanni che in Venosa e Melfi trovarono due punti strategici21. E, per la prima volta, la rete idrografica che alimentava la regione, intesa come instrumentum regni, viene annotata e descritta con accentuato interesse: Il fiume di Senise [Serapotamo]. Esso scaturisce dai monti Carbone, scorre tra Calvera e Castronuovo (di Sant’Andrea), passa davanti a Senise stessa ma dopo un breve tratto eccolo unirsi al Sinno. Corre quindi davanti a F.yàd [Valsinni], arriva di fronte a Shant Bard. K.mmayrah (?) e di là volge al mare. Quanto al fiume Sinno, esso sgorga dal monte Sirino e fluisce fino a congiungersi con il fiume di Senise [Serapotamo]; insieme proseguono in direzione di F.yàd indi verso Shant Bard. K.mmayrah ed infine sfociano nel mare. Il monte Sirino fronteggia Viggiano: fra Chiaromonte e Viggiano e fra il monte citato e Chiaromonte corrono dodici miglia, quindici fra il monte stesso e Viggiano. Anche il fiume Agri ha la sua sorgente sul versante occidentale del monte Sirino, scorre verso Sarconi, passa vicino a San Martino d’Agri giunge al castello di Aliano e quindi, scorrendo ad una certa distanza da Anglona, volge verso il castello Policoro e poi al mare. Il fiume di Potenza, chiamato anche Basento, scaturisce da un monte nei pressi di quella città, lambisce il territorio di una località detta Tricarico, scorre quindi a levante di un borgo di nome Grottole fino a giungere ad est di Miglionico, che lascia alla distanza di circa quattro miglia e mezzo. Le sue acque defluiscono poi verso la località Chiesa di San Teodoro e subito dopo verso una terra chiamata T.rt.grìr (?) di cui sfiora la porta destra, e finalmente si versa in mare. Il Bradano è un fiume che scorre senza mescolare le proprie acque con quelle del Basento. Esso dapprima si presenta diviso in due piccoli rami fluenti fra due città chiamate l’una Luqharah (?) e l’altra Potenza, in direzione di Rocca San Giuliano, dove confluiscono e prendono il nome di fiume Bradano il quale scorre allora fra i campi coltivati fino al mare. Sulle rive di questo fiume crescono in abbondanza i pini che, tagliati, vengono trasportati al mare sulla corrente fluviale; e se ne estrae pece e catrame di cui si approvvigionano vari paesi. […] Il fiume Agri non passa fra Sant’Arcangelo e Tursi ma piuttosto li fronteggia, alla distanza di un miglio e mezzo dalla prima località, ma molto meno dalla seconda. Dodici miglia fra Tursi e Montemurro, di cui il fiume lambisce il territorio. La sorgente dell’Agri è

21 H. Houben, Melfi, Venosa, in G. Musca (a cura di), Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari 21-24 ottobre 1991), Bari 1993, pp. 311-31.

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nel monte Pietra Maura lontana diciotto miglia dal centro urbano; esso da Marsico arriva a Tursi e a Sant’Arcangelo22.

Idrisi assegna minore importanza ai fiumi lucani del versante tirrenico (mare Gallicum), cioè quelli dell’area strettamente longobarda, a cui, se si esclude il fiume di Diano (Tanagro), dedica pochi dettagli: Il fiume Lao ha la sorgente innanzi a Mercuro donde scorre verso il territorio che fronteggia Scalea, quindi si dirige a mare. Il fiume di Rivello [Noce], che scaturisce da un colle, scorre verso Castrocuccaro e Maratea e di là volge al mare. Sei miglia corrono fra Scalea ed il suo corso, distante da Maratea un solo miglio23. Il fiume di Policastro [Bussento] scorre dal territorio situato davanti a Shant Sit.ri (?) verso Policastro e poi si versa in mare. Il fiume di Diano (fiume Tanagro) ha la sua prima sorgente a Montesano, scende quindi verso Padula, attraversa la regione fra Diano e Sala Consilina, volge verso Polla, passa davanti Auletta e nei pressi di Contursi quindi si unisce al Sele. Il fiume di Caselle (Serapotamo) scende dal monastero di Akràn, passa da Caselle e confluisce nel fiume Policastro (il Bussento)24.

I bacini dei fiumi Sinni, Agri, Basento e Bradano, come già detto, segnarono importanti processi di antropizzazione dalle coste ioniche all’interno della regione, alimentarono l’economia locale con numerosi mulini idraulici, con una fiorente agricoltura e con approdi di grande utilità per i commerci. Buoni ancoraggi, infatti, sono segnalati a Torre di Mare/Metaponto25, alla foce del Basento, del Sinni e dell’Agri, quest’ultimo ricordato anche in una donazione del 1092 all’abbazia della SS. Trinità di Venosa da parte di Ugo di Chiaromonte26. Il paesaggio metapontino, tra Bradano e Basento, dominato da estese pinete, era condizionato nel suo aspetto fisico e nella sua economia Idrisi, Il Libro di Ruggero, cit., pp. 115-16. Ivi, p. 118. 24 Ivi, pp. 118-19. 25 P. Dalena, Torre di Mare (Metaponto) nel medioevo, in «Siris, Rivista della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università di Potenza, sede di Matera», in corso di stampa. 26 H. Houben, Die Abtei Venosa und das Mönchtum im normannisch-­staufischen Süditalien, «Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 80, T ­ übingen 1995, p. 295, nota 62. 22 23

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dai capricci dei due fiumi, dalla loro incostante portata e dall’esito, a volte devastante, di alcune calamità naturali: nel 1243 un’alluvione eccezionale comportò lo spostamento del tratto terminale del Bradano – e forse anche del Basento, più a sud-est – e conseguentemente l’abbandono dell’alveo del fiume, in cui vi era un approdo o, più probabilmente, una struttura portuale che aveva rimpiazzato l’antico porto di Metaponto27. Infatti, si tratterebbe di una struttura più complessa di un semplice approdo per imbarcazioni di piccola stazza se lungo la costa ionica lucana i portolani vi segnalano genericamente soltanto due porti attrezzati, «Policole» (Policoro) e «Torre da mare» (Torre di Mare/Metaponto) che dava anche il nome al golfo, e lungo quella tirrenica i porti di «Panicastro» (Policastro) e di Scalea lungo una fascia costiera di «XXV millara»28. I fiumi della costa ionica (Bradano, Basento, Agri, Sinni e Cavone o Chelandra/Salandra29), guadabili d’estate, d’inverno con l’aumento della portata generalmente divenivano tutti navigabili almeno alla foce; sicché, intersecando a pettine la via de Apulia, era possibile attraversarli solo con zattere e barche oppure superarli tramite dei ponti di legno. Dalla fine dell’XI secolo sono attestati la costruzione di alcuni ponti, come quello sull’Agri, nei pressi di Policoro, realizzato nel 1100 da Ruggero di Pomareda30, e il traghetto di alcuni fiumi con barche, come quella che, capace di contenere dieci cavalli, nel 1232 consentiva di passare dall’una all’altra sponda dell’Agri31. Ancora nel XVI secolo, Leandro Alberti annota l’esistenza di numerosi ponti di legno lungo la litoranea e la possibilità di superare il Bradano solo passando «per il ponte di legno in quel tempo fattogli sopra»32.

Fonseca, «Et habitavit secus flumen...», cit., p. 270. B.R. Motzo (a cura di), Lo Compasso da navegare, Cagliari 1947, pp. 23 e 25. 29 F. Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli 1865, p. 127, doc. XCVII; D. Pannelli, Le memorie bantine. Le memorie del monastero bantino o sia della badia di Santa Maria in Banzia, ora Banzi, pubblicate d’ordine del cardinale di Sant’Eusebio abate commendatario di essa badia da Domenico Pannelli suo segretario, a cura di P. De Leo, Banzi 1995, pp. 101-102. 30 P. Dalena, Ambiti territoriali, sistemi viari e strutture del potere nel Mezzogiorno medievale, Bari 2000, p. 42. 31 Federico II nel settembre 1232 concede al monastero di Carbone «potestatem habendi libere barcam unam in flumine Acri [...] capacem equorum decem, cum qua et in qua transvehi possint ultro citroque» (J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici secundi, 6 voll., Parisiis 1852-59, vol. IV/1, pp. 387-89). 32 Ivi, f. 223r. 27 28

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Il quadro idrografico lucano viene arricchito da molteplici corsi d’acqua interni di cui si trova traccia nella documentazione dei monasteri greci e latini, che, generalmente ubicati lungh’essi, tra X e XIII secolo, vi stabilirono un legame sinergico. Il diruto monastero dedicato a san Giuliano, restaurato da san Luca, era ubicato «juxta flumen Agrumenti», cioè lungo il fiume Agri33, mentre il monastero di Santa Maria di Banzi, attestato già tra la fine dell’VIII e i primi decenni del IX secolo nel cuore della Lucania, aveva la maggior parte delle sue tenute strettamente collegate a fontane e vie d’acque minori: dal Banzullo al «vado de Planea», dove conflui­ vano le acque provenienti da Genzano e da Ripalta, dalla fontana de Campora alla fontana di Lurubutale, dal Basentello alla fontana del Visciolo, dalla lama delle Puzzelle al valloncello denominato Acquapendente, dal rivoletto di Cervarezza al «flumen Libente», detto anche La Fiumarella, che segnava il confine tra Palazzo San Gervasio e Venosa, dall’Acqua Bella al torrente Valera, dalla fontana del vallone del Carpinello alla Ripa alta che si versava nel Banzullo34. Questi fiumi caratterizzavano il paesaggio agrario e forestale della regione e favorivano segnatamente lo sviluppo dell’economia feudale e le attività collegate alle peschiere e all’impianto di alcuni mulini, come quelli appartenenti al monastero del Sagittario, ubicati in località Ventrile, lungo il corso del Frida, lungo il fiume Sinni e, a confine col territorio del Rubio, lungo il Villanito, un rivolo di acque perenni che scaturivano dalle montagne demaniali di Chiaromonte35. 3. I boschi I boschi di pino lungo la fascia ionica, di castagno all’interno nella zona compresa tra Marsico e Chiaromonte, di querce, di abete e di leccio lungo il versante tirrenico, costituivano durante il Medioevo un elemento tipizzante il paesaggio vegetale della regione e una risorsa economica tra le più cospicue. Idrisi ricorda i pini che crescevano in abbondanza lungo le rive del Bradano e che, tagliati, venivano tra-

33 De S. Luca Abbate Confessore, in Acta Sanctorum Octobris, VI, Parisiis et Romae 1868, p. 339. 34 Fonseca, «Et habitavit secus flumen...», cit., pp. 254-56. 35 Dalena, Ambiti territoriali, cit., p. 143.

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sportati al mare sulla corrente fluviale; se ne estraeva pece e catrame di cui si rifornivano molti paesi36. Ella [Lucania] è questa regione per maggior parte montuosa, ove si trovano assai precipitosi passi, et pericolosi, per le folte selve, che vi sono, ove si nascondono le fiere37.

Nonostante le frequenti opere di disboscamento e di urbanizzazione documentate tra X e XIV secolo, la Lucania del versante tirrenico ancora nel XV secolo appare densamente coperta di boschi e ridente di valli amene dove «le rose fioriscono due volte l’anno»38. Il bosco del giustizierato della Basilicata, sebbene evocasse ancestrali paure per la presenza di «latrones, lupi, serpentesque», in particolare in età sveva e angioina, rivestiva molta importanza per l’esercizio venatorio del sovrano e per l’economia locale legata allo sfruttamento del sottobosco e all’uso del legname nel settore edile39. Nelle foreste regie della regione (Lagopesole, San Gervasio, Pereguallo, Guasto di Vitalba, Lavello, Monteverde, Rocchetta, Lacedonia, Oriolo, Rotondella, Chiaromonte ed Episcopia) Federico II praticava la caccia col falcone, realizzando peraltro un parco presso Gravina, a Melfi e a Lagopesole per trascorrere l’estate «a cacciare a suo diletto»40. E «i piaceri della caccia, la freschezza delle acque sorgive, l’aria viva dei monti e della foresta» di Lagopesole spinsero anche Manfredi e Carlo I d’Angiò a soggiornarvi frequentemente41. Il territorio forestale di Lagopesole circostante il castello toccava i tenimenti di Rapolla, Melfi, Ripacandida, Forenza, Avigliano e Pietragalla42: un’estensione

Idrisi, Il Libro di Ruggero, cit., p. 116. Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., f. 175v. 38 Ibid. 39 M.S. Calò, L’arte del duecento in Puglia, Torino 1984, p. 67. Sull’uso del legname lucano e sui diritti che vi gravavano cfr. I Registri della Cancelleria Angioina, vol. VI, 1270-1271, Napoli 1954, p. 345, n. 1881. 40 A. Giganti, Federico II e la Basilicata, in «Bollettino storico della Basilicata», 6, 1990, p. 67. 41 Saba Malaspina, Rerum Sicularum Historia (1250-1285), in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, vol. II, Napoli 1868, p. 227. 42 I confini della foresta di Lagopesole sono noti attraverso un ms. XII-B-45, cc. 293a-294a, della Biblioteca nazionale di Napoli, pubblicato nel 1931 da Gennaro M. Monti col titolo Fines tenimenti foreste Lacuspensule secundum antiqum [sic] regestrum Imperatoris Fruderici [sic] videlicet: «A prima parte incipiunt a loco qui 36 37

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notevole che nel 1278 richiedeva la custodita di quattro forestarii a cavallo e quattro a piedi e, ancora nel 1530, «girava intorno intorno da circa miglia quindece»43. La presenza di aziende monastiche in aree dominate dalla selva e dal bosco contribuì a valorizzarne le risorse e ad accrescere la cifra economica. Il monastero cistercense del Sagittario, ubicato «in densissima sylva», in territorio di Chiaromonte, ricca di «abietibus, dicitur Portelle et deinde proceditur de serra in serram usque ad serram montis Milivensis et deinde sunt miliaria duo et dividunt tenimenta Rapolle et Melfie. Deinde proceduntur ad flumen de Trepis et ascendunt usque ad Ciliam vel ad milum [?] siricum et ex parte ipsa sunt miliaria duo et dimidium tenimenti Caldarie et Armigeri Deinde usque ad Sanctum Martinumalias familacia [sic] de Florencia usque ad confinia Caldarie et ex parte ipsa sunt miliaria quatuor et dividunt tenimenta Caldarie et Armigeri. Deinde proceduntur usque ad montem de Anglone et ex parte ipsa sunt miliaria duo et dimidium tenimenti Avillani et a monte Anglone protenduntur usque ad serras de aqua saleria et ex parte ipsa est miliare unum et dividunt tenimenta Avillani. Deinde proceduntur ad ecclesias Sancti Angeli alias stratam perfractam usque ad ecclesiam Sancti Nicolai de Castania et ex parte ipsa sunt miliaria duo et dividunt tenimenta Ravuti Deinde proceduntur ad nemus quod dicitur Spinosa et per tenimentum Petregalle usque ad vallonem Avillani et ex parte ipsa sunt miliaria tria et dividunt tenimenta Petregalle Deinde proceduntur usque ad vallonem Carienti et per serras usque ad portam seu petram Solane et ex parte ipsa sunt miliaria tria et dividunt tenimenta Casalis Asperi Deinde proceduntur ad molendinum montis Marcone et ex parte ipsa sunt miliaria duo et dividunt tenimentum Sancti Juliani A molendino proceduntur secus vineam Curie que est in tenimento alias territorio Montis Marconi usque ad ponticellum quod est inter fines Florencie et fines Montis Marconi et ex parte ipsa sunt miliaria quatuor et dividunt tenimenta Sancti Juliani et Florencie Deinde proceduntur secus quemdam arborem que dicitur Cilia usque ad Pesclum Caperronem et ex parte ipsa sunt miliaria quatuor et dividunt tenimenta Florencie A Pesclo Caperrone proceduntur usque ad nemus Comitis et ex parte ipsa sunt miliaria tria et dividunt tenimentum Ripecandide Et a nemore Comitis proceduntur de serra ad serram supra Casalis Rivinigri per viam montis Milievensis qua itur Melfia et reddunt ad locum qui dicitur Portella que est primus finis et ex parte sunt ad locum miliaria quinque et dividunt tenimenta Ripe Candide et Rapollis» (G.M. Monti, Cinque postille di storia calabro-lucana, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 1, 1931, pp. 1-18, in particolare pp. 9-10, doc. I). 43 G. Fortunato, Il castello di Lagopesole, Trani 1902, pp. 114, 175, 250.

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castaneis, quercubus, ilicibus, nucibus avellanis, cerasis, pyris, pomis aliisque fructiferis et infructiferis arboribus», nel XIII secolo possedeva boschi anche a Rotondella, a Nova Siri e a Policoro, quest’ultima caratterizzata dalla densa foresta del Pantano ricordata da Lenormant44. Nei boschi del monastero del Sagittario germogliavano varie erbe medicinali con cui i monaci confezionavano tisane e infusi salutiferi: «testiculo vulpis, saxofragia, angelica, lupatoria, valeriana, peucedamo, lunaria, paride, serpentaria, garofolaria, manuchristi, lingua cervi, dentaria, bettonica, anemona, pyonica, anonide, palmachristi sive morsu diaboli, turbite, sanguinaria, stellaria, capilloveneris, salvia, pyretro, abrotano, stellaria, polipodio quercino, lingua passeris, imperatoria, hystopo montano, chamaleone bigeno, agrifugina, dragada, cardo mastice fundente»45. L’importanza ecologica, economica e venatoria della cospicua estensione di boschi lucani è rimarcata non solo dai provvedimenti di tutela dell’imperatore svevo46, ma anche dal complesso di disposizioni con cui i sovrani angioini cercarono di arginare il malcostume del disboscamento incontrollato e l’attività stessa dei magistri forestarii e di quei forestarii che consentivano la crea­zione di nuove difese non autorizzate. Con i Capitoli di San Martino del 1283 e dell’8 settembre 1289, prima Carlo I e poi Carlo II dettero impulso alla politica di tutela forestale, promuovendo un’inchiesta «de antiquis et veteribus forestis ac finibus earundem» per evitare i tagli indiscriminati e gli abusi commessi dai forestali che agevolavano il depauperamento del manto boschivo. La politica di rigore e di tutela del paesaggio degli Angioini se interrompeva la consuetudine di realizzare forme spontanee di urbanizzazione, come le strade, e riduceva il fenomeno del disboscamento, paradossalmente vi accentuava la presenza del banditismo e del brigantaggio, che, annidandosi nei boschi, ne controllavano le risorse e le strade maestre47. Foreste, selve, selve nere (silvae nigrae), paludi, prati, fossi, corsi d’acqua, fontane, 44 F. Lenormant, La Grande-Grèce. Paysage et histoire, vol. I/2, Paris 1881, p. 194; P. Dalena, Basilicata Cistercense (Il Codice Barb. Lat. 3247), «Università degli Studi di Lecce, Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età Contemporanea. Itinerari di ricerca storica. Supplementi», 14, Galatina 1995, p. 52. 45 Dalena, Basilicata Cistercense, cit., p. 52. 46 Die Konstitutionen Friedrichs II. für das königreich Sizilien, a cura di W. Stürner, in MGH, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II. Supplementum, Hannover 1996, pp. 202-203. 47 Dalena, Ambiti territoriali, cit., pp. 133-34.

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laghi, tratturi, valli, colli e monti caratterizzavano l’habitat fisico della regione lentamente urbanizzata dai processi di antropizzazione e in qualche settore modificata anche dalle calamità naturali; ma furono soprattutto la montagna e il bosco, sin dai tempi di Procopio, a dominare il paesaggio regionale e a impressionare i viaggiatori moderni, che descrivono i numerosi pantani della costa ionica, i folti e paurosi boschi e «l’asperità, et difficultà dei monti, che vi sono, et per le vie tortuose, sassose et fangose ne’ tempi del verno, tanto faticose, et fastidiose»48. Boschi molto estesi e sempre folti che l’attività monastica e l’impegno degli abitanti locali non riuscirono a bonificare completamente, pur tracciando sentieri e realizzando opere più o meno estese di urbanizzazione: ancora nel XV secolo in alcuni boschi della Basilicata i misuratori incontravano notevoli difficoltà nell’assolvere il loro compito per la povertà di strade forestali49. E nel 1811 l’agente Domenico de Benedictis, inviato nella media valle del Sinni per la suddivisione dei demani comunali, nella corrispondenza col commissario Domenico Acclavio dichiarava l’impossibilità di procedere nel suo lavoro di compassatore «se prima non si fanno ne’ boschi le strade per menarsi il compasso»50. 4. La viabilità alto-medievale Giovanni [generale bizantino] con i suoi, ch’eran mille, trovavasi allora in Lucania intento ad accamparsi dopo avere spedito esploratori, i quali tenevansi in osservazione su tutte le strade perché le truppe nemiche non venissero a danneggiarli. Totila però, calcolando non esser possibile che Giovanni se ne stesse accampato senza esploratori, lasciate da parte le vie consuete marciò pei monti che colà sorgono dirupati ed alti assai; cosa che niuno avrebbe immaginato, poiché quei monti sono considerati come impratticabili51.

Procopio, avendo esperienza diretta dei luoghi, percepisce l’esistenza in Lucania di un duplice ordine di strade: le vie maestre o Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., f. 175v. A. Giganti, Francavilla nella media valle del Sinni. Origini di un microcosmo rurale del secolo XV, Bari 1997, pp. 40-41. 50 Ibid. 51 Procopio, La guerra gotica, cit., III, 26, p. 371. 48 49

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pubbliche, di origine romana e d’importanza strategica per il collegamento tra le diverse parti del Mezzogiorno (che per ragioni orografiche seguivano con andamento rettilineo tracciati pedemontani, lungo i bacini fluviali o litoranei), e i sentieri aspri e difficili, poco più che mulattiere, con percorsi tortuosi e precari, di cresta o di crinale, generalmente noti soltanto agli indigeni e occasionalmente agli esploratori militari. La presenza di un efficiente e funzionale reticolo microviario, organico al territorio, è attestata sin dal primo Medioevo dall’ampio bacino d’utenza della fiera di Marcellianum, che, ubicata nel nodo viario in cui la direttrice ab Capua ad Rhegium s’intersecava con la strada diretta verso Grumentum e la Val d’Agri, molto verosimilmente nei pressi di Montesano Scalo, interessava tutta la Lucania, l’Apulia e il Bruzio52. La rete delle piccole strade, generalmente mulattiere, sentieri e tratturi, in Lucania, come del resto in tutto il Mezzogiorno, era estremamente fragile e variabile, legata a circostanze climatiche e stagionali, come l’innevamento dei monti o gli smottamenti e gli impaludamenti causati dalle piogge: piccole strade sterrate, sorte anche spontaneamente, per collegare localmente i centri di interesse sociale o le singole proprietà e per soddisfare i molteplici bisogni di comunicazione locale. Il loro sviluppo è legato all’espansione antropica e ai ritmi di urbanizzazione che segnano il principio e le condizioni di modificazione del territorio. Gli itinerari minori, battuti da viandanti e da bestie da soma, raccordandosi con le arterie pubbliche, permettevano di collegare agevolmente le varie parti della regione, l’interno alle coste con percorsi flessibili, adatti anche ai carri tirati da buoi, di cui vi era grande abbondanza nella regione, che ben si adattavano sia ai sentieri difficili e tortuosi che ai lunghi e più agevoli itinerari53: il generale Giovanni, per esempio, dalla Lucania condusse a Ostia i carri carichi di cereali tirati da buoi seguendo una strada costiera54. Gli itinerari litoranei, più comodi e 52 Cassiodoro, Variae, cit., p. 262. Sulla fiera di Marcellianum e sul suo ampio bacino d’utenza cfr. F. Burgarella, Tardo antico e alto medioevo bizantino e longobardo, in Storia del Vallo di Diano, vol. II, Età medievale, Salerno 1982, pp. 15 sgg. 53 Nella regione calabro-lucana vi era una tale abbondanza di buoi che, prima della guerra greco-gotica, a scopo annonario, si rifornivano anche i mercati di Roma dove venivano condotti «tam multis itineribus» (Cassiodoro, Variae, cit., p. 353; cfr. anche Procopio, La guerra gotica, cit., pp. 32-33 e Gregorio Magno, Registrum epistularum, «Corpus Christianorum-Series Latina», CXL A, a cura di D. Norberg, Turnhout 1982, pp. 673-78). 54 Procopio, La guerra gotica, cit., pp. 32-33.

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agevoli, vennero utilizzati in alternativa a quelli interni sino all’età moderna, come documentano i resoconti di viaggio di Leandro Alberti55 e di Richard de Saint Non56. Tuttavia, laddove le fasce litoranee non erano transitabili per l’inclemenza del tempo o per l’asperità orografica, come tra Lauria e Lagonegro o lungo la costa tra Maratea e Ascea, sin dal VI secolo si utilizzavano le vie marittime di cabotaggio: Belisario, per recarsi da Otranto a Roma, procedette lungo le coste tirreniche57; e gli inviati di Gregorio Magno, tagliati gli alberi di alto fusto, necessari a ricavarne travi per la copertura della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e trasportati «usque ad mare in locum aptum trahere», risalirono il Tirreno sino a Ostia58. La guerra greco-gotica e l’instabilità politica per tutto l’alto Medioevo incisero negativamente sull’assetto viario della regione, i cui assi portanti erano ancora le antiche direttrici romane: la via Appia, la via Capua-Reggio (via Annia-Popillia), la via Herculia (fig. 1). La via Appia in Lucania seguiva un tracciato ad andamento pressoché uniforme (Aquilonia-Pons Aufidi-Venusia-Silvium)59, condizionato da fattori orografici e idrografici. Alcuni ponti romani, usati ancora nel Medioevo, consentivano di superare modesti corsi d’acqua, tra cui il più rilevante era l’Ofanto, presso il quale sorgeva l’importante statio ad pontem Aufidi ricordata negli antichi itineraria. Anche nel tratto lucano l’Appia, tra V e VII secolo, perse gran parte della sua importanza e funzionalità a vantaggio della direttrice Traia­na, che, con un percorso più agevole e più breve di circa un giorno di cammino (6-7 miglia), conduceva ai porti pugliesi dell’Adriatico e al santuario micaelico del Gargano; tuttavia, essa fu per i Longobardi la «strata maior quae vadit in Tarentum», usata per collegare i centri agricoli interni, per la transumanza verso le coste adriatiche e ioniche e per il transito di qualche esercito, come quello di Costante II nel 66360. La decadenza dell’Appia limitò la concentrazione antropica

Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., ff. 193r-198r. J.-C. Richard de Saint Non, Voyage pittoresque à Naples et en Sicile, vol. III, Paris 1829. 57 Procopio, La guerra gotica, cit., pp. 314-16. 58 Gregorio Magno, Registrum Epistularum, cit., p. 677. 59 Imperatoris Antonini Augusti itineraria provinciarum et maritimum, a cura di O. Cuntz, in Itineraria romana, vol. I, Stuttgart 1990, p. 17. 60 P. Corsi, La spedizione italiana di Costante II, Bologna 1983, pp. 131-32. 55 56

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MARE ADRIATICO

Bari Venosa Acerenza Potenza

Matera Taranto

CAMPANIA

Torre di Mare

MAR IONIO

MAR TIRRENO

CALABRIA

Via Appia

Fig. 1. Principali assi viari medievali della Lucania.

e i processi di sviluppo economico e culturale (legati in buona parte all’attività commerciale, al flusso di pellegrini e ai viatores diretti al santuario micaelico del Gargano, ai porti pugliesi e a Gerusalemme) a quelle aree interessate da arterie più recenti, come i due rami della via Herculia. Dopo la conquista della regione, infatti, anche i Bizantini utilizzarono sempre meno l’Appia, almeno sino ai primi decenni dell’XI secolo, allorché, riconsolidando le loro posizioni nel Catepanato, le restituirono una certa funzione strategica fondando lungo il suo corso alcuni castra, come Melfi61. Nei secoli centrali del Medioevo, il tracciato dell’antica strada romana risulta notevolmente modificato e adeguato ai bisogni dei nuovi centri abitati: da Gravina di Puglia, l’antica Silvium, sin nel territorio di Castellaneta, presso la mansio ad Canales, prese il nome di Via Tarantina, o strata que itur de Tarento-Ma61

Dalena, Strade e percorsi, cit., p. 13.

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teram62. Successivamente altri percorsi espressero meglio le mutate ragioni politiche, sociali e culturali, come la strada descritta da Guidone (1119), sconosciuta all’Anonimo di Ravenna, che da Oria a Grumento toccava alcuni monasteri benedettini e importanti centri episcopali, come Taranto, Mottola, Castellaneta, Montescaglioso, Matera, Banzi, Acerenza e Muro63. Il pons Aufidi, identificato con il ponte di Santa Venere64, divenne uno snodo viario notevole in cui confluiva anche la via Herculia, che, tagliando la regione trasversalmente, la collegava attraverso la valle di Vitalba all’Apulia e alla Calabria, incardinando più di ogni altra strada le diverse esigenze delle comunità locali, di asceti e monaci, di principi e sovrani, come ricordano nei secoli centrali del Medioevo l’itinerario da Armento a Rapolla di san Vitale (X secolo) e poi i frequenti viaggi di Roberto il Guiscardo (XI secolo), Ruggero II (XII secolo), Federico II (XIII secolo), Carlo I d’Angiò. Il suo tracciato, disegnato e realizzato nel III secolo da Massimiano Erculio e da Diocleziano, è stato ricostruito con buona approssimazione sulla scorta delle tecniche aerofotogrammetriche e dei cippi miliari rinvenuti. Essa procedeva da Equum Tuticum a Venusia passando per Zungoli, San Sossio, Vallesaccarda (Trevico), Lacedonia, Pons Aufidi, Leonessa, Camarda Vecchia, Taverna Caduta sull’Olivento sotto Lavello (dove è stato rinvenuto l’VIII cippo miliare) e masseria Sansanello65. Aequum Tuticum, al pari del ponte sull’Ofanto e di Venosa, era un ganglio viario in cui confluiva anche la via Traiana e segnava, fra III e IV secolo, il confine con la Campania. La località viene identificata con la Taverna delle Tre Fontane, fra Castel Franco in Miscano e Savignano di Puglia, presso il ponte Bagnatura sul Miscano66. Da Venosa, un importante crocevia da cui le strade si irradiavano in tutte le direzioni, la via Herculia, dopo aver toccato una stazione di posta Ivi, p. 13 e nota 30. Ivi, p. 14. 64 F.M. Pratilli, Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi, Napoli 1745, p. 467. 65 R.J. Buck, The via Herculia, in «Papers of the British School at Rome», XXXIX, 1971, pp. 66-87, in particolare pp. 71-78. Cfr. anche A. Motta, Da Venusia a Venosa: itinerari nella memoria. Contributi per la storia della viabilità meridionale, Venosa 1993, p. 40. 66 G. Lugli, Il sistema stradale della Magna Grecia, in Vie di Magna Grecia. Atti del secondo convegno di studi sulla Magna Grecia tenuto a Taranto dal 14 al 18 ottobre 1962, Napoli 1963, p. 34. 62 63

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ubicata ad flumen Bradanum, a sud di Lagopesole, proseguiva per Potenza e Grumentum collegandosi alla Capua-Reggio presso Lagonegro, a nord di Nerulum (Rotonda) e Sammurano (Morano)67. Da Grumentum, un altro ramo della via Herculia, attraverso Spinoso, San Martino d’Agri, Roccanova, Sant’Arcangelo e Tursi, raggiungeva il versante ionico a Heraclea (Policoro)68. Con il degrado e l’abbandono della via Appia, di cui divenne integrativa in alcuni tratti o alternativa, sin dalla fine del IV secolo, la via Herculia acquistò rilevanza come imprescindibile arteria di collegamento tra i maggiori centri lucani e come testimonianza di fatti culturali e religiosi: lo dimostra la vicenda dei dodici martiri di Hadrumentum (Hammamet), che, arrestati a Cartagine e fatti sbarcare a Reggio, vennero fatti proseguire via terra per Potenza, cioè attraverso le strade più importanti del tempo, per pubblicizzarne il martirio e provocare sgomento e freno nelle prime comunità cristiane del Meridione. L’iter martyrum si snodò da Reggio, lungo la Traianea ionica, attraverso Locri, sino a Squillace. Attraverso un antico diverticolo istmico, raggiunse Cosenza per immettersi sulla via Capua-Reggio (Popillia) e proseguire sino a Marcilianum, dove imboccò la via Herculia che collegava Grumento, Potenza e Venosa69. Sicuramente l’asse dell’Herculia Grumentum-Potentia-Venusia già nell’alto Medioevo era un’arteria molto attiva non solo per il traffico commerciale e per il collegamento tra le più antiche diocesi della Lucania (Marcellianum-Grumentum-Potentia)70, ma anche per la diffusione del cristianesimo, per i pellegrinaggi a Nola presso la tomba di san Felice, soprattutto nel giorno della sua festa (14 gennaio), e verso il santuario micaelico del Gargano. Venosa, in particolare, importante civitas longobarda di confine tra VII e IX secolo, divenne luogo di Imperatoris Antonini Augusti itineraria, cit., p. 15. Motta, Da Venusia a Venosa, cit., p. 40. L’Itinerarium Antonini segnala il seguente itinerario: Ad Equum Tuticum-Ad Matrem Magnam-In Honoratianum-Venusia civitas-Opino-Ad flumen Bradanum-Potentia-Acidios-Grumentum-Semucla-Herulo-Sammurano (Imperatoris Antonini Augusti itineraria, cit., p. 15). 69 De SS. duodecim fratribus martyribus, in Acta Sanctorum Septembris, I, Parisiis et Romae 1868, pp. 129-55, in particolare pp. 135, 141 e 152. 70 F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia: dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), «Studi e testi», 35, vol. I, Faenza 1927, pp. 324-29. Inoltre cfr. il bel lavoro di A. Campione, La Basilicata paleocristiana. Diocesi e culti, «Scavi e Ricerche. Collana del Dipartimento di Studi classici e cristiani. Università degli studi di Bari», 13, Bari 2000. 67 68

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sosta e di assistenza su un itinerario di pellegrinaggio che, proprio tramite questo ramo dell’Herculia, collegava il versante tirrenico a quello adriatico, dove, sul Gargano, si trovavano il santuario micaelico e un ospizio per pellegrini fatto costruire dai longobardi71. Poi, nei secoli centrali del Medioevo fu l’itinerario più utilizzato dai mercanti melfitani per raggiungere le coste tirreniche72. La direttrice ab Regio ad Capuam, denominata comunemente via Popillia, nel Medioevo conservò, con qualche variante specialmente nei valichi appenninici, il tracciato originario segnato nella Tabula Peutingeriana, nell’Itinerarium Antonini e nella Cosmographia dell’Anonimo di Ravenna, ripreso poi da Guidone nei Geographica. L’aspra orografia condizionò decisamente lo sviluppo del tracciato, che nel versante lucano si snodava tra percorsi di cresta e di crinale, «per aspri, et strani balci, et anche pericolosi da passare; ne i quali sogliono dimorare i ladroni per spogliare, rubbare, et uccidere i passaggieri [sic]», tra folti boschi dagli alberi molto alti «che paiono con la cima toccare il cielo»73. Attraverso il Vallo di Diano – un altopiano che incide profondamente il rilievo a ovest del Pollino dopo Polla – seguiva il corso del Tanagro sino alla confluenza col fiume Calore prima di attraversare il rilievo del Pollino occidentale e penetrare in Calabria per il valico di Campo Tenese. Tra la statio ad Calorem e Sammuranum (punti che segnavano ideal­mente i confini con la Campania e la Calabria) sono registrate tre tappe intermedie: In Marcelliana, Cesariana e Nerulo74.

71 I collegamenti tra la Lucania e Nola sul finire del IV secolo, basati sul pellegrinaggio alla tomba di san Felice nel suo dies natalis (14 gennaio), sono stati ben evidenziati da Ada Campione sulla scorta di un riferimento al terzo dei carmina natalicia di Paolino da Nola (Campione, La Basilicata paleocristiana, cit., p. 35). Sulla presenza a Venosa di un ospizio per pellegrini cfr. M. Cagiano de Azevedo, Considerazioni sulla cosiddetta «foresteria» di Venosa, in «Vetera Christianorum», XIII, 2, 1976, pp. 367-74. 72 Gaufredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, in RIS, V, a cura di E. Pontieri, Bologna 1928, I/26, p. 21. 73 Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., f. 197r. 74 Per gli aspetti topografici e storici relativi a Nerulum (Rotonda o Conca di Castelluccio) cfr. P. Bottini, La conca di Castelluccio e il problema di “Nerulum”, in M. Salvatore (a cura di), Basilicata. L’espansionismo romano nel sud-est d’Italia. Il quadro archeologico. Atti del Convegno, Venosa, 23-25 aprile 1987, Venosa 1988, pp. 159-64.

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L’incastellamento e la formazione di nuovi insediamenti dal X secolo, più che mutarne sostanzialmente il percorso, lo resero più articolato con l’apertura di nuove strade, secondo una trama a pettine. Questo schema viario disegna il nuovo aspetto della viabilità lucana medievale attraverso cui si realizzarono la bonifica del territorio, i processi di erosione del manto vegetativo, le estese forme di urbanizzazione, le aggregazioni antropiche. Un altro tracciato di antica origine, che nel Medioevo ebbe uno sviluppo in rapporto all’antropizzazione interna della regione e ai collegamenti con l’Apulia e la Calabria, è la via Traianea ionica, che dal XII secolo viene denominata via de Apulia. Essa procedeva con un andamento irregolare e variabile tra mezzo miglio e un miglio dalla costa per la presenza di zone paludose e malariche e di corsi d’acqua guadabili con zattere e barchette d’estate, intransitabili d’inverno per le piene che spesso travolgevano i malfermi ponti di legno. Era un tracciato marginale nell’ambito del sistema viario romano, mentre assunse una funzione più importante già nell’ambito delle operazioni militari della guerra greco-gotica. Negli itinerari medievali, che generalmente ricalcano gli itineraria romana, il tratto lucano della Traianea ionica appare piuttosto desolato: l’Anonimo e Guidone vi registrano solo due centri abitati: Metaponto ed Heraclea/Policoro75. I frequenti pantani e le bande di malfattori ne sconsigliavano il passaggio e ne riducevano il traffico che si riversava sulla via marittima di cabotaggio, come dimostrano i pellegrinaggi via mare verso il santuario cataldiano di Taranto76 e gli itinerari dei viaggiatori, da Leandro Alberti a Richard de Saint Non77. Per di più, nei secoli centrali del Medioevo, correva voce che lungo questa strada avvenissero «multa latrocinia multaque homicidia»78 che alimentavano curiose leggende e superstizioni, al punto che anche qualche sovrano come Manfredi «mai per colà volle passare»79. D’altro canto le leggende testimoniano sia 75 Anonimo Ravennate, Cosmographia, a cura di J. Schnetz, in Itineraria romana, vol. II, cit., p. 69; Guidone, Geographica, cit., p. 120. 76 De Sancto Cataldo episcopo tarentino in Italia, in Acta Sanctorum Maj, II, Parisiis et Romae 1866, c. 17, p. 571. 77 Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., ff. 219r-220v; Richard de Saint Non, Voyage pittoresque, cit., vol. III, pp. 52-53. 78 De S. Vitale siculo, in Acta Sanctorum Martii, II, cit., p. 27. 79 Bartolomeo di Neocastro, Historia Sicula (1250-1293), a cura di G. Del Re, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani, vol. II, Napoli 1868, p. 421.

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la frequentazione di alcuni tratti nevralgici sia le numerose insidie: dai malfattori alle numerose fiumare, dalle zone malariche ai pantani formatisi dopo lo spopolamento che colpì la regione tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Pure Leandro Alberti, nell’itinerario da Rocca Imperiale sino a Taranto nell’ottobre 1525, ricorse spesso a percorsi interni alternativi per superare le diverse difficoltà della strada litoranea, che si accentuavano in presenza di fiumare e fiumi, come nel caso del «Vaisento» (Basento), che era «molto pien d’acqua ne’ tempi della pioggia, et del verno, come son tutti gli altri [fiumi] di questi paesi, per l’acque che scendono da ogni lato de i circostanti monti [...]. Vero è, che alcuna volta tanto accrescono, che ne portano i ponti [di legno], et così bisogna aspettare, che manchi la furia, et poi se gli rimedia al meglio, che si può, come io ho esperimentato»80. Infatti, superato a fatica il ponte di legno sul Basento, il viaggiatore domenicano raggiunse Taranto per un itinerario interno più lungo e faticoso, che, da Torre di Mare/Metaponto, si snodava per Montepeloso, Matera, Gravina, Laterza, Castellaneta, Mottola, Palagiano, Massafra, Taranto81. Il diverticolo da Torre di Mare a Gravina incardinava le ragioni di collegamento più rapido con i porti pugliesi dell’Adriatico ancora in età angioina, quando Carlo I nel 1271 nomina Pagano di Matera responsabile della sua custodia82. Sempre dalla foce del Basento, lungo la via de Apulia, un altro sentiero, seguendo il corso del fiume, conduceva a Potenza83. La via de Apulia, già ricordata da Procopio come itinerario litoraneo che collegava Reggio, Thurii, Taranto e Otranto84, risulta più battuta dagli eserciti, come attestano l’itinerario di Ottone II da Taranto a Cassano (luglio 982)85 e quello di Roberto il Guiscardo (1079), che, muovendo da Bitonto verso la Calabria, attraverso Gravina e Matera, si accampò presso il fiume Bradano, vicino a Torre Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., f. 222r. Ivi, ff. 223r-224r. 82 M. Lacava, Topografia e storia di Metaponto, Napoli 1891 (rist. anast. Matera 1981), p. 184. 83 T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, La Basilicata da Federico II a Roberto d’Angiò, Bari 1989, p. 236. 84 «V’ha in Calabria la città marittima di Taranto, distante circa due giorni di cammino da Otranto, sulla via che da questa mena a Thurii ed a Reggio» (Procopio, La guerra gotica, cit., III, 23, pp. 352-53). 85 Ottonis II. Diplomata, in MGH, Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae, II/1, München 1980, pp. 319-22, docc. 275 e 276. 80 81

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di Mare86. Anche papa Urbano II il 20 novembre 1092 avrebbe percorso un lungo tratto della via de Apulia per recarsi da Santa Maria della Matina (San Marco Argentano) a Taranto, sostando col suo corteo di vescovi, cardinali e diaconi in Anglona civitate; ma non si conosce la strada percorsa da Anglona a Taranto: non è improbabile che deviasse per Matera proseguendo sino a Taranto lungo l’antica direttrice Appia87. 5. La viabilità basso-medievale Nonostante il decadimento del cursus publicus sotto i Bizantini e, poi, il progressivo degrado per la scarsa manutenzione da parte della pubblica amministrazione e dei feudatari locali, le strade romane, denominate comunemente viae publicae o stratae maiores, per tutto l’alto Medioevo continuarono a esercitare un ruolo centrale nel sistema dei collegamenti e delle comunicazioni della Lucania88. 86 Guglielmo di Puglia, La geste de Robert Guiscard, a cura di M. Mathieu, «Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, testi e monumenti», 4, Palermo 1961, III, 547-77, p. 196. 87 J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. XX, Firenze 1775, col. 684 sgg. 88 Quanto alla politica bizantina di manutenzione della rete stradale e di conservazione del sistema postale romano è assai significativa la testimonianza di Procopio da Cesarea: «Quanto poi egli [Giustiniano] si curasse del bene dello Stato varrà a dimostrarlo quel ch’ei fece del pubblico servizio dei corrieri e degli esploratori. Gli imperatori dei Romani dei tempi passati, provvedendo perché al più presto e senza alcun ritardo fosse loro comunicata ogni notizia, e quanto dai nemici in ogni provincia si facesse e nelle città avvenisse sia ribellione, sia altri impreveduti tristi avvenimenti, e tutto quanto nell’Impero Romano si facesse dai prefetti e da tutti gli altri, come pure affinché coloro che portavano gli annui tributi procedessero con sicurezza senza ritardo e senza pericolo, istituirono in ogni dove certo ingegnoso pubblico servizio postale nel modo seguente: a distanza di un giorno di cammino d’uomo aitante, collocarono stazioni dove otto, dove anche meno, mai però meno di cinque, ed in ogni stazione trovavansi una quarantina di cavalli come pure postiglioni in proporzione del numero di questi; e gli uomini, addetti a tale ufficio, correndo con ottimi cavalli, spesso cambiati, eseguivano tutto quello che io testè esposi, facendo in un giorno solo la via di dieci giorni, cosa di cui eran felicissimi anche tutti i proprietari di terre, particolarmente quei dell’interno, poiché vendendo ogni anno all’erario il di più del frutto dei loro possessi pel nutrimento dei cavalli e dei postiglioni, guadagnavano un bel danaro; e l’erario d’altro lato in questa guisa riscuoteva regolarmente il tributo che ognuno dovea, i contribuenti ne ricevean subito la corrisposta, e lo Stato incassava quindi il suo avere» (Procopio di

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Solo dalla seconda metà del X secolo la rete viaria cominciò ad ampliarsi con una serie di percorsi legati alla trasformazione fondiaria a cui dettero impulso i monaci italo-greci che disboscarono e bonificarono molte zone montuose, aprirono nuove strade interne e riutilizzarono desueti sentieri89. Testimonianze significative dei percorsi che segnarono il territorio lucano nel X secolo sono presenti nella vita di san Vitale di Sicilia, morto a Rapolla nel 990: il santo dalla Sicilia pervenne in Calabria; quindi, seguendo un itinerario montuoso, «peregratis eremis, montibus et speluncis», verosimilmente la Capua-Reggio sino all’antica stazione di Caprasis (Casello-San Marco Argentano), raggiunse lo svincolo per la via de Apulia, da dove si diresse nel territorio di Cassano «in monte qui dicitur Liporachi»90. Disceso dal monte, Vitale rimase nella zona, nei pressi della via de Apulia, «in locis inviis et inhabitabilibus quae nunc dicitur Petra Roseti: ubi multa latrocinia multaque fiebant homicidia», dove le frequenti piogge inondavano le terre e rovinavano le strade91. Petra Roseti era un importante snodo viario lungo la via litoranea a confine tra Calabria e Apulia92, secondo Idrisi luogo di frontiera tra Franchi e Longobardi, che non si identificherebbe con Roseto, ma molto verosimilmente con la località di Torre Bollita, presso Nova Siri Scalo. Infatti il geografo di Ceuta colloca Pietra di Roseto a una distanza di 12 miglia da Roseto Capo Spulico e di 6 miglia dal fiume Sinni: una distanza corrispondente esattamente a Torre Bollita, punto di confine tra la Lucania longobarda e quella bizantina93. Vitale, poi, partendo da Oriolo, poco distante da Nova Siri,

Cesarea, Le Inedite. Libro nono delle Istorie, a cura di D. Comparetti, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 61, Roma 1928, pp. 193-95). Invece Giustiniano sopprime o riduce notevolmente il servizio postale lungo alcune arterie periferiche con grave disagio sia per i viandanti che per i commercianti (ibid.). 89 Giona, monaco della Theotokos del Rifugio a sud di Tricarico, dissoda un largo spazio di terre vicine al suo convento; Saba e Macario dissodano nella regione del Mercurio, nell’alta valle del Lao, al confine con la Calabria, e nella media valle del Sinni, denominata Latiniano (A. Guillou, Aspetti della civiltà bizantina in Italia: società e cultura, Bari 1976, p. 272). 90 De S. Vitae siculo, in Acta Sanctorum Martii, II, cit., p. 27. 91 «Eodem quippe tempore facta est solito profusius inundatio pluviarium» (ivi, p. 28). 92 Ibid. 93 Idrisi, Il Libro di Ruggero, cit., p. 71.

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effettuò un itinerario montuoso, collegato alla via Herculia, che lo condusse ad Armento attraverso Cersosimo, Noepoli, Senise, Fardella, Calvera, San Chirico Raparo, San Martino d’Agri, guado del fiume Agri presso la masseria Sant’Angiolo94. Un decisivo sviluppo della viabilità interna si verifica, comunque, a partire dagli ultimi anni dell’XI secolo, allorché, in seguito al consolidamento del dominio normanno, si procedette via via a una generale risistemazione del territorio in cui acquistavano rilievo il riassetto delle diocesi e, in misura maggiore, l’organizzazione del dominio monastico. Il potenziamento della giurisdizione monastica, in particolare quella cavense, sostituendo il latifondo e la sua organizzazione laica, favorì il ripopolamento e l’apertura di nuove strade, permise di guadagnare alla coltura molte zone boscose o deserte, di provvedere alla manutenzione della rete viaria primaria e di quella di servizio, di rafforzare gli argini dei corsi d’acqua, di aprire nuove peschiere. L’attività dei monaci benedettini, relativa al risanamento fondiario e alla manutenzione della rete viaria, si coglie puntualmente nella descrizione delle tenute del monastero bantino, un piccolo centro di potere, con possedimenti anche nel Tarantino, e avamposto della Chiesa acherontina lungo la strada medievale che collegava Oria a Grumento95. Le delimitazioni dei confini delle tenute del monastero bantino consentono non solo di ricostruire la fitta trama dell’ordito viario primario e secondario di una vasta zona posta nel cuore della Lucania, ma di rilevare anche la funzionalità dei raccordi con le vie pubbliche, che, adattandosi all’articolata morfologia del territorio, segnato da lame, lamelunghe, lamestelle, valloni, serroni e seguendo la complessa geografia dei corsi d’acqua, permettevano di raggiungere terrae vacuae, boschi, orti, fiumare, fontane, rigagnoli, fiumi, sorgenti, insediamenti rurali e urbani96 e, spesso, rappresentavano opportune scorciatoie, che, superando la linearità delle antiche vie maestre, ac-

«Ad montem qui dicitur Raparus, contra castellum S. Quirici sua movit vestigia, ad quem dies aliquot iter faciens, loca dura et aspera peragravit, usque dum pervenit ad Cryptam S. Angeli de Drapono», da dove raggiunge la valle «inter duos montes a Turris et Armenti» (De S. Vitale siculo, in Acta Sanctorum Martii, II, cit., p. 28). 95 La strada viene descritta per la prima volta da Guidone nel 1119 (Guidone, Geographica, cit., p. 124). 96 Pannelli, Le memorie bantine, cit., pp. 30 sgg. 94

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corciavano le distanze tra i vari centri abitati: lo dimostra lo stupore di Domenico da Gravina, quando, il 6 giugno 1349, rifugiato nel casale del Garagnone, tra Gravina e Poggiorsini, viene a sapere che un corriere, percorrendo strade desuete della Lucania, era riuscito a informare della battaglia che appena il giorno prima si era svolta presso Aversa, a circa 100 miglia di distanza97. Numerosi percorsi alternativi, infatti, consentivano di collegare la Campania e la Lucania alla fascia ionico-salentina, come la traiettoria cilentana e la direttrice teggianese-picentina, che costituivano due importanti itinerari che collegavano il Nord al Sud della regione. Dal resoconto dell’ispezione condotta sulla traiettoria cilentana da Alfonso, tra gennaio e aprile 1489, emerge che lungo la litoranea calabro-lucana, tra il Sele e il Basento, vi erano numerosi punti di sosta: dalla riserva regia di cavalli di Eboli al casale di Acquabella, a Camerota, a Cetraro, a San Lucido e, via via risalendo lungo la costa ionica calabra, a Rossano, Casalnuovo, Rocca Imperiale, Policoro, Torre a Mare/Metaponto, Taranto. Il secondo itinerario, lungo la direttrice teggianese-picentina, venne utilizzato da Alfonso in occasione dell’assedio di Salerno, quando vi pervenne da Matera attraverso Montepeloso, il Bradano, Oppido Lucano, Picerno, snodo viario di Buccino, Eboli. Di ritorno dalla missione del 1489 raggiunse Salerno percorrendo un ramo della via Herculia e un tratto della via delle Calabrie (l’antica Popillia o Capua-Reggio): da Policoro lungo la Val d’Agri toccando Tursi, Senise, San Martino, il fiume Chirico, Saponara (l’antica Grumentum), il ponte della Chianca sull’Agri, il torrente Sciaura, Padula98. Accanto alle grandi trasformazioni fondiarie, dovute anche all’iniziativa dei piccoli proprietari, era in atto un lento processo di trasformazione degli schemi mentali stimolato da nuovi vettori culturali, tra cui il monachesimo latino, e un diverso approccio politico ai problemi agrari e all’assetto del territorio, in cui acquistava interesse prioritario l’intera rete di comunicazioni impostata non solo sulle 97 «O mirum magnum!», come ha fatto quell’uomo a percorrere tanta strada in così poco tempo? Sicuramente «talis nuntius spiritus fuerit et non homo» (Domenico da Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis (1333-1350), a cura di A. Sorbelli, in Rerum Italicarum scriptores, 2, XII, parte III, Città di Castello 1903, p. 216). 98 C. Vultaggio, La viabilità, in Storia del Vallo di Diano, vol. II, cit., pp. 112-13.

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viae antiquae o publicae, ma anche su stratellae, semitae, anditus, vicinales, convicinales, carrarae e su quelle viae novae che assumevano la denominazione in rapporto a elementi caratterizzanti del percorso o alle città collegate, come via Venusina, via Gravinensis, via Monasterii, via Aque Belle, via Cannitana, via S. Marie de Catepano, via Pontis Sarraceni99. In questa nuova trama viaria, puntualmente documentata da Idrisi, Matera assunse un ruolo centrale in rapporto ai numerosi villaggi di recente formazione dell’area apulo-bizantina, mentre Acerenza e, soprattutto, Potenza gravitavano nell’area di tradizione longobarda. Pertanto la regione, anche sotto l’aspetto viario, si presentava dicotomica100: Matera lungo la traiettoria che da Taranto conduceva a Napoli seguendo il versante pugliese; Potenza collegata direttamente 99 Pannelli, Le memorie bantine, cit., pp. 30-32; Dalena, Ambiti territoriali, cit., pp. 23-25. 100 «Dalla città di Taranto corrono centottanta miglia in direzione nord-ovest per Matera, città bella, estesa e ben popolata; da Matera centottanta miglia in direzione est per Bari, sessanta verso nord-ovest per Gravina, che è città popolata per quanto poco estesa, nonché produttiva e bella; da Gravina centottanta miglia per Venosa, terra ben rinomata fra quelle dei Longobardi; da Venosa sessantacinque miglia in direzione est per Bari, cinquantaquattro miglia nella stessa direzione per Andria; da Andria a Trani, qui sopra ricordata, quarantacinque miglia in direzione est; da Venosa a Montepeloso settanta miglia; per Alto Gianni sei miglia; per Matera dodici miglia. Montepeloso è città bella, il suo territorio abbonda di viti e di alberi ed è molto produttivo; da Montepeloso a Grottole, città di modesta estensione ma popolata, diciotto miglia; da Tricarico ad Aslàn [Stigliano] ventisette miglia; per Anglona ventiquattro miglia; dalla città di Montepeloso sessantatré miglia in direzione ovest; per Acerenza settantadue miglia; per Palmira diciotto miglia. Da Acerenza sessanta miglia per Potenza, città di illustre prestigio molto vasta e popolata, ricca di viti e di campi coltivati. Da Potenza centocinquanta miglia in direzione ovest per Monte Calvi e cinquantaquattro miglia nella stessa direzione per Melfi continentale; da Melfi a Conza centootto miglia; per Campagna sessanta miglia; per Eboli ventisette miglia verso ovest; per la città di Salerno settantadue miglia» (Idrisi, Il Libro di Ruggero, cit., pp. 112-13).

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all’area salernitana101. Lo sviluppo della maglia viaria lucana venne stimolato dalla centralità politica e religiosa di alcune città come Melfi, Venosa, Acerenza e Potenza, dalla nascita di nuovi villaggi rurali, dal sistema castellare, dai monasteri greci e latini, rupestri e subdiali, che, distribuiti lungo peculiari arterie, divennero crocevia di una rete di 101 Lo schema viario di Idrisi, sulle cui distanze si deve essere molto cauti in quanto spesso inattendibili, appare sommario e incerto. Questo può essere dipeso dal fatto che riordinando gli appunti di viaggio abbia confuso distanze e città. Tuttavia è significativo il risalto che dà a Matera lungo l’itinerario che da Taranto conduceva a Napoli: «Da Taranto a Matera sessanta miglia. Altrettante da Matera a Gravina. Da Gravina a Canosa centoventicinque miglia. Da Canosa ad Andria diciotto miglia. Uguale la distanza fra Andria e Trani. Da qui a Bab.rah [?] quindici miglia. Per Frigento ventisei miglia. Per Cimitile dodici miglia. Da Cimitile a Napoli, posta sul mare, trenta miglia» (ivi, p. 103). Un altro itinerario descritto da Idrisi comprende piccoli centri medievali più volte ricordati negli itinerari dei santi asceti: «per Armeno tre miglia; per Sant’Arcangelo sei miglia; da San Mauro a Bisignano sei miglia; per Acri dodici miglia; da Craco a Sant’Arcangelo dodici miglia; da Sant’Arcangelo a Roccanova sei miglia, a Colobraro dodici, a Senise – verso destra – dodici, a Ganano – posta a sinistra – ancora dodici miglia; il fiume Agri interseca queste due terre. Da Sant’Arcangelo al munitissimo Castel Missanello sei miglia; per Gablichio [Gallicchio] due miglia; da Sant’Arcangelo a Buns’.drat [?], in direzione ovest, sei miglia; per San Martino d’Agri tre miglia; per Montemurro sei miglia; per Viggiano sei miglia; per Marsico Vetere sei miglia; per Saponara di Grumento dodici miglia; per Sarconi tre miglia; da Senise a Tursi dodici miglia; per Anglona sei miglia. Da Senise a Tursi dodici miglia; per Anglona sei miglia; per Carbone diciotto miglia; da Carbone corrono ventiquattro miglia per il Castel di Colobraro cui fa riscontro, al di là del monte, Carbone, che a sua volta ha i propri corrispondenti transmontani nella città di Calvera – distante da quello sei miglia – ed in un paese chiamato Castronuovo di Sant’Andrea, che dista da Carbone tre miglia ed altrettante da Calvera» (ivi, pp. 105-106).

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collegamenti interni attraverso cui si alimentavano l’attività rurale e il commercio. Nell’ambito di questa composita viabilità, estremamente articolata ma altrettanto funzionale, un itinerario poco noto univa rapidamente il cuore della Lucania al Sannio interessando alcuni tratti della via Appia e dell’Herculia collegate tra loro da un diverticolo; lo percorsero l’abate di Montecassino Rainaldo e il suo numeroso seguito nel giugno 1137: da Benevento, attraverso Gesualdo, Guardia dei Lombardi, Monteverde, Cisterna e Melfi, raggiunsero l’imperatore Lotario nella valle di Vitalba, a Lagopesole102. L’importanza che andava assumendo la viabilità nell’economia e nelle relazioni civili sensibilizzò le istituzioni locali, politiche e religiose, che, compatibilmente con le endemiche difficoltà orografiche e con la disponibilità finanziaria, migliorarono la percorribilità, ne curarono la manutenzione e la resero più sicura. L’onere della realizzazione delle opere stradali lucane, come pure quello della loro manutenzione e vigilanza, del resto, ricadeva sui feudatari, sulle chiese locali e sui monasteri che vi avevano interessi economici: lo dimostra la costruzione di un ponte sull’Agri, nei pressi di Policoro, da parte di Ruggero di Pomareda (1110) per agevolare il transito per la via que ducit apud Tarentum. Il ponte, completato dalla vedova di Ruggero, acquisì notevole rilievo per il traffico litoraneo, anche per la presenza di un ospedale che divenne oggetto di liti tra i monasteri della SS. Trinità di Venosa, di Sant’Elia di Carbone e di Santa Maria di Pisticci, che a vario titolo ne rivendicavano la proprietà103. Tranne alcuni tronconi di strade consolari, come l’Herculia e la Capua-Reggio, l’intera rete stradale lucana presentava un fondo in terra battuta o ricavato nelle giogaie tufacee, privo del mantello di ciotoli e di pietrame minuto o di particolari opere di drenaggio, in certi punti permeabile, in altri facile all’impaludamento. Ciò rendeva gravoso il viaggio e frequente il lamento per l’asperitas viarum: nel 1118, il neoeletto arcivescovo di Acerenza, Rainaldo, rimandò il suo

«Iter arripientes per furcas Caudinas Beneventum applicuerunt. Indeque moti per Afrigentum perque Roccam Gysoaldi ad castrum, cui Guardia Lombardorum nomen est [...] iter pacificum accelerantes per Cisternam [Torre della Cisterna] Montemque viridem [Monteverde] Aufidum [Ofanto] transfretantes primo ad civitatem Melphiam, deinde ad Lacum pensilem» (Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffmann, in MGH, SS, XXXIV, Hannover 1980, p. 571). 103 V. von Falkenhausen, Taranto, in Musca (a cura di), Itinerari e centri urbani, cit., pp. 464-65. 102

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ingresso nella diocesi «propter inclementiam aëris et tempus impacatum, difficultatem itineris et viarum discrimina»104. Della precarietà delle strade lucane, che rendeva difficili i collegamenti e le relazioni economiche e sociali, si parla spesso anche in età angioina, quando l’amministrazione dello Stato si fece più attenta nel vigilarle e curarne la manutenzione. In realtà, nonostante l’impegno del governo centrale e delle istituzioni periferiche, rimanevano alcuni problemi endemici legati all’orografia, alla struttura idrogeologica del territorio e alle tecniche di realizzazione dei tracciati. Nel 1279 il giustiziere locale informava il sovrano di non poter trasportare legname e pietre lavorate a Melfi per la ristrutturazione del castello «propter asperitatem viarum»: un problema, quello della scabrosità del fondo stradale, che nessun governo dell’epoca riuscì a risolvere per ragioni tecnologiche e non per mancanza di risorse105. La politica stradale dei sovrani angioini, pertanto, si risolse in una serie di iniziative legislative che, più che migliorare la qualità della rete viaria, tendevano a renderla più sicura attraverso una scrupolosa vigilanza in una regione in cui lo scollamento tra i poteri periferici e quello centrale favoriva il proliferare dei briganti e l’accentuarsi dei pericoli106. Infatti, per ripristinare la legalità, Carlo I d’Angiò incentivò i custodes stratarum con più ricchi stipendi; ma gli esiti di questa politica furono deludenti se, nonostante l’aumento dello stipendio a Guido di Castelvetere per la custodia della strada da Atripalda a Melfi107 e a Pietro di Pietrafixa, dipendente del baiulo di Potenza, per la custodia della strada da Potenza a Brienza108, il problema della sicurezza rimase di grave attualità per l’aumento del brigantaggio che impediva persino i normali interventi di diserbo109. Dalena, Strade e percorsi, cit., p. 56. E. Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Tübingen 1997, pp. 190-91. 106 La Curia Regis più volte intervenne presso i funzionari locali per rendere più rigorosa la sorveglianza delle strade e restituire serenità ai viandanti: «latrones [...] capiantur, et fideles nostri, tam mercatores quam alii, morari et ire secure valeant et redire» (I Registri della Cancelleria Angioina, vol. X, 1272-1273, Napoli 1957, p. 72, n. 261). 107 Ivi, vol. VI, cit., p. 237, n. 1266. 108 Ivi, p. 244, n. 1301 e p. 246, n. 1309. Sull’argomento cfr. Dalena, Strade e percorsi, cit., p. 59. 109 «Sunt latrones et receptatores eorum disrobatores stratarum et patratores homicidiorum» (I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XX, 1279, Napoli 1964, pp. 130 e 268). 104 105

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Se la Lucania al tempo di Procopio appariva come una regione disagevole e attraversata da poche strade, «adatta ai barbari per combattere»110, dai secoli centrali del Medioevo la più estesa antropizzazione del contado e l’operosità dei monaci italo-greci e latini (la SS. Trinità di Venosa, Sant’Elia di Carbone, Santa Maria di Pisticci, i cistercensi del Sagittario e tutta la costellazione dei monasteri rupestri da Matera a Melfi) attivarono un fitto ordito viario attraverso cui la regione divenne protagonista della storia del Mezzogiorno pur con le sue endemiche difficoltà, connesse alla sicurezza dei viandanti e ai percorsi disagevoli e precari, peraltro non minori nel Medioevo di altre parti della penisola. Nel Medioevo in Lucania si viaggiava e si condividevano le complesse dinamiche antropiche, i fluidi movimenti religiosi e culturali, i processi economici, lenti come altrove: san Vitale di Sicilia da Oriolo pervenne ad Armento attraverso un itinerario montuoso e poi a Bari portandovi il suo modello di santità111; nei primi decenni dell’XI secolo i monaci di Turri, Pietro e Gregorio, si recarono a Bari (chiesa di Santa Maria Nea) trasferendovi i propri moduli organizzativi e i propri schemi mentali112; i sovrani normanno-svevi e angioini dalla Calabria, seguendo l’antica direttrice Herculia, raggiungevano Lagopesole, Venosa e Melfi, che dai tempi della conquista via via si era affermata come «caput et ianua totius Apulie», cioè come centro propulsore di attività politiche, religiose ed economiche113. D’altra parte, per altri itinerari interni, tra l’Adriatico e il Tirreno, mercanti, in particolare ebrei, amalfitani e ravellesi, papi e sovrani raggiungevano Melfi e il cuore della Lucania, come dimostra l’itinerario di Lotario III e di Innocenzo II compiuto

Procopio, La guerra gotica, cit., III, 22, p. 343. De S. Vitale siculo, in Acta Sanctorum Martii, II, cit., pp. 26-35. 112 Codice diplomatico barese, Le pergamene del Duomo di Bari (925-1264), a cura di G.B. Nitto de Rossi e F. Nitti di Vito, vol. I, Bari 1897, p. 31, n. 18. 113 P. Delogu, I Normanni in città. Schemi politici ed urbanistici, in G. Musca (a cura di), Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II. Atti delle terze giornate normanno-sveve (Bari, 23-25 maggio 1977), Bari 1979, p. 180. Sugli itinerari lucani dei sovrani normanni, svevi e angioini cfr. E. Sthamer, Die Hauptstrassen des König­ reichs Sicilien im 13. Jahrhundert, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926, pp. 97-112; Dalena, Strade e percorsi, cit., p. 27. Sulla centralità politica e geografica di Melfi e Venosa cfr. H. Houben, Melfi, Venosa, in Musca (a cura di), Itinerari e centri urbani, cit., pp. 311-31. 110 111

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nell’estate 1137: da Bari a Trani, Melfi, Lagopesole, Mercato San Severino, Salerno114. 6. Il popolamento Tra il tardo antico e i primi secoli dell’alto Medioevo la Lucania, come già detto, presentava vaste aree di rarefazione abitativa dominate dall’incolto e dal bosco; l’insediamento antropico era prevalente lungo le arterie di origine romana, come l’Appia, la via Herculia, la Capua-Reggio (Popillia), e negli snodi viari d’importanza strategica per le comunicazioni, per l’economia e per il controllo del territorio, come Marcellianum (l’antica Consilinum), Grumentum, Potenza, Venosa e Acerenza. Ancora nel 527 sono attestati nuclei attivi di popolazione, sparsi nelle zone interne, che si spostavano e frequentavano fiere e mercati dove vendevano e acquistavano bestiame115. L’esiguo spessore delle testimonianze documentarie e archeologiche non consente di apprezzare appieno la cifra insediativa delle prime comunità cristiane e l’eventuale funzione nel contesto delle dinamiche antropiche prima della guerra greco-gotica (535-553); tuttavia, gli studi sinora condotti hanno potuto accertare che esse erano attestate prevalentemente nei gangli viari complessi, come a Venosa, o lungo il ramo dell’Herculia che collegava la Capua-Reggio all’Appia; non a caso l’itinerario dei martiri di Hadrumentum si sviluppò attraverso Grumento, Potenza e Venosa, sedi delle più antiche diocesi lucane116. Lo stato attuale delle ricerche non offre indicazioni precise sul trend demografico e sulla densità, che, generalmente, dalla seconda metà del VI secolo, risultano bassi o in forte calo per gli eventi militari che scandirono la guerra greco-gotica, a cui si accompagnò la ricomparsa della peste bubbonica, e per le frequenti malattie e calamità naturali ricordate nella documentazione narrativa del tempo. In questa regione, come altrove in Italia, si verificarono un forte spopolamento – apparso più tardi di dimensione apocalittica a Gregorio Houben, Melfi, Venosa, cit., pp. 324-25. Cassiodoro, Variae, cit., pp. 261-63. 116 De SS. duodecim fratribus martyribus, in Acta Sanctorum Septembris, I, cit., pp. 129-55, in particolare pp. 135, 141, 152. Sulla diffusione del cristianesimo in Lucania cfr. Campione, La Basilicata paleocristiana, cit. 114 115

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Magno117 e a Paolo Diacono118 –, l’abbandono dei centri costieri e l’arretramento delle popolazioni superstiti nell’interno: le comunità di Metaponto, Eraclea, Syris, Pandosia della costa ionica e Poseidonia-Paestum della costa tirrenica si arroccarono sulle propaggini dell’Appennino lucano dando vita a centri abitati naturalmente difesi119. Inoltre, nella seconda metà del VI secolo scomparvero o erano sprovviste di vescovi e sacerdoti le diocesi di Grumento (scomparsa dopo il 556-561), Potenza, Velia, Buscentum/Policastro e Blanda. Nel IX secolo, alcuni antichi abitati, come Marcellianum, Grumentum, Anxia, Silvium, Blera, Nerulum, erano in forte decadenza o scomparvero per poi risorgere in luoghi diversi; altri, come Latiniano, Laino, Cassano, Lucania (Paestum-Cilento) e la stessa Acerenza, erano molto attivi durante il dominio longobardo e diventarono sedi di gastaldati e centri di attrazione demica. Nella zona orientale della regione sopravvissero alcuni insediamenti che ebbero, tra X e XI secolo, uno sviluppo interessante, come Mons Pelosus, Mons Caveosus e Meteola; e sul versante tirrenico Caputaquis (Capaccio), Velia, Buxentum e Blanda. Tra la fine dell’VIII e il X secolo risulta determinante il ruolo aggregante dell’episcopato locale e del monachesimo greco e latino. In particolare, tra VIII e IX secolo era prevalente l’attività del monachesimo latino, che, sostenuto dai principi longobardi, avviò una fase di antropizzazione in aree depresse o già abitate da popolazione greca. I monasteri di Montecassino, Santa Sofia di Benevento e San Vincenzo al Volturno espansero la loro giurisdizione su chiese e casali di gran parte della regione, promuovendo un’apprezzabile concentrazione demica il cui tasso di crescita variava da zona a zona: i monaci di Santa Sofia di Benevento per munificenza di Arechi si insediarono in un casale sulla direttrice Appia, nei pressi della statio ad Pinum e in

117 «Nam depopulatae urbes, eversa castra, concrematae ecclesiae, destructa sunt monasteria virorum atque feminarum. Desolata ab hominibus praedia atque ab omni cultore destituta in solitudine vacat terra» (Gregorio Magno, I Dialoghi, a cura di A. de Vogüé, P. Antin, «Sources Chrétiennes», 260, Paris 1979, vol. II, III, 3, p. 430). 118 «Videres seculum in antiquum redactum silentium: nulla vox in rure, nullus pastorum sibilus, nullae insidiae bestiarum in pecudibus, nulla damna in domesticis volucribus» (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, cit., p. 87). 119 Cilento, La Lucania Bizantina, cit., p. 96.

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due chiese, Sant’Angelo e Santa Maria, nei pressi di Matera120; i cassinesi avevano terre e casali nel Latiniano, a Marsico, a Potenza, nel gastaldato di Conza121 e, secondo un discusso atto di Grimoaldo del 798, anche la giurisdizione sul monastero di Santa Maria di Banzi con relative pertinenze «cum servis et ancillis»122; i Benedettini di San Vincenzo al Volturno estesero il loro dominio nel territorio di Acerenza, dove tra l’altro possedevano il casale di San Donato123 e la chiesa di San Secondino124, ad Aquilonia125, nel territorio di Matera126, ad Anglona127, lungo il Bradano128 e nel territorio di Montescaglioso129. Si tratta di un’espansione non solo nell’area dell’alto Bradano decisamente latinizzato, ma anche nel Materano e a sud del Bradano, che erano maggiormente grecizzati. Proprio Matera, segnata da una ricca costellazione di monasteri e chiese rupestri, sin dalla fine del IX secolo è ricordata come «urbs munitissima» e con popolazione mista greco-latina, ma in prevalenza greca130. Tra le diocesi alto-medievali della regione, quella di Acerenza ebbe un ruolo civile e religioso importante: dopo essersi estinta nel periodo conseguente alla capitolazione della città da parte dei Goti e alla sua successiva erezione a gastaldato da parte dei Longobardi, dalla fine dell’VIII secolo svolse una preminente funzione di raccordo tra le popolazioni locali, quando, secondo la tradizione, nel 799 vi venne-

120 T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. II, La Basilicata longobarda, Bari 1987, p. 152. 121 A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli della mezzana età, Napoli 1797, vol. III, p. 325. 122 E. Gattola, Ad historiam Abbatiae Casinensis accessiones, Venezia 1733, pp. 18 sgg. Sulla questione relativa all’autenticità del documento si rimanda alla nota di Pedio, La Basilicata, cit., vol. II, pp. 152-53, nota 40. 123 Chronicon Vulturnense, cit., vol. I, pp. 256 e 261. 124 Ivi, pp. 292 sgg. 125 Ivi, pp. 263 sgg. 126 Ivi, vol. II, pp. 12-14. 127 Ivi, p. 11. 128 Ivi, p. 13. 129 Ivi, p. 14. 130 Per quanto riguarda la fortificazione di Matera cfr. Chronicon Casinense, in MGH, SS, III, cit., p. 224. Per la prevalente popolazione greca cfr. Erchemperto, Historia Langobardorum, cit., p. 258. Notizie della presenza in Matera di latini, come i due protospatari Radelghisio e suo figlio Godeno, sono in Chronicon Vulturnense, cit., vol. II, pp. 12-14.

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ro traslate le reliquie di san Canio dalla vicina Atella131. Nel X secolo essa aveva acquisito forte rilievo nell’ambito del popolamento locale e della sua tipizzazione etnica e religiosa tanto che il basilèus (968), dopo aver istituito il catepanato, autorizzò il patriarca di Costantinopoli, Polieucto, a istituire una nuova provincia ecclesiastica greca entro i temi di Longobardia e di Lucania in cui i vescovi suffraganei di Acerenza, Matera, Tursi, Tricarico e Gravina dovevano essere consacrati dal metropolita di Otranto132. Quest’operazione politica di grecizzazione religiosa e di bilanciamento etnico di Niceforo produsse solo la virtuale dilatazione giurisdizionale della metropolia idruntina, comprendente contesti geografici vitali e ormai abitati, che non intaccò Acerenza in quanto le istituzioni ecclesiastiche locali restarono saldamente innervate nella tradizione latina e nell’obbedienza al pontefice romano, in continuità col processo di evangelizzazione iniziato cinque secoli prima133. Non meno significativo il ruolo della diocesi di Tursi, collocata tra i bacini fluviali dell’Agri e del Sinni decisamente grecizzati134. Dal X secolo si cominciarono ad avvertire più concretamente gli effetti della ripresa demografica, che, iniziata fievolmente nel secolo precedente, si sviluppò nei tre secoli successivi, segnati soltanto da una breve crisi verso la metà dell’XI secolo, durante il passaggio dalla dominazione bizantina allo Stato normanno. Infatti, sebbene frenate dalle scorrerie dei Saraceni, che riuscirono a insediarsi nel territorio di Pietrapertosa, a sud-ovest di Tricarico nel cuore della Lucania, e a impadronirsi delle terre del territorio di Tricarico135, l’espansione antropica e la crescita demografica furono

131 P.F. Kehr (a cura di), Regesta Pontificum Romanorum, vol. IX, Samnium-Apulia-Lucania, Berlin 1986, p. 452. 132 «Ut Hydrontinam ecclesiam in archiepiscopatus honorem dilatet nec permittat in omni Apulia seu Calabria Latine amplius, sed Grece divina mysteria celebrare» (Liudprandi relatio de legatione Constantinopolitana, in Liudprandi episcopi Cremonensis opera, edidit J. Becker, in MGH, Scriptores in usum scholarum, 41, Hannoverae-Lipsiae 1915, p. 209). 133 C.D. Fonseca, Aree omogenee e ricerca storica, in «Rassegna storica lucana», XX, 1994, p. 13. 134 V. von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona in epoca normanno-sveva. Terra d’incontro tra greci e latini, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 27-36. 135 A. Guillou, La seconda colonizzazione bizantina nell’Italia meridionale. Le

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avviate decisamente nella seconda metà del X secolo dall’attività dei monaci greci dissodatori, che aprirono nuovi spazi al processo di urbanizzazione, favorirono la formazione di nuovi villaggi, costruirono chiese rupestri e subdiali e piccoli monasteri, sottrassero terreno coltivabile al dominio della foresta e dell’incolto, realizzarono un funzionale reticolo viario di servizio. È significativa la testimonianza del monaco Jonas, che, verso la metà del X secolo, dissodò alcune terre del territorio di Tricarico donandole poi, nel 983, al monastero della Theotokos del Rifugio: l’igumeno vi trasferì dei contadini esenti da obblighi fiscali (elèuteri) che urbanizzarono il territorio e organizzarono il villaggio che venne iscritto come comune fiscale (corìon) nei registri dell’amministrazione bizantina136. Una vicenda analoga, anche se più complessa, riguardò il monastero di San Nicola di Cyr-Zosimo, che si trasformò in villaggio e poi in paese137. Molti monaci, per sfuggire alle incursioni saracene, dalla Calabria meridionale e dalla regione montuosa del Mercurio si spinsero nelle valli dell’Agri e del Sinni, dove «deserta quaerebant loca, ad monasteria catervatim confluentes ut saltem panis sibi ad cibum porrigeretur»138. In queste valli essi diventarono referenti religiosi delle popolazioni locali e attivi operatori di cospicue trasformazioni del paesaggio: disboscarono e dissodarono ampi spazi che via via vennero guadagnati alla coltivazione e alla produzione, crearono più favorevoli condizioni ambientali per numerosi piccoli insediamenti demici situati ad altitudini comprese fra i 300 e gli 800 metri. Quasi tutti i monaci provenienti dalla Sicilia, in particolare dal monastero di San Filippo di Agira, attraverso la Calabria portarono in Lucania parenti o compagni con cui iniziarono la prima fase di antropizzazione: san Saba con l’intera famiglia, dopo aver liberato un luogo silvestre, fondò un monastero sulle rive del Sinni, vicino un kastèllion «valde munitum», che fortificò per timore dei Saraceni

strutture sociali, in C.D. Fonseca (a cura di), La civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia. Ricerche e problemi. Atti del primo convegno internazionale di studi (Mottola-Casalrotto, 29 settembre-3 ottobre 1971), Genova 1975, p. 40. 136 A. Guillou, Longobardi, Bizantini e Normanni nell’Italia meridionale: continuità o frattura?, in C.D. Fonseca (a cura di), Il passaggio dal dominio bizantino allo Stato normanno nell’Italia meridionale. Atti del secondo convegno internazionale di studi (Taranto-Mottola, 31 ottobre-4 novembre 1973), Taranto 1977, p. 34. 137 Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, cit., pp. 45-47, n. XXXVII. 138 Historia et laudes SS. Sabae, cit., p. 25.

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e delle bande di malfattori139; Vitale di Castronovo venne accompagnato dal nipote140; Luca di Demenna si fece raggiungere dalla sorella Caterina, rimasta vedova, e dai suoi figli141. Il terrore delle incursioni agarene, tuttavia, spinse le popolazioni ad abitare le alture e a fortificare gli abitati. Nel Mercurio, con il suo centro nell’alta valle del Lao, nel Latiniano, con baricentro nel medio corso del Sinni, e nelle valli dell’Agri, del Basento e del Bradano tra X e XI secolo era in atto un importante processo di appropriazione dello spazio da parte dei monaci italo-greci, che, tra Calvera, Cersosimo, Guardia Perticara, Senise, Teana, Viggiano, Episcopia e Rotondella, fondarono ben venti monasteri142, di cui alcuni nei primi decenni dell’XI secolo diventarono punti di riferimento delle autorità bizantine, che vi ricorsero per attivare chiese e monasteri abbandonati143. È ben documentata anche l’attività aggregante in contesti spopolati o poco abitati dei monaci di Sant’Elia e Anastasio a Carbone, di Sant’Angelo a San Chirico Raparo, di Santa Maria a Kyr-Zosimo, di San Luca ad Armento, di Santa Maria o della Theotokos del Rifugio a Tricarico, di San Luca a Missanello. Dalla seconda metà dell’XI secolo, il processo abitativo di queste aree, anche se in modo non omogeneo, ebbe un notevole impulso dall’affermazione del monastero dei SS. Elia e Anastasio di Carbone, che, da autonomo e autocefalo, progressivamente assunse una funzione di preminenza nei confronti della rete di monasteri dipendenti sino a svolgere una duplice funzione di carattere circoscrizionale sia come archimandritato sia come signoria fondiaria territoriale144. Alla cura del monastero carbonense, che via via allargò la maglia insediativa rurale, vennero affidate terre del Mercurio e del Latiniano con la clausola di non lasciarle incolte o mal curate145. I monaci italo-greci fa-

Ivi, pp. 17-18. De S. Vitale siculo, in Acta Sanctorum Martii, II, cit., p. 32. 141 De S. Luca Abbate Confessore, in Acta Sanctorum Octobris, VI, cit., p. 341. 142 Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, pp. 158-203. 143 Codice diplomatico barese, Le pergamene del Duomo di Bari, cit., pp. 31-32, n. 18. 144 C.D. Fonseca, Il monastero dei Santi Elia e Anastasio di Carbone: problemi e prospettive, in Fonseca, Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone, cit., p. 17. 145 G. Robinson, History and Cartulary of the Greeck Monastery of St. Elias and 139 140

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Parte prima. Quadri ambientali, popolamento e istituzioni

vorirono anche la mobilità della società rurale da altre regioni vicine, soprattutto dalla Calabria, e l’insediamento dei contadini in altre parti della Lucania, come ad Ancilla Dei (Ancellara) e ad Aquabelle (Aquavella), dove ampliarono i coltivi riducendo l’incolto e la foresta146. La conquista normanna della regione, tra il 1040 e il 1060, oltre a mutarne la geografia politica ed ecclesiastica, provocò un complesso processo di trasformazione del paesaggio e dei connotati etnici, con diversificate forme di urbanizzazione che agevolarono l’insediamento, su uno strato indigeno greco-latino, di Franchi, ebrei, amalfitani – questi ultimi già presenti in alcune città come Melfi e Venosa  –, Armeni e persino Bulgari in una vasta area da Melfi a Matera e a Tricarico147. Nella zona compresa tra il Sinni e il Bradano si formarono diversi centri di potere locale, che, direttamente o tramite il monachesimo latino, vi incentivarono il ripopolamento con varie forme di urbanizzazione. Alcuni centri, come Venosa e Melfi, subirono sul piano demografico e urbanistico più marcatamente l’influsso dei conquistatori normanni148. Lungo la costa ionica, per valorizzare le loro signorie e per meglio difenderle, i baroni normanni, tra la fine dell’XI e il XII secolo, realizzarono importanti opere urbanistiche, come la costruzione o la ricostruzione di porti, torri, castelli e ponti che qualificarono il territorio costiero che cominciò a popolarsi, come dimostrano la fondazione del castello di Santa Trinità (Torre di Mare/Metaponto) su strutture preesistenti da parte dei signori di Montescaglioso e del castello nel casale Avena o Avenetta presso la foce del Bradano149. Venuti al seguito dei Normanni, in Basilicata si stabilirono numerosi monaci (in particolare a Venosa) e alcuni feudatari francesi che occuSt. Anastasius of Carbone, «Orientalia Christiana», XV, 2, vol. II/1, Roma 1929, p. 171, doc. VIII. 146 È noto il caso della famiglia greca di Calabria che nei primi anni dell’XI secolo si trasferì nel villaggio di Ancilla Dei dove ricevette dal monastero greco di San Michele Arcangelo una terra incolta da sfruttare dietro pagamento di un censo annuo (Guillou, La seconda colonizzazione bizantina, cit., pp. 41-42). 147 È significativa la presenza a Tricarico negli anni 1147-48 di tali Ioannaccius amalfitano e di suo genero Iohannes bulgaro (G. Bronzino, Codex diplomaticus Tricaricensis (1055-1342), parte II, in «Bollettino storico della Basilicata», 8, 1992, pp. 51-52). 148 V. von Falkenhausen, Il popolamento: etnie, fedi, insediamenti, in G. Musca (a cura di), Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), Bari 1987, p. 69. 149 Ead., La diocesi di Tursi-Anglona, cit., p. 29.

P. Dalena   Quadri ambientali, viabilità e popolamento

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parono castelli, preesistenti alla conquista o fondati ex novo, che da essi presero il nome, come Chiaromonte, appartenente all’omonima famiglia franca, il cui capostipite, Ugo Monocolo, era originario di Clermont-de-l’Oise150. Del resto, la rete dei castelli normanni favoriva un notevole processo di aggregazione e di crescita demografica non meno dei monasteri. Infatti, intorno alle strutture castellari si concentravano gli interessi vitali della popolazione rurale, il cui insediamento si trasformò in villaggio e poi in paese, come testimoniano le vicende dei castelli di Oriolo, Policoro, Colobraro e Tursi, Oggiano/Ferrandina, Pisticci e Craco, questi ultimi costituenti la signoria di Giuditta. Anche se non si dispongono cifre puntuali ed esaustive per poter valutare appieno l’incidenza delle dinamiche antropiche, dalla fine dell’XI secolo assunse una decisiva funzione propulsiva il monachesimo benedettino, favorito dalla politica normanna e dall’atteggiamento della Chiesa latina che mirava a rilatinizzare ampi settori grecizzati e, ora, in declino. Infatti, alla ridefinizione dei quadri diocesani lucani e della giurisdizione episcopale, in rapporto ai nuovi assetti politici e alla crescita della popolazione, corrispose l’affermazione di alcuni importanti centri di potere monastico che allargarono notevolmente la loro sfera di dominio e di influenza. Tra la fine dell’XI e il XII secolo, piccoli monasteri bizantini in declino o abbandonati, concentrati nella regione compresa tra la Calabria e la Campania, vennero sottomessi all’abbazia benedettina della SS. Trinità di Cava dei Tirreni, spesso con la clausola ad populandum e ad pastinandum: San Biagio a Savoia, San Biagio a Satriano, San Giacomo a Brienza, San Giovanni a Marsicovetere, San Pietro a Tramutola, San Nicola di Peratico a Tursi, Sant’Andrea a Calvera, Sant’Onofrio di Camposirti a Noepoli, Santa Maria a Cersosimo. Accanto alle numerose filiazioni cavensi, si realizzò una significativa rete di fondazioni latine legate ai Normanni (San Benedetto e San Giorgio a Melfi, Santa Maria de Monte e la SS. Trinità a Venosa, San Michele di Monticchio, Santa Maria di Banzi, Santa Maria Nuova, SS. Lucia e Agata e Sant’Eustachio a Matera, San Michele a Montescaglioso, Santa Maria del Piano e Santa Maria di Cellaria a Calvello, Santo Stefano a Marsiconuovo, Santa Maria a Pisticci, Santa Maria di Crinofria a Colobraro) che si

150

Ead., Il popolamento, cit., pp. 69-70.

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estendeva su un’area di tradizione bizantina, dove costituì numerosi poli di aggregazione demica favorendo la nascita di villaggi rurali e, successivamente, di veri centri urbani151. Un’apprezzabile attività di antropizzazione e di urbanizzazione di tipo aziendale venne esercitata, tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, anche dai cistercensi del Sagittario nella subregione sinnica, dove praticavano la carità e, insieme, accoglievano nelle terre monastiche homines extranei o adventitii per popolarle e avere più lavoratori da destinare alla coltivazione dei campi152. Lo schema aziendale del monastero sagittariense, inteso come centro di produzione, di organizzazione del lavoro agricolo e di cura dell’allevamento del bestiame, rifletteva la struttura massariale statale, che, perfezionata in età angioina, si organizzò sotto il controllo di funzionari statali soprattutto nella fascia murgiana e premurgiana, cioè su un territorio morfologicamente ben definito e con particolari vocazioni agro-pastorali che non trova, come principale referente stanziale, la struttura urbana: dalla masseria di Sant’Egidio, tra Gaudiano e Lavello, a San Gervasio, Monteserico e Gravina153. Mancano stanziamenti massariali lungo la fascia tirrenica proprio per le diverse peculiarità orogenetiche, per il clima e gli aspetti vegetali non compatibili con le ragioni di questo tipo di insediamento. Questa struttura, del resto, si impose come negazione del popolamento in quanto espressione di un ricostituito latifondo che concentrava localmente piccoli nuclei di massari e si affermò maggiormente, laddove le condizioni ambientali lo consentivano, con la crisi del sistema aziendale monastico e dei casali tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo (fig. 2). Invece, il sistema dei castra et domus di Federico II e degli abitati tenuti a ripararli consentono di apprezzare la densità del popolamento, che, tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, risulta in crescita in tutta la regione con esclusione del versante tirrenico, dove il limite di addensamento è rappresentato dalla morfologia montagnosa del territorio. Lo statuto svevo sulla riparazione dei castelli, un

151 H. Houben, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 163-203. 152 Dalena, Basilicata Cistercense, cit., p. 24. 153 In proposito cfr. R. Licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle pecore, Bari 1998 e la Presentazione di C.D. Fonseca.

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P. Dalena   Quadri ambientali, viabilità e popolamento abitanti 16.000 – 14.000 – 12.000 – 10.000 – 8.000 – 6.000 – 4.000 – 2.000 – 0– VI

VII

VIII

IX

X secoli

XI

XII

XIII

XIV

Fig. 2. Andamento del popolamento della Basilicata medievale.

importante strumento di indagine conoscitiva disposta da Federico II nel 1239-40, censisce 19 castra, compresa Matera, censita in Terra d’Otranto, e Brienza nel Principato, una rocca (imperialis), undici domus, compresa Girifalco nei pressi di Ginosa, alla cui manutenzione partecipavano ben 169 abitati di cui sei sono indicati come casalia: casalis s. Andree nella valle di Vitalba, casalis Aspri nei pressi di Acerenza, casalis s. Thome de Rubo a nord di San Fele, casalis Pisticci a sud-ovest della foce del Bradano, casalis s. Nicolai de Silva verso la foce del Cavone tra Pisticci e Montalbano, casalis Canne a nord-ovest di Rocca Imperiale154. Inoltre, nel censimento mancano alcuni insediamenti demaniali tra cui Potenza e il castello di Rapolla. Pur non essendosi conservati i rilevamenti dei fuochi condotti in età sveva e angioina, dalla riscossione dei tributi nelle singole province sotto Federico II e nei singoli comuni sotto gli Angioini viene confermata la crescita demografica ed economica della regione, nella media delle altre regioni del regno. Nel 1238 vengono riscosse 7.000 once, 154 E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, a cura di H. Houben, Bari 1995, pp. 114-17.

2.000 –

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nel 1241, insieme alla Capitanata e Montesantangelo, 8.800, nel 1248 il trend sale a 9.000155. Queste cifre comprendono la tassa dei comuni regi non baronali e i pagamenti dei feudatari e del clero. Invece per l’età angioina si hanno dati più precisi e corrispondenti alle imposte versate dai singoli comuni. A causa del disastroso terremoto che colpì il Potentino nel 1273, gli abitanti di Potenza chiesero al sovrano l’esenzione fiscale156. La calamità ebbe una notevole incidenza su tutta la regione, che nel 1273 corrispose un importo d’imposta di sole 148 once, aumentato via via a 4.284 once, 1 tarì e 16 grana nel 1274-75, a 7.144 once e 28 tarì nel 1275-76 e calato di nuovo verso la fine del secolo a 5.068 once, 25 tari e 6 grana nel 1278-79 e a 3.836 once, 6 tarì e 12 grana negli anni 1294-99 in relazione alla crisi generale del regno157. Tra il 1294 e il 1342 la Lucania/Basilicata vide gravemente diminuire il numero degli abitanti158: un fenomeno che rientra nel più esteso contesto della Wüstung che colpì in quel tempo il Mezzogiorno, dove scomparvero o erano in grave crisi molti casali rurali per le frequenti calamità naturali, come le carestie e le invasioni dei bruchi, per la forte pressione fiscale del governo angioino impegnato nella guerra del Vespro e, sul versante ionico, per le continue incursioni degli almugaveri. Una crisi di lungo periodo durante la quale scomparvero poco a poco tanti piccoli centri rurali, molti dei quali si erano formati intorno alle vecchie fondazioni monastiche159. Nel 1307 la BasiK.J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, Firenze 1994, p. 126. M. Bonito, Terra tremante, Napoli 1691, pp. 523-24; V. Claps, Cronistoria dei terremoti in Basilicata, Galatina 1982, p. 19. 157 Beloch, Storia della popolazione, cit., pp. 126-27. 158 C. Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, Torino 1973, p. 332. 159 Tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo si spopolarono o vennero abbandonati definitivamente molti casali rurali tra cui il castrum di Balvano nell’alta valle dell’Ofanto, dirutum già nel 1277, i casali di Pescopagano, nella zona del Vulture Monticulum, Pietrapalomba, i casali di Melfi e Venosa, Gaudiano; nel 1279 venne abbandonato definitivamente Cerverizzo (Cervericio) «propter infirmitatem aeris» (T. Pedio, Centri scomparsi in Basilicata, Venosa 1985, p. 17). Vitalba risultava «exabitata» nel 1281; Rionero nel 1294 chiese a Carlo II l’esenzione fiscale (A. Pellettieri, Dai casali della valle di Vitalba alla nascita della Terra di Atella: territorio, storia feudale, sviluppo urbano e sociale tra medioevo ed età moderna, in AA.VV., Dal Casale alla Terra di Atella, Venosa 1996, pp. 21-44); Armaterra nel 1307 era «exhabitatum et distructum totaliter» (G. Fortunato, Santa Maria di Vitalba con documenti inediti, Trani 1898, pp. 120-21). Nel giugno 1294 i casali di Pisticci e di San Basilio risultavano desolati per le frequenti incursioni nemiche. A nulla valsero gli sgravi fiscali e i privilegi di Carlo II concessi a chi voleva abitare i casali 155 156

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licata, la Calabria e la Terra d’Otranto risultavano «destructi e quasi depopulati (omnino et) pro maiori parte hostium invasionibus occupati» oppure «hostium usurpatione detenti». Nello stesso anno (1307) Carlo II d’Angiò ordinò al giustiziere di Basilicata di fare «minuta e diligente inchiesta dei fatti, come di questa estrema desolazione»160. Nel giustizierato di Basilicata le terre abitate, documentate in numero di 148 nei primi tempi del governo angioino, scendono a 97 nel 1445161. Spopolamento, incuria e desolazione nel XIV secolo favorirono la formazione di estesi pantani e zone malariche, soprattutto lungo la fascia litoranea ionica, resa particolarmente inospitale dal pantano di San Basilio tra l’Agri e il Basento e dalla foce del torrente Canna sino al Bradano. Il ritorno al latifondo, che si resse sul sistema massariale, rappresentò la negazione di quelle forme di estese aggregazioni che avevano, con casali e insediamenti rupestri, urbanizzato e animato le campagne. La miseria e il disagio nel XIV secolo segnarono profondamente una popolazione sensibilmente diminuita che viveva di stenti e che, pressata da una feudalità sempre più arrogante e pretenziosa, avvertiva irriducibilmente il peso della sofferenza e del disagio e l’ineluttabilità del potere, traducendo i propri aneliti di riscatto sociale in rassegnazione o in pratiche magiche deserti. Nel settembre 1302 il casale di San Basilio risultava ancora deserto «ex incursionibus hostium fremente olim in partibus ipsis guerra sic depauperatum est opibus et incolis diminutum quod pauci exteri qui inibi commorantur solitam quantitatem generalium subvencionum et collectarum solvere nequeuntes dicti casalis incolatum compelluntur deserere et per loca remota circumquaque dispergi». Fatta l’inquisizione nel casale di San Basilio vi trovarono appena «quinque vel sex Calabri» (A. Sacco, La certosa di Padula disegnata, descritta e narrata su documenti inediti, vol. IV, Roma 1930, p. 278). Sui confini del principato scomparvero Perno, i casali sul Marno, Montemarcone nell’alto Bradano. Rionero e tutti i casali circostanti per indigenza e incapacità contributiva si spopolarono e, poi, vennero abbandonati trasferendosi nella città che Giovanni d’Angiò, conte di Gravina, costruì nel 1330 «in loco per tria miliaria a casali Rivinigri» (Pedio, Centri scomparsi, cit., p. 17). Sulla costa ionica, oltre a Pisticci e San Basilio, scomparvero o erano in forte crisi gli abitati di Torre di Mare, Santa Trinità, Scanzano, Anglona, San Nicola di Silva, Santa Cenapura, Santa Maria d’Avena e Trisaja. Scomparve Petrolla sulla Salandrella/Cavone e Policoro, saccheggiata da bande di almugaveri, nel 1289 si spopolò. Per le incursioni degli almugaveri, nel 1304 gli abitanti di Andriace si ritirarono a Montalbano. Nella valle del Sinni vennero abbandonati Prisinacium, Rodia e Pulsandra e, in quella dell’Agri, Gannano e Battifarano (ivi, pp. 18 sgg.). 160 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXXI, 1306-1307, Napoli 1980, p. 37. 161 Beloch, Storia della popolazione, cit., p. 140.

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o in isolamento mistico, come nel caso del tolosano Giovanni da Caramola, figura di asceta e taumaturgo di grande carisma, al quale gli abitanti della media valle del Sinni affidavano il sogno di guarigione e di riscatto esistenziale. Un paese, quello lucano, generalmente poco abitato rispetto al resto d’Italia ancora nei primi decenni del XVI secolo, quando, nonostante una lieve ripresa demografica, legata essenzialmente ai nuovi insediamenti albanesi, Leandro Alberti constatava di questa regione «gli assai luoghi anche hora dishabitati»162.

162

Alberti, Descrittione di tutta l’Italia, cit., f. 175v.

GOTI, BIZANTINI E LONGOBARDI di Gastone Breccia 1. La guerra gotica La dominazione degli Ostrogoti in Lucania ha lasciato scarse tracce nelle fonti. Il quadro che si può delineare per i decenni che vanno dall’avvento di Teoderico all’invasione bizantina del 536 è quindi estremamente sommario: sappiamo qualcosa dell’economia, qualcosa dell’organizzazione ecclesiastica della regione, e poco altro1. È del resto assai dubbio che si possa parlare di una «Lucania gotica». L’insediamento di elementi ostrogoti nella regione pare si sia limitato alla guarnigione della località strategica di Acerenza2; a quanto si può capire dalle pagine di Cassiodoro e Procopio, ancora attorno alla metà del VI secolo sia i proprietari terrieri lucani sia, ovviamente, i loro contadini sembrano essere tutti di stirpe romana. La cosa non può stupire: giunti in Italia da nord-est in numero consistente ma non certo elevatissimo – si parla di poco più di centomila persone – i 1 Cfr. V.A. Sirago, La Lucania nelle «Variae» di Cassiodoro, in «Studi storici meridionali», 5, 1985, pp. 143-61. 2 Cfr. V. Bierbrauer, Zur ostgotischen Geschichte in Italien, in «Studi medievali», serie III, 14, 1973, p. 14: «Ohne nennenswerte ostgotische Siedlung büben die beiden süditalischen Provinzen Lucania et Bruttii und Apulia et Calabria. An ihrem Beispiel wird erstmals die Abhängigkeit der ostgotischen Siedlung von militärisch-strategischen Gesichtspunkten deutlich, da in diesem großen Gebiet nur in Ruscianum [Rossano, provincia di Cosenza] und Acerontia [Acerenza, provincia di Potenza] zeitweise ostgotische Besatzungen stationiert waren». Come scrive Tabacco, quello dei Goti «fu uno stanziamento considerevole soprattutto nell’Italia del nord e lungo l’Appennino settentrionale e centrale fino al Sannio» (G. Tabacco, La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’Impero alle prime formazioni di Stati regionali, in Storia d’Italia, diretta da R. Romano e C. Vivanti, vol. II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 3-274, in particolare p. 33).

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Goti si insediarono, secondo le leggi dell’hospitalitas tardo-antica, soprattutto nelle aree più ricche e fertili della penisola; la Lucania difficilmente poteva attirare uomini liberi di confiscare almeno un terzo delle terre nella pianura padano-veneta, o in altre zone comunque più aperte e favorevoli. In mancanza di una vera presenza gotica nella regione3, non vennero certamente mutate né le strutture sociali né la stessa composizione delle classi di età tardo-romana: i possessores restarono padroni della terra, i contadini restarono alle loro dipendenze, con l’unica differenza che gli uni e gli altri erano tenuti adesso a guardare alla Ravenna ostrogota sia come fonte dell’autorità e del diritto, sia come destinazione dei tributi e degli altri obblighi normali per i sudditi del regno. Lo sbarco a Reggio del corpo di spedizione bizantino guidato da Belisario, nel maggio del 536, segna l’inizio della ventennale lotta tra l’impero e i Goti per il possesso della penisola italiana4. Belisario attraversò una prima volta il Mezzogiorno senza incontrare alcuna seria resistenza: come scrive Filippo Burgarella, «nella provincia del Bruzio – l’attuale Calabria – e della Lucania la defezione degli abitanti dai Goti fu non meno pronta e generalizzata che in Sicilia, innestandosi ugualmente su condizioni pregresse di insicurezza e di disagio»5. All’approssimarsi della minaccia, il governo di Ravenna invia infatti un esercito nel Mezzogiorno; ma contemporaneamente scoppiano tumulti tra gli abitanti delle zone rurali, organizzati dai grandi proprietari, che probabilmente contribuiscono a ostacolare qualsiasi tentativo di difendere la parte meridionale della penisola. I Goti devastano le campagne6, ma devono poi ritirarsi di fronte a Belisario; e 3 Da notare ancora, a questo proposito, come non ci siano giunte dalla Lucania iscrizioni funerarie con nomi gotici: cfr. Bierbrauer, Zur ostgotischen Geschichte, cit., p. 24. 4 Ottima trattazione degli aspetti strategici della guerra nel Mezzogiorno in G. Noyé, La Calabre et la frontière, VIe-Xe siècles, in J.-M. Poisson (a cura di), Castrum 4. Frontière et peuplement dans le monde méditerranéen au Moyen Age. Actes du Colloque d’Erice-Trapani (Italie) tenu du 18 au 25 septembre 1988, «Collection de l’École Française de Rome», 105, Roma 1992, pp. 280-92. 5 F. Burgarella, Bisanzio in Sicilia e nell’Italia meridionale: i riflessi politici, in G. Galasso (a cura di), Storia d’Italia, vol. III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 127-248, in particolare p. 137. 6 «Veniens itaque numerosus exercitus, qui ad defensionem rei publicae noscitur destinatus, Lucaniae Bruttiorumque dicitur culta vastasse et abundantiam regionum studio tenuasse rapinam» (Magni Aurelii Cassiodori Opera, Pars I, Variarum libri XII, a cura di A.J. Fridh, «Corpus Christianorum», 5.L.96, Turnhout 1973, XII, 5, 3, p. 469).

G. Breccia   Goti, Bizantini e Longobardi

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le esortazioni indirizzate al corrector Lucaniae et Bruttiorum Valeriano da Cassiodoro, allora praefectus pretorio del regno, perché provveda a sedare la rivolta contadina cadono evidentemente nel vuoto7. Ma la liberazione dell’Italia dai Goti doveva comunque rivelarsi per gli eserciti bizantini ben più difficile di quanto l’iniziale avanzata su Roma potesse lasciar prevedere. Guerra di lunghi e ripetuti assedi – la stessa Roma ne subì quattro e cambiò più volte padrone – ma anche guerra di manovra, con le armate avversarie impegnate a isolare il nemico dalle proprie basi di reclutamento e di approvvigionamento: la Lucania, crocevia per le comunicazioni terrestri dalla costa del Tirreno alle estreme regioni meridionali, si trovò così a essere attraversata più volte e aspramente contesa, benché in se stessa non costituisse un obiettivo di particolare rilievo economico o politico. Dal punto di vista strategico, la situazione doveva apparire piuttosto chiara a entrambi i contendenti. L’antica Calabria (l’attuale Terra d’Otranto) costituiva infatti zona di interesse vitale per i Bizantini, in quanto era la loro base di operazioni per qualsiasi controffensiva nel Mezzogiorno alimentata con rinforzi provenienti da Costantinopoli. Consapevoli di questo, i Goti si preoccuparono di costituire, se possibile, una linea di difesa avanzata appoggiandosi su Taranto e una seconda linea di resistenza a oltranza proprio in Lucania, imperniata sul castrum Acherontiae8, posto a chiudere l’alta valle del Bradano, vera chiave di volta di tutta la regione9. 7 «Continete ergo possessorum intemperantes motus. Ament quieta, quos nullus ad incerta praecipitat. Dum belligerat Gothorum exercitus, sit in pace Romanus. [...] Quapropter ex regia iussione singulos conductores massaros et possessores validos ammonete, ut nullam contrahant in concertatione barbariem, ne non tantum festinent bellis prodesse, quantum quieta confundere» (ivi, XII, 5, 4-5, pp. 469-70). 8 Ai piedi dell’attuale Acerenza; lo spostamento del centro abitato e fortificato sul sito odierno risale infatti all’epoca di Grimoaldo III (788-806): cfr. Chronicon Salernitanum, a cura di U. Westerbergh, «Acta Universitatis Stockholmensis, Studia Latina Stockholmiensia», III, Stockholm 1956, c. 27, p. 29: «Deinde Aggerenciam venit eamque funditus diruit et ad solum usque prostravit; sed ea plus melius quam ipsa vetustissima fuit, in locum alium edificavit. Nam non procul ab ipsa civitas mons ingens erat, in quo ascendens eumque vehementer illustravit; cumque oculis ipsius placuisset, ibidem construere civitas dixit». 9 Tra l’altro, le sole fortificazioni permanenti attestate in quest’area sono proprio quelle di Otranto e di Acerenza, cui si aggiungono quelle di Taranto frettolosamente realizzate dai Bizantini di fronte alla minaccia gotica: cfr. J.-M. Martin, G. Noyé, Guerre, fortifications et habitats en Italie méridionale du Ve au Xe siècle, in Castrurn 3. Guerre, fortification et habitat dans le monde de méditerranéen au

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Le prime fasi della guerra furono dunque favorevoli a Belisario, che tuttavia, pur avendo occupato gran parte della penisola, non riuscì a debellare il nemico spezzandone definitivamente ogni volontà di resistenza. Una svolta si ebbe a partire dal 542 quando i Goti, riorganizzata la monarchia su basi elettive e con connotazione più spiccatamente «nazionalistica», passarono al contrattacco isolando le sparse guarnigioni bizantine e strappando rapidamente loro il controllo del territorio. Il nuovo re Totila, deciso a proseguire la guerra fino all’estremo, adottò una strategia basata sullo sfruttamento della superiore mobilità di piccoli contingenti ben addestrati, riuscendo a sottomettere nuovamente buona parte del Mezzogiorno: gli imperiali vennero respinti fino a Taranto e Otranto in Puglia e scacciati dall’intera Calabria. Nel 543 cadeva Napoli, nel 546 Roma; un nuovo intervento in Italia di Belisario (544-548) fu piuttosto inconcludente, nonostante i Bizantini riuscissero, sotto il suo comando, a rientrare nella vecchia capitale dell’impero, ormai quasi completamente spopolata (547)10. Quelli che seguirono furono certamente gli anni più difficili per la Lucania. Belisario aveva lasciato nella base d’operazioni idruntina un generale tanto abile quanto spietato, Giovanni, destinato a guadagnarsi ben presto il soprannome di Sanguinario, che cominciò a condurre una lotta durissima per riaprire i collegamenti terrestri con la Sicilia e coordinare così gli sforzi bizantini nel Mezzogiorno. Assieme alle azioni puramente militari, e a quelle volte a «pacificare» con la forza le zone riconquistate, vennero condotte trattative con i maggiorenti della zona appulo-lucana, volte a garantire la loro fedeltà e a ottenere, loro tramite, l’appoggio anche attivo della popolazione rurale. Principale interlocutore di Giovanni fu Tulliano, probabilmente il più prestigioso tra i superstiti possessores romani della regione: a lui Giovanni promise il perdono dell’imperatore per i passati servigi resi ai Goti e rilevanti sgravi fiscali per il futuro, mentre Tulliano si impegnava in cambio a servire lealmente l’impero e organizzare un

moyen âge. Colloque organisé par la Casa de Velàzquez et l’École Française de Rome (Madrid. 24-27 novembre 1985), «Collection de l’École Française de Rome», 105, Roma 1988, pp. 225-36, in particolare pp. 227-28. 10 Sugli abitanti rimasti in Roma – addirittura soltanto cinquecento, secondo Procopio! – cfr. Procopio di Cesarea, Bellum Gothicum, in Procopii Caesarensis Opera omnia, a cura di J. Haury, editio stereotypa correctior, addenda et corrigenda adiecit G. Wirth, 4 voll., Lipsiae 1962-64, III, 20, vol. II, pp. 387-88.

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corpo di truppe ausiliarie reclutate tra i contadini. Concluso l’accordo, Tulliano con il suo contingente fu inviato a presidiare i passi che dalla Campania conducono alla Lucania occidentale: ma dopo alterne vicende – compreso un controverso tentativo, da parte di Totila, di convincere gli uomini raccolti da Tulliano a tornarsene ai loro campi con la promessa di donar loro le terre dei possessores11 – i Goti forzarono la linea difensiva bizantina, riversandosi in Lucania e respingendo le truppe imperiali nuovamente su Taranto. Taranto stessa finì per cadere nelle loro mani nel 550. I Goti sembrarono così aver raggiunto il loro principale obiettivo strategico nel teatro appulo-lucano, ovvero quello di stringere l’avversario nel cul de sac di Otranto; ma di fronte alla minaccia di una sconfitta totale, da Costantinopoli vennero finalmente inviati rinforzi sufficienti a rovesciare le sorti della guerra. L’esercito principale, affidato a Narsete, invase l’Italia da nord-est; nel giugno del 552 Totila accettava lo scontro in campo aperto, ma era battuto e ucciso nella battaglia di Tagina; contemporaneamente un corpo di spedizione partito dalla Grecia, sbarcato di sorpresa presso Crotone, sconfiggeva il contingente ostrogoto ancora attivo in Calabria liberando la città dall’assedio. La situazione dei Goti appare ormai senza speranza. Pacurio, che ha preso il posto di Giovanni come responsabile della piazza di Otranto e delle truppe bizantine operanti nella zona, passa al contrattacco e investe Taranto. Il comandante goto della città, Ragnaris, in un primo momento sembra voler defezionare; quindi, ricevuta notizia dell’avvento del nuovo re Teia e della sua volontà di continuare la guerra, accetta battaglia ma viene sconfitto e costretto a riparare ad Acerenza con i superstiti della sua guarnigione12. I Bizantini, ci informa allora

11 Lucida analisi del problema – centrato sulla ricostruzione corretta e sulla conseguente interpretazione di Procopio, Bellum Gothicum, III, 22, vol. II, p. 398 – in Burgarella, Bisanzio in Sicilia, cit., p. 146, nota 1. 12 La successione degli avvenimenti nel racconto di Procopio è la seguente: all’inizio del diciottesimo anno di guerra (552), Giustiniano dà ordine al presidio delle Termopili di far vela verso la Calabria; Crotone viene liberata; di fronte al contrattacco bizantino nel Mezzogiorno, Ragnaris, comandante della piazza di Taranto, intavola trattative con Pacurio; questi si reca a Costantinopoli per ottenere il consenso imperiale alla proposta di resa a condizione avanzata da Ragnaris (Procopio, Bellum Gothicum, IV, 26). A questo punto comincia la narrazione della campagna contemporaneamente condotta da Narsete, che entra in Italia dalla Dalmazia, raggiunge Ravenna, e sconfigge finalmente Totila, nel giugno del 552, a Tagina

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Procopio, prendono il caposaldo di Pietrapertosa, avanzando così nel cuore della Lucania, e sembrano voler puntare direttamente sulla Campania – dove sta per svolgersi l’atto finale della guerra – lasciando per il momento da parte la munitissima Acerenza. Con la sconfitta e la morte di Teia, ultimo re goto d’Italia, si conclude la narrazione di Procopio; ma la guerra, in realtà, si trascina ancora per tre anni. I Goti decisi a continuare la lotta chiamano infatti in aiuto Franchi e Alamanni, che prima di essere intercettati e sbaragliati da Narsete percorrono la penisola devastandola; come narra Agazia, continuatore di Procopio, il condottiero dei Franchi Butilino attraversa e saccheggia la Campania, la Lucania e la Calabria, giungendo fino allo Stretto di Messina13. Cessato il nuovo pericolo, resta ancora da eliminare un’estrema sacca di resistenza proprio in Lucania, dove ancora Ragnaris, sfuggito con alcune migliaia di uomini all’annientamento dell’esercito franco, si rifugia a Conza. Questa volta Narsete non intende lasciarsi alle spalle nidi di resistenza attivi: incalzati i fuggiaschi con l’intero esercito, cinge d’assedio la fortezza per tutto l’inverno successivo (554-555). La situazione viene risolta, almeno secondo Agazia, da un incidente abbastanza fortuito: Ragnaris e Narsete si incontrano fuori delle mura, accompagnati da pochi uomini; il comandante goto scaglia a tradimento una freccia contro Narsete, senza colpirlo, ma scatenando la reazione delle sue guardie del corpo, che dimostrano di essere migliori arcieri e lo feriscono a morte. Due giorni dopo il presidio di Conza si arrende14. La guerra è davvero finita, e la Lucania ne ha sofferto fino all’estremo.

(oggi Gualdo Tadino); seguono poi le operazioni condotte da Narsete fino alla riconquista di Roma (ivi, IV, 26-33). Procopio riprende allora il resoconto di ciò che nel frattempo era accaduto a Taranto: il voltafaccia di Ragnaris, appena avuta notizia dell’avvento di Teia, la sua sconfitta e la sua fuga (ivi, IV, 34). Le due vicende si svolgono parallelamente, e la successione dei fatti nel testo di Procopio obbedisce alla necessità di non spezzare il racconto di quella principale nel suo momento più drammatico. È quindi possibile, se non probabile, che Ragnaris abbia avviato le trattative di resa solo dopo aver ricevuto notizia della morte di Totila. 13 Agathiae Myrinaei Historiarum libri quinque, a cura di R. Keydell, «Corpus fontium historiae byzantinae», 2, Berlin 1967, II, 1, p. 64 (testo originale greco: καὶ Καμπανίας τε τὰ πλεῖστα ἐληΐσατο, καὶ μὲν δὴ καὶ Λευκανίας ἐπέβη, καὶ εἶτα Βρεττίᾳ προσέβαλλεν, καὶ μέχρι τοῦ πορθμοῦ προῆλθεν). 14 Ivi, II, 13-14, pp. 57-59.

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Per quanto scarse e parziali siano le informazioni in nostro possesso, è abbastanza chiaro dunque che gli abitanti della regione vennero coinvolti a più riprese nella lotta, soprattutto durante l’ultimo decennio di guerra: quasi sempre da vittime – della pacificazione di Giovanni, delle rappresaglie dei Goti o semplicemente delle normali requisizioni degli eserciti in movimento – ma almeno una volta da protagonisti, reclutati da Tulliano e schierati a difesa dei valichi occidentali. La questione merita un approfondimento, anche perché costituisce uno dei pochissimi squarci che si aprono sulla situazione sociale della Lucania nel VI secolo. Abbiamo citato il principale protagonista, un grande possidente di nome Tulliano, di stirpe romana, figlio di Venanzio corrector Lucaniae et Bruttiorum sotto Teoderico (507-511)15. Una volta raggiunto l’accordo con il generale bizantino, Tulliano si comporta da fedele suddito imperiale: raccoglie truppe nei propri latifondi – e non solo nei propri, come vedremo –, le arma e le comanda personalmente. Fin qui, nulla di troppo strano: un esponente del ceto dirigente romano, mantenuto al potere dagli Ostrogoti, che sceglie di schierarsi dalla parte dei Bizantini, non prima di aver concessioni fiscali importanti, e mette in campo le proprie soldatesche16. Di fronte alla minaccia di un’alleanza attiva tra la popolazione e i suoi nemici bizantini, Totila ricorre allora a un espediente ovvio: promette vantaggi maggiori in cambio della loro smobilitazione. Per far ciò, si vale della collaborazione forzata dei possessores lucani che tiene in ostaggio in Campania: come narra Procopio, «i patrizi tradotti in Campania mandarono in Lucania alcuni dei servi, per consiglio di Totila, a invitare i loro contadini a disimpegnarsi e a seguitare a col-

15 Cfr. Procopio, Bellum Gothicum, III, 18, 20, vol. II, p. 376: Τουλλιανός τις, Βεναντίου παῖς, ἀνὴρ Ῥωμαῖος, δύναμιν πολλὴν ἔν τε βριττίοις καὶ Λευκανοῖς ἔχων, ovvero «un certo Tulliano, figlio di Venanzio, un romano molto potente fra i Bruzi e i Lucani» (trad. di F.M. Pontani, in Procopio, La guerra gotica, Roma 1974, p. 247). 16 In età tardo-antica, come è noto, è diffuso il fenomeno dei grandi possessores che mantengono e utilizzano bande armate a loro fedeli – i cosiddetti buccellarii, dal nome della buccella, la galletta che veniva loro fornita come principale mezzo di sostentamento – tollerate dal governo centrale: cfr. J. Gascou, L’institution des Bucellaires, in «Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie orientale», 76, 1976, pp. 143-56.

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tivare i campi come avevano sempre fatto; facevano loro sapere che i beni dei padroni sarebbero andati a loro»17. E dunque: Tulliano aveva reclutato uomini anche al di fuori dei propri latifondi; questi uomini credono (o mostrano di credere) alle promesse degli inviati dei loro padroni; il piccolo esercito, probabilmente assai poco ansioso di combattere per l’imperatore, trova la prima buona occasione per sbandarsi e tornare alle proprie sedi. Nell’analisi della vicenda è stata probabilmente sopravvalutata la volontà «eversiva» di Totila18: è vero che il re goto fa promettere ai nobili romani che concederanno le loro terre ai loro uomini in caso di ubbidienza e fedeltà ai loro comandi, ma da questo a vedere un disegno di rivolgimento sociale, con l’azzeramento della classe dei latifondisti a vantaggio di quella – da reinventare sul campo – dei piccoli proprietari liberi, il passo non sembra breve. Quello che il racconto di Procopio mette in piena luce è piuttosto il forte legame personale ancora esistente, nonostante tutto, tra classe e classe. I contadini raccolti da Tulliano si sbandano perché in grande maggioranza non sono i suoi: non è dalle sue mani che ricevono il pane, o meglio la buccella, ma da quelle degli uomini che chiedono loro di tornare a casa, a coltivare i campi. Non vi è alcuna lealtà politica di 17 Τῶν τε πατρικίων οἱ ἐς Καμπανίαν ἀγόμενοι ἐς Λευκανοὺς πέμψανιες τῶν οἰκείων τινάς, Τουτίλα γνώμη,ͺ τοὺς σφετέρους ἀγροίκους ἐκέλευον μεθίεσθαι μὲν τῶν πρασσομένων, τοὺς δὲ ἀγροὺς γεωργεῖν ἧͺπερ εἰώθεσαν. Ἔσεσθαι γὰρ αὐτοῖς τἀγαθὰ ἀπέγγελλον τῶν κεκτημένων (Procopio, Bellum Gothicum, III, 22, 20, vol. II, p. 398; trad. it. cit., p. 260). 18 Anche Burgarella – che pure tratta la questione con notevole chiarezza ed equilibrio – si spinge forse troppo oltre quando definisce l’escamotage di Totila una «misura eversiva di un sistema economico e sociale che intrinsecamente costituiva il supporto della penetrazione bizantina» (Burgarella, Bisanzio in Sicilia, cit., pp. 146-47). Si tratta piuttosto di ricostituire un sistema statale disarticolato dalla guerra – e dal fallimento clamoroso della «coabitazione» teodericiana – in primis «attraverso la sostituzione progressiva dei Bizantini nelle competenze di natura fiscale, ma anche attraverso la confisca dei canoni che i coloni versavano ai proprietari» (ivi, p. 147). Cfr. anche quanto scrive Tabacco, La storia politica e sociale, cit., p. 90, sul comportamento più generale di Totila verso i contadini: «Totila [...] rispettò i contadini dei latifondi abbandonati o confiscati, li esortò a lavorare senza timori, pagando al regno, oltre ai tributi già dovuti al fisco fino allora, anche i censi già spettanti ai loro signori. Non era in verità un proposito di rivoluzione sociale! Ma l’episodio esprime la gravità del dissesto in cui la guerra poneva il sistema di rapporti che i secoli avevano creato e consolidato e gli ostrogoti di Teoderico accettato e protetto».

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sudditi verso il lontano imperatore, né la scelta di campo di Tulliano suscita alcun entusiasmo; non vi sono nemmeno, apparentemente, particolari vincoli di solidarietà tra eguali, che potrebbero spingere questi uomini a una scelta indipendente, riflesso di una seppur embrionale forma di consapevolezza politica. Il solo legame in atto è quello verticale con il proprio dominus: si fa quel che lui dice, o manda a dire, non importa se questo può favorire il re goto o l’imperatore romano19. 2. La restaurazione giustinianea Si può anche supporre che la vittoria finale di quest’ultimo non abbia provocato grande entusiasmo tra la popolazione della penisola; ma almeno la guerra era terminata, e con essa alcuni dei pericoli più immediati. Difficile dire quanto fossero estese e profonde le ferite inferte al territorio e ai suoi abitanti dai lunghi anni di lotta: si tende in genere a descrivere l’Italia come un paese spopolato, citando le drammatiche descrizioni di Procopio, riferite però agli anni del conflitto; ma anche l’ultima campagna, durante la quale Franchi e Alamanni percorsero l’intera penisola prima di venire debellati, deve aver aggiunto ulteriori devastazioni. La Lucania, interessata a più riprese e fino al termine della lotta da azioni di guerra, non poté certo sfuggire alle sue conseguenze nefaste; bisogna tener conto, tuttavia, di come la morfologia del suo territorio possa aver influito sui movimenti degli eserciti, costretti a percorrere pochi itinerari obbligati, limitando così il loro campo d’azione e i danni connessi. Questi ultimi, in ogni caso, sono assai difficili da valutare. La distruzione di un raccolto, per tragici che possano essere i suoi effetti nell’immediato, è una ferita che si rimargina in fretta; il furto o l’uccisione del bestiame possono invece avere conseguenze più gravi su un’economia, come quella lucana, basata essenzialmente sull’allevamento: ma è probabile che gli abitanti, specie nelle zone montagnose, 19 Anche Totila, del resto, sembra ben consapevole della forza di questo legame verticale: potrebbe promettere in prima persona la concessione dei beni dei possessores – che sono suoi prigionieri – ma preferisce invece che a farlo siano dei loro servi in loro nome. Sull’intera vicenda e i suoi risvolti sociali cfr. anche Noyé, La Calabre et la frontière, cit., pp. 284-85.

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fossero abili nell’occultare i propri animali alle truppe di passaggio. Anche la distruzione e lo spopolamento delle città non sembra un fenomeno generalizzato. Secondo Jean-Marie Martin e Ghislaine Noyé, in Puglia come in Lucania e in Calabria «la guerre [...] semble ne rien avoir détruit. Elle n’a touché, dans sa phase la plus aiguë, que quelques secteurs restreints de la région considérée»20; e ancora: «la guerre n’a pas atteint le réseau des cités: la prise d’une ville n’entraîne jamais sa destruction. Elle n’entraîne pas même, semble-t-il, d’abandon provisoire. Peu après, la vie normale semble reprendre»21. In Lucania, pochi anni dopo la fine della guerra, viene eletto un nuovo vescovo. Papa Pelagio I scrive infatti a Pietro, vescovo di Potenza, di inviare a Roma il diacono Latino, vescovo eletto di Marcellianum (presso l’attuale Padula, nel Vallo di Diano), per riceve l’ordinazione: siamo nel 559, e la notizia, per quanto isolata, è un indizio dell’esistenza di condizioni normali di vita. Ma non c’è altro. Se si può dunque sospendere il giudizio sull’entità delle devastazioni inflitte al paese, e alla Lucania in particolare, da vent’anni di guerra, si può considerare invece certo lo sconvolgimento dell’ordine sociale tradizionale: lo dimostra chiaramente la sollecitudine con cui, all’indomani della vittoria, Giustiniano provvedeva a restaurarlo. Mentre si trascinavano ancora le ultime operazioni militari, infatti, il governo imperiale riprendeva il controllo effettivo della penisola con la promulgazione della Prammatica sanzione, un provvedimento – sollecitato da papa Vigilio ed emanato da Giustiniano nell’agosto del 554 – con cui venivano abrogati tutti gli atti compiuti da Totila e la legislazione vigente veniva estesa a pieno titolo all’Italia intera. Tra le più evidenti preoccupazioni dell’imperatore vi era quella di reintegrare il ceto dei possessores nelle loro antiche proprietà fondiarie. Prima di tutto andavano quindi revocati tutti i provvedimenti e le donazioni fatte da Totila – evidentemente il solo, tra i re ostrogoti, ad aver alterato in maniera sensibile la distribuzione del possesso fondiario, e con essa l’intera struttura sociale italiana: così Giustiniano, dopo aver riaffermato la validità degli atti di Amalasunta, Atalarico e Teodato, prosegue: «si quid a Totilane tyranno factum vel donatum esse invenitur cuicumque Romano seu cuicumque alio, servari vel 20 21

Martin, Noyé, Guerre, fortifications et habitats, cit., p. 227. Ivi, p. 228.

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in sua firmitate manere nullo modo concedimus, sed res ablatas ab huius­modi detentatoribus antiquis dominis reformari praecipimus»22. La reintegrazione dei vecchi possessores non era però semplicissima, perché la lunga guerra aveva davvero sconvolto l’ordine delle cose, provocando la distruzione non solo di vite umane e beni, ma anche della documentazione relativa alle proprietà fondiarie. Giustiniano deve prevedere esplicitamente, di conseguenza, che la ricostruzione dei patrimoni possa aver luogo anche in mancanza dei titoli di proprietà: dunque spesso sulla parola, o meglio sulla fiducia che il governo imperiale riconosceva ai membri della classe dominante in quanto tali. L’applicazione della Prammatica sanzione provocò quindi un generale riassestamento della proprietà terriera, avvenuto probabilmente grazie alla compilazione di un nuovo catasto fondiario. Lo scopo principale era quello di ricostruire nel più breve tempo possibile il vecchio tessuto connettivo della società italiana, conditio sine qua non – almeno nella visione giustinianea – per ridare impulso alla vita economica della penisola, per ristabilire un adeguato controllo sulla produzione agricola e, di conseguenza, un gettito fiscale soddisfacente23. Non solo: anche la ritrovata stabilità politica doveva fondarsi sul consenso e sul concorso attivo dei notabili locali, cui veniva affidata, assieme ai vescovi, la scelta dei governatori civili delle province (iudices)24. Ma la tregua concessa fu troppo breve. Il disegno giustinianeo di una restaurazione dell’ordine sociale tardo-antico, e di un progressivo rinsaldarsi dei legami tra le élites italiane e Costantinopoli25, non ebbe 22 Corpus Iuris Civilis, a cura di Th. Mommsen, P. Krüger, R. Schöll, T. Kroll, 3 voll., Berlin 1877-95, vol. III, Novellae, p. 799. 23 Giustiniano incoraggia esplicitamente i proprietari a recarsi (da Costantinopoli) nei loro latifondi italiani per sorvegliarne la riorganizzazione e provvedere alla ripresa della produzione agricola: «Sed etiam ad Italiae provinciam eundi eis et ibi quantum voluerint tempus commorandi pro reparandis possessionibus aperimus licentiam, cum dominis absentibus recreari possessiones aut competentem mereri culturam difficile sit» (ivi, p. 802). 24 Le mansioni di questi ultimi sono quasi ovunque nettamente separate da quelle del comandante militare della provincia (dux), di nomina imperiale. Come è noto, questo sistema verrà superato, sotto la pressione longobarda, con l’istituzione dell’esarcato, alla guida del quale viene posto un ufficiale che riunisce nelle proprie mani competenze sia civili che militari. 25 «E come a sottolineare ancora l’immediatezza del legame dei grandi signori con la corte imperiale, fu previsto che fosse consentito ai “gloriosissimi ac magnifici

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modo di realizzarsi appieno, spezzato sul nascere da una nuova crisi militare. 3. I Longobardi in Lucania Nemmeno quindici anni di pace completa venivano infatti concessi all’Italia bizantina, perché già nel 568 i Longobardi, popolo di stirpe germanica e fede ariana proveniente dalla Pannonia, attraversati i valichi delle Alpi orientali invadevano la penisola incontrando scarsa resistenza. In pochi anni il loro dominio si estendeva su buona parte d’Italia; il governo di Costantinopoli, duramente impegnato in Mesopotamia e nei Balcani, era costretto ad affidarsi esclusivamente alle truppe locali, concentrando le poche forze disponibili nella difesa della capitale Ravenna, che avrebbe resistito fino al 732. L’occupazione longobarda si doveva dimostrare una calamità peggiore di quante si fossero abbattute in passato sulla penisola. Ancora nel luglio del 596, quasi trent’anni dopo l’invasione, papa Gregorio Magno, scrivendo al patriarca alessandrino Eulogio, ne denunciava la violenza con tono quasi disperato: «quanta autem nos a Langobardorum gladiis in cotidianis nostrorum civium depraedatione vel detruncatione atque interitu patimur narrare recusamus, ne, dum nostros dolores loquimur, ex compassione quam nobis impenditis vestros augeamus»26. Il Mezzogiorno soffrì certo non meno di altre regioni per la violenza degli invasori; ma la conquista longobarda è qui avvolta nel buio più assoluto. Dalla Historia Langobardorum di Paolo Diacono sappiamo soltanto che il primo centro di potere in Italia meridionale fu la città di Benevento e che Zottone, il primo duca – al cui nome sono legati il saccheggio e la distruzione dell’abbazia di Montecassi-

senatores”, per qualsiasi ragione, di “navigare” fino alla presenza dell’imperatore [...]. La restaurazione imperiale si prospettava dunque principalmente come restaurazione di un sistema sociale, non più coordinato, come in Italia da oltre un mezzo millennio avveniva [...] intorno a Roma, o intorno a Roma e a Ravenna [...] bensì intorno alla corte di Costantinopoli» (Tabacco, La storia politica e sociale, cit., p. 38). 26 Gregorio Magno, Registrum epistularum, «Corpus Christianorum-Series Latina», CXL A, a cura di D. Norberg, Turnhout 1982, VI, 61, vol. I, p. 435.

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no, destinata a restare deserta per più di un secolo –, regnò per circa vent’anni tra il 570 e il 59027. Ma il vero protagonista dell’affermazione longobarda in Italia meridionale fu il duca Arechi I, successore diretto di Zottone. Durante il suo lungo periodo di governo (591-640) Arechi riuscì infatti a espandere il proprio dominio a spese di Bisanzio, seguendo una politica del tutto indipendente da quella dei suoi sovrani Agilulfo (581-616), Adaloaldo (616-625) e Ariovaldo (625-636). Napoli e Amalfi vennero ripetutamente attaccate, Capua conquistata, la Calabria invasa a più riprese e Crotone espugnata già nel 59628. Nulla sappiamo di più preciso sulla sorte della Lucania: ma la regione, certamente attraversata dagli exercitales beneventani in marcia dalla Campania alla Calabria, difficilmente sarà rimasta indenne dalle loro scorrerie. Questa constatazione, di per sé quasi ovvia, è suffragata dall’unica fonte che ci parli della Lucania in questi anni, l’epistolario di Gregorio Magno. Gli effetti dell’invasione dei Longobardi su alcune diocesi del Mezzogiorno sembrano essere stati desolanti: nel luglio 592, infatti, il pontefice doveva incaricare Felice vescovo di Agropoli di compiere una visita pastorale con ampi poteri di intervento «quoniam Velina, Buxentina et Biandana ecclesiae, quae tibi in vicino sunt constitutae, sacerdotis noscuntur vacare regimine»29. Si tratta delle diocesi di Velia (identificata con Castellamare della Bruca, presso Pisciotta), Buxentum (Capo della Foresta, presso Policastro, o Pisciotta nella valle di Novi) e Blanda Iulia (probabilmente Porto di Sapri), tutte nel Cilento, e quindi nei confini della Lucania tardo-antica30: e la mancanza di vescovi e sacerdoti, per quanto non 27 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, edidit G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, III, 33, p. 112. 28 Cfr. F. Hirsch, M. Schipa, La Longobardia meridionale (570-1077). Il ducato di Benevento. Il principato di Salerno, ristampa a cura di N. Acocella, Roma 1968, pp. 12-15. Sulla conquista di Crotone e sul riscatto dei suoi abitanti prigionieri dei Longobardi cfr. Gregorio Magno, Registrum epistolarum, VII, 23, vol. I, p. 477 (del giugno 597, indirizzata al patriarca costantinopolitano Teoctisto): «Indico vero quia ex Crotonensi civitate, quae [...] transacto anno a langobardis capta est, multi viri ac multae mulieres nobiles in praeda ductae sunt et filii a parentibus, parentes a filiis et coniuges a coniugibus divisi, ex quibus aliqui iam redempti sunt. Sed quia gravibus eos pretiis dicunt, muiti apud nefandissimos Langobardos hactenus remanserunt». 29 Gregorio Magno, Registrum epistolarum, II, 35, vol. I, p. 120. 30 Cfr. F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), «Studi e testi», 35, Faenza 19352, pp. 322-23.

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necessariamente collegata a vicende militari recenti, è un indizio abbastanza chiaro della situazione difficile della regione, senza dubbio connessa con i torbidi seguiti all’occupazione longobarda. Una seconda lettera di papa Gregorio ci fornisce un’ulteriore prova della violenza della conquista. Nel settembre 593 il pontefice scrive infatti al rector Siciliae Cipriano per trattare il caso della monaca Petronella de provincia Lucania, fuggita in Sicilia «propter irruentem Italiae cladem»: pur nella sua indeterminatezza – non sappiamo quali zone venissero davvero interessate dalla irruens clades longobarda, né esattamente in che periodo – l’annotazione di Gregorio Magno è assai esplicita nella sua concisa drammaticità31. Del resto, anche il destino di chi era sfuggito alla violenza degli invasori poteva rivelarsi assai amaro. Con il tracollo militare, l’amministrazione dell’Italia bizantina peggiora e all’abituale pressione fiscale si aggiunge l’arbitrio di ufficiali che si sottraggono sempre più al controllo del governo. Così in Corsica alla fine del secolo, da dove i possessores preferiscono emigrare «ad nefandissimam Langobardorum gentem» piuttosto che continuare a subirne le vessazioni32; così a Campagna, appena a nord del Sele (e quindi appena al di fuori della Lucania), dove nell’anno 600 le ingiustizie e la rapacità del dux imperiale costringono molti suoi concittadini alla fuga in territorio nemico33. Su queste note si chiude il VI secolo, ed è probabile che le sorti della penisola tocchino allora il loro punto più basso. Gregorio Magno fu testimone eccezionale di tempi eccezionali: con il passare dei decenni, anche la nefandissima gens Langobardorum finì lentamente con l’amalgamarsi alla popolazione delle zone conquistate e la situazione divenne meno difficile. L’assestamento della presenza longobarda nel Mezzogiorno fu segnato, dal punto di vista politico-militare, dalla definitiva affermazione del ducato beneventano, che con Grimoaldo I (646/647-671), terzo successore di Arechi I, appare ormai in grado di giocare un ruolo di primissimo piano nelle vicende dell’intera penisola. Grimoaldo stesso riuscì addirittura a ottenere la corona del regno d’Italia nel periodo finale della sua vita, Cfr. Gregorio Magno, Registrum epistolarum, IV, 6, vol. I, p. 222. Ivi, V, 38, vol. I, pp. 312-13. Scrive infatti Gregorio: «Unde fit ut, derelicta pia respublica, possessores eiusdem insulae ad nefandissimam Langobardorum gentem cogantur effugere». 33 Ivi, X, 5, vol. II, pp. 830-31. Da notare un particolare interessante: il dux Campaniae cui si rivolge papa Gregorio si chiama Godescalco, nome longobardo... 31 32

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anche se non a trasmetterla al proprio erede; più ancora, il duca beneventano si dimostrò capace di affrontare la minaccia di una controffensiva bizantina quando, nella primavera del 663, Costante II sbarcò con un forte corpo di spedizione a Taranto, fermamente intenzionato a ristabilire il controllo imperiale sul Mezzogiorno. Ancora una volta le uniche informazioni che abbiamo sulla Lucania di quest’epoca riguardano la condotta di operazioni belliche. È Paolo Diacono a offrirci una scarna ricostruzione dell’itinerario seguito dall’esercito imperiale: igitur cum, ut diximus, Constans augustus Tarentum venisset, egressus exinde, Beneventanorum fines invasit omnesque pene per quas venerat Langobardorum civitates cepit. Luceriam quoque, opulentam Apulie civitatem, expugnatam fortius invadens diruit, ad solum usque prostravit. Agerentia sane propter munitissimam loci positionem capere minime potuit. Deinde cum omni suo exercitu Beneventum circumdedit et eam vehementer expugnare coepit34.

Taranto è dunque ancora in mani bizantine alla vigilia dello sbarco, e costituisce la base d’operazioni di Costante II; di lì, non appena si inoltra nell’interno, l’esercito imperiale varca i Beneventanorum fines. Il percorso scelto – il tratto iniziale della via Appia da Taranto verso nord-ovest, con una deviazione per investire la piazzaforte di Acerenza35, quindi la via Traiana fino a Lucera e Benevento – è 34 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, V, 7, p. 147. La narrazione di Paolo ha come fonte l’anonima biografia di papa Vitaliano (657-672), in Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, Paris 1955-572, c. LXXVIII, pp. 343-45; cfr. P. Corsi, La spedizione italiana di Costante II, Bologna 1983, pp. 49 sgg. e 117 sgg. 35 La grande strada romana mantenne la sua importanza anche in quest’epoca: è citata in un documento beneventano del VII secolo come la «stradam majorem qui vadit in Tarentum» (F. Ughelli, Italia sacra, 10 voll., Venetiis 1717-222, vol. X, c. 430); ma, come nota Vera von Falkenhausen, «plus les Lombards avançaient dans leur conquête de la Lucanie, moins cette route fût utilisée par le trafic byzantin» (V. von Falkenhausen, Réseaux routiers et ports dans l’Italie méridionale byzantine (VIe-XIe s.), in ´Η καθημερίνη ζωὴ στὸ βυζάντιο. Πρακτικὰ τοῦ Α᾽ διέθνους Συμποσίου (Αθῆνα, 15-17 σεπτεμβρίου 1988), Αθῆνα, Κέντρο Βυζαντινῶν Ἐρευνῶν, 1989, p. 728. Scrive giustamente Corsi, La spedizione italiana, cit., p. 122, che anche se Paolo Diacono ricorda prima la distruzione di Lucera e poi il vano assedio di Acerenza, l’ordine di questi avvenimenti va con ogni probabilità invertito: «la prima città ad essere attaccata fu Acerenza [...]. Il fatto che Costante abbia proseguito la sua campagna, senza insistere nell’assedio, costituisce un’ulteriore conferma dell’esistenza di un piano d’azione ben preciso, basato sul coordinamento dell’offensiva bizantina

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abbastanza chiaramente finalizzato all’obiettivo strategico di colpire il cuore stesso del potere longobardo nel Mezzogiorno. La Lucania orientale viene dunque attraversata ancora una volta da un esercito ostile; Acerenza resiste, e così Benevento, ma l’imperatore continua comunque la sua marcia verso Roma. I Longobardi meridionali sono tutt’altro che debellati e il duca Romualdo – succeduto al padre Grimoaldo nel momento in cui quest’ultimo aveva assunto il titolo regale – riesce a sconfiggere un contingente bizantino36; poi Costante II fa ritorno in Sicilia, dove per il momento morirà con lui il tentativo di risollevare le sorti di Bisanzio in Occidente. L’efficace opposizione militare alla spedizione italiana di Costante II può essere legittimamente presa come segno della definitiva affermazione longobarda nel Mezzogiorno. Il ducato beneventano conobbe nel secolo successivo un periodo di relativa eclissi, tornando sotto il più stretto controllo della monarchia; questo non impedì tuttavia il consolidarsi e l’estendersi della presenza longobarda in tutta l’Italia meridionale, finché restarono sotto il controllo effettivo di Costantinopoli soltanto alcuni porti pugliesi37. 4. Benevento e Salerno Alla metà dell’VIII secolo, il prolungato e continuo contatto dei Longobardi beneventani con la più evoluta civiltà bizantina ne aveva a poco a poco mutato cultura e modi di vita. Arechi II, duca di Benevento dal 758, subito dopo esser stato chiamato al potere, diede inizio alla costruzione di una cappella nel proprio palazzo che imitava esplicitamente, sia nella dedica alla divina sapienza sia nella pianta

a sud e di quella dei Franchi a nord». In ogni caso la battuta d’arresto sotto le mura di Acerenza «aveva consigliato una maggior prudenza ai Bizantini, dissuadendoli da una penetrazione diretta verso Benevento», spingendoli quindi a deviare sulla via Traiana verso Lucera per assicurarsi il controllo della Puglia prima di marciare sulla capitale longobarda. 36 Lo scontro avvenne presso Forino, pochi chilometri a sud di Avellino. Il contingente imperiale era agli ordini dell’armeno Saburro (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, V, 10, p. 149). 37 Cfr. Noyé, La Calabre et la frontière, cit., p. 297. Taranto e Brindisi cadono in mano longobarda verso la fine del regno del duca Romualdo I (689); la presenza bizantina è confinata allora nella sola Otranto.

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centrale, la grande chiesa giustinianea di Costantinopoli. La cappella palatina di Santa Sofia di Benevento divenne ben presto un importante centro di raccolta di reliquie, in primis quelle di Mercurio, santo militare bizantino, scelto come patrono della città38. Con la caduta del regno mutò drammaticamente anche la situazione dei Longobardi meridionali e si aprì quella che a buon diritto è stata definita l’età d’oro del ducato beneventano39. Arechi II si autoproclamò re, per assumere poi il titolo – forse più ambiguo40, ma comunque esplicitamente sovrano – di princeps gentis Langobardorum. L’ambizione di Arechi non poteva non suscitare le ire del pontefice Adriano I, che riuscì finalmente a convincere il suo alleato Carlo, nella sua qualità di nuovo re dei Longobardi, a intervenire. Per una volta la Lucania venne risparmiata dalla guerra: l’esercito di Carlo, entrato nel territorio beneventano da nord, conquistò Capua nel marzo del 787; di fronte a tale minaccia Arechi scese immediatamente a patti, pagando un forte tributo e giurando fedeltà all’avversario. Ma la situazione politica e strategica generale spingeva ovviamente il potente princeps gentis Langobardorum a stringere allean­ za con Costantinopoli: accettare realmente la sovranità dei Franchi avrebbe significato rinunciare all’indipendenza beneventana, mentre l’alleanza bizantina – seppure accompagnata dal riconoscimento della suprema autorità dell’imperatore – prometteva di lasciare ben più ampi margini di libertà, e addirittura di accrescere il prestigio longobardo nel Mezzogiorno41. Arechi si sentì in dovere di includere, nei 38 Cfr. V. von Falkenhausen, I Longobardi meridionali, in G. Galasso (a cura di), Storia d’Italia, vol. III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 249-364, in particolare p. 257, e H. Belting, Studien zum beneventanischen Hof im 8. Jahrbundert, in «Dumbarton Oaks Papers», 16, 1962, pp. 141-93, in particolare pp. 156-59. Su san Mercurio cfr. H. Delehaye, Les légendes grecques des saints militaires, Paris 1909, pp. 234-42. 39 Belting, Studien zum beneventanischen Hof, cit., p. 143. 40 Infatti «designava nell’uso dell’epoca l’imperatore bizantino, ma è anche utilizzato più volte da Paolo Diacono in riferimento al re dei Longobardi» (Falkenhausen, I Longobardi, cit., p. 258). 41 È senz’altro vero, come scrive la Falkenhausen, che Arechi II aveva compreso perfettamente come «la sopravvivenza del nuovo principato dipendeva dalla sua abilità di porre in contrasto franchi e bizantini»; tuttavia la sua scelta di campo mi pare abbastanza netta. Del resto, lo spingevano verso una più stretta alleanza con Costantinopoli anche la parentela con Adelchi, figlio di Desiderio, in esilio nella capitale dell’impero, e soprattutto la prospettiva di ottenere da Bisanzio la sovranità sul ducato di Napoli (ivi, p. 259).

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termini dell’accordo, la promessa esplicita di uniformarsi in futuro agli usi bizantini per quel che riguardava la foggia degli abiti e il taglio dei capelli: particolare curioso, ma rivelatore di un processo di acculturazione ormai spinto assai avanti, e di quanto tale processo venisse tenuto in conto, da parte bizantina, nella consapevolezza che l’accoglimento di modi e abitudini di vita fosse la garanzia migliore per attirare stabilmente i Longobardi meridionali nell’orbita civile e politica dell’impero. L’improvvisa morte di Arechi II (787) impedì tuttavia il formalizzarsi dell’alleanza. Suo figlio Grimoaldo, ostaggio di Carlo, dovette piegarsi a riconoscerne la sovranità in cambio del permesso di tornare a Benevento per raccogliere l’eredità paterna. Ancora una volta, nei termini dell’accordo vengono contemplate esplicitamente misure riguardanti l’abbigliamento e l’acconciatura non soltanto del principe, ma di tutti i suoi sudditi, che dovevano tornare alla moda franca; ancora una volta, quindi, manifestazioni apparentemente esteriori vengono prese in seria considerazione come segno esplicito di fedeltà politica. Inizialmente Grimoaldo non tradì la fiducia di Carlo: già nel 788, infatti, prestava il suo aiuto militare per stroncare un tentativo bizantino di ricondurre Adelchi sul trono di Pavia42. Ma l’alleanza con i Franchi era troppo pericolosa per Benevento, e Grimoaldo finì ben presto per tornare a cercare l’appoggio di Bisanzio, imparentandosi anche con l’imperatore Costantino VI. Questo provocò ripetuti interventi militari da parte del re d’Italia Pipino, figlio di Carlo, che tuttavia furono respinti con successo tra la fine dell’VIII e i primi anni del IX secolo. L’indipendenza di Benevento dai Franchi era così garantita; di lì a poco, l’indebolirsi della potenza di questi ultimi avrebbe poi di fatto rimosso il problema. Ma i Longobardi meridionali non seppero sfruttare la maggior libertà d’azione loro concessa dal declino carolingio. Il IX secolo fu infatti un periodo di incessanti lotte intestine che da un lato produssero una frammentazione del potere politico – emergono infatti, come Stati sostanzialmente indipendenti, la contea di Capua e il principato di Salerno – mentre, cosa ancor più grave, aprono le porte del Mezzogiorno a sempre più folte schiere di guerrieri arabi, ben felici di

42 Cfr. O. Bertolini, Carlomagno e Benevento, in W. Braunfels (a cura di), Karl der Grosse. Lebenswerk und Nachleben, Düsseldorf 1968, vol. I, p. 653.

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approfittare della situazione favorevole per saccheggiare prima, per conquistare stabilmente poi. Come ha scritto Vera von Falkenhausen, l’immagine del IX secolo nelle fonti narrative dell’Italia meridionale è tutta dominata dalle incursioni arabe. Sono ricordate distruzioni di città e monasteri, devastazioni di territori e carestie che ne derivavano, monaci assassinati o venduti come schiavi. La generale insicurezza e il terrore sparso dai Saraceni [...] non è l’invenzione di una storiografia monastica edificante e partigiana, bensì un fenomeno reale ed estremamente diffuso43.

L’abitudine di chiamare in soccorso mercenari arabi dalla Spagna e soprattutto dalla Sicilia (dove Palermo era caduta nell’831, mentre la capitale bizantina, Siracusa, avrebbe resistito fino all’878) venne inaugurata dal duca di Napoli nell’835/836 proprio per difendersi da un attacco del principe beneventano Sicardo. Quando quest’ultimo venne assassinato (839), la sua morte aprì di fatto una vera e propria guerra civile tra suo fratello Siconolfo, appoggiato da elementi esterni a Benevento (Napoli, Amalfi, Capua) e il thesaurarius Radelchi, regolarmente eletto. Per dieci anni infuriò una lotta sanguinosa; Radelchi reclutò gli Arabi che già avevano conquistato Taranto (840), quindi assoldò il capo berbero Kalfûn, che riuscì per proprio conto a espugnare Bari (847) e a conquistare buona parte della Puglia. La situazione era completamente sfuggita di mano ai signori longobardi del Mezzogiorno. In Occidente apparve chiaro che senza un deciso intervento esterno l’intera Italia meridionale sarebbe passata, come ormai la Sicilia, nelle mani dell’Islam e che la stessa Roma ne avrebbe presto o tardi seguito la sorte. L’imperatore Lotario I si decise allora a inviare il proprio figlio e re d’Italia Ludovico II a Benevento, che nel frattempo aveva addirittura dovuto accogliere una guarnigione araba (848): quest’ultima venne costretta a ritirarsi, e soprattutto Ludovico II costrinse Siconolfo e Radelchi a giungere a un accordo che ponesse fine alla guerra, impegnandosi anche a non assoldare altri mercenari e a scacciare quelli presenti nel territorio del principato. L’accordo venne effettivamente stipulato nell’84944. A Radelchi, principe di Benevento, toccavano il Molise e la Puglia a nord di TaFalkenhausen, I Longobardi, cit., p. 296. Cfr. Radelgisi et Siginulfi divisio ducatus Beneventani, edidit F. Bluhme, in MGH, Leges, vol. IV, Hannoverae 1868, c. 9, p. 222. 43 44

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ranto, più la metà del gastaldato di Acerenza; a Siconolfo, principe di Salerno, i gastaldati di Taranto, Latiniano, Cassano allo Ionio, Cosenza, Laino, Conza, Montella, Rota (Mercato San Severino), Salerno, Sarno, Cimitile, Forchia, Capua, Teano, Sora e la parte occidentale del gastaldato di Acerenza – ovvero la Campania, la maggior parte della Basilicata (con Taranto, allora però occupata dagli Arabi) e la Calabria settentrionale longobarda. La spartizione dell’849 ci consente finalmente di discernere la struttura amministrativa della Lucania in questa epoca e di intuire almeno gli equilibri interni del Mezzogiorno longobardo. La regione era divisa infatti nei gastaldati di Acerenza, corrispondente grosso modo alla vasta zona tra il corso del Bradano e le Murge, e comprendente quindi la parte nord-occidentale della provincia di Potenza e la provincia di Matera45; di Latiniano, comprendente il cuore della Basilicata attuale, tra il Basento e l’Agri; di Conza, nell’alta valle dell’Ofanto, comprendente la zona a occidente del massiccio del Vulture, divisa oggi tra Basilicata e Campania; e infine di Laino, nell’alta valle del Lao, nella zona del massiccio del Pollino, oggi tra Basilicata e Calabria. È estremamente interessante osservare come la quasi totalità della regione venisse attribuita al principato di Salerno: segno abbastanza esplicito di come i legami economici fossero indirizzati verso la città tirrenica piuttosto che verso Benevento. Quest’ultima, al contrario, estendeva la propria zona d’interesse in Puglia, e senza dubbio ai porti pugliesi guardava per i traffici con Bisanzio. Da notare, infine, il ruolo di Taranto, che sembra avere la funzione – confermata del resto dalla documentazione posteriore – di sbocco marittimo orientale per l’area lucana, e come tale viene coerentemente assegnata, quale estrema propaggine, al principato salernitano. Mentre la risistemazione territoriale della Langobardia minor prevista dall’accordo dell’849 ebbe effettiva attuazione – con l’eccezione rilevante del gastaldato di Capua, teoricamente assegnato a Salerno ma

45 Nell’epoca precedente si ha un’altra notizia sul gastaldato: Erchemperto, il continuatore di Paolo Diacono, cita infatti un Sico Agerentinus castaldeus, che nell’816, assieme a Radechis conte di Conza, si ribella proditoriamente contro Grimoaldo e lo uccide (Erchemperti Historia Langobardorum, in MGH, Scriptores rerum langobardicarum, cit., c. 8).

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in pratica capace di mantenere la propria autonomia –, le misure militari per scacciare gli Arabi dal Mezzogiorno restarono lettera morta: l’impotenza dei principi longobardi emerge con chiarezza in un capitolare di Adelchi di Benevento [...]. Nel prologo delle leggi dell’866 è detto che il paese era allora devastato da popoli pagani che non cessavano di tormentarne e perseguitarne gli abitanti, bruciando e distruggendo villaggi e città46.

Non è possibile precisare quanti e quali centri abitati della Lucania venissero interessati da queste distruzioni; la situazione generale si era comunque fatta ancora una volta insostenibile47, spingendo Benevento e Capua ad allearsi e a inviare – assieme all’abate cassinese Bertario – un nuovo pressante appello a Ludovico II, ora diventato imperatore, sollecitando un suo secondo intervento militare. Le aspettative dei Longobardi meridionali non andarono deluse: nel dicembre dell’867 Ludovico entrava a Benevento alla testa delle sue truppe, ben deciso a ricacciare gli Arabi. Et ecce congreditur cum Saracenis, tropeum primitus bellicans sumpsit ex eis victoriae, ac demum omnia illorum capiens castra, sole tantum illius civitates remanserunt, Barim scilicet necnon atque Tarantum. Nam omnium quidem eorum gloria, munitissima capta est urbis Materia, quaeque

46 Falkenhausen, I Longobardi, cit., p. 269. Ecco il testo originale del capitolare beneventano: «quos iam infestatio multarum gentium valde opprimit, quae nostros concives conterere et dissipare non desinunt, plurimas nostrorum villas oppidaque cremantes et disperdentes» (Leges Langobardorum 643-866, a cura di F. Beyerle, Witzenhausen 1962, p. 212). 47 Attorno all’870 abbiamo una testimonianza eccezionale sulle conseguenze della presenza araba per le popolazioni del Mezzogiorno: il monaco Bernardo, in viaggio dalla Francia alla Terrasanta, giunto a Taranto (occupata dagli Arabi) per imbarcarsi, trova in porto «naves sex, in quibus erant IX milia captivorum de Beneventanis christianis. In duabus nempe navibus, que primo exierunt Africam petentes, erant tria millia captivi, alie due post exeuntes, in Tripolim deduxerunt similiter III. In reliquis demum duabus introeuntes, in quibus quoque predictus erat numerus captivorum, delati sumus in portum Alexandrie, navigantes diebus XXX» (T. Tobler, A. Molinier, C. Kohler [a cura di], Itinera hierosolymitana et descriptiones Terrae Sanctae lingua latina saec. VI-XI exarata, 2 voll., Genf 1877-85, vol. I/2, pp. 310-11). I numeri sembrano eccessivi (difficile, per non dire impossibile, caricare 1.500 uomini su una nave del IX secolo), ma sono essi stessi testimonianza della forte impressione esercitata sul monaco Bernardo dalla massa di prigionieri stipati a bordo dei vascelli.

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igne ferroque ad nichilum redacta est; augusto autem mense reversus est Beneventum48.

La campagna proseguì negli anni successivi finché anche Bari, ultima piazzaforte araba, venne presa d’assalto nell’871, senza bisogno dell’intervento della flotta bizantina. Ma la gratitudine dei Longobardi per chi li aveva liberati dalla minaccia dei Saraceni fu estremamente breve. Nell’estate dello stesso anno proprio il principe beneventano Adelchi, che più di tutti aveva goduto dei benefici della spedizione imperiale, si impadronì della persona di Ludovico e lo tenne in ostaggio per una quarantina di giorni, rilasciandolo – ma dopo avergli estorto il giuramento di non vendicarsi di quell’offesa49 – soltanto di fronte alla minaccia, ben presto tradottasi in drammatica realtà, di una spedizione punitiva araba pronta a far vela dalla costa africana. 5. Il ritorno di Bisanzio L’intervento di Ludovico II non era stato dunque risolutivo, e i Longobardi si confermavano del tutto incapaci di un’azione comune in difesa del Mezzogiorno. Si aprivano così nuovi spazi per l’iniziativa bizantina: già nell’876 il gastaldo longobardo di Bari chiamava infatti in aiuto contro gli Arabi il primicerio Gregorio, comandante della piazza di Otranto, che si affrettava a prendere il controllo dell’importante porto pugliese. Da quel momento l’avanzata bizantina fu costante, permettendo ben presto al governo di Costantinopoli di esercitare una vera e propria egemonia politico-militare sull’intero Mezzogiorno peninsulare. Già alla fine del IX secolo la situazione volgeva dunque nettamente a favore di Bisanzio. Nell’880 veniva riconquistata Taranto; ma la campagna risolutiva fu quella condotta con grande abilità a partire 48 Chronica Sancti Benedicti Casinensis, c. 4, in MGH, Scriptores rerum langobardicarum, cit., p. 471. Cfr. anche Erchemperti Historia Langobardorum, cit., p. 247. 49 Come scrive O. Albertoni, L’Italia carolingia, Roma 1997, p. 54, la breve prigionia di Ludovico «fu un colpo durissimo per la sua politica e la sua immagine imperiale»: quel che può sembrare un semplice contrattempo, segnò di fatto l’improvviso tracollo delle speranze dell’imperatore carolingio di riportare il Mezzogiorno sotto l’autorità della propria dinastia.

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dall’885 da Niceforo Foca, inviato in Italia da Basilio I come strategòs del tema di Longobardia e quindi, all’epoca, massima autorità imperiale nel Mezzogiorno50. I gastaldi di Lucania e Calabria settentrionale, isolati dai centri del potere longobardo, indeboliti da anni di incursioni arabe, non avevano né i mezzi né la volontà per opporsi validamente al generale bizantino, che riuscì in breve a riportare sotto il diretto controllo di Costantinopoli buona parte della Puglia e della Lucania e l’intera Calabria. L’azione di Niceforo doveva rivelarsi ancora più efficace nella pacificazione e nella riorganizzazione del dominio acquisito grazie alla forza militare e alla sua personale abilità di comandante. Lo stratego bizantino sfruttò senza dubbio il desiderio di sicurezza delle popolazioni del Mezzogiorno, che avevano ormai perso ogni fiducia nella capacità, da parte dei loro signori longobardi, di porre un freno alla minaccia araba; ma si comportò con moderazione tale da guadagnarsi la loro riconoscenza e la loro fedeltà ben oltre l’immediato51. Il provvedimento più popolare fu senza dubbio quello riguardante le esenzioni fiscali concesse ai vecchi sudditi longobardi, che ridiede respiro all’economia delle regioni riconquistate; e il successo di Niceforo fu tale, e tanto benefico nel volgere di pochi anni per l’impero, che la sua condotta venne citata come esemplare da Leone VI nei suoi Tactica: questo è ciò che sappiamo aver fatto lo stratega Niceforo, dopo esser stato inviato contro il popolo dei longobardi, al fine di ricondurlo sotto il nostro dominio. Infatti soggiogò quel popolo non soltanto grazie ad un’abile condotta militare, ma invero anche mostrando solerzia e giustizia, e comportandosi benevolmente con tutti, liberandoli da tutte le corvées e dagli altri tributi52. 50 Su Niceforo Foca cfr. V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, p. 77; cfr. anche J. Gay, L’Italie méridionale et l’émpire byzantin depuis l’avènement de Basile Ier jusqu’à la prise de Bari par les Normands (867-1071), «Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome», 90, Roma 1904, pp. 133-35. 51 Sulla riconoscenza delle popolazioni del Mezzogiorno, che innalzano una chiesa in onore di Niceforo, cfr. Georgius Cedrenus, Σύνοψις ι῾στορίων, «Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae», Bonn 1839, vol. II, p. 354. 52 Leonis imperatoris Tactica, in Patrologiae cursus completus. Series graeca posterior, edidit J.-P. Migne, vol. CVII, Parisiis 1863, Const. XV, 38, col. 896: Τοῦτο γὰρ ἴσμεν καὶ Νικηφόρον τὸν ἡμέτερον στρατηγὸν πρὸς τὸ Λαγοβάρδων ἔθνος πεποιηκότα, ὅτε παρὰ τῆς βασιλείας ἡμῶν εἰς τὸ ὑποτάξαι αὐτοὺς ἐξαπεστάλη.

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L’Italia bizantina – anche se il problema arabo era tutt’altro che risolto – sembra avviarsi allora a un periodo di relativo benessere, segnato da una lenta ma costante espansione demografica e da un certo progresso economico53. Al contrario, la situazione permane confusa nei territori longobardi: la stessa Benevento, per breve tempo occupata dalle truppe imperiali (891-895), passa prima nelle mani dei duchi di Spoleto (895-897) e poi in quelle di Atenolfo di Capua, la cui affermazione, nell’899, pone fine a più di mezzo secolo di guerre civili. Ma la vecchia capitale del Mezzogiorno longobardo diventa così una città secondaria, rimpiazzata nel suo ruolo da Capua: Atenolfo è più interessato a consolidare il proprio dominio in Campania – dove deve ancora lottare contro i Saraceni stabilitisi alla foce del Garigliano – e guarda comunque a occidente, non all’Adriatico o allo Ionio, poco interessato a disputare la Puglia ai Bizantini. Nello stesso periodo Capua si separa definitivamente da Salerno; e Salerno stessa, ridimensionata sia dall’avanzata bizantina in Lucania e Calabria sia dalla nuova potenza capuana, non può far altro che adattarsi al ruolo di fedele vassalla di Costantinopoli. La Langobardia minor, nell’ultima fase della sua storia, muta così aspetto: eclissata Benevento, Capua si ridefinisce come centro di potere medio-italico, agganciato alla politica degli imperatori germanici; Salerno, benché tagliata fuori dallo Ionio, prospera invece all’ombra dell’impero d’Oriente, come i vicini ducati – anch’essi formalmente sotto tutela bizantina – di Amalfi e Napoli. Tra Salerno e Costantinopoli la Lucania gode, come si è detto, di un periodo di tranquillità almeno relativa. Il confine tra la dominazione diretta bizantina e quella salernitana è impreciso e fluttuante, e Οὐ μόνον γὰρ διὰ πολέμων ἀκριβῶς ἐκτεταγμένων τὸ τοιοῦτον ὑπήγαγε τὸ ἔθνος, ἀλλὰ καὶ ἀγχινοίᾳ χρησάμενος καὶ δικαιοσύνῃ καὶ χρηστότητι ἐπεικῶς τε τοῖς προσερχομένοις προσφερόμενος, καὶ τὴν ἐλευθερίαν ἀυτοῖς πάσης τε δουλείας καὶ τῶν ἄλων φορολογιῶν χαριζόμενος. 53 L’imperatore Basilio I diede avvio a un ripopolamento coatto delle zone riconquistate a partire dall’876: ricostruì infatti Gallipoli, trasferendovi una colonia di Greci da Eraclea del Ponto, e fece stabilire una parte delle truppe armene di Niceforo Foca in Calabria, oltre a 1.000 liberti di una ricca proprietaria del Peloponneso, la vedova Danielis, imitato in questo da suo figlio Leone VI (cfr. Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit., p. 26). Per quel che riguarda il trend positivo dell’economia dell’Italia bizantina a partire dalla fine del IX secolo, cfr. A. Guillou, Production and Profits in the Byzantine Province of Italy (Tenth to Eleventh Centuries): An Expanding Society, in «Dumbarton Oaks Papers», 28, 1974, pp. 90-109.

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probabilmente non era nell’interesse di nessuno fissarlo con maggior esattezza. Un preceptum di Guaimario di Salerno (agosto 899) menziona un crisobollo dei basilèis Leone VI e Alessandro con cui gli venivano concessi dai sovrani costantinopolitani i territori assegnati al suo principato nella spartizione dell’84954: per quanto Guaimario, nello stesso documento, tenga a sottolineare l’autonomia riconosciutagli nell’ambito dei territori stessi, è evidente come in mezzo secolo la situazione politica sia cambiata in modo radicale. Nell’849 il governo imperiale doveva assistere da spettatore alla spartizione del Mezzogiorno longobardo; ora concede a un vassallo fedele (che si fregia del titolo di imperialis patricius) di esercitare la propria autorità sulle terre del suo principato. Non solo: la sovranità salernitana sui vecchi gastaldati di Taranto, Cassano allo Ionio e Cosenza, non può che essere, a quest’epoca, un ricordo; è però vantaggioso anche per i Bizantini mantenere questa sorta di presenza subordinata dell’autorità longobarda in zone ormai da anni sotto il loro pieno controllo politico-militare, ma parzialmente abitate da genti di lingua e rito latino. E lo stesso preceptum ci dimostra come il principe salernitano agisca di fatto come un rappresentante – anche se di altissimo rango – di Bisanzio, quando, dovendo tutelare il possesso dei servi che ha donato al monastero salernitano di San Massimo, precisa: et constituimus, ut nullus basilico, nec stratigo, nec protospatarius aud spatarius, candidatus, aud gastaldeus, aud sculdais, aud qualiscumque alius reipublice hactionarius, vel qualiscumque alius serbus sanctorum imperatorum habeant potestatem in illos55.

Prima i funzionari bizantini, poi quelli del principato longobardo: anche se Guaimario ha il potere di interdire agli uni come agli altri ogni azione che possa turbare il diritto creato dalla sua donazione, è

54 Codex diplomaticus Cavensis, vol. I, Napoli 1873, doc. CXI, pp. 139-40. Eccone l’incipit: «In nomine Domini etc. Declaro ego Wuaimarius princeps et imperialis patricius, quia concessum est mihi a sanctissimis et piissimis imperatoribus Leone et Alexandro per berbum et firmissimum preceptum bulla aurea sigillatum integram sortem benebentane probincie, sicut divisum est inter Sichenolfum et Radelchisum principem, ut liceret me exinde facere omnia, quod voluero, sicut antecessores mei omnes principes fecerunt. Etc.»; cfr. Gay, L’Italie méridionale, cit., pp. 175-76. 55 Codex diplomaticus Cavensis, cit., doc. CXI, p. 140.

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chiaro che egli agisce, in sostanza, in qualità di supremo rappresentante del governo imperiale a Salerno. Si badi bene: a Salerno, cioè nella capitale stessa del principato longobardo, viene esplicitamente ammessa la possibilità che degli ufficiali bizantini possano intervenire in rapporti giuridici tra sudditi del principe. Ci si deve chiedere allora quale potesse essere, alla stessa epoca, la situazione in Lucania, «zone intermédiaire» – come la definì a suo tempo Jules Gay56 – tra la dominazione longobarda e quella bizantina. A parte le aree prospicienti lo Ionio, sotto diretto controllo imperiale57, nel resto della regione «les gastaldi lombards et les officiers byzantins – Lombards ou Grecs d’origine – s’y trouvent les uns à côté des autres, ayant à peu près les mêmes attributions»58. Qui l’azione bizantina – non necessariamente militare – è volta soprattutto a guadagnare fedeltà individuali e collettive, allargando in modo impercettibile ma costante la sfera del dominio imperiale a danno della residua autorità dei signori longobardi. Un esempio concreto può farci comprendere gli effetti della contemporanea presenza di funzionari bizantini e longobardi in questa «zone intermédiaire». Dopo la distruzione da parte dei Saraceni (881), l’abate e i monaci di San Vincenzo al Volturno si rifugiarono a Capua e a Benevento; ridotti praticamente in miseria, cercarono allora risorse esterne per rimettere a frutto i loro possedimenti. Alcuni di questi si trovavano in zone anche assai distanti dal monastero, e l’unica soluzione praticabile fu dunque affittarli a gente del luogo in grado di sostenere le spese e fornire la manodopera per i lavori agricoli: così, nel marzo dell’893, le terre del monastero situate nel gastaldato di Acerenza vennero concesse per 29 anni a un certo Godino, protospatario imperiale, figlio del protospatario Radelchi, abitante a Matera. Perché la cessione fosse valida – o apparisse senz’altro tale agli occhi dei monaci – occorreva però il consenso del principe di Salerno, sovrano legittimo di quella parte del gastaldato di Acerenza e protettore dell’abbazia. Guaimario non sollevò obiezioni e inviò un proprio incaricato a Matera; la convenzione tra le due parti venne Gay, L’Italie méridionale, cit., p. 177. La sola via di comunicazione terrestre tra le due roccaforti del dominio bizantino nel Mezzogiorno – la Terra d’Otranto e la Calabria meridionale – passava infatti lungo la costa ionica, il controllo diretto della quale era logicamente considerato della massima importanza. 58 Gay, L’Italie méridionale, cit., p. 177. 56 57

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allora ratificata da un certo Leone, imperialis strator et judex, assistito da alcuni notabili della città59. I motivi d’interesse di questa vicenda sono svariati. Anzitutto si può notare come la caratteristica frammentazione dei possedimenti fondiari delle grandi abbazie costituisse di per sé un elemento capace di valicare i confini amministrativi e politici, agendo da fattore di coesione dell’intera società del Mezzogiorno longobardo-bizantino60. In secondo luogo, la figura del beneficiario della concessione, Godino figlio di Radelchi: certamente un ricco possidente longobardo, inserito ad alto livello nella gerarchia bizantina61, è un perfetto esempio dell’integrazione possibile in quella «zone intermédiaire» di cui la Lucania costituisce la parte più rilevante. Infine, l’atto giuridico: l’intervento del principe di Salerno – che viene comunque coinvolto più come protettore dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno che come sovrano del gastaldato di Acerenza – resta un atto formale e in sostanza estraneo alla realtà procedurale della città di Matera, dove infatti la pratica viene affidata, come regola vuole nei possedimenti bizantini, a un funzionario imperiale, il giudice Leone, coadiuvato in funzione di testimoni e garanti da esponenti del ceto dirigente cittadino. La situazione così come si va delineando tra la fine del IX e l’inizio del X secolo è dunque quella di un protettorato bizantino sul Mezzogiorno peninsulare, mentre i principati longobardi cercano nuovi 59 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, 3 voll., «Istituto storico italiano per il Medio Evo, Fonti per la storia d’Italia», 58-60, Roma 1925-40, vol. II, pp. 12-14; cfr. V. von Falkenhausen, I rapporti tra il monastero di San Vincenzo al Volturno e Bisanzio, in San Vincenzo al Volturno dal Chronicon alla storia, Isernia 1995, pp. 139-50, in particolare pp. 145-46; cfr. anche Gay, L’Italie méridionale, cit., pp. 177-78. 60 Il presbitero Pietro, prepositus di San Vincenzo al Volturno, concede a Godino i seguenti monasteri, situati nel gastaldato di Acerenza, con tutti i loro terreni, uomini, beni e pertinenze: Sant’Elia e San Pietro a Matera; San Silvestro, «qui fundatus est trans flumen Bradano, propinquum loco Fluviano»; San Lorenzo, «qui et ipse fundatus est trans flumen Bradano, propinquo castello Monte Scaviosum» (attuale Montescaglioso). Dalla concessione sono invece escluse esplicitamente le «res Adelmundi castaldei, quam et ipsa quarta Radelchise, que fuit ancilla Dei, quod non damus tibi» (Chronicon Vulturnense, cit., pp. 13-14). 61 Quello di protospatario era un titolo piuttosto elevato nella gerarchia imperiale; almeno fino al X secolo veniva conferito (dietro pagamento di una somma assai cospicua, fino a 60 libbre d’oro, e contro la corresponsione di una rendita annuale di 72 nomismata, ovvero una libbra) a personaggi di spicco, spesso ai comandanti dei temi (cfr. N. Oikonomidès, Les listes de préséance byzantines des IXe et Xe siècles, Paris 1972, p. 297).

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equilibri e gli Arabi, conquistata definitivamente la Sicilia, mantengono una forte pressione militare sulla Calabria e sulla Campania. Per risolvere almeno quest’ultimo problema, si riuscì a raggiungere un’intesa momentanea tra il papa, Capua, Benevento, Amalfi e Gaeta, che ottenne l’appoggio decisivo di Bisanzio: nel 915, proprio al comando di Nicola Pitzingli, strategòs di Longobardia62, l’esercito alleato ottenne una spettacolare vittoria espugnando la base fortificata saracena alla foce del Garigliano63. Il prestigio bizantino usciva ancora rafforzato dall’impresa e, nonostante il perdurare delle incursioni saracene contro la Calabria e la Puglia, fu per alcuni decenni incontrastato. Ma con l’avvento della casa di Sassonia, l’impero germanico riuscì a trovare nuove risorse per intervenire in Italia e nel 967, per la prima volta dopo quasi un secolo, l’esercito di un imperatore occidentale scese nel Mezzogiorno. Se Ludovico II era intervenuto nell’interesse comune per sconfiggere gli Arabi, la calata di Ottone I dovette apparire invece a molti come una vera e propria invasione straniera, finalizzata a strappare a Bisanzio potere e territori. È infatti l’Italia bizantina che ne soffre le conseguenze peggiori: come si legge in un anonimo testo agiografico coevo, la Vita di san Luca di Demenna, «deinde vero a Nicephori constantinopolitani imperatoris tempore, ferox quidam ex transalpinis nationibus in Italiam venit, ut diriperet, atrociterque Graecorum urbes expugnaret»64. Ma nonostante tutta la loro ferocia, le campagne militari condotte da Ottone I in Puglia e Calabria tra il 968 e il 970 non raggiunsero alcun risultato decisivo e i rapporti di forza nel Mezzogiorno vennero forse complicati, ma non scardinati dal suo intervento65. La potenza sassone fu in qualche modo riconosciuta da Costantinopoli attraverso Cfr. Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit., p. 80. Cfr. Gay, L’Italie méridionale, cit., p. 163: «La victoire du Garigliano fait disparaître la dernière colonie musulmane, établie sur le littoral de la mer Tyrrhénienne. La Campanie et l’Italie centrale sont définitivement affranchies des incursions sarrasines. Cet événement décisif donne à la puissance byzantine en Italie un prestige hors de pair: la suprématie du basileus est reconnue de la manière la plus explicite sur toutes les rives de l’Italie méridionale, depuis Gaëte jusqu’au pied du mont Gargano. Le duc de Naples et l’hypatos de Gaëte se parent avec orgueil des dignités que leur a conférées, de la part du basileus, le stratège de Bari». 64 Vita s. Lucae, in Acta Sanctorum Octobris, VI, Tongerloae, 1794, pp. 337-41, in particolare c. 9, p. 340. 65 Il solo a giovarsi davvero dell’invasione sassone fu il principe di Capua Pandolfo I Capodiferro, fedele alleato di Ottone I, che dopo alterne vicende riuscì a ridurre in proprio potere anche Salerno, riunendo per breve tempo (977-981) l’in62 63

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il matrimonio della principessa Teofano con Ottone II, omonimo figlio ed erede dell’imperatore germanico, mentre si giungeva a un tacito accordo sulle rispettive sfere d’influenza nel Mezzogiorno, che lasciava all’egemonia occidentale Capua e Benevento, mentre i possedimenti di Puglia, Lucania e Calabria restavano sotto la piena sovranità bizantina. Nel 981 Ottone II scendeva a sua volta in Italia. A differenza del padre, il cui scopo era stato quello di riaffermare l’autorità dell’impero germanico sul Mezzogiorno contro l’egemonia di Bisanzio, il nuovo sovrano sassone vi era chiamato da una recrudescenza delle incursioni arabe, convinto che una vittoria sugli infedeli valesse a rinvigorire il prestigio dell’Occidente in tutta l’Italia meridionale. Se aveva sperato in un consistente aiuto dal suo collega di Costantinopoli, Ottone II restò amaramente deluso: i Bizantini non fornirono alcun appoggio a un’impresa che, quale che fosse il suo esito, avrebbe finito col danneggiare la loro posizione nel Mezzogiorno, e assistettero da spettatori al disastro cui essa andò incontro. Ottone II venne duramente sconfitto dagli Arabi presso Crotone, nel luglio del 982; nello scontro caddero i suoi alleati Landolfo IV di Benevento e Pandolfo di Capua, figli di Pandolfo I, mentre lo stesso imperatore si salvava a stento su una nave greca. Ottone II si spegneva a Roma l’anno seguente, e con lui moriva il tentativo sassone di ricondurre l’Italia meridionale nella sfera d’influenza dell’impero germanico. Se si guarda alla Lucania del X secolo, si nota la persistenza di due fattori ormai ben noti: da un lato, sul piano politico-amministrativo, la coesistenza e la parziale sovrapposizione delle sfere di potere bizantina e longobarda, seppur sotto l’egemonia costantinopolitana; dall’altro il ripetersi di eventi bellici distruttivi legati o all’attraversamento del territorio da parte di eserciti ostili, come nel caso dei sassoni, oppure a incursioni contro obiettivi specifici, come quelle condotte dagli Arabi di Sicilia. Si sarebbe tentati di ritenere il primo un fattore positivo, il secondo, al contrario, un ostacolo grave allo sviluppo economico e demografico della regione: ma la situazione non è così semplice, e ne è prova la terza caratteristica dominante che appare evidente a chi osservi la storia della Lucania in questo periodo – la colonizzazione monastica greca di una vasta area tra le valli del Lao, dell’Agri e del Sinni. tera Langobardia minor. Ma alla sua morte «l’artificiosa unione dinastica si spezzò nuovamente» (Falkenhausen, I Longobardi, cit., p. 279), e i salernitani, cacciato il suo giovane figlio con l’aiuto di Amalfi, tornarono indipendenti.

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6. Il monachesimo bizantino in Lucania66 Una serie di testi agiografici ci informa abbastanza dettagliatamente sulle prime fasi di questa colonizzazione monastica67; in seguito, un numero via via crescente di documenti d’archivio offrono una testimonianza diretta sulla vita di alcune comunità maggiori, e in particolare sull’acquisizione, l’incremento e lo sfruttamento dei loro patrimoni fondiari68. È necessario osservare, prima di tutto, come la tipologia del materiale in nostro possesso sia fortemente condizionata dalle circostanze della conservazione e della tradizione dei fondi archivistici in età tardo-medievale e moderna, che hanno favorito enormemente la sopravvivenza dei documenti conservati nei monasteri a scapito di tutti gli altri, restituendoci così oggi un’immagine parziale e in qualche misura distorta della situazione economica della regione; nonostante questo, l’importanza del fenomeno non può essere negata, soprattutto tenendo conto del fatto che la colonizzazione monastica interessa aree fino ad allora abbandonate o quasi – anzi, aree che vengono inizialmente scelte proprio per la loro selvaggia desolazione. Costretti dalle incursioni arabe ad abbandonare le proprie sedi, molti degli anacoreti bizantini che già popolavano la Calabria si spostarono infatti, nel corso del X secolo, via via più a settentrione, fino a raggiungere le zone impervie tra il massiccio del monte Pollino e 66 La civiltà monastica bizantina ha lasciato scarse tracce architettoniche in Basilicata: cfr. M. Rotili, Arte bizantina in Calabria e in Basilicata, Cava dei Tirreni 1980, pp. 97 sgg. Poco resta, purtroppo, anche degli oggetti d’arte sacra di età bizantina che certamente adornavano chiese e monasteri (ivi, pp. 149 sgg. e P. Belli D’Elia [a cura di], Icone di Puglia e Basilicata dal medioevo al Settecento, Milano 1988, bel catalogo della mostra tenutasi presso la Pinacoteca provinciale di Bari nell’autunno del 1988, dove il più antico dei pezzi esposti, un’icona della Madonna con Bambino della cattedrale di Foggia, è datato XI-XII secolo). 67 Per l’agiografia cfr. G. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile et d’Italie méridionale aux VIIIe, IXe et Xe siècles, in «Byzantion», XXIX-XXX, 1959-60, pp. 89-173; in particolare per quel che riguarda la Lucania cfr. anche A. Acconcia Longo, Santi monaci italo-greci alle origini del monastero di S. Elia di Carbone, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 47-60. 68 Sui documenti greci del Mezzogiorno medievale cfr. V. von Falkenhausen, M. Amelotti, Notariato e documento nell’Italia meridionale greca (X-XV secolo), in AA.VV., Per una storia del notariato meridionale, Roma 1982, pp. 7-69.

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quello del monte Sirino: come accadeva di regola in questi casi, proprio il carattere inaccessibile e inospitale della regione – che garantiva sia una relativa sicurezza sia l’isolamento dal mondo ricercato dai «cittadini del cielo» – attirò l’attenzione degli eremiti, e quindi dei loro discepoli e dei primi gruppi di devoti che spesso cominciavano a raccogliersi attorno a loro. Se un asceta isolato può vivere di poco, e cibarsi dei frutti spontanei della terra, una comunità per quanto piccola ha bisogno di maggiori mezzi di sostentamento: con l’evoluzione – in un certo senso fisiologica – del monachesimo dalla fase eremitica a quella cenobitica si ha dunque, necessariamente, un parallelo incremento nello sfruttamento agricolo del territorio. Grandi disboscatori, i monaci italo-greci mettono a cultura nuove terre, stimolando processi produttivi troppo spesso bloccati dalla mancanza di risorse umane adeguate. E la loro funzione non si riduce a questo, perché i monasteri – specie i più grandi – accumulano ben presto, soprattutto attraverso le donazioni dei fedeli, una quantità di terreni che i soli monaci non bastano più a coltivare; richiamano allora nuova manodopera e diventano il punto di riferimento per i contadini venuti a stabilirsi nella zona; diventano luogo di scambio di beni, vivificando l’economia di zone marginali rispetto alle maggiori correnti di traffico69. La diffusione del monachesimo greco, benché causata in gran parte da un fattore negativo – quale devono essere considerate le incursioni saracene e l’invasione sassone – finisce così per rivelarsi di grande importanza per la crescita economica e demografica delle aree interessate70 e per avere una ricaduta benefica sulla vita della Luca69 Sull’attività di disboscamento dei monaci greci del Mezzogiorno e la sua ricaduta sull’economia e il popolamento cfr. A. Guillou, Grecs d’Italie du sud et de Sicile au moyen âge: les moines, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’École Française de Rome», 75, 1963, pp. 79-110, in particolare pp. 90-91: «le grand moment des défrichements en Italie du Sud fut-il le Xe siècle ou même plus précisément la première moitié du Xe siècle? J’en ai l’impression, et aucun texte n’y contredit. Qui dit défrichements dit accroissement de la demande en biens de consommation [...]. Qui dit défrichements dit mise en exploitation de nouvelles terres [...]. Qui dit défrichements dit, enfin, fixation au sol d’une population rurale. [...] Les moines ne suffisent bientôt plus à l’exploitation des terrains qu’ils gagnent sur la friche, ils font alors appel à la main d’oeuvre civile et prennent ainsi place, sous le régime byzantin, dans la classe enviée des propriétaires terriens». 70 Come già ricordato, si tratta delle aree comprendenti il medio e alto bacino dei fiumi Agri e Sinni (il Latinianon) e, più a meridione, il bacino del fiume Lao (nota come Mercurion). Si tratta di una zona dove la sparsa popolazione era già

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nia intera. Ma il ruolo dei monaci è ancor più importante per la vita spirituale e culturale dell’intera società ellenofona. In tutti i cenobi si mantiene vivo il rito greco; in molti si copiano i testi sacri, i commenti, le raccolte di omelie, le vite dei santi – tutto quanto costituisce insomma il patrimonio della cristianità orientale. Almeno in un caso, questa funzione fondamentale non viene meno con la fine del dominio bizantino: il monastero dei SS. Elia e Anastasio di Carbone, infatti, conoscerà la sua massima fioritura economica in piena età normanna, rispettato e favorito dai nuovi signori del Mezzogiorno, e continuerà a rappresentare, per tutto il XII secolo almeno, un importantissimo punto di riferimento per la popolazione greca di una vasta zona della Lucania meridionale71. Possiamo osservare più da vicino almeno uno di questi monaci nel loro itinerario di vita e di fede tra i monti della Lucania: san Fantino il Giovane72. Nato in Calabria attorno al 925, viene condotto giovanissimo a compiere il suo apprendistato presso sant’Elia lo Speleota, un venerato eremita; alla morte del suo maestro, e dopo ormai un ventennio di vita cenobitica – siamo quindi poco oltre la metà del

in grande maggioranza di lingua greca e rito bizantino, e quindi ben disposta ad accogliere i monaci nuovi arrivati: cfr. Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit., p. 69: «Dalla seconda metà del X sec. il territorio tra i fiumi Lao ed Agri era stato nuovamente colonizzato da una grossa emigrazione proveniente dalle regioni minacciate della Sicilia e della Calabria meridionale, e grecizzato fino ad un certo grado». Cfr. anche Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, p. 164: «Particolarmente ricca di insediamenti monastici bizantini era la zona del Mercurion, posta ad ovest del Monte Pollino ai confini tra la Calabria e la Basilicata; quella del Latinianon, situata nel medio corso del Sinni; e quella di Lagonegro. Tutte queste zone erano profondamente impregnate dalla civiltà bizantina». 71 Sul monastero carbonese cfr. V. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in età bizantina e normanna, in Fonseca, Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia, cit., pp. 61-87; sui documenti del suo archivio, editi in modo non del tutto soddisfacente da G. Robinson, History and Cartulary of the Greeck Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, «Orientalia Christiana», XV, 2, vol. II/1, Roma 1929, cfr. G. Breccia, D. Fugaro, Scritture latine di età normanna nei documenti del monastero di S. Elia di Carbone, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 61, 1994, pp. 5-36 e G. Breccia, Scritture greche di età bizantina e normanna nelle pergamene del monastero di S. Elia di Carbone, ivi, 64, 1997, pp. 33-89. 72 Quanto segue si basa sull’ottima recente edizione La Vita di san Fantino il Giovane, a cura di E. Follieri, «Subsidia hagiographica», 77, Bruxelles 1993. Cfr. anche N. Ferrante, Santi italogreci in Calabria, Reggio Calabria 1981, pp. 146 sgg.

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secolo – Fantino decide di affrontare l’esperienza dell’ascesi solitaria. Si muove dunque verso settentrione, fino a raggiungere i monti della Lucania, «che allora erano al di fuori di ogni frequentazione e abitazione umana»73. Qui Fantino trascorre quasi un altro ventennio di ascesi rigorosissima, in selvaggia solitudine; poi viene casualmente riconosciuto da alcuni cacciatori, che diffondono la notizia della sua presenza. Raggiunto dal padre e dalla madre, l’eremita si convince che è il momento di tornare ad avere rapporti con i propri simili, seppure per spingerli ad abbandonare il mondo, e diviene egli stesso un centro vivo di diffusione del monachesimo nella sua forma cenobitica: dapprima accoglie i propri parenti, la madre e la sorella Caterina, il padre e i fratelli Luca e Cosma; poi «passò poco tempo, e Fantino trasformò le balze scoscese e inaccessibili dei monti in dimore di uomini santi e spirituali»74. Dopo un breve periodo, Fantino sente di nuovo il desiderio della solitudine, e si ritira quindi in un eremitaggio; ma alle proprie spalle lascia dei monasteri ormai sufficientemente organizzati, ciascuno affidato a un igumeno, il più grande al proprio fratello Luca. E di quando in quando Fantino torna a farsi vedere, agendo così da vero padre spirituale della comunità da lui stesso fondata, che ormai prospera autonomamente. Seguono vari aneddoti: viene gettato in prigione come spia, poi liberato dai suoi stessi falsi accusatori (vicenda curiosa, di cui però quasi tutto ci sfugge); compie miracoli; si reca in pellegrinaggio al santuario di San Michele sul Gargano, cosa che gli costa diciotto giorni di faticoso cammino; infine, spinto da un’apparizione angelica, parte per l’Oriente obbedendo al comando di raggiungere Tessalonica, lasciando per sempre l’Italia. Il viaggio dalla Calabria alla Lucania, il richiamo di nuovi fedeli, la costituzione e il controllo esercitato su tutta una serie di piccoli cenobi che lo riconoscono come autorità indiscussa: la vicenda umana e spirituale di san Fantino il Giovane ci mostra in una luce vivida il processo di colonizzazione monastica che interessò parte della Lucania nella seconda metà del X secolo; e testimonianze analoghe offrono

73 La Vita di san Fantino, cit., c. 9, p. 410 (testo originale greco: πάσης ὀχλήσεως καὶ καταμονῆς ἐκτὸς ἀνθρωπίνης τότε ὑπάρχοντα). 74 Ivi, c. 18, p. 422 (Βραχὺ τὸ ἐν μέσῳ καὶ τοὺς τῶν ὀρῶν ὑπωρείους καὶ ἀδιεξιτήτους τόπους ἐνδιαιτήματα θείων καὶ πνευματικῶν ἀνδρῶν ἀπειργάσατο).

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gli altri testi agiografici della stessa epoca75. Anche se è impossibile valutare quantitativamente l’apporto dato allo sviluppo economico e demografico delle aree coinvolte, tuttavia il disboscamento, la conquista di nuove terre, la fondazione di nuovi piccoli centri abitati rurali, il movimento di beni, uomini e denaro, la stessa accumulazione di risorse nelle mani dei monasteri maggiori appaiono comunque, innegabilmente, fattori di crescita e di progresso: con la dovuta cautela, sembra possibile affermare che la Lucania bizantina, verso la fine del X secolo, sia in condizioni più felici di quanto non accadesse da secoli. 7. La Lucania nella prima metà dell’XI secolo Per circa novant’anni – dalla spedizione di Ottone I alla conquista normanna – non si hanno più notizie del passaggio di eserciti in Lucania. Con la sfortunata eccezione di Ottone II, nessun altro imperatore germanico scese più in armi oltre il confine dell’Italia bizantina; parallelamente le incursioni saracene – benché riprese con insolita frequenza dopo la disfatta cristiana del 982 – sembrano dirigersi soprattutto contro le città costiere della Calabria e della Puglia, certamente prede più ricche e raggiungibili per gli Arabi di Sicilia, padroni quasi incontrastati dei mari attorno alla penisola. Soltanto Matera, non a caso la più orientale ed esposta delle città lucane, venne assalita e presa nel 994 dal corpo di spedizione arabo che ormai da alcuni anni stava seminando distruzione in tutta la Puglia: ma si tratta appunto di una diversione, che giunge appena a lambire il territorio lucano. Un documento del 1001/1002 ci offre invece la testimonianza di un caso forse minore, ma assai interessante per la storia della regione. Possediamo infatti un molibdobullo76 emanato in quell’anno dal catepano Gregorio Tarcaniota per ristabilire i confini reciproci fra i territori di Acerenza e Tricarico77, dove si legge come un certo Luca, 75 Cfr., per esempio, la Vita s. Sabae, in Historia et laudes SS. Sabae et Macarii iuniorum e Sicilia auctore Oreste Patriarcha Hierosolymitano, a cura di I. Cozza-Luzi, Roma 1893, pp. 6-10, la già citata Vita s. Lucae ecc. 76 Si tratta di un documento chiuso e garantito dal sigillo personale in piombo dell’autorità che lo emanava, in questo caso il catepano d’Italia. 77 Edizione: W. Holtzmann, A. Guillou, Zwei Katepansurkunden aus Tricarico, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 41, 1961, pp. 1-28, in particolare pp. 12 sgg.

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molto probabilmente un greco convertitosi all’islam, aveva occupato con una banda di seguaci il borgo fortificato di Pietrapertosa e da tale base aveva compiuto scorrerie nei territori vicini, impedendo ai proprietari di coltivare i loro poderi e turbando così l’intera vita economica della zona. Una volta scacciato dall’intervento del catepano, si era reso necessario ristabilire i confini rispettivi delle comunità che si erano trovate momentaneamente coinvolte in tali disordini: cosa a cui aveva deciso di provvedere il catepano Gregorio inviando sul luogo un proprio incaricato e ratificando in seguito le sue decisioni. L’interesse delle informazioni forniteci dal documento del catepano bizantino è evidente. Prima di tutto, esso ci offre infatti una prova abbastanza impressionante dell’insicurezza che poteva generare in una zona piuttosto ampia – e, come sappiamo, di notevole importanza strategica – l’aggressività e la spregiudicatezza di una banda di briganti. Un castellum, Pietrapertosa, viene espugnato; Acerenza e Tricarico, due castra tra i maggiori della Lucania, sono coinvolti nell’episodio, e anche se non vengono direttamente minacciati, certo il loro territorio subisce dei danni economici non trascurabili, visto che molti abitanti si trovano nell’impossibilità di far fruttare la terra da cui traggono il loro sostentamento. Il documento non ci dice nulla, purtroppo, né sulla durata dell’occupazione di Pietrapertosa, e quindi della presenza di Luca e della sua banda nella zona, né sui modi dell’intervento risolutivo del catepano, che pure sembra avocare a sé il merito del successo. È poi di grande interesse osservare l’apparato amministrativo bizantino in azione all’indomani della soluzione militare del problema. Il catepano Gregorio, infatti, non si muove personalmente dalla sua sede, ma invia il tassiarca Costantino – un militare di medio rango – che provvede a una prima definizione dei confini rispettivi di Acerenza e Tricarico; quindi, evidentemente non del tutto soddisfatto del suo agire, il catepano decide di affidare un nuovo esame della questione a una commissione composta da tre ufficiali di grado più elevato, che si recano a loro volta sul luogo e compiono una più approfondita indagine. Al loro ritorno, Gregorio emana finalmente il documento con cui risolve la questione. L’amministrazione bizantina poteva avere molti difetti, ma – almeno a giudicare da questo documento – non prendeva certo alla leggera i suoi doveri, né senza riflettere le sue decisioni. Oltre che dalle ricorrenti incursioni arabe, il Mezzogiorno bizanti-

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no era travagliato di quando in quando da rivolte locali, capaci anche di sfociare in veri e propri episodi di guerra: ma la Lucania sembra vivere al margine anche di questi avvenimenti, che avevano la loro scena naturale nella vicina Puglia, più ricca economicamente, etnicamente meno grecizzata, e dove erano localizzati i centri vitali del potere imperiale in Italia78. Tuttavia il perdurare, in vasti strati della popolazione pugliese di lingua latina, di sentimenti ostili nei confronti del governo di Costantinopoli fu senza dubbio uno dei maggiori fattori di debolezza di fronte all’imprevista aggressione normanna, che a partire dal 1041, con la conquista di Melfi, interessò direttamente i territori del catepanato bizantino. Proprio Melfi costituì la prima base d’operazioni dei guerrieri normanni, che rivolsero i loro sforzi principalmente contro la Puglia, mentre la Lucania vera e propria, a quanto sembra, non fu interessata dalle fasi iniziali della conquista. Anche in seguito, l’unica notizia di attività militari nella regione è assai dubbia79; certo la Lucania venne attraversata a più riprese dai contingenti normanni diretti in Calabria ed ebbe a soffrire delle conseguenze della guerra, pur non rappresentando essa stessa un teatro principale d’operazioni, fino a seguire la sorte comune dell’Italia bizantina. Nel 1071 cadeva Bari, ultimo caposaldo dell’impero: dopo quasi tre decenni di guerra i Normanni guidati da Roberto il Guiscardo – che già nel 1059 aveva ottenuto dal papa il titolo di duca di Puglia, e con esso il diritto a esercitare la propria sovranità su tutto il Mezzogiorno – ponevano fine per sempre alla dominazione bizantina in Italia.

78 La più importante di queste rivolte fu senza dubbio quella del barese Melo, «ricco esponente della locale aristocrazia longobarda, dietro il quale si profilano vaste aderenze nel tessuto sociale della Puglia e collegamenti con le potenze esterne antibizantine» (Burgarella, Bisanzio in Sicilia, cit., p. 225). Scoppiata nel 1009 e sedata una prima volta dal catepano bizantino Basilio Mesardonites già nel 1010, la ribellione di Melo venne definitivamente domata solo nel 1018, quando le sue truppe – tra le quali militava un consistente gruppo di mercenari normanni, avanguardia delle schiere che di lì a pochi decenni avrebbero conquistato l’intera Italia meridionale – vennero disfatte dal nuovo catepano Basilio Bojoannes nella battaglia di Canne: cfr. Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit., p. 54. 79 «Anno MXLVIII. Northmanni iverunt contra Graecos in Calabriam, et invaserunt eam, et victi sunt Graeci circa Tricaricum». La notizia appare in se stessa perfettamente credibile, ma è purtroppo conosciuta soltanto grazie al falso Chronicon breve northmannicum ab anno MXLI usque ad annum MLXXXV, in L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores, 25 voll., Milano 1723-51, vol. V, p. 278.

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Gli anni della conquista normanna videro il Mezzogiorno nuovamente funestato dai mali che si accompagnano alla guerra – violenze indiscriminate, carestia, epidemie. Come si legge in un documento greco del 1071, «non molto dopo, la nostra terra tutta intera venne presa e occupata dai nemici, e ogni cosa andò in rovina. E inoltre essi distrussero completamente l’esercito imperiale, e tutto fu gettato nel caos»80. Queste parole, tracciate dalla mano del notaio Michele per conto dello spatarocandidato Giovanni – un esponente, quindi, dello sconfitto ceto dirigente imperiale – sono l’ultima voce che ci giunge dalla Lucania bizantina. Un’intera epoca si chiudeva nella desolazione: ma ancora una volta le ferite si sarebbero rimarginate, e i decenni successivi avrebbero visto proseguire, sotto i nuovi signori normanni, quel lento, costante sviluppo economico e demografico cominciato nel X secolo. Una continuità che costituisce di per se stessa il migliore tributo alle generazioni di uomini, spesso diversi per cultura, lingua e fede, che in Lucania si erano avvicendati combattendo, lavorando, pregando e soffrendo, e finalmente, in quella terra, avevano trovato riposo.

80 Cfr. Robinson, History and Cartulary, cit., p. 173. Si tratta di un documento del 1070/1071 (anno 6579 dell’era bizantina, indizione IX, erroneamente datato dalla Robinson al 1061), con cui lo spatarocandidato Giovanni dona a Blasio, igumeno del monastero di Carbone, una proprietà caduta in abbandono proprio a causa della guerra.

LA VICENDA NORMANNA E SVEVA: ISTITUZIONI E ORGANIZZAZIONE di Francesco Panarelli 1. Prima dei Normanni: l’eclissi della «Lucania» In età longobarda e ancora carolingio-ottoniana l’unica certezza per l’area dell’antica Lucania romana si era concretata nel coerente ruolo di cerniera tra le pertinenze di duchi e poi principi longobardi e quelle invece degli imperatori di Bisanzio. A partire dal IX secolo si era aggiunto in questo quadro l’intermittente, ma gravosa presenza delle bande di predatori saraceni. Partendo dalla Sicilia i musulmani divennero stabile minaccia in gran parte del Mezzogiorno, grazie alla costituzione di basi permanenti sul territorio per le loro stagionali scorrerie. Quale conseguenza di questa frammentazione politica, segnata da logiche ben differenti rispetto all’unitario scacchiere romano, in questi stessi secoli si perse definitivamente il riferimento alla regio romana. L’incompletezza e la parziale contraddittorietà delle fonti disponibili rispecchiano le incertezze dell’epoca e la concreta instabilità dei confini; solo gradualmente le ambiguità e oscillazioni andarono poi a risolversi nei secoli successivi. Determinante nella vicenda lucana dei secoli XI-XIII fu quindi il passaggio dal ruolo di area di confine a quello invece di fulcro in un territorio politico-istituzionale ben più ampio e in graduale compattazione. Inevitabilmente anche la definizione dei confini regionali e dell’identità stessa della – nuova – regione non poteva non risentire le conseguenze dei cinque secoli di incertezza e di altalenanti predomini. Non è d’altra parte casuale la inesistenza di una moderna monografia regionale dedicata alla Lucania dei secoli centrali del Medioevo, a cavallo dell’anno Mille. Al contrario, sezioni consistenti del territorio lucano sono prese in

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oggetto da monografie riguardanti aree contermini, come la Puglia e il principato di Salerno1. Un corollario inaggirabile è dato dall’evanescenza dei confini a cui fare riferimento quando si decide di affrontare direttamente la vicenda della Lucania/Basilicata nel pieno Medioevo. Ammettiamo subito che la scelta della trama geografica verso la quale ci siamo qui indirizzati è in parte frutto della convenzione, in quanto faremo riferimento alla configurazione dell’attuale regione. Si tratta, è vero, solo di una delle opzioni possibili: lo sguardo per i secoli centrali del Medioevo può (e talora deve) aprirsi a tutte quelle aree che per periodi più o meno lunghi, con permanenze più o meno fruttuose, sono state parte di quella che potremmo definire la koinè lucana antica e alto-medievale; oppure può restringersi, osando drastiche riduzioni, esclusivamente a quei territori che, nel cuore della Lucania, non vennero inclusi in distretti e circoscrizioni facenti capo a regioni contermini. D’altra parte, la ridefinizione dei confini lucani fu tanto radicale da determinarne il mutamento nella denominazione: uno dei nostri compiti sarà proprio quello di dar conto della rinascita di questa regione, come unità istituzionale, amministrativa, ma anche economica e culturale, che non si lascia ridurre nella semplicistica e pacificante categoria del residuale2. Il territorio attualmente lucano, agli inizi del X secolo, era ormai stabilmente suddiviso tra il principato di Salerno e il tema bizantino 1 H. Taviani-Carozzi, La Principauté lombarde de Salerne. IXe-XIe siècle. Pouvoir et société en Italie lombarde méridionale, 2 voll., «Collection de l’École Française de Rome», 152, Roma 1991; J.-M. Martin, La Pouille du VIe au XIIe siècle, «Collection de l’École Française de Rome», 179, Roma 1993. 2 Il problema dell’identità e definizione regionale della Basilicata non nasce né si risolve nel Medioevo, ma ha una più lunga durata. Alla base vi è un dato incontrovertibile: «La Basilicata non costituisce un territorio regionale a sé stante, né può essere considerata una regione in sé e per sé definita. Essa è piuttosto un’area assai mutevole al suo interno, incerta nei suoi stessi confini e fortemente tributaria delle aree circostanti, alle quali si lega quasi a formare un unico, più grande territorio sovraregionale o transregionale»; ne consegue «che proprio questa mutevolezza e questa sua disponibilità (o ineludibilità) ad avere rapporti e relazioni con altre real­ tà territoriali rappresentano le parti costitutive dei suoi più consistenti o duraturi caratteri originali, e della sua stessa ‘identità’, mutevole quant’altri mai e perciò, tutto sommato, quasi indefinibile e sfuggente» (F. Boenzi, R. Giura Longo, La Basilicata. I Tempi, gli Uomini, l’Ambiente, Bari 1994, p. 9; ma cfr. anche V. Aversano, La regione geografica: una de-finizione problematica, in Cultura nazionale e cultura regionale: il caso della Basilicata. Atti del Convegno (Potenza, 19-20 maggio 1997), Venosa 1999, pp. 149-64).

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di Longobardia. La precisa linea di confine tra i due ambiti era invece mobile e continuamente soggetta a episodi bellici, anche se in sostanza si andava catalizzando intorno alla direttrice che da nord scendeva approssimativamente per Ascoli Satriano, Acerenza e Tricarico. Resta comunque pressoché impossibile stabilire con esattezza le attribuzioni territoriali in ogni segmento cronologico3. Anche la creazione del catepanato d’Italia, sotto Niceforo Foca (963-969), non apportò grandi modificazioni per quel che attiene le terre lucane: Melfi venne fortificata, recuperando l’area del Vulture e il Tavoliere con il Gargano al controllo bizantino, mentre Ariano Irpino e Monteverde ne restarono escluse4. In verità, dopo la conquista longobarda, con il nome Lucania ci si limitò a indicare grosso modo la sola area occidentale del Cilento, con probabile riferimento alla scomparsa città di Lucania, situata presso Paestum5 e non quindi all’antica regio romana. Come una meteora la denominazione ricompare pure in area bizantina. Nella prima metà dell’XI secolo, infatti, la parte meridionale della attuale Basilicata venne inclusa in un tema bizantino anch’esso a nome Lucania. Purtroppo però estensione ed effettiva (e comunque breve) durata nel tempo della circoscrizione sono oggetto di discussione tra gli storici. André Guillou propende a indicare Tursi quale capitale e la linea del Basento come confine tra il tema di Langobardia e quello di Lucania. Secondo Wolfgang Jahn, che si affida a un metodo regressivo e analogico, il confine dovrebbe slittare più a sud, lungo quella valle del Sinni che costituirà poi il confine tra la contea di Montescaglioso e il dominio dei Chiaromonte. Per Vera von Falkenhausen il centro del tema è in Cassano Ionio, con una circoscrizione ancor più sbilanciata verso il Sud e la Calabria e molto simile nella sua configurazione al futuro giustizieriato di Val di Crati6. 3 V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, p. 33; cfr. anche le osservazioni di G. Breccia, Goti, Bizantini e Longobardi, in questo volume, pp. 49-85. 4 Ivi, p. 58. 5 Ivi, p. 67; per esempi tratti dalle fonti, cfr. anche Taviani-Carozzi, La Principauté lombarde de Salerne, cit., pp. 502-506, che sottolinea il subentrare a partire dal 1034 della forma actus Cilenti in luogo di actus Lucanie nell’uso notarile. Complessivamente comunque la Taviani-Carozzi si occupa in modo alquanto occasionale dei territori a est del Vallo di Diano, che pure furono parte del principato di Salerno. 6 A. Guillou, La Lucanie byzantine. Etude de géographie historique, in «Byzantion», XXXV, 1965, p. 134; W. Jahn, Untersuchungen zur normannischen Herrschaft

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Seguendo quest’ultima e più verosimile indicazione, consegue che la nostra analisi – quasi per paradosso – prescinderà proprio da quei territori che in età alto-medievale portarono amministrativamente il nome di Lucania, tanto in area longobarda quanto bizantina. 2. L’età normanna 2.1. La terra contesa   Agli inizi dell’XI secolo gli instabili equilibri della regione appulo-lucana sembravano ormai segnati da un incremento e consolidamento della supremazia bizantina. Non estranea a questo rinvigorimento era stata la necessità di tutelarsi di fronte alle minacce espansionistiche degli Ottoni7; ma la fondazione del catepanato e la fortificazione dei centri a corona del Tavoliere di Puglia sotto il catepano Basilio Boioannes avevano acquisito anche una netta valenza antilongobarda e antisaracena. Fu anche questo a creare paradossalmente il presupposto per la prima espansione normanna. La natura di terra contesa tra due ambiti di potere è la chiave per comprendere le motivazioni che spinsero il secondo e più consistente nucleo normanno a scegliere proprio la dorsale appenninico-murgiana lucana come base per le incursioni verso la Puglia8: a loro vantaggio giocavano proprio gli aneliti di riconquista dei principi longobardi in Süditalien (1040-1100), Frankfurt a.M.-Bern-New York-Paris 1989, pp. 13 e 136; Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit., p. 72. I territori delle future contee normanne di Montescaglioso e di Tricarico rientrano per converso nel tema di Langobardia. 7 H. Houben, Il principato di Salerno e la politica meridionale dell’impero d’Occidente, in Id., Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del Mezzogiorno medioevale, Congedo, Galatina 1989, pp. 31-54; D. Alvermann, La battaglia di Ottone II contro i Saraceni nel 982, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 62, 1995, pp. 115-30. 8 Per la controversa interpretazione e datazione degli inizi della avventura normanna in Italia rimandiamo a H. Hoffmann, Die Anfänge der Normannen in Süditalien, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Biblio­theken», 49, 1969, pp. 95-144; J. France, The Occasion of the Coming of the Normans to Southern Italy, in «Journal of Medieval History», 17, 1991, pp. 183-205; H. Taviani-Carozzi, Le mythe des origines de la conquête normande en Italie, in E. Cuozzo, J.-M. Martin (a cura di), Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in onore di Léon Robert Ménager, Roma-Bari 1998, pp. 56-89; per tutti gli avvenimenti della conquista, in una bibliografia pressoché sterminata, resta sempre valido il classico F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie méridionale et en Sicile, 2 voll., Paris 1907.

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di Salerno, in concorrenza con gli stessi imperatori di Germania, e i tentativi di tardiva egemonia da parte di Bisanzio. L’affondo normanno nell’area lucana cominciò a delinearsi solo dopo il fallimento della spedizione siciliana organizzata dai Bizantini sotto il comando di Maniace (1038); il risultato più significativo di quella fallita impresa fu infatti il compattamento di un gruppo consistente di cavalieri provenienti dal Nord – in massima parte normanni –, ma capitanati da un personaggio proveniente dall’area milanese, Arduino. Fu lui a guidare i cavalieri delusi dalla spedizione sicula verso il cuore appenninico del Mezzogiorno, dando vita a uno sfacciato doppio gioco ai danni dei Bizantini. Infatti Arduino, celando i suoi disegni, ricevette da Rainulfo conte di Aversa – e unico tra i Normanni a essere ufficialmente investito di una terra e di un titolo nel Mezzogiorno –, il riconoscimento della sua leadership tra i cavalieri che lo avrebbero coadiuvato nelle conquiste, da operarsi ovviamente ai danni del catepanato bizantino9. Ma l’affondo normanno nel ventre molle della provincia bizantina non si fondava solo sull’abilità militare dei cavalieri e su fragili investiture. Nella descrizione della presa di Melfi (marzo 1041) da parte dei Normanni il cronista Amato di Montecassino insiste sul malcontento della popolazione indigena contro il governo bizantino: è su questo che avrebbe fatto leva il discorso di Arduino per convincere i melfitani a non ostacolare l’ingresso dei cavalieri10. Da questo momento Melfi, dopo Aversa, si propose quale secondo centro di azione in Italia per i Normanni. In virtù di questo prologo, l’epicentro della prima penetrazione normanna non poteva non situarsi in terra lucana, più precisamente in quella fascia a prevalente popolamento latino che allora faceva parte 9 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. de Bartholomaeis, «Fonti per la storia d’Italia», 76, Roma 1935, II, cc. 17-18, pp. 75-76 (febbraio 1041). Guglielmo di Puglia (La geste de Robert Guiscard, a cura di M. Mathieu, Palermo 1961, I, 232) parla non di nomina da parte di Rainulfo, ma di elezione da parte dei cavalieri. 10 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, II, c. 19, p. 77. Ad Arduino viene assegnato il titolo bizantino di topoterete, cioè funzionario locale con funzioni essenzialmente militari (Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit., pp. 127-29); anzi secondo Jahn, Untersuchungen, cit., p. 28, Arduino avrebbe esercitato la sua giurisdizione su un territorio più ampio, che comprendeva anche altre città. Comunque Arduino poteva sfruttare una forma di legittimazione che gli veniva dal ricoprire una carica all’interno dell’amministrazione militare bizantina.

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del tema di Langobardia e confinava con le terre longobarde. Né si deve negare una differenza iniziale e sostanziale tra i territori occidentali della regione lucana, inclusi ancora nel principato longobardo di Salerno, e quelli orientali che entrarono a far parte del primo ducato di Puglia; sin dagli esordi in questi ultimi più marcata fu la presenza di bellicose schiatte comitali normanne. L’integrazione da un punto di vista istituzionale tra le due parti dopo il 1077 sarà graduale e si perfezionerà solo in età monarchica, anche in virtù del generale cambio dinastico dei detentori delle più importanti contee. 2.2. «Comme une porte de Pouille moult forte» (Amato, II, 19, p. 77) I cavalieri furono attenti alla loro organizzazione e rapidamente si diedero un nuovo capo, col titolo di conte, nella persona di Guglielmo Bracciodiferro – il primo dei fratelli Altavilla a portare questo titolo –, facendone il loro rappresentante nei rapporti di dipendenza ora intessuti direttamente con il principe di Salerno Guaimario11. In questa cornice di rapporti che si vanno gradualmente rafforzando e complicando si inserisce la celebre spartizione preventiva operata da Guglielmo e dai suoi «conti» – con il placet di Guaimario di Salerno e di Rainulfo di Aversa –, da Melfi sulle terre che dal Vulture si addentravano poi verso la Puglia e la costa adriatica: tutte le località elencate erano ovviamente in territorio bizantino e il Melfese ne diveniva la porta di accesso. Non sappiamo se l’elenco di questi dodici «conti» coincida con i dodici pari già nominati in Aversa nel 1040, ma è comunque notevole il fatto che Amato di Montecassino non parla espressamente di contee e di conti, mentre riserva questo titolo solo ai membri della casa di Altavilla12 e ai titolari della contea di Aversa: l’unica contea in Apulia ai suoi occhi è proprio quella di Melfi, di cui gli Altavilla sono titola-

11 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, II, c. 29, p. 93. Per i rapporti dei Normanni con le diverse autorità alla ricerca di legittimazione per le loro conquiste cfr. J. Deér, Papsttum und Normannen. Untersuchungen zu ihren lehnsrecht­ lichen und kirchenpolitischen Beziehungen, «Studien und Quellen zur Welt Kaiser Friedrichs II.», Köln-Wien 1972; P. Delogu, L’evoluzione politica dei Normanni d’Italia fra poteri locali e potestà universali, in Atti del congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna. Palermo, 4-8 dicembre 1972, Palermo 1973, pp. 51-104. 12 «Il fiernt lor conte Guillerme, fil de Tancrede» (Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, II, c. 29, p. 93).

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ri13. Guglielmo di Puglia usa invece esplicitamente il titolo di comites per i protagonisti della spartizione di Melfi, sia pure in una cornice differente rispetto ad Amato14. Questa fu quindi la distribuzione realizzatasi secondo Amato nel settembre 1042 a Melfi: a Guglielmo d’Altavilla venne assegnata Ascoli; a Drogone d’Altavilla, Venosa; ad Arnolino, Lavello; a Ugo Tutabove, Monopoli; a Rodolfo, Canne; a Gualtiero, Civitate; a Pietro, Trani; a Rodolfo di Bebana, Sant’Arcangelo; a Tristano, Montepeloso; a Herveo, Frigento; ad Asclettino, Acerenza; a Rainfredo, Minervino. Melfi, «poiché era la città principale, restò in comune fra tutti»15. Delle dodici «contee» elencate soltanto cinque (Civitate, Trani, Ascoli, Venosa e Lavello) troveranno un’effettiva continuità nella documentazione per il titolare, mentre per molte non vi è attestazione di una loro esistenza nei decenni seguenti. La storiografia posteriore, peraltro, ha contribuito spesso a moltiplicare il numero di conti e contee della prima età normanna seguendo due vie differenti. Per un verso spesso ci si è affidati a documenti falsi, nei quali soltanto si trovava l’indicazione del titolo comitale; per l’altro vi è stata l’indebita attribuzione del titolo a personaggi che nelle fonti sono indicati semplicemente come domini16. Non sfugge peraltro allo storico moderno la non necessarietà tra i contemporanei di una netta distinzione tra comes e dominus, in una realtà fluida in cui era l’effettivo e concreto esercizio del potere a garantire il dominio su un territorio. Peraltro queste signorie («dominati» o «comitati» che fossero) presentavano quasi sempre una configurazione territoriale irregolare e discontinua, 13 «Melfe, laquelle cité est la plus superlative de toute la Conté, et premier siege» (ivi, IV, c. 5, p. 186). 14 Per il significato fortemente simbolico sia della descrizione di Amato, sia della terminologia dello stesso Guglielmo di Puglia, cfr. H. Taviani-Carozzi, La terreur du monde. Robert Guiscard et la conquête normande en Italie. Mythe et histoire, Fayard, Paris 1996, pp. 172-74. 15 «Et Melfe, pour ce que estoit la principal cité, fu coimmune à touz» (Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, II, c. 31, p. 96). Per l’anacronistica presenza di Arduino nella spartizione cfr. Jahn, Untersuchungen, cit., p. 51. 16 Molto chiare al riguardo le notazioni espresse più volte da Errico Cuozzo; cfr. ad esempio E. Cuozzo, La contea normanna di Mottola e Castellaneta, in C.D. Fonseca (a cura di), La Chiesa di Castellaneta tra Medioevo ed età moderna, Congedo, Galatina 1994, p. 39; Id., L’unificazione normanna e il Regno normanno svevo, in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. II/2, Il Medioevo, Napoli 1989, pp. 593-825, in particolare pp. 597-98.

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e quindi facilmente passibile di radicali rimodellamenti17. Qui cercheremo comunque di tenere distinti, per la Basilicata, i titolari di contee dai feudatari e signori di altro rango. Solo dopo il 1046, con la successione di Drogone d’Altavilla, si ha notizia della prima nomina di un nuovo conte, in quel di Lavello, nella persona di Unfredo (Malaterra, I, 12, p. 14). La vicenda di Lavello può essere esemplificativa delle vicissitudini e trasformazioni che una contea poteva subire nel corso di qualche decennio e poi della storiografia successiva. Il conte di Lavello non era Unfredo (che nella città di Lavello venne solo elevato a conte), bensì un altro personaggio, sempre quell’Arnulino artefice della conquista della città nel 1041 e al quale la stessa era stata assegnata nella ripartizione del 104218. A lui successe tra il 1072 e il 1079 un membro della famiglia «de Ollia» (d’Ouilly), Ugo, che tenne la contea sino al 109619, quando il duca di Puglia operò assegnazioni di beni nella città, che evidentemente era stata incamerata dal duca; è però sintomatico che lo stesso Ugo si dica in alcuni documenti semplicemente dominus e non conte20. A Matera invece la notizia dell’elevazione di Guglielmo Bracciodiferro a conte da parte degli abitanti della città nel 1042 ha portato all’invenzione storiografica di una precoce contea di Matera21. Cfr. al riguardo Martin, La Pouille, cit., pp. 715-18. Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, II, 20, p. 79. 19 L.-R. Ménager, Les fondations monastiques de Robert Guiscard, duc de Pouille et de Calabre, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 39, 1959, pp. 1-116, in particolare p. 89, nota 9 e pp. 90-91, note 12-13; Id., Inventaire des familles normandes et franques émigrées en Italie méridionale et en Sicile (XIe-XIIe siècles), in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Bari 1975, pp. 279-410, in particolare p. 358; H. Houben, Die Abtei Venosa und das Mönchtum im normannisch-staufischen Süditalien, «Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 80, Tübingen 1995, pp. 253, nota 18 e 266, nota 33; Jahn, Untersuchungen, cit., p. 351. 20 Martin, La Pouille, cit., p. 730; in seguito la città di Lavello fu assegnata ai conti di Conversano. 21 La notizia è in Lupo Protospatario, Annales, edidit G.H. Pertz, in MGH, SS, V, Hannoverae 1846, pp. 52-63, a. 1042, p. 58; la tradizione di una contea si ritrova per esempio in G. Gattini, Note istoriche sulla città di Matera e sulle sue famiglie nobili, rist. anast. Bologna 1969, pp. 15-20, e in T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. III, La Basilicata normanna, Bari 1989, p. 44. Più prudente Fonseca, che non lega il titolo comitale alla città: «quale valore tecnico-giuridico avesse questo titolo, specialmente nella prima fase della conquista, non sappiamo» (C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera, Roma-Bari 1998, p. 16). 17 18

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2.3. La scalata degli Altavilla   Il movimento di conquista dell’intera Lucania procedeva a tenaglia: da nord ci sono le incursioni policentriche condotte dai «conti» di Melfi; da sud provengono nuovi attacchi, a partire da Scribla in Val di Crati, dove dal 1044 Guglielmo d’Altavilla aveva innalzato la prima fortificazione, affidata dal 1047 al fratello Roberto il Guiscardo22. Proprio quest’ultimo nella primavera del 1057 ascese al titolo comitale, mentre nel 1059 venne elevato a duca di Puglia e di Calabria, tanto per investitura pontificia quanto per acclamazione da parte dell’esercito a Reggio Calabria23. La nitida ascesa di Roberto il Guiscardo segnò una cesura rispetto alla iniziale situazione di semi-anarchia delle contee e signorie. Non che gli altri conti mancassero di far sentire la loro voce: si aprì allora la fase di conflittualità tra l’Eroberungs­recht dei conti e il Lehensrecht del duca, durata sino alla decisa affermazione monarchica di Ruggero II24. Se negli anni seguenti il Guiscardo provvide a rimpolpare i possessi ducali, aggiungendovi Troia, Bari, buona parte del Salento, con l’eccezione delle contee di Lecce e Oria, per parte loro i principali conti fecero altrettanto per le loro pertinenze. Così, dal 1056, si rafforzò intorno alla persona di Roberto di Montescaglioso – legato per via materna alla famiglia Altavilla e fratello di Goffredo di Conversano – la contea di Tricarico-Montescaglioso25. Nel 1064 Roberto di 22 Lupo Protospatario, Annales, a. 1044, p. 58; Romualdo Salernitano, Chronicon, a cura di C.A. Garufi, RIS2 7/I, Città di Castello 1909-35, p. 168. Da ultimo cfr. G. Noyé, Le château de Scribla et les fortifications normandes du bassin du Crati de 1044 à 1139, in G. Musca (a cura di), Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II. Atti delle terze giornate normanno-sveve (Bari 23-25 maggio 1977), Bari 1979, pp. 207-24; Ead., La Calabre entre byzantins, sarrasins et normands, in Cuozzo, Martin (a cura di), Cavalieri alla conquista del Sud, cit., pp. 90-116, in particolare p. 111. 23 Sussistono dubbi sulla priorità e maggiore importanza dell’investitura pontificia (preferita da H. Hoffmann, Langobarden, Normannen, Päpste, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 58, 1978, pp. 13780, in particolare p. 141) o dell’acclamazione a Reggio (sostenuta da Déer, Papsttum und Normannen, cit., pp. 113 sg.). 24 Subito dopo la successione di Roberto nel 1057, per esempio, Pietro I di Trani provvide dimostrativamente a occupare Melfi, che rappresentava il centro politico dell’azione normanna (Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, IV, 3, p. 184). 25 E. Cuozzo, La contea di Montescaglioso nei secoli XI-XIII, in «Archivio storico per le province napoletane», 103, 1985, pp. 7-37, in particolare p. 9. Il vero centro della sua contea e della sua attività sarebbe comunque costituito da Tricarico (Jahn, Untersuchungen, cit., p. 269).

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Montescaglioso prese Matera, mentre il vicino Goffredo di Taranto occupava Otranto, dando avvio alla prima delle cicliche rivolte comitali26. Nel 1068 la guida dei rivoltosi venne assunta da Abelardo (nipote del Guiscardo) e dai conti di Conversano, Montescaglioso e Tricarico, confermando una saldatura di interessi tra i signori dei territori che si estendevano dalla costa barese verso la dorsale appenninica lucana e la costa ionica. Montepeloso venne occupata da Goffredo di Conversano, fratello di Roberto di Montescaglioso27. Entrambi i fratelli furono comunque sconfitti, perdonati e confermati nel grosso dei loro possedimenti28. La nuova rivolta del 1079-80 coinvolse ancora una volta il territorio compreso fra Trani, Monopoli, Montepeloso e Spinazzola, con l’inclusione della contea di Tricarico, tenuta ormai da Goffredo (di Conversano) dopo la morte del fratello, Roberto di Montescaglioso, nel luglio 108029; lo stesso Goffredo divenne signore anche di Matera, dove nel 1100 gli subentrò il figlio Alessandro30. Inizialmente Goffredo di Conversano fu coinvolto nella rivolta, ma ben presto si riallineò sulle posizioni del duca e partecipò all’assedio della ribelle Bari nel 1080. Con la presa di Salerno nel 1077 il Guiscardo aveva ampliato stabilmente il suo dominio anche verso l’area che aveva fatto parte del principato longobardo. Ciononostante, Cilento e Vallo di Diano

26 Lupo Protospatario, Annales, a. 1064, p. 59 (parla solo di un Roberto senza altre specificazioni); Anonymi Barensis Chronicon, in L.A. Muratori (a cura di), Rerum Italicarum scriptores, Milano 1724, vol. V, a. 1064, p. 152. La signoria di Goffredo da Taranto confinava con la contea di Montescaglioso. Jahn (Untersuchungen, cit., pp. 101-103) ritiene che l’occupazione di queste città fosse piuttosto collegata al processo di espansione normanna ancora in corso e che la vera rivolta si accese solo nel 1067-68. 27 Gaufredus Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti ducis fratris eius, a cura di E. Pontieri, RIS2 5/I, Bologna 1925-28, II, 39, p. 48. 28 Cuozzo, La contea di Montescaglioso, cit., p. 10. 29 Lupo Protospatario, Annales, a. 1080; secondo Jahn qui Lupo si confonderebbe e riferirebbe della morte di Roberto in Matera, con la successione del figlio, mentre in realtà la successione andò al fratello Goffredo di Conversano. La signoria di Roberto si estendeva lungo il Bradano sino al mare, lungo il Cavone sino ad Andriacum e lungo l’Agri sino a Montemurro (Jahn, Untersuchungen, cit., p. 274), confinando a ovest con la contea di Marsico e a sud con la signoria dei Chiaromonte; è invece improbabile per Jahn che includesse a questa data (come sostiene Cuozzo, La contea di Montescaglioso, cit., p. 15) anche Polla e Noicattaro. 30 Lupo Protospatario, Annales, a. 1101 (ma 1100), p. 63.

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restarono in gran parte estranei ai futuri sviluppi dell’area lucana. Più determinante per le terre lucane si stava confermando il rapporto con i territori pugliesi, secondo uno schema che vide sempre più frequentemente i distretti amministrativo-feudali allungarsi tra Lucania e Puglia, proprio come dei punti di sutura lungo la linea di confine tra la due regioni31. Un esempio precoce è quello già citato della primitiva contea di Montescaglioso di Roberto I, allungata probabilmente tra la Murgia barese e il Vallo di Diano. Ancor più esplicito è il caso della contea di Andria, che si andava costituendo proprio negli anni in cui si dissolveva la creazione di Roberto di Montescaglioso. Secondo Errico Cuoz­ zo, già negli anni Ottanta dell’XI secolo la contea di Andria, tenuta da Pietro II, vantava un secondo nucleo di territori, in terra lucana, situato tra le valli dell’Agri e del Sinni e comprendente Sant’Arcangelo, Policoro, Roccanova, Colobraro e Castronovo di Sant’Andrea32. Essa non solo avrebbe prefigurato la struttura della contea nell’età di Ruggero II, ma avrebbe anche rappresentato uno dei possibili modelli ai quali il primo sovrano normanno si sarebbe poi ispirato per la sua riforma delle contee. A segnare il limite orientale delle terre lucane, sotto il controllo ducale, nacque nel 1080 la contea di Mottola-Castellaneta, affidata a Riccardo, detto Senescalco, figlio di Drogone e nipote di Roberto il Guiscardo33. Parallelamente si registra una corposa riduzione dei vasti possedimenti del defunto Roberto di Montescaglioso (morto il 26 luglio 1080). Pare che solo il troncone più orientale, comprendente Polla, Saponara e Brienza, andasse al figlio Guglielmo e alla morte di questi, avvenuta prima del 1138, al nipote Roberto II, il quale partecipò all’infruttuosa rivolta del 1155-56 contro re Guglielmo I e perdette

31 L’irregolarità e discontinuità della estensione era comune a gran parte delle contee pugliesi; cfr. J.-M. Martin, La vita quotidiana nell’Italia meridionale al tempo dei normanni, Milano 1997, p. 146. 32 E. Cuozzo, Ruggiero, conte d’Andria, in «Archivio Storico per le province napoletane», 99, 1981, pp. 129-68, p. 159. Secondo Jahn (Untersuchungen, cit., p. 209), a questa data i territori in questione facevano invece ancora parte dei possessi dei Chiaromonte e solo con le conquiste di Ruggero II entrarono a far parte della rinnovata contea di Andria. 33 E. Cuozzo, La contea normanna di Mottola e Castellaneta, in C.D. Fonseca (a cura di), La Chiesa di Castellaneta tra Medioevo ed età moderna, Galatina 1994, pp. 39-76.

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così i suoi feudi34. Montescaglioso e i restanti feudi di area materana passarono invece al normanno Unfredo, secondo conte di Montescaglioso, della cui famiglia e origini si conosce ben poco35. Negli anni successivi al 1085 Unfredo riuscì a mantenere una discreta neutralità nel conflitto apertosi tra Ruggero Borsa e il fratellastro Boemondo. Attestato per l’ultima volta nel 1092, Unfredo muore nel corso del 1093; la sua eredità venne divisa tra i figli Goffredo (il quale ebbe il dominio su Montescaglioso, ma seguì poi Boemondo nella prima crociata trovando la morte a Doryleo nel 1097) e Rodolfo, detto Maccabeo, che subentrò al fratello maggiore nel controllo di Montescaglioso dopo la di lui scomparsa. Al Maccabeo si deve la fondazione di un nuovo e speculare insediamento urbano, la Civitas severiana, completata entro il 1101. Rodolfo sposò una figlia di Ruggero I, Emma, che gli diede numerosa prole e gli succedette nel dominio di Montescaglioso. La data di morte si colloca tra 1108 e settembre 110936. Bisogna comunque considerare che, complessivamente, la documentazione per il periodo compreso tra la morte del Guiscardo e l’ascesa di Ruggero II si fa, se non più rada, certo di difficoltosa interpretazione: le fonti narrative scarseggiano, mentre i fondi archivistici – specie quelli dei monasteri lucani – non hanno ancora trovato un’adeguata edizione che ne permetta la sicura utilizzazione. 2.4. Città e conti   Le contee e le fortune dei nuovi domini, provvisti o meno di titolo comitale, non esaurivano certo il quadro dell’organizzazione del territorio lucano: anche i centri urbani, per quanto non di 34 Id., La contea di Montescaglioso, cit., p. 13; a Roberto era assegnato il fuorviante appellativo «di Montescaglioso». 35 Jahn, Untersuchungen, cit., p. 286; Cuozzo, La contea di Montescaglioso, cit., p. 14. Lo stesso Cuozzo ritiene il frutto dell’opera dei falsificatori del XIII secolo i documenti che contengono il titolo comitale per la persona di Unfredo, che avrebbe invece avuto solo il titolo di dominus sulle terre a lui soggette (ivi, p. 27). 36 Jahn, Untersuchungen, cit., p. 311, tenta di salvare come autentici alcuni dei documenti rigettati da Cuozzo (La contea di Montescaglioso, cit., pp. 15-27) come falsi. Infatti le notizie sul Maccabeo sono molto incerte, perché legate a documenti, numerosi ma falsi, provenienti da fondi monastici di San Michele di Montescaglioso e Santa Maria di Pisticci. A parere di Cuozzo l’equivoco sull’intitolazione del Maccabeo – semplice dominus e non conte – sarebbe originato dalla attribuzione a lui del titolo comitale, che invece spettava alla sola moglie per via ereditaria, in quanto figlia del granconte di Sicilia: è solo uno dei casi esemplificativi della difficoltà nel ricostruire vicende e profili delle prime contee normanne. Per i probabili confini della contea cfr. Jahn, Untersuchungen, cit., p. 314.

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particolare rilievo e dimensione nel più ampio contesto meridionale, giocavano comunque un ruolo non insignificante nel controllo della regione. Non erano caratterizzati tanto dalla capacità di proporsi come autonomi soggetti politici, in una misura paragonabile a quella che andava contemporaneamente esprimendo la vicina Bari, quanto piuttosto dalla capacità di rappresentare un luogo di simbolico autoriconoscimento per la stirpe dominante e un fulcro strategicamente rilevante per il controllo della più vasta regione. Le due città-chiave in questo scenario erano indubbiamente Melfi e Venosa. Del ruolo centrale assunto da Melfi sin dal 1040 si è già detto, tanto che Guglielmo di Puglia parla esplicitamente di Melfi quale capitale dell’Apulia normanna, dopo averne ripetutamente tessuto ampie lodi37. L’assorbimento del completo controllo sulla città da parte degli Altavilla proseguì di pari passo con la loro ascesa, cosicché rapidamente la città «assunse il ruolo di centro propulsore e capitale morale della conquista della Puglia dove si riunirono le assemblee e i sinodi che affrontarono i problemi più gravi della conquista»38. Qui si svolse il sinodo del 1059, che segnò la vera saldatura politica tra papato e Altavilla, e qui Roberto volle ricevere il rinnovato omaggio di soggezione da parte della nobiltà pugliese dopo la conquista di Palermo. Anche pubbliche cerimonie e atti di strategia politico-matrimoniale, come le nozze del Guiscardo con la principessa longobarda Sichelgaita, ebbero luogo nella stessa città. Quasi implicito corollario doveva essere il passaggio alla diretta dipendenza pontificia della sede vescovile della città, realizzatasi forse già sotto Alessandro II, e sicuramente dal 110139. Grazie alla sua originaria assegnazione a Drogone di Altavilla, Venosa entrò ben presto a far parte stabilmente delle città ducali. Sempre a Drogone risale la fondazione del monastero venosino della SS. Trinità, destinato a divenire l’Eigenkloster della famiglia Altavilla: alla sua custodia furono affidate le spoglie mortali della prima generazione della famiglia e le preghiere per la salvezza delle loro anime40. Anche Guglielmo di Puglia, La geste de Robert Guiscard, III, 350; I, 249-53. Delogu, L’evoluzione politica, cit., p. 65. 39 H. Houben, Melfi, Venosa, in G. Musca (a cura di), Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari 21-24 ottobre 1991), Bari 1993, pp. 311-31, in particolare pp. 317-18; Italia Pontificia, vol. IX, Samnium - Apulia - Lucania, a cura di W. Holtzmann, Berlin 1962, p. 498, n. 2. 40 Houben, Die Abtei Venosa, cit. 37 38

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Acerenza, sede di uno dei più importanti gastaldati longobardi, venne conquistata e stabilmente incamerata nel 1062 dal Guiscardo. A compensare quindi l’ampia presenza sul territorio di pericolose dinastie minori di conti e signori, i primi Altavilla cercarono di mantenere sotto il loro diretto controllo i centri urbani più importanti e strategicamente rilevanti. Gli interessi ducali conobbero però un drastico riorientamento a seguito della conquista di Salerno e del trasferimento nella città campana della residenza ducale, quello che in precedenza non era mai avvenuto per Melfi. Esagerava Giustino Fortunato nel sostenere che dopo la conquista di Salerno la zona del Vulture perse «ogni importanza politica» con una progressiva infeudazione delle sue città e delle sue terre, ma indubbiamente tutta l’area che dal Vulture scendeva allo Ionio perse centralità, passando definitivamente da linea di confine a ventre molle di un organismo politico di ben più ampie dimensioni rispetto al passato: solo occasionalmente, in rapporto a eventi bellici in suolo meridionale, avrebbe recuperato temporaneamente centralità nell’azione regia41. Già al momento della successione al Guiscardo, nel 1085, si riaprirono spazi di conflittualità con il potere centrale. Il primo ad approfittarne fu l’irrequieto Boemondo, sotto la cui guida la parte orientale della regione riconfermò una netta propensione politico-istituzionale all’aggregazione con la Puglia centro-meridionale, prolungandosi lungo tutto l’arco costiero ionico: Matera, Montescaglioso, Montepeloso, Chiaromonte e tutta la valle del Sinni furono coinvolte nella politica espansionistica di Boemondo prima della sua partenza per l’avventura crociata di Antiochia42. Il composito territorio sottoposto a Boemondo I avrebbe poi costituito un punto di riferimento per la costituzione del futuro principato di Taranto. Alla fine dell’XI secolo, invece, le costruzioni erano ancora precarie e personalistiche, tanto che nel 1115, approfittando della minorità di Boemondo II, si incrementarono i possessi di Emma di Montescaglioso, madre di Ruggero di Tricarico; a sua volta Boemondo II approfittò della scomparsa di Riccardo Senescalco e i suoi possessi, facendo perno su Taranto, giunsero nuovamente a comprendere gran parte della Terra d’Otranto e 41 G. Fortunato, La badia di Monticchio, Trani 1904, ora in Id., Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, vol. I, p. 61; ­Houben, Melfi, Venosa, cit., p. 323. 42 D. Girgensohn, Boemondo I, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XI, Roma 1969, pp. 117-24.

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del territorio dell’antico tema bizantino di Lucania43. Nel 1125, al momento della partenza per Antiochia, Boemondo II affidò Taranto ad Alessandro di Conversano, rafforzando in questo modo la posizione di uno dei più tenaci avversari di Ruggero II44. Anche la presenza dell’ampia signoria dei Chiaromonte nel Sud della Basilicata non superò il giro di boa degli anni Trenta. La famiglia si era insignorita nella prima fase della conquista dell’area compresa tra l’Agri, Cerchiara e Mormanno, con un rapporto privilegiato con il monastero greco di Sant’Elia di Carbone. Dopo la morte del Guiscardo si era nettamente schierata a favore di Boemondo: di lui, e di suo figlio Boemondo II, si considerarono infatti vassalli. Proprio questo rapporto di fedeltà fu tra le motivazioni che spinsero poi Ruggero II, in qualità di erede del duca Guglielmo e del principe Boemondo II, a reclamare il controllo anche sulle terre dei Chiaromonte. Gli ultimi rappresentanti della famiglia, Riccardo e Alessandro, scompaiono dalla documentazione dopo il fallimento della rivolta del 1139 e i loro beni, frammentati, vennero concessi a nuovi feudatari regi45. 2.5. La provincia del regno   Con il 1127, e ancor più con il 1130, lo scenario politico mutò nuovamente, sotto il segno dell’imperiosa ascesa di Ruggero II quale erede del duca di Puglia e sovrano del neo­ nato regno di Sicilia. Ovviamente tanto la geografia amministrativa quanto gli uffici amministrativi subirono rapidi mutamenti, frutto del progressivo e inevitabile aggiustamento di un apparato amministrativo in fieri. Secondo l’ottimistica sintesi di Romualdo Salernitano, la prima fase delle riforme si sarebbe già conclusa con successo intorno al 1140,

Cuozzo, La contea normanna di Mottola, cit., p. 70. Si tratta del figlio di Goffredo, schieratosi con i rivoltosi contro Ruggero II nel 1127 (Romualdo Salernitano, Chronicon, ad annum) e negli anni successivi, tanto che alla fine Ruggero ne confiscò i possessi, insieme a quelli del fratello Tancredi (Jahn, Untersuchungen, cit., p. 265). 45 Cfr. V. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in epoca bizantina e normanna, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 61-87, in particolare pp. 70-73. 43 44

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grazie all’introduzione su vasta scala di giustiziari e camerari46. Il processo, pur rispondendo a un desiderio di pianificazione unitaria, fu in realtà molto meno omogeneo e celere di quanto la fonte narrativa lasci supporre. La più recente storiografia ha ridimensionato proprio i caratteri di modernità, organicità e sistematicità dell’apparato burocratico normanno; frequenti erano invece le attribuzioni e i trasferimenti di competenze (anche territoriali) ad personam, con ampio spazio per la sopravvivenza di strutture informali di governo47. Dall’altro versante la storiografia non manca di sottolineare l’importanza crescente che acquisì alla corte degli Altavilla il gruppo dei familiares, che faceva da vero tramite e filtro tra il sovrano e le istanze provenienti dai sudditi e dall’amministrazione locale48. Inutile dunque accanirsi nel pretendere di restituire un’organica sistematicità dell’apparato amministrativo quando essa non era nelle cose. Tra i principali funzionari regionali, i camerari avevano mansioni prevalentemente patrimoniali e finanziarie, legate al demanio regio e all’esazione di tasse e prestazioni. Ma non solo; per esempio, a loro era affidata la transitoria gestione delle contee vacanti49. Nella prospettiva del disegno di una geografia amministrativa, però, i loro possibili distretti di pertinenza paiono ancora molto incostanti e mutevoli, così come il rapporto con il «maestro camerario» a loro superiore50. I distretti di maggior peso furono sicuramente quelli affidati ai giustiziari, per i quali si infittiscono le attestazioni già nel corso degli anni Trenta. Questi ufficiali trovavano il cardine della loro funzione 46 Romualdo Salernitano, Chronicon, p. 226: «Rex autem Roggerius in regno suo perfecte pacis tranquillitate potitus, pro conservanda pace camerarios et iustitiarios per totam terram instituit, leges a se noviter conditas promulgavit, malas consuetudines de medio abstulit». 47 In generale per le ricadute ideologizzanti nei giudizi sull’operato di Ruggero II cfr. C.D. Fonseca, Ruggero II e la storiografia del potere, in Musca (a cura di), Società, potere e popolo, cit., pp. 9-26. Per i giudizi sul complesso amministrativo cfr. E. Mazzarese Fardella, La struttura amministrativa del regno normanno, in Atti del congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna, cit., pp. 213-14 e H. Houben, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, Roma-Bari 1999, pp. 188-89. 48 Cfr. H. Takayama, The Administration of the Norman Kingdom of Sicily, Leyden 1993, passim, e G.M. Cantarella, Principi e corti. L’Europa del XII secolo, Torino 1997, pp. 11-37 e 157-68. 49 E. Cuozzo, Quei maledetti normanni. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989, p. 123; Martin, La vita quotidiana, cit., p. 155. 50 Takayama, The Administration, cit., p. 81.

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nel garantire la pace pubblica, prima ed essenziale aspirazione del sovrano stesso. A questo scopo ad essi era affidata la giurisdizione per i reati criminali e di lesa maestà, ma anche per gli affari civili che riguardavano gli istituti religiosi51. Le diocesi costituiscono immancabilmente un ordito sul quale si imbastiscono poi le varie e nascenti circoscrizioni civili. Il processo è evidente anche in età premonarchica, quando le sedi comitali e, in parte, signorili tendono a coincidere con sedi vescovili che appositamente negli anni della conquista vengono istituite. Non sempre però le coincidenze territoriali tra diocesi e distretto erano possibili. Nella Lucania normanna le contee di Tricarico e Montescaglioso, per esempio, coprirono solo in parte il territorio dei vasti vescovadi di Acerenza e Tricarico52. Per le conestabulie si è pure affermato che i loro confini «non furono inventati, ma furono tracciati tenendo presente la distrettuazione diocesana»; non sempre è però legittimo operare simili equiparazioni53. 2.6. I giustiziari nella Lucania normanna   La sopravvivenza dei giustizierati in età sveva ha contribuito per parte sua a consolidare estensione e denominazione dei distretti di pertinenza, destinandole spesso a una vita plurisecolare. È questo il caso del nuovo nome «Basilicata», che proprio come denominazione di un giustizierato vede per la prima volta la luce; il problema intorno a cui tanta storiografia locale si è arrovellato è costituito dal quando un distretto con questo nome viene per la prima volta attestato. Ma proprio la querelle apertasi intorno alle prime attestazioni del nome Basilicata, e alla creazione del giustizieriato, può essere esemplare ed esplicativa delle forzature sistematizzanti nei confronti dell’ordito amministrativo. I più accreditati studiosi del sistema amministrativo normanno del Novecento54, con al loro fianco lo stesso Giustino Fortunato, non 51 Martin, La vita quotidiana, cit., p. 154; Id., Législation royale, coutumes locales, procédure: la haute justice en Apulie et Terre de Labour au XIIe siècle, in O. Zecchino (a cura di), Le Assise di Ariano, Cava dei Tirreni 1984, pp. 137-63. 52 Jahn, Untersuchungen, cit., p. 145. 53 Questa tesi, piuttosto sistematizzante, è sostenuta in particolare da Cuozzo, Quei maledetti normanni, cit., p. 155, ma criticata da Martin, La Pouille, cit., p. 788 e da D. Matthew, I normanni in Italia, Roma-Bari 1997, p. 285. 54 Ricordiamo a solo titolo di esempio E.M. Jamison, The Norman Administration of Apulia and Capua, More Especially under Roger II and William I, 1127-1166, London 1913, p. 346 e Takayama, The Administration, cit., p. 158.

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hanno preso in seria considerazione la possibile esistenza di un iustitiariatus Basilicatae in età normanna. D’altronde, solo a partire dagli anni Settanta del XII secolo al nome del titolare di una carica comincia ad affiancarsi stabilmente anche un genitivo geografico, il che indica, per questa età, lo stabilizzarsi dei distretti e la loro separazione dalle sorti personali del titolare55. Nell’area lucana il processo pare attardarsi ulteriormente, sino alla comparsa negli anni Ottanta di un giustizierato che solo in parte anticipa il futuro distretto svevo. Una discrepanza di non poco conto risiedeva proprio nella differente denominazione: nel 1184, infatti, Riccardo di Balvano compare nella veste di «iustitiariatus Melfie et Honoris Montis Caveosi regio comestabulo»56. L’identificazione dei confini di questo giustizierato non è immediata, in quanto essi non erano coincidenti con quelli della conestabulia di Ruggero di Tricarico (cfr. infra, par. 2.7), attestata qualche decennio prima e alla quale solo in parte si sovrappone, con una sostanziale ed evidente discrasia dei confini soprattutto nell’area settentrionale; né tanto meno è legittima la sovrapposizione con il futuro iustitiariatus Basilicatae. I distretti non erano ancora definiti, tanto che nel 1189 si parla ancora di un «domini Robberti tituli honoris montis scaveosi regii camerarii», con una rinnovata divisione del distretto – comitale e vacante – di Montescaglioso rispetto a quello di Melfi57. A questi distretti va aggiunto quello più longevo di Val Sinni, che raccoglieva sotto un unico giustiziere le terre della Lucania meridionale, al confine con la Calabria. Non è qui da escludere un possibile legame di continuità con l’antico tema di Lucania, mentre nel presente esso coincideva in gran parte con i domini dei Chiaromonte. Venne incluso originariamente tra le spettanze del principato di Taranto, ma essendo comunque situato in Calabria non venne considerato nella redazione del Catalogus baronum58. Ne erano titolari Takayama, The Administration, cit., pp. 112-14. Documento edito in J.-M. Martin (a cura di), Les chartes de Troia, I: 10241266, «Codice diplomatico pugliese», 21, Bari 1976, n. 102, che era stato comunque già utilizzato dalla Jamison, The Norman Administration, cit., p. 361, con datazione al 1183. La denominazione di «honor Montis Caveosi» ricalca certamente quella più attestata di «honor Montis Sancti Angeli», che indicava l’area del santuario micaelico sul Gargano. 57 Jamison, The Norman Administration, cit., p. 389, nota 3, poi ripresa in Takayama, The Administration, cit., p. 161. 58 E. Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», n. 100*, Roma 1984, p. 31. 55 56

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nel 1144 Gibel de Lauria e Roberto de Cles, entrambi legati al conte di principato e poi inseriti tra i suffeudatari del conte di Marsico59. D’altra parte il Ducatus Apulie conquistato e riorganizzato da Ruggero II fermava il suo confine meridionale lungo la linea che dal Tirreno, all’altezza di Policastro, raggiungeva lo Ionio a nord della foce del Sinni, la cui valle restava quindi in gran parte estranea allo stesso ducato e gravitava verso la Calabria. Non è quindi lecito ipostatizzare l’esistenza in età normanna di un giustizierato di Basilicata non attestato dalle fonti sino alla più matura età sveva60, mentre va registrata la compresenza di distrettuazioni 59 Documento del 1144, in G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, «Orientalia Christiana», XIX, Roma 1930, pp. 30-38, n. XXXVII, e 39-42, n. XXXVIII. Sui due personaggi cfr. Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, cit., pp. 162, nota 601 e 164, nota 607. 60 L’esistenza di tale giustizierato è stata riasserita da Tommaso Pedio (La Basilicata nella istituzione dei Giustizierati del Regno Normanno, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 19, 1950, pp. 227-36; Id., La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. III, cit., p. 179; Id., Basilicata – origine di un toponimo, in «Archivio storico pugliese», 31, 1978, pp. 337-42), in continuità con le vecchie tesi espresse nell’Ottocento da Racioppi (con lo pseudonimo Homunculus, Storia della denominazione di Basilicata, Roma 1874 e Paralipomeni della storia della denominazione di Basilicata, Roma 1875; Storia dei popoli di Lucania e della Basilicata, Torino 1889, vol. II, p. 19) e riproponendo quindi due documenti del 1135 e del 1161 provenienti da Tricarico, nei quali compaiono degli iustitiarii Basilicatae. Purtroppo però il documento tricaricense del 1135 è in modo pressoché unanime ritenuto un falso (cfr. per esempio le argomentazioni in M. Caravale, Il regno normanno in Sicilia, Milano 1966, p. 225, nota 21), mentre per la falsità del presunto mandato regio del 1161 al «giustiziario di Basilicata» Filippo di Bussone cfr. l’edizione in Guillelmi I. regis diplomata, a cura di H. Enzensberger, «Codex Diplomaticus Regni Siciliae», s. 1, t. 3, Böhlau 1996, †31, p. 82, dove si sottolinea come lo stesso Filippo di Bussone sia personaggio di età sveva. Non ci sono quindi elementi per sostenere l’esistenza in età normanna del giustizierato di Basilicata (coincidente con i confini dell’attuale regione), né tanto meno la sua sottodivisione in circoscrizioni minori, come invece sottintende lo stesso Pedio; cfr. T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. I, La regione nei suoi aspetti geo-fisici ed antropostorici, Bari 1987, pp. 215-17. Non convince neanche il rimando che Caravale (Il regno normanno, cit., p. 226) fa a un documento del 1147 nel quale sarebbero attestati dei giustiziari di Basilicata; in realtà nel documento in questione, sopravvissuto solo sotto forma di regesto ed edito dalla Jamison (The Norman Administration, cit., p. 457, nota 4), non si rinviene alcuna specificazione per i giustiziari in questione. Anche il rimando di Pedio all’arcivescovo Andrea di Acerenza nominato nel 1210 da Ottone IV quale giustiziere di Basilicata non trova conferma nel pur citato N. Kamp, Kirche und Monarchie im Staufischen Königreich Sizilien I: Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfe des Königreichs

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minori e alquanto instabili, in parte ancora concorrenti tra loro, in un quadro in cui un largo margine di azione avevano le contee, le più importanti baronie e i connessi distretti dei conestabili. 2.7. Il «Catalogo dei baroni» L’immagine della feudalità normanna in Lucania nella seconda metà del XII secolo è certamente nitida e puntuale, grazie alle informazioni contenute nel Catalogus baronum, il registro che raccoglie il frutto di una inquisitio svolta dai camerari regi e dipanatasi per tutti gli anni Quaranta, sino alla prima stesura del 1150, alla quale seguirono aggiornamenti sino all’età angioina. Scopo dell’inchiesta era quello di stabilire l’ammontare dell’augmentum dovuto da ogni feudatario in caso di una magna expeditio (cioè l’approntamento di un esercito straordinario per la difesa del regno), partendo dalla constatazione del servitium militis dovuto da ogni feudatario, tanto per i feudi tenuti direttamente dal re (in capite de domino rege), quanto per quelli tenuti dal conte o da altro feudatario (in servitio). Tutti questi feudi (comitali e non comitali) risultarono così quaternati, cioè inseriti nei quaterniones della curia e soggetti a una più rigida normativa. I feudi meno importanti non fornivano direttamente il servizio militare al re e presero nei secoli seguenti il nome di feuda plana61. a) Le conestabulie Poco prima del 1149 vennero istituite le conestabulie, in stretta connessione con l’introduzione della leva generale (il magnus exercitus)62. Il Catalogus, per le province continentali di Apulia e Principatus Capue, ne menziona dieci, assegnate quasi esclusivamente a personaggi che risultavano essere titolari di feudi all’interno della stessa conestabulia loro assegnata. Ad essi spettava

1194-1266, 4 voll., München 1973-82, vol. II, p. 776, n. 36 dove (con rimando a Reg. Greg. IX n. 686: «officium iustitiariatus exercens») non si fa parola del distretto di pertinenza del giustiziario. 61 Per la redazione e il significato del Catalogus baronum restano fondamentali gli studi di E.M. Jamison, editrice dello stesso – Additional Work on the «Catalogus baronum», in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 83, 1971, pp. 1-63; Catalogus baronum, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 101, Roma 1972 –, ai quali si affiancano i lavori di Cuozzo: Catalogus baronum. Commentario, cit., 101-102; Id., Quei maledetti normanni, cit. 62 Jamison, Additional Work, cit., p. 4; Ead., Foreword all’edizione del Catalogus baronum, cit., p. xvi.

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in primo luogo il compito di esigere le prestazioni militari dovute per il magnus exercitus da tutti i feudatari (con l’eccezione dei feudi comitali)63. In alcuni casi il conestabile era affiancato da un sottoconestabile, al quale egli affidava la gestione di una sezione particolare della sua conestabulia. Frequentemente i conestabili ricoprivano anche l’ufficio di giustiziario. Parrebbe comunque che le conestabulie non coincidessero territorialmente con i giustizierati, mentre i conestabili sarebbero stati sottoposti ai camerari in materia di amministrazione64. Esistono peraltro forti dissensi sul significato e sulla consistenza delle conestabulie; su di esse molto ha insistito l’editrice del Catalogus, anche per esigenze di razionalizzazione del materiale in esso presente, mentre da parte di altri si è rimarcato come questi distretti non conoscano altra storia al di fuori delle poche ricorrenze all’interno del Catalogus stesso, che diviene così una sorta di fonte autoreferenziale65. Per comprendere la dislocazione delle terre lucane all’interno del sistema delle conestabulie resta utile il riferimento alle diocesi di volta in volta comprese nei distretti66, la cui denominazione non può peraltro essere scissa dal titolare, né ricevere un’etichetta geografico-territoriale inesistente nelle fonti. Cominciando da nord la conestabulia di Guimondo di Montellere (che comprendeva Melfese, Capitanata, Sannio, parte dell’Irpinia) ritagliava al suo interno la sottoconestabulia di Riccardo filius Richardi. A questi spettava il controllo dei territori delle diocesi di Melfi, Lavello, Venosa, Rapolla, Ascoli Satriano, Bovino e Troia. Era così ricompattata l’area del Melfese con quella della Capitanata, secondo l’antica configurazione dell’Apulia romana. Solo la parte settentrionale della diocesi di Acerenza, con Francavilla, restava sotto la diretta giurisdizione di Guimondo. Nella conestabulia di Lampo di Fasanella, comprendente essenzialmente il territorio dell’antico principato longobardo di Salerno, era stata ricavata la sottoconestabulia di Roberto di Quaglietta. Essa corriCuozzo, Quei maledetti normanni, cit., p. 155. Ivi, pp. 165-67, che sostiene la tesi della coincidenza territoriale tra conestabulie e giustizierati contro l’opinione di Evelyn Jamison e di Mario Caravale. 65 Per la questione cfr. Jamison, Foreword all’edizione del Catalogus baronum, cit., e, con una tesi radicalmente opposta, Matthew, I normanni in Italia, cit., p. 285: «La sfera della comestabulia non esiste fuori dalle pagine del Catalogus e non lascia tracce neppure sulla più tarda geografia amministrativa del regno». 66 Cuozzo, Quei maledetti normanni, cit., pp. 156-64. 63 64

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spondeva grosso modo alla soppressa contea di Principato e includeva a est le diocesi di Satriano e Muro, mentre quella di Marsiconuovo (con l’esclusione di Marsicovetere) restava nella sfera di Lampo. La conestabulia di Ruggero di Fleming (corrispondente alla parte orientale del principato di Taranto) giungeva sino a Mottola e Castellaneta, includendo la parte sud-orientale della diocesi di Acerenza, lungo le linee del Gravina e del Bradano, includendo Matera e Ginosa ed escludendo Montescaglioso. L’ultima conestabulia è quella di Ruggero di Tricarico, che includeva le diocesi di Acerenza (in parte), Montepeloso, Potenza, Tricarico, Marsiconuovo (la parte nord-est, comprendente Marsicovetere e Viggiano), Anglona-Tursi (a nord del Sinni e del Serrapotamo); essa coincideva con la parte occidentale del principato di Taranto. Sotto la giurisdizione di Ruggero – l’unico conestabile per il quale distretto comitale e comestabilia si sovrapponessero – ricadeva dunque in maniera più compatta il nocciolo della futura Basilicata, fermo restando che si trattava di una circoscrizione ritagliata nel più ampio principato di Taranto e che ancora non aveva una sua stabilità. Rispetto all’antica regione romana si registra il definitivo distacco del Cilento e del Vallo di Diano, seguendo la linea che corre da Marsiconuovo verso Satriano, Vietri, Muro, San Fele, Vitalba, Rionero e tutto il Vulture; quindi proprio il «capoluogo» del giustizierato normanno, Melfi, resterebbe fuori dalla conestabulia; così come le è estraneo anche il Materano con Ginosa, mentre include Montescaglioso. Conestabulie e giustizierati sembrano delineare comunque un nucleo territoriale abbastanza compatto intorno a tre centri di riferimento – Tricarico Montescaglioso e Melfi –, con profonde aperture verso la Capitanata a nord e l’area barese e tarantina a est; sul versante occidentale della regione pare esservi una maggiore frammentazione, a cui fa da contraltare il definitivo riallineamento dell’area cilentana verso Salerno. È una situazione che trova possibilità di verifica anche in un ambito differente, quale quello della distribuzione delle contee in età monarchica. b) Le contee in età monarchica Al centro del processo di innegabile omologazione operato da Ruggero II nei confronti della feudalità peninsulare vi fu la profonda ristrutturazione a cui vennero sottoposte le principali contee esistenti, ridotte al numero di 26 e «ristrutturate

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secondo un nuovo ed originalissimo modulo, costituito da una serie di feudi ‘quaternati’ non necessariamente contigui tra loro, tenuti dal conte in demanio e in servitio»67. Comunque il quadro offerto dal Catalogus risente dei pesanti provvedimenti adottati da Guglielmo I all’indomani della rivolta del 1155-56, e quindi non rispecchia del tutto la situazione di età ruggeriana. Proprio il caso lucano esemplifica la natura territorialmente composita e la discontinuità dinastica delle contee, in quanto si riscontra la presenza nella regione di pertinenze spettanti a una decina di contee differenti. Di esse soltanto tre mantenevano il caput in terra lucana. Possiamo avviare la nostra ricognizione con una famiglia comitale, che porta nel nome (da Balvano) il suo legame con la Lucania e intorno alla quale si sono trascinate vischiose confusioni nella storiografia68. Nella primitiva redazione del Catalogus il conestabile Gilberto di Balvano deteneva in capite de domino rege i feudi di Cisterna, Armaterra e Vitalba in Lucania, oltre ad altri nel principato di Salerno69; questi possedimenti sarebbero rimasti ancora in età sveva appannaggio di membri della stessa famiglia, senza però titolo comitale. A questo ramo appartiene il citato Riccardo di Balvano, attestato nel 1184 come giustiziario di Melfi. Non rientrava tra i suoi possessi, invece, il centro di Balvano. Il piccolo centro lucano non era detenuto nemmeno dall’altro ramo, quello discendente da Filippo di Balvano; questi si fregiava del titolo comitale, ma il centro della contea coincideva probabilmente con Sant’Angelo dei Lombardi70. Balvano restò invece parte della soppressa contea di Principato. In definitiva, la famiglia da Balvano aveva cospicui possessi feudali nell’area del Melfese, ma il suo centro di interesse gravitava verso l’area campana. Nella stessa direzione si orientava anche l’ampia contea di Principato, che racchiudeva essenzialmente l’area a sud di Salerno71. Essa 67 Id., L’organizzazione politico-amministrativa del Regno normanno, in C.D. Fonseca (a cura di), Mezzogiorno-Federico II-Mezzogiorno. Atti del Convegno internazionale di studio, Potenza-Avigliano-Castel Lagopesole-Melfi 18-23 ottobre 1994, Edizioni De Luca, Roma 1999, pp. 49-60, in particolare p. 57. 68 Per tutte le vicende dei due principali rami di questa famiglia cfr. E. Cuozzo, Prosopografia di una famiglia feudale normanna: i Balvano, in «Archivio storico per le province napoletane», serie III, 98, 1980, pp. 61-87. 69 Rocchetta Sant’Antonio, Lacedonia e Monteverde; Catalogus baronum, § 433, p. 78. 70 Ivi, §§ 702-705, pp. 124-25. 71 Il primo detentore della contea fu Guglielmo, fratello di Roberto il Guiscar-

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venne profondamente ristrutturata e ridimensionata dopo la rivolta del 1155-56, per essere poi soppressa dal re nel 116272. Non compare quindi come unità autonoma nel Catalogus, ma le sue pertinenze sono ancora identificabili in quanto coincidenti con le terre incluse nella sottoconestabulia di Roberto di Quaglietta73. La parte più consistente del distretto era costituita dal Vallo di Diano, non mancando però un affaccio anche nell’area della futura Basilicata, con l’inclusione di Baragiano, Santa Sofia (di Baragiano), Muro Lucano, Bella, Vietri di Potenza, Agromonte di Forenza, Sarconi, Torre di Satriano, Pietrafesa/Satriano, Salvia/Savoia di Lucania. In questo contesto risultava quindi un parziale recupero dell’unità fra le terre che avevano costituito la sezione orientale dell’antica Lucania romana. Ad eccezione del caput, Marsiconuovo, l’omonima contea tenuta da Silvestro, signore di Ragusa e nipote di Ruggero I, comprendeva solo territori che si situano nel Salernitano74. A concludere la serie delle contee occidentali troviamo la contea di Conza, esistente già in età longobarda, a lungo ed erroneamente associata alla famiglia dei da Balvano75. Estesa proprio all’incrocio appenninico tra Puglia, Campania e Basilicata, comprendeva in quest’ultima regione soltanto feudi in Pescopagano e Rapone76. Anche questa contea subì comunque le conseguenze del passaggio dinastico agli Svevi: il conte Riccardo di Conza venne giustiziato nel 1197, mentre la titolarità – tutta nominale – della contea sembra essere stabilmente passata alla famiglia de Monumento77. do, sotto il cui controllo si trovava anche l’alta valle dell’Agri (con Marsiconuovo e Tramutola) che passerà poi nella contea di Marsico. 72 Cfr. E. Cuozzo, «Milites» e «testes» nella contea normanna di Principato, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 88, 1979, pp. 121-63, in particolare pp. 155-61. Nel 1168 la contea venne ricostituita, su base più ridotta, e affidata ad Enrico di Navarra, già conte di Montescaglioso (ivi, pp. 161-62). 73 Catalogus baronum, §§ 463-489, pp. 86-93. 74 Silvestro tiene in demanio Marsico, Roccettam, Diano (Teggiano), Sala Consilina, mentre in servitio mantiene le seguenti località: Novi Velia, Gioi (di Salerno), Monteforte Cilento, Magliano Vetere, Padula, Tortorella, Sanza, Caselle in Pittari (ivi, §§ 597-604, pp. 108-10). La stessa Marsico aveva fatto parte in precedenza della contea di Principato (Cuozzo, Quei maledetti normanni, cit., p. 110). 75 Cuozzo, Prosopografia di una famiglia feudale normanna, cit., p. 77; per le vicende precedenti della contea cfr. Id., L’unificazione normanna, cit., pp. 621-22. 76 Catalogus baronum, §§ 694-699. 77 Per tutto questo cfr. Cuozzo, Prosopografia di una famiglia feudale normanna, cit., pp. 85-87.

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Sul versante orientale si segnala in primo luogo l’importante contea di Conversano (tenuta prima da Roberto I di Basunvilla, cognato di Ruggero II, e poi dall’irrequieto figlio Roberto II sino al 1182), con caput nel Barese, che si allungava decisamente verso la Basilicata, includendo Lagopesole, Missanello, Castel Glorioso, Pignola e Oliveto Lucano78. Vasto era pure il circondario della contea di Gravina, anch’essa allungata dalla costa barese sino all’interno della Basilicata79. Qui il conte Gilberto (cugino spagnolo della regina Margherita di Navarra e padre di Berteraimo conte di Andria), al momento della stesura del Catalogus deteneva in capite de domino rege feudi in Forenza, mentre in servitio erano feudi sempre in Forenza80, e poi in Montemilone, Sant’Angelo le Fratte, Tito, Laurenzana, Campomaggiore, Trifogium e Marsicovetere. Anche la contea di Andria presentava una netta divisione in due nuclei territoriali posti in Puglia e Basilicata81. Essa aveva una storia risalente all’XI secolo, a cui si è fatto cenno, e pare aver mantenuto una sua continuità anche sotto i duchi Ruggero Borsa e Guglielmo. Prima del 1127 era passata a Goffredo, verosimilmente erede del conte Riccardo, che venne però privato della contea nel 1133 per essersi ripetutamente ribellato al nuovo sovrano. Dopo di lui il re provvide ad assegnarla a personaggi di fiducia: nel 1147 venne attribuita a Riccardo di Lingèvres, cavaliere da poco giunto in Italia e che ben servì la causa degli Altavilla, sino alla morte sopraggiunta combattendo contro i Bizantini sotto le mura di Andria nel 1155. Solo nel 1166 la contea venne nuovamente concessa a Berteraimo, parente della regina Margherita e costretto ad abbandonare il regno appena due anni dopo. Fu allora che subentrò il più famoso dei conti di Andria, quel 78 Catalogus baronum, §§ 89-99, pp. 16-18; al momento della registrazione la contea era vacante a causa dell’esilio di Roberto II, tra gli anni 1159 e 1168: Cuoz­ zo, Catalogus baronum. Commentario, cit., § 89*, p. 28; A. Petrucci, Basunvilla Roberto, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma 1965, pp. 186-88. 79 Catalogus baronum, §§ 53-71, pp. 11-14. La contea di Gravina era stata creata ex novo intorno al 1155 e affidata ad Alberto degli Aleramici, per passare poi nel 1160 a Gilberto (Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, cit., § 54, p. 20). 80 Forenza restò comunque legata tradizionalmente alla contea di Loritello, di cui ritornò a far parte nel 1179; cfr. Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, cit., § 71, p. 23. 81 Cuozzo, Ruggiero, conte d’Andria, cit., p. 160.

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Ruggero, già conte di Albe, destinato a tentare l’ascesa regia dopo il 118982. Il Catalogus riporta la struttura della contea sotto il governo di Berteraimo, quindi tra 1166 e 1167; essa, oltre al gruppo di feudi concentrati tra Andria e Minervino Murge, con un prolungamento verso l’abbazia di Banzi, comprendeva anche Sant’Arcangelo, Colobraro e Castronovo di Sant’Andrea83. In sostanza una fascia di possessi si allungava dagli ultimi rilievi della Murgia sino allo Ionio, a creare una unità militare difensiva compatta ed efficace in caso di attacchi da oriente, eventualità che sotto Riccardo di Lingèvres si concretizzò. Anche in questo caso, comunque, un buon tratto del territorio lucano veniva stralciato e unificato a fine strategico con l’area barese. Al momento della registrazione del Catalogus non aveva un profilo ben definito un importante distretto feudale del Regno, il principato di Taranto, creato sulla base delle pertinenze di Boemondo di Antiochia e affidato da Ruggero II dopo il 1138 a suo figlio Guglielmo84. Nella prima versione il principato risultava assegnato a Simone, figlio illegittimo di Ruggero II, mentre al momento della prima revisione era vacante, e questo creò qualche incongruenza di stesura, aggravata ulteriormente dalla revisione sveva, che tenne conto degli ampliamenti apportati con la concessione a Manfredi dello stesso principato. Comunque nel Catalogus le terre del principato corrispondono grosso modo a quelle assegnate alle conestabulie di Ruggero di Fleming e a Ruggero di Tricarico, con l’esclusione delle contee di Gravina, Tricarico e Montescaglioso e l’inclusione della Val Sinni, che non venne presa in considerazione nel Catalogus85. Importante era la tendenziale inclusione dell’intera area orientale della Lucania in un grande organismo feudale, teso a creare una sorta di Stato semi-autonomo e comunque un distretto amministrativo dalla lunga fortuna e pronto a inglobare anche le due più significative contee poste in territorio lucano, quelle di Montescaglioso e di Tricarico86. Per tutto questo cfr. ivi, in particolare pp. 159-63. Catalogus baronum, §§ 72-88, pp. 14-16. 84 Houben, Ruggero II, cit., p. 196. 85 In età regia normanna il principato includeva Viggiano, Aliano, Alianello, Guardia Perticara, Missanello, Gallicchio, Pietrapertosa, Grottole e Corleto Perticara (Catalogus baronum, §§ 108, 125-27, 129-33). 86 Per gli sviluppi nei secoli seguenti e per il dibattito storiografico cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età mo82 83

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Dopo la morte della contessa Emma non si ha più notizia dell’esistenza di una contea di Montescaglioso, i cui possedimenti vennero probabilmente smembrati, sino alla rinascita della contea avvenuta con l’assegnazione nel 1152 a Goffredo, già signore di Lecce87. A seguito del suo coinvolgimento nella congiura di Roberto di Loritello, Goffredo venne però privato della contea nel 1156, lasciandola vacante sino al 1166; il nuovo assegnatario, Enrico di Navarra (fratello della regina Margherita), la detenne solo per un biennio, sino al suo allontanamento. Poiché la stesura del Catalogus fu effettuata proprio in questi frangenti, vennero registrati soltanto i feudi tenuti in servitio, mentre mancano quelli in demanio (come Montescaglioso e Pisticci). I feudi elencati, pur concentrandosi nel comprensorio materano, non hanno una contiguità territoriale88. Nei decenni seguenti Guglielmo II preferì mantenere vacante la contea, che ebbe un nuovo titolare solo dopo la morte del re, nel 1190. La contea di Tricarico era stata inizialmente affidata a Goffredo, per passare poi dopo il 1147 a Ruggero di Sanseverino, figlio del conte di Caserta, che la resse sino alla sua morte in esilio durante la terza crociata e al quale si riferisce la registrazione del Catalogus89; qui vengono indicati suoi feudi in capite de domino rege a Tricarico, Albano di Lucania, Pietragalla, Tolve e San Juliano (presso Miglionico), ai quali si aggiungevano i feudi in servitio ad Abriola, Montemarcone, del vescovo di Tricarico in Armento e Montemurro e probabilmente quelli di Picerno, Castello Glorioso (presso Pignola), Castelmezzano, Gallipoli di Montagna e Trivigno, mentre Anzi e il priorato di Santa Maria di Montepeloso erano tenuti in capite de domino rege90. Tutte derna, Napoli 1988, pp. 167-73 e S. Morelli, Tra continuità e trasformazioni: su alcuni aspetti del Principato di Taranto alla metà del XV secolo, in «Società e storia», 73, 1996, pp. 487-525. 87 Cuozzo, La contea di Montescaglioso, cit., p. 30. 88 San Mauro Forte, Salandra, Castiglione, Cirigliano, Craco, Gannano, Camarda, Ferrazzano (Ferrandina), Castro Cicurio (Pomarico Vecchio), Accio, Miglionico, Garaguso, Pugliano, Accettura, Pomarico, Tursi (Catalogus baronum, §§ 135*-154; Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, cit., §§ 135*-154; Id., La contea di Montescaglioso, cit., pp. 32-33). 89 Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, cit., § 100, p. 33; G. Bronzino, Per la storia di Tricarico: appunti di vita religiosa (secc. IX-XV), in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», 6, 1985, pp. 7-21, in particolare p. 14; Catalogus baronum, §§ 100-118, pp. 19-21. 90 Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, cit., § 100*, p. 31.

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queste terre rientravano comunque nella conestabulia di Ruggero di Tricarico, mentre in buona parte entrarono poi in età sveva a far parte del principato di Taranto91. Anche nel caso delle contee si rivela per l’area occidentale un inevitabile collegamento con le terre campane, che per il Cilento giunge alla conferma di una pressoché completa dissociazione rispetto al mondo lucano. L’area orientale, invece, subiva una più decisa e diffusa attrazione da parte del territorio pugliese, con una struttura sfilacciata, che in alcuni momenti giungeva a percorrere l’intero tratto tra i due versanti lucani. 3. Età sveva Con la scomparsa senza eredi diretti di re Guglielmo II e la fine della dinastia normanna degli Altavilla, nell’ultimo decennio del XII secolo si entra in una nuova fase della vita del Mezzogiorno e della Lucania: la costruzione statale così saldamente impostata sotto lo scettro di Ruggero II e dei suoi due successori sembrò sul punto di disfarsi di fronte allo scatenarsi dei molteplici appetiti tanto di soggetti esterni – quali il papa e l’imperatore di Germania – quanto delle componenti interne al regno – in primo luogo baronaggio e città. Nuovi, ma anche inquietanti scenari si aprivano potenzialmente anche per una regione in apparenza pacificata come la Lucania. Proprio in ragione dei forti perturbamenti che la scomparsa degli Altavilla comportò, l’età cosiddetta sveva non può essere considerata sotto una luce unitaria, né appiattirsi sulla magnetica figura di Federico II; va invece scandita cronologicamente al suo interno. Un primo periodo è quello che va dal 1189 al 1220, caratterizzato da una situazione di sostanziale vacanza di un efficiente potere centrale, con un oscuramento – ma non scomparsa – del più vasto sistema amministrativo delineatosi sotto i due Guglielmi92. Il secondo periodo è

91 Catalogus baronum, p. 20, note (d) e (e). Esemplare è il caso di Viaggiano, inserito qui solo per errore, in quanto faceva parte del principato di Taranto sin dai tempi del principe Simone. 92 Per un quadro generale dell’evoluzione amministrativa cfr. M. Caravale, Le istituzioni del Regno di Sicilia tra l’età normanna e l’età sveva, in «Clio», 23, 1987, pp. 373-422, ora in Id., La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica dai

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segnato nel 1220 dal prepotente rientro sulla scena meridionale di Federico II, che avvia un processo di rinnovamento – ovviamente camuffato da restaurazione – dell’organismo amministrativo il cui fulcro programmatico – non necessariamente attuato – è negli enunciati del Liber Augustalis. Infine, con la morte di Federico, sotto Corrado IV e soprattutto Manfredi, si assiste a un nuovo assestamento anche dell’organizzazione interna dello Stato. 3.1. Donne, bastardi e minori: da Guglielmo II a Federico II È fatica improba inseguire una linea unitaria nelle vicende della regione per gli anni in cui si successero sul trono di Sicilia Tancredi, figlio illegittimo, Costanza, una donna, e infine Federico II, un infante: tre figure nelle quali si concretizzarono in rapida successione tutte le variabili che potevano indebolire la posizione di un aspirante re (non solo nel Medioevo). Durante il periodo convulso della lotta fra Tancredi e la coppia imperiale di Enrico VI e Costanza, la gran parte delle autorità ecclesiastiche del regno e della regione si schierò a favore di Tancredi: furono al suo fianco anche Guglielmo, vescovo di Melfi, e Pietro, vescovo di Venosa93. Quasi specularmente opposta era invece nel 1190 la posizione della feudalità comitale di terraferma; in questo caso l’area lucana rappresentava ancora una zona liminare tra le aree di predominio. Nel 1190 nell’area occidentale della regione vi era un sostanziale equilibrio, con la contrapposizione di Guglielmo di Marsico a Guglielmo IV di Principato, mentre nella zona orientale vi era un’apparente predominanza di avversari di Tancredi: i conti di Andria, Gravina e Tricarico. In realtà Tancredi poteva contare ancora sulle contee di Montescaglioso e Conversano, perché vacanti, nonché sul principato di Taranto e numerose terre demaniali94. Ma contro l’ultimo Altavilla Normanni ai Borboni, Roma-Bari 1998, pp. 71-135, dove si sottolinea la continuità dell’organizzazione amministrativa anche durante la reggenza pontificia. 93 C. Reisinger, Tankred von Lecce. Normannischer König von Sizilien 11901194, Köln-Weimar-Wien 1992, p. 201; E. Cuozzo, Corona, contee e nobiltà feudale nel regno di Sicilia all’indomani dell’elezione di re Tancredi d’Altavilla, in G. Rossetti, G. Vitolo (a cura di), Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, Napoli 2000, vol. I, pp. 249-65, in particolare pp. 260-62. 94 Reisinger, Tankred von Lecce, cit., p. 215; per una lettura degli stessi avvenimenti dall’opposta prospettiva cfr. P. Csendes, Heinrich VI., Darmstadt 1993, pp. 99-110 e 144-63.

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finì per schierarsi pure Ugo de Macchia, già signore di Bantia (in Capitanata) e giustiziere regio, che Tancredi, in cerca di sostenitori, nominò conte di Montescaglioso; la scelta non fu felice, perché Ugo passò sin dal 1191 tra i sostenitori dell’imperatore, e questi lo ricompensò nominandolo giustiziere di Terra d’Otranto95. Nella seconda metà del 1191, comunque, questa linea di resistenza antitancredina si ruppe, con l’allontanamento di Tancredi di Gravina, di Ruggero di Tricarico e di Ugo di Montescaglioso. La repentina morte tra 1194 e 1198 di Tancredi, Enrico VI e Costanza non permise a nessuno di questi sovrani di lasciare una più netta impronta del suo operato e dispiegare i propri intenti di governo; in queste condizioni il regno approdò nominalmente nelle mani dell’infante Federico II e del suo tutore, papa Innocenzo III, ma di fatto divenne preda di avventurieri che in nome dell’uno e dell’altro partito si disputavano il controllo del territorio. Nel complesso tutta l’area orientale del regno, compresa tra Puglia, Basilicata e Abruzzo, manifestò una scarsa propensione a mantenere una linea di fedeltà verso il giovane rampollo svevo e un più spiccato interesse a garantire la sopravvivenza delle tradizionali forme e aspirazioni di autonomia del baronaggio locale e dei vertici ecclesiastici. Il vescovo R. di Melfi, insieme a baroni quali il conte Giacomo di Tricarico o il conte Guglielmo di Gravina, si fece portavoce di esigenze e richieste della feudalità locale. Il conte Giacomo di Tricarico (1188-1210) sposò Albiria, figlia di re Tancredi e vedova di Gualtieri di Brienne, mentre si fregiò del titolo di capitano e maestro giustiziario, appropriandosi così di uno dei più alti titoli nella gerarchia amministrativa del regno96: la sua ascesa cercava ancora alimento nel conseguimento di titoli funzionariali legittimati proprio da quella struttura monar-

95 Cuozzo, L’unificazione normanna, cit., p. 713; Id., La contea di Montescaglioso, cit., pp. 34-35. 96 La quadripartizione (imperiali, feudali, curiali e lealisti) delle forze in lotta durante la minorità di Federico è in R. Neumann, Parteibildungen im Königreich Sizilien während der Unmündigkeit Friedrichs II. (1198-1208), Frankfurt am Main 1986; in particolare, per i personaggi citati pp. 105, 114, 122; per il giudizio complessivo sullo scarso sentimento filosvevo in Lucania p. 218. Per Giacomo di Tricarico cfr. Kamp, Kirche und Monarchie, cit., vol. II, p. 799 e J.-M. Martin, L’administration du Royaume entre normands et souabes, in T. Kölzer (a cura di), Die Staufer im Süden. Sizilien und das Reich, Sigmaringen 1996, pp. 113-40, in particolare p. 129.

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chico-unitaria che lui e gli altri baroni stavano contribuendo con robuste spallate a disfare. 3.2. Federico II: i quadri amministrativi Chiusa vittoriosamente la campagna per la conquista del titolo imperiale, nel 1220 Federico II può tornare dopo otto anni di assenza nel «suo» regno e prenderne di fatto possesso. Si trattava di un’opera di risanamento radicale, di fronte alla quale Federico giocò indubbiamente subito d’attacco. Al di là delle vicende particolari dello scontro in atto tra i differenti partiti, uno dei nodi storiografici di maggior peso è costituito dal giudizio sulla continuità dell’organismo amministrativo nel passaggio dagli Altavilla agli Svevi. Il sistema trinitario normanno fondato su camerari, giustiziari e conestabili superò infatti con grande difficoltà il trentennio di semianarchia; ma in ogni caso lo superò. L’ufficio più colpito fu indubbiamente quello di conestabile, dietro la cui riduzione a un modesto profilo di ufficiale locale si nasconde probabilmente una sopravvalutazione storiografica del suo ruolo in età normanna97. Anche per i camerari il passaggio non fu indolore; tra il 1202 e il 1220 essi scompaiono dalla documentazione, in evidente collegamento al venir meno di una struttura verticistica di riferimento98. In ambito fiscale è stato peraltro messo in luce il passaggio dal sistema fiscale normanno, fondato sui camerari, a quello federiciano, caratterizzato invece dall’estensione sul continente di nuovi ufficiali, operanti su distretti più ampi, ma anche con competenze fluttuanti e rivelatrici dello sforzo di sperimentare e migliorare le forme di amministrazione99. Anche in Basilicata continuano a essere attestati dei camerari, ma il loro distretto si riferisce a contesti arcaici: «Raho materanus» è «camerarius Honoris Montis Caveosi» nel 1225, così come «iudex Guillielmus» nel 1233 è «camerarius comitatus Montis Caveosi», 97 J.-M. Martin, L’organisation administrative et militaire du territoire, in G. Musca (a cura di), Potere, società e popolo nell’età sveva. Atti delle seste giornate normanno-sveve (Bari-Castel del Monte-Melfi, 17-20 ottobre 1983), Bari 1985, pp. 71-121. 98 Id., L’administration du Royaume, cit., p. 133. 99 N. Kamp, Die sizilischen Verwaltungsreformen Kaiser Friedrichs II. als Problem der Sozialgeschichte, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 62, 1982, pp. 119-42; Id., Vom Kämmerer zum Sekreten. Wirtschaftsreformen und Finanzverwaltung im staufischen Königreich Sizilien, in Probleme um Friedrich II., a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974, pp. 43-92.

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con riferimento evidente alla vacante contea. Sarà solo Sernavacca de Castanea a definirsi nel 1255 «regius et principalis iustitiarius et camerarius Basilicate»100. Ma è evidente che a questa data il distretto di Montescaglioso era divenuto una suddivisione della più ampia provincia di Basilicata101. I camerari, nelle loro fluttuanti denominazioni di età federiciana, saranno poi sostituiti dai «secreti» sotto Manfredi, con una estensione della «secrezia», che sino ad allora aveva avuto una sostanziale operatività solo in Sicilia. Tra 1262 e 1264 i camerari regionali e provinciali divennero secreti regionali e vicesecreti. Anche in materia fiscale Federico riconosceva alla Basilicata un ruolo strategicamente di rilievo; così nel 1240 l’imperatore stabiliva a Melfi la residenza dell’unico ufficio continentale per la revisione dei conti, salvo poi trasferirlo nel 1247 a Barletta, contestualmente a una nuova suddivisione dello stesso ufficio in quattro distinte sedi regionali102. Una maggiore solidità venne manifestata dai giustiziari, che sopravvivono nella documentazione, pur lasciando intuire una loro riduzione di rango; dopo il 1190 nei casi noti l’estrazione diviene più bassa e locale, mentre il distretto di pertinenza perde il respiro più ampio che aveva acquisito sotto gli Altavilla103. Una netta inversione si registra a partire dal 1220, quando Federico, sin dalle Costituzioni di Capua, si preoccupò di restituire – se non di ampliare – le prerogative dei nuovi giustiziari da lui nominati. A partire dal 1231 ne verrà nominato ormai solo uno per provincia, con una durata annuale, riconfermabile; nelle sue mani si concentrano giustizia criminale, servizi di polizia, affari feudali, ma anche una serie di competenze fiscali. Nel 1239 si assiste a un totale «rimpasto» dei giustiziari e dei castellani nel regno, mentre si susseguirono tra 1239 e 1246 infruttuosi tentativi da parte di Federico II di unificare nelle mani di un unico titolare un numero più ampio di distretti104. Cfr. Kamp, Vom Kämmerer, cit., p. 84. Nel 1233 Nicolaus de Bisantio de Baro si definisce «magister procurator demanii Montis Caveosi et executor novorum imperialium statutorum per provinciam Basilicatam» (ibid.). 102 Matthew, I normanni, cit., pp. 449-50. 103 Martin, L’organisation administrative et militaire du territoire, cit., p. 83. 104 T. Pedio, I giustizierati provinciali del Regno di Sicilia nell’età federiciana, in Atti delle Quarte Giornate federiciane (Oria, 29-30 ottobre 1977), Bari 1980, pp. 163-79; Martin, L’organisation administrative et militaire du territoire, cit., p. 85. 100 101

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L’importanza della carica trova riscontro nella fissazione che rapidamente si delinea delle circoscrizioni di competenza: la Basilicata, a partire dal 1230, è definitivamente inserita con questa denominazione nel sistema di suddivisione provinciale del regno105. Rarissimi restano comunque i nomi a noi noti dei titolari del distretto: «Thomasius f. Osmundi» nel 1239 e «Guilielmus de Palma» nel 1246106. D’altronde, essendo uno dei distretti più piccoli, la Basilicata fu ovviamente più di frequente soggetta alla riunione di più distretti nelle mani di un unico titolare: prima del 1235 era amministrata da un «Iohannes Amorutius de Baro quondam imperialis iustitiarius Terre Bari et Basilicate», mentre prima del 1242 era unita alla Capitinata nelle mani di Riccardo di Montefusco107. Su scala più ampia, al di sopra dei giustiziari, si afferma la figura del capitano e maestro giustiziario, il quale svolgeva funzioni di coordinamento e controllo in sostanza su tutto il territorio continentale, dalla Porta Roseti sino al Tronto. 3.3. Conti e castelli a) Il declino delle contee I sovrani normanni avevano lasciato ampio spazio e margine anche alle contee, quale strumento di controllo del territorio e di organizzazione militare. Quasi da contraltare agli sforzi di riorganizzazione amministrativa in chiave centralizzante, la massima parte delle contee venne invece fatta da Federico II scomparire tra il 1220 e il 1230, dietro un preciso disegno volto a eliminare le premesse per la formazione di ampi e pericolosi «Stati» feudali: evidentemente la normativa escogitata dagli Altavilla per imbrigliare il più potente gruppo baronale, quello comitale, non sembrava fornire sufficienti garanzie allo svevo. 105 Il termine appare nella documentazione ufficiale nel 1230, con riferimento all’attuazione dei provvedimenti seguiti alla pace di San Germano: J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici secundi, 6 voll., Parisiis 1852-59, vol. III, p. 218. 106 I due vengono citati in concomitanza con provvedimenti generali di Federico II (ivi, vol. V, p. 437 e vol. VI, p. 455). Nell’unico – e ormai superato – elenco di ufficiali federiciani con pretesa di esaustività, quello di E. Winkelmann, Zur Geschichte Kaiser Friedrichs II. in den Jahren 1239 bis 1242, in «Forschungen zur deutschen Geschichte», 12, 1872, pp. 523-66, a p. 558 si ricorda, oltre i due giustiziari sopra menzionati, solo Andrea vescovo di Acerenza per il 1211, con errato rimando a F. Ughelli, Italia sacra, Venetiis 1717-22, vol. VII, c. 42 (cfr. supra, nota 60). 107 Martin, L’organisation administrative et militaire du territoire, cit., p. 84.

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Esemplare è il destino della contea di Tricarico. Alla morte di Ugo de Macchia, nel 1200, la contea passò a Roberto Benedetto, figlio di Giacomo Sanseverino, conte di Tricarico. Ridotta a un titolo pressoché onorifico, dopo il 1223 venne comunque perduta dai Sanseverino insieme a quella di Tricarico e probabilmente non fu più riattivata per essere incamerata quasi contemporaneamente alle vicine contee di Montescaglioso, Gravina e Conversano; non a caso ricomparirà, insieme proprio alle contee di Gravina e Tricarico, all’interno del principato manfrediano108. Irresistibile è peraltro la tentazione di leggere questi provvedimenti federiciani come «antifeudali», in quanto miranti tramite la scomparsa delle contee a un’eliminazione del baronaggio. In realtà non così radicale era – né poteva essere – il disegno del sovrano: il vantaggio per l’imperatore consisteva soprattutto nel livellamento della piramide feudale e nella riduzione delle sottoinfeudazioni109. Anche le soppressioni non erano definitive, dal momento che la titolatura di una contea spesso sopravvisse come titolo onorifico e in tal modo risultò agevolata la rinascita del medesimo distretto nei decenni successivi alla morte di Federico. b) Un manto di castelli Sin dalle assise di Capua Federico II aveva immediatamente rivendicato il monopolio del possesso di tutte le fortificazioni esistenti nel regno e costruite dopo il fatidico 1189110; anche in età normanna, infatti, la monarchia aveva cercato di mantenere saldo il controllo – tanto diretto quanto indiretto – sui castelli del regno, e ai sovrani normanni Federico intendeva inizialmente ispirarsi. Rapidamente lo svevo si attivò per riportare o portare sotto il suo concreto dominio le più rilevanti fortezze del regno: ad esse era ormai affidato il compito di presidiare strategicamente l’intero territorio secondo un robusto sistema castellare che prescindesse dalle vecchie distrettuazioni comitali e facesse invece riferimento a quelle provinciali. Ovviamente l’incremento delle fortificazioni in gestione diretta 108 Riccardo di San Germano, Chronica priora (1208-1226), a cura di C.A. Garufi, RIS VII/2, Bologna 1936-38, a. 1223, p. 109; Cuozzo, La contea di Montescaglioso, cit., p. 37; W. Stürner, Friedrich II. Der Kaiser 1220-1250, Darmstadt 2000, p. 64. 109 Martin, L’organisation administrative et militaire du territoire, cit., pp. 89-91. 110 Riccardo di San Germano, Chronica priora, p. 92.

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da parte della curia rese necessario l’approntamento progressivo di una struttura funzionariale e di appositi regolamenti111. Nel 1239 il sistema di riforma e riordinamento del numero notevolmente accresciuto dei castelli in mano regia trovò un punto di arrivo con l’istituzione (in luogo dei magistri castrorum) dei provisores castrorum, funzionari ai quali era demandato il controllo dei castelli regi distribuiti nelle undici province del regno. La Basilicata, insieme a Capitinata, Terra Bari e Terra Ydronti, venne affidata a un unico provisor castrorum, Guido de Guasto112. Per lo stesso torno di anni disponiamo di un documento di eccezionale rilievo, il cosiddetto Statutum de reparacione castrorum, che offre una visione d’insieme della quasi totalità (ben 225) dei castelli controllati direttamente dalla curia regia nelle province continentali, con l’elenco delle comunità a cui era assegnato il compito di mantenere in efficienza la singola struttura fortificata113. Alla provincia di Basilicata spetta un numero sorprendentemente alto di castelli e domus, per un totale di 19 castelli (Montescaglioso, Petrullo, Torremare, Policoro, Gorgoglione, Pietra di Alcino, Melfi, Pescopagano, San Fele, Muro Lucano, Acerenza, Brindisi di Montagna, Abriola, Anzi, Calvello, Lagonegro, Maratea, Spinazzola e Rocca Imperiale) e 10 domus (Montalbano, Gaudiano, San Nicola d’Ofanto, Cisterna, Lavello, Boreano, Lagopesole, Montemarcone, Monteserico, Agromonte)114. 111 Per la politica di Federico in materia castellare resta ancora insuperato E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1995, in particolare per il recupero al demanio di castelli importati pp. 5-9; più recente R. Licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1994, pp. 117-94; per le sopravvivenze materiali del sistema castellare di Federico cfr. C.D. Fonseca (a cura di), «Castra ipsa possunt et debent reparari». Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997, Roma 1998. 112 Sthamer, L’amministrazione dei castelli, cit., p. 25. 113 Il documento, giuntoci solo in copie di età angioina, è in realtà il frutto di un’inchiesta condotta da funzionari svevi al fine di appurare quali fossero le consuetudini sotto Guglielmo II in materia di riparazione dei castelli, e quindi formalmente non intendeva «istituire» nulla di nuovo; rimandiamo qui all’edizione posta in appendice a Sthamer, L’amministrazione dei castelli, cit., pp. 94-127. 114 Statuto, in Sthamer, L’amministrazione dei castelli, cit., nn. 166-194, pp. 11417; Matera e Girifalco vengono inclusi tra i castelli della Terra d’Otranto (nn. 121 e 122). Al Principatus et Terra Beneventana spettano – come è ovvio – i castelli del Cilento, ma anche quelli a est del Vallo di Diano come Brienza (n. 130), che non

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Una simile concentrazione di castelli curiali non trova sufficiente giustificazione nelle pur robuste esigenze di difesa, come poteva essere per l’area abruzzese, o di controllo del territorio, come nel caso di aree più densamente popolate, quali Terra di Bari o Terra di Lavoro. Entravano qui in gioco anche fattori di altra natura legati alle predilezioni di Federico e ai suoi disegni di sfruttamento economico. Per il primo aspetto è rivelatore l’elevato numero di domus, strutture che si caratterizzano in gran parte «come residenze fortificate, edifici finalizzati a supportare logisticamente le attività di caccia, loca solatiorum»115. Non a caso Villani riportava l’opinione corrente di un Federico che «fece il parco della caccia presso a Gravina e a Melfi a la montagna. Il verno stava a Foggia, e la state a la montagna a caccia e diletto»116: proprio Capitanata e Basilicata ospitano il più alto numero di domus imperiali. Foggia e Melfi sono luoghi in cui effettivamente Federico risiede con piacere, in cui si ferma anche a lungo, come avvenne nel 1231 per l’approntamento del Liber Augustalis. Ma esisteva anche un’integrazione di tipo economico, legata alla vasta presenza di aziende agrarie in proprietà e gestione della curia, le massariae, in tutta l’area a cavallo tra Puglia e Basilicata. Produzione agricola e allevamento erano nel cuore e nella borsa dell’imperatore, impegnato anche qui, nel suo disegno di creazione di un sistema burocratico centralizzato e onnicomprensivo, in grado di proporre un exemplum di «un’impresa, fondata sulla razionalità, sull’efficienza, e sulla impersonalità dei rapporti di lavoro al suo interno»117. Non a caa caso viene riparato dagli uomini di Marsicovetere e di Pietrafesa (Satriano di Lucania) che facevano parte del giustizierato di Basilicata. 115 Licinio, Castelli medievali, cit., p. 128; non sempre è però possibile tracciare una linea di netta demarcazione: si pensi alla domus di Lagopesole, che aveva, anche in età sveva, un profilo decisamente castellare-difensivo. 116 Giovanni Villani, Cronaca, Trieste 1857, VI, 1, p. 76; per la passione di Federico per la regione appulo-lucana cfr. H.M. Schaller, Die Staufer und Apulien, in Id., Stauferzeit. Ausgewählte Aufsätze, in MGH, Schriften, 38, Hannover 1993, pp. 583-602. 117 M. Del Treppo, Prospettive mediterranee della politica economica di Federico II, in A. Esch, N. Kamp (a cura di), Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, Tübingen 1996, pp. 316-38, in particolare p. 327. Cfr. anche R. Licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle pecore, Bari 1998. Negli elenchi del 1269 la Basilicata comprendeva solo quattro castelli curiali, Melfi, San Fele, Acerenza e Torre Mare, ma quest’ultimo venne ben presto, nel 1278, assegnato alla Terra d’Otranto, alla quale spettava anche il castello di Matera (Sthamer, L’amministrazione dei castelli, cit., p. 16).

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so una parte delle domus e dei castra tra Melfese e Materano finirà per sopravvivere in età angioina e aragonese solo come centro fortificato di aziende massariali. Dietro il possente manto di fortezze e palazzi regi con cui Federico ricoprì gran parte del territorio lucano si agitavano quindi multiformi esigenze e progetti da parte imperiale, ma certamente esso finiva per gravare in maniera compatta sulle spalle dei residenti e contribuenti locali, i quali – in aggiunta ai pressanti e massicci prelievi fiscali che Federico riuscì a garantirsi – non solo dovevano concorrere alla costruzione, ma anche al continuo stillicidio della manutenzione di «quelle pietre che in certa misura grondano sangue»118. Non ci si deve stupire se alla morte del puer Apulie gran parte dell’amata Lucania dimostrò scarso attaccamento alla casa di Svevia. 3.4. Manfredi: verso un nuovo ordine Gli ultimi anni di governo di Federico II erano stati segnati da crescenti asprezze e difficoltà tanto nella politica interna, quanto in quella esterna al regno di Sicilia. Immancabilmente l’inesausta ostilità pontificia si mise subito in opera per evitare un meccanico e serafico trapasso di poteri da Federico ai suoi figli, così come lo svevo aveva disegnato e prefigurato nel suo testamento. Nella gerarchia della successione subito dopo i due figli legittimi, Corrado ed Enrico, il testamento del 1250 assegnava uno spazio di indubbio rilievo al figlio legittimato, a quel Manfredi che si vide designato «balium dicti Conradi in Italia et specialiter in regno Sicilie»119. A rafforzarne la posizione di effettivo uomo di governo nel regno meridionale il padre morente gli assegnò un rinnovato e potenziato principato di Taranto, il cui confine meridionale si delineava «a porta Roseti usque ad ortum fluminis Brandani cum comitatibus Montis Caveosi, Tricarici et Gravine» e si allungava poi a includere la Puglia centrale e meridionale, insieme all’«Honor Montis Sancti Angeli». Un vitale punto di forza per Manfredi viene dunque a coagularsi nelle terre della provincia di Basilicata, inclusa per gran parte tra i suoi domini, sia perché inclusa naturaliter nel principato, sia perché parte 118 C.D. Fonseca, «Castra ipsa possunt et debent reparari»: attività normativa e prassi politica di Federico, in Id. (a cura di), «Castra ipsa», cit., vol. I, pp. 13-22, in particolare p. 22. 119 Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici, cit., VI, p. 806.

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di quelle tre contee che storicamente avevano racchiuso il cuore più compatto del territorio regionale. La realizzazione dei piani di Federico venne però complicata dalla scarsa partecipazione nel sostenere la causa dei rampolli svevi dimostrata proprio dalle popolazioni di aree che egli riteneva a lui più devote: per esempio, le popolazioni di Basilicata scarso o punto appoggio diedero alla causa sveva tra 1250 e 1254, mostrando chiari segni di insofferenza verso una linea di continuità con la passata gestione federiciana. Sostegni insperati vennero piuttosto da personaggi del mondo ecclesiastico come Anselmo, arcivescovo di Acerenza, che, nominato nell’aprile del 1253 da papa Innocenzo IV in chiave decisamente antisveva, subito dopo l’ingresso nella nuova sede si rivelò un solerte sostenitore di Manfredi, tanto da essere uno dei tre prelati incaricati della sua incoronazione nell’agosto del 1258120. Anche Melfi, la stessa Venosa, che inizialmente aveva accolto il principe di Taranto in fuga, si schierarono con il pontefice, unendosi a Rapolla e Acerenza. Una volta incoronato re, Manfredi si affrettò a portare avanti una profonda e capillare «svevizzazione» della regione mediante l’inserimento di personaggi fedeli alla causa sveva e relativamente autonomi rispetto alle gerarchie dei grandi ufficiali121. L’azione ebbe ripercussioni nette anche nella costituzione dei ceti dirigenti all’interno delle tre città regie, Melfi, Potenza e Venosa. Così in Basilicata trovarono ampio spazio di espansione grandi baroni e massimi consiglieri regi quali Galvano Lancia, Manfredi Maletta, i Filangieri, Giovanni da Procida, ma anche una serie di signori minori – come Riccardo di Castelmezzano, Gentile e Pandolfo de Petruro, Bartolomeo di Donna Fasana, Enrico di Rivello, Landolfo e Matteo di Monticchio, Nicola di Celano – tutti legati da rapporti di fedeltà con la corona, tanto da essere ben individuabili grazie alle liste di proscrizione fatte approntare da Carlo d’Angiò nei primi anni del suo governo122. Kamp, Kirche und Monarchie, cit., vol. II, p. 778. Simile fu la parabola del vescovo di Venosa, Giacomo (ivi, p. 806). Per altri esempi cfr. T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, La Basilicata da Federico II a Roberto d’Angiò, Bari 1989, p. 120. 121 Per tutto quanto riguarda la descrizione e l’interpretazione delle scelte politiche di Manfredi e la bibliografia relativa rimandiamo a E. Pispisa, Il regno di Manfredi. Proposte di interpretazione, Messina 1991. 122 Ivi, pp. 130-37. 120

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Manfredi non si mosse dunque in supina continuità con le linee di governo del padre. Delle scelte del genitore sviluppò con maggiore convinzione proprio quelle estreme legate alla sua persona. Come suo padre morente gli aveva infatti affidato una serie di possessi e cariche feudali, oltre quella di balio, senza ricorrere a cariche di tipo amministrativo, che ponessero il figlio al vertice della struttura burocratica del regno, anche Manfredi sembrò guardare con più convinzione ai concreti rapporti di forza e potere. È stato rimarcato come Manfredi abbia infatti privilegiato la promozione feudale di personaggi a lui imparentati, i quali solo in via complementare rivestivano cariche di tipo amministrativo, e, all’interno dei loro possessi baronali, procedevano alla costituzione di gerarchie amministrative parallele e concorrenti con quelle regie. Si trattava di un calcolato e cosciente svuotamento progressivo di quell’impalcatura burocratica che Federico aveva cercato di innalzare, a cui faceva ora da contraltare la nuova primavera del gruppo parentale-comitale. Se sotto Federico le contee sembravano destinate a scomparire dalla geografia amministrativa del regno, per volontà di Manfredi «il sistema comitale fu inserito all’interno di un disegno rivolto alla costituzione di un organico gruppo di potenti feudatari francamente schierati» accanto al sovrano123. L’età normanno-sveva, con Manfredi, consegnava ai nuovi dominatori angioini formidabili strumenti per il controllo del baronaggio e del territorio – come documenti quali il Catalogus baronum o lo Statutum de reparacione castrorum stanno ancora a dimostrare –, una consolidata articolazione del regno in province, ma allo stesso tempo trasmetteva anche un regno nel quale un ampio e rinnovato spazio era riservato alle forze di potere locali, a quei gruppi baronali che segneranno la concreta vicenda politica del Mezzogiorno angioino. La Basilicata era ormai una realtà consolidata, che lentamente si era venuta enucleando in età normanna, per ricevere nuovi e pressoché definitivi contorni in età sveva. Il nuovo profilo portava nitidi segni del travaglio plurisecolare che aveva condotto dalla scomparsa della Lucania alla nascita della nuova provincia «imperiale». 123

115-8.

Ivi, p. 45; al riguardo anche Martin, L’administration du Royaume, cit., pp.

L’ETÀ ANGIOINA E ARAGONESE: GLI ASSETTI ISTITUZIONALI di Pietro Dalena A porta Roseti usque ad ortum fluminis Bradani, cum comitatibus Montis Caveosi, Tricarici et Gravine, prout comitatus ipse protenditur a maritima Terre Bari usque ad Polinianum, et ipsum Polinianum cum terribus omnibus a Poliniano per totam maritimam usque ad dictam portam Roseti1.

L’eredità federiciana di un principato di Taranto, comprendente larga parte della Basilicata meridionale, avrebbe influenzato a lungo termine anche i rapporti istituzionali tra la feudalità locale e il potere centrale sino all’età aragonese, scandendo un aspetto singolare della storia regionale i cui protagonisti principali furono i feudatari a volte litigiosi e centrifughi, a volte garanti dell’unità del regno. Dopo la vittoria su Manfredi presso Benevento il 26 febbraio 1266, Carlo I d’Angiò, conquistato il regno meridionale, procedette a una sua non facile risistemazione per la presenza di cospicue sacche di feudatari filosvevi. Inizialmente il sovrano angioino seguì una prudente politica di continuità con l’ordinamento svevo, non adottando provvedimenti ritorsivi contro i suoi avversari e rimettendo in libertà finanche i prigionieri della battaglia di Benevento. Del resto, prima di Tagliacozzo, in Basilicata non si assiste a nessun episodio di intolleranza antiangioina; anzi il sovrano poté fermarsi tra l’aprile e il settembre 1266 tra Melfi e Lagopesole, adottando provvedimenti solo per sanzionare con pene più severe i reati riguardanti i furti di bestiame nelle masserie regie e nelle foreste e i tagli indiscriminati dei boschi2; 1 J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici secundi, 6 voll., Parisiis 1852-59, vol. VI/2, p. 806. 2 Nel gennaio 1267 vi inviò anche un inquisitore con poteri speciali, Beltrando

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e, si dice, pensasse addirittura di istituire la capitale del regno a Melfi, dove lasciò alcuni uffici e gli archivi, che furono trasferiti a Napoli solo nel 12993. Dopo la vicenda militare di Tagliacozzo, invece, Carlo I si mosse con severità reprimendo duramente tutti i proditores e i loro protettori per scoraggiare altre iniziative centrifughe4. Infatti, uno dei problemi più seri era la presenza nelle città lucane più attive di numerosi proditores, il cui rigurgito filosvevo, che fece proseliti nel diffuso malcontento della popolazione per la pressione fiscale, esplose in occasione della discesa di Corradino di Svevia nel 1268 sostenuta dai conti di Potenza Pietro e Guglielmo, Enrico di Pietrapalomba, Roberto e Raimondo di Santa Sofia, Francesco ed Eleuterio di Armaterra5. La reazione antiangioina non coinvolse la popolazione rurale, ma fu ristretta ad alcune città come Potenza, Melfi, Lavello, Spinazzola, Venosa e Tursi, dove era più radicata e attiva la feudalità filosveva6. La dura repressione – che seguì al fallimento dell’impresa di Corradino e si risolse con la confisca dei beni posseduti dai fautori degli Svevi – segnò un momento importante nella storia del regno e, in particolare, della Basilicata: Manfredi Maletta, Galvano Lancia, Bonifacio di Anglona, Riccardo Filangieri, Enrico di Lavello, Tommaso Gentile, Roberto da Lavello, Guglielmo de Parisio, Enrico di Oppido, Ugo di Castelnuovo, Gentile e Pandolfo de Petruro, Pietro e Guglielmo da Potenza, Giovanni da Procida, tutti filosvevi, persero i loro feudi, che vennero assegnati prevalentemente a cavalieri francesi7. L’esito delle contestazioni filosveve, pertanto, fu il radicale rinnovamento della feudalità, con l’immissione nei suoi ranghi di un de Albemale, per procedere contro i ladri di bestiame e di legname nelle difese regie (I Registri della Cancelleria Angioina, vol. I, 1265-1269, Napoli 1949, p. 63, n. 158). 3 G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (12661494), in Id. (a cura di), Storia d’Italia, vol. XV/1, Torino 1992, p. 873. Il giudizio di «frattura» storica, coincidente con la caduta degli Svevi cui seguì un lungo periodo di decadenza e di «destrutturazione» del tessuto civile e delle attività economiche a cui si riferisce Galasso, è di R. Giura Longo, La Basilicata dal XIII al XVIII secolo, in Storia del Mezzogiorno, vol. VI, Le Province del Mezzogiorno, Roma 1987, p. 336. 4 G. Vitolo, Il Regno angioino, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV/1, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma 1986, p. 17. 5 Giura Longo, La Basilicata dal XIII al XVIII secolo, cit., pp. 335-36. 6 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. V, 1266-1272, Napoli 1953, p. 58, n. 252. 7 T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, La Basilicata da Federico II a Roberto d’Angiò, Bari 1989, p. 171.

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rilevante numero di cavalieri al seguito del sovrano angioino e l’arricchimento dei quadri burocratici e delle gerarchie ecclesiastiche con personale francese8. A questa nuova rete di feudatari e di funzionari regi era affidata la sicurezza delle campagne e l’efficienza dell’attività amministrativa dello Stato9. Giuseppe Galasso ha osservato che, se non del tutto privo di fondamento, «appare troppo generale e univoco per poter essere davvero accettato» il giudizio che attribuisce alla tenace fedeltà alla casa sveva di gran parte dei baroni e alla dura repressione messa in atto dal sovrano angioino dopo Tagliacozzo la pretesa «frattura» storica nella vita quotidiana locale e l’inizio di «un lungo periodo di decadenza e di destrutturazione del tessuto sociale e delle attività economiche»10. Infatti anche altri fattori furono particolarmente incidenti, tra cui il disastroso terremoto del 1273, che per Potenza fu particolarmente rovinoso: «terra ipsa sic in edificiis et suppellectilibus fere omnibus devastata»11. Esso si rivelò decisivo sul futuro della città, segnata dalle conseguenze dell’assedio angioino, che ne aveva distrutto le mura e parte degli edifici, e della repressione che, con l’inasprimento dei tributi, sin dalla fine degli anni Sessanta aveva favorito l’esodo di numerose famiglie verso Tramutola, Tito, Auletta, Ripa Candida, Saponara, Pietrafitta, Petragalla, Montepeloso, Albano, Anzi, Trivigno, Marsico e Brindisi: «dudum habitatores Potentie, ipsius terre incolatu dimisso, se ad habitandum ad subscriptas terras jurisdictionis tue cum eorum familiis transtulerunt»12. Proprio il terribile terremoto, che causò rovine anche in gran parte della Basilicata, avvicinò Carlo I ai problemi della regione e, in particolare, di Potenza, che, dopo la verifica I Registri della Cancelleria Angioina, vol. V, cit., p. 58, n. 252. G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, vol. III, Manduria 1968, p. 219. 10 Galasso, Il Regno di Napoli, cit., p. 336. 11 «Ex parte universitatis hominum Potentie [...] fuit nuper [...] supplicatum quod, cum ex terremotu, qui terribiliter ibi diebus istis invaluit, terra ipsa sic in edificiis et suppellectilibus fere omnibus devastata, sicque homines terre ipsius taliter desolati, considerantes se ad substentandam vitam reficiendas domos restauranda suppellectilia et subeunda collectarum onera penitus impotentes, quod magna pars iam de terra ipsa discesserint [...] et discendant, providere illis de immunitate alicuius certi temporis nostra Serenitas dignaretur, ut ad redeundum ad terram ipsam et morandum ibidem atque ad reformandam terram [...] per immunitatem [...] animentur» (I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XI, 1273-1277, Napoli 1958, pp. 56-57, n. 151). 12 Ivi, vol. V, cit., pp. 20-22, n. 103. 8 9

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e la valutazione dei danni da parte del regio giustiziere, beneficiò di adeguati interventi di ricostruzione e, non ultimo, dell’allentamento della pressione fiscale, che fu tra i motivi principali della decadenza sociale ed economica della regione e del regno13. Se l’epurazione degli oppositori laici ed ecclesiastici serviva a scardinare l’intelaiatura feudale filosveva e a garantire una base amministrativa fedele e funzionale agli orientamenti del sovrano, paradossalmente il terremoto da una parte accentuò i problemi sociali ed economici emersi durante la fase di transizione dal dominio svevo a quello angioino, dall’altra rivelò un aspetto provvidenziale in quanto consentì al sovrano di prendere coscienza dei gravi problemi esistenziali della gente comune, che la guerra, come la devastazione e la repressione, l’aveva subita passivamente. Da quel momento Potenza, che come altre città della regione sembrava destinata a un ruolo di scarso rilievo, migliorati i rapporti col potere centrale e per la sua posizione al centro del giustizierato – tra le contee di Marsico, Chiaromonte e Tricarico – fu destinataria di maggiori attenzioni da parte della corona, che, conservatala in demanio, con la riduzione fiscale e la concessione di numerosi privilegi le consentì una fase di assestamento amministrativo e di relativo sviluppo economico. Più o meno la stessa attenzione Carlo I riservò ad altri centri della zona del Vulture, soggiornando più volte tra Melfi e Lagopesole, varando una serie di provvedimenti riguardanti la riparazione dei castelli di Melfi e Lagopesole e la costruzione di un acquedotto a Venosa, concedendo speciali agevolazioni per l’ospedale militare14. Nel territorio lucano, caratterizzato da estesi latifondi feudali dominati dall’incolto e dal bosco15, gli Angioini 13 Sui notevoli danni del terremoto cfr. M. Baratta, I terremoti d’Italia. Saggio di storia, geografia e bibliografia sismica italiana con 136 sismocartogrammi, Torino 1901, p. 37. 14 Per le riparazioni ai castelli di Melfi e Lagopesole cfr. I Registri della Cancelleria Angioina, vol. VI, 1270-1271, Napoli 1954, p. 85, n. 305; vol. XI, cit., p. 201, n. 72. Per le speciali agevolazioni all’ospedale militare di Venosa cfr. ivi, vol. XI, cit., p. 107, n. 52. Per la costruzione della fontana pubblica a Venosa cfr. ivi, vol. XVI, 1274-1277, Napoli 1962, p. 43, n. 139; inoltre G. Crudo, La SS. Trinità di Venosa: memorie storiche, diplomatiche, archeologiche, Trani 1899, pp. 340-41. 15 Un aspetto importante del bosco lucano nelle attività industriali angioine è l’impiego dei tronchi d’albero del bosco delle Caldane per realizzare i remi delle galee negli arsenali di Bari e Brindisi (Fortunato, Badie, feudi e baroni, vol. III, cit., p. 236).

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attivarono il sistema delle masserie e delle difese regie, ereditato dal governo federiciano, che fungevano da punto di riferimento e di sollecitazione dello sviluppo del territorio rurale e da unità amministrative di base16. Le masserie e le difese regie del giustizierato, tra cui le più importanti erano quelle di Lagopesole con la masseria di Carda, Pietragalla, Melfi e Palazzo San Gervasio, erano amministrate da funzionari locali detti magistri massari e magistri forestarii, spesso corrotti e infedeli17. La debolezza del sistema amministrativo angioino, infatti, aveva le sue radici proprio nella infedelitas di alcuni funzionari regi, che commettevano frequenti abusi, e nella rapacità di molti feudatari, che, sebbene legati alla corona, erodevano il demanio e le terre di quei monasteri che in età federiciana erano stati il volano dell’economia locale e il raccordo tra città e campagna, tra periferia rurale e i centri di potere politico18. Il declino del monachesimo benedettino, avviato nella prima metà del XIII secolo, si accentuò negli ultimi decenni del secolo, provocando il collasso delle strutture fondiarie19 e, indirettamente, rafforzando l’azione erosiva della feudalità a stento frenata dai provvedimenti regi, come quelli del giugno 1282 a favore del monastero di Banzi (che lamentava ripetute molestie e sconfinamenti nel suo territorio degli abitanti di Spinazzola e San Gervasio col consenso dei magistri forestarii20) e del monastero di San Michele di Montic16 R. Licinio, I «magistri massariarum» e la gestione delle masserie, in Id. (a cura di), Castelli, foreste, masserie. Potere centrale e funzionari periferici nella Puglia del secolo XIII, Bari 1991, pp. 95-174. 17 B. Cascella, I “magistri forestarii” e la gestione delle foreste, in Licinio (a cura di), Castelli, foreste, masserie, cit., p. 59. 18 Sugli abusi commessi da funzionari regi cfr. Fortunato, Badie, feudi e baroni, vol. III, cit., p. 219. La rimozione di alcuni «maestri massari», come Goffredo Vaccario e Bartolomeo di Andria, non sortì gli effetti sperati perché i loro sostituti, di origine locale e spesso compromessi, non garantirono maggiore affidabilità ed efficienza (Licinio, I «magistri massariarum», cit., pp. 157, 163, 166). 19 Nel terzo decennio del XIII secolo i principali monasteri della Basilicata – Santa Maria di Banzi, San Michele di Monticchio e la SS. Trinità di Venosa – attraversarono un periodo di grave declino in spiritualibus et temporalibus che ne segnò il futuro (H. Houben, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, pp. 167-69). 20 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXV, 1280-1282, Napoli 1978, p. 131, n. 58; vol. XXVII, 1283-1285, Napoli 1979, p. 48, n. 293. Sulle rivendicazioni del monastero e sulle continue inosservanze dei mandata di Carlo I e Carlo II, tra il 1282 e il 1294, da parte dei funzionari periferici cfr. D. Pannelli, Le memorie ban-

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chio, soggetto a continue usurpazioni nel suo feudo di Acquaterra21. Anche il monastero cistercense del Sagittario, nella media valle del Sinni, dopo aver registrato un trend economico positivo durante l’età sveva, in cui aveva controllato l’attività produttiva di gran parte dell’area sinnica, venute meno la protezione apostolica e quella imperiale, in età angioina si avviò verso il declino per la debolezza del sistema politico e amministrativo dello Stato che lo esponeva alle rapaci attenzioni di feudatari senza scrupoli. Infatti, nel 1269 i monaci del Sagittario furono privati del monastero di Sant’Angelo di Raparo «cum iuribus et pertinentiis suis»22 e negli stessi anni dovettero subire continue espropriazioni da parte di Riccardo di Chiaromonte; il quale, legato agli Angioini che gli avevano restituito il territorio di Senise, si appropriò della chiesa di Santa Ginapura e delle circostanti terre demaniali23. Le usurpazioni continuarono sino agli ultimi decenni del XIII secolo, soprattutto in zone lontane dall’abbazia: il miles Rinaldo de Scalea di Colobraro, feudatario della terra di Ordeoli, sul finire del secolo sottrasse al Sagittario la chiesa di San Costantino e la grancia situate «in terra Ordeoli»; e Guglielmo Malabranca occupò numerose terre che il monastero possedeva lungo la costa ionica, nel territorio di Policoro24. E perfino l’episcopato fedele agli Angioini, nonostante gli interventi del giustiziere, continuava a subire arbitrii e molestie da parte di diversi feudatari25. La situazione non migliorò verso la fine del secolo, quando Carlo II incaricò una commissione di inquisitori di determinare con precisione «de tenimentis territoriis et pertinentiis terrarum tam demanii regii quam ecclesiarum comitum baronum et finibus tenimentorum ipsorum» e di risolvere le frequenti controversie relative alle usurpazioni territoriali26. tine. Le memorie del monastero bantino o sia della badia di Santa Maria in Banzia, ora Banzi, pubblicate d’ordine del cardinale di Sant’Eusebio abate commendatario di essa badia da Domenico Pannelli suo segretario, a cura di P. De Leo, Banzi 1995, pp. 82-85. 21 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXVII, cit., p. 45, n. 271. 22 Ivi, vol. I, cit., p. 184. 23 P. Dalena, Basilicata Cistercense (Il Codice Barb. Lat. 3247), Galatina 1995, p. 27. 24 Ibid. 25 Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, cit., p. 276. 26 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXXII, 1289-1290, Napoli 1982, pp. 161-62, n. 175.

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La storia della Basilicata angioina, pertanto, non fu scandita dai ritmi delle vicende storiche cittadine per l’endemica debolezza delle strutture urbane, ma dalle iniziative delle grandi famiglie feudali, che dominavano vasti e improduttivi latifondi. Attraverso le sue componenti feudali maggiori (i Sanseverino, rientrati al seguito di Carlo I d’Angiò, i conti di Marsico, i Chiaromonte e i del Balzo, i Pipino, i Lauria), infatti, la regione partecipò attivamente alla storia complessiva del regno. Prima divisi tra Svevi e Angioini, i feudatari locali, sempre recalcitranti e in lite tra loro, uniti sul fronte angioino seppero sostenere la resistenza all’invasione siculo-aragonese della Calabria durante la guerra del Vespro, quando la parte occidentale della Calabria costituì, col Principato citeriore, la prima linea angioina27. Sempre recalcitranti e del tutto incapaci di fronteggiare le forti richieste di danaro della corona per finanziare la sua politica militare, i poteri feudali locali si sostituirono al potere centrale per arginare le operazioni di guerriglia degli almugaveri e le razzie dei predoni di strada a difesa dei propri interessi fondiari e, indirettamente, della sicurezza degli abitanti delle campagne. Le operazioni militari ai confini con la Calabria furono condotte soprattutto dai grandi feudatari i cui interessi economici erano concentrati a sud del giustizierato: dal conte di Marsico a quello di Montescaglioso, a quello di Chiaromonte, Riccardo, «qui terras sue baronie habet in Basilicata, viriliter cepit resistere et eorum discursibus obviare ac decurtare passus eorum nocturnos»28. Non è possibile valutare pienamente il grado di incidenza di queste vicende sulla grande crisi economica e sociale della regione tra la fine del XIII e il XIV secolo; sicuramente ai primi sovrani angioini non mancò l’impegno politico, che, anche se con scarso successo, cercò di coinvolgere direttamente nella vicenda amministrativa sia i baroni che le istituzioni ecclesiastiche legate alla corona. Infatti, al Parlamento generale di Melfi del 29 settembre 1290, convocato da Carlo II per ridefinire i rapporti tra corona e università nell’ambito della loro organizzazione amministrativa, parteciparono anche i più autorevoli esponenti del mondo religioso e baronale lucano, sostenitori del governo: dall’arcivescovo di Acerenza al vescovo di Potenza, dall’abate del monastero della SS. Trinità di Venosa a quello di Banzi, Galasso, Il Regno di Napoli, cit., p. 877. W. Koller, A. Nitschke (a cura di), Die Chronik des Saba Malaspina, in MGH, SS, XXXV, Hannover 1999, vol. X/12, p. 353. 27 28

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Girardo de Ivort e Giovanni Ponzel29. Ma il particolarismo feudale mantenne la Basilicata in uno stato di guerra permanente e di disordine, che irretì i poteri periferici dello Stato rendendoli incapaci di amministrare il territorio e di dare impulso al terziario, attivando processi produttivi che riscattassero la regione dalla miseria e dall’emarginazione economica30. Lo scollamento tra poteri centrali e periferici emerse in tutta la sua gravità quando non si riuscì a intervenire localmente nel settore dell’ordine pubblico, in particolare della vigilanza delle strade, pur in presenza di precise ordinanze che ne potenziavano il controllo con guardie stipendiate31, e a fronteggiare i riflessi della guerra del Vespro, particolarmente evidenti nello stato di insicurezza delle strade e delle campagne, che interruppe il rapporto con i mercati cittadini, nelle continue violenze e usurpazioni, aggravate dagli eventi calamitosi e dall’esoso fiscalismo, che ridussero in povertà numerosi centri abitati e furono alla base del loro spopolamento o della loro scomparsa32. I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXXII, cit., pp. 20-21, n. 110. In un’enciclica del 14 settembre 1285, Onorio IV allude all’incapacità di Carlo I d’Angiò di ricavare dalla sua politica fiscale la stessa quantità di denaro che aveva consentito le imprese di Federico II e di Manfredi (Regesta Pontificum Romanorum inde ab anno post Christum natum MCXCVIII ad annum MCCCIV, a cura di A. Potthast, vol. II, Graz 1957, p. 1801, n. 22289). 31 Per la sicurezza delle strade, il sovrano angioino adottò diversi provvedimenti, tra cui l’incentivazione dei custodes stratarum per una più attenta e scrupolosa vigilanza. Al baiulo di Matera venne affidata la responsabilità di custodire la strada «a Gravina usque Turrim maris»; al baiulo di Potenza la strada «qua itur a Potentia usque Burgentiam»; al baiulo di Melfi la strada «a Tripaldo usque Melfiam» (I Registri della Cancelleria Angioina, vol. VI, cit., p. 337, n. 1266). I baiuli affidavano la vigilanza a guardie stipendiate, come Guido di Castelvetere per la strada da Atripalda a Melfi e Pietro di Pietrafixa per la strada da Potenza a Brienza (ivi, pp. 337, n. 1266; 244, n. 1301; 246, n. 1309). Ma il problema dei «latrones et receptores eorum disrobatores stratarum et patratores homicidiorum» rimase sempre di grave attualità soprattutto per l’atteggiamento di tolleranza dei funzionari locali, sovente poco sensibili alle direttive del potere centrale (ivi, vol. XX, 1279, Napoli 1964, pp. 130 e 268). 32 Alcuni casali privi di popolazione e in stato di abbandono per le continue incursioni nemiche, come Armaterra, Pisticci e San Basilio, ottennero la riduzione della sovvenzione generale, ma ciò non valse a frenare lo spopolamento (Fortunato, Badie, feudi e baroni, vol. III, cit., p. 241; C. Foti, L’abbazia di S. Maria del casale di Pisticci dalla fondazione alla cessione all’Ordine certosino (1087-1451), tesi di specializzazione in Archeologia e storia dell’arte medioevale, Università degli studi della Basilicata-Potenza, Scuola di specializzazione in Archeologia, a.a. 1999-2000, pp. 112-13, doc. n. XXXIII). Importanti indicazioni sulla crisi dei casali emergono 29 30

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Si tratta di uno scenario di decadenza economica e sociale non isolato, ma pienamente contestualizzato nella grave fase di recessione che in quel tempo coinvolse l’Italia e l’Europa. La profonda delusione provocata dalla nuova dinastia, che fece rimpiangere i tempi, pur gravi, del governo dell’ultimo svevo, si coglie nella penetrante testimonianza del guelfo Saba Malaspina: O rex Manfrede, te vivum non cognovimus, quem nunc mortuum deploramus; te lupum credebamus rapacem inter oves pascue huius regni, sed presentis respectu dominii, quod de nostre volubilitatis et inconstancie more sub magnorum profusione gaudiorum anxie morabamur, agnum mansuetum te fuisse cognoscimus. Iam fuisse dulcia tue potestatis mandata sentimus, dum alterius amariora gustamus. Conquerebamur frequencius nostre substancie partem in dominium tue maiestatis adduci; nunc autem omnia bona nostra, quod peius est, et personas alienigenarum converti dolemus in predam33.

La pace di Caltabellotta (1302) e la conseguente separazione della Sicilia dal regno continentale, se valsero a far cessare momentaneamente il conflitto con la feudalità, non frenarono il dissanguamento dell’erario e il dissesto finanziario durante il governo di Roberto d’Angiò (1309-43) per sostenere le sporadiche spedizioni contro gli Aragonesi. Del resto, i segnali di risveglio economico, rappresentati dall’istituzione di numerose fiere in diversi luoghi della regione, si giustificano più per l’impulso esercitato dalle singole unità amministrative che per effetto della politica economica della corona34; la quale

dagli atti conciliari editi da D. Vendola, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria, Città del Vaticano 1939, p. 374. Sui centri abitati lucani scomparsi cfr. T. Pedio, Centri scomparsi in Basilicata, Venosa 1985; G. Luisi, Territorio e popolazione della Basilicata nel Medioevo, in A. Giganti, R. Maino (a cura di), Popolazione, paesi e società della Basilicata, «Quaderni lucani di storia e cultura», 3, Bari 1989, pp. 7-82. 33 Koller, Nitschke (a cura di), Die Chronik des Saba Malaspina, cit., vol. IV/2, p. 180. 34 Nel 1303 l’Università di Policoro e quella di San Mauro, nella contea di Montescaglioso, vennero autorizzate da Carlo II d’Angiò a tenere una fiera all’anno: la prima a metà agosto nel giorno dell’Assunta e la seconda dal 15 al 23 aprile. Nel 1305 il sovrano accoglie la richiesta dell’Università di Tursi di tenere un mercato settimanale ogni sabato e a Policoro viene confermata una fiera già esistente. Nel 1332 re Roberto autorizza una fiera annuale ad Anglona dal 7 al 14 settembre. Nella zona del Vulture si tenevano diverse fiere e mercati: una fiera annuale in

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dovette sempre confrontarsi con la tendenza conservatrice e particolaristica della feudalità rurale, trovando solo nell’apparato ecclesiastico un importante appoggio per far decantare le tensioni coi contadini e, soprattutto, con i piccoli feudatari, che, cresciuti di numero, erano divenuti sempre più arroganti e centrifughi35. Ma non mancarono atti energici della corona: Angelo di Pomarico, per esempio, uno dei feudatari di Basilicata, nell’ottobre del 1314 venne privato dei beni feudali per essersi rifiutato di pagare alla curia regia il consueto tributo «pro adohamento seu servitio»36; e il 31 gennaio 1339 Roberto ordinò a tutti i giustizieri del regno, tra cui quello di Basilicata, di svolgere una rigorosa inchiesta sul comportamento dei baroni, che, con le loro prevaricazioni e i continui abusi (usurpazioni di terre, conflitti per gli usi civici, imposizione di vari balzelli), suscitavano malcontento e proteste che sovente si trasformavano in furibonde rivolte37. Del resto, se i Sanseverino rimasero fedeli al sovrano e il conte di Marsico, altro ramo dei Sanseverino, continuava a ergersi a paladino dell’autorità regia pur non permettendo al giustiziere di interferire nei suoi feudi, numerosi feudatari tormentati da balzelli e da aspirazioni centrifughe mantenevano un atteggiamento ostile al potere centrale e ai suoi esattori, istituendo un proprio servizio di uomini armati38. I baroni, che si sottraevano continuamente agli obblighi feudali, impedivano ai giustizieri, responsabili della giustizia e dell’esazione dei tributi, il pieno esercizio delle loro funzioni, non consentendo di entrare nei loro feudi per riscuotere la generalis subventio e far osservare la legalità39. Non diversamente avveniva per i monasteri feudali, che, per difendersi dalle violenze e dai saccheggi dei delinquenti comuni e occasione della festa di sant’Ippolito si teneva presso il monastero di San Michele a Monticchio (Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, cit., p. 341). Una fiera si teneva in primavera a Venosa (Crudo, La SS. Trinità di Venosa, cit., p. 343). A Banzi si tenevano due fiere, a metà agosto e in settembre (Pannelli, Le memorie bantine, cit., pp. 86-87). 35 In proposito, il 4 gennaio 1341 Roberto d’Angiò rese nota ad alcuni presuli del regno, tra cui quello di Melfi, una lettera di Benedetto XII del 13 novembre del 1340 che li esortava a usare la loro autorevolezza per far cessare «omnes ligas et coniurationes inter comites et barones, milites, nobiles et alias personas» (R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, vol. II, Firenze 1930, p. 359 e nota 1). 36 Ivi, vol. I, p. 236. 37 Ivi, vol. I, p. 328. 38 Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, cit., p. 352. 39 Ivi, vol. V, La Basilicata da Roberto a Renato d’Angiò, Bari 1989, pp. 54-55.

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degli stessi funzionari regi, tenevano propri uomini armati40. Del resto, i monasteri indifesi venivano impunemente saccheggiati da avidi feudatari che traevano profitto dalle terre usurpate41. Lo scenario politico ed economico venne aggravato nella prima metà del XIV secolo dalle frequenti carestie – tra cui furono particolarmente drammatiche quelle del 1328-30, a cui seguirono le iniziative speculative di numerosi mercanti forestieri disonesti che in Basilicata facevano incetta di cereali e victualia42 –, da alcune catastrofi naturali e dall’epidemia di peste nera del 1348, che decimò la popolazione e rese ancor più precarie le condizioni esistenziali dei contadini sfruttati, ma indomiti e non sempre sottomessi ai funzionari regi o alle lusinghe della riduzione del carico fiscale43. Nel novembre 1317, la popolazione di Lauria «ad vocem preconis unanimiter congregati» insorse contro il vicario di Ugo di Clairmont – che teneva il feudo in nome del pupillo Berengario di Lauria, erede di Ruggero – costringendolo alla fuga44; e nella Terra Biyani, un paese non identificato della regione, il 25 ottobre del 1319 la rivolta coinvolse il vicario del feudatario, il conte di Minervino, e il giustiziere, che vi si era recato per riscuotere alcune imposte. Minacciato di morte, il giustiziere riparò nella casa della regia curia con i suoi familiari, di cui alcuni furono uccisi; lui stesso guadagnò la fuga a stento per l’intervento di alcuni preti e di qualche fautore del regime45. In questo contesto di miseria e di sopraffazioni maturò un’altra grave piaga sociale: il brigantaggio. Secondo la testimonianza del duca di Calabria, del 4 settembre 1307, torme di uomini armati scor-

40 L’11 novembre 1318, per esempio, Carlo, figlio di re Roberto, autorizzò l’abate Amelio del monastero di San Michele di Monticchio ad avere presso il monastero trenta armigeri (Fortunato, Badie, feudi e baroni, vol. III, cit., p. 245). 41 Il monastero femminile di San Salvatore de Guilleto, incapace di organizzare una difesa, veniva costantemente saccheggiato dai feudatari di Melfi, Monticchio, Calitri e Rapone, i quali seminavano le terre usurpate lasciando alle monache il diritto di lamentarsi presso il sovrano (Caggese, Roberto d’Angiò, cit., vol. I, p. 254). 42 Ivi, vol. I, p. 511. Cfr. inoltre Vitolo, Il Regno angioino, cit., p. 68. 43 Sulla frequenza delle epidemie e dei terremoti che colpirono il regno nella prima metà del XIV secolo cfr. A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850 compilati con varie note e dichiarazioni, vol. I, rist. anast. Bologna 1972, pp. 189 sgg. 44 Caggese, Roberto d’Angiò, cit., vol. I, p. 330 e nota 3. 45 Ivi, p. 331.

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razzavano per la Basilicata taglieggiando, derubando e uccidendo i viandanti e dandosi alla macchia46. Infatti, nei primi decenni del XIV secolo, i reati contro il patrimonio e le persone erano aumentati notevolmente. Roberto d’Angiò, pertanto, nel 1313 adottò provvedimenti eccezionali contro briganti e malfattori di strada47; nel 1330 ordinò ai giustizieri e ai capitani di ricercare e arrestare anche oltre la propria giurisdizione «famosos disrobatores stratarum et homicidas puplice diffamatos»48, abolendo ogni beneficio procedurale per i numerosi delinquenti comuni «qui in domibus aut in itineribus vel in mari violentas aggressiones perpetrant»49 e responsabilizzando le università dei disordini e dei danni procurati nelle loro giurisdizioni50; e nel luglio 1334 adottò più rigorosi rimedi per ridurre i reati commessi «in stratis et itineribus publicis»51 e vietò anche di portare armi proibite52. Alla morte di re Roberto (1343) il regno appariva frammentato e in grande confusione: «tutti i consiglieri si fecero lupi delle pecore del Regno, e la città di Napoli tutto il Regno divoravasi; ivi tutto il tesoro del Regno andava a male»53. Infatti, durante il regno della nipote Giovanna I (1343-82), un’intricata crisi dinastica fece esplodere forti rivalità all’interno della grande feudalità, con gravi riverberi nelle campagne, dove i contrasti con i contadini si tramutarono in violenze, devastazioni e saccheggi. Le vicende dinastiche tennero lontani i sovrani dalla Basilicata e dai suoi problemi, accentuando il senso di distacco che si manifestò, in un regime di illegalità, con arbitri e usurpazioni da parte dei funzionari regi, dei feudatari e degli stessi giustizieri, che con il loro subdolo comportamento avviarono la crisi del sistema amministrativo del giustizierato: I prefati uffiziali latini cominciarono di qua e di là ad estorcere denaro, ed accumularlo per se stessi. E cominciarono a persuadere alle genti della Ivi, p. 80. R. Trifone, La legislazione angioina, Napoli 1921, pp. 160-62, nn. LXXXVIII e LXXXIX. 48 Ivi, pp. 242-44, n. CLXIII. 49 Ivi, pp. 245-47, n. CLXV. 50 Ivi, pp. 259-62, n. CLXXIV. Su questi problemi cfr. P. Dalena, Ambiti territoriali, sistemi viari e strutture del potere nel Mezzogiorno medievale, Bari 2000, p. 57. 51 Trifone, La legislazione angioina, cit., pp. 245-47, n. CLXV. 52 Ivi, p. 235, n. CLVIII. 53 Domenico da Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, prefazione di L. A. Muratori, Napoli 1890, p. 15. 46 47

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città di non obbedire affatto al dominio degli Ungheresi, ma a quello della regina Giovanna e del signor Ludovico di Taranto, lor naturali signori. [...] Ed in seguito, alle persuasioni de’ lasciati rettori e giustizieri, si ribellano le singole città, e tutti i castelli, e casali di terra di Lavoro e del Principato di Basilicata54.

A metà del XIV secolo, le città demaniali, tranne Venosa, erano ormai tutte infeudate: Melfi agli Acciaiuoli; Potenza era stata ceduta dalla regina Sancia ai Pipino, conti di Altamura; Matera alternava le sue vicende tra gli Acciaiuoli, Giovanni Pipino e il principe di Taranto55. A complicare lo scenario feudale contribuì la vicenda del principato di Taranto, che comprendeva parte della Basilicata meridionale, inclusa Matera, dove l’autorità del principe si sovrapponeva a quella della corona, configurandosi non semplicemente come «un apanage honorifique»56, ma come piena sovranità, che nel lungo periodo «formò la base di un’opposizione permanente ai sovrani di Napoli»57. Anche le istituzioni religiose, non trovando più nella corona il tradizionale punto di riferimento e di protezione che ne aveva alimentato l’azione pastorale e politica, ripiegarono su forme di protezione feudale particolarmente vincolanti e spesso gravose: nell’ottobre del 1362 il conte di Montescaglioso e di Andria, Bertrando del Balzo, prese sotto la sua protezione il monastero di Sant’Angelo di Montescaglioso58, che, così, riuscì a ottenere la restituzione di alcuni beni usurpati, come il casale di San Salvatore, Avinella e Santa Maria «de cornu» e ad avviare una certa attività economica59. Ad accentuare lo stato di malessere furono anche i frequenti conflitti giurisdizionali tra vecchie e nuove istituzioni monastiche, come quelli che, nella seconda metà del XIV secolo, scandirono i rapporti tra i cistercensi del Sagittario e i certosini di San Nicola in Vallo nella regione del

Ivi, p. 70. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. V, cit., pp. 98-101. 56 G.M. Monti, Ancora sul Principato di Taranto e i suoi feudatari, in «Annali del Seminario giuridico-economico della R. Università di Bari», III, 1, 1929, pp. 3-15. 57 Galasso, Il Regno di Napoli, cit., p. 877. Sul principato di Taranto cfr. G. Antonucci, Il Principato di Taranto, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, pp. 133-54; Vitolo, Il Regno angioino, cit., p. 26. 58 Fortunato, Badie, feudi e baroni, vol. III, cit., p. 369, n. 85. 59 Ivi, p. 371, nn. 108 e 109. 54 55

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Rubio60. In fondo, nel XIV secolo fu l’instabile equilibrio tra le potenti famiglie feudali a rimettere in gioco, di volta in volta, il destino di molte fondazioni monastiche e la stessa sicurezza nelle campagne. Più che le calamità naturali, in Basilicata non più frequenti e gravi di altre parti del regno e d’Italia61, nella crisi economica e sociale della regione, che registrò un gravissimo calo demografico e la scomparsa di numerosi abitati, ebbero un peso preponderante l’aggressività della feudalità, lo stato di continuo disordine e la mancanza di iniziative imprenditoriali nel settore agro-pastorale. Gli eventi che scandirono la successione al regno di Napoli nel corso del XV secolo resero ancor più precari quegli equilibri, in quanto si riproponeva in termini decisivi la lotta tra le fazioni legate agli Angioini e quelle che parteggiavano per gli Aragonesi in un contesto politico ancor più frammentario e complesso, compattato con fatica da una funzionale organizzazione amministrativa incentrata sull’istituto del giustizierato, di origine normanna62, in cui i giustizieri, garanti della legalità, interferivano con le prerogative giurisdizionali del baronato, il cui ruolo, come risulta dai Parlamenti del 1450 e del 1456, era stato potenziato con l’attribuzione dell’esercizio del merum et mixtum imperium. Dopo un primo tentativo (1420-23), interrotto da impreviste tensioni in Spagna, Alfonso V conquistò il regno di Napoli attraverso una lunga campagna militare tra il 1435 e il 1442. La conquista comportò una profonda revisione degli orientamenti politici e un radicale cambiamento dei quadri burocratici, con lo spostamento del centro direziona60 A. Giganti, Francavilla nella media valle del Sinni. Origine di un microcosmo rurale del secolo XV, Bari 1977, p. 140. 61 Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia, cit., vol. I, pp. 157-245; Baratta, I terremoti d’Italia, cit., pp. 45-59; V. Claps, Cronistoria dei terremoti in Basilicata, Galatina 1982, p. 20. 62 Nel XV secolo rimase immutata l’antica ripartizione amministrativa del territorio in undici giustizierati, portati a dodici da Alfonso con la divisione dell’Abruzzo in Citra e Ultra. La «Provinzia di Basilicata» nel marzo 1459 era retta ancora da un giustiziere (Archivisti napoletani [a cura di], Fonti Aragonesi, «Testi e documenti di storia napoletana pubblicati dall’Accademia Pontaniana», serie II, vol. VIII, Napoli 1971, p. 105, n. 80). I compiti dei giustizieri sanciti dal titolo 36 delle assise di Ariano (O. Zecchino [a cura di], Le Assise di Ariano, Cava dei Tirreni 1984, p. 96) e dal titolo I/44 delle Constitutiones federiciane (W. Stürner [a cura di], Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, in MGH, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, vol. II, Supplementum, Hannover 1996, pp. 202-203) vennero ampliati dai sovrani angioini (Trifone, La legislazione angioina, cit., pp. 50, 57-58, 91, 122).

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le da Barcellona a Napoli. Questo evento, che, in un disegno di politica mediterranea aveva forte risalto militare per l’occupazione strategica di un punto nevralgico del Tirreno in funzione antigenovese, «conforme ai desideri della maggioranza dei catalani»63, non ebbe nessun significato politico e amministrativo in una regione ormai saldamente in mano ai feudatari. Del resto, la politica italiana di Alfonso, che, tutto sommato, era un aspetto della sua politica catalana condotta con uomini e mezzi catalani, si legava esclusivamente alla volontà e all’ambizione personale del Magnanimo «volta ad assicurare il regno, conquistato con le armi, al figlio naturale Ferrante»64 e confliggeva con le aspettative dei baroni e delle componenti ecclesiastiche e monastiche, che non si riconoscevano in un sovrano «innaturale» i cui interessi erano prevalentemente fuori dal regno. Del resto, non esisteva ancora lo Stato con quei connotati che via via furono acquisiti in età moderna. Alla morte del Magnanimo, la successione di Ferrante a Napoli venne contestata dal duca Giovanni d’Angiò, sostenuto da gran parte del baronaggio filoangioino. Ne seguì una difficile guerra di riconquista che durò cinque anni (1459-64) e si concluse solo dopo la risoluzione della grave vicenda del principato di Catalogna e la ricostituzione dell’unione della corona d’Aragona da parte di Ferdinando il Cattolico (1479-1516), grazie anche al matrimonio con Isabella di Castiglia65. Il matrimonio di Ferrante di Napoli con Giovanna d’Aragona, sorella di Ferdinando il Cattolico (1477), per il napoletano poteva significare la legittimazione dei diritti della corona d’Aragona sul regno, ma anche la possibilità di un appoggio del potente cugino di Spagna, che, inevitabilmente, diveniva arbitro della politica e dell’esistenza stessa del regno nella misura in cui appoggiando il baronaggio indeboliva il prestigio della corona66. La definitiva conquista spagnola del regno di Napoli fu per il Cattolico il risultato di un fermo atteggiamento politico che non si piegò, se non con il ricorso alle armi, alle pretese di Carlo VIII (1495), che rivendicava i diritti angioini sul regno di Napoli67. In tutto questo tem63

p. 91.

M. Del Treppo, Il Regno aragonese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV/1, cit.,

Ivi, p. 92. Ivi, p. 93. 66 Ibid. 67 Ivi, p. 94. 64 65

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po la Basilicata rimase fuori dagli interessi diretti della corona e sempre più nelle mani dei grandi feudatari locali, in particolare del conte di Marsico e degli Orsini68. Infatti la rivalità tra i conti di Marsico e i 68 La rapsodica documentazione riguardante la situazione feudale lucana, come ha osservato Tommaso Pedio, non consente di seguire l’avvicendarsi di baroni in tempi di disordine politico. «La terra di Vaglio viene concessa nel 1420 a Francesco Orsini conte di Gravina, i Bonifacio, nel maggio dello stesso anno, vendono Ripacandida a Ser Gianni Caracciolo, Acerenza nel dicembre 1425 viene concessa a Covella Ruffo duchessa di Sessa. Venosa, già degli Orsini, assegnata ai Colonna, dopo la morte di Martino V torna alla Corona e nel maggio del 1431 viene concessa a Ser Gianni Caracciolo con il titolo ducale. Potenza, Tursi ed Albano tornano ai Sanseverino e, con Policoro, Aliano, Anzi, Vignola, l’attuale Pignola, e Tito vengono portate in dote da Polisena, sorella del conte Ruggero di Tricarico e vedova di Malatesta signore di Cesena, andata sposa nel marzo 1422 a Micheletto degli Attendoli capo di una banda della compagnia dello Sforza. Gli Orsini di Taranto riottengono nell’ottobre del 1423 terre e feudi che erano stati loro sottratti da Muzio Attendolo Sforza. Gli Zurlo, invece, perdono la contea di Potenza perché ribelli a Giovanna II e mantengono in Basilicata soltanto Oppido, Pietragalla, Casalaspro e Grottole con Altogianni che – secondo Camillo de Lellis – Beatrice de Poncy (de Ponziaco), moglie di Giovanni Zurlo, aveva acquistato per sé e per i figli Giovannello, Marino e Giacomo. Incamerati anche questi feudi nel 1426, il feudo di Oppido viene venduto a Ser Gianni Caracciolo, il quale lo dona nel 1427 al fratello Marino con il castrum di Monticchio sul monte Vulture. Gli Orsini, che hanno tolto in Puglia e in Basilicata terre e feudi ai Sanseverino, li restituiscono per ordine di Giovanna II dopo l’accordo intervenuto tra le due casate nel giugno del 1427 a Montepeloso. Lavello, che per qualche anno è stato feudo del Tartaglia, ritornata agli Orsini, viene da Giovanni Antonio principe di Taranto donata nel 1428 al fratello Gabriele in occasione delle sue nozze con Giovannella, figlia di Ser Gianni Caracciolo. I feudi di Bollita, l’attuale Novasiri, e di Nocara, la Pietra di Roseto e il castello della Cagna sulla costa jonica vengono nel 1429 confermati a Filippo e a Venceslao Sanseverino figli di Stefano conte di Matera e di Antonella di Sangineto. E a Luigi Sanseverino Giovanna II nel 1431 concede il feudo di Noja, l’attuale Noepoli, cum mero et misto imperio e gli fa restituire dagli Orsini di Taranto Rocca Imperiale, Colobraro, Pisticci, Montalbano, Salandra, Garaguso e metà del feudo di Favale, l’attuale Valsinni, la difesa di Rotunda maris presso l’attuale Rotondella, e quella di Petrella di cui il principe di Taranto si era arbitrariamente impossessato. Nella valle del Sinni il feudo di Battifarano, tenuto dai de Tagaria di Montemurro, viene nel 1432 restituito a Giovanni Salomone di Marsico, il quale lo aveva acquistato da re Ladislao e nell’alta valle del Basento Cicco Antonio de Caris, il capo di una banda della compagnia dello Sforza, al quale era stata concessa la terra di Vaglio confiscata agli Orsini, viene privato del suo feudo nel 1433 perché ribelle a Giovanna II. Dopo la morte di Martino V vengono incamerati i feudi che Giovanna II aveva concesso ai fratelli e ai nipoti del pontefici. La stessa sorte subiscono i feudi concessi o acquistati da Ser Gianni Caracciolo in Basilicata: dopo la sua morte ai suoi

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del Balzo, di cui gli Orsini continuarono la tradizione, aveva innescato un lungo processo, scandito da ripetuti infeudamenti e dimissioni del possesso, che nel XV secolo portò i Sanseverino a dominare la Basilicata centro-meridionale dalla valle del Basento al Pollino, incluse le valli dell’Agri e del Sinni, e gli Orsini a signoreggiare nella valle del Bradano69. Le comunità monastiche, colpite dalla grave recessione della seconda metà del XIII secolo e ridotte in povertà tale da essere dispensate temporaneamente dalle «taxae pro communibus servitiis»70, senza protezione regia e non sostenute dal favore dei grandi feudatari locali, persero via via la loro funzione propulsiva, politica ed economica, e in alcuni casi cessarono anche l’attività pastorale. Nel XV secolo molti monasteri vennero ceduti o affidati ad abati commendatari: nel 1420 Santa Maria di Banzi, nel 1424 San Michele di Montescaglioso, nel 1439 Santa Maria de Armenis di Matera, nel 1440 San Michele di Monticchio, nel 1441 Santa Maria del Sagittario, nel 1445 Santa Maria di Pisticci, nel 1455 Santa Maria de Valle Ursi (Pietrapertosa) e Santo Stefano di Marsiconuovo, nel 1474 Sant’Elia di Carbone71. Rimanevano vitali solo quei monasteri legati alle grandi famiglie feudali. Non a caso, nonostante le ostilità e i tentativi di usurpazione, nella regione del Rubio il tranquillo possesso dei beni e l’attività giurisdizionale del monastero di San Nicola in Valle furono strettamente legati alla protezione dei Sanseverino72.

eredi rimane soltanto il ducato di Melfi confermato a Troiano che mantiene anche la contea di Avellino. Dei feudi che Ser Gianni aveva in Basilicata, la Corona non incamera Venosa: portata in dote da Giovannella Caracciolo a Gabriele conte di Gravina, la contea di Venosa viene confermata al conte di Gravina» (Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. V, cit., pp. 209-11). 69 Galasso, Il Regno di Napoli, cit., pp. 875-76; Giura Longo, La Basilicata dal XIII al XVIII secolo, cit., p. 356; Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. V, cit., pp. 209-12. 70 H. Hoberg, Taxae pro communibus servitiis ex libris obligationum ab anno 1295 usque ad annum 1455 confectis, «Studi e testi», 144, Città del Vaticano 1949, pp. 260, 286, 293. 71 Houben, Il monachesimo in Basilicata, cit., pp. 168-69. Per il monastero cistercense di Santa Maria del Sagittario cfr. Dalena, Basilicata Cistercense, cit., pp. 33-35. 72 A. Giganti, Le pergamene del monastero di S. Nicola in Valle di Chiaromonte (1359-1439), «Deputazione di Storia Patria per la Lucania. Fonti e studi per la storia della Basilicata», vol. IV, Potenza 1978, p. liii.

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Alla fine del regno, sancita il 16 maggio 1503 dall’ingresso in Napoli del condottiero spagnolo Consalvo de Cordova, la Basilicata, che non era stata mai zona calda durante le guerre di successione di Alfonso e Ferrante e durante la congiura dei baroni, che pure ebbe a Melfi e a Miglionico, nel giugno e nel settembre 1485, occasionali ma decisivi incontri tra i cospiratori73, la Basilicata presentava, rispetto alle epoche precedenti, maggiori equilibri interni – quelli determinati dalle grandi famiglie feudali – e una certa stabilizzazione demografica legata all’insediamento di nuovi gruppi etnici, soprattutto albanesi, che, tuttavia, non furono in grado di avviarvi nessun processo di sviluppo economico: una terra, con la Calabria e il Molise, segnata dalla miseria e dall’arretratezza, «avec leurs champs accrochés aux flancs des rochers, leurs terrasses garnies de terres rapportées que soutiennent des murs de pierre sèche, ont souvent bien de la peine à nourrir leurs habitants»74, in cui gli effetti della congiura dei baroni si tradussero nell’affermazione di una diversa compagine feudale introdotta dalla nuova classe politica con l’età del viceregno spagnolo: i Doria, i Carafa, i Revertera, i Pignatelli e i Colonna subentrarono in molte terre ai Sanseverino riducendone gli spazi vitali75. 73 Sulle ragioni dello scontro tra baronaggio e corona cfr. Galasso, Il Regno di Napoli, cit., pp. 690-700; G. D’Agostino, Il Mezzogiorno aragonese (Napoli dal 1458 al 1503), in Storia di Napoli, vol. II, Storia politica ed economica, Napoli 1981, pp. 619-21. 74 G. Yver, Le commerce et les marchands dans l’Italie méridionale au XIIIe et au XIVe siècle, Paris 1903, p. 106. 75 Giura Longo, La Basilicata dal XIII al XVIII secolo, cit., pp. 366-67.

L’ECONOMIA NEL XIV E NEL XV SECOLO di Alfonso Leone Nel corso del XII secolo la penetrazione commerciale italiana nel Mezzogiorno divenne via via più intensa e fu favorita dai re normanni, i quali conferirono privilegi importanti ai veneziani nel 1154 e nel 1175 e ai genovesi nel 1156 e stabilirono la pace con Pisa nel 1169. La fisionomia assunta dal regno nel contesto italiano e mediterraneo fu quella di fonte di derrate agricole e di mercato di prodotti tessili centro-settentrionali. Peraltro le città meridionali, che avevano raggiunto vigore e identità nell’età del particolarismo1, mostravano una vita mercantile o troppo esigua, come nel caso di Salerno, o dai limiti interni rilevanti, come nel caso di Amalfi. Sicché la presenza e gli affari degli operatori veneziani, genovesi e pisani lasciarono ai regnicoli soltanto l’ambito, subalterno, della mediazione e in sostanza influirono in modo determinante sull’articolazione sociale dei centri urbani. Il momento politico-economico – giova sottolinearlo – impedì anche il rinnovamento della società e delle strutture commerciali amalfitane, provocando così il lento declino marittimo della città campana2. Nel mondo rurale il X secolo, sia nelle aree longobarde sia in quelle bizantine, aveva visto una ripresa sensibile dell’economia agraria, sorretta dal graduale aumento della popolazione, i cui tratti salienti erano stati il ripopolamento e il dissodamento di terre incolte, l’evoluzione dei contratti e il diffondersi della libertà, una maggiore circolazione monetaria3. Una ripresa che in Basilicata si era svolta mediante 1 A. Leone, Particolarismo e storia cittadina nella Campania medievale, in «Quaderni medievali», 9, 1980, pp. 236-56. 2 Id., Napoli prima degli Svevi: alcune considerazioni, in «Rassegna del Centro di cultura e storia amalfitana», 13, 1997, p. 106. 3 Cfr. specialmente M. Del Treppo, Frazionamento dell’unità curtense, incastellamento e formazioni signorili sui beni dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno tra

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l’espansione del monachesimo greco, con forme peculiari e innova­ tive4. L’infeudazione normanna delle terre, però, colpì notevolmente gli allodi e i contadini liberi5 e in effetti segnò un mutamento vero e proprio, accrescendo il controllo delle risorse agricole da parte delle forze dominanti, così come accentuò la frammentazione del territorio ed estese l’insediamento accentrato, collinare e munito6. Sono indicativi, al riguardo, tanto qualche episodio di rivolta dei contadini7, quanto la tendenza alla contrazione delle terre comuni, con gli usi civici connessi, tendenza in cui si iscrive anche la costituzione del 1228 di Federico II super demanio revocando8. Nel 1192, per esempio, il signore di Rotonda, Guglielmo di Campana, concesse al monastero di Sant’Elia di Carbone diritti di pascolo nel suo distretto signorile, tranne che nelle due foreste di Caramello e di Ringo9. In una regione come quella del Vulture, il bosco rappresentava una ricchezza essenziale10. Il periodo normanno-svevo fu di certo nell’agricoltura una fase di crescita, specie della produzione11. La crescita, per esempio, era

X e XI secolo, in G. Rossetti (a cura di), Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, Bologna 1977, pp. 285-304. 4 N. Cilento, Luoghi di culto, iconografia e forme della religiosità popolare nella società lucana fra Medioevo ed Età moderna, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 4, 1975, pp. 255-57 e La Lucania bizantina, in «Bollettino storico della Basilicata», 1, 1985, pp. 99-101. Per il contributo del Cilento alla storia della Basilicata cfr. C.D. Fonseca, Nicola Cilento e la Basilicata, «Quaderni del Dipartimento di Scienze storiche, linguistiche e antropologiche dell’Università degli studi della Basilicata», 1, 1994, pp. 1-8. 5 N. Cilento, Le origini storiche e sociali del banditismo meridionale, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 42, 1975, p. 23. 6 J.-M. Martin, L’impronta normanna sul territorio, in M. D’Onofrio (a cura di), I Normanni. Popolo d’Europa. 1030-1200, Padova 1994, pp. 214-16. 7 Cilento, Le origini storiche e sociali, cit., pp. 25 sg. 8 Ivi, pp. 26 sg. 9 V. von Falkenhausen, L’incidenza della conquista normanna sulla terminologia giuridica e agraria nell’Italia meridionale e in Sicilia, in V. Fumagalli, G. Rossetti (a cura di), Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, Bologna 1980, p. 232. 10 I. Aurora, La regione del Vulture ed Atella fra XIII e XV secolo. Contributo allo studio del paesaggio agrario, in AA.VV., Dal casale alla terra di Atella, Lavello 1996, pp. 91-94. 11 J.-M. Martin, Les structures économiques du royaume à l’époque normande, in C.D. Fonseca, H. Houben, B. Vetere (a cura di), Unità politica e differenze regionali nel Regno di Sicilia, Galatina 1992, pp. 85-104.

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visibile nella costa amalfitana12, dove, fino al XIII secolo, i monasteri furono «i veri artefici della costruzione e delle successive modificazioni del paesaggio»13, e nelle campagne dell’area napoletana, nelle quali promotori del popolamento e della valorizzazione delle terre furono i monasteri del Salvatore in insula maris, dei SS. Severino e Sossio, di San Marcellino, di San Pietro a Castello14. I progressi delle città mercantili italiane, insomma, offrirono senza dubbio uno sbocco più valido alle eccedenze agricole e stimolarono, in misura tutt’altro che trascurabile, la produzione; a vantaggio, tuttavia, dei feudatari e delle signorie monastiche, le cui istanze si rafforzarono, ma a danno della stessa economia monetaria, soprattutto nei distretti e nei centri dell’entroterra15. In special modo occorre rilevare come si ampliasse la frattura tra città e territori rurali e come le città stesse non potessero guadagnare un ruolo significativo e dinamico verso il contado e nello sviluppo economico16. Dal periodo normanno-svevo, considerato nella sua intima unità, non emerse nel Mezzogiorno, in ultima analisi, un’economia mercantile, e invece sembrano pregiudicate le possibilità dell’autonomia commerciale, in un quadro di imperiosa affermazione delle grandi potenze marittime. La dipendenza economica dal commercio internazionale, poi, si profilò ancora più nitida durante l’età angioina. Il Vespro e il distacco della Sicilia dal Mezzogiorno provocarono il predominio incontrastato dei genovesi nell’isola e un più forte impegno di veneziani e fiorentini nel mercato peninsulare17. E, dal tempo di re Roberto, 12 Id., Les caractères originaux de l’agriculture amalfitaine (Xe-XIIIe siècles), in Documenti e realtà nel Mezzogiorno italiano in età medievale e moderna. Atti delle Giornate di studio in memoria di Jole Mazzoleni (Amalfi, 10-12 settembre 1993), Amalfi 1995, pp. 305-24. 13 G. Sangermano, Per lo studio di monasteri e paesaggi nel ducato medievale di Amalfi, in «Napoli nobilissima», XXXII, 1993, p. 120. 14 A. Leone, La Campania in età sveva, in «Napoli nobilissima», XXXII, 1993, p. 192. 15 Ivi, p. 193. 16 N. Cilento, Giacomo Racioppi medievista, in P. Borraro (a cura di), Giacomo Racioppi e il suo tempo. Atti del I Convegno nazionale di studi sulla storiografia lucana (Rifreddo-Moliterno, 26-29 settembre 1971), Galatina 1975, p. 7. 17 A. Leone, Ricerche sull’economia meridionale dei secoli XIII-XV, Napoli 1994, pp. 27-31. Non si può non ricordare, circa l’ascesa fiorentina, la limpida analisi di Yver: «L’activité de ses négociants enrichit Florence au détriment de Naples, et la fortune de la Toscane coïncide avec l’appauvrissement du Midi. Les

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i catalani cominciarono a svolgere il traffico di cabotaggio lungo le coste campane e calabresi18. Le attività dei commercianti regnicoli, invece, apparivano caratterizzate nel Trecento soprattutto dall’insufficienza dei capitali, come, per gli anni Sessanta, risalta dalla documentazione della compagnia fiorentina dei Del Bene, allora presente a Napoli. Gli agenti di questa compagnia trovavano difatti notevoli difficoltà a vendere i tessuti importati, per il languire della domanda e per la circolazione di contanti molto modesta, tanto che dovevano concedere lunghe dilazioni nei pagamenti, sia nella città sia nelle fiere frequentate19. Le fiere costituirono decisamente uno strumento essenziale, nella struttura generale degli scambi. Mentre quelle principali, che si tenevano a Salerno, Trani, Gaeta e Lanciano, assicuravano il collegamento periodico con il commercio estero, quelle minori e di interesse locale erano necessarie proprio a causa del ristagno delle attività interne. Le une e le altre, nello stesso tempo, avevano un’implicita funzione creditizia, giacché spesso i pagamenti venivano differiti a raduni successivi20. Talvolta i privilegi di fiera furono concessi dai sovrani su sollecitazione della nobiltà feudale: così nel 1303 Tommaso conte di Marsico e signore di Sanseverino ottenne per Sanseverino un privilegio della durata di otto anni e nel 1316 il feudatario del luogo, Alferio d’Isernia, ottenne da re Roberto la concessione di un raduno annuale alla terra di Castelpetroso nel Molise21. Al capitale mercantile forestiero, segnatamente fiorentino, si aprì anche il settore rappresentato dal credito alla monarchia e dai rapporti con l’amministrazione finanziaria: un settore ampio e ben rilevato, e che sarebbe stato parte integrante della supremazia sviluppata in progrès croissants des compagnies ont pour conséquence la décadence progressive du commerce local. Mais, si l’exemple des Florentins ne parvient pas à exciter l’émulation des sujets angevins, cela tient moins à leur inertie naturelle qu’à leur absence de ressources. Il leur manque, en effet, pour secouer leur torpeur, les capitaux qui, au contraire, ne font jamais défaut aux sociétés, soit qu’elles les reçoivent de Toscane, soit qu’elles les tirent de l’Italie méridionale elle-même» (G. Yver, Le commerce et les marchands dans l’Italie méridionale au XIIIe et au XIVe siècle, Paris 1903, p. 351). 18 M. Del Treppo, Stranieri nel regno di Napoli. Le élites finanziarie e la strutturazione dello spazio economico e politico, in G. Rossetti (a cura di), Dentro la città. Stranieri e realtà urbane nell’Europa dei secoli XII-XVI, Napoli 1989, p. 205. 19 Leone, Ricerche sull’economia meridionale, cit., pp. 15-22. 20 Ivi, pp. 16-18. 21 Id., Il ceto notarile del Mezzogiorno nel basso Medioevo, Napoli 1990, p. 105.

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Italia meridionale ancora nel Cinquecento22. Il debito statale fu continuo e considerevole e consentì profitti e carriere, come nel caso di Gaspare Bonciani nei decenni di Giovanna II23. La guerra del Vespro impose contribuzioni fiscali gravose, che influirono non poco sui consumi24. Ad Avellino – dove, dopo l’epidemia di peste del 1296, la città chiese un congruo disgravio, che le fu accordato – nel 1303 un «donzello della corte», cioè un dipendente della bagliva, testimoniò a seguito di un’indagine che quando egli si recava in casa di qualcuno per eseguire una pegnorazione non trovava niente che superasse il valore di un’oncia, nemmeno nelle famiglie ritenute più agiate; e contemporaneamente un mercante veneziano, mastro Albertino, dichiarava che «gli uomini di Avellino erano caduti in così grande miseria, che da loro, con la vendita delle sue mercanzie, non lucrava più nulla»25. Si avviò una lunga e profonda recessione, fino al regno di Giovanna II, i cui fattori e aspetti furono molteplici. L’area amalfitana, per esempio, subì le pestilenze del 1306 e del 1348 e il maremoto del 25 novembre 134326. In quest’area, al Vespro seguirono «trenta, quaranta drammatici anni», come ribadirono gli abitanti di Scala nel 133927. Terremoti si verificarono in Abruzzo Ulteriore nel 1352 e in Capitanata nel 139828. Nel 1320 si scorgeva già un certo calo demografico in Basilicata, rispetto al 127729. Dal 1318 al 1341 22 M. Cassandro, Affari e uomini d’affari fiorentini a Napoli sotto Ferrante I d’Aragona (1472-1495), in Studi di storia economica toscana nel Medioevo e nel rinascimento in memoria di Federigo Melis, Pisa 1987, p. 110; A. Leone, Le fonti documentarie per la storia economica e sociale del Regno di Napoli nell’età aragonese (1443-1501), in «Archivio storico del Sannio», 2, 1997, pp. 147 sg. e Alfonso il Magnanimo e l’economia dell’Italia meridionale, in «Itinerari di ricerca storica», 11, 1997, p. 11. 23 Del Treppo, Stranieri nel regno di Napoli, cit., p. 198. 24 In Campania, specialmente nella regione collinosa fra Policastro e Salerno, anche le operazioni militari incisero sulla popolazione e sugli insediamenti: V. Aversano, Villaggi abbandonati e paralisi dello sviluppo per la guerra del Vespro in Campania e Basilicata, in «Studi e ricerche di geografia», 6, 1984, estratto, pp. 1-28. 25 A. Leone, Avellino angioina e aragonese, in G. Pescatori Colucci, E. Cuozzo, F. Barra (a cura di), Storia illustrata di Avellino e dell’Irpinia, Avellino 1996, p. 390. 26 G. Sangermano, Caratteri e momenti di Amalfi medievale e del suo territorio, Salerno-Roma 1981, pp. 76 sg. 27 M. Del Treppo, Amalfi: una città del Mezzogiorno nei secoli IX-XIV, in M. Del Treppo, A. Leone, Amalfi medioevale, Napoli 1977, p. 173. 28 Aversano, Villaggi abbandonati, cit., p. 17. 29 G. Racioppi, Geografia e demografia della provincia della Basilicata nei secoli XIII e XIV, in «Archivio storico per le province napoletane», 15, 1890, p. 582.

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si susseguirono anni di carestia30. Guerre, disordini feudali, tensioni sociali urbane apportarono distruzioni e disgregazione. Il banditismo si diffuse, rendendo malsicure le strade: nell’ottobre del 1318, per esempio, nelle campagne di Pescopagano vennero assaliti e derubati alcuni mercanti perugini che andavano da Barletta a Salerno31. Nella seconda metà del secolo l’abbandono di villaggi si fece evidente: nella Terra d’Otranto lungo la costa dello Ionio scomparvero i casali di Castigno, Albaro, Olivaro, Pasano, Aliano, Santa Maria di Bagnolo32, e nella contea di Lecce cominciarono a spopolarsi Firmiliano, Bagnara, Terenzano, Mollone, Absigliano, Cerzeto, Paduleco, Paniano, Francavilla, Padulano, Piscopio, Nuvole33. Nel 1392 i canonici della cattedrale di Amalfi lamentavano la caduta del reddito e nel 1417 un arciprete della congregazione di Atrani vendette «pecium unum de terra sterile et incultu cum nonnullis pedibus seu arboribus olivarum in mayori parte silvestrum quod alias fuit olivetum situm in dicta civitate Minoris»34. Le agevolazioni fiscali danno una traccia attendibile del peggiorare della condizione economica in varie località: per Avellino, Giovanna I concesse una riduzione delle collette e una nuova diminuzione decise Carlo III nel 1381; poi Ladislao il 5 luglio 1401 portò la contribuzione da 17 once, 16 tarì e 10 grani a sole 6 once; e tuttavia, allorché pochi anni più tardi Fabrizio di Capua prese il controllo della città quale commissario della Regia Camera, vide tali estremi da indursi a chiedere un’ulteriore limitazione del tributo, che venne fissato in 4 once, provvedimento confermato da Giovanna II nel 141735. Durante il regno di quest’ultima il rialzo smodato del tasso

30 T. Pedio, Fazioni e rivolte in Basilicata al tempo di Roberto d’Angiò, in «Studi storici meridionali», 7, 1987, pp. 262-64; C. Massaro, Territorio, società e potere, in B. Vetere (a cura di), Storia di Lecce, vol. II, Dai Bizantini agli Aragonesi, Roma-Bari 1993, p. 279. 31 Pedio, Fazioni e rivolte in Basilicata, cit., p. 254. 32 M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli 1988, p. 43. 33 C. Massaro, La città e i suoi casali, in Vetere (a cura di), Storia di Lecce, cit., p. 353. Nel Tavoliere le vicende del popolamento vanno collegate con «la ripresa nel XIV secolo e l’organizzazione ad opera dello Stato della grande transumanza tra Abruzzi e Tavoliere»: J.-M. Martin, G. Noyé, La Capitanata nella storia del Mezzogiorno medievale, Bari 1991, pp. 57 sg. 34 Del Treppo, Amalfi: una città del Mezzogiorno, cit., pp. 174 sg. 35 Leone, Avellino angioina e aragonese, cit., pp. 390 sg.

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legale di interesse fino al 45 per cento annuo è una prova persuasiva dell’entità della crisi36. Con la conquista del Magnanimo il regno entrò a far parte dell’area politico-economica catalano-aragonese, componente importante del più vasto spazio mercantile. Alla fine del 1449 il re elaborò anche un programma articolato per la «piena integrazione della produzione e dei mercati di tutti i Regni della Corona d’Aragona», che rivela consapevolezza dell’utilità del mercato napoletano per i commerci catalani e della tradizionale impronta agricola del Mezzogiorno37. I catalani sostennero la corte nelle sue esigenze finanziarie e ampliarono i loro traffici a Napoli e nelle province, offrendo nuovo impulso agli scambi; e le loro attività sarebbero proseguite vivaci, pur con qualche arretramento, dopo la morte di Alfonso e il distacco del regno dai domini della corona. Probabilmente il mercato meridionale restò un versante forte del commercio catalano anche durante il declino di Barcellona38, indizio evidente della sua ampiezza. I sovrani aragonesi, peraltro, continuarono a stimare il commercio estero come una fonte preziosa di entrate e adottarono nei confronti dei mercanti forestieri provvedimenti occasionali ed empirici; soprattutto, ricorsero largamente, anche con uno strumento proprio del mondo degli affari quale la lettera di cambio, al credito mer-

36 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1992, pp. 189 sg.: «Questo tasso [...] sbalordisce [...] come indice dello stato di prostrazione in cui era piombato tutto il Mezzogiorno, della estrema anemia della sua vita commerciale ed industriale, della quasi inesistenza di denaro che valesse a dare un certo respiro alla popolazione nelle sue esigenze giornaliere, della insicurezza nel recupero delle somme mutuate, tutti fattori di cui l’elevatezza del tasso legale di interesse è una prova sicura. Non si trattava, del resto, di una punta eccezionale a cui era pervenuto il mercato del denaro in conseguenza di passeggere ristrettezze, ma di uno stato di disagio cronico. Nel 1409 la cittadinanza di Brindisi aveva supplicato Ladislao ad autorizzare gli ebrei ad esercitare il prestito senza timore di incorrere in sanzioni canoniche o civili, ed il re aveva aderito, fissando il tasso di interesse al quaranta per cento annuo; il che fu accolto dagli abitanti di Brindisi come attestazione di particolare benevolenza sovrana, in quanto evitava loro di dover vendere le loro case a vilissimo prezzo pur di mantenersi». 37 Del Treppo, Stranieri nel regno di Napoli, cit., pp. 205 sgg.; S. Epstein, Dualismo economico, pluralismo istituzionale in Italia nel Rinascimento, in «Revista d’História Medieval», 6, 1995, pp. 68 sg.; Leone, Alfonso il Magnanimo, cit., pp. 12 sg. 38 M. Del Treppo, I Catalani a Napoli e le loro pratiche con la corte, in Studi di storia meridionale in memoria di Pietro Laveglia, Salerno 1994, pp. 96 sg.

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cantile39. Una simile spinta e prolungata esposizione contribuì alla debolezza economica e politica della monarchia40. I tratti ormai consolidati del paese – caratteri del territorio e degli insediamenti, fisionomia agricola, mancata formazione di un incisivo sistema urbano, insufficienza della rete viaria, fragilità del ceto attivo e delle risorse mobiliari – indicavano come irrinunciabile e vivificante la funzione del commercio internazionale, e quest’ultimo, nel medesimo tempo, impediva un’evoluzione in senso diverso e più moderno. Negli ambiti rurali più appartati il commercio interno troppo spento comprometteva le stesse possibilità dell’agricoltura e della società locale: sulla scorta di un cartulario notarile comprendente atti rogati fra il 1466 e il 1478, in una terra del basso Cilento, quella di Tortorella, situata a oltre 500 metri sul livello del mare e distante circa 150 km da Salerno, la campagna possedeva una sicura capacità produttiva ed era fornita di mulini e di bestiame, ma doveva risentire di una circolazione monetaria tanto ridotta che gli appezzamenti subivano una forte frammentazione e mobilità e venivano adoperati a guisa di mezzo di pagamento nelle circostanze più varie e più comuni41. Le compagnie fiorentine e toscane di alto e medio livello, presenti nella seconda metà del secolo a Napoli e in città minori quali Gaeta, L’Aquila, Trani, Lecce, Cosenza – Medici, Strozzi, Spannocchi, Gondi, Salutati, Pandolfini, Ginori, Peruzzi, Ricasoli, Frescobaldi, Buondelmonti ecc. –, inserirono il mercato meridionale in modo più compiuto e organico nel mercato internazionale, divenuto a sua volta più compatto e unitario. Esse condussero i loro affari – consistenti soprattutto nell’importazione di grosse quantità di tessuti, non soltanto di produzione toscana, e nell’estrazione del grano e dell’olio pugliese e della seta calabrese42 – così in collegamento fra loro, come in collegamento con le maggiori piazze commerciali dell’epoca, e spesso su commissione; e, con la loro efficienza operativa e bancaria, furono un riferimento determinante per tutto l’insieme del commercio forestiero. Di solito, poi, esse concedevano un credito alla clientela meridio39 R. Conde, La letra de cambio en el sistema financiero de Alfonso el Magnánimo, in XIV Congresso di storia della Corona d’Aragona, vol. III, Sassari 1996, pp. 257-69. 40 Leone, Alfonso il Magnanimo, cit., p. 14. 41 A. Leone, Profili economici della Campania aragonese, Napoli 1983, pp. 10581. 42 Sul commercio della seta calabrese ivi, pp. 59-79.

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nale (anticipazioni, dilazioni di pagamento, rinnovi, mallevadorie), senza il quale questa non avrebbe sopportato lo scompenso notevole della bilancia commerciale. Sicché lo svolgimento degli scambi mostrò limpidamente l’influenza e il predominio dell’iniziativa esterna. Sul piano finanziario Napoli e il Mezzogiorno mantennero contatti più o meno frequenti e significativi, in primo luogo attraverso le filiali dei Medici e degli Strozzi nella capitale, con Roma, Firenze, Pisa, Milano, Venezia, Genova, Palermo, Barcellona, Valenza, Lione, Avignone, Montpellier, Ginevra, Bruges e Londra. E furono coinvolti nella connessione finanziaria dei mercati allora realizzata dalla grande banca fiorentina, in misura prevalente con lo strumento del cambio. I profitti conseguiti dal commercio estero si mutarono in una risorsa che venne impiegata dagli operatori in altre articolazioni del tessuto mercantile: per compensare le esportazioni catalane dalla Francia meridionale o per offrire la copertura assicurativa, fornita in parte sulla piazza napoletana da mercanti catalani di medio livello, occorrente al trasporto marittimo delle lane inglesi da Southampton a Porto Pisano, Talamone e Piombino43. I fiorentini prestarono altresì somme considerevoli alla corte, ottenendo in pegno gioielli di elevato valore: per esempio, alla fine del 1484 il credito di Filippo Strozzi ascendeva a ben 164.000 ducati ed egli aveva in suo potere pietre preziose per circa 50.000 ducati44. Ai prestiti ricevuti la corte faceva fronte, tra l’altro, con la cessione delle tratte, un metodo che mette in luce il rilievo del debito statale nel commercio del grano pugliese45 e che si conservò nel pieno Cinquecento46. I rapporti degli operatori forestieri con la nobiltà feudale, infine,

43 Id., Mezzogiorno e Mediterraneo. Credito e mercato internazionale nel secolo XV, Napoli 1988. 44 F. Patroni Griffi, Banchieri e gioielli alla corte aragonese di Napoli, Napoli 1992, pp. 9-14. 45 Id., Documenti inediti sulle attività economiche degli Abravanel in Italia meridionale (1492-1543), in «Rassegna mensile di Israel», serie III, 63, 1997, pp. 32 sg. 46 G. Muto, Tra mercanti e arrendatori: nota sulla presenza lucchese a Napoli nella prima età moderna, in R. Mazzei, T. Fanfani (a cura di), Lucca e l’Europa degli affari. Secoli XV-XVII, Lucca 1990, p. 122; G. Fenicia, Politica economica e realtà mercantile nel Regno di Napoli nella prima metà del XVI secolo (1503-1556), Bari 1996, pp. 23 sg.

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furono distinti dall’indebitamento della seconda47, in una realtà controllata con evidenza dal capitale mercantile. Nelle diverse aree della Basilicata – vale a dire il Melfese, vicino alla Capitanata e alla Terra di Bari, il Materano, vicino alla zona ionica, il Lagonegrese, esteso fino al Pollino, e il Potentino, confinante con la Campania48 – lo sviluppo urbano medievale fu assai limitato. Melfi e Venosa ebbero un certo interesse nel periodo normanno-svevo, che smarrirono, però, con l’epoca angioina49. La prima conobbe nei decenni iniziali del Trecento una lunga e sterile lotta tra la famiglia Vaccaro, proveniente dall’alto Ofanto, e le altre eminenti nell’ambito locale50. Anche Potenza, ricostruita dopo un grave terremoto del 1273 e infeudata nel secolo seguente, fu solo un piccolo centro, di modesto respiro51. Nella regione la crisi economica e sociale del XIV secolo e della prima metà del XV si deve ritenere particolarmente forte. Il malessere delle popolazioni si scorge nelle proteste degli abitanti di varie località in difesa dei loro diritti negati: di quelli di Venosa contro l’abate di San Nicola di Morbano nel 1312, di quelli di Melfi, Monticchio dei Normanni, Ripone e Ruvo verso San Salvatore al Goleto nel 1316, di quelli del feudo di Lauria nel 1317 e nel 1318, di quelli di Marsico contro il vescovo nel novembre 1318. Nel 1322 il vescovo di Potenza fu costretto dalla sollevazione popolare a rinunciare a una serie di pretese e di entrate52. Melfi nel 1314 sostenne di non essere in grado di corrispondere la colletta. Le università, per far fronte agli obblighi fiscali, ottennero di imporre dacia sulle merci (frumento, farina, orzo, olio, vino, frutta e ortaggi) e sulle attività di allevamento e artigianali: dapprima Rapolla, nel 1303, poi via via Melfi nel 1313, Lavello, Grottole, Miglionico e Gaudiano nel 1315. È noto che l’apprezzo

Patroni Griffi, Banchieri e gioielli, cit., pp. 17-19. Cilento, Luoghi di culto, cit., pp. 252 sg. e Una matrice storica di scarsa coesione territoriale, in Atti del XXII Congresso geografico italiano (Salerno, 18-22 aprile 1975), Salerno 1975, pp. 261 sg.; B. Vetere, Puglia e Lucania in epoca normanna, in «Itinerari di ricerca storica», 10, 1996, pp. 23 sg. 49 H. Houben, Melfi, Venosa, in G. Musca (a cura di), Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari 1993, pp. 311-31. 50 Pedio, Fazioni e rivolte in Basilicata, cit., pp. 259-63. 51 G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese, Torino 1992, pp. 873 sg. 52 Pedio, Fazioni e rivolte in Basilicata, cit., pp. 244-51. 47 48

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comportasse abusi, del genere lamentato a Potenza nella primavera del 133453. Conflitti fra i cittadini insorsero a Venosa, Acerenza e Rapolla54. Il banditismo si estese progressivamente; bande armate minacciavano le strade nel 1307, monaci guidavano i gruppi di malandrini annidati nel 1319 nelle foreste di San Gervasio, una banda agiva nella contea di Marsico nel 1320, nelle campagne tra Principato e Basilicata si muoveva la masnada di Ruggero de Ieroli nel 1343, una «compagnia» molto numerosa, protetta dal conte di Sant’Angelo dei Lombardi, nel 1366 assalì Melfi e l’alta valle dell’Ofanto. Nel gen­ naio del 1425, nei pressi di Matera, gli stessi armigeri del principe di Taranto depredarono delle loro mercanzie alcuni mercanti calabresi diretti a Barletta55. Si ricordano terremoti nella zona del Vulture nel luglio 1361 e nell’aprile 140156. Dopo l’epidemia del 1348, la peste si diffuse di nuovo nel 136257, e nel 1413 Potenza fu colpita dalla cosiddetta peste delle ghiannole58. Niccolò Acciaiuoli nel 1364 scriveva dal castello di Melfi al fratello Angelo: Una cosa a me saria molto grata gioè que volessi que si facessi una inquisitione in quale stato erano quasi tucte le mee terre que eo teneo e possideo in questo reame quando pervennero alle mee mani le quali non si poteano denominare terre, ma quasi inabitate spelonche di ladroni replene di sanguinose intestine e crudelissime particularitati [...] omnibus computatis fino a qui ene statu assai plu l’exito della expensa, la quale m’è stato expediente di fare nella loro riformatione e custodia, e que ò fatta nella reparatione degli edificii, di loro riviere, castelli e fortilizie, che non n’è stato lo introito delli loro redditi e proventi.

53 Id., «Appretia» e «dacia» in Basilicata nei secoli XIII e XIV, in «Studi storici meridionali», 9, 1989, pp. 15-21; G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Torino 1889, vol. II, pp. 303-305. 54 Pedio, Fazioni e rivolte in Basilicata, cit., p. 268. 55 Ivi, pp. 253 sg.; Id., La Basilicata durante il regno di Giovanna I, in «Studi storici meridionali», 8, 1988, pp. 6 e 25 sg.; Id., La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. V, Bari 1994, pp. 11 e 197. 56 Id., La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, cit., pp. 95 e 159. 57 Ivi, p. 96. 58 A. Buccaro (a cura di), Potenza, Roma-Bari 1997, p. 21.

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E nel territorio di Melfi nella seconda metà del secolo parecchi beni appartenenti alla mensa vescovile e alla chiesa di San Pietro apparivano abbandonati59. Naturalmente le guerre apportavano altre rovine. La badia di Santa Maria di Banzi, per esempio, a metà Trecento subì incendi e saccheggi dalle milizie ungheresi; nel 1433 bande angioine che dalle Murge si spingevano verso Matera distrussero il grano sulle aie e razziarono il bestiame60; durante l’assedio di Lavello del 1436 il bestiame moriva per la mancanza di acqua61. Ancora al tempo del Magnanimo sembra palese il disagio di alcune università nei pagamenti fiscali: il re concesse nel 1439 a Muro Lucano di versare 3 once meno del dovuto, «propter depressum statum ipsius civitatis»; e nel 1452 all’università di Trecchina, feudo di Francesco Sanseverino duca di Scalea, concesse di pagare 12 once, invece di 20, per la gabella della bagliva62. Il dato più espressivo della crisi consiste nell’ampia diminuzione dei centri abitati, dal 1268 al 1445: da 148 a 9663. Nella valle di Vitalba, il sorgere di Atella nella prima metà del Trecento, per iniziativa del feudatario Giovanni d’Angiò, si collega con ogni probabilità con uno spopolamento già avanzato e con un bisogno di nuova organizzazione del territorio64. 59 G. Vitale, Aspetti della vita economica di Melfi ed Atella alla fine del XV secolo, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», nuova serie, 17, 1968, pp. 18 sg. 60 Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, cit., pp. 102 e 216. In Basilicata erano presenti anche notevoli feudi ecclesiastici, quali quelli benedettini di Monticchio e di Banzi e quelli dei cavalieri di Malta a Grassano e a Venosa (Galasso, Il Regno di Napoli, cit., pp. 876 sg.). 61 G. Coniglio, Giacomo Racioppi e la società lucana tra il XV ed il XVI secolo, in Borraro (a cura di), Giacomo Racioppi e il suo tempo, cit., p. 28. Ad Atella nel 1496 Consalvo di Cordova fece «rompere li mollini della città» e compiere razzie di animali, anche verso le campagne pugliesi: M. Saraceno, La resa di Atella del 1496 nelle lettere di Francesco Gonzaga alla moglie Isabella d’Este, in «Studi storici meridionali», 14, 1994, p. 213. 62 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., pp. 27-29. Negli ultimi due decenni del Quattrocento varie comunità cilentane facevano fronte agli oneri fiscali con generi agricoli, in luogo del danaro contante: A. Silvestri, Aspetti di vita socioeconomica nel Cilento alla fine del Medioevo, Salerno 1989, pp. 40-46. 63 Racioppi, Storia dei popoli, cit., vol. II, pp. 296-300 e 354 sg.; Vitale, Aspetti della vita economica, cit., p. 18; Cilento, Luoghi di culto, cit., p. 262 e La Lucania bizantina, cit., p. 104. «Antiche sedi vescovili, come Vitalba, Satriano, Turri, Cisterna, cessarono e altre, come Anglona e Montemilone, si ridussero a ben poca cosa» (Galasso, Il Regno di Napoli, cit., p. 877). 64 C.D. Fonseca, Introduzione, in AA.VV., Dal casale alla terra di Atella, cit., p. 9.

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È verosimile che la disponibilità di terreni incolti, dovuta all’abbandono dei casali, favorisse il pascolo e l’allevamento del bestiame; e nei domini dei Caracciolo a fine Quattrocento lo sfruttamento a pascolo riguardava proprio le terre desabitate, come quelle di Armatiera e di Cisterna65. In alcuni luoghi la popolazione continuò a ridursi anche dopo la metà del Quattrocento; mentre a Matera dal 1447 al 1521 si passò da 706 a 1.322 fuochi66, Atella, nello stesso periodo, scese da 798 a 487 fuochi, Marsiconuovo da 396 a 132, Maratea da 455 a 388, Venosa da 593 a 520, Lauria da 312 a 308. Così nel Cilento Agropoli scese da 201 a 136 fuochi, Cuccaro da 453 a 181, Policastro da 265 a 123, Sicignano da 232 a 197, Rocca d’Aspide da 215 a 12367. Verso la fine del Quattrocento Giovanni Caracciolo, per la scarsezza della popolazione, accolse all’interno dei suoi feudi un gruppo di immigrati albanesi68. I monasteri greci ancora esistenti in Lucania e in Calabria furono visitati nel 1457-58 dall’igumeno Atanasio Calceopulo e dal monaco Macario, per incarico del cardinale Bessarione; versavano ormai in uno stato di completa decadenza, per il livello di cultura molto basso e i costumi corrotti, per le fabbriche in rovina e le proprietà fondiarie invase69. Vitale, Aspetti della vita economica, cit., pp. 18 sg. Nonostante le ricorrenti epidemie, in generale in Terra d’Otranto dalla seconda metà del XVI secolo l’aumento demografico fu ben marcato (Visceglia, Territorio feudo e potere locale, cit., pp. 54 sgg.). 67 T. Pedio, Un foculario del Regno di Napoli del 1521 e la tassazione focatica dal 1447 al 1595, in «Studi storici meridionali», 11, 1991, pp. 229, 233, 235. In Cilento intorno al 1480 la peste toccò vari centri: nel castello di Salvia si ebbe «gran moria et fame» nel 1479; a Brienza l’epidemia nel 1482 durò «per plures menses, ex qua terra ipsa [...] devenit in desolacionem»; nel casale di Alfano nel 1484 «nce morero piu de septanta dui homini, adeo che poco ncende so remasi et quilli poco remasi sono tanto poveri che ad pena possono vivere» (A. Silvestri, La popolazione del Cilento nel 1489, Salerno 1991, pp. xv sg.). 68 Vitale, Aspetti della vita economica, cit., pp. 19 sg. Circa l’apporto nel Mezzogiorno degli immigrati dai Balcani cfr. Racioppi, Storia dei popoli, cit., vol. II, pp. 136-41; Visceglia, Territorio feudo e potere locale, cit p. 55; G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli 1992, pp. 88 sg. 69 Cilento, Luoghi di culto, cit., p. 263 e La Lucania bizantina, cit., p. 104. I monasteri greci, peraltro, segnatamente quello di Sant’Elia e Sant’Anastasio a Carbone, erano stati protetti in epoca normanno-sveva: V. von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona in epoca normanno-sveva terra d’incontro tra Greci e Latini, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 31 sg. Sul clero lucano del XV secolo cfr. Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 31. 65 66

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In tutto il Vulture agli inizi della dominazione angioina la vite era radicata, talvolta in luogo del bosco; e si coltivavano anche i cereali, dal momento che esistevano mulini, come quelli della curia regia (due a Venosa, fatti riattare nel 1271, e due nel territorio di Vitalba, ubicati nella parte alta del torrente Levata), o quello del vescovo di Melfi nei dintorni del castello di Salsola, tra i possedimenti di San Nicola dell’Ofanto, mentre a Gaudiano sono documentate fosse di buona capacità per conservare l’orzo. Il vino prodotto aveva una certa circolazione commerciale; la curia aveva non solo vigne a Melfi, ma tra il 1270 e il 1280 dispose l’acquisto di partite di vino di varia qualità da Melfi, Rapolla, Venosa, Gaudiano, San Fele, Muro e Potenza, e segnatamente nel 1280 il giustiziere di Basilicata ebbe ordine d’acquistare 400 salme «de meliore vino rubeo» di Melfi, da conservare nel castello di Lagopesole. Tuttavia successivamente i vigneti regredirono e, specie nelle proprietà maggiori, furono sostituiti, almeno in parte, dalla coltura del frumento. Nel 1406 Alessandro de Alessandrellis di Atella, appartenente a una famiglia notevole nella società locale per i suoi terreni, fece trasformare le sue vigne presso il vallone Gavitelle in terra seminatoria70. Una certa quantità di grano veniva venduta dai baroni e dagli altri proprietari agli operatori forestieri che si spingevano nella regione. Nella seconda metà del Trecento qualche mercante veneziano si recava a Venosa e a Melfi per comprare grano e lana71, e tra XIV e XV secolo a Melfi risiedevano alcuni mercanti fiorentini72. Il 27 maggio 1345 Matera ottenne di tenere mercato franco ogni lunedì, previo un tributo annuo di 2 once, e, per promuovere lo scambio, nell’aprile del 1379 Giovanna I concesse privilegio «a tutti cittadini di Venosa e forastiere che vendano o comprano in detta Città nel giorno di giovedì non possano essere astretti in essa a pagare alcuna cosa di dacij o gabelle»73. Anche l’attività economica degli ebrei doveva essere molto tenue, giacché si ricorda appena come figurasse un Cambeus iudeus

70 Aurora, La regione del Vulture, cit., pp. 83-86 e 102-12. Non sembra, però, che la Basilicata avesse un particolare risalto nella produzione meridionale di grano: Galasso, Il Regno di Napoli, cit., p. 878. 71 Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, cit., p. 97. 72 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 25. 73 Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, cit., pp. 99 sg.

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fra coloro che a Spinazzola nel 1275 erano interessati all’acquisto di grano e di orzo per mandato regio74. Nel XV secolo l’allevamento costituiva per i signori feudali una risorsa importante. Nel 1487 il conte di Lauria Barnaba Sanseverino faceva allevare nelle sue terre giumente, «pecore gentili» e mandrie di porci, con tre distinti massari e con più di altri venti addetti75, e Virginio Orsini, conte di Tagliacozzo, vendette nel 1488 ben 240 vacche e 300 maiali76. Nei territori di Melfi e di Atella Giovanni Caracciolo traeva utili rilevanti non solo dall’arrendamento dei pascoli, ma anche dall’allevamento diretto dei suini, le cui carni venivano poi salate e affumicate, conservate in apposite fabbriche e quindi vendute, sia in partite più grosse, sia al dettaglio, per il fabbisogno domestico degli acquirenti77. Ma anche persone diverse erano attirate da questo settore. Nella stessa Melfi possedevano bestiame alcuni abitanti della città e un facoltoso notaio78. A metà Quattrocento praticavano l’allevamento Giovanni Perrone di Rivello, un funzionario della cancelleria regia, e il suocero Roberto Sansone di Senise, notaio. Sul fondamento di un privilegio di Alfonso II del 15 agosto 1494, col quale il re concesse ai cittadini di recarsi con armenti e greggi nel territorio di tutte le città demaniali, per il pascolo, senza essere sottoposti a nessun genere di pagamento, si può supporre che anche a Matera l’iniziativa fosse abbastanza consueta79. In Basilicata si celebravano fiere annuali, nel Trecento e nel Quattrocento, a Muro, Policoro, San Mauro, Corneto, Potenza, Tricarico,

74 C. Colafemmina, Basilicata, in C.D. Fonseca, M. Luzzati, G. Tamani, C. Colafemmina (a cura di), L’Ebraismo dell’Italia meridionale peninsulare dalle origini al 1541. Società, economia, cultura. IX Convegno internazionale dell’Associazione italiana per lo studio del giudaismo, Galatina 1996, p. 318. Circa le attività ebraiche nella regione, tuttavia, si deve menzionare la tintoria di Potenza, attestata nel 1322. 75 Il reddito annuo del feudo di Lauria fu stimato nel 1494 di circa 285 ducati. Dalle terre del conte si ricavarono nel 1486 frumento, orzo, vino, olio, ghiande e lino (A.M. Silvestri, La casa e le spese del conte di Lauria Barnaba Sanseverino, in «Il Picentino», nuova serie, 24, 1970, pp. 23-25). Per le entrate provenienti dai piccoli feudi, come quelli di Tristano Caracciolo (Ponte Albanito, Fontana Fura, Lusciano), G. Vitale, L’umanista Tristano Caracciolo ed i principi di Melfi, in «Archivio storico per le province napoletane», serie III, 2, 1963, pp. 343-46. 76 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 33. 77 Vitale, Aspetti della vita economica, cit., pp. 12-14. 78 Ivi, p. 12, nota 25. 79 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., pp. 26 sg. e 35.

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Matera, Pescopagano, Atella, Lagonegro e Senise80. Carlo II istituì nel 1295 quella di Muro e nel 1303 quelle di Policoro e San Mauro. Le due fiere di Corneto e quella di Potenza sono menzionate da Balducci Pegolotti. Roberto concesse a Tricarico una fiera di otto giorni, da tenere agli inizi di ottobre, nel 1332. Con privilegio del 27 febbraio 1409 Ladislao trasferì il raduno di Matera, anche questo della durata di otto giorni, dall’ultima decade di maggio, quando ricorreva la festa di sant’Eustasio, alla metà di agosto, per la festa di santa Maria della Vaglia, che richiamava un maggior numero di forestieri; fiera che poi venne riorganizzata da Ferrante d’Aragona81. Pescopagano è citata in un contratto steso il 24 aprile 1470 dal notaio Pascarello de Tauris nella fiera di San Leo di Bitonto: un abitante di questa cittadina, «Gasparo quondam Loysij de Matera», vendette a Nardo Mancuso de Ghufono, detto Sclavone, la lana delle pecore della sua masseria, fino alla somma di 100 ducati; lana che s’impegnava a consegnare per tutto maggio «in territorio Peschipagani vel in territorio civitatis Bisacciarum vel in territorijs aliarum terrarum ibidem circumstancium»; e a sua volta l’acquirente promise di versare metà della somma stabilita nella fiera di Pescopagano il 25 luglio82. Nel 1386 la regina Margherita concesse in perpetuo alla famiglia di San Giorgio l’ufficio di mastro delle fiere di Atella; tale concessione fu rinnovata da Giovanna II il 12 agosto 1418 e riconfermata da Ferrante e da Alfonso II nel 1488 e nel 1494 a Gizzio, Giorgella, Pietro e Antonio di San Giorgio. Per Lagonegro si ha notizia di una fiera «antica» nel mese di agosto. A Senise, infine, nella seconda metà del Quattrocento, la fiera si svolgeva dal 10 al 12 maggio. Nella fiera di Senise del 1488 furono effettuate quasi 700 contrattazioni di bestiame83, da molti operatori, provenienti per la maggior parte da altre località della regione, come Matera e Potenza, ma anche dall’Abruzzo (L’Aquila, Caramanico), dalla Puglia (Taranto, Gravina, San Severo), dalla Sicilia (Messina), dalla Calabria (Cosenza, CastroA. Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli in età aragonese, Napoli 1969, pp. 189-205. 81 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 26. 82 Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli, cit., p. 25. 83 Ma naturalmente in questa fiera si smerciavano anche i panni, come quelli, forse abruzzesi, che vi portarono da Trani nel 1468 Pietro e Domenico de Ruczo dell’Aquila. Alla fiera del 1506 parteciparono anche i certosini di Chiaromonte, per vendervi gli animali «de loro maxarie». 80

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villari), dalla Campania (Eboli, Atrani, Castellammare, Atripalda, Napoli) e da città lontane, quali Roma, Ancona, Camerino, Urbino e Perugia. Alcuni dei forestieri presenti – Petrillo di Genova, Guglielmo di Padova, Geronimo di Cremona, Stefano di Arbe, il fiorentino Antonio Scarlatto – probabilmente vivevano nel Mezzogiorno. Si vendettero circa 10.000 capi tra maiali, vacche, buoi, vitelli, caproni, castrati, giumente, cavalli, muli e somari, in misura prevalente suini e bovini. Si ha una riprova, dunque, del peso dell’allevamento nell’economia del periodo. Alle entrate baronali concorrevano altresì i mulini, o qualche bene come la ferriera sul fiume di Lauria, dalla quale gli erari del conte tentavano di trarre il maggiore profitto84. Giovanni Caracciolo possedeva anche una gualchiera poco fuori Melfi e nel 1464 concesse a Nicolangelo Amerusio ed Ettore de Fronduta di Atella di edificare «quoddam bactinenderium ad imbalcandum pannos» nella località La Francesca nei pressi di Atella, con l’onere di un canone annuo85. Alla manutenzione dei mulini ad acqua che gestiva direttamente, quattro a Melfi e due ad Atella, lo stesso duca provvedeva con ogni cura, e, dopo la congiura dei baroni86, il medesimo atteggiamento mantenne l’amministrazione regia, come indica una disposizione ricevuta dall’erario di Melfi nel 1493: le moline dela R. Corte esistente in lo districto de dicta cità so multo sconce tanto de mole como de altro fornimento et reparacione de quelle, non senza grande interesse dela p.ta Regia Corte qanno non se acconczassero, et perciò per la presente ve dico che providiti et vogliate dispendere et pagare tucta quella quantità de denari seranno bisogno et necessari per lo acconcio et riparo de dicti molina, curandola non vengano ad ruinare et paterne interesse la R. Corte87.

84 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 29. Dalla ferriera nel territorio del casale di Pratola, lungo il fiume Sabato, la corte regia nel periodo gennaio-agosto 1490 ricavava 45 cantaia e 68 rotoli di metallo (A. Silvestri, La baronia del castello di Serra nell’età moderna, Istituto di Studi Atellani, Frattamaggiore 1993, pp. 10 sg.). 85 Aurora, La regione del Vulture, cit., p. 112. 86 Per la partecipazione del Caracciolo alla congiura cfr. G. Vitale, Le rivolte di Giovanni Caracciolo, duca di Melfi, e di Giacomo Caracciolo, conte di Avellino, contro Ferrante I d’Aragona, in «Archivio storico per le province napoletane», serie III, 5, 1965; per la sua biblioteca, in questo contributo, pp. 64-73. 87 Id., Aspetti della vita economica, cit., p. 10. Nel 1534 la spesa «per lo acconcio» di un mulino di Andrea Doria era giudicata di 5 ducati l’anno (ivi, p. 11). I due

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Nei territori di Melfi e di Atella si producevano grano, orzo, fave, ceci, vino, olio, canapa e lino. Il lino era coltivato anche a Brienza, in discrete quantità88. Il prodotto principale era naturalmente il grano, di cui nel granaio del castello di Melfi al momento della confisca si trovarono più di 3.000 tomoli, tra vecchio e nuovo. Il Caracciolo disponeva di varie fosse, capienti, per la conservazione del raccolto. Il grano veniva trasportato di solito in Puglia per la vendita, a Barletta e a Trani. Ma non sembra che ciò avvenisse con la mediazione di commercianti lucani; si sa solo che un mercante tranese aveva alloggio e magazzini presso il castello89. Mercanti ed ebrei di Trani si affiancavano allora ai forestieri nell’estrazione dei cereali dai porti pugliesi90. Peraltro alla fiera di Salerno del 1478 non parteciparono commercianti lucani, mentre vi si recarono alcuni operatori calabresi. In realtà in Puglia il commercio granario era dominato da veneziani e fiorentini, e non manca qualche traccia di una penetrazione veneziana anche in Basilicata: per esempio, nell’estate del 1451 il mercante Andrea Russo poté estrarre dalla regione 500 salme di frumento, e affari condussero Daniele Contarini e Giovanni da Cari, una figura impegnata specialmente nel traffico dei preziosi91. Nell’ottobre del 1474 il banco in Napoli dei fiorentini Filippo e Lorenzo Strozzi comprò direttamente dal principe di Salerno Roberto Sanseverino una partita di 20.000 tomoli di grano: Per tinore della presente facimo noto et declaramo chomo nui havemo fatta vendita alli spectabili Filippo et Lorenzo Strozzi, mercanti fiorentini, di tomola ventimila di grano a la misura di Napoli, spacciati d’ogni diritto, tratte e ghabelle, posti in barka picciola, per tarì dua, grana dua il tomolo.

mulini di Atella rendevano a Caracciolo nel 1487 complessivamente 416 tomoli di grano; un terzo mulino appartenente al duca nei dintorni di Atella era tenuto alla stessa data da un certo Loisio di Dompnella, col censo annuo di 6 tarì (Aurora, La regione del Vulture, cit., p. 111). 88 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 39. Per il Cilento cfr. Silvestri, Aspetti di vita socioeconomica, cit., pp. 31, 33, 46. 89 Vitale, Aspetti della vita economica, cit., pp. 1-10. 90 Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli, cit., pp. 295 sg.; N. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, a cura di F. Patroni Griffi, Napoli 1990, pp. 11 sg. Per il ruolo mercantile e finanziario dei fiorentini nel commercio del grano cfr. Leone, Mezzogiorno e Mediterraneo, cit., pp. 69-103. 91 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., pp. 25 e 33. Su da Cari cfr. Patroni Griffi, Banchieri e gioielli, cit., p. 37.

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Quali grani prometemo fare consegnare in Bassilicata alle terre nostre, cioè alle marine della Roccha Imperiale e alle paglare di Santo Baxile, spacciati como è detto di sopra. E li detti Filippo et Lorenzo Strozi ne deveno fare lo paghamento di detto grano in Napoli uno mese dopo saranno consegnati detti grani; e la consegnation de’ detti grani promettemo farla fare, cioè la metate per tutto lo mese di novembre prossimo venturo, e l’altra metà per lo seghuente intero mese di diciembre. E detti Filippo et Lorenzo siano tenuti a ricieverlo a’ detti termini [...]. Data in civitate nostra Salerni XVIIIª ottobris MCCCCLXXIIII. Robertus manu propia92.

Rocca Imperiale, come Crotone93, era uno dei caricatoi utilizzati dagli operatori italiani per la spedizione del grano meridionale. Verso la fine dello stesso 1474 gli Strozzi ordinarono alla compagnia Medici di Venezia di mandarne a levare 2.000 stara a Barletta, 1.000 a Manfredonia, 2.500 a Fortore e altre 3.500 «fuori di golfo», fra Taranto e Rocca Imperiale, facendo capo per queste ultime al napoletano Matteo Coppola a Otranto94. Anche in Basilicata, dunque, il commercio estero faceva sentire tutta la sua azione e consolidava il profilo economico della società. All’iniziativa locale esso non riservava che la speculazione nell’allevamento o il terreno circoscritto della vendita del bestiame e delle carni conservate.

92 A. Leone (a cura di), Il giornale del banco Strozzi di Napoli (1473), Napoli 1981, p. 690. È evidente l’interesse dei baroni meridionali a ottenere dai sovrani privilegi ed esenzioni dai diritti di estrazioni, come quelli ottenuti dal Magnanimo nel 1439 e nel 1442 da Antonio Sanseverino conte di Tricarico, di estrarre dalle sue terre di Calabria 1.000 salme di grano ogni anno, e nel 1450 dall’ammiraglio Marino Marzano di 3.000 salme annuali dai porti della Calabria: M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della corona d’Aragona nel secolo XV, Napoli 1972, p. 385. Peraltro questo re si mostrò ben consapevole dei profitti mercantili consentiti dal grano del regno e nel 1448 egli stesso acquistò grossi quantitativi di granaglie in Principato, Basilicata e Calabria, nell’intento di rivendere 45.000 quartiere a Valenza, 30.000 a Barcellona e 15.000 a Maiorca (ivi, pp. 358 sg.). 93 In una lettera inviata da Valenza nel 1470 agli Strozzi di Napoli, per l’acquisto di «salme 2.500 di formenti, bello e netto e bene grosso e ferrignio e cholorito quanto melio potete dalle Chastella in qua», il fiorentino Filippo Inghirani definiva Crotone come «buono charichatoio» (Leone, Mezzogiorno e Mediterraneo, cit., pp. 101 sg.). 94 Ivi, p. 103.

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Il rifacimento della murazione di Potenza, promossa dal conte Innico de Guevara e da re Ferrante, non scaturiva da uno sviluppo economico e demografico della città – che anzi fu danneggiata dal terremoto del 1456 –, bensì dalle esigenze aragonesi di controllo militare del territorio95. A Matera, invece, che Ferrante nel 1464 promise di conservare in demanio e che fu infeudata da Carlo VIII nel 1495, si può congetturare una certa agiatezza, sebbene non connessa con una specifica attività commerciale. In occasione dello sbarco turco a Otranto il cittadino Nicola Venusio riunì a sue spese un gruppo di armati per contribuire alla difesa; e Tucio de Scalzonibus il 13 giugno 1484 acquistò la gabella detta dello «scanagio» per la somma consistente di 900 ducati96. È noto poi come Gian Carlo Tramontano, una volta comprata la città con il titolo di conte da Federico d’Aragona, a scomputo dei crediti vantati con la corte, imponesse il pagamento di ben 20.000 ducati come pena per l’atteggiamento filofrancese da lui assunto nel periodo precedente, a quel «villano di Matera» che riuscì a chiedere e avere giustizia in proposito da Ferdinando il Cattolico97. Tramontano fu assassinato dagli abitanti della città il 29 dicembre 1514 – appena uscito di chiesa, per mano di uno «schiavone» – proprio perché pretendeva da loro un versamento di 24.000 ducati, cioè l’ammontare dei suoi debiti, venuti a scadenza, verso il mercante catalano Paolo Tolosa98. Dopo questa vicenda Matera fu venduta per 20.000 ducati, nel settembre 1515, allo stesso Tolosa99. Non solo le diverse regioni, ma anche le singole aree geografiche e storiche di una determinata regione rivelano, nel Mezzogiorno medievale, differenze significative. Tuttavia i caratteri propri e le tendenze economiche delle varie zone si configurano come gli aspetti peculiari e concreti dell’unitario rapporto di dipendenza stabilito progressivamente dal paese, in ragione di molteplici fattori – economici, politici, istituzionali, internazionali –, con il commercio forestiero e il mercato mediterraneo, fin dai tempi dell’unificazione Buccaro (a cura di), Potenza, cit., pp. 40 sg. Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 32. Il secondo più tardi fu investito del feudo rustico chiamato «de la Esca de la Rotella». 97 B. Croce, Il villano di Matera e Ferdinando il Cattolico, in Varietà di storia letteraria e civile, serie I, Bari 1935, pp. 29-34. 98 C. De Frede, Rivolte antifeudali nel Mezzogiorno e altri studi cinquecenteschi, Napoli 19842, pp. 27-32. 99 Coniglio, Giacomo Racioppi, cit., p. 37. 95 96

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normanna. La Basilicata, in questo quadro, conservò la sua natura di territorio interno, esteso, disorganico e dominato in misura prevalente dalla grande feudalità. Essa concorse con la sua produzione alla caratterizzazione agricola del regno e mantenne, per così dire, un posto più appartato, rispetto ad altre realtà, quali la campana o la pugliese.

IL POPOLAMENTO RUPESTRE* di Cosimo Damiano Fonseca Abituati, come siamo, a considerare la città come il luogo naturale in cui si realizzano le forme di aggregazione della vita sociale, riesce non certo agevole pensare che anche entro le gravine, le lame, i burroni, cioè entro quelle spaccature più o meno profonde che caratterizzano il paesaggio di una parte cospicua dell’area mediterranea e, quindi, del Mezzogiorno d’Italia, si siano determinate condizioni abitative tali da configurare veri e propri villaggi rupestri1. A per* Ricerca effettuata con i fondi di Ateneo ex 40 per cento, Università degli studi di Bari. 1 Per la copiosa letteratura storica sul fenomeno del popolamento rupestre che negli anni Settanta del Novecento si è sviluppata con ritmo sempre crescente cfr. E. Allen, Stone Shelters, Cambridge (Mass.) 1969; C.D. Fonseca, Civiltà rupestre in Terra jonica, Roma 1970; Id., Storia urbana e centri antichi del comprensorio della Civiltà rupestre, in «Taranto Provincia», I, 1, 1973, pp. 12-19; F. Lembo, Il Comprensorio della Civiltà rupestre: una ipotesi alternativa per l’assetto della fascia interna della Grande Regione Puglia, ivi, II, 2-3, 1973, pp. 4-19; C.D. Fonseca (a cura di), La Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia. Atti del primo Convegno internazionale di studio (Taranto-Mottola 29 settembre-3 ottobre 1971), Genova 1975; Id. (a cura di), Il passaggio dal dominio bizantino allo Stato normanno nell’Italia meridionale. Atti del secondo Convegno internazionale di studio (Taranto-Mottola, 31 ottobre-4 novembre 1973), Taranto 1977; Id. (a cura di), Habitat-strutture-territorio. Atti del III Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Taranto-Fasano, 19-23 settembre 1977), Galatina 1978; Id. (a cura di), Le aree omogenee della Civiltà rupestre nell’ambito dell’Impero bizantino: la Serbia. Atti del quarto Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Lecce-Nardò, 12-16 ottobre 1979), Galatina 1979; Id. (a cura di), Le aree omogenee della Civiltà rupestre nell’ambito dell’Impero bizantino: la Cappadocia. Atti del quinto Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medioevale sul Mezzogiorno d’Italia (Lecce-Nardò, 12-16 ottobre 1979), Galatina 1981; Id., La Civiltà rupestre in Puglia, in Id. (a cura di), Civiltà e culture in Puglia, vol. II, La Puglia fra Bisanzio e l’Occi-

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correre questi canyon di regioni geograficamente distanti, come gli insediamenti rupestri georgiani di Vardzia, l’architettura ibadita di Le M’zab in Algeria oppure i siti rupestri della regione di Karadag, della Cappadocia, della Serbia e della Macedonia2 o i villaggi trogloditici dell’Italia meridionale, sia quelli sparsi nelle campagne, come a Grottaglie, Mottola, Castellaneta, Ispica, Pantalica, Lentini3, sia quelli che fanno da supporto agli agglomerati demici attuali come Massafra, Crispiano, Laterza, Ginosa, Matera4, si ha la dimostrazione evidente dente, Milano 1983, pp. 37-116; Id. (a cura di), La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee. Atti del sesto Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania-Pontalica-Ispica, 7-12 settembre 1981), Galatina 1986; Id., Civiltà delle Grotte. Mezzogiorno rupestre, Napoli 1988; Id. (a cura di), Il popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna. Atti del Seminario di studio (Lecce, 19-20 ottobre 1984), Galatina 1988. Cfr. altresì A. Venditti, Architettura bizantina nell’Italia meridionale, Napoli 1967. 2 F. Dubois de Montpereux, Voyage autour du Caucase, 3 voll., Paris 1893; G. Gaprindashvili, Ancient Monuments of Georgia: Vardzia, Leningrad 1975; B. M ­ erghoub, Le M’Zab: aspects économiques, sociologiques et politiques, Paris 1966; M. Roche, Le M’Zab: architecture ibadite en Algérie, Paris 1973; M. Bröens, Ces souterrains... refuges pour les vivants ou pour les esprits. Les clefs d’une énigme archéologique, Paris 1976; S. Eyíce, Karadag (Binbirkilise) et dans la région de Karaman, Instanbul 1971; Fonseca (a cura di), Le aree omogenee della Civiltà rupestre nell’ambito dell’Impero bizantino: la Cappadocia, cit.; Arte della Cappadocia, Genève 1971. 3 Fonseca, La Civiltà rupestre in Puglia, cit.; P. Dalena, Il territorio di Mottola nel Medioevo: tracciati viari ed insediamenti rupestri, in Fonseca (a cura di), Habitat-strutture-territorio, cit., pp. 185-208; D. Novembre, Per una cartografia del popolamento rupestre in Terra d’Otranto, ivi, pp. 209-26; Fonseca (a cura di), Il popolamento rupestre dell’area mediterranea, cit.; Id. (a cura di), La Sicilia rupestre, cit. 4 Circolo La Scaletta (a cura di), Le Chiese rupestri di Matera, Roma 1966; M. Padula, C. Motta, G. Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri di Matera, Roma 1995; San Nicola dei Greci. Un esempio di catalogazione informatica dei beni culturali, Matera 1990; R. De Ruggieri, Gli insediamenti rupestri della Basilicata, in Fonseca (a cura di), La Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia, cit., pp. 99-112; R. Giura Longo, Le origini ed il popolamento dei Sassi di Matera, Roma 1966; L. Rota, M. Tommaselli, F. Conese, Matera. Storia di una città, Matera 1981; P. Dalena, Da Matera a Casalrotto. Civiltà delle grotte e popolamento rupestre (secc. X-XV), Galatina 1990; A. Restucci, Matera, i Sassi, Torino 1981; G. Gattini, Note storiche sulla Città di Matera, rist. Matera 1970; F.P. Volpe, Memorie storiche, profane e religiose sulla Città di Matera, rist. Matera 1979; E. Verricelli, Cronica de la città di Matera nel Regno di Napoli (1595 e 1956), a cura di M. Moliterni, C. Motta, M. Padula, Matera 1987. Una rassegna bibliografica riguardante i centri demici dell’arco ionico si può consultare in R. Caprara, Società ed economia nei villaggi rupestri. La vita quotidiana nelle gravine dell’arco jonico tarentino, Fasano 2001, pp. 17-28. Da aggiungere C. Minzoli, Vita in grotta e insediamenti rupestri a Laterza, Mottola 2000.

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dell’esistenza di una precisa e cosciente struttura insediativa di tipo urbano, caratterizzata dalla stretta interrelazione fra unità con tipologie ben definite; unità che interagiscono mediante un tessuto connettivo funzionalmente strutturato in un complesso organico. Le ragioni di questa scelta insediativa in grotte rispondono a varie esigenze, da quella di una volontà di segregazione rispetto al sistema viario prevalentemente situato nella pianura, a quella di una mimetizzazione nella natura per consentire la possibilità di una difesa contro le ricorrenti invasioni. Scalette, impervi sentieri ricavati nel sasso, strettoie, travi che fungono da ponte levatoio, scale di corda o a pioli costituiscono i tramiti di collegamento all’interno degli spalti delle gravine, tra i vari piani su cui si aprono le cavità grottali. Eppure, se si penetra entro questi valloni tufacei ci si accorge come l’intero casale rupestre appare concepito in un’ottica cittadina e strutturato come un borgo medievale, sia pure costituito da unità edilizie «scavate» e non «costruite». I Sassi di Matera5, il villaggio rupestre della Madonna della Scala di Massafra6 o quello meno appariscente ma non meno interessante di Casalrotto alle pendici di Mottola7 risultano scanditi da unità abitative a schiera con giardino-ortale anteriore, dove insistono pozzi e canalizzazioni, disposte lungo le curve di livello con andamento chiuso per quanto possibile e con comunicazioni prevalentemente per linee concentriche, non dissimile dal modo di organizzarsi di un qualsiasi borgo medievale disposto sul crinale in pendio di una collina. L’unica differenza che si può cogliere deriva dalla morfologia complessiva, concava in un caso, convessa nell’altro. La stessa cultura dispiegata all’interno delle grotte di maggiore dignità architettonica e pittorica – le chiese rupestri – non risulta assolutamente diversa o distante da quella che si realizza nelle chiese costruite, quasi a sottolineare l’identica capacità percettiva degli abitanti degli insediamenti rupestri e di quelli delle città e dei borghi.

5 Per i Sassi di Matera si rinvia alla ricca e accurata bibliografia redatta da R. Demetrio, in C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera, Roma-Bari 20032, pp. 147-60. 6 AA.VV., La gravina della Madonna della Scala di Massafra. Natura, storia, archeologia, tutela, Martina Franca 1995. 7 F. Lembo, La struttura urbanistica del «Casale Ruptum», in C.D. Fonseca, C. D’Angela (a cura di), Casalrotto I. La Storia - Gli Scavi, Galatina 1989, pp. 187-96.

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Insomma, in concomitanza con i secoli dell’alto Medioevo e ancor più nell’arco di tempo della seconda colonizzazione bizantina, questi insediamenti registrano il periodo del loro massimo sviluppo non soltanto per quanto riguarda i manufatti artistici, ma anche per quanto attiene gli aspetti demici e civili. L’omogeneità di questa vicenda, che interessa l’intero arco ionico e che presenta caratteri similari negli aggregati tufacei di Matera come di Massafra, di Grottaglie come di Ginosa, di Crispiano come di Laterza, ha indotto a superare la visione settoriale, che nella storiografia precedente aveva fatto leva sulle chiese rupestri e sulla fioritura artistica di queste gravine, per riscoprire i valori corali del «vivere in grotte», definendoli come un consapevole modo di scelta esistenziale, in definitiva come un tipo di civiltà8. Su questa realtà, che è innanzitutto umana e sociale, autoctona e originale, si inserì, specialmente in concomitanza con la seconda colonizzazione bizantina, il monachesimo italo-greco. L’elemento monastico, allora, non va considerato come l’episodio preminente e onnicomprensivo di questa civiltà del vivere in grotte, ma come uno dei tanti fattori che concorse a determinare alcuni esiti sul piano artistico, spirituale e religioso nel contesto di tale civiltà. Comunque non è da trascurare la ricchezza di questo contributo, specialmente in relazione allo sviluppo di certi moduli mentali, di specifici influssi di cultura, di precise componenti di pensiero9. Questo processo di aggregazione sociale nelle gravine si esaurì gradualmente dal secolo XIV in avanti: concorse a determinarlo, per gli insediamenti rupestri del contado, la rottura della continuità del popolamento che segnò anche la crisi dell’organizzazione sociale, amministrativa e fondiaria e, per gli insediamenti urbani, l’affermarsi di una diversa cultura abitativa che approdò all’utilizzazione degli impianti rupestri in funzione delle successive costruzioni di case lamiate, case soprane, case palaziate, rendendo da quel momento discriminante, dal punto di vista sociale, l’abitare in grotte10. C.D. Fonseca, Civiltà e/o Cultura rupestre, in Id. (a cura di), Il passaggio dal dominio bizantino allo Stato normanno, cit., pp. 3-22. 9 V. von Falkenhausen, I monasteri greci dell’Italia meridionale e della Sicilia dopo l’avvento dei Normanni, in Fonseca (a cura di), Il passaggio dal dominio bizantino allo Stato normanno, cit., pp. 197-219. Cfr. H. Houben, Le istituzioni monastiche italo-greche e benedettine in questo volume, pp. 355-86. 10 Fonseca, «In Casali rupto»: una tappa della Civiltà rupestre meridionale (secc. X-XIV), in Fonseca, D’Angela (a cura di), Casalrotto I, cit., pp. 11-25. 8

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Ebbene, per lo studio di questo complesso fenomeno, che interessa in consistente e larga misura una parte non certo irrilevante del popolamento rupestre dell’area mediterranea, la storiografia precedente – da Diehl a Bertaux, dalla Medea a Prandi – aveva privilegiato le grotte di maggiore interesse architettonico e pittorico, le chiese rupestri appunto, per cogliere attraverso gli stilemi messi in atto dai lapicidi o dagli artisti vaganti quanto potesse essere rivendicato all’arte indigena italica e quanto dovesse essere definito tributo di Bisanzio nelle province limitrofe dell’impero11. Ben poco o meglio nessun interesse veniva riservato alla comprensione dell’habitat circostante, a coloro che avevano dimorato negli insediamenti rupestri e in funzione dei quali erano state scavate e decorate le stesse chiese in grotta. Si imponeva, quindi, la necessità di battere nuove piste di indagine, mettendo in sordina o utilizzando con diversa metodologia le testimonianze storico-artistiche custodite entro gli anfratti degli spalti dei valloni tufacei e di puntare, invece, sulla scorta delle fonti documentarie e narrative, alla comprensione del significato del paesaggio rupestre nel più ampio quadro del paesaggio sia naturale che agrario e urbano nel Medioevo12. L’analisi di tali fonti ha consentito di accertare quanto l’habitat rupestre dal tardo antico fino al XII secolo fosse integrato e non estraneo o alternativo o inferiore a quello urbano, come potrebbe indurlo a pensare il fenomeno del trogloditismo. E non soltanto per la Puglia, dove l’indagine sulle fonti, dalla Tabula Peutingeriana agli atti privati, ha fornito chiavi di lettura assolutamente insperate13, ma anche per la Sicilia, come è attestato da Paolo Diacono o dalle fonti arabe oppure

11 Ch. Diehl, L’art byzantin dans l’Italie méridionale, Paris 1894 (rist. anast. Roma 1967); E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale. De la fin de l’Empire romain à la conquête de Charles d’Anjou, 3 voll., Paris 1903; Aggiornamento, a cura di A. Prandi, 3 voll., Roma 1978; A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, vol. I, Roma 1939; A. Prandi, Arte in Basilicata, in V. Bosco et al., Basilicata, Milano 1965, pp. 231-52; Id., Aspetti archeologici dell’eremitismo in Puglia, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto – 6 settembre 1962, Milano 1965, pp. 435-56. Una messa a punto storiografica si può leggere in Fonseca, Civiltà rupestre in Terra jonica, cit., pp. 13-40. 12 Fonseca (a cura di), Il popolamento rupestre dell’area mediterranea, cit. 13 Id., Civiltà e/o Cultura rupestre, cit.

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dalle fonti bizantine, specialmente di quelle agiografiche o dallo stesso Goffredo Malaterra14. Ma, come è noto, per il Mezzogiorno d’Italia non si dispone di ricche seriazioni di atti privati per il Medioevo, a differenza delle altre aree centro-settentrionali della penisola, per cui è necessario e opportuno, oltre a insistere sul filone delle fonti medievali, allargare lo spettro alle fonti del periodo moderno, tenuto conto della sostanziale immobilità del quadro ambientale peninsulare in età preindustriale, come hanno dimostrato le comparazioni delle strisce di rilevamento fotoaereo effettuate prima del 1939 dalla RAF e successivamente dal ministero della Difesa della repubblica italiana15. 1. Civita e Sassi Il popolamento rupestre di Matera non può prescindere innanzitutto dalle dinamiche che caratterizzano i rapporti tra la Civita e il prospiciente altipiano murgico entro cui si inserisce (fig. 1). Quest’area dell’altipiano che degrada dolcemente verso l’Adriatico attraverso una successione di ripiani raccordati da modesti gradini morfologico-strutturali e che si affaccia sul Tavoliere, sulla fossa bradanica e sulla pianura messapica con ripide e spesso cospicue scarpate tettoniche, rappresenta la parte più aspra della Murgia. Incisa e interrotta da numerosi solchi di erosione fluviale, tra i quali assumono un significativo rilievo le «gravine», forre strette e profonde con pareti a picco o sub-verticali il cui corso si interrompe spesso con brusche 14 A proposito delle popolazioni indigene della Sicilia incalzate dagli eserciti dei barbari invasori, Paolo Diacono scrive che «per munitissima castra et iuga confugerant montes» (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, in MGH, Scriptores rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, p. 150). A sua volta Ibn-al-Atir riporta il saccheggio saraceno di Fortezza della Grotte (M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di C.A. Nallino, Catania 1933-39, p. 43). Goffredo Malaterra registra la spedizione di Roberto il Guiscardo e di Ruggero il Gran Conte in Sicilia del 1061, i quali «apud Sanctum Felicem, juxta criptas subterraneas, hospitati sunt» (De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius auctore Gaufredo Malaterra, a cura di E. Pontieri, in Rerum Italicarum Scriptores, t. V, pars I, Bologna 1927, p. 34). 15 Le strisce di rilevamento fotoaereo dell’arco ionico sono depositate presso la Biblioteca Violante dell’Istituto internazionale di studi federiciani del CNR-Castello di Lagopesole.

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Fig. 1. Matera, la Civita.

deviazioni e con anse irregolari, la Murgia alta, con i tre centri demici di Matera, Gravina e Altamura, offre significativi esempi del popolamento rupestre, con una perfetta aderenza dell’impianto al difficile andamento della superficie del suolo, con l’intimo adattamento delle singole unità abitative e di ogni sorta di manufatto alla roccia, con l’apprezzabile valore che il rapporto volumetrico tra vuoto e pieno spesso assume, con il susseguirsi e il sovrapporsi di innumerevoli grotte, consistenti tagli in roccia, cisterne, colmate ecc. Matera, autentica città troglodita, ben a ragione assume un ruolo di primaria rilevanza nell’ambito del fenomeno rupestre. Essa sorge lungo il torrente detto appunto Gravina di Matera, che iniziando nel territorio di Altamura, dopo un percorso ad anse, declina verso il Bradano a sud-est dell’altura di Montescaglioso16. L’esame degli aspetti geologici e geotecnici ha posto in significativo risalto come l’ubicazione di Matera – ma altrettanto va rilevato per gli altri principali centri rupestri medievali dell’area comprensoriale dianzi individuata – non è casuale, essendo stata imposta da alcuni 16 R. Demetrio, Il quadro ambientale, in Fonseca, Demetrio, Guadagno, Matera, cit., pp. 1-4.

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imprescindibili requisiti morfologico-strutturali, litologici, idrogeologici e geomeccanici assolutamente indispensabili per soddisfare le molteplici esigenze, non ultime quelle socio-economiche, degli insediamenti rupestri. La morfologia dell’habitat – coma hanno posto in risalto Vincenzo Cotecchia e Damiano Grassi – ha condizionato e quindi reso simili le caratteristiche strutturali e le modalità di sviluppo vuoi degli impianti rupestri vuoi di quelli che su di essi si sono successivamente innestati, spesso con una totale continuità di strutture. «La calcarenite, grazie alle sue doti di lavorabilità e alla generalmente buona resistenza meccanica che essa possiede sia intrinsecamente sia come ammasso roccioso fessurato, ha consentito sia la realizzazione di un impianto insediativo pienamente rispondente alle esigenze socio-economico-religiose e a spesso ardite (in senso geotecnico) soluzioni architettoniche sia all’impianto stesso di giungere sino a noi, pur attraverso molteplici vicissitudini»17. La delineazione dei campi semantici ai fini di un’interpretazione della terminologia geomorfologica mediterranea di cui disponiamo in età storica ha giustamente collocato al primo posto la nozione del riparo naturale, cioè la grotta o il riparo sotto la roccia: e a questo ambito ha ricondotto le voci «Murge» (terreno roccioso) e Mata (rupe, roccia), anche se il nome Matera è fatto derivare dalla forma medievale Materies (materia, legname)18. Comunque, si tratti del tema greco mata o meta nel significato di roccia, di cumulo di sassi o di materia nell’accezione di materiale ligneo così tipico dei boschi lucani, sta di fatto che il riferimento alla morfologia del paesaggio emerge con indubbia chiarezza. D’altra parte, l’anfiteatro naturale murgico documenta una presenza umana dal Paleolitico superiore fino all’Età del ferro, facendo 17 V. Cotecchia, D. Grassi, Aspetti geologici e geotecnici dei principali centri rupestri medioevali della Puglia e della Lucania, in Fonseca (a cura di), Habitat-strutture-territorio, cit., pp. 141-55. Cfr. anche D. Grassi, Evoluzione morfologica dei depositi calcarenitici quaternari in corrispondenza dei versanti vallivi della Puglia e della Lucania con particolare riferimento alla Gravina di Matera, in «Geologia applicata e idrologia», IX, 1974, pp. 232-55; V. Cotecchia, D. Grassi, Stato di conservazione dei «Sassi» di Matera (Basilicata) in rapporto alle condizioni geomorfologiche e geomeccaniche del territorio e delle azioni antropiche, ivi, X, 1975, pp. 257-88. 18 C. Santoro, Riflessi preistorici e storici nella terminologia geomorfologica relativa alla civiltà rupestre mediterranea, in Fonseca (a cura di), Habitat-strutture-territorio, cit., pp. 79 e 100-101.

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dell’invaso grottale l’elemento caratterizzante delle forme abitative. Le coordinate spaziali del primo insediamento umano di Matera fanno capo alla Civita, dove sono riscontrabili due elementi essenziali che favoriscono la stanzialità: l’inesplicabilità del sito, protetto dall’asperità dei terrazzamenti degradanti verso il fondo della valle, e l’approvvigionamento idrico, assicurato dal corso d’acqua defluente nell’alveo naturale della gravina. Se vi sia stata una continuità di vita nell’area della Civita dal Paleo­ litico sino ai secoli centrali del Medioevo non possiamo documentare con dati certi e con testimonianze irrefutabili; il periodizzamento della «vita in grotte» ipotizzato per altri siti rupestri, che vede una cesura tra la preistoria e l’inizio della colonizzazione magno-greca, quando le sedi demiche si spostano verso il litorale, e un successivo arretramento dei nuclei di popolazione nelle aree interne con una rifrequentazione degli stessi insediamenti rupestri dal V secolo d.C. in avanti, collegati ai motivi di insicurezza legati alla crisi dell’organizzazione politico-amministrativa romana e alle ricorrenti migrazioni degli eserciti invasori, per Matera pare si attagli pienamente e compiutamente: infatti l’arca della Civita non ha restituito materiali relativi alle fasi ellenistiche e romane19. Il fenomeno del popolamento rupestre, allora, non può non essere iscritto, comparativamente con altre situazioni similari, tra la fine del IX e l’inizio del X secolo in concomitanza con l’invasione araba della Sicilia e la seconda dominazione bizantina. Che poi elemento di aggregazione e di coesione dei nuclei indigeni possa essere stato il monachesimo greco è, più che un’ipotesi, un dato certo, anche perché le motivazioni che presiedevano le scelte religiose dei monaci entro contesti selvaggi e impervi rientravano nella spiritualità dei modelli monacali di ispirazione orientale, si tratti delle forme anacoretiche o di quelle esicastiche e lavriotiche; né va trascurato il significato «ideo­ logico» di cui veniva caricata la grotta considerata «recesso di demoni», ma anche spazio potenziale da destinare per il culto a Dio: i βίοι dei monaci italo-greci documentano questi processi e questi itinerari di esaugurazione degli invasi grottali20. Ma per l’area comprensoriale

19 R. Demetrio, Insediamenti preclassici e classici nell’area urbana, in Fonseca, Demetrio, Guadagno, Matera, cit., pp. 5-10. 20 C.D. Fonseca, L’habitat rupestre nelle fonti dei secoli X-XII, in Id. (a cura di), L’uomo e l’ambiente nel Medioevo. La letteratura politica nell’età dell’Illuminismo.

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che qui interessa va posto in risalto come l’influsso delle correnti culturali di matrice bizantina o latamente orientale non può considerarsi esaustiva e assolutizzante, anche perché un più approfondito esame degli stilemi storico-artistici e pittorici presenti nelle chiese rupestri ha rivelato influssi occidentali dando ragione alla tesi che assegna al territorio materano la funzione di cerniera tra le due aree culturali bizantina e longobarda; del resto, la possente fioritura di monasteri latini in età normanno-sveva rende ragione delle caratteristiche di quest’area al centro di civiltà a contatto21. 2. Evoluzione storica e tipologie abitative È ben nota la difficoltà di ricostruire le vicende del popolamento rupestre nel territorio di Matera e, in particolare, nell’area dei Sassi, per la dispersione del materiale documentario dell’età normanno-sveva nonostante quell’utile strumento del Regesto compilato da Giustino Fortunato22. Comunque, che i Sassi a cavallo della seconda metà dell’XI secolo fossero popolati in maniera peraltro consistente lo attestano sia Guglielmo di Puglia che Lupo Protospatario e gli Annales Beneventani a proposito della spedizione del generale bizantino Giorgio Maniace, il quale nel 1042 massacrò presso la città 200 contadini e non risparmiò nessuno, fossero fanciulli o vecchi, monaci o sacerdoti («puer aut vetulus, monachus atque sacerdos»)23. Non va peraltro trascurato che l’assorbimento nell’orbita normanna del territorio materano, prima con l’elezione di Guglielmo Bracciodiferro a conte di Matera nello stesso anno 1046, poi con il passaggio del titolo nel 1046 al fratello Atti del Convegno di studi polacco-italiano (Niebórow, 29 settembre-2 ottobre 1981), Galatina 1986, pp. 141-60. 21 D. Heissembuttel, Le chiese rupestri: aspetti iconografici e storico-artistici, in D. Giordano (a cura di), Oikoumene. Dalla memoria alla profezia. Atti del convegno storico ecumenico internazionale. Giubileo 2000, Matera-Picciano-Tricarico 23-27 febbraio 2000, Potenza 2002, pp. 114-30. 22 G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, vol. III, pp. 325 sgg. 23 Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard, a cura di M. Mathieu, «Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, testi e monumenti», 4, Palermo 1961, I, 455-460, pp. 122-24.

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Drogone, quindi, nel 1051 a Unfredo e, infine, nel 1064 a Roberto dei Loffredi, figlio di Petrone – una famiglia, questa dei Loffredi, che per un settantennio giocherà un ruolo importante non solo a Matera, ma nell’intero regno – consentì una solida stabilità politica e uno sviluppo notevole della città24. Ne costituisce un’eloquente riprova la rete dei monasteri, molti dei quali, dalla seconda metà dell’XI secolo, ubicati nei Sassi: a cominciare da quello benedettino maschile di Sant’Eustachio, dove nel 1092 soggiornò Urbano II25, al monastero rupestre femminile di Sant’Agata delle Malve, del quale si ha notizia nel 1092 negli Annales di Lupo Protospatario26, alla chiesa di San Pietro, certamente esistente tra XI e XII secolo e appartenente alla mensa arcivescovile di Acerenza27 (fig. 2). E che la presenza delle istituzioni ecclesiastiche fosse intensa e capillare all’interno di un più ampio ordito urbano che superava la Civita è attestato dalle carte del XIII e XIV secolo: si pensi, a puro titolo esemplificativo, alle «sex criptae parvae in saxo caveoso», «alle criptolae platearie», alle altre «criptae parvae» attestate rispettivamente in documenti del 1259, del 1268 e del 131428. Comunque è con il XIII secolo che crescono le informazioni relative alle grotte dei Sassi, in concomitanza con una stagione di sviluppo urbanistico e sociale che conosce alcune tappe significative: innanzitutto la definizione della capacità contributiva per quanto riguarda la manutenzione del castello, come si evince dallo Statutum de reparatione castrorum emanato da Federico II, che individuava negli «homines corporis civitatis Matere et Sassi Barisani eiusdem terre» quelli che dovevano provvedervi; inoltre l’elevazione nel 1203 dell’episco24 C.D. Fonseca, La città medievale (secoli VI-XIV), in Fonseca, Demetrio, Guadagno, Matera, cit., p. 16. 25 Lupo Protospatario, Annales, edidit G.H. Pertz, in MGH, SS, V, Hannoverae 1844, p. 62. Sulla data del soggiorno di Urbano II a Matera – 1092 e non 1093 – cfr. P. Dalena, Istituzioni religiose e quadri ambientali nel Mezzogiorno medievale, Cosenza 1997, p. 96. 26 Lupo Protospatario, Annales, p. 62. Cfr. Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, p. 187, nota 40. 27 Innocentii papae III Epistolae et privilegia, in Patrologiae Latinae cursus completus, edidit J.-P. Migne, Parisiis 1858, vol. CCXIV, c. 715. Cfr. N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien. I. Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfe des Königreichs, 1194-1266. 2. Apulien und Kalabrien, München 1975, p. 772, nota 5. 28 Dalena, Da Mottola a Casalrotto, cit., p. 42.

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Fig. 2. Matera, Chiesa di San Pietro Caveoso.

pio materano a sede arcivescovile, «aeque principaliter unita» con Acerenza, con l’erezione della nuova cattedrale; e poi la costruzione del palazzo arcivescovile avvenuta nel 1223 grazie alla concessione dell’abate del monastero di Sant’Eustachio, Nicola, che permetteva all’arcivescovo Andrea di effettuare i lavori in una parte del monastero abbandonato dai monaci in seguito a un terremoto29. Pietro Dalena – cui si devono penetranti ricerche sui documenti materani relativi al popolamento rupestre – ha giustamente posto in risalto la continuità del vivere in grotta dal XIII secolo in avanti individuando i proprietari delle cripte costituiti in larga misura dalle istituzioni ecclesiastiche e, in parte minore, dai ceti borghesi30; inoltre l’intensa attività di vendite, permute, alienazioni di queste cripte, di putei, di fovee man mano che emergevano nuove esigenze abitative in rapporto all’esercizio della cura animarum all’interno dei pittagi, cioè le strutture vicinanziali entro le quali si articolava l’ordito urbano sia 29 30

Fonseca, La città medievale (secoli VI-XIV), cit., p. 29. Dalena, Da Mottola a Casalrotto, cit., p. 42.

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Fig. 3. Matera, il Sasso Barisano.

dei Sassi che della Civita31; infine, la persistenza dell’uso della cripta con una diversificata funzione sia di deposito di cereali, sia di cantina che di unità abitativa autonoma, anche quando cominciarono a essere costruite case terranee e case palaziate in continuità e contiguità con esse32. Quanto al costo medio della cripta ad uso civile, esso rimane, almeno sino al XIV secolo, pressoché immutato in rapporto alle dimensioni e ai servizi tra 1 oncia e le 10 once d’oro rispetto a 1 oncia e 8 once d’oro della fine del secolo precedente33, anche se non irrilevanti accadimenti, come la peste del 1348 e l’inquieto clima di instabilità politica dovuto alle lotte tra i principi di Taranto e l’autorità regia, oltre alle cicliche calamità naturali, dovettero avere consistenti ripercussioni sulla crescita demografica della città34. È con il XV secolo che si registra sia una dilatazione dell’area dei Sassi, il Barisano (fig. 3) e il Caveoso (fig. 4), sia un miglioramento Ivi, p. 43. Ivi, p. 44. 33 Ivi, pp. 44-45. 34 Fonseca, La città medievale (secoli VI-XIV), cit., pp. 17-18. 31 32

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Fig. 4. Matera, il Sasso Caveoso.

delle condizioni economiche e sociali degli abitanti dei Sassi stessi. Ci si intende riferire innanzitutto all’immigrazione degli albanesi favorita da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, che si stanziarono ai margini delle Malve, nel Sasso Caveoso, dando vita a un nuovo nucleo insediativo rupestre detto Casalnuovo35 (fig. 5), e poi alla ripresa economica dovuta ad alcune favorevoli stagioni agrarie e, infine, al processo di integrazione politico-amministrativa scaturita dalla riforma dell’amministrazione comunale del 1464, che esprimeva paritariamente dieci consiglieri della Civita e dieci dei Sassi sotto il governo di un sindaco36. Questa decisa ripresa economico-sociale, se consentì uno sviluppo urbanistico che privilegiava più che la grotta le case costruite sia all’interno che sui bordi dei Sassi, determinò irreparabilmente il ruolo di marginalità delle strutture grottali a favore di una più generale tendenza ad abitare case palaziate, soprane e terranee. Significativo in proposito è un atto del 25 aprile 1455 in cui una «cripta cum pla35 Dalena, Da Mottola a Casalrotto, cit., p. 44. Sugli insediamenti albanesi in Basilicata cfr. P. De Leo, Immigrazioni albanesi tra Basso Medioevo ed Età moderna, in questo volume, pp. 348-54. 36 R. Giura Longo, Breve storia della città di Matera, Matera 1981, p. 73.

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Fig. 5. Matera, rione Casalnuovo.

teola» ubicata nel Sasso Barisano, nel vicinato della porta metelliana, risultava affittata ad Antonio Michele de Renzo per un censo annuo di due tareni di carlini d’argento37. Con questo non si intende sostenere una diaspora della popolazione dei Sassi, quanto piuttosto porre in adeguato risalto la diversificazione sociale degli abitanti delle strutture grottali, che permarrà inalterata sino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Del resto, sull’intensità abitativa dei Sassi a metà del Cinquecento fornirà una non sospetta testimonianza un domenicano bolognese, Leandro Alberti, il quale descriverà nel 1557 Matera come una città ricca e popolosa e posta parte in due profonde valli, parte «sopra gli alti luoghi che signoreggiano all’antidette valli», dando occasione agli abitanti di continuare una curiosa tradizione imposta dai «maggiori della città». Infatti, riferisce Alberti, il banditore, a «secondo che piace ai maggiori della città», comanda che «ciascuna famiglia di quelle due valli tramontato il Sole, incontinente dimostrino il lume avanti le 37

Dalena, Da Mottola a Casalrotto, cit., p. 49.

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lor case, dato il segno consueto. Onde così eseguito, pare a quelli che sono nella terza parte della città sopra il colle, di vedere sotto i suoi piedi il cielo pien di vaghe Stelle distinte in diverse figure»38. Un topos, questo del cielo stellato con l’individuazione delle diverse costellazioni all’interno dei siti rupestri, che dal tardo Quattrocento in poi ritroveremo ripetuto in altri contesti rupestri come, per esempio, per Massafra dall’umanista Elisio Calenzio e per Lentini da Tommaso Fazello39. 3. Il modello materano nell’area delle Murge e delle Gravine: l’omogeneità culturale L’omogeneità morfologica che abbiamo visto presente nella evoluzione dell’habitat materano si riscontra altresì nell’area delle Murge e delle Gravine; essa ha consentito che l’esigenza del «vivere in grotta», comune all’intera area mediterranea, trovasse l’ambiente fisico rispondente, «indispensabile per potersi realizzare compiutamente e con carattere unitario nello spazio e nel tempo»40. Si tratta ora di verificare come entro questo contesto sia rinvenibile e individuabile quella seriazione di elementi che autorizzi a parlare di «omogeneità culturale» nel senso più ampio che questa categoria storiografica comporta in rapporto all’esperienza storica di queste popolazioni nel lungo arco contrassegnato dall’incivilimento alla civiltà. Gli elementi che qui vengono assunti come significativi e pregnanti di questa omogeneità culturale sono i seguenti: innanzitutto il rapporto con l’habitat rupestre considerato nella globalità dei suoi valori; poi l’organizzazione dello spazio abitativo; infine i legami con il sacro espressi attraverso la destinazione degli spazi, la gestualità rituale e il vissuto religioso. Il rapporto con l’habitat rupestre, oltre che esigenza imprescindibile di adattamento dell’uomo allo spazio, è rivelato dalla sua consapevole accettazione come valore e come fatto né estraneo né inferiore L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venetiis 1557, f. 204r. Elisio Calenzio, Opuscola, Roma 1503. Cfr. B. Croce, I carmi e le epistole dell’umanista Elisio Calenzio, in «Archivio storico per le province napoletane», nuova serie XIX, 1933, pp. 248-79; T. Fazello, Storia di Sicilia, a cura di A. De Rosalia, G. Nuzzo, vol. I, Catania 1990, p. 194. 40 Cotecchia, Grassi, Aspetti geologici e geotecnici, cit., p. 144. 38 39

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ai modelli urbani, insomma come coscienza di una realtà insediativa che nella grotta trova il suo referente esistenziale. Nonostante le gravi perdite subite del materiale documentario appartenuto a Matera e al suo territorio, specialmente relativamente al periodo normanno-svevo, cui si è fatto cenno prima, è possibile dall’età angioina a quella aragonese constatare come il paesaggio rupestre assuma, nelle puntigliose e puntuali descrizioni notarili, una sua precisa funzione: insomma vi è la «coscienza» che si tratta di un insediamento umano strutturatosi e ormai accettato tra le forme di vita delle comunità medievali accanto agli insediamenti urbani. Per fornire solo un esempio varrà esaminare una carta di donazione del 10 marzo 1370 mediante la quale il miles Andrea Roncella di Napoli, ma residente a Barletta, donava al fratello, l’abate Luca, alcuni beni mobili e immobili che possedeva a Gioia del Colle e a Matera. Per Gioia oggetto della donazione sono grandi case con giardino («domos magnas in pluribus et diversis membris consistentes cum viridario retro ipsas domos sistente»), numerose case e altri beni il cui carattere «urbano» è incontestabile, tenuto conto, tra l’altro, che alcuni di essi sono ubicati «iuxta castrum» (il castello svevo), «iuxta moenia», «in casali dicte terre Johe», mentre per Matera si tratta di invasi grottali o di appezzamenti di terreni con grotte: item peciam unam terrarum in Matina Magna Matere cum cripte una dopne Alfarani cum puteis, iuxta vallonem magnum qui descendet in Johe [...] et iuxta terras que dicuntur de Vallata; item peciam unam aratoriam in eadem Matina Matere [...] vallone qui descendit versus Morsarum [...] cum quadam cripte [...] et versus silvas Aquavive cum quadam cripticula; item peciam unam terrarum in eadem Matina Matere cum criptalea una petris circumdate iuxta terras et criptaleam ab septentrione; item peciam unam terrarum in contrata Timari de eiusdem pertinenciis Matere iuxta viam qua itur a Gravina Milionicum ab oriente; item certas alias terras in Matinella prope sanctum Martinum cum certis locis et velut in Gravinam que in ibi pertransit via qua itur ad terram criptolarum; item certa casilia et loca vacua cum cripte una, fovea una et medietate u(sus) cisterne pro aqua cum quoclam loco sucterraneo et loco campesio supra eo in pictagio loci sancti Francisci de Matera, iuxta moenia dicte terre Matera41.

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Dalena, Da Mottola a Casalrotto, cit., pp. 60-63.

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Come è facile osservare, si tratta di due diverse realtà insediative, ma poste sullo stesso piano e che rivelano una cultura del popolamento tale da non porre né diaframmi né gerarchie tra i due sistemi: indice non trascurabile di una percepita omogeneità culturale. E sempre in tema di omogeneità culturale un altro elemento qualificante il modello materano nell’ambito dell’area della Murgia e delle gravine è costituito dall’organizzazione dello spazio abitativo (fig. 6). È chiaro che l’impianto dei Sassi, come quello degli altri insediamenti rupestri, si articola mediante una successione verticale di livelli in parte scavati, in parte costruiti, il cui numero varia in rapporto all’originaria conformazione e alle altezze del pendio calcarenitico: nel rione Le Malve i livelli sono soltanto tre, a differenza della Civita, dove l’articolazione dei livelli si dispiega da sei a nove. Ciò che conta rilevare è che il sistema di escavazione come di adattamento dello spazio accomuna culturalmente l’area materana a quella dei centri contermini, dove la cultura del criptas fodere è attestata dalla seconda metà del XII secolo42. Comunque, pur condizionata dall’andamento dei terrazzi fluviali nella escavazione delle grotte, l’organizzazione dello spazio segue precise regole che tengono conto del convogliamento delle acque, del sistema di comunicazione tra i diversi livelli, dei solchi di erosione torrentizia e via numerando. Quanto alla tipologia abitativa, pur variando da caso a caso in rapporto all’ammasso roccioso, si riscontrano almeno due abitazioni-tipo: la prima una casa-grotta dall’articolazione complessa ove la famiglia conviveva con un animale, l’altra una casa-grotta con camino43. Ultimo elemento di questa omogeneità culturale è il legame con la realtà del sacro, che risente indubbiamente delle spinte ideali e devozionali approdate attraverso le due grandi esperienze religiose e spirituali costituite da Bisanzio e da Roma. Tutto ciò ha influito non soltanto nell’elaborazione di un immaginario religioso, come vedremo estremamente composito, ma nel plasmare gli stessi invasi sacrali entro modelli riconducibili alle due differenziate matrici culturali. Comunque, per quanto concerne le planimetrie, si possono individuare almeno tre schemi fondamentali. Il primo riguarda gli invasi 42 43

Fonseca, La Civiltà rupestre in Puglia, cit., pp. 54-57. De Ruggieri, Gli insediamenti rupestri della Basilicata, cit., pp. 99-105.

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Fig. 6. Matera, rione Casalnuovo, case-grotte.

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sacrali a navata monoabsidata: è questa, molte volte, una forma arcaica rispetto a impianti più complessi e il suo schema, comune nei secoli IX-XI, rivela quasi certamente ascendenze greco-orientali. Il secondo schema si riferisce alle chiese rupestri a doppia navata biabsidata: è questa una forma abbastanza diffusa nell’ecumene bizantina mediterranea tra il X e il XII secolo. Il terzo schema comprende le chiese rupestri a tre navate triabsidate: in questo schema planimetrico si possono distinguere varie tipologie che rinviano, molto spesso, a una pianta di impostazione centrica44. Elemento comune alla maggioranza delle chiese in grotta è l’orientamento del loro asse secondo un ben preciso schema liturgico L’asse, infatti, ha sempre un andamento est-ovest, con le absidi poste verso oriente. Inoltre, l’impianto di questi luoghi di culto per la qualificazione del vano architettonico si dimostra molto spesso funzionale al rito greco, tenuto conto che la popolazione era in maggioranza di lingua e di tradizione greca. Elementi peculiari sono, in questo senso, l’iconostasi e le zone della pròthesis e del diakonikòn. L’iconostasi delimita nettamente il bema dal naòs e il setto litoide, che in queste chiese generalmente costituisce l’iconostasi, può presentare uno o più accessi. Ma in tema di tipologie delle chiese rupestri o dei luoghi adibiti a pratiche cultuali all’interno degli insediamenti non ci si può solo limitare agli impianti planimetrici, agli elementi di maggiore rilevanza architettonica, ma è necessario cogliere il complesso delle relazioni tra cripte e insediamenti sub divo, tra cripte e insediamenti rupestri nella loro globalità. Le esemplari ricerche di Filiberto Lembo in questo particolare e nuovo settore di indagine hanno dato risultati di grande interesse metodologico e storico specialmente per quanto riguarda l’area salentina e Casalrotto. A proposito di Casalrotto (ma la stessa tesi è sostenibile per Matera), Lembo ha evidenziato che il villaggio rupestre è la dimostrazione evidente dell’esistenza di una precisa e cosciente struttura insediativa di tipo urbano caratterizzata dalla stretta interrelazione fra unità con tipologia ben definita, interagenti mediante un tessuto connettivo funzionalmente strutturato in un’unità organica chiaramente organizzata. L’intero casale è concepito in un’ottica 44 F. Dell’Aquila, A. Messina, Considerazioni sull’architettura delle chiese rupestri del Materano, in Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri, cit., pp. 17-20; R. De Ruggieri, Le chiese rupestri, i santuari e gli asceteri, ivi, pp. 64-66.

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cittadina, da insediamento demico sub divo; in esso è agevole ritrovare la classica planimetria di un borgo medievale, sia pure costituito da unità edilizie scavate e non da unità edilizie costruite45. 4. I segni del territorio rupestre materano tra omogeneità culturale e funzioni sociali Se dall’area globalmente considerata si volessero con consapevole accentuazione estrapolare alcuni «segni» del territorio, spie significative dell’omogeneità culturale ma anche delle funzioni sociali che essi via via hanno assunto, non si potrebbe non far ruotare il discorso intorno a due nuclei di forte pregnanza simbolica: innanzitutto la terminologia geomorfologica rupestre e poi l’universo delle chiese in grotta. È stato giustamente rilevato come nella terminologia geomorfologica relativa alla civiltà rupestre mediterranea si possono cogliere «riflessi preistorici e storici», specialmente per quanto ci riguarda, nei documenti medievali (atti privati di donazione, compravendita, permute, testamenti ecc.), nelle carte d’archivio moderne (platee, visite pastorali, carte feudali ecc.), nell’indagine attenta e puntuale del terreno e della microtoponimia locale46. Ora, un primo sondaggio effettuato sulle carte medievali materane ci ha restituito una serie di toponimi di grande interesse: a parte Matera e Murgia, riflettenti formazioni da basi di origine mediterranea e romanza, vanno menzionati «Cupa» (strada tra due colline), «Laccu» (concavità, pozza d’acqua), «Carra» (roccia, sasso), ma anche Saxum, Cavea, Cripta, Petra ficta ecc. Tre toponimi, formazioni da basi di origine mediterranea, ci sembrano di particolare interesse: «Grava» (pietra, roccia, burrone largo e profondo), «Mala» (colle, roccia), «Matina» o «Matinella» (rupe, roccia), non trascurando che con il nome di «Matine» si indicano le colline che formano il sistema delle Murge; del resto, è stato opportunamente ricordato il verso di Orazio (Epod. XVI, 28) «Matina cacumina»47. Lembo, La struttura urbanistica, cit., pp. 187-96. Santoro, Riflessi preistorici e storici, cit., pp. 65 sgg.; Fonseca (a cura di), Il popolamento rupestre dell’area mediterranea, cit., pp. 7-238. 47 Santoro, Riflessi preistorici e storici, cit., pp. 77, 81, 85, 91, 97-101. 45 46

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Il secondo nucleo di questi «segni del territorio» è costituito dall’universo religioso consegnato nelle chiese rupestri. Le più recenti indagini hanno fornito un ampio elenco del fenomeno degli invasi grottali a destinazione religiosa sia di Matera che del suo agro, con l’indicazione degli affreschi, di cui peraltro sono state ipotizzate sia su similarità stilistiche sia su elementi agiografici sia, talvolta, su testimonianze documentarie, alcune convincenti proposte di datazione. Una ricerca condotta dal consorzio CIBAM nel 1990 ha fornito un elenco degli invasi grottali a destinazione religiosa, calcolato in 85 unità, di cui 40 nei Sassi e 45 nell’agro48, mentre quelle individuate complessivamente nei Sassi e nell’agro dal più recente repertorio del 1995 del Circolo La Scaletta risultano essere 155, di cui 143 ancora esistenti e 12 distrutte49. 5. Il popolamento rupestre nelle aree del «Mercurion», «Latinianon» e Vulture Se finora l’indagine sul popolamento rupestre ha privilegiato a buon diritto Matera per gli aspetti peculiari del suo habitat, per l’emblematicità della sua vicenda urbanistica, per la ricchezza dei segni che presenta, non vanno certamente trascurate le altre aree della Basilicata, dove il fenomeno della «vita in grotta» ha lasciato tracce significative e importanti. Ci si intende riferire al Mercurion, al Latinianon, al Vulture e a una serie di episodi in cui si registra una presenza di antri sacrali di non trascurabile valore. Cominciamo dalla zona del Mercurion, ubicata a ovest del monte Pollino, ai confini tra la Calabria e la Basilicata, e da quella del Latinianon, inserita nel medio corso del Sinni, caratterizzate, come dimostrano le ricerche di Houben50, da una massiccia presenza di monasteri bizantini. Qui interessa porre in risalto non tanto le vicende del monachesimo bizantino in Basilicata quanto gli aspetti dell’insediamento monastico legato all’utilizzazione delle grotte. San Nicola dei Greci, cit., pp. 25-27. Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri, cit., pp. 208-209. Cfr. anche M. Di Pede, La Chiesa di S. Maria della Valle a Matera. Storia, arte e fede in un santuario rupestre, Matera-Roma 2001. 50 H. Houben, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 163-69. 48 49

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In proposito diventano illuminanti due testi agiografici, l’uno relativo a san Vitale di Castronuovo, l’altro a san Luca di Armento. Nella Vita di san Vitale, morto nel 990 (la vita fu scritta in greco da un contemporaneo e tradotta in latino nel 1194)51, monaco del monastero siculo di San Filippo di Agira, si legge che, dopo aver raggiunto la Calabria «peragratis eremis, montibus et speluncis»52, si stabilì vicino Cassano «in monte qui dicitur Liporachi», dove incontrò l’abate Antonio, il quale «per eremos semper et montem» aveva condotto una vita casta e angelica53. Nelle sue peregrinazioni la scelta della grotta come sua dimora è costante: così sul monte Riparo in Basilicata («Hinc profectus ad montem, qui dicitur Raparus, contra castellum S. Quirici sua movit vestigia, ad quem dies aliquot iter faciens, loca dura et aspera peragravit, usque dum pervenit ad Cryptam S. Angeli de Drapono»)54; tra i monti di Torre e D’Armento («adiit valles inter duos montes Turris et Armenti, in quo loco speluncam reperiens, longis temporibus habitavit»)55; dopo il ritorno da Bari («ad speluncam unde venerat cum memoratis Patribus [cioè Ilario e Leonzio], gaudens et exultans in Domino, repedavit»)56. Nell’ultimo periodo della sua vita si ritirò vicino Rapolla in una grotta situata nei pressi di un fiume («ibi silvestrum nactus locum») peregrinando di giorno tra i monti («in die [...] montes [...] percurrebat») e immergendosi di notte nudo in un fiume gelato57. Lo raggiunsero i discepoli e diedero vita a una comunità monastica. Nel βίος di san Luca di Demenna o di Armento, morto nel 993 – era nato nell’923 –, l’ambiente rupestre fa da scenario alla sua esperienza religiosa e non soltanto nella «spelunca» di Sant’Elia lo Speleo­ ta ubicata presso Reggio Calabria, ma anche in Basilicata, dove peregrinò per «diversa [...] montana loca»58, tra i quali Armento «calabro autem idiomate rupes Armos appellatur», spostandosi «per asperas Armenti rupes»59. 51 G. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile et de l’Italie méridionale aux VIIIe, IXe et Xe siècles, in «Byzantion», XXIX-XXX, 1959-60, pp. 125-33. 52 Acta Sanctorum Martii, II, Parisiis et Romae 1865, pp. 26-35, in particolare p. 27. 53 Ibid. 54 Ivi, p. 28. 55 Ibid. 56 Ivi, p. 30. 57 Ivi, p. 32. 58 Acta Sanctorum Octobris, VI, Parisiis et Romae 1868, p. 310. 59 Ivi, p. 341. Cfr. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile, cit., pp. 142-46.

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Un’altra area dove il popolamento rupestre ha lasciato tracce non irrilevanti, tenuto conto della specificità dell’habitat su cui insiste, anche se le testimonianze pervenuteci attengono alle grotte di maggiore evidenza architettonica e pittorica, è il Vulture, dove i due monasteri di Sant’Ippolito e di San Michele Arcangelo presentano una indubbia facies che rinvia a insediamenti grottali. Tralasciando l’episodio di Sant’Ippolito di Monticchio, di cui si sono conservati i ruderi dell’impianto cenobiale che risalgono ai secoli XI-XII60, converrà fermare l’attenzione sulla cripta della badia di San Michele che, secondo Bertaux, venne consacrata nel 1059 da Niccolò II in occasione del famoso sinodo di investitura dei Normanni61. Di una presenza di cosiddetti «monaci basiliani» stanziatisi anteriormente all’avvento dei Benedettini con l’immancabile ricorso al topos delle migrazioni intervenute dopo l’editto sull’iconoclasmo, fa menzione Giustino Fortunato, ma, come è noto, si tratta di una tesi storicamente insostenibile. Se immigrazione di comunità di monaci siculo-greci o calabro-greci ci fu in questa zona, essa è legata alla pressione degli Arabi, che portò a una migrazione dalla Sicilia verso le aree interne. Comunque ciò che rimane dell’originario impianto monastico è la cripta a pianta quadrata, con la seriazione dei nove affreschi allineata per triarchie sulle tre pareti della grotta: nel fondo il Pantocratore con la Dèesis (la Vergine e il Battista), sulla destra e sulla sinistra figure di santi di difficile lettura; sulla volta campeggia un’aquila nimbata che porta «un rotolo nel becco curvo», simbolo verosimilmente dell’evangelista Giovanni. Una plausibile collocazione di questi affreschi in un ambito di chiara influenza bizantina è costituita dalle scritte esegetiche in greco della Dèesis e dall’influenza sul piano stilistico dell’arte provinciale di Bisanzio62. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 195. E. Bertaux, I monumenti medievali della regione del Vulture, in «Napoli nobilissima», VI, 1897, pp. i-xxiv; G. Fortunato, La badia di Monticchio, Trani 1904; P. Vivarelli, Problemi storici e artistici delle cripte medievali nella zona del Vulture, in Studi lucani. Atti del Convegno di storiografia lucana, Montalbano-Matera 1972, Galatina 1976, p. 337; A. Grelle Jusco (a cura di), Arte in Basilicata, Roma 1981, p. 20. 62 R. Villani, Pittura murale in Basilicata dal Tardo Antico al Rinascimento, Potenza 2000, p. 23. 60 61

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La tesi dello stanziamento di monaci cosiddetti basiliani anche nel Melfese anteriormente alla diffusione del monachesimo benedettino è stata ripetuta per due delle dieci chiese rupestri vulturine, quelle di Santa Margherita e di Santa Lucia a Melfi, anche se non si registra alcun riferimento documentario riguardante sia l’habitat che gli invasi sacrali63. Pertanto, in questi due casi il discorso più che sul popolamento rupestre va incentrato su quei tratti caratterizzanti che rinviano a una koinè in cui diventano concorrenti e compresenti elementi stilistici, agiografici e culturali di tradizione orientale e occidentale, constatabili peraltro sia negli impianti architettonici che nel corredo pittorico parietale. Si pensi per Santa Margherita all’articolazione dell’ampio invaso sacrale scandito in due parti coperte da volte a crociera a sesto acuto e circondata da quattro cappelle con volte a botte, provvisto di due altari, di subsellia e di un apparato decorativo che nei cicli agiografici rinvia in larga misura a imprestiti afferenti a Bisanzio (San Michele Arcangelo, Madonna in trono con Bambino, San Giovanni Evangelista, Santa Margherita, San Giovanni Battista, Cristo in trono, San Benedetto, Santa Lucia e Santa Caterina, San Basilio e San Vito, San Guglielmo e Santa Elisabetta, Sant’Orsola, San Paolo, Santa Margherita con otto storie della sua vita, San Pietro e, infine, il Cristo Pantocratore con due angeli e, in più ridotti esempi all’Occidente, Contrasto dei vivi e dei morti, il Martirio di Sant’Andrea e il Martirio di San Lorenzo)64. La cripta di Santa Lucia, scoperta da Bertaux nel 1897, è situata tra i comuni di Melfi e Rapolla ed è costituita da un avancorpo in muratura e da una grotta contigua scavata nel tufo vulcanico di cospicua lunghezza, che si presenta monoabsidata e nella parete di fondo scandita da una serie di affreschi di chiara intonazione bizantina, come la Madonna con Bambino, le storie di santa Lucia e l’immagine dell’abate committente in ginocchio e a mani giunte. Un’iscrizione latina sovrasta tali dipinti, di difficile lettura, ma che, quanto alla data, ha fatto avanzare una ipotesi di lettura: 129265. Ivi, pp. 53-65. P. Vivarelli, Pittura rupestre dell’alta Basilicata. La cripta di Santa Margherita a Melfi, in «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Âge-Temps Moderns», LXXXV, 1973, pp. 547-85. 65 Bertaux, I monumenti medievali, cit., p. v; P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, Firenze 1986, p. 169; Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., pp. 60-67. 63 64

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Ora, a considerare la pittura parietale dispiegata in questi invasi sacrali non soltanto nei suoi aspetti decorativi, ma anche nei suoi elementi iconografici, emergono alcune considerazioni: innanzitutto il carattere essenzialmente devozionale di questi affreschi, dipanantisi all’interno di una dimensione sacrale e, pertanto, soggetti a processi politico-religiosi legati alla mentalità del committente o del fruitore e, in ogni caso, ancorato ostinatamente a un costume inveterato connesso al rapporto dell’uomo con il sacro66. Inoltre, la compresenza di aree cultuali di differente matrice religiosa articolate in almeno quattro nuclei agiografici fondamentali: l’uno fortemente legato alla tradizione romano-occidentale, l’altro ancorato saldamente all’ecumene bizantina, il terzo collegato al fenomeno crociato, il quarto, infine, inserito in un ambito devozionale locale. Si pensi, per esempio, per il primo nucleo al ciclo apostolico (san Pietro, san Paolo, sant’Andrea, san Giacomo, san Giovanni evangelista) o a quello legato all’obbedienza romana, come san Lorenzo e san Sebastiano; si considerino i cicli costantinopolitani, antiocheni o alessandrini, come quelli di santa Margherita, santa Caterina, san Gregorio, san Simeone, sant’Apollonia, san Pantaleone, santa Barbara, santa Lucia; si esamini il nucleo dei santi guerrieri, a cominciare da quello, frequentissimo, di sant’Eustachio, per finire a quello di san Giorgio, collocabile nell’ambito di quella cultura devozionale crociata che tante tracce ha lasciato sulla religiosità popolare; si consideri, infine, il culto dell’arcangelo Michele alla confluenza delle due esperienze, longobarda e bizantina, o quello di san Nicola sullo sfondo delle numerose leggende nicolaiane fiorite intorno alla traslazione delle reliquie da Mira a Bari, oppure il culto dei vari protettori delle corporazioni, primo fra tutti sant’Eligio, patrono dei maniscalchi, cioè di una categoria che ha un ruolo essenziale nel quadro di un’economia rurale entro la quale si colloca la stessa vita in grotte. Un rilievo particolare assumono i cieli agiografici interconnessi con la presenza del monachesimo sia di matrice orientale che occidentale, l’uno legato al filone eremitico, l’altro a quello cenobitico: si pensi alla ricorrente iconografia di sant’Antonio abate e a quella, meno 66 R. Grégoire, Il santorale delle chiese rupestri, in Giordano (a cura di), Oikoumene, cit., pp. 131-40.

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frequente ma pur sempre attestata, di san Benedetto, santa Scolastica, san Martino di Tours, san Nilo di Rossano, san Leonardo. Aree agiografiche, elementi cultuali, incidenze devozionali, aspetti liturgici: tutto questo rinvia, senza alcun dubbio, alla «cultura religiosa», al tipo di pietà popolare espressa dagli abitanti delle grotte, pur mediata, come abbiamo visto, da diversi e differenti canali. Si pensi, in questo specifico settore, alle finalità didascaliche che assumevano gli affreschi delle chiese rupestri in una società dove gli illetterati costituivano la gran massa. È pur vero che nella pittura rupestre prevalgono gli affreschi iconici rispetto a quelli ciclici (chiaro indizio di un orientamento devozionale della pietà popolare), anche se non mancano esempi di raffigurazione di scene del Nuovo Testamento (l’unico esempio di raffigurazione dell’Antico Testamento che si conosca è quello della Grotta del peccato originale di Matera, dove sono visibili alcuni frammenti del ciclo della Genesi: Dio separa la luce dalle tenebre, la creazione di Eva, la cacciata dal paradiso terrestre), come l’Annunciazione che si trova nelle chiese rupestri di San Giovanni in Monterrone, della Madonna de Idris, degli Evangelisti (Granulare), di Cristo La Gravinella (San Pardo Gravinella), della Madonna delle tre porte (Murgia Timone), di Cristo La Selva (Contrada Cozzica), di San Nicola dell’Annunziata (Parco dei Monaci), di Santa Lucia alla Gravina (Gravina-Santa Lucia), della seconda chiesa a San Martino (San Martino); la Strage degli Innocenti presente in Santa Maria La Palomba (La Vaglia Palomba); l’Epifania rappresentata in Santa Lucia alla Gravina (Gravina-Santa Lucia); la Crocifissione ampiamente raffigurata in Madonna de Idris (Sasso Caveoso); Madonna delle Virtù (Civita); San Nicola dei Greci (Civita); Santa Maria della Valle (La Vaglia Palomba); Santa Maria della Palomba (La Vaglia Palomba); Madonna delle tre porte (Murgia Timone); seconda chiesa a Chiancalata (Chiancalata); Cristo La Selva (Lamaquacchiola); Santa Lucia alla Gravina (Gravina); seconda chiesa a San Martino (San Martino); la Deposizione dalla Croce documentata in Santa Lucia alle Malve (Sasso Caveoso) e nella chiesa rupestre di Santa Lucia del Vulture. E da questo tipo di raffigurazioni non vanno disgiunte le immagini del Pantocratore (San Giovanni in Monterrone; Santa Lucia al Bradano), della Dèesis (Santa Maria della Valle), della Vergine: dal modello più comune della Odegitria (San Giovanni Monterrone, Madonna de Idris ecc.) ai modelli della Galaktotrophoùsa (Santa Lucia

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alle Malve), della Kyriòtissa-Madonna delle croci fino alla scena dell’incoronazione della Vergine (Santa Lucia alle Malve). Ma tutto questo rinvia anche a programmi decorativi, a modelli iconografici, a stilemi artistici, a una cultura figurativa che, proprio perché si poneva in stretta connessione con il soddisfacimento di un bisogno vitale dell’uomo, quale è quello religioso, doveva adeguarsi alla capacità di lettura sia dei committenti che dei fruitori. Insomma, la richiesta di immagini e la conseguente risposta degli artisti impegnati a realizzarle possono darci la misura delle eredità culturali alle quali, consapevolmente, partecipavano gli abitatori delle grotte. In definitiva l’insediamento rupestre – e quindi la condizione stessa della «vita in grotte» – non aveva costituito l’elemento di rottura con la generale abitudine visiva a schemi iconografici e a moduli architettonici di tradizione più propriamente urbana; anzi, l’insieme di codeste manifestazioni artistiche rivela in maniera irrefutabile la continuità di un discorso culturale comune all’intera area mediterranea e rende gli abitatori delle grotte non estranei, ma strettamente partecipi della medesima vicenda storica delle comunità urbane del Mezzogiorno d’Italia.

BORGHI NUOVI E CENTRI SCOMPARSI di Antonella Pellettieri È certa tradizione che la città di Satriano sia stata distrutta e adeguata al suolo da Antonio o Placone de Riccardis e da Meluzio Guarniero, marito di Bartolomea, figliuola del primo, entrambi delle famiglie più distinte della città di Campagna, e che la cagione ne fosse la seguente: mentre il detto Antonio, guerriero (soprannominato Bianco) familiare della regina Giovanna, e il detto suo genero Meluzio conducevano una certa Damigella alla predetta Regia Maestà, dimorante allora nella città di Aversa, della terra di Terlizzi, e attraversando il tenimento della Città di Satriano, alcuni cittadini di detta Città, indotti dalla smodata concupiscenza di lor libidine e dalla esimia bellezza della nominata Damigella, strappatala con violenza dalle mani dei predetti militi, la deflorarono. I quali militi, dopochè, così per forza violata, adoperando, quanto era in essi, e forza, ingegno, industria e arte, la ebbero ricuperata, lasciando la stessa Damigella affidata a’ loro congiunti nella Città di Campagna, dove erano due o tre coorti di soldati, in nome della suddetta Regia Maestà ordinarono che la nominata città di Satriano fosse smantellata e desolata. Distrutta la quale città, si recarono con la summentovata Damigella presso la suaccennata Regia Maestà, esponendole le surricordate scelleraggini commesse da’ suddetti cittadini della Città di Satriano, a disdoro della sua Regia Corte, nonché l’esterminio fattone dallo stesso Antonio e Meluzio di lui genero, per vendicare la enormità di così gran delitto commesso. A cagione della cui reità meritarono la reale grazia1.

Così Giuseppe Spera, nel 1886, descriveva l’abbandono e la distruzione della sua città attribuendone le cause a un assalto militare che rase completamente al suolo l’antica Satrianum. Lo stesso Spera 1 G. Spera, Monografie storiche. L’antica Satriano in Lucania con documenti inediti. La mente di Gregorio VII, Badia Benedettina di Cava dei Tirreni 1886, pp. 50-51.

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dice di avere visto il manoscritto nel quale era riportata la descrizione sopra menzionata in lingua latina, che egli però ci tramanda in italiano. Di questo manoscritto, seppure cercato in diversi archivi, non è rimasta nessuna traccia: la notizia, pertanto, oggi non può essere avallata da nessun documento né si ritiene possibile attribuire l’abbandono di Satrianum a un assalto armato. Infatti, non va dimenticato che questo centro demico aveva una sede vescovile di antica origine e che la sua ubicazione era alquanto strategica in quanto a valle della cittadina passava la strada che permetteva di raggiungere nella maniera più agevole la Puglia partendo dal Vallo di Diano e viceversa. La contrada Forestieri, toponimo ancora oggi esistente, nel solo nome tradisce la presenza di un tratto viario molto frequentato, che nelle carte antiche è riportato con il nome «Trazzera degli stranieri». L’abbandono di questo centro avvenne, quasi certamente, per cause improvvise se la sede diocesana fu trasferita subito dopo il 1430, data della presunta distruzione, a Sant’Angelo le Fratte e nel 1525 soppressa e unita alla diocesi di Campagna2. Anzi la scomparsa del centro abitato e la soppressione di questa sede diocesana provocarono alla Basilicata la definitiva perdita di una porzione di territorio, il Vallo di Diano e una parte del Cilento, che da allora incominciarono a gravitare in area campana3. Questo spiega il motivo per il quale l’abbandono di un sito spesso sconvolge completamente il territorio che lo ospitava e ne fa mutare profondamente tutte le specificità politico-geografiche e socio-economiche. L’abbandono di un centro demico quasi mai avvenne per ragioni militari: queste scomparse nascondono cause molto più profonde che, spesso, la memoria popolare trasforma in leggende ricorrendo anche all’aiuto di famosi episodi mitologici, paragonando, come nel nostro caso, la distruzione di Satrianum a quella di Troia e trovandone la causa in una donna che crea discordie e disordini. Il tema dei villaggi abbandonati, infatti, spesso registra nelle traA. Pellettieri, Satriano, in Cattedrali di Basilicata, Avigliano 1995, pp. 87-90. N. Masini, A. Pellettieri, M.R. Potenza, Satriano: città fortificata, in C.D. Fonseca (a cura di), «Castra ipsa possunt et debent reparari». Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 779-86. 2 3

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dizioni popolari alcune suggestioni che sono state definite «fantasie erudite»; «in più di un caso, si scopre che da un lato l’ingenua voce del popolo ha ricevuto conferma e approfondimento dall’erudizione locale, mentre d’altro canto, non meno frequentemente, si è verificato il caso inverso, quello cioè di suggerimenti eruditi raccolti e fatti propri dalla fantasia collettiva»4. Una distruzione improvvisa o violenta spesso fu causata da fenomeni naturali come i terremoti o le frane, perenni nemici del territorio lucano, o da epidemie che finiscono con il fiaccare completamente centri che si trovavano già in situazioni di regresso economico e di calo demografico. La scomparsa lenta ma inesorabile di altri siti va, invece, attribuita in linea di massima a quelle oscillazioni e fluttuazioni che ciclicamente interessano la storia del territorio, né va dimenticato che alcuni di questi piccoli insediamenti risorgono dopo qualche secolo rispondendo a nuove esigenze dovute alla crescita della popolazione, a una nuova politica territoriale dei governi, a una diversa diffusione degli insediamenti sparsi. Altri, invece, scompaiono definitivamente, non lasciando, in molti casi, nessuna traccia architettonica; la loro memoria rimane nascosta in qualche antico documento e spesso si trova racchiusa solo in un semplice toponimo. Sicuramente non deve essere dimenticato che «il tema sedi abbandonate non ha molto significato se lo si isola dal suo naturale contesto: il popolamento, le strutture agrarie, i rapporti città-campagna»5. 1. La crisi alto-medievale e i centri di età classica La Basilicata in età tardo-imperiale era attraversata da tre importanti assi viari: a nord e a sud la via Appia e la via Popilia la attraversavano da ovest a est lambendola solo marginalmente; la via Erculia era l’unica importante direttrice viaria, che attraversando l’Appennino collegava l’area sud-ovest della regione con il versante

4 A. Settia, Villaggi abbandonati: mentalità popolare e fantasie erudite, in Tracce del Medioevo. Toponomastica, archeologia e antichi insediamenti nell’Italia del Nord, Torino 1996, pp. 171-91, in particolare p. 171. 5 M. Quaini, Geografia storica o storia sociale del popolamento rurale?, in «Quaderni storici», 24, 1973, p. 714.

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nord-est6. Dopo la caduta dell’impero romano e per lungo tempo non si costruirono nuove grandi strade e si continuarono a utilizzare le vecchie arterie consolari, le uniche che permettevano ancora i collegamenti. Le colonie romane nascevano su questi tronchi stradali e rappresentavano i nodi cruciali di un articolato reticolo di infrastrutture che avviluppavano l’intero territorio. Con il crollo definitivo dell’impero, nel V secolo d.C., anche le città attraversarono un forte momento di crisi, che in molti casi portò alla scomparsa di alcune di esse principalmente perché era venuta meno la funzione che era stata svolta dalla stessa città. Alcuni centri abitati della Basilicata, come Venosa, Potenza e Grumentum, che in età imperiale avevano vissuto il momento di maggior splendore economico e sociale, incominciarono un lento e inesorabile declino. A Venosa gradualmente la città si restrinse in una nuova cinta muraria abbandonando nel giro di pochissimo tempo il pianoro su cui sorgevano le terme e l’anfiteatro, luoghi che fino ad allora avevano rappresentato il fulcro della vita cittadina7. A Potenza l’insediamento urbano si arroccò nel vecchio castrum romano e solo con l’arrivo dei Normanni la città conobbe una nuova espansione8. Diverso il destino di Grumentum, che, al contrario di Venosa e Potenza, non riuscì a sopravvivere e nel corso del IX secolo era già completamente disabitata9. È molto probabile che la posizione geo­grafica di questa colonia romana non rispondesse più alle nuove esigenze abitative del momento; in questo periodo, infatti, gli abitati sommitali erano i più adatti a garantire sicurezza e vivibilità alla popolazione, continuamente minacciata da attacchi militari e da nuove invasioni. 6 R.J. Buck, The Via Herculia, in «Papers of the British School at Rome», XXXIX, 1971, pp. 66-87; Id., The Ancient Roads of Eastern Lucania, ivi, XLII, 1974, pp. 46-67; Id., The Ancient Roads of Southeastern Lucania, ivi, XLIII, 1975, pp. 98-117. 7 M. Salvatore, L’incidenza urbana e sociale del Cristianesimo, in Id., Il museo archeologico di Venosa in età tardoantica ed altomedievale, Matera 1991, p. 278; M.L. Marchi, M. Salvatore, Venosa, «Città antiche in Italia», Roma 1997. 8 A. Pellettieri, La città medievale, in A. Buccaro (a cura di), Potenza, Roma-Bari 1997, pp. 15-36. 9 L. Giardino, L’abitato di Grumentum in età repubblicana: problemi storici e topografici, in Basilicata. L’espansionismo romano nel sud-est d’Italia. Il quadro archeologico, Venosa 1990, pp. 125-57.

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Né l’essere il perno di un reticolo viario molto importante10 salvò Grumentum dalla decadenza, né la presenza di una sede vescovile riuscì a fermare il suo irreversibile destino. Anzi la scomparsa della diocesi, prima dell’arrivo dei Longobardi, fu il primo segnale di questa crisi; quando i Normanni, con la fondazione del regno, lo organizzarono, diedero nuovo impulso alle vecchie sedi diocesane e ne fecero erigere molte altre. Allora Grumentum era già spopolata: la diocesi fu spostata a Marsiconuovo, un insediamento demico che distava pochi chilometri dal centro ormai disabitato11. L’unica fonte che abbiamo a disposizione per conoscere gli avvenimenti di questo centro anteriori all’anno Mille è un testo agiografico che narra la vita di san Laviero12. La seconda parte di questa agiografia è datata fra il XIV e XV secolo e risulta pertanto poco attendibile rispetto alla prima parte, che fu redatta nel 1162. In essa viene descritta una prima distruzione della città ad opera dei Saraceni che avvenne sotto il pontificato di Giovanni VIII, e cioè tra gli anni 872 e 882. A causa dell’assedio sia i cittadini sia il vescovo si trasferirono nei centri viciniori abbandonando Grumentum. Subito dopo la distruzione questo centro verisimilmente venne ricostruito, ma nuovamente distrutto dai Saraceni probabilmente negli ultimi anni del IX secolo. A questo punto gli abitanti si trasferirono in maniera definitiva ad castrum Arae Saponae, l’odierna Grumento Nova, centro fondato sotto il pontificato di Agapito II. Anzi nel 1790 sembra fosse ancora possibile leggere una lapide posta dietro la sagrestia della chiesa collegiata che attribuiva la nascita di questo nuovo insediamento all’anno 95413. Nel manoscritto si dice che gli abitanti di Grumentum si spostarono a Saponara sotto il pontificato di Leone VIII, tra il 963 e il 965, pochi anni dopo la nascita del nuovo centro. La sede diocesana grumentina venne, invece, trasferita a Marsiconuovo, anche se nel 1095 il vescovo appare con il titolo di episcopus civitatis Marsensis

Id., La viabilità nel territorio di Grumentum in età repubblicana ed imperiale, in Studi in onore di Dinu Adamesteanu, Galatina 1983, pp. 195-217. 11 A. Pellettieri, Ubicazione e dedicazione delle cattedrali lucane dalle origini al XII secolo, in A. Pellettieri, N. Masini (a cura di), Città cattedrali e castelli in età normanno-sveva: storia, territorio, tecniche di rilevamento. Miscellanea in onore di Cosimo Damiano Fonseca, in «Tarsia», X, 19, 1996, pp. 31-48. 12 G. Racioppi, L’agiografia di S. Laviero del MCLXII, Roma 1881, pp. 110-21. 13 F.S. Roselli, Storia grumentina, Saponara di Grumento 1790, pp. 99-100. 10

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sedis Grumentine14 e nel 1097 episcopus sancte sedis Grumentine de civitate Marsico15. In una bolla del 1123 di papa Callisto II, il presule Leone veniva ancora designato come vescovo di Grumento16. La confusa situazione qui esposta mostra come in questo periodo era in atto una completa riorganizzazione del territorio; molti vecchi centri romani non avevano più i requisiti idonei per sopravvivere per la cessazione di quelle funzioni che avevano costituito la loro principale ragione d’essere; altri, invece, si restrinsero nelle cinte murarie cercando di riutilizzare gli edifici pubblici di età romana per nuovi scopi più urgenti e dopo periodi di abbandono più o meno prolungati videro il ritorno degli abitanti e ripresero vigore in concomitanza con la generale ripresa economica dell’XI secolo; altri ancora nacquero spontaneamente sulla sommità dei monti accogliendo spesso gli abitanti di vecchi insediamenti posti in zone pianeggianti ormai non più sicuri per i continui saccheggi e devastazioni e anche per la malaria causata dall’impaludimento di molte aree ormai non più coltivate. Né la creazione di questi nuovi centri garantiva condizioni di vita adeguate: in essi mancavano completamente le strutture primarie e così allo scoppio delle ricorrenti epidemie finivano per essere decimati interi villaggi spesso a causa della completa ignoranza delle norme igieniche più elementari. Per esempio l’acqua veniva conservata nelle cisterne e stagnava lì per molti mesi: l’epidemia era inevitabile così come inevitabile era il conseguente abbandono di questi piccoli centri demici che non avevano radici ben consolidate. 2. I nuovi borghi e la rinascita normanno-sveva L’arrivo della gens normannorum trasformò completamente gli assetti insediativi del Mezzogiorno medievale. Il paesaggio mutò quasi all’improvviso: fra le foreste della regione lucana, che la ricoprivano quasi per l’80 per cento, la popolazione si diffuse a macchia d’olio faRacioppi, L’agiografia di S. Laviero, cit., p. 154. Ivi, p. 156. 16 P.F. Kehr, Regesta pontificum romanorum, vol. IX, Samnium-Apulia-Lucania, Berlin 1986, p. 458, nota 10. 14 15

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cendo nascere tanti piccoli casali il cui polo d’aggregazione fu sovente rappresentato da una chiesa, da un monastero, ma spesso anche da una struttura fortificata, come una torre e in alcuni casi un piccolo castello17. Il fenomeno dell’incastellamento delle campagne meridionali provocò la concentrazione e il raggruppamento della popolazione nell’orbita di questi nuovi castra; intorno a un castello o a un borgo fortificato si erano venute a creare le ragioni di esistenza e sopravvivenza della popolazione contadina18. A Venosa la cattedrale fu spostata all’interno della cinta muraria, all’estremità opposta del decumano maggiore sul quale sorgeva il primo edificio episcopale19 sull’area dell’attuale castello. Un caso particolare di spostamento di cattedrali avvenne a Tursi. La diocesi tursitana rientrava in quell’organizzazione ecclesiastica dell’Italia bizantina e fra tutti i vescovadi greci fu quella che ebbe più successo per la maggiore presenza di monasteri greci prenormanni in questa porzione di territorio lucano20. Con la latinizzazione di tutte le diocesi greche volute dai Normanni, anche a Tursi toccò questa sorte: anzi la sede diocesana fu trasferita a 10 km di distanza in una località denominata Anglona21. È facilmente desumibile che ad Anglona fosse presente una minima struttura urbana, anche se Anglona non arrivò mai a sostituire Tursi, 17 B. Figliuolo, Le fondazioni nuove in Italia meridionale in età normanna, in R. Comba, A. Settia (a cura di), I borghi nuovi. Secoli XI-XIV, Cuneo 1993, pp. 101-13. 18 P. Toubert, La terre et les hommes dans l’Italie normande au temps de Roger II. L’exemple campanien, in G. Musca (a cura di), Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II. Atti delle terze giornate normanno-sveve (Bari, 23-25 maggio 1977), Bari 1979, pp. 57-58; si segnala anche il contributo di P. Jones, Italy, in Storia economica Cambridge, Milano 1976, vol. I, in particolare p. 478, in cui l’autore precisa: «continuò a prevalere l’abitudine di vivere in villaggi (casali) o in grossi centri agricoli (borghi, “terre”, o Bauernstadte dei moderni geografi tedeschi), perché, sui campi aperti e sui pascoli che tanta parte della superficie occupavano nel sistema del Feldgraswirtschaft, la manodopera era composta da semplici stagionali e le aziende erano soltanto temporanee; esistevano invece aziende stabili, coltivate senza discontinuità, solo sui minuscoli appezzamenti a vigneto o altre colture del genere, compresi entro il recinto del villaggio». 19 Pellettieri, Ubicazione e dedicazione, cit., pp. 38-39. 20 V. von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona in epoca normanno-sveva terra di incontro tra Greci e Latini, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 27-36. 21 Ibid.

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che rimase un centro demico di dimensioni maggiori, come si evince dalla Generalis subventio angioina del 1276. La documentazione ci parla di un castrum ecclesiae, volendo in questa maniera farci intendere che il borgo di Anglona nacque e si sviluppò solo ed esclusivamente in funzione del pregevole edificio sacro22. Un nuovo impulso al ripopolamento di questa zona fu dato anche dai monasteri di origine greca che nascevano in questa zona, ma anche dalla famiglia Chiaromonte, feudataria di quelle contrade. Molti di questi monasteri sia greci che latini passarono alle dipendenze di Cava dei Tirreni: tutti i monasteri greci furono sottoposti alla giurisdizione dell’archimandrita del monastero di Carbone23. Un piccolo gruppo di documenti ci informa sui nuovi villaggi sorti intorno a questo monastero24. Del 1151 è l’atto di fondazione di Tramutola: Alessandro, signore di Marsico, concesse il permesso «quoque ut in tenutis monasterii usque duodecim casatas hominum hospitari ad habitandum annuentes, monachos ipsius monasterii et homines quos ad habitandum permistimus de silvis, aquis, pascuis castelli nostri sicut ceteros homines nostros iuxta rationem utilitatem habere»25. Il nuovo centro che sorgeva intorno alla chiesa di San Pietro, dipendenza di Cava, già contava un ospizio per i monaci cavensi che passavano per quei luoghi. Nel 1153 il dominio del casale era stato concesso alla badia di Cava dei Tirreni, mentre quello spirituale al vescovo Giovanni di Marsico26.

22 Ibid. In riferimento al piccolo abitato di Anglona cfr. D. Whitehouse, Santa Maria di Anglona: The Archaeological Evidence, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., pp. 37-42. 23 H. Houben, L’espansione del monachesimo latino in Lucania dopo l’avvento dei Normanni, in C.D. Fonseca e A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 111-30. 24 Ibid. 25 L. Mattei Cerasoli, Tramutola, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 13, 1943-44, p. 107. 26 Ibid. Il documento del 1153 in Id., Tramutola, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 14, 1945, p. 110: «Confirmamus in super casale ipsum sancti Petri, quod dominus Iohannes Marsici fecit hospitari, ita ut omnes qui modo ibidem habitant, aut ab isto die in antea habitaverint, liberi et quieti sine molestia

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Spontaneamente gli uomini chiedevano di abitare in questi nuovi centri, come successe nel nuovo casale di Santa Maria di Camposirti, nel territorio dell’attuale Noepoli, dove quattro uomini ebbero il consenso dal priore di Cersosimo, Daniele, di abitare in questo nuovo insediamento («tunc venerunt ante presentia nostram quidam homines et in dominio nostro manere dixerunt et etiam in quidam hobedentia nostra sancte Marie Camposerti abitare»)27. Furono stabiliti patti ben precisi in riferimento al lavoro da svolgere, ma questi uomini e anche i loro figli non pagavano nessuna franchigia ed erano liberi di andar via in qualsiasi momento se avessero voluto trasferirsi in un’altra località: Tali quidam tenore, ut per annum serviant in sancte Marie de camposerti de diebus novem omnino tres diebus seminent, et tres laborent, purgent, et tres metent; item, si iudicati erint, in mercedem ducatum unum dent, de sacramentis gallinam unam; si aliquem de prefati homines in patrimonio illorum redire voluerint, potestatem habeant rebus eorum ad vicinos vendere, et dominus eorum denarios argenteos quattuor accipiat ab eis. Si vero in aliis partibus ire optaverint, dominus recipiant ab eis ducatos quattuor et pergant, dun illic erint, ipsi et omnes suppellectiles eorum concedimus salve esse cum francitiam et liberalitatem, et si quis post illos filiis vel parentibus eorum seu aliis hominibus illuc venire voluerint ad habitandum, sicut superius scriptum est in hominibus iam dictis, ita eis annuemus et confirmamus28.

È del 1183 il documento nel quale si riconosce da parte dei giustizieri regi il diritto di Cava su Cersosimo e il casale di Santa Maria di Camposerti; la fonte ci dice che i giudici, i militi e i probi homines più anziani riferirono che

nostri vel heredum nostrorum vel hominum seu successorum maneant et habitent sicut videlicet ceteri monasteriorum homines libere manent et absolute et modis omnibus iam dicto monasterio preceptis tantummodo subiaceant. Ea videlicet ratione, ut tu prefatus domnus Marinus sancte Trinitatis de Cava venerabilis abbas neque tui successores, neque quisquam de vestris prioribus monachis, vel cuiuslibet ordinis de nostris propriis hominibus civitatum nostrarum, quas nunc habemus vel abituri sumus potestatem ad habitandum in eodem casali recolligere sine nostri licentia vel iussione non habeatis». 27 Id., La badia di Cava e i monasteri greci della Calabria Superiore, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 9, 1939, pp. 291-92. 28 Ibid.

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domnus Ugo Clarimontis, qui fuit dominus de Noa, dedit casale et ecclesie Chursosimi et obedientias eius sancte Trinitati de Cava, dedit auctoritatem et concessionem ecclesie Chursosimi et Camposirti, ceteramines et inhabitare in ipsis obediensiis, et potestatem dedit [...] bestie de chersosimo et obedientiam eius vadano pascendo et serbando, damnum non facientes, per ipsum tenimentum ipsum Noe libere et absque [...] eant venando per tenimentum ipsum Noe sine occasione et molestia ab aliqua humana persona eis illata, et libere et franco modo29.

La crescita urbana iniziata nel periodo normanno prosegue e si precisa ulteriormente nel periodo svevo. Anzi, con la diffusione degli ordini mendicanti si assiste anche alla costruzione di complessi conventuali che si insediarono in punti particolari e strategici dell’insediamento. Insomma, fu proprio nel periodo normanno-svevo che i centri demici più importanti acquisirono quella conformazione e quella struttura che manterranno inalterata fino alle trasformazioni sette-ottocentesche. I borghi nuovi, nella maggior parte dei casi, possono definirsi casali, intendendo con questo termine piccoli insediamenti demici sprovvisti di cinta muraria di solito ubicati vicino a centri più popolati con perimetrazione urbana e dai quali dipendevano. Altri centri di nuova fondazione come Cisterna, Boreano, Montemarcone, Gaudiano, San Nicola sull’Ofanto e Agromonte, tutti ubicati nella regione del Vulture, possono essere considerati insediamenti un po’ più sviluppati urbanisticamente rispetto agli altri casali. Essi, infatti, nacquero intorno a una struttura fortificata che da Federico II veniva denominata domus, cioè un piccolo castello che non aveva scopi militari, ma era stato costruito per i suoi piaceri e svaghi30. A Cisterna, oltre alla domus, era presente anche una sede diocesana, dunque una piccola cattedrale, un’altra chiesa dedicata a San Sabino e con molta probabilità anche un perimetro murario, se da una fonte del 1123 apprendiamo che esisteva un’entrata dell’insediamento denominata porta de foggiano31. È del 1123 anche la notizia di un dominator castelli Cisterne, un tale Gulferio, che donò al monastero di San Michele di Monticchio, sul monte Vulture, un pezzo di

Ivi, pp. 292-94. A. Pellettieri, Castelli e nuclei demici della regione del Vulture tra Normanni, Svevi e Angioini, in Fonseca (a cura di), «Castra ipsa», cit., pp. 42-48. 31 G. Fortunato, La badia di Monticchio, Trani 1904, pp. 354-55, doc. II. 29 30

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terra situato nelle pertinenze di quel borgo, presso la chiesa di San Giacomo32. Sintomatico il caso della domus di San Nicola sull’Ofanto: nel 1224 il vescovo di Melfi Richerio, poiché voleva dotare di un ospedale la chiesa di San Nicola, chiese che «quod casale fiat ibidem villa»; gli abitanti avrebbero dovuto pagare la decima alla chiesa di Melfi, oltre a quelli «qui portabunt habitum hospitalis»33. La previsione del vescovo si realizzò in breve tempo e con la costruzione della domus il casale divenne villa: con il termine villa, dunque, si designava un aggregazione demica più complessa rispetto a un semplice casale34. Sempre dallo stesso documento apprendiamo che nei pressi di questa chiesa dedicata a san Nicola vi era un ponte da restaurare e che il vescovo concesse ai fratelli Giovanni, Bonoinfante e Melfisio l’incarico di portare a termine il restauro. Con la costruzione della domus regia federiciana questo ponte divenne ancora più importante, se addirittura nel suo testamento il sovrano svevo dispose che tutti i proventi di questa masseria dovevano essere impiegati per mantenerlo35. Ma anche durante la sua vita più volte Federico II si interessò a questa costruzione cercando in tutti i modi di completarne la costruzione, perché risultava poco sicuro per i passanti36. Anche la nascita degli hospitales costituiva un momento fondamentale per il controllo e la ristrutturazione del territorio e proprio intorno ad essi finivano con il nascere nuove aggregazioni demiche: la scomparsa di questi era di solito legata alla soppressione o alla variazione delle vie di comunicazione. In realtà le domus erano masserie fortificate da torri e cinta mu-

Ibid. A. Mercati, Le pergamene di Melfi nell’Archivio Segreto Vaticano, in Miscellanea Giovanni Mercati, vol. V, Città del Vaticano 1946, doc. VI, pp. 288-92. 34 G.B. Pellegrini, Attraverso la toponomastica urbana medievale in Italia, in Topografia urbana e vita cittadina nell’Alto Medioevo in Occidente. XXI Settimana di studio del centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 26 aprile-1° maggio 1973), Spoleto 1974, vol. II, in particolare p. 37: «Ma con il tempo villa acquista il senso di ‘insediamento modesto’, poi diventa quasi un equivalente di ‘paese’. Col mutare delle condizioni economiche e sociali in parecchie regioni acquista il significato di ‘piccola città’». 35 J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia Diplomatica Friderici secundi, 6 voll., Parisiis 1852-59, vol. VI/2, p. 807. 36 Petri de Vinea, Epistularum libri sex, edidit R. Iselio, Basileae 1740, vol. V, p. 585. 32 33

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raria e costituivano importanti costruzioni sulle quali si basava lo sviluppo agricolo dell’intero regno meridionale. La scelta dello svevo di costruire le domus in questa zona della Basilicata dipendeva dal fatto che esse erano collegate mediante l’Ofanto e la via Appia a una rete di insediamenti agricoli più importanti ubicati in Capitanata. L’interesse del sovrano per questo piccolo ponte è chiaramente spiegabile in relazione all’importanza di quel tratto viario che permetteva facilmente di arrivare in Capitanata e a Foggia, sede del suo palazzo. Di qui la preoccupazione di tenere in piedi questa costruzione senza la quale raggiungere la Puglia da ovest sarebbe diventato molto difficoltoso. Va, inoltre, precisato che l’Ofanto, anche se non navigabile, veniva impiegato per il trasporto della legna utilizzando l’energia dell’acqua per far arrivare in Puglia questo prezioso materiale da costruzione. Il rapporto tra le strade di circolazione e le masserie, messo in evidenza da Raffaele Licinio37, risulta molto particolare e interessante e permette di ipotizzare un piano di insediamenti logistici per uno sfruttamento a lungo termine delle zone agricole. Nell’encyclica super massariis curiae procurandis et provide regendis38 Federico II propone un grande impegno ai coltivatori e ai magistri massariorum, che hanno compiti molto gravosi. Essi non devono solo sovrintendere sulle masserie e fare un lavoro di controllo, ma devono scegliere le colture adatte a ogni tipo di terreno, capire perché una masseria produce di più di un’altra e avere, comunque, la capacità di renderle tutte produttive. Inoltre, gli insediamenti demici spontanei che si venivano a creare intorno avevano la cura e l’attenzione del sovrano. Infatti, si dovevano determinare condizioni di vita superiori ad altri insediamenti demici perché solo in questa maniera si assicurava lo spostamento dei coloni in tali centri, che dovevano essere tra loro vicini e ben comunicanti: la produzione implicava insomma l’inhabitatio e l’inhabitatio implicava la scelta di luoghi sicuri, protetti e con un buon sistema di comunicazione attraverso il quale facilmente i 37 R. Licinio, Le masserie regie in Puglia nel secolo XIII. Ambienti, attrezzi e tecniche, in Id., Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle pecore, Bari 1998, pp. 81-112. 38 Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici Secondi, cit., vol. IV, pp. 213-16.

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massari e i coloni potessero comunicare fra loro. Infatti, qualora ci fosse una diminuzione nella produzione, Federico ammonisce i magistri massariorum dicendo «quod si diminutionem tandem culpa seu negligentia massarii, qui preest, reperieris contigisse, s­ tudeas eum inde convincere coram aliis massariis convicinis, iudice loci, ubi massaria fuerit, si habetur, vel iudice vicini castri seu loci in defecto predicto, et coram aliis bonis hominibus, presente altero de magistris procuratoribus curie nostre in provincia constitudo»39. Il documento risulta molto importante poiché ci spiega perché queste domus fossero così ben collegate: dalla coralità del lavoro e dall’unione delle esperienze di tutti i coloni e dei massari si sarebbe potuta avere maggiore produttività per l’intero regno40. A parte le strutture fortificate, piccole chiese e alcuni monasteri che erano edificati nella maggior parte dei casi con criteri costruttivi pregevoli, al contrario questi villaggi avevano strutture abitative con una tipologia costruttiva molto semplice. Le case, costituite spesso da una sola stanza, erano in pietra ma molto più spesso in legno o addirittura in paglia. Si addossavano le une alle altre e in molti casi avevano dinanzi un piccolo orto o una vigna. In molti casi, dunque, spontaneamente gli uomini decidevano di andare a vivere in questi nuovi insediamenti sicuri di poter trovare presso di essi una migliore esistenza principalmente in funzione del lavoro che ad essi veniva offerto. Particolare risulta, in questo senso, la fondazione di villa Petre, l’attuale Sasso di Castalda: nel 1163 «populus Petre, que cognominatur de Augustaldo», di spontanea volontà e con il suggerimento dello Spirito Santo, restaurò una chiesa dedicata a san Marco evangelista «nullo ibi tamen manente custode murorum, etiam hedificiis cadentibus». Si incominciarono a costruire nuove case intorno alla chiesa restaurata grazie alle offerte generose della popolazione, «cuius desiderio hoc inchoatum est, talia videndo, de terris et ceteris possessionibus suis aliqui eorum offerre eidem ecclesie inchoarunt, quatinus in ea et agricultura et congregatio hominum haberetur»41. Ibid. F. Sinatti D’Amico, Territorio, città e campagna in epoca federiciana: exemplum Apuliae, in «Archivio storico pugliese», 38, 1984, pp. 3-42, in particolare pp. 25-31. 41 Mattei Cerasoli, Tramutola, cit., 14, 1945, pp. 113-14 dove nello stesso documento si precisa: «De quibus oblationibus unusquisque, prout debuit de sua 39

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La nascita di nuovi borghi avveniva quasi all’unisono con la nascita di nuove chiese: la creazione o il restauro di una struttura religiosa faceva accorrere intorno ad essa molti coloni pronti a dissodare i terreni e a crearsi nuovi spazi di sopravvivenza, ma molto spesso avveniva anche il contrario, e cioè i coltivatori si consorziavano e creavano nuovi villaggi cercando di trarre profitti anche dalla presenza di una chiesa che amministravano42. Questo ripopolamento portò alla bonifica, al dissodamento e alla miglioria di molti territori e di conseguenza alla nascita di nuove colture in zone fino ad allora paludose e incolte43. oblatione iuste et rationabiliter eidem ecclesie privilegium fecit. Quo peracto, et adiutorio Dei, qui dat incrementa virtutibus teneri statu eiusdem ecclesie aliquatenus confortato, ut hec ad meliora populum provocarent, in predicta villa Petre domnum Johannem venerabilem Marsicanum episcopum et religiosum Cavensem monachum, precibus et voto accersiri eiusdem populus fecit, quoniam de sua parochia est. Qui letus pro voto, festinus pro gaudio, advenit, continuo. In cuius manibus communi volumptate ecclesiam predictam, cum omnibus, que ibi obtulerunt et oblaturi sunt omni venturo tempore, et cum omnibus que ibi sunt acquirenda, volumptarie obtulerunt. Qui baculo ab omni populo investitus, predictam ecclesiam in suis manibus cum omni possessione sua, qualiter superius dictum est, accepit. Universus vero populus, ut firma et inviolabilis fuisset oblatio, et unusquisque, qui per se de substantia sue possessionis obtulerat, guadiam eidem domno dederunt episcopo, ut iam nec ipsi nec heredes et successores eorum aliquando hanc oblationem disrumpere temtent». 42 G. Vitolo, La conquista normanna nel contesto economico del Mezzogiorno, in C.D. Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Melfi-Venosa, 19-23 ottobre 1985), Galatina 1990, pp. 83-94: «Una prova del ripopolamento delle campagne è fornita, già per il X secolo, anche dal sorgere di un gran numero di chiese, per lo più di fondazione laicale, che, oltre a fornire ai contadini una forma di inquadramento religioso, inducendoli così a fissare la loro residenza nelle vicinanze delle terre messe a coltura, erano esse stesse inserite nel processo di colonizzazione perché non di rado i chierici officiali si assumevano nei riguardi delle terre che ne costituivano il beneficio gli stessi obblighi di bonifica e di miglioria in uso per i normali contratti agrari. Non sempre però erano le chiese a richiamare i contadini in zone poco popolate; anzi ho l’impressione che nella maggioranza dei casi avvenne il contrario, come è dimostrato dal fatto che non poche volte sono i coltivatori stessi a formare consorzi per la fondazione di chiese rurali [...]. La messa a coltura di nuove terre e la nascita di numerose comunità di liberi contadini andava di pari passo con il sorgere di chiese e di monasteri, nel senso che o l’attività dissodatrice di un monaco faceva da richiamo per i conto erano i proprietari laici delle terre a promuovere la fondazione di monasteri, di cui non di rado essi stessi assumevano la direzione, conservandone così, in qualità di igumeni-proprietari, la piena disponibilità». 43 Sugli aspetti storico-economici dell’età normanna cfr. Toubert, La terre et les hommes, cit., pp. 57 sgg.; V. von Falkenhausen, Aspetti storico-economici dell’età di

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3. Spopolamento, diserzione dei centri e politica territoriale dei sovrani angioini Ma già con la fine dell’età sveva si incomincia a respirare aria di crisi: si registrano i primi sintomi di quella crisi demografica che caratterizzerà l’intera Europa fino al Cinquecento. Durante il regno normanno-svevo, la popolazione si era distribuita e diffusa sul territorio e aveva fondato nuovi piccoli centri di aggregazione: dalla metà del XIII secolo in poi assistiamo a un vero e proprio processo di diserzione dell’intero territorio lucano. Nel 1890 Giacomo Racioppi pubblicava sull’«Archivio storico per le province napoletane» un saggio sulla geografia e la demografia storica della Basilicata per i secoli XIII e XIV44. L’interessante studio di Racioppi era avvalorato dalla pubblicazione della Generalis subventio angioina del 1276 nella quale vi era l’elenco di tutti i paesi della Basilicata che dovevano pagare le tasse. L’autorevole studioso lucano, inoltre, nello stesso saggio effettua un confronto tra il suddetto cedolario e gli altri due successivi, cioè quello compilato nel 1320 e l’altro del 1415. Egli notò che tra il 1277, anno di compilazione del primo cedolario, e il 1320, anno di compilazione del secondo, i paesi che non erano più segnalati erano 43 e cioè un terzo rispetto al totale. Lo studioso metteva anche in evidenza che il numero di paesi scomparsi doveva essere più alto, perché molti erano quelli non segnalati nelle due fonti predette, ma che da altra documentazione sappiamo esistenti. Infine, egli annotava che questo fenomeno di spopolamento della regione si era quasi del tutto arrestato durante il Quattrocento, se dalla Generalis subventio del 1415 non risultava mancante quasi nessun centro demico. Ma Racioppi, purtroppo, non si soffermò sui motivi di questo spopolamento; egli preferì indagare sui meccanismi fiscali cercando di spiegare in che maniera i re angioini facessero pagare le tasse. Poche ma precise parole dedicava al fenomeno dei centri scomparsi: «Nella storia intima e speciale di ciascun paese è senza dubbio la ragione dell’ingrandimento degli uni, e dell’esinanimento degli altri. Ma le

Roberto il Guiscardo, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Bari 1975, pp. 115-34. 44 G. Racioppi, Geografia e demografia nella provincia di Basilicata nei secoli XIII-XIV, in «Archivio storico per le province napoletane», 15, 1890, pp. 565-82.

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intime evoluzioni di questa storia ci sono ignote! [...] Lo stesso, su per giù, è delle altre regioni»45. In un’unica frase lo storico lucano racchiudeva una problematica assai complessa sulla quale ormai da circa un quarantennio si interrogano gli studiosi di tutta Europa46. Va sottolineato che l’unico corretto accostamento al fenomeno dei villages désertés, ormai oggetto di studio anche in Italia dagli anni Settanta47, implica il coinvolgimento di molte discipline e che, comunque, sulla base di studi specifici sull’evoluzione della storia del territorio, della sua economia e della sua società, la scomparsa di ogni singolo paese dovrebbe essere analizzata autonomamente perché molteplici concause concorrono a definire il suo spopolamento e in alcuni pochi casi la sua distruzione. Inoltre, la scomparsa di un piccolo casale non incide certo sull’evoluzione di una porzione territoriale: lo spopolamento di molti casali nella stessa zona diventa, invece, un fenomeno da valutare accuratamente, così come di notevole importanza può diventare la diserzione di un paese più grande che nel suo interno aveva tutte quelle strutture che lo rendevano simile a una cittadina. In Basilicata, in realtà, non vi fu mai un vero e proprio centro a cui si può attribuire il nome di città: si trattava in pochi e sparuti casi di grossi centri agricoli che non possono in nessuna maniera essere paragonati alle città che nel Centro-Nord proprio con il XIII secolo Ivi, pp. 580 e 582. Il Groupe d’archéologie médiévale et d’histoire de la civilisation matérielle du village in Francia e il Deserted Medieval Village Research Group in Inghilterra sono stati i pionieri in questo campo. Si ricorda il primo contributo importantissimo per l’Italia di C. Klapisch-Zuber e J. Day, Villages désertés en Italie. Esquisse, in Villages désertés et historie économique. XI-XIII siècles, Paris 1965, pp. 419-59. 47 In Italia dagli anni Settanta e con la nascita della rivista «Archeologia medievale» molti studi e molte ricerche sono state effettuate sull’argomento in Liguria, Piemonte, Toscana, Sardegna, Sicilia. Ritengo molto significativi gli studi di Rinaldo Comba e di Aldo Settia, dai quali ho tentato di apprendere e di imparare la metodologia di approccio sia legata al fenomeno dei villaggi abbandonati sia a quello dei nuovi borghi. Per la Basilicata T. Pedio, Centri scomparsi in Basilicata, in Atti del II convegno Distretti rurali e città minori (Lucera, Troia, Monte Sant’Angelo, 17-19 marzo 1974), Bari s.d., pp. 157-88, nel quale l’autore si ferma a considerazioni di carattere generale effettuando solo una lunga elencazione di centri scomparsi fra l’XI e il XVI secolo. Sempre per la Basilicata mi permetto di segnalare le ricerche effettuate dall’Istituto internazionale di studi federiciani del CNR di Potenza. 45

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incominciarono a definirsi e a far crescere un fenomeno ben definito, quello della civiltà comunale. Inoltre, il complesso fenomeno dei villaggi abbandonati non implica solo lo studio delle fonti ufficiali, come la Generalis subventio angioina48 o le rationes decimarum, che risultano atti di governo utilizzati dai sovrani per il pagamento delle imposte. Molto spesso altri documenti che potremmo definire «indiretti», sia di carattere pubblico sia privato, ci forniscono informazioni più precise. In questo caso il riferimento è allo Statutum de reparacione castrorum dell’imperatore svevo Federico II: il sovrano in questo documento intendeva stabilire quali erano le località addette alla riparazione dei castelli. In realtà Federico ci offre un’elencazione molto precisa dei paesi su territorio lucano49. Né va dimenticata la descrizione che della regione lucana dava l’arabo Edrisi durante il regno del re normanno Ruggero II e l’elencazione dei centri demici che molto spesso venivano delineati con dovizia di particolari sulle strutture urbane e sulle coltivazioni che venivano praticate nel territorio limitrofo50. Mettendo insieme tutte queste informazioni si può tentare di avere un quadro più o meno preciso di quali fossero i centri demici che con la fine del XIII secolo cominciarono a spopolarsi. Se, infatti, proviamo a mettere a confronto i cedolari angioini del 1277 e del 1320 subito risulta evidente non tanto un fenomeno di abbandono dei singoli siti quanto di spopolamento dell’intero territorio, un dato che si desume dal calo della produzione e da quello dei fuochi. Inoltre, non va dimenticato che in quel periodo molte comunità erano state esentate dal pagamento delle imposte e, pertanto, non risultano presenti in quell’elencazione. Con l’arrivo di Carlo I ci furono molte fazioni filosveve che insorsero. In Basilicata la rivolta partì da Potenza e presto si diffuPer le tassazioni focatiche angioine del 1276, del 1320 e del 1447 ho utilizzato il preciso lavoro di G. Luisi, Territorio e popolazione della Basilicata, in A. Giganti, R. Maino (a cura di), Popolazione paesi e società della Basilicata, Bari 1989, pp. 7-103. 49 E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, a cura di H. Houben, Bari 1995, pp. 114-17. 50 M. Amari, C. Schiapparelli (a cura di), L’Italia descritta nel Libro del Re Ruggero compilato da Edrisi, Roma 1883, pp. 7-8. 48

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se sul resto del territorio lucano51. In particolare a Potenza dopo la soppressione della rivolta, poeticamente descritta da Eustachio da Matera nel suo Planctus Italiae, molti abitanti furono mandati in esilio e alcuni uomini illustri, appartenenti a famiglie autorevoli della città, furono uccisi. Molte le famiglie sterminate, fra cui quella di Riccardo di Santa Sofia, conte di Rivisco, casale che nasceva a nord della cittadina. Con la scomparsa di questa famiglia anche il casale in poco tempo venne abbandonato: non a caso nella documentazione successiva esso viene definito feudo nel cui territorio era coltivato solo grano. Dalla lettura di alcune foto aeree si riconoscono un’area pianeggiante delimitata da una scarpata artificiale e alcune rovine riferibili all’antico casale52. La guerriglia che si mantenne sul territorio meridionale continentale dopo il Vespro portò disagi quasi catastrofici per questi piccoli insediamenti. In Basilicata la rivolta si diffuse dappertutto provocando disagi e malessere perché non era una guerra combattuta fra eserciti regolari, ma una battaglia fatta di scorrerie e saccheggi. Da una parte gli almugavari, dall’altra le truppe del re che si univano a quelle dei castelli; a questi si aggiungevano contingenti di soldati arruolati fra la popolazione ormai esasperata53. Nel 1291, per esempio, Carlo II d’Angiò con un provvedimento diretto al giustiziere del Principato e della terra beneventana diceva che «pars regni non minima multa dispendia subiit et excrevit vastitatis in plurimo dapna pregravia deploravit» e che, dunque, notava «finalis desolationis excidium [...] et cernuntur iam reducte in nichilum»54. Anche in Basilicata molte risultano essere le richieste di esenzione fiscale o di aiuto finanziario, poiché questi piccoli centri si trovavano in completo stato di abbandono o di inagibilità. Per esempio a Rio­ nero gli abitanti si lamentavano per gli arbitri dei funzionari regi, 51 P. De Grazia, L’insurrezione della Basilicata contro Carlo d’Angiò, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, pp. 225 sgg. 52 Su Potenza mi permetto di segnalare Pellettieri, La città medievale, cit., pp. 15-17. 53 Cfr. C. Carucci, La guerra del Vespro siciliano nella frontiera del Principato (Codice diplomatico salernitano del sec. XIII), vol. II, Subiaco 1934, p. 577; G. Pistorio (a cura di), Nuovi documenti sul Vespro, Palermo 1969. 54 V. Aversano, Villaggi abbandonati e paralisi dello sviluppo per la guerra del Vespro in Campania ed in Basilicata, in «Studi e ricerche di geografia», VI, 1984, pp. 1-28. Molto interessante e preciso lo studio di Vincenzo Aversano, che ringrazio per tutti gli spunti e i suggerimenti che mi ha offerto.

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ma Carlo II, schierandosi con la popolazione, ordinò di non esigere «ultra quam sit consuetum et debitum»55. Ma gli abusi continuarono nonostante fosse intervenuto il vescovo di Rapolla, Pietro di Catalogna. Anzi la situazione precipitò completamente con il vescovo Bernardo, che dapprima commise abusi e angherie nei confronti dei rioneresi e in seguito a un attentato che gli fu perpetrato denunciò gli abitanti di Rionero di essere «afflati superbie spiritu et temeritate dampnabili»56. Le prepotenze e le angherie a cui erano sottoposti gli abitanti dell’intera area del Vulture da parte dei funzionari regi, del vescovo di Rapolla, del priore di Santa Maria di Perno e dell’abate del monastero di San Michele sul Vulture, che erano proprietari di molti territori della vallata e se ne disputavano il possesso, procurando malessere e disagio fra la popolazione, emergono in maniera molto evidente dalla documentazione. Frequenti i casi di rapine e omicidi su quelle strade, che risultavano predisposte per assalti di questo tipo in quanto attraversavano le tante foreste che allora ricoprivano la regione del Vulture. In occasione di mercati e fiere il re mandava persone armate addette alla sorveglianza per evitare incendi e rapine. Molto spesso si richiedeva la sorveglianza anche sui pascoli, perché gli animali venivano rubati e uccisi. Le lamentele degli abitanti giungevano giornalmente al re: gli abitanti di Lagopesole già nel 1274 avevano ottenuta una prima esenzione fiscale57; ma nel 1302 questi stessi uomini furono costretti a dimostrare al vicario del re di non aver mai pagato le tasse a causa della loro povertà. Qualora fossero stati obbligati al farlo, avrebbero abbandonato le loro case e si sarebbero spostati altrove58. Il piccolo centro non ebbe, comunque, lunga vita. Infatti un documento del 1494 ci descrive che sono state in questo Regno diversissime turbolentie, invasioni, mutazioni di Stato et rebellioni che hanno causato la distructione et disabitatione di molti centri abitati. Per le guerre, peste, et turbolentie et travagli occorsi nel Regno furono costretti scansare e dishabitare da detto Castello di Lagopesole

G. Fortunato, Rionero medievale, Trani 1899, p. 48. Ivi, pp. 57 e 119-21. 57 Id., Il Castello di Lagopesole, Trani 1902, pp. 151-52. 58 Ivi, pp. 222-23. 55 56

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lasciando la loro terra deserta et in ruina et se ne vanno ad Habitare nella Terra di Atella come in un luogo più comodo vicino e securo59.

Spesso queste richieste di aiuto della popolazione al re non erano veritiere. Per esempio ad Armaterra: nel 1307 veniva mandata una lettera nella quale si specificava che il casale era «exhabitatum etiam et distructum totaliter»60. Si chiedeva, pertanto, al re di non vessarlo con le tasse. In realtà, se si va a confrontare questo dato con la tassazione focatica del 1320, si può notare come ad Armaterra in questa data ancora erano presenti 32 fuochi, anzi c’era un fuoco in più rispetto alla Generalis subventio del 1277. Il casale scomparve solo nel corso del XIV secolo. Non diversa risulta la storia dello spopolamento del castrum di Monticchio. Nel 1291 risulta che il «castrum ipsum […] reparatione quamplurimum indiget reparari»61. Nel 1334 gli abitanti di Monticchio e del casale di Sant’Andrea ricorsero a re Roberto contro il giustiziere, che arbitrariamente e senza precedenti denunce istruiva processi ai loro danni62. Ma nel 1382 ormai il castrum, distrutto per il saccheggio subito durante l’ultima guerra di re Carlo III di Durazzo, venne dichiarato immune dalle esenzioni fiscali per lo spazio di quindici anni. In realtà il casale non viene più menzionato nella documentazione e scompare dalla scena della storia come molti altri centri demici di quella zona. Castelnuovo e Acquatetta risultano non abitati già nel 129163, Vitalba, antica sede diocesana, scompare nel 127864. Non diversa era la situazione a Montepeloso e del casale di Irsi, che apparteneva al monastero di Santa Maria la Nuova situato in questa cittadina. Nel 1272 il priore Ugo aveva esposto il grande disagio in cui si trovava questo casale65. Il 4 agosto 1294 il re dispensava il 59 A. Pellettieri, Dai casali della Valle di Vitalba alla nascita della Terra di Atella. Territorio, storia feudale, sviluppo urbano e sociale tra Medioevo ed Età moderna, in AA.VV., Dal Casale alla Terra di Atella, Venosa 1996, p. 27. 60 G. Fortunato, Santa Maria di Vitalba con cinquanta documenti inediti, Trani 1898, pp. 120-21. 61 Id., La badia di Monticchio, cit., pp. 403-404. 62 Ivi, pp. 444-45. 63 Ivi, p. 391. 64 Id., Santa Maria di Vitalba, cit., pp. 72-76. 65 M. Janora, Memorie storiche, critiche e diplomatiche della città di Montepeloso (oggi Irsina), Matera 1987, p. 153.

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casale dal pagamento delle tasse per tre anni a causa delle pessime condizioni in cui versava il piccolo centro, ormai da tempo disabitato: quod casale quoddam dicti monasterii vocatum yrsium situm in decreta vobis provincia ex presenti malicia temporis et intollerabili onere collectarum ad exhabitationis extrema deductum finaliter depopulatum longe jam preterito tempore dispendia subiit et incomoda deploravit. Ita quod nec dicto monasterio comodum nec nostre curie fonctum reddit per quod prior idem asserens dicto monasterio suo grave generari dispendium suppliciter petiit. Nos misericorditer agendo concedere aliquam immunitatem et levaminis gratiam qua dictum casale rehabitationis accomode restauratione levetur66.

Il casale rimase spopolato, come si evince da un documento del 1455 in cui si cerca di fare chiarezza su una controversia tra il clero di Irsina e l’Università sul possesso di questo territorio: Che lo prenominato episcopo diceva Irsi est soo terreno spettante all’Ecclesia sua di Santa Maria de juso, et cossì volia prohibere et vitari li homini di Montepiloso non usassero lo terreno de Irsi senza pagamento. Ex adverso li homini di Montipiloso diceano Irsi essere Casale di Montepiloso, et loro avevano lo uso de loro bestiame in quel terreno senza pagamento alcuno [...] et lo Episcopo replicava che questa Communità infra li homini di Irsi, et li homini di Montepiloso, et essendo disabitato Irsi, cessare la Communità. 66 Ivi, pp. 158-59. Il documento continua: «Nos itaque ecclesiarum incrementa volentes ac sperantes meritariie facere cum sacrorum locorum misericorditer condolemus incomodis et dispendia relevamus residua omnia fiscalium collectarum preteriti temporis debita curie per homines casalis eiusdem si de predicta exhabitatione ipsius res ita se habeat et nulla culpa vel crimine fuerit sic destructum gratiose remictimus et de certa nostra scientia relaxamus amplius munifice facientes quod dictis hominibus incolis scilicet [...] reddituris ad illud immunitatem a prestationibus collectarum fiscalium futurarum per contrarium triennium indulgemus. Ita quidem quod ipso finito triennio incole reddentes pro modo facultetem eorum taxentur per curiam in eisdem. Ea propter fidelitati vestre precipiendo mandamus quatenus predictam gratiam nostram eidem monasterio in predictis hominibus servantes et servari facientes illesam nihilominus contra illam fieri per aliquem permictatis, mandato contrario non obstante. Presentes autem licteras postquam eas in publica forma ad vestri cautelam servandas feceritis reddigi penes ipsum priorem volumus remanere, tam ad te presentem iustitiarum quam ad singulos successores tuos ipse durante triennio valituras».

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I cittadini replicavano spiegando che comunque anche se molto tempo prima il vescovo era in possesso di detto casale, gli abitanti di Irsina avevano usato questo territorio «quod hominum memoria in contrarium non existit dopo lo distrutto detto casale di Irsi, questo usu et parte, et a tanto tempore quod hominum memoria non existit». Dunque, da così tanto tempo il casale era disabitato che gli abitanti di Montepeloso consideravano non più validi gli accordi precedenti perché era trascorso troppo tempo67. Anche la malaria poteva provocare lo spopolamento di un intero paese. Sintomatico un documento del 1269 nel quale su richiesta del monastero di Santa Maria di Banzi, il re dichiarava quod habeat quoddam Casale parvulum dictum Cervaritium situm in quadam valle multiplici aeris corruptione infecta ita quod mares et femine ac specialiter pueri ibidem existere nequeant tempore modico, quia oppressi egritudinis moriantur, mutandi Casale ipsum ad iactum unius lapidis superius propter aeris puritatem licentiam vobis concedere de benignitate regia dignaremur.

Il re, accertata questa disastrosa situazione, e considerate le suppliche del monastero, concesse «potestatem dummodo sytus ubi dictum Casale mutabitur sit de tenimento seu territorio monasterii s­ upradicti et nulli nostrorum fidelium exinde iniuria seu oreiudicium inferatur»68. In realtà il casale non fu mai ricostruito e rimase spopolato dopo questa terribile epidemia. È noto il ruolo fondamentale che i monasteri ebbero nella organizzazione del territorio: pertanto, studiare i casi d’abbandono significa spesso indagare sulla storia, sullo splendore e sulla decadenza di essi. Se nella regione del Vulture la badia di Monticchio fu la protagonista di molte vicende, il monastero bantino rivestì un ruolo di primaria importanza per le vicende della zona nord-orientale della Basilicata. Cervarezza non era certo l’unico casale alle dipendenze della badia: la documentazione ci riporta i nomi di altre località in Puglia e in Ivi, pp. 183-84. D. Pannelli, Le memorie bantine. Le memorie del monastero bantino o sia della badia di Santa Maria in Banzia, ora Banzi, pubblicate d’ordine del cardinale di Sant’Eusebio abate commendatario di essa badia da Domenico Pannelli suo segretario, a cura di P. De Leo, Banzi 1995, p. 81. 67 68

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Basilicata, come San Marco, Carratello, San Nicolò e Andriace, centri demici, questi ultimi, tutti siti nella regione lucana. Su Andriace la documentazione è più generosa: questo casale apparteneva al monastero già nel 111069: Il nostro monastero per gl’incendi e saccheggiamenti e altre sciagure sofferte né suoi beni, si ridusse a sì estrema miseria che intermise di pagare le decime dovute alla Camera Apostolica ed all’erario reale e le consuete tasse ai cardinali di Sabina e del Tuscolo, come legati apostolici in quel regno, onde incorse nelle pene canoniche di scomunica e di interdetto. Oltre all’aver lasciato per quindici anni di soddisfarre i censi ed i tributi che doveva pel casale dell’Andriace alla chiesa di Tricarico70.

Per riparare il monastero ormai quasi del tutto distrutto la badia vendette il casale ad Angelo, vescovo di Tricarico. Dalla documentazione si evince che il casale era quasi del tutto spopolato se in un documento, datato 1365, il nome casale non viene più usato per indicare Andriace, ma esso è nominato solo «territorium seu tenimentum»71. Nel 1305 anche il casale di Faraco, donato al monastero di Carbone nel 112172, non paucis ab olim incolis habitatum, tempore guerre preterite hostili ut plurimum comprensione vastatum ad extreme dispendium depauperationis advenit, et sic incolae ipsi nequentes vel sibi sufficere vel fiscalia onera sopportare, incolatum illius dereliquentes ex toto ad locum quendam alium qui dicitur sanctus Lucas prope monasterium ipsum, ut hostilem rabiem fugerent incursusque vitarent necessario confugerunt73.

Il documento mette in evidenza quanto fosse grave la situazione anche del monastero di Carbone dopo la guerra del Vespro: non

Ivi, p. 70. Ivi, p. 98. 71 Ivi, pp. 100-102. 72 G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, «Orientalia christiana», XI, 5; XV, 2; XIX, 1, Roma 1928-30, doc. XXX. 73 G. Breccia, Il monastero di Carbone dalla conquista angioina alla Commenda, in Fonseca, Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone, cit., p. 133. 69 70

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dimentichiamo che nel 1295 Carlo II condonò anche gli abitanti di Policoro «quia damna ab hostibus fuerant perpessi»74. È chiaro che lo spostamento degli abitanti di Faraco in cerca di protezione provocò la nascita di un casale a Carbone: questo piccolo insediamento continuò a crescere nel 1432, quando anche gli abitanti di Mons Clarus, in seguito a un incendio, «si habito Carboni»75. Inoltre, bisogna distinguere fra abbandono del luogo abitato e abbandono del territorio coltivato. In molti casi la popolazione diserta un centro e va a vivere in un altro, ma questo non implica anche l’abbandono dei campi, che continuano a essere coltivati; le abitazioni all’interno del sito deserto vengono utilizzate come ricovero di arnesi o di animali. Un caso da non sottovalutare è lo spopolamento di quasi tutte quelle domus che erano state edificate da Federico II sul fiume Ofanto. Furono trasformate in masserie sempre appartenenti al re; spesso all’agricoltura si sostituì la pastorizia76. Giuseppe Galasso sintetizza acutamente il fenomeno così: Specialmente sulle pendici dei colli e dei monti dell’Appennino e in molti siti delle pianure fuggite secoli prima vi fu ora, con la crisi del secolo XIV, di nuovo un abbandono di massa, un cedimento diffuso degli insediamenti e delle attività. In alcune province le pecore presero il posto degli uomini. La corsa all’insediamento in altura si stabilizzò in scelte definitive, che riconsacrarono le pianure alla transumanza, alle colture e al lavoro agricolo stagionale, alle acque non canalizzate degli scoli montani, al ristagno di quelle che variamente vi affluivano77.

Un piccolo gruppo di documenti ci informa sui tipi di allevamento presenti in queste masserie. Nel 1269 una grande quantità di formaggio ricavato dalle pecore delle masserie di San Nicola sull’Ofanto, Ivi, p. 134. Ivi, p. 138, nota 32. Pienamente convincenti le tesi di Gastone Breccia sulla nascita del casale di Carbone, che avvenne sicuramente dopo il 1277, poiché esso non compare nella Generalis subventio angioina. È probabile che il centro nacque solo in seguito alla diserzione dei centri limitrofi ormai poco sicuri e ridotti in miseria dalla guerra del Vespro. 76 Licinio, Masserie medievali, cit. 77 G. Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Milano 1982, p. 33. 74 75

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Lavello, Gaudiano e Canosa veniva venduto e la curia riceveva ben 29 once78; del 1272 è la notizia dell’allevamento anche dei buoi79. Nel 1304 il maestro massaio di Basilicata Ludovisio di Gaudiano si lamentava per la mancanza di orzo per nutrire le scrofe. Il re rispose di venderne una parte e di mandare a Napoli presso la corte 250 porci e 100 tra montoni e castrati80. Per quanto riguarda i prodotti agricoli, la produzione prevedeva la biada, l’orzo, il grano e le fave81. Anche per la domus di Monte Serico ci fu lo stesso declino. Nel 1320 gli uomini di questo insediamento pagavano ancora le tasse. Al contrario delle domus costruite sul fiume Ofanto, il castello di Monte Serico, seppure bisognoso di restauri, ancora oggi si erge su di un colle nel territorio di Genzano. Recenti studi hanno permesso di individuare e ricostruire la forma urbis dell’abitato scomparso in età medievale. Alla mancanza quasi completa di documentazione hanno sopperito indagini tecniche di vario tipo. Attraverso una strisciata aerofotogrammetrica, seguita dalla fotointerpretazione, e intersecando questi dati con quelli storici, si sono raggiunti risultati inizialmente insperati. La documentazione, infatti, si fermava a un sintetico accenno di Amato di Montecassino, che descriveva intorno al castello «de granz fossez et de autres fortereces»82 e a un documento del 1151 dal quale si constata che a Monte Serico c’erano quattro chiese, Sant’Angelo, San Giovanni, Santa Maria de Catalano e Santa Maria de Anadigito83. L’insieme di questi elementi ha permesso la ricostruzione della cinta muraria, delle strade e delle fondazioni dell’abitato medievale, di due elementi circolari attribuibili a un’abside e a una torre e di alcuni altri elementi di fronte al castello riferibili a un recinto. Emerge una forma urbana a ventaglio con una maglia urbana pseudo-concentrica a sud, che indica una zona più densamente popolata; si sono individuati, inoltre, a sud-est due impianti di grandi dimensioni. Potrebbe

78 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. VII, 1269-1272, Napoli 1955, p. 355, doc. 188. 79 Ivi, vol. VIII, 1271-1272, Napoli 1957, p. 15, doc. 92. 80 Fortunato, La badia di Monticchio, cit., pp. 410-11. 81 I Registri della Cancelleria Aragonese, vol. III, Napoli 1951, p. 233, doc. 681. 82 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. de Bartholomaeis, «Fonti per la storia d’Italia», 76, Roma 1935, p. 89, nota 1. 83 C. Brühl, Rogerii II. regis diplomata latina, Wien 1987, pp. 228-33.

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trattarsi di due delle chiese attestate nella documentazione84. L’interessante metodologia utilizzata aiuta a comprendere meglio quale fosse l’estensione di questi piccoli centri che, grazie alla restituzione fotogrammetrica in scala, sembra quasi di vederli vivere nuovamente e di cogliere di essi anche gli aspetti più nascosti. Monte Serico scomparve gradualmente come molti altri piccoli insediamenti agricoli della regione lucana. Con una nuova organizzazione del territorio i re angioini cercarono di far convergere verso i centri più grandi la popolazione che fino ad allora si era avviluppata su tutto il territorio rispondendo a precise esigenze politiche volute dai Normanni e dagli Svevi. I nuovi sovrani ben sapevano che reinsediando la popolazione avrebbero principalmente ristrutturato le istituzioni sociali e politiche. Il governo, invece di aiutare e difendere questi piccoli centri, provocò la loro naturale distruzione e la scomparsa di ogni traccia del loro passato. Il degrado dei casali si verificò, dunque, soprattutto a causa dell’attrazione esercitata sugli abitanti delle campagne dai paesi più fiorenti. Le fonti scritte, spesso di faticoso reperimento, lasciano labili tracce sugli insediamenti non sopravvissuti e sulle profonde trasformazioni che provocarono flussi migratori da un centro all’altro: furono proprio queste rivoluzioni socio-economiche una delle concause dell’abbandono dei microinsediamenti ubicati in Basilicata. La diversa distribuzione degli uomini sul territorio non deve far credere che intorno ai paesi più popolosi ci fosse la campagna totalmente priva di insediamenti né che ci fosse una netta contrapposizione tra la campagna e la città. La pastorizia e l’agricoltura rimangono le attività determinanti dell’economia lucana, pertanto anche gli aggregamenti demici più importanti erano pieni di elementi legati alla ruralità. Le epidemie, i terremoti, le guerre, le carestie, la mortalità infantile, il disinteresse politico verso un calo demografico del quale con molta probabilità non si riusciva a vedere gli sviluppi successivi procurarono la morte di questi centri. E con la loro scomparsa mutò profondamente anche l’aspetto delle città superstiti e del paesaggio agrario. 84 N. Masini, La fotointerpretazione aerea finalizzata allo studio morfologico dei siti urbani e fortificati medioevali della Basilicata, in Fonseca (a cura di), Castra ipsa, cit., pp. 217-26; M.R. Potenza, Metodologie e tecniche di rilevamento fotogrammetrico per lo studio dell’edilizia fortificata in Basilicata e Campania, ivi, pp. 425-31.

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4. Due casi di studio: Atella, terra di fondazione angioina, e «Satrianum», centro scomparso Un fenomeno particolare va segnalato per una zona della regione del Vulture denominata valle di Vitalba. Ad opera di Giovanni d’Angiò fu fondata la Terra di Atella tra il primo e il secondo decennio del XIV secolo, cittadina che si pose come nucleo di coagulo di energie di diversa provenienza e sia pure nelle sue dimensioni limitate divenne un punto fondamentale negli insediamenti della regione del Vulture. La nuova aggregazione demica, grazie alle esenzioni fiscali concesse dal sovrano, fu immediatamente popolata da uomini provenienti dai casali circostanti, ormai disabitati85. Nel 1330, «propter constructione terre Atelle», i cittadini di Rionero decisero di abbandonare il proprio paese e di stabilirsi nel nuovo centro «propter libertatem quam consequabantur decennii spacio ex translatione habitationis eorum» dal pagamento delle imposte «et aliarum fiscalium munerum» divenuti per loro una «importabili saracina»86. Il sito si militarizzò e si fortificò con la costruzione di un castello di grande dimensione e della cinta muraria; si arricchì di nuovi edifici di edilizia sia gentilizia che religiosa. Nel 1358 la cittadina doveva essere sicuramente già definitiva nei suoi elementi urbani più importanti se gli abitanti chiesero di ospitare i Frati Minori «in loco tamen ad hoc congruo et honesto». Questo edificio religioso doveva avere una chiesa «seu oratorio, campana, campanili, cimiterio, domibus, et aliis necessariis officinis»87. Il convento, in realtà, fu edificato solo nel 145388. Nel 1361 Atella subì il suo primo assedio: Anichino di Bongarten, alleato di Luigi di Durazzo, si rifugiò nella città lucana durante la contesa fra il durazzesco e Luigi di Taranto, marito della regina Giovanna. Niccolò Acciaiuoli, gran siniscalco e signore di Melfi, costrinse Anichino ad abbandonare Atella. Lo stesso Niccolò, in una lettera al figlio Angelo, così descriveva Atella: «terra di messer Loysi, que se clama Atella [...] la quale è forte assai»89. Pellettieri, Dai casali della Valle di Vitalba, cit., pp. 21-49. Fortunato, Santa Maria di Vitalba, cit., pp. 132-33. 87 Ivi, pp. 135-37. 88 Ibid. 89 Pellettieri, Dai casali della Valle di Vitalba, cit., p. 30. 85 86

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Atella esercitò una forte attrazione sugli abitanti dei centri limitrofi; proprio per questo non solo vi erano «molte casate de cittadini antiqui de Atella che se ponevano lo cognome dei casali e castelle disabitati», perché chi venne «ad abitare in Atella se piglio lo cognome de la sua patria», ma anche una strada della città che «principiava dallo castello e calava dritta a bascio verso la chiesa de Santo Vito et teneva grandezza et habitatione assai» era detta appunto «strada dei casali» poiché «ce abitavano la gente delli casali che vennero ad Atella ad abitare»90. La città raggiunse il massimo del suo sviluppo e del suo splendore con il Quattrocento, quando divenne la più ricca e probabilmente la più popolata di tutta la Basilicata. In questo periodo si insediarono i Francescani, i Domenicani e gli Agostiniani. La ricostruzione dell’impianto urbano di questa città di fondazione, l’unica in Basilicata per l’età angioina, è stato effettuato non solo sulla base delle fonti storiche, che comunque per l’età medievale risultavano veramente molto scarse. Il sito è stato ricostruito e analizzato con foto aeree sulle quali è stata effettuata una fotolettura. L’impianto urbano trecentesco, cioè quello della fondazione, è stato individuato tra il castello fin poco oltre la chiesa madre e dal versante occidentale del colle fino alla chiesa medesima. Il resto dell’abitato fu costruito in seguito ad ampliamenti sia spontanei sia pianificati. Si tratta di un impianto regolare caratterizzato da isolati in gran parte quadrati, in misura minore rettangolari. Questa organizzazione a scacchiera trova un suo polo ordinatore nella piazza, che è insieme piazza del mercato e sagrato della chiesa madre91. Davanti a questo spiazzo passava l’asse viario principale. Su questa strada insistevano le botteghe e le case degli artigiani e si svolgevano tutte le operazioni economiche più importanti92.

90 Società napoletana di Storia Patria, Carte Fortunato, Copia a processu originalis cause vertentis in Sacro Regio Consilio inter Universitatem et homines Ruborum ex una et Universitatem et homines Atelle Sancti Felicis Illustrem Principem Ascoli et alii – Die 17 Mensis Januarii 1583. 91 Molto preciso e innovativo lo studio L. Riccetti (a cura di), La piazza del duomo nella città medievale (nord e media Italia, secoli XII-XVI). Atti della giornata di studio (Orvieto, 4 giugno 1994), Orvieto 1997; su questo argomento si auspicano studi più precisi anche per il Meridione. 92 N. Masini, L’impianto urbano di Atella nel tardomedioevo, in AA.VV., Dal Casale alla Terra di Atella, cit., pp. 51-74.

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Di fronte la piazza sorgeva il monastero di San Benedetto, «antichissimo [...] il quale è luogo grande con giardino cinto d’alte mura. In piano vi è il refettorio, cucina, dispensa ed altre stanze per comodità. E per grada di fabbrica si sale à due dormitorii, dove sono più camere coverte capaci al numero 33 monache coverte con tetti». Nella nuova cittadina si andarono a insediare una comunità francescana, una domenicana e una agostiniana. L’ubicazione di queste strutture ai margini della cinta muraria o nell’area extraurbana è una caratteristica frequente di questi insediamenti. Non a caso i Domenicani, nel 1434, si vanno a insediare al di fuori di una delle porte cittadine denominata Porta Melfi, i Francescani, nel 1453, nei pressi delle mura vicino Porta Potenza e gli Agostiniani nella zona di Porta Napoli. Le tre comunità nascevano molto distanti fra loro e in tre diverse circoscrizioni parrocchiali. I motivi di questa scelta sono facilmente individuabili: i frati vivevano di elemosina e avevano come loro compito primario la predicazione. Per attirare i passanti si insediavano vicino le porte e sulle strade principali. Pertanto, il loro campo d’azione doveva essere parcellizzato, in quanto solo in questa maniera ci sarebbe stata una certa garanzia per la loro stessa sopravvivenza. Si ritiene molto significativo segnalare un altro aspetto legato all’insediamento di Atella. Quando gli abitanti dei casali circostanti furono invitati e incoraggiati a spostarsi nel nuovo centro con la promessa di esenzioni da imposte, questi si trasferirono in massa. Anche se la documentazione non ci offre spunti, possiamo immaginare che ogni quartiere fu abitato dalla popolazione che proveniva da ogni singolo casale. In pratica i nuovi residenti che provenivano da uno stesso casale si raccoglievano nella stessa zona del nuovo centro dove andavano a insediarsi. Questo processo di radicamento ci porterebbe a individuare anche il motivo per il quale alcune zone erano intensamente abitate e altre, invece, presentavano un basso indice di insediamento. Ad Atella la zona di Sant’Eligio ancora oggi è completamente spopolata, ma sappiamo da testimonianze documentarie del 1624 che già allora in quell’area urbana non c’erano più abitanti e che, pertanto, alla chiesa di Sant’Eligio, che nasceva nel cuore del quartiere, era stata revocata la facoltà di amministrare i sacramenti. Se il versante est-sud-ovest si presentava con un basso tasso insediativo, fortemente urbanizzata era la zona est-nord-ovest e in particolare il rione nel quale sorgeva la chiesa madre.

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Questa ipotesi è avvalorata da un documento del 1598: si tratta di un testamento effettuato da un certo Arcuzio di Atella, uomo ricco e colto che fra i suoi averi annoverava molti libri che lasciava in eredità a un suo nipote. In questo testamento, dunque, sono descritti alcuni beni di Arcuzio situati nella zona di Sant’Eligio: «le case del Studio di due membri soprani et la stalla di sotto siti nella parrocchia di S. Eligio confina all’orto delle case di esso testatore e le vie pubbliche», e, più avanti, «uno cellario et grotta et orto contiguo sito nella parrocchia di S. Eligio iuxta le vie pubbliche et confina con lo casalino dell’Abate di Santa Maria di Perno». L’intera zona in esame era caratterizzata dalla presenza di orti, di stalle, di «cellari» e di grotte atti alla conservazione del vino e dell’olio o al ricovero degli animali. Nessun grosso cambiamento paesaggistico doveva esserci fra il rione di Sant’Eligio e la zona suburbana: la città si confondeva con la campagna circostante93. Certo la nuova fondazione non nasceva ex novo su un sito mai popolato: in un documento del 1152 si segnala un casale denominato Sant’Angelo di Atella94, in un altro del 1221 viene nuovamente menzionato95. Spesso, anzi, le nuove fondazioni vanno a insediarsi in porzioni territoriali già antropizzate e che presentano caratteristiche geografiche adatte al nuovo insediamento96. 93 Per l’intera ricostruzione dell’abitato appena menzionata cfr. Pellettieri, Dai casali della Valle di Vitalba, cit., pp. 21-50. 94 Fortunato, Santa Maria di Vitalba, cit., pp. 23-29. 95 Ivi, pp. 47-49. 96 In relazione agli impianti di nuova fondazione pienamente convincente la tesi di R. Comba, I borghi nuovi da progetto a realizzazione, in Comba, Settia (a cura di), I borghi nuovi, cit., p. 292: «L’adozione di piante ortogonali nei centri di nuova fondazione è dunque espressione di una cultura che, pur affondando le proprie radici nella tradizione classica, appare comunque una rielaborazione originale nelle conoscenze geometriche-agrimensorie, trasmesse innanzitutto dalla scuola medievale, espresse a livelli tecnici e progettuali assai diversificati. Non sempre l’ortogonalità e la regolarità d’una pianta sono il risultato di una progettazione iniziale: derivano spesso da scelte successive che rilevano una grande capacità di individuare schemi razionali ed estetici di sviluppo di realtà insediative già consolidate. Occorre quindi grande prudenza nel definire tout court ad un unico momento progettuale iniziale i borghi ancora oggi caratterizzati da una pianta a scacchiera. La ricerca attuale, meno pregiudicata che in passato dall’adozione di rigidi schemi tipologici e attenta a nuovi apporti disciplinari evidenzia infatti, anche per i borghi nuovi, una grande varietà e complessità di situazioni e di sperimentazioni urbanistiche, su cui medievisti, archeologici, storici dell’architettura e dell’urbanistica non potranno che riflettere ancora».

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Un caso simile a quello di Atella può identificarsi con Grassano. Anche questo piccolissimo casale nel 1276 dipendeva da un insediamento più grande, cioè la cittadina di Tricarico, e per questo motivo non viene menzionato fra gli insediamenti che pagavano le imposte nella Generalis subventio angioina di quell’anno; al contrario, il centro demico nel 1320, data della successiva subventio, si ritrova fra i paesini che dovevano il censo. Questo significa che in circa cinquant’anni erano completamente mutate le condizioni di questo casale. Un documento del 1368 ci tramanda la notizia che il papa chiedeva la restituzione della precettoria dell’Ordine ospedaliero al priore di Barletta da parte di Tommaso Sanseverino97. Inoltre, nell’elenco dei commendatori di Grassano fornitoci da Giuseppe Gattini si menziona come primo commendatore di cui si ha notizia sicura un certo fra’ Troilo Sansone di Troia nell’anno 136598. Questo significa che il casale di Grassano fu concesso ai Cavalieri di Malta fra il 1277 e il 1320 e che essi nel giro di pochi anni riuscirono a trasformarlo. Questa vicenda rende Grassano un caso di studio molto particolare, poiché si ritiene non siano molti i centri di nuova fondazione attribuiti ai Cavalieri giovanniti. Ben diversa la storia di Satrianum, che è un esempio di continuità insediativa dal Neolitico al Medioevo. Il sito archeologico ha sempre attirato l’attenzione degli archeologi, che negli ultimi trent’anni hanno condotto una serie di campagne di scavo per portare alla luce nuove informazioni capaci di fornire elementi essenziali per individuare la vita, le consuetudini e le vicende del piccolo paese lucano. L’impianto urbano, di origine alto-medievale, si inserisce in stretta continuità con l’ultimo insediamento del IV-III secolo a.C.: trattasi del fenomeno di persistenza di un sito abitato ben noto ai geografi. Un centro, infatti, può subire un processo di spopolamento dovuto a diverse cause, un terremoto, una guerra, una scomparsa naturale, 97 Su Grassano si segnalano gli studi di G. Bronzino, Fonti documentarie e bibliografiche per la storia di Tricarico e di altri centri viciniori (secc. XI-XX), in «Bollettino storico della Basilicata», 3, 1987, pp. 15-36, in particolare pp. 23-25; Id., Codex diplomaticus Tricaricensis (1055-1342), in «Bollettino storico della Basilicata», 8, 1992, pp. 43-75. Bronzino segnala il documento del 1368 pubblicato in F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. III, Roma 1975, p. 23, n. 7830, che nel regesto riporta: «4 giugno 1368 – N. V. Thomae de Sanctoseverino, Militi Tricaricen., mandat ut praeceptoriam de Grassano, Hospit. S. Johann. Jerosol., restitui faciat Priore Barolo». 98 Archivio di Stato di Matera, Fondo Gattini, B.D, fasc. 8b.

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ma in molti casi esso rinasce proprio in funzione della favorevole posizione geografica. La documentazione su Satrianum in età medievale è consegnata in un piccolissimo numero di pegamene: nel 1083 Goffredo, conte di Satrianum, e sua moglie Sikelgaita, figlia di Rao de Molise, concessero alla badia di Cava un monastero sito «a foris de ipsa jam civitatis [...] integrum [...] qui constructum est ad onorem Santi Blasi», specificando che «quicumque homo in rebus ipsius monasterii Sancti Blasi at abitandum intreberit non requirantur a nobis vel a nostris heredibus, neque a quibuscumque actoribus nostris [...] set semper ipsum monasterium Sancti Blasi martiris et in omnibus hominibus qui in rebus ejus abitaberint securi et absque omni molestia persistant a parte nostra et heredum nostrorum»99. Dunque, il conte già prevedeva la nascita di un borgo intorno al monastero, cosa che avvenne come si spiegherà più avanti. I rapporti con la badia di Cava continuarono: nel 1096, lo stesso Goffredo confermò la concessione della chiesa di Santa Maria Vergine, «que est sitam in ipso monte Satriano», alla badia di Cava fatta da Tristano, «meus miles qui terram tenet per me in Satriano»100. Inoltre, nel 1195 il conte Guglielmo, figlio del conte Enrico, confermò al monastero di Cava il possesso di una «ecclesia Santi Blasii que sita est in tenimento Civitatis nostre Satriani» insieme con «homines, criptam, yscam planam et omnes possessiones et omnia tenimenta»101. È del 1080 la prima notizia sull’esistenza della chiesa cattedrale: il vescovo Giovanni edificò un altare al protomartire santo Stefano, cui la chiesa era dedicata102.

99 Spera, Monografie storiche, cit., pp. 43-45. Il documento segue: «et per combenientia obligamus nos et nostros heredes sempre difendere ipsi domno abbati et subseccoribus ejus et partibus predominati monasterii ipsum integrum monasterium Sancti blasi et totum illud quod in eodem monasterio Sancye Trinitatis obtulimus et concedimus ab omnibus ominibus et tribuimus licentiam, ut quando ipse domnus abbas et subcessores ejus et pars ipsius monasterii boluerint, potestatem abeant illut per se difendere qualiter boluerint cum omnibus muniminibus et rationibus quas de eo ostenderit». 100 Ivi, pp. 46-47. 101 Ivi, pp. 48-49. 102 Kehr, Regesta pontificum romanorum, vol. IX, cit., p. 518.

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Dalle rationes decimarum del 1320 apprendiamo, inoltre, la presenza di un altro monastero e altresì l’elenco dei centri demici che afferivano a questa diocesi, Caggiano, Sant’Angelo le Fratte, Pietrafesa, Rocca e Salvia103. Davvero poche sono le notizie che si estrapolano dai documenti e sicuramente non sufficienti per ricostruire la morfologia e la consistenza dell’insediamento. Uno scavo archeologico a metà degli anni Sessanta ha permesso la ricostruzione dell’antica cattedrale che si presentava come un edificio rettangolare con un’abside e una cappella nell’angolo nord-est e tracce di una cripta nella parte occidentale. Essa era lunga 23 metri e larga 11, l’abside non misurava più di 3 metri e la cappella, al di sotto della quale sono ipotizzabili i resti di una tomba, misurava 4 metri per 2; nella parte nord del muro è ravvisabile una porta d’ingresso che permetteva l’accesso a un cortile al centro del quale c’era una cisterna. Il lato ovest del cortile era racchiuso da un muro che si appoggiava a una piccola costruzione quadrata di soli 3 metri con un ingresso ad arco e una finestra su ognuno dei tre lati. Questa struttura è probabilmente quella di un campanile104. La fotointerpretazione e la fotogrammetria aerea hanno permesso di restituire parti consistenti del tessuto urbano dell’abitato medievale, attraverso l’interpretazione di tracce di microrilievo costituite da fondazioni e da materiale di crollo che individuano, in molti casi, le piante dei singoli corpi di fabbrica. Pochi, infatti, sono i resti in elevazione come tratti della cinta muraria dell’abitato posto sulla sommità del colle, i resti di un edificio religioso riferibili alla cattedrale e la torre, restaurata alcuni anni fa. Con l’ausilio di queste tecniche si è ricostruita la forma urbana dell’abitato, posto sul colle a circa 900 metri sul livello del mare. Esso si sviluppava all’interno di una cinta muraria che si arrestava nei pressi della torre, dove l’acclività del pendio era già sufficiente a proteggere il centro: si è individuata una sola porta d’accesso del perimetro difensivo posta ai piedi della cattedrale. L’abitato si sviluppava su una strada, forse la principale, che passando vicino la cattedrale attraversava

103 D. Vendola, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria, Città del Vaticano 1939, p. 172. 104 R. Whitehouse, Excavations at Satrianum: A Deserted Medieval Settlement in Basilicata, in «Papers of the British School at Rome», XXXIII, 1965, pp. 188-219.

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l’intero insediamento. Su di essa nascevano due file di case a schiera che avevano un andamento abbastanza lineare. A monte di questi caseggiati ci sono segni evidenti di un edificio di grandi dimensioni attribuibili alla chiesa di Santa Maria Vergine, che il documento del 1096 indica come situata «in ipso monti Satriani». All’abitato si giunge attraverso una strada ripida che segue il versante sud-est del colle. Prima di arrivare al nucleo abitato appena descritto si costeggia un altro piccolo nucleo abitato nel quale le tracce di microrilievo mostrano alcune abitazioni e un complesso architettonico di grandi dimensioni. Potrebbe trattarsi del monastero di San Biagio, situato nel 1083 fuori del centro abitato e intorno al quale già nel 1195 era sorto un piccolo borgo, come ci tramandano i documenti sopra segnalati. Continuando per questa stessa strada si giunge sulla sommità del colle, dove la via si biforca in due rami: uno è quello che attraversa il caseggiato a schiera, l’altro invece arriva all’estremità nord-ovest, dove sorge la torre. In base a questi importanti dati raccolti si sono potute avanzare alcune ipotesi. La cinta muraria del centro abbraccia anche il piccolo borgo posto a valle dove era situato il monastero di San Biagio, che invece in età normanna sappiamo con certezza ubicato extra moenia. La popolazione in questo nuovo casale era presente alla fine del XII secolo. Inoltre, dalla Generalis subventio del 1277 apprendiamo che erano presenti 151 fuochi e in quella successiva 224, con un aumento pari all’80 per cento. Forse fu proprio durante il periodo svevo che i due centri si unirono e una nuova cinta muraria fu costruita per inglobare il nuovo rione di San Biagio. Nella tassazione focatica del 1447 e in tutte quelle successive Satrianum non compare più. Dunque, nel giro di un secolo il centro demico era stato completamente abbandonato e anche la sede diocesana spostata temporaneamente a Sant’Angelo le Fratte. Sappiamo con certezza che agli inizi del Quattrocento Potenza e molti altri centri furono colpiti da una terribile peste detta «delle ghiandole», che ancora nel 1430 mieteva vittime. Si ritiene che questo sia l’evento che portò allo spopolamento di Satrianum e che i cittadini e lo stesso vescovo si spostarono in centri limitrofi per sfuggire all’epidemia. Considerando anche l’assortimento caotico di materiale crollato che è presente lungo la fascia centrale del crinale, si può sospettare che il noto e terribile terremoto del 1456, che colpì in maniera violenta molte regioni del Meridione, compromise una situazione urbana già in parte fatiscente.

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Parte prima. Quadri ambientali, popolamento e istituzioni

È molto probabile che sia i cittadini sia il vescovo tentarono di rientrare nel loro paese: infatti, la sede diocesana solo nel 1525 fu soppressa e accorpata a quella di Campagna. Fino a questa data il vescovado fu ospitato a Sant’Angelo le Fratte, forse proprio perché si cercava di ricostruire e ripopolare il paese105. Non credo, invece, si possa dare credibilità alla distruzione voluta da Giovanna II, anche perché non è l’unica leggenda che si racconta sulla distruzione di Satrianum. Un altro racconto popolare recita addirittura che in una stessa notte furono disabitati non solo Satrianum ma anche Gloriosa, un altro centro del potentino spopolatosi in quel periodo, poiché gli abitanti dei due centri in lotta fra loro nella stessa notte decisero di sferrarsi un attacco. Gli abitanti di Satrianum attaccarono Gloriosa e viceversa. Trovandolo disabitato, entrambi gli eserciti distrussero a vicenda l’altro paese. Le stesse erudite fantasie si amplificano per Gloriosa. Un’altra leggenda racconta che gli abitanti di questo piccolo centro legarono la propria campana al giogo di due buoi che, dopo aver vagato per un po’ di tempo, si diressero a Pignola e lì scelsero la nuova dimora. È probabile che anche Castel Glorioso fosse in quel periodo stremato dalla peste e che gli abitanti si trasferirono in un centro vicino, che sicuramente non fu Pignola, assente, come Gloriosa, nella tassazione focatica del 1447. 5. Le nuove fondazioni demiche della Basilicata aragonese Alla fine del Quattrocento le fonti ci tramandano la nascita di un altro centro denominato Ferrandina, in onore di re Ferrante. Non si conosce con sicurezza l’anno di fondazione: sappiamo, invece, che il nuovo insediamento, che nasceva nel territorio di Uggiano, fu popolato proprio in questo periodo da abitanti della stessa Uggiano. «Ogiano nomine Ferrandone», recita una fonte del 1497: ormai il nuovo insediamento aveva sostituito del tutto il vecchio centro. Uggiano sembra scomparso per calamità naturali: da recenti indagini effettuate sul sito abbandonato sembra che la causa più probabile 105 Su Satrianum mi permetto di segnalare Masini, Pellettieri, Potenza, Satriano: città fortificata, cit., pp. 779-86.

A. Pellettieri   Borghi nuovi e centri scomparsi

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della sua diserzione sia stata una frana di notevolissime dimensioni che nel giro di pochi anni causò lo spopolamento del centro demico. Un documento molto tardo ci dice di Uggiano «que omnia diruta fuerunt propter terremotum, et permutata fuit abitatio dicte terre Ugiani in terra Ferrandine noviter constructa»: è chiaro che la diserzione del sito avvenne per una causa naturale e che la popolazione un po’ alla volta abbandonò Uggiano per trasferirsi nel nuovo centro. La fondazione di Ferrandina non avvenne, dunque, a causa dello spopolamento di Uggiano. I due centri per un breve periodo sono, infatti, menzionati insieme nelle fonti106. Il tentativo di ripopolare alcuni casali disabitati ancora a cavallo tra il XV e il XVI secolo è, comunque, sempre legato all’arrivo di nuovi gruppi etnici: sintomatico il caso del casale di Morbano, deserto già a metà del XIV secolo, quando il famoso monastero di San Nicola di Morbano, di origine greca, punto di coagulo e motivo di aggregazione per questo piccolo borgo, era stato anch’esso abbandonato ed era caduto in rovina. Ebbene, nel 1512 il commendatario della nuova abbazia di San Martino di Venosa, proprietario dell’ormai disabitato casale di Morbano, desidera riedificarlo facendolo abitare dai lombardi o da uomini di altre nazioni «non numeratis et annotatis in ultima numeratione in hoc regno facta». Questi nuovi abitanti sarebbero stati esentati da tutte le tasse, compresa quella del sale107. Ma il documento, nella parte finale, segue una strada completamente diversa: dopo dieci anni tutti i nuovi abitanti e lo stesso commendatario avrebbero dovuto pagare nuovamente le tasse alla Regia camera della sommaria, altrimenti sarebbero andati incontro a sanzioni pecuniarie molto pesanti. Il viceré Raymondo de Cardona poneva questa precisa clausola che assicurava, dopo i dieci anni di franchigia, il ritorno a una normale situazione fiscale che con molta probabilità nel passato, in casi simili, non era stato possibile ripristinare. Non a caso il documento termina con una secca imposizione: «post datum volumus tamen quod postquam fuerit habitatum dictum casale exhibeatur fideiussio intra

C. Palestina, Ferrandina. Appendice documentaria, vol. IV, Venosa 1994. R. Briscese, Le pergamene della Cattedrale di Venosa. Regesto di S. Nicola di Morbano, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 10, 1940, pp. 338-40, doc. XL. 106 107

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Parte prima. Quadri ambientali, popolamento e istituzioni

annum murandi aut muris cingendi ipsum et quod resarcient damna que interim ab eisdem incolis committerentur et non alias nec alio modo data ut supra». Anche per i profughi, inizialmente ben accolti e protetti, le cose cominciavano a cambiare a causa delle lamentele delle popolazioni autoctone, spaventate dai comportamenti facinorosi e violenti dei nuovi arrivati.

Parte seconda ORGANIZZAZIONE ECCLESIASTICA E VITA RELIGIOSA

LE ISTITUZIONI ECCLESIASTICHE DAL TARDO ANTICO AL TARDO MEDIOEVO* di Cosimo Damiano Fonseca Che il processo di cristianizzazione nei territori dell’antica provincia lucana avesse seguito gli stessi ritmi e avesse conosciuto le stesse caratteristiche delle altre aree dell’Italia meridionale, è stato di recente ribadito e confermato attraverso una rivisitazione della letteratura storica che al fenomeno aveva dedicato, a cominciare dagli studi del Lanzoni dell’inizio del Novecento, una insistita attenzione e attraverso un’accorta esegesi, oltre che dei documenti pontifici, delle testimonianze epigrafiche, dei testi letterari, delle fonti agiografiche1. Alcuni elementi vanno posti in significativo risalto per spiegare il graduale radicamento dell’ordinamento ecclesiastico in una regione, come questa, dalle caratteristiche morfologiche molto variegate e complesse: il sistema viario che, come è stato già rilevato, per la Abbreviazioni Acta Sanctorum, Ianuarii I-Octobris III, Antverpiae 1643-1770. Bibliotheca Hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, 2 voll., Bruxellés 1898-1901; Supplementum, Bruxellés 19112. Campione A. Campione, La Basilicata paleocristiana. Diocesi e culti, «Scavi e ricerche», 13, Bari 2000. Italia Pontificia Regesta Pontificum Romanorum iubente Societate Gottingensi, a cura di P.F. Kehr, Italia Pontificia, vol. VIII, Regnum Normannorum-Campania, Berlin 1935; vol. IX, Samnium-Apulia-Lucania, a cura di W. Holtzmann, Berlin 1962. Thiel Epistolae Romanorum Pontificum genuinae, a cura di A. Thiel, Hildesheim-New York 1974. AA.SS. BHL

* Ricerca effettuata nell’ambito della Commessa PC-PO7-IBAM, CNR - Lagopesole (Pz). 1 Campione, pp. 27-31.

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Parte seconda. Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa

Lucania/Basilicata risulta sostanzialmente monodirezionale, costituito dalla via Erculia, l’unica strada di raccordo tra l’Appia e la Popilia, interessate rispettivamente dagli snodi di Venosa e di Nerulum2; l’iniziale insediamento di comunità sparse non inserite organicamente nei gangli di precise circoscrizioni carismatiche, ma assistite, oltre che da clerici, anche da qualche ecclesiastico insignito dell’ordine episcopale, ancorché non titolare di una specifica sede: spia significativa ed eloquente di una concezione giuridico-canonistica ancorata alle prerogative personali e originarie delle funzioni carismatiche consistenti nell’amministrazione dei sacramenti e nella celebrazione liturgica3; il passaggio, nella seconda metà del V secolo, a una visione territoriale della giurisdizione ecclesiastica che supera il principio gelasiano che non è il territorium (quod) facit diocesim, ma l’unità sacramentale del mysterium Ecclesiae riverberato nella stretta unione tra colui che detiene i poteri carismatici e coloro che di questi poteri sono partecipi4. 1. Evangelizzazione della Lucania e assetti istituzionali alla fine del V secolo Ebbene, su queste sequenze avviene la primitiva evangelizzazione delle genti lucane lungo la via Erculea, da cui si dipartono i pellegrinaggi verso la tomba di san Felice a Nola percorrendo molto verosimilmente, dopo lo snodo di Nerulum, la via Pompilia nel tratto Consilinum-Salernum-Nola5. Di Lucani recatisi in pellegrinaggio a Nola sul finire del IV secolo fa fede il terzo dei Carmina natalicia di Paolino, il quale annota in occasione della festa liturgica del 14 febbraio del vescovo Felice la presenza di Lucani provenienti dalle aride terre del Tanagro («qui sicca Tanagri / quique colunt rigui felicia culta Galesi»)6. In ogni caso, nei 2 Ivi, pp. 17-25. Cfr. P. Dalena, Strade e percorsi nel Mezzogiorno d’Italia (secc. VI-XIII), Cosenza 1995. 3 Campione, pp. 31-36. 4 C. Violante, Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale (secoli V-X), in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’Alto Medioevo: espansione e resistenze, «Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo», XXVIII, Spoleto 1982, pp. 972-1000, in particolare pp. 976-77. 5 Campione, pp. 22-25. 6 Paolino di Nola, Carmina, 14, 55-64, in CSEL, XXX/2, Wien 1894, pp. 47-48.

C.D. Fonseca   Le istituzioni ecclesiastiche dal tardo antico al tardo Medioevo

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primi decenni del secolo seguente questo legame tra la Lucania e il celebre santuario feliciano non si interrompe, come si evince dalla epistola scritta da Uranio, discepolo di Paolino da Nola, secondo la quale il presbitero Postumiano ricordò a Paolino ormai in punto di morte (431)7 che pendeva ancora un debito di 40 soldi contratto «pro vestimentis quae pauperibus fuerunt erogata». Paolino lo rassicurò che ci sarebbe stato subito qualcuno che lo avrebbe saldato. Non attesero molto tempo («non longa mora») che a Nola giunse un «presbiter de Lucaniae partibus» inviato dal vescovo Esuperanzio e da suo fratello Ursazio con un dono di 50 soldi per il vescovo nolano8. Chi fosse questo «sanctus episcopus», di quale sede fosse titolare, a quale famiglia, certamente aristocratica se suo fratello compare con la qualifica di «vir clarissimus», appartenesse, non sappiamo. Che Esuperanzio esercitasse poi funzioni liturgico-pastorali per quei gruppi di fedeli non ancora inquadrati entro una precisa circoscrizione ecclesiastica, ma raccolti presso chiese e oratori in comunità private, è probabile. Del resto, della situazione dell’Italia meridionale e della Chiesa lucana in particolare alla fine del V secolo fanno fede le lettere di papa Gelasio datate tra il marzo del 494 e l’agosto del 495. Da esse si ricava innanzitutto lo stato di estrema precarietà istituzionale in cui versavano i territori della Lucania, del Bruzio e della Sicilia, se per ovviare ad esso il pontefice aveva ritenuto di intervenire con una lettera sinodale «universis episcopis per Lucaniam et Brutios et Siciliam constitutis» richiamando un principio già formulato in una precedente lettera a un vescovo di cui ignoriamo il nome9, che cioè nessuna chiesa di nuova fondazione poteva essere consacrata senza l’autorizzazione del papa, citando, in proposito, un canone che prescriveva quanto segue: «basilicas noviter institutas non petitis ex more praeceptionibus, dedicare non audeant»10. Era, infatti, tenuto il fondatore a chiedere l’autorizzazione del papa per ottenere la consacrazione di un nuovo oratorio. Chiara direttiva, quella del papa, di normalizzazione dei casi 7 Uranio, Epistola de obitu S. Paulini, in Patrologiae Latinae cursus completus, edidit J.-P. Migne, Parisiis 1847, vol. LIII, c. 861. 8 Ibid. Sulla sede episcopale di Esuperanzio non vi sono riferimenti sicuri. Lanzoni gli attribuisce quella di Paestum (F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del VII secolo (an. 604), «Studi e testi», 35, vol. I, Faenza 1927, p. 322). 9 Thiel, Epist. 14, pp. 360-69. 10 Ivi, Epist. 25, pp. 391-92.

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abnormi costituiti da iniziative laicali assunte in piena autonomia al di fuori della disciplina canonica. Ma non era solo il problema della dedicazione delle chiese e degli oratori che troviamo presente nella lettera sinodale dianzi citata. In essa si faceva cenno ad altre questioni che sempre nella direttiva della normalizzazione degli assetti ecclesiastici interessavano i territori meridionali: i luoghi disponibili per la promozione e l’ordinazione dei chierici; i monaci e i laici aggregati all’ordo dei chierici; la gratuità del battesimo; l’ordinazione dei diaconi e dei presbiteri e i compiti loro affidati; l’assunzione dei voti delle vergini; la proibizione per le vedove di pronunciare i voti religiosi; l’ammissione dei servi in un monastero senza l’autorizzazione dei rispettivi padroni; la proibizione per i chierici di essere coinvolti in affari disonesti; la similare proibizione di essere ammessi agli ordini sacri per gli illetterati, i portatori di handicap, i maghi, gli operatori di pratiche demoniache; la penitenza da imporre a coloro che avevano avuto rapporti carnali con le vergini che avevano emesso i voti; il transitus ad altre chiese; la gratuità delle ordinazioni; la proibizione di consacrare chiese senza l’autorizzazione della Sede apostolica; il ruolo delle donne nella pratica liturgica; la quadripartizione delle rendite delle chiese11. In una lettera successiva, nella quale si fa riferimento ai «praecepta sinodalia» precedentemente impartiti, Gelasio I ribadiva il principio che una chiesa di nuova fondazione non poteva essere consacrata senza l’autorizzazione pontificia, fatto salvo, in ogni caso, un luogo di culto dedicato alla memoria dei martiri «ne a mysteriorum gratia diu vacuus permaneat»12. Alcune delle questioni indicate da Gelasio I nella lettera sinodale all’episcopato della Lucania, del Bruzio e della Sicilia interessavano o vedevano coinvolti direttamente sia i vescovi che i territori lucani. Ci si riferisce in particolare all’ordinazione degli schiavi e alla consacrazione delle chiese. Alla soluzione della prima furono interessati tre vescovi, Erculenzio, Stefano e Giusto, titolari rispettivamente dei territori diocesani di Potenza, Venosa e Acerenza. Gelasio tra la fine del 494 e l’agosto del 495, alcuni mesi dopo Ivi, Epist. 14, p. 364. Ivi, Epist. 25, pp. 391-92. Sulla riforma gelasiana cfr. le acute osservazioni di Violante, Le strutture organizzative, cit., pp. 983-1000. 11 12

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l’invio della lettera sinodale, metteva a parte i tre presuli delle ricorrenti lamentele pervenute alla Sede apostolica circa l’operato di alcuni vescovi i quali, in difformità alla prassi canonica («antiquae regulae») e alle sue direttive («decreta nostra noviter directa»), promuovevano alla dignità e all’ufficio clericale gli schiavi13. Quanto alla prassi antica sono stati fatti gli opportuni richiami al canone X del primo Concilio di Toledo (400), al IV del Concilio di Calcedonia (451) e verosimilmente a un provvedimento di papa Bonifacio (418-422) contenuto in una notazione del Liber pontificalis relativa alla proibizione esplicita di promuovere uno schiavo a clericus14. Per i decreta gelasiani «noviter directa» l’immediato riferimento è alla lettera sinodale più volte richiamata dello stesso Gelasio I sollecitata dal vescovo di Ravenna Giovanni, cui viene riconosciuto un efficace ruolo di mediazione tra i due capi barbarici Teoderico e Odoacre15. Ma esaminiamo concretamente il contenuto della epistola gelasiana a Erculenzio, Stefano e Giusto. Esso riguardava una diocesi dell’antica Lucania, Consilinum o Marcellianum, dove il vescovo locale, Sabino, aveva conferito il presbiterato a un certo Antioco e ammesso al clero suo fratello Leonzio, ambedue schiavi della matrona Placidia. I rappresentanti (actores) della illustris femina avevano protestato per l’iniziativa di Sabino, avvenuta peraltro all’insaputa della padrona. Gelasio affidava ai tre vescovi l’accertamento dei fatti e, nel caso insorgessero difficoltà nella soluzione della questione, suggeriva la linea di condotta cui ispirarsi: innanzitutto di distinguere chiaramente lo stato di Antioco «ad presbiterii honorem usque productus» da quello del fratello Leonzio, insignito del «clericalis officii privilegium», e poi, nell’impossibilità di una riduzione allo stato laicale di Antioco, di confermarlo nello stato sacerdotale proponendo a Placidia di tenerlo come presbitero a servizio della sua chiesa; quanto al fratello Leonzio, veniva consigliato la riduzione allo stato laicale e il suo ritorno al primigenio stato servile16. Se, come sembra a Thiel, l’editore dell’epistolario gelasiano, il vescovo Giusto di Acerenza debba essere identificato con il vescovo omonimo destinatario di un’altra lettera di papa Gelasio indirizzata, Thiel, Epist. 21, p. 380. Campione, p. 43. 15 Ivi, p. 38. 16 Thiel, Epist. 21, p. 388. 13 14

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oltre che a lui, al vescovo Martirio di Terracina17, ci troveremmo di fronte a un altro caso simile a quello della diocesi consilina. Infatti il pontefice nella lettera ritorna sul principio che a uno schiavo è interdetto di essere cinto del «cingulum coelestis militiae», condannando i vescovi che, in deroga alle direttive papali, ordinavano gli schiavi («ut ex hac culpa nullus pene episcoporum videatur extorris»)18. L’altra questione che vide coinvolto direttamente l’episcopato lucano fu la consacrazione delle chiese; ne fu protagonista il già ricordato vescovo di Potenza, Erculenzio, destinatario di un’altra lettera di Gelasio I datata tra il 495 e il 496. Il presule potentino doveva accertare e procedere di conseguenza alla soluzione di una richiesta avanzata da Trigezio o Frigenzio relativa a una basilica dedicata a san Michele e a san Marco che il ricorrente dichiarava di aver costruito su un terreno di sua proprietà e per la quale chiedeva la consacrazione. La linea ancora una volta suggerita da Gelasio era innanzitutto di accertare la veridicità del titolo di proprietà, cioè se realmente il luogo di culto si trovasse «in re sua», e, in caso affermativo, di procedere alla consacrazione fermo restando che Trigezio non avrebbe potuto più accampare diritti sulla chiesa divenuta con la benedizione consacratoria un bene della Chiesa potentina19. Dove fosse ubicata questa basilica non è dato conoscere, anche se la Bertelli ha rinvenuto in Potenza una chiesa dedicata a san Michele collocabile tra la fine del V e l’inizio del VI secolo20; quanto al titulus dedicationis pertinenti osservazioni sembrano individuare i tramiti nei contigui territori dell’alta Apulia: ad Aecae per Marco, vescovo dell’omonima diocesi tra il III e il IV secolo, e al Gargano per l’arcangelo Michele, venerato nella grotta dove proprio nel V secolo sono documentate le sue apparizioni21. Comunque, ciò che va posto in significativo risalto è ormai lo stretto collegamento tra esercizio delle funzioni carismatiche e principio della territorialità della giurisdizione ecclesiastica e, inoltre, tra desti-

Ivi, Epist. 20, p. 386. Ibid. 19 Ivi, Epist. 35, p. 449. 20 G. Bertelli, Il territorio fra tardo antico e alto Medioevo: la documentazione archeologica, in questo volume, pp. 505-63. 21 Ibid. 17 18

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nazione cultuale di un edificio sacro ed esclusione di ogni ingerenza laicale. Infatti, il vescovo Erculenzio doveva ammonire il fondatore della basilica affinché acquisisse consapevolezza nel non rivendicare sulla stessa nessun diritto se non quello di accedervi liberamente: prerogativa, questa, riconosciuta a tutti i cristiani. «Nihil tamen fundator», recita l’epistola gelasiana, «ex basilica sibi noverit vindicandum nisi processionis aditum qui Christianis omnibus in comune debetur»22. Ma ciò che conta accentuare, alla luce dei documenti dianzi analizzati, è che, sempre nell’ultimo decennio del V secolo, almeno tre importanti gangli vitali dell’organizzazione ecclesiastica della Lucania risultano saldamente impiantati: in proposito si è fatto cenno, oltre che a Potenza, agli episcopati di Venosa e di Acerenza. Il primo vescovo venosino di cui si ha notizia è Stefano, ricordato insieme con i due confratelli Erculenzio di Potenza e Giusto di Acerenza23; con quest’ultimo compare in un’altra lettera gelasiana datata tra il 492 e il 49624. Viene interessato dal papa a fare chiarezza su un episodio increscioso occorso nella diocesi di Salpi contigua ai territori lucani ricadente nell’alta Puglia. Un tale Brumario, personaggio di un certo rilievo nella vita locale, che viene indicato con l’appellativo di spectabilis vir, aveva ucciso un servo della chiesa di Salpi e aveva offeso gravemente il vescovo titolare della sede, Proficuo. Il compito affidato ai due inquisitori era quello di indagare sull’accaduto e sulle cause che avevano spinto Brumario a usare violenza contro il servo e a coprire il vescovo Proficuo di contumelie. Gelasio I tuttavia non si limitava ad affidare a Stefano e a Giusto il semplice accertamento dei fatti, ma suggeriva loro la linea di condotta da tenere qualora Brumario avesse mantenuto un atteggiamento di disprezzo e cioè di consigliare Proficuo ad adire le vie legali denunciando il colpevole25. C’è chi ha visto in questa determinazione gelasiana un’eco del canone IX del Concilio di Vannes26, che imponeva il rilascio dell’autorizzazione del vescovo per adire a un tribunale; nel caso concreto, Thiel, Epist. 35, p. 449. Ivi, Epist. 21, p. 388. 24 Ivi, Fragm. 14, pp. 490-91. 25 Ibid. 26 Campione, p. 65. 22 23

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trattandosi di un vescovo, l’autorizzazione veniva demandata a un’istanza gerarchicamente superiore, cioè al papa. Quanto alla sede episcopale di Acerenza, l’unico – e il primo – vescovo conosciuto sul finire del V secolo è il più volte menzionato Giusto, destinatario, oltre che delle lettere indirizzate solidarmente a Erculenzio di Potenza, Stefano di Venosa e Martirio di Terracina, di un’altra lettera riguardante gli affari interni della sua diocesi. Anche questa volta si trattava di un problema di fondamentale importanza cui veniva interessato il vescovo di Acerenza da parte di Gelasio I e cioè quello del rapporto tra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione civile. Un tale Glirio, probabile detentore di un ministerium ecclesiasticum di una certa importanza, disprezzando la disciplina ecclesiastica, pretendeva soltanto di «oboedire humanis legibus et pubblicae disciplinae». Non è dato conoscere se, anche in questo caso, il papa avesse suggerito una linea di condotta, anche perché l’epistola ci è pervenuta in maniera frammentaria27. Una più che probabile quarta circoscrizione ecclesiastica dell’età gelasiana fu quella di Grumentum, anche se negli anni dello stesso Gelasio I risulterebbe o non ancora provvista del vescovo o destituta pastore. Sembrerebbero autorizzare questa tesi alcuni non infondati indizi contenuti nelle stesse lettere del papa: nella prima laddove incarica Sabino, vescovo di Consilinum, di consacrare diacono un tale Quarto indicato con l’appellativo di «defensor». Tale atto doveva essere compiuto da Sabino non per i poteri originari e carismatici rivenienti dall’ordinazione episcopale («non potestatis proprii sacerdotis»), ma per esplicito incarico del papa («visitatoris officio»)28. È lecito, quindi, supporre che quello di Grumento fosse un territorio appartenente ad altra giurisdizione ecclesiastica se Sabino assolve nei suoi confronti le funzioni di visitatore. Si aggiunga, inoltre, che risultano presenti in quegli anni a Grumento due chierici e un arcidiacono: si evince da un’altra lettera di Gelasio I indirizzata a Crispino, la cui sede ci è ignota, e al già citato Sabino di Consilinum. Ambedue venivano investiti dal papa di indagare su una «lacrymosa insinuatio» avanzata dai chierici di Grumento, Silvestro e Faustiniano, i quali, dopo essere stati affrancati dalla lo27 Epist. 13, in S. Löwenfeld, Epistolae Pontificum Romanorum ineditae, Leipzig 1885, pp. 7-8. 28 Thiel, Fragm. 6, p. 486.

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ro condizione servile e aver prestato servizio nella chiesa, erano stati privati della loro libertà dagli eredi del loro antico padrone. L’arcidiacono di Grumento, al posto di affidare la causa a un tribunale ecclesiastico, si era rivolto a un tribunale civile29. Sappiamo da un’altra epistola di Gelasio indirizzata a Zeya «comes Gothorum» che a influire sulla decisione dell’arcidiacono era stata soprattutto la matrona Teodora, che rivendicava la proprietà dei due clerici Silvestro e Faustiniano30. Un’ultima circoscrizione episcopale ricondotta all’età gelasiana è Metaponto, attribuita da Lanzoni a un vescovo di nome Reparatus31 sulla scorta di una lettera inviata dallo stesso Gelasio ai due vescovi Erculenzio di Potenza e Stefano di Venosa. In questa lettera il papa invitava i due presuli a farsi inviare dal vescovo Reparatus il presbitero Genitor il quale tratteneva presso di sé lo schiavo Septimus richiesto dal padrone perché fosse giudicato32 (fig. 1). L’ipotesi lanzoniana, ancorché ricavata sulla base del canone di verosimiglianza, non è suffragata da alcuna testimonianza documentaria, anche se il rinvenimento di un complesso religioso articolato in una basilica e in un battistero e ubicato nel castrum della città ripropone il problema dell’evangelizzazione intervenuta in un’area costiera, quale è quella metapontina, dove, almeno sino alla fine del VI secolo, vi era una comunità ancora attiva nei commerci con la Tripolitania, Antiochia, Sardis, l’Egitto, il Nord Africa e la Focide33. Va detto, infine, che entro i confini della Lucania antica ricadevano tra IV e VI secolo altre circoscrizioni ecclesiastiche: Blanda Iulia in prossimità della costa tirrenica, di cui è attestato come vescovo nel IV secolo Iulianus34, Buxentum (presso Policastro), il cui vescovo Rustico

Ivi, Epist. 23, pp. 389-90. Ivi, Epist. 24, pp. 390-91. 31 Lanzoni, Le diocesi d’Italia, cit., vol. I, p. 328. Cfr. Campione, p. 48. 32 Epist. 10, in Löwenfeld, Epistolae Pontificum, cit., p. 61. 33 Gregorio I, Registrum epistolarum, a cura di P. Ewald, L.M. Hartmann, II, 42, in MGH, Epp., 1, Berolini 1891, pp. 141-42. Cfr. M.T. Giannotta, Metaponto ellenistico-romano. Problemi topografici, Galatina 1980, pp. 77-80 e 93; E. Lattanzi, Un complesso di edifici paleocristiani a Metaponto, in Lo scavo di San Giovanni di Ruoti ed il periodo tardoantico in Basilicata. Atti della tavola rotonda (Roma 1981), Bari 1983, pp. 14 sgg. 34 Lanzoni, Le diocesi d’Italia, cit., vol. I, p. 323. 29 30

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Parte seconda. Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa

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Fig. 1. Le diocesi tardoantiche.

è presente ai concili romani del 501 e del 50235, e la già citata Consilinum (l’attuale Sala Consilina)36. 2. L’ordinamento ecclesiastico lucano tra crisi e persistenze Gli assetti istituzionali realizzatisi alla fine del V secolo risultano notevolmente consolidati nella prima metà del secolo seguente. Ne fa fede la partecipazione dei vescovi Stefano di Venosa, Giusto di Acerenza e Amando di Potenza – se risulta esatta l’attribuzione della 35 J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. VIII, Florentiae-Venetiis 1769, pp. 252 e 269; Italia Pontificia, vol. VIII, p. 371. 36 Ivi, vol. IX, pp. 486-87.

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sede lucana non di quella picena allo stesso Amando37 – i quali sottoscrivono gli atti dei tre concili celebrati a Roma nel 499, 501 e 50238. Particolarmente significativa risulta essere la partecipazione di Stefano ai lavori conciliari se nel concilio del 502 egli viene registrato due volte: la prima in occasione del dibattito sulla difesa del patrimonio ecclesiastico dalle ingerenze laicali; la seconda insieme con i vescovi Lorenzo di Milano, Pietro di Ravenna, Eulalio di Siracusa, Crusconio di Todi e Massimo di Blera sempre a proposito di questioni patrimoniali39. Ma una spia significativa della continuità delle successioni episcopali nelle singole sedi e, quindi, una riprova del consolidamento degli assetti istituzionali, è fornita da alcune lettere di papa Pelagio I inviate intorno alla metà del VI secolo. Due sono indirizzate al vescovo Pietro di Potenza, l’altra a Tulliano vescovo di Grumentum. Nella lettera datata tra marzo e aprile del 559 il papa incaricava Pietro di sollecitare il diacono della Chiesa di Grumento, Latino, a recarsi a Roma per ricevere l’ordinazione episcopale nell’imminente sabato santo «post horam baptismi»40. Latino era stato eletto vescovo di Consilinum o Marcellianum dal clero e dal popolo («a clero et a populo illic convenientibus»): ne avevano dato notizia allo stesso Pelagio avanzando la richiesta della postulazione sia gli abitanti del luogo sia il vescovo Pietro41; il papa aveva, quindi, scritto nel marzo 559 a Tulliano vescovo di Grumento esprimendo il suo compiacimento per l’avvenuta elezione e sollecitando l’imminente viaggio a Roma dell’eletto42. Va rilevato che Pietro si trovava a Consilinum come visitator essendo vacante la Chiesa locale. Che, quindi, Pietro avesse un ruolo eminente all’interno dell’episcopato lucano lo dimostra un’altra lettera di Pelagio datata tra il 556 e il 561 e inviata al presule potentino sul caso di un diacono che sembra non appartenesse alla sua chiesa. Questi si era reso colpevole di un incesto e aveva rifiutato di sottoporsi a giudizio in quanto aveva dichiarato che la sua colpa non era suffragata da alcuna prova. Ivi, p. 483. Ivi, p. 452. 39 Ivi, pp. 446-48. Cfr. Campione, pp. 65-66. 40 Epist. 58, in P.M. Gassò, C.M. Batlle, Pelagii I papae epistolae quae supersunt (556-561), Abadía Monteserrat 1956, pp. 153-54. 41 Ibid. 42 Ivi, Epist. 56, pp. 146-48. 43 Ivi, Epist. 95, pp. 225-27. 37 38

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Pietro aveva inviato al papa un libellus nel quale esponeva i termini della questione certamente inconsueta nella prassi canonica locale se la definiva negotium insolitum. Comunque, come era avvenuto da parte di Gelasio I, anche da parte di Pelagio non ci si limitava al semplice affidamento dell’incarico; il papa, pur gravato da molteplici impegni («multis inevitabilibus curis involutus»), suggeriva la linea da tenere: innanzitutto l’indagine doveva accertare l’esistenza del reato; ma in presenza della notorietà del reato stesso, non era necessario né ricorrere a un sinodo né a un tribunale secolare, ma solo a un’assemblea che doveva determinare senza eccessi l’entità della colpa: «Satisfactio namque illa est qua innocens quisque manifestatur a quibus reus credebatur»43. Il quadro istituzionale ecclesiastico che accompagnò il radicamento del cristianesimo in Lucania subì una regressione, se non una crisi vera e propria, negli ultimi decenni del VI secolo. Nel trentennio intercorrente tra la costituzione del ducato di Benevento (576) e la morte di Gregorio Magno (604) si registra uno iato nella serie dei vescovi ad Acerenza, a Potenza, a Grumentum e a Venosa44. È ben noto come questa sparizione delle sedi vescovili è stata considerata una conseguenza dell’invasione dei Longobardi nel Mezzogiorno. Nelle note premesse da Holtzmann al nono volume dei Regesta Pontificum Romanorum di Kehr questo legame è reso esplicito: «Hic temporibus [cioè quello successivo alla guerra greco-gotica e all’arrivo dei Longobardi] episcopatus acheruntinus periisse videtur»45 per Acerenza; «Langobardorum temporibus vetus gloria civitas periit»46 per Venosa; «Episcopatus periit sicut reliquae huius regionis sedes episcopales» per Grumentum47. Il riferimento a tutte le altre sedi della regione qui richiamato estende il giudizio all’intera Lucania antica, dove o scompaiono le sedi episcopali o si registra un’inter-

44 C.D. Fonseca, Aspetti istituzionali dell’organizzazione ecclesiastica meridionale dal VI al IX secolo, in Id., Particolarismo istituzionale e organizzazione ecclesiastica del Mezzogiorno medioevale, «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Saggi e ricerche», 25, Galatina 1987, pp. 3-20. 45 Italia Pontificia, vol. IX, p. 453. 46 Ivi, p. 488. 47 Ivi, vol. VIII, p. 373.

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ruzione nella cronotassi episcopale come a Buxentum, Consilinum e Blanda Iulia già ricordate o a Velia e Paestum48. Quanto in questa visione «catastrofica» che assolutizzava l’equazione Longobardi = crisi della città e sparizione delle sedi vescovili giocassero alcuni condizionamenti storiografici è stato posto in evidenza in altra sede49. Qui conviene rilevare come il fenomeno della disparizione delle sedi episcopali sia di più ampia portata, legato, per il Mezzogiorno, alla crisi della città tra il V e il VI secolo, agli effetti dello spopolamento e, per alcuni centri, alle conseguenze della guerra greco-gotica messa in risalto dallo stesso Procopio, che della fragilità del sistema strategico dell’Italia meridionale non fa mistero: «infatti», riferisce Procopio, «siccome le loro città erano fin dai tempi antichi sguarnite di mura, essi non avevano nessuna possibilità di difendersi e ora naturalmente odiavano i goti e non ne sopportavano più la dominazione»50. E anche quando le località si presentavano sufficientemente protette da un sistema di fortificazioni, la furia devastatrice dei Goti ebbe ragione delle strutture difensive. Tale è proprio il caso di Acerenza, «un’importante piazzaforte che i romani chiamano Acherontia»51, espugnata da Totila il quale vi «piazzò un presidio non inferiore ai quattrocento uomini»52. Acerenza, chiamata «fortezza», subì un secondo assedio da parte dell’esercito bizantino guidato da Giovanni, nipote del generale Vitaliano, inviato in Italia con rinforzi per il generale Belisario53. Conosciamo anche il nome del goto, Moras, che comandava il presidio di Acerenza e di un altro goto, Ragnaris, comandante del presidio di Taranto rifugiatosi ad Acerenza dopo aver subito una disastrosa sconfitta54. Ma ciò che rende nel caso della Lucania del tutto parziale il collegamento della disparizione delle sedi episcopali con la venuta dei Longobardi è che alcune di esse scompaiono prima dell’avvento dei 48 L. Duchesne, Les évêchés d’Italie et l’invasion lombarde, in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», XXII, 1903, pp. 83-116; XXV, 1905, pp. 365-84, in particolare pp. 107-109. 49 Fonseca, Aspetti istituzionali, cit., pp. 6 e 11-13. 50 Procopio di Cesarea, Le guerre persiana vandalica gotica, a cura di M. Craveri, Torino 1977, I, 8, p. 364. 51 Ivi, VII, 23, p. 598. 52 Ibid. 53 Ivi, VII, 26, pp. 604-605. 54 Ivi, VIII, 26, p. 737 e VIII, 34, pp. 760-61.

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Longobardi come la Chiesa di Grumento, che registra uno iato dopo il 55855, o come quella di Potenza, che scompare dopo il 556-56156. Si aggiunga, per la Lucania antica, lo spostamento della sede di Paestum, resasi insicura, ad Agropoli, il cui vescovo Felice, attestato in una lettera di Gregorio Magno del luglio 59257, molto verosimilmente altri non era che il vescovo di Paestum. Comunque tra la fine del VI e il IX secolo l’ordinamento ecclesiastico della Lucania sembra ormai stabilizzato sui gangli istituzionali del periodo del primo impianto cristiano, anzi alla fine del VI secolo si registra un’articolazione delle circoscrizioni vescovili. Ci si riferisce all’esistenza di una realtà subdiocesana nella Ecclesia Grumentina. Se ne ha notizia da una lettera di Gregorio Magno del luglio 599 indirizzata a Romanus defensor Siciliae: in essa il pontefice ingiungeva al suo rappresentante di accertare l’episodio che gli era stato denunziato relativo alle ingiurie ricevute da un tale Luminosus che si dichiarava «servus sanctae Mariae, quod est parochiae ecclesiae Grumentinae», da parte di Salusio «vir clarissimus» e di sua moglie. Per la sua condizione personale Luminosus chiedeva la protezione ecclesiastica («ecclesiastica tuitione valletur»)58. Ma tra le antiche diocesi cominciò a emergere Acerenza, che venne inserita nella rete dei gastaldati longobardi in cui era stato diviso il ducato di Benevento. Nella divisio ducatus dell’849 tra Radelgisio e Siconolfo il gastaldato di Acerenza venne incluso nel principato di Salerno insieme con le altre sedi gastaldali di Matera, Latiniano e Lucania59. Sarà stato questo ruolo preminente di Acerenza, conservatosi ininterrottamente nell’VIII e IX secolo, a indurre il patriarca di Costantinopoli a inserirla nell’elenco delle diocesi suffraganee assegnate, in seguito alla seconda dominazione bizantina del Mezzogiorno, alla nuova sede metropolitica di Otranto. Infatti all’arcivescovo dell’importante sede archiepiscopale dell’estremo Salento era stato concesso

Italia Pontificia, vol. VIII, p. 375, n. 6. Ivi, vol. IX, p. 484, nn. 1-4. 57 Ivi, vol. VIII, p. 370, n. 1. 58 Gregorio Magno, Registrum epistolarum, II, 9, 209, pp. 195-96. 59 Edictus ceterequae Longobardorum leges cum constitutionibus et pactis principum Beneventanorum ex maiore editione MGH inserta, 4 voll., edidit F. Bluhme, Hannoverae 1868, p. 222. Cfr. C.D. Fonseca, Longobardia minore e Longobardi nell’Italia meridionale, in Magistra Barbaritas. I Barbari in Italia, Milano 1984, pp. 144-45. 55 56

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nel 968 dal patriarca di Costantinopoli, Polieucto, la facoltà di consacrare i vescovi suffraganei di Acerenza, Tursi, Gravina, Matera, Tricarico – sedi vescovili, queste, peraltro mai esistite, anche se gravitanti in quella parte della regione significativamente grecizzata – e dall’imperatore Niceforo Foca gli era stato impartito l’ordine di celebrare «in omni Apulia et Calabria» i divini misteri secondo la liturgia greca60. L’ordine trasmesso all’arcivescovo di Otranto, di imporre in tutta l’Apulia e la Calabria la liturgia greca, era un atto politico di significativa importanza per guadagnare all’obbedienza bizantina i territori riconquistati. Ma il disegno dell’imperatore bizantino non ebbe per Acerenza concreta attuazione, in quanto le istituzioni ecclesiastiche locali rimasero saldamente innervate sulla tradizione latina e sull’obbedienza al pontefice romano, in continuità con il processo di evangelizzazione iniziato cinque secoli prima: e qui ci sembra di riscontrare uno degli elementi qualificanti dell’omogeneità dell’area acheruntina, che si contraddistingue per la latinizzazione delle sue strutture ecclesiastiche e per l’occidentalizzazione della sua cultura. Né ci sembra contraddire questa linea di tendenza la circostanza che il vescovo Stefano di Acerenza si mettesse direttamente al servizio del governo bizantino cadendo nel 1041 in combattimento contro i normanni61: costituisce singolare riprova il fatto che Acerenza – che non compare mai nelle notizie degli episcopati greci – nel 983 viene assegnata quale diocesi suffraganea a Salerno, divenuta sede arcivescovile nel 983 ad opera di Benedetto VII62. Del resto nel 989, poco dopo l’editto del patriarca Polieucto di Costantinopoli, Giovanni XV conferiva all’arcivescovo di Salerno la facoltà di ordinare, tra gli altri, i vescovi di Acerenza63. E a Salerno Acerenza rimarrà legata dai vincoli della comunione metropolitica oltre la prima metà dell’XI secolo, come si evince dalle bolle di Leone IX del 60 Liutprando di Cremona, Relatio de legatione Constantinopolitana, a cura di J. Becker, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, Hannoverae-Lipsiae 1915, p. 209. 61 F. Ughelli, Italia Sacra, 10 voll., Venetiis 1717-222, vol. IX, c. 126; Lupo Protospatario, Annales, edidit G.H. Pertz, in MGH, SS, V, Hannoverae 1844, a. 1041, p. 58. 62 G. Girgensohn, Dall’episcopato greco all’episcopato latino nell’Italia meridionale, in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo. Atti del Convegno storico interecclesiale, Bari 30 aprile-4 maggio 1969, vol. I, Padova 1973, pp. 25-43, in particolare p. 28; Italia Pontificia, vol. VIII, pp. 339-41 e 345. 63 Italia Pontificia, vol. VIII, p. 346, n. 11.

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1051 e di Stefano IX del 105864, sino a quando Niccolò II la esimerà dalla giurisdizione dell’arcivescovo di Salerno conferendo ad Acerenza il rango di Chiesa arcivescovile: se ne ha conferma dal privilegio di Alessandro II del 1068 indirizzato al grande arcivescovo Arnaldo e dalla bolla di Urbano II del 1098 con la quale veniva riconosciuta all’arcivescovo Alfano di Salerno una sorta di dignità primaziale sulle chiese di Conza e di Acerenza65. Le sedi che nel privilegio di Alessandro II vengono enumerate come soggette alla giurisdizione di Acerenza risultano Venosa, Montemilone, Potenza, Tolve, Tricarico, Montepeloso, Gravina, Matera, Oblano Turri, Tursi, Latiniano, San Quirico, Oriolo (fig. 2): si tratta in realtà di centri demici non tutti, come vedremo, assurti al rango di sedi episcopali, per cui il riferimento più pertinente per gli assetti vescovili è quello contenuto nel privilegio di Pasquale II del 16 giugno 1102, che elenca come suffraganee della metropolia acheruntina le chiese vescovili di Venosa, Gravina, Tricarico, Tursi e Potenza66. A restituire con più vivida immagine la gravitazione latina di Acerenza e dell’area dell’alto Bradano varrà certamente la rete di monasteri che, a differenza delle aree contermini, allinea i suoi ritmi di vita, le sue esperienze religiose, la sua spiritualità sul monachesimo latino. Come abbiamo avuto modo di rilevare in occasione dei convegni dedicati a Santa Maria di Anglona e ai SS. Anastasio ed Elia di Carbone, oltre che in altre ricerche particolari volte allo studio delle istituzioni monastiche del Mezzogiorno67, e come dimostrano le carte tematiche elaborate per il Monasticon Italiae da Hubert Houben68, la Basilicata presenta una forte concentrazione di monasteri italo-greci Ivi, p. 349, n. 19 e 350, n. 21. Ivi, vol. IX, pp. 456-57, n. 6 e 457-58, n. 8. 66 Ivi, p. 458, n. 9. 67 C.D. Fonseca, Santa Maria di Anglona tra Bisanzio e l’Occidente, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 11-13; Id., Il monastero dei Santi Elia e Anastasio di Carbone. Problemi e prospettive, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 13-18. 68 Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, pp. 172-75. 64 65

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Fig. 2. La metropolia di Acerenza nella prima metà dell’XI secolo.

nei territori a sud del Basento e nei territori attraversati dall’Agri e dal Sinni, mentre l’area interna tra il Basento e il Bradano, se si eccettua un unico episodio, quello di Santa Maria del Rifugio di Tricarico69, risulta connotata da una robusta presenza benedettina, il cui fulcro rimane, per l’arco dell’alto Bradano, il monastero di Santa Maria di Banzi (797-798)70. Infatti nel territorio dell’antica diocesi di Acerenza insistono i monasteri benedettini maschili di Santa Maria del Piano, di San Pietro di Cellaria a Calvello e di San Pietro di Tolve71. Ma l’area dell’alto BraIvi, p. 199. Ivi, p. 178. 71 Calvello, Santa Maria del Piano, ivi, p. 179; Calvello, San Pietro di Cellaria, ibid.; Tolve, San Pietro, ivi, p. 198. 69 70

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dano presenta una delle testimonianze più cospicue del monachesimo prenormanno nel Mezzogiorno, anzi il primo monastero della Basilicata sicuramente attestato: ci si intende riferire al monastero di Santa Maria di Banzi, sottomesso nel 797-798 dal duca Grimoaldo III di Benevento (o nell’815-816 dal suo successore Grimoaldo IV) all’abbazia di Montecassino, tra i cui possessi ricorre nel 94372. Fino alla metà del secolo XI il monastero bantino rimase in possesso di Montecassino e sembra che, intorno alla prima meta del secolo XI, fosse stato danneggiato notevolmente dai conquistatori normanni73. Il 1° febbraio 1075 l’abate Giovanni ricevette dal papa Gregorio VII un privilegio che concedeva all’abbazia di Banzi il diritto della libera elezione dell’abate e la diretta soggezione alla Sede apostolica74. Area omogenea, quindi, quella di Acerenza e dell’alto Bradano in cui si riflette il processo di latinizzazione e di occidentalizzazione che interessò in larga misura, accanto ai territori a forte e determinante presenza bizantina, una parte cospicua del Mezzogiorno peninsulare. La cristianizzazione, la goticizzazione, la longobardizzazione favorirono la gravitazione dell’area entro precisi quadri strutturali e altrettanto definiti ambiti istituzionali, ricompattando unitariamente Chiesa e società, cultura religiosa e mentalità popolare, spiritualità e costume, ambiti circoscrizionali ecclesiastici e distretti politico-amministrativi. 3. L’organizzazione ecclesiastica della Lucania normanna Una successiva svolta negli assetti istituzionali ecclesiastici della Lucania si produsse nell’XI secolo con l’arrivo dei Normanni, assurti a conquistatori del Mezzogiorno d’Italia, come è già emerso dalla ricostruzione delle vicende che hanno interessato la sede di Acerenza, divenuta intorno alla metà dell’XI secolo sede metropolitica comprendente non solo le antiche diocesi della regione, come Venosa e 72

p. 19.

E. Gattola, Ad historiam Abbatie Casinensis accessiones, vol. I, Venetiis 1733,

Italia Pontificia, vol. IX, pp. 459-65. Ivi, pp. 461-62, n. 2. Su Santa Maria di Banzi cfr. D. Pannelli, Le memorie bantine. Le memorie del monastero bantino o sia della Badia di Santa Maria in Banzia, ora Banzi: pubblicate d’ordine del Cardinale di Sant’Eusebio abate commendatario di essa Badia, a cura di P. De Leo, introduzione di C.D. Fonseca, Banzi 1995. 73 74

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Fig. 3. Le diocesi di origine normanna.

Potenza, ma anche altre aggregazioni demiche del territorio di cui conviene verificare l’effettiva esistenza di una sede episcopale (fig. 3). E cominciamo da quelle inserite come suffraganee di Acerenza nel privilegio di Alessandro II del 1068, anche se la Falkenhausen propende a considerare le località inserite nella bolla non diocesi vere e proprie, ma centri territoriali del nuovo arcivescovado75. Il territorio di Montemilone, attualmente parte della diocesi di Melfi-Venosa, è ubicato in un’area liminare a cavallo della Puglia. Ne è riprova il fatto che nel 983 ricadeva sotto la giurisdizione del vescovo di Trani insieme con il castrum di Giovinazzo, Ruvo e Minervino 75 Italia Pontificia, vol. IX, p. 456, n. 6; V. von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona in epoca normanno-sveva. Terra d’incontro tra greci e latini, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., p. 30.

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Murge con i relativi possessi, come risulta da un breve dello stesso anno inviato da Benedetto VII a Rhodostamo vescovo di Trani76. Nella bolla di Giovanni XIX del giugno 1025 Montemilone compare, insieme con altre, come suffraganea dell’arcivescovo di Canosa, Bisanzio77; altrettanto viene ripetuto nella bolla di Alessandro II indirizzata ad Andrea, arcivescovo canosino, nel maggio 106378 e in quella di Urbano II del 5 ottobre 1089 il cui destinatario è Elia, arcivescovo di Bari, «qui et Canosinus est»79. Nel 1068 nella bolla di conferma di Alessandro II del 13 aprile inviata ad Arnaldo arcivescovo di Acerenza, Montemilone è elencata tra le diocesi suffraganee della metropolia acheruntina80. Sino a quando e se la città di Montemilone avesse realmente avuto e se mantenesse il rango vescovile, non sappiamo. Di certo il suo territorio rimase nell’ambito della giurisdizione dell’arcivescovado di Acerenza, alla cui Chiesa negli anni 1310 e 1324 l’arciprete e i chierici pagavano le decime81. L’altra sede menzionata nella lettera di Alessandro II del 1068 è Tolve, di cui non ci è pervenuto alcun documento. Segue Tricarico, la cui diocesi è attestata nel 1059, quando Niccolò II nel sinodo tenuto in agosto deponeva, insieme con il vescovo simoniaco e adultero di Montepeloso (Irsina), anche quello di Tricarico, «eo quod sit neophitus»82; nello stesso sinodo il papa incaricava Godano, arcivescovo di Acerenza, e Arnolfo, arcivescovo di Cosenza e vicario della Chiesa romana, di provvedere all’elezione di adeguati pastori per le due Chiese83. Chi fosse stato designato al governo della Chiesa tricaricense e contemporaneamente a quella di Montepeloso, non conosciamo: ciò che è certo è che il 7 ottobre 1123 Callisto II comunicava al vescovo Pietro di aver posto la diocesi sotto la protezione apostolica84; privilegio riconfermato da Lucio III il 29 ottobre 118385.

Italia Pontificia, vol. IX, p. 290, n. 1. Ivi, p. 317, n. 2. 78 Ivi, p. 318, n. 4. 79 Ivi, p. 319, n. 7. 80 Ivi, p. 456, n. 6. 81 D. Vendola, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria, «Studi e testi», LXXXIV, Città del Vaticano 1939, p. 350, n. 5303. 82 Italia Pontificia, vol. IX, p. 473, n. 1. 83 Ivi, pp. 473-74, n. 2. 84 Ivi, p. 474, n. 4. 85 Ivi, p. 474, n. 5. 76 77

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Si è fatto cenno dianzi alla deposizione avvenuta in occasione del sinodo melfitano del 1059 del vescovo di Montepeloso, la cui diocesi venne soppressa e il cui titolo venne unito a Tricarico «quinimmo», come recita la bolla indirizzata agli arcivescovi Godano e Arnolfo da parte di Niccolò II e del sinodo di Melfi, «pro loci vicinitate ut unus sit in utraque ecclesia dispensator»86. Non sappiamo fino a che punto risponda a verità ciò che viene riportato nella bolla di Callisto II dell’11 settembre 1123 che la soppressione della diocesi e l’unione con quella di Tricarico fosse avvenuta per iniziativa dell’arcivescovo Godano, di Acerenza («verum ab Acheruntinae ecclesiae antistite sine ulla sanctae Romanae ecclesiae auctoritate Tricaricense ecclesiae counitae»); sta di fatto che papa Callisto restituì l’originaria dignità episcopale a Montepeloso e confermò l’elezione avvenuta per clerum et populum del vescovo Leone87: privilegio, questo, confermato un decennio più tardi da Innocenzo II88. Un’altra diocesi suffraganea di Acerenza risulta Gravina, ora facente parte della Puglia, il cui episcopato venne ripristinato alla fine del secolo XI, come risulta da un documento del dicembre 1091 con il quale il normanno Unfredo, signore della città, dotava la nuova Chiesa locale89; il 26 luglio 1102 Pasquale II inserì la nuova diocesi nella distrettuazione metropolitica di Acerenza90. Assolutamente priva di riferimenti documentari risulta l’esistenza di un episcopato a Matera, suffraganea di Acerenza, la cui sede vescovile non è anteriore al 1203, come si evince dalla bolla di Innocenzo III91, mentre per Oblano o Oggiano (Ferrandina) è stato ipotizzato, sulla scorta di un documento del settembre 1109 della contessa Emma, signora di Montescaglioso, che una tantum ebbe dignità vescovile («semel tantum episcopum institutum est»)92.

Ivi, p. 477 n. 2. Ivi, p. 478, n. 5. 88 Ivi, p. 478, n. 6. 89 Ivi, p. 482. 90 Ivi, p. 482, n. 1. 91 Ivi, pp. 453-54. Cfr. N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen König­ reich Sizilien, vol. I, Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfe des Königreichs 1194-1266, t. 2, Apulien und Kalabrien, München 1975, pp. 775-76. 92 S. Tansi, Historia chronologica Monasterii S. Michaelis Arcangeli Montis Caveosi Congregationis Casinensis Ordinis Sancti Benedicti ab anno MLXV ad annum MCDLXXXIV, Neapoli 1746, n. 11, p. 145; Italia Pontificia, vol. IX, p. 453. 86 87

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Per quanto riguarda Turri, situata a poca distanza dal fiume Sauro, il cui toponimo persiste nei pressi di Guardia Perticara, indicata in una fonte agiografica dell’XI secolo e in due documenti del 1017 e del 1036 come civitas e castellum93, non è documentata alcuna presenza di un vescovo: l’indicazione di un episcopus Iohannis menzionato nella vita di san Vitale è generica e non suffragata da altre testimonianze94. In un diploma del conte Roberto di Montescaglioso la «civitas nostra Turri» è enumerata tra i possedimenti della chiesa di Tricarico e, come tale, è inserita nelle Rationes decimarum del 132495. Diverso e più convincente risulta il discorso sull’esistenza di un vescovado a Tursi, capitale del tema della Lucania, in cui nel 1074 compare un vescovo greco, Simeone, ricordato altresì in due documenti del 1102 e del 114496. Due suoi predecessori, ambedue greci – Leone e Michele –, sono menzionati in due documenti del 16 gennaio 105097, mentre di un vescovo latino, Engelberto, abbiamo notizia in una bolla del 1065 di Alessandro II e anche in due bolle del 1067 e del 106898. Alla fine dell’XI secolo la sede episcopale viene spostata ad Anglona, dove era stata eretta una nuova cattedrale che il 20 novembre 1092 venne 93 Codice diplomatico barese, Le pergamene del Duomo di Bari (925-1264), a cura di G.B. Nitto de Rossi, F. Nitti di Vito, vol. I, Bari 1897, p. 15, n. 9 e p. 31, n. 18. 94 De S. Vitale Siculo Abbate Ordinis S. Basilii, Armenti et Rapollae in Italia Vita, in AA.SS., Martii, II, cap. V, p. 33. Cfr. G. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile et d’Italie méridionale aux VIIIe, IXe et Xe siècles, in «Byzantion», XXIX-XXX, 1959-60, pp. 125-30. 95 A. Zavarrone, Note sopra la bolla di Godano arcivescovo dell’Acerenza spedita l’anno 1060 a favore di Arnaldo vescovo di Tricarico, Napoli 1755, p. 8. Per la problematica riguardante l’autenticità del diploma di Roberto di Montescaglioso cfr. C. Brühl, Diplomi e cancelleria di Ruggero II con un contributo sui diplomi arabi di A. Noth, Palermo 1983, pp. 185-88; E. Cuozzo, La contea di Montescaglioso nei secoli XI-XIII, in «Archivio storico per le province napoletane», 103, 1985, pp. 11 sgg.; Vendola, Rationes decimarum Italiae, cit., p. 175, n. 2258. 96 G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, «Orientalia Cristiana», XV, 2, Roma 1929, p. 175, n. 9; Papst- Kaiser- und Normannen-Urkunden aus Unteritalien, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», XXXVI, 1956, p. 40, n. 1. 97 Robinson, History and Cartulary, cit., p. 30, n. 37; F. Trinchera, Syllabus membranarum graecarum, Napoli 1865, p. 115, doc. LXXXVIII. 98 Italia Pontificia, vol. IX, pp. 469-70, n. 1.

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visitata da Urbano II99. La prima menzione di un vescovo di Anglona riguarda Pietro, che sottoscrive un documento del luglio 1110 sul quale gravano non infondate ipotesi di falsità100. Comunque lo spostamento della sede ad Anglona, sul sito dell’antica Pandosia, non interruppe la successione episcopale a Tursi, per la quale è stata ipotizzata la continuità dell’episcopato greco101. Mentre nel Liber censuum della Chiesa romana per la diocesi compare solo il titolo di Anglona102, nelle bolle pontificie di Pasquale II (16 giugno 1102)103 e di Eugenio III (1° aprile 1158)104 permane il titolo di Tursi. Comunque Anglona conserva il suo titolo vescovile sino al Quattrocento, quando Paolo III lo trasferisce a Tursi105. Quanto alle diocesi o ai territori di Latiniano, San Quirico e Oriolo, menzionate nella bolla pontificia di Alessandro II, non ci soccorre alcuna testimonianza per verificarne l’esistenza. Il loro inserimento venne probabilmente dettato da alcune circostanze legate al ruolo delle tre località: Latiniano, il cui territorio è ubicato nel medio corso del Sinni, particolarmente ricco di monasteri bizantini106, era stato sede di un gastaldato longobardo assegnato nella divisio ducatus dell’849 al principato di Salerno107; San Quirico, qualora possa essere identificato con l’omonima località ricadente nella diocesi di Anglona-Tursi, assolveva ad un compito strategico alle falde del monte Raparo108; Orio-

99 Mansi, Sacrorum Conciliorum, cit., vol. XX, cc. 684 sgg.; H. Houben, Urbano II e i Normanni (con un’appendice sull’itinerario del papa nel Sud), in Id., Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 2001, pp. 115-43, in particolare p. 137. 100 A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli, vol. IX, Napoli 1804, pp. 166-68; C. Minieri Riccio, Saggio di codice diplomatico, vol. I, Napoli 1878, n. 14, pp. 17-19; von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona, cit., p. 30. 101 Girgensohn, Dall’episcopato greco all’episcopato latino, cit., p. 39. 102 P. Fabre, L. Duchesne (a cura di), Le liber censuum de l’Eglise Romaine, Paris 1905, vol. I, p. 26. 103 Italia Pontificia, vol. IX, p. 458, n. 9. 104 Ivi, n. 11. 105 Ivi, p. 469. 106 H. Houben, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 164. 107 Cfr. supra, nota 59. 108 Dalena, Strade e percorsi, cit., passim. Sul monastero di Sant’Angelo a San Chirico Raparo cfr. la voce di H. Houben in Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 196-97. Sulla chiesa del monastero cfr. S. Bals, Sant’Angelo al Monte Raparo, in «Ephemeris Dacoromana», V, 1932, pp. 35-56; G. Bertelli, E. Degano, S. Angelo a San Chirico Ra-

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lo era la stazione terminale della via Erculia nello snodo con la via Popilia109. Concludendo, la geografia ecclesiastica della Lucania può contare negli ultimi decenni dell’XI secolo su una sola sede metropolitica, Acerenza, e su cinque sedi suffraganee, Venosa, Gravina, Tricarico, Tursi e Potenza, come si può desumere dalla già ricordata bolla di Pasquale II del 16 giugno 1102110. Non risultano assoggettate ad Acerenza né la nuova sede episcopale di Marsiconuovo né le diocesi di Cisterna e Vitalba, gravitanti canonicamente in circoscrizioni ecclesiastiche pugliesi, né le diocesi erette in seguito all’arrivo dei Normanni (Melfi, Rapolla, Lavello, Muro Lucano, Satriano), nel contesto di quell’alleanza intervenuta con il papato dopo il giuramento di Melfi del 1059 relativa al progetto di Rekatholisierung dell’Italia meridionale e nell’ambito di quella politica tendente a far leva sull’ordinamento ecclesiastico per il consolidamento della conquista e, conseguentemente, nel far coincidere, laddove era possibile, le sedi episcopali con i nuovi centri del potere amministrativo, le contee111. Ma converrà per ogni singola sede esaminare concretamente lo stato della documentazione al fine di cogliere gli assetti istituzionali che accompagneranno la regione nell’età moderna. E cominciamo con Marsiconuovo, alla quale venne traslato il titolo dell’antica chiesa episcopale di Grumento; la nuova sede venne assegnata come suffraganea alla metropolia di Salerno, come emerge dalla bolla di Stefano IX inviata il 24 marzo 1058 all’arcivescovo

paro, in C. Carletti, G. Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte S. Angelo, 18-21 novembre 1992), Bari 1994, pp. 427-52; G. Bertelli, La decorazione pittorica della Chiesa monastica di S. Angelo presso S. Chirico Raparo. Nuove acquisizioni, in Fonseca, Lerra, (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone, cit., pp. 89-95; Ead., Sugli affreschi della Chiesa monastica italo greca di S. Angelo al Raparo presso S. Chirico, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., p. 137. 109 Dalena, Strade e percorsi, cit., p. 32. 110 Italia Pontificia, vol. IX, p. 458. 111 C.D. Fonseca, L’organizzazione ecclesiastica dell’Italia normanna tra l’XI e il XII secolo: i nuovi assetti istituzionali, in Particolarismo istituzionale, cit., pp. 77-104.

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Alfano di Salerno, che ebbe anche la facoltà di ordinare il nuovo vescovo, conservando in ogni caso il titolo di Grumentum112. Per quanto riguarda Cisterna, l’unico documento attendibile, tenuto conto delle falsificazioni di alcune bolle pontificie precedenti, è la bolla del 5 ottobre 1089 con la quale Urbano II, presente a Bari per il Concilio nel quale furono dibattuti alcuni problemi relativi alla nuova situazione delle Chiese dell’Italia meridionale, oltre la ben nota questione del Filioque113, concedeva al neoeletto arcivescovo di Bari, Elia, la giurisdizione sulle diocesi, anche se le stesse diocesi, tra le quali è compresa Cisterna, in un’altra bolla del 1° ottobre 1089 risultano assegnate a Bisanzio, arcivescovo di Trani114. Al di là delle questioni di ordine paleografico e diplomatistico115, il problema va visto nell’ambito dell’annosa rivalità tra Bari e Trani. Ciò che sembra acquisito, al di là della probabile gravitazione di Cisterna per un breve periodo nell’orbita dell’arcivescovado di Trani, è che anche l’inserimento di Cisterna tra le diocesi afferenti alla metropolia di Bari nella bolla di Alessandro III del 28 giugno 1172 all’arcivescovo Rainaldo116 risulta ragionevolmente sospetta in quanto esemplata sulle precedenti non credibili bolle di Alessandro II e di Urbano II. Anche il destino della diocesi di Vitalba, ubicata nell’area del Vulture a sud-est dell’attuale Atella, è legata alla stessa tradizione documentaria di Cisterna, per cui l’unico elemento di una certa attendibilità è il suo probabile inserimento per un breve periodo nell’ambito della sede metropolitica di Trani 117. E veniamo alle diocesi di sicura origine «normanna», a cominciare da Melfi, la cui città ebbe un ruolo di primaria importanza nei piani della conquista da parte della prima generazione degli Altavilla.

Italia Pontificia, vol. VIII, p. 350, n. 21. Ivi, p. 291, n. 4. Sul Concilio di Bari del 1089 cfr. C.D. Fonseca, καὶ ει᾽ς πνεῦμα το α῞γιον... καὶ ε᾽κ τοῦ πατρὸς ε᾽κπρευόμενον. L’apertura «trinitaria» del Concilio di Bari, in S. Palese, G. Locatelli (a cura di), Il Concilio di Bari del 1098. Atti del Convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del Concilio, «Per la storia della Chiesa di Bari. Studi e materiali», 17, Bari 1999, pp. 39-54. 114 Italia Pontificia, vol. IX, p. 291. 115 A. Pratesi, Alcune diocesi di Puglia nell’età di Roberto il Guiscardo: Trani, Bari e Canosa tra Greci e Normanni, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Bari 1975, pp. 225-42. 116 Italia Pontificia, vol. IX, p. 322, n. 15. 117 Ivi, p. 291, n. 4. 112 113

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Che l’erezione della diocesi fosse di qualche anno anteriore all’occupazione dei Normanni dipende dall’autenticità o meno attribuita a un documento dell’agosto 1037 nel quale si afferma che fosse stato l’arcivescovo di Canosa, Nicola, a fondare la sede vescovile assegnata a un tale Giovanni118, così come ragionevoli dubbi sono stati avanzati circa i diritti metropolitici rivendicati sulla diocesi melfitana dagli arcivescovi di Bari nell’XI secolo119. Ciò che è inconfutabile è la celebrazione a Melfi del famoso sinodo del 1059120 e la menzione del primo vescovo Balduino presente a un sinodo a Salerno nell’agosto-settembre 1067121, sospeso qualche anno più tardi dall’ufficio episcopale da Gregorio VII «pro quibusdam excessibus» e reintegrato nelle sue funzioni dopo un periodo di penitenza, come si evince da una bolla dello stesso Gregorio VII122 inviata all’arcivescovo Arnaldo di Acerenza il 14 marzo 1076. Al successore di Balduino, Guglielmo, Pasquale II concesse il 29 settembre 1101 il privilegio della diretta dipendenza della diocesi dalla sede romana e come tale viene indicata nel Liber censuum; inoltre, l’assunzione del titolo della vicina diocesi di Lavello, oltre alla conferma di alcuni beni e di alcuni diritti, tra i quali il censo che erano tenuti a versare gli ebrei («census Iudeorum»)123. Coeva a quella di Melfi è senza dubbio la diocesi di Lavello che, come si è detto, venne soppressa da Pasquale II nel 1101 e unita aeque principaliter con la sede melfitana. Non sembra, comunque, plausibile la tesi di una recuperata autonomia e di un assoggettamento settant’anni più tardi alla metropolia di Bari in quanto, come si è rilevato, la bolla di Alessandro III all’arcivescovo barese Rainaldo del 28 giugno 1172 è esemplata su quelle

118 Ivi, p. 496; Codice diplomatico barese, Le pergamene, cit., vol. I, p. 34, n. 20. Per l’autenticità di questo documento cfr. F. Magistrale, Notariato e documentazione di Terra di Bari. Ricerche su forme, rogatori, credibilità dei documenti latini nei secoli IX-XI, Bari 1984, pp. 332-42. 119 H.W. Klewitz, Zur Geschichte der Bistümsorganisation Campaniens und Apuliens im 10. und 11. Jahrhundert, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», XXIV, 1923-33, pp. 39 sgg. 120 Per il testo del giuramento di Melfi cfr. J. Deer, Das Papsttum und die süditalienischen Normannestaaten 1053-1212, Göttingen 1969, p. 18. 121 Italia Pontificia, vol. VIII, p. 351, n. 23. 122 Ivi, vol. IX, p. 497, n. 1. 123 Ivi, p. 498, n. 2; Le Liber censuum, cit., vol. I, p. 33.

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di Alessandro II e di Urbano II sulle quali gravano non marginali sospetti di inautenticità124. Un’altra diocesi di fondazione normanna è Rapolla, il cui primo vescovo Ottone viene ricordato nel 1065 o 1066 anche se, come nei casi precedenti, vanno esercitate le dovute cautele sull’utilizzazione della documentazione di provenienza barese125. Ciò che è certo è che Eugenio III in un privilegio concesso al vescovo di Rapolla, Ruggero, del 4 giugno 1152 pone le diocesi sotto le dirette dipendenze della sede apostolica concedendo la conferma dei beni e delle parrocchie e l’esenzione dei chierici dalla giurisdizione secolare126. Muro Lucano è attestata come diocesi intorno alla metà dell’XI secolo: il suo vescovo Leone sottoscrive il decreto sinodale di Leone IX del 2 maggio 1050 per la canonizzazione di Gerardo vescovo di Toul127. Tra il 1080 e il 1085 Gregorio VII l’assegnava come suffraganea insieme a Sant’Angelo e Monteverde all’arcivescovo di Conza, inclusa, quest’ultima, nella provincia ecclesiastica di Salerno128. Satriano (oggi Satriano di Lucania) compare come diocesi l’11 settembre 1108 in un documento di Goffredo conte di Satriano129; il vescovo Giovanni consacrò un altare in onore del protomartire Stefano. Un altro vescovo Giovanni compare in un documento del 1135 e l’ultimo di cui si ha memoria è Pietro, che intervenne nel III Concilio lateranense130. Nel Liber censuum Satriano compare tra le diocesi suffraganee di Conza131. Alla fine del XII secolo risultano definiti gli assetti istituzionali ecclesiastici della Lucania attraverso una rete a maglie strette di diocesi. Delle strutture vescovili tardo-antiche permangono tutte le sedi: Potenza, Venosa, Acerenza, mentre il titolo di Grumentum viene traslato a Marsiconuovo. Tra XI e XII secolo si aggiungono, pur con tutte le cautele volta a volta evidenziate, Montemilone, Tolve, Tricarico, Montepeloso, Gravina, Oblano, Turri, Tursi, Latiniano, San Quirico, Oriolo, Cisterna, Italia Pontificia, vol. IX, p. 322, n. 15. Ivi, p. 500, n. 1. 126 Ivi, p. 501, n. 4. 127 Ivi, vol. VIII, p. 9, n. 4. 128 Ivi, vol. IX, p. 507, n. 2. 129 Ivi, p. 518. 130 Ivi, p. 517. 131 Vendola, Rationes decimarum Italiae, cit., p. 172. 124 125

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Cisterna Lavello Montemilone Melfi Rapolla

A Vitalba P Muro Lucano P E N

Venosa Gravina di Puglia

Acerenza Irsina Tolve Potenza Tricarico

Matera

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Fig. 4. Gli assetti diocesani della Basilica alla fine del XII secolo.

Vitalba, Melfi, Rapolla, Lavello, Muro Lucano e Satriano. Accantonando le quattro diocesi (Turri, Latiniano, San Quirico e Oriolo) riferite ai territori dell’attuale Calabria e Gravina inclusa nei territori della Puglia, la regione lucana nei suoi confini attuali vedeva l’impianto di ben 19 diocesi (fig. 4). Si aggiunga nel XIII secolo l’inserimento di Matera e si avrà un quadro convincente della geografia ecclesiastica della Lucania medievale. 4. Ubicazione e dedicazione delle cattedrali La creazione delle diocesi comportò necessariamente l’erezione delle cattedrali, la cui funzione di matricità nei confronti dei rispettivi territori diventò nell’età medievale sempre più rilevante sino ad assu-

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mere connotati ideologici di marcata importanza. Si aggiunga che la loro ubicazione ha riproposto sia sul piano urbanistico che su quello tipologico non pochi problemi, tenuto conto del loro inserimento in contesti cittadini di consolidata tradizione. Lo stesso titulus dedicationis è divenuto volta a volta una spia significativa per quanto attiene l’originaria diffusione dei culti basati sulle testimonianze martiriali o su altri significativi elementi legati alla devozione alla Vergine, alla pratica dei pellegrinaggi, alle tradizioni indigene e a quant’altro si è accompagnato alla diffusione del cristianesimo132. Prendiamo il caso di Potenza, la cui cattedrale è stata posta in collegamento con il culto di sant’Oronzo o Aronzio, martire africano, inserito nel martirologio geronimiano insieme con i fratelli Onorato, Fortunaziano e Sabiniano. Essa venne eretta sul crinale della collina a ridosso della via pubblica medievale sovrapposta a uno dei decumani paralleli al decumanus maximus133 (fig. 5). I resti più che probabili di questo primitivo impianto sono venuti alla luce al di sotto del piano di calpestio della cattedrale attuale all’altezza dell’area presbiteriale, dove sono stati rinvenuti lacerti di un pavimento musivo che fondati 132 C. Violante, C.D. Fonseca, Ubicazione e dedicazione delle Cattedrali dalle origini al periodo romanico nelle città dell’Italia centro-settentrionale, in Il romanico pistoiese nei suoi rapporti con l’arte romanica dell’Occidente. I Convegno internazionale di studi medievali di storia dell’arte, Pistoia 1964, pp. 303 sgg.; C.D. Fonseca, «Ecclesia Matrix» e «Conventus civium»: l’ideologia della Cattedrale nell’età comunale, in La Pace di Costanza 1183. Un difficile equilibrio di poteri fra società italiana ed Impero. Milano-Piacenza, 27-30 aprile 1983, Bologna 1984, pp. 135-49; V. Polonio, Patrimonio e investimento del Capitolo di San Lorenzo di Genova nei secoli XII-XIV, in Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento. Per il VII centenario della battaglia della Meloria (Genova, 24-27 ottobre 1984), Genova 1984, pp. 23137; M. Ronzani, Il «Cimitero della Chiesa Maggiore Pisana»: gli aspetti istituzionali prima e dopo la nascita del Camposanto, in «Annali della Scuola normale superiore di Pisa», XVIII, 1988, pp. 1665-90; P. Testini, G. Cantino Wataghin, L. Pani Ermini, La Cattedrale in Italia, in Actes du XIe Congrès international d’Archéologie chrétienne, «Collection de l’École Française de Rome», 123, vol. I, Roma 1989, pp. 5-232; C.D. Fonseca, «Matrix Ecclesia» e «Civitas»: l’omologazione urbana della Cattedrale, in Una città e la sua Cattedrale: il Duomo di Perugia. Convegno di studio, Perugia, 26-29 settembre 1988, Perugia 1990, pp. 73-84; C.D. Fonseca, C. Violante, Cattedrale e città in Italia dall’VIII al XIII secolo, in Chiesa e Città. Contributi della Commissione italiana di storia ecclesiastica comparata al XVII Congresso interna­ zionale di scienze storiche (Madrid, 26 agosto-2 settembre 1990), Galatina 1990, pp. 7-22. 133 A. Capano, Caratteri geomorfologici e prime presenze sul territorio, in A. Buccaro (a cura di), Potenza, Roma-Bari 1997, pp. 6-7; G. Messina, Storie di carta-Storie di pietra, Potenza 1980, pp. 21-27.

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Fig. 5. Potenza (da G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703).

raffronti con similari esempi pugliesi hanno fatto datare alla fine del V-inizi del VI secolo134. Altre strutture murarie hanno messo in luce una seconda fase alla fine del XII-inizio XIII secolo: si tratta verosimilmente della seconda cattedrale, prima di quella settecentesca attuale, sorta in collegamento con il cambio del titulus dedicationis a Gerardo dalla Porta, che soppiantò quello primitivo del martire Oronzo135. Come è noto, all’inizio degli anni Venti del XII secolo il vescovo Manfredi a nome della comunità potentina rivolse una petizione a Callisto III per il riconoscimento della santità di Gerardo «quondam Potentini episcopi». Il papa, dopo aver esaminato la biografia di Gerardo insieme con i cardinali, procedette alla canonizzazione «viva voce»136; nel contempo incaricò il vescovo di Preneste, Guglielmo, l’arcivescovo 134 G. Bertelli, Il territorio fra tardo antico e alto Medioevo, in questo volume, pp. 509-12. 135 Messina, Storie di carta-Storie di pietra, cit., pp. 27-32. 136 Italia Pontificia, vol. IX, p. 484, n. 5.

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Fig. 6. Acerenza (da Pacichelli, Il Regno di Napoli, cit.).

di Acerenza, Pietro, il vescovo di Gravina, Guido, e quello di Grumentum, Leone, «ad decorandam et confirmandam sententiam suam de b. Gerardo latam» insieme con l’indulgenza di quaranta giorni riservata a coloro che avrebbero annualmente partecipato alla festa del nuovo patrono137. Un’altra cattedrale rimasta sempre sullo stesso sito è quella di Acerenza (fig. 6). Si ritiene che la cattedrale primitiva fosse sopravvissuta sino all’XI secolo138. In essa nel 799 il vescovo Leone avrebbe trasferito da Atella in Campania le reliquie del martire acheruntino san Canio deponendole in un luogo non meglio precisato della chiesa: è, questo, un momento di particolare splendore per Acerenza, assurta con il riordino delle circoscrizioni politico-amministrative del ducato 137 Ivi, p. 485, n. 6. Cfr. la Vita Gerardi ep. Potentini auct. Manfredo ep. successore eius, in AA.SS., Oct., XIII, p. 49. 138 Lupo Protospatario, Annales, cit., p. 60.

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di Benevento a sede di un gastaldato che includeva tutti i territori dell’alto Bradano. Nei secoli seguenti si perdette – o si fece credere di aver perduto – il ricordo del luogo della riposizione delle reliquie di san Canio, se Lupo Protospatario attribuisce il nuovo rinvenimento all’arcivescovo Arnaldo nel 1080: «Inventum est corpus beati Canionis in Acheruntia ab Arnaldo archiepiscopo, et idem archiepiscopus construere coepit novum episcopium, id est ecclesiam sanctae Dei matris Mariae»139. Dieci anni più tardi la città fu distrutta da un incendio che, secondo la testimonianza di Romualdo Salernitano, non risparmiò nessuna casa o edificio e procurò la morte a 25 abitanti140. È verosimile che l’incendio interessò anche la chiesa di San Giovanni, dove il vescovo Rodulfo nell’872 avrebbe traslato parte dei resti di un altro martire acheruntino, Laviero, conservati a Grumento. Il titulus dedicationis della cattedrale rimase quello originario di Santa Maria cui venne aggiunto l’altro di San Canio141. Si è fatto cenno alla traslazione nell’ultimo trentennio del IX secolo delle reliquie di san Laviero da Grumento ad Acerenza, avvenuta in concomitanza con la distruzione della città da parte dei Saraceni. Dove fossero state inumate a Grumento le sue ossa, non ci è dato conoscere; non sembri azzardato ritenere che esse trovarono collocazione in una necropoli ubicata fuori l’area urbana nei pressi dei ruderi di una piccola chiesa dedicata a san Marco142. Che, quindi, la primitiva cattedrale sorgesse in quest’area cimiteriale è probabile, come è d’altronde attestato da casi similari. Il trasferimento poi dalla cattedrale della zona extraurbana all’interno della città sarebbe avvenuto successivamente affidando al priIvi, p. 62. Chronicon Salernitanum. A Critical Edition with Studies on Literary and Historical Sources and on Language, a cura di U. Westerbergh, «Studia Latina Stoc­ kholmiensia», III, Stockholm 1956, p. 64. 141 Ughelli, Italia sacra, cit., vol. VII, c. 9. Di recente sono stati pubblicati sulla cattedrale di Acerenza due importanti monografie: P. Belli d’Elia, C. Gelao, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999; A. Giganti (a cura di), La Cattedrale di Acerenza nel Medioevo, Potenza 2002. 142 P. Bottini, Nuove ricerche nella necropoli di Grumentum, parte I, L’area cimiteriale di S. Marco, in «Bollettino storico della Basilicata», 6, 1990, pp. 64-67; Ead., L’Alto Medioevo nell’area grumentina: il cimitero di S. Marco, in La Calabre de la fin de l’Antiquité au Moyen Age, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Âge», 103, 1991, pp. 859-64. 139 140

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mitivo luogo di culto martiriale la memoria di san Laviero. Sta di fatto che la nuova cattedrale urbana, ubicata nella zona del foro all’incrocio del decumanus maximus, non è dedicata a san Laviero, ma a santa Maria143. Per quanto riguarda Venosa, l’ubicazione della primitiva cattedrale dovette probabilmente obbedire alla presenza di reliquie di martiri. Essa infatti risulta decentrata rispetto all’abitato di età romana, anche se all’interno di un’area popolata da numerose abitazioni di tipo artigianale, di un complesso termale in abbandono servito da due tratti viari, uno dei quali portava all’anfiteatro. L’intera struttura consta di due edifici e di due vasche battesimali144. Non si conosce il titolo di dedicazione del primo insediamento. Un primo spostamento della cattedrale sempre in un’area limitanea avvenne intorno alla metà dell’XI secolo, quando Drogone fece costruire la nuova sede nell’area ora occupata dal castello, il cui titolo di dedicazione risulta essere stato quello di san Felice, un vescovo africano venerato insieme con Adautto e Gennaro che avrebbero subito il martirio a Venosa il cui dies festus è il 30 agosto145. Un terzo spostamento della cattedrale avvenne nel 1471, quando il duca Pirro del Balzo, gran connestabile del regno e feudatario di Venosa, fece costruire la cattedrale nel centro urbano sul luogo dove prima sorgeva una chiesa intitolata a san Basilio dedicandola a sant’Andrea146. Meno complesso risulta il problema dell’ubicazione e della dedicazione delle cattedrali erette nei secoli successivi a quelli delle più antiche diocesi della Lucania, anche perché, come si constaterà, subentra un nuovo modello insediativo che specialmente per l’età normanna è il riflesso dell’intesa tra potere politico e potere religioso intervenuto dopo il giuramento di Melfi del 1059.

Ead., Nuove ricerche, cit., p. 90. M.L. Marchi, M. Salvatore, Venosa. Forma e urbanistica, «Città antiche in Italia», 5, a cura di P. Sommella, Roma 1997, p. 143. 145 H. Houben, Melfi e Venosa: due città sotto il dominio normanno-svevo, in Id., Mezzogiorno normanno-svevo, cit., p. 327. Gli scavi effettuati nel cortile del castello hanno evidenziato come la cattedrale di San Felice si trovasse più in basso dell’attuale piano di calpestio del castello (A. Pellettieri, Venosa, in Cattedrali di Basilicata, Avigliano 1995, p. 108, n. 2). 146 Lo ricordava un’epigrafe ora scomparsa inserita sul frontone della cattedrale (E. Lauridia, Il Castello aragonese di Venosa, Bari 1972, p. 72). 143 144

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Accantonando i casi di Montemilone, Tolve, Oblano, Turri, Latiniano, San Quirico, Oriolo, Cisterna e Vitalba per i controversi problemi relativi alla loro stessa esistenza innanzi rilevati, conviene soffermarsi su quel gruppo di cattedrali che presentano sia dal punto di vista cronologico che da quello urbanistico un’identica cronologia e morfologia insediativa. Innanzitutto vanno posti in evidenza due elementi: il primo è l’inserimento della cattedrale nel tessuto urbano come secondo polo di rilevante interesse (l’altro è costituito dal castrum e dalla residenza del rappresentante del potere comitale); il secondo è che in molti casi si privilegia l’ubicazione scegliendo un sito strategico e preminente rispetto alla cinta muraria e alle porte di accesso alla città o ai luoghi di rilevante interesse dal punto di vista dell’aggregazione sociale come il centro urbano. Tale è il caso di Tricarico, il cui castrum risulta esistente nel 1001 e nel 1023 e la cui cattedrale dedicata alla Vergine insisteva presso la porta principale147 (fig. 7). Altrettanto si riscontra a Satriano, dove scavi recenti hanno consentito la ricostruzione della forma urbis, con le due strutture del castrum e della cattedrale e con la porta che immetteva nel centro urbano. La cattedrale era dedicata a san Pietro148 (fig. 8). Ma anche a Tursi la primitiva cattedrale, dedicata a san Michele arcangelo, prima del suo spostamento a valle nel XVI secolo, insisteva sulla collina della Rabatana in corrispondenza del castello e non lontano dalla porta della cinta muraria149 (fig. 9). Lo stesso schema presentano Montepeloso, la cui cattedrale, dedicata alla Vergine, è ubicata in corrispondenza della cinta muraria e della porta di accesso alla città150 (fig. 10); Rapolla, che assume come titolo di dedicazione quello della Vergine151; Lavello, con la dedicazione a san Mauro152 (fig. 11); Muro Lucano, dove è riscontrabile la stretta G. Daraio, Per la storia di Civita, di Tricarico e di Calle, Matera 1954, passim. D. Whitehouse, Excavations at Satriano: A Deserted Medieval Settlement in Basilicata, in «Papers of the British School at Rome», XXXIII, 1965, pp. 188-219; N. Masini, A. Pellettieri, M.R. Potenza, Satriano: città fortificata, in C.D. Fonseca (a cura di), «Castra ipsa possunt et debent reparari». Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997, vol. II, Roma 1998, pp. 779-86. 149 P. Lisimberti, Tursi, in Cattedrali di Basilicata, cit., p. 100. 150 A. Todisco, Irsina, ivi, p. 30. 151 A. Pellettieri, Rapolla, ivi, p. 82. 152 P. Lisimberti, Lavello, ivi, p. 38. 147 148

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Fig. 7. Tricarico (da Pacichelli, Il Regno di Napoli, cit.).

propinquità tra la cattedrale dedicata alla Vergine e il castello153 (fig. 12); Marsiconuovo, la cui cattedrale è dedicata a san Genuario154; Melfi, la cui cattedrale ha come titulus dedicationis quello della Vergine155. Per cogliere il senso di questo schema tipologico cattedrale-castello non si trascuri la parallela organizzazione politico-amministrativa introdotta dai Normanni, che di alcuni di questi nuclei ne aveva fatto o centri di altrettante contee (Tricarico, Marsiconuovo) o titoli di feudi consistenti156.

Ead., Muro Lucano, ivi, p. 68. Ead., Marsico Nuovo, ivi, p. 44: L. Ventre, La Lucania dalle origini all’epoca odierna vista ed illustrata attraverso la storia di Marsico Nuovo, Salerno 1965, pp. 209 e 254. 155 A. Pellettieri, Melfi, in Cattedrali di Basilicata, cit., p. 58. 156 Cfr. E. Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 101.2, Roma 1984, passim. Cfr. altresì Id., Normanni. Nobiltà e cavalleria, Salerno 1995, passim. 153 154

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Fig. 8. Satrianum (Satriano), fotointerpretazione aerea (da N. Masini, A. Pellettieri, M.R. Potenza, Satriano: città fortificata, in C.D. Fonseca (a cura di), «Castra ipsa possunt et debent reparari». Indagini conoscitive e metodologiche di restauro delle strutture castellane normanno-sveve. Atti del Convegno internazionale di studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997, t. II, Roma 1998, pp. 779-86.

In ogni caso con il XII secolo si conclude il processo di riorganizzazione ecclesiastica della Basilicata; nel XIII secolo per la crisi della città di Acerenza acquisirà un ruolo di rilevante importanza la nuova sede arcivescovile di Matera istituita da Innocenzo III, il quale, con una bolla del 7 maggio 1203, la unirà aeque principaliter con la sede acheruntina.

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Fig. 9. Tursi (da Pacichelli, Il Regno di Napoli, cit.).

Fig. 10. Montepeloso (da Pacichelli, Il Regno di Napoli, cit.).

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Fig. 11. Lavello (da Pacichelli, Il Regno di Napoli, cit.).

Fig. 12. Muro Lucano (da Pacichelli, Il Regno di Napoli, cit.).

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5. Il santorale della Chiesa lucana L’individuazione dei tituli dedicationis delle cattedrali costituisce una spia significativa delle tradizioni agiografiche della Chiesa lucana sia per quanto riguarda il nucleo delle cattedrali più antiche sia per quanto attiene il gruppo delle cattedrali sorte tra XI e XII secolo. Per le diocesi tardo-antiche sembrano prevalere, accanto alle dedicazioni mariane della cattedrale di Acerenza – cui viene aggiunto successivamente quello di san Canio – e della seconda cattedrale di Grumento, dedicazioni a santi locali come Oronzo per Potenza, Laverio per Grumento, Felice per la seconda e Andrea per la terza cattedrale di Venosa. Per le altre cattedrali erette nei secoli centrali del Medioevo risultano prevalenti le dedicazioni mariane (Tricarico, Montepeloso, Rapolla, Muro Lucano, Melfi), alle quali vanno aggiunte quelle a san Pietro (Satriano), a san Michele arcangelo (Tursi), a san Mauro (Lavello), a san Gianuario (Marsiconuovo). Comunque, per quanto riguarda le dedicazioni a santi locali si tratta di una parte assolutamente irrilevante rispetto al nucleo consistente e articolato del filone agiografico presente nel martirologio geronimiano e nei martirologi storici che fanno memoria di numerosi santi attribuiti alla Lucania157. Il geronimiano, che registra santi e martiri dei primi quattro secoli del cristianesimo, elenca Valentinus (Valentinianus, Valerianus) e Leontinus il 19, 20 e 21 agosto; Iacintus, Quintus, Felicianus e Lucius il 29 ottobre; Honoratus, Reductula e Victoria il 18 dicembre; Felix, Arontinus, Sabinianus (Savianus) e Honoratus il 26 e 27 agosto; Vitus, Modestus e Crescentius il 15 agosto. Che si tratti di martiri lucani o cultualizzati in Lucania, non sappiamo; ciò che va rilevato è che alcuni sono recepiti nel martirologio della SS. Trinità di Venosa, datato tra 157 H. Quentin, H. Delehaye (a cura di), Martyrologium Hieronymianum, Bruxelles 1931; H. Delehaye, P. Peeters, M. Coens, B. de Gaiffier, F. Halkim (a cura di), Martyrologium Romanum, Bruxelles 1940; J. Dubois (a cura di), Le Martyrologe d’Usuard, «Subsidia hagiographica», 40, Bruxelles 1965; J. Dubois, G. Renaud (a cura di), Edition pratique des Martyrologes de Béde, de l’Anonyme Lyonnaise et de Florus, Paris 1976; Rabano Mauro, Martyrologium, a cura di J.M. Mc Culloh, «Corpus Christianorum, Continuatio Medievalis», 44, Turnhout 1979; J. Dubois, G. Renaud (a cura di), Le Martyrologe d’Adon. Ses deux familles, ses trois recensions. Texte et commentaire, Paris 1984. Cfr. altresì H. Quentin, Les Martyrologes du Moyen Âge latin, «Typologie des Sources du Moyen Âge Occidental», 26, Turnhout 1978, cui va aggiunta, dello stesso autore, la Mìse à jour, Turnhout 1985.

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la fine dell’XI secolo e la metà del XII, come Valerianus, Iacintus, Quintus, Felicianus, Lucius158. Per quanto riguarda il martire Felice, è ben noto come il geronimiano ne fissi il ricordo «In Lucania civitate Potentiae» il 26 e 27 agosto e come la passio originaria di questo martire africano sia andata perduta159; la recensio venosina (l’altra è quella nolana), anteriore all’VIII secolo, lo fa provenire dall’Africa (Thibiuca) e ne ricostruisce il viaggio per mare con un primo approdo in Sicilia e per terra percorrendo la via Popilia, con l’arrivo in Lucania attraverso Nerulum-Grumentum-Potenza-Venosa (la via Erculia), dove avrebbe subito il martirio insieme con il presbitero Ianuarius e i lettori Fortunatianus e Septimius160. Questa passio di san Felice di Thibiuca venne utilizzata dall’anonimo autore della Passio XII fratrum, composta verosimilmente nella seconda metà dell’VIII secolo, che, oltre al riferimento a Felice di Venosa, narra le peripezie di dodici fratelli cristiani nati ad Adrumeto in Africa, arrestati durante la persecuzione di Diocleziano e imbarcati su una nave diretta in Italia e dopo un viaggio che per la Lucania percorre lo stesso itinerario della recensio venosina della passio di san Felice sino a toccare Potenza, dove quattro di essi (Aurontius, Sabinianus, Honoratus e Fortunatianus) subirono il martirio; Venosa, dove la stessa sorte toccò a Felix, Septimius e Ianuarius; Velinianum e Sentianum, rispettivamente luoghi del martirio di Vitalis, Sator, Repositus e di Felix e Donatus161. Quanto alla memoria di Vito, Modesto e Crescenzio, fatta chiarezza sulla duplice presenza nel geronimiano dei martiri Modesto e Crescenzio, oltre che in Lucania anche in Sicilia162, va osservato che la passio, datata al VI-VII secolo, per il versante lucano indica come area cultuale la valle del fiume Sele, dove Vito e Modesto sarebbero 158 Sicuri riferimenti al santorale della Chiesa lucana si possono rinvenire, con gli opportuni riferimenti alla tradizione manoscritta dei martirologi, in Campione, pp. 119-28. Per i riferimenti all’area venosina, oltre a S. De Cunto, Festività e Santi nella Basilicata medievale. Il Martirologio della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334 - cc. 74-112), Cassano Murge 1999, cfr. H. Houben, Il «libro del Capitolo» del Monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Cas. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina 1984, pp. 64-68. 159 BHL, Supplementum, 2893 sg.; H. Delehaye, La Passion de S. Félix de Thibiuca, in «Analecta Bollandiana», 39, 1921, pp. 247-52. 160 BHL, 2895; AA.SS., Oct., X, pp. 625-28. 161 BHL, 2297 e 2298; AA.SS., Sept., pp. 138-42. 162 Campione, pp. 139-45.

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attraccati in un luogo chiamato Alectorius. Recatisi successivamente a Roma, subirono numerosi tormenti da parte di Diocleziano dai quali uscirono illesi e, mentre stavano per essere condotti in catasta, un angelo li sottrasse e li ricondusse «in territorio Tanagritano iuxta fluvium Siler», dove le anime dei tre santi volarono in cielo. Essi furono sepolti da una nobile donna chiamata Fiorenza presso il Sele in un luogo chiamato Marianus163. La tradizione agiografica dianzi ricordata con alcuni rimaneggiamenti permane certamente sino all’XI secolo, come è attestato da una passio anonima coeva dove confluiscono i santi e i martiri riferiti alla Lucania tardo-antica e precisamente Felice, Adautto, Donato e Fortunato, Gaio e Ante, Leonzio, Primo, Sonzio e Valentino, Gianuario, Onorato e Felice, Vito164. Tra i tituli dedicationis è stato menzionato quello della cattedrale di Grumento, Laverio, le cui reliquie furono traslate nel IX secolo ad Acerenza e inumate nella chiesa di San Giovanni. Una Vita Sancti Laverii venne redatta nel XII secolo da un tale Roberto di Romana, che ne ricostruì le vicende, in larghissima misura leggendarie, che si sarebbero svolte tra Acerenza e Grumentum al tempo dell’imperatore Costantino, ma che tenne conto di alcune circostanze storicamente documentate relative sia a Grumentum che ad Acerenza165. Ad Acerenza rinvia anche il culto di san Canio: le fonti sono costituite da una passio di cui sono pervenute quattro redazioni, la più antica delle quali fu redatta da un suddiacono, Pietro, nel X secolo e una più tarda ad Acerenza, e da una translatio contenuta in un codice di Acerenza ora perduto166. Da Atella in Campania, di cui Canio fu ritenuto protovescovo, il culto si diffuse in Lucania in seguito alla traslazione delle reliquie ad Acerenza, secondo alcuni nell’VIII secolo ad opera del vescovo Leone II (776-799), secondo altri nell’XI secolo per

BHL, 8711-23; AA.SS., Iun., III, p. 499. Campione, pp. 153-56. 165 BHL, 4801; G. Racioppi, L’agiografia di S. Laverio nel 1162, Roma 1981; R.M. Abbondanza, Per una storia dell’agiografia lucana, in F. Volpe (a cura di), Studi di storia del Mezzogiorno offerti ad Antonio Cestaro da colleghi ed allievi, Venosa 1993, pp. 11-13; Campione, pp. 157-59. Cfr. anche A. De Monte, S. Laverio martire. Sul nome e sul culto del Santo Patrono di Laurignano. Saggio storico-critico, Mottola 1988. 166 BHL, 1541; AA.SS., Maii, VI, pp. 28-34; A. Vuolo, Tradizione letteraria e sviluppo culturale. Il dossier agiografico di Canione di Atella (secc. X-XV), Napoli 1995, pp. 35-129. 163 164

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iniziativa dell’arcivescovo Arnaldo, al quale va attribuita l’inventio delle reliquie di cui si è già fatto cenno167. All’XI secolo si deve altresì la diffusione del culto dei santi Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata, dei quali il calendario dell’abbazia della SS. Trinità ricorda sia il dies natalis (15 settembre) che la translatio (7 novembre)168. L’abate venosino Ingelberto inviò una memoria sul loro martirio al papa Leone IX ricevendo dal suo successore, Vittore II, la raccomandazione di diffondere il culto per le reliquie di quei martiri non solo in città, ma in tutta la regione169. Alcune di queste reliquie furono identificate con quelle che restituì l’altare della chiesa abbaziale della SS. Trinità in occasione della demolizione avvenuta nel 1063170. Anche a tramiti africani si deve il culto di san Mauro, al quale la cattedrale di Lavello venne dedicata. Delle quattro passiones del martire, la quarta, compilata in epoca tarda dall’agostiniano Giacomo da Venosa, ha per titolo S. Mauri martyris Afri translatio Lavellum e narra l’origine libica del monaco Mauro, venuto a Roma al tempo dell’imperatore Numeriano (283-284) per venerare le tombe degli apostoli e decapitato. Il corpo, custodito in una grotta presso Gallipoli poi abitata da eremiti, venne traslato a Conza per iniziativa di Giraldo arcidiacono di Conza e commissario apostolico in Terra d’Otranto. Per conoscere la volontà del martire circa il luogo della reposizione delle sue reliquie, se a Conza o a Lavello, Giraldo le pose su un carro tirato da buoi, i quali presero la via per Lavello, dove sostarono davanti alla porta della città171. E per completare la ricognizione del santorale della Chiesa lucana va fatto cenno ancora a due dedicazioni, a san Pietro per la cattedrale di Satriano, spiegabile nel contesto del processo di latinizzazione dell’Italia meridionale e dello stretto accordo tra papato e Normanni, e a san Michele arcangelo per la cattedrale di Tursi, l’arcistratega delle milizie celesti il cui culto fu comune sia all’area greca che a quella Cfr. supra, nota 141. De Cunto, La SS. Trinità di Venosa, cit., pp. 102 e 118. 169 Houben, Il «libro del Capitolo», cit., p. 66. 170 G. Crudo, La SS. Trinità di Venosa. Memorie storiche, diplomatiche, archeologiche, Trani 1899, pp. 108-109 e 380. 171 AA.SS., Maii, I, pp. 40-41; G. Solimene, La Chiesa vescovile di Lavello, Melfi 1925; B. Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Napoli 1934, pp. 42124. 167 168

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latino-longobarda e il cui pellegrinaggio al santuario micaelico del Gargano conobbe nell’XI secolo, da parte non solo dei Normanni, una vigorosa ripresa172. Un ultimo ma doveroso richiamo va fatto al culto di san Gerardo che, come abbiamo ricordato, soppiantò quello originario di sant’Oronzo. Ricordato nel martirologio romano al 30 ottobre, di lui ci è pervenuta una vita redatta da un vescovo, Manfredi, che dichiara essere stato suo successore nella sede episcopale di Potenza e di aver ottenuto da Callisto II (1119-24) la sua canonizzazione viva voce173. Secondo la vita, Gerardo sarebbe originario di Piacenza; venuto a Potenza venne eletto vescovo della città per le sue preclare virtù e resse la diocesi per otto anni. Un elemento di non trascurabile importanza è il fatto che il suo culto è attestato nella metà del XIII secolo in quanto il 12 maggio 1250 il vescovo Oberto fece trasferire le reliquie del santo in un luogo più decoroso all’interno della seconda cattedrale174. 6. La distrettuazione ecclesiastica subdiocesana Si è fatto cenno innanzi a proposito della sede vescovile di Grumentum all’esistenza di una chiesa di Santa Maria «quod est parochiae ecclesiae Grumentinae»175: si tratta per il periodo tardo-antico dell’unico riferimento a un’istituzione subdiocesana volta all’inquadramento dei fedeli e allo svolgimento della cura d’anime. Tali non possono essere considerate le chiese di nuova erezione fondate da privati, siano essi laici o chierici, pur presenti sul territorio lucano, in quanto non deputate ad assolvere alle funzioni carismatiche e sacramentali proprie delle parrocchie. Violante, sulla scorta delle epistole di Gelasio I e di Pelagio I e delle formule del Liber diurnus, ha precisato il ruolo di questi oratori in rapporto alle richieste avanzate da chi li aveva costruiti «pro sua 172 Fonseca, L’organizzazione ecclesiastica, cit., pp. 77-104; Id., Langobardia minore, cit., pp. 145-57; Id., «Usque dum pervenit ad cryptam S. Angeli»: culto micaelico e insediamenti rupestri nell’Italia meridionale, in C. Gelao (a cura di), Studi in onore di Michele d’Elia, Matera-Spoleto 1996, pp. 85-95. 173 BHL, 3429; AA.SS., Oct., XIII, pp. 464-72. 174 G. Messina, Dal Po al Basento Pellegrino di Pace, Potenza 1999, pp. 67-68. 175 Gregorio Magno, Registrum epistolarum, IX, 209, p. 196.

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devotione»: la loro consacrazione da parte del vescovo e la reposizione delle reliquie non comportavano nessun diritto se non quello di accedervi: diritto, questo, che appartiene a tutta la comunità cristiana176. E per fugare ogni dubbio circa la collocazione di questi oratori nell’ambito delle esigenze religiose personali del fondatore, Pelagio I stabiliva che nemmeno in futuro in queste chiese potesse essere collocato il battistero o esservi inviato da parte del vescovo un prete officiale177. Non conosciamo, comunque, per tutto l’alto e sino al tardo Medioevo l’esistenza di altre istituzioni parrocchiali. Le ragioni dell’assenza di questi gangli vitali della struttura organizzativa ecclesiastica sono molteplici: innanzitutto la dinamica del popolamento in una regione che, per oggettive difficoltà orografiche e morfologiche, non consentiva un’ampia utilizzazione dell’insediamento sparso178; inoltre, almeno dal XII secolo in avanti, l’inserimento sul territorio di nuove sedi vescovili che favorivano nei centri in cui erano ubicate una forte spinta all’aggregazione urbana dei nuclei demici del contado; infine, i numerosi stanziamenti monastici e lo stesso carattere del monachesimo italo-greco, «così vicino alle popolazioni rurali da cui era in generale uscito e che da lui dipendevano materialmente e spiritualmente»179. Ne sono eloquente riprova i testi agiografici relativi a due santi monaci, Vitale e Luca, ambedue siciliani venuti in Lucania. La vita di san Vitale, originariamente scritta in greco da un anonimo contemporaneo del santo, venne tradotta in latino nel 1194180. Vitale sarebbe nato a Castro Nuovo da un’illustre famiglia. Il padre

Violante, Le strutture organizzative, cit., pp. 984-85. Ivi, pp. 998-99. Il riferimento è nella lettera n. 86, cfr. Gassò, Batlle, Pelagii I papae epistolae, cit., pp. 209-11. 178 R. Bergeron, La Basilicata. Changement social et changement spatial dans une région du Mezzogiorno, «Colléction de l’École Française de Rome», 184, Roma 1994, pur presentando la situazione contemporanea, contiene interessanti elementi relativi a questo tema. In ogni caso si rinvia ai saggi di P. Dalena e F. Panarelli inseriti in questo volume. 179 A. Guillou, Il monachesimo greco in Italia meridionale e in Sicilia nel Medioevo, in L’Eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto-6 settembre 1962, Milano 1965, p. 379. 180 Da Costa-Louillet, Saints de Sicile, cit., pp. 89-173, in particolare pp. 12530. 176 177

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Sergio e la madre Chrysonica al loro figlio garantirono un’eccellente educazione sia morale che intellettuale181. In Lucania giunse dalla Calabria attraverso la via Popilia percorrendo poi la via Erculia che consentiva da Petra Roseti di addentrarsi all’interno della regione. Le tappe indigene del suo pellegrinaggio sono minutamente elencate: il monte Raparo, il monte San Giuliano, il monastero di Sant’Elia di Missanello, la Val d’Agri tra Turri e Armento182. Dopo una visita a Bari, Vitale ritorna in Basilicata, fonda un monastero nei pressi della chiesa dedicata a sant’Adriano e Natalia, quindi ritorna a Turri e successivamente si stabilisce in una foresta vicino Rapolla, dove muore183. Ma, al di là dei dati biografici, preme rilevare il ruolo che il testo agiografico attribuisce a Vitale nel suo contatto continuo con le popolazioni rurali attirate dalla sua predicazione, dalle sue virtù taumaturgiche e dal suo potere di scacciare i demoni: «De vicinis ergo locis currunt viri, properant mulieres et a quacumque detinebantur infirmitate, huius interventu Patris sancti, sani et alacres revertuntur: sicque factum est, ut ubi conventus malignantium fuerant, ibi gratiarum actiones Domino referantur»184, rileva l’agiografo a proposito del cenobio di Petra Roseti fondato da Vitale. Al ritorno da Bari, annota l’agiografo, «coepit verba salutifera praedicare [...] non solum in civitate, verum etiam in regione illa contingit immensa hominum et animalium multitudine interire»185. Vitale, in ogni caso, ha la piena consapevolezza dell’orizzonte circoscritto della sua attività pastorale, che non doveva assolutamente estendersi all’esercizio di quelle funzioni sacramentali che comportavano l’ordinazione sacerdotale. Se ne ha una testimonianza irrefutabile nell’incontro che Vitale, insieme con Ilario e Leonzio, ha con il catapano di Bari, Basilio. Alla richiesta di costui di confessarsi a Vitale, il santo monaco risponde: «Non fili, non a me, indigno et ubique idiota debes ea petere, quae tibi non est fas recipere: habes tecum Patres sanctos sacro vestitos sacerdotio; ego enim parum quasdam litteras novi, et tunc sum ausus accipere Sacerdotium»186.

Vita Sancti Vitalis Siculi, in AA.SS., Martii, II, p. 27. Ivi, p. 28. 183 Ivi, pp. 31-33. 184 Ivi, p. 28. 185 Ivi, p. 30. 186 Ivi, p. 29. 181 182

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Eppure a scorrere il sermone che Vitale, approssimandosi alla morte, rivolge al suo successore commentando alcuni versetti della lettera di san Paolo a Tito (2, 1-8), sembra affermarsi una visione meno spontaneistica e più istituzionalizzata del ruolo dell’abate del monastero e dei monaci addetti alle attività pastorali: «sola cogitatio sit cura animarum, et in quibus occupantur illi qui sunt preordinati ab ipso»187. Lo stesso schema si ritrova nella vita di san Luca di Demenna, morto nel 993, scritta originariamente in greco e pervenutaci in una traduzione latina188. La maggiore credibilità del testo è data dal riferimento puntuale ad alcuni dati storici relativi all’area lucana della Val d’Agri, in cui si svolge la sua vicenda: basti per tutti il richiamo al culto di san Laverio che proprio in quegli anni si diffonde nell’area di Marsiconuovo e di Acerenza189. Il contatto con le plebi rurali è maggiormente accentuato; il monastero diventa l’elemento di polarizzazione degli interessi religiosi della comunità contadina: «omnesque ad eum finitimi, tamquam ad apostolum conveniebant; [...] peccatorum [...] fuit conversio, afflictorum consolatio, necessitate laborantium adiutor»190; [...] afflictis omnibus suoque auxilio indigentibus erat auxiliator et medicus191; [...] haec in templorum concionibus praedicabat, quorum magna ex parte aedificator fuit, vel etiam instaurator»192. Insomma, è il mondo contadino con le sue pratiche cultuali, con le sue credenze magiche, con le sue paure ancestrali, con le sue manifestazioni folcloriche, con le sue esigenze di guarigione dai mali e dalle possessioni diaboliche, con i suoi bisogni legati alla sfera del sacro ad assumere primaria importanza nell’attività pastorale di questi santi monaci itineranti tra le grotte e le foreste del territorio lucano. Essi svolgono funzioni di supplenza rispetto ai compiti di cura d’anime dei vescovi e dei preti inseriti nel tessuto delle città sedi primarie del potere e delle attività politiche, ma non va trascurata l’attività di assistenza religiosa che i grandi monasteri sia greci che latini esercitano Ivi, p. 32. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile, cit., pp. 142-46. 189 Cfr. supra, nota 165. 190 Vita Sancti Lucae Abbatis, in AA.SS., Oct., VI, pp. 337-41, in particolare p. 338. 191 Ivi, p. 341. 192 Ibid. 187 188

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nei confronti dei coloni e dei servi inseriti nelle varie proprietà sparse per le campagne193. È, invece, nell’ambito dei microcosmi urbani che nel tardo Medioevo sono documentate le unità pastorali deputate alla cura d’anime, le parrocchie appunto. Per Matera se ne contano tre: San Pietro Caveoso, San Pietro Barisano e San Giovanni Battista, oltre quella della chiesa cattedrale. Per l’esistenza della parrocchia dedicata ai santi Pietro e Paolo nel Sasso Caveoso, Volpe fa riferimento al testamento di Angelo de Berardis, barone del casale di San Cosma e conestabile di Matera, rogato il 30 maggio 1318, che destina «Presbyteris et Ecclesiae S. Petri da Saxo Caveoso pro missis cantandis tarenos septem et dimidium»194. Va peraltro osservato che la medesima formula ricorre anche per le chiese di San Giovanni de Saxo Barisano, Santa Maria de Veteribus, San Lorenzo de lombardis, San Giovanni de Mathera, Santo Stefano, Sant’Angelo de Civita, Sant’Eustachio prope muros quondam Magistri Roberti e Santissima Trinità de Saxo Barisano195. È pur vero che l’area di San Pietro Caveoso risulta tra quelle di maggiore frequentazione dalla preistoria al Medioevo196 e, come chiesa, quella che assurge nei primi decenni dell’età moderna a Chiesa collegiata, con un corpo di canonici che la officiavano per rendere plausibile l’affermazione di Volpe che la elenca fra le tre parrocchie di Matera197. Stringenti elementi portano a consentire con Volpe sull’esistenza di una parrocchia nella chiesa di San Pietro Barisano ubicata «in pic­ tagio Sancti Petri de Veteribus», come la indica un documento del notaio Eustachio di Matera del 1455198. Nella Cronaca di Nelli e nelle Notizie della città di Matera di Copeti si riporta che la chiesa venne restaurata e datata dalla nobile famiglia dei Ciminelli, che su di essa esercitarono il diritto di patronato sancito da una bolla pontificia del 1464199. Fonseca, Particolarismo istituzionale, cit., pp. 1188-89. F.P. Volpe, Memorie storiche, profane e religiose su la città di Matera, Napoli 1818 (rist. anast. con una Nota biografica di N. De Ruggeri, Matera 1979), p. 207. 195 Ivi, pp. 51-52. 196 R. Demetrio, Insediamenti preclassici e classici nell’area urbana, in C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera, Roma-Bari 20022, pp. 5-10. 197 Volpe, Memorie storiche, cit., pp. 206-10. 198 Ivi, pp. 210-11. Per il documento del 1455 cfr. M. Padula, C. Motta, G. Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri di Matera, Roma 1995, p. 166, n. 3. 199 Ibid. 193 194

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Ma ciò che conferisce un sicuro carattere di parrocchialità a questa chiesa è l’esistenza di un fonte battesimale che all’esterno del catino portava l’iscrizione «Ad fontem propera materna proditus alvo / ­Haec sacra te veteri sorde lavabit aqua»200. La terza parrocchia era dedicata a san Giovanni Battista ed era ubicata nel Sasso Barisano. Venne successivamente trasferita in Santa Maria Nuova mantenendo il titolo originario201. Anche a Potenza nel XIII secolo sono attestate due parrocchie, oltre a quella della cattedrale, peraltro ampiamente descritte nelle visite pastorali postridentine del vescovo Tiberio Carafa compiute nel 1567 e nel 1571202. La cattedrale esercitava la sua giurisdizione nell’area orientale dell’abitato, ossia dal castello dei de Guevara sino alla Platea rerum venalium, cioè la piazza del mercato; San Michele comprendeva la parte occidentale della città, dal borgo di Portasalza sino alla grancia di San Lorenzo; la SS. Trinità occupava la zona intermedia tra i due poli della città, denominata in zona Castrovetere203. Comunque, attorno a questi gangli istituzionali della vita religiosa si sviluppò un numero consistente di chiese, monasteri e conventi.

Ibid. Volpe, Memorie storiche, cit., pp. 213-14; Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri, cit., pp. 164-65. 202 G. Messina, Sui sentieri della Riforma, Potenza 1991, pp. 62-96. 203 A.L. Sannino, L’edilizia religiosa, in Buccaro (a cura di), Potenza, cit., p. 55. Cfr. anche A. Pellettieri, L’edilizia ecclesiastica fino al XIV secolo, ivi, p. 32. Per quanto riguarda le parrocchie della SS. Trinità e di San Michele, esse sono attestate rispettivamente come tali nel 1279 e nel 1280, anche se presso tali chiese esistevano collegi di chierici retti da un arciprete. Nel settembre del 1279 un Jaconus Johannes habitator Potentiae vendeva a Guillelmo Ferrario una casa sita nel Castrum vetus «in vicinio et parrocchia sancte Trinitatis» (Archivio di Stato di Potenza, Fondo pergamenaceo della SS. Trinità, pergamena n. 2). L’8 febbraio 1280 Domina Montanea donava alla chiesa di San Michele di Potenza una casa ubicata «in parochia et vicinio eiusdem ecclesie» (Archivio di Stato di Napoli, Società napoletana di storia patria, Fondo Fusco, 10-BB-1 [A], n. 11). Le due pergamene sono state trascritte rispettivamente da A.M. Scalise (Le pergamene della SS.ma Trinità di Potenza, tesi di laurea discussa nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli studi della Basilicata, relatore prof. C.D. Fonseca, a.a. 1999-2000) e dalla dott.ssa A. Pellettieri. Ambedue sono destinate alla pubblicazione nel Codice diplomatico della Basilicata. Va in ogni caso rilevato come già nel gennaio 1178 risultavano collegi di clerici presso le chiese di San Michele e della SS. Trinità (Archivio di Stato di Napoli, Società napoletana di storia patria, Fondo Fusco, 10-BB-1, n. 1). 200 201

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Come è noto, con l’XI secolo Matera definisce la sua realtà urbana con un’interazione sempre più stretta, anche se dialetticamente vivace, tra la Civita e i Sassi204. E, a proposito dei Sassi, non si può non riferirsi alle numerose chiese rupestri e al monastero, anch’esso rupestre, delle SS. Lucia e Agata, ubicato sotto il Monterrone, certamente non anteriore all’XI secolo, di cui conosciamo, attraverso Lupo Protospatario, la nota obituaria della badessa Eugenia, morta nell’ottobre 1093205. Con il monastero delle SS. Lucia e Agata nei Sassi, un altro monastero occupava con le sue fabbriche il sito della Civita, quello di Sant’Eustachio, la cui chiesa venne consacrata nel 1082 dall’arcivescovo Arnaldo di Acerenza e dal vescovo Benedetto di Matera, alla presenza del conte Loffredo di Matera e di Roberto di Tricarico. Le due iscrizioni che facevano memoria dell’evento ci sono pervenute grazie alle trascrizioni rispettivamente di Gattini e di Ridola; la prima, collocata sulla porta, recita: «in nomine domini jesu christi hoc est factum post partum virginis actum beato Eustachio dicatum / anno milleno ottageno secundo loffredo mathere martis amico / secla urgente gregorio hilde brando septemo petri sedem renitente / presule benedicto abbate stephano lapidumque fabro Leonardo saraceno»; la seconda iscrizione, apposta all’interno della chiesa, ricorda: «Stephanus Abbas senex, quam coepit, condidit aedem / Hinc placet Arnaldo sacrari praesule magno / Millenis annis octo deciesque peractis / Ut Deus est nostram dignatus sumere formam / Maius agenorici dum tauri cornua premit»206. Il XII secolo vedeva ormai Matera attestata sui due poli urbanisticamente complessi e vicendevolmente integrati della Civita, con la cattedrale, il castello, il monastero di Sant’Eustachio, e dei Sassi, con gli spazi vicinali che ne scandivano i complessi abitativi muniti di pozzi, scale, canalizzazioni, con le chiese rupestri e con il monastero rupestre delle SS. Lucia e Agata alle Malve. A una chiesa di San Pietro fa riferimento una lettera di Innocenzo III dell’8 agosto 1199 indirizzata all’arcivescovo Pietro; questa chiesa apparteneva alla mensa arcivescovile di Acerenza ed era stata illecitamente infeudata forse

204 Fonseca, La città medievale (secoli VI-XIV), in Fonseca, Demetrio, Guadagno, Matera, cit., pp. 16-25. 205 Lupo Protospatario, Annales, p. 62. 206 G. Gattini, La Cattedrale illustrata, Matera 1913, p. 200.

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dall’arcivescovo Riccardo207. Non si conosce la sua esatta ubicazione; infatti le dedicazioni di chiese rupestri a San Pietro nell’ambito dei Sassi sono tre: San Pietro in Monterrone nel Sasso Caveoso208, San Pietro de Principibus nel Sasso Barisano209, San Pietro Barisano nel Sasso omonimo210. Un cenno particolare merita l’erezione della nuova cattedrale. A suggerire il rifacimento della precedente cattedrale contribuì senza dubbio l’elevazione dell’episcopio materano a sede arcivescovile: giustamente Bertaux indicava il 1203 come terminus post quem per la costruzione della cattedrale conclusa nel 1270211, come si evince dall’iscrizione ora murata sulla porta che conduce al campanile212. Molto probabilmente il titulus dedicationis venne confuso con quello della chiesa del contiguo monastero benedettino di Sant’Eustachio, mentre la dedicazione originaria era stata quella di santa Maria, la «Sancta Maria de Episcopio» citata in due documenti del 1276 e del 1278213. L’imponente elevazione della fabbrica sul punto più alto della Civita, l’ampiezza della pianta, le sapienti soluzioni architettoniche rendevano veramente la Maior Ecclesia Matherana «domus spectamine laeta», come recita l’epigrafe dianzi citata. Concomitante all’erezione della nuova cattedrale iniziò nel 1223 la ricostruzione del palazzo arcivescovile su una parte dell’area del monastero di Sant’Eustachio214. Entro la Civita si era così creato uno spazio religioso di grande incidenza urbanistica scandito dalla cattedrale, dal palazzo arcivescovile e dal monastero di Sant’Eustachio, quasi una Civitas sancta nella Civita terrena arricchita da altri segni del sacro ubicati nello stesso perimetro, come le chiese rupestri di San Pietro alla Civita215, Sant’Angelo de 207 Innocenzo III, Epistolae et Privilegia, in Patrologiae Latinae cursus completus, cit., vol. CCXIV, c. 715. Cfr. Kamp, Kirche und Monarchie, cit., p. 772, n. 5. 208 Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri, cit., p. 154. 209 Ivi, p. 163. 210 Ivi, p. 165. 211 E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale. De la fin de l’Empire romain à la conquête de Charles d’Anjou, 3 voll., Paris 1903; Aggiornamento, a cura di A. Prandi, 3 voll., Roma 1978, p. 691. 212 M.S. Calò Mariani, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati (a cura di), La Cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, Cosenza 1978, p. 19. 213 Codex Diplomaticus Matheranensis, in G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, nn. 34-39. 214 Gattini, La Cattedrale illustrata, cit., p. 200. 215 Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri, cit., p. 156.

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Civita216, San Giacomo alla Civita217, San Benedetto alla Civita218, San Marco alla Civita219. Alla riqualificazione della Civita in senso spiccatamente religioso si accompagnava l’espansione nei Sassi con la costruzione della chiesa di Santa Maria de Armeniis alle pendici del settecentesco seminario lanfranchiano e con la prima costruzione extrameniale sul pianoro dei Sassi, quella di Santa Maria la Nova220. Si aggiungano le fabbriche dei due complessi conventuali creati nel XIV secolo, quello dei Francescani e quello dei Domenicani, collocati in un’area extrameniale verso la quale si sarebbe espansa la città nei due secoli successivi221. Anche Potenza nel suo territorio urbano e suburbano presentava una fitta rete di chiese, monasteri e conventi, tra cui quello di San Francesco, testimonianza della precoce presenza minoritica nella città. Un quadro minuzioso e puntuale è stato ricostruito dalla Sannino sulla scorta delle visite pastorali del 1567 e del 1571 del vescovo Tiberio Carafa222. L’interesse di questo documento consiste, tra l’altro, nel fatto che esso è lo specchio, dal punto di vista delle istituzioni ecclesiastiche e dei luoghi di culto, della situazione degli ultimi secoli del Medioevo, considerati i ritmi lenti nell’evoluzione delle strutture religiose dell’Italia meridionale. Giustamente la Sannino parla di «luoghi di culto, la maggior parte di origine medioevale». Il territorio cittadino e suburbano, oltre la Cattedrale e le due parrocchie di San Michele e della SS.ma Trinità – scrive la Sannino – ospitava anche un enorme numero di chiese minori e cappelle: 23 entro le mura, 10 nelle immediate vicinanze della cinta e 9 nell’agro circostante: si trattava di un patrimonio in buona parte fatiscente o in stato di abbandono. A settentrione dell’attuale via Pretoria si incontravano, nella parrocchia di S. Gerardo, Ivi, p. 157. Ivi, p. 158. 218 Ivi, p. 159. 219 Ivi, p. 197. 220 C.D. Fonseca, Tra gli Armeni dell’Italia meridionale, in Atti del primo Simposio internazionale di Arte armena, Venezia-San Lazzaro 1978, pp. 181-89. 221 C. Foti, Ai margini della città murata. Gli insediamenti monastici di San Domenico e Santa Maria la Nova a Matera, Lavello 1996. 222 Messina, Sui sentieri della Riforma, cit., passim. 216 217

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la chiesa di S. Maria degli Angeli, sita nei pressi del monastero di S. Luca, in cui aveva sede l’omonima confraternita, la chiesa di S. Bartolomeo, nel vicolo di fronte al convento, e quelle di S. Caterina, di S. Maria Nivis e di S. Sebastiano, difficilmente ubicabili. Nella parrocchia della Trinità erano le chiese di S. Lazzaro confinante col planum omonimo, S. Leonardo e S. Pietro – quest’ultima sita sulla strada Pretoria, proprio di fronte alla chiesa parrocchiale – nonché le cappelle dell’Assunzione, di Giovanni Corcillo e di S. Maria delle Grazie. In quest’area vi era inoltre la confraternita dello Spirito Santo, con l’annessa cappella, che gestiva un «ospitale» per i poveri e gli infermi, e che fino al volgere del secolo scorso dava nome all’attuale via Caserma Basilicata. «Iuxta planum Ecclesiae Trinitatis», e precisamente nell’area del futuro largo del Plebiscito (come potrebbe attestare la presenza, ancora nella catastale ottocentesca, di un «vico S. Antoniello»), si trovava l’ospedale di S. Antonio, affidato all’omonima confraternita. Seguivano, in parrocchia di S. Michele, un’altra chiesetta di S. Maria delle Grazie e quelle di S. Angelo e di S. Lucia, quest’ultima, come si è visto, sita extra moenia e a quel tempo diruta, senza tetto né altare, piena di immondizie e di ossa di animali. «In loco lo Monte» erano le chiese di S. Antonio di Vienne e di S. Eunofrio, anche quest’ultima in pessime condizioni, mentre presso Portasalza era la chiesa di S. Giacomo. Nell’area del Destro, cioè a sud di via Pretoria, si incontravano, nella parrocchia della Trinità, la chiesa di S. Eusebio, all’epoca in pessime condizioni e difficilmente ubicabile allo stato attuale, e, nella parrocchia di S. Gerardo, la cappella di S. Maria Maddalena, che abbiamo già incontrato. Presso la piazza pubblica era la chiesetta di S. Stefano, bisognosa di riparazioni al tetto ed al pavimento, nonché le chiese di S. Sofia e di S. Nicola, la prima non ubicabile con certezza, la seconda fortemente dissestata a seguito del terremoto, ed entrambe abbandonate. Nella parrocchia di S. Gerardo, sulla strada pubblica ed «ante carceres» (presso il Sedile), era la chiesa di S. Biagio, senza porta e con l’altare distrutto; seguiva la cappella di S. Zaccaria, nel piano omonimo, anch’essa con il lastrico da rifare, mentre fuori a Porta S. Luca era la chiesa di S. Croce, completamente fatiscente. Ancora fuori le mura, al Pasco Grande, si incontrava la vecchia chiesa di S. Rocco, costruita «in tempore pestis»; scendendo poi lungo la strada che portava a Vaglio, si trovavano le chiese di S. Maria di Betlemme, anch’essa bisognosa di accomodi, e di S. Antonio, fondata nel 1530 insieme col contiguo monastero dei Cappuccini; infine, nella piana del Basento, erano le chiese di S. Oronzio, S. Cataldo e S. Vito, nonché quella di S. Elia, diruta dalle fondamenta223.

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Sannino, L’edilizia religiosa, cit., pp. 55-57.

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Una parte consistente di queste strutture era ubicata nell’area compresa tra la piazza del Sedile e il monastero di San Francesco, e in particolare intorno alla chiesa della Trinità; un’altra era invece tra il castello, il monastero di San Luca e la cattedrale. Le due concentrazioni di chiesette presenti fuori le mura, tra Porta San Giovanni e la via che portava a Santa Maria del Sepolcro, e fuori Portasalza, ormai in avanzato stato di degrado, costituivano le ultime propaggini dell’architettura religiosa e delle istituzioni ecclesiastiche che il Medioevo trasmetteva all’età moderna. 7. Gli assetti metropolitici Sino alla metà dell’XI secolo la Basilicata non ha potuto vantare un ordinamento metropolitico che facesse leva su un capoluogo indigeno. La pluralità delle esperienze religiose, la gravitazione di alcune aree nell’obbedienza del patriarcato di Costantinopoli, la robusta intelaiatura dei monasteri italo-greci, la frantumazione istituzionale del tessuto politico-amministrativo hanno favorito un incalzante particolarismo istituzionale e hanno determinato una sorta di subalternità a centri ecclesiastici di più antica e consolidata tradizione. In ogni caso, una delle discriminanti della mancata ricomposizione unitaria della regione è costituita, tra l’altro, proprio dalla compresenza di aree longobardizzate e, quindi, con una decisa polarizzazione verso strutture latino-occidentali, e di aree bizantinizzate, con un’altrettanto spiccata determinazione verso matrici di ascendenza greco-orientale224. Si è fatto cenno, non a caso, alla facoltà concessa dal patriarca di Costantinopoli, Polieucto, nel 968 all’arcivescovo di Otranto di consacrare vescovi suffraganei ad Acerenza, Tursi, Gravina, Matera e Tricarico e all’ordine impartito dell’imperatore Niceforo Foca di celebrare «in omni Apulia et Calabria» i divini misteri secondo la liturgia greca225.

Fonseca, Particolarismo istituzionale, cit., pp. 38-44. Liutprando di Cremona, Relatio de legatione Constantinopolitana, cit., p. 209. 224

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Sta di fatto che Acerenza risultava nel 983 suffraganea dell’arcidiocesi di Salerno226, mentre nel 1025 Montemilone, Lavello e Cisterna rientravano tra le suffraganee della sede metropolitica di Bari227. Alla metà dell’XI secolo si registrano alcune consistenti modifiche: nel 1051 Acerenza risultava ancora dipendente da Salerno; da Leone IX venne aggiunta alla metropolia salernitana come nuova sede suffraganea Marsico, che aveva assunto il titolo della estinta diocesi di Grumentum228. Ma la situazione cambiava radicalmente nel decennio 1050-60, quando, verosimilmente dopo il sinodo del 1067, Alessandro II sottraeva Acerenza alla giurisdizione di Salerno e la elevava al rango di sede metropolitica229. A un sinodo tenuto probabilmente all’inizio del 1069 in Laterano erano presenti, oltre all’arcivescovo Arnaldo, i vescovi suffraganei Brunone di Potenza e Ingelberto di Tursi230. Da una bolla di Alessandro II del 23 aprile 1068 la provincia ecclesiastica acheruntina risulta comprendere le civitates di Venosa, Montemilone, Potenza, Tolve, Tricarico, Montepeloso (Irsina), Gravina, Matera, Oblano, Turri, Tursi, Latiano, San Quirico, Oriolo, cioè sia i territori latini che quelli grecizzanti dell’ordinamento costantinopolitano231. Ma trent’anni più tardi l’arcivescovo di Salerno contestò l’erezione della sede metropolitica acheruntina (come peraltro quella di Conza) sì da ottenere da Urbano II il 20 luglio 1098 una bolla con la quale veniva riconosciuto all’arcivescovo di Salerno una sorta di primato («primatum gerere») sulle due nuove sedi metropolitiche ma, nel contempo, venivano inserite alcune clausole alle quali si dovevano attenere gli arcivescovi di Acerenza232. Si trattò, come è facile intuire, di un compromesso che, se per un verso ribadiva l’acquisito diritto dell’arcivescovo di Acerenza (anche se il papa dichiarava di non conoscere i motivi per i quali il presule acheruntino aveva meritato un tale privilegio, pur non sfuggendogli il ruolo assunto dallo stesso Italia Pontificia, vol. IX, pp. 339-41. Ivi, p. 319. 228 Ivi, vol. VIII, p. 349. 229 Ivi, vol. IX, pp. 457-58. 230 H. Houben, Die Teilnehmer der Synoden Alexanders II. (1061-1073) mit Neuedition von JL 4651, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 77, 1977, pp. 1-17. 231 Italia Pontificia, vol. IX, pp. 456-57. 232 Ivi, pp. 457-58. 226 227

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arcivescovo Arnaldo, un filogregoriano, nell’attuazione della riforma), dall’altro non poteva non tener conto della vigorosa personalità dell’arcivescovo Alfano e del peso determinante della capitale di uno dei più importanti ex principati longobardi meridionali. Le clausole cui si faceva riferimento erano innanzitutto la presenza dell’arcivescovo di Salerno accanto al legato pontificio in occasione dell’elezione dell’arcivescovo di Acerenza; inoltre, l’invio di lettere congiunte o di messaggeri a Roma per ottenere la facoltà di consacrare il nuovo eletto; infine, la prestazione dell’obbedienza dopo la consacrazione e in occasione del conferimento del pallio233. Molto verosimilmente queste clausole vennero disattese, se di esse a distanza di appena quattro anni non si faceva più cenno nella bolla di Pasquale II del 16 giugno 1102 con la quale il pontefice riconfermava gli antichi diritti della sede metropolitica ed elencava le diocesi suffraganee (Venosa, Gravina, Tricarico, Tursi, Potenza) con la relativa facoltà di ordinare il pallio234. Sia Eugenio III il 1° aprile 1151 che Alessandro III il 7 settembre 1179 confermavano la bolla di Pasquale II235. Una svolta nella vicenda della metropolia acheruntina si ebbe tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, quando si registra una fase di crisi da inserire peraltro nel più generale clima politico che segnò il passaggio dai Normanni agli Svevi. Lo si evince dalla bolla di Innocenzo III del 31 luglio 1199 con la quale il papa annunciava la nomina del suo notaio Rainaldo ad arcivescovo di Acerenza. Nella bolla il papa ammoniva i vescovi suffraganei all’obbedienza verso il nuovo metropolita «quoniam auctore Domino vos in proximo visitabit», ma rilevava altresì lo stato di decadenza della chiesa acheruntina, «la quale è gravata, come le chiese vicine, da distruzioni e ridotta in solitudine», facendo riferimento «all’esilio dell’arcivescovo N di beata memoria»236 (il documento pontificio, che non cita il nome, intendeva riferirsi all’arcivescovo Pietro, in esilio a Roma e impedito di prendere possesso della sua sede in quanto consacrato da Innocenzo III

Ibid. Ivi, p. 458. 235 Ibid. 236 A. Potthast, Regesta Pontificum Romanorum inde ab a. post Christum natum 1198 ad a. 1304, vol. I, Berolini 1874, n. 810. Cfr. Kamp, Kirche und Monarchie, cit., p. 773. 233 234

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senza il consenso dell’imperatrice Costanza)237. Il successore di Rainaldo divenne Andrea, arcivescovo di Acerenza, il quale ottenne dal papa nel 1203 l’elevazione di Matera a sede arcivescovile unita aeque principaliter ad Acerenza238. Comunque Acerenza continuò a essere il centro della metropolia se il 25 gennaio 1310 il sinodo provinciale per stabilire l’entità delle decime da versare alla Camera apostolica si riunì «apud Acherontiam in maiori ecclesia acheruntina extra castrum»239. Non ci sono pervenute significative testimonianze relative ai poteri esercitati dal metropolita di Acerenza, oltre quello dell’ordinazione dei vescovi, nei confronti delle diocesi suffraganee della provincia ecclesiastica. Comunque è fuor di dubbio il primato che viene riconosciuto al metropolita: ce ne fornisce un esempio la composizione della delegazione inviata dal papa Callisto II tra il 1123 e il 1124 per informare i potentini dell’avvenuta canonizzazione di san Gerardo, dove Pietro, arcivescovo di Acerenza, compare subito dopo il cardinale Guglielmo di Preneste e prima dei due vescovi Pietro di Gravina e Leone di Grumento240. Ma sono due documenti del 7 maggio 1314 e del 31 agosto 1454 che ci informano circa il concreto esercizio dei poteri metropolitici: il primo è relativo alla riforma del numero del collegio dei canonici della cattedrale di Potenza, per il quale dal vescovo veniva chiesta e ottenuta l’approvazione dell’arcivescovo di Acerenza, Roberto241; l’altro inerente l’esercizio della visitatio che l’arcivescovo acheruntino, Marino, effettuava al vescovo Roberto, al clero e al capitolo della cattedrale di Venosa e che, nel caso concreto, aveva comportato l’emanazione di propri decreti242. Accanto alla richiesta dell’oboedientia e all’obbligo della visitatio un terzo aspetto dell’esercizio della giurisdizione metropolitica ri-

L’ultima attestazione del vescovo Pietro è del 27 agosto 1198 (ibid.). Potthast, Regesta Pontificum Romanorum, cit., n. 1539. 239 Vendola, Rationes decimarum Italiae, cit., p. 364. 240 Italia Pontificia, IX, p. 458. 241 D. Giuseppe Arcidiacono Rendina de’ baroni di Campomaggiore, Storia della città di Potenza accresciuta da tempo in tempo, trascritta ed accresciuta da D. Gerardo Picernese, in R.M. Abbondanza Blasi, Storia di una città: Potenza. Da un manoscritto della seconda metà del sec. XVII, Salerno 2000, pp. 259-62. 242 V. Verrastro (a cura di), Materiali per un Codice diplomatico della Basilicata. Venosa, Saponara, Armento, Potenza s.d., p. 19. 237 238

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guarda la sinodalità espressa attraverso l’indizione dei concili provinciali. Se ne ha una riprova dal verbale del Concilio provinciale del 23 gennaio 1310 quando, «convocato et congregato provinciali concilio prelatorum omnium acherontinae provinciae» ad Acerenza in occasione della visita degli inviati del papa, l’arcidiacono Bernardino di Namur e il canonico Guglielmo de Balaeto di Limoges, venne redatto l’elenco delle decime che i vari enti ecclesiastici della provincia ecclesiastica acheruntina dovevano versare alla Camera apostolica243. Il documento ci consente innanzitutto di conoscere la composizione del Concilio provinciale acheruntino: insieme al metropolita risultano presenti i vescovi, gli abati dei monasteri sia esenti che non esenti e molti altri ecclesiastici della stessa provincia che vengono minuziosamente elencati, a cominciare dal metropolita Roberto, dai vescovi di Anglona, Potenza e Venosa, rispettivamente Marco, Guglielmo e Guido, al vicario del vescovo di Gravina, ai procuratori degli abati di Banzi e Montepeloso (Irsina), all’abate del monastero di Santa Maria de Limaris della diocesi di Gravina, agli abati dei monasteri di Santa Maria di Pisticci, di San Leone de Tribus Vineis, di San Michele di Montepeloso, di Oggiano della diocesi di Acerenza, di Santa Maria de Armeniis di Matera, di San Pietro de Tulbio, di San Pietro de Cellariis, del priore di Santa Maria di Calvello, di Santa Maria del Pantano, del preceptor del Santo Sepolcro di Gravina, dei procuratori dei capitoli cattedrali della provincia, di Santa Maria de Valle, di San Michele di Montescaglioso «et archidiacono nazareno». Risultava assente il vescovo di Tricarico, per il quale si impegnava lo stesso metropolita a sollecitarlo nell’impegno di ottemperare alle decisioni del Concilio. Il documento si riferisce poi genericamente all’intervento di altri ecclesiastici della provincia. Comunque, questa massiccia presenza al Concilio provinciale del 1310, per di più convocato in gennaio, cioè in un periodo climatico particolarmente sfavorevole, va posto in stretta relazione con l’argomento trattato, e cioè il versamento della decima alla Camera apostolica due volte l’anno, a Pasqua e il 15 agosto, come recitava la bolla di papa Clemente V il cui testo era stato consegnato al metropolita dai due inviati del papa Bernardino di Namur e Guglielmo di Limoges. Il notaio ci informa, non sappiamo con quanta aderenza alla realtà, che la bolla era stata letta «alta voce et distincte» e che tutti gli intervenuti 243

Vendola, Rationes decimarum Italiae, cit., p. 364.

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assunsero la deliberazione «sponte, ylariter et gratiose» di versare il sussidio richiesto244. 8. Le istituzioni capitolari e i distretti archipresbiterali L’erezione di nuove cattedrali e il rifacimento o restauro di quelle esistenti comportò l’introduzione di collegi canonicali destinati all’ufficiatura liturgica della ecclesia matrix della diocesi e allo svolgimento di quei compiti pastorali legati all’esistenza del battistero, inizialmente unico per l’intero distretto ecclesiastico245. È ben noto, peraltro, come a queste forme di collegialità del clero a servizio della chiesa cattedrale si accompagnarono forme organizzative articolate che sfociarono poi nei secoli centrali del Medioevo nell’adozione della vita comune, nelle scelte di povertà prima dei singoli poi dell’intera comunità, nell’anelito di riforma che comportò stadi diversi di regularitas sino a quando, con il prevalere del sistema delle prebende e la divisione della mensa capitolare da quella vescovile, la vita comune subì un processo di decadenza divenuto irreversibile nei secoli del tardo Medioevo246. In Basilicata la documentazione in questo specifico campo di ricerca risulta assolutamente inadeguata, se non umbratile e rapsodica; Ivi, pp. 364-65. I riferimenti bibliografici si possono leggere supra, nota 132. 246 Della ricca bibliografia che dagli anni Cinquanta del XX secolo si è occupata delle canoniche e del movimento canonicale vengono indicati soltanto alcuni titoli funzionali al testo che qui viene proposto, a cominciare dalla voce ormai classica di Ch. Dereine, Chanoines, in Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastique, vol. XII, Paris 1953, pp. 353-405, per proseguire con i due volumi degli Atti della prima settimana internazionale di studi medioevali del Passo della Mendola (settembre 1959) su La vita comune del clero nei secoli XI e XII, «Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Miscellanea del Centro di studi medievali», 3, Milano 1962. Cfr. inoltre F. Poggiaspalla, La vita comune del clero dalle origini alla riforma gregoriana, «Uomini e dottrine», 14, Roma 1968; C.D. Fonseca, Medioevo canonicale, «Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Contributi, Serie terza, Scienze storiche», 5, Milano 1970. Una ricognizione della storiografia canonicale dal Quattrocento sino alla fine degli anni Sessanta del Novecento si può rinvenire ivi, pp. 5-77 e un aggiornamento sino al 2000 in C. Andenna, Mortariensis Ecclesia. Una Congregazione di Canonici regolari nel secolo XII, tesi di dottorato in Storia medievale (ciclo XII) discussa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, a.a. 1999-2000, pp. 2-126. Cfr. l’ampia e aggiornata bibliografia nel vol. II, pp. 99-157. 244 245

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non ci sono pervenute né sillogi normative e statutarie relative agli ideali ispiratori delle scelte di vita dei chierici né bolle anteriori al XIII secolo relative all’intervento dei vescovi nei confronti dei capitoli né tanto meno trattati di spiritualità riguardanti la dottrina del sacerdozio247. Gli unici elementi disponibili, peraltro in larga misura riferiti alla tarda età medievale, sono sostanzialmente tre: le sottoscrizioni da parte di singoli canonici degli atti rogati nell’ambito delle diocesi di appartenenza, che attestano indirettamente l’esistenza dei capitoli, le note obituarie dei calendari e dei libri vitae, le fonti liturgiche. Cominciamo con il caso di Acerenza, da cui ci sono giunte le attestazioni più significative rispetto agli altri centri diocesani del territorio lucano almeno per il tardo Medioevo grazie a tre fonti di indubbia consistenza: innanzitutto un manoscritto conservato nell’archivio della cattedrale acheruntina, che contiene un calendario/obituario datato dalla Restaino, quanto al nucleo principale, «entro i primi due decenni successivi alla metà del XIV secolo»248, e il Liber piorum legatorum, che annota i lasciti effettuati da alcuni canonici di cui si faceva memoria al termine della recita dell’ora prima249 e, anche se al limite dell’arco cronologico qui considerato, quella testimonianza di eccezionale importanza costituita dal Liber visitationis dell’arcivescovo Giovanni Michele Saraceno, che riporta gli atti della visita pastorale effettuata negli anni Quaranta del XVI secolo250. Il calendario/obituario elenca dodici nomi di chierici indicati con l’appellativo di canonici, ma non va escluso, anzi ci sono casi che 247 Sull’importanza delle sillogi normative, siano esse «regole», «consuetudini» o «statuti», cfr. Fonseca, Medioevo canonicale, cit., in particolare pp. 75-200; Id., Canoniche regolari, capitoli cattedrali e «cura animarum», in Pievi e parrocchie in Italia nel Basso Medioevo (sec. XIII-XV). Atti del VI Convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-23 settembre 1981), «Italia sacra», 35, vol. I, Roma 1984, pp. 257-78. 248 Il libro del Capitolo di Acerenza ha costituito l’argomento della tesi di dottorato di ricerca in Storia del Mezzogiorno e dell’Europa mediterranea dall’antichità all’età contemporanea (Università della Basilicata) della dott.ssa Rosangela Restaino, che ringrazio per le cortesi informazioni su alcuni risultati del suo lavoro. 249 C.D. Fonseca, La tradizione commemorativa nel codice «gerosolimitano» del Tesoro della Basilica del Santo Sepolcro di Barletta, in Id. (a cura di), La Tradizione commemorativa nel Mezzogiorno medioevale: ricerche e problemi. Atti del Seminario internazionale di studio. Lecce, Monastero di San Giovanni Evangelista, 31 marzo 1982, Galatina 1984, pp. 91-96. 250 A. Giganti (a cura di), La Cattedrale di Acerenza nel Medioevo, Potenza 2002, p. 286.

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lo attestano, che l’appartenenza a collegi canonicali sia estensibile a tutti gli altri chierici indicati con il riferimento generico di dominus. Comunque, quanto agli obiti datati non si trovano riferimenti anteriori al 1471; d’altra parte, gli obitus che trovano riscontro nel Liber piorum legatorum (1559) sono tutti del XVI secolo, come Franciscus de Aviliano, morto il 25 settembre del 1528, menzionato in un documento del 1509 e nel Liber del 1559, che riporta minutamente le donazioni effettuate al capitolo251; come Antonius Moscia, scomparso il 20 giugno 1559 e ricordato nel Liber nella stessa data del 1585 e in un altro documento nel 1581252; come ancora Dominicus Simonellus, deceduto il 6 agosto 1559 e menzionato nel Liber alla stessa data253; come, infine, Nicolaus Palma, morto il 17 giugno 1556 e menzionato nel Liber alla stessa data254. Considerata la consistenza delle donazioni effettuate al capitolo da questi canonici, la nota obituaria è particolarmente circostanziata anche in riferimento agli obblighi che al capitolo ne derivavano, come la celebrazione delle messe pro anima nella ricorrenza degli anniversari o le prescrizioni connesse ad altri legati. Comunque, pur nell’esiguità dei riferimenti le note obituarie ci consentono di conoscere l’organizzazione interna del capitolo e la presenza delle dignità capitolari come quella di archidiaconus, tenuta nel 1496 da un tale Matheus, indicato come «archidiaconus et vicarius acherontinus»255, o quella di cantor, ricoperta da Franciscus de Aviliano256. Quanto poi alla decadenza dello stesso istituto capitolare nel tardo Medioevo, costituisce una significativa testimonianza la visita pastorale dell’arcivescovo Saraceno, che interviene con provvedimenti drastici e incisivi nel restituire il clero della sua chiesa alle primigenie funzioni, prima fra tutte quella di assicurare il culto divino257. 251 Acerenza, Archivio arcivescovile, Liber piorum legatorum, c. 142v, pergamena n. 26 (1509). 252 Ivi, c. 88r, pergamene n. 50 (1581) e 51 (1584). 253 Ivi, c. 112v. 254 Ivi, c. 88v. 255 Nell’obituario è ricordato con questo titolo il 9 gennaio. 256 Nell’obituario è menzionato come «dominus Franciscus de Abiliano cantor Acheruntinus» il 25 agosto 1559. 257 Cfr. M. Morano, Giurisdizione ecclesiastica e poteri delegati nel «Liber Visitationis» (1543-1545) di M.G. Saraceno, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 33, 1968, pp. 143-64. Cfr. anche A.L. Sannino, Vescovi e diocesi, in A. Cestaro (a cura di), Storia della Basilicata, vol. III, L’età moderna, Roma-Bari 2000, pp. 203-204.

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Un ultimo riferimento al capitolo di Acerenza è legato alle fonti liturgiche che ci sono pervenute e che consentirebbero, unica fra le chiese cattedrali della Basilicata, qualora avessimo probanti elementi documentari circa la loro provenienza e la loro utilizzazione, di attribuire ai primi due secoli del secondo millennio l’esistenza di un collegio di chierici addetti al culto della chiesa cattedrale. Si tratta del frammento di un evangeliario dell’XI secolo e di un altro del XII secolo: il primo è un bifolio del vangelo di Marco in scrittura beneventana molto verosimilmente proveniente, come rileva Giganti, «dal corredo librario dell’arcivescovo Arnaldo, l’ideatore e il costruttore della Cattedrale di Acerenza, personaggio di spicco nella società cristiana della seconda metà dell’XI secolo»258; l’altro è un evangeliario contenuto in 24 fogli di pergamena sottile che conserva pericopi delle principali festività dell’anno liturgico «in una sequenza gregoriana con il Temporale e il Santorale uniti»259: assegnato come data della sua composizione al periodo tra il 1125 e il 1150, al manoscritto è stata attribuita un’origine monastica in ragione delle peculiarità paleografiche e altresì di alcune specificità liturgiche collegabili con il «processo di latinizzazione di tutta la zona ancora influenzata da costumi e usi greci»260. Ciò che è certo è che nella prima metà del XVI secolo l’evangeliario era in uso nella cattedrale acheruntina, come si evince dagli atti della visita pastorale dell’arcivescovo Saraceno del 1542, dove viene riportato l’inventario di tutte le suppellettili sacre esistenti nella sacrestia della cattedrale redatto dal segretario capitolare, tra cui «liber unus cum cartis membranis in quo sunt scripta sacra evangelia», inserito in una custodia d’argento con le riproduzioni rispettivamente di Cristo crocifisso e del Salvatore (verosimilmente il Cristo in maestà) circondato dai quattro evangelisti261. Un terzo manoscritto liturgico conservato nella cattedrale acheruntina è un graduale parziale notato contenente il Proprium de tempore dalla prima domenica di Avvento alla terza domenica dopo Pentecoste: si tratta di un codice pergamenaceo di 90 fogli inserito in una copertina costituita da assi di legno e dorso in cuoio e attribuito ai secoli XIV-XV262. Giganti, La Cattedrale di Acerenza nel Medioevo, cit., p. 280. Ivi, p. 286. 260 Ivi, p. 291. 261 Ivi, p. 286. 262 Il manoscritto, conservato nell’Archivio arcivescovile di Acerenza, mi è stato 258 259

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Quanto alla cattedrale di Potenza, l’esame della documentazione registra sin dal 1178 la presenza di canonici episcopie, come si evince da un atto del vescovo della città Giovanni indirizzato ai chierici delle chiese di San Michele e della SS. Trinità; con tale atto venivano confermati, alla presenza dei «canonici matris ecclesiae» di Potenza, ai chierici delle due chiese dianzi menzionate «assisas et ordinationes» emanate da re Ruggero verosimilmente nel 1149, dopo che era stata esibita al vescovo la cartula contenente tali concessioni regie263. Comunque dal secondo decennio del XIII secolo è costante la presenza dei canonici della cattedrale, a cominciare dal 1219, quando compaiono le tre dignità del capitolo, cioè l’arcidiacono, il cantore e l’arciprete264. Molto verosimilmente, con l’erezione della seconda cattedrale tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII vennero assunte concrete iniziative per riordinare il collegio dei canonici. Una prova non trascurabile di questo nuovo indirizzo riformatore è costituito dall’intervento del vescovo Garzia, il quale nel 1221, a fronte dell’eccessivo numero dei canonici, con il consenso del capitolo lo ridusse a dodici comprese le tre dignità di arcidiacono, cantore e arciprete. Il presule stabiliva altresì che, in caso di morte o di rinunzia di uno dei suoi membri, doveva essere lo stesso capitolo a eleggere il successore265. Il provvedimento venne iterato il 7 maggio 1314 dal vescovo Guglielmo, il quale per dare maggiore autorità al documento lo fece approvare dall’arcivescovo di Acerenza Roberto266. Risultano presenti come sottoscrittori i dodici membri del capitolo, tra i quali Pietro de Madio, arcidiacono, Guglielmo de Guerriero, arciprete, e il presbitero Nicola, cantore267. Nel 1364 il vescovo Guglielmo confermò la disposizione sulla riduzione del numero dei canonici ottenendo, anche in questo caso, la conferma da parte dell’arcivescovo di Acerenza, Andrea. Comunque anche il vescovo di Rapolla il 12 aprile 1310, d’accordo con il capitolo, cortesemente segnalato da don Anselmo Susca OSB dell’abbazia della Scala di Noci, che ne ha in corso la pubblicazione. 263 Archivio di Stato di Napoli, Società napoletana di storia patria, Fondo Fusco, 10-BB-1, n. 1. 264 Ivi, n. 5. 265 Rendina, Storia della città di Potenza, cit., p. 243. 266 Ivi, pp. 259-62. 267 Ivi, pp. 261-62.

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aveva richiesto alla Sede apostolica di portare a dodici il numero dei canonici268. Interessanti elementi relativi alle istituzioni capitolari, nonostante l’esiguità delle testimonianze, ci offre la documentazione concernente Venosa. Infatti il collegio canonicale risulta implicitamente attestato all’inizio del XII secolo, come si evince da un atto riguardante la restituzione di due vigne effettuata nel gennaio del 1105 da Roberto «diaconus et canonicus ecclesie sancti Andree apostoli episcopii civitatis Venusii» a favore di Pietro abate del monastero italo-greco di San Nicola di Morbano269. Più ampi ragguagli sull’organizzazione interna del capitolo ci restituisce un atto del 19 agosto 1256 riferentesi a una permuta di beni intervenuta tra il vescovo di Venosa, Giacomo, e Nifo, abate del monastero di Morbano, alla quale intervengono come testimoni Falcone, arcidiacono venosino, Lorenzo, sacerdote e canonico, Pietro, presbitero e canonico, un altro Pietro, diacono e canonico, Giovannetto, presbitero e canonico270. In un altro atto di restituzione di un pezzo di terra al monastero di Morbano del 9 dicembre 1264 compare, come tutore dei restituenti, Roberto «de domino Iacobo de maynardo diaconus et canonicus maioris ecclesie venusine»271. Quanto poi al regime di divisione delle prebende, ai pranzi comuni, alla gestione dei beni, alla partizione dei frutti e delle rendite, ci informa la bolla dell’arcivescovo di Acerenza, Marino, del 31 agosto 1454, emanata a Venosa in occasione della visitatio effettuata al vescovo Roberto al clero e al capitolo di Sant’Andrea nell’ambito dell’esercizio dei suoi poteri metropolitici. In essa Marino detta nuove norme sulla gestione e sulla divisione dei frutti e dei redditi della cattedrale, sull’elezione dei procuratori e sull’antica usanza dei pranzi che in occasione di alcune festività venivano offerti ai canonici272. Un altro capitolo cattedrale viene attestato nei primi decenni del XII secolo ed è quello della cattedrale di Marsico, il cui vescovo En-

268 Ivi, p. 268. Per il caso di Rapolla cfr. T. Pedio, Cartulario della Basilicata (476-1143), vol. III, Venosa 1999, p. 7. 269 R. Briscese, Le pergamene della Cattedrale di Venosa, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 10, 1940, p. 32. 270 Ivi, pp. 237-40. 271 Ivi, pp. 325-26. 272 Cfr. supra, nota 242.

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rico, insieme con l’arcidiacono Riccardo e l’arciprete Ursino «eius episcopatus», è presente a Brienza l’8 giugno 1130 a un atto di donazione mediante il quale Guglielmo di Montescaglioso, figlio del conte Roberto, donava all’abate Simeone di Cava dei Tirreni la chiesa di San Giovanni in Brienza. Lo stesso Riccardo e Ursino insieme con altri canonici di Marsico compaiono in un atto dell’8 maggio 1144 mediante il quale il vescovo Giovanni, annuendo alle richieste di alcuni abitanti di Tramutola, concedeva all’abbazia della SS. Trinità di Cava alcuni beni ubicati in Tramutola «ut fratres eiusdem sancti predicti coenobii ex hac transeuntes seu redeuntes in illa haberent hospitium»273. Comunque è in un documento del 14 giugno 1166 con il quale Marino, abate di Cava, chiedeva a Giovanni, vescovo di Marsico, la dedicazione della chiesa di Tramutola, pervenuta per precedente donazione, alla SS. Trinità che compare tra le sottoscrizioni un cospicuo numero di membri del capitolo marsicano con le due dignità di arcidiacono e di arciprete tenute rispettivamente da Laverio e da Pietro274. Nei documenti del Trecento e del Quattrocento appartenenti al monastero marsicano di San Giacomo e al capitolo cattedrale compaiono numerosi canonici e le dignità di primicerio e cantore sia come sottoscrittori che come attori di vari atti, a cominciare dal 1308 per finire al 1482. Qui mette conto accennare a una bolla del vescovo Andrea, il quale subito dopo essersi insediato conferma i privilegi e le immunità del capitolo della sua cattedrale275. Anche per Melfi è attestata l’esistenza del capitolo certamente nel settembre 1149 in un atto di donazione del vescovo Stefano agli Ospedalieri di San Giovanni di Dio che viene sottoscritto dai canonici Assalonne, Giovanni, Petracca, Ranaldo, Sebastiano, Ugone e dall’ar273 Cava dei Tirreni, Archivio dell’abbazia, G-2, a. 1130. Il documento, che ha avuto una prima edizione da parte di C. Palestina, L’Arcidiocesi di Potenza, Muro, Marsico, vol. III, Appendice documentaria, Potenza 2000, pp. 31-32, non è stato inserito nella classica monografia di P. Guillaume, Essai historique de l’Abbaye de Cava d’après des documents inédits, Cava dei Tirreni 1877, dove peraltro viene riportato il testamento del 4 agosto 1127 (ivi, pp. xxviii-xxix); Cava dei Tirreni, Archivio dell’abbazia, G-44, a. 1144, edito da Palestina, L’Arcidiocesi di Potenza, cit., vol. III, pp. 35-36. 274 Cava dei Tirreni, Archivio dell’abbazia, G-45, a. 1166, edito da Palestina, L’Arcidiocesi di Potenza, cit., vol. II, pp. 39-40. 275 Archivio di Stato di Potenza, Pergamene dell’Archivio capitolare di Marsiconuovo, 126 A. Ringrazio la dott.ssa Isabella Aurora per la cortese segnalazione.

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ciprete Giovanni. Nel 1289 il vescovo Sinibaldo aveva stipulato una convenzione con il capitolo relativa alla destinazione di un pranzo serotino ai suoi membri e al clero; convenzione che veniva rinnovata il 12 maggio 1376 dal vescovo Francesco Scondito per l’intervenuta diminuzione delle rendite della mensa capitolare e per le conseguenze delle guerre («propter mensae redditos deminutos et bella hactenus habita et nunc cessata»)276. Accanto alle istituzioni canonicali delle cattedrali vanno anche segnalate quelle delle chiese collegiate deputate alla giurisdizione sacramentale e beneficiaria, sia talvolta, come è il caso di Potenza, nello stesso capoluogo della diocesi sia nei centri demici del contado. Una spia significativa della situazione quale si presentava nei primi decenni del XIV secolo è costituita dalla lista dei contribuenti e dall’ammontare dei relativi tributi che dovevano essere versati alla Camera apostolica. Per la Basilicata ci sono pervenuti due elenchi delle Rationes decimarum, il primo del 1310, immediatamente dopo il Concilio provinciale indetto ad Acerenza il 25 gennaio di quell’anno277, il secondo più ampio e articolato di quello precedente pubblicato nella cattedrale di Acerenza alla presenza dell’arcivescovo e dei suffraganei dal vescovo di Potenza, Guglielmo, appositamente delegati il 14 dicembre 1324. Va innanzitutto rilevato come per i capitoli erano già intervenute nel 1310 la divisione della mensa vescovile da quella capitolare e l’introduzione del sistema delle prebende. Ad Acerenza l’arcivescovo per la propria mensa, i cui redditi erano valutati in 100 once d’oro, versava 10 once278; i canonici e i chierici «in ecclesia acherontina residentes», 15 tareni; a loro volta i canonici e i chierici per i benefici di cui erano titolari versavano una determinata quantità di danaro279. Altrettanto accadeva a Potenza, dove il vescovo «ad mensam suam» versava 6 once; i canonici e i chierici della cattedrale «in communi» 1 oncia e 10 tareni; a loro volta le singole dignità e i singoli canonici «pro beneficiis que obtinent in particulari particulariter quantitate 276 Per il documento del 1169 cfr. A. Mercati, Le pergamene di Melfi nell’Archivio Vaticano, in Miscellanea Giovanni Mercati, vol. V, Città del Vaticano 1946, pp. 263 sgg. Per il documento del 1376 cfr. Pedio, Cartulario della Basilicata, cit., vol. III, n. 1376, p. 128. 277 Vendola, Rationes decimarum Italiae, cit., pp. 139-77. 278 Ivi, p. 162. 279 Ibid.

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pecunie» un’altra tassa individuale280. Lo stesso caso si registra per la mensa vescovile e per quella del capitolo di Gravina281, di Lavello282, di Rapolla283, di Venosa284, di Muro Lucano285, di Marsico286, di Satriano287, di Tricarico288, di Anglona289. Inoltre è documentata l’esistenza di capitoli non cattedrali nei quali risulta essere presente una sola dignità, quella dell’archipresbiter, con funzioni sia di capo del collegio dei chierici, non rare volte indicati con il termine di canonici, che di titolare della parrocchia. Archipresbiter et clerici risultano attribuiti nella città di Potenza alle chiese di San Michele e della SS. Trinità; e poi a Pignola, Abriola, Tito, Picerno, Baragiano, Ruoti, Avigliano, Lagopesole. E che si tratti di capitoli collegiali si evince dal fatto che per le altre chiese sono menzionati genericamente clerici ad esse deputati come quelli di Santa Maria del Sepolcro e di Santa Caterina a Potenza, di Castel Glorioso nei pressi di Pignola o quelli elencati per tutte le altre diocesi. Per limitarci ad alcuni dati sintetici di questo fenomeno, appaiono documentati nel 1324, operanti nelle singole diocesi della Basilicata, ben 62 capitoli collegiali retti da un archipresbiter, e precisamente: 28 ad Acerenza290; 10 a Potenza291; 19 a Tricarico292; 1 a Melfi293; 2 a Rapolla294; 2 a Venosa295. Si tratta, in ogni caso, di un numero che non rispecchia il quadro complessivo delle situazioni locali, in quanto un’indagine più approfondita potrebbe far lievitare notevolmente il Ivi, p. 170. Ivi, p. 141. 282 Ivi, p. 144. 283 Ivi, p. 152. 284 Ivi, p. 153. 285 Ivi, p. 159. 286 Ivi, p. 173. 287 Ivi, p. 172. 288 Ivi, p. 174. 289 Ivi, p. 197. 290 Ivi, pp. 163-65. 291 Ivi, pp. 170-71. Per quanto riguarda la chiesa di San Michele la presenza di un archipresbiter e di clerici è attestata in un atto del gennaio 1219 del vescovo Garzia di Potenza (cfr. supra, nota 264), mentre per quella della SS. Trinità ne abbiamo notizia da un atto del 14 agosto 1310 (Archivio di Stato di Potenza, Pergamene dell’Archivio arcivescovile di Potenza, n. 4). 292 Ivi, pp. 175-76. 293 Ivi, p. 151. 294 Ivi, p. 152. 295 Ivi, pp. 154-56. 280 281

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numero. E tutto ciò è tanto più significativo in quanto ripropone un problema di più vasta portata per il Mezzogiorno d’Italia in generale e per la Basilicata in particolare, dove è scarsamente documentata l’esistenza dell’ordinamento pievano, e cioè la precoce esistenza di distretti archipresbiterali di cui conosciamo un’ampia diffusione nel XIV secolo296. Infatti, oltre che nelle Rationes decimarum dianzi citate è documentata l’esistenza di archipresbiterati a Grottole, dove il 14 febbraio 1324 l’archipresbiter Petrus sottoscrive un atto di transazione297; a Trecchina dove l’archipresbiter Sylvester de Pascali risulta tra i sottoscrittori di un altro atto del 14 febbraio 1340 relativo a patti dotali298; a Potenza, il cui archipresbiter della chiesa della SS. Trinità Matteo de Stampis, il 6 agosto 1353 compare come sottoscrittore in un atto relativo alla titolarità di alcuni beni299. Sulla consistenza numerica di questi collegi ci informa un atto di vendita effettuato dal clero di Picerno il 24 aprile 1366, nel quale compaiono in solidum come parte venditrice l’«archipresbiter et omnes alii presbiteri cum eo superius nominati», e precisamente dodici presbiteri, un diacono e due suddiaconi: ciò che induce a ritenere che questi collegi canonicali ripetevano lo stesso numero duodenario che, come abbiamo visto, contrassegnava i capitoli delle cattedrali300. Va aggiunto che nella tassazione del 1224, l’archipresbiter e i clerici di Picerno versavano 20 tareni301. Un’ultima realtà istituzionale dell’organizzazione ecclesiastica lucana è costituita dai clerici officianti chiese e cappelle diverse dalle chiese collegiate. Ci presentano un ampio elenco le Rationes decimarum, almeno per i primi decenni del XIV secolo, sia per quanto riguarda le città episcopali e i centri demici di maggiore importanza sia per i casali e i loci, cioè gli insediamenti minori del contado. Al di là della giurisdizione e dei poteri carismatici esercitati su di essi dai rispettivi vescovi, allo stato della documentazione non è dato conoscere se dipendessero nel concreto esercizio delle loro funzioni Fonseca, Particolarismo istituzionale, cit., pp. 21-44. A. Giganti, Le pergamene dell’Archivio arcivescovile di Acerenza (secoli XIII-XIV), Popolazione, paesi e società della Basilicata, Bari 1989, p. 126. 298 Ivi, p. 129. 299 Ivi, p. 131. 300 Ivi, pp. 152-55. 301 Vendola, Rationes decimarum Italiae, cit., p. 171. 296 297

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dai capitoli, come accade in altre aree del Mezzogiorno, se fossero designati dal patrono della chiesa, se godessero di un particolare status canonico. Su un solo caso ci è consentito avere dettagliate notizie ed è la chiesa di San Pietro apostolo di Tramutola, situata nel punto dove l’Agri e il Tanagro più si avvicinano sì da porsi come un tramite tra i due corsi d’acqua. Indicata come locus in un documento dell’agosto 1136 e, quindi, senza alcun insediamento umano, era caratterizzata da unica costruzione, cioè una piccola chiesa dedicata a san Pietro apostolo e officiata da un chierico di nome Ugo indicato come custos della chiesa stessa: a questi nel luglio 1136 Pietro Russo di Marsico donava quanto possedeva in terre, castagne e noci in quella località. Sulla chiesa di San Pietro e sulle sue pertinenze vantavano diritti alcuni cittadini di Marsico che nell’agosto 1136 rinunziavano ai loro diritti sui beni della chiesa stessa. Nel maggio 1144 Giovanni II, vescovo di Marsico, concedeva all’abate Falcone di Cava la chiesa di San Pietro di Tramutola insieme con la giurisdizione spirituale e nel contempo dodici uomini di Marsico, patroni della chiesa di San Pietro, cedevano tutti i loro diritti sulla chiesa a favore della stessa badia cavense. Nel 1148 si registrano quattro donazioni di beni situati nella valle di Tramutola a favore della chiesa di San Pietro. Intanto tra il 1148 e il 1150, per iniziativa del monaco cavense Giovanni di Marsico, che deteneva la carica di cappellanus dell’abate Marino di Capua, veniva eretto, accanto alla chiesa di San Pietro, un monastero di cui risulta priore il monaco Amato. Nel 1154, come si evince dal privilegio di Silvestro, conte di Marsico, mediante il quale venivano confermati il possesso del territorio di Tramutola e i diritti giurisdizionali all’abate Marino di Cava, la valle risulta popolata sì da essere indicata ormai come «casale Sancti Petri». Nel 1190 Guglielmo, conte di Marsico, riconosceva piena libertà agli uomini del casale di Tramutola e vietava ai suoi baiuli di giudicarli. Tramutola, quindi, ha origini come «terra monastica» sulla quale esercitava la giurisdizione spirituale e temporale l’abate di Cava dei Tirreni302. 302 L. Mattei Cerasoli, Tramutola. Cenni storici ricavati dall’Archivio Cavense, estratto dal «Bollettino ecclesiastico della SS.ma Trinità di Cava», 1932; Id., Tramutola, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 13, 1943-44, pp. 32-46, 91-118, 201-13.

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9. Le confraternite Se, nonostante i consistenti vuoti della documentazione, è stato possibile con ampia approssimazione ricostruire le realtà istituzionali dell’ordinamento ecclesiastico della Basilicata, assolutamente impossibile diventa, invece, delineare le forme organizzative entro le quali venne inquadrata la religiosità laicale. Questa fu in larga misura assorbita entro i gangli strutturali delle Chiese locali o risentì della robusta influenza del monachesimo italo-greco per le popolazioni delle campagne e della decisa penetrazione degli ordini conventuali, segnatamente dei Francescani, posti in centri demici di maggiore consistenza. Perfino l’unico statuto che ci è pervenuto di una confraternita di Disciplinati della seconda metà del Quattrocento risente della robusta presenza dei Francescani e degli indirizzi di spiritualità maturati nel clima della preriforma cattolica. Si tratta dello statuto della «Compagnia et fraternita della devota et sancta ecclesia de sancto Michaele de Potenza» intitolata alla Madonna degli Angeli redatto nel mese di gennaio del 1475 durante il pontificato di Sisto IV303. Va subito osservato che, sebbene redatti in Potenza, come risulta dal prologo che menziona l’arcangelo Michele, patrono della chiesa in cui la confraternita è allocata, e san Gerardo, patrono della Chiesa potentina, i capitoli della silloge normativa vennero esemplati su quelli similari di Benevento, ai quali aveva posto mano Filippo vescovo di Amelia, nominato nel 1427 da Martino V vicario «in spiritualibus et temporalibus» nella sede arcivescovile di Benevento allora vacante. Questo riferimento temporale assume determinante rilevanza in rapporto all’azione svolta dal ministro generale dei Francescani nell’ambito dell’Osservanza, e di Benevento in particolare, il quale ottenne, come si evince dal documento riportato a tergo dello statuto potentino, da Eugenio IV il privilegio che il confessore impartisse in articulo mortis la «plenariam remissionem» dei peccati304, non senza adeguatamente accentuare la circostanza che fu lo stesso Giovanni da Capistrano a redigere o a sistemare i capitoli dello statuto beneventano («que ego Iohannes ordinavi»)305. Questa ispirazione del Ca303 G. Meter Vitale, Una Confraternita di Disciplinati a Potenza nel XV secolo, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 34, 1965-66, p. 224. 304 Ivi, p. 228. 305 Ibid.

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pistrano del corpus statutario beneventano recepito a Potenza è stata giustamente posta da Giuliana Vitale in rapporto alla deliberazione assunta dal capitolo generale dei Francescani tenuto a Ferrara nel 1472 di inviare in Basilicata fra’ Giacomo di Amalfi «per effettuarvi un giro di orizzonti e valutare le reali possibilità di potenziarvi le istituzioni dell’Ordine già esistenti o se convenisse lasciarle languire nel loro isolamento, dal momento che l’affermazione delle correnti rinnovatrici vi procedeva tra grandi difficoltà»306. Tornando allo statuto della confraternita potentina dei Disciplinati e ai tredici capitoli che lo compongono, vanno evidenziati alcuni elementi caratterizzanti la spiritualità degli aderenti al sodalizio: innanzitutto il codice comportamentale ispirato al precetto dell’amore di Dio e dei fratelli, ai comandamenti, agli insegnamenti della Chiesa, all’osservanza della moralità pubblica e privata, all’esercizio delle opere di misericordia, al culto dei defunti, alla pratica del digiuno; inoltre, la consapevolezza dell’inserimento della confraternita nelle strutture della Chiesa locale: si pensi all’esplicito richiamo di «obedire al suo ordinario diocesano espiscopo o vero archiepiscopo o suo vicario o simile in tutte quelle cose che sono tenuti per rasone dal quale questi capitoli sono stati approbati et confirmati et auctoriczati con quella indulgentia che in fine appare»307 e, ancora, all’obbligo nei giorni festivi di far celebrare la messa «la mattina per tempo che non impedisca laltre devotioni della ecclesia parochiale»308; infine lo stigma della pietà confraternale che dall’imitazione della passione di Cristo faceva scaturire la pratica di «humilemente recepere et darence la desciplina per penitentia de nostri peccati et merito della divina gloria»309. Da una lettura attenta dei tredici capitoli si colgono numerosi aspetti dell’organizzazione interna della confraternita: ad essa aderivano laici di ambo i sessi e chierici; il governo era affidato al priore e a quattro consiglieri; il gonfalone portava l’immagine del crocifisso; erano regolamentate le cerimonie dell’ammissione al pio sodalizio, le pene da irrogare per i trasgressori, consistenti nel ricevere «la descipli-

306 Cfr. il saggio di L. Pellegrini, I Frati Minori: un’eccezione da interpretare, in questo volume, pp. 387-434. 307 Meter Vitale, Una Confraternita di Disciplinati, cit., pp. 225-26. 308 Ivi, p. 226. 309 Ibid.

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na maiore o minore secundo suo delicto»310, il particolare rigore con il quale venivano puniti gli adulteri, i sodomiti, gli usurai. Insomma attraverso lo statuto è possibile ricostruire il clima sociale e religioso del tempo, pur non trascurando gli imprestiti che alla silloge normativa potentina erano venuti dall’esterno, cioè dalla realtà beneventana, ma che avevano trovato in quest’area interna del Mezzogiorno un loro spazio istituzionale e una specifica collocazione. Delle altre confraternite citate negli atti delle visite pastorali del 1567 e del 1571 effettuate dal vescovo Tiberio Carafa, come quelle di Santa Maria degli Angeli e di Santo Spirito, che gestiva un «ospitale per i poveri e gli infermi» e di Sant’Antonio con annesso un ospedale affidato all’omonima confraternita311, non ci viene offerta alcuna possibilità per stabilire le origini: non irrilevanti indizi per quanto riguarda il titolo di dedicazione porterebbero a rivendicarne almeno per due, Santo Spirito e Sant’Antonio, un’origine tardo-medievale. 10. Gli ospedali Tra le istituzioni ecclesiastiche medievali vanno inseriti a pieno titolo gli ospedali, in quanto l’esercizio della hospitalitas in Occidente è legato all’essenza stessa della missione della Chiesa. Non a caso le disposizioni sancite dai concili particolari celebrati in Francia – Orléans (512), Parigi (557) – richiamano il dovere del vescovo nella buona amministrazione dei beni destinati ai poveri e agli ammalati, così come numerose lettere di Gregorio Magno sanciscono l’obbligo per il vescovo di destinare all’esercizio dell’ospitalità il quarto delle decime, non senza rinviare alle disposizioni del Liber diurnus, la cui compilazione risale al VII-VIII secolo, che impone al vescovo di istituire presso l’episcopio strutture idonee per la cura e l’assistenza dei malati, e i capitolari carolingi, che assegnano al vescovo compiti e mansioni in materia ospitaliera anche nello stesso interesse dello Stato. Comunque la tipologia degli ospedali da quelli inizialmente vescovili si evolve per tutta l’età medievale verso forme sempre più articolate creando un’ampia gamma di strutture di assistenza – plebanali, monastiche, canonicali, laicali, confraternali ecc. – fino a quando 310 311

Ivi, p. 225. Sannino, L’edilizia religiosa, cit., p. 56.

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con la laicizzazione degli ospedali si approderà nel Quattrocento alla loro concentrazione312. Purtroppo per la Basilicata la documentazione non ci soccorre per delineare compiutamente il quadro evolutivo dianzi tracciato. Le prime menzioni di ospedali si hanno nel XII secolo per Acerenza e Marsico; ad essi si fa riferimento nel Liber censuum a proposito del censo che chiese e comunità monastiche erano tenuti a devolvere nel 1192 alla Sede apostolica: l’ospedale di Acerenza, con la relativa cappella dedicata a san Lazzaro, doveva versare «tres solidos» e quello di Marsico di Porta Nova in Raja sancti Roncii «unum squifatum»313. Dal titolo di dedicazione si evince che si trattava di due istituzioni ospedaliere prevalentemente mirate alla cura degli ammalati di lebbra o di patologie infettive, prime fra tutte quelle dermatologiche, che comportavano deformazioni del corpo; non si trascuri peraltro l’inter312 Più che indicare una serie di studi particolari, varrà dar conto innanzitutto di alcuni indispensabili strumenti di carattere generale sulla storia ospedaliera a cominciare dagli aspetti giuridici, per continuare con quelli storici, istituzionali ecc. Pertanto, utili punti di partenza sono gli atti dei congressi di storia ospedaliera, e precisamente Atti del primo Congresso di storia ospitaliera (14-17 giugno 1956), Reggio Emilia 1962, e le opere di carattere giuridico, a cominciare da F. Nasalli Rocca, Il diritto ospedaliero nei suoi lineamenti storici, «Biblioteca della Rivista di storia del diritto italiano», XX, Milano 1956, per continuare con L. Prosdocimi, Il diritto ecclesiastico nello Stato di Milano dalla Signoria viscontea al periodo tridentino (secc. XIII-XVI), Milano 1941; J. Imbert, Les hôpitaux en Droit canonique du Décret de Gratien à la sécularisation de l’administration de l’Hôtel Dieu de Paris en 1505, Paris 1947; P.L. Falaschi, Ospitalità, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XII, Torino 1965, pp. 255-58. Cfr., inoltre, M. Mollat (a cura di), Études sur l’histoire de la pauvreté (Moyen Âge-XVI siècle), 2 voll., «Publication de la Sorbonne, Série Études», 8-9, Paris 1974; C.D. Fonseca, Ospedale e habitat: l’evoluzione storica delle tipologie ospedaliere, in Ospedale e habitat. Atti del Convegno internazionale di studio (Arezzo, 6-8 marzo 1975), Roma 1975, pp. 30-39; A. Vauchez, La crisi del sistema ospedaliero medioevale nel Trecento, ivi, pp. 43-51; C.D. Fonseca, Forme assistenziali e strutture caritative della Chiesa nel Medioevo, in Stato e Chiesa di fronte al problema dell’assistenza, Roma 1982, pp. 13-25. Per il fenomeno della concentrazione degli ospedali si indicano alcuni riferimenti bibliografici: C.D. Fonseca, Dal particolarismo all’unità: l’esempio dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, in Atti del Convegno storico nazionale «Sei secoli di storia dell’Arcispedale S. Maria Nuova», Reggio Emilia 19 e 20 maggio 1995, Reggio Emilia 1997, pp. 11-24; G. Albini, Città e ospedali nella Lombardia medioevale, Reggio Emilia 1993; Ead., La riforma quattrocentesca degli Ospedali del Ducato di Milano tra poteri laici ed ecclesiastici, in V. Zamagni (a cura di), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia dal medioevo ad oggi, Bologna 2000, pp. 95-109; R. Crotti, Il sistema caritativo-assistenziale nella Lombardia medievale. Il caso pavese, Pavia 2002, in particolare pp. 149-263. 313 Fabre, Duchesne (a cura di), Le Liber censuum, cit. p. 25.

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pretazione che nel Medioevo si dava della figura del lebbroso, nel duplice aspetto di personificazione del castigo divino e di testimonianza della bontà e della misericordia di Dio in quanto concedeva all’uomo di scontare nella propria carne la pena prevista per espiare i propri peccati314; si aggiunga, infine, l’ubicazione dell’ospedale di Marsico nei pressi di Porta Nova, cioè in una zona suburbana dove in genere si trovano gli ospedali dedicati a san Lazzaro o a san Rocco315. Un altro ospedale dedicato a san Lazzaro è attestato il 14 marzo 1270 a Venosa, in quanto era stato destinatario di un mulino successivamente passato in concessione a Colino de Four per servizi resi alla corona316. Sempre per il XIII secolo si hanno notizie su altri ospedali: un documento del 24 maggio 1224 ci informa che il vescovo di Melfi Richerio, volendo provvedere alla costruzione di un ponte sull’Ofanto, di un ospedale e di un ospizio per viandanti nella città di Melfi, con l’assistenza del suo capitolo, indica, precisandone i confini, i luoghi dove queste nuove opere dovevano essere costruite317. Nel XIV secolo la situazione ospedaliera è sempre più articolata: da un inventario di beni della «episcopalis mensa melphiensis» del 1358 si ricava l’esistenza di un «hospitale sancti Nicolai de Balneo» situato lungo la via pubblica, che versava alla mensa vescovile per jura censualia 5 libbre di cera318. Oltre a questo di San Nicola esisteva a Melfi un altro ospedale retto dai Giovanniti sin dal 1149319, ritenuto, due secoli dopo, del tutto insufficiente se il 16 maggio 1358 il vescovo 314 C. Mallet, La storia della lebbra e i suoi influssi sulla letteratura e sulle arti di tutti i tempi, Bologna 1968; F. Beriac, Histoire des lépreux au Moyen Âge. Une société d’exclus, Paris 1988; Id., Connaissances médicales sur la lèpre et protection contre cette maladie au Moyen Âge, in Maladie et société (XIIe-XIIIe siècles), Paris 1989, pp. 145-63. 315 M. Bertolani Del Rio, Gli Ospedali di S. Lazzaro lungo la via Emilia, in Atti del primo Congresso europeo di storia ospitaliera, 6-12 giugno 1960, Reggio Emilia 1962, pp. 197-213. 316 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. IV, 1266-1270, Napoli 1952, p. 149, doc. 996. 317 A. Mercati, Le pergamene di Melfi all’Archivio Segreto Vaticano, in Miscellanea Giovanni Mercati, vol. VI, Città del Vaticano 1946, pp. 226 sgg. 318 R. Ciasca, Terre comuni e usi civili nel territorio di Melfi (1037-1738), Roma 1958, pp. 153 sgg. 319 Mercati, Le pergamene di Melfi, cit., pp. 276-80. Cfr. A. Pellettieri, La Commenda dei SS. Giovanni e Stefano di Melfi e la sua grancia di Potenza, in «Studi melitensi», IX, 2001, pp. 51-64, in particolare pp. 60-61.

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della città, Nicola Caracciolo, dietro un censo annuo di 5 libbre di cera concedeva a Busone da Fabriano «miles et socius carissimi comitis Melfie» un suolo fuori della cinta urbana non lontano dalla città «in loco seu contrada Fontane [...] ubi sunt balnea» vicino alla chiesa di Santo Stefano degli Ospitalieri di San Giovanni affinché potesse «domum et hospitalem pauperum construere pro receptandis pauperibus et infirmis» insieme con una cappella dedicata alla Vergine320. Si tratta dell’ospedale dell’Annunziata, eretto per iniziativa di un laico in stretto accordo con il vescovo melfitano. A Potenza l’ospedale più antico è quello eretto nel 1180 accanto alla chiesa di San Giovanni Battista, edificata dai coniugi Roberto e Palma e divenuta commenda dei Cavalieri gerosolimitani321. Sorgeva a ridosso della cinta muraria presso l’omonima Porta San Giovanni. La chiesa viene menzionata in un testamento del 30 luglio 1348, in tre documenti rispettivamente del 15 settembre 1358, del 17 gennaio 1370 e del novembre 1395322. Rendina dà notizia del testamento di Raimundo de Raimundo, del 30 luglio 1354, che lega «all’Ospedale di S. Domenico, che era ove sono ora le case della Cattedrale detti di D. Decio Cioffa tarì quindeci ed un matarazzo sette onze per mal oblati incerti, cinque da distribuirsi ai bisognosi, quattro per maritaggio d’orfani»323. Un terzo ospedale è quello di Santo Spirito, la cui ubicazione viene ipotizzata sul fronte orientale di via Caserma Basilicata, dove insisteva un antico toponimo denominato «Strada Spirito santo». Si tratta di una istituzione legata all’ospedale romano di Santo Spirito in Sassia, come si evince da tre documenti rispettivamente del 1424 e del 1425 riguardanti questioni patrimoniali324.

Mercati, Le pergamene di Melfi, cit., pp. 36 sgg. Pellettieri, La Commenda dei SS. Giovanni e Stefano, cit., pp. 55-56. 322 Per il documento del 1348 cfr. Archivio arcivescovile di Potenza, Fondo pergamene; per quello del 1358 Giganti, Le pergamene dell’Archivio Arcivescovile, cit., pp. 135-39; per l’altro del 1370 Archivio di Stato di Potenza, Fondo pergamenaceo della SS. Trinità, gennaio 1370; infine per quello del 1395; ivi, novembre 1395. 323 Storia della città di Potenza di D. Giuseppe Arcidiacono Rendina, in Abbondanza Blasi, Storia di una città, cit., p. 366. 324 Archivio di Stato di Napoli, Società napoletana di storia patria, Fondo Fusco, 10-BB 1-n. 26; T. Pedio, Potenza dai Normanni agli Aragonesi, Bari 1964, p. 44, n. XXX. 320 321

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Un quarto ospedale esisteva presso la chiesa di Sant’Antonio «iuxta planum Ecclesiae Trinitatis», probabilmente dedicato a Sant’Antonio di Vienne, il cui ordine omonimo si dedicava ad attività assistenziali e ospedaliere, ma non conosciamo la data della sua fondazione325. Molto verosimilmente anche presso il monastero di San Lazzaro, ubicato nel suburbio della città, vi erano strutture ospedaliere, ma nessun documento è pervenuto per confermare questa ipotesi326. Siamo altresì informati su un Hospedalis Sancti Joannis Hyerosolimitani attestato sul colle di Picciano (Matera) da un atto notarile del 4 agosto 1268 e di un altro ospedale intitolato a San Rocco a Matera in un’area extrameniale verso la quale si sarebbe espansa la città, eretto come adempimento di un voto dalla comunità nel 1348; sulla chiesa annessa all’ospedale i Frati Riformati avrebbero ubicato il loro convento nel 1604327. Un ultimo ospedale merita particolare attenzione ed è quello del monastero celestino di San Giacomo di Marsiconuovo, eretto dopo il 1403 in ottemperanza della volontà di Cobello di Matteo di Raone; si tratta di una fondazione essenzialmente laica, ma strettamente connessa al monastero, da cui mutuava il titulus dedicationis328. Un elenco, infine, di ospedali del territorio lucano ci è pervenuto in un Quaderno delle decime pontificie nel Regno di Napoli del 1478, nel quale ne vengono enumerati undici con l’indicazione del censo da versare alla Camera apostolica: l’ospedale dell’Annunziata di Venosa (2 tarì e 12 grana), quello di Santa Maria del Rito di Lavello (8 tarì), di Santo Spirito di Potenza (2 tarì e 10 grana), di San Pietro di Ricigliano in diocesi di Muro (2 tarì e 2 grana), di Santa Maria dei Martiri di Marsicovetere (4 tarì e 3 grana), di San Giovanni di Sarconi (1 tarì e 10 grana), i quattro ospedali di Saponara: Sant’Antonio (8 grana), l’Annunziata (12 grana), San Giacomo (1 grana e mezzo), Santa

325 La notizia è riportata da A.L. Sannino sulla base di un atto del notaio G.A. Scafarelli (Sannino, L’edilizia religiosa, cit., p. 56). 326 Pellettieri, L’edilizia ecclesiastica, cit., pp. 34 e 137. 327 R. Demetrio, I Cavalieri di San Giovanni a Matera (XIII-XVIII secolo), in «Studi melitensi», III, 1995, pp. 93-111; A. Altavilla, San Rocco, in Insediamenti francescani in Basilicata, vol. II, Roma 1988, pp. 125-26. 328 Cfr. il saggio di I. Aurora, L’Ospedale di San Giacomo di Marsico Nuovo. La rete assistenziale nella città e nei centri limitrofi tra XIV e XV secolo, in G. Andenna, H. Houben (a cura di), Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa. Studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, vol. I, Bari 2004, pp. 98-120.

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Margherita (1 grana e mezzo) e l’ospedale di San Sebastiano di Tricarico (10 grana)329. Nulla conosciamo della struttura della rete ospedaliera, dell’organizzazione interna dei singoli nosocomi, degli aspetti economici, spirituali, terapeutici ecc. legati al loro funzionamento. Ciò che è certo è che essi costituiscono una testimonianza della sacralizzazione dell’assistenza sanitaria e dell’impegno di carità della Chiesa: testimonianza che, a differenza di altre aree italiane, permarrà a lungo nel tessuto regionale della Basilicata. 329 Archivio di Stato di Napoli, Regia Camera della sommaria, Diversi, I, 27. Devo alla cortesia della dott.ssa Isabella Aurora, che ringrazio, la segnalazione del documento.

GLI EBREI FRA TARDA ANTICHITÀ E MEDIOEVO di Cesare Colafemmina Le conoscenze che il poeta latino Orazio (65-8 a.C.) aveva dei giudei e dei loro costumi erano così precise, che qualche studioso ha pensato che fosse di origine ebraica1. Nei versi del venosino, infatti, si ritrova molto della sapienza biblica; l’asserito prodigio del fuoco di Egnazia gli evoca la credenza ebraica del fuoco che discese dal cielo2, è esperto di calendario ebraico, come dimostra il richiamo posto sulla bocca dell’amico Aristio ai «trincesima sabbata», ossia alla celebrazione del capomese3. Ma Orazio era figlio di uno schiavo affrancato, e trovare schiavi giudei a Venosa prima che Pompeo nel 63 a.C. occupasse la Giudea non è molto verosimile. Non era, comunque, impossibile, perché schiavi e affrancati giudei sono attestati a Delfi negli anni 170, 162, 119 a.C.4. All’origine della condizione servile, infatti, non c’era solo la guerra, ma anche la miseria e le razzie dei mercanti di schiavi. Il padre di Orazio tuttavia, se mai fosse stato di origine giudaica, portò subito il suo ragazzo a Roma, dove di giudei ce n’erano molti da oltre un secolo e bene acculturati, e sarà certamente presso di loro che il poeta avrà appreso per esteso dottrine, usi e costumi giudaici. Che se poi egli esprimerà anche avversione al giudaismo e alle sue «superstizioni», ciò viene spiegato come tipico del giudeo assimilato che prende le distanze dalla sua tradizione.

Cfr. M. Gallo, Ipotesi su Orazio, Bari 1995, pp. 23-28. Saturae, I, 5, 97-100; cfr. 1 Re, 18. 3 D. Nardoni, Trincesima, Sabbata (Hor. Sat. I. 9, 69), in «Annuario di studi ebraici», 1975-76, pp. 73-90. 4 J.-B. Frey, Corpus Inscriptionum Iudaicarum, revised by B. Lifshitz, New York 1975 (d’ora in avanti CIIud), pp. 512-14, nn. 709-11. 1 2

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1. Tarda antichità L’origine giudaica di Orazio è per ora un’ipotesi puramente letteraria, anche se la storia della presenza ebraica in Lucania ha la sua documentazione più antica e più ricca proprio nella città natale del poeta5. Ma tra Orazio e tale documentazione si stende un silenzio di oltre tre secoli. Nella cittadina posta sul confine della Lucania e dell’Apulia e al centro di una raggiera di strade importanti i giudei sono, infatti, attestati solo alla fine del III secolo d.C., anche se a questa data essi compaiono già numerosi e affermati. Tenendo presenti gli avvenimenti che interessarono la terra d’Israele nei primi due secoli dell’era volgare, è verosimile che al tempo di Tito, Traiano e Adriano siano stati deportati a Venosa, a coltivare il suo estesissimo agro, prigionieri originari della Giudea e della Galilea. Ed è proprio alla catastrofe del 70 d.C., infatti, che le fonti giudaiche associano la notizia più antica sulla presenza di giudei nel territorio della Regio II a cui apparteneva anche Venosa6. Il legame dei giudei delle nostre contrade con Gerusalemme è evidente dall’uso, nell’epigrafia alto-medievale, dell’era della distruzione del Tempio per indicare l’anno del decesso. Questo modo di datare, che ha per gli ebrei come punto di partenza l’anno 69 dell’era cristiana, è tipico della terra d’Israele e dei nostri giudei, rarissimo altrove. Gli schiavi giudei riuscirono presto ad affrancarsi, dando vita a comunità organizzate e a prosperare a tal punto da occupare i seggi decurionali della maggior parte delle curie municipali di Apulia et Calabria, come attesta una costituzione dell’imperatore Onorio emanata nei loro confronti nel 398 (Cod. Theod. XII, 1, 198)7. A Venosa agli inizi del IV secolo i giudei costituivano circa la metà della popolazione locale. L’aumento della compagine ebraica sarà stato dovuto sia all’incremento naturale del nucleo più antico sia all’afflusso di correligionari richiamati dalla felice condizione in cui Cfr. D. Noy, Jewish Inscriptions of Western Europe, vol. I, Italy (Excluding the City of Rome), Spain and Gaule, Cambridge 1993 (d’ora in avanti JIWE), pp. 61-149. 6 A. Neubauer, The Early Settlement of the Jews in Southern Italy, in «The Jew­ ish Quarterly Review», 4, 1892, pp. 623-24; D. Flusser (a cura di), The Josippon [Josephus Gorionides], Jerusalem 1978-80, vol. I, p. 432. 7 Su questa costituzione cfr. G. De Bonfils, Omnes... ad implenda munia tenean­ tur. Ebrei curie e prefetture fra IV e V secolo, Bari 1998. 5

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venne a trovarsi la città e la contrada tra la fine del III secolo e il V8. Inoltre, il fatto che parecchi ebrei compaiono come grossi proprietari terrieri e che i membri di alcune famiglie ricoprano cariche pubbliche importanti, aggiunti a casi documentati di proselitismo9, fa pensare che apporti siano venuti anche dalla conversione di proprietari e notabili locali, insieme con le loro famiglie e servi, dal paganesimo al giudaismo. La più antica documentazione sugli ebrei a Venosa è offerta dall’archeologia, e precisamente da un complesso catacombale scoperto ufficialmente nel 185310. Il complesso è scavato sul fianco di mezzogiorno della collina della Maddalena, la quale si leva a un miglio circa da Venosa, in direzione nord-nord-est. Enormi frane, dovute soprattutto a uno scavo dissennato di corridoi e loculi, hanno distrutto o ostruito buona parte del settore sinistro della catacomba. Una ricognizione effettuata nel 1974 ha dimostrato che in questa parte le gallerie sovrastavano tutto un sistema di ipogei disposti su più piani, che i crolli hanno poi in alcuni punti messo in comunicazione tra loro. Nel corso dell’esplorazione fu scoperto un settore inedito, che riservò innanzitutto la sorpresa di un magnifico arcosolio affrescato. Nella lunetta è dipinto il candelabro ebraico a sette bracci, riprodotto secondo il dettato biblico, affiancato a destra dal corno e da un ramo di palma e a sinistra da un cedro e da un’anfora. L’intradosso è tutta una festa di tralci di rose e ghirlande. La tomba era stata rivestita di marmo, un particolare che non ha riscontro nel resto della catacomba, e ciò fa ritenere che la tomba appartenesse a una persona di riguardo. L’effrazione del sepolcro, avvenuta in tempi ignoti, comportò la distruzione dell’epigrafe che certamente contrassegnava la tomba. 8 Cfr. F.M. De Robertis, Sulle condizioni economiche della Puglia dal IV al VII secolo d.C., in «Archivio storico pugliese», 4, 1951, pp. 42-57; C. D’Angela, Dall’era costantiniana ai longobardi, in M. Mazzei (a cura di), La Daunia antica, Milano 1984, pp. 315-64; G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’«Apulia» tardoantica, Bari 1996, pp. 257-339. 9 Cfr. CIIud, vol. I, p. 424, n. 576 («Qui giace Anastasi proselito»). 10 Cfr. G.I. Ascoli, Iscrizioni inedite o mal note greche, latine, ebraiche di antichi sepolcri giudaici del Napolitano, Torino 1888, pp. 39-64; G. Lacerenza, Le antichità giudaiche di Venosa. Storia e documenti, in «Archivio storico per le province napoletane», 116, 1998, pp. 293-418; C. Colafemmina, Le catacombe ebraiche nell’Italia meridionale e nell’area sicula: Venosa, Siracusa, Noto, Lipari e Malta, in M. Perani (a cura di), I beni culturali ebraici in Italia. Situazione attuale, problemi, prospettive per il futuro, Ravenna 2003, pp. 120-29 e 140-46.

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Un altro ancor più importante rinvenimento riguarda la datazione della catacomba. Infatti, proprio accanto all’arcosolio affrescato fu rinvenuta per la prima volta un’inscrizione fornita di data consolare. Essa recita: «Hic requiescet Augusta, / uxor Boni, v(iri) l(audabilis), filia Isatis p(atris) / de Anciasmon(ensibus), nepus Symona/tis p(atris) Lypiensium, annorum XX(-) / mesuum trium, s(ub) d(ie) VIII kal(endas) octob(res), / ind(ictione) XV cons(ulatu) Valeri»11. Il 521, anno in cui fu console Valerio, non è certo la data di tutto il complesso ipogeo, ma è già un buon punto di riferimento. L’epigrafe, inoltre, per la prima volta menziona ebrei di altre comunità presenti a Venosa, o che erano in rapporto con quelli della città. La defunta, infatti, è detta figlia di un pater degli ebrei di Anciasmos e nipote di un pater di quelli di Lypiae. Le due località sono di facile identificazione. La seconda è Lecce, città del Salento, collocata sul percorso dell’Appia, fra Otranto e Brindisi. Anciasmos è invece ᾽Ογκεσμός, l’attuale Saranda, nell’Albania meridionale, poco a nord di Corfù. Quanto al titolo di pater, esso decorava i membri eminenti della comunità, in special modo i benefattori. A questo notabilato all’interno della comunità s’accompagnavano sovente, come documenta la nostra epigrafe, posizioni di prestigio nella civitas. Questa supremazia civile è attestata dal titolo onorifico di vir laudabilis, proprio dei decurioni e delle loro famiglie, con cui è ricordato il marito della defunta, il venosino Bonus. Come questi abbia potuto conoscere e sposare una donna di una comunità oltremarina non ci è dato finora di sapere. Figura di rilievo nella vicenda appare l’avo leccese Symonas, imparentatosi dapprima, forse mediante una figlia, con una famiglia di notabili di Anciasmos e poi, mediante una nipote, con una famiglia di ottimati di Venosa. Ulteriori esplorazioni della catacomba hanno mostrato che essa era parte di una serie di ipogei sepolcrali scavati lungo il fianco meridionale della collina e sul versante orientale. Alcuni di questi ipogei sono cristiani. Uno ha ancora le sepolture intatte e una delle epigrafi, dedicata a una Leonzia, reca la data del 50312. Un altro grosso com11 C. Colafemmina, Nuove scoperte nella catacomba ebraica di Venosa, in «Vetera Christianorum», 15, 1978, pp. 369-81. 12 Cfr. Id., Iscrizioni paleocristiane di Venosa, ivi, 13, 1976, pp. 157-65; Id., Scoperte archeologiche in Venosa paleocristiana, in P. Borraro (a cura di), Studi lucani. Atti del Convegno nazionale di storiografia lucana, Montalbano Jonico-Matera, 10-14 settembre 1970, Galatina 1976, pp. 19-32.

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plesso ipogeo è stato portato alla luce nel 1981 in seguito a un saggio di scavo13. L’esplorazione del complesso, eseguita assai sommariamente dati i limiti di tempo programmati per il saggio stesso, ha rivelato l’esistenza di sette gallerie parallele; quella più lunga, a cui appartiene l’entrata rimessa in luce, si addentra nella collina con un percorso leggermente sinuoso per circa 30 metri. Ogni galleria sembra avere un ingresso autonomo, attraverso il quale il terreno si è infiltrato nel corso dei secoli invadendo per lunghi tratti i corridoi e quasi congiungendo il piano alla volta. Solo la galleria maggiore presenta il piano di calpestio completamente sgombro. Le pareti dei corridoi sono tutte un susseguirsi di arcosoli e di loculi scavati nel tufo tenero, sul quale si notano tracce d’intonaco. Tutte le tombe si presentano violate e prive delle lastre di chiusura. Dai pochissimi frammenti fittili raccolti tra il terriccio si può supporre che tali lastre fossero costituite da tegoloni bipedali, come quelli degli altri ipogei della collina. Nei tratti agibili non è stata rinvenuta alcuna iscrizione o altro elemento utile a determinare la fede religiosa dei defunti e la data dell’immenso sepolcreto. La sua ubicazione immediatamente al di sotto di quello ebraico già noto ha fatto tuttavia supporre che anch’esso sia appartenuto alla comunità ebraica. Rafforza questa ipotesi il rinvenimento, nel corso di recenti lavori di consolidamento dell’ingresso, di un frammento di stele sepolcrale, con i resti di due epitaffi ebraici incisi sulle due facce della pietra, rinvenuto all’interno di una tomba che apparteneva alla parte iniziale dell’ipogeo, in seguito crollata14. Una ripresa degli scavi potrebbe portare nuova luce sulla comunità ebraica, o su quella cristiana, a Venosa nei secoli IV-V, quando la città rinnovò il suo antico splendore e si arricchì di nuovi edifici pubblici e cultuali15. Per la conoscenza dell’ebraismo venosino è di grande importanza anche un ipogeo venuto alla luce nei primi decenni del XX secolo a 13 Id., Saggio di scavo in località «collina della Maddalena» a Venosa. Relazione preliminare, in «Vetera Christianorum», 18, 1981, pp. 443-51; E.M. Meyers, Report on the Excavations at the Venosa Catacombs, 1981, ivi, 20, 1983, pp. 455-59. 14 C. Colafemmina, Hebrew Inscriptions of the Early Medieval Period, in B. Garvin, B. Cooperman (a cura di), The Jews of Italy. Memory and Identity, Bethesda 2000, p. 81. 15 Cfr. Id., Recupero di un «Corrector Apuliae et Calabriae» non accolto dal Mommsen, in «Radici. Rivista lucana di storia e cultura del Vulture», 10, 1992, pp. 207-209; M. Silvestrini, Venosa: una nuova epigrafe di Costantino e il recente recupero di un «corrector Apuliae et Calabriae», in «Scienze dell’Antichità. Storia, archeologia, antropologia», 6-7, 1992, pp. 119-35.

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poca distanza dalla vecchia catacomba e indicato dagli studiosi come «catacomba nuova». Nonostante l’assenza dei consueti simboli giudaici, esso è da ascriversi, sia per l’onomastica delle sue epigrafi – tre in greco e una in latino: Markellos, Auxanios, Faustina, Marcus – sia per la titolatura dei defunti, alla locale comunità ebraica16. Le lingue usate nelle iscrizioni della grande catacomba sono la greca, la latina e l’ebraica. Molti epitaffi sono bilingui, ma il bilinguismo è spesso rappresentato da una semplice invocazione in ebraico. Da notare che mentre nei pressi dell’ingresso sembra esclusiva la lingua greca, man mano che si procede verso l’interno il latino si alterna al greco sino a prevalere nettamente. Uno degli epitaffi più recenti, forse della fine del VI secolo, dedicato a un «Secondino presbitero», è in greco ma in caratteri ebraici (CIIud, 595)17. L’onomastica deriva i nomi dalle tre culture. Abbiamo così Faustinus, Faustina, Anna, Anastasios, Aniketos, Asella, Asther, Aelianos, Syrianos, Veronike, Veronikenis, Ianuarios, Iusta, Ioses, Ioseph, Gesua, Callistos, Casta, Longinos, Mannina, Pretiosa, Vitus, Vita, Romolos, Vincomalos, Sarra, Severa, Iacob, Secundinos, Silvanos, Isaac, Alexandra, Rosa, Sebbetius, Bonus, Opilio, Catella, Marcellus, Benericianus, Agnella, Sarmata, Maria, Amata, Augusta, Symonas, Isas, Esperatus, Nomerios. Nel corso di lavori di consolidamento eseguiti negli anni Novanta nel settore franato della catacomba è stata rinvenuta graffita sulla copertura di un piccolo loculo l’iscrizione τάφος Μερκώριος, «Tomba di Mercurio»18. I testi delle iscrizioni offrono un’immagine abbastanza ricca dell’organizzazione comunitaria. Vi troviamo, infatti, l’arcisinagogo (CIIud, 584 e 596), i gherusiarchi, uno dei quali è anche archiatra (CIIud, 600 e 613), un didascalo (CIIud, 594), i presbiteri (CIIud, 595) e i patres (CIIud, 590, 599, 611-13), il pater patrum (CIIud, 607, 610, 614), forse una specie di decano o uno dei patres più benemeriti della comunità. La moglie del pater è designata con l’appellativo di μήτηρ, «madre» (CIIud, 619 d). Lo stesso valore dovrebbe avere il W. Frenkel, Nella patria di Q. Orazio Flacco. Guida di Venosa, Torre del Greco s.d., pp. 190-98; JIWE, pp. 114-49, nn. 113-16. 17 Un’errata lettura del testo greco aveva fatto supporre che con Secondino fosse stata sepolta anche una donna di nome Materina; ma cfr. C. Colafemmina, Nova e vetera nella catacomba ebraica di Venosa, in Studi storici, Bari 1974, pp. 9294, tav. II; JIWE, pp. 98-100, n. 75. 18 Id., Le testimonianze epigrafiche e archeologiche come fonte per la storia degli ebrei, in «Materia giudaica», 9, 2004, pp. 38-39. 16

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titolo di pateressa con cui è decorata una Alessandra (CIIud 606); anche la qualifica di presbytera data ad alcune donne (CIIud, 581, 590, 597) dovrebbe indicare semplicemente che esse erano state mogli di presbyteri e non che avessero ricoperto uffici in seno alla comunità19. Circa i rapporti degli ebrei venosini con l’amministrazione municipale, due iscrizioni della «catacomba nuova» attribuiscono a due di essi, Aussanio e Marcello, il titolo di «patrono della città» (CIIud, 619 b-d). Le epigrafi sono databili ai secoli IV-V. È noto che il titolo di patrono veniva dato a ricchi e influenti personaggi benemeriti della città o del municipio. Il titolo passò più tardi a significare una funzione municipale analoga a quella del curator rei publicae20. Il notabilato civico è ricordato in un epitaffio della catacomba maggiore dedicato a una defunta quattordicenne di nome Faustina, alcuni congiunti della quale sono indicati come maiures cibitatis. L’epitaffio è databile al secolo VI. Da rilevare che ai funerali della fanciulla, appartenente a una delle famiglie più altolocate, partecipò tutta la città e innalzarono le lamentazioni funebri «duo apostuli et duo rebbites»21. I rebbites più che rabbini nel senso corrente del termine erano forse amministratori della comunità22. Anche gli apostuli erano probabilmente figure dell’organizzazione sinagogale, oppure cantori23; gli studiosi, tuttavia, ritengono per lo più che essi fossero emissari delle comunità di Giudea o della Galilea venuti alla ricerca di sussidi. E in verità, nella seconda metà del secolo IX un inviato di Gerusalemme è a Venosa, dove predica ogni sabato nella sinagoga. In questo stesso periodo sono attestati sussidi portati da ebrei pugliesi all’Accademia rabbinica (Yeshivah) di Gerusalemme. Per quanto concerne le attività dei giudei venosini in epoca romana, esse dovevano riguardare l’agricoltura, l’esercizio della professione medica, l’artigianato, in particolare quello collegato con la lavo19 Cfr. l’opinione in contrario di B.J. Brooten, Women Leaders in the Ancient Synagogue, Chico 1982, pp. 42-44. 20 F. Grelle, Patroni ebrei in città tardoantiche, in M. Pani (a cura di), Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane, vol. III, Bari 1994, pp. 139-58. 21 CIIud, vol. I, pp. 438-40, n. 611; JIWE, pp. 114-19, n. 86. 22 Cfr. G. Lacerenza, Frustula iudaica neapolitana, in «Annali dell’Istituto orientale di Napoli», 58, 1998, pp. 340-42. 23 Id., Ebraiche liturgie e peregrini «apostuli» nell’Italia bizantina, in M. Perani (a cura di), Una manna buona per Mantova. Man tov le-Man Tovah. Studi in onore di Vittore Colorni per il suo 92° compleanno, Firenze 2004, pp. 61-72.

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razione delle lane prodotta negli allevamenti ovini sparsi nell’esteso ager Venusinus e all’interno della Lucania. A Venosa, infatti, come nella vicina Canosa, era attiva una manifattura tessile imperiale (gynaeceum) ed è assai probabile che i giudei avessero stretti legami con essa. Ed è singolare che Costanzo II nel 339 proibisca esplicitamente alle gyneciariae, le lavoratrici degli opifici imperiali, il matrimonio con gli ebrei e la conversione alla fede mosaica24. 2. L’alto Medioevo Nell’alto Medioevo l’ebraismo venosino è documentato da un notevole gruppo di iscrizioni funerarie e da fonti letterarie. Gli epitaffi, provenienti da un cimitero a cielo aperto situato tra l’anfiteatro romano e la chiesa della Trinità, sono in lingua ebraica25. Tra gli ebrei delle catacombe e quelli delle sepolture subdiali trascorre poco più di un secolo, durante il quale si dissolvono le antiche strutture comunitarie di stampo greco-romano e s’impongono quelle talmudiche. Contribui­rono al passaggio le trasformazioni politiche, ma ancor più l’influsso proveniente dalla terra d’Israele, dove le comunità giudaiche si riebraicizzarono nella lingua e nella cultura, a partire dal V secolo, per riaffermare la propria identità di fronte al soverchiante cristianesimo. La semitizzazione prodotta dall’onda araba nel VII secolo in Medio Oriente, Egitto e Africa settentrionale completò l’opera. Anche nell’Italia meridionale si riaffermano ormai la lingua, i modelli culturali, le raccolte omiletiche (midrashim) e legali irradiatesi dalla terra d’Israele e dalla Mesopotamia e l’epigrafia funeraria ne è un Cod. Theod. XVI, 8, 6. Cfr. Grelle, Patroni ebrei, cit., pp. 155-56. Ascoli, Iscrizioni inedite, cit., pp. 67-79; U. Cassuto, Nuove iscrizioni ebraiche di Venosa, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 4, 1934, pp. 1-9; Id., Ancora nuove iscrizioni ebraiche di Venosa, ivi, 5, 1935, pp. 179-84; C. Colafemmina, Un’iscrizione venosina inedita dell’822, in «La rassegna mensile d’Israel», 43, 1977, pp. 261-63; Id., Tre iscrizioni ebraiche inedite di Venosa e Potenza, in «Vetera Christianorum», 20, 1983, pp. 444-45; Id., Tre nuove iscrizioni ebraiche a Venosa, ivi, 24, 1987, pp. 201-209; D. Cassuto, Due lapidi del IX secolo nell’Italia del sud, in Studi per il Centenario della nascita di M.D. Cassuto, Jerusalem 1988, pp. 1-23 (in ebraico); G. Lacerenza, L’epitaffio di Abigail da Venosa, in «Henoch», 11, 1989, pp. 319-25; Id., Le antichità giudaiche, cit., pp. 376-79. 26 Su questa rinascita cfr. Sh. Simonsohn, The Hebrew Revival among Early Medieval European Jews, in Salo Wittmayer Baron Jubilee Volume, Jerusalem 1975, pp. 831-58. 24 25

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riflesso26. I testi sono in diversi casi assai lunghi e con reminiscenze bibliche e di altre fonti di tradizione ebraica. Parecchi nomi, però, sono ancora latini e greci. L’alto livello spirituale della comunità di Venosa nei secoli VIII-IX è confermato dall’attività del poeta Silano. Come altri componimenti di autori ebrei coevi, gli inni del poeta venosino sono centoni di versetti biblici e di citazioni liturgiche. Uno di questi componimenti servì a liberare l’autore da una brutta situazione in cui si era cacciato. Secondo quanto narra Ahima’az ben Paltiel nella sua cronaca, Silano aveva giocato un brutto scherzo a un dotto palestinese ospite della comunità venosina. Stanco di fargli da interprete, ma forse ancor più di essere stato messo in ombra dal prestigio del forestiero, Silano modificò il testo predisposto per il commento omiletico sinagogale, inserendovi due versi in cui aveva riassunto una baruffa scoppiata al mercato cittadino. Al momento dell’omelia, l’ospite lesse, anche se con una certa perplessità, il testo interpolato e quindi con disinvoltura lo commentò come se fosse un testo pregno di profondi insegnamenti, suscitando i sarcasmi di Silano e le risate dell’assemblea. Il predicatore, la cui lingua era l’arabo, sulle prime non capì: non tardò però a rendersi conto della beffa e, sotto il peso dell’umiliazione, lasciò immediatamente la città. Tornato in Israele, riferì ai colleghi l’oltraggio subito. I dotti sentirono l’offesa come propria e scomunicarono Silano. Questi dovette attendere alcuni anni per essere riabilitato e lo fu grazie a un amico assai influente, di nome Rabbi Ahima’az, il quale, nel corso di un pellegrinaggio in Terrasanta, aveva portato sostanziosi sussidi alle case di studio. Invitato, come ospite distinto, a recitare la preghiera, Rabbi Ahima’az declamò una poesia di Silano, modificandone una strofa in modo da farla apparire una lode dei rabbini, cultori della Bibbia e della tradizione, e una riprovazione dei caraiti, seguaci della sola Bibbia, e quindi loro acerrimi avversari. Solleticati nel loro orgoglio, i maestri vollero conoscere l’autore della poesia; saputo che era Silano, si affrettarono a togliergli il bando e a riammetterlo nella loro comunione27.

27 Cfr. J. Starr, The Jews in the Byzantine Empire (641-1204), New York 1970, pp. 100-102; Ahima’az ben Paltiel, Sefer Yuhasin. Libro delle discendenze, a cura di C. Colafemmina, Cassano delle Murge 2001, pp. 83-89. Sui caraiti, ancora oggi presenti nel giudaismo, cfr. G. Tamani, Gli studi caraiti in Italia, in «Studia Patavina», 23, 1976, pp. 74-86.

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Un gruppo di epigrafi ebraiche, datate anch’esse al IX secolo, si trova a Lavello28. Le epigrafi non appartengono però a un insediamento locale, ma furono portate nella cittadina dalla vicina Venosa per essere riutilizzate come materiale edilizio. I testi di queste epigrafi sono della più grande importanza per la conoscenza della spiritualità del mondo giudaico nella regione del Vulture. Uno di essi, dedicato a due fratelli deceduti in tenera età, dice: Qui giacciono due fratelli, Abramo e Netanel. Abramo aveva sei anni e Netanel tre anni. Figli di Leone e Lea. Sia pace nella loro tomba. Riposi la loro anima nel vincolo della vita. Il Misericordioso affretti il tempo della resurrezione dei morti al più presto. Amen29.

Le linee 6-7 contengono una preghiera che non ha finora riscontro nell’epigrafia giudaica dell’Italia meridionale: Dio è invocato come h-Rhmn, «il Misericordioso». L’epiteto, dello stesso significato del biblico rhwm (cf. Esodo, 34, 6; Deuteronomio, 4, 31; Salmi, 103, 8), ricorre spesso nelle preghiere e nella liturgia giudaica. Al Misericordioso nella nostra epigrafe si chiede di affrettare il tempo della resurrezione dei morti, che è poi il tempo messianico della resurrezione di Israele. Ancor più importante è un’altra iscrizione lavellese, in cui è riportata – finora caso unico nell’epigrafia ebraica fra tardo antico e alto Medioevo – una citazione del trattato Berachot, ossia delle Benedizioni, del Talmud babilonese30. La citazione documenta la presenza del Talmud babilonese nelle nostre contrade agli inizi del IX secolo31. Cfr. Ascoli, Iscrizioni inedite, cit., pp. 77-79, nn. 32-33. C. Colafemmina, Iscrizione ebraica inedita di Lavello, in «Vetera Christianorum», 23, 1986, pp. 171-76. 30 Cfr. Id., Una nuova epigrafe ebraica altomedievale a Lavello, ivi, 29, 1992, pp. 411-21; Id., Hebrew Inscriptions, cit., pp. 71-77. 31 Cfr. R. Bonfil, Tra due mondi. Prospettive di ricerca sulla storia culturale degli Ebrei dell’Italia meridionale nell’alto Medioevo, in Italia Judaica. Atti del I Convegno internazionale (Bari, 18-22 maggio 1981), Roma 1983, pp. 135-58. Ma cfr. anche Sh. Simonsohn, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dal mondo ebraico, in G. Musca (a cura di), Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo. Atti delle tredicesime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1997), Bari 1999, pp. 332-33. 28 29

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L’iscrizione è dedicata a un Pwt ben Iovianu ben Pwt Levi, originario della terra dei Kittim. Da notare che tra la fine del secolo VIII e gli inizi del IX, epoca a cui è da riferirsi l’epigrafe, la terra dei Kittim indicava la regione compresa tra il Tevere e Napoli. La scheggiatura dello specchio epigrafico rende in alcuni casi incerta la lettura. Il suo senso, comunque, sembra debba essere il seguente: Fu un uomo, tra i figli il più eletto, della terra dei Kittim, il cui nome era Pwt ben Iovianu ben Pwt Levi. Questo fu il suo cammino: il suo mondo egli vide in questa vita e il suo futuro nella vita eterna, la sua speranza di generazione in generazione. Il suo cuore desiderò andare nella Casa del Santuario e vi andò; dalla sua bocca l’insegnamento era come i doni dei poveri. Le sue palpebre guardavano dritto dinanzi a sé, i suoi occhi illuminavano con la sua luce, le sue mani erano aperte a chiunque andasse e venisse. Tutto ciò hanno causato i nostri peccati. I suoi giorni e la sua dipartita furono all’età di quarantaotto anni. Per questo Iovianu suo figlio e i suoi fratelli Bonu e Iaqob sedettero per conforto e fecero per lui l’elogio e la lacerazione degli abiti nell’amore delle loro anime con cui l’amavano e gli innalzarono una stele. Chi è intelligente tema e dica: Benedetto colui che forma le sue creature con giustizia, le distrugge e in futuro le farà rivivere. Venga la pace e riposi sul tuo giaciglio.

Da notare la mescolanza dei nomi portati dal defunto e dai suoi familiari. Il defunto si chiamava Pwt, forse forma abbreviata dell’ebraico Putiel (Esodo, 6, 25), o più verosimilmente del greco Fozio, un nome già presente a Venosa in un’iscrizione datata all’822 e dedicata a una Paregora figlia di Fozio. Il nome, comunque, potrebbe pure essere il germanico Poto, o Bodo, diffuso nell’area beneventana nel secolo IX. Era questo anche il nome del diacono di Carlo il Calvo convertitosi al giudaismo nell’83832. Il padre di Pwt aveva il nome latino Iovianus ed era figlio a sua volta di un Pwt Levi. Un figlio del defunto si chiamava Bonus, l’altro portava quello biblico di Iacob. 32 Cfr. B. Blumenkranz, Les auteurs chrétiens latins du Moyen Age sur les juifs et le judaïsme, Paris 1963, pp. 184-91.

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Le linee 3-8 contengono, come si è detto, la più antica utilizzazione epigrafica del Talmud babilonese, e precisamente di Berachot, 17a. Il brano talmudico riporta un antico saluto e benedizione rabbinica. Nelle linee 6-8, pur tenendosi sempre agganciato al testo talmudico, il compositore dell’epigrafe si è allontanato da esso, sostituendolo con due altre espressioni: «Il suo cuore desiderò andare alla Casa del Santuario e vi andò, l’insegnamento della sua bocca era come i doni dei poveri». «I doni dei poveri» erano quelle piccole porzioni dei prodotti della vigna, delle messi e degli alberi da frutto (racimoli, spigolature e simili) che la legge e la tradizione dichiaravano disponibili per i poveri (cfr. bHullin, 131a). L’insegnamento che il defunto diffondeva era dunque prezioso come la spigolatura per il povero. Per quanto concerne il suo desiderio di andare «alla Casa del Santuario», il senso dell’espressione non è chiaro. Potrebbe significare che desiderò andare in pellegrinaggio a Gerusalemme e che adempì il suo desiderio. Il posto occupato dall’espressione nella tessitura dell’elogio orienterebbe però verso un’altra interpretazione: il suo cuore anelò entrare misticamente nel santuario celeste di Dio (cfr. Isaia, 6, 1-6) e il suo desiderio si realizzò. La sapienza di cui fu arricchito nella sua esperienza del divino era immensa, e quello che gli altri riuscivano ad apprendere da lui era paragonabile al piluccare in una vigna o allo spigolare in un campo di grano. Così intese, le nostre due linee sarebbero una parafrasi, in stile elevato (e un po’ esoterico), delle due espressioni talmudiche originali: «Il tuo cuore mediti cose intelligenti, la tua bocca dica cose sapienti». Le esequie del defunto furono curate dal figlio Iovianus e dai fratelli Bonus e Iacob. Essi si sedettero a terra per ricevere conforto (cfr. Giobbe, 2, 13), fecero la commemorazione funebre tessendo con parole commoventi l’elogio del defunto ed eseguirono il rito della lacerazione degli abiti, perché, come già Ionathan David (1 Samuele, 20, 17), «con amore dell’anima lo avevano amato». Come ultimo gesto di stima e di amore gli eressero sulla tomba una pietra, cioè la stele su cui era stato inciso l’epitaffio. Questo si chiude con una eulogia di origine biblica (Isaia, 57, 2) assai diffusa nell’epigrafia giudaica funeraria. Diversamente dal solito, però, l’augurio non è recitato sulla tomba in terza persona, ma rivolto affettuosamente al defunto: «Venga la pace e riposi sul tuo giaciglio». L’iscrizione non è datata, ma è sicuramente del secolo IX, forse della fine dell’VIII. I nomi latini dei congiunti del defunto sono già

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noti da altre epigrafi venosine, datate, della prima metà del secolo IX, ed è probabile che si tratti degli stessi personaggi menzionati nel nostro epitaffio. Venosa non fu l’unica città a ospitare comunità ebraiche fra tarda antichità e alto Medioevo. Nel secolo IV-V, infatti, anche Potenza e Grumento ebbero giudei tra i loro cittadini. A Potenza un frammento di lapide decorata con il candelabro a sette bracci e resti d’iscrizione latina rimandano a una sinagoga o a un’area sepolcrale ebraica33. A Grumento, insieme con reperti archeologici, ricorda la comunità ebraica il toponimo Giudecca con cui veniva indicata una contrada poco fuori della città34. Tre iscrizioni sepolcrali del IX secolo in lingua ebraica si trovano anche a Matera, ma esse, come quelle di Lavello, provengono da Venosa35. Una di tali iscrizioni tramanda il nome assai raro di Ahima’az, portato, come si è detto, dal notabile amico del poeta venosino Silano. 3. Dai Normanni agli Angioini Sul fiorente insediamento di Venosa dopo il IX secolo scende un velo di silenzio. La comunità scompare, per riapparire forse in località più accoglienti come Melfi e le città in ascesa della costa pugliese. È possibile che grossi vuoti siano stati causati dalle lotte intestine dei principi longobardi, dalle scorrerie musulmane e dai contrattacchi cristiani che afflissero la regione nei secoli IX e X36. È noto che per Venosa la situazione disastrosa della città spinse nell’867 l’imperatore Ludovico II a interessarsi della sua ricostruzione37. 33 Colafemmina, Tre iscrizioni ebraiche inedite, cit., pp. 445-48; JIWE, p. 150, n. 117. 34 Cfr. A. Santagata, Una raccolta di antichità nel secolo XVIII a Grumento, in «Lucania archeologica», 5, 1986, p. 16; G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Roma 1889, vol. II, p. 85, nota 2. 35 F.P. Volpe, Esposizione di talune iscrizioni esistenti in Matera e delle vicende degli Ebrei nel nostro Reame, Napoli 1844; Ascoli, Iscrizioni inedite, cit., pp. 79-81, nn. 34-81; C. Colafemmina, Tre iscrizioni ebraiche altomedievali a Matera, in Perani (a cura di), Una manna buona per Mantova, cit., pp. 103-16. 36 Cfr. G. Musca, L’emirato di Bari (847-871), Bari 1978; A. Papagna, I saraceni e la Puglia nel secolo decimo, Bari 1990. 37 Cfr. Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, in MGH, Scrip-

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Le violenze antigiudaiche esplose durante la crociata del 1096 si ripercossero anche nella nostra regione. Il disgusto per le violenze produsse una crisi mistica in un prete normanno di Oppido Lucano, Giovanni di Drogo, il quale si convertì al giudaismo ed emigrò nel Vicino Oriente e in Egitto con il nuovo nome di Obadyah ha-Ger, ossia Obadyah il proselito. Assai istruito nella musica sacra cristiana, Obadyah divenne autore di apprezzate melodie sinagogali, per la cui notazione si servì dei neumi beneventani38. Nella Melfi normanna, assurta a centro politico e amministrativo dei nuovi conquistatori, il viaggiatore spagnolo Beniamino da Tudela trovò, tra il 1159 e il 1167, una comunità di circa 200 ebrei guidati da Rabbi Ahima’az, Rabbi Nathan e Rabbi Isaq39. La prima notizia su questa comunità è costituita dalla donazione che Ruggero, duca di Puglia, fece di essa al vescovo della città nel 1093. La donazione, insieme con i proventi che ne derivavano, fu confermata da Pasquale II nel 1101 e da Celestino III nel 119340. In questo periodo la Giudecca, ossia il quartiere abitato prevalentemente dai giudei, era nella parrocchia di San Pietro, denominata per tal motivo de Iudeis41. Nel 1270 Carlo I d’Angiò intervenne a favore della comunità di Melfi, i cui componenti si erano rivolti a lui lamentando prepotenze e arbitri commessi nei loro confronti dal castellano della città42. Nel 1294 la comunità subì tuttavia una forte emorragia a causa delle pressioni conversionistiche degli Angioini, che indussero ben settanta famiglie ebree ad accettare il battesimo; a questi neofiti nel 1294, in tores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, edidit G. Waitz, Hannoverae 1878, cap. 33, p. 247: «Tunc venit Venusiam, castrametatusque in ea coepitque renovare». 38 Cfr. L. Levi, Le due più antiche trascrizioni musicali di melodie ebraico-italiane, in Scritti sull’ebraismo in memoria di Guido Bedarida, Firenze 1966, pp. 105-36. 39 Cfr. C. Colafemmina, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, in «Archivio storico pugliese», 28, 1975, pp. 84-85. 40 Miscellanea Giovanni Mercati, vol. V, Città del Vaticano 1946, docc. II e IX*, pp. 273-76 e 303-11. Nel 1106 la duchessa Ala, moglie di Ruggero, duca di Puglia, donò a Iannacio, suo cappellano, l’ebreo Abraham con tutti i suoi figli, la «masnada» e tutte le sue cose. Cfr. T. Pedio, Cartulario della Basilicata (476-1443), vol. I, Venosa 1998, p. 138. 41 A. Lancieri, Melfi. Guida storica e turistica, Bari s.d., pp. 153-54; S. Tranghese, Il centro storico di Melfi in età medievale, in «Radici. Rivista lucana di storia e cultura del Vulture», 10, 1992, p. 184. 42 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. IV, 1266-1270, Napoli 1952, p. 155, doc. 1035.

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premio della loro conversione, fu rinnovata l’esenzione dal pagamento delle imposte. La comunità tuttavia non si estinse del tutto: nel 1313 infatti gli ebrei sono annoverati con i melfesi nel pagamento del contributo imposto alla città43. Qualche anno prima della conversione degli ebrei melfesi, e precisamente il giorno della purificazione di Maria del 1291, c’era stato nel casale di Gaudiano, che era soggetto al vescovo di Melfi, il battesimo solenne dell’ebreo Durante di Provenza, medico chirurgo. Il neofito prese il nome di Roberto, in omaggio al figlio del sovrano angioino che aveva assistito al rito44. In questo torno di tempo, gli ebrei sono presenti anche a Potenza. Un documento del 1322 parla infatti di una tintoria ebraica esistente nella città e sulla quale vantava diritti il vescovo locale45. Documenterebbe una presenza più antica di oltre un secolo il Gugliemo de Habraam che nel 1204 fece da testimone alla vendita di un pezzo di terra, sito in località Pantano, eseguita da un Giovanni in favore del figlio Elia46. Nel 1275 a Spinazzola, cittadina che fino al 1811 fece parte della Basilicata, tra le persone interessate all’acquisto di grano e orzo per mandato regio c’era anche un Cambeus iudeus47. Gli ultimi Angioini si segnalarono per una maggiore tolleranza nei confronti degli ebrei, e ciò portò anche in Lucania, ormai divenuta Basilicata, a una ripresa delle antiche comunità e al sorgere di nuovi insediamenti. Una fondazione di tal genere sarebbe la «nova iudea introducta in civitate ipsa venusina» menzionata in un documento in cui nel 1412 re Ladislao di Durazzo confermava all’Università e ai cittadini di Venosa le grazie e i privilegi concessi dalla regina Margherita, sua madre48. 43 N. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, a cura di F. Patroni Griffi, Napoli 1990, pp. 68 e 72. 44 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXXV, 1289-1291, Napoli 1985, p. 214. 45 R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922, vol. I, p. 462. 46 Archivio di Stato di Napoli, Pergamene della Società napoletana di storia patria, Fondo Fusco, 10-BB-1, n. 2 [A]. Il dato mi è stato gentilmente segnalato dalla dott.ssa Antonella Pellettieri. 47 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XIV, 1275-1277, Napoli 1961, p. 111. 48 Achille Cappellano. Venosa, 28 febbraio 1584. Descrittione della città de Venosa, sito et qualità di essa, a cura di R. Nigro, Venosa 1985, pp. 48-49. In realtà il brano – se la sua trascrizione è esatta – ha tutta l’aria di essere un’interpolazione,

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Nel 1429 risiedeva a Senise una personalità di grande rilievo, il medico Azaria figlio di Iosef ibn Abba-Mari, meglio noto con il nome romanzo di Bonafos Bonfil Astruc. Egli era originario di Perpignano, città dei Pirenei orientali appartenente allora al regno d’Aragona, uno dei centri più importanti di studi ebraici nel Medioevo49. Sotto l’incalzare delle violenze antigiudaiche che sconvolgevano e insanguinavano la regione, verso il 1415 aveva accettato il battesimo, prendendo il nome di Gabriel Catulla50. Le violenze erano il frutto della predicazione veementemente antigiudaica dei Frati Minori e dei Domenicani. Tra i secondi primeggiava san Vincenzo Ferreri, detto l’«angelo dell’Apocalisse» per il suo frenetico annunzio dell’imminente instaurazione del regno di Dio sulla terra, evento che non si sarebbe realizzato se anche Israele non si fosse convertito51. Sovente il santo a capo di schiere di flagellanti invadeva le sinagoghe e le consacrava al culto cristiano. Su istigazione dei religiosi furono anche emanate leggi che espropriavano gli ebrei delle loro dimore tra i cristiani, per confinarli ai margini dell’abitato nelle zone più malsane e malfamate, e che riducevano al limite di sopravvivenza la loro capacità di possedere e di operare52. La situazione era assai diversa nel Sud d’Italia. Qui gli ebrei avevano trovato in Giovanna I, Ladislao e Giovanna II dei protettori, la cui liberalità in privilegi, indulti e immunità aveva ormai fatto dimenticare il rigore dei primi angioini53. E in queste terre venne a stabilirsi Gabriel Catulla, che aveva ripreso la sua antica fede e il suo precedente nome di Bonafos Bonfil Astruc. Egli aveva dimorato dapprima a Macerata Feltria, nei domini del «grande principe e signore dei signori» Malatesta I, dove nel 1422 iniziò a tradurre dal latino in ebraico il De che sarebbe stata però eseguita attingendo a documenti autentici o a tradizioni antiche bene attestate. 49 H. Gross, Gallia Judaica. Dictionnaire géographique de la France d’après les sources rabbinique, avec un supplément par S. Schwarzfuchs, Amsterdam 1969, pp. 456-76, 32*. 50 R.W. Emery, Documents Concerning Some Jewish Scholars in Perpignan in the Fourteenth and Early Fifteenth Centuries, in «Michael», 4, 1976, pp. 46-48. 51 La base di questa credenza era un’affermazione di san Paolo nell’epistola ai Romani (11, 25-27). 52 Cfr. H. Graetz, History of the Jews, Philadelphia 1967, vol. IV, pp. 200-206; Y. Baer, A History of the Jews in Christian Spain, Philadelphia 1978, vol. II, pp. 166-69. 53 Cfr. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale, cit., pp. 73-76.

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consolatione philosophiae di Boezio; il lavoro fu portato a termine l’11 gennaio 1423 nella vicina Pietrarubbia, dove il maestro catalano si era rifugiato a motivo della peste che era scoppiata nel frattempo54. Bonafos Bonfil afferma di essersi dedicato alla traduzione di Boezio per consolarsi delle traversie che l’avevano colpito. Seguace di Maimonide, egli ne condivideva la larghezza di vedute. E all’esempio del grande maestro egli si richiama per rispondere in anticipo ai talmudisti conservatori, che avevano in orrore la filosofia, che certamente gli avrebbero rinfacciato di essersi dedicato a un testo non giudeo: Io so – scrive nella prefazione al suo lavoro – che mi accuseranno e si befferà di me la stolta turba dei rabbini a causa della mia traduzione, ma se questi ignoranti che si considerano i veri giudei e si fanno passare per pii per la loro stupida religiosità leggessero i libri del grande Maestro di giustizia, sia pace su di lui, il quale ha tradotto una gran quantità di libri di sapienti non ebrei e in particolare di Galeno, essi penserebbero diversamente55.

Dalle terre marchigiane Bonafos Bonfil Astruc, insieme con altri correligionari, diresse i suoi passi verso la Puglia, richiamato dal favore che Giovan Antonio del Balzo Orsini, investito nel 1420 da Giovanna II del principato di Taranto, mostrava verso i perseguitati figli d’Israele. S’inoltrò quindi in Basilicata e si stabilì a Senise, dove si dedicò all’esercizio dell’arte medica. Per un uomo proveniente dagli splendori di Catalogna, che egli ricordava come «la gazzella dei regni, il paese dove nulla mancava e nessuna cosa era ignota», Senise non doveva offrire molto. Nella sua apertura di spirito, però, Bonafos cercò subito dei contatti con i dotti locali, e tra i libri di un collega cristiano di nome mastro Loisi trovò la traduzione latina di un’opera medica dell’arabo Ezzahrawi. E ritenendo di far cosa utile ai colleghi ebrei, specialmente a coloro che si accingevano a studiare la medicina, egli decise di tradurla nella lingua della Bibbia. Ecco come egli stesso 54 A. Neubauer, Bonafoux Bonfil Astruc de Perpignan, in «Revue des Etudes Juives», 5, 1882, pp. 41-43; M. Steinschneider, Die hebräischen Übersetzungen des Mittelalters und die Juden als Dolmetscher, Berlin 1893, pp. 466-67; C. Bernheimer, Paleografia ebraica, Firenze 1924, pp. 181-82; Gross, Gallia Judaica, cit., p. 475. L’esatta identificazione dei luoghi si deve a Steinschneider per il primo nome e a Bernheimer per il secondo. 55 Cfr. Neubauer, Bonafoux Bonfil Astruc, cit., p. 42. Su Maimonide (Cordova 1135-Fustat 1204) cfr. G. Laras, Il pensiero filosofico di Mosè Maimonide, Roma 1985.

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narra la vicenda, incominciando dal suo arrivo travagliato nelle terre del principe di Taranto: Il Santo suscitò lo spirito del suo unto, il nostro signore, il respiro della nostra bocca, il grande principe, l’eccelsa maestà, messer Gian Antonio degli Orsini, principe di Taranto – s’innalzi la sua gloria e si elevi il suo regno –, il quale ci pose sotto la sua ombra, salvò le nostre vite dalla miseria e ci restituì la pristina gioia donandoci da vivere al suo servizio56. Ed io per mettere al sicuro la mia vita dalla mano che voleva catturarmi nel giorno della mia fuga e salvezza, pregando Dio mio aiuto, giunsi nella provincia di Basilicata, nella cittadina di Senise. Il Santo aveva cinto di forza i miei deboli lombi e ho trovato un medico cristiano di nome mastro Loisi e tra i suoi libri ho scoperto questo libro composto dal dotto e sapiente Ezzahrawi intitolato Il servitore dei medici, tradotto dalla versione ebraica di Abramo di Tortosa nella lingua dei cristiani da Simone di Genova. E poiché non l’ho trovato in questa contrada in traduzione ebraica, mi è parso bene doverne fare una, perché l’opera è di grande utilità per la scienza medica, per l’arte degli unguenti e per la preparazione delle misture, è un libro che dischiude grandi segreti a chi lo studia. Esso è parte di una grande opera del grande dotto e sapiente ricordato. Avendo visto che tu ti prepari a entrare in quest’arte, l’ho tradotto per te nella località su mentovata nel mese di Kislev 5190 [ottobre-novembre 1429]. Che Dio nella sua misericordia ci assolva e custodisca da ogni errore e sbaglio e il suo aiuto ci sia d’appresso. Amen57.

La grande opera medica di Ezzahrawi menzionata da Bonafos Bonfil è la famosa Et-Tasrif, ossia Della pratica o Del metodo, in trenta trattati, il ventottesimo dei quali è il Servitore dei medici. Ezzahrawi, il cui vero nome era Abu Al Kassim Abbes ibn Khalef Ezzahrawi, nacque ad Al Zahra, in Andalusia, verso il 936 d.C. Nella sua opera, che ebbe un’influenza assai grande sullo sviluppo della medicina in Europa, egli tratta della teoria e della pratica della medicina, dei regimi alimentari, della sanità e delle malattie, degli antidoti, delle erbe

Bonafos Bonfil moltiplica nei confronti di Gian Antonio Orsini epiteti ed espressioni altisonanti di derivazione biblica. Il principe di Taranto è descritto come un altro Ciro, il re dei persiani che nel 538 a.C. liberò gli ebrei dalla cattività babilonese e concesse loro di tornare a Gerusalemme e ricostruire il Tempio (cfr. 2 Cronache, 36, 22; Esdra, 1, 1; Isaia, 45, 1); egli ancora, come un antico re di Giuda, è «il respiro della bocca» dei suoi sudditi, i quali vivono sicuri «sotto la sua ombra» (Lamentazioni, 4, 20). 57 Neubauer, Bonafoux Bonfil Astruc, cit., pp. 43-44. 56

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medicinali e della chirurgia58. Il trattato tradotto da Bonafos Bonfil riguarda la preparazione dei farmaci, i cui componenti sono distinti in minerali, vegetali e animali. Il libro fu tradotto dall’arabo in ebraico a Marsiglia, tra il 1254 e il 1258, da Isac Shem Tov di Tortosa. Su questa traduzione lavorò suo figlio Abramo, forse rendendola in volgare, e tale versione fu a sua volta tradotta in latino verso il 1288 da Simone di Genova59. Conosciuta come Liber servitoris, questa traduzione ebbe un enorme successo. Fu la quarta opera medica a essere stampata (Venezia 1471) e nello spazio di cinquant’anni conobbe almeno cinque ristampe60. Bonafos Bonfil reputò un dono del Signore averla trovata a Senise e, come si è detto, non perse tempo a ritradurla in ebraico per metterla a disposizione dei suoi correligionari che nella zona si dedicavano alla medicina. Il dato è assai importante perché attesta per questi anni nella regione una presenza ebraica diffusa e qualificata non documentata da altre fonti. È ancora per i suoi compagni di fede e colleghi che Bonafos Bonfil Astruc traduce dal latino un’altra operetta medica, il Dei succedanei, di Dioscoride61. Della traduzione si ignora la data e il luogo, ma da quel che sappiamo della vita e dell’opera del nostro traduttore anch’essa deve essere avvenuta a Senise. La premessa al testo ricalca, infatti, alcuni tratti dell’introduzione al trattato di Ezzahrawi; anche il riferimento ai medici ebrei girovaganti per i villaggi e i piccoli centri delle montagne ben si addice all’orografia di quella parte della Basilicata dominata dal Pollino e dal Raparo. Ma leggiamo la premessa, da cui si ricava anche il contenuto dell’opera: Poiché accade assai spesso che un medico si trovi in luoghi in cui è molto difficile procurarsi le droghe necessarie alla sua professione e si trovi perciò in imbarazzo, e questo è specialmente il caso dei figli del nostro popolo che per bisogno sono necessitati di andare nei villaggi e nelle cittadine tra le montagne, dove pensano di trovare una certa qual droga per eseguire la loro opera e non la trovano, io Azaria, chiamato in lingua volgare Bonafos, ho

58 Cfr. S. Ammar, Médecins et médecine de l’Islam. De l’aube de l’Islam a l’age d’or, prefazione di P. Milliez, Paris 1984, pp. 258-70. 59 Cfr. sulla questione Steinschneider, Die hebräischen Übersetzungen, cit., pp. 740-41; Neubauer, Bonafoux Bonfil Astruc, cit., pp. 44-45; Gross, Gallia Judaica, cit., pp. 375-76. 60 Ammar, Médecins et médecine, cit., p. 261. 61 Steinschneider, Die hebräischen Übersetzungen, cit., p. 650.

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tradotto questa tavola alfabetica che ho trovato tra i libri dei gentili e il cui titolo in greco è Antiballomenon, ossia Delle droghe equivalenti, composta dal sapiente medico e filosofo Dioscoride e dedicata a suo zio62.

Non sappiamo quanto tempo Bonafos Bonfil Astruc sia vissuto in Basilicata. Nel 1453, comunque, egli era a Bari, dove copiò per Abramo ben Mosè de Balmes il commento medio di Averroè al primo libro della Metafisica di Aristotele nella traduzione arabo-ebraica di Zerachyah ben Isac Hen (1284) e altre opere63. Forse stupisce l’esigenza di tradurre in ebraico dei testi che correvano in lingua latina tra i dotti europei. Ma come il latino era la lingua della Chiesa e della tradizione colta per i cristiani, così l’ebraico era la lingua della sinagoga e della tradizione colta per gli ebrei. I dotti ebrei però avevano generalmente discrete conoscenze del latino, necessarie anche per leggere i documenti pubblici, che erano solitamente redatti in tale lingua64. Un paio di decenni dopo Bonafos Bonfil Astruc – ma siamo già in età aragonese – un altro dotto ebreo suo conterraneo è attivo in Basilicata. Si tratta del medico e copista Isac Salamon dal Barri, il quale nel 1452-54 trascrive a Melfi per il medico David ben Menachem Zarfati di Tricarico, anch’egli di origine francese, la traduzione ebraica del trattato medico dal titolo Il gioiello perfetto di Ezzahrawi, eseguita da Meshullam ben Ionah (1287 circa)65. Neubauer, Bonafoux Bonfil Astruc, cit., p. 46. G. Tamani, Manoscritti e libri, in C.D. Fonseca, M. Luzzati, G. Tamani, C. Colafemmina (a cura di), L’Ebraismo dell’Italia meridionale peninsulare dalle origini al 1541: società, economia, cultura. Atti del IX Congresso internazionale dell’Associazione Italiana per lo studio del Giudaismo (Potenza-Venosa, 20-24 settembre 1292), Galatina 1996, p. 226. 64 Sulla conoscenza del latino da parte dei dotti ebrei cfr. C. Sirat, La filosofia ebraica medievale secondo i testi editi ed inediti, a cura di B. Chiesa, Brescia 1985, pp. 275-77, 452-53, 493. 65 Cfr. C. Sirat, M. Beit-Arié, Manuscrits médiévaux en caractères hébraïques portant des indications de date jusqu’à 1540, Paris 1972, vol. I, p. 103; Steinschneider, Die hebräischen Übersetzungen, cit., pp. 475-76; Tamani, Manoscritti e libri, cit., p. 231. Il cognome dal Barri è attestato tra gli ebrei di Perpignano e di altre località del Mezzogiorno francese e deriverebbe dal nome di un villaggio spagnolo situato nei pressi di Briviesca, nella provincia di Burgos. Secondo Steinschneider, seguito poi dagli altri (cfr. Gross, Gallia Judaica, cit., pp. 469-70), il cognome del traduttore Isac Salamon farebbe invece riferimento alla città pugliese di Bari. Ma anche nel nostro caso l’origine non è diversa da quella degli altri. Un particolare curioso: un 62 63

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Insieme con i libri di scienza attinenti alle loro professioni, gli ebrei portavano con sé, è naturale, anche i loro libri sacri e religiosi. Così per Daniele ben Iaqob di Venosa fu copiato nel 1484 a Lecce un manoscritto contenente le preghiere da usarsi nel ciclo liturgico annuale (Siddur)66. Il colofone riporta i nomi del copista e del committente, la data e il nome della località in cui il lavoro fu eseguito: Il giorno secondo della settimana, il 27 del mese di Av, l’anno 5245 dalla creazione del mondo [= 8 agosto 1485] – secondo il computo che noi siamo soliti usare –, qui nella sinagoga della città di Lecce io Salomone bar Nachman ho terminato questo Siddur per messer Daniele figlio del defunto Iaqob di Venosa (riposi nell’Eden). Iddio gli conceda di meditare in esso, egli e la sua discendenza e la discendenza della sua discendenza, sino alla fine di tutte le generazioni, e confermi per lui il passo biblico che dice: «E vi mediterai sopra giorno e notte» [Giosuè, 1, 8]. Amen. Per sempre e ancora per sempre67.

sigillo bilingue (latino-ebraico) databile al secolo XIII, conservato forse nel museo di Tolosa, reca la leggenda «S[ignum] Salamon dal Barri». Cfr. B. Bedos, Les sceaux, in B. Blumenkranz (a cura di), Art et archéologie des Juifs en France médiévale, prefazione di S. Wittmayer Baron, Toulouse 1980, p. 221. 66 B. Richler (a cura di), Hebrew Manuscripts in the Biblioteca Palatina in Parma, Paleographical and Codicological Descriptions by M. Beit-Arié, Jerusalem 2001, p. 284, n. 1089; Tamani, Manoscritti e libri, cit., p. 230. 67 Sulla diffusione e le attività degli ebrei in Basilicata nei secoli XV-XVI cfr. C. Colafemmina, Minoranze etniche, linguistiche e religiose: gli Ebrei, in A. Cestaro (a cura di), Storia della Basilicata, vol. III, L’età moderna, Roma-Bari 2000, pp. 66-89. Per uno sguardo d’assieme sull’intera storia R. Pinto, Il passaggio degli Ebrei in Basilicata, Pisticci 1998.

LA RELIGIOSITÀ BIZANTINA di Filippo Burgarella 1. Il contesto bizantino Basilicata è un nome d’origine bizantina: richiama l’appartenenza della regione, se non di tutta almeno di parte di essa, alla dominazione dei basilèis, gli imperatori romani d’Oriente. La loro sovranità vi prevalse a due riprese: nel VI secolo, tra la prima conquista bizantina e la longobarda, e dalla fine del IX alla metà dell’XI secolo, fra la riconquista bizantina e l’affermazione dei Normanni. Il nome riflette i peculiari assetti determinatisi proprio durante quest’ultima e più prolungata fase di dominio, particolarmente intenso sul versante ionico. Probabilmente deriva da basilikòs, il funzionario fiscale preposto, tra X e XI secolo, a un proprio distretto o ufficio, il basilikáton per l’appunto1. Bisanzio è all’origine, oltre che della denominazione odierna, anche di momenti e aspetti significativi della storia religiosa della regione fin dai secoli di quel secondo dominio e nei seguenti. Allora vi fiorirono forme e istituzioni peculiari della religiosità greca, innestate in un contesto culturalmente e cultualmente latino in seguito alla riconquista bizantina e soprattutto in virtù di un processo di irradiamento dalle vicine province meridionali, in particolare la sicula e la G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Torino 1889, vol. II, pp. 17 sgg. Cfr. in particolare F. Burgarella, Le terre bizantine (Calabria, Basilicata e Puglia), in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. II/2, Il Medioevo, Napoli 1989 (rist. Foggia 1994), pp. 417 sgg. e 483 sgg., ove si propone appunto la derivazione da basilikòs, funzionario fiscale, e da basilikáton, inteso come il relativo ambito di competenza: il che trova conferma in Cecaumeno, Raccomandazioni e consigli di un galantuomo, a cura di M.D. Spadaro, «Hellenica», 2, Alessandria 1998, pp. 11 e 142-43, c. 96. 1

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calabra, di più antica e radicata bizantinizzazione. Un processo, codesto, sorretto dalla mobilità di gruppi e di individui greci per lingua, cultura e rito e originari delle medesime province. Fra di loro si segnalano i monaci, che tuttavia non furono i soli protagonisti di un simile movimento migratorio che, per ampiezza e durata, lascia intravedere la partecipazione e il coinvolgimento anche di componenti laicali di analoga provenienza culturale e cultuale. In ogni caso, a favorirvi la penetrazione, la diffusione e l’ambientamento di moduli e istituti del sistema ecclesiastico e monastico greco erano le stesse autorità bizantine, dall’imperatore ai suoi vari agenti in provincia2. Toccò, infatti, al basilèus Niceforo II Foca (963-969) di favorire il costituirsi di una Chiesa greca nella regione. Elevando nel 968 la sede episcopale di Otranto a metropolia, egli la preponeva alle diocesi suffraganee di Acerenza, Tursi, Matera e Tricarico, oltre a quella contigua di Gravina, le quali nel loro insieme delineavano una sorta di provincia ecclesiastica di Basilicata. Nel darci notizia di ciò, il vescovo Liutprando di Cremona, allora a Costantinopoli come legato dell’imperatore occidentale Ottone I (936-973), aggiunge che il basilèus si spingeva fino a vietare la liturgia latina in Calabria e Puglia e a imporvi quella greca: un provvedimento, questo, plausibile alla luce dell’intransigenza del medesimo sovrano nel praticare e diffondere l’ortodossia greca. Tuttavia, applicato fu non il divieto del rito latino, bensì il disegno di consolidare la Chiesa greca nelle province meridionali e di estenderla alla Basilicata3. Qui tuttavia la Chiesa greca non ebbe l’ampiezza prospettata da Niceforo II Foca. Solo Tursi risulta, infatti, nell’elenco delle diocesi suffraganee della metropolia greca di Otranto4: il che vi indica una presenza di fedeli greci tale da richiedere, almeno in epoca bizanti2 F. Burgarella, Aspetti del monachesimo greco nella Calabria bizantina, in P. Falco, M. De Bonis (a cura di), Atti Convegno: Per una Idea di Calabria, Cosenza 1982, pp. 53 sgg.; Id., L’identità dei Bizantini di periferia: i Greci di Calabria, in «Études Balkaniques. Cahiers Pierre Belon», VI, 1999, pp. 133-57. 3 Liudprandi relatio de legatione Constantinopolitana, in J. Becker (a cura di), Liudprandi episcopi Cremonensis opera, in MGH, Scriptores in usum scholarum, 41, Hannoverae-Lipsiae 1915, c. 62, p. 209; F. Burgarella, Chiese d’Oriente e d’Occidente alla vigilia dell’anno Mille, in G. Arnaldi, G. Cavallo (a cura di), Europa medievale e mondo bizantino. Contatti effettivi e possibilità di studi comparati. Tavola rotonda del XVIII Congresso del CISH, Montréal, 29 agosto 1995, «Istituto storico italiano per il Medio Evo, Nuovi studi storici», 40, Roma 1997, p. 210. 4 Cfr. infra, nota 14.

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na, le cure pastorali di un vescovo greco, che nel 1050 era Michele5. La conquista normanna interruppe subito, assieme al legame politico con Bisanzio, il processo di grecizzazione ecclesiastica favorendo la rilatinizzazione, che precocemente investì la stessa diocesi di Tursi, affidata a vescovi latini – Engelberto e Simeone – già prima della fine dell’XI secolo e traslata, allora o agli inizi del XII, nella nuova sede di Anglona6. Ebbe tuttavia proseguimento fin dopo i secoli del Medioevo una religiosità che rifletteva le peculiari forme dell’ortodossia italo-greca. A ispirare e sorreggere tale religiosità provvedevano i vari monasteri, fra i quali emerge quello di Carbone – originariamente sotto il vocabolo di Sant’Anastasio e poi anche di Sant’Elia – nella diocesi di Tursi-Anglona, distinto da una plurisecolare vicenda storica e culturale che ben riassume quella più generale del monachesimo greco in terra lucana7. Qui, infatti, si estendeva una rete di monasteri greci, fra i quali – tanto per ricordarne alcuni – quelli di San Basilio o San Filippo di Beniamino a Teana, di Santa Maria di Cersosimo, di Sant’Andrea di Calvera, Santa Maria di Scanzano, San Filippo di Lagonegro, San Giorgio di Episcopia, Sant’Angelo di San Chirico Raparo, Santa Maria di Armento e, in ambito più distante, quelli di Santa Maria del Rifugio a Tricarico e di San Nicola di Morbano a Venosa8. Si tratta di monasteri dalla storia più o meno lunga, sorti in epoca bizantina e talora non sopravvissuti ad essa o istituiti e riorganizzati dopo. Dubbia o controversa ne è la storia almeno in qualche caso, come per il monastero dei Santi Adriano e Natalia, fondato da san Vitale da Castronovo nei pressi di San Chirico Raparo e ritenuto ancora attivo in epoca posteriore. Verosimilmente il monastero da lui istituito dovette scomparire qualche Cfr. infra, nota 45. V. von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona in epoca normanno-sveva. Terra d’incontro tra Greci e Latini, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 27 sgg. 7 Ead., Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in epoca bizantina e normanna, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 61-95. 8 H. Houben, Basilicata, in Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, pp. 163 sgg. 5 6

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tempo dopo e quello omonimo attestato nel Cinquecento corrispondeva al Sant’Adriano di San Demetrio Corone, in Calabria9. Accenneremo più avanti ai tratti peculiari di tal genere di monachesimo; qui giova, in ogni caso, evidenziare che i monasteri greci si collocavano in un’area significativamente contigua alla Calabria e prossima alle vie di comunicazione con essa sul versante ionico o lungo la direttrice verso il Vallo di Diano. A presentare una maggiore densità di presenze monastiche greche era, dunque, l’area compresa nelle «eparchie», o turme, denominate di Lagonegro, Latiniano e Tursi dai rispettivi capoluoghi, al pari di quella adiacente di Mercurio, estesa anche in Calabria. Esse originariamente costituivano altrettante circoscrizioni di una provincia bizantina, identificabile col tema di Longobardia e, almeno in parte e per qualche tempo, col tema di Lucania10. Il che evidenzia la peculiarità di un monachesimo greco che in Basilicata era giunto in epoca bizantina, beneficiando certo del riguardo e sostegno delle autorità imperiali, ma soprattutto irradiandovisi quasi per gemmazione dalle anteriori e più robuste presenze monacali di Sicilia e Calabria. Perciò, nei seguenti secoli di Medioevo, esso seguitava a trarre linfa spirituale e ragioni di sopravvivenza dal tenace rapporto di complementarità con esse. Quindi, a far luce sulla religiosità greca irradiata, trapiantata e vissuta in Basilicata provvedono soprattutto le istituzioni monastiche che vi fiorirono e le relative memorie, nelle quali si riconoscevano nuclei sociali e soprattutto monacali, custodi più o meno trepidi e consapevoli di un’identità spirituale d’ascendenza bizantina. Erano, infatti, nuclei minoritari e vieppiù esigui, ricostituiti ben presto con apporti di provenienza latina. 2. L’ortodossia L’impero bizantino e il patriarcato di Costantinopoli erano rispettivamente l’ambito di realizzazione e il polo di convergenza dell’orto9 S. Parenti, Frate Antonio Rocco di Carbone ed il monastero di S. Adriano, in «Studi sull’Oriente cristiano», IV, 2000 = Miscellanea Metreveli, pp. 87 sgg. Contra Houben, Basilicata, cit., pp. 196-97, n. 75. 10 A. Guillou, Aspetti della civiltà bizantina in Italia. Società e cultura, Bari 1976, pp. 206-23; Burgarella, Le terre bizantine, cit., pp. 483-86; Id., L’eparchia di Mercurio: territorio e insediamenti, in «Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici», n.s. 39, 2002, pp. 59-92.

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dossia, cioè del cristianesimo greco, la cui identità risiedeva sia nella professione del dogma sancito nel Concilio di Calcedonia del 451 e concernente l’unione delle due nature, l’umana e la divina, nella persona storica di Gesù Cristo, sia nell’accettazione del culto delle immagini sacre. Il credo ortodosso riassumeva, quindi, il travaglio dei lunghi secoli durante i quali la cristianità era stata sotto la tutela di Bisanzio e dei suoi basilèis, accogliendo le formulazioni dottrinali stabilite nei primi otto concili ecumenici, dal niceno del 324 al costantinopolitano dell’879-880, ottavo ecumenico per la Chiesa greca11. L’ortodossia era, inoltre, sorta da un processo di differenziamento dalla Chiesa latina sotto il profilo liturgico, organizzativo e normativo: il che trovava legittimazione nei canoni di un concilio costantinopolitano del 691, il Quinisesto o Penthèkte12. Eppure le due Chiese, la greca e la latina, professavano la medesima fede in quel dogma e riconoscevano le formulazioni dottrinali dei successivi concili sia pure con divergenze sul Quinisesto e l’ottavo ecumenico. I papi avevano, infatti, approvato il Quinisesto solo tardivamente e con riserve su taluni canoni e riconosciuto come ottavo ecumenico il concilio costantinopolitano e antifoziano dell’869-870 e non quello filofoziano di dieci anni dopo13. A Bisanzio, d’altronde, vigeva il criterio della corrispondenza tra ordinamenti ecclesiastici e politici, sancito nei canoni conciliari in particolare del Quinisesto e applicato, fin dalla prima metà dell’VIII secolo, nelle province d’Occidente, incluse Sicilia e Calabria. Qui, fin da allora, era stata istituita la Chiesa greca almeno nelle diocesi soggette alla sovranità imperiale mediante la loro subordinazione non più al patriarcato di Roma, bensì al costantinopolitano, a coronamento di una già avviata ellenizzazione di rito e religiosità14. 11 G. Dagron, Il cristianesimo bizantino dal secolo VII alla metà del secolo XI, in G. Dagron, P. Riché, A. Vauchez (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV, Vescovi, monaci e imperatori (610-1054), ed. it. a cura di G. Cracco, Roma 1999, pp. 27-366. 12 Sul concilio, detto anche in Trullo, cfr. ora G. Nedungatt, M. Featherston (a cura di), The Council in Trullo Revisited, «Kanonika», 6, Roma 1995, in particolare l’introduzione di V. Peri, pp. 15-39, e l’edizione del testo greco dei 102 canoni, con traduzione latina e inglese, pp. 41-186. 13 Dagron, Il cristianesimo bizantino, cit., pp. 184 sgg. Su Fozio cfr. ora P.C. Christou, S. Paschalides, Fozio di Costantinopoli, in Bibliotheca Sanctorum Orientalium, vol. I, Roma 1998, cc. 902 sgg. 14 Burgarella, Le terre bizantine, cit., pp. 438-46.

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La disposizione di Niceforo II Foca proseguiva tale politica, tanto più che sostanzialmente comportava l’estensione alla Basilicata della Chiesa greca già istituita in Calabria, sia nell’attuale regione omonima sia nella Calabria antica, cioè Terra d’Otranto e Salento. Perciò alcune diocesi lucane diventavano suffraganee di Otranto, sede episcopale da più di due secoli soggetta al patriarcato di Costantinopoli ed elevata a metropolia per l’occasione. Tuttavia, specialmente a Tursi, la Chiesa greca sorgeva non solo per un atto d’imperio del basilèus, ma anche per il sopraggiungervi di immigrati ellenofoni dalle vicine province bizantine. Sicché quella disposizione imperiale vi secondava la loro opera di spontanei veicolatori della grecità ecclesiastica. Come già in Sicilia e in Calabria, dunque, anche in Basilicata si costituiva una Chiesa greca per identità e rito, sottratta alla giurisdizione del papa in quanto patriarca di Roma e soggetta invece all’obbedienza del patriarca di Costantinopoli, Nuova Roma, sia pur fino al ritorno nella sfera pontificia all’indomani della conquista normanna. Di ciò si ha memoria in qualche elenco di vescovadi greci, che fra le sedi suffraganee di Otranto annovera – come già ricordato – solo Tursi15. Rito e devozioni distinguevano la sia pur esigua Chiesa greca di Basilicata dalla latina, ancor più del vincolo di dipendenza dal lontano patriarca orientale. Benché accomunate dalla fede nei dogmi e nei principi della tradizione ortodossa, le due Chiese divergevano soprattutto in talune consuetudini liturgiche e disciplinari, motivo di reciproche contestazioni e di intralcio a un’ordinata coesistenza. I Greci si attenevano a una diversa disciplina su digiuno e riti, ammettevano le nozze dei preti e usavano, come specie eucaristica, il pane non lievitato in luogo di quello azzimo dei latini. Quindi, sia in Basilicata sia nel territorio adiacente, calabrese o pugliese, di più recente bizantinizzazione e di più risicata coesistenza fra le due componenti ecclesiali, si evidenziava un divario dalle implicazioni concrete e quotidiane16. Ne conseguiva una polemica accesa e assidua fra le due Chiese, tanto più che concorrevano a esasperarla, da un lato, le 15 J. Darrouzès, Notitiae Episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae, «Géographie ecclésiastique de l’Empire Byzantin», Paris 1981, Notitiae 10, p. 333 e 13, p. 370. 16 Cfr. i vari contributi raccolti in S. Palese, G. Locatelli (a cura di), Il Concilio di Bari del 1098. Atti del Convegno storico internazionale e celebrazioni del IX centenario del concilio, «Per la storia della Chiesa di Bari. Studi e materiali», 17, Bari 1999, passim.

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rivendicazioni pontificie delle diocesi soprattutto meridionali annesse nel patriarcato costantinopolitano e, dall’altro, la contestazione greca dell’aggiunta del Filioque alla formula latina del Credo nel punto relativo alla processione dello Spirito Santo. L’originaria formula greca e conciliare recita, infatti, che lo Spirito Santo procede dal Padre, senza l’inserzione latina «e dal Figlio» (Filioque)17. Nel 1054, infine, ne conseguiva il cosiddetto scisma d’Oriente fra papa e Chiesa latina, da un lato, e patriarca di Costantinopoli e Chiesa greca, dall’altro: uno scisma silente e con scarsissime ripercussioni immediate perché limitato ai vertici delle due Chiese in quel momento; uno scisma comunque provocato principalmente dagli attriti insorti fra l’una e l’altra nel Mezzogiorno d’Italia ancora per poco bizantino18. Quanto alle peculiarità liturgiche, nostra principale fonte sono gli eucologi, messali e sacramentari, del monastero di Carbone: il Grottaferrata G. b. IV, il Grottaferrata G. b. X e il Vaticano gr. 2005 rispettivamente della fine del X secolo, degli inizi del successivo e della fine del XII. Se ne arguisce che, nell’ambito di nostro interesse, erano adottate liturgie greche fortemente influenzate all’inizio dalle calabre e poi dalle salentine, quasi a riprova sia della mobilità e osmosi fra la grecità ecclesiale e monacale lucana e quella esterna, sia della ricettività periferica della prima rispetto alla seconda e alle sue componenti più attive nelle aree limitrofe. Perciò, come in tutta l’ecumene ortodossa, la pratica religiosa era ritmata, nel corso dell’anno, dalle tre tradizionali liturgie di san Basilio, san Giovanni Crisostomo e dei presantificati19. Alle quali si aggiungeva – come vedremo – quella di san Pietro, di uso locale. Dal più tardo di quegli eucologi, tràdito dal Vaticano gr. 2005, emerge una tendenza a contaminare con motivi desunti dal rito latino la liturgia di uso più frequente, quella di san Giovanni Crisostomo, soprattutto nell’anafora, la parte principale della celebrazione eucaristica. In ciò si riflette certo una condiscendenza all’ambiente, ormai 17 N. Bux, L’inserzione del «Filioque» nelle liturgie Gallicana e Romana. Un caso di arricchimento del simbolo, ivi, pp. 231 sgg. 18 Dagron, Il cristianesimo bizantino, cit., pp. 355 sgg. Per qualche precisazione cronologica di vicende connesse con lo scisma del 1054 e relative al Mezzogiorno cfr. F. Burgarella, Salerno e Bisanzio, in F. Avagliano (a cura di), Alfano I, Montecassino e Salerno. Atti del III Convegno di studi sul Medioevo meridionale (Salerno, 9-11 aprile 1987), «Miscellanea cassinese», 65, in corso di stampa. 19 A. Jacob, Une date précise pour la l’euchologe de Carbone: 1194-1195, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 62, 1995, pp. 97-114.

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segnato dal ripristino del primato di Chiesa e rito latini; ma non è da escludervi il concomitante intento di adeguare gesti, simboli e riti alla teologia latina. Per la quale, in particolare, la consacrazione delle specie eucaristiche, pane e vino, si compie con la ripetizione delle parole di Gesù nell’ultima cena («Hoc est corpus meum...»), per la Chiesa greca invece con la successiva invocazione allo Spirito Santo, o epiclesi20. Poteva, quindi, esservi l’intento teologico di esaltare la tradizione latina. Forse un analogo intento e certamente l’influenza latina avevano già ispirato la riproposizione in greco della messa di rito romano nella cosiddetta liturgia di san Pietro. Tipicamente italo-greca sebbene nota anche in recensioni slave e armene, tale liturgia aveva ben presto interessato gli ambienti lucani, data la sua trasmissione assieme a quelle tre liturgie in codici affini a quelli della biblioteca del monastero di Carbone. Qui, ancora nel 1581, il monaco Antonio Rocco la copiava nell’Ottoboni gr. 384, secondo dei due volumi di un interessante corpus liturgico. L’anno precedente lo stesso scriba, durante un soggiorno nel monastero calabrese di Sant’Adriano, aveva trascritto le altre tre liturgie di ascendenza orientale o bizantina nel primo volume, il Vaticano gr. 225821. Anche le devozioni, colte nell’aspetto più immediato di culto dei santi, rivelano orizzonti italo-greci e monastici, come illustrano innanzitutto le vite dei santi di più marcato interesse locale. Sono vite, o bioi, pervenuteci in greco o in versione latina e dedicate ai pionieri del locale monachesimo greco, vissuti tra X e XI secolo e tutti profughi dalla Sicilia islamica: Luca da Demenna o di Armento; Vitale da Castronovo; i fratelli Saba e Macario da Collesano e il loro genitore 20 E.G. Farrugia, Epiclesi e Epiclesi eucaristica, la controversia, in Id. (a cura di), Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano, Roma 2000, pp. 270-75. Cfr. inoltre A. Jacob, L’evoluzione dei libri liturgici bizantini in Calabria e Sicilia dall’VIII al XVI secolo, con particolare riguardo ai riti eucaristici, in Calabria bizantina. Vita religiosa e strutture amministrative. Atti del primo e secondo incontro di studi bizantini, Reggio Calabria 1974, pp. 47-69; R.F. Taft, The Frequency of the Eucharist in the Byzantine Usage: History and Practice, in «Studi sull’Oriente cristiano», IV, 2000 = Miscellanea Metreveli, pp. 103-32; A. Nicolotti, Sul metodo per lo studio dei testi liturgici. In margine alla liturgia eucaristica, in «Medioevo greco», numero zero, 2000, pp. 169 sgg. 21 H.W. Codrington, The Liturgy of Saint Peter, «Liturgiegeschichtliche Quellen und Forschungen», 30, Münster 1936, pp. 116 sgg.; cfr. supra, nota 8 e G. Passarelli, L’eucologio cryptense G. b. VII (sec. X), Thessalonike 1982, passim.

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Cristoforo. Esse, nelle vicende biografiche e spirituali dei singoli personaggi, conservano memoria delle radici greco-sicule del locale monachesimo greco, della sua complementarità con quello delle regioni confinanti e della sua capacità di irradiare e trapiantare la religiosità e la spiritualità ortodosse, temprate dall’esperienza sicula, in nuovi ambiti e fra nuovi seguaci22. Analogamente vale per i vocaboli di chiese e monasteri. Dedicato sia pur in momenti diversi ai santi Elia e Anastasio, il monastero di Carbone richiama due modelli di ascetismo: nel primo santo il profeta, prototipo dell’anacoreta e titolare di parecchi monasteri e chiese in Calabria, e nel secondo il monaco e martire persiano, venerato negli ambienti romani di tradizione greca23. In san Filippo, a cui sono consacrati chiese o monasteri a Lagonegro e a Teana, è da vedere piuttosto l’omonimo santo siculo-greco, fondatore del monastero d’Agira, nei pressi di Enna, dal quale nel X-XI secolo provenivano quei pionieri del monachesimo greco in Basilicata24. Qui significativamente l’età bizantina si chiudeva in concomitanza col pellegrinaggio in Terrasanta dell’igumeno del monastero di Carbone, Luca, che, prima di partire nel 1058-59, nominava suo vicario il fratello Biagio, destinato a succedergli25. Un pellegrinaggio, questo, probabilmente favorito dalla presenza amalfitana a Gerusalemme e dalla distensione fra Bisanzio e i califfi fatimiti, certamente intrapreso all’indomani della ricostruzione della basiliche del Santo Sepolcro ad opera dei basilèis26. Vuole la posteriore tradizione del Cfr. infra, note 31-42. P. Sfair, Anastasio Magudant, in Bibliotheca Sanctorum, vol. I, Roma 1961, cc. 1054-56. 24 C. Pasini, La vita di S. Filippo d’Agira attribuita al monaco Eusebio, «Orientalia Christiana Analecta», 214, Roma 1981, pp. 11 sgg.; Burgarella, Chiese d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 202-15. 25 G. Robinson, History and Cartulary of the Greeck Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, «Orientalia Christiana», XV, 2, vol. II/1, Roma 1929, n. VII-56, pp. 166-70; von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., pp. 67 sg. 26 A.P. Kazhdan (a cura di), The Oxford Dictionary of Byzantium, Oxford 1991, s. v. Jerusalem, p. 1035; G. Troupeau, Chiese e cristiani nell’Oriente musulmano, in Dagron, Riché, Vauchez (a cura di), Storia del Cristianesimo, vol. IV, cit., pp. 414 sg.; V. von Falkenhausen, Il commercio di Amalfi con Costantinopoli e il Levante nel secolo XII, in O. Banti (a cura di), Amalfi Genova Pisa e Venezia. Il commercio con Costantinopoli e il vicino Oriente nel secolo XII, «Biblioteca Storia Pisana. Biblioteca del Bollettino Storico Pisano. Collana storica», 46, Pisa 1998, pp. 19 sgg. 22 23

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monastero ch’egli abbia fatto ritorno con le reliquie del corpo di santa Maria egiziaca e della testa di san Giovanni elemosiniere, da lui stesso deposte nella cappella dei Santi Luca e Biagio di sua fondazione e probabilmente annessa a un ospedale27. La cappella era certamente consacrata ai santi omonimi dei due primi igumeni di Carbone, Luca Carvuni, vissuto nella seconda metà del X secolo in quanto discepolo di Saba da Collesano, e Biagio, il cui protettore, annoverato tra i santi medici, ben conveniva alla denominazione di un centro di cura. La traslazione delle due insigni reliquie vale, in ogni caso, come ulteriore testimonianza del fervore della religiosità ortodossa trapiantata in terra lucana. 3. Il monachesimo Il monachesimo derivava da un ideale di perfezione cristiana: dalla convinzione che via privilegiata, se non esclusiva, per il conseguimento della salvezza eterna fosse la rinuncia del mondo. Una convinzione peculiare della mentalità cristiana del Medioevo, specialmente tra i Bizantini sia della capitale sia delle province. Nel Mezzogiorno medievale esso perciò costituiva la componente più dinamica e rappresentativa dell’ortodossia, la quale anzi da esso mutuava ragioni e forme di una presenza al di fuori dei confini bizantini e di una persistenza ben oltre il periodo di dominazione imperiale. Ciò risulta evidente soprattutto in Basilicata, ove l’esigua ed effimera presenza della Chiesa greca era compensata e surrogata da insediamenti monastici più estesi e duraturi. Distinzione e autonomia dall’apparato ecclesiastico ordinario erano, infatti, connaturate al monachesimo greco, capace per questo di ambientarsi in terra lucana. Qui, del resto, nelle sue file solo all’inizio prevalevano esponenti della società meridionale di lingua e cultura greche, poiché ben presto cominciarono ad affluirvi anche quelli di estrazione latina. A ispirarlo era la tradizione della spiritualità orientale e greca; a caratterizzarlo provvedevano le pratiche ascetiche già da 27 Acta Sanctorum Aprilis, I, Parisiis et Romae 1866, p. 72, c. 22; Robinson, History and Cartulary, cit., n. VII-56, p. 167. Cfr. J.-M. Sauget, Maria Egiziaca, in Bibliotheca Sanctorum, vol. VIII, Roma 1967, cc. 981-91; Id., Giovanni l’Elemosiniere, ivi, vol. VI, Roma 1966, cc. 750-56.

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tempo in uso in Sicilia o Calabria; a organizzarlo si prestava la disciplina suggerita da san Basilio di Cesarea (IV secolo) e da san Teodoro Studita (VIII-IX secolo)28. In Basilicata il monachesimo italo-greco giungeva tra X e XI secolo, al culmine di un processo di sviluppo e di diffusione in tutto il Mezzogiorno e grazie alla varietà e duttilità delle sue forme ascetiche e organizzative. Fra le quali risaltavano le eremitiche o anacoretiche, adottate da quanti prediligevano il ritiro dal mondo e la vita solitaria, e le esicastiche, caratterizzate da un eremitismo mitigato con asceti dediti alla hesychìa, alla quiete della contemplazione, insieme con qualche altro confratello, mentre le cenobitiche comportavano la vita comunitaria in un monastero. Tali forme corrispondevano ad altrettanti stati di vita spirituale e di pratica ascetica, indicati nella Scala Paradisi di san Giovanni Climaco (VII secolo), ed erano aperte in quanto alternabili29. Sebbene il monaco preferisse per vocazione le forme eremitiche o esicastiche, ritenute più consone al suo ideale di perfezione, la legge civile ed ecclesiastica favoriva il cenobitismo in quanto più adatto a disciplinare tendenze individuali alla fuga dal consorzio umano ed ecclesiale, e imponeva un modello di organizzazione interna sotto l’autorità spirituale e temporale dell’igumeno, omologo dell’abate latino. Perciò il monaco normalmente abbracciava lo stato cenobitico con facoltà di passare, poi, a quello eremitico o esicastico previa autorizzazione dell’igumeno e dopo un noviziato in comunità di almeno tre anni. Così peraltro stabiliva il canone 41 del ricordato concilio Quinisesto30. I padri fondatori del monachesimo greco nella regione sono ben noti, grazie alle loro vite, o bioi, che ne evidenziano l’origine sicu-

28 S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, «Istituto italiano per gli studi storici», 14, Napoli 1963, passim; B. Cappelli, Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani, Napoli 1963, passim; Burgarella, Aspetti del monachesimo greco nella Calabria bizantina, cit., pp. 57-61; E. Morini, Monachesimo greco in Calabria. Aspetti organizzativi e linee di spiritualità, «Quaderni della Rivista di studi bizantini e slavi», 15, 1996, pp. 7 sgg. 29 A. Pertusi, Aspetti organizzativi e culturali dell’ambiente monacale greco dell’Italia meridionale, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto-6 settembre 1962, Milano 1965, pp. 382 sgg. 30 Nedungatt, Featherston (a cura di), The Council in Trullo, cit., pp. 121-23.

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la. Si collocano nel secolo X san Vitale da Castronovo, fondatore di monasteri a San Chirico Raparo, a Turri presso Guardia Perticara e a Rapolla31, e san Luca da Demenna, già alla sequela di sant’Elia lo Speleota e fondatore dei monasteri di San Pietro a Noa, o Noepoli, di San Giuliano sulle rive del fiume Agri e della Vergine e di San Pietro Apostolo ad Armento, sui monti tra Agri e Sauro32. Entrambi proseguivano l’opera di san Leone Luca da Corleone, vissuto tra IX e X secolo e artefice dell’espansione del monachesimo greco fino ai confini della Calabria con la Basilicata33. E qui san Vitale lo trapiantava entrandovi da Petra Roseti, Roseto Capo Spulico, e avvalendosi poi anche del favore del catepano, Basilio, benefattore del monastero di Turri con l’invio da Bari di icone e vasi liturgici34. Ci sfugge, però, se questi doni siano gli stessi che, nel 1032, insieme con Bibbia, libri e paramenti liturgici da due monaci di Turri sarebbero stati portati nella chiesa di Santa Maria Nea nel contado di Bari35. Quanto a san Luca da Demenna, il suo impegno per il radicamento del monachesimo greco ad Armento fu tale da fortificarvi il già ricordato monastero della Beatissima Vergine Maria e di San Pietro Apostolo e da difenderlo vittoriosamente tra il 976 e il 982 dagli 31 Vita di san Vitale, in Acta Sanctorum Martii, II, Parisiis et Romae 1865, pp. *26-*35. Cfr. A. Acconcia Longo, Santi monaci italogreci alle origini del monastero di S. Elia di Carbone, in Fonseca, Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia, cit., pp. 47-60 (anche in «Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata», nuova serie XLIX-L, 1995-96, pp. 131 sgg.); S. Caruso, Sulla cronologia del «dies natalis» di S. Vitale da Castronovo di Sicilia, in «Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata», nuova serie LII, 1998, pp. 117-39. 32 Vita di san Luca di Armento, già erroneamente identificato col fondatore di Carbone, Luca Carvuni, in Acta Sanctorum Octobris, VI, Parisiis et Romae 1868, pp. 332-42. Cfr. Acconcia Longo, Santi monaci italogreci, cit., pp. 52 sg.; S. Caruso, Sicilia e Calabria nell’agiografia italo-greca, in S. Lenza (a cura di), Calabria cristiana. Società, religione, cultura nel territorio della diocesi di Oppido M.-Palmi, vol. I, Soveria Mannelli 1999, pp. 578 sgg. 33 M. Stelladoro (a cura di), La vita di San Leone Luca di Corleone, Grottaferrata 1995, pp. 11 sgg. 34 Vita di san Vitale, cit., p. 29. Cfr. Caruso, Sulla cronologia del «dies natalis», cit., pp. 122 sgg., ove nel catepano si ravvisa non più Basilio Boioannes, secondo l’identificazione finora prevalente, bensì Basilio Mesardonites, mentre si colloca la morte del santo nel 1011. 35 Codice diplomatico barese, Le pergamene del Duomo di Bari (925-1264), a cura di G.B. Nitto de Rossi, F. Nitti di Vito, vol. I, Bari 1897, p. 31, n. 18. Cfr. P. Dalena, Istituzioni religiose e quadri ambientali nel Mezzogiorno medievale, Cosenza 1997, p. 25.

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invasori saraceni, ponendosi al comando di un manipolo di monaci armati. Egli, con le stesse mani, provvedeva all’edificazione o al restauro di chiese, come quella del martire Laverio. A dargli rincalzo sopraggiunse la sorella Caterina, ormai vedova, con i due figli, Antonio e Teodoro: profughi dalla Sicilia islamica, tutti e tre presero l’abito monastico. Con lei, anzi, giungeva pure il monachesimo greco femminile, come ben illustra la sua fondazione di un monastero di vergini dedicato alla Theotòkos e in stretto collegamento col ramo maschile istituito dal fratello36. Delle due vite ora richiamate si è conservata solo la versione latina, redatta forse negli stessi ambienti e anni indicati nella traduzione del bios di san Vitale, eseguita nel luglio 1194 per volere di Roberto, vescovo di Tricarico. Pertanto l’originale greco, al pari di quello del complementare e ugualmente tradotto bios di san Leone Luca da Corleone, scompariva verosimilmente perché soppiantato dalla traduzione, documento sia del persistere della memoria e del culto dei due santi ancora in epoca normanna, sia del prevalere dell’elemento latino tra gli stessi monaci delle superstiti istituzioni di tradizione greca37. Ci sono invece pervenuti nell’originale greco il bios di san Saba da Collesano e quello, più breve, di suo padre Cristoforo e di suo fratello Macario, forse per non aver avuto una traduzione latina, certamente perché conservati nella biblioteca del monastero di Carbone, fondato da un discepolo di Saba, Luca Carvuni, e ove più tenace era la tradizione greca. Entrambe le vite sono opera di un insigne agiografo, Oreste, ben noto come patriarca melchita di Gerusalemme e per i rapporti personali con Saba e Macario38. Esse illustrano la coesione spirituale della famiglia formata dai genitori Cristoforo e Calì, dai figli Saba e Macario: tutti alla sequela del capofamiglia, fattosi monaco a San Filippo d’Agira, dedito poi all’eremitismo esicastico e imitato ben presto da moglie e figli. Profughi dalla Sicilia islamica, essi fondarono 36 Vita di san Luca, cit., pp. 340 sg. Cfr. Acconcia Longo, Santi monaci italogreci, cit., pp. 49 sgg. 37 S. Caruso, Una sorta di «confronto all’americana» ante litteram nel «Bìos» di S. Elia Speleota da Reggio (BHG 581), in «Pan. Studi del Dipartimento di civiltà euro-mediterranee e di studi classici, cristiani, bizantini, medievali, umanistici», XVIII-XIX, 2001 = Miscellanea di studi in memoria di Cataldo Roccaro, p. 100, nota 32; Id., Sulla cronologia del «dies natalis», cit., pp. 117 sgg. 38 Historia et laudes SS. Sabae et Macarii iuniorum e Sicilia auctore Oreste patriarcha Hierosolymitano, a cura di I. Cozza-Luzi, Roma 1893, pp. 5 sgg.; Burgarella, Chiese d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 203 sgg.

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vari monasteri tra Calabria e Basilicata – dal fiume Lao al Sinni e all’Agri, ovvero nelle eparchie di Mercurio, di Lagonegro e di Latiniano –, oltre che a Vietri, vicino a Salerno. Tali monasteri contemperavano le forme eremitiche ed esicastiche con le cenobitiche, per integrare i numerosi discepoli di san Saba nel sistema organizzativo e spirituale del monachesimo greco. E quasi costituivano una sorta di congregazione con a capo, in successione, Cristoforo, Saba e Macario. Casa madre ne era il monastero di residenza del santo e, dopo la sua morte a Roma il 6 febbraio 990, del fratello e successore Macario. Pare che, almeno per qualche tempo, la casa madre si trovasse a Vietri, essendovisi Saba trasferito nel 986 e avendovi Macario soggiornato nei dieci anni di igumenato e fino alla morte nel 1000. Altrettanto avveniva per i monasteri facenti capo a san Luca da Demenna e al suo monastero di Armento39. Le varie testimonianze agiografiche presentano il nascente monachesimo greco di Basilicata come una filiazione di quello siculo, poiché ne sono pionieri monaci accomunati dalla provenienza dal già ricordato monastero di San Filippo d’Agira e iniziati alle pratiche ascetiche che vi si praticavano. Fra le quali risalta quella della nudità integrale, dell’esposizione al freddo o al caldo e perfino dell’immersione nell’acqua gelata o corrente: un esercizio volto, secondo la spiritualità orientale, non solo a preservare l’asceta dalle tentazioni, ma anche a restituirgli la condizione di Adamo, nudo prima del peccato originale. Provetto cultore ne fu, in particolare, san Vitale da Castronovo per averlo sperimentato, insieme con la dieta a base di erbe e acqua, sull’Etna da eremita in collegamento col monastero di San Filippo d’Agira. Seguitò a praticarlo abitualmente in Basilicata, ovunque si trovasse: ignudo, digiuno e salmodiante, vagava di giorno sui monti e tra i boschi, mentre di notte si immergeva fino al mento in un lago non lontano da San Chirico Raparo o nell’acqua corrente di un fiume vicino a Rapolla40. Pare che il lago abbia da lui preso il nome a ricordo di tali immersioni41. Le sue abitudini richiamano, in ogni caso, gli ammaestramenti di san Fantino il Giovane che, nella prima metà del 39 Burgarella, Salerno e Bisanzio, cit.; Morini, Monachesimo greco in Calabria, cit., pp. 21-23. 40 Vita di san Vitale, cit., pp. 27, 30, 32. 41 F. Russo, Vitale da Castronuovo, in Bibliotheca Sanctorum, vol. XII, Roma 1969, cc. 1218 sg.

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X secolo e nell’adiacente eparchia mercuriense, aveva imposto a se stesso e ai suoi discepoli l’esercizio della nudità integrale in segno di povertà assoluta. Un esercizio, questo, proposto nell’attesa apocalittica suscitata in lui da una sconvolgente visione dell’aldilà e destinato a ulteriore fortuna tra gli asceti greci del Mezzogiorno e del Monte Athos42. Da quelle vite emergono l’identità e la vocazione del monaco greco, che gli stessi principi e schemi della spiritualità orientale votavano, a un tempo, all’esperienza interiore della contemplazione e dell’ascesi e al rapporto assiduo con la realtà circostante e il lavoro. Non vi era, quindi, fuga dal mondo: se san Luca da Demenna o di Armento si fece guerriero, san Saba quasi negli stessi anni si rivelò prudente ambasciatore presso la corte romana degli Ottoni. Il lavoro manuale era d’obbligo: come vi era chi copiava manoscritti, così vi era chi con le sue mani costruiva o restaurava chiese, coltivava campi e bonificava terre incolte o boschive. Tuttavia, la rete delle presenze monastiche era più ampia di quella nota grazie a quei testi agiografici, tanto più che i rispettivi protagonisti contavano discepoli ed emuli, fondatori a loro volta di istituzioni più o meno minute. Tale era, a mio avviso, il caso di quel Beniamino, monaco fondatore del monastero di San Basilio detto appunto di Beniamino e sito vicino a Teana. Postosi alla sequela di san Saba, costui gli lasciò il monastero, aggregato perciò a quello di San Lorenzo già appartenente al santo. San Basilio di Beniamino fu assegnato, quindi, a Cosma, identificabile con un altro discepolo del medesimo santo, se non col compagno che lo aveva seguito fino ad Atrani, vicino a Salerno. E nel 1006-1007 Cosma lo lasciò, a sua volta, a due monaci forse del monastero di San Filippo43. Un più chiaro esempio offre il monastero di Carbone, il cui fondatore ed eponimo, Luca Carvuni, fu discepolo di san Saba e da lui 42 E. Follieri (a cura di), La vita di San Fantino il Giovane, «Subsidia hagiographica», 77, Bruxelles 1993, pp. 27 sg., 432 sgg., 114 sgg. Cfr. F. Burgarella, San Francesco e il santo folle dell’agiografia bizantina, in F.E. Consolino (a cura di), Francesco d’Assisi fra storia, letteratura e iconografia, Soveria Mannelli 1996, pp. 94 sgg.; F. Burgarella, Castrovillari dai Bizantini ai Normanni, in F. Burgarella, A. Guillou, Castrovillari nei documenti greci del Medioevo, a cura di L. Di Vasto, Castrovillari 2000, pp. 50 sgg. 43 Così interpreta Robinson, History and Cartulary, cit., n. I-51, pp. 133-37. Ma cfr. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., pp. 64 sg. Cfr. inoltre Burgarella, Salerno e Bisanzio, cit., n. 112.

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ricevette l’abito monastico. Suoi successori furono gli igumeni Biagio, Mena, fatto prigioniero dai Saraceni, Teofanio, in religione Teodulo, Luca, già ricordato come pellegrino a Gerusalemme, e Biagio: a loro si deve, tra IX e XI secolo, il consolidamento dell’istituzione, rivelatasi ben presto idonea ad accogliere l’eredità spirituale e materiale del santo e dei suoi congiunti44. Il monastero di Sant’Anastasio avocava verosimilmente tale eredità, una volta venuta meno, con la scomparsa di Macario, la superiore funzione coordinatrice della casa madre nei pressi di Salerno. In ambito lucano, in ogni caso, il monachesimo greco attecchiva certamente per il suo intrinseco dinamismo e la coerenza dei suoi richiami spirituali con gli orizzonti dell’ortodossia, ma anche per la realistica duttilità dei suoi moduli organizzativi, compatibili con l’esigenza di contadini e di piccoli proprietari di abbracciare lo stato monacale senza perdere i diritti di patronato o di possesso su chiese, monasteri e beni. Ne conseguiva l’originalità di un monachesimo a fortissima coesione familiare e con trasmissione privatistica dei beni e perfino dell’igumenato ai discendenti diretti o agli eredi designati. Giova qui fare un esempio, quanto mai significativo al riguardo, anche perché risale al 1050 e contiene, giusto alla vigilia dello scisma d’Oriente e a conquista normanna già avviata, una professione di fede ortodossa e di lealtà al patriarca costantinopolitano e al basilèus, cioè a Michele Cerulario (1042-58) e a Costantino IX Monomaco (1042-55), entrambi protagonisti dello scisma. Infatti, il defunto igumeno di Santa Maria di Cersosimo, Teodoro, lasciò per testamento l’igumenato, il monastero e i relativi beni a Teofilatto, che era anche prete e poté insediarsi solo dopo la rinuncia ufficiale alla successione da parte del fratello dello scomparso, Luca. Questi, nella chiesa «archimandritale» di San Nicola e al cospetto del clero e dei notabili lì convenuti, dichiarava la propria ortodossia e la propria obbedienza a imperatore e patriarca, oltre che al vescovo di Tursi, Michele; dichiarava poi la propria inabilità di anziano a succedere al fratello e ne riconosceva erede il nuovo igumeno, che era tenuto a sostentarlo secondo le clausole testamentarie45.

Von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., pp. 66 sgg. F. Trinchera, Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1865, pp. 45 sgg., doc. XXXVII. 44 45

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Quasi in deroga alle norme civili ed ecclesiastiche, era consentito ai monaci il possesso di beni: si trattava, in fondo, di un accorgimento rivelatosi atto a dare stabilità e persistenza alle istituzioni, a prevenirne il dissolvimento, come spesso si verificava una volta venuto meno il carisma del fondatore. Altrettanto avveniva in Calabria, specialmente nella complementare area lungo il confine lucano. Né una simile formula era ignota in altre parti del mondo bizantino, come risulta in particolare per il Monte Athos46. L’eredità spirituale e religiosa bizantina venne, quindi, preservata. Valsero non a dissolverla ma a limitarne gli ambiti territoriali e sociali la transizione dai Bizantini ai Normanni e il rapido processo di latinizzazione. La transizione fu rovinosa al punto che il monastero di Sant’Andrea di Calvera, per il suo stato di desolazione, dai legittimi proprietari fu donato alla badia di Cava nel 1052-5347, mentre da un analogo stato di abbandono quello di Carbone usciva grazie all’attività di ricostruzione intrapresa dall’igumeno Luca prima del pellegrinaggio in Terrasanta48. Egli poté, infatti, reintegrare le file esauste dei monaci con nuovi elementi e costruire un monastero e una chiesa dedicata a san Michele arcangelo grazie al contributo degli abitanti di Battifarano, o Castronuovo, tutti quanti solidali, dai notabili al clero al popolo minuto. Ne proseguì l’opera il fratello e successore, Biagio, dalla tradizione posteriore presentato come il vero fondatore del monastero: e ciò perché gli riuscì di collegarlo con i nuovi signori feudali, specialmente i Chiaromonte, e di consolidarlo con la loro munifica protezione. La rinascita proseguiva con le donazioni ricevute sotto Nilo, igumeno nella prima metà del XII secolo, e relative al ponte sull’Agri, detto

46 A. Guillou, La classe dei monaci-proprietari nell’Italia bizantina (secc. X-XI). Economia e diritto canonico, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», LXXXII, 1970, pp. 159 sgg. (= Id., Culture et société en Italie byzantine, VIe-XIe s., London 1978, XI; trad. it. in Id., Aspetti della civiltà bizantina, cit.). Cfr. il testamento di Luca, igumeno del monastero di San Giovanni Prodromo sull’Athos: J. Lefort, N. Oikonomidès, D. Papachryssantou, con la collaborazione di H. Métréveli (a cura di), Actes d’Iviron, vol. I, «Archives de l’Athos», XIV, Paris 1985, pp. 233 sgg., n. 25 e 1136. 47 Trinchera, Syllabus, cit., pp. 49 sg., doc. XL; L. Mattei-Cerasoli, La badia di Cava e i monasteri greci della Calabria superiore, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, pp. 168 sgg. 48 Cfr. supra, nota 24.

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di Policoro, con l’annessa chiesa di Santa Maria e la chiesa di Santa Maria di Scanzano, sita alla foce del fiume Cavone49. Al culmine della rinascita il monastero fino ad allora di Sant’Anastasio aggiungeva il vocabolo di Sant’Elia, destinato a prevalere. E il suo igumeno diveniva archimandrita per concessione forse del re normanno Ruggero II. Il primo archimandrita fu Luca, che nel 1154 si fregiava del nuovo titolo, connesso con la preminenza sui superstiti monasteri greci della regione. Veniva così istituito un archimandridato sul modello di quello del San Salvatore in lingua phari di Messina, dal quale dipendevano parecchi monasteri greci in Sicilia e Calabria50. Ciò si inscriveva nella politica normanna volta a rivitalizzare le sparse presenze monastiche greche – ancora maggioritarie tra Sicilia e Calabria, minoritarie invece in Basilicata – sotto l’egida dei principali monasteri, fra i quali, oltre a quei due di rango archimandritale, San Giovanni Terista di Stilo e Santa Maria la Nuova Odigitria di Rossano51. All’origine di tale riforma vi era l’intento di instaurare un più diretto controllo regio sulle varie comunità di monaci greci, vincolate a una dipendenza giurisdizionale, se non soltanto spirituale o patrimoniale, al monastero o all’archimandridato di riferimento. Il che comportava, nel 1181, la sottomissione di Carbone all’arcivescovo abate di Monreale, titolare di una sede eminentemente regia, e non più al vescovo di Anglona, erede del presule greco di Tursi52. Forse vi era anche l’intento di un ideale ritorno alle origini, segnate dalla preminenza carismatica del santo fondatore e dei suoi immediati successori su una pluralità di asceteri e monasteri. Tuttavia ne conseguiva, specialmente per Carbone, l’omologazione del superstite monachesimo greco a una congregazione intesa alla maniera latina. A ciò, d’altra parte, portava la pressoché completa uniformità cenobitica delle dipendenze dell’archimandridato a dispetto dell’originaria varietà delle forme spirituali e organizzative. A ciò, inoltre, spingeva la provenienza degli stessi monaci dalla circostante società latina. Appena un secolo dopo la fine della dominazione bizantina, parte dei monaci era di lingua latina, pur professando una regola ispirata ai precetti di san Basilio e alla tradizione monastica italo-greca. Così leggiamo nel testo greco del privilegio bilingue, perché emanato anche in Von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., pp. 68-87. Ivi, pp. 83 sgg. 51 Morini, Monachesimo greco in Calabria, cit., p. 90. 52 Von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., pp. 86 sg. 49 50

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latino, nel gennaio 1168, da Guglielmo I, re di Sicilia, per Bartolomeo, neoarchimandrita di Carbone. Il diploma regio rivela intenti di integrale ripristino della tradizione monacale basiliana e di risollevamento della vita spirituale di monaci girovaghi e indolenti53. Se il monastero di Carbone rimaneva in quegli stessi anni focolare di tale tradizione e della lingua greca grazie ad apporti esterni, prima calabresi e poi salentini, come suggerisce il già ricordato eucologio tràdito dal Vaticano gr. 2005, altrove la situazione era diversa. La traduzione delle vite di san Vitale da Castronovo, di san Luca da Demenna o di Armento e di san Leone Luca da Corleone era utile non solo a vescovi e fedeli di rito latino, ma anche agli stessi monaci dei monasteri che di quei santi perpetuavano culto e memoria. Già nella seconda metà del XII secolo, dunque, vi erano condizioni analoghe o anticipatrici di quelle descritte, tre secoli dopo, dal cardinale Bessarione. Questi preparava allora un florilegio dei precetti ascetici di san Basilio di Cesarea per i monaci di Sicilia e Italia inquadrati in quello che ormai costituiva l’ordine basiliano. Lo completava con un prologo in cui spiegava l’oblio del testo basiliano tra quei monaci «con la loro ignoranza del greco, dato che sono in maggioranza latini e figli di latini, alla loro incapacità di leggere il greco o di leggerlo senza errori e con piena comprensione delle parole». Anche questo piccolo catechismo monastico veniva tradotto in latino54. Esso documenta, in ogni caso, l’intento di Bessarione e dei papi di ridare linfa e slancio a quel che, in pieno XV secolo, restava del monachesimo greco, restituendolo allo spirito e alla vocazione originari. Per ridestarlo nel 1446 si tenne a Roma un capitolo generale presieduto da papa Eugenio IV e con la partecipazione dello stesso Bessarione e di tutti gli archimandriti. Il capitolo, i cui statuti furono redatti in italiano, preludeva a capitoli provinciali. Perciò, tra il 1446 e il 1447, si tenne nel monastero di San Basilio Craterete, vicino a Castrovillari, il capitolo degli igumeni e archimandriti di Calabria, Basilicata e Campania, con ulteriori disposizioni di riforma in vista soprattutto di un 53 Ivi, pp. 82 sg. e 86; Robinson, History and Cartulary, cit., n. XLVI-94, pp. 69-73; W. Holtzmann, Papst- Kaiser- und Normannen-urkunden aus Unteritalien, in «Quellen und Forschungen aus Italinienischen Archiven und Bibliotheken», XXXVI, 1956, pp. 67 sgg. 54 M.-H. Laurent, A. Guillou, Le «Liber Visitationis» d’Athanase Chalkéopoulos (1457-1458), «Studi e testi», 206, Città del Vaticano 1960, p. xliii.

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risanamento dei costumi più che di recupero dell’originaria identità culturale greca55. Ne conseguì, nel 1457-58, la visita di tutti i monasteri greci del Mezzogiorno peninsulare per disposizione del medesimo cardinale e ad opera di Atanasio Calceopulo, costantinopolitano, già monaco dell’Athos e allora archimandrita del monastero del Patir, e di Macario, archimandrita del monastero di San Bartolomeo di Trigona. Ai due visitatori, nel corso dell’ispezione fatta a Carbone, non restò che prendere atto del degrado morale dei pochi monaci e inventariare i libri e gli oggetti liturgici, ormai mute reliquie di un illustre passato56. 55 A. Guillou, Moines grecs marginaux de Calabre (XVe s.), in D. Simon (a cura di), Religiöse Devianz. Untersuchungen zu sozialen, rechtlichen und theologischen Reaktionen auf religiöse Abweichung im westlichen und östlichen Mittelalter, Frank­furt am Main 1990, pp. 79-96. 56 Laurent, Guillou, Le «Liber Visitationis», cit., pp. 152-58.

IMMIGRAZIONI ALBANESI TRA BASSO MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA di Pietro De Leo Anche la Basilicata, come le contigue regioni di Puglia, Calabria e Molise, conserva significative presenze delle immigrazioni albanesi, che nella seconda metà del XV secolo si infittirono in seguito all’invasione ottomana e alla caduta di Scutari (1477) riversandosi nel Mezzogiorno d’Italia e in particolare nel regno di Napoli1. La storiografia contemporanea ha posto in evidenza la «preistoria» dei flussi migratori dai Balcani all’Italia meridionale, a partire dall’alto Medioevo, e ha fornito elementi chiarificatori assai utili per decifrare compiutamente un fenomeno, che ha avuto ulteriori conferme negli accadimenti recentissimi, sia per quanto riguarda la precarietà delle traversate, sia per la rilevante consistenza numerica dei profughi2. Dalla documentazione superstite sappiamo che passaggi sporadici di gruppi di epiroti in Italia erano avvenuti certamente prima dell’invasione ottomana, e precisamente nel 1272, anno in cui Carlo I d’Angiò assunse il titolo di re d’Albania, nel 1388 e nel 1393. Altri nuclei 1 Un’essenziale rassegna storiografica sulle immigrazioni è fornita da A. Pellettieri, Gli insediamenti albanesi nel territorio del Regno di Napoli tra XV e XVIII secolo: convivenza ed integrazione, in «Università degli studi della Basilicata. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1992-1993», 1995, pp. 233-57. Per la Basilicata, in particolare, cfr. pp. 238-41. Cfr. ora anche P. Petta, Despoti d’Epiro e principi di Macedonia: esuli albanesi nell’Italia del Rinascimento, Lecce 2000. 2 Cfr. P. De Leo, La «preistoria» degli insediamenti albanesi in Italia, in Le minoranze etniche e linguistiche. Atti del 2° Congresso Internazionale. Piana degli Albanesi, 7-11 settembre 1988, Palermo 1989, pp. 75-81. Per i risvolti delle recenti immigrazioni cfr. P. Resta, Un popolo in cammino. Migrazioni albanesi in Italia, Lecce 1996.

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si erano stanziati principalmente in Puglia, ma anche in Calabria e in Sicilia, nei feudi che Scanderbeg e gli altri condottieri albanesi avevano ottenuto, soprattutto nelle regioni rivierasche del regno di Napoli, da Alfonso I d’Aragona, in cambio dell’aiuto militare che gli avevano prestato durante le ricorrenti lotte contro i baroni ribelli locali3. Gli immigrati albanesi si costituirono in «colonie» di contadini e di soldati, alle quali venne riconosciuta autonomia amministrativa; fu, infatti, concesso loro di ripopolare o fondare nuovi villaggi, dopo aver stipulato favorevoli «capitoli» con i feudatari del luogo, o di inserirsi anche con i loro nuclei familiari all’interno di città, terre e casali: in tal caso chiaramente più esposti all’omologazione con le popolazioni locali4. A ben vedere, gli insediamenti lucani più significativi interessarono in prevalenza le falde del Vulture, a nord della regione, e avvennero in località profondamente segnate dal terremoto del 14565, dove feudatari sagaci e intelligenti, come il duca di Melfi Giovanni Caracciolo6, in presenza di un diffuso degrado di alcuni casali loro soggetti, dovuto soprattutto al calo demografico che dal XIV secolo si estese sino agli inizi del XVI, ebbero l’accortezza di favorire con il consenso di Alfonso I d’Aragona l’ospitalità ai «cristiani di Albania», in fuga dalla loro terra «per sfuggire ai Turchi»7. 3 Cfr. G.M. Monti, La storia dell’Albania e le sue fonti napoletane, in «Studi albanesi», I, 1931, pp. 1 sgg. 4 Emblematici a tale riguardo sono i capitoli stipulati in Calabria: cfr. P. De Leo, Mezzogiorno medievale: istituzioni, società, mentalità, Soveria Mannelli 1984, pp. 195-217; Id., Le immigrazioni dal tardo medioevo all’età moderna, in Id. (a cura di), Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Cava dei Tirreni 1988, pp. 148-50 (capitoli di Acquaformosa). Per la conservazione dell’etnia cfr. F. Altimari, M. Bolognari, P. Carrozza, L’esilio della parola. La minoranza linguistica albanese. Profili storico-letterari, antropologici e giuridico-istituzionali, Pisa 1986. 5 A Ginestra, fino a tutti gli anni Cinquanta, tale evento era ricordato nell’usanza del cosiddetto «secondo terremoto del 1456». Sulle conseguenze demografiche e sociali di quel sisma cfr. B. Figliuolo, Il terremoto del 1456, 2 voll., Altavilla Silentina 1988-89. Per la Basilicata non mancano adeguati riscontri, nonostante la carenza di fonti, cfr. vol. I, pp. 72-73, ma il campo macrosismico di Magri e Molin ivi segnalato (cfr. anche G. Magri, D. Molin, Il terremoto del dicembre 1456 nell’Appennino centro-meridionale, Roma 1984) traccia con evidenza l’estensione del terremoto nella zona del Vulture. Le località maggiormente interessate sono Atella (vol. II, p. 58, n. 15), Melfi (vol. II, pp. 102-103, n. 96), Monticchio (vol. II, p. 107, n. 167), Venosa (vol. II, p. 157, n. 157). 6 Cfr. G. Vitale, La vita economica di Melfi ed Atella alla fine del XV secolo, in «Atti della Accademia Pontaniana», nuova serie XVII, 1967-68, pp. 73-76. 7 Cfr. De Leo, Le immigrazioni dal tardo medioevo, cit., pp. 152-53.

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Anche oggi le comunità italo-albanesi della Basilicata si trovano dislocate in provincia di Potenza, nei minuscoli centri collinari di Barile, Ginestra (già Massa Lombarda) e Maschito, sedi parrocchiali delle antiche diocesi di Melfi e Rapolla. Ma va precisato che sin dalla seconda metà del XV secolo famiglie epirote sono parimenti segnalate a Melfi, Venosa, Atella, Lavello, Ripacandida, Brindisi di Montagna8 e Rionero in Vulture9, dove erano state destinate da Ferdinando I d’Aragona. Nuclei albanesi e serbo-croati sono documentati a Matera, già agli inizi del XVI secolo, nel rione che si costituì all’estremo sud-est del Saxus Caveosus10. In quest’ultimo caso, però, è da ricordare che Matera apparteneva alla Puglia, come erano collegati con la Calabria i centri di San Costantino Albanese e San Paolo Albanese, un tempo soggetti alla giurisdizione episcopale del vescovo di Anglona, oggi inseriti nella eparchia di Lungro11. Recenti ricerche hanno altresì posto in luce una colonia slavo-albanese a Potenza nella seconda metà del XV secolo12. Le fonti storiografiche ricordano che la regione del Vulture fu interessata da successive ondate di gruppi migratori tra XV e XVI secolo. Esse divennero più cospicue sia dopo la resa di Croja e l’abbandono di Scutari nel 1477, sia nel 1532, quando, caduta la fortezza di Corone, la conquista turca dell’Albania fu definitiva. Agli albanesi si aggiunse allora un notevole numero di coronei (Greci di Corone) e di meldesi13. 8 A. Pisano, Dall’Albania a Brindisi di Montagna all’Italia: cronistoria dal 1262 al 1927, Palombara Sabina 1927 (rist. anast. Matera 1989). 9 Cfr. F.L. Pietrafesa, Rionero: note storiche e documenti, Napoli 1982. 10 Per le vicende materane cfr. C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera, Roma-Bari 1999. 11 L’eparchia di Lungro fu eretta da papa Benedetto XV con la bolla Catholici fideles del 13 febbraio 1919: cfr. Acta Apolisticae Sedis, X (1919), pp. 222-36. Sui rapporti spesso conflittuali tra albanesi e Chiesa latina cfr. G. Veneziano, Contrasti confessionali ed ecclesiastici tra albanesi e greco-ortodossi o cattolici latini in Calabria e Lucania (dalle origini delle colonie al 1919), in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 36, 1968, pp. 89-115. 12 V. Perretti, Note e appunti su una colonia slavo-albanese nella città di Potenza alla metà del secolo 16, in «Bollettino storico della Basilicata», 14, 1998, pp. 163-76. 13 T. Pedio, Contributo alla storia delle immigrazioni albanesi nel Mezzogiorno d’Italia, in «Accademia d’Italia. Centro di studi per l’Albania», IV, 3, 1943, pp. 1-16 (estratto). Cfr. anche A.L. Sannino, Le comunità albanesi di Basilicata in età moderna: territorio, popolazione, economia, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 45, 1994, pp. 75-98.

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Con il trattato di pace tra Carlo V e il sultano Solimano II, firmato a Costantinopoli nel giugno del 1533, la piazzaforte di Corone, sita all’estremità orientale di Messenia, veniva consegnata ai turchi, a condizione che gli abitanti, disposti a lasciare la città, si imbarcassero su di una flotta appositamente apprestata da Carlo V, e si rifugiassero in Italia14. In tal modo i coronei si sparsero in varie località dell’Italia meridionale: fondando, in Basilicata, San Costantino Albanese, San Paolo Albanese, detta oggi Casalnovo Lucano, Farneta, e ripopolando i casali di Ripacandida, Barile e Maschito, allora feudo della mensa vescovile di Venosa e del priorato del Santo Sepolcro dell’Ordine Gerosolimitano di Bari. Secondo la pubblicistica erudita locale, i profughi originari di Croya e Scutari si sarebbero insediati a Barile intorno al 1518, occupando la parte settentrionale del paese, ancora oggi conosciuta come Scurdiairi15. A Maschito16, invece, sarebbero giunti ancor prima, addirittura verso il 1467, quando alcuni soldati epiroti, inviati nel regno di Napoli da Giorgio Castriota Scanderbeg in appoggio a Ferdinando d’Aragona, in guerra contro gli Angioini pretendenti al trono, non fecero più ritorno in patria. Al primo nucleo se ne aggiunse poi un altro più consistente17. Lo testimonia un «instrumento» del notaio Giacomo Citamiore di Venosa rogato il 17 novembre 1539, sotto il viceré Don Pedro de Toledo, secondo cui Maschito fu ceduto a Giovanni de Icis, il quale si impegnò a corrispondere 66 ducati annui alla mensa vescovile e 20 ducati al priorato di Bari. In seguito de Icis, debitamente autorizzato, ripristinò il casale di Maschito e, con atto pubblico, redatto dal no­ taio Giovanni Francesco de Judice di Cosenza il 26 settembre 1541, i Greci albanesi si obbligarono a pagargli l’annuo censo di 1 ducato per ogni focolare o tugurio e, in più, 200 ducati (nel caso che il numero dei focolari aumentasse anche di uno solo). Cfr. De Leo, Le immigrazioni dal tardo medioevo, cit., pp. 153-54. A. Bozza, Vulture, ovvero Brevi notizie di Barile e delle sue colonie, Rionero in Vulture 1889 (rist. anast. Rionero in Vulture 1984); N. Fucillo, Barile nella storia dei suoi documenti, Rionero in Vulture s.d. 16 Il nome pare derivi dal latino masculetum, che vuol dire piantagione di viti maschie. Già fortificazione romana, il casale era stato abbandonato nel XIV secolo, cfr. T. Savino, Maschito, in «La Basilicata nel mondo», II, 2, 1983, pp. 133-36. 17 Altimari, Bolognari, Carrozza, L’esilio della parola, cit. 14 15

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A Maschito, diventato poi feudo dei Carafa d’Andria, si conservò nei primi due secoli il rito greco nella chiesa di San Nicola, finché non fu imposto il rito latino. Una serie di documenti testimonia l’insediamento albanese a Ginestra, una frazione del casale di Ripacandida, anticamente conosciuto come Lombardamassa o Maso Lombardo, che vantava origini longobarde. Nel 1478 il feudatario di Ripacandida, Troiano II Caracciolo, assegnò a una cinquantina di famiglie albanesi con a capo Francesco Jura un borgo fuori del centro abitato. I profughi, in attesa che fosse ultimata la costruzione delle dimore (le cosiddette «pagliare») loro destinate, vivevano in grotte e anfratti. Il privilegio di concessione andò poi distrutto in un incendio, per cui Jura chiese e ottenne la conferma del provvedimento dal figlio di Troiano, Giovanni III Caracciolo, nel 1513. Jura si adoperò molto per non incrinare i rapporti dei suoi con gli abitanti dei paesi limitrofi, e provvide all’ultimazione dei lavori del nuovo centro abitato, al quale diede il nome Ginestra18, ispirandosi alla caratteristica pianta a rami verdi, foglie piccole e fiori gialli che domina in quelle contrade. Anche qui la comunità albanofona conservò a lungo, sino al 1627, rito e liturgia bizantina nella parrocchia sotto il titolo di San Nicola e nella chiesetta di Santa Maria di Costantinopoli. Come accadeva in tutte le zone del regno dove si insediavano gli albanesi, anche in Basilicata i rapporti tra questi ultimi e le popolazioni indigene confinanti risultavano spesso conflittuali, a causa delle notevoli differenze di mentalità, usanze e costumi. Ma furono parimenti ambigui con l’erario, data la forte resistenza da parte degli immigrati ad accettare le imposizioni fiscali, dopo una prima fase di immunità e franchigie. Pertanto i dati relativi alla consistenza demografica di «schiavoni, greci ed albanesi», desunti dalle cedole e dalle entrate fiscali, devono necessariamente considerarsi approssimativi19. Assai interessante, sotto tale aspetto, rimane la relazione sulle entrate del regno che Charles Le Clerc presentò nel 1521 a Carlo V: i 583 fuochi presenti nei confini amministrativi della regione, così Cfr. G. Lamattina, Ginestra. Storia di un popolo, Salerno 1987. Sull’«impatto precario e la difficile convivenza» con le popolazioni locali cfr. De Leo, Le immigrazioni dal tardo medioevo, cit., pp. 154-57. 18 19

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come era delineata a quell’epoca, documentano la presenza di circa 2.915 epiroti, cui vanno aggiunti, secondo l’attuale distrettuazione, gli 84 fuochi di Matera, pari a 420 abitanti circa. Si tratta complessivamente di circa 3.335 immigrati, senza tener conto dei loro omologhi stanziatisi ai confini meridionali della regione, sulle falde del Pollino20. Tab. 1. Fuochi e abitanti di Basilicata agli inizi del sec. XVI Nome antico

Nome moderno

Trycarico Tricarico Betemarano Pestizo Pestici Camarda Camarda (L’Aquila) Montestagioso Montescaglioso Montepeluzo Montepeloso Tolve Tolve Rapolla Rapolla Sangeorge San Giorgio Lucano Santa Maria de Rosano Cancellara Cancellara Petragalla Pietragalla Oppido Oppido Lucano Acerenza Acerenza Foveala Sangervasy Lavello Lavello Venosa Venosa Rota Rota Avagliano Avigliano Potenza Potenza Baryle Barile Spynazola Spinazzola Montemelonei Montemilone Meglionico Miglionico Rubo Ruvo del Monte

20

Fuochi

Abitanti

12 60 12 60 4 20 3 15 22 110 8 40 80 400 11 55 6 30 4 20 6 30 6 30 2 10 2 10 18 90 21 105 26 130 126 630 18 90 1 5 29 145 23 115 8 40 118 590 13 65 4 20

Cfr. Pellettieri, Gli insediamenti albanesi, cit., pp. 243-45.

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Nuove ondate migratorie, sebbene in forma assai ridotta, continuarono a giungere in Basilicata nei secoli successivi, mentre gli albanesi residenti rivendicavano con vigore maggiori diritti dai feudatari che si alternarono nei distretti feudali, a loro volta assai restii nel riconoscere pleno iure prerogative e diritti di cui godevano gli altri cittadini. Ma questo è un discorso che riguarda l’età moderna, e che va ripreso in tale contesto21. 21 Cfr. a tale riguardo D. Mazzeo (a cura di), Etnografia ed albanesità, Potenza 1986, pp. 36-37.

LE ISTITUZIONI MONASTICHE ITALO-GRECHE E BENEDETTINE di Hubert Houben La storia del monachesimo in Basilicata è stata negli ultimi decenni ripetutamente l’oggetto dell’interesse degli studiosi. È, insieme al Lazio, l’unica regione italiana che dispone (dal 1986) di un repertorio topo-bibliografico dei monasteri benedettini (in cui sono inclusi anche quelli italo-greci). Inoltre, all’insediamento monastico italo-greco più importante della regione, il monastero di Sant’Elia di Carbone, è stato dedicato nel 1992 un convegno internazionale, i cui atti dimostrano il progresso degli studi compiuti recentemente, anche grazie all’Università della Basilicata, che ha promosso il menzionato convegno in occasione del decennale della sua istituzione. Un ulteriore prezioso contributo per la conoscenza del fenomeno monastico in Basilicata è venuto da una mostra organizzata nel 1996 dalla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici della Basilicata, allestita nel castello di Lagopesole, e dal relativo catalogo in due volumi1. Mentre esistono quindi degli strumenti per orientarsi sulla diffusione del fenomeno monastico in Basilicata, non disponiamo di monografie recenti sui grandi monasteri lucani, se si prescinde

Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986; C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996; L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. I, Storia, fonti, documentazione; vol. II, Le architetture, Matera 1996 (19972). 1

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dall’abbazia della SS. Trinità di Venosa, mausoleo di Roberto il Guiscardo2. Nella Basilicata, regione «cerniera» tra civiltà greca e latina del Mezzogiorno d’Italia, si incontrarono «forme e mentalità di impronta orientale e strutture e spiritualità benedettina di stampo occidentale nel contesto delle dominazioni bizantina, longobarda e normanna»3. È stato sottolineato come il Mezzogiorno era il terreno ideale per un incontro tra monachesimo greco e monachesimo latino: L’Italia meridionale bizantina o parabizantina [...], nelle cui diverse regioni coesistevano dal VI all’XI secolo popolazioni di lingua, di tradizione, e di rito greco con altre di lingua e di rito latino e di tradizione longobarda, sotto il governo dell’Impero d’Oriente, doveva essere l’ambiente più idoneo per reciproci approfonditi contatti. Non ci si limitava evidentemente a semplici conoscenze personali fra monaci, ma si poteva giungere alla comprensione delle diversità e delle somiglianze fra le concezioni e le istituzioni monastiche4.

2 H. Houben, Die Abtei Venosa und das Mönchtum im normannisch-staufischen Süditalien, «Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 80, Tübin­ gen 1995; Id., Il «libro del capitolo» del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Materiali e documenti», 1, Galatina 1984. 3 C.D. Fonseca, Presentazione, in Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. vii; L. Bubbico, F. Caputo, Bilancio e problematiche ancora aperte, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini, cit., p. 23: «Se può essere individuato un contributo specifico della Basilicata alla identità culturale e storica del Meridione, questo è evidenziabile dal ruolo di cerniera tra culture e popoli diversi che l’area svolge in ragione della posizione geografica e della conformazione morfologica. La Basilicata conferma la propria posizione eccentrica sia rispetto al mondo latino che greco-bizantino e longobardo tanto che l’amalgama delle culture determinato in tale ambiente consente sintesi che tuttora in alcuni episodi appaiono uniche». 4 V. von Falkenhausen, Il monachesimo italo-greco e i suoi rapporti con il monachesimo benedettino, in C.D. Fonseca (a cura di), L’esperienza monastica benedettina e la Puglia. Atti del Convegno di studio in occasione del XV centenario della nascita di S. Benedetto (Bari-Noci-Lecce-Picciano, 6-10 ottobre 1980), 2 voll., «Università degli Studi di Lecce-Istituto di Storia medioevale e moderna, Saggi e ricerche», 9, Galatina 1983-84, vol. I, pp. 119-35, in particolare p. 126.

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1. Il primo monachesimo benedettino I primi monaci benedettini arrivarono in Basilicata probabilmente già in epoca longobarda, quando le abbazie benedettine di Santa Sofia di Benevento, di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno ottennero delle chiese ubicate nella regione. Il principe Arechi II di Benevento donò nel 774 a Santa Sofia di Benevento una chiesa intitolata a santa Maria, ubicata «in gaio nostro Matere in Affle», cioè nella proprietà fiscale (gaium) localizzata intorno a Matera, che ne era ovviamente la sede amministrativa; inoltre vigne e terre e il diritto di pascolo nel gaium5. Il primo vero e proprio monastero benedettino in Basilicata – si trattava probabilmente di un priorato e non ancora di un’abbazia – di cui si è conservata memoria nella documentazione scritta è quello di Santa Maria di Banzi, che alla fine dell’VIII secolo o all’inizio del IX fu sottoposto dal duca longobardo di Benevento all’abbazia di Montecassino, tra i cui possedimenti ricorre nel 9436. Anche l’abbazia di San Vincenzo al Volturno aveva beni in Basilicata: nell’agosto 883 Sicardo, principe di Benevento, confermò al cenobio vulturnense una chiesa dedicata a San Secondino «cum integris suis pertinentiis, finibus Acerentinis, quam Petrus episcopus per suam offercionem dedit»7. Nell’893 vennero date in enfiteusi quattro chiese ubicate nel Materano: Sant’Elia, «qui fundatus est intus civitate 5 J.-M. Martin (a cura di), Chronicon Sanctae Sophiae (cod. Vat. Lat. 4939), con uno studio sull’apparato decorativo di G. Orofino, «Fonti per la Storia dell’Italia medievale, Rerum Italicarum Scriptores», 3, Roma 2000, p. 299. Per un caso analogo, la donazione della chiesa di Sant’Arcangelo «in gaio nostro Stoni», cfr. C.D. Poso, Ostuni nel Medioevo. Lo sviluppo urbano dall’XI alla metà del XIII secolo. Le pergamene più antiche dell’Archivio Capitolare di Ostuni (1137-1241), «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e sociali, serie 2, Saggi e ricerche», 9, Galatina 1997, pp. 20 sgg. 6 E. Gattola, Ad historiam Abbatie Casinensis accessiones, Venetiis 1734, p. 19. Il documento è datato soltanto secondo il decimo anno del governo del principe Grimoaldo, dunque può risalire sia al 797-798 (Grimoaldo III) sia all’815-816 (Grimoaldo IV): cfr. H. Hoffmann, Die älteren Abtslisten von Montecassino, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 47, 1967, pp. 251 sgg., che a causa del nome del notaio Lupoaldo e del formulario del documento propende per la data 797-798; L. Schiapparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, «Fonti per la storia d’Italia», 38, Roma 1924, p. 199, n. 66. 7 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, 3 voll., «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 58-60, Roma 1925-40, vol. I, pp. 292 sgg.

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Matera», San Pietro «de ipsa Matina» («Matina» va forse corretto in «Matera»), San Silvestro, «qui fundatus est trans flumen Bradano, propinquum loco Fluviano», San Lorenzo, «qui et ipse fundatus est trans flumen Bradano, propinquo castello Monte Scaviosum»8. Il legame di Matera con San Vincenzo al Volturno durò fino al secolo XI, quando divenne abate un monaco vulturnense originario di Matera, l’abate Ilario (1011-54), di cui il monaco Giovanni, autore della cronaca dell’abbazia, dice: «civis fuit Matere urbis, qui divina vocacione adiit huius limina cenobii precipui martiris Vincentii»9. L’unica abbazia latina autonoma attestata in Lucania nel X secolo è la badia di Monticchio sul monte Vulture, che ottenne nel 982 un diploma dall’imperatore tedesco Ottone II10. 2. Gli insediamenti monastici italo-greci Gli insediamenti monastici benedettini menzionati si trovavano nella parte orientale della Basilicata, legata culturalmente alla Puglia. Nella parte sud-occidentale, invece, sorsero nel territorio tra i fiumi Sinni e Agri durante il X secolo numerosi insediamenti monastici italo-greci (detti spesso impropriamente «basiliani»11). Questa zona era contesa, sin dalla riconquista bizantina dell’Italia meridionale nell’ultimo trentennio del secolo IX, tra l’impero d’Oriente e il principato di Salerno. Mentre la parte occidentale era sotto il controllo dei principi longobardi, la parte orientale, che si affaccia sul mar Ionio, il cosidIvi, vol. II, pp. 13 sgg. Ivi, vol. III, p. 4. 10 Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 195 sgg., n. 71. 11 Cfr. a questo proposito V. von Falkenhausen, I Bizantini in Italia, in AA.VV., I Bizantini in Italia, Milano 1982, p. 116: «Il monachesimo bizantino non era ‘basiliano’. Benché i trattati di San Basilio fossero copiati senza tregua, i canoni della santità monastica si basavano piuttosto sugli ideali eremitici dei padri del deserto e sul modello di Sant’Antonio Abate, il monaco per eccellenza. [...] A Bisanzio non si conoscevano ordini monastici. L’ordo sancti Basilii è una creazione occidentale, inventato, a quanto pare, nella cancelleria di papa Innocenzo III per distinguere i monasteri greci dell’Italia meridionale e della Sicilia da quelli che erano ordinis sancti Benedicti». Da un primo censimento dei monasteri italo-greci in Basilicata effettuato nel 1986, che andrebbe aggiornato, risultavano tredici cenobi greci attestati nel secolo X, ventitré menzionati nel secolo XI e ventuno documentati nel secolo XII (Houben, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 164-66). 8 9

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detto Latinianon, apparteneva al tema bizantino di Longobardia. Qui arrivarono durante il X secolo numerosi Greci calabresi e siciliani, tra cui anche monaci, in fuga dalle incursioni dei Saraceni. Questi si insediarono nei distretti (eparchie) di Merkurion, corrispondente alla valle del Lao, di Aieto, di Latinianon e di Lagonegro12. Vera von Falkenhausen ha osservato che «dai testi agiografici e dalla documentazione archivistica risulta che i monasteri greci della Basilicata in epoca bizantina furono in genere piuttosto piccoli ed instabili», individuando due cause principali di questa instabilità: «in primo luogo vi erano le continue incursioni arabe che spesso danneggiavano o perfino distruggevano i monasteri, costringendo i monaci a fuggire in zone più sicure, ove costruivano nuovi cenobi»; l’altro motivo era che i monaci bizantini si stabilirono in luoghi remoti per realizzare qui l’ideale monastico bizantino, ma che il loro carisma attirava poi discepoli e ammiratori che «da un lato disturbavano la pia concentrazione dell’igumeno, e dall’altro sbilanciavano l’equilibrio economico del monastero, i cui scarsi terreni non bastavano per il nutrimento di molte persone». Per questo diveniva necessario spostare la sede del monastero o creare nuove dipendenze13. Intorno alla metà del X secolo (probabilmente dopo il 952), un gruppo di monaci greci siciliani guidato da Cristoforo e dai suoi figli Saba e Macario si stabilirono nel Latinianon presso una chiesa dedicata a san Lorenzo14. Dopo la morte di Cristoforo la guida dei monaci toccò a Saba, il quale si ritirò successivamente in cerca di solitudine a Lagonegro, presso un oratorio dedicato a san Filippo. La fama della sua virtù attirò presto altri monaci e, secondo quanto riferito dalla sua vita, il cenobio costituitosi a Lagonegro avrebbe dopo poco tempo accolto circa sessanta monaci15.

12 Cfr. V. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in epoca bizantina e normanna, in Fonseca, Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone, cit., pp. 61-87, in particolare p. 62, e H. Houben, Il monachesimo in Basilicata, cit., pp. 163-75, in particolare p. 164. 13 Von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., p. 63. 14 Bibliografia e fonti, per quanto segue, in Houben, Il monachesimo in Basilicata, cit., pp. 164-66. 15 Historia et laudes SS. Sabae et Macarii iuniorum e Sicilia auctore Oreste Patriarcha Hierosolymitano, a cura di I. Cozza-Luzi, Roma 1893, p. 40. Cfr. S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, «Istituto italiano per gli studi storici», 14, Napoli 1963, p. 49.

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Un altro monaco siculo-greco, Luca, si recò in Basilicata dopo essersi unito in Calabria a Elia lo Speleota. Luca si stabilì in un primo momento presso una chiesa dedicata a san Pietro, ubicata a Noepoli. Successivamente si trasferì in cerca di solitudine in un diruto coenobium ubicato «iuxta flumen Agrumenti», cioè presso l’antica Grumento, dedicato a san Giuliano e ben presto da lui restaurato. Più tardi si ritirò ad Armento, dove fondò una chiesa dedicata ai santi Maria e Pietro. Quando il numero dei monaci aumentò, Luca istituì presso la chiesa della Vergine, da lui costruita, un monastero femminile che accolse sua sorella Caterina, venuta dalla Sicilia insieme con i suoi figli. Alla morte di Luca, avvenuta probabilmente nel 984 ad Armento, assistette anche san Saba16. Vitale da Castronuovo, fattosi monaco a San Filippo di Agira (in provincia di Enna), si era recato con alcuni fratelli a Roma per visitare le tombe dei santi apostoli Pietro e Paolo. Al ritorno si fermò in Calabria vivendo per due anni in assoluta solitudine, intensa preghiera e rigido digiuno «in quibusdam thermis» presso Santa Severina. Ritornato in Sicilia, visse per dodici anni su un monte nei pressi di San Filippo di Agira nutrendosi soltanto di acqua e di erbe. In seguito ritornò ancora in Calabria e, «peragratis eremis, montibus et speluncis», raggiunse un monte «qui dicitur Liporachi» presso Cassano allo Ionio, dove incontrò l’abate Antonio che «per eremos semper et montes» aveva condotto una vita casta e angelica. Dopo altre peregrinazioni «in locis inviis et inhabitabilibus» Vitale giunse a Roseto e si stabilì poi, alcuni anni prima del 984, a San Chirico Raparo, dove fondò il monastero di Sant’Angelo. Più tardi egli si trasferì nel cenobio di Sant’Elia di Missanello sul monte San Giuliano e successivamente sui monti tra Turri, città scomparsa situata nei pressi dell’attuale Guardia Perticara, e Armento, dove incontrò il già menzionato Luca. Dopo un breve soggiorno a Bari, Vitale tornò in Basilicata ricostruendo nei pressi di San Chirico Raparo la diruta chiesa dei SS. Adriano e Natalia e istituendovi un monastero. Da qui si recò, «ab infestatione populorum et saevitia paganorum», nei dintorni di Turri, dove costruì una chiesa. Successivamente si spostò con il suo nipote e discepolo Elia nel Nord della regione lucana stabilendosi in una foresta nei pressi

16 Vitae S. Lucae abbatis, in Acta Sanctorum Octobris, VI, Parisiis et Romae 1868, pp. 337-41. Cfr. Borsari, Il monachesimo bizantino, cit., p. 51.

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di Rapolla. Qui continuò la consueta vita di asceta peregrinando per la montagna senza aver cura di proteggersi dal caldo o dal freddo e immergendosi di notte fino alla gola nell’acqua gelida dei fiumi e laghi. Raggiunto dai suoi monaci, fondò anche qui un monastero, dove, secondo la sua vita, morì il venerdì 9 marzo di un anno non specificato (probabilmente il 1033)17. L’alta stima che avevano anche le autorità ecclesiastiche latine del monachesimo greco è testimoniata dal fatto che l’arcivescovo di Bari insediò nel 1032 in una chiesa ubicata alla periferia della città due monaci greci di Turri, i quali portarono con sé un cospicuo numero di libri liturgici18. Non va infine taciuto il ruolo dei monaci italo-greci nel dissodamento e nella cristianizzazione delle campagne. Un esempio di un piccolo monastero rurale della Basilicata è quello di San Basilio di Beniamino presso Teana, fondato intorno agli anni Cinquanta del X secolo nella valle del Sinni. Esso possedeva, nel 1006-1007, come animali domestici un asino, un bue e ventiquattro pecore, disponeva di strumenti per il lavoro agricolo e di riserve alimentari19. Il monastero greco più importante della Basilicata divenne nella seconda metà dell’XI secolo, quindi in un epoca in cui la regione fu sottomessa dai Normanni, Sant’Anastasio di Carbone, più tardi (sin dal 1121) conosciuto come Sant’Elia di Carbone20. Nato in epoca bizantina come piccolo cenobio rurale aumentò i suoi possedimenti nella prima metà dell’XI secolo, ma attraversò alla metà del secolo una crisi dovuta alle incursioni dei Normanni, nonché alla «rapacità» degli indigeni. Una volta stabilitisi nella regione, gli

17 Vita S. Vitalis, in Acta Sanctorum Martii, II, Parisiis et Romae 1865, pp. 27-31. Per la data della morte cfr. V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, pp. 200 sgg. 18 Codice diplomatico barese, Le pergamene del Duomo di Bari (925-1264), a cura di G.B. Nitto de Rossi, F. Nitti di Vito, vol. I, Bari 1897, pp. 31 sgg., n. 18. Cfr. H. Houben, I Benedettini in città: il caso di Bari (secc. X-XIII), in Bari e S. Nicola tra XI e XIII secolo. Atti del Convegno storico nicolaiano, Bari, 21-22 ottobre 1989, in «Nicolaus. Studi storici», 2, 1991, pp. 71-99, ora in Id., Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, «Nuovo Medioevo», 52, Napoli 1997, pp. 269-97, in particolare p. 282, e per i codici liturgici G. Cavallo, Manoscritti italo-greci e cultura benedettina (secoli X-XII), in Fonseca (a cura di), L’esperienza monastica benedettina, cit., vol. I, pp. 169-95, in particolare p. 170. 19 Von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia, cit., pp. 64 sgg. 20 Per quanto segue cfr. ibid.

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«uomini del Nord» si mostrarono invece generosi verso i monaci, fossero essi latini o greci. Così la famiglia normanna dei Chiaromonte, all’interno della cui signoria si trovò il monastero di Carbone, fece numerose donazioni a favore di questo ente. L’abate Nilo (1108-35) ottenne nel 1132 da re Ruggero II di Sicilia la conferma dei privilegi dell’abbazia e secondo una plausibile ipotesi di Vera von Falkenhausen fu anche questo sovrano che concedette allo stesso abate il titolo di archimandrita, probabilmente su richiesta dello stesso igumeno, che aveva visto il successo dell’archimandritato di San Salvatore di Messina, istituito pure da Ruggero. Fu poi il re Guglielmo II ad attribuire, nel 1168, all’archimandrita di Carbone il controllo della vita spirituale e della disciplina monastica dei cenobi greci ubicati in Campania e Lucania. Nel 1181 l’abbazia di Carbone fu posta sotto la giurisdizione dell’abate-arcivescovo di Monreale, cosa che non influì negativamente sulle sorti del monastero greco, che al contrario godette del favore dei re di Sicilia fino a Federico II incluso. Prima di diventare benefattori di monasteri greci e latini nell’Italia meridionale, i Normanni si erano dimostrati malfattori nei confronti dei monaci21. Così essi, indicati nel relativo documento greco come «Franchi» (cioè Latini), avevano devastato, prima del 1053, il monastero greco di Sant’Andrea di Calvera. Il turmarca Luca e i suoi confratelli non videro altro rimedio, per evitare la fine del piccolo cenobio, che la donazione all’abbazia latina di Cava dei Tirreni, economicamente prospera e in buoni rapporti con i Normanni22. Sembra infatti che in questo modo il monastero riuscisse a sopravvivere, perché in una carta greca del 1071 appare come testimone un tal Leontios, igumeno di un monastero dedicato a

21 Cfr. H. Houben, Malfattori e benefattori, protettori e sfruttatori: i Normanni e Montecassino, in «Benedictina», 35, 1988, pp. 343-71, ora in Id., Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del Mezzogiorno medioevale, «Università degli Studi di Lecce, Pubblicazioni del Dipartimento di Studi storici dal Medioevo all’Età contemporanea», 8, Galatina 1989, pp. 67-92, e in F. Avagliano, O. Pecere (a cura di), L’età dell’abate Desiderio, vol. III/1, Storia arte e cultura. Atti del IV Convegno di studi sul Medioevo meridionale (Montecassino-Cassino, 4-8 ottobre 1987), «Miscellanea cassinese», 67, Montecassino 1992, pp. 123-51. 22 F. Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli 1865, pp. 49-51, doc. XL.

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Sant’Andrea23, probabilmente da identificarsi con Sant’Andrea di Calvera24. Il documento del 1071 contiene la donazione di un piccolo monastero all’abbazia di Carbone fatta dallo spatarocandidato Giovanni. Il nome del monastero non è indicato, ma dai nomi dei testimoni si può dedurre che esso era probabilmente ubicato nella Basilicata sud-occidentale: troviamo un tal Peregrino di Cassano (Cassano allo Ionio, provincia di Cosenza), un certo Sergio di Senise, un Leone, igumeno del monastero di Ceramide, cioè San Pancrazio di Ceramide, situato tra San Chirico Raparo e Calvera25. Come motivo della donazione è indicato il fatto che tutta la zona era stata devastata dai nemici, cioè dai Normanni, e che di conseguenza il monastero era stato abbandonato dal monaco Ilarione, a cui era stato affidato in precedenza26. 3. I Normanni e il monachesimo Con l’avvento dei Normanni cominciò in Lucania, come in altre aree dell’Italia meridionale, un’espansione del monachesimo latino27. Intorno alla metà del secolo XI divenne autonomo il monastero di Santa Maria di Banzi che era stato fino ad allora un priorato dipendente da Montecassino28. La maggior parte dei documenti relativi a quest’abbazia, nei quali ricorre il Leitmotiv dei danni subiti dai Normanni, sono falsificati e perciò da usare con estrema cautela29. Ciò 23 G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, II, 1-2, Roma 1930 («Orientalia Christiana» XV,2 - XIX,1 = 53, 62), pp. 171-75, n. VIII-57, in particolare p. 175. Il documento porta la data 6579 (non 6569 come indicata nell’edizione) ed è quindi del 1071 (e non del 1061). 24 Cfr. Borsari, Il monachesimo bizantino, cit., p. 67; Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 179, n. 11. 25 Ivi, p. 180, n. 14. 26 Robinson, History and Cartulary, cit., p. 173. 27 Cfr. H. Houben, L’espansione del monachesimo latino in Lucania dopo l’avvento dei Normanni, in Fonseca, Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone, cit., pp. 111-30, ora in Id., Mezzogiorno normanno-svevo, cit., pp. 23-46. 28 Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 178, n. 6. 29 Cfr. C. Brühl, Urkunden und Kanzlei König Rogers II. von Sizilien, mit einem Beitrag, Die arabischen Dokumente Rogers II., von A. Noth, «Studien zu den normannisch-staufischen Herrscherurkunden Siziliens. Beihefte zum Codex diplomaticus regni Sicilae», 1, Köln-Wien 1978, pp. 95 sgg. (trad. it. Diplomi e cancelleria di Ruggero II, con un contributo sui diplomi arabi di A. Noth, Palermo 1983, pp. 80 sgg.).

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vale anche per i documenti delle abbazie di San Michele di Montescaglioso e di Santa Maria di Pisticci, la cui fondazione, avvenuta nella seconda metà dell’XI secolo, è dovuta ai signori normanni insediatisi a Montescaglioso30. Come abbazie benedettine di notevole importanza in epoca normanna vanno anche segnalate San Michele di Monticchio (Rionero in Vulture), Santa Maria di Montepeloso (Irsina), Santa Maria di Pisticci, Sant’Eustachio di Matera e quella femminile delle SS. Lucia e Agata di Matera31. L’insediamento dei Normanni nel Mezzogiorno d’Italia fu accompagnato dalla fondazione di monasteri latini, popolati, per quanto era possibile, con monaci normanni. Dato che questi si trovarono, in molti casi, in o non lontano da zone di cultura e lingua greca, essi dovevano contribuire alla lenta e graduale «rilatinizzazione» dell’Italia meridionale, avvenuta non secondo un disegno premeditato dei Normanni, ma come conseguenza indiretta del loro insediamento. Il primo monastero meridionale, popolato da monaci normanni, fu Santa Maria di Sant’Eufemia (Lamezia, provincia di Catanzaro). Qui Roberto il Guiscardo fondò, nella prima metà degli anni Sessanta dell’XI secolo (tra il 1061 e il 1065), un cenobio destinato ad accogliere alcuni monaci di Saint-Évroult, che insieme con il loro abate Roberto di Grandmesnil avevano lasciato la loro patria a seguito di un conflitto con il duca di Normandia. Durante il regime abbaziale di Roberto di Grandmesnil, durato diciassette anni (1065-82), questo monastero diventò il centro propulsore del monachesimo normanno nell’Italia meridionale. Monaci normanni di Sant’Eufemia diventarono abati nei monasteri della SS. Trinità di Venosa (Berengario, circa 1070-95) e di San Michele di Mileto (Guglielmo, prima del 1080-dopo il 1097), cioè nei due cenobi benedettini scelti dagli Altavilla Roberto il Guiscardo e Ruggero I come luoghi di sepoltura32. Un’analisi dei benefattori di questi monasteri normanni evidenzia il loro stretto legame con la nobiltà normanna. Le abbazie di Venosa e di Mileto ricevettero da questo ceto numerose e cospicue donazioni, finché furono in vita Roberto il Guiscardo e Ruggero I. La popolazio30 Ivi, pp. 172 sgg. (trad. it. cit., pp. 202 sgg.); W. Jahn, Untersuchungen zur normannischen Herrschaft in Süditalien (1040-1100), Frankfurt am Main-Bern-New York-Paris 1989, pp. 298 sgg.; E. Cuozzo, La contea di Montescaglioso nei secoli XI-XIII, in «Archivio storico per le province napoletane», 103, 1985, pp. 7-37. 31 Cfr. le relative schede in Monasticon Italiae, vol. III, cit. 32 Cfr. Houben, Die Abtei Venosa, cit., pp. 39 sgg. e 135 sgg.

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ne indigena, e non soltanto quella greca, era però legata in modo più stretto ai monasteri greci, che avevano una tradizione più lunga e che pertanto potevano avere radici più profonde nella società meridionale. Ciò è dimostrato dall’esempio di Venosa. Gli abitanti della città, in maggioranza di lingua latina e di cultura longobarda, preferirono fare donazioni non all’abbazia normanna della SS. Trinità, ma al vicino monastero greco di San Nicola di Morbano, esistente sin dal X secolo33. I buoni rapporti tra San Nicola di Morbano e i Normanni insediatisi a Venosa sono dimostrati da donazioni fatte dal miles Matteo, figlio di Ruggero, quindi di probabile discendenza normanna, nel settembre del 1126, e dal miles Roberto, anch’egli secondo il suo nome un normanno, nel marzo del 113234. La popolazione di lingua latina e di cultura longobarda teneva i monaci greci in alta considerazione, facendo delle donazioni per essere ammessa alla commemorazione liturgica. Nel 1017 Grisomila di Appio (presso Montescaglioso) donò, con il consenso di suo genero Urso, il suo morgencap a Nifo, abate del monastero greco di Turri (presso Guardia Perticara)35, per essere iscritta, insieme al suocero Grimoaldo, nel kontàkion del monastero e per godere delle preghiere dei monaci. L’abate fu rappresentato, all’atto di transazione, dallo ieromonaco Giovanni e dall’abbocàtor (cioè advocatus) Eustazio, i quali diedero il launegilt secondo l’uso longobardo36. Ivi, pp. 198 sgg. R. Briscese, Le pergamene della Cattedrale di Venosa. Regesto di S. Nicola di Morbano, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 10, 1940, pp. 19-40, 113-23, 235-46, 325-40, in particolare pp. 33 sgg. (1126). Ivi, pp. 34 sgg., va corretta la data 1060 in 1132, come risulta dalla menzione degli anni del regno di Ruggero II: «Anno incarnationis [...] millesimo sexagesimo [!], regni etiam domini nostri gloriosissimi Rogerii, Dei gratia magni et invictissimi regis Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, anno secundo, mense martii, prime indictionis. Ego Robertus miles de civitate Venusie in presentia Gualtierii, eiusdem civitatis iudicis, et aliorum bonorum hominum [...]». Va però detto che il titolo, qui attribuito a Ruggero II, fu in questa forma assunto dal re soltanto nel 1136: cfr. Brühl, Urkunden und Kanzlei, cit., p. 82 (trad. it. cit., p. 68). 35 Cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 184, n. 28. Per la localizzazione di Appio cfr. G. Racioppi, Geografia e demografia della provincia di Basilicata nei secoli XIII e XIV, in «Archivio storico per le province napoletane», 15, 1890, pp. 565-82, in particolare p. 569, nota 10. 36 Codice diplomatico barese, Le pergamene del Duomo di Bari, cit., pp. 15-17, n. 9. Cfr. von Falkenhausen, Il monachesimo italo-greco, cit., p. 131; Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 184, n. 28. 33 34

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I rapporti tra monaci greci e monaci normanno-latini sembrano a Venosa non aver causato tensioni. Si ha però d’altra parte l’impressione che i due cenobi, San Nicola di Morbano e la SS. Trinità di Venosa, si evitassero reciprocamente. Tensioni ci furono invece a Mileto. I monaci latini accusarono, tra il 1122 e il 1130, di ricatto e di eresia l’abate Bartolomeo di Santa Maria del Patir (presso Rossano), ma egli fu assolto da Ruggero II, il cui impegno per il monachesimo greco è ben noto37. Si può ipotizzare qualche incomprensione tra monachesimo normanno-latino e monachesimo greco, in conseguenza del fatto che essi appartenevano a due mondi culturali molto diversi; ma non si può fare altrettanto per il monachesimo benedettino «indigeno». Nel Mezzogiorno esisteva una solida e mai interrotta tradizione di pacifica convivenza tra monachesimo greco e monachesimo latino. Basti pensare ai monasteri greci a Roma o al monastero greco di Valleluce, una dipendenza cassinese a pochi chilometri da Montecassino, dove, nel X secolo, vissero insieme a san Nilo sessanta monaci greci38. 4. L’abbazia della SS. Trinità di Venosa Particolarmente significativa è la vicenda dell’abbazia benedettina della SS. Trinità di Venosa, «il famedio della prima dinastia normanna»39. Fondato intorno al 1040 dal normanno Drogone di Altavilla, il quale nel 1046 era succeduto nella dignità di conte di Puglia a suo fratello Guglielmo detto Bracciodiferro, il nuovo cenobio benedettino fu diretto dall’abate Ingelberto, il quale, stando al nome, probabilmente non era originario dell’Italia meridionale40. Durante il regime abba37 P. Battifol, Chartes byzantines inédites de Grande Grèce, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 10, 1890, pp. 107 sgg. Cfr. M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza (secc. XI-XIV), «Storia e letteratura», 18, Roma 1947 (19822), p. 173. 38 Cfr. von Falkenhausen, Il monachesimo italo-greco, cit., p. 127. 39 C.D. Fonseca, La prima generazione normanna e le istituzioni monastiche dell’Italia meridionale, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Bari 1975, pp. 135-46, ora in Id., Particolarismo istituzionale e organizzazioni ecclesiastiche del Mezzogiorno medioevale, «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Saggi e ricerche», 25, Galatina 1987, pp. 135-46, in particolare p. 156. 40 Per il seguente mi permetto di rinviare a Houben, Die Abtei Venosa, cit.

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ziale di Ingelberto, terminato tra il 1066, anno in cui egli è attestato per l’ultima volta, e il 1070 circa, quando gli succedette Berengario, il monastero acquistò una solida base economica grazie alle donazioni offerte dagli Altavilla e da altri membri della nobiltà normanna. Particolarmente generoso fu, oltre a Drogone (morto nel 1051) e Unfredo (morto nel 1057), Roberto il Guiscardo. Un salto di qualità fu la sottomissione diretta alla Sede apostolica, concessa il 24 agosto 1059 dal papa Niccolò II, il quale, una settimana prima, aveva personalmente benedetto la nuova chiesa abbaziale, quella oggi detta «chiesa vecchia». L’esenzione del monastero dalla autorità vescovile, concessa dal papa, era stata richiesta da Roberto il Guiscardo, che durante il sinodo di Melfi, celebrato nell’agosto 1059, ottenne dal papa l’investitura come duca di Puglia, Calabria e della Sicilia ancora da conquistare. Il Guiscardo aveva in mente di destinare il monastero a luogo di sepoltura della sua famiglia. A questo scopo fece trasferire, nel 1069, le spoglie dei suoi fratelli Gugliemo e Drogone nella SS. Trinità, dove era già sepolto Unfredo. La fortuna dell’abbazia crebbe con l’arrivo da Saint-Évroul del monaco normanno Berengario, il quale aveva seguito il suo abate Roberto di Grandmesnil dalla Normandia nel Mezzogiorno. Dall’abbazia calabrese di Sant’Eufemia, diretta dallo stesso Roberto, Berengario era stato inviato, insieme ad alcuni confratelli, a Venosa, probabilmente su esplicita richiesta del Guiscardo. Secondo lo storiografo normanno Orderico Vitale, durante il regime abbaziale di Berengario il numero dei monaci sarebbe aumentato da venti a cento; il livello religioso e culturale della comunità sarebbe diventato così notevole che da essa furono scelti alcuni vescovi. Sotto Berengario il monastero ottenne numerose e cospicue donazioni. È probabile che fosse lo stesso Berengario a dare inizio ai lavori per la costruzione della grandiosa chiesa nuova, la cosiddetta «incompiuta», destinata ad accogliere anche la tomba di Roberto il Guiscardo. La salma del Guiscardo era stata portata a Venosa, dopo la sua morte avvenuta nel 1085, come egli aveva desiderato, per essere tumulata vicino alle spoglie dei suoi fratelli. Il 21 settembre 1089 Venosa ebbe la visita del papa Urbano II, il quale, in un privilegio emanato tre giorni dopo a Banzi, concesse a Berengario e ai suoi successori il diritto di portare la mitra durante la messa celebrata nelle feste solenni. Alcuni anni più tardi, forse nel dicembre 1094, Berengario fu eletto vescovo di Venosa mantenendo la carica di abate fino alla morte, avvenuta il 24 dicembre 1095.

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Sotto il suo successore, Pietro I, eletto abate il 24 aprile 1096, le donazioni alla SS. Trinità continuarono. Ma i successori di Roberto il Guiscardo, i duchi Ruggero Borsa (1085-1111) e Guglielmo (1111-27), trasferirono la loro residenza a Salerno e favorirono, di conseguenza, la vicina abbazia di Cava dei Tirreni. Sotto l’abate Ugone, attestato in questa carica per la prima volta nel 1114, il numero delle donazioni ottenute dall’abbazia continuò a diminuire. Un indizio dei problemi economici avuti dal monastero è forse la vendita di una bottega di sua proprietà, ubicata sulla piazza di Melfi. I monaci si rivolsero dopo alcuni anni al duca e al papa accusando l’abate di dissipare i beni dell’abbazia e nel 1130-31 papa Innocenzo II decretò la deposizione di Ugone. La destituzione dell’abate fu causata probabilmente anche da motivazioni politiche. Sembra che egli, insieme ad altri monaci venosini che lo seguirono poi nell’esilio in Calabria, abbia riconosciuto l’antipapa Anacleto II, sostenuto da Ruggero II di Sicilia. Il nuovo abate, Graziano, era invece un sostenitore di Tancredi, conte di Conversano, che si era ribellato contro il re normanno, trovando in quest’azione il deciso appoggio degli abitanti di Venosa. Ruggero II soffocò però presto la ribellione nel sangue. L’abate Graziano ebbe poco successo nel tentativo di ricuperare i beni dell’abbazia e fu nominato, dopo il 1137, vescovo di Venosa. Dopo la fine dello scisma pontificio e la pace stipulata a Mignano tra Ruggero II e Innocenzo II (1139), il sovrano e il papa decisero di riformare profondamente l’abbazia venosina introducendo le consuetudini monastiche dell’abbazia di Cava, allora in pieno vigore. Furono quindi inviati da Cava un nuovo abate, Pietro II detto «Divinacello» (forse per la sua dote di predire il futuro), accompagnato da dodici confratelli. Sotto il regime di questo abate il monastero venosino ebbe un secondo periodo d’oro: i possedimenti aumentarono41 e si poterono riprendere i lavori alla grande chiesa abbaziale42. Secondo il Catalogus baronum del 1150-52, l’abbazia era in grado di fornire all’esercito regio trenta cavalieri armati alla pesante, 230 soldati, nonché un numero non precisato di soldati dovuto per il possesso della metà della città di Ascoli Ivi, pp. 154 sgg. e 204. L. De Lachenal, I Normanni e l’antico. Per una ridefinizione dell’abbaziale incompiuta di Venosa in terra lucana, in «Bollettino d’arte», 96-97, 1996, pp. 1-80, in particolare p. 72; Ead., L’incompiuta di Venosa. Un’abbaziale fra propaganda e reimpiego, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Âge», 110, 1998, pp. 299-315. 41 42

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Satriano. Fu anche l’abate Pietro II a far redigere un nuovo «libro del capitolo» contenente la regola di san Benedetto, omelie per l’uffizio di Prima, un martirologio e un necrologio, cioè la registrazione, secondo il calendario, dei defunti da commemorare nella liturgia (Cod. Casin. 334)43. L’abate dimostrò capacità di gestione economica, ma era anche un uomo di cultura: fu infatti lui, come ho dimostrato alcuni anni fa, e non il suo predecessore Ugo, come si era pensato per molto tempo, a scrivere le biografie dei primi quattro abati cavensi per fornire alla comunità venosina un modello di vita monastica44; fu probabilmente anche lui il committente del «libro del capitolo» di Venosa, testimonianza di uno scriptorium di buon livello; e, secondo un’ipotesi recente di Adalbert de Vogüé, sarebbe stato anche lui l’autore del Commentario al libro dei Re, attribuito finora a Gregorio Magno45. La ripresa religiosa ed economica del monastero, dovuta all’opera dell’abate Pietro II (morto nel 1156), venne però bruscamente interrotta sotto i suoi successori. Dopo la morte dell’abate Nicola I (115657), il re Guglielmo I impose come nuovo abate il monaco cavense Costantino, fratello dell’influente cancelliere regio Matteo d’Aiello. Il malgoverno del nuovo abate portò l’abbazia sull’orlo di una grave crisi economica e molti monaci abbandonarono il monastero. Fu quindi necessaria una nuova riforma, della quale fu incaricato Egidio, monaco spagnolo venuto al seguito della regina Margherita di Navarra, moglie di Guglielmo I e dopo la sua morte, avvenuta nel 1166, reggente per il minorenne Guglielmo II. Egidio, dopo essere diventato abate della SS. Trinità di Venosa, ottenne l’elezione ad abate di Montecassino, ma il papa Alessandro III lo destituì da questa carica rimandandolo a Venosa46. Qui si impegnò con successo nella riorganizzazione Houben, Il «libro del capitolo», cit. Id., L’autore delle «Vitae quatuor priorum abbatum Cavensium», in «Studi medievali», serie III, 26, 1985, pp. 871-79, ora in Id., Medioevo monastico meridionale, «Nuovo Medioevo», 32, Napoli 1987, pp. 167-75. Cfr. ora anche J.-M. Sans­terre, Figures abbatiales et distribution des rôles dans les Vitae quatuor priorum abbatum Cavensium (milieu du XIIe siècle), in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Âge», 111, 1999, pp. 61-104. 45 A. de Vogüé, L’auteur du commentaire des Rois attribué à saint Grégoire: un moine de Cava?, in «Revue Bénédictine», 106, 1996, pp. 319-31; Id., La «Glossa ordinaria» et le Commentaire des Rois attribué à Grégoire le Grand, in «Revue Bénédictine», 108, 1998, pp. 58-60. Cfr. anche F. Clark, Authorship of the Commentary «In 1 Regum», ivi, pp. 61-79. 46 H. Houben, Egidio, abate di Venosa e di Montecassino, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XLII, Roma 1993, pp. 307-308. 43 44

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dei possedimenti del monastero, ordinando probabilmente anche la redazione di un cartulario e di una cronaca. A Egidio succedette l’abate Giovanni I, che era stato abate del monastero di Strumi nei pressi di Arezzo e successivamente eletto antipapa con il nome di Calisto III (1167-78) dai sostenitori di Federico I Barbarossa. Nella pace di Venezia (1177) gli fu promessa da Alessandro III un’abbazia in compenso per la sua abdicazione a papa. Giovanni morì però nel 1183, non molto tempo dopo aver preso possesso dell’abbazia venosina. In seguito il monastero rimase per più di tre anni senza abate, finché fu eletto, nel 1187, Pietro III, priore della chiesa del Santo Sepolcro di Brindisi. Il monastero venosino fu gravemente danneggiato dalle vicende legate alla successione di re Guglielmo II, deceduto nel 1189 senza figli. Egli aveva designato alla successione Costanza di Altavilla, figlia postuma di Ruggero II, moglie di Enrico VI, figlio e successore di Federico Barbarossa. Una parte della nobiltà del Mezzogiorno non condivise questa decisione, eleggendo a re di Sicilia Tancredi, conte di Lecce, figlio naturale del duca Ruggero, primogenito di Ruggero II morto prima del padre. L’abate Pietro III appoggiò questa scelta, che era stata approvata anche dal papa. Enrico VI riuscì però a sconfiggere Tancredi e punì l’abate venosino con la deposizione, affidando l’amministrazione dell’abbazia al decano di Montecassino, Adenulfo. Durante il Duecento le difficoltà del monastero aumentarono. Il papa depose nel 1236 l’abate Gregorio per aver commesso numerose nefandezze. In età angioina gli abati fecero tentativi per ricuperare i beni perduti in età sveva e per restaurare gli edifici monastici e la chiesa. Ma non furono conseguiti grandi successi. Nella seconda metà del secolo XIII gli abati si fecero dispensare dal recarsi presso la curia pontificia «propter paupertatem [...] monasterii et viarum discrimina». Bonifacio VIII decise nel 1297 di sopprimere l’abbazia consegnando i suoi ancora cospicui possedimenti (risultanti dalle Rationes decimarum del 1310) all’ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme47.

47 Id., La SS. Trinità di Venosa, baliaggio dell’Ordine Militare di S. Giovanni di Gerusalemme (1297-1803), in «Studi melitensi», II, 1994, pp. 7-24.

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5. Dipendenze cavensi in Basilicata Un’altra grande abbazia benedettina, la SS. Trinità di Cava dei Tirreni, cominciò in epoca normanna ad acquisire numerose dipendenze in Basilicata48. Nella bolla di Pasquale II, dell’agosto 1100, sono menzionate come dipendenti da Cava diciannove chiese situate nella parte settentrionale del principato di Salerno o nella confinante signoria di Nocera, cioè nelle immediate vicinanze dell’abbazia, una chiesa nel principato di Capua, sette monasteri e sei chiese nel Cilento, sei in Puglia, due nel Vallo di Diano e otto in Lucania e in Calabria49. E l’elenco delle dipendenze contenuto nella bolla pontificia non è neanche completo. Manca per esempio Santa Maria di Cersosimo, donato a Cava nel 1088, di cui si dirà più avanti. L’enorme espansione delle dipendenze cavensi, avvenuta durante il secolo XII, emerge dalla bolla di Alessandro III del gennaio 1169 per Cava. Qui si menzionano ventuno monasteri e novantotto chiese dipendenti da Cava: due nel principato di Capua, quattro monasteri e cinquanta chiese nel principato di Salerno, escluso il Cilento, tre monasteri e nove chiese nel Cilento, sei monasteri e sedici chiese in Puglia, due monasteri e dieci chiese in Vallo di Diano, quattro monasteri e sei chiese nel resto della Lucania e in Calabria, un monastero e una chiesa in Sicilia50. Questa espansione di Cava durante l’epoca normanna, secondo gli

48 Cfr. G. Vitolo, Insediamenti cavensi in Puglia, in Fonseca (a cura di), L’esperienza monastica benedettina, cit., vol. II, pp. 5-166. 49 P. Guillaume, Essai historique sur l’abbaye de Cava d’après des documents inédits, Cava dei Tirreni 1877, app. F bis, pp. xxiii-xxv; J. von Pflugk-Harttung, Acta Pontificum Romanorum inedita, 3 voll., Tubingae-Stutgardiae 1881-86 (rist. Graz 1958), vol. II, pp. 169-71, n. 206; cfr. Italia Pontificia, vol. VIII, Regnum Normannorum-Campania, a cura di P.F. Kehr, Berlin 1935, p. 324, n. 19; G.A. Loud, The Abbey of Cava, Its Property and Benefactors in the Norman Era, in R.A. Brown (a cura di), Anglo-Norman Studies IX. Proceedings of the Battle Conference 1986, Woodbridge 1987, pp. 143-75, ora in Id., Conquerors and Churchmen in Norman Italy, Aldershot 1999, in particolare pp. 152-55. Le cifre sopra riportate si basano sul saggio di Loud. 50 P.F. Kehr, Papsturkunden in Salerno, La Cava und Neapel, in «Göttinger Nachrichten», 1900, pp. 198-269, ora in Id., Papsturkunden in Italien. Reiseberichte zur Italia Pontificia, 6 voll., «Acta Romanorum Pontificum», 1-6, Città del Vaticano 1977, vol. II, pp. 381-452, n. 12 e 239-43. Cfr. Italia Pontificia, vol. VIII, cit., p. 326, n. 26; Loud, The Abbey of Cava, cit., pp. 155 sgg.

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studi di Giovanni Vitolo, differentemente da quanto ritenuto per molto tempo nella storiografia, non fu dovuta a «un progetto di latinizzazione delle strutture ecclesiastiche [...], perseguito dai Normanni e dal Papato»51, perché appunto il caso della Puglia mostra che le dipendenze cavensi erano situate non soltanto in zone di cultura greca, ma anche in zone longobardo-latine come la Capitanata. Secondo il menzionato studioso, invece, l’espansione cavense è spiegabile tenendo conto, oltre che di eventuali motivazioni politiche, «anche di altri fattori, quali lo stato della vita religiosa e delle istituzioni ecclesiastiche di base, l’azione riformatrice svolta dai pontefici e dai vescovi e soprattutto l’alto esempio di spiritualità fornito dagli abati di Cava per più di due secoli»52. Esaminando l’espansione cavense nel Vallo di Diano, appartenente oggi alla provincia di Salerno, ma storicamente alla Lucania, Vitolo ha constatato che gli insediamenti cavensi in questa zona, «oltre ad alimentare la devozione dei fedeli dei centri vicini, svolsero anche la funzione di poli di aggregazione per i contadini che, nel contesto di crescita demografica che caratterizza i secoli XI-XII, andavano alla ricerca di terre da coltivare e di migliori condizioni di vita»53. Nella parte settentrionale della Lucania, e precisamente nel Vallo di Diano, Cava aveva acquisito possedimenti già negli ultimi anni precedenti la conquista normanna, ma successivamente questi aumentarono grazie alle donazioni dei nuovi dominatori. Questa zona fu la prima a essere coinvolta dall’espansione cavense, se si prescinde dagli immediati dintorni dell’abbazia54: nel maggio 1086 Asclettino, conte di Sicignano e signore di Polla, e sua moglie Sichelgaita donarono a Cava il monastero di San Pietro di Polla e la chiesa di Santa Caterina55. Nel novembre 1086 Ugo de Avena e sua moglie Emma donarono i monasteri di San Nicola di Padula e di San Simeone di Montesano,

Vitolo, Insediamenti cavensi, cit., p. 10. Ivi, p. 11. 53 Id., Dalla pieve rurale alla chiesa ricettizia. Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dall’Alto Medioevo al Cinquecento pretridentino, in N. Cilento (a cura di), Storia del Vallo di Diano, vol. II, L’età medievale, Salerno 1982, pp. 127-73, in particolare p. 147. 54 P. Ebner, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, Roma 1979; Loud, The Abbey of Cava, cit., pp. 147 sgg. 55 Vitolo, Dalla pieve rurale, cit., p. 146. 51 52

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ma per un motivo ignoto la donazione fu presto annullata56. Nel 1100 Rao, castellano di Atena, e sua moglie Gaitelgrima donarono il monastero di San Pietro di Atena, ubicato fuori del castello57. Furono poi donati il monastero di San Marzano presso Diano (tra il 1100 e il 1103); il monastero di Sant’Arsenio presso l’omonimo comune (nel 1136); le chiese di San Nicola di Scaulano presso Diano (tra il 1116 e il 1136), di San Pancrazio di Atena (tra il 1141 e il 1168) e di Santa Maria di Matuniano presso Diano (prima del 1149)58. Anche se «di queste chiese e monasteri per lo più non si hanno notizie prima dell’aggregazione a Cava», è però, secondo Vitolo, «probabile che qualcuno fosse abitato da monaci italo-greci, come ad esempio quello di S. Arsenio»59. Grazie alla munificenza dei Normanni l’espansione cavense si diresse poi verso le parti centrali e meridionali della Lucania e verso la Puglia. Cava acquisì anche qui chiese e monasteri latini e italo-greci. Il monastero di San Biagio di Satriano, ubicato fuori le mura della città, donato a Cava nel settembre 1083 dal conte Goffredo e da sua moglie Sichelgaita, doveva essere abbastanza grande, perché nella bolla di Eugenio III del 1149 per Cava si parla del «monasterium S. Blasii cum cellis et pertinentiis suis». Nel 1195 Guglielmo conte di Principato confermò i possedimenti di San Biagio, che appare nel relativo documento come chiesa cavense con a capo il priore Guglielmo «de Guardia»60. Arone, signore di Brienza, e sua moglie Sichelgaita donarono a Cava la chiesa di San Giacomo, ubicata «ante ipso castello Burgentie». Questa donazione deve essere avvenuta prima dell’agosto 1095, perché in questa data essa fu confermata dal vescovo Giovanni di Marsico. Due anni dopo, nel dicembre 1097, Guglielmo di Saponara, ovviamente ora signore di Brienza, rinnovò la donazione con il consenso del menzionato vescovo61. Il vescovo Giovanni III di Marsico, consacrando la nuova chiesa di San Lorenzo in Brienza, da lui stesso

Ibid. Ibid. 58 Ivi, pp. 146 sgg. 59 Ivi, p. 147. 60 Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 197, n. 77. 61 Ivi, pp. 178 sgg., n. 7. 56 57

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edificata quando era priore di San Giacomo di Brienza, confermò, tra il 1163 e il 1179 circa, i diritti di Cava62. Tra XIV e XVII secolo San Giacomo di Brienza è attestato come priorato cavense63. Oscure, ma con ogni probabilità latine, sono le origini del priorato cavense di San Biagio di Salvia (oggi Savoia di Lucania). Secondo lo storico cavense Paul Guillaume, esso sarebbe stato fondato nel 1135 da Nicola, conte di Principato, che lo avrebbe donato a Cava. Ma lo stesso storico ottocentesco non citò il documento da cui derivò la sua indicazione64. Da un documento di epoca sveva risulta che San Biagio di Salvia, nella seconda metà del secolo XII, era stato diretto da un priore di nome Desiderio65. Latina era probabilmente anche la chiesa di San Pietro di Tramutola, acquisita da Cava nel 114466. Si tratta di un caso particolarmente interessante per la formazione di un casale, nato da un insediamento cavense. Probabilmente latino era anche il «monasterium Sancti Iohannis, quod situm est subtus castellum Marsici Veteris», donato nel maggio 1151 da Alessandro di Marsicovetere67. Più numerosi erano le chiese e i monasteri italo-greci acquisiti da Cava in Lucania. Il monastero più importante è Santa Maria di Cersosimo, donato «cum hominibus et aliis pertinentiis suis et cellis, que grece dicitur metochia» il 21 novembre 1088 da Ugo di Chiaromonte68. Questo monastero, attestato per la prima volta nel 1034, quando era diretto dall’abate Teodoro69, divenne il capo di tutti gli insediamenti 62 L. Mattei-Cerasoli, Tramutola, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 13, 1943-44, pp. 32-46, 91-118, 201-13; 14, 1945, pp. 37-62, in particolare pp. 116 sgg., doc. 19. 63 Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 179. In una carta del 5 giugno 1130, emanata da Goffredo di Montescaglioso per l’abate Simeone di Cava, è menzionata una «ecclesia s. Johannis Burgentie»: cfr. C.A. Garufi, Per la storia dei secoli XI e XII. Miscellanea diplomatica, II. I conti di Montescaglioso, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 9, 1912, pp. 324-66, in particolare pp. 350 sgg., doc. 3. 64 Guillaume, Essai historique, cit., p. 107. 65 Cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 197, n. 78. 66 Ivi, pp. 198 sgg., n. 84. 67 Mattei-Cerasoli, Tramutola, cit., pp. 106 sgg. Cfr. E. Cuozzo, Catalogus baronum. Commentario, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 101.2, Roma 1984, p. 22; Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 186 sgg., n. 39. 68 Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 181 sgg., n. 17. 69 Trinchera, Syllabus, cit., p. 33; cfr. L. Mattei-Cerasoli, La badia di Cava e i monasteri greci della Calabria superiore, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, pp. 167-82, 265-82.

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cavensi greci della Lucania. Fu sottoposto ad esso anche il monastero di Sant’Andrea di Calvera, donato a Cava nel 1053, di cui si è già detto70. Nel novembre 1086 Ugo de Avena e sua moglie donarono insieme a due monasteri in Vallo di Diano, cioè San Nicola di Padula e San Simeone di Montesano, anche un monastero «quod dicitur sancti Johannis in loco Layta, qui est prope castro Mercurio»71. Questo monastero si trovò nella valle del Lao, cioè non lontano dall’attuale Orsomarso (provincia di Cosenza), dove è stato localizzato il castrum Mercurii72, cioè in una zona ellenizzata. Ma la donazione, per motivi ignoti, fu presto annullata, perché i menzionati monasteri non appaio­ no tra quelli confermati a Cava nel 108973. Il priorato di Sant’Onofrio di Camposirti, situato nella zona di Noepoli, ricco di vigneti, campi e molini sul Sarmento, fu donato nel settembre 1093 dai fratelli Alessandro e Riccardo di Chiaromonte al monastero di Santa Maria di Cersosimo, e quindi a Cava74. Nel settembre 1179 Camposirti è menzionata come hobedientia di Santa Maria di Cersosimo75. Nel gennaio 1122 Ugo di Chiaromonte donò la chiesa di San Costantino, dalla quale prende il nome l’attuale paese di San Costantino Albanese sul monte Pollino, all’abate di Cava «et fratri Ursoni de lu Cilento, venerabili priori monasterii sancte Marie des Kursosimo»76. Nel luglio del 1122, Alberada, signora di Colobraro e di Policoro, donò all’abate di Cava per il priorato cavense di Santa Maria di Cersosimo «ecclesiam beati Nicolay Peratiky», cioè San Nicola di Peratico, ubicato nei pressi di Tursi (diocesi di Anglona)77. Si tratta di una chiesa greca, officiata nel 1116 dal monaco Candido78. In una carta greca, emanata il 19 febbraio 1118 a favore di San Nicola di Peratico, si motiva la donazione con la povertà del monastero79. Anche dopo la sua associazione al priorato cavense di Cersosimo San Nicola di PeCfr. Houben, L’espansione del monachesimo, cit., pp. 36 sgg. Mattei-Cerasoli, La badia, cit., pp. 176 sgg. 72 Ivi, p. 175. 73 Cfr. Vitolo, Dalla pieve rurale, cit., p. 146. 74 Trinchera, Syllabus, cit., pp. 75 sgg., doc. LVIII; cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 192, n. 59. 75 Mattei-Cerasoli, La badia, cit., pp. 291 sgg., doc. 11. 76 Ivi, p. 280, doc. 4. 77 Ivi, pp. 278 sgg., doc. 3. Cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 200, n. 89. 78 Trinchera, Syllabus, cit., p. 106, doc. LXXXI. 79 Ivi, pp. 110 sgg., doc. LXXXIV. 70 71

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ratico rimase un priorato greco, come risulta da alcuni documenti: nel 1131 Riccardo di Chiaromonte, signore di Policoro, confermò all’igumeno Nicodemo di San Nicola di Peratico alcuni possedimenti. Lo stesso Nicodemo è attestato nel novembre 1132 come abate di San Nicola «de Paratici». Nel 1191 è attestato l’igumeno Nifo, il quale, in una carta del 1197, è indicato come abate di San Nicola di Peratico. Il monastero greco di San Giorgio di Episcopia (provincia di Potenza) fu donato nel 1143 a Santa Maria di Cersosimo80. Nel maggio è attestato alla guida del monastero l’abate Giuseppe81. In una carta di donazione, emanata nel 1166 a favore di Elia, categumeno di questo monastero, non si fa cenno a una dipendenza del cenobio da Santa Maria di Cersosimo82. Nel 1171 Tustaino de Duna, signore di Favacia (Valsinni, provincia di Potenza), donò a Cersosimo la chiesa di San Pietro de Balconite, detta poi di Carpino83. Questa donazione fu confermata nel 1177 da Rainaldo Durante, signore di Favacia, e da sua moglie Grisiberga84. Di altri monasteri e chiese italo-greche donate nel secolo XII a Cava si sono conservate soltanto menzioni in documenti posteriori, dove esse risultano come obbedienze di Cersosimo: si tratta della chiesa di San Nicola da Tegana (Teano, nella valle del Sinni) e di tre chiese, San Nicola di Cofina, Sant’Elia di Cortomeno e Sant’Abate, ubicate nel territorio di Oriolo (provincia di Cosenza)85. San Nicola di Cofina era nel 1132 e nel 1135 ancora un monastero autonomo, diretto dall’igumeno Cosma, che ricevette delle donazioni86. Nel 1185 Pietro, priore di Cersosimo, ricevette, da parte dell’arciprete di Cersosimo con il consenso del figlio e dei nipoti, la chiesa di San Pietro di Canacaro e i relativi possedimenti87. Nel 1193 risulta 80

n. 19.

Ivi, pp. 177 sgg., doc. CXXXIV. Cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 182,

81 Trinchera, Syllabus, cit., p. 157, doc. CXVIII. Il monastero è poi attestato in documenti del 1138, del maggio 1139 e dell’aprile 1141 (ivi, pp. 158 sgg., doc. CXIX, 159 sgg., doc. CXX, 168 sgg., doc. CXXVII). 82 Ivi, pp. 222 sgg., doc. CLXIX. 83 Mattei-Cerasoli, La badia, cit., pp. 282 sgg., doc. 8. 84 Ivi, pp. 284 sgg., doc. 9. Nel 1279 l’abate di Cava poté ricuperare i beni di questa chiesa (cfr. ivi, p. 287). 85 Ivi, p. 279. 86 Trinchera, Syllabus, cit., pp. 148 e 154. 87 Mattei-Cerasoli, La badia, cit., pp. 294 sgg., doc. 13. Una localizzazione della chiesa non è possibile: cfr. ivi, p. 281.

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come dipendenza di Cersosimo il monastero di Sant’Elia de Chortomeni in territorio di Oriolo88. È probabile che le istituzioni italo-greche, anche dopo essere passate sotto il dominio di Cava, avessero conservato per un certo periodo il rito greco. Il priore di Cersosimo, a cui erano sottoposte, era però sempre un monaco proveniente da Cava, e celebrò, quindi, con ogni probabilità la liturgia in latino. Dobbiamo presumere, di conseguenza, che a Cersosimo, nei secoli XI-XIII, vivessero sia monaci greci che latini. Questi ultimi, con il passare del tempo, sembrano essere aumentati. In questo senso può essere interpretata una carta emanata nel 1179 da «Daniel, prior sancte Marie de Kirizosimi, residente me una cum fratribus meis, videlicet domno Iopho sacerdos, et domno Nicolao sacerdos et domno Guillelmo monacho et domno Iohanni monacho et aliis quam pluribus testibus subnotatis». In essa la maggior parte dei testimoni sottoscrive in latino, cioè, dopo i priori Daniele di Cersosimo e Arsenio, i quattro monaci sopra menzionati, mentre soltanto due monaci (Giovanni e Rao) firmavano in greco89. L’ipotesi di una pacifica coesistenza tra liturgia greca e latina in Basilicata viene suffragata da una lettera indirizzata nel 1210 dal papa Innocenzo III all’arcivescovo di Conza: il papa si lamenta che nelle chiese di Auletta e di altri luoghi officino sacerdoti greci e latini, anzi che lo stesso prete celebri gli uffizi divini in entrambi i riti, secondo le circostanze, ordinando quindi che a ogni chiesa sia assegnato un solo rito90. Ma sembra che in altre parti della Basilicata la «promiscuità» tra monaci greci e latini fosse tollerata ancora a lungo. In un accordo stipulato nel 1320 tra l’abate Giacomo di Carbone e il vescovo Marco di Anglona si legge che a Carbone potevano essere accolti anche monaci latini, ma che gli abati dovevano essere sempre greci91. Forse si trattava di una misura per colmare le lacune nelle file dei monaci greci, causate dall’esiguità delle vocazioni dovuta al regresso dell’elemento greco nella società lucana del tardo Medioevo92. Ivi, pp. 196-98, doc. 15. Ivi, pp. 291 sgg., doc. 11, in particolare p. 292. 90 Patrologiae Latinae cursus completus, edidit J.-P. Migne, Parisiis 1878, vol. CCXIV, c. 909; cfr. Mattei-Cerasoli, La badia, cit., p. 274, nota 1. 91 F. Ughelli, Italia sacra, 10 voll., Venetiis 1717-222, vol. VII, cc. 86-90, in particolare c. 87. Cfr. Mattei-Cerasoli, La badia, cit., p. 274, nota 1. 92 Nel 1458 l’abbazia di Sant’Elia di Carbone aveva, oltre all’abate Placido, soltanto quattro monaci: cfr. M.-H. Laurent, A. Guillou (a cura di), Le «Liber 88 89

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Dall’elenco delle chiese e dei monasteri lucani passati sotto il dominio di Cava emerge che la maggior parte delle donazioni era dovuta all’iniziativa di laici, per lo più signori feudali, ma in alcuni casi anche gruppi di uomini liberi. In confronto alla Puglia si nota una minore iniziativa dei vescovi. Particolarmente interessanti sono alcuni casi in cui da o presso insediamenti cavensi nacquero dei villaggi. Eloquente per le favorevoli condizioni economiche che aspettavano gli uomini che si insediarono presso le dipendenze di Cava è la carta del settembre 1179, in cui Daniele, priore di Cersosimo, stabilisce le condizioni sotto le quali quattro uomini, Costa de Nura, Plastu Accitanu, Johannes de Niciforu e Johannes Marguleo, possono venire ad abitare presso Santa Maria di Camposirti (nel territorio di Noepoli)93: essi devono lavorare per la menzionata dipendenza cavense nove giorni l’anno, di cui tre per la semina, tre per la purga e tre per la mietitura; se venivano giudicati (o se erano «chiamati da altri a mercede»?), dovevano pagare 1 ducato («per il lavoro mancato»?); per l’assistenza religiosa dovevano dare una gallina. Se volevano tornare da dove erano venuti, potevano vendere le loro proprietà ai vicini e dovevano pagare 4 danari d’argento; se volevano invece trasferirsi altrove, dovevano pagare 4 ducati. Finché abitavano presso la menzionata dipendenza cavense, fu loro garantita francitia e liberalitas per la loro persona e per i loro beni; e questo valeva anche per i loro figli, parenti o altre persone che si sarebbero in futuro ivi trasferiti («ma potranno tornare agli stessi patti essi o i loro figli»)94. I diritti di Cava su Cersosimo vennero riconosciuti da parte dei giustizieri regi nel 1183. Dall’audizione di giudici, di milites giurati e di anziani probi homines era risultato che il casale di Cersosimo e le sue chiese e pertinenze erano stati donati a Cava da Ugo di Chiaromonte, il quale aveva concesso il diritto di chiamare qui uomini e di pascolare liberamente il bestiame per tutto il territorio di Noepoli95. I diritti degli uomini del casale di Cersosimo di essere esenti da presta-

visitationis» d’Athanase Chalkéopoulos (1457-1458). Contribution à l’histoire du monachisme grec en Italie méridionale, «Studi e testi», 206, Città del Vaticano 1960, p. 152. 93 Mattei-Cerasoli, La badia, cit., pp. 291 sgg., doc. 11. 94 Ibid. 95 Ivi, pp. 292-94, doc. 12, in particolare p. 293.

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zioni richieste dai signori di Noepoli, e di vivere «libere et france» da tali prestazioni, vennero confermati nel 122196. Un altro villaggio nato da un insediamento cavense è Tramutola, ubicato in una fertile valle che collega le valli dell’Agri e del Tanagro97. Nel maggio 1144 tredici abitanti di Marsico, comproprietari (sortifices) della chiesa di San Pietro di Tramutola, donarono questa, con il consenso di Adelaia, contessa di Principato, all’abbazia di Cava98. Sempre nel maggio 1144, Giovanni III, vescovo di Marsico, confermò all’abate Falcone, il quale era stato priore di Cersosimo99, la stessa chiesa per farne un ospizio per i monaci cavensi di passaggio nella valle: «ut fratres sancti predicti cenobii ex hac transeuntes seu redeun­tes in illa haberent hospitium»100. Le origini di San Pietro di Tramutola emergono bene dalla carta di donazione, emanata nel novembre 1153 dal conte Silvestro di Marsico, dove si legge: «pro postulatione etiam domni Iohannis Marsici eiusdem monasterii [scil. cavensis] monachi, qui vester [cioè dell’abate Marino] est cappellanus, qui etiam sancti Petri Tramutule monasterium a fundamento incepit et fere ad effectum usque perduxit»101. Nel 1151 Alessandro, signore di Marsicovetere, concesse a San Pietro di Tramutola, fra l’altro, un mulino «cum omnibus suis utilitatibus» nonché il permesso di accogliere sui possedimenti del monastero «usque duodecim casatas hominum [...] ad habitandum»102. Il completo dominio temporale sul casale di Tramutola fu concesso dal conte Silvestro di Marsico a Cava nel novembre 1153103, quello spiriIvi, pp. 301 sgg., doc. 18. Mattei-Cerasoli, Tramutola, cit., pp. 32 sgg. 98 Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 198 sgg., n. 84; F. Carabellese, Il Comune pugliese durante la monarchia normanno-sveva, «Commissione provinciale di archeologia e storia patria, Documenti e monografie per la Puglia», 17, Bari 1924, pp. 157 sgg. 99 Cfr. Mattei-Cerasoli, La badia, cit., pp. 278 sgg., doc. 3 (a. 1122). 100 Id., Tramutola, cit., pp. 41-43, doc. 5, in particolare p. 42. 101 Ivi, pp. 108-11, doc. 14, in particolare p. 108. La data 1154 novembre va corretta in 1153 novembre perché Ruggero II (morto il 27 febbraio 1154) è menzionato come vivo. Giovanni di Marsico è attestato come monaco cavense e cappellano dell’abate Falcone anche in un documento del maggio 1144 (ivi, pp. 41-43, doc. 5, in particolare p. 42). 102 Ivi, pp. 106 sgg., doc. 13, in particolare p. 107. 103 Ivi, pp. 108-11, doc. 14, in particolare p. 110. Nel 1190 il conte Guglielmo di Marsico confermò la libertà degli uomini del casale e vietò ai suoi baiuli di giudicarli (ivi, pp. 117 sgg., doc. 20). 96 97

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tuale dal vescovo Giovanni III di Marsico nel 1166. Il vescovo, dopo aver consacrato la nuova chiesa della SS. Trinità in Tramutola, concedette ai monaci cavensi di seppellire laici nei loro cimiteri104, cioè di esercitare un diritto parrocchiale, spesso conteso tra clero secolare e monastico per le entrate finanziarie, le «oblationes mortuorum», con esso connesse105. Delle prestazioni e dei censi dovuti dagli uomini del casale all’abbazia cavense abbiamo soltanto conoscenze indirette. Per quanto riguarda le corvées, Mattei Cerasoli ipotizzò che per Tramutola fossero stati adottati «gli usi di Castellabbate e di altre dipendenze cavensi», cioè che «i coloni ricevevano in proprietà le case e le terre avute per la coltivazione e dovevano in cambio lavorare una giornata alla settimana per il Monastero: se avessero voluto vendere le case e le terre, dopo averne fatta l’offerta ai monaci e se questi al prezzo ridotto di un terzo non volevano riacquistarle, potevano venderle solo agli abitanti del casale»106. Sui censi dovuti dai coloni abbiamo un documento della fine del secolo XV, in cui «si dice che ogni colono doveva dare ogni anno un tomolo di grano, uno d’orzo e un fascio di lino, e un carlino per decima»107. Sembra che fossero stati obbligati, inoltre, «a macinare le granaglie nei molini del monastero, e a cuocere il pane nei forni del Priorato»108. Dovuta probabilmente al desiderio di assicurarsi l’assistenza spirituale dei monaci cavensi è l’iniziativa di un gruppo di dodici uomini liberi, abitanti della civitas di Sant’Arcangelo, che donarono nel gennaio 1144 a Ruggero, priore di Cersosimo, e all’abbazia di Cava la chiesa di San Pancrazio, «que fundata est in pertinencie istius predicte civitatis in loco, qui dicitur Flaminiano». Nel relativo documento è stabilito che nel caso in cui la chiesa donata a Cava fosse stata abbandonata dai monaci cavensi, passati tre anni, l’abbazia avrebbe dovuto restituire i beni appartenenti ad essa109.

Ivi, 115 sg., doc. 18. Cfr. H. Dormeier, Montecassino und die Laien im 11. und 12. Jahrhundert, mit einem einleitenden Beitrag, Zur Geschichte Montecassinos im 11. und 12. Jahr­ hundert von H. Hoffmann, in MGH, Schriften, 27, Hannover 1979, pp. 158 sgg.; Vitolo, Insediamenti cavensi, cit., pp. 20 sgg. 106 Mattei-Cerasoli, Tramutola, cit., p. 94. 107 Ivi, p. 96. 108 Ibid. 109 Id., La badia, cit., pp. 281 sgg., doc. 6. 104 105

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Di notevole interesse è un documento dell’aprile 1163 che, secondo il suo editore, Mattei Cerasoli, attesterebbe la donazione a Cava della chiesa di San Marco di Sasso di Castalda (non lontano da Brienza)110. In verità la chiesa non fu donata a Cava, ma al vescovo di Marsico, Giovanni III, che era però un monaco cavense. Dato che il documento è conservato nell’archivio di Cava, non è da escludere che la chiesa, in epoca posteriore, fosse pervenuta a Cava111. Il documento attesta l’esistenza di una comunità di liberi che aveva fondato una villa, cioè un villaggio, e che sul territorio appartenente a questa villa restaurò una chiesa, presso la quale si formò un nuovo insediamento. La comunità agì di propria iniziativa, come risulta dal passo in cui si dice: «idcirco populus Petre, que cognominatur de Augustaldo, communi voto ac volumptate, suggerente ei gratia Spiritus sancti, quandam ecclesiam in predicte ville territorio, titulo sancti Marci evangeliste, antiquitus constructam, nullo ibi tamen manente custode murorum, etiam hedificiis cadentibus, restaurare conatus est». All’opera di ricostruzione della chiesa, ma anche di costruzione di nuove case nei pressi della stessa chiesa, parteciparono Pietro, arciprete e preposito della chiesa di San Donato, e il suo socio Mainardo112. A lungo andare, l’espansione degli insediamenti cavensi nella Basilicata sud-occidentale doveva contribuire, come in Terra d’Otranto, al regresso dell’elemento greco. Significativo è il caso del monastero greco di Sant’Angelo di Raparo, ubicato alle falde dell’omonimo monte nei pressi dell’attuale San Chirico Raparo, passato tra il 1291 e il 1308 dall’ordine di san Basilio a quello di san Benedetto113. Il motivo principale della lenta, ma inarrestabile decadenza della cultura greca nell’Italia meridionale non va cercato in una politica di latinizzazione perseguita, con l’appoggio dei Normanni, dalle abbazie benedettine latine, come quelle di Venosa e Cava114; più imporId., Tramutola, cit., pp. 113 sgg., doc. 17. L’affermazione di Mattei-Cerasoli (ivi, p. 95), secondo cui il vescovo Giovanni III avrebbe donato la chiesa di San Marco a Cava, non è suffragata da documenti. 112 Ivi, p. 114, doc. 17. 113 Cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 196 sgg., n. 75; G. Bertelli, E. Degano, S. Angelo a San Chirico Rapàro, in C. Carletti, G. Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte S. Angelo, 18-21 novembre 1992), Bari 1994, pp. 427-52. 114 Cfr. anche H. Houben, I Benedettini e la latinizzazione della Terra d’Otranto, in Id., Tra Roma e Palermo, cit., pp. 159-76, ora in B. Vetere (a cura di), Ad 110 111

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tante fu invece la lenta latinizzazione del ceto dirigente greco, che assimilò lingua e credo dei conquistatori, «non a ciò indotta da qualche persecuzione religiosa o razzista, ma per non essere socialmente declassata». Così si comprende che «alla fine del periodo svevo, a parte alcuni dottissimi, i Greci superstiti erano in genere contadini ignoranti, altrettanto estranei e incapaci di gestire con decoro le istituzioni religiose greche e di amministrare i loro beni, quanto di trasmettere le forme e i contenuti di una cultura greca ormai svanita e lontana»115. Nel corso del secolo XII anche il monachesimo benedettino incontrò crescenti difficoltà, dovute a mutamenti avvenuti o in corso di svolgimento in molti settori della società; tuttavia, non è giustificato parlare di una vera e propria crisi. Nelle trasformazioni il problema meno grave era la limitazione della libertà di azione del monachesimo all’interno della Chiesa, dove, nel corso del secolo XI, si era rafforzata la posizione dell’episcopato. Tale limitazione poteva essere interpretata anche in maniera positiva, cioè come un richiamo all’esigenza della fuga mundi, uno dei principi fondamentali del monachesimo, vale a dire il ritiro completo dal mondo, da quel mondo in cui i monaci erano entrati anche con finalità politiche ed economiche costituendo, come nel caso di Montecassino, vere e proprie signorie fondiarie. Un problema più difficile da risolvere era quello dei mutamenti nella vita intellettuale e nella sensibilità religiosa, avvenuti in concomitanza, o come conseguenza, dell’evoluzione economica e sociale, che si suol definire come il «dinamismo generale da cui fu investito l’Occidente» dopo il Mille116. Il mutamento degli orizzonti economici e sociali, religiosi e culturali, coinvolse anche le istituzioni monastiche, legate, nell’alto Medioevo, a una società feudale e agraria. Accanto ai tentativi di riforme interne, per lo più di natura organizzativa, nascevano nuovi movimenti che cercavano di rispondere alle mutate esigenze religiose, rimanendo però legati alla spiritualità e/o alla struttura istituzionale benedettine. A una certa uniformità del monachesimo Ovest di Bisanzio: il Salento medioevale. Atti del Seminario internazionale di studio (Martano, 29-30 aprile 1988), «Università degli Studi di Lecce, Pubblicazioni del Dipartimento di Studi storici dal Medioevo all’Età contemporanea», 13, Galatina 1990, pp. 71-89. 115 Von Falkenhausen, I Bizantini in Italia, cit., p. 127. 116 Cfr. M. Pacaut, Les ordres monastiques et religieux au Moyen Age, Paris 1970 (trad. it. Monaci e religiosi nel Medioevo, Bologna 1989, p. 156).

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benedettino alto-medioevale si sostituiva una molteplicità di forme di vita monastica. Movimenti monastici riformatori, ispirandosi in parte alla tradizione eremitica, si diffusero anche nell’Italia meridionale. Il laico Guglielmo da Vercelli, che era vissuto prima come penitente e predicatore itinerante e poi, dal 1111 fino al 1113 circa, come eremita117, fondò tra il 1118 e il 1120 a Montevergine (presso Mercogliano, provincia di Avellino) una comunità formata da laici, monaci e sacerdoti che vissero secondo una «norma anachoretica» per molti versi simile all’Institutio eremitarum di Pier Damiani118. Abbandonando nel 1127 la comunità di Montevergine, diretta da lui come «custos et rector», egli dimostrò il suo dissenso verso i tentativi di ammorbidire il rigorismo eremitico. Guglielmo fondò in seguito altre comunità eremitiche aperte ai laici, tra cui quella femminile di San Salvatore del Goleto (presso Sant’Angelo dei Lombardi, provincia di Avellino), dove morì il 25 giugno 1142119. In Basilicata egli aveva fondato tra il 1128 e il 1130 un monastero sul monte Cognato, sulla riva destra del Basento, pochi chilometri a sud di Tricarico, mentre il vescovo di Rapolla, Ruggero, donò nel 1141 al monastero di San Salvatore del Goleto la chiesa di Santa Maria di Perno o Pierno, ubicata presso Atella120. Poco tempo dopo la fondazione di Montevergine, Giovanni di Matera fondò nel 1128-29 la comunità di Santa Maria di Pulsano sul monte Gargano. Giovanni, non soddisfatto dell’esperienza in un monastero greco a Taranto, sentì la necessità di una vita religiosa più rigorosamente orientata verso una «vita apostolica»121. Durante l’epoca dell’abate Gioele (1145-77) Pulsano divenne il centro propulsore 117 G. Andenna, Guglielmo da Vercelli e Montevergine: note per l’interpretazione di una esperienza religiosa del XII secolo nell’Italia meridionale, in Fonseca (a cura di), L’esperienza monastica benedettina, cit., vol. I, pp. 87-118, in particolare p. 98, nota 39. 118 Ivi, pp. 103 sgg. 119 Cfr. Italia Pontificia, vol. IX, Samnium-Apulia-Lucania, a cura di W. Holtzmann, Berlin 1962, pp. 129 e 514 sgg.; J.-M. Holtzmann, Le Goleto et Montevergine en Pouille et en Basilicate, in La società meridionale nelle pergamene di Montevergine: I Normanni chiamano gli Svevi. Atti del secondo convegno internazionale (Loreto di Montevergine, 12-15 ottobre 1987), «Centro studio verginiano», 5, Montevergine 1989, pp. 101-28. 120 Monasticon Italiae, vol. III, cit., pp. 199, n. 87 e 177 sgg., n. 4. 121 Cfr. F. Panarelli, Dal Gargano alla Toscana: il monachesimo riformato latino dei pulsanesi (secoli XII-XIV), «Istituto storico italiano per il Medio Evo, Nuovi studi storici», 38, Roma 1997.

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di un gruppo di monasteri dipendenti, tra cui anche uno in Basilicata, cioè San Pietro «de Cellaria», ubicato pochi chilometri a sud-est di Calvello122. Il già variegato quadro degli insediamenti monastici in Basilicata fu arricchito dalla presenza dei Cistercensi, che si insediarono probabilmente intorno al 1200 nel monastero di Santa Maria del Sagittario, ubicato a sud-ovest di Francavilla in Sinni, nelle vicinanze di Episcopia, fondato come monastero benedettino intorno al 1150123. Nel Duecento, quando anche in Basilicata arrivarono nuove forme di vita religiosa, come quella realizzata dai Francescani, molte abbazie benedettine attraversarono momenti difficili. Il papa Onorio III affidò il 7 aprile 1225 ai vescovi di Melfi e di Ruvo di Puglia un’inchiesta sullo stato del monastero di Santa Maria di Banzi, il quale, secondo quanto riferito al pontefice, «non sembra più casa di preghiera, ma spelonca di ladroni, sentina di vizii, albergo di voluttà della carne». L’inchiesta ebbe come risultato l’esistenza di «cose più orribili di quelle» riferite al papa, come si apprende dalla lettera di Onorio III dell’11 giugno 1226. Sembra che i tentativi di riformare la vita monastica a Banzi abbiano avuto poco successo124. Simile era la situazione dell’abbazia di San Michele di Monticchio: il 28 ottobre 1233 il papa Gregorio IX incaricò il vescovo di Troia di visitare il monastero e di richiamare i monaci a una vita più corretta. Ma da una lettera papale dell’11 giugno 1252 il monastero risulta «non solum in spiritualibus et temporalibus ac regulari observatione collapsum, verum etiam in monachorum numero [...] adeo diminutum, quod vix in suo possit ordine reformare»125. Nella Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 179, n. 10. Cfr. P. Dalena, I Cistercensi nella Basilicata medioevale, in H. Houben, B. Vetere (a cura di), I Cistercensi nel Mezzogiorno medioevale. Atti del Convegno internazionale di studio in occasione del IX centenario della nascita di Bernardo di Clairvaux (Martano-Latiano-Lecce, 25-27 febbraio 1991), «Università degli Studi di Lecce, Pubblicazioni del Dipartimento di Studi storici dal Medioevo all’Età contemporanea», 28, Galatina 1994, pp. 285-316; P. Dalena, Basilicata cistercense (Il Codice Barb. lat. 3247), «Università degli Studi di Lecce, Pubblicazioni del Dipartimento di Studi storici dal Medioevo all’Età contemporanea, Itinerari di ricerca, Supplementi», 14, Galatina 1995, pp. 7-43. 124 P. Pressutti (ed.), Regesta Honorii papae III, Romae 1888-95, nn. 5426 e 5931. 125 L. Auvray (a cura di), Les registres de Grégoire IX, Paris 1896-1955, n. 1586; G. Fortunato, La badia di Monticchio, «Notizie storiche della Valle di Vitalba», 6, Trani 1904 (rist. Venosa 1985), pp. 358-60, doc. 4 e 360, doc. 5. 122 123

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SS. Trinità di Venosa le cose non andarono meglio: il 18 aprile 1236 Gregorio IX era costretto a deporre l’abate Gregorio, il quale, vivendo lussuriosamente fuori del monastero, aveva dissipato i beni dell’abbazia, ridotta in uno stato di assoluto declino. Poco tempo dopo il priore venosino Leone, incaricato dal papa dell’amministrazione dell’abbazia, fu ucciso da un suo confratello, forse con la complicità di altri monaci126. Una fase di «espansione territoriale» e «potenziamento della struttura economica» attraversò invece durante la prima metà del Duecento, secondo le recenti ricerche di Pietro Dalena, l’abbazia cistercense di Santa Maria del Sagittario, favorita anche da Federico II127. Nella seconda metà del XIII secolo, comunque, anche questa abbazia si trovò in crescenti difficoltà. La crisi, affrontata nella prima metà del Trecento, era però «transitoria» e «venne agevolmente superata [...] per la munificenza dei feudatari di Chiaromonte e per la pietà popolare»128. Sembra che soltanto dopo la metà del XV secolo fosse avvenuta una vera e propria decadenza del monastero cistercense del Sagittario, quando assunse un ruolo più importante il monastero certosino di San Nicola in Valle, fondato alla fine del XIV secolo129. Il caso di Santa Maria del Sagittario dimostra che in determinate circostanze un’abbazia benedettina poteva essere ancora florida durante il tardo Medioevo, considerato a lungo nella storia del monachesimo benedettino come un periodo di generale decadenza. Del resto, ricerche recenti hanno evidenziato la fioritura dell’abbazia di Santa Maria di Montevergine per tutto il Duecento130. Rimangono ancora da studiare molti aspetti del monachesimo medievale in Basilicata. Si pensi per esempio alla presenza dei Certosini: il monastero di San Nicola in Valle nei pressi di Francavilla in Sinni, fondato nel 1391 da Venceslao Sanseverino, duca di Venosa e conte

126 Auvray (a cura di), Les registres de Grégoire IX, cit., nn. 3118 e 3893. Cfr. Houben, Die Abtei Venosa, cit., p. 169. 127 Dalena, I Cistercensi, cit., pp. 295 sgg. 128 Ivi, p. 305. 129 Ivi, pp. 307 sgg. 130 G. Vitolo, Religiosità delle opere e monachesimo verginiano nell’età di Federico II, in «Benedictina», 43, 1996, pp. 135-50; F. Panarelli, Le grandi abbazie dell’Italia meridionale nel tardo medioevo (1250-1417), in «Kronos», 1, 2000, pp. 81-104, in particolare pp. 91 sgg.

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di Tricarico e Chiaromonte, acquisì notevoli beni e contava ancora nel 1736 quaranta religiosi131. In conclusione va sottolineato il ruolo della Basilicata come terra di transito e di confluenza di varie esperienze monastiche. Qui si incontrò il monachesimo benedettino alto-medievale, rappresentato dalle dipendenze di Santa Sofia di Benevento, di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno, con il monachesimo italo-greco prevalentemente di tipo eremitico. Il quadro fu poi arricchito dall’abbazia «normanna» della SS. Trinità di Venosa e dall’espansione del monachesimo benedettino riformato rappresentato da Cava. Esperienze eremitiche e cenobitiche si fondono nell’opera di Giovanni da Matera, fondatore della congregazione pulsanese, il quale in Basilicata incontrò Guglielmo da Vercelli, altro esponente di una forma nuova di vita monastica, da cui sarebbe più tardi nata la congregazione di Montevergine. Cistercensi e Certosini arricchirono ulteriormente il variegato quadro monastico, a cui si sarebbero poi aggiunte altre forme di vita religiosa come quelle degli ordini religioso-militari e degli ordini mendicanti. 131 A. Giganti, Le pergamene del monastero di S. Nicola in Valle di Chiaromonte (1359-1439), «Fonti e studi per la storia della Basilicata della Deputazione di Storia Patria per la Lucania», 6, Potenza 1978; Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 183, n. 24.

I FRATI MINORI: UN’ECCEZIONE DA INTERPRETARE di Letizia Pellegrini Il fenomeno della penetrazione territoriale e dell’insediamento stabile di conventi urbani da parte dell’ordine dei Minori è uno dei più caratteristici dei primi decenni del XIII secolo. Particolarmente vistoso fin dall’inizio, per densità di insediamenti, nell’Italia mediana – e soprattutto in area umbro-marchigiana –, entro la metà del secolo è un elemento acquisito, non più una novitas nella vita delle comunità cittadine: espressione materiale della crescente influenza mendicante sulla vita politica, sociale, ecclesiale e pastorale in tutta l’Europa del XIII secolo1. 1 La questione dell’insediamento degli ordini mendicanti e delle sue forme è stata aperta storiograficamente da Jacques Le Goff alla fine degli anni Sessanta con la promozione di un’inchiesta relativa al territorio francese: cfr. J. Le Goff, Apostolat mendiant et fait urbain dans la France médiévale. L’implantation géographique des Ordres Mendiants. Programme-questionnaire pour une enquête, in «Annales. Economies, Sociétés, Civilisation», 23, 1968, pp. 335-52; Id., Ordres Mendiants et urbanisation dans la France Médiévale, ivi, 25, 1970, pp. 925-46. Per l’Italia si segnala Les Ordres mendiants et la ville en Italie centrale (v. 1220 - v. 1350). Actes de la Table Ronde (Rome 27-28 avril 1977), in «Mélanges de l’École Française de Rome», LXXXIX, 2, 1977. Per una panoramica dei temi connessi all’insediamento mendicante del Mezzogiorno e per una relativa adeguata impostazione metodologica cfr. G. Vitolo, Ordini mendicanti e dinamiche politico-sociali nel Mezzogiorno angioino e aragonese, in «Rassegna storica salernitana», 30, 1998, pp. 67-101. Per i tempi e i modi di insediamento propri dell’ordine dei Minori in Italia cfr. L. Pellegrini, Insediamenti francescani nell’Italia del Duecento, Roma 1984, mentre per un inquadramento dei principali problemi connessi alla affermazione e alla presenza degli ordini religiosi mendicanti, con una particolare attenzione al fenomeno insediativo nelle diverse aree del Mezzogiorno d’Italia, cfr. i saggi ora raccolti in L. Pellegrini, «Che sono queste novità?». Le «religiones novae» in Italia meridionale (secoli XIII e XIV), «Mezzogiorno medievale e moderno», 1, Napoli 1999, in particolare pp. 23-99.

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Come per il resto d’Italia, anche per il Mezzogiorno le prime fondazioni minoritiche stabili risalgono agli anni Trenta del secolo e anzi, oltre il luogo comune che vede indistintamente nel Mezzogiorno un’area marginale nelle dinamiche di insediamento mendicante, è stato rimarcato come la penetrazione minoritica «pare arrestarsi a un’ideale linea di demarcazione tra Bari e Salerno, a nord della quale la diffusione dell’ordine nel decennio 1220-1230 segue i ritmi e le modalità del progressivo insediarsi dei Frati Minori nell’Italia centro-settentrionale»2. Entro gli anni Trenta, i Frati Minori – secondo logiche proprie e diverse anche da quelle dell’ordine dei Predicatori – tesero a insediarsi, nel regno, nelle aree più vitali, vale a dire quelle costiere, o in centri interni con particolari requisiti socio-economici tali da favorire e richiamare la loro presenza stabile. Indubbiamente la seconda fase del conflitto tra il pontefice Gregorio IX e Federico II di Svevia – culminato nel 1239 con la scomunica di quest’ultimo –, per il riflesso che ebbe nei rapporti tra l’imperatore e i frati degli ordini mendicanti stabiliti nel regno, rappresentò un freno a tale espansione3. In generale, nel Mezzogiorno la penetrazione mendicante si afferma consistentemente dopo la morte dell’imperatore svevo, e neanche nel tormentato quindicennio della successione da parte di Manfredi, quanto piuttosto in età angioina. Entro queste grandi linee, il territorio che coincide con l’attuale regione Basilicata costituisce un’eccezione, ormai acquisita come tale se, ancora recentemente, si è ribadito che «la Lucania appare assolutamente sguarnita [...] di insediamenti mendicanti; unica regione italiana a registrare la quasi totale assenza del fenomeno»4. Inoltre, la formulazione del problema in termini di «insediamenti in Basilicata» assume un riferimento territoriale estraneo alla geografia degli ordini religiosi in età medievale: si pone, in ultima analisi, come un problema attuale di geografia politica. Infatti, fino a quando Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., p. 68. Cfr. in proposito le considerazioni di Vitolo, Ordini mendicanti, cit., ove da un lato si argomenta l’inadeguatezza della tendenza a privilegiare il piano politico del rapporto tra gli ordini religiosi e il potere monarchico per spiegare l’andamento della penetrazione dei mendicanti nel Mezzogiorno, dall’altro si prospettano ulteriori chiavi di lettura della situazione meridionale, diversificata al suo interno e nella quale, con i nuovi ordini religiosi, interagiscono gli stessi fattori del resto d’Italia. 4 Ivi, p. 129. 2 3

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non si è posto il problema di un’identità regionale della Basilicata, e dell’individuazione di peculiarità culturali di quel territorio rispetto alle regioni limitrofe, la storia degli insediamenti mendicanti posti in territorio lucano afferiva agli studi relativi agli insediamenti pugliesi e campani, assecondando la logica di stanziamento propria degli ordini religiosi5. Tuttavia, già in età medievale la Basilicata era considerata una porzione territoriale autonoma, se non nell’economia di stanziamento degli ordini religiosi quanto meno nella geografia politica del regno, la cui amministrazione prevedeva un giustizierato di Basilicata, fortemente caratterizzato in senso politico se fu un punto nevralgico di resistenza e di opposizione a ogni cambio di potere che il regno attraversò nel basso Medioevo: tra gli imperatori svevi e i sovrani angioini e tra questi e la dinastia aragonese. Indubbiamente l’allora giustizierato di Basilicata (e dunque l’attuale territorio della regione) corrisponde alla zona d’Italia in cui gli insediamenti mendicanti sono più tardi e più radi che in qualsiasi altra. Qualora si voglia interpretare questa situazione, si deve innanzitutto darne conto su un piano che si direbbe di «rilievo obiettivo», attraverso una puntuale ricognizione delle oasi conventuali che interrompevano, in Basilicata, il «deserto dei mendicanti»; in secondo luogo, se ne potrebbero cercare possibili spiegazioni che siano precipuamente attinenti al territorio lucano. Alcune possono essere ipotizzate fin d’ora, in quanto sono desumibili da una considerazione del territorio stesso e delle sue caratteristiche, associata alle linee che in generale orientano lo stanziamento degli ordini mendicanti. La Basilicata è regione interna del regno, lontana dal mare aperto, in gran parte estranea ai circuiti commerciali e viari che caratterizzano le terre confinanti (e soprattutto la direttrice costiera adriatica)6, con centri urbani radi e poco consistenti: rispetto ai parametri geneLe due opere classiche di riferimento sono, per la Campania (denominata dall’ordine dei Minori come Terra di Lavoro), G. D’Andrea, I frati minori napoletani nel loro sviluppo storico, Napoli 1967, e per la Puglia G. Guastamacchia, Francescani di Puglia. I frati minori conventuali (1209-1962), Bari 1963. In esse si reperiscono notizie relative anche ai conventi lucani afferenti alla rispettiva provincia religiosa. 6 Lungo la costa adriatica la maggior densità di insediamenti si rileva tra Bari e Barletta (cfr. Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., p. 52). 5

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ralmente adottati a configurare gli elementi di appeal per gli ordini mendicanti, la geografia fisica e antropica del territorio può essere addotta come almeno una delle ragioni per cui la regione fu percepita come marginale. In secondo luogo, il territorio lucano appare presidiato da siti monastici7. Si rileva in primo luogo un alto numero di monasteri ortodossi: ben ventotto ne erano stati stabiliti tra X e XII secolo, undici dei quali dipendenti dall’abbazia di Carbone, sede archimandrita il cui territorio comprendeva tutto il territorio lucano a sud dell’Ofanto e a ovest del Basento, trovando il proprio confine campano lungo il corso del Sele. Con le sole eccezioni di Rapolla, Venosa e Tricarico, i monasteri ortodossi avevano occupato tutta la parte sud della regione. Alcuni di questi, concentrati nella parte sud-est, divennero poi priorati dell’abbazia di Cava dei Tirreni, che estendeva i propri possedimenti in Basilicata lungo la fascia dell’attuale confine con la Campania, ove si contano tre priorati. Più uniformemente distribui­ ti, per quanto prevalenti a est, erano i monasteri benedettini, con quindici sedi. Con questo assetto gli insediamenti monastici costitui­ scono un reticolo territoriale serrato, alle cui maglie era probabilmente difficile sovrapporre quelle determinate da fitti insediamenti conventuali. Tuttavia, oltre le generiche spiegazioni sempre possibili, l’eccezione lucana può essere trattata diversamente per giungere a un’interpretazione delle forme che in essa assunse lo stanziamento dei nuovi ordini religiosi che superi la mera acquisizione (e la spiegazione) di un dato di fatto. Ci si può chiedere, in altre parole, quali elementi caratterizzano il pur modesto stanziamento conventuale, e li si può rintracciare prestando specifica attenzione agli stessi documenti che finora hanno consentito di scriverne, in parte, la storia. Infatti le lettere papali relative a conventi lucani, i testi prodotti dall’ordine dei Minori e relativi agli insediamenti, e non ultime alcune fonti di carattere agiografico, cioè i documenti solitamente «sfruttati» con il fine primario di individuare e datare gli stanziamenti dei frati in Basilicata, recano anche – soprattutto nel lessico – una chiave per l’interpretazione del fenomeno minoritico nella regione: a condizione che, nella lettura, si sia liberi dal condizionamento (talvolta inconsapevole) che fa 7 Per la panoramica che segue mi riferisco alle mappe 1-4 pubblicate nel Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, pp. 172-75.

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ricercare in essi la notizia di sedi stabili e consolidate e la riconduzione dei dati emergenti al paradigma dell’insediamento stabile urbano. In questi stessi documenti, rispetto ai dati brutali, alcune sfumature fanno emergere un panorama più complesso. Non v’è dubbio infatti che la forma di stanziamento intra moenia costituito da una chiesa e da un convento dell’ordine sia quella tipica del minoritismo urbano dell’Italia centro-settentrionale e di altre aree del regno diversamente caratterizzate, rispetto alla Basilicata, dal punto di vista storico e geografico8. Il caso lucano, proprio nel suo costituire una eccezione rispetto a questa norma, richiede di essere indagato con altri criteri. Se una fase di contatto dei frati con l’ambiente cittadino e di loro presenza non strutturata entro le mura è presa in considerazione e indagata anche dalla storiografia che assume come norma l’insediamento stabile urbano, essa viene letta tuttavia, appunto, come una «prima» fase preparatoria che prelude allo stanziamento «vero e proprio» e come un inizio talvolta oscuro e da postularsi, in assenza di documentazione, sulla base di deboli indizi9. Il fatto che i Frati Minori trovassero nella forma di stabili sedi urbane la norma del loro stanziamento non autorizza, tuttavia, a ritenere dismessa – perlomeno in alcune zone, come l’attuale Basilicata – la pratica della continua itineranza e dell’insediamento in luoghi provvisori e non inquadrati istituzionalmente: in questa direzione, infatti, sembra rimandare una

8 Luigi Pellegrini ha enucleato almeno tre fasi: la prima centrata su loci, provvisori punti di riferimento per lo più occasionale, una seconda fase itinerante, con la disponibilità di residenze ad uso specifico e tendenzialmente esclusivo dei frati, e tuttavia instabili per la volontaria precarietà del titolo di insediamento, e infine – come conclusione del processo insediativo – il definirsi di esso come sede stabile e appositamente costruita per i frati o dai frati. A livello generale, per l’ordine dei Minori, sulla base del lessico relativo agli insediamenti adottato nelle fonti, si individua l’ultima fase come già avviata nel 1226 e consolidata nel 1244 (cfr. L. Pellegrini, Gli insediamenti degli ordini mendicanti e la loro tipologia, in Les Ordres mendiants, cit., pp. 563-73). 9 È stato infatti giustamente osservato che «nel momento in cui si ha di fronte una documentazione sufficientemente esplicativa, è già finita la fase iniziale, dinamica, dell’impatto con la realtà cittadina, e si è già raggiunta una situazione di relativa stabilità, dalla quale partire per sviluppare [...] quei rapporti che danno luogo alla produzione documentaria» (A.I. Galletti, Insediamenti degli ordini mendicanti nella città di Perugia. Prime considerazioni e appunti di ricerca, in Les Ordres mendiants, cit., pp. 587-94, in particolare p. 587).

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serie di attestazioni documentarie sui siti lucani che via via saranno prese in esame. Il «deserto lucano dei Mendicanti» ha generato una sorta di ansia storiografica volta al reperimento di informazioni sull’esistenza di conventi nella forma dell’insediamento urbano stabile e ha portato a ricostruzioni che oscillano da un’ossessiva ricerca del dato documentario obiettivo sulle fondazioni a un’assegnazione di antichità e di prestigio delle stesse per la via – sempre possibile e tradizionale – di fondazioni da parte dello stesso Francesco d’Assisi: ormai concordemente la storiografia locale (ché quella non locale non si è mai posta il problema) ha cessato di vagheggiare indimostrabili origini francescane, una nostalgia per le quali rimane tuttavia nella frequenza con cui si legge, dietro lo schermo della tradizione e della leggenda, la notizia di un insediamento di conventi al tempo di Francesco o per suo diretto intervento. L’ipotesi che sottostà alla presente indagine è quella per cui il deserto lucano è tale, forse, solo nell’ottica dell’equivalenza tra presenza dei frati mendicanti e loro stanziamento stabile e urbano, e acquista diverso carattere e consistenza non appena alla lettura degli stessi documenti si applichino categorie più duttili. La storia che qui si prospetta è circoscritta tra gli inizi del XIII secolo e la fine del XV: vale a dire dagli esordi della presenza minoritica in Italia al momento in cui per la prima volta il territorio lucano, con il nome di Basilicata, viene eretta a partizione territoriale autonoma da una parte dell’ordine dei Minori, cioè dalla famiglia dell’Osservanza. 1. Geografia dei conventi lucani nel XIII secolo Punto di partenza non può che essere la ricognizione delle sedi conventuali stabilite in Basilicata. Se si prende in considerazione la forma dell’insediamento stabile, una panoramica delle sedi minoritiche lucane entro il XIV secolo lascia registrare, come caratteristiche immediatamente evidenti, la rarefazione e lentezza d’insediamento, soprattutto al confronto con quanto avviene, già entro il XIII secolo (e per lo più nella prima metà), nel resto d’Italia. L’ordine dei Minori nel corso del Duecento aveva progressivamente organizzato una divisione del territorio italiano in quattordici gran-

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di aree, denominate Provincie10: nell’ambito di questa ripartizione, l’attuale territorio lucano coincide con quella che era una vasta area interna delle due province di Puglia e di Terra di Lavoro, il confine tra le quali passa appunto in Basilicata. Nello strutturarsi della rete insediativa, poi, i conventi stabiliti in ciascuna provincia sono raccolti in aree amministrative dipendenti dalla provincia e denominate Custodie. L’assetto territoriale dell’ordine entro i primi decenni del XIV secolo è documentato nel Provinciale, opera redatta da frate Paolino da Venezia (morto nel 1334)11. In essa sono attestate, in Basilicata, dieci sedi conventuali12. Il Provinciale, nel trattare lo stato delle due province di Puglia e di Terra di Lavoro, alle quali afferiscono le custodie che comprendono anche i conventi lucani, si esprime in questi termini13: La Provincia della Terra di Lavoro ha cinque custodie: a Napoli tre conventi. Lì riposa frate Donato, laico della Marca anconitana, che splendette per molti miracoli. Costui fu singolare per austerità e sublime per contem-

10 Milano, Marca Trevigiana, Genova, Bologna, Tuscia, di San Francesco, Marca Anconetana, Romana, Pennense, Terra di Lavoro, Sant’Angelo, Puglia, Calabria, Sicilia. Alle quattordici province va aggiunta, come quindicesima partizione, quella della Sardegna, denominata però «vicariato». 11 Provinciale Ordinis Fratrum minorum vetustissimum secundum codicem vaticanum nr. 1960 denuo edidit fr. Conradus Eubel, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1892. 12 Si può anticipare fin d’ora il fatto che questa situazione resta sostanzialmente inalterata fino alla prima età moderna. Come si vedrà più in dettaglio, il complesso delle fondazioni afferenti all’ordine dei Minori si intensificherà con gli insediamenti osservanti nella seconda metà del XV secolo: ma appunto si tratta dell’Osservanza, e per il regime di relativa separazione, anche amministrativa, tra i due rami dell’ordine, la storia dell’Osservanza, che è parte della storia minoritica, non può essere semplicemente sommata, o fatta coincidere, con quella dell’ordine dei Minori. 13 Desumo la mia traduzione dal manoscritto della Biblioteca apostolica vaticana, Vat. lat. 1960, c. 24r-v. La scelta è motivata con il fatto che nell’edizione attualmente disponibile il testo del Provinciale è del tutto snaturato: piegando il documento all’esigenza di ricostruire una lista dei conventi il più completa possibile, l’editore ha integrato il testo di Paolino da Venezia con altre fonti, e ha relegato in apparato le notazioni agiografiche. Si noti invece che l’ordito delle fondazioni è tessuto con la trama di note agiografiche su santi frati vissuti nei singoli conventi: un elemento di cui ci avvarremo ampiamente, fino a fare, di necessità, delle fonti agiografiche uno dei nostri principali punti di riferimento.

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plazione. A Gaeta, d’estate, nel pomeriggio, vide Cristo in forma di bambino, come aveva desiderato e pregato che accadesse per trent’anni; lo tenne in braccio, gli parlò, lo abbracciò e lo baciò in fronte. Una donna nobile de Castro VII Fratrum della diocesi di Sora, affetta dalla lebbra, fece in modo di avere l’acqua con la quale si era lavato i piedi frate Donato, e tramite quest’acqua fu immediatamente mondata dalla lebbra. Costui frequentemente lottava a mani nude con i demoni che lo distoglievano dalle orazioni e da altre buone opere. Aversa, Capua, dove il ministro frate Agostino vide l’anima del beato Francesco che andava in cielo, Teano, Sessa, Carinola, Mignano, Nola, Maddaloni. La seconda custodia è la salernitana, con otto conventi: Salerno, dove frate Luca vescovo splendette di molti miracoli, Amalfi, Ravello, Sorrento, Castellammare, Sarno, Giffoni, Nocera. La terza è la custodia di Principato, con undici conventi: Eboli, Diano, Potenza, Auletta, Agropoli, Muro, Saponara, Cuccaro, Moliterno, S. Maria, Marsico. La quarta è la custodia beneventana, con nove conventi: Benevento, Aque Putride, Ariano, Montesarchio, Sant’Agata, Alifie, Montefusco, Avellino, Cerreto. La quinta è la custodia di San Benedetto, con dieci conventi: S. Germano, Alvito, Vicalvi, Itri, Teglieto, Gaeta, Arpino, dove riposa frate Iacopo della diocesi di Aquino, che fu ministro della Terra di Lavoro. Costui, aveva tanta compassione verso i frati peccatori a lui sottoposti che cercava di condividerne non solo il dolore, ma anche la pena dovuta. Fu anche uomo di grandissima orazione durante la vita, e dopo la morte splendette per miracoli. Infatti una donna che per due giorni aveva patito per partorire, non appena lui arrivò e pregò devotamente fu liberata dal pericolo. E liberò da forti febbri il figlio di una nobile donna di Albeto con il tatto di un pezzetto della sua tunica. La Provincia di Puglia ha quattro custodie: la prima di Barletta, con cinque conventi: Barletta, Andria, Canosa, Venosa, Melfi. La seconda barese, con sei conventi: Bari, Bitonto, Bisceglie, Trani, Corato, Giovinazzo; la terza materana: Matera, Gravina, Montepeloso, Tricarico. La quarta tarantina, con cinque conventi: Taranto, Oria, dove visse frate Gismondo, uomo di mirabile santità, che dopo la morte fece miracoli. È sepolto nella chiesa di S. Stefano de Ripa; Ostuni, Monopoli, Gioia. La quinta custodia è la brindisina, con cinque conventi: Brindisi, Licium, Idrontum, Alessano, Neritona.

Sulla base del Provinciale, dunque, i conventi posti in territorio lucano sono quelli di Potenza, Muro Lucano, Saponara14, Santa Maria, Marsico, Melfi, Venosa, Tricarico, Matera, Montepeloso.

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Attualmente denominata Grumento Nova.

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Il documento ignora – ovviamente, me è opportuno ricordarlo – la struttura regionale che attualmente orienta invece la nostra mappa mentale del territorio e distribuisce l’elenco delle fondazioni secondo le ripartizioni amministrative stabilite dall’ordine per i propri insediamenti fin dagli anni Venti del XIII secolo: il dato numerico e geografico relativo alle fondazioni lucane acquisisce valore se letto entro quella ripartizione. Dunque, dislocando i dieci conventi lucani entro la struttura provinciale e custodiale propriamente minoritica, si ricava che i cinque conventi di Muro, Potenza, Marsico, Santa Maria15 e Saponara appartengono alla provincia della Terra di Lavoro e sono tutti compresi nella custodia di Principato; i conventi di Melfi e Venosa, compresi nella custodia di Barletta, appartengono alla provincia di Puglia, mentre quelli di Montepeloso, Tricarico e Matera, nella stessa provincia, afferiscono alla custodia di Matera16. La situazione insediativa in territorio lucano, così documentata entro gli anni Trenta del XIV secolo, resta invariata a tutto il Trecento: è infatti confermata nel De conformitate – una summa storico-teologica composta da Bartolomeo da Pisa fra 1385 e 1390 – nella quale trova spazio anche un elenco di province, custodie e conventi. Secondo questo elenco, nell’ambito della provincia della Terra di Lavoro, alla custodia di Principato appartengono i dieci conventi Marsico, Auletta, Diano, Muro, Saponara, Eboli, Cuccaro, Montella, Agropoli e Santa Maria dell’Aspro; nell’ambito della provincia di Puglia, alla custodia di Barletta sono assegnati i conventi di Barletta, Andria, Melfi, Canosa e Venosa, mentre alla Custodia di Matera sono assegnati i conventi di Matera, Gravina, Montepeloso e Tricarico17. 15 La sede è identificata con l’eremo di Santa Maria dell’Aspro, presso Marsicovetere, da D’Andrea, I frati minori, cit., p. 76, nota 40. 16 Dal momento che Paolino da Venezia attesta queste appartenenze provinciali e custodiali dei conventi lucani, è possibile ipotizzare – nell’impossibilità di essere più precisi – che la linea di confine tra le province doveva passare, secondo un asse da nord-ovest a sud-est, tra Melfi e Muro Lucano e tra Potenza e Tricarico e, a sud, a est di Grumento Nova. 17 De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Iesu, in Analecta Franciscana, voll. IV-V, Quaracchi 1906-12. L’elenco si trova nel vol. IV, pp. 503-64 (nella trattazione del fructus XI). Per la provincia di Terra di Lavoro cfr. pp. 528-29, per la provincia di Puglia pp. 531-32. L’assenza da questo elenco del convento potentino è senz’altro ascrivibile a una svista dell’autore, poiché la sua esistenza, a questa altezza cronologica, è ampiamente documentabile per altre vie.

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Come si vede, Matera è l’unico centro lucano posto a capo di una custodia minoritica, attestato come tale per la prima volta in un elenco delle province minoritiche risalente al 126018. Tra le custodie che comprendono conventi lucani, peraltro, quella materana è la più estesa nell’attuale Basilicata, poiché (oltre ai conventi di Montepeloso e Tricarico) comprende il solo convento di Gravina, attualmente in territorio pugliese. Lo statuto che la divisione in custodie riconosce alla città di Matera è forse giustificabile in base al fatto che la città era anche l’unica sede episcopale – tra quelle lucane – a essere sede metropolitana. L’arcidiocesi materana aveva come sedi suffraganee le diocesi di Gravina, Venosa, Tricarico, Potenza e Anglona, e dunque controllava di fatto tutta la parte più vitale dell’attuale territorio regionale: in Matera l’ordine dei Minori individua un possibile centro lucano, mentre per altre zone della regione prospetta un decentramento rispetto ad esso, ponendo i conventi capocustodia a Eboli (a est) e a Barletta (a nord)19. I pochi e tardi conventi lucani sono dunque inseriti in una rete conventuale che, con la Basilicata al centro, semplicemente non fa di essa il suo centro, gravitando piuttosto sui due poli costituiti dalle regioni contermini di Puglia e Campania. Soltanto tenendo presente l’andamento e la densità delle fondazioni stabili in queste due province acquisiscono significato maggiore gli scarni dati disponibili relativi alle fondazioni lucane. La provincia di Puglia è divisa in cinque custodie per un totale di ventotto conventi20 (di cui cinque lucani), mentre la provincia di Terra 18 Si tratta di una scheda inserita nel manoscritto del British Museum. Per la presentazione del documento si rinvia a Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., pp. 84 sg. 19 Per il rilievo e le caratteristiche dei due siti cfr. rispettivamente G. Vitolo, Per una storia del francescanesimo nella realtà urbana della Campania medievale. L’esempio di Eboli, in VII centenario della fondazione della chiesa di San Francesco (1286-1296), Eboli 1987, pp. 111-18. Barletta è centro che si distingue per aprire l’area costiera lungo la quale, verso nord, si registra il maggior numero di insediamenti minoritici. Fu preferita a Bari come capocustodia (con dinamica analoga a quella che fa preferire, in altre zone, Ascoli ad Ancona o Messina a Palermo). In città erano presenti nel XIII secolo anche i Frati Predicatori, e nel corso del XIV secolo anche gli Agostiniani e i Carmelitani, essendo così l’unica sede episcopale della provincia minoritica di Puglia in cui erano compresenti i quattro ordini religiosi, cfr. Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., passim. 20 Nel numero sono computati i conventi di Bitetto e di Conversano, non citati dal Provinciale. I due conventi sono stati tuttavia inseriti da Luigi Pellegrini

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di Lavoro è divisa in cinque custodie, che raccolgono cinquantasette conventi21 (di cui cinque lucani). Almeno relativamente al Duecento, rispetto alla stasi insediativa che caratterizza la Basilicata e le tre custodie alle quali afferivano i conventi lucani, si consideri la progressione degli insediamenti minoritici nelle altre aree del regno: pur restando invariato il numero di sei province e di ventitré custodie, tra gli anni Sessanta e il 1282 i conventi meridionali passano da 129 a 170; quando Paolino da Venezia redige il suo Provinciale, le custodie erano diventate ventinove e i conventi aumentati di venti unità22. 2. Per una cronologia dei conventi lucani entro il XIII secolo Ma quando, dove e come ha preso avvio la storia minoritica della Basilicata che ha dato gli esiti territoriali e insediativi appena prospettati? Possono essere ritenuti tali insediamenti come gli unici significativi a rappresentare il rapporto che i Frati Minori stabilirono con l’attuale territorio lucano? A rigore, nessuna forma di insediamento minoritico in Basilicata è attestata in fonti letterarie o documentarie prodotte prima degli anni Cinquanta del secolo. A questo periodo riportano infatti le prime menzioni della presenza di frati e di sedi minoritiche nella regione, e sono derivate dal Trattato sui miracoli, composto da Tommaso da Celano tra il 1250 e il 125323. Nell’opera, infatti, sono raccontati anche tre miracoli che si dichiarano avvenuti a Venosa, Pomarico e Potenza. Nel caso di Venosa con ragioni convincenti: la fondazione di Bitetto, infatti, può essere fatta risalire al 1283, anno nel quale è documentata la cessione ai Frati Minori, da parte di Carlo II d’Angiò, di un «locum situm in terra Bitecti, qui dicitur Castrum»; mentre per il secondo ci si riferisce a quanto scrive Guastamacchia, Francescani di Puglia, cit., p. 107. Cfr. Pellegrini, Insediamenti francescani, cit., p. 307, note 56 e 57. 21 Anche in questo caso Luigi Pellegrini aggiunge al computo conventi non menzionati nel Provinciale, adducendo bibliografia e documenti a supporto della scelta (cfr. Pellegrini, Insediamenti francescani, cit., p. 305, note 47 e 48). 22 Per la documentazione di queste statistiche e per un confronto con il dato relativo all’Italia in generale cfr. ivi, p. 112. 23 Tommaso da Celano, Tractatus de miraculis sancti Francisci Assisiensis, in Analecta Franciscana, vol. X, Quaracchi 1926-41, pp. 269-331. Cfr. traduzione italiana in Fonti francescane, Padova 1980, pp. 733-826, alla quale si rinvia per i brani citati in seguito.

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si attesta esplicitamente l’esistenza di una chiesa di San Francesco, presso la quale si reca una donna, su consiglio dato dalla Vergine in sogno24. Il miracolo di Pomarico, che riguarda il ritorno in vita di una giovane donna della quale si preparavano i funerali, ha fatto epoca nelle ricostruzioni della storia dei Minori in Basilicata grazie a un errore di interpretazione, più volte rimarcato, in base al quale si credette di scorgervi documentazione della presenza di Francesco nel centro lucano25. Il miracolo di Potenza avviene davanti a un’immagine di Francesco stigmatizzato, dipinta in una chiesa potentina non meglio specificata26, e attesta i dubbi di un esponente del clero secolare della città rispetto alla stigmatizzazione di Francesco. Il racconto è il primo e il più esteso di quelli addotti da Tommaso da Celano a proposito Fonti francescane, cit., p. 802. Ivi, p. 766. L’errore è di P. Coco, I Francescani in Basilicata, in «Studi francescani», 11, 1925, pp. 283-318, in particolare p. 286; per la rettifica cfr. anzitutto D’Andrea, I frati minori, cit., pp. 26 sg.; M.A. Bochicchio, L’origine e lo sviluppo della regolare osservanza francescana in Basilicata, Firenze 1977, p. 4; G. Bove, Tipologia dei primi insediamenti minoritici in Basilicata, in G. Bove, C. Palestina, F.L. Pietrafesa (a cura di), Francescanesimo in Basilicata. Atti del Convegno di Rionero in Vulture (7-10 maggio 1987), Napoli 1989, pp. 29-47, in particolare pp. 36-37. L’equivoco è stato reso possibile dall’ambiguità con la quale Tommaso da Celano scrive che «san Francesco, accompagnato da un solo confratello, visita la madre addolorata e la consola con affabilità»: nonostante si parli di una visita, e di parole pronunciate da Francesco, tutto il contesto del brano – per il lessico usato e per la dinamica della guarigione – lascia intendere senza dubbio che si tratta in realtà di una visione della donna, la quale «giace oppressa da indicibili pene» offuscata dal dolore, e appena dopo l’«incontro» si rialza e rivela quanto Francesco (non visto né sentito dai molti presenti) le aveva detto. La donna impedisce la preparazione dei funerali e la fanciulla torna in vita dopo che la madre aveva invocato il nome di Francesco (dunque evidentemente assente). 26 Cfr. Fonti francescane, cit., p. 742 e Tommaso da Celano, Tractatus de miraculis, cit., p. 275, nota 6: «Apud Potentiam, regni Apuliae civitatem, erat clericus quidam, Rogerius nomine, vir honorabilis et maioris ecclesiae canonicus. Hic cum longa foret infirmitate quassatus, die quadam ecclesiam pro sanitate oraturus intravit, in qua erat imago beati Francisci depicta, gloriosa stigmata repraesentans». Mentre fissava le stimmate di Francesco fu preso da vani pensieri «et reptim subintrantem dubitationis aculeum rationis studio non repellit». Iniziò a dire tra sé e sé: «Esset hoc verum, ut tali claruisset iste sanctus miraculo, an suorum pia fuit illusio? Simulata» inquit «fuit inventio, et fortassis a fratribus inventa deceptio. Sensum hoc humanum excederet, et ab omni rationis iudicio procul esset». Ode quindi un sibilo e la sua mano viene colpita come da una freccia scoccata da una balestra; in preda ad acutissimo dolore per due giorni, giura di credere al miracolo delle stimmate e risulta guarito. 24 25

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delle stigmate di Francesco ed è seguito da quello relativo a una nobildonna romana che aveva, rispetto alle stigmate, un atteggiamento esattamente opposto a quello del canonico di Potenza. I suoi dubbi, smentiti dal miracolo, che consiste nel ritrovarsi trafitto, sono considerati da Tommaso da Celano come esemplari dello scetticismo verso la stigmatizzazione di Francesco27, ma anche – ai fini del nostro discorso – delle difficoltà e delle resistenze che, in ultima analisi, il culto del santo di Assisi poteva incontrare in ambiente lucano: in ultima analisi, perché tuttavia il canonico era entrato nella chiesa con l’immagine di Francesco, in quanto era malato e si recava a invocare la guarigione. Certamente, poi, vi era a Potenza qualcuno che tentava di accreditare tale culto: non solo Tommaso da Celano ne enfatizza l’effetto in termini di devozione successiva del canonico, che in seguito «fu legato da perpetua familiarità ai frati dell’Ordine» (che dunque erano presenti in città), ma chiude il proprio racconto menzionando la registrazione giurata del miracolo, comprovata dal vescovo di Potenza28. In sintesi, il Trattato di Tommaso da Celano permette di assumere la metà del Duecento (a cui data la composizione) come termine ante quem per la sola esistenza di una chiesa di San Francesco a Venosa, ma anche per l’attestazione di un culto di Francesco a Pomarico e – a Potenza – di una resistenza ad esso, dopo una sorta di credito iniziale, in ragione della stigmatizzazione: un panorama che, attraverso scarni indizi, si rivela tuttavia vario e problematico. Tradizionalmente assunto come parte integrante delle vicende del primo minoritismo lucano è il caso della morte, datata al 1240, di frate Gismondo, che viveva in eremitaggio nella selva melfitana («in silva de Melfia»), la cui vicenda è sempre invocata ad attestare una forma di presenza minoritica – ma vedremo quanto debole sotto il profilo della stabilità – nei dintorni di Melfi già all’inizio degli anni Quaranta. Il testo che ne parla, fondando la lunga tradizione agiografica relativa a Gismondo da Melfi, è il Dialogo sulle gesta dei santi frati minori, opera attribuita a Tommaso da Pavia e databile alla metà del XIII 27 Così interpreta giustamente C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Torino 1996, p. 405. 28 «Fit homo humilis Deo, devotus sancto, et fratum Ordini perpetua familiaritate subiectus. Huius rei tam solemne miraculum iuramentum firmatum fuit et episcopi loci maxime roboratum».

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secolo29, e racconta le vicende relative alla sepoltura del frate-eremita, negoziata – per il tramite soprannaturale delle sue apparizioni in visione – tra i frati melfitani e i monaci del monastero di Santo Stefano de Ripa, sede presso la quale egli trovò definitiva sepoltura. Si racconta dunque che «Frate Gismondo, sepolto dai frati in un luogo deserto presso la selva di Melfi, apparì in sogno a una donna di quelle parti, dicendole: ‘Alzati e vai al monastero di Santo Stefano di Ripa e dì al monaco Tristagno che prelevi il mio corpo dalla selva nella quale ora giace’»30. La donna non esegue l’ordine di Gismondo, il quale in una visione successiva la minaccia di colpirla in modo da impedirle, in futuro, di muoversi da un luogo all’altro. Poiché la donna continua a disattendere il messaggio di Gismondo, nel corso di una terza notte il frate «fece in modo che fosse gravemente colpita»: solo a questo punto, persuasa non dalle parole (verbis) ma dai colpi (verberibus), si reca dal monaco Tristagno. Costui corre dai frati a chiedere che pro munere gli permettessero di trasferire il corpo di Gismondo in un luogo più dignitoso e adeguato. Dopo un primo rifiuto dei frati, che l’agiografo attribuisce all’umiltà, Gismondo compare la quarta volta alla donna, contornato da una moltitudine di frati, e a lei che chiedeva chi fossero, risponde che erano i frati che stavano in paradiso. Accanto ai frati la donna vede, poi, un lago di sangue con i dannati, tra i quali c’era anche il monaco Tristagno, e Gismondo spiega che è dannato per non aver confessato un peccato di spergiuro, del quale dichiara le circostanze. La donna riferisce la visione a Tristagno, che a quel punto confessa il peccato non solo al sacerdote, ma anche coram populo, cosicché la santità di Gismondo fu manifesta a tutti. Ai frati che, sollecitati dagli eventi, discutono la possibilità di traslare il suo corpo, seppellendolo davanti all’altare, una voce dal cielo annuncia: «Perché 29 Cfr. Thoma de Papia, Dialogus de gestis sanctorum fratrum Minorum, ex integro edidit F.M. Delorme, Ad Claras Aquas 1923, pp. 268-72, nell’ambito del capitolo dedicato alle visioni dei frati. Per la tradizione agiografica relativa a Gismondo da Melfi, e per alcune considerazioni sul caso anche in connessione con le vicende della sepoltura di Benvenuto da Gubbio, nonché per personaggi con analoghe vicende vissuti e morti nel regno, cfr. R. Paciocco, Ordini mendicanti e culto dei santi, in G. Vitolo (a cura di), Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno medievale, Napoli 1999, pp. 129-63, in particolare pp. 147-50. 30 «Frater namque Gismundus, apud silvam de Melfia in loco quodam deserto a fratribus tumulatus, mulieri cuidam de provincia supradicta in somnis apparuit dicens illi: Surge et vade ad monasterium Sancti Stephani de Ripa et dic monacho Tristagno nomine ut corpus meum de silva extrahat, qua nunc iacet».

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ragionate invano? Il frate non vuole essere sepolto nella fossa che avete preparato, ma desidera riposare nella chiesa di Santo Stefano di Ripa». A questo punto i frati acconsentono, e Tristagno fa preparare un panno per avvolgere il corpo da trasportare. Di nuovo interviene Gismondo, a dettare in sogno alla donna le modalità della traslazione: il suo corpo doveva essere avvolto non dal sudario, ma con fronde di mirto e di alloro. Poiché durante la traslazione un frate era riuscito ad appropriarsi di un dente e di un osso delle dita di Gismondo, di nuovo egli appare alla donna e le ordina di riferire a Tristagno che il corpo non era stato trasportato integro, indicando le parti che erano state sottratte. Il monaco riferisce la cosa ai frati e il frate guardiano ordina che chiunque fosse in possesso delle reliquie le restituisse immediatamente. Così queste vennero consegnate ai monaci e seppellite con il resto del corpo. Il linguaggio con il quale l’autore del Dialogo racconta l’episodio è quello del minoritismo maturo: parrebbe che i frati di Melfi avessero una chiesa (poiché si allude all’altare davanti al quale ipotizzano di seppellire Gismondo) e un convento (con un frate guardiano a capo della comunità). Non è escluso che così fosse, ma tanti e tali sono evidentemente gli elementi non verosimili propri del racconto agiografico che non è detto si debba annettere valore di testimonianza al linguaggio usato a proposito dell’insediamento conventuale: tale linguaggio potrebbe essere, piuttosto, una proiezione sul passato dalla metà degli anni Cinquanta. Ad ogni modo, quando Gismondo chiede per sé una sepoltura diversa dalla silva del suo romitorio, non chiede di essere trasferito nella chiesa dei frati – e anzi tale soluzione è scoraggiata da una voce celeste –, ma di essere portato nel monastero di Santo Stefano: egli manifesta il desiderio di portare con il suo cadavere le fronde della selva, i frati il desiderio di tenere con sé almeno alcune reliquie, ma, ancora per rivelazione soprannaturale, il furto viene scoperto e riparato a vantaggio dell’integrità del seppellimento e a discapito della comunità melfitana. La vicenda, per come è raccontata, costituisce anche un indizio della precarietà e della debolezza dello stanziamento melfitano dei Minori a metà del XIII secolo, riflesse dalla difficoltà, e forse anche dal rifiuto – agli inizi della loro storia – a gestire un culto. Gismondo giaceva da tempo sepolto nella selva nel momento in cui, per il tramite agiografico della revelatio alla donna, si pone il problema di un culto da sviluppare: i frati tentano qualche via per appropriarsene

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(ragionando sull’ipotesi di seppellirlo presso di sé) o quanto meno di salvare il salvabile (con la sottrazione delle reliquie) solo nel momento in cui la cessione del corpo santo all’ente monastico è in via di compimento. Il caso di Melfi e il destino del corpo di Gismondo induce ulteriori riflessioni. La sua morte avviene in un momento nel quale, per altre aree di Italia, il culto di un frate minore morto in odore di santità apre persino la strada all’insediamento urbano dei Minori31. Per restare nel Mezzogiorno, e a un caso che coinvolge in qualche modo il Vulture, si consideri la vicenda di frate Benvenuto da Gubbio, morto nel 1232 presso il convento di Corneto32. Il 22 aprile del 1236, con la bolla Mirabilis Deus, Gregorio IX, in base alle sollecitazioni ricevute dal popolo e dal clero di Corneto per il tramite di ambasciatori, apre formalmente un’indagine sulla sua vita e sui miracoli, da effettuarsi a Corneto, della quale incarica, oltre al vescovo di Molfetta, anche quelli di Melfi e di Venosa33. Mentre il convento di Corneto, nella provincia minoritica di Sant’Angelo, apparteneva alla custodia di Capitanata (con capocustodia a Lucera), i vescovi incaricati dell’indagine provenivano da tre diocesi della provincia minoritica di Puglia in cui erano presenti conventi dei minori, afferenti rispettivamente alle custodie di Barletta (Melfi e Venosa) e a quella di Bari (Molfetta), e varia è la provenienza dei laici guariti sul sepolcro di Benvenuto. La sua sepoltura, dunque, rappresenta un polo di attrazione agiografica di emanazione minoritica al confine della Basilicata. Ma, come Gismondo, Benvenuto a Corneto non viene sepolto nella chiesa dei Minori, bensì nella chiesa di San Pietro, individuata come sede per la sepoltura in base alla 31 Anche senza riferirsi a sant’Antonio di Padova, la coincidenza tra un culto minoritico locale e l’inurbamento dei frati è riscontrabile anche in situazioni per le quali non si giunse alla canonizzazione. Emblematico il caso di Orvieto, con la morte di Ambrogio da Massa avvenuta nel 1240 (cfr. L. Pellegrini, «Negotium imperfectum»: il processo per la canonizzazione di Ambrogio da Massa, in «Società e storia», 64, 1994, pp. 253-78), a cui sono apparentabili anche le vicende cultuali di personaggi come Ruggero da Todi o Simone da Collazione. 32 Corneto, oggi scomparso, si trovava presso Ascoli Satriano e costituiva al tempo un importante centro sulla strada che passando per Melfi portava a Foggia. È uno di quei borghi agricoli emergenti allora, che per questo furono preferiti dai frati. Cfr. Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., passim. 33 Edizione della lettera papale in Bullarium Franciscanum, vol. I, Romae 1759, pp. 189 sg., n. 193.

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guarigione travagliata di una donna. Infatti, nel momento in cui ella prega sul sepolcro per la sua guarigione si verifica un inasprimento dei sintomi della malattia, divenuti talmente violenti che «che per il troppo orrore, alcuni dei presenti abbandonarono la chiesa», dopo di che la donna guarisce: «Avendo saputo ciò, gli abitanti di Corneto accorrono in grandissima processione al luogo dei frati, e sottratto il corpo di Benvenuto, tra le proteste dei frati, lo trasportarono presso la chiesa di San Pietro perché fosse tumulato con la reverenza dovuta»34. Come a Melfi, anche a Corneto i frati tentano di evitare la sottrazione del corpo, ma hanno per antagonisti gli abitanti della città, ed è cittadina la chiesa designata per la sepoltura. La prima attestazione documentaria del convento cornetano, del resto, è del 123135: quando Benvenuto è morto, era in ogni caso una giovane fondazione, anche se meglio attestata e senz’altro più strutturata di quella di Melfi, ma ancora una volta non abbastanza da poter gestire in proprio il culto di un candidato alla santità canonizzata36. Senz’altro la morte di Gismondo e la condizione dei Minori di Melfi è la storia di un’occasione mancata, e mancata perché non poteva (o non voleva) essere colta: Gismondo, sepolto in esilio monastico rispetto alla silva della sua vita eremitica, riferisce, contemporaneamente, di una fase ancora fluida della presenza minoritica, compresa tra forme di stanziamento eremitico e ben più consolidate istituzioni monastiche che insistono sullo stesso territorio. Nella densità del reticolo monastico che caratterizza la regione – ed è elemento sul quale toccherà riflettere – non ci sono elementi per definire meglio il monastero qui indicato come Santo Stefano de Ripa37 né, quindi, gli estremi Thoma de Papia, Dialogus, cit., p. 91. Cfr. Pellegrini, Insediamenti francescani, cit., p. 234, ma sul sito cornetano cfr. il capitolo relativo a Puglia Dauna e Molise (pp. 223-27), passim. 36 Oltre a Benvenuto da Gubbio per Corneto e a Gismondo da Melfi, l’unico altro frate minore di cui riferisce il dialogo attribuendogli una provenienza meridionale è Adamo Rufo da Barletta (cfr. R. Paciocco, Da Francesco ai «Catalogi sanctorum»: livelli istituzionali e immagini agiografiche nell’Ordine francescano, secc. XIII-XV, Assisi 1990, p. 85). 37 Tra i monasteri censiti nel Monasticon Italiae, l’unico intitolato a santo Stefano e situato presso Melfi è quello di Santo Stefano di Giuncarico, in località Rocchetta Sant’Antonio, attualmente in provincia di Foggia, che però non è mai denominato altrimenti e che dunque non è possibile ipotizzare che coincida con il monastero di Ripacandida (cfr. Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 94, n. 268). Per scartare l’identificazione tra i due monasteri cfr. quanto riferisce, di Santo Stefano di Giuncarico, G. Vitolo, Insediamenti cavensi in Puglia, Galatina 1984, pp. 66-71. 34 35

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per valutare se alla base della revelatio di Gismondo e dell’appropriazione del corpo da parte dei monaci vi siano ragioni connesse allo stato del monastero. Basti rilevare, per ora, che Gismondo, sottratto ai Minori per essere sepolto in un monastero, qualora sia divenuto oggetto di un culto, dovette costituire una polarità di culto monastica, e dunque – ancora una volta – non urbana. A rigore, il primo documento che attesti a Melfi una chiesa di San Francesco è del 1373, quando il mercante fiorentino Francesco di Stagio dei Portinari chiede nel proprio testamento di esservi sepolto38. Tra la precarietà della stazione romitoriale testimoniata dal caso di Gismondo e il consolidamento di un convento che riceve un legato testamentario si colloca un’audace leggenda secondo la quale Francesco d’Assisi, nel 1222, avrebbe ricevuto il locus direttamente da Federico II. Il complesso della situazione melfitana negli anni Quaranta del XIII secolo induce a ipotizzare una forma di presenza dei Frati Minori non abbastanza strutturata e istituzionale da lasciare traccia nella documentazione. 3. Il secolo XIII: da Federico II al consolidamento del regime angioino Quando il cronista francescano umbro fra’ Elemosina si trova a esprimere un parere sulla possibile salvezza eterna dell’imperatore svevo, deve tenere conto delle notizie relative al pentimento di Federico in punto di morte, ricevute da alcuni frati più anziani che erano giunti ad Assisi dalla Puglia («de Apulia»)39. Già in età federiciana, e in particolar modo entro gli anni Quaranta, aveva preso corpo in gran parte del Mezzogiorno quello stanzia38 Cfr. S. Tranghese, I conventuali a Melfi, in Bove, Palestina, Pietrafesa (a cura di), Francescanesimo in Basilicata, cit., pp. 421-35, in particolare pp. 422-23. 39 «Alla notizia della sua fine tutto il mondo ebbe un tremito. E, sebbene alcuni frati più anziani che erano venuti dalla Puglia alla basilica di San Francesco, abbiano detto che Federico, in punto di morte, amaricatus da molti dolori abbia pronunciato queste parole: ‘Dio sia propizio a me peccatore’ e che così sia morto, tuttavia noi non lo possiamo definire salvato – se morì non pentito, né lo riteniamo dannato – se davvero si pentì». Il passo è citato in originale e commentato in E. Paoli, L’agiografia di fronte a Federico II: l’esempio di Bartolomeo da Trento, in Federico II e le nuove culture. Atti del XXXI Convegno storico internazionale, Todi 9-12 ottobre 1994, Spoleto 1995, pp. 439-73, in particolare pp. 440-41.

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mento dei Frati Minori che, almeno in forme strutturate, non tocca la Basilicata40. Il conflitto tra l’imperatore svevo e gli ordini mendicanti a partire dagli anni Quaranta può essere annoverato tra le ragioni (storiche e geografiche di origine dell’ordine, ma anche geografiche del Mezzogiorno) della battuta d’arresto nello sviluppo delle fondazioni meridionali e dunque, in definitiva, del basso numero di tali fondazioni rispetto al resto della penisola, ma quel conflitto non spiega da sé, in alcun modo, l’assenza di fondazioni lucane: infatti i provvedimenti imperiali contro i frati degli ordini mendicanti sono indirizzati in genere ai fratres de Regno, né si può proiettare a ritroso sull’età federiciana la consapevolezza manifestata nella seconda metà del secolo inoltrata da alcuni esponenti dell’ordine dei Minori, per i quali la demonizzazione di Federico è anche la controparte dell’alimentazione del «mito angioino»41. Le conseguenze di quel conflitto permangono anche nel corso del regno di Manfredi e si esprimono nel tentativo, attuato dal pontefice Innocenzo IV a ridosso della morte di Federico II, di assegnare a vescovi provenienti dagli ordini mendicanti le sedi episcopali del Sud42. Proprio il sussistere delle difficoltà di stanziamento durante il regno di Manfredi possono, almeno in parte, spiegare il fatto che perdurassero, in Basilicata, forme di presenza itinerante: questa, seppur determinata da esigenze di segno diverso, ricalcava di necessità quella che in altre aree era stata propria delle origini e viene praticata, mutatis mutandis, come possibilità alternativa all’insediamento stabile. 40 G. Barone, Federico II di Svevia e gli ordini mendicanti, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Âge. Temps modernes», 90, 1978, pp. 607-26; A.M. Voci, Federico II e i Mendicanti: privilegi papali e propaganda anti-imperiale, in «Critica storica», 22, 1985, pp. 3-28; G. Barone, La propaganda antiimperiale nell’Italia federiciana: l’azione degli Ordini mendicanti, in P. Toubert, A. Paravicini Baggiani (a cura di), Federico II e le città italiane, Palermo 1994, pp. 278-89; G.G. Merlo, Federico II, gli eretici e i frati, in Federico II e le nuove culture, cit., pp. 4567, e da ultimo C.D. Fonseca, Federico II e gli ordini mendicanti, in A. Esch, N. Kamp (a cura di), Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, Tübingen 1996, pp. 163-81. 41 Esemplare in proposito la parabola nell’atteggiamento di Salimbene rispetto all’esaltazione della pietas del primo sovrano angioino, individuata da A. Barbero, Il mito angioino nella cultura italiana e provenzale fra Duecento e Trecento, «Deputazione subalpina di storia patria. Biblioteca storica subalpina», CCI, Torino 1983, pp. 26-32. 42 Cfr. Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., pp. 92 sgg.

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I primi anni del regno di Manfredi, in coincidenza con gli ultimi del pontificato di Innocenzo IV (morto nel 1254), sono segnati da una politica pontificia volta a presidiare il regno con presenze affidabili in chiave antisveva, che si esprime anche con la consistente immissione di vescovi provenienti dalle fila degli ordini mendicanti43. Proprio la vicenda del primo vescovo francescano nominato in una diocesi lucana mostra la precarietà di tali tentativi in una situazione politica particolarmente difficile nella dialettica tra il pontefice, il sovrano svevo e i poteri politici locali. La diocesi in questione è Anglona, il cui feudatario era Giovanni da Montefusco, notoriamente antisvevo. Il frate minore Deodato da Squillace, eletto nel 1254, e che per espresso pronunciamento papale doveva essere gradito a Giovanni da Montefusco, non si insedia nella diocesi e condivide l’esilio con Giovanni: quest’ultimo rientrerà in possesso di Anglona in età angioi­ na, quando viene anche nominato giustiziere della Basilicata, mentre frate Deodato muore in esilio44. Tale vicenda dà anche la misura del conflitto tra Manfredi e i poteri locali, poiché, come è noto, soltanto nel 1258 Manfredi riuscirà a riconquistare alla causa sveva tutte le comunità del regno, e tra le ultime a essere piegate furono quelle lucane di Melfi, Venosa, Rapolla e Acerenza. Nel tentativo di datare più da presso gli insediamenti dei dieci conventi lucani, e viste le labili tracce documentarie relative alla prima metà del secolo e il loro infittirsi progressivo per il secolo XIV, è plausibile ipotizzare che per la maggior parte di essi una forma di insediamento stabile sia successiva agli anni Settanta e compiuta entro gli anni Trenta del Trecento, fino a raggiungere i dieci conventi contemplati dal Provinciale di Paolino. È infatti a partire dagli anni Settanta che si individua un mutamento della politica del primo sovrano angioino rispetto alle comunità ribelli del Vulture e del Potentino, che erano state gravemente penalizzate dalla politica repressiva adottata da Carlo d’Angiò dopo la sconfitta di Corradino, e dunque dopo la 43 Sul problema in generale cfr. ora Dal pulpito alla cattedra. I vescovi degli ordini mendicanti nel ’200 e nel primo ’300. Atti del XXVII Convegno internazionale (Assisi, 14-16 ottobre 1999), Spoleto 2000, con particolare riferimento, per il Mezzogiorno, al contributo di G. Vitolo, Episcopato, società e ordini mendicanti in Italia meridionale, pp. 167-200. 44 Va ricordato anche che l’unico altro vescovo mendicante eletto per una diocesi lucana prima della dinastia angioina è il domenicano Ruggero da Lentini, vescovo di Melfi nel 1252: a differenza di quanto si verifica nel resto del regno, in territorio lucano non si registrano altri vescovi mendicanti fino agli anni Ottanta del secolo.

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loro riconquista all’obbedienza monarchica, attuata con l’intervento militare di Ruggero di Sanseverino45: a membri della potente casata, come vedremo, sono anche legate alcune istituzioni conventuali. Qualche indicazione aggiuntiva è offerta dal fatto che a Potenza nel 127946 sia stato rogato un atto notarile nel quale si registra un miracolo, verificatosi nel 1274 per due operai sepolti da una frana mentre stavano lavorando al cantiere della «nuova» chiesa di San Francesco. Il racconto del miracolo, munito dei crismi della redazione notarile, merita di essere ripercorso poiché reca non pochi elementi utili a definire la natura della presenza potentina dei Frati Minori: Quando i religiosi Frati Minori del convento di Potenza, un tempo, nell’aprile del 1274, costruivano la loro chiesa di san Francesco, loro venerabile padre, accadde che mentre veniva scavato il fosso dei muri della chiesa, che era profondo circa una canna e mezza, vi entrarono per scavare due pover’uomini, che i predetti frati avevano condotto lì per fare quel lavoro. Entrati dunque nel fosso e scavandovi per un’ora buona, all’improvviso precipitò tutta la terra che era accumulata al bordo del fosso assieme alle pietre e li ricoprì in modo che la copertura aveva raggiunto il livello del terreno circostante. Restando sepolti là sotto per due ore e più, una gran parte degli uomini della città, così come le donne, giungendo da ogni dove per vedere l’accaduto come fosse uno spettacolo, a tal punto pigiarono con i piedi tutta la superficie sotto la quale stavano che in alcun modo si poteva ormai distinguere il punto esatto sotto cui erano sepolti; aveva infatti raggiunto lo stesso livello di densità rispetto al terreno circostante. Allora la folla con animo furibondo proferendo contro i frati parole increpatoria et contumeliosa diceva: «Non gli bastava tutta la gran costruzione di edifici che hanno e possiedono in questa terra? Certo, tutto il mondo non gli basterebbe a saziarli! Ormai risulta certa la volontà di Dio e di san Francesco che qui in alcun modo si edifichi questa chiesa. Non siamo disposti in alcun modo a sustinere che questa chiesa venga costruita, che altri vi muoiano in futuro come ora vi sono morti questi due». E ormai nessuno dei presenti osava pensare che potessero essere in vita, tanto in profondità e da tanto tempo erano sotto terra. In questo frangente, sopraggiunsero anche alcuni con l’intenzione di distruggere, demolendola, anche un’altra costruzione che i frati avevano fatto realizzare nella detta chiesa, secondo quanto molti 45 Una sintetica ricostruzione delle vicende della rivolta ghibellina della Basilicata in T. Pedio, La Basilicata: dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, La Basilicata da Federico II a Roberto d’Angiò, Bari 1989, pp. 163 sgg. 46 Il fatto che il convento potentino fosse stato fondato nel 1266 è attestato dal cronista Rodolfo da Tossignano nei suoi Historiarum seraphice religionis libri tres, f. 276r. Sulla testimonianza di Tossignano cfr. D’Andrea, I frati minori, cit., p. 71.

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di loro confessarono in seguito ai frati. I frati, sentendo e sopportando tali contumelie e improperi, tanto erano presi da rossore e vergogna che non riuscivano nemmeno ad opporre parole di scusa, ma soltanto, levando gli occhi a Cristo e al loro pio padre il beato Francesco, con pie preghiere lo imploravano perché il Signore si degnasse di sollevarli da un tale obbrobrio. Poi uno degli scavatori chiamato Domenico, che era molto vicino ai frati, preso dapprima un badile cominciò a scavare per un bel pezzo, e avendo ormai raggiunto il corpo di uno dei due sotterrati gli percosse il capo con il badile togliendogli d’un colpo il cappello che aveva in testa senza ferirlo. E l’uomo, non appena si ritrovò il capo scoperto, alzando gli occhi verso di lui gli disse: «Per Dio, non mi ammazzare!». Ed estratto dal fosso con grande sforzo, subito egli si alzò sulle sue gambe e chiedendo di bere, fu talmente confortato dalla grazia divina che pareva non avesse patito alcun male. Cercando poi anche l’altro operaio, lo trovarono ancora più in profondità del primo e, appena estratto, come moribondo, subito fu confortato dalla grazia divina.

Il fatto stesso che il miracolo venisse registrato con una redazione notarile è segno di una rinnovata attenzione cultuale a Francesco d’Assisi, ma il documento testimonia innanzitutto un consistente intervento edilizio promosso dai frati per la costruzione della chiesa di San Francesco, nel momento in cui già essi avevano una sede in città. La possibilità di costruire una chiesa dei Frati Minori, presumibilmente nell’ambito dei lavori di ricostruzione della città dopo il sisma del 1273, è indice anche di una complessiva ripresa del tessuto socio-economico potentino dopo la depressione determinata dagli eventi che avevano segnato il passaggio dal potere imperiale di Manfredi a quello regio angioino47. Il documento non accenna a un convento e verte sulla costruzione della chiesa. Secondo i parametri dell’insediamento stabile urbano strutturato, questa potentina risulterebbe una sede precaria, ma lo stesso documento fa ipotizzare una penetrazione capillare dei frati in città, con evidenti risvolti edilizi: la presenza effettiva dei frati, pur in assenza di una chiesa e di un convento vero e proprio, doveva essere piuttosto consistente e ai limiti dell’impopolarità, se dà luogo all’insofferenza espressa dagli abitanti della città. Nonostante si tratti del racconto di un miracolo, che implica l’enfatizzazione di alcuni elementi, quanto viene detto doveva essere almeno verosimile perché il documento è un atto notarile che poteva essere smentito da molti testimoni. 47 Cfr. T. Pedio, La Basilicata dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, cit., pp. 111 sg.

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4. Angioini e Francescani in Basilicata L’inizio del XIV secolo pare segnare, in Basilicata, una nuova fase di consolidamento delle strutture conventuali. Nel 1301 era in costruzione il convento di Montepeloso, come si deduce da un documento nel quale Carlo II comanda al giustiziere di Basilicata di non costringere a recarsi a Lucera un tale Silvestro calabrese, muratore, che era impegnato nel cantiere conventuale48. È possibile ipotizzare che il documento alluda a un ampliamento o a una riparazione, magari di una qualche entità, di una struttura conventuale già esistente. Ma anche nel caso si trattasse dell’edificazione di una struttura conventuale ex novo, ciò non implicherebbe di necessità una precedente assenza dei Minori in questa come in altre località della Basilicata: la presenza francescana può pensarsi costante e nello stesso tempo rapsodica per quanto concerne le sedi occupate o semplicemente utilizzate dai frati, e l’instrumento potentino induce a pensare che si tratta di una differenza non sempre apprezzata dalla popolazione. In questo senso risulta più eloquente il caso di Tricarico, ove la fondazione di un convento dei Minori è ascrivibile con certezza al 1314, sulla base di una lettera del papa Clemente V che autorizza la costruzione da parte di Tommaso di Sanseverino e sua moglie Suavia, conti di Marsico. Nel testo della lettera il pontefice dice che i conti gli si erano rivolti poiché nella vostra città di Tricarico non sono presenti frati di alcuno degli Ordini mendicanti dai quali, secondo i vostri desideri possiate ricevere i suffragi delle orazioni e salubria documenta, e che è nei vostri desideri che lì costruiate un luogo o qualche casa nelle quali alcuni Frati Minori contraggano dimora stabilmente49. 48 Cfr. P. Egidi, Codice diplomatico dei saraceni di Lucera, Napoli 1917, p. 284, n. 588 (menzionato nella presentazione del volume in «Archivum Franciscanum Historicum», 14, 1921, pp. 333-34). 49 «Habet siquidem expositae nobis vestrae petitionis assertio, quod in civitate vestra Tricaricensi non sunt aliqui de ordinibus Mendicantium, a quibus iuxta desideria vestra orationum suffragia et salubria documenta suscipere valeatis, quodque in desideriis vestris geritur, ut ibidem locum seu domos aliquas construatis, in qui­ bus aliqui ex fratribus ordinis Minorum moram continuam contrahant, devotum et sedulum sacrificium laudis Altissimo impensuri» (Bullarium Franciscanum, vol. V, Romae 1898, p. 98, bolla 223, datata 10 gennaio 1314).

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Il linguaggio usato dal papa nel prospettare il desiderio dei conti che i frati «moram continuam contrahant» lascia intendere che i frati non fossero del tutto assenti, quanto piuttosto che la loro presenza fosse, appunto, non continua, cioè occasionale o pendolare, e che si desiderasse renderla strutturata dotando l’ordine di un luogo o di qualche casa. Il caso di Senise, ancorché documentato nella forma analoga di un documento papale di autorizzazione, appare del tutto diverso. Innanzitutto, mentre sappiamo almeno dal Provinciale che l’insediamento di Tricarico attinse allo statuto istituzionale di convento, la fondazione di Senise non lascia altra traccia nella documentazione che questa lettera papale. Essa è indirizzata a Margherita, contessa di Chiaromonte e imparentata con i Sanseverino, essendo nuora dello stesso conte Tommaso implicato nella costruzione dell’insediamento di Tricarico. Il fatto che né il Provinciale né il De conformitate registrino un convento a Senise indica che molto probabilmente l’autorizzazione papale rispondeva a un desiderio della contessa che rimase tale. Interessa tuttavia rilevare la peculiare forma in cui esso viene prospettato, poiché l’erigenda sede di Senise parrebbe piuttosto assimilabile a una fondazione monastica di iniziativa laica. Secondo le parole del papa, infatti, Margherita intendeva costruire, nel castello della diocesi di Anglona nel quale suo fratello Ugone era stato ucciso, «de novo un luogo dell’ordine dei Frati Minori, a onore di Dio e del beato Francesco e in remissione dei peccati del detto Ugone, in fundo proprio, suis sumptibus et expensis»50. Si sarebbe trattato, dunque, di una fondazione eretta di sana pianta (ché così è da intendere il de novo), finanziata da Margherita a sue spese e su terreno di sua proprietà: un concorso di elementi, e una modalità insediativa, non documentati – almeno in Basilicata – per altre fondazioni convenutali. Va peraltro appena ricordato che a permettere (e anzi a rendere necessaria) la comparsa di documenti papali di questo genere erano motivi strettamente giuridico-canonici: in queste lettere, infatti, si esplicita che esse costituiscono l’apposita autorizzazione papale senza la quale non era possibile erigere conventi mendicanti in base a una proibizione formulata da Bonifacio VIII con la bolla Cum ex eo, poi

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Ivi, pp. 165-66, bolla 358, datata 19 marzo 1319.

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inserita nel corpus delle Decretali51. È questa proibizione, e la conseguente necessità di un’autorizzazione, che permise alle affermazioni esaminate di entrare nella documentazione pontificia, rispetto a situazioni che in passato erano non inesistenti, ma semplicemente regolate sulla base degli accordi fra i ceti dirigenti o le istituzioni ecclesiastiche locali e i Frati Minori e che avevano accesso alla documentazione pontificia solamente in presenza di contenziosi. Gli episodi appena richiamati danno conto di (poche) vicende relative alla fondazione o al consolidamento di conventi lucani durante il regno di Roberto e Sancia. Come si diceva, a parte alcuni lavori di consolidamento e di stabilizzazione relativi al convento di Montepeloso, e alla dubbia fondazione di Senise, l’unico convento minoritico di impianto trecentesco è quello di Tricarico. Va a questo proposito appena richiamata anche la precarietà che caratterizza gran parte della monarchia angioina, evidente soprattutto durante il regno di Giovanna I, contrastata sul piano dinastico e fortemente segnata dalle alterne prese di posizione della sovrana rispetto alle due obbedienze papali (romana e francese) rispetto alle quali l’Europa si divise nel corso del Grande Scisma: come è noto, Giovanna I, processata dal papa romano Urbano VI nel 1379 e poi scomunicata e deposta nell’aprile-maggio dell’anno successivo, fu assassinata a Muro Lucano, ove era prigioniera52. In siffatte condizioni, tutta l’età angioina, almeno dopo il solido regno di Roberto, è segnata da una stasi nelle fondazioni in Basilicata: pur in un regno nel quale, nota efficacemente Pietro Giannone, le nostre chiese durante il tempo dello scisma non fecero notabili acquisti di beni temporali, poiché l’ordine clericale era in poco credito [...]. I monaci vecchi, avendo già perduto il credito di santità, non erano più riguardati. 51 Per l’edizione della bolla bonifaciana cfr. Bullarium Franciscanum, vol. IV, Romae 1768, p. 424. Cfr. Corpus Iuris Canonici, editio Lipsiensis secunda, a cura di A. Friedberg, parte II, Decretalium collectiones, Lipsiae 1879-81 (rist. Graz 1959), col. 1082. 52 Per queste vicende si rinvia a G. Galasso (a cura di), Storia d’Italia, vol. XV/1, Il regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino ed aragonese (1266-1494), Torino 1992. Una trattazione più agile e ugualmente solida è offerta in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IV/1, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Napoli 1986, rispettivamente nei contributi di G. Vitolo, Il Regno angioino, pp. 11-86 e M. Del Treppo, Il Regno aragonese, pp. 89-201.

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Tutta la devozione de’ popoli era rivolta verso i novelli ordini di nuove religioni, che s’andavano alla giornata ergendo; [...] nel regno degli Angioini i più accreditati erano i mendicanti e fra questi i più favoriti furono i frati predicatori e i frati minori53.

Si può senz’altro accogliere, nel complesso, la definizione per cui «il favore costante della dinastia angioina (massimo ed esemplare quello di Roberto e di Giovanna I per i Francescani) giovò certamente a questa diffusione di monaci e monasteri per cui, come giustamente osservava Pietro Giannone ‘col correre degli anni il loro numero arrivò a tale che non vi è città o castello ancorché piccolo, che non abbia i suoi’»54: ma, come si è appena visto, alla notevole entità di popolamento conventuale che caratterizza il regno di Napoli e che è anche riflesso di tale rapporto privilegiato è ancora una volta estraneo il territorio lucano, nel momento in cui invece – ed è solo una esemplificazione – nella sola capitale del regno, a Napoli, vengono istituiti ben quattro conventi tra il 1334 e il 138555. La coppia reale, tuttavia, è tradizionalmente associata a un’altra forma di espressione del minoritismo trecentesco, vale a dire alla corrente cosiddetta degli «spirituali». Occorre chiarire alcuni aspetti della questione, poiché la presenza di «spirituali» nel regno trova anche precipue declinazioni in territorio lucano. È infatti ormai accertato che sia da ridimensionare, o almeno da interpretare diversamente, quello che è quasi un luogo comune della storiografia, vale a dire il legame privilegiato tra i reali angioini e i Francescani spirituali, che si sarebbe espresso, di volta in volta e in fasi diverse, in termini di appoggio, protezione o tacita connivenza verso la tendenza – che si trasformerà in dissidenza – comunemente indicata con la denominazione di «spirituale». Se è stata ampiamente discussa la posizione di Car53 P. Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Milano 1840, XXV, 10, vol. VI, pp. 222-23. 54 Cfr. Il regno di Napoli, cit., p. 475. Si noti che, relativamente agli ordini mendicanti, sarebbe più opportuno esprimersi in termini di «frati» e «conventi», nel rispetto del lessico dei contemporanei, ma soprattutto a distinguere fenomeni e forme di vita religiosa evidentemente irriducibili e molto diversi tra loro anche sotto il profilo insediativo. 55 Il dato risulta dal confronto tra gli elenchi dei conventi del Provinciale e del De conformitate (cfr. D’Andrea, I frati minori, cit., p. 77). Per la storia religiosa di Napoli in età angioina cfr. la sintesi di D. Ambrasi, La vita religiosa, in Storia di Napoli, Napoli 1967-78, vol. III, pp. 437-574.

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lo II rispetto agli spirituali, anche per quanto riguarda Roberto e Sancia una puntuale analisi degli atti e dei pronunciamenti ufficiali fa ormai apparire evidente che il loro obiettivo fosse la salvaguardia complessiva dello statuto dell’ordine dei Minori e che, per conseguenza, essi mantennero forti legami con tutte le componenti e le manifestazioni dell’appartenenza minoritica che caratterizzano la storia dell’ordine nel XIV secolo56. Come si espresse, in Basilicata, una tale attenzione? Per la prima metà del secolo, due nomi possono essere evocati a esprimere alcune caratteristiche del minoritismo lucano, e cioè quello di Pietro Scarrier e di Angelo Clareno: le note dominanti cui tali nomi rinviano – seppure mediatamente e in modo assai diverso – sono da un lato, appunto, il legame problematico tra i sovrani angioini e gli spirituali francescani, dall’altro (e soprattutto relativamente a Clareno) quanto meno le origini per così dire «ideologiche» della tendenza a favorire la penetrazione del minoritismo riformato della famiglia osservante, che nella seconda metà del XIV secolo si esprime in Italia almeno in embrione e che informerà di sé il minoritismo lucano lungo tutto il XV secolo. Pietro Scarrier era stato uno dei Frati Minori con cui furono in contatto i tre figli di Carlo II d’Angiò durante la loro prigionia catalana, essendo contemporaneamente in relazione con Pietro di Giovanni Olivi57. Molteplici attestazioni documentano i rapporti di familiarità e di fiducia che legavano Scarrier a re Roberto e a Sancia: è lo stesso papa Clemente V che, nei documenti relativi al suo episcopato, lo 56 La questione, in relazione ai singoli sovrani angioini e alle vicende interne attraversate dall’ordine, è stata recentemente oggetto di due fondamentali riletture critiche: R. Paciocco, Angioini e spirituali. I differenti piani cronologici e tematici di un problema, in L’état angevin. Pouvoir, culture et société entre XIIIe et XIVe siècle, Roma 1998, pp. 253-87 e S. Kelly, King Robert of Naples (1309-1343) and the Spiritual Franciscans, in «Cristianesimo nella storia», XX, 1, 1999, pp. 41-80. I due contributi, per vie documentarie e con percorsi diversi, giungono a conclusioni analoghe. Ad essi mi riferisco per documentare questi brevi cenni, rinviandovi anche per una circostanziata bibliografia. 57 I legami di Pietro Scarrier con Pietro di Giovanni Olivi sono affermati da E. Pásztor, Per la storia di san Ludovico d’Angiò, 1274-1297, Roma 1955 sulla base degli stessi argomenti discussi da Kelly, King Robert of Naples, cit., pp. 47 sgg., la quale non giunge tuttavia a negare il legame tra i due, ma semplicemente ad attenuarne le conseguenze rispetto allo «spiritualismo» di Scarrier – probabilmente enfatizzate da Edith Pásztor – per affermare infine che non necessariamente tale spiritualismo dovesse essere passato del tutto dal tutore al futuro sovrano.

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definisce regolarmente confessore e familiare della regina. Nel 1308, e dunque ancora durate il regno di Carlo I, Pietro Scarrier viene nominato dal papa vescovo di Rapolla58. La sua vicenda, sulla base del dossier costituito dalle bolle successive a quella di nomina, può essere così ricapitolata: Pietro Scarrier non produsse in tempo debito gli atti formali necessari per il perfezionamento della sua nomina e dunque questa fu annullata. Tuttavia, Clemente V ne conferma l’elezione con la formula «sebbene assente» (licet absens) e in data 15 gennaio 1308 vennero emanati i documenti di prassi per l’insediamento di un vescovo: a Pietro fu permesso di lasciarsi consacrare da un qualsiasi vescovo, liberandolo così dall’obbligo di recarsi presso la curia romana per essere consacrato, come richiedeva la prassi per un vescovo sottoposto immediatamente alla sede romana. Dunque egli fu assegnato all’episcopato di Rapolla prima che Roberto accedesse alla successione dinastica, ma consegue un forte consolidamento della propria posizione di privilegio all’inizio del regno di Roberto. Nell’aprile del 1310 egli ottenne dal pontefice la concessione della piena e libera facoltà di continuare a disporre liberamente dei libri spettanti all’ordine, dei quali era ancora in possesso, in deroga alle consuetudini e alle norme dell’ordine stesso59. Inoltre, ricevette dallo 58 15 gennaio 1308, in Bullarium Franciscanum, vol. V, cit., p. 45, n. 102. Per la vicenda dell’episcopato di Pietro Scarrier, con l’indagine del dossier documentario, cfr. H. Enzensberger, Minoriten auf den Bischofsstühlen Apuliens (13.-15. Jahrhundert), in «Laurentianum», 31, 1990, pp. 441-84, in particolare pp. 477-79, al quale ci si riferisce per la stesura di queste note. 59 «Unde est quod nos, eiusdem reginae [Sanctie] et tuis supplicationibus inclinati, ut de libris ad ordinem Minorum, quem fuisti professus, spectantibus, quos adhuc tenere vel habere dinosceris, possis infra conventus fratrum dicti Ordinis, sicut tibi videbitur ordinare, quibuscumque statutis et consuetudinibus contrariis eiusdem ordinis, iuramento, confirmatione apostolica, vel quavis alia firmitate vallatis nequaquam obstantibus, plenam et liberam fraternitati tue concedimus, auctoritate presentium, facultatem» (cfr. Regestum Clementis papae V [...] nunc primum editum cura et studio monachorum ordinis Sancti Benedicti, annus IV, Roma 1886, pp. 112-13, n. 5407). Enzensberger (Minoriten auf den Bischofsstühlen Apuliens, cit., p. 478) ha opportunamente messo in evidenza che Pietro è l’unico vescovo francescano di Puglia per il quale un tale legame con l’appartenenza all’ordine è dimostrabile anche dopo l’accesso all’episcopato. L’eccezionalità della concessione fatta a Pietro è ancor più evidente se si considera che persino il prestigioso vescovo napoletano Giacomo da Viterbo, frate agostiniano, poté tenere in uso i propri libri solo dietro indennizzo versato all’ordine e a condizione che dopo la sua morte fossero tornati al suo convento di provenienza, quello di Viterbo (cfr. Ambrasi, La

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stesso pontefice la dispensa a partecipare al Concilio di Vienne60 e il permesso pontificio per una permuta di immobili pertinenti alla chiesa di Rapolla61; ancora su intercessione di Sancia, e in risposta alla volontà manifestata da Pietro di fare testamento, il pontefice gli concede anche di utilizzare beni (non destinati a uso liturgico) e i possedimenti della chiesa di Rapolla a copertura dei costi del proprio funerale62. Presumibilmente Roberto e Sancia (le cui sollecitazioni sono richiamate in tutte le lettere di concessione) intesero riconoscere con questa disponibilità e con il legame privilegiato stabilito con Pietro Scarrier il ruolo da lui avuto durante la prigionia catalana dello stesso Roberto. Ad ogni modo, nonostante nessuna di queste concessioni e dispense fosse di per sé inedita o inusuale, e quali che ne fossero le motivazioni, esse nel loro insieme valgono a disegnare in Pietro Scarrier un vescovo «a statuto speciale», seppure in un certo senso confinato in una diocesi lucana, quindi non assegnato a una sede più esposta e prestigiosa. Altri personaggi di cui sono noti i legami con l’ambiente spirituale – e primi fra tutti Roberto di Mileto e il fratello di Sancia, Filippo di Maiorca – risiedono stabilmente a corte. I privilegi di cui fu oggetto il frate minore Pietro Scarrier, anch’egli, come si è detto, quanto meno vicino agli ambienti spirituali di Provenza, sono un riflesso «episcopale» del francescanesimo di corte angioino, beneficato e protetto in una sede lucana in quanto familiare della coppia reale. Rispetto al prudente ma sensibile accoglimento riservato a Pietro Scarrier, Angelo Clareno – per le stesse ragioni che lo avevano condotto in Basilicata, e cioè nella sua posizione di rifugiato – fu personaggio ugualmente protetto, anche se con segni meno evidenti e tangibili.

vita religiosa, cit., p. 447). L’esempio di Pietro Scarrier è addotto anche da Giovanni Vitolo come eccezione alla norma per cui sembra che «una volta divenuto vescovo, il frate mendicante tagli ogni rapporto con l’Ordine da cui proviene, adottando uno stile di vita e un modo di agire che, per quanto riguarda il governo della diocesi, lo rendono del tutto simile ai suoi colleghi provenienti dal clero secolare» (Vitolo, Episcopato, società e ordini mendicanti, cit., p. 182). 60 La dispensa riguarda la Sede apostolica, e dunque valeva a meno che Pietro non dovesse recarsi a Vienne al seguito del re Roberto. Cfr. Regestum Clementis, cit., p. 113, n. 5408, 12 aprile 1310. 61 Ivi, p. 113, n. 5410, 12 aprile 1310. 62 Ivi, n. 5443, edizione in Bullarium Franciscanum, vol. V, cit., pp. 68-69, n. 162, 27 maggio 1310.

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Angelo Clareno ebbe una parte rilevante nel quadro complesso delle posizioni che vengono generalmente comprese sotto il nome di «spiritualismo» francescano63. Nel 1334, in seguito a un inasprimento delle prese di posizione papali contro gli spirituali, dopo essere fuggito dall’abbazia di Subiaco (ove risiedeva sottoposto all’obbedienza dell’abate), giunse in Basilicata e morì in fama di santità quattro anni dopo nel convento di Santa Maria dell’Aspro, vale a dire in una sede ufficiale dell’ordine dei Minori, che come si è visto era regolarmente registrata, in quegli stessi anni, dal Provinciale di Paolino da Venezia. Il motivo per il quale la vicenda degli ultimi anni lucani della biografa del Clareno interessa in questa sede non è solo una coincidenza geografica. Piuttosto, egli fu – probabilmente – l’unico francescano morto in terra lucana a proposito del quale si può documentare il tentativo di sviluppare un culto. Un forte indizio di ciò è costituito dal racconto del suo trapasso e dalla redazione di alcuni miracoli, da lui operati in vita e subito dopo la morte64. Per il fatto di riportare vicende consumatesi in Basilicata, e soprattutto per essere, in assoluto, l’unica fonte di ambiente minoritico a far luce su aspetti precipui della storia religiosa della Basilicata, il documento merita di essere compiutamente esaminato, alla ricerca di tutti gli indizi che presenta. Lo schema narrativo adottato è piuttosto evidente: si riferiscono dapprima alcuni episodi relativi agli ultimi anni della vita, di cui sono protagonisti alcuni religiosi. Tra questi si registra infatti un solo miracolo di guarigione a favore di un laico. Essendo tali episodi relativi per lo più alla sua capacità di preveggenza, a un certo punto se ne interrompe la narrazione con un brano nel quale si spiega come Clareno desse conto delle sue capacità di penetrazione dei cuori. Il racconto dei molti miracoli di guarigione operati dopo la morte, Cfr. G.L. Potestà, Angelo Clareno: dai poveri eremiti ai fraticelli, «Istituto storico italiano per il Medio Evo, Nuovi studi storici», 8, Roma 1990 e Id., Gli studi su Angelo Clareno. Dal ritrovamento della raccolta epistolare alle recenti edizioni, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 25, 1989, pp. 111-43. 64 Firenze, Biblioteca nazionale, Magliab. XXXIX, 75, ff. 214v-219. Per il testo, già edito negli Acta Sanctorum, cfr. ora F. Accrocca, I «miracula beati Angeli» (ms. Magliabecchi XXXIX, 75) e gli ultimi anni del Clareno in Basilicata, in «Archivum Franciscanum Historicum», 89, 1996, pp. 615-27. 63

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ed esclusivamente a favore di laici65, è preceduto dalla narrazione del transito e delle esequie del frate: Clareno, uomo sconosciuto, pellegrino e isolato dai tumulti del secolo, morì «in un luogo deserto, lontano da qualsiasi centro abitato», e nonostante ciò il concorso di folla era cominciato tre giorni prima della morte «poiché si era sparsa la fama: ‘A Santa Maria dell’Aspro un santo sta morendo’», e l’afflusso fu tale che bisognò mettere dei custodi alla porta della cella perché le persone non potessero entrare se non alternandosi. Nel giorno della morte, poi, il 15 giugno, circa duemila persone sarebbero giunte in processione da diversi luoghi, e tutti indistintamente, inginocchiatisi sul corpo, abbracciando e baciando i piedi invocavano aiuto. Al momento della sepoltura, poi, «contro l’usanza di quella terra, che è montuosa, e popolata di uomini lavoratori e grossolani, e non abituati a tali manifestazioni, molti giunsero vestiti di sacco e bisaccia, e si percuotevano frustandosi con discipline»66. Nel complesso delle registrazioni compaiono anche cinque religiosi in rapporto con Clareno. Chi sono questi frati, e perché vengono menzionati in una raccolta siffatta? Il primo è frate Francesco di Saponara, che «abitava solitario nella chiesa di San Nicola»; il secondo è un frate Nicola di Calabria «suo compagno», del quale Clareno profetizza il desiderio di chiedere il permesso di potersi recare ad Assisi a visitare il corpo di san Francesco; il terzo è Petruccio da Rocca Montis Draconis, che aveva vissuto con Clareno nel romitorio di San Michele. Il quarto è frate Tommaso Anglico, dell’ordine di Pietro del Morrone e priore di Marsico; il quinto è tale frate Tommaso, «povero fraticello di Cristo» che viveva dalle parti della Calabria facendo penitenza per la sua salvezza e avendo udito che Clareno era arrivato «ad partes Basilicarum» e viveva nel romitorio di Santa Maria dell’Aspro, si reca lì poiché ardeva da anni dal desiderio di incontrarlo. Dunque Clareno, che viveva «segregato dai tumulti del secolo» ed era sconosciuto alla popolazione, non solo aveva attorno una comunità di frati e di compagni, ma costituisce, dall’eremo di Santa Maria, un punto di riferimento amato e autorevole per religiosi di diversa provenienza regolare e aderenti a varie forme di vita religiosa: dall’eremita 65 Per una sintetica introduzione dei miracoli di guarigione operati in favore di laici cfr. ivi, pp. 620-21. 66 Ivi, p. 624.

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di San Nicola al priore dei Celestini di Marsico al povero fraticello di Cristo che lo raggiunge dalla Calabria. L’epistolario di Angelo Clareno documenta i suoi rapporti, quanto meno, con personaggi influenti presso la corte angioina, quali Filippo di Maiorca e Roberto di Mileto67. La datazione delle lettere associata ai destinatari delle stesse non permette tuttavia di documentare l’affermazione che dal ritiro di Santa Maria dell’Aspro Clareno abbia continuato a «governare» gli spirituali del regno, e ad ogni modo è decisamente forzata l’interpretazione che vede nel convento di Santa Maria dell’Aspro «l’ultima casa madre degli spirituali». Se nella persona del frater Philippus che redige la raccolta può essere riconosciuto Filippo di Maiorca68, questo fatto riporterebbe immediatamente alla corte angioina, quanto meno puntualmente informata delle vicende consumate presso l’eremo di Santa Maria. La destinazione di Angelo Clareno al convento lucano non implica di necessità un coinvolgimento diretto della coppia reale o un sostegno attivo da parte dei reali alla sua causa. Se dunque da un lato la sua residenza in Santa Maria dell’Aspro non può essere invocata tra gli espliciti segni di «spiritualismo» di Sancia e Roberto, il fatto stesso che egli abbia potuto trascorrere i suoi ultimi anni in un convento lucano permette di cogliere un’ulteriore prova delle posizioni – senza dubbio non unidirezionali in senso filospirituale – assunte di fatto dai sovrani angioini: senza che la loro posizione ufficiale fosse di schieramento in favore delle varie manifestazioni di tale dissidenza, alcune scelte concrete – magari anche nella loro neutralità – fanno ipotizzare un simile atteggiamento almeno di fatto. L’esperienza della santità – ormai dissidente – di Angelo Clareno sembra prendere corpo in Basilicata in virtù di quegli stessi tratti di marginalità e di isolamento che caratterizzavano la presenza minoritica in generale: in sedi che non si imponevano come particolarmente significative in una regione che – terra di confine tra la Puglia e la Terra di Lavoro – era abitata da presenze provvisorie, che si esprimono secondo forme di eremitismo e di itineranza, non trovando grandi città nelle vicinanze come destinatarie dell’esercizio dell’apostolato. Cfr. schema delle lettere in Potestà, Angelo Clareno, cit., pp. 299-311. L’identificazione in L. von Auw, Angelo Clareno et les Spirituels italiens, Roma 1979, p. 198. 67 68

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Ma la relazione della morte e dei miracoli di Angelo Clareno si impone alla nostra attenzione anche in ragione di uno dei suoi destinatari. Una rubrica apposta al manoscritto, infatti, informa che poco dopo la morte di frate Angelo essa fu inviata da Roberto di Mileto a frate Gentile da Foligno, un agostiniano in stretta relazione con Clareno per gli anni precedenti e che, da Foligno, anima una delle esperienze spirituali della valle spoletana nella quale si sono potuti riconoscere alcuni tratti comuni all’esperienza di riforma che, per il tramite di Paoluccio Trinci, e in quello stesso ambiente folignate, si è soliti considerare alle origini dell’Osservanza minoritica69. Oltre il legame diretto stabilito tra Clareno e la comunità folignate per il tramite dell’invio della relazione, la sua figura è in qualche modo avocata dalla memoria storica osservante, anche per il fatto che Sisto IV, nel 1473, aveva riportato i Clareni all’obbedienza del ministro generale dell’ordine dei Minori. Forse proprio in ossequio a questo atto papale è particolarmente eloquente il trattamento riservato ad Angelo Clareno e alla sua vicenda nella Cronaca di Bernardino da Fossa. Nella coscienza dell’Osservanza matura, che il cronista esprime e costruisce, egli fu tra coloro che vollero separarsi dall’ordine per poter meglio osservare la regola, e tuttavia non poterono farlo, «uomo di santa vita [...] fervente e bramoso osservatore della regola, che desiderò anche, con grande desiderio, di separarsi dal tumulto della vita comune dei frati con alcuni confratelli per poter meglio osservare la regola e la professione fatta, secondo la volontà del nostro padre, il beato Francesco». Dopo aver ripercorso le vicende della fuga in Grecia celebrando anche la sua attività di traduttore di testi dal greco70, il 69 Sui rapporti tra Gentile da Foligno e Angelo Clareno e sul legame tra il suo gruppo e il sorgere dell’Osservanza minoritica nell’ambito dei tentativi di riforma osservante in area umbro-marchigiana cfr. M. Sensi, Le Osservanze francescane nell’Italia centrale (secc. XIV-XV), Roma 1985, passim. 70 Un suggestivo richiamo di questa attività di Clareno si legge nella raccolta dei miracoli: «Un giorno, mentre frate Pietruccio di Rocca Mondragone era con lui nell’eremitaggio di San Michele, il sant’uomo voleva rilegare un quaderno a un libro in greco che gli era giunto in prestito, ma l’ago di cui disponeva era troppo sottile. Frate Pietruccio, tra i suoi aghi, ne aveva uno più grande: pensa di prestarglielo, ma d’altra parte temeva che l’ago si sarebbe spezzato nell’operazione di cucitura. Mentre restava in dubbio, il sant’uomo d’improvviso gli disse: ‘Non te ne pentirai’. E quando Pietruccio gli chiese ‘Di che cosa?’, egli rispose ‘Del prestito dell’ago, di cui hai timore. Infatti io te lo restituirò immediatamente non appena avrò finito il lavoro’» (desumo la mia traduzione dall’edizione di Accrocca, I «miracula beati Angeli», cit., p. 623.

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racconto prosegue con le vicende dei rapporti tra Clareno e l’ordine dei Minori, la sottrazione all’obbedienza dell’ordine, l’adozione di un abito diverso, quasi da eremita e più simile a quello adottato alle origini. Il racconto prosegue: «il suo ordine visse sotto l’obbedienza episcopale fino a questo tempo di Sisto sommo pontefice, Francesco da Savona, frate minore e grande dottore in teologia», sicché i Clareni usavano lo stesso cappuccio degli osservanti ed erano stati accolti sotto l’obbedienza del ministro generale dell’ordine. Ricapitolata così la parabola istituzionale del movimento acceso da Clareno, il racconto si chiude saldando la sua figura alla famiglia dell’Osservanza: Questo frate Angelo, come si dice, prima di morire ordinò ai suoi frati, come per testamento, che quando vi fosse stata nell’Ordine dei Minori una buona osservanza, fossero tenuti a rientrarvi. E avendo detto frate Giovanni da Capestrano ad alcuni di quegli eremiti: «Ecco, ormai nell’Ordine c’è l’osservanza; voi dunque non potete avere la coscienza a posto finché non tornate alla religione dei Minori» [...] e ventisette di loro, sacerdoti, si allontanarono di lì e vennero a far parte della nostra famiglia. Questo buon uomo, non rea­ lizzò affatto quello che voleva, poiché uscì dall’Ordine e non osservò [così facendo] la regola del beato Francesco, anzi, tiratosi fuori dall’ordine, non poté esser detto Frate Minore. E da parte di molti di grande reputazione, il fatto che uscì dall’ordine fu imputato alla sua pusillanimità e viltà. La verità, tuttavia, la conosce colui che nulla ignora71.

In realtà, le origini più prossime della storia della famiglia osservante sono ravvisate anche da Bernardino da Fossa nella comunità avviata da Paoluccio Trinci presso l’eremo di Brogliano, ma il fatto di aprire il racconto della «preistoria» osservante con Clareno, per giunta sospendendo il giudizio sul complesso della sua esperienza, non è né ovvio né neutro: pare piuttosto rispondere alla precisa scelta ideologica di inquadrare pienamente l’Osservanza entro la storia dell’ordine dei Minori, di non proporla come una novità o un’invenzione, ma piuttosto come l’espressione e il compimento della storia dell’ordine stesso, e non di un suo ramo separato72. Si tratta dunque di un’appropriazione di Clareno da parte dell’Osservanza di natura 71 B. Bernardini Aquilani Chronica Fratrum Minorum Observantiae, edidit L. Lemmens, Romae 1902, pp. 4-6. 72 È la stessa ideologia espressa fin nell’impianto e nel titolo originario di un’opera come lo Specchio dell’Ordine minore dell’osservante perugino Iacopo Oddi, meglio nota con il titolo editoriale – ancorché antico – di Franceschina.

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ideologica, derivata da un’interpretazione organica della propria storia, e non del semplice riflesso cronachistico di un legame «reale»: ma proprio per questo l’appropriazione è efficace e significativa. Mentre, dopo l’escussione della figura di Clareno, Bernardino procede nel racconto della prima organizzazione e delle prime manifestazioni della paupercola familia minoritica, possiamo riprendere le fila del discorso sul minoritismo lucano, che può davvero definirsi, per il XV secolo, un minoritismo spiccatamente osservante. 5. Il secolo dell’Osservanza Nel corso del XV secolo si registra per la prima volta in Basilicata un generale e consistente incremento delle fondazioni conventuali mendicanti, determinato dal diffondersi delle Osservanze all’interno degli ordini religiosi73. Per quanto riguarda l’ordine dei Minori, i conventi osservanti attivati tra l’inizio del secolo e il 1515 sono diciannove, cosicché quello generato dall’Osservanza minoritica rappresenta il più consistente fenomeno insediativo di un ordine mendicante in Basilicata. Ma oltre al dato numerico – che ne qualifica la presenza come fenomeno diffuso –, la affermazione dell’Osservanza minoritica in Basilicata è altrimenti caratterizzata. Innanzitutto, come si diceva, è la prima organizzazione religiosa che assume il territorio regionale come partizione a se stante: se i primi conventi vengono istituiti come dipendenti dalla vicaria osservante di Puglia, nel 1484 si istituisce una vicaria di Basilicata74. Inoltre, il fatto stesso che il territorio sia divenuto oggetto di una precipua attenzione amministrativa e istituzionale fa sì che il fenomeno della penetrazione osservante sia anche, in assoluto, quello meglio documentato75. Gli Agostiniani aggiungono ai conventi precedenti quelli di Melfi e Atella, mentre i Domenicani fondano, tra il 1442 e il 1479 i conventi di Montemurro, Atella e Lavello. 74 La vicaria assunse poi lo statuto di provincia nel 1518, in conseguenza della separazione, e del governo parallelo, dell’Osservanza rispetto all’ordine dei Minori. 75 I livelli della documentazione sono vari: innanzitutto le lettere papali che autorizzano l’istituzione di conventi osservanti (di cui un quadro sintetico in M.A. Bochicchio, Silloge di fonti diplomatiche ed annalistiche della storiografia 73

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Dei conventi osservanti lucani, infatti, non solo è possibile ricostruire l’andamento su un piano cronologico, ma anche indagare singole vicende insediative, che fanno luce sulle condizioni politiche ed ecclesiali che ne resero possibile e persino auspicabile l’istituzione76. Peraltro, tale chiave interpretativa, particolarmente idonea ad aprire le vicende lucane, non sarebbe automaticamente applicabile ad altre situazioni dell’Italia mediana o settentrionale, laddove – stanti le congiunture politiche che favoriscono o invocano una presenza osservante – senz’altro una parte significativa di ogni vicenda di stanziamento sarebbe legata – quanto meno anche – a un ciclo di prediche tenuto da un frate osservante, a cominciare da Bernardino da Siena, al successo delle cui prediche si vogliono legate la maggior parte delle fondazioni italiane entro la prima metà del secolo. I modi e i tempi dell’insediamento in Basilicata, peraltro, riflettono le vicende stesse della storia osservante, soprattutto nei rapporti alterni che la famiglia ebbe con l’ordine dei Minori. Le prime cinque fondazioni, ad esempio, risalgono agli anni tra il 1430 e il 1446, vale a dire a un periodo nel quale era apertissimo il problema dello statuto dell’Osservanza rispetto all’ordine: le due date estreme, infatti, rispetto alla storia dell’Osservanza, possono essere tradotte come il periodo che va dall’emanazione delle costituzioni martiniane (un tentativo fallito, da parte di Martino V, di regolare i rapporti tra i due rami dell’ordine) all’assetto legittimato dalla bolla di Eugenio IV, che regola tale rapporto con la formula del regime vicariale. La polemica che segue questa sistemazione esploderà, all’interno dell’ordine, tra sui frati minori in Basilicata, in Studi lucani. Atti del II Convegno nazionale di storiografia lucana, Montalbano Jonico-Matera, 10-14 settembre 1970, Galatina 1976, pp. 119-24), in secondo luogo gli atti dei vicari generali dell’Osservanza, documentati dal Regestum Observantiae Cismontanae (1464-1488), «Analecta Franciscana», 12, Grottaferrata 1988. Infine uno specifico memoriale della metà del XVII secolo, intitolato Notitia Provinciae Observantiae Basilicatae, sommariamente edito da Coco, I Francescani in Basilicata, cit., pp. 298 sgg. Sull’edizione di Coco cfr. i rilievi di Bochicchio, Documenti di storia dei frati Minori in Basilicata dal secolo XV al secolo XVIII, in Bove, Palestina, Pietrafesa (a cura di), Francescanesimo in Basilicata, cit., pp. 93-153, cui si rinvia anche per l’escussione dell’intero corpus delle fonti. 76 Non a caso lo studio più puntuale sulla documentazione e sullo sviluppo dell’Osservanza minoritica in Basilicata evoca fin dal titolo: M.A. Bochicchio, L’origine e lo sviluppo della regolare osservanza francescana in Basilicata 1472-1593. L’intervento dei vescovi, baroni e popolo, Firenze 1977 (estratto da «Studi francescani», LXXIV, 1-2, 1977).

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gli anni Cinquanta e Settanta, come esasperazione dei temi che avevano caratterizzato il ventennio precedente. Una declinazione lucana di questo contrasto si verifica nelle vicende che segnarono la fondazione del convento di Miglionico a partire dal 1439. La costruzione era stata avviata dopo che il pontefice Eugenio IV, con la bolla Merita vestre religionis del 23 maggio 1439, aveva concesso ai Frati Minori della Provincia di Puglia di procedere ad alcune fondazioni entro il territorio provinciale, una delle quali, appunto, a Miglionico, nella diocesi di Acerenza, con il vincolo che i conventi di nuova fondazione venissero assegnati ai frati dell’Osservanza77. Da un successivo breve papale, però, veniamo a sapere che nel convento edificato sulla base di questa concessione si erano trasferiti i Frati Minori conventuali, con il consenso del ministro provinciale di Puglia, «abusando della lettera e della facoltà concessa contro la Nostra intenzione e contro la volontà del duca e degli abitanti»78: appunto la denuncia del fatto da parte del conte Antonio di San Severino e degli abitanti di Miglionico aveva sollecitato l’intervento papale. Il papa spiega che i Frati Minori dell’obbedienza del ministro (i cosiddetti «conventuali») non erano graditi né ben accetti al popolo di quelle parti, il che dava luogo a frequenti scandali e dissensi. Considerato ciò, ordina all’abate di Oggiano di convocare le parti in causa, di accertare la realtà ed eventualmente di procedere alla soppressione della chiesa, nella quale, specifica, vi erano sepolture di laici ed erano stati eretti molti altari intitolati a san Francesco. Secondo le direttive papali, l’edificio doveva essere riconsegnato alla chiesa principale di Miglionico, alla quale sarebbe appartenuto con lo statuto di cappella, e tutte le suppellettili dovevano essere trasferite in un nuovo convento da edificarsi nel paese e da assegnarsi al vicario provinciale dei Frati Osservanti. Dopo il breve papale prese avvio l’edificazione del nuovo convento di San Francesco79. Con vicende meno burrascose, anche il convento di San Francesco di Tursi era stato edificato nel 1442, dopo una concessione dello 77 Bolla Merita vestre religionis, 23 maggio 1439, in Bullarium Franciscanum, nuova serie, vol. I, 1431-1455, Roma 1929, p. 199, n. 427: i conventi sono infatti autorizzati «pro fratribus sub regulari observantia». 78 Cfr. il breve Ad ea del 24 ottobre 1444, indirizzato all’abate del monastero di Oggiano, ivi, p. 387, n. 823. 79 Bochicchio, L’origine e lo sviluppo, cit., p. 11.

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stesso Eugenio IV80 che autorizzava il vicario di Puglia ad aprire anche altri tre conventi. Per altre tre fondazioni, che si vogliono far risalire al pontificato di Eugenio IV – quelle di Venosa, di Atella e di Melfi (datate rispettivamente al 1339 e al 1441) – a differenza delle altre due, non abbiamo altre attestazioni se non quelle dei cronisti dell’ordine dal XVI secolo in avanti81. Fino agli anni Settanta neanche gli Osservanti stabilirono altre sedi in Basilicata: è nel 1472 infatti che il capitolo si fa carico della situazione dei conventi lucani. Le decisioni prese in quella sede e la verifica delle conseguenze che ne scaturirono sul piano insediativo si possono contestualizzare anche in questa seconda fase nella storia dell’Osservanza. Il capitolo del 1472 ebbe luogo all’Aquila e celebrò anche la traslazione del corpo di san Bernardino da Siena dalla chiesa di San Francesco – ove fu sepolto nel 1444 – nella nuova basilica a lui intitolata. La riappropriazione osservante del corpo del santo di famiglia esprime simbolicamente anche l’avvio di un momento relativamente più disteso nei rapporti tra Osservanti e Conventuali, che avevano attraversato il periodo di più violenti contrasti nel ventennio precedente, proprio a ridosso della canonizzazione del senese nel 1450. A dirimere alcune questioni sarebbe stato il pontificato di Sisto IV, già frate minore e ministro generale Francesco della Rovere82. Nel momento in cui i Frati Conventuali tentarono di far annullare la bolla di Eugenio IV che sanciva il regime vicariale, al fine di riportare gli Osservanti sotto l’obbedienza del ministro generale, la decisione finale di Sisto IV fu quella di lasciare inalterato il regime di governo dell’Osservanza, che sostanzialmente non verrà più messo in discussione fino al perfezionamento dell’autonomia 80 Bolla Inter cetera del 12 febbraio 1442, in Bullarium Franciscanum, nuova serie, vol. I, cit., p. 270, n. 573. 81 Le quattro opere di riferimento sono quelle classiche dell’erudizione minoritica di età moderna: F. Gonzaga, De origine seraphicae religionis franciscanae, Roma 1587 (Venezia 1603-16062); L. Wadding, Annales Minorum seu trium ordinum a s. Francisco institutorum, Roma 1731-1886, opera annalistica avviata nel 1588; la Chronologia historico-legalis seraphici Ordinis Fratrum Minorum, 3 voll., Napoli 1650, vol. I (1209-1633); infine, D. De Gubernatis, Orbis seraphicus seu istoria de tribus ordinibus, 4 voll., Roma-Lyon 1682-85. 82 Cfr. M. Fois, I papi e l’Osservanza minoritica, in Il rinnovamento del francescanesimo: l’Osservanza. Atti dell’XI convegno della Società internazionale di Studi francescani, Assisi 1985, pp. 1-105, in particolare pp. 83-90.

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nel 1517. Peraltro, il favore del pontefice verso il ramo riformato dell’ordine è espresso anche dalla concessione di molte licenze per la fondazione di sedi osservanti che, come vedremo, fu sensibile anche per la Basilicata83. Perché e come gli anni Settanta del XV secolo segnarono una nuova fase dell’insediamento osservante in Basilicata? Mentre le sedi di Venosa, Melfi e Atella erano ubicate nel Vulture, i due conventi di Tursi e di Miglionico erano a est, al di sotto di una ideale linea est-ovest tra Matera, Tricarico e Potenza che – tranne qualche eccezione, e soprattutto per la zona appunto a est – non conosce insediamenti mendicanti, ed erano molto lontani anche dagli altri tre luoghi osservanti. A questa collocazione dei conventi – reputata antieconomica poiché risultavano eccessivamente onerosi da gestire e inadeguati al progresso della vita osservante – sembra far riferimento il capitolo del 1472, che pose l’alternativa di abbandonarli (restituendoli agli ordinari diocesani) o di trattenerli84. Per dirimere la questione si decise di inviare «un frate probo, che esplori i centri che sono in terra di Puglia, di Calabria e della Terra di Lavoro, e se parrà opportuno che si istituisca una nuova provincia, acquisisca luoghi»85. Il probo frate fu individuato in Giacomo da Molfetta, incaricato di una missione in Basilicata dal vicario generale Angelo da Chivasso il 21 maggio del 147386. La Notizia della provincia dell’Osservanza di Basilicata non registra il fatto che il secondo commissario incaricato per la Basilicata sia stato un certo Giovanni di Nola (1475-78), menzionato invece 83 Fa notare G. Vitolo (Ordini mendicanti, cit., pp. 80-81) che tra le molte autorità politiche che si rivolsero al pontefice per sostenere in questa circostanza le ragioni degli Osservanti non ci fu il re Ferrante d’Aragona. 84 Cfr. Wadding, Annales Minorum, cit., a. 1472, n. 9: «Discussum est, an expediret potius dimittere et Ordinariis consignare loca aliquot fratrum onerosa satis, et reformatae disciplinae subeundae valde incommoda, in regione Basilicatae ante aliquot annos acquisita, quam retinere». 85 La Chronologia historico-legalis, cit., riporta la decisione in questi termini: «Quod mittatur aliquis probus frater, qui exploret illas Terras, quae sunt in terra Apuliae, et Calabriae et in Terra Laboris; et si videbitur quod fiat nova Provincia, capiantur loca». La mia interpretazione della fonte si discosta da quella di Bochicchio, che accoglie la lettura di Wadding per cui si tratterebbe, in realtà, della Basilicata, come terra posta tra (inter) Puglia, Campania e Calabria. 86 Archivio segreto vaticano, Franciscalia, a. 1464-1488, f. 49r. Il documento indica il frate come «Iacobus de Melphito» (Molfetta) e consente di rettificare l’informazione di Wadding che lo denomina come Giacomo da Amalfi («Iacobus Amalfitanus»).

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come ex commissario in una lettera del vicario generale Pietro da Napoli nel 148387. Ad ogni modo, tra il 1473 e il 1478 (vale a dire nel corso dei primi due commissariati) furono istituiti con certezza almeno i tre conventi di Pietrapertosa, di Santa Maria Orseolo e di Stigliano. Tale fase insediativa prese l’avvio da una bolla di Sisto IV del novembre del 1473 – presumibilmente richiesta da Angelo da Chivasso in seguito a una prima relazione da parte del commissario – con la quale si permetteva l’accettazione, da parte degli Osservanti, di cinque conventi in Basilicata. Quale che sia la relazione da stabilirsi tra la bolla papale e la fondazione dei tre conventi appena ricordati, si notino i termini con cui il pontefice si esprime nell’autorizzarne l’istituzione: ricorda la petizione del vicario dell’Osservanza cismontana, nella quale si diceva che gli abitanti delle città e dei castelli (oppida) della provincia di Basilicata del Regno di Sicilia citra Farum, mancando del nutrimento della Parola di Dio, per la singolare devozione che hanno verso l’Ordine, intendono costruire ed edificare, o far costruire e far edificare dentro e fuori le loro città e castelli, in luoghi idonei, alcune case del detto Ordine, con chiese, modesti campanili, campane, cimiteri, dormitori, chiostri, orti, hortiliciis e con tutti gli altri locali (officinas) necessari ad uso dei frati88.

La formula qui utilizzata a descrivere l’insediamento con tutti i suoi annessi è la stessa – del tutto usuale per il XV secolo – già presente nel breve di Eugenio IV Merita vestrae religionis. Entrambe le lettere papali furono richieste e concesse sulla stessa base canonica di quelle già viste per i conventi di Tricarico e Senise (vale a dire in ragione della necessaria esenzione rispetto al divieto bonifaciano di costruire conventi senza speciale licenza pontificia): il linguaggio che designa, nei documenti pontifici emessi per le sedi osservanti nel corso del XV secolo, rinvia a sedi stabili dotate di tutte le infrastrutture per la residenza dei frati e per l’esercizio del culto, con una puntualità e con un modo di prospettare l’insediamento e la sua istituzionalizzazione affatto estraneo al linguaggio utilizzato da qualsiasi altro documento relativo ai precedenti stanziamenti minoritici.

87 88

Bochicchio, L’origine e lo sviluppo, cit., p. 27. Bullarium Franscicanum, nuova serie, vol. III, Quaracchi 1949, p. 211, n. 522.

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I due commissari successivi, prima dell’istituzione della vicaria di Basilicata decretata nel 1484, furono Bonifacio da Moscufo (1478-80) e Antonio di Sant’Angelo (1481-84); durante i loro commissariati le sedi osservanti aumentarono di tre unità con l’istituzione dei conventi di Viggiano, Tricarico e Oppido. L’unico di questi tre conventi per il quale si sia conservata la bolla di concessione papale è quello di Tricarico, e la bolla, del 1479, è indirizzata al vescovo di Venosa89. In essa si riferisce della petizione nella quale si diceva che il principe di Bisignano e conte di Tricarico, Girolamo Sanseverino, desidera costruire e far edificare una casa, dentro o fuori le mura della città di Tricarico, presso la quale i frati dell’Osservanza non hanno una sede, da destinarsi a loro abitazione, sita in un luogo agevole e onesto, a loro conveniente, da individuarsi da parte dello stesso principe Girolamo insieme al commissario della provincia di Basilicata, secondo il costume del detto ordine.

La casa, dotata di tutti gli annessi architettonici debitamente elencati, secondo il formulario, a partire dalla chiesa con il campanile, doveva servire a perpetuo uso e abitazione dei frati dell’Ordine, i quali frati, con la parola e con l’esempio, inducano i cittadini e gli abitanti a quanto riguarda la salvezza delle loro anime, ritenendo con ferma speranza e fiducia che dalla lodevole vita e condotta di questi frati, dall’assidua celebrazione dell’ufficio divino, dalla predicazione della parola di Dio, dalle ammonizioni, dai consigli e dall’ascolto delle confessioni, i cittadini e gli abitanti possano conseguire grande giovamento per la salvezza delle anime.

Con queste motivazioni, e sulla base di questa sollecitazione, il papa ordina al vescovo di permettere la costruzione del complesso conventuale. Il linguaggio di questa lettera, senz’altro tipico di concessioni analoghe, esprime il livello di compiutezza e di strutturazione al quale era giunta la presenza osservante in Basilicata prima ancora dell’istituzione della vicaria. In sintesi, nel momento in cui si giunge a istituire la vicaria, anche volendo computare soltanto le sedi documentate direttamente (esclu-

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Ivi, pp. 617-18, n. 1220.

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dendo dunque Melfi, Venosa e Atella), i conventi lucani dell’osservanza erano otto: quelli di Tricarico e Tursi, risalenti agli anni Trenta-Quaranta, e gli altri sei fondati nell’arco di tempo compreso tra i quattro mandati triennali dei commissari. A questi va aggiunto il convento di Laurenzana, le cui vicende danno una misura dei vivaci contrasti che si consumavano tra i commissari e i vertici dell’Osservanza da un lato, e dall’altro i frati dei singoli conventi e i detentori del potere politico nei diversi centri. Eloquente è infatti il tenore della lettera inviata nel 1483 dal vicario generale dell’Osservanza a Raimondo degli Orsini, signore di Laurenzana, vertente sul destino del convento locale. Il vicario generale, di cui i frati avevano ventilato un coinvolgimento nello smantellamento del convento, afferma che ciò non era nelle sue intenzioni, né in quelle del commissario; piuttosto erano stati i frati a ventilare tale ipotesi infondata: è stata dicta la falsita ala vostra signoria, forse da alcuno che vole vivere in liberta, et per havere el favore vostro et de altri, che soi prelati non possano fare de loro quello che e conveniente secondo lo nostro stato et modo de vivere.

Il signore di Laurenzana viene dunque avvertito: qualora avesse favorito i frati, una volta avute da loro informazioni menzognere, nel sottrarsi all’obbedienza dei superiori, questo siate certo che non lo volemo substinere, ma lassaremo lo loco come vostro, et li frati che non voranno obbedire ve li lassaremo ly como vostri famegli. Et non creda la vostra Signoria aiutarese col Papa o altro, che la sua Santità non ne forzerà tenere lochi che non possamo liberamente correggere et mutare frati.

La causa prossima del contendere tra la comunità locale dei frati e il vertice della famiglia (rappresentato dal commissario) è la pratica della disciplina regolare, ma più in profondità si adombra il fatto che i frati, a tutela della propria libertà di condotta, tendessero a considerare come loro interlocutore privilegiato il signore del posto e non i propri superiori in religione: pare insomma che a prevalere sia un criterio di appartenenza territoriale e non religiosa, in un rapporto di efficace prossimità con le istanze del potere politico, poiché pronta-

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mente il signore di Laurenzana interviene per scongiurare il rischio della chiusura del convento. Tensioni del genere di questa esemplificata dal caso di Laurenzana dovettero essere costanti e consistenti, come lascia intuire anche il fatto che il commissariato di Giacomo da Molfetta terminasse con una rimozione e con provvedimenti disciplinari di cui resta difficile valutare le cause. Del resto, l’ultimo dei commissari prima dell’istituzione della vicaria terminò il proprio mandato perché dichiarato deposto dai frati di Basilicata90. In siffatto contesto, l’istituzione della vicarìa, formalmente giustificabile in base all’alto numero di conventi stabiliti, sembra essere, sostanzialmente, un’assunzione da parte dell’Osservanza di queste tendenze all’autonomia. Tra il 1484 e il 1518 le sedi conventuali osservanti aumentano di sei unità con l’istituzione dei conventi di Potenza (1488), Pisticci (149295), Lauria (1507), San Martino d’Agri (1512), Tito (1514) e Rivello (1515)91. Nel 1517, con l’emissione della bolla Ite vos da parte di papa Leo­ ne X, alla famiglia osservante viene riconosciuta la totale autonomia rispetto all’ordine dei Minori, con il superamento del regime di governo vicariale e lo stabilirsi di forme di un sistema sovrapponibile a quello che reggeva l’ordine dei Minori. La trasformazione della vicaria di Basilicata in provincia fu un’ovvia conseguenza del nuovo statuto canonico conseguito dell’Osservanza: una traduzione di lessico canonico secondo la quale, come le vicarie (che non hanno più ragion d’essere data l’autonomia dell’Osservanza) si configurano in termini di provincia, così i vicari locali divengono ministri provinciali. Tra i superiori che ressero la vicaria abbiamo notizie solo del primo e dell’ultimo: il primo fu Paolo da Turano, l’ultimo (che dunque fu anche il primo ad avere il titolo di ministro provinciale di Basilicata) fu Gianfrancesco da Potenza. Se la fase di vitalità eccezionale – almeno secondo i parametri lucani – delle fondazioni conventuali a partire dagli anni Quaranta del Quattrocento corrisponde sul piano religioso, come si è detto, all’af90 Per alcune controverse situazioni relative ai due commissariati cfr. i cenni in Bochicchio, L’origine e lo sviluppo, cit., passim. 91 I conventi di Lauria e Rivello gravitano attorno alla precedente fondazione di Policastro (1487), attualmente in territorio campano, ma annessa alla vicaria osservante di Basilicata (cfr. ivi, p. 70).

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fermarsi delle riforme osservanti all’interno degli ordini religiosi, tuttavia essa fu resa possibile, precipuamente in Basilicata, innanzitutto da una ritrovata stabilità politica e dalla ripresa dinamicità socio-economica che caratterizza l’età aragonese: dalla seconda metà del Quattrocento, e nonostante gli eventi che caratterizzano la successione tra Alfonso e Ferrante92, la Basilicata presenta «una facies culturale più omogenea» ed è possibile osservare «una crescente stabilizzazione e ripresa della vita economica e sociale», dopo la depressione che aveva caratterizzato, in Basilicata, l’età angioina93. A concorrere alla stabilizzazione, evidente dalla metà del Quattrocento, fu senz’altro anche una ridefinizione dei rapporti tra le famiglie baronali, entità costituzionalmente centrale negli assetti di potere del regno94. A una rilevazione delle modalità di insediamento dei singoli conventi dei Minori Osservanti, ma anche dei conventi domenicani, dalla seconda metà del XV secolo in avanti, il coinvolgimento politico e finanziario di membri delle famiglie baronali appare ancor più evidente, oltre che meglio documentato, rispetto al passato. Se l’interazione dei frati dell’Osservanza con il potere secolare è cifra di fondo della diffusione della famiglia religiosa e della funzione che di fatto svolse nella società italiana del XV secolo, esempi desumibili dal caso lucano mostrano bene alcune declinazioni meridionali del fenomeno: i baroni, in quanto feudatari del potere regio, costituiscono – oltre al papato, al vertice degli ordini religiosi e al potere monarchico – una quarta presenza, che diviene preponderante in quanto più a stretto contatto con i centri di insediamento e direttamente investita del loro governo. Ad ogni modo, e quali che ne fossero i presupposti, la consistenza e la distribuzione degli insediamenti osservanti esprimono la fase di stabilizzazione della presenza minoritica, che dà luogo all’individuazione della Basilicata anche come entità amministrativa, connotata così di una unitarietà che corrisponde a quella politica propria dell’età aragonese: del resto, Alfonso d’Aragona fu anche uno dei promotori ufficiali della causa di canonizzazione del santo dell’Osservanza, Bernardino da Siena, canonizzato nel 1450 e morto nel regno, all’Aquila,

92

714.

93 94

Sulla cosiddetta «congiura dei baroni» cfr. Il Regno di Napoli, cit., pp. 690Ivi, pp. 873-78, in particolare p. 876. Ivi, p. 877.

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nel 1444, vale a dire in un momento nel quale la città abruzzese era rimasta l’ultima roccaforte dei sovrani angioini. Non solo, dunque, l’Osservanza diede luogo per prima a un sensibile incremento della presenza minoritica nella regione, ma rappresenta anche il fenomeno attraverso il quale i fotogrammi della presenza minoritica in Basilicata risultano, oltre che diffusi, anche bloccati: dotati di quella stabilità e capillarità difficilmente rintracciabili – almeno a livello di sedi conventuali – per i due secoli precedenti, e invece enfatizzati dalle forme di stanziamento della ulteriore – e negli anni Venti del XV secolo imminente – riforma dell’ordine dei Minori, quella dei Cappuccini. 6. Conclusioni Il regno di Napoli costituisce, durante il Grande Scisma, uno dei centri più significativi d’Europa sul piano religioso, oltre che evidentemente sul piano politico: ma proprio nella prospettiva delle differenziazioni esistenti tra aree all’interno del regno, non si può dire che in Basilicata si verificano su scala ridotta gli stessi fenomeni che si registrano altrove; anzi, in alcune fasi, pare accadervi addirittura il contrario. Nella vicenda dell’insediamento minoritico in territorio lucano, davvero la metà del XV secolo segna una svolta, ma questa non può essere rappresentata in termini di opposizione tra il deserto dei secoli XIII e XIV e il denso popolamento conventuale successivo. Per quanto riguarda la presenza minoritica nei primi due secoli, infatti, si potrebbe dire – avendo presenti le forme di stanziamento maturate nel resto d’Italia entro la metà del XIII secolo – che tale presenza in Basilicata vive una lunga fase pre-matura. Questa è, in molti casi, talmente lunga da assumere i caratteri della tipicità più che quelli della anticipazione, e tuttavia si qualifica assolutamente come una forma di «presenza» minoritica. Tale presenza può essere persino ingombrante (come sembra venisse percepita dagli abitanti di Potenza), ma più spesso era saltuaria, itinerante, non vincolata alla fruizione stabile di luoghi deputati ai frati (come si è visto per Tricarico), e in altri casi ancora centrata attorno a luoghi di tipo eremitico: non solo nell’indizio relativo a Melfi per gli anni Quaranta, ma anche nelle definizioni unanimemente assegnate ai conventi di Santa Maria dell’Aspro

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e di San Michele a Saponara. Anche le lettere papali che autorizzano l’allestimento di sedi stabili parlano, in realtà, non di un convento – come accadrà per quelli osservanti –, ma di una o più case. In sintesi: precarietà, itineranza, occasionalità, perdurante residenza in ambienti non urbani sembrano essere le cifre di fondo della presenza minoritica in un territorio che da un lato non si prestava – per la propria conformazione e per il proprio tessuto economico, sociale e viario – a costituire un polo di attrazione per insediamenti più stabili, densi e consistenti, e che poté dare luogo, rispetto alla presenza di frati, a quello che potremmo definire una sorta di prolungamento secolare delle forme che altrove sono superate nel giro del primo ventennio di storia dell’ordine. Il fatto che tale situazione, a differenza di altre aree dello stesso regno, non sia mutata nel succedersi delle tre dinastie sveva, angioina e aragonese, mostra che la peculiare situazione insediativa dei Frati Minori non trovò nelle politiche dei sovrani una ragione primaria. La Basilicata resta estranea persino al fervore minoritico che caratterizza la corte angioina ed è semmai percepita e utilizzata come «terra di riserva» per la protezione di forme di appartenenza minoritica problematiche, ma ugualmente tutelate – anche se non sempre direttamente – dai sovrani. Se dunque il territorio lucano poté essere la prigione senza muri di Angelo Clareno, il buon ritiro di Pietro Scarrier e la trappola mortale per Giovanna I, ciò fu probabilmente possibile  – come si è detto – in ragione delle stesse caratteristiche di marginalità, di riservatezza, di osticità geografica che non ne fecero terreno privilegiato dall’economia di stanziamento stabile espressa dai Frati Minori nel complesso del regno. La sistematica e strutturata penetrazione osservante, invece, a parità di condizioni del territorio su cui insiste, può essere letta diversamente. Nel corso del XV secolo la famiglia minoritica aveva conseguito una grande visibilità, soprattutto in virtù della predicazione da parte dei propri membri, condotta in forme e con effetti che – con maggiore intensità rispetto a quanto non si fosse verificato per la predicazione mendicante nei secoli precedenti – qualificano la predicazione osservante come un fenomeno di massa. A questo grande successo non corrispose, come si è detto, il conseguimento di uno statuto canonico di autonomia rispetto all’ordine, ma soltanto – e anche per volere degli osservanti stessi – una forma di governo vicario rispetto al governo dell’ordine. In alcuni periodi aveva visto persino

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minacciata la possibilità stessa della propria sussistenza, che era stato necessario negoziare almeno fino agli anni Settanta. All’interno di questa vicenda, le prime due fasi di insediamento osservante (negli anni Quaranta e dopo gli anni Settanta) coincidono con il pontificato di due personaggi come Eugenio IV e Sisto IV che, pur in modi diversi, furono tra i più vicini alle istanze della famiglia religiosa95. Peraltro, l’istituzione della vicaria di Basilicata si colloca in un momento in cui l’Osservanza aumenta le proprie partizioni territoriali istituendo anche quella di Genova e di Brescia. Con l’Osservanza, nelle vicende insediative precipuamente lucane, spiccano in particolare due elementi. Innanzitutto, all’interno di una costante dialettica con l’ordine in generale e per l’acquisizione di una sorta di monopolio di fatto della rappresentanza minoritica, si percepisce nella documentazione l’emergere di una strategia insediativa che muove dai vertici dell’organizzazione religiosa che pianifica, segue e governa i propri stanziamenti. D’altra parte, le fondazioni osservanti si impiantano sempre con il favore e su richiesta dei rappresentanti del potere politico locale. Qualora le lettere di autorizzazione papale siano giunte fino a noi, esse sempre esplicitano che all’origine della concessione vi sia una petizione del signore del luogo, e in altri casi un intervento analogo si percepisce dalla documentazione emessa dai vicari generali dell’Osservanza (lo si è esemplificato con il caso di Laurenzana). Ma anche nei casi meno o affatto documentati, l’intervento del potere politico per l’erezione di una sede osservante è costantemente attestato (anche se non provato) dalle fonti cronachistiche e annalistiche di età moderna, fino a divenire un ingrediente invariabile che caratterizza la fondazione dei conventi tanto quanto lo era, per quelli minoritici dei secoli precedenti, la (sempre) presunta fondazione da parte di Francesco d’Assisi. L’Osservanza che si insedia in Basilicata lo fa nei tempi e nei modi, solidissimi e consueti, che ne caratterizzano lo stanziamento anche altrove: esattamente al contrario In particolare, Eugenio IV avrebbe voluto, fin dal 1443, dotare l’Osservanza di un proprio ministro generale. Dal rifiuto a questa opzione, avanzato tanto da parte conventuale quanto dai vertici della famiglia osservante, sortirà l’adozione del regime vicariale, che vede l’Osservanza amministrata da due vicari generali (uno per l’osservanza ultramontana e l’altro per la citramontana). È appena il caso di ricordare che tale assetto resterà invariato fino al 1517, quando la separazione tra le due famiglie attuata durante il pontificato di Leone X realizzerà di fatto il regime che Eugenio IV avrebbe anticipato di oltre mezzo secolo. 95

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di quanto non possa dirsi per lo stanziamento minoritico duecentesco e trecentesco, le dinamiche di quello osservante possono trovare nella Basilicata un utilissimo punto di partenza locale. Se i Frati Minori furono i primi a prendere contatto con la terra lucana, e se vi insediarono complessivamente dieci conventi senza mai incrementarne il numero, ancora una volta a parità di condizioni geografiche e socio-economiche, non così avviene per altri ordini religiosi: non solo l’Osservanza investe consistentemente su quel territorio, ma persino i Domenicani, presenti nel XIII secolo con solo due conventi, realizzano forme di incremento delle proprie fondazioni, per quanto contenute. Oltretutto, per i Domenicani, lo sviluppo del movimento osservante fu fatto proprio dall’intero ordine religioso, e dunque non diede luogo né a scissioni né a una dialettica interna così violenta come quella che caratterizza l’affermazione dell’Osservanza minoritica: l’Osservanza domenicana non si configura come forma di appartenenza all’ordine alternativa a quella conventuale, e questo fa sì che l’addensarsi degli insediamenti aperto con il movimento osservante può essere considerato un prolungamento rinnovato della presenza già avviata nei secoli XIII e XIV. Al contrario, per l’ordine dei Minori la presenza osservante – alternativa a quella conventuale – si configura piuttosto come un raddoppiamento e una sovrapposizione. Data la debolezza e la rarefazione di insediamenti conventuali, la Basilicata dovette essere percepita dall’Osservanza minoritica come terreno di facile conquista, e comunque – da parte dei Domenicani – come area relativamente aperta all’insediamento di presenze mendicanti rinnovate in senso osservante.

GLI EREMITANI DI SANT’AGOSTINO di Letizia Pellegrini 1. L’ordine degli Eremitani di sant’Agostino: una soluzione romana L’ordine degli Eremitani di sant’Agostino è convenzionalmente considerato tra gli ordini mendicanti «minori». Nonostante il fatto che eruditi e storici dell’ordine abbiano prodotto, in età moderna, opere monumentali di erudizione1 e, più recentemente, sintesi manualistiche2 e strumenti di ricerca3, il complesso del fenomeno agostiniano attende – entro la storiografia sugli ordini mendicanti – una 1 In particolare L. Empoli, Bullarium ordinis Eremitarum sancti Augustini, Roma 1628; Th. de Herrera, Alphabetum Augustinianum, 2 voll., Madrid 1644 (rist. anast. Roma 1990); L. Torelli, Secoli agostiniani, voll. I-VIII, Bologna 1659-86. 2 D. Gutiérrez, Gli agostiniani nel Medioevo, vol. I, 1256-1356; vol. II, 13571517, Institutum Historicum Ordinis Fratrum S. Augustini, Roma 1986 (ed. or. Roma 1980). 3 Cfr. la serie degli «Analecta Augustiniana», pubblicati a partire dal 1905; il «Bollettino storico agostiniano», 1924-53; le riviste «Augustiniana» e «Augustinianum», avviate rispettivamente a Lovanio nel 1951 e a Roma nel 1961; il Bullarium Ordinis eremitarum sancti Augustini, a cura di B. van Luijk, Würzburg 1964; i regesti del Bullarium (Bullarium Ordinis Sancti Augustini. Regesta, a cura di C. Alonso; per la parte medievale cfr. vol. I, 1256-1362; vol. II, 1362-1415; vol. III, 1417-1492, Roma 1997-98). L’ordine agostiniano ha inoltre promosso e in parte già realizzato l’edizione dei registri dei priori generali conservati nella serie «Dd» dell’Archivio generale dell’ordine (d’ora in poi AGA). Dei registri di età medievale sono disponibili in edizione i seguenti: Gregorii de Arimino Registrum generalatus, 1357-1358, a cura di A. de Meijer, Roma 1976; Bartholomaei Veneti Registrum generalatus, vol. I, 1383-1387; vol. II, 1387-1389; vol. III, 1389-1393, Roma 1996-99; Iuliani de Salem Registrum generalatus, 1451-1459, Roma 1994; Aegidii Viterbiensis Resgestae generalatus, vol. I, 1506-1514, Roma 1988. Per l’inventario della serie completa cfr. B. van Luijk, Sources italiennes pour l’histoire générale de l’Ordre des Augustins, in «Augustiniana», VII, 1958, pp. 397-424, in particolare pp. 410-11.

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considerazione autonoma e specifica4. Se dunque, preliminarmente, si richiameranno le tappe della istituzionalizzazione dell’ordine, è perché queste vicende determinano, di necessità, anche le forme della presenza eremitana5. Infatti, per definire la realtà di una sua declinazione locale, e periferica, occorre chiarire come e perché un «ordine degli Eremitani di sant’Agostino» abbia guadagnato uno spazio proprio in ambito mendicante: perché si può definire l’origine canonica dell’ordine come una «soluzione romana» rispetto ai richiami antichi insiti nella sua denominazione, che rinviano all’eremitismo e alla regola di Agostino? Nel momento in cui l’ordine può dirsi canonicamente istituito, alla metà del XIII secolo, gli ordini dei Minori e dei Predicatori avevano già perfezionato la propria struttura e sviluppato la propria rete di insediamenti: la storia dei due ordini mendicanti «maggiori» procedeva entro ampi margini di consolidamento. L’ordine degli Eremitani di sant’Agostino, come tale, fu definitivamente istituito nel 1256, quando il pontefice Alessandro IV – con un atto definito «grande unione» – riunì una serie di formazioni religiose a carattere eremitico, presenti in alcune aree d’Italia fin dalla fine del XII secolo e che non si riferivano agli ordini monastici né erano immediatamente apparentabili agli ordini mendicanti. La preoccupazione che sottostava alla scelta di Alessandro IV era in linea con quella che aveva determinato la costituzione sugli ordini religiosi del Concilio lateranense IV6 del 1215 e venne ribadita dal 4 Penso, ed è davvero solo un esempio, alla funzione e alle forme letterarie assunte, per gli Agostiniani, dalla problematica agiografica: dalla mancanza di un santo canonizzato fino alla canonizzazione di Nicola da Tolentino ai molti personaggi morti in odore di santità e additati a modello di vita agostiniana dalle raccolte della prima metà del Trecento, alla professionalità agiografica espressa da un personaggio come Maffeo Vegio da Lodi, l’agiografia agostiniana è terreno inesplorato e privilegiato nel contesto della funzione della santità negli ordini mendicanti. 5 Un’analoga necessità è stata avvertita nella stesura del più recente contributo storiografico sugli Agostiniani di Puglia, nel quale si esplicita la necessità di premettere «un rapido profilo sull’evoluzione dell’Ordine, indispensabile per cogliere la peculiarità di un’area periferica», in C. Castellani, Gli insediamenti agostiniani nella Puglia meridionale, in F. Ladiana (a cura di), Puglia e Basilicata tra Medioevo ed età moderna. Uomini, spazio e territorio. Miscellanea di studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, Galatina 1988, pp. 71 sgg., in particolare p. 72. 6 Cfr. edizione in G. Alberigo, G. Dossetti, P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi (a cura di), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1991 (ed. or. Bologna 1973), p. 242.

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Concilio lionese II nel 12747, quando, a proposito degli ordini religiosi, si delibera in senso ulteriormente restrittivo: il Concilio proibisce «tutte le forme di vita religiosa e gli ordini mendicanti sorti dopo quel Concilio che non abbiano avuto la conferma della sede apostolica». Nell’ultima parte del decreto si esplicita la posizione rispetto ad esso degli ordini mendicanti approvati: dichiarandone estranei i Predicatori e i Minori e concedendo «agli ordini dei Carmelitani e degli Eremiti di sant’Agosino [...] che essi possano rimanere nella loro condizione, fino a che per essi non sia presa una nuova decisione». La riserva che il Lionese II sembrava porre al loro sviluppo venne risolta da Bonifacio VIII nel 1298 con l’inserimento del decreto conciliare nel sesto libro delle Decretali: questo atto conferiva al decreto un carattere di perpetuità e di approvazione assoluta che risolveva ipso facto il carattere condizionale implicito nella sua formulazione conciliare8. Dunque l’atto di Bonifacio VIII determina – sul piano giuridico – il riconoscimento incondizionato dell’ordine degli Eremitani. Nonostante già in precedenza l’ordine avesse perfezionato alcuni tratti della propria fisionomia a livello giuridico9, e nonostante l’andamento delle fondazioni conventuali non avesse subito – dopo il limite imposto dal Lionese – una drastica battuta d’arresto10, è solo Ivi, pp. 326-27. De religiosis domibus: «Ceterum Eremitarum sancti Augustini et Carmelitarum ordines, quorum institutio dictum concilium praecessit, in solido statu volumus permanere», cfr. Liber sextus decretalium, in Corpus Iuris Canonici, editio Lip­siensis secunda, a cura di A. Friedberg, parte II, Decretalium collectiones, Lipsiae 1879-81 (rist. Graz 1959), coll. 1054-55. Nell’edizione del Corpus Iuris canonici l’espressione conciliare «in suo statu manere concessimus» è letta, come si vede – «in solido statu volumus permanere», mentre la riserva conciliare «donec de ipsis fuerit aliter ordinatum», presente soltanto in alcuni esemplari, è comunque una specificazione relativa agli appartenenti agli ordini religiosi cui il decreto conciliare era relativo e applicato, e non – come nel testo conciliare – relativa agli Agostiniani e ai Carmelitani. 9 Il più antico testo attualmente conservato delle costituzioni agostiniane è quello promulgato dal capitolo del 1290, che si arricchisce negli anni di successivi pronunciamenti dei capitoli. Una sistemazione del corpus normativo fu promossa dall’ordine tra il 1345 e il 1348: il testo costituzionale che ne sortì rimase in vigore fino alla metà del XVI secolo. 10 La dislocazione geografica delle fondazioni riflette le vicende originarie dei gruppi che erano confluiti nell’ordine: in linea di massima gli eremiti di Toscana si espandono verso il Lazio, i Brettinesi – dal primitivo eremo presso Fano – tendono a occupare le Marche e l’Umbria, mentre gli eremiti di Giovanni Buono – dall’eremo cesenate di Butriolo – prediligono l’espansione verso nord, in Emilia, in Ro7 8

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a partire dall’inizio del XIV secolo che l’ordine può procedere a un più intenso e sistematico sviluppo della propria rete conventuale: la prima metà del XIV secolo segna la fase di sviluppo più robusto degli Agostiniani. Nella crisi che, pure per motivi diversi, aveva investito entrambi gli ordini mendicanti maggiori, l’ordine agostiniano si configura come «ordine nuovo» del secolo XIV: aveva mutuato dai Frati Minori e dai Predicatori alcune modalità di vita religiosa, un modello per l’organizzazione del sistema scolastico e formativo interno e per l’organizzazione e la gestione delle biblioteche conventuali11. L’ordine poté avvalersi, in questo periodo, di un governo centrale stabile: tra il 1312 e gli anni Cinquanta si succedettero soltanto quattro priori generali12. Inoltre, fin dal pontificato di Bonifacio VIII gli Eremitani avevano trovato una collocazione più unitariamente filopapale nelle controversie che opposero il papa al re di Francia e all’imperatore Ludovico il Bavaro. La seconda metà del XIV secolo segna, anche per gli Eremitani, un periodo di crisi. Tradizionalmente l’epidemia di peste è addotta tra i primi motivi esterni di tale crisi, associata, altrettanto tradizionalmente, alla decadenza del rigore della vita regolare. Se le riforme osservanti degli ordini religiosi vengono considerate come una provvidenziale e necessaria restaurazione dei costumi e della spiritualità dei religiosi, è ormai un dato acquisito il fatto che le osservanze si svilupparono, pur con esiti diversi, in stretta connessione con l’andamento dello scisma. Se il Grande Scisma fu temporaneamente risolto nel 1417 con l’elezione di Martino V, lo scisma interno all’ordine venne sanato nel magna e nel Veneto. Questo stesso argomento «genetico» vale anche a spiegare sia il relativo ritardo con cui ebbe luogo l’insediamento agostiniano nel regno, sia il fatto che esso prese le mosse dall’Abruzzo, cioè dalla regione del regno limitrofa alle aree marchigiana e laziale. 11 In particolare, è evidente l’influenza domenicana nella stesura del corpus legislativo e quella minoritica per le modalità di insediamento nel territorio. Cfr. rispettivamente Gutiérrez, Gli agostiniani, cit., vol. I, pp. 106-18 e L. Pellegrini, «Che sono queste novità?» Le «religiones novae» in Italia meridionale (secoli XIII e XIV), «Mezzogiorno medievale e moderno», 1, Napoli 1999, p. 38 e passim. 12 Si riducono sostanzialmente a tre poiché Dionisio da Modena, eletto nel maggio del 1343, morì nell’ottobre dell’anno seguente. Alessandro da Sant’Elpidio, poi vescovo di Melfi, resse l’ordine tra il 1312 e il 1326, il suo successore Guglielmo da Cremona fu priore fino al 1342 e Tommaso da Strasburgo, eletto dopo il breve regime di Dionisio da Modena, governò l’ordine dal 1345 al 1354.

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capitolo del 1419 con l’elezione di Agostino Favaroni, che resse l’ordine fino al 1431. Come per tutti gli ordini religiosi, è in questi decenni che si affermano i rispettivi rami osservanti. Le congregazioni osservanti sono la forma nella quale si sviluppò nel corso del XV secolo la presenza agostiniana nella penisola. L’ordine riconobbe – tra il 1419 e la prima metà del secolo – sei congregazioni di Osservanza: per il Mezzogiorno, quelle di San Giovanni a Carbonara in Campania e di Deliceto per i conventi di Abruzzo, Molise e Puglia. In questo quadro la penetrazione agostiniana nel Mezzogiorno è vistosamente più rada e più tarda di quanto non sia quella dei Predicatori e dei Minori, e decisamente accentuata, in queste caratteristiche, per il territorio della Basilicata. 2. Gli Agostiniani nel regno e la provincia di Puglia 2.1. I primi stanziamenti Prima di delineare l’andamento delle fondazioni meridionali occorre avvertire che le fasi intermedie tra l’arrivo dei frati in un centro e l’istituzione stabile e definitiva di un convento sono, nel caso degli Agostiniani, ancor più oscure (e probabilmente anche più dilatate) che nel caso dei Frati Minori. La situazione insediativa meridionale è in questo senso esemplare. Secondo i dati tradizionalmente accolti13, tra la «grande unione» prodotta da Alessandro IV (1256) e il Concilio lionese II (1274) gli Agostiniani si stanziarono, nel regno, in tre sedi: a Teramo nel 1268, a Napoli nel 1270 e a Lanciano nel 1273. Se l’insediamento lancianese non è a rigore documentabile, a queste sedi va però aggiunto il convento di Sulmona, città nella quale una chiesa di Sant’Agostino e la presenza della relativa comunità sono documentate con certezza a partire dal 126314. Altri quattro conventi risultano attivi, nonostante il congelamento disposto dal Concilio lionese II, prima della legittimazione da parte di Bonifacio VIII: a Riccia e a Vibo Valentia (Monteleone) nel

13 Di norma, per datare gli insediamenti agostiniani vengono accolti i dati presentati da Rano nelle tabelle annesse alla voce Agostiniani nel Dizionario degli istituti di perfezione, Roma 1974, cc. 321-43: ad essi ci si riferirà in tutti i casi per i quali non siano apportabili rettifiche in base a documentazione ulteriore. 14 Cfr. Pellegrini, «Che sono queste novità?», cit., pp. 226-27.

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1280, a Vasto e a Buccino, con una datazione convenzionale al 1290. Soprattutto il convento di Buccino è un caso a sé, almeno sul piano storiografico, poiché, per come è documentato, ha costituito un laboratorio privilegiato per l’indagine delle dinamiche di stanziamento agostiniano15. La storia di Buccino in età medievale è racchiusa infatti tra una leggendaria fondazione negli anni Venti del XIII secolo e un rilancio della fondazione in età aragonese: il convento si era affermato in età angioina con il sostegno dei signori Lamagna e vide entrare in crisi il proprio statuto e la propria sussistenza in seguito alle alterne vicende del contrasto tra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona: il fatto che un frate di Buccino, Angelo Rucellai, divenisse cappellano del re aragonese sancisce l’avvenuta ricomposizione. La scelta di Buccino da parte dell’ordine è indicativa delle conseguenze del Lionese II: stabilire il convento fu possibile, con il favore della signoria locale, ma in un’area piuttosto libera da altri insediamenti mendicanti e nella quale dunque gli Agostiniani poterono stanziarsi senza ridestare le polemiche e le rivalità tra ordini religiosi che avevano suggerito l’opportunità del decreto conciliare, rispetto al quale un insediamento ex novo costituiva indubbiamente una deroga. Di particolare rilievo è anche l’insediamento napoletano, punta emergente – oltre che relativamente precoce – della presenza agostiniana nel Mezzogiorno16. La penetrazione degli Agostiniani nella città di Napoli risale agli anni Sessanta e può considerarsi stabile e compiuta nel 1270, con la concessione da parte di Carlo I del monastero di San Vincenzo17 presso il quale venne edificato il convento agostiniano che nel 1330 avrebbe ospitato il capitolo generale dell’ordine, che deliberò l’avvio dello studium napoletano e il suo affidamento al maestro di teologia Egidio da Viterbo. Il prestigio della fondazione napoletana fu indub15 Si veda l’esemplare studio Una comunità mendicante e la realtà sociale: gli agostiniani a Buccino, ivi, pp. 223-64. 16 Cfr. D. Ambrasi, La vita religiosa, in Storia di Napoli, Napoli 1967-78, vol. III, pp. 446-47 e 488-91. 17 Si noti che nello stesso anno Carlo I aveva concesso anche ai Carmelitani – stabilitisi a Napoli fin dal 1238 – un terreno demaniale perché vi edificassero una chiesa e le strutture conventuali, sicché a Napoli l’insediamento dei quattro ordini mendicanti risulta essere contemporaneo: anche i Domenicani videro confermato da Carlo II nel 1269 il possesso del sito che occupavano fin dal 1231, mentre i Francescani, dapprima stanziatisi nella chiesa di Santa Maria ad palatium, nella sede prescelta per l’edificazione della reggia angioina, ottennero in cambio, nel 1279, il

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biamente favorito, a fine secolo, dai rapporti privilegiati stabiliti con l’ordine da Bonifacio VIII e siglati, per il napoletano, dalla nomina alla sede episcopale dello stesso Giacomo da Viterbo, trasferito da Benevento e il cui episcopato si protrasse dal 1302 al 1307. Come si vede sulla base della ricognizione dei primi siti agostiniani nel regno, il territorio dell’attuale Basilicata rimase del tutto estraneo alla loro prima penetrazione, che pure si espresse con casi di rilievo, quali quelli di Napoli e di Buccino. 2.2. Le province agostiniane nel regno Il primo elenco delle province dell’ordine giunto fino a noi è del 1295, desumibile dagli atti del capitolo generale di Siena: delle sedici province che ne risultano, dieci sono in Italia18, il cui territorio è diviso tra le province romana, del regno, firmana, anconitana, spoletana, senese, pisana, lombarda, romagnola, trevigiana. La natura e la definizione delle province religiose degli Agostiniani doveva essere ambigua, o comunque argomento di contesa, se nel 1330 fu necessaria una definizione da parte del papa Giovanni XXII. In particolare, la separazione della provincia napoletana nelle due province di Puglia e di Terra di Lavoro venne riconosciuta dal capitolo generale tenuto a Padova nel 1315. Il Mezzogiorno peninsulare (vale a dire la provincia del regno ad esclusione della Sicilia) fu oggetto, in seguito, di altre suddivisioni territoriali, con la determinazione delle province di Abruzzo e di Calabria. Il primo convento agostiniano di Basilicata, quello di Venosa, è successivo all’ultima fondazione minoritica e resta anch’esso l’unico a tutto il Trecento. terreno sul quale venne edificata la chiesa di Santa Maria la Nuova (cfr. Ambrasi, La vita religiosa, cit., passim). 18 Le altre sono Ungheria, Germania, Francia, Inghilterra, Provenza e Spagna. È stato ipotizzato che, invece, nel 1295 il numero delle province ammontasse a diciassette, dal momento che il capitolo di quell’anno impone che ciascuna provincia versi 1 fiorino d’oro per finanziare la redazione da parte di Giacomo da Viterbo di opere in sacra pagina, e una delibera dello steso capitolo, per applicare tale disposizione, dice che i fiorini d’oro da versare per frate Giacomo da Viterbo erano 17. L’editore conclude, in nota, che dunque le province dovevano essere diciassette, giacché il capitolo aveva fissato la ragione di 1 fiorino a provincia. Questa menzione non pare sufficiente a smentire gli elenchi che nominano le province fissandone il numero a sedici, e del resto potrebbe essere frutto di un errore di redazione o di tradizione (cfr. Antiquiores quae extant definitiones capitulorum generalium ordinis, in «Analecta Augustiniana», II, 1908, pp. 369-74).

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Anche per gli Agostiniani, come si diceva, nella seconda metà del XIV secolo si producono le condizioni per incrementare la propria presenza, con l’affermazione della riforma osservante, vigorosamente sostenuta dai priori generali succedutisi nel corso del Quattrocento, a partire dal lungo generalato di Agostino Favaroni. Nel 1487 fu istituita la congregazione osservante di Deliceto, promossa da frate Felice da Corsano e che affiancava, nel regno, la più antica congregazione napoletana (e campana) di San Giovanni a Carbonara. Alla congregazione di Deliceto afferivano i conventi riformati delle due province di Abruzzo e Puglia19. Nei primi anni del Quattrocento, ed entro il 1419, nell’ancora unica provincia pugliese sono documentati per la prima volta gli stanziamenti abruzzesi di Tortoreto e Ortona (rispettivamente nel 1409 e 1410) e il convento pugliese di Taranto20 (1402). Anche la seconda fondazione lucana risale all’inizio del XV secolo, quando è documentato il convento di Melfi (nel 1410). Tra il 1419 e la separazione tra le due province (1475) furono attivati ancora due conventi abruzzesi di Termoli e Penne (rispettivamente nel 1422 e nel 1450) e due conventi pugliesi: a Giovinazzo nel 1454 e a Trani nel 1470. Con un’inversione di tendenza rispetto al passato, a giovarsi della divisione tra le due province fu soprattutto la pugliese: nessun insediamento nuovo è attualmente documentato per l’Abruzzo, mentre in Puglia sono attestati almeno i conventi di Cerignola (1475), Bitonto (1480), Cursi (1484), San Severo (1487) e Corsano. È a questo stesso periodo, e precisamente al 1490, che risale la più antica notizia del terzo convento lucano degli Agostiniani, stabilito ad Atella. 2.3. Il governo della provincia di Puglia Un prezioso fondo archivistico, solo in parte già edito, consente di ricostruire le vicende del governo dell’ordine. Si tratta dei registri dei priori generali.

19 Un’ulteriore congregazione fu istituita nel Mezzogiorno, all’inizio del XVI secolo, per i conventi riformati di Calabria, per iniziativa di frate Francesco da Zumpano (Cosenza), e arrivò a comprendere venti conventi entro il 1518 (cfr. Gutiérrez, Gli agostiniani nel Medioevo, vol. II, cit., pp. 147 sg.). 20 Anche il convento tarantino non è computato nella statistica del Dizionario degli istituti di perfezione, ma cfr. Castellani, Gli insediamenti agostiniani, cit., p. 76.

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La serie inizia con il registro di Gregorio da Rimini, nell’anno 1357, e presenta qualche lacuna soltanto entro la prima metà del XV secolo21. Nei provvedimenti presi a proposito dell’intera provincia della Puglia spiccano tre aspetti del governo di essa da parte dei priori generali: anzitutto, la cura che i capitoli provinciali venissero celebrati con scadenza annuale, in secondo luogo il sollecito della regolarità nel pagamento della colletta, infine la ratifica di volta in volta dell’elezione, da parte dei capitoli provinciali, dei priori della provincia. 2.4. Venosa, Melfi, Atella Il convento di Venosa, tradizionalmente datato al 1345, è considerato il più antico convento lucano degli Agostiniani. In realtà, Herrera, a proposito del convento venusino, cita un documento del 1425: «Conventus Venusinus, provinciae Apuliae in registris die 29 iunii 1425 refertur in 1425 proximo Pentecostes celebrandum in eo capitulum Provinciale»22. Il documento si legge effettivamente nel registro relativo al priorato di Agostino da Roma per gli anni 1419-27 ed è datato, però, 1° giugno: Misimus literam vicariatus provinciam Apulee pro capitulo in conventu Venusii ipsius provinciae in festo Pentecosten proximo futuro celebrando. In qua primus noster vicarius est frater Iohannes de Vasto lector, secundus fr. Rogerius de Venusio lector, tertius frater Richardus de Melfia lector23.

Le altre menzioni relative a Venosa nei registri dei priori, oltre a essere posteriori, riguardano in realtà non il convento in sé, ma alcuni frati ad esso affiliati. Ad esempio, un tale frate Andrea di Venosa era stato assegnato come servitore del confratello Carlo Fellapane, vescovo di Policastro dal 1445 al 1466: un documento del priore generale Giuliano di Salem, datato 22 luglio 1453, dispone che egli, al termine del servizio, possa risiedere nel convento di Padula, nella provincia della Terra di Lavoro:

21 Mancano i registri relativi agli anni dal 1361 al 1382, dal 1394 al 1418, al 1429 e al decennio 1440-50. Per i registri editi cfr. supra, nota 3. 22 Herrera, Alphabetum, cit., vol. II, p. 547b. 23 AGA, Registro Dd4, c. 172v, 1° giugno 1425.

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Abbiamo concesso licenza a frate Andrea di Venosa affinché, compiuto il tempo per il quale è tenuto a stare con il reverendissimo vescovo di Policastro, possa stare e permanere nella provincia di Terra di Lavoro e specialmente nel convento di Padula, di modo che apprenda da frate Giovannello i rudimenti del canto e della scrittura, senza alcun impedimento da parte di qualcuno a noi inferiore, volendo tuttavia che tale licenza sia valida fino al prossimo capitolo generale24.

Ancora, dal convento venusino proveniva il frate Iacopo, che era stato assegnato come cappellano all’abate di Santa Maria di Ripalta di Puglia; una concessione del priore generale ne disciplina il servizio in questi termini: Abbiamo concesso licenza a frate Iacopo da Venosa di poter servire come cappellano al signor Nicola, abate di Santa Maria di Ripalta di Puglia, non impedendolo in ciò nessuno a noi inferiore, fatta salva l’onestà et cetera. E qualora non sia occupato nelle sue mansioni, vogliamo che debba servire l’ordine, o i conventi dell’ordine nei quali è opportuno e possibile che faccia ciò25.

Nel 1458 frate Antonio, priore del convento venusino, assieme a Bartolomeo da Roma è incaricato dal priore generale di visitare il convento di Andria per ripristinarvi la disciplina dopo che un tale frate Antonello aveva assalito il priore conventuale Clemente da Barletta26. Il convento melfitano è datato da Herrera al 142027, ma in questo caso non c’è il rinvio esplicito ai registri dei priori, quindi rimane oscura la fonte alla quale lo storico attinga il più antico documento in base al quale data la fondazione. Nei registri dei priori la prima menzione di un convento a Melfi è del 1453, quando il priore generale Giuliano da Salem incarica due

Iuliani de Salem Registrum generalatus, cit., pp. 52-53, n. 136. Ivi, n. 149. 26 Cfr. Iuliani de Salem Registrum generalatus, cit., nel quale il dossier relativo all’episodio di Venosa è costituito dai documenti 166 (con cui si annuncia al convento di Andria l’arrivo dei due visitatori), 167 e 168 (nei quali si ratificano i provvedimenti disciplinari conseguenti la visita: frate Antonello viene assolto dalla scomunica ma allontanato dal convento di Andria, mentre frate Clemente viene rimosso dal priorato). 27 «Melfis sive de Melfia, S. Augustini prov. Apuliae an. 1420 e 1438» (Herrera, Alphabetum, cit., vol. II, p. 121). 24 25

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suoi vicari di dirimere una controversia finanziaria tra frate Giovanni da Melfi e il suo convento28. Per gli anni precedenti sono menzionati soltanto frati de Melfia. Il primo è un tale frate Iacobo, che in un documento del 1358 è indicato come «allora priore di Barletta» e che era tra i fautori della divisione in due province dei territori pugliese e abruzzese: il fatto che venga indicato come «da Melfi» non autorizza tuttavia a supporre un insediamento così remoto, poiché non necessariamente la località di provenienza associata al nome di un frate indica la provenienza conventuale, ma – addirittura più comunemente – quella geografica di nascita. L’altro frate citato nei registri come «da Melfi» è un tale Matteo, a proposito del quale si decreta nel 1386 l’affiliazione al convento di Messina29. La formula usata a indicare il trasferimento di Matteo a Messina («fecimus conventulalem in conventu nostro Messano») è connotata istituzionalmente, a differenza dei casi in cui si decreta il trasferimento e una sorta di residenza coatta di alcuni frati in conventi diversi da quello di residenza, per motivi disciplinari: dunque si tratta di un vero e proprio incardinamento in un convento diverso da quello che gli sarebbe ordinariamente spettato. Il fatto stesso che la cosa venisse registrata in questi termini, e come atto del priore generale, indica che si trattava di una deroga alla prassi per cui il frate restava affiliato al suo convento d’origine (quello nel quale aveva fatto professione) che però non doveva essere necessariamente a Melfi, ma poteva essere quello più vicino alla cittadina lucana. Notizie certe e più consistenti sulla vita interna della comunità melfitana si trovano in realtà soltanto a partire dalla seconda metà del XV secolo. Nel 1486 si apre una vertenza tra il convento e un suo membro, frate Ambrogio Angelo, a proposito del possesso e dell’usufrutto di una vigna e della prelazione nell’uso di immobili del convento. Nel documento relativo, finora inedito, il priore Anselmo da Montefalco concede ad Ambrogio un terreno, che egli aveva ereditato dal padrino, in usufrutto vita natural durante. Contestualmente il prio­re scrive al convento di Melfi ordinando che «quella grotta o locale idoneo alla conservazione del vino, la quale ogni anno i frati Iuliani de Salem Registrum generalatus, cit., n. 133. Cfr. Bartholomaei Veneti Registrum generalatus, cit., a. 1386, n. 1065 e a. 1389, n. 280. 28 29

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sono soliti dare in affitto ad altri, la affittassero a detto frate Angelo Ambrogio a pari prezzo e condizioni». Ancora contestualmente, frate Angelo Ambrogio viene affiliato d’ufficio al convento melfitano, di nuovo con la formula «facimus conventualem»30. Il divieto a che venisse allontanato dovette essere disatteso se nel 1509 il priore generale Egidio da Viterbo deve decretarne il reintegro nella comunità melfitana: Data est facultas fratri Ambrosio Angelo de Melfi redeundi ad conventum suum. Litteras etiam damus conventui de Melfi quibus eum commendamus, ut ex pecuniis, quas dicit conventum sibi debere auxilium faciant pro indumentis faciendis31.

L’ultimo convento agostiniano impiantato in terra di Basilicata entro il XV secolo è quello di Atella, a proposito del quale l’Alphabetum Augustinianum di Herrera32 rinvia a un documento datato 27 marzo 1490. Il testo cui si fa riferimento riguarda la concessione al convento, da parte del priore generale Anselmo da Montefalco, della facoltà di vendere immobili appartenenti a un frate defunto: Concediamo al convento di Atella di poter vendere un locale, o parte di una casa, e parte di una vigna dei beni del fu frate Matteo a soddisfazione di alcuni suoi debiti, stante il consiglio e il consenso di alcuni benefattori dello stesso convento, e l’importo non superi i 24 ducati, disponendo che [...] quanto rimane di guadagno sia investito a evidente utilità del convento, secondo il consiglio dei detti benefattori33.

30 AGA, Registro Dd8, c. 40r, 1482-96 (6 giugno 1486): «Concessimus fratri Ambrosio Angelo de Melfia unum petium terre quod sibi reliquit magister Ambrosius patrinus suus usufructandum toto tempore vite sue. Item scripsimus conventui de Melfi ut illam specum vel domum aptam ad conservandum vinum quam singulis annis solent aliis locare ut potius locarent dicto fratri Ambrosio Angelo quam alicui alteri persone [profano?] vel laico pari pretio et ceteris etiam paribus. Item fecimus dictum fratrem Ambrosium Angelum conventualem in conventu nostro de Melfi autoritate nostra nolentes ab aliquo nostro inferiore» ecc. 31 Aegidii Viterbiensis Resgestae generalatus, cit., vol. I, p. 83, n. 164. 32 Herrera, Alphabetum, cit., vol. I, p. 83. 33 AGA, Registro Dd8, c. 41v: «Concedimus conventui de Atella ut possit vendere quamdam cammeram seu partem cuiusdam domus et quamdam partem vinee de bonis quondam fratris Mathei pro satisfactione quorumdam debitorum suorum cum adsit consilium et consensum quorumdam benefactorum ipsius conventus. Et non excedat pretium vigintiquatuor ducatorum volentes ut fiant debita bandi-

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Come si è visto, poche notizie – e concernenti per lo più l’ordinaria amministrazione o provvedimenti disciplinari, ma anche questi del tutto ordinari – sono desumibili a proposito dei conventi pugliesi in genere e soprattutto di quelli lucani. In una provincia complessivamente debole del tessuto conventuale agostiniano, le tre istituzioni conventuali attivate in terra di Basilicata sono tarde e diradate nel tempo. Per contro, si nota la loro concentrazione nello spazio: l’unica area «agostiniana» della Basilicata è il Vulture, i cui centri urbani sono quelli privilegiati dallo stanziamento mendicante in genere. Melfi, Venosa e Atella sono infatti anche le prime tre sedi occupate dall’Osservanza minoritica tra il 1430 e il 1446, vale a dire precocemente rispetto ad altre aree della regione in cui pure lo stanziamento osservante fu capillare. Del resto, la regione del Vulture può essere geograficamente interpretata come il corrispondente interno del Nord della Puglia: quella nella quale per prima si insediarono gli Agostiniani, evidentemente con un movimento di penetrazione che discende dall’Abruzzo, più vicino alle regioni centrali nelle quali l’ordine ebbe il massimo della propria diffusione fin dalla seconda metà del XIII secolo34. menta et tractatus et quod residuum ponatur in evidentem utilitatem conventus secundum consilium dictorum benefactorum volentes ad hoc requiratur provincialis scribendo vel alio». È uno dei registri nei quali gli atti sono raccolti in base alle province destinatarie: per la provincia di Puglia cfr. cc. 39-42. 34 Decisamente più tardo (nel corso del secolo XV) è lo stanziamento in Terra d’Otranto, e in generale nel Sud della Puglia.

I FRATI PREDICATORI di Michele Miele 1. L’arrivo e le prime presenze Sull’arrivo dei primi Domenicani nel territorio corrispondente alla Basilicata attuale si hanno narrazioni tardive che trovano solo pochi riscontri nei documenti contemporanei. Questi mancano del tutto nel caso dell’insediamento ritenuto più antico, il convento di Matera, che risalirebbe alla prima metà del Duecento. Fondatore ne sarebbe stato il beato Nicola Paglia di Giovinazzo (morto nel 1255)1, entrato nell’ordine tra il 1219 e il 1220 a Bologna, ove allora si trovava per completare gli studi e ove aveva finito col seguire la vocazione mendicante prospettatagli da san Domenico. Al frate pugliese si attribuisce anche la fondazione dei conventi pugliesi di Trani e Brindisi2. Le notizie sulla fondazione del convento di Matera sono riportate da alcuni manoscritti che vanno dalla fine del Cinquecento al Settecento3 e vengono ripetute da tutti gli storici locali fino a 1Archivio generalizio dell’ordine dei Predicatori, Roma (d’ora in avanti AGOP), XIV, Liber A, pt. I, f. 189r: «Il convento di S. Domenico della Città di Matera [...], secondo la tradizione d’alcuni scrittori materani, fu fondato dal b. Nicolò da Giovinazzo, quale venne in Matera per ordine e con lettera del patriarca S. Domenico, ringraziatoria alla Città d’aver chiamato la sua religione; qual lettera si conservava nell’archivio di detta città, e dice lo scrittore d’averla vista; ora però non si trova». Riprendo il testo da L.G. Esposito, I domenicani in Basilicata. Ricerche e documenti, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 54, 1984, p. 423, ora in Id., I domenicani in Puglia e in Basilicata. Ricerche archivistiche, a cura di G. Cioffari, Napoli-Bari 1998, p. 405, cui si farà riferimento da qui in poi. 2 G. Cioffari, Storia dei domenicani in Puglia (1221-1350), Bari 1986, p. 16. 3 G.F. De Blasiis e D.C. Venusio, due autori del Seicento, sulla scorta del Baronio collocano l’episodio nel 1230. Li aveva preceduti di poco, ma senza indicare l’anno, E. Verricelli. Cfr. C. Foti, Ai margini della città murata. Gli insediamenti

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oggi4. Alcuni di essi hanno in comune il riferimento a una lettera con la quale lo stesso san Domenico (morto nel 1221) si sarebbe rivolto alla comunità cittadina di Matera per ringraziarla di aver offerto una residenza ai suoi frati. La lettera sarebbe stata conservata a lungo nell’archivio cittadino, da cui l’avrebbe sottratta uno sconosciuto preside della provincia, originario della Spagna5. È inutile stare a discutere su affermazioni di questo tipo, anche se possono includere elementi di verità, tutti però da dimostrare. La parte più fragile del racconto è quella che riguarda il coinvolgimento del fondatore dell’ordine. Non è l’unico caso nell’Italia a sud di Roma: anche nella fondazione dei conventi di Fondi, Gaeta, Benevento e Canosa si ha a che fare con leggende simili6. Qualche possibilità in più ha l’attribuzione della fondazione al beato Nicola Paglia, e per due ragioni: i suoi corsi di predicazione nella vicina Puglia, che l’avrebbero portato a Giovinazzo, Trani e Brindisi, e gli anni che lo videro alla testa della circoscrizione centro-meridionale dell’ordine o provincia romana, la prima volta da1 1230 al 1233, la seconda nel 1255. E se le cose stanno così, non è escluso che abbia potuto avviare una fondazione a Matera, un discorso che vale anche per i conventi di Trani e Brindisi. Concordo quindi con Cioffari, per il quale è più logico immaginare che a certi insediamenti abbia potuto pensare un provinciale proveniente da queste terre che un superiore abituato ad altro clima7. monastici di San Domenico e Santa Maria la Nova a Matera, Venosa 1996, pp. 66, 151, note 222 e 223, 353. Le origini del manoscritto settecentesco riportato supra, nota 1 e degli altri contributi a carattere storico trasmessi al centro dell’ordine nella stessa epoca sono esposte con le necessarie osservazioni critiche da M.G. Del Fuoco, Itinerari di testi domenicani pugliesi. Dai fondi documentari locali all’archivio romano di S. Sabina, Altavilla Silentina 1992, pp. 13-35. 4 F.P. Volpe, Memorie storiche, profane e religiose su la città di Matera, Napoli 1818, p. 239; F. Festa, Notizie storiche della città di Matera, Matera 1875, p. 116; G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli 1882, p. 32; M. Morelli, Storia di Matera, Matera 1963, p. 155; A. Copeti, Notizie della città e di cittadini di Matera, a cura di M. Padula e D. Passarelli, Matera 1982, p. 269. 5 «Possedeva la Comune di Matera una lettera vergata di proprio pugno dal patriarca S. Domenico con cui le significava la sua riconoscenza per avere accolto la sua Religione. Caduta ella infelicemente nelle mani d’un Preside spagnolo della Provincia di Matera, fu giudicata di buona preda, e sparì» (Volpe, Memorie storiche, cit., p. 239). 6 G. Cioffari, Il Medioevo, in G. Cioffari, M. Miele, Storia dei domenicani nell’Italia meridionale, vol. I, Napoli-Bari 1993, pp. 28-29. Per Canosa cfr. Cioffari, Storia dei domenicani, cit., p. 16, nota 10. 7 Il futuro predicatore avrebbe fatto il noviziato nel convento di Canosa! Cfr.,

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Resta però il fatto che, mentre gli altri due conventi attribuiti al frate di Giovinazzo emergono presto dai documenti d’archivio (il primo documento sicuro riguardante il convento di Trani risale al 1236 e il primo documento analogo concernente l’insediamento di Brindisi rimonta al 1238), il convento di Matera rimane avvolto nel silenzio più assoluto fino al Quattrocento, un silenzio che non tocca minimamente, invece, gli altri conventi pugliesi sorti nello stesso secolo, quali quelli di Barletta (1238), Foggia (1269), Monopoli (1273), Bari (1283), Taranto (1288) e Manfredonia (1293), così come non tocca il secondo convento lucano di cui occorrerà parlare fra poco, quello di Venosa8. La notizia sulla fondazione del convento materano e il silenzio dei contemporanei in materia nascondono non tanto forse un tentativo fallito, quanto un insediamento abbandonato in seguito a difficoltà di cui ignoriamo la natura, da collegare forse ad alcuni degli avvenimenti del Duecento concernenti il Sud, quali quelli provocati dagli scontri che i Domenicani e gli ordini mendicanti in genere ebbero da un certo tempo in poi con gli Svevi9, quelli connessi con la guerra tra questi ultimi e gli Angioini o quelli tra gli Angioini e gli Aragonesi di Sicilia in seguito allo scoppio della guerra del Vespro. Ciò non impedirà che i frati tornino in tempi migliori alla città che hanno dovuto abbandonare. Nella storia medievale dei Domenicani meridionali si possono citare altri esempi del genere. C’è anzitutto il caso del convento di Taranto, fondato nel 1288, soppresso quattro anni dopo per scontri con l’arcivescovo del luogo e rifondato nel 1312. C’è poi il caso di Cosenza, il cui convento fu fondato con tanto di documento papale nel 1240, venne poi abbandonato per oltre due secoli, fu rifondato nel 1447. Vita breve dovette avere inizialmente anche il convento laziale di Fondi10. Tutto questo non significa che la presenza dei Domenicani nella regione non possa essere documentata con sicurezza prima della

anche qui, Cioffari, Storia dei domenicani, cit., p. 16. Su Paglia cfr. ivi, pp. 16-19; Id., Il Medioevo, cit., pp. 77-80. Le biografie più recenti sul beato sono quella di B. Andriani, Il beato Nicola Paglia di Giovinazzo, Molfetta 1959 (a carattere divulgativo), e quella di G. Cappelluti, Beato Nicola Paglia O.P. di Giovinazzo, Molfetta 1967. 8 Cioffari, Storia dei domenicani, cit., pp. 21-29; Id., Il Medioevo, cit., pp. 23 e 93-97 (e le cartine non paginate in fondo al volume). L’anno tra parentesi si riferisce alla prima presenza ben documentata. 9 Cioffari, Il Medioevo, cit., pp. 16-19 e 52-53. 10 Ivi, ai rispettivi paragrafi e indici.

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comparsa del convento venosino. Gli atti dei capitoli provinciali della provincia romana, cui il Sud appartenne fino al 1294, parlano di un fra’ Angelo di Montepeloso (oggi Irsina) e di un fra’ Francesco di Matera. Il primo è menzionato negli atti del capitolo tenuto a Spoleto nel 1291, dai quali risulta la sua assegnazione in qualità di professore (lector) al convento di Monopoli, un piccolo centro conventuale di studi per i quali primeggiava allora nell’area il convento di Barletta. Il secondo è inserito negli atti del capitolo tenuto a Roma l’anno successivo, da cui risulta assegnato senza alcuna particolare qualifica al convento di Bari11. Come si vede, si tratta di Domenicani lucani che operano fuori della loro terra d’origine. Con questo non fanno che preannunciare quella tendenza a gravitare sulla Puglia che caratterizzerà i frati originari della nostra regione nei secoli posteriori. Questi perverranno però a un’autonomia parziale, legata al riconoscimento della loro natio, come si vedrà. A far conoscere l’ordine nel territorio nei primi tempi non erano però solo queste sparute presenze lontane e quelle periodiche assicurate dai predicatori che vi si recavano per diffondere la parola di Dio. A rendere presenti i Domenicani in Basilicata negli stessi anni fu soprattutto una serie di vescovi tratti dalla loro famiglia e messi a capo di alcune delle diocesi della regione, compresa la metropolitana. Lo stesso, del resto, avveniva nelle regioni limitrofe, quali la Puglia e la Calabria. Basta menzionare l’arcivescovo di Bari Enrico Filangieri (1252-58), quello di Taranto Giacomo di Viterbo (1270-91) e quello di Cosenza Tommaso Agni di Lentini (1267-72), il siciliano che aveva dato l’abito a san Tommaso e finirà la sua vita come patriarca di Gerusalemme. In Basilicata i vescovi domenicani del Duecento furono sei: uno a Melfi, uno ad Acerenza, uno a Potenza, uno a Venosa e due a Marsiconuovo12. Ad essi va aggiunto il potentino fra’ Nicola de Madia, che nel 1287 venne fatto vescovo di Gravina13. Il vescovo di Melfi, Ruggero di Lentini, assolse il suo mandato con gli ultimi Svevi dopo essere stato viceré di Sicilia e aver cercato di mettere pace tra Corrado di Svevia e Manfredi; gli altri cinque operarono invece 11 Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum Historica (d’ora in avanti MOPH), Lovanii-Romae-Parisiis 1896 sgg., vol. XX, Acta capitulorum provincialium Provinciae Romanae (1243-1344), a cura di T. Kaeppeli, A. Dondaine, pp. 99 e 108. 12 Per i dati sui singoli prelati cfr. la bibliografia fornita infra, note 82-86. 13 Cioffari, Storia dei domenicani, cit., p. 67.

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nel primo periodo angioino. Quanto al luogo di nascita e al ruolo da essi avuto prima di ascendere alla cattedra episcopale, c’è da dire che provenivano o dagli ambienti romani o dalle zone più calde in quel momento dal punto di vista della politica ecclesiastica. Se ne deduce che, se da una parte l’ordine, mettendo a disposizione personalità di rilievo, aveva il vantaggio di mostrare in una zona non ancora compresa nella sua influenza diretta il proprio ascendente, dall’altra la curia romana e gli Angioini assicuravano alla loro politica uomini di fiducia in un periodo in cui il passaggio dei poteri da una dinastia all’altra aveva ancora le sue incognite, come dimostrò la guerra del Vespro e le relative conseguenze. In quest’ottica si spiega pure la presenza di qualche inquisitore domenicano nella zona. La documentazione superstite fa il solo nome di fra’ Simone di Benevento, cui risultano affidate nel 1269, quindi ai tempi di Carlo I d’Angiò, la Basilicata e la Terra d’Otranto14. La valutazione complessiva di questi dati fa concludere che tutto sommato la Basilicata fu per l’ordine ai suoi primordi una regione non certamente trascurabile, ma neppure veramente rappresentativa, cosa che invece non si può affermare sia della Puglia, come si è visto, sia della Campania, dell’Abruzzo e della Sicilia, regioni queste ultime che nello stesso secolo poterono contare su ben ventidue fondazioni15, la maggior parte delle quali effettuate nel periodo angioino, ovviamente grazie al favore col quale la nuova dinastia accompagnò l’espansione degli ordini mendicanti nella sua area, una situazione inimmaginabile nel periodo antecedente16. Questo fatto, che accomuna la regione al Molise e alla Calabria, altri ambiti territoriali sprovvisti a lungo di insediamenti dell’ordine, si può spiegare in linea generale tanto con l’isolamento in cui la Basilicata fu a lungo confinata dalla sua configurazione geografica quanto con le particolari vicende storiche che la caratterizzarono17.

Ivi, p. 45, nota 21. Otto in Campania, sette in Abruzzo e sette in Sicilia. 16 Cfr. G. Vitolo, Ordini mendicanti e dinamiche politico-sociali nel Mezzogiorno angioino-aragonese, in «Rassegna storica salernitana», 30, 1998, pp. 67-68, e la bibliografia ivi citata. 17 Per gli intralci sul territorio provocati dagli scontri dell’età angioina cfr. Id., Il Regno angioino, in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IV/1, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Napoli 1986, pp. 14-23. 14 15

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2. I primi insediamenti stabili L’ipotetica fondazione di Matera venne a trovarsi sullo stesso asse viario tradizionale, la via Appia (la Roma-Brindisi dell’antichità), in cui ritroviamo la prima fondazione domenicana documentata della Basilicata di epoca medievale, quella di Venosa, il che conferma quanto è stato affermato sulle direttrici seguite dagli ordini mendicanti nel primo secolo della propria storia nella loro espansione verso il Sud18. La fondazione del convento di Venosa è anteriore al 1294, anno in cui Carlo II d’Angiò, grande sostenitore dei Domenicani, decise di estendere anche ad esso il finanziamento pubblico assicurato a tutti gli altri conventi del suo dominio sul continente. Tale è infatti il significato del dono di un fiorino d’oro la settimana che egli concesse ai conventi dell’ordine dislocati in alcune città della Campania, della Puglia e dell’Abruzzo19. Probabilmente si può scendere di alcuni decenni sotto tale data se si tiene conto del tipo di costruzione del convento, che per un esperto recente di storia urbanistica della città va inserita «tra la prima e la seconda metà del secolo XIII»20. Il riconoscimento ufficiale della fondazione si sommerà a quello della neonata provincia meridionale dell’ordine e sarà formulato dal capitolo generale di Venezia del 1297 in questi termini: Concedimus provincie regni Cicilie II domos, unam ponendam in Venusio, et aliam in terra nobilis viri comitis sancti Severini, ubi videbitur priori provinciali et diffinitoribus capituli provincialis21.

L’insediamento venosino assumerà l’imponenza ancora oggi constatabile nel corso dei due secoli seguenti, quando, oltre a rafforzarsi come polo di predicazione, diverrà anche un piccolo centro di studi istituzionali22. In una fase intermedia dovette trovarsi nel 1348, l’anno 18 Cfr. L. Pellegrini, Territorio e città nell’organizzazione insediativa degli Ordini Mendicanti in Campania, in «Rassegna storica salernitana», 5, 1986, pp. 9-41, ora in Ead., «Che sono queste novità?». Le «religiones novae» in Italia meridionale (secoli XIII e XIV), Napoli 2000, pp. 103-38. 19 Reassunto dei privilegi, in AGOP, XIV, Liber A, pt. II, pp. 468-69. Per l’elenco dei conventi compresi in questo provvedimento cfr. Cioffari, Il Medioevo, cit., p. 22. 20 A. Vaccaro, M. Bonifacio, Venosa ieri e oggi. Guida, Venosa 1983, p. 25. 21 MOPH, vol. III, p. 285. 22 Cfr. infra, pp. 468-69.

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della peste nera, in cui fu oggetto di un grosso lascito in messe e «un gran pezzo di territori». In quel momento la comunità comprendeva quattro sacerdoti e tre conversi23. Alle donazioni dei privati si aggiungeranno ancora una volta i «privilegi» assicurati dal potere monarchico angioino (Giovanna I, Ladislao, Giovanna II) e aragonese, tutti confermati poi da Carlo V. Queste concessioni verranno così riassunte in un documento d’archivio del Settecento: Quali privilegi consistono in 10 carra di sale che la Reggia Corte elemosinaliter dava al convento in ogni anno col privilegio che [=de] la medesima Corte, e perché era di molto imbarazzo a’ ministri per lo smaltimento, si transiggirono i Padri di quel tempo per 130 docati in ogni anno, e questi presentemente il convento li riceve, mentre allora il sale non costava più che docati 13 il carro24.

I riconoscimenti e gli aiuti dei sovrani saranno però quasi certamente surclassati da quelli di un grande signore feudale, Pirro Del Balzo Orsini, duca di Venosa e principe di Altamura, più noto per il ruolo di primo piano che avrà in seguito come esponente della congiura dei baroni25. Fu lui infatti probabilmente a far ricostruire e ampliare l’edificio conventuale, ciò che permetterà, dopo gli ulteriori sviluppi del Cinque-Seicento, di alimentare una comunità di undici frati26 e nel secolo successivo consentirà a un cronista di fare lusinghieri apprezzamenti sul complesso27. La scarsità di notizie sul convento venosino ci obbliga a tener conto anche di quei frati che trassero origine dallo stesso centro lucano ma risultano vincolati ad altri conventi del Mezzogiorno. Uno di questi conventi è San Domenico Maggiore di Napoli, dalle cui pergamene Kaeppeli trasse i tre nomi seguenti: fra’ Roberto di Venosa, che compare in qualità di esecutore testamentario in due atti conventuali del 14 dicembre 1373 e del 10 maggio 138328; fra’ Michele di Venosa, fir23 Così nella relazione settecentesca conservata in AGOP, XIV, Liber A, pt. I, f. 200r, pubblicata da Esposito, I domenicani, cit., p. 408. 24 Ivi. Una di queste concessioni risale a re Ferrante, allora a Venosa, e porta la data del 19 aprile 1459 (ivi, p. 41, nota 2). 25 Sul suo ruolo politico cfr. F. Petrucci, s.v., in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XXXVI, Roma 1988, pp. 316-17. 26 Esposito, I domenicani, cit., p. 408, nota 1. 27 Cfr. Cioffari, Il Medioevo, cit., p. 93. 28 T. Kaeppeli, Dalle pergamene di S. Domenico di Napoli, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 32, 1962, pp. 292-93.

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matario di un atto comunitario del 10 dicembre 147329; fra’ Silvestro di Venosa, presente in qualità di priore a tre atti comunitari firmati tra il 1476 e il 147730. Alla fine del Trecento compare anche un fra’ Antonio di Venosa, di cui ignoriamo il convento di appartenenza, ma che avrà un ruolo significativo nell’avvio dell’Osservanza in Italia. Se ne riparlerà più avanti. Il Quattrocento è anche il secolo in cui, come si è detto, l’ipotetico convento materano del Duecento fa la sua apparizione nei documenti contemporanei. Il primo accenno diretto alla sua esistenza è contenuto in una supplica dei registri vaticani resa esecutiva a Firenze il 16 giugno («sextodecimo kalendas julii») 1419. Il documento allude a una richiesta del provinciale del tempo fra’ Antonio di Bitonto in favore della domus e della chiesa dei Domenicani di Matera donate all’ordine da qualche tempo col permesso del vescovo della diocesi («de licentia ordinarii loci») e tuttora nelle mani degli interessati («aliquandum tenuerint et inhabitaverint prout tenent et inhabitant de presenti»). Si chiede in particolare che la futura comunità sia assicurata di tale possesso con tutti gli annessi e un proprio cimitero («conventum eorundem firme tenere»). Il capo della provincia meridionale si era procurato il documento durante il lungo periodo in cui papa Martino V tenne la sua residenza in un convento dell’ordine, quello fiorentino di Santa Maria Novella. Il tenore della supplica non fa pensare a un possesso reso difficile da situazioni del tutto particolari, quali ad esempio quelle cui si era pervenuti in alcune diocesi e fra gli stessi Domenicani durante il Grande Scisma cui si era posto fine poco meno di due anni prima, né a un convento tenuto da moltissimi anni ma poi messo in pericolo31. Con ogni probabilità l’insediamento di Matera aveva avuto un nuovo inizio da poco tempo, proprio coIvi, p. 305. Ivi, pp. 305-306, 318. 31 Archivio segreto vaticano, Registro delle Suppliche, 126, cc. 99v-100r. Il testo è stato pubblicato da Foti, Ai margini, cit., p. 287, ove però al documento, in contrasto con quanto è detto nel testo latino, si attribuisce una datazione inesatta (luglio 1418). I mutamenti da me apportati nella cronologia tengono conto del calendario romano e del calcolo degli anni di pontificato usati nella supplica. Da tener presente che l’«anno secundo» del documento va dall’11 novembre 1418 (Martino V era stato eletto l’11 novembre 1417) all’11 novembre 1419 e che il 16 giugno 1419 Martino V era sicuramente a Firenze. Cfr. L. von Pastor, Storia dei papi, vol. I, Roma 1931, pp. 216 e 222-23. A questo documento aveva già accennato Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., p. 323. 29 30

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me nel caso già citato di Cosenza. Questa ipotesi è avvalorata anche dalle espressioni con le quali il capitolo generale di Bologna del 1426 prende atto dell’acquisto: «In Provincia Regni conventum Materani de novo receptum. Damus licenciam provinciali dicte provincie, ut quoscumque voluerit, recipere libere possit»32. Anche nel caso di Matera si incontrano, a parte quanto è stato detto di fra’ Francesco di Matera, assegnato nel 1292 al convento di Bari, frati originari di questo centro lucano dimoranti altrove. Le preziose pergamene di San Domenico Maggiore di Napoli spulciate da Kaeppeli danno questa volta due nomi: quello di fra’ Antonio di Matera, presente a un atto comunitario stilato il 2 settembre 1447, e quello di fra’ Vincenzo di Matera, firmatario di un atto che porta la data del 4 settembre 147833. Nel Quattrocento sorgono in Basilicata altri due conventi dell’ordine, quello di Atella e quello di Rapolla, fondati rispettivamente nel 1434 e intorno al 1438. Soltanto il primo però riuscirà a sopravvivere. A documentare la loro esistenza nel Quattrocento è un breve emanato da Pio II il 26 settembre 1458 per mettere al sicuro la regolarità di queste e altre domus erette una ventina di anni prima e da allora «pacifice» abitate dai frati34. La fondazione del convento di Atella fu resa possibile grazie anche a una concessione della regina Giovanna II35. Ad attestare invece la scomparsa del convento di Rapolla è il fatto

32 MOPH, vol. VIII, p. 199 (corsivo mio). In tale anno il provinciale era ancora fra’ Antonio di Bitonto (Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., p. 323). Da notare che nel dettato capitolare compare non più una domus, ma un vero e proprio conventus. Il ritorno dei Domenicani interessò probabilmente una località diversa dalla prima, cosa che sembra attestata anche dalla doppia ubicazione del convento in città di cui parlano i documenti d’archivio. La supplica del 1419 sembra riferirsi inoltre alla donazione di un complesso già costituito («domus, cum ecclesia, campana, campanile, domibus, dormitoriis et aliis necessariis officinis»), non quindi a una costruzione tutta da fare ex novo o da proseguire, il che fa ritenere che il reinsediamento sia avvenuto in seguito alla cessione ai Domenicani di un complesso dismesso da qualche altro ordine religioso, probabilmente i Benedettini. Su tutto ciò cfr. la documentazione e le interessanti considerazioni di Foti, Ai margini, cit., pp. 64-71, anche se non tutte pienamente condivisibili. 33 Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., pp. 302 e 307. 34 T. Ripoll, A. Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, Roma 1729-40, vol. III, p. 377. 35 Per la data e la donazione cfr. AGOP, XIV, Liber F, p. 558 (Notamenti): «Atella fu fondato nelli 1434; l’introito ordinario annuale è di ducati 56, concesso dalla

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che non figura nei cataloghi dei secoli seguenti e gli storici più recenti lo ignorano36. Nel parlare dei conventi di Venosa e Matera si sono fatti i nomi di alcuni frati legati per nascita ai due centri della regione. Questo però non deve far credere che la documentazione sui Domenicani della Basilicata si limiti solo ad essi. Le solite pergamene di San Domenico Maggiore, ad esempio, fanno anche i nomi di frati provenienti da altri piccoli centri della stessa area geografica37. Non si può inoltre non pensare che a usufruire maggiormente della presenza dei religiosi lucani siano stati, per le ragioni esposte in precedenza, i conventi della più vicina Puglia. A tal proposito vanno menzionati anzitutto fra’ Matteo di Potenza, priore di San Domenico di Bari, che il 6 novembre 1334 fece autenticare un testamento redatto nel 130838, e fra’ Tommaso di Potenza, anch’egli priore di Bari, che il 13 marzo 1345 approntò, insieme ai suoi confratelli riuniti in capitolo, l’atto di vendita di un uliveto a un certo Angelo di Giovanni Amerusio39. Presente nello stesso convento risulta ugualmente fra’ Matteo di Venosa, che si firma come teste in calce a un atto notarile rogato il 27 giugno 130940. La presenza di non pochi frati della Basilicata in questo e altri conventi della Provincia Regni – la circoscrizione dell’ordine sorta nel 1294 dal vecchio tronco della provincia romana, circoscrizione che fino alla fine del Medioevo raccoglierà tutti i conventi del Mezzogiorno continentale41 – induce il 29 aprile 1490 papa Innocenzo VIII a emanare una bolla con la quale tale organizzazione territoriale viene riconosciuta ufficialmente. Nel documento si parla infatti di una natio lucana. Con tale termine – che implicitamente rinvia all’organizzazione universitaria, allora in vigore ad esempio a Parigi, mutuata dall’ordine fin dai primi tempi della sua esistenza, ed esprime un’area geografica omogenea dal punregina Giovanna, et donò pane et vino a detto convento». Il convento compare anche in un elenco del Seicento. Cfr. Esposito, I domenicani, cit., p. 121. 36 Cfr. Esposito, I domenicani, cit., pp. 386-87; Cioffari, Il Medioevo, cit., passim. Anche il convento di Trivento nel Molise, ugualmente menzionato nel documento papale del 1458, subirà la stessa sorte. 37 Cfr. infra, pp. 461 e 469. 38 Cioffari, Storia dei domenicani, cit., p. 164. 39 Ivi, p. 165. 40 Ivi, pp. 149-54. 41 Id., Il Medioevo, cit., pp. 38-45. L’erezione nel 1378 della provincia di Sicilia costituirà il primo distacco da questo nuovo tronco.

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to di vista culturale – i Domenicani della Basilicata ottengono il primo riconoscimento della loro identità, che viene posta accanto a quella di altre tre nationes comprese nel territorio della Puglia attuale: Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto42. Da allora in poi i quattro nuclei regionali costituiranno i quattro pilastri della provincia domenicana di Puglia o di San Tommaso, che sarà riconosciuta ufficialmente la prima volta nel 1519 per distacco dal ceppo della Provincia Regni43. Più tardi i quattro nuclei regionali saranno portati a cinque: si sentirà infatti il bisogno di distinguere ulteriormente tra «nazione otrantina» e «nazione tarantina»44. La Basilicata del Quattrocento non si limitò però ai quattro conventi di Matera, Venosa, Atella e Rapolla. Si fonderà anche un quinto convento a Lavello, mentre altri due sorgeranno a Montemurro e a Oggiano (la futura Ferrandina). La nascita delle nuove comunità si spiega con la diffusione di una nuova spiritualità che avrà anche l’effetto di dividere i frati in due distinti schieramenti. Alludo al movimento osservante, una tendenza con esigenze di austerità e di ritorno alle origini che farà breccia anche su almeno una delle case già esistenti nella regione. Tutto ciò rende necessario aprire un altro discorso. 3. Il movimento osservante e la sua espansione in Basilicata Il movimento osservante che si diffuse in Basilicata nel Quattrocento aveva cominciato a mettere radici nel secolo precedente. Non va trascurato infatti che la riforma iniziata a San Domenico di Venezia negli anni Novanta del Trecento dal futuro cardinale Giovanni Dominici aveva avuto tra i suoi soci fondatori anche un lucano. Alludo a fra’ Antonio di Venosa, che – come assicurano la Chronica amplissima di Ambrogio Taegio e Leandro Alberti – insieme agli altri meridionali Roberto di Napoli, Pietro dell’Aquila e Filippo di Puglia collaborò

42 Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. IV, p. 64. 43 M. Miele, L’età moderna, in Cioffari, Miele, Storia dei domenicani, cit., vol. II, p. 237. 44 Esposito, I domenicani, cit., pp. 107-23.

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col frate toscano alla nascita in terra veneta della prima comunità interprovinciale di riforma45. Il primo convento fondato in Basilicata all’insegna dell’Osservanza fu con ogni probabilità quello di Montemurro, il cui atto di nascita rimonta al 1442, un anno particolarmente significativo per la riforma meridionale, dal momento che fu proprio in tale data che un noto frate meridionale originario di Acquamela presso Salerno, il procuratore dell’ordine Giacomo del Regno, ottenne da Eugenio IV, in piena sintonia col generale di quel tempo Bartolomeo Texier, l’autorizzazione a fondare nel vasto territorio della Provincia Regni quattro nuovi conventi osservanti («qui regularem observantiam professi sunt») a sua scelta46. Non sembra però che l’origine del convento lucano sia collegata direttamente al relativo documento, emanato sul finire di quel duro scontro per il possesso del regno di Napoli che impegnò gli Aragonesi di Alfonso il Magnanimo e gli ultimi Angioini e che il breve papale riflette in termini quanto mai espressivi («propter diuturna bella quae partes illas maxime afflixerunt, plurimae urbium et aliorum locorum desolationes ac aliae calamitates subsecutae sunt et propterea Religionis praefatae domus praefati Ordinis in eadem Provincia sunt plurimum destitutae ac diminutae»). L’ordine entrò infatti in possesso degli edifici di Montemurro da adibire a convento alcuni mesi prima, e cioè il 21 febbraio 1442. L’iniziativa partì questa volta, a quanto sembra, dal vescovo di Tricarico fra’ Niccolò Augusta di Venezia, un personaggio che, se non era appartenuto alle file degli Osservanti (nel suo caso i lombardi), aveva dovuto conoscerli bene negli anni in cui aveva governato ben quattro volte la provincia di Lombardia inferiore (1421-36). Il vescovo, autorizzato da Eugenio IV e dal generale Texier, concesse ai frati, nella sua qualità di barone del luogo, un castello diruto adi-

Miele, L’età moderna, cit., p. 211. Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. III, p. 158 (5 agosto). Per il ruolo di Giacomo, che fra l’altro appoggiò con decisione la fondazione del convento riformato di San Marco di Firenze, cfr. C. Longo, Giacomo di Martino del Regno da Acquamela O.P. († 1449), in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 64, 1994, pp. 201-59. L’autore ritiene che la bolla venne utilizzata probabilmente per la fondazione dei due conventi di Acquamela e Mercato San Severino, territori campani dei Sanseverino, la stessa famiglia feudale che in Calabria favorì le fondazioni osservanti di Altomonte e Cosenza (ivi, pp. 227-35). 45

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bito a ospedale47. Il 26 gennaio dell’anno successivo giungeva anche la conferma papale48. Il nuovo convento verrà illustrato dal teologo fra’ Nicola Perpeta, nativo di Montemurro, che farà carriera a San Domenico Maggiore di Napoli, come risulta da questo testo inviato a Roma intorno al 1756 ma formulato dal suo anonimo autore dopo aver «letto e riletto le reliquie dell’antiche scritture» allora conservate nell’archivio del convento lucano: Fiorì in dottrina e singolare religiosità il p. maestro f. Nicolò Perpeta, nativo di Montemurro, quale fu priore di S. Domenico Maggiore di Napoli e confessore di Federico re di Napoli, e per la bontà di vita e zelo della regolare osservanza fu mandato a riformare il convento di S. Domenico di Mantova, ove morì con opinione di santità, e fu sepolto in un sepolcro particolare49.

La permanenza del domenicano lucano a Napoli è sufficientemente attestata dalle carte del tempo50. La sua presenza a San Domenico Maggiore è documentata, ad essere precisi, dal 4 settembre 1478 al 30 gennaio 1500. Da notare che a partire dal 27 agosto 1484 risulta insignito dei titoli di «magistro» e «sacre pagine profexore», il che vuol dire che era uno dei docenti del noto Studio di teologia insediato in convento. Il suo priorato risulta legato al biennio 1499-1500. I rapporti con Federico d’Aragona vanno collegati con gli anni di regno di questo sovrano, che governò dal 7 ottobre 1496 al 2 agosto 1501. La sua partenza per Mantova poté avvenire dopo il suo priorato napoletano, quindi non prima del 1500 inoltrato51. E se è così, c’è da pensare che abbia preso contatto anche con la beata Osanna An-

47 AGOP, XIV, Liber A, pt. I, f. 191r-v, in Esposito, I domenicani, cit., pp. 406407; T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, vol. IV, a cura di E. Panella, Roma 1993, pp. 202-203, e la bibliografia ivi riportata. 48 Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. III, pp. 165-66. 49 AGOP, XIV, Liber A, pt. I, f. 191r. Il testo, in questo caso, è stato pubblicato solo parzialmente da Esposito, I domenicani, cit., pp. 406-407. 50 MOPH, vol. VIII, p. 347; G. Filangieri, Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napoletane, vol. III, Napoli 1885, pp. 41 e 48; Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., pp. 306-12, 318, 325. 51 Da AGOP, IV, 15, f. 77v, risulta che il generale Vincenzo Bandello gli scrisse in data 14 novembre 1501, ma il relativo regesto non specifica il motivo della lettera.

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dreasi (morta nel 1505), allora al culmine della sua influenza sulla corte dei Gonzaga, o almeno con la vasta cerchia di devoti che la «santa vivente» lasciò alla sua morte52. Altri due frati entrati nell’ordine probabilmente a Montemurro ma poi assegnati a San Domenico Maggiore furono fra’ Michele di Montemurro, di cui due pergamene del convento napoletano attestano la presenza in comunità dal 25 settembre 1476 al 23 agosto 1477, e fra’ Andrea di Montemurro, che vi risulta ugualmente presente il 30 gennaio 148753. Ad avere un ruolo nello stesso convento di Montemurro invece fu Barnaba di Nardò, altro maestro in teologia. Dai registri del generale Leonardo de Mansuetis risulta infatti che il 17 novembre 1479 venne autorizzato tramite il provinciale napoletano a essere riammesso «ad gratias Ordinis», da cui era stato privato dal vicario dell’osservanza fra’ Gaspare, e a essere confermato nella carica di priore della comunità54. Non ci sono dubbi di sorta, invece, sulle origini osservanti del convento di Oggiano, il centro lucano di 4.000 anime da cui sarebbe partita con il contributo determinante della dinastia aragonese l’edificazione della nuova città di Ferrandina. L’intento riformatore compare infatti nello stesso breve col quale il 20 dicembre 1474 Sisto IV, su preghiera di re Ferrante d’Aragona, particolarmente legato agli Osservanti, autorizzò il vicario generale dell’arcivescovo di Acerenza ad accogliere i Domenicani a Oggiano: Exhibita siquidem nobis nuper pro parte dicti Ferdinandi Regis petitio continebat quod monasterium Omnium Sanctorum castri Ogiani Ordinis S. Benedicti, Acherontin. et Materanen. dioecesis, quod dilectus filius Franciscus de Pomarico clericus ex concessione et dispensatione Sedis Apostolicae obtinet in commendam, quodque conventu caret, et cuius fructus, redditus et proventus in prophanos usus convertuntur, in suis structuris et aedificiis penitus est dirutum, ita quod in illis lapis supra lapidem recte non persistit. Verum, si monasterium ipsum, suppressis inibi dicto Ordine et abbatiali dignitate, in domum Fratrum Ordinis Praedicatorum de observantia nuncupatorum, ad quos idem Ferdinandus Rex singularem gerit devotionem erigeretur, profecto id in divini cultus cederet augmentum ac dilecti filii, universi incolae 52 Su questa eminente terziaria cfr. A.L. Redigonda, s.v., in Dizionario biografico degli Italiani, vol. III, Roma 1961, pp. 131-32, e G. Cappelluti, s.v., in Bibliotheca Sanctorum, vol. I, Roma 1961, cc. 1170-74. 53 Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., pp. 306 e 325. 54 AGOP, IV, 4, f. 113r, in Esposito, I domenicani, cit., p. 382.

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et habitatores dicti castri, qui quatuor millia numero sunt, per praedicationem verbi Dei ipsorum Fratrum non modicum proficerent eorumque devotio augeretur. Quare pro parte dicti Ferdinandi Regis, asserentis quod ipse dominus dicti castri existit, quodque fructus, redditus et proventus monasterii huiusmodi triginta florenorum auri de camera, secundum communem existimationem, valorem annuum non excedunt, nobis humiliter fuit supplicatum ut Ordinem Sancti Benedicti et abbatialem dignitatem huiusmodi in dicto monasterio supprimere illudque in domum Fratrum Ordinis Praedicatorum, cum ecclesia, claustro [...] erigi, mandare [...] dignaremur. Nos itaque [...] huiusmodi supplicationibus inclinati [...] mandamus, quatenus [...] te diligenter informes et [...] dictum monasterium in domum Fratrum dicti Ordinis Praedicatorum [...] erigere [...] procures55.

La fondazione del nuovo convento venne ufficializzata dall’arrivo di un gruppo di frati del convento di San Domenico di Andria56, evidentemente già conquistato all’Osservanza. I nuovi venuti ereditarono una vera e propria tenuta sui generis, il feudo di Pugliano, come dimostra anche il fatto che il priore della nuova comunità porterà il titolo di «barone di Pugliano»57. La comunità osservante di Oggiano conservò il suo ruolo in paese per alcuni anni, in pratica fino a quando non si trasferì nel convento costruito a partire dal 1517 nel nuovo centro cittadino denominato

55 Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. VII, pp. 102-103 (corsivo mio). Per le donazioni al monastero benedettino fatte in precedenza, passate poi con esso ai Domenicani, cfr. AGOP, XIV, Liber A, pt. I, f. 199r-v, in Esposito, I domenicani, cit., pp. 398-99. 56 AGOP, XIV, Liber A, pt. I, f. 199r-v, in Esposito, I domenicani, cit., p. 398; C. Palestina, Ferrandina, vol. II, Venosa 1994, p. 312. Quest’ultimo autore parla dell’«arrivo», «nel gennaio 1474», di «cinque padri» provenienti «dal convento di Andria». I riferimenti al documento napoletano che egli adduce (Archivio di Stato di Napoli, d’ora in poi ASN, Pandetta, 60/3, Summarium) non consentono però di verificare direttamente la fonte. In tutti i casi il rilievo dell’intervento della comunità domenicana di Andria a Oggiano non va attribuito solo al fatto che si trattava di un convento di riforma. Non meno importante è il fatto che l’edificio del convento pugliese era stato costruito e dotato da quella stessa famiglia feudale, i Del Balzo (in questo caso il padre di Pirro, Francesco, che morirà dopo aver indossato l’abito di terziario), che introdurrà poi i Domenicani a Oggiano (ivi, p. 311). 57 S. Centola, Ferrandina e le sue remote origini elleniche-lucane, Napoli 1931, p. 40. Pugliano era il titolo di un casale e del relativo castello diruto, già in possesso dell’abate benedettino di Ognissanti, cui il feudo era precedentemente appartenuto.

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Ferrandina58. Una lettera che il re Federico d’Aragona scrisse da Castel Nuovo l’11 novembre 1499 al cardinale Oliviero Carafa, arcivescovo di Napoli e protettore dei Domenicani, per pregarlo di interporre i suoi buoni uffici presso il generale dell’ordine Gioacchino Torriani – questi, per favorire l’erigenda diocesi di Ferrandina, avrebbe dovuto indurre i frati di Oggiano a restituire al re due benefici concessi loro in precedenza, un progetto che non andrà in porto – dà un quadro del convento in quel momento e fa capire che era volontà del sovrano che anche i frati si trasferissero nel nuovo abitato: Nondemeno, essendo remasto in quella terra desfatta e ruynata de Uggiano uno monasterio de S. Dominico, dove per essere disabitata non è altro che stare in un deserto, e standoce tre o quattro frati, piuttosto ce ponno fare male che bene, et quella terra non ne po recepire beneficio alcuno, et havendo havuti detto monasterio due beneficii, secondo Vostra Riverenza l’intenderà dall’exhibitore de questa, quale vene ad posto, ne piaceria summamente che fossero uniti coll’episcopato et quelli frati andassero in un altro loco, al quale fariano respondere de li beni acquisiti per detto monasterio e suo Ordine. Rex Federicus. Vitus Pisanellus. Cardinali Neapolitano59.

Come si vede, la storia del convento medievale di Ferrandina ha poco a che vedere con quella successiva. Non è quindi possibile confrontare l’edificio primitivo con lo splendido complesso attuale, che risale al Settecento ed è quindi successivo anche a quello innalzato a partire dal 151760. Sarà, ad ogni modo, l’edificio cinquecentesco che accoglierà nel 1597 i frati della riforma napoletana della Sanità61. Questi ultimi non facevano così che tornare alle origini osservanti della sede lucana. La fondazione del convento di Lavello interessa non tanto per il futuro che ebbe, perché non pare sia andata molto avanti, quanto per 58 Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. IV, pp. 349-50; AGOP, XIV, Liber A, pt. I, f. 199r-v, in Esposito, I domenicani, cit., p. 399. 59 Centola, Ferrandina, cit., pp. 54-55. La lettera risulta copiata dall’ASN, Fondo Regia Camera di Santa Chiara, Comune, 21, Regis Federici, 1499, f. 114. 60 Fin dal loro arrivo a Oggiano i Domenicani erano stati autorizzati dal re a far tenere una fiera nella festa di Santa Maria di Valenzano (Palestina, Ferrandina, vol. II, cit., p. 315, nota 16). 61 M. Miele, La riforma domenicana a Napoli nel periodo post-tridentino (15831725), Roma 1963, p. 144.

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il grosso personaggio che se ne interessò. Alludo al duca Pirro del Balzo Orsini, cui si è già accennato a proposito dell’incremento del convento di Venosa. Riporto anzitutto il brano del breve col quale Sisto IV l’11 giugno 1475 rispose alla richiesta con la quale il potente feudatario aveva caldeggiato il nuovo insediamento: Cum itaque, sicut exhibita nobis nuper pro parte tua petitio continebat, extra muros civitatis Lavellen., cuius in temporalibus dominus existis, quae­ dam ecclesia sub vocabulo B. Mariae de Loreto ex piis Christi fidelium ad ipsam B. Mariam singularem devotionem gerentium eleemosynis constructa, quae de tuo jure patronatus existit et in qua hospitalitas servatur, fore noscatur, tuque propter praecipuum quem ad Ordinem Fratrum Praedicatorum de observantia nuncupatorum geris devotionis affectum, cupias de bonis a Deo tibi collatis prope dictam ecclesiam unam pro usu et habitatione perpetuis nonnullorum Fratrum dicti Ordinis de eadem observantia necnon pro tenenda hospitalitate praedicta unam aliam domos ibidem construere et aedificare seu construi et aedificari facere, si tibi super hoc Apostolicae Sedis licentia concedatur, pro parte tua nobis fuit humiliter supplicatum, ut tibi unam cum horto, claustro, dormitorio et aliis necessariis officinis pro usu et habitatione perpetuis Fratrum eorundem de huiusmodi observantia, ac alias domos praedictas pro praefata hospitalitate tenenda, construendi et aedificandi [...] licentiam concedere [...] dignaremur. Nos igitur [...] consideratione etiam carissimi in Christo filii nostri Ferdinandi Regis Siciliae illustris pro te nobis super hoc humiliter supplicantis [...] tibi domos praefatas ad praemissos usus [...] construendi ed aedificandi [...] illasque praefatis Fratribus assignandi, necnon eisdem Fratribus ecclesiam, quae rectore caret et cuius fructus, redditus et proventus duodecim florenorum auri de camera [...] non excedunt [...] et domos huiusmodi ad praemissos usus recipienti [...] licentiam elargimur62.

La risposta più significativa, se non l’unica, a questo atto papale venne data dal generale Leonardo de Mansuetis in data 4 novembre 1479 con un testo chiaro nella sostanza, anche se non nei dettagli: Illustris Dominus Pirrus de Baucio, dux Venusij, potest in Terra Vigiana [= Ogiana?] et loco Lavelli deputare sex fratres sibi placitos [...] qui conventus curae immediatae magistri reverendissimi supponendum; et magister Nicolaus Florio [?] potest ibi confirmare et absolvere praesidentes etc. Idem 62 Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. III, p. 528 (corsivo mio).

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dux potest conventui Venusij deputare sex fratres undecumque non eximendo conventum a cura Vicarii observantiae63.

Se stiamo a questo regesto, il capo dell’ordine pare accettare in toto le offerte del duca, gli lascia anzi anche una certa libertà nella scelta dei frati da inviare a Lavello e fa lo stesso con le sedi di Oggiano e Venosa, esse pure appartenenti ai territori di suo dominio. Ma, nel primo caso, non è detto fino a quando la cosa sia andata avanti. Anche questa volta il silenzio assoluto mantenuto dai documenti successivi fa pensare che tutto sia finito nel giro di pochi anni. Resta però il fatto che il movimento osservante abbia potuto contare anche in questo caso sia sul potere politico centrale (il re Ferrante) che su quello locale (il duca Pirro). L’uno e l’altro, d’altra parte, come è stato detto a livello generale, non erano disinteressati nel secondare le spinte dei rispettivi sudditi e incanalarne i sentimenti religiosi. Naturalmente a tutto questo si univa la consolidata strategia politica che consentiva di combattere gli avversari anche andando contro i centri creatori di consenso rappresentati dai conventi tradizionali, contro cioè quanti non erano disposti a passare alla riforma, secondando quindi le nuove spinte religiose, in questo caso quelle proposte dagli Osservanti64. Resta anche il fatto che questo discorso non vale solo per le case di nuova acquisizione, come erano quelle di Lavello e Oggiano, ma anche per qualche convento sintonizzato in passato sulla linea tradizionale e ora passato all’Osservanza, come quello di Venosa. Non si capirebbe altrimenti perché alle concessioni fatte al duca si unisca pure la condizione di non esimere il convento «a cura Vicarii observantiae». E qui occorre riprendere il discorso già fatto a proposito dei grandi benefici elargiti con straordinaria generosità da Pirro al convento di Venosa: evidentemente, grazie a quei benefici, il convento o era passato proprio allora all’Osservanza o era stato confermato in un passaggio che non era avvenuto da molto tempo. In conclusione, l’acquisizione del convento venosino all’osservanza era rientrato in una manovra che aveva comportato nel contempo passaggi di vecchi conventi alla riforma e nuove fondazioni.

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AGOP, IV, 4, f. 112v, in Esposito, I domenicani, cit., p. 385. Cfr. Vitolo, Ordini mendicanti, cit., pp. 67-101, in particolare p. 76.

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Sarà stato così anche per il convento di Matera? Non si hanno argomenti per affermarlo. È quindi possibile che, per tutta l’età me­ dievale, l’insediamento materano sia rimasto ai «conventuali», come si chiamavano quanti non aderivano al nuovo corso. L’organizzazione della rete conventuale del tempo permetteva anche questa diversità. 4. L’organizzazione dei conventi e il loro ruolo specifico È necessario ora gettare uno sguardo sui legami tra un convento e l’altro della regione o, meglio, sull’accorpamento cui diedero luogo in seno all’ordine per raggiungere meglio i propri obiettivi. Occorre anche mettere a fuoco, nella misura del possibile, il ruolo specifico che alcuni di questi ebbero di fatto, ad esempio nel campo formativo. La soluzione dei due problemi divenne oggettivamente più difficile con l’introduzione della riforma. I conventi osservanti, in effetti, in base alla strategia seguita alla fine del Trecento da Raimondo da Capua e mai sconfessata in seguito, venivano sottratti al potere del provinciale ed erano posti alle dirette dipendenze del capo dell’ordine, che a sua volta li governava tramite un vicario generale. La sottrazione all’ubbidienza del provinciale non prevedeva però un taglio completo dalla provincia originaria e quindi dal provinciale, come vedremo. Anche per quanto riguarda il Mezzogiorno, quindi, durante tutto il Medioevo la ripartizione fondamentale delle comunità rimase quella provinciale. Ciò significa che fino al 1294 tutti i conventi del Sud continentale rimasero vincolati alla provincia romana e che da tale anno in poi passarono alle dipendenze della Provincia Regni con centro Napoli. Quanto ai conventi della Basilicata, il punto di riferimento rimase sempre la sottocircoscrizione pugliese, riconosciuta quale vera e propria provincia, come si è rilevato, solo nel 1519; già però nel 1490 c’era stata una significativa articolazione nei quattro nuclei regionali di Capitanata, Bari, Otranto e Basilicata. Tale suddivisione non era una ripartizione analoga alle altre, non era quindi sullo stesso piano delle determinazioni istituzionali ordinarie dell’ordine. Serviva solo a combattere le discriminazioni all’interno del territorio di appartenenza e nella distribuzione delle cariche e dei sacrifici comuni. Ben più importante fu invece quella introdotta nel Quattrocento fra conventi legati al regime ordinario e conventi che si richiamavano all’Osservanza.

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Gli Osservanti meridionali, in un primo tempo, erano stati affidati a un vicario generale che aveva sotto di sé tutti i conventi passati alla riforma nell’ambito della provincia romana e della Provincia Regni nel loro insieme. Così si spiega perché sant’Antonino Pierozzi, futuro arcivescovo di Firenze, abbia avuto anche questa incombenza e sia stato in più di un convento meridionale (non però in quelli di Puglia e di Basilicata)65. Le cose cambieranno con l’aggregazione di nuovi conventi all’osservanza e il consolidamento complessivo del movimento di riforma nel Meridione. L’autonomia dei meridionali sarà raggiunta quando i conventi riformati del Sud passeranno alle dipendenze del calabrese fra’ Paolo di Calabria o di Mileto, che risulta unico «vicarius generalis conventuum reformatorum in provincia Regni Siciliae» ad esempio dal 1451 al 145266. Ma neanche il raggruppamento limitato alla Provincia Regni eviterà ulteriori ripartizioni. Il movimento riformatore del Mezzogiorno continentale si frazionerà infatti in tre sottogruppi: quello campano o di Terra di Lavoro, quello pugliese e quello calabrese, una realtà attestata più volte negli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, sia pure unitamente a qualche ritorno alla soluzione unitaria precedente, documentata ad esempio a partire dal 1475, anno però in cui è attestata con forza anche la presenza dei substituti per nationes. Il 22 agosto 1489 una pagina dei registri del generale Gioacchino Torriani precisa il modo in cui il centro e la periferia erano chiamati a collaborare tra loro. Il testo allude ai vicari dei gruppi regionali e menziona esplicitamente quello di Puglia fra’ Pietro di Nardò e quello di Calabria fra’ Francesco d’Altomonte. I conventi pugliesi e lucani riacquisteranno probabilmente la loro autonomia con il già più volte menzionato intervento papale del 1490 e il riconoscimento delle quattro nationes, tra cui quella della Basilicata67. In tutto questo laborioso assetto della riforma sul territorio che ci interessa la grande assente sembra la Provincia Regni, che però continuava a essere la struttura-base di riferimento anche per i frati lucani. Purtroppo non possediamo documenti del Quattrocento sui rapporti tra i due regimi paralleli: quello della provincia da una parte e quello della riforma in Puglia e Basilicata dall’altra. Ma il registro superstite Miele, L’età moderna, cit., pp. 212-13. Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., pp. 317 e 324. 67 Cfr. supra, p. 458. 65 66

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del generale Tommaso de Vio o Gaetano, limitato agli anni 1508-13, permette di chiarire alcuni punti. Ad esempio, il 25 giugno 1511 il generale chiede al vicario generale «congregationis Apuliae» di far pagare ai conventi «suae congregationis», quindi anche a quelli della Basilicata, «collectas reverendo provinciali debitas»68. Gli interventi del futuro cardinale attestano ugualmente che la presenza in Puglia e Basilicata di un vicario generale dei conventi riformati non escludeva quella di un vicario provinciale per i conventi non riformati69. Gli altri cenni del registro del Gaetano riguardano problemi più spiccioli. Ad esempio, il 18 giugno 1511 si ingiunge al vicario generale dei Riformati di Puglia e Basilicata di far scontare la pena inflitta a un certo fra’ Francesco di Lecce dal provinciale della provincia in qualche convento della sua congregazione di riforma70. Ovviamente la configurazione dei conventi di Basilicata non si spiega solo con questi rapporti. Si tratta di conoscere anche il ruolo concreto che i singoli conventi lucani ebbero, in particolare nel Quattrocento, il secolo in cui l’ordine raggiunse nella regione la sua maggiore espansione rispetto al passato. Quali erano allora le responsabilità delle comunità più rappresentative, tra l’altro, nel campo formativo? Le statistiche del Seicento attribuiscono ai tre conventi di Matera, Ferrandina e Montemurro un minuscolo «novitiato professo», il che comportava anche un piccolo centro di studi superiori, e al convento di Venosa l’insegnamento della «fisica» o filosofia della natura71. Ma come stavano le cose due secoli prima? Avevano, i frati, anche un compito formativo di natura culturale nei confronti della cittadinanza? A queste domande due storici locali hanno creduto di poter rispondere positivamente, sia pure per il solo convento di Matera72. Anche per il convento di Venosa non mancano però do-

MOPH, vol. XVII, p. 173. Ivi, p. 171. Il cenno si riferisce a un’ingiunzione fatta da Napoli in data 8 maggio 1511. 70 Ivi, pp. 173-74. 71 AGOP, XIV, Liber F, pp. 566 e 571 (Notamenti); Esposito, I domenicani, cit., pp. 121-22. 72 Il canonico del Settecento N.D. Nelli, nel suo manoscritto Descrizione della città di Matera, aveva espresso il proprio pensiero sui Domenicani in questi termini alquanto polemici: «Si tiene lo studio de’ novizi professi con due lettori [insegnanti]. Però niente fanno di lettura [insegnamento] ad altri della città siccome per lo passato, ove vi andavano molti per essere insegnati in teologia, filosofia ed altre 68 69

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cumenti che permettono di andare nella stessa direzione. Basta dire che fu in questo convento che fece le prime esperienze di docente fra’ Francesco Securo di Nardò (morto nel 1489), celebre professore di metafisica all’Università di Padova, ove ebbe tra i suoi discepoli il filosofo Pietro Pomponazzi e il futuro cardinale Gaspare Contarini73. Ulteriori elementi di valutazione potrebbe offrire la presenza di alcuni frati lucani in conventi ubicati fuori del loro ambito territoriale, a cominciare dalla Puglia, ma senza con questo escludere le altre regioni italiane. Significativo, ad esempio, è il caso di fra’ Pietro di Matera, che il 13 agosto 1478 ottenne la patente di baccelliere dall’Università di Padova74. Da non sottovalutare anche il caso di fra’ Giacomo di Marsico, che fu priore dei conventi di San Pietro Martire di Napoli (1461), Mercato San Severino nel Cilento (1468) e San Domenico Maggiore di Napoli (1472-75). Come primo priore del convento di Mercato San Severino, fra’ Giacomo ebbe in pratica l’incarico di impiantarvi quella comunità osservante che era stata prevista da Giacomo del Regno e dai Sanseverino nel predisporne la fondazione75. Occorrerebbe poi scavare ulteriormente nella vita di fra’ Nicola Perpeta, particolarmente a Napoli e a Mantova. A San Domenico Maggiore, a parte le mansioni qui ricoperte (professore nello Studio, priore della comunità, confessore del re), il frate di Montemurro ebbe quasi certamente anche il ruolo di rappresentante di quella riforma che il suo convento d’origine aveva abbracciato fin dalla fondazione. Sta qui forse il significato di quella «santità» che gli viene attribuita dalla fonte lucana. Non va trascurato, d’altra parte, il dramma che investì il convento napoletano proprio in quel giro di anni. Si trattava di installarvi una riforma che forse fra’ Paolo di Calabria aveva tentato invano di introdurre fra le sue mura nel 1444, cioè prima

scienze, ma solo attendono a fare buone opere, contro il loro statuto e fondazione, con essere obbligati a leggere a’ cittadini». Al che lo storico del Novecento Morelli, Storia di Matera, cit., p. 230, aggiunge: «Onde si ricava che il convento domenicano fu fondato anche perché que’ frati impartissero il pubblico insegnamento», come del resto facevano i Conventuali, anch’essi pervenuti a Matera nel Duecento, e gli Agostiniani, giunti in città solo nel 1591. 73 Cioffari, Il Medioevo, cit., pp. 152-53. 74 AGOP, XIV, Liber A, pt. II, f. 464r. 75 Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., pp. 305, 317, 318; Longo, Giacomo di Martino, cit., pp. 226-35.

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di recarsi nella sua Calabria76. Questa volta le cose vennero avviate con un decreto emanato dal procuratore generale Giovanni de Curte, la seconda carica dell’ordine, in data 4 agosto 1470 su istanza del re Ferrante d’Aragona, del più potente seggio della capitale qual era il seggio di Nido e del cardinale Oliviero Carafa, allora non ancora protettore dell’ordine. Il decreto ingiunse a fra’ Paolo di portarsi a Napoli per riformare un’altra volta San Domenico Maggiore, cosa che però avrebbe dovuto fare mettendo da parte il vicario generale dei riformati di Terra di Lavoro, «suspensus ad praefatorum instantiam» dal suo incarico77. Senonché il riformatore calabrese morì proprio quell’anno e quindi con tutta probabilità non ebbe il tempo di assolvere il compito assegnatogli78. Ma ciò non impedisce che il 19 febbraio 1481, quando Nicola Perpeta era a Napoli da due anni e mezzo, il convento napoletano, in un atto notarile che comporta anche la presenza della regina Giovanna d’Aragona, venga definito «de observantia»79. Non basta: nel 1489 tornano le pressioni della corte per far passare San Domenico Maggiore e altri dieci conventi di Terra di Lavoro alla congregazione lombarda. La manovra, anche per l’indisponibilità dei lombardi, per allora non riesce. Riesce invece quando giunge al papato Alessandro VI, che obbliga la ricalcitrante congregazione lombarda ad assumersi il previsto incarico, che l’interessata d’altronde manterrà contro voglia e per non più di tre anni80. Quale fu in questo frattempo il ruolo dell’autorevole maestro Perpeta, non certo immaginabile nelle file di quanti intesero opporsi alla nuova ondata di riforma? Quale fu la parte avuta dagli altri frati lucani presenti, come si è visto, nel convento napoletano in quegli anni? Non è possibile dare una risposta a questi interrogativi. Non è però probabile che i frati originari della Basilicata non abbiano avuto proprio niente da dire in tutto questo lasso di tempo o addirittura abbiano fatto blocco con i nemici degli osservanti. Anche l’invio dell’ex confessore di re Federico a Mantova pone dei problemi. Questi sono però un po’ diversi da quelli che sembrano

Cfr. Miele, L’età moderna, cit., p. 226; Longo, Giacomo di Martino, cit., p. 222. MOPH, vol. XXI, p. 30, nn. 91-92. 78 Miele, L’età moderna, cit., pp. 227-28. 79 Kaeppeli, Dalle pergamene, cit., p. 307. Tale appare anche nel 1487 (ivi, p. 325, nota 35). 80 Miele, L’età moderna, cit., pp. 217-19. 76 77

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presenti alla mente del tardo cronista che ce ne ha trasmesso la notizia. È plausibile che maestro Perpeta sia stato inviato a Mantova per «riformare» un convento che la congregazione lombarda avrebbe potuto riformare più a suo agio, supposto che ne avesse avuto bisogno? Il suo invio non è legato, per caso, al fatto che proprio negli anni precedenti la stessa congregazione era stata obbligata dal papa a riformare San Domenico Maggiore? Non è più probabile che maestro Perpeta sia stato allontanato da Napoli perché più o meno favorevole alla riforma dei lombardi?81. 5. I vescovi domenicani della regione Nel corso del Medioevo la Basilicata vide diversi Domenicani sulle proprie cattedre episcopali. Se ne possono contare ventidue82. Il 81 Non è ugualmente forse privo di significato il fatto che la tradizione di San Domenico Maggiore, registrata da Lavazzuoli, di cui alla nota 82, taccia su di lui. L’invio a Mantova è confermato da un’assegnazione generalizia del 14 novembre 1501. Cfr. supra, nota 51. 82 Per i dati sui singoli vescovi cfr. i primi due volumi di C. Eubel, Hierarchia Catholica, Monasterii 1913-142, sotto la rispettiva diocesi, con le relative appendici, nonché G.M. Cavalieri, Galleria de’ Sommi Pontefici, Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi dell’Ordine de’ Predicatori, Benevento 1696; Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., voll. I-VIII; V.G. Lavazzuoli, Catalogo degli uomini illustri figli del real monistero di S. Domenico Maggiore, Napoli 1777; G. Gumbley, Series praesulum assumptorum ex Ord. Praed., in «Analecta Ordinis Fratrum Praedicatorum», 17, 1925-26, pp. 577-86, 649-50, 767-78; 18, 1927-28, pp. 204-208, 274-80, 333-35; 19, 1929-30, pp. 175-80; N. Kamp, Kirche und Monarchie im Staufischen Königreich Sizilien, München 1973-75, vol. I, pp. 464-66 (fra’ Reginaldo di Lentini); vol. II, pp. 492-93 (fra’ Ruggero di Lentini), p. 779 (fra’ Lorenzo), pp. 797-98 (fra’ Gualterio di Calabria), pp. 807-808 (fra’ Filippo di Pistoia); Cioffari, Il Medioevo, cit., passim, che integrano il primo autore sui dati riguardanti l’ordine. Nell’elenco non è stato inserito fra’ Antonio Giovannotto, che fu vescovo di Montepeloso, ma solo perché tale sede era allora annessa a quella di Andria, di cui il prelato era titolare. Da notare che Eubel ignora fra’ Pietro de Ylperinis (Marsiconuovo), fra’ Pietro di Napoli (Marsiconuovo) e fra’ Agostino di Benevento (Venosa). Il primo è attestato però anche da una lapide della chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma riportata da I. Taurisano, Hierarchia Ordinis Praedicatorum, Roma 19162, p. 40, mentre per il secondo (già priore del convento di Salerno) e il terzo rinvio a Cavalieri, Galleria de’ Sommi Pontefici, cit., vol. I, pp. 112 e 140; Ripoll, Brémond (a cura di), Bullarium Ordinis Fratrum Praedicatorum, cit., vol. II, p. 241, e vol. VIII, p. 545; Gumbley, Series praesulum, cit., 18, 1927, pp. 277 e 333. Quanto agli anni di episcopato effettivo dell’arcivescovo Landolfo Sigismondo cfr. Cioffari, Storia dei domenicani, cit., p. 84, nota 142 («risulta vivo ancora nel 1313»).

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fenomeno è constatabile, come si è visto, già nel Duecento, soprattutto dopo l’arrivo degli Angioini sul trono che era stato degli Svevi. In tale secolo i vescovi provenienti dall’ordine sono sei, e ne sono state segnalate anche le sedi. Nel Trecento le sedi occupate da prelati tratti dall’ordine saliranno a undici. Nel Quattrocento scenderanno a cinque. Tra il Duecento e il Quattrocento cinque frati della stessa famiglia religiosa saranno chiamati a governare l’unica archidiocesi del territorio. Questa, d’altro canto, agli inizi del Trecento è affidata ai Domenicani per tre volte di fila. Solo in pochi casi le fonti danno notizia sui ruoli rivestiti dagli interessati al momento della loro nomina all’episcopato. Si tratta di maestri in teologia, consiglieri o cappellani presso la curia romana, inquisitori, confessori di corte. L’ultimo incarico era toccato all’arcivescovo di Acerenza e Matera fra’ Roberto, al suo successore del Quattrocento fra’ Enrico Longuardo e al vescovo di Satriano fra’ Tommaso di Acayre, confessori, il primo, del principe di Taranto Filippo fratello di re Roberto d’Angiò, il secondo e il terzo, di re Ferrante d’Aragona. La scelta, ma si tratta di un fenomeno che è comune a tutti gli ordini mendicanti del tempo e riguarda l’intera penisola, è determinata dal prestigio di cui i frati godono a livello locale e nei centri di potere. In concreto, la nomina è dovuta alla necessità di superare le divisioni insanabili insorte nei capitoli cattedrali per dare un successore al vescovo defunto, al fatto che i papi vedono nei frati i migliori alleati della loro politica di controllo sulle diocesi, all’interesse dei sovrani (gli Angioini prima e gli Aragonesi dopo) che proponendoli si assicurano la collaborazione di ecclesiastici di assoluta fiducia. A far cadere la scelta sui mendicanti è anche il fatto che si tratta quasi sempre di sedi povere e quindi poco ambite. C’è da aggiungere che in più di un caso non si ha a che fare con una prima nomina, ma con un trasferimento. È col trasferimento fuori regione ugualmente che si conclude talora la carriera episcopale di qualche prelato tratto dall’ordine83. 83 Su questi aspetti cfr. C. Pinelli, Vescovi e diocesi nel Mezzogiorno angioino-aragonese. Le metropolie di Acerenza, Manfredonia e Brindisi, tesi di laurea in Storia medievale, Università Federiciana di Napoli, relatore prof. G. Vitolo, a.a. 1997-98, pp. 337-42, e M.L. Mancini, Vescovi e diocesi nel Mezzogiorno angioino-aragonese. Le metropolie di Bari e Trani, tesi di laurea in Storia medievale, Università Federiciana di Napoli, relatore prof. G. Vitolo, a.a. 1997-98, pp. 386-90. Quanto al problema di fondo cfr. L. Pellegrini, Vescovi e Ordini Mendicanti, in AA.VV., Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo. Atti del VII convegno di storia della Chiesa in Italia (Brescia 21-25 sett. 1987), Roma 1990, vol. I, pp. 183-258.

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Tab. 1. I vescovi medievali della Basilicata tratti dall’ordine Acerenza e Matera Lavello Marsiconuovo Melfi Potenza Rapolla Satriano Tricarico Venosa

Fra’ Lorenzo, dal 1267 al 1276 Fra’ Gentile Orsini, dal 1300 al 1303 Fra’ Landolfo Sigismondo, dal 1303 al 1307 (1313) Fra’ Roberto, dal 1308 al 1334 Fra’ Enrico Longuardo, dal 1470 al 1482 Fra’ Filippo di Napoli, dal 1342 al 1344 Fra’ Reginaldo di Lentini, dal 1267 al 1274 Fra’ Reginaldo di Piperno, dal 1275 al 1290 circa Fra’ Pietro di Lupico, dal 1328 al 1343 Fra’ Pietro di Napoli, dal 1349 al 1353 Fra’ Pietro de Ylperinis, dal 1379 al 1383 Fra’ Ruggero di Lentini, 1252 Fra’ Pietro di Clusello, dal 1347 al 1348 Fra’ Antonio di Rivello, dal 1363 al 1366 Fra’ Gualterio di Calabria, dal 1267 al 1279 Fra’ Gerardo, dal 1346 al 1348 Fra’ Andrea di Ragusa o di Venezia, dal 1420 al 1439 Fra’ Tommaso di Acayre, dal 1491 al 1500 Fra’ Niccolò Augusta di Venezia, dal 1438 al 1446 Fra’ Filippo di Pistoia, dal 1271 al 1281 Fra’ Agostino di Benevento, dal 1334 al 1336 Fra’ Domenico di Monte Leone, dal 1419 al 1431

Tutta questa fiducia sarà in genere ben ripagata dai fatti, anche se in qualche caso i vescovi si scontreranno con l’autorità cui dovevano il loro mandato o con i propri sudditi. L’esempio quindi dato dal vescovo di Melfi fra’ Ruggero di Lentini al tempo degli ultimi Svevi, cui si è accennato nel primo paragrafo, farà scuola. L’arcivescovo di Acerenza e Matera fra’ Gentile Orsini fu costretto a lasciare la sede originaria di Catania e a trasferirsi sulla terraferma per aver esortato i catanesi ad accogliere come proprio sovrano Carlo II d’Angiò (si era negli anni della guerra del Vespro), che a sua volta lo nominò giustiziere di Calabria e lo inviò quale suo ambasciatore a Bonifacio VIII. Neanche nella sede lucana però trovò tranquillità. Mon-

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tepeloso gli rifiutò infatti il giuramento prescritto alle suffraganee, o a quelle ritenute tali, ed egli ritenne di essere in diritto di lanciare l’interdetto contro la città, che questa volta si piegò al suo volere84. I contrasti dell’ex inquisitore Landolfo Sigismondo, dottore parigino e arcivescovo della stessa diocesi, riguardano invece i suoi rapporti col papa avignonese Clemente V, che non esitò prima a scomunicarlo per aver rifiutato di pagare 300 fiorini d’oro alla Camera apostolica e poi a sostituirlo. A complicare però la cosa fu il fatto che alcuni confratelli nell’episcopato continuarono a trattare con lui (l’arcivescovo di Taranto, anch’egli domenicano, e i vescovi di Venosa e Anglona), ciò che indusse il papa a minacciarli di sospensione. Ben diversi erano stati i rapporti che il suo predecessore fra’ Lorenzo aveva avuto con Gregorio X, cui fu di sostegno nel secondo Concilio di Lione (1274). Da segnalare pure la presenza di altri due prelati tratti dall’ordine rispettivamente al Concilio di Vienne e a quello di Firenze: al primo partecipò fra’ Roberto, arcivescovo di Acerenza e Matera; al secondo fra’ Niccolò Augusta, vescovo di Tricarico. Quest’ultimo compose per l’occasione anche un opuscolo teologico dal titolo Quaestio de summorum pontificum et conciliorum generalium potestate85. Da non trascurare, infine, le iniziative del palermitano Enrico Longuardo, arcivescovo di Acerenza e Matera. Già confessore e consigliere di re Ferrante d’Aragona, ebbe un ruolo particolare durante la guerra d’Otranto, quando parlò a nome del re al parlamento di Foggia, ricevette lo stesso sovrano a Matera e appoggiò poi con iniziative concrete il recupero di Otranto ancora in mano ai turchi. Agli inizi del suo impegno pastorale in Basilicata dovette però affrontare le proteste dei materani, che videro nel testo della bolla papale di nomina («arcivescovo di Acerenza e vescovo di Matera») un attentato al principio fissato in precedenza in base al quale Matera era aeque principaliter unita ad Acerenza86.

Su questo e gli altri arcivescovi di Acerenza e Matera cfr. anche F. Ughelli, Italia Sacra, 10 voll., Venetiis 1717-222, vol. VII; Volpe, Memorie storiche, cit., passim; Festa, Notizie storiche, cit., passim; Gattini, Note storiche, cit., passim; T. Pedio, Per la storia della Basilicata nella seconda metà del XIII secolo, Matera 1967. 85 Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum, vol. IV, cit., p. 203. 86 Su questo prelato cfr. anche F. Peccheneda, Dimostrazione de’ diritti e prerogative della regale chiesa metropolitana di Acerenza, Napoli 1761, p. 54; F. Torelli, La chiesa metropolitana acheruntina, Napoli 1852, pp. 1-20. 84

GLI ORDINI CAVALLERESCHI di Antonella Pellettieri «Dio ha istituito, nel nostro tempo, sancta praelia, affinché ordo equestris et vulgus che, a imitazione degli antichi pagani, si uccidevano l’un l’altro, vi trovino un mezzo di salvezza di nuovo genere». Così Gilberto di Nogent dimostrava come fra tutte le guerre sante che difendevano la patria o la libertà, la crociata aveva una dignità maggiore1. Nelle parole del cronista si rispecchiava fedelmente il famoso discorso che papa Urbano II tenne al Concilio di Clermont nell’ottobre del 1095, nel quale il pontefice richiamava l’attenzione sulle tante guerre, sui combattimenti feroci e sui saccheggi che i cavalieri compivano solo per la gloria e per i guadagni. Essi, così facendo, mettevano a rischio la vita eterna: Dio – affermava il pontefice – ha trovato per questi uomini un mezzo di salvezza adatto al loro mestiere. I cavalieri, pur continuando a esercitare la professione guerriera e senza indossare il saio, potevano combattere in nome di Dio2. Insomma, dalla 1 Gilberto di Nogent, Gesta Dei per Francos, I, in Recueil des historiens des croisades. Historiens occidentaux, vol. IV, Paris 1879, p. 124. 2 F. Cardini, Militia Christi e crociate nei secoli XI-XIII, in K. Elm, C.D. Fonseca (a cura di), Militia Sancti Sepulcri. Idea e istituzioni. Atti del colloquio internazionale (Pontificia Università del Laterano, 10-12 aprile 1996), Città del Vaticano 1998, pp. 25-58, in particolare pp. 47-57; a p. 58 sulla guerra santa l’autore specifica: «All’interno di questa densa e complessa problematica, noi abbiamo scelto di sottolineare l’aspetto del conflitto tra militia Christi e militia seculi alla luce dell’elaborazione del concetto di crociata e della sua irriducibilità nei confronti sia della dimensione di bellum iustum, sia dell’equivoco d’una troppo spesso chiamata in causa mai però veramente definita ‘guerra santa’». Di grande rilievo Id., Federico II e gli Ordini cavallereschi, in C.D. Fonseca (a cura di), Federico II e l’Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia 22 dicembre 1995-30 aprile 1996), Roma 1995, pp. 53-56.

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militia mundi essi sarebbero dovuti passare verso l’unico cammino salvifico, la militia Christi3. Musulmano significava pagano e, pertanto, tutti coloro che avrebbero combattuto questa guerra giusta sarebbero diventati dei martiri come lo furono i primi cristiani. Dunque, i cavalieri diventano milites Christi e erano direttamente sottoposti al papa, che rappresenta in terra il supremo Signore. «Il cavaliere di Cristo – incalzava Bernardo di Chiaravalle – dà la morte in tutta sicurezza e la riceve con assicurazioni ancora maggiori. Se muore, è per il suo bene, se uccide, è per il Cristo... Uccidendo un malfattore egli non commette un omicidio ma, se oso dirlo, un malecidio»4. Insomma, la crociata era un pellegrinaggio armato per una giusta causa che avrebbe riportato il mondo verso la pace e riunito la cristianità. È in questo fervore politico e spirituale che verranno fondati a Gerusalemme gli ordini cavallereschi: «la militia Christi nasce di fatto come fattore o prodotto della Crociata»5. Nacquero così i Fratres Hospitalis Sancti Johannis in Jerusalem, i Pauperes Milites Christi et Salomonici Templi e i Fratres Sanctae Mariae Teutonicorum e molti altri ordini con sede in alcuni paesi dell’Europa.

3 J. Flori, Guerre sainte et rétributions spirituelles dans la seconde moitié du XI siècle: lutte contre l’islam ou pour la papauté?, in «Revue d’historie ecclésiastique», LXXXV, 1990, pp. 617-49. 4 Id., Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Torino 1999, p. 213. Bernardo di Chiaravalle, inoltre, si sofferma sul fatto che molti dei cavalieri crociati sono dei pentiti (ivi, p. 210): «In questa moltitudine che accorre a Gerusalemme, sono relativamente pochi coloro che non siano stati criminali ed empi, razziatori e sacrileghi, omicidi, spergiuri e adulteri. Così la loro partenza suscita una doppia gioia, che corrisponde a un doppio vantaggio. I loro vicini sono felici di vederli andar via, proprio come sono felici coloro che li vedono accorrere in loro aiuto». Non diversa la posizione del cronista Fulcherio di Chartres (ivi, p. 209): «Che marcino dunque in battaglia contro gli infedeli [...] quelli che finora si abbandonavano a guerre private e criminali contro i fedeli! Che si facciano cavalieri di Cristo, quelli che finora non erano che briganti! Che attacchino adesso con buon diritto i barbari, quelli che attaccavano i loro fratelli e i loro parenti! Guadagneranno così ricompense eterne, quelli che si facevano mercenari per qualche miserabile soldo». 5 C.D. Fonseca, «Militia Sancti Sepulcri. Idea e istituzioni». Conclusioni, in Elm, Fonseca (a cura di), Militia Sancti Sepulcri, cit., p. 466.

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1. La commenda dei Santi Giovanni e Stefano di Melfi e la sua grancia di Potenza La prima notizia relativa alla chiesa dei Santi Giovanni e Stefano di Melfi6 e del suo ospedale è del 1149. Stefano, vescovo della diocesi di Melfi, concede ai venerabili frati dell’ospedale gerosolomitano «sonodochio sancti Stefani cui fideliter curam pauperum agentes inservitis, ecclesiam Sancti Stefani, que est extra portam Melfie iuxta balneum cum omnibus suis pertinentiis»7. Del 1149 è anche la notizia di una lite sorta tra il presbitero Mangerisio, «Jerosolomitani xenodochii frater et prepositus hospitalis Melphiensis», e l’abate del monastero della SS. Trinità di Venosa. Giovanni, vescovo di Ascoli, aveva donato a Mangerisio la chiesa di San Silvestro, situata a Corneto. Mangerisio aveva cominciato a coltivare i terreni e a radunarvi molti abitanti suscitando le proteste del vescovo di Venosa, che gli intimò di sospendere ogni iniziativa poiché quei territori erano di sua giurisdizione8. Da una testimonianza del 1268 apprendiamo che l’ordine possedeva orti, terreni, oliveti e grotte per la conservazione del vino e dell’olio in molte zone suburbane di Melfi, molte abitazioni all’interno della cittadina e una gualchiera per i panni9. 6 Cfr. A. Pellettieri, La Commenda dei SS. Giovanni e Stefano di Melfi e la sua grancia di Potenza, in «Studi melitensi», IX, 2001, pp. 51-64. 7 A. Mercati, Le pergamene di Melfi nell’Archivio Segreto Vaticano, in Miscellanea Giovanni Mercati, Città del Vaticano 1946, pp. 276-80, doc. III. 8 H. Houben, Die Abtei Venosa und das Mönchtum im normannisch-staufischen Süditalien, «Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 80, Tübin­ gen 1995, pp. 360-61, doc. 127. 9 A. Pellettieri, Gli Archivi per la storia delle istituzioni e degli insediamenti del Sovrano Militare Ordine di Malta in Basilicata, in Gli Archivi per la storia del Sovrano Militare Ordine di Malta. III Convegno internazionale di studi melitensi (Taranto, 18-21 ottobre 2001), Taranto 2005, pp. 95-113. Il documento così recita: «Item vinea alia sita in loco qui dicitur [...]. Item alia vinea sita in plano iuxta vineam Guillelmi Molinarij. Item tenimentum unum terrarum situm in loco qui dicitur parasecca ubi hospitale ispum habet massariam suam. Item petia una terre sita in eodem territorio Melfie in Mustarondo. Item petia una terre sita in eodem territorio melfie in mustarondo. Item terra una alia sita in eodem territorio iuxta criptam. Item tenimentum unum terre situm in fontana [...] Item domus [...] Item domus una que est iuxta domum Guillelmi. Item alia que est in platea iuxta domum Angeli. Item alie due Angelo de cisterna. Item domus una quam tenet hospitale prope domum quam tenet dictus Angelus [...] Item alie due domus site prope domum Angeli de Musco [...] sita in platea quam tenet heres [...] Item unum bactinderium

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Un’altra notizia relativa all’ubicazione di questa commenda si ritrova in un documento del 1358, che descrivendo i confini di un altro ospedale con annessa la cappella riporta che esso sorgeva «iuxta ecclesiam sancti Stephani sacre domus Hospitalis Sancti Johanni Jerosolomitani»10. Da un atto del 18 novembre 1395 conosciamo il nome del precettore di Santo Stefano, un certo Niccolò de Rutiliano. Dallo stesso documento apprendiamo che la chiesa, poiché era in debito verso la mensa vescovile di diverse once d’oro, per indennizzo doveva cedere un orto11. Le fonti tacciono per un lungo periodo: bisogna arrivare al 1589, data del primo cabreo riguardante l’insediamento gerosolomitano di Melfi e conservato ora presso la National Library di Malta, per avere qualche altra notizia12. In esso, infatti, la chiesa viene così descritta: una ecclesia nelle pertinenze di detta città isolata con una cappella faccifronte la fontana del bagno nella quale ecclesia ve sono due porte, una piccola che esce all’incontro del giardino dell’heredi del signor Barone Rondone e l’altra grande che esce verso la consaria dell’heredi di Francisco d’altare Jannittasio nella quale ecclesia anco vi è una campana et campanella, dui panni d’altare d’oro delle tovaglie per l’altare; del preite a messa et altri paramenti13. de pannis in loco qui subtus [...] Item olivetum unum […] Item vinea una sita in via fogami iuxta viam publicam. Item vinea una sita in plano censuata dopno Melfisio de Santa Lucia. Item tenimentum unum terrarum cum vinea una sita in tenimento Sancti Nicolai de mercato. Item gripte tres cum orto uno sito iuxta ortum Sancti pantaloni. Domus una sita superno Palmerio Melfie censuatam Nicolao de Amico [...] una sita iuxta Ta...retum palmerium de olma [...] sita in [...] Sancti Georgij. Item una alia quam Ecclesiam [...] in altaria ad incensum et est iuxta domum [...] de alamagno. Item domus una quam tenet Iacobus piza et sita est iuxta domum Riccardoni». 10 Mercati, Le pergamene di Melfi, cit., pp. 298-303, doc. VIII. 11 Ivi, p. 320. 12 I cabrei fin ora reperiti inerenti la commenda di Melfi sono i seguenti: National Library di Malta (d’ora in poi NLM): 1589 vol. 6037, cabreo; 1681 vol. 6027, cabreo; 1755 vol. 5989, visita di miglioramento. Archivio del Gran magistero di Roma (d’ora in poi GMR): 1770 vol. 31, cabreo. Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASN): Cabrei di Malta, 1614 vol. 44, cabreo; Cabrei di Malta, 1644 vol. 45, cabreo; Cabrei di Malta, 1681 vol. 46, cabreo; Cabrei di Malta, 1711 vol. 47, cabreo; Cabrei di Malta, 1743, vol. 48, cabreo. Archivio di Stato di Potenza (d’ora in poi ASP): Corporazioni religiose, 1766-1770, n. 109, cabreo; Intendenza, 1796-1802 b. 646, fasc. 696, cabreo. 13 NLM, 1589 vol. 6037, f. 23v.

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Come si evince da questa descrizione, l’ospedale alla fine del Cinquecento non era già più esistente. Al contrario, i Giovanniti erano proprietari di molti beni e di ben dodici abitazioni tutte ubicate all’interno della città di Melfi; la commenda possedeva inoltre una serie di botteghe, una taverna e un molino. Risulta evidente che nel giro di alcuni secoli i beni della commenda erano di gran lunga aumentati. Essa, inoltre aveva possedimenti anche nella città di Potenza e nei suoi dintorni attestati solo nell’età moderna, a differenza di una chiesa dedicata a San Giovanni, esistente nel 1180. Sulla sua grancia situata a Potenza possediamo una fonte di tardo Seicento che ci tramanda come Li devoti Roberto e Palma coniugi edificarono nell’anno 1180 con molta spesa per essere tutta di marmo la chiesa di S. Giovanni Battista, che è fuori la porta della città sulla strada che va a’ Riformati. Fu per l’addietro ospitale, al presente è commenda di Malta ed oggi, 1758, non se ne vede vestigio alcuno, ma solamente la denominazione della porta di S. Giovanni e che sia così per tradizione de’ nostri alla fine del 1600, e principio del 1700, comprò detti marmi il Reggente Onorio de’ minori conventuali e ne fece la Sagristia che sporge sotto la Tribuna, delle pietre delle quali si fa chiaro che la vaghezza della chiesa di S. Giovanni Battista. Si fa tutto chiaro in alcuni versi latini che stavano sopra la porta maggiore di detta chiesa che sino al presente si son letti in detta pietra che avevano situata per sedile nell’entrata della porta di detto Convento: Virgineum partuum sunt lustra secuta ducenta Sex et triginta, fieri cum coepit adempta Usibus humanis magni domus ista Johannis Quod Robertus opus sex consumavit in annis Coniuge cum Palma quos dextera colligat alma14.

Dei documenti dai quali Rendina estrapola la notizia non è rimasta più alcuna traccia, così come dell’iscrizione lapidaria che poi sarebbe stata spostata presso la chiesa di San Francesco. La chiesa di San Giovanni sorgeva a ridosso della cinta muraria 14 Biblioteca provinciale di Potenza, Historia della città di Potenza di Don Giuseppe Arcidiacono Rendina de’ baroni di Campomaggiore accresciuta da tempo in tempo. Trascritta ed accresciuta da Don Giuseppe Picernese, Fondo manoscritti, 1758, passim, f. 343.

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potentina per il versante nord-ovest regalando il nome anche a una porta della città che sorgeva nei pressi della grancia15. Se Porta San Giovanni ancora oggi si presenta nella sua struttura originaria, non altrettanto può dirsi per la chiesa e per l’ospedale dei cavalieri16. Da un documento del 1268 apprendiamo che a Potenza l’ordine possedeva Ecclesia Sancti Johannis posita ante portam civitatis eiusdem que dicitur porta Sancti Johannis cum duabus domibus ipsi Ecclesie coniunctis. Item domus alia una sita in eodem terra iuxta domos Judicis Nicolai et iuxta viam. Item ortus unus situs subtus muros domus Ecclesie supradicte. Item furnum situm in Casali Potentie prope domum Gilberti fornarij et Laurentij de Ogerio. Item vinea una sita in territorio eiusdem terre in loco de Plantectis. Item terre et tenimentum situm in contrada Sancti Michaelis de bunisco ubi hospitale habet massariam suam. Item terre que fuerunt chirici de Albano que sunt prope terras que fuerunt quondam Symonis de domina Robertia. Item territorium unum terrarum situm infra fines territorij montis Leonis prope locum Sancti Petri de plano et habet massariam unam17.

Durante l’età angioina la chiesa viene citata in alcuni documenti come proprietaria di terreni posti nelle contrade limitrofe alla città di Potenza. In un testamento del 30 luglio 1348 viene effettuato un lascito di 2 tarì («Item ecclesia Sancti Johannis tarenos II»)18; il 15 settembre 1358 la chiesa viene così citata: «Item isclam unam in flomaria que fuit Hospitalis Sancti Johannis»19; nel novembre del 1395 ancora un’altra piccola notizia: «Item pecium unum aliud terre positum in contrada fornarii iuxta terras Adenolfi iuxta terram Antonelli de Lauro iuxta terras Sancti Johanni et alios fines»20.

15 A. Pellettieri, L’edilizia ecclesiastica fino al XIV secolo, in A. Buccaro (a cura di), Potenza, Roma-Bari 1997, pp. 32-36. 16 A. Pellettieri, Le mura di Potenza in età angioina, in «Tarsia», IX, 1995, pp. 21-31. 17 Gli Archivi per la storia, cit. 18 Archivio arcidiocesano di Potenza, Fondo pergamene, 30 luglio 1348. 19 A. Giganti, Le pergamene dell’Archivio Arcivescovile di Acerenza (secoli ­XIII-XIV), in AA.VV., Popolazione paesi e società della Basilicata, Bari 1989, pp. 135-39, doc. 11. 20 Archivio arcidiocesano di Potenza, Fondo pergamene, novembre 1395.

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Particolarmente interessante risulta una pergamena del 17 gen­ naio 1370: questo documento veniva rogato per dar fede a una divisione di proprietà tra i fratelli Adenolfo e Jacopo de Stampis. Nella lunga elencazione dei beni più volte si fa riferimento all’insediamento melitense e ai suoi beni21. Sulla chiesa gerosolomitana aveva lo ius patronatus Adenolfo de Stampis. Adenolfo, che sin dal 1375 compare nella documentazione nella veste di giudice annuale22, apparteneva ad una delle famiglie più illustri della città di Potenza. Il nonno Francesco e il padre Matteo ebbero l’ufficio della Commestabilia di Potenza dalla regina Sancia il 13 giugno 132723. Inoltre Francesco fu consigliere del re e giudice della Gran corte della vicaria sia sotto Carlo II sia sotto Roberto; alla sua morte, avvenuta nel 1340, fu seppellito nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, dove si può leggere il suo epitaffio. Matteo, padre del nostro Adenolfo, fu commestabile della città di Potenza sicuramente fino al 1363, quando dettò il suo ultimo testamento chiedendo di essere seppellito nella chiesa di San Francesco, dove fu seppellita anche la madre24. Fu nel corso del Cinquecento che la chiesa di San Giovanni di Potenza divenne una grancia della commenda di Melfi. Oltre alla chiesa la commenda era proprietaria di una masseria «de capacità de tomola cento ottanta dove si dice terre de santo gioanni iuxta la via che si va’ a Pietragalla»; essa, inoltre, possedeva «tre orti de capacità de tommola otto circa a canto l’ecclesia detta de santo gioanni iusta lle terre 21 Ivi, novembre 1395. Il documento così recita: «Pro domo una sita intus Porta Nova in fine / domo quondam Rogerii de Raymundo casile quondam iudice Nicolai de Jacobino et vie puplice cuius reservacione pro anno quolibet reditu tenere pro [...] p/ossessionibus ecclesie Sancti Johannis ordinis Jerosolomitani tarenos septem et medium»; e più avanti: «Item casilem aliud in fine carbonarii Sancti Johannis et vie puplice»; e ancora oltre: «Item terra que est carbonario cum cappella seu ecclesia fabricata nomine Sancti Johannis in qua cappella ipse Adenolfus habet ius patronatus / in fine a duabus partibus est terra ecclesie Sancte Trinitatis et ab alia parte sunt vie puplice a duabus partibus». Con il termine carbonario si indica il terreno immediatamente adiacente al fossato o compreso tra il fossato e le mura: questa indicazione conferma ulteriormente la vicinanza delle strutture alla cinta muraria, ma la mancanza totale di resti architettonici non ci consente di formulare nessuna ipotesi né sull’esatta ubicazione né sugli impianti planimetrici. 22 Giganti, Le pergamene dell’Archivio, cit., pp. 162-64. 23 Ivi, pp. 117-18. 24 Ivi, pp. 149-52, doc. 13.

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del Conte de detta città di Potenza et lle mura di essa città et un altro pezzo di territorio di capacità di carra tre in loco dove si dice li foi»25. Nei cabrei successivi la commenda di Melfi risulta possedere presso la città di Potenza solo terreni coltivabili. La storia della piccola chiesa di Potenza mi sembra abbia molto in comune con quella di Melfi: entrambe sorgevano fuori della cinta muraria su importanti nodi stradali percorsi dai crociati secondo una tipologia tipica delle prime domus giovannite con annesso un ospedale. Per paura di epidemie si tentava di non costruire nelle città queste strutture sanitarie. Anche se a Potenza non è documentata la presenza di un ospedale, ritengo per i motivi appena esposti che essa possa essere un’ipotesi da non sottovalutare, considerata anche la presenza di due abitazioni addossate alla chiesa di San Giovanni. 2. La commenda giovannita di Santa Maria di Picciano Su Santa Maria di Picciano le fonti risultano poco generose e si presentano abbastanza confuse: se dovessimo dare totale credito ad esse dovremmo dedurre che in questa domus durante il Duecento coabitarono insieme un ordine cavalleresco, quello dei Templari, e un ordine monastico, quello dei Benedettini; dal 1332 la domus risulta essere solo dei Giovanniti. «Hospitale S. Johannis habet grangiam in loco Piczani que fuit Templi»26: questa notizia del 1322 ci riferisce che in quegli anni il monastero di Santa Maria di Picciano era una grancia dell’ordine dei Giovanniti e che nel passato era appartenuta a quello dei Templari. Ma il primo documento che attesta la presenza dei Gerosolimitani a Picciano risale all’anno 126827. La testimonianza è indiretta poiché nella descrizione di alcuni confini si legge di una vigna appartenente all’ospedale dell’ordine di San Giovanni («iuxta vinealia Hospedalis Sancti Ioannis Hyerosolomitani»).

NLM, 1589 vol. 6037, f. 26v. D. Vendola, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria, «Studi e testi», LXXXIV, Città del Vaticano 1939, p. 70, doc. 999. 27 M. Gattini, I Priorati, i Baliaggi e le Commende del Sovrano Militare Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme nelle provincie Meridionali d’Italia prima della caduta di Malta, Napoli 1928, pp. 30-32. 25 26

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Il monastero di Santa Maria di Picciano sin dal 1219 apparteneva ai Benedettini28, che erano titolari di questa casa ancora fino al 1312, quando il conestabile di Matera Angelo de Berardis, con il suo testamento, faceva lasciti «alli monasterij di Santa Maria di Picciano, di San Salvatore di Timbro, e di Santa Maria de Armenijs per pianete, e paramenti d’altare, già che tanto Picciano, quanto Timbro e Santa Maria dell’Armenia a quel tempo erano monasterij di Benedettini»29. Dallo stesso documento si apprende che Angelo «lascia all’Hospidale di S. Gio. Gerosolimitano, tutti li beni che detto Angelo possedeva in Montescaglioso, in Pomarico, et un’altra stalla che possedeva in Matera»30. Del 25 gennaio 1392 è la notizia del primo commendatore giovannita: il documento spiega che «in quorum equitum potestatem paulopost monasterium praefatum S. Mariae de Picciano etiam devenit, cum usque ab anno 1392 legatus in quodam instrumento F. Ludovicus praeceptor Picciani»31. L’anno in cui avvenne il passaggio di Santa Maria di Picciano dalle mani dei Benedettini a quelle dei Giovanniti non è noto: si può collocare in un arco temporale che va dal 1312 al 1332, data in cui sicuramente è attestata solo la presenza dei Giovanniti. I possedimenti dei monaci benedettini passarono ai Giovanniti, che riuscirono ad amministrare la commenda in maniera encomiabile affidando nel XVI secolo i compiti di natura spirituale agli Eremitani di Sant’Agostino32. I possedimenti della commenda, oltre quelli insistenti su Picciano, erano consistenti e ubicati ad Acquaviva, Bari, Gioia, Bitetto, Rutigliano, Noia, Bitritto, Ceglie, Carbonara, Mola, Gravina, Spinazzola, Castellaneta, Ginosa e Miglionico33. 28 Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, p. 188. L’autore raccoglie notizie inerenti questo monastero per tutta l’età normanno-sveva e angioina. 29 R. Demetrio, I Cavalieri di San Giovanni a Matera (XIII-XVII secolo), in «Studi melitensi», III, 1995, p. 96. 30 Ibid. 31 S. Tansi, Historia cronologica Monasterii S. Michaelis Arcangeli Montis Caveosi Congregationis Casinensis Ordinis Sancti Benedicti ab anno MLXV ad annum MCDLXXXIV, Napoli 1746, p. 96. 32 Monasticon Italiae, vol. III, cit., p. 186. 33 La notizia è estrapolata dai cabrei fin ora reperiti su questa commenda. Essi sono: NLM: 1596 vol. 6023, cabreo; 1674 vol. 6024, cabreo; 1699 vol. 6025, cabreo. GMR: 1739-40 voll. 32-33, cabreo; 1796 vol. 34, cabreo.

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Ai Cavalieri, inoltre, apparteneva la chiesa dello Spirito Santo sita nella città di Matera, che pare sia stata eretta dopo l’XI secolo; successivamente venne modificata nell’iconografia tra il 1500 e il 1600 e sopraelevata nel 1680 dal commendatore di Santa Maria di Picciano fra’ Silvio Zurla34. Il commendatore restaurò anche la chiesa e la casa commendale di Picciano. Il cabreo del 1674 ci informa che «Per Levante attaccato alla detta chiesa v’è il campanile con quattro camere una sopra l’altra et in cima d’esse un’altra piccola che serve per colombara [...] Quale opera oltre che rende vaga vista serve per fortezza per difendersi in caso di bisogno»35. Il campanile cadde con il terremoto del 1694 e fu ricostruito dal commendatore Mansi prima del 169836. Zurla, come apprendiamo da un instrumentum del 1° gennaio 1679, acquistò un’abitazione a Matera «che fu in antico della famiglia Troiano, ed a tempi nostri de’ Volpe, oggi Viggiello, in un braccio del Castello Vecchio»37. Già dal 1448 il commendatore Deodato aveva ricevuto dal principe di Taranto l’autorizzazione a costruire in alcune aree ubicate nello spazio di Castel Vecchio38. La scelta di Zurla di cambiare abitazione fu causata dalla morte del suo predecessore, dato che «de sero fuit oppressus a ruina domus et mortuus statim fr. Jannes Mastrillus ordinis Sancti Johannis Hierosolomitani de Malta, Commendatarius Picciani»39. Per quanto riguarda la casa commendale di Picciano, i cabrei ci informano che essa era fortificata da una cinta muraria e da una torre campanaria40. Le descrizioni ci mostrano ambienti di servizio e di de34 In proposito molto precisa l’analisi in Demetrio, I Cavalieri di San Giovanni, cit., pp. 102-103. 35 NLM, 1674 vol. 6024, f. 10r. 36 NLM, 1688 vol. 6025, cabreo, f. 8r. 37 Ma la commenda già dal 1534 possedeva alcuni ambienti ubicati nel vecchio castello in Demetrio, I Cavalieri di San Giovanni, cit., pp. 103-104. 38 Ivi, p. 105. 39 Ibid. 40 NLM, 1699 vol. 6025, ff. 1-8: «vi è una casina, molto comoda, dalla quale si entra in una sala e da questa in una camera, nella quale vi è una fossa grande da tenervi grano per la semina; da detta camera si entra in un’altra fatta a lamia, e da questa si va alla cantina, con scale di pietra, con di gradini quindici et in detta camera vi è un cataratto per il quale si saglie al portone grande, sopra il quale vi è un camerino ed una grande porta con sicurezza di detto portone, e dalla detta camera si può passare al cortiglio; a man sinistra del portone vi sono alcune poteche al numero di sette, una appresso l’altra [...] servono per comodo

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posito, ma anche costruzioni adibite per la fiera, che ci fanno intuire il movimento di merci e uomini all’interno della commenda41. 3. La commenda di San Giovanni di Grassano La prima notizia inerente alla presenza a Grassano dell’ordine dei Cavalieri giovanniti ci viene offerta da una lettera che papa Urbano V, il 4 giugno 1368, indirizzò a Tommaso Sanseverino, milite di Tricarico, con la quale si chiedeva di restituire la precettoria di Grassano al priore di Barletta42. Il motivo per il quale il possedimento giovannita era stato sottratto al priore di Barletta va probabilmente ricercato in un praeceptum che Roberto d’Angiò emise nel gennaio del 1324, con il quale requisiva le masserie feudali morose o retinenti a prestare servizio militare43. Onerosi furono i danni subiti dagli Ospedalieri, a cui furono sottratti intere masserie e molti territori che non risultavano nemmeno feudali. Non disponiamo di molte fonti sulla comunità di Grassano: una piccola notizia ci viene offerta dai registri della cancelleria angioina ri-

dei negozianti seu mercieri che corrono a vendere robbe nel giorno della Festa: et appresso l’ultima poteca vi è una stalla piccola, della capacità di tre cavalli [...] dietro a dette poteche e stalla vi è un giardinetto con diversi alberi, tutto murato; dentro del summenzionato cortile vi è il palazzo antico, consistente in tre camere soprane e sottane, una serve per magazzino altra per stalla e l’altra per deporvi ordegni di necessità». 41 NLM, 1596 vol. 6023, f. 8: «Et dentro detta difesa vi è la Ecclesia di Santa Maria di Pizzicano, con la figura sua con molti miracoli continui e noti, quale Ecclesia è tutta biancheggiata e sopra lo campanile è fatta una camera nuova et soggetta ad alto, e vi è in detta chiesa uno cortiglio grande a pastorale e cisterne in mezzo d’acqua et undici ipoteche et un palazzo consistente in una sala a due camere et due stalle al bascio et una cameretta dove sta lo furno, recenzata dal detto Commendatore et vicino la Ecclesia predetta vi è un’altra camera et stalla sott’essa. Vi sono anche le ipoteche site dentro il cortiglio della detta Ecclesia di Santa Maria di Picciano, quali ipoteche nel giorno suo, che è della Santissima Annunziata, si soglieno affittare per carlini cinque, sei et infino a dieci carlini, secondo il concorso delle genti». 42 F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. III, Roma 1975, p. 23, n. 7830, che nel regesto riporta: «4 giugno 1368 - N. V. Thomae de Sanctoseverino, Militi Tricaricen., mandat ut praeceptoriam de Grassano, Hospit. S. Johann. Jerosol., restitui faciat Priore Barolo». 43 R. Iorio, Ospedalieri a Barletta e dintorni fra vescovi e papi, sovrani e sultani, in «Studi melitensi», II, 1994, pp. 114-15.

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costruiti da Filangieri, dai quali si apprende che la curia regia donava a Rostaino de Romulis il casale di Grassano che prima era appartenuto al proditore Ugonotto Alemanno44. Nella tassazione focatica del 1320 il casale di Grassano pagava le tasse e risultava così ormai svincolato da Tricarico. Da un inedito scritto del conte Giuseppe Gattini inerente alle commende di Matera e Grassano e conservato nel Fondo Gattini presso l’Archivio di Stato di Matera, nell’elenco dei commendatori di Grassano viene menzionato come primo commendatore un certo fra’ Troilo Sansone di Troia nell’anno 1365. Sempre tentando una pur minima ricostruzione delle vicende sulla base delle pochissime fonti a disposizione, apprendiamo che nel 1493 il pontefice Alessandro VI inviò una lettera al vescovo di Tropea, all’arciprete dei Santi Gervasio e Protasio della Terra di Madio della diocesi di Lodi e al vicario spirituale di Tricarico affinché provvedessero a eleggere come nuovo precettore di Grassano Latino Gargano, in seguito alla morte del predecessore Pietro Sangi45. Ancora qualche altra minuta notizia ci proviene da Gattini, che dal 1435 fino al 1471 ci indica un elenco abbastanza preciso di commendatori di Grassano. Utilizzando queste scarne notizie si può affermare che Grassano divenne un centro demico autonomo fra il 1277 e il 1320. Prima del 1365 già apparteneva ai Cavalieri giovanniti; dopo il 1368, e comunque prima del 1435, anno in cui si conosce il nome di un nuovo commendatore, subì un momento di grave crisi. Nel 1447 la tassazione focatica angioina ci dice che in questo casale erano presenti 14 fuochi, cioè 10 in più rispetto al cedolario del 132046. Dobbiamo, dunque, supporre che solo durante il Quattrocento il centro conobbe una breve fase di sviluppo, trovando nella commenda giovannita la ragione della sua esistenza e sopravvivenza.

44 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. VI, 1270-1271, Napoli 1954, p. 138, doc. 691, che recita: «Rostaino de Romulis donat partem quam Curia habet in casalibus Trunce [?] et Specle de Presbiteris, et casale Graczani quod fuit Ugonotti Alemanni proditoris». 45 Russo, Regesto Vaticano, cit., vol. III, p. 65, n. 13556. 46 G. Luisi, Territorio e popolazione della Basilicata, in AA.VV., Popolazione paesi e società, cit., pp. 7-103.

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La scarsa generosità delle fonti non ci consente di cogliere il momento preciso in cui si insediarono i cavalieri: a questa scarsezza documentaria si aggiunge un’altra grande difficoltà dovuta dalla totale mancanza di resti architettonici che in qualche modo possano ricordarci la presenza giovannita. Colpisce entrando nel paese ciò che è visibile alla sommità del pianoro sul quale insistono le abitazioni, e cioè l’esistenza di una chiesa. Il sito su cui si erge questo edificio religioso sembra restituire una serie di elementi architettonici che rinviano a una struttura fortificata, mentre nella chiesa di recente restaurata sono assenti elementi probanti relativi alla presenza melitense, salvo il titulus dedicationis che include i nomi dei santi Giovanni e Marco. Eppure, almeno per quanto riguarda l’età moderna siamo informati dai cabrei e dalle visite di miglioramento degli ampi poteri giurisdizionali esercitati dai commendatori, ma della pur ricca vicenda medievale non ci sono giunti documenti di sorta47. Comunque, la presenza dei militensi salvò Grassano da un sicuro declino. In quel periodo era in atto in Europa una grande crisi demografica che portò allo spopolamento e alla scomparsa di molti borghi: l’arrivo dei Giovanniti portò una ventata di ottimismo al piccolo casale di Grassano, che da quel momento progredì e si ampliò in ogni suo aspetto. I 4 fuochi del 1320 divennero 14 nel 1447: un po’ alla volta il casale si popolò attratto dalla presenza dei Giovanniti, che furono gli unici padroni di questo paese sino alla legge del 1810 che promulgava la soppressione delle corporazioni «non di interesse sociale». Con la soppressione della commenda anche il paese cadde in uno stato di sottosviluppo che è stato superato solo negli ultimi tempi.

47 Si riporta l’elenco dei cabrei e delle visite di miglioramento finora reperiti: NML: 1608 vol. 6016, cabreo; 1653 vol. 6015, cabreo; 1714 vol. 6003, visita di miglioramento; 1737-38 vol. 6014, cabreo. GMR: 1636 vol. 18, cabreo; 1653 voll. 16-17, cabreo; 1737-38 vol. 19, cabreo; 1764 vol. 20, cabreo; 1789 vol. 15, cabreo. ASN: Cabrei di Malta, 1608 voll. 28-29, cabreo; Cabrei di Malta, 1676 vol. 30, cabreo; Cabrei di Malta, 1764 vol. 31, cabreo; Cabrei di Malta, 1776 vol. 32, visita di miglioramento.

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4. Il baliaggio della SS. Trinità di Venosa La prima notizia sulla presenza dei Giovanniti a Venosa si trova in un documento del 1268, che ci descrive i beni posseduti dall’ordine in questa cittadina: Palatium unum situm in parochia Sancti Nicolai de Capuano cum orto et arboribus positum iuxta eamdem domum. Item domus que fuerunt quon­ dam Judicis Johannis de monte albano sita in parochia dicti Sancti Nicolai. Item vinea una que fuit dopni Girardi sita in loco Serre de Bertono. Item tenimento unum terrarum Sancti Helie situm in parte Mathici iuxta terram domini Regis ex una parte et ex alia est aque cursus de... nico et ab alia parte sunt terre de amalfitanis et ab alia parte est via publica... Item domus Cabursi sita in parochia Sancte Marie de Nova iuxta domus que fuerunt Judicis Riccardi. Item Jardinum unum situm in loco balnearij iuxta terras Sancte Trinitatis terram Sancti Martini. Item terra una in loco strate iuxta terras Episcopij Venusij et terras curie. Item Ecclesia sancte marie sive sancti petri de plano cum tenimentis suis posita infra tenimentum milonis Venusij et Gaudiani ubi habet domos et massariam suam. Item furnum unum situm prope domum Sancti Nicolai de Capuana iuxta domos Judicis Palagani. Item petia una de terre sita in parte Dulij iuxta terram templi et iuxta terram Sancte Trinitatis. Item terra in loco Selsanelli iuxta terram Sancte Trinitatis et Rugerij Guarigij48.

Da questo inventario si evince l’ingente patrimonio dei Cavalieri giovanniti: erano già proprietari di un palazzo nella parrocchia di San Nicola, di due case in altre zone di Venosa e di un forno. Inoltre avevano una chiesa, San Pietro de Plano, posta nel territorio fra la stessa Venosa, Montemilone e Gaudiano: vicino a tale chiesa vi erano anche una casa e una masseria. In questa elencazione di beni del 1268, riguardanti tutti i possedimenti della Basilicata, la comunità giovannita di Venosa risulta essere la più ricca e anche la più prestigiosa. Questi beni, assegnati inizialmente all’ordine, pervennero all’abbazia benedettina della SS. Trinità di Venosa solo in seguito alla soppressione di essa in quanto monastero benedettino, avvenuta il 22 settembre 1297 con la bolla di papa Bonifacio VIII, e al suo passaggio al baliaggio giovannita, unico esistente nella regione lucana. Il papa,

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Gli Archivi per la storia, cit.

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descrivendo le condizioni del noto monastero, «famedio» della stirpe normanna, così giustificava la soppressione: Abbiamo appreso come il monastero della SS. Trinità di Venosa, dell’Ordine di San Benedetto e immediatamente soggetto alla Sede Apostolica, prospero per il passato in spiritualibus et temporalibus, sia ora, per l’incuria e l’incauta amministrazione dei suoi abati e monaci, vicino al collasso tanto negli affari spirituali che temporali. Inoltre abbiamo saputo come sia improbabile una sua ripresa; anzi è prevedibile al contrario un suo peggioramento per l’imprudenza e la pigrizia delle persone che in esso dimorano49.

Il palese riferimento del papa alla pessima amministrazione del monastero da parte dei priori dimostra lo stato di decadimento morale dei monaci e anche delle strutture del monastero: papa Caetani, infatti, specificava che gli edifici conventuali erano in rovina come anche la foresteria, destinata ad accogliere gli ospiti illustri. Il tetto della chiesa era così pieno di crepe che non si poteva celebrare la messa in caso di pioggia. La situazione migliorò con l’arrivo dei Gerosolimitani, ai quali fu affidato anche l’ingente patrimonio dei Benedettini, ricco e prospero per i molti lasciti che i fedeli concessero e per la protezione che essi ottennero dalla dinastia normanno-sveva50. 49 G. Crudo, La SS. Trinità di Venosa. Note storiche, diplomatiche, archeologiche, Trani 1899; H. Houben, La SS. Trinità di Venosa, baliaggio dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, in «Studi melitensi», II, 1994, pp. 7-24. 50 Sulla SS. Trinità di Venosa e relativa bibliografia cfr. H. Houben, Il «libro del capitolo» del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Materiali e documenti», 1, Galatina 1984. Sui possedimenti Crudo, La SS. Trinità di Venosa, cit., p. 334, così riferisce: «ma in prosieguo avendo il Gran Consiglio del S.M.O. deciso di formare dai beni di essa moltissime commende secondarie, per poter gratificare con queste i soggetti degni e benemeriti dell’Ordine stesso, disponendo di quello immenso patrimonio come di cosa propria, e dismembrandolo dalla sua primitiva unità, conservati solo in un corpo i beni tutti di Venosa, di Ascoli e quelli della Puglia piana, e formandone una ricca commenda di priorato, dalla quale dipenderebbero i benefici minori che si chiamarono di San Giovanni nella città di Bitonto, di Santa Maria della Francia nella terra di Rutigliano, di S. Marinella nella terra di Forenza, di S. Maria di Massanova nella terra di Senise, di San Giovanni nella terra d’Iliceto, di S. Nicola nella città di Terlizzi, di S. Giovanni nella città di Giovinazzo, di S. Martino nella terra di Forenza: di tutto il resto dei beni formò tante altre commende e Grangie, ciascuna delle quali aggregò, a secondo delle provincie nelle quali si trovavano ai più vicini priorati dell’Ordine. Per tale smembramento avvenne che tutti i feudi posseduti dall’ex badia venosina nella Valle del Crati, cioè in Calabria, ridotti in grangie, fu-

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È in questo contesto che papa Bonifacio VIII decise di trasformare la nota abbazia in commenda e di trasferire ai Giovanniti tutti i possedimenti che prima appartenevano ai Benedettini. Il baliaggio di Venosa fu una particolare precettoria che, anche se si trovava territorialmente nei possedimenti del priorato di Barletta e in quello di Capua, non dipendeva da essi ma direttamente dall’Hospitale conventuale in Oriente, al quale non solo pagava le responsiones, ma inviava anche cereali e cavalli51. Sin dal 1301 i precettori della SS. Trinità erano balì nominati direttamente nel capitolo generale. Questo tipo di baliaggio veniva dato ai più alti ufficiali del convento52. Se confrontiamo i cospicui possedimenti che il monastero possedeva alla fine del XIII secolo con quelli elencati nei cabrei, notiamo che nel giro di centocinquant’anni il baliaggio aveva perduto la maggior parte dei suoi possedimenti, che erano stati elargiti ad altre commende, perché questi beni erano ubicati in porzioni territoriali appartenenti ad altri possedimenti giovanniti. Inoltre, con l’arrivo degli Aragonesi nuovi sconvolgimenti politici avvennero all’interno dell’ordine. Nel 1477 re Ferdinando escluse i provenzali dalle precettorie del regno di Napoli, specificando che rono aggregati al Priorato di S. Eufemia: quelli di Terra d’Otranto ed altri di Terra di Bari, similmente smembrati e trattati, furono eretti in altre commende, le quali furono aggregate e dipendenti dal Gran priorato di Barletta insieme ad altre piccole commende della Puglia: sicché in tal guisa quel gran priorato si ebbe dal monastero venosino le possessioni che questo si avea in quella città e nelle vicinanze di essa; e finalmente poi i beni posseduti della badia nel principato, seguendo la stessa sorte, andarono a far parte similmente del Priorato di Capua». 51 A.T. Luttrell, Le origini della precettoria capitolare di Santo Stefano di Monopoli, in C.D. Fonseca, C. D’Angela (a cura di), Fasano nella storia dei Cavalieri di Malta in Puglia, Taranto 2001, p. 92. 52 Ivi, p. 93, l’autore così spiega: «c’erano cinque bayllis par chapitre general nel Regno di Napoli: S. Eufemia di Calabria nel 1294 circa, S. Trinità intorno al 1301 circa, nonché la ricca precettoria di Napoli nel 1330 o giù di lì. Gli antichi e fertili terreni benedettini di Venosa e di Monopoli costituiscono latifondi adibiti al pascolo ed alla produzione di cereali. Queste cinque precettorie capitolari ponevano molti problemi, perché a causa della loro grandezza e prosperità minacciavano di sbilanciare i priorati di Capua e Barletta [...] Per di più, le cinque precettorie furono acquistate a spese dei frati di Provenza, impoveritisi perché avevano perso molti possedimenti nel loro priorato. I Provenzali avevano, quindi, un diritto o una pretesa sulle precettorie napoletane. I frati della provincia di Provenza appartenevano al Priorato di Toulouse o al priorato di Saint-Gilles, quest’ultimo diviso fra la Linguadoca nel regno di Francia e la contea di Provenza fuori di quel regno».

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«nessuno che italiano non fosse, potesse godere dei beni che la Religione del suo regno aveva»53. La precettoria di Venosa dipendeva direttamente proprio dai frati provenzali provenienti dal priorato di Tolosa e di Saint-Gilles, che l’acquistarono all’inizio del Trecento. Ma dopo il decreto di re Ferdinando questo tipo di baliaggio capitolare non esistette più: i balì che amministrarono Venosa divennero balì di Gran Croce e così potevano far parte del Consiglio dell’ordine e aspirare a diventare gran maestri. Anzi nel 1462 già a Venosa c’era un balì di Gran Croce, fra’ Cencio Orsino, che ricoprì molte alte cariche all’interno dell’ordine. Grazie al voto di Cencio Orsino, nel 1466 venne eletto gran maestro fra’ Battista Orsino: questo balì aveva amministrato Venosa nel 145454. Questo spiega il motivo per il quale la sede del baliaggio venosino fu sempre affidata a governatori che l’amministrarono al posto dei balì, frequentemente lontani da questa sede perché ricoprivano incarichi relativi al governo dell’ordine. Dipendevano inizialmente da questo baliaggio alcuni benefici minori situati a Deliceto, Forenza, Senise, Bitonto, Giovinazzo, Terlizzi e Rutigliano. Rimasero beni della SS. Trinità anche quelli situati a Venosa, Ascoli Satriano e Corleto. I balì restaurarono e migliorarono la SS. Trinità e cercarono anche di portare a termine i lavori della chiesa incompiuta con la costruzione del campanile a vela. All’interno dell’edificio sacro i cavalieri hanno lasciato molte tracce del loro passaggio, con affreschi che riproducono la nota croce ottagona; va menzionato tra i balì più famosi Ardocino Gorricio Barba di Novara, che fece trasportare i resti dei fratelli di Roberto il Guiscardo nella tomba di quest’ultimo, dimostrando con questo gesto di conoscere la grande importanza che questo edificio aveva avuto per i Normanni. I balì risiedettero solo per poco tempo all’interno del monastero; si trasferirono, infatti, nella città di Venosa, presso il palazzo del baliaggio, che da una descrizione del 1774 risulta strutturato in questa maniera: Et continuando actum predictum, siamo entrati nella descritta città di Venosa, ed a dirittura portati nel palazzo balivale, con portone, e cortile coverto, e scoverto, sito nel ristretto della parocchia di S. Martino, consistente

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Crudo, La SS. Trinità di Venosa, cit., pp. 359-60. Ivi, p. 357.

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in più membri superiori, ed inferiori, li superiori sono, una sala, tre camere, un’altra sala, con due camere, e focagna, fatte a lammie, che si dice, il quarto nuovo, sotto del quale vi sono due stanze grandi, anche a lammia, di sotto, e di là delle stesse, un stallone, che sporge alle coste del Reale, dentro il portone, vi sono altre tre stanze, col comodo del cellaro, e grotte, stalletta, colla sua pagliera, situato di sotto la gradinata di detto palazzo a man dritta, vi è la cisterna d’acqua, e fontana; ed uscendo dal cortile coverto, e scoverto, nella publica strada, salendo per essa a man sinistra, vi sono di sotto del quarto vecchio quattro abitazioni, che tengono l’uscita in detta strada maggiore, e più sopra attaccato alle medesime, vi è la chiesa sotto il titolo della Decollazione di S. Giovanni Battista, col suo piccolo campanile, la di cui campanella si fuse, in tempo si rinnovò la campana della chiesa della SS. Trinità; ed avanti il portone di detto palazzo, vi è la seliciata, con due titoli colle croci di Malta, indove anticamente godevasi l’immunità ecclesiastica, in vigore di privilegi concessi da sommi pontefici, come si ravvisa nell’antecedente Cabreo55.

5. L’ordine dei Cavalieri teutonici in Basilicata La prima notizia, finora reperita, riguardante la presenza dei Cavalieri teutonici in Basilicata è del 1219. Pietro, conte di San Fele, «pro remissione peccatorum meorum parentum et precessorum nostrorum», ordina che sia fondata una chiesa in onore dello Spirito Santo «supra terra nostra vallis Vitalbae, quae de Prato dicitur». La chiesa era donata a Basilio, priore della chiesa di Santo Spirito di Salsola, insieme a un appezzamento di terreno che era ubicato nella stessa valle di Vitalba56. In realtà nel documento non c’è nessun esplicito riferimento ai Teutonici, ma una pergamena successiva di quindici anni dimostra come Santo Spirito di Salsola, località sita in territorio di Melfi, fosse una domus teutonica e Basilio «frater et preceptor omnium domorum Sancti Spiritus de Salzula»57. La pergamena del 1219, inoltre, acquisisce ancora più importanza se si considera che solo nel 1216 si ha notizia delle prime rendite e

V. Verrastro, Corporazioni religiose ed opere pie, Potenza 1996, p. 129. Codice diplomatico barese, Le pergamene di Barletta. Archivio Capitolare (897-1285), a cura di F. Nitti di Vito, 8, Bari 1914, pp. 203 sgg., n. 131. 57 Ivi, p. 206. 55 56

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possedimenti che i Teutonici ottennero da Federico II58: da ciò si può dedurre che la chiesa di Santo Spirito di Salsola apparteneva all’ordine teutonico già nel 1219, se nel documento sopra citato si trova menzionato il priore Basilio. In un documento successivo del 1236, lo stesso Basilio decise di aggregare alla casa di Santa Maria degli Alemanni, a Corneto, «omnes domos terras et vineas Sancti Spiritus de Salzula quas tenemus et possidemus et omnes vineas quas tenemus et possidemus in tenimento Fogie [...] et ecclesiam Sancti Spiritus de Prato cum toto tenimento suo silicet domos et vineas et foveas quas teneamus et possideamus in tenimento Escoli»59. La donazione avveniva con il consenso di tutti gli oblati, fra’ Bartolomeo, fra’ Benedetto, fra’ Pietro, e della consorella Maria Cita, «pro meliorando habitu nostro et vita nostra et pro melioranda condicione nostra». La comunità era composta da oblati i quali si aggregavano «come confratres o oblati all’Ordine Teutonico»; «erano persone anziane o donne che donando i loro beni all’ordine (riservandosene però l’usufrutto vita durante) si assicurarono non soltanto le preghiere dei cavalieri-monaci, ma anche la loro protezione e assistenza sanitaria»60. Nel 1227, Palmerio di Melfi, «confrater domus ecclesie Sancte Marie Teotonicorum hospitalis Jerusalem», vendette al commendatore della casa di Barletta, Corrado di Basilea, un appezzamento di terra sito presso Corneto a condizione che la casa di Barletta pagasse le spese per la causa già intrapresa da Palmerio contro l’abbazia della SS. Trinità di Venosa che aveva usurpato il tenimento61. Palmerio, affinché la 58 H. Houben, Templari e Teutonici nel Mezzogiorno normanno-svevo, in G. Musca (a cura di), Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate. Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve (Bari 17-20 ottobre 2000), Bari 2002, pp. 277-78. In realtà, come ricorda lo stesso Houben in L’Ordine Teutonico a Bari (secc. XIII-XIV), in C.D. Fonseca, V. Sivo (a cura di), Studi in onore di Giosuè Musca, Bari 2000, pp. 229-30, la presenza templare a Brindisi è attestata sin dal 1191 e a Barletta sin dal 1197. Sulla questione sempre H. Houben, La presenza dell’Ordine Teutonico a Barletta (secc. XII-XV), in Barletta, crocevia degli Ordini religioso-cavallereschi medioevali. Seminario di studio, Barletta 16 giugno 1996, Taranto 1997, pp. 25-30. 59 Nitti di Vito (a cura di), Le pergamene di Barletta, cit., p. 207. 60 Houben, Templari e Teutonici, cit., p. 286, in cui l’autore ancora precisa: «Forse si trattava di una comunità che voleva realizzare una forma non ortodossa di vita religiosa e che per motivi ‘di opportunità’ preferì entrare in un ordine religioso-militare che poteva garantire un’efficace protezione contro eventuali problemi con le autorità ecclesiastiche locali». 61 Nitti di Vito (a cura di), Le pergamene di Barletta, cit., pp. 107-108.

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causa potesse continuare e in cambio delle 4 once avute in prestito dal commendatore Corrado, consegna allo stesso «insuper ad huberiorem vestri cautelam specialiter meum quarterium molendini et omnia bona mea tam mobilia quam stabilia»62. La causa, grazie all’aiuto dei Teutonici di Barletta, fu vinta da Palmerio63. È attestata la presenza di un oblato dell’ordine teutonico anche a Matera, tale Simeone de Sire Arturo, che il 12 marzo 1298 risulta già defunto. In questa memoria si definiscono i termini di una lite sorta fra Arnaldo, priore della casa di Santa Maria dei Teutoni in Puglia, e il notaio Magnario, «filium quondam Rogerii de iudice Magnalio», per il possesso «de bonis stabilibus mobilibus seseque moventibus» nella città di Matera, che Simeone aveva donato alla casa teutonica64. In un documento del 4 novembre del 1314 vengono descritti in maniera minuziosa i beni che Simone donò all’ordine: Giovanni Bianco, precettore della casa e dell’ospedale di Santa Maria dei Teutonici di Ginosa, cedeva questi possedimenti materani ad Angelo de Bernardo in cambio di altre proprietà site a Ginosa. L’ordine teutonico possedeva orti e vigne poste nelle contrade limitrofe alla città: inoltre gli appartenevano cinque grotte, di cui una con cappella diruta e «cum foveis in vicinio ecclesie Sancti Jacobi», un’altra cripta nella piazza della città, una cisterna «in plano Sancti Spiritus», infine un’altra grotta, «cum platea et exitu suo», nel Sasso Barisano, vicino alla chiesa di Sant’Eugenio65. Ivi, pp. 108-109. H. Houben, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola, Corneto e Torre Alemanna, in Il territorio di Cerignola dall’età normanno-sveva all’epoca aragonese. Atti della Giornata di studio (Cerignola, 29 maggio 1999), Galatina 2001, p. 40 e note 23-25. 64 Giganti, Le pergamene dell’Archivio, cit., pp. 113-17, doc. 2. 65 A. d’Itollo, I più antichi documenti del libro dei privilegi dell’Università di Putignano (1107-1434), Bari 1989, pp. 29-37, in particolare pp. 32-33. Il documento offre la seguente ricchissima descrizione: «Cripte quinque cum capella una parva discohoperta et casili uno diruto iuxta eamdem capellam cum casella una prope unam ipsarum criptarum versus meridiem ac cisterna una magna iuxta aliam ipsarum criptarum versus septemtrionem, cum foveis tribus ante tres ipsarum criptarum et cum cisterna alia ante duas criptarum ipsarum versus meridiem in infimo, in vicinio ecclesie Sancti Jacobi; quarum primus finis est via puplica qua per extremum curtis seu platee ipsarum criptarum itur a parte domorum iudicis David versus alias domos eiusdem iudicis David; secundus finis est strectula seu via vicinalis qua inter murum curtis ipsarum criptarum et domos alias dicti iudicis David itur ad domos quondam notarii Rogerii de notario Symeone et protenditur usque ad ipsas domos eiusdem notarii Rogerii: tertius finis est summitas parietis 62 63

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Questo documento risulta particolarmente prezioso perchè ci mostra una fotografia precisa e particolareggiata della conformazione urbana di una parte della città di Matera e mette in rilievo come essa si snodasse fra la Civita e i Sassi. Ricorrono i nomi di molte chiese e anche la descrizione del punto preciso della città in cui esse erano ubicate. Da un documento del 1269 apprendiamo che l’ordine a Venosa «tenet ecclesia S. Paravesces»66. frontalis trium ipsarum criptarum usque ad plateolam domorum iudicis Adde ac stantinus alterius cripte de predictis quinque criptis; quartus denique finis est plateola domorum Nicolai de sire Loce et dicti iudicis David; decursus vero aque ad dictas cisternas est desuper frontem ipsarum criptarum et recte procedendo descendit per strectulam antedictam, cum platea seu curti ac introitibus, exitibus, rationibus et pertinentiis suis. Cripta una que dicitur stalla in platea Matere cum criptis duabus, cisternis et cum orto uno desuper ipsam stallam, qui protenditur usque ad viam puplicam qua itur desuper stallam ipsam ad plateam Matere; quarum primus finis est via puplica inter stallam palaciatam domini Martini et predictam stallam; secundus finis est stalla quondam sire Bisantii; tertius finis est stalla hospitalis Sancti Johannis Jerosolomitani; quartus denique finis est tam predicta via puplica desuper ortum ipsum quam orti supra stallas dicti sire Bisantii et hospitalis predicti. Cisterna una cum giro et tornitorio suo in ripa vie puplice, in plano Sancti Spiritus ante hospitale archiepiscopi, iuxta viam qua itur ad Sanctum Lazarum et iuxta cisternam Riccardi de Electo, orticellus unus qui est prope dictum hospitale, iuxta ortum Luce Guillelmi Factitii et iuxta ortum quondam Rogerii Bloy et desuper criptas Nicolai sire Johannis Tristayni et desuper criptas predicti iudicis Francisci de notario Symeone. Ortus unus seu petia terre in pede lame de Camarde qui est subter vineas quondam Bisantii de Christofaro, iudicis Petri de Berardo et Angeli Penne, et ortum Nicolai sire Johannis Stephani et iuxta viam puplicam qua itur ad Puteum Cannitum et Milionicum et iuxta ortum et ­vibneas quondam iudicis Johannis Saraceni. Petia una vinearum in loco ubi dicitur ad fractinas cum vitibus et arboribus diversorum generum; quarum primus finis est via puplica vicinalis qua descenditur ad fractinas; secundus finis est vinea et palmentum Nicolai sire Johannis Tristayni; tertius finis est vinea deserta quondam Todarelli et vinea Bartholomei Nicolai Veterani; quarus denique finis est alia pars fractinarum, cripta una in saxo Barisano, in vicinio ecclesie Sante Eugenie, cum platea, introhitu et exitu suo, que est iuxta criptam monacorum Sancti Angeli de Grecis et iuxta ipsam ecclesiam Sancte Eugenie, cum platea, introhitu et exitu suo et pertinentiis suis, ut dictum est; cuius cripte fines sunt: a parte orientali in extremo platee ipsius cripte via puplica qua descenditur ad saxum Barisanum, a parte occidentali stantinus frontalis eiusdem cripte, a parte meridionali dicta cripta monacorum et a parte septentrionali eiusdem cripte, a parte meridionali dicta cripta monacorum et a parte septentrionali dicta cripta Sancte Eugenie seu ecclesia. Pro predictis vero rebus stabilibus predicte sacre domus hospitalis Theutonicorum, sitis in eadem terra Matere et pertinentiis suis». 66 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. IV, 1266-1270, Napoli 1952, p. 153, doc. 1033.

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Per la Basilicata si dispone ancora di un’altra minuta notizia relativa a quest’ordine cavalleresco e riferita agli anni 1440-41, dalla quale si apprende che alla commenda di Corneto appartenevano beni fondiari siti ad Ascoli, Cerignola, Melfi, Pescopagano e Calitri e che la stessa commenda pagava in grano un cappellano che celebrava la messa a Torre Alemanna e un sacerdote a Santo Spirito di Salsola67. 6. L’ordine dei Templari in Basilicata Presso la Biblioteca nazionale di Napoli si conserva un manoscritto inedito in cui sono elencati i beni che appartenevano a tutti gli ordini cavallereschi del regno di Napoli68. Questo manoscritto fu utilizzato da Giovanni Guerrieri nel 1909 per realizzare parte della sua monografia sulla storia dell’ordine del Tempio nel regno di Napoli69: la restante parte del manoscritto è tuttora inedita e, in questo lavoro, è stata parzialmente utilizzata in riferimento agli altri ordini. Il manoscritto risulta particolarmente interessante poiché non esistono altri documenti che attestano la presenza dell’ordine dei Pauperes Milites Christi et Salomonici Templi nella regione lucana, se si escludono esigue informazioni tratte da altre fonti. In un unico documento, attribuibile all’anno 1268, vi sono elencati tutti i possedimenti70. Il 18 aprile 1308 re Roberto, con una «commissio super procurandis bonis Templarorum», ordinò al giudice Francesco de Arbisso di Aversa provvedimenti energici inerenti al sequestro e all’amministrazione di questi beni. Nella stessa lettera, l’ordine si estende anche al giustiziere di Basilicata, Ruggero di San Vincenzo, «ut bona omnia Templarorum [...] cum noticia et coscientia [...] in eodem quaterno pro iudice Nicolao Cutigno super procuratione bonorum que fuerunt

Houben, L’Ordine religioso-militare dei Teutonici a Cerignola, cit., p. 56. Notizie estratte da un «Reassunto de Diplomi» esistenti nell’Archivio della Regia Zecca appartenenti all’abolito Ordine de’ Templari, ed all’attuale S.M. Ordine de’ Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, compilato sotto gli ordini del signor Balio frà Francesco Antonio Cedronio, ricevitore e ministro dell’Ordine presso S.M. Siciliana, per opera dell’avvocato Felice Parrilli, nell’anno 1803, Biblioteca nazionale di Napoli, manoscritto XV, D, 15. 69 G. Guerrieri, I Cavalieri Templari nel Regno di Sicilia, Trani 1909. 70 Gli Archivi per la storia, cit. 67 68

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Templariorum verbis competenter mutatis usque ubi legitur debitum computum ponere teneatur»71. In Basilicata questo ordine possedeva a Melfi la chiesa di San Nicola insieme ad alcuni immobili posti nelle contrade cittadine più importanti, tre staciones poste sulla via pubblica e una serie di vigne e castagneti nelle zone suburbane72. La maggior parte di questi beni erano dovuti a lasciti di oblati dell’ordine. Diventare oblati aveva i suoi vantaggi, in quanto non solo i cavalieri, ma gli stessi oblati erano esentati dal pagamento di qualsiasi imposta («hii tales oblati non iam sui sed dedicati deo et ecclesie dignoscantur»)73. Da un altro documento conosciamo il nome del reverendo commendatore della chiesa di San Nicola di Melfi, un tale Luca. Giovanni Gaetani di Napoli, infatti, donò alla chiesa dei Templari di Melfi «una pecia terre in marina Neapolis iuxta via fontana que dicitur de Pullice»; questa donazione venne fatta alla presenza di Pietro Labellensi e di «frate Luce reverendi Comanderii templii Melfie»74. Ivi, p. 110. Notizie estratte da un «Reassunto», cit., f. 88, che così recita: «Bona Domus Templi de Barulo que habet in infrascriptis terris Basilicato. Ioannes Citus de Melfia iuratus et interrogatus super omnibus supradictis dixit se ea scilicet inde scire que inferius continentur quod predicta Domus Templi Baroli tenet et possidet racione prodicte Ecclesie bona que inferius continentur, videlicet. MELFI Melfia ecclesia sancti Nicolai cum domibus et ortis sitis in territorio eiusdem terre ante terram eamdem que site sunt iuxta eamdem ecclesiam et ex alia parte sito iusta viam puplicam. Item staciones tres posite in loco qui dicitur albana eiusdem terre que site sunt iuxta viam puplicam ex una parte. Item domus una sita in parrocchia sancti Adoeni in eadem terra quo similiter sita est iuxta viam puplicam. Item domus una alia sita in eadem terra que fuit Alibrandi de Melfia nuper oblati ante oblationem ipsam in serviciis Curie cum hominibus Melfie conferebat et nunc ratione ipsius oblationis non confert in serviciis aliquibus dicte terre. Item vinea una alia que fuit eiusdem Alibrandi de Melfia oblati. Item vinea una alia sita in territorio eiusdem terre in loco qui dicitur Matera iuxta viam publicam. Item vinea una sita in territorio eiusdem terre in loco qui dicitur in colunnellis. Item vinea una alia sita in territorio eiusdem terre in loco qui dicitur Sanctus Petrus de Serris. Item vinea una alia cum castaneto sita in territorio eiusdem terre in fontana veterana. Item cripte due cum orto sito ante civitatem Melfie suptus balneum civitatis eiusdem». 73 R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922, vol. I, p. 53. 74 G. Caetani, Regesto delle Pergamene dell’Archivio Caetani: Regesta Chartarum, vol. I, Perugia 1922, pp. 27 sg., n. 612. 71 72

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I Templari avevano possedimenti anche nel centro scomparso di Cisterna («Tenimentum unum terrarum positum in tenimento Cisterne situm ex una parte iuxta viam puplicam»)75. È del 1226 la notizia che fu eletto vescovo di Lavello un tale Riccardo, che apparteneva all’ordine dei Templari76. Infatti, anche in questa cittadina c’è notizia di possedimenti: In Lavello tenimentum unum magnum terrarum situm in loco qui dicitur locus geronus positum iuxta flumen obsidi et iuxta flumen oliventis ex alia parte et territorium parasacei, et dicta domus Templi in eodem loco habet optimam massariam et bis scriptam77.

La masseria in questione era posizionata fra i fiumi Olivento e Ofanto in una zona di confine tra Basilicata, Puglia e Campania dove c’erano molte masserie costruite e valorizzate dall’imperatore svevo Federico II. Queste aziende, spesso di produzione mista, costituivano un fiore all’occhiello anche nei primi anni del regno angioino per la fiorente produzione agraria, ma anche per la pastorizia. A Venosa, i Templari possedevano molti beni sia mobili che immobili. Il documento dianzi citato li enumera partitamente: molti terreni coltivabili e vigne ubicati nel vallone sottostante la cittadina, tre case poste nella parrocchia di Santa Barbara, in quella di San Nicola e in quella di San Biagio. Inoltre, all’ordine apparteneva «palatium unum magnum existens in platea Venusii»: molto verosimilmente potrebbe trattarsi dello stesso palazzo che passò fra i possedimenti dei Giovanniti di Venosa quando venne soppresso l’ordine templare e nel quale risiedettero i balì melitensi78.

Notizie estratte da un «Reassunto», cit., f. 89. Houben, Templari e Teutonici, cit., p. 268. 77 Notizie estratte da un «Reassunto», cit., f. 89. 78 Ivi, f. 90. Il documento così tramanda: «In Venusio vineale unum destructum situm in parte Carneti iuxta vineam dopni Guidonia et iuxta vineas monasterii sancte Marie de Montealbo Palatium unum magnum existens in platea Venusii quod fuit dopni Bisancii, et situm est iuxta domus heredis magistri Riccardi fabri. Item domus una alia sita in parrochia Sancte Barbare prope ipsam ecclesiam que domus est iuxta domum Iohannis baccalice. Item casalinum unum situm in eadem terra in parrochia sancte Barbare iuxta ipsam ecclesiam. Item vinee site in territorio eiusdem terre in parte Vallonis sancti Blasii que fuerunt dopni Bisancii et sunt iuxta vineas Leonis Scalensis, iuxta vineas iudicis Iacobi, et ab alia parte iuxta vineas 75 76

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Ma è fuori dubbio che il centro della Basilicata dove fu più vistosa la presenza templare fu Forenza. I Cavalieri del Tempio erano proprietari dell’intero casale di San Martino e di molti altri beni, come ci segnala il manoscritto napoletano79. Il grande interesse di questo documento consiste anche nel fatto che in poche parole ci descrive in maniera particolareggiata la nascita di un nuovo casale. San Martino de pauperibus fu costruito de novo solo dopo l’arrivo nel regno di Carlo I d’Angiò, quindi dopo il 1266 («constructum est de novo post adventum domini regis Caroli quoddam casale de focularibus triginta»). In questo casale, situato extra terram di Forenza, vi era una chiesa dedicata sempre a San Martino, case, un forno, un mulino ad acqua, vigne e terre e contava 30 fuochi. Vi era, inoltre, una masseria ubicata vicino alla chiesa. Anche a Forenza molti erano gli oblati che avevano fatto lasciti alla casa templare, che risultava proprietaria di molte vigne e appezzamenti di terreno di grandi e piccole dimensioni nelle contrade circostanti il casale di San Martino e la stessa Forenza. Considerata la vicinanza geografica fra Palazzo San Gervasio e Forenza, è probabile che il 3 novembre 1306 fossero proprio i cavaVincentii de Nichodemo. Item pecia una terrarum sita in valle de frussa prope flumen, que est iuxta terras episcopii, et ab alia parte duxta terras sancte Trinitatis. Item tertia pars unius domus existentis parrochia sancti Nicolai de hubino que fuit Iohannis cari oblati. Item tercia pars unius vinee sita in parte Riali que fuit eiusdem Iohannis cari, et iuxta vineam Alexandri de pastino. Item domus una alia existens in parrochia sancti Marci sita iuxta domum magistri loco fabii. Item in tenimento eiusdem terre terra una sita in loco vie vallonis iuxta terras Regie Curie ex una parte et ex alia iuxta terras Basilii de Ravello. Item petie due terrarum site in loco farancusi quo sunt iuxta terras Episcopii ex una parte et ex alia iuxta terram ecclesie sancti Sepulchri. Item terra una sita in territorio eiusdem terre in parte ciglani et est iuxta terras Gulini Gullici. Item pecia una de terra sita in parte fluminis iuxta terras sancte Trinitatis ex una parto et ex alia iuxta terras Episcopii Venusii. Petia una alia sita in loco [...] Item terra una alta sita in parte vallonis de flusco iuxta terras episcopii Venusii et iuxta terras archipresbiteratus eiusdem terre». 79 Ibid. Così il documento: «In Florentia ecclesia sancti Martini sita extra terram eamdem et dicitur Sanctus Martinus de pauperibus cum domibus, furno, molendino uno aque, vineis, et terris ipsi ecclesie coniunctis in eodem loco constructum est de novo post adventum domini regis Caroli quoddam casale de focularibus triginta, et dicitur casale sancti Martiri que postea sunt iuxta vineam Guillelmi de fulcone. Item vinea una sita in flumaria iuxta vineam Riccardi de dorabili ex una parte et ex alia iuxta vineam Guillelmi de Venusio. Item vinea una alia quo fuit Nicolai Inglisii de eadem terra ipsi ecclesie oblati. Item domus una alia eiusdem Nicolai oblati. Item vinea una alia quam tenet Iohannes de dyana oblatus et sita est iuxta vineas Thomasii de guarino. Item petia una terre sita in territorio eiusdem terre in loco

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lieri di Forenza a protestare presso il re perché il castellano di San Gervasio, adducendo una scusa, aveva sequestrato molto bestiame di grossa taglia che apparteneva all’ordine80. Troviamo ancora un’altra testimonianza sul casale di San Martino in data 8 gennaio 1306. Da questo documento apprendiamo che a causa della povertà degli abitanti re Carlo II invitava il giustiziere di Basilicata a non vessarli con le tasse. Il casale in quel momento apparteneva ancora ai Cavalieri del Tempio di Salomone, se Carlo II lo precisa in maniera chiara («quod pertinebat ad sacram domum Militie Templi»)81. La presenza templare è attestata anche a Matera82: «hospitale S. Johannis habet grangiam in loco Piczani que fuit Templi», i Cavalieri giovanniti entrarono dunque in possesso di questi beni. Ma nel 1308 l’ordine è ancora presente a Picciano: una pergamena del 24 marzo di quell’anno – sul cui dorso si legge Instrumentum vinealium iuxta terram Thomasii de parise. Item petia una de terra sita in vallone que fuit vinea et est iuxta vineam Guillelmi manasiti. Item terra una alia que fuit iudicis Bernardi sita in plano de meste iuxta terram panis et vini. Item petia una terre que sita est iuxta terram pascasii de nigro. Item petia terre una sita in vallo Martini iuxta terram curie et iuxta terram que fuit Petri de Arpino. Item petia una terra magna que fuit dicti quodam iudicis Bernardi sita in pertinentiis eiusdem terre iuxta ortum panis vini et iuxta terras curie. Item terre multe que site sunt in eadem terra in loco qui dicitur Hantionus et domus Templi habet massariam ibidem. Item terra una sita in loco plani de ausoto sita iuxta viam puplicam. Item petia una de terra que fuit Leonis sita in loco qui dicitur locus de agranfella. Item petia una alla terra sita in valle Fellicle. Item petia una alia terre siri adinori site iuxta criptas Gallardi. Item petia una de terra presbyteri Guillelmi sita in loco qui dicitur locus Gullarensis. Item petia una alia magna de terra sita in valle de Basilicata. Item terre petia una alia sita in loco persualdi que fuit Thomasii de parisio. Item petia una alia de terra de sita iuxta territorium aquebelle que fuit dopne Flaminge. Item ysola una terre sita iuxta terram Hugonis [...] Que fuit ysola donne novelle. Item una ysola de terra que fuit de aytardo, et sita est prope eamdem massariam et dictam ecclesiam et iuxta viam puplicam. Item petia una de terra que fuit iudicis Bernardi sita in valle francisce iuxta terram Thomasii de franisio sive de parisio ex una parte et ex alia iuxta territorium Agerentie. Item domus una sita iuxta domum dopni Iordani de eadem terra quam tenet Magister Benedictus oblatus. Item petia una de terra cum vinea una que fuerunt Guillelmi de Oriente et albamontis et site sunt iuxta vineam Costantini, et ipsam tenet magister Benedictus oblatus». 80 Caggese, Roberto d’Angiò, cit., p. 63. 81 Syllabus membranarum ad Regiae Siciliae archivum pertinentium, Napoli 1824, vol. II/2, p. 140, doc. 6. 82 Cfr. supra, nota 34.

A. Pellettieri   Gli ordini cavallereschi

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de Templeriis captivis assignatis Castellano Castri Baroli – ci informa che a nome della Sede apostolica erano stati arrestati e condotti nel carcere di Barletta, in seguito alla soppressione dell’ordine templare83, sette frati templari fra cui un tale Angelo de Brundusio, «inventum et captum predicto duodecimo die in domo picyani»84. 83 Sui Templari cfr. A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Milano 1997; F. Cardini, La nascita dei Templari. San Bernardo di Chiaravalle e la cavalleria mistica, Rimini 1999. 84 Guerrieri, I Cavalieri Templari, cit., p. 100, doc. 7.

Parte terza URBANISTICA, ARCHITETTURA E ARTI FIGURATIVE

IL TERRITORIO FRA TARDO ANTICO E ALTO MEDIOEVO: LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA di Gioia Bertelli 1. La cristianizzazione delle città La conoscenza sempre più articolata del territorio lucano nella sua connotazione regionale attuale1, affiancata da indagini archeologiche sempre più mirate a recuperare ogni tipo di informazione riveniente dagli stessi scavi, permette di restituire una fisionomia a un’area che per lungo tempo è stata ritenuta, per il periodo che interessa (V-inizi dell’XI secolo), carente di testimonianze2. 1 Per l’estensione della regione nel periodo preso in esame (V-XI secolo) cfr. quanto scritto anche da P. Favia, L’insediamento religioso rurale in Basilicata dal IV all’VIII secolo, in Ph. Pergola (a cura di), Alle origini della parrocchia rurale (IV-VIII sec.). Atti della giornata tematica dei Seminari di archeologia cristiana (École Française de Rome-19 marzo 1998), Città del Vaticano 1999, p. 312 e la relativa nota 1. 2 Negli ultimi anni si è registrata un’attenzione più marcata nei confronti della presenza sul territorio lucano di insediamenti rurali, che conservano testimonianze di attività umana fino al V-VI secolo, permettendo così di restituire una fisionomia meno indefinita a un territorio largamente indagato per i periodi che precedono la sua romanizzazione, ma che per l’antichità e l’alto Medioevo offre ancora ampi spazi di indagine. Ai numerosi interrogativi circa l’occupazione del territorio, il suo sviluppo, la ridotta presenza di aree coltivabili a fronte di una ben maggiore superficie coperta da boschi, dell’esistenza di pochi porti dislocati sul litorale tirrenico e su quello adriatico, della localizzazione di villae e vici di età tardo-romana identificati nella Basilicata interna e di insediamenti sulla costa ionica è stato già fornito un articolato quadro d’insieme in D. Adamesteanu (a cura di), Storia della Basilicata, vol. I, L’Antichità, Roma-Bari 1999, cui si rimanda in generale; in particolare cfr. il contributo di A.M. Small, L’occupazione del territorio in età romana, pp. 559600 e di M. Salvatore, Venosa tra età repubblicana e tardoantico, pp. 600-15; altre interessanti notizie si possono evincere dal recente contributo di H. Di Giuseppe,

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Parte terza. Urbanistica, architettura e arti figurative

Le indagini condotte negli ultimi anni e puntuali riesami del materiale già noto hanno portato all’acquisizione di nuovi elementi circa le origini e la presenza cristiana in area lucana, che a partire dalla fine del V secolo registra l’esistenza di sedi vescovili a Potentia, Venusia, Acheruntia e Grumentum3, sedi per le quali, peraltro, risulta difficile riconoscere i confini di pertinenza; il loro numero ridotto e il loro situarsi, soprattutto, nella zona nord-ovest della regione sembrerebbe non solo evidenziare un’assenza di sedi diocesane per l’area centrale e della costa ionica, ma porterebbe anche a ipotizzare o una dipendenza di questi territori da un centro lontano o l’esistenza di sedi vescovili completamente ignote alla documentazione scritta. Tra le attestazioni più antiche circa l’esistenza di una sede diocesana in area lucana va considerata la testimonianza fornita da una lettera di papa Gelasio del 495-4964 indirizzata al vescovo potentino Erculenzio. In questa, sulla base di una richiesta avanzata da un certo Trigezio di poter costruire una chiesa su un terreno di sua proprietà in un luogo chiamato Sextilianus in onore dell’arcangelo Michele e di san Marco confessore (o Martino), il papa chiarisce al vescovo che se il terreno ricade nel territorio di sua competenza, potrà procedere alla consacrazione dell’edificio, ricordando, però, che Trigezio non avrà più diritti su quanto costruito, che, quindi, sarebbe diventato di proprietà ecclesiastica5. Molto si è discusso sull’esatta ubicazione della chiesa, che con la sua intitolazione all’arcangelo può essere messa in relazione con una diffusione del culto micaelico, attestato sul promontorio del Gargano prima della fine del V secolo. Una chiesa dedicata a Michele risulta attualmente ubicata in una zona decentrata rispetto all’antico nucleo abitato, ma compresa all’interno del circuito urbano più tardo. Nell’edificio, la cui struttura ar-

Insediamenti rurali della Basilicata interna tra la romanizzazione e l’età tardoantica: materiali per una tipologia, in M. Pani (a cura di), Epigrafia e territorio, politica e società. Temi di antichità romane IV, Bari 1996, pp. 210-34. 3 G. Otranto, Italia meridionale e Puglia paleocristiane. Saggi storici, Bari 1991, in particolare p. 82; A. Campione, La Basilicata paleocristiana. Diocesi e culti, «Scavi e ricerche», 13, Bari 2000. 4 A. Thiel, Epistulae Romanorum Pontificum genuinae, vol. I, Ep. 35, New York 1975, p. 449. 5 Per i problemi giuridico-istituzionali e storici agiografici presenti nella lettera cfr. Campione, La Basilicata, cit., pp. 49-50.

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chitettonica odierna è databile tra il XII e il XIII secolo6, a seguito di interventi di restauro e consolidamento sono state recuperate, al di sotto dell’attuale piano di pavimentazione, tracce riferibili a una costruzione precedente: si tratta di alcuni tratti murari identificati nella zona absidale e di parte di un pavimento a tessere musive bianche e verdi, oggi purtroppo non ispezionabili7, di difficile datazione poiché mai pubblicati in modo chiaro. La presenza, però, di un frammento scultoreo relativo a un pilastrino in pietra, inglobato nella muratura perimetrale meridionale all’altezza dell’ingresso secondario della chiesa, porterebbe a riprendere in considerazione quanto attestato nella lettera gelasiana. Il pilastrino, infatti, presenta, sull’unico lato visibile, una serie di cornici rettangolari disposte le une entro le altre, che lo identificano come un manufatto prodotto tra la fine del V e il VI secolo (fig. 1), secondo una tipologia ben documentata in area occidentale e orientale; si tratterebbe, quindi, di un elemento di divisione di uno spazio interno di tipo liturgico, da mettere in relazione con un edificio esistente in questo arco cronologico. All’interno della chiesa altri due frammenti di lastre di plutei scolpiti, di cui uno (fig. 2) simile per i motivi a una lastra inserita nella muratura perimetrale dell’Incompiuta di Venosa e l’altro decorato da cornici che delimitano degli spazi rettangolari a fingere aperture di finestre, separate tra di loro da una esile colonnetta e relativo capitello appena accennato, sembrerebbero testimoniare ulteriormente un momento di vita dell’edificio, oltre che in età paleocristiana, anche nei secoli dell’alto Medioevo. Se pure esso non fosse quello cui si fa riferimento nella lettera 6 Uno dei documenti più antichi sull’esistenza della chiesa di San Michele risale al 1178; in questo si fa riferimento alle chiese di San Michele e della Trinità castri veteris; secondo A. Buccaro (a cura di), Potenza, Napoli 1997, p. 12 il termine latino va riferito solo alla seconda chiesa, il cui territorio è definito in tal modo anche in documenti posteriori. Per la data di edificazione dell’edificio odierno cfr. G. Messina, Storie di carta-storie di pietra, Potenza 1980, p. 60. 7 Messina, Storie di carta, cit., p. 80, nota 42 riporta anche che l’altare maggiore risulta costituito da un rocchio di colonna e da una mensa, quest’ultima rinvenuta nel 1935 al di sotto del pavimento nel corso di alcuni scavi (cfr. Soprintendenza Gallerie-Matera, chiesa di San Michele, Potenza, scheda 24/7); A. Capano, Potenza: note di archeologia, in Id. (a cura di), Beni culturali a Potenza, Soprintendenza archeologica della Basilicata-Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici della Basilicata, Potenza 1989, p. 34 e fig. 31; L. Spera, L’evoluzione del cristianesimo in Basilicata attraverso le recenti acquisizioni archeologiche, in «Studi storici meridionali», 2, 1993, pp. 99-115, in particolare p. 103; Capano, Potenza, cit., p. 7; Favia, L’insediamento religioso, cit., pp. 331-32.

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Fig. 1. Potenza, Chiesa di San Michele: frammento di pilastrino (foto G. Bertelli).

Fig. 2. Potenza, Chiesa di San Michele: lastra (foto G. Bertelli).

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Fig. 3. Potenza, Cattedrale di San Gerardo: mosaico pavimentale (foto G. Ber­telli).

gelasiana, di difficile identificazione dal momento che non sussistono elementi per ubicare la località Sextilianus ricordata nel documento, nondimeno la costruzione originaria di San Michele potrebbe risalire a un periodo collocabile tra la fine del V ed il VI secolo. Ancora a Potenza, la cattedrale settecentesca di San Gerardo, vescovo della città tra il 1111 e il 1119, ha restituito, in occasione di restauri e di interventi di consolidamento realizzati tra gli anni 1968708, al di sotto del piano di calpestio in corrispondenza dell’area presbiteriale, brani di un pavimento musivo e resti di alcune strutture murarie. Il mosaico, di circa 3 mq, presenta motivi decorativi costituiti da rombi attraversati da diagonali, triangoli, motivi a pelte entro elementi circolari e da elementi semilunati allungati; il tutto racchiuso da una cornice composta da file di tessere scure ai bordi e bianche nella fascia centrale (fig. 3). Le tessere, abbastanza regolari, sono di colore grigio scuro, bianco e arancione, ricavate da pietre naturali e da terracotta. La presenza di motivi comuni al repertorio musivo pavimentale di area meridionale, soprattutto di ambito pugliese, di fine

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Messina, Storie di carta, cit., p. 21.

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Parte terza. Urbanistica, architettura e arti figurative

V-VI secolo9 non permette di circoscrivere con precisione la datazione del pavimento potentino, che comunque va riferito a tale ambito cronologico10. Le strutture murarie rinvenute (fig. 4) sono costituite da alcuni filari di conci riferibili a un muro ad andamento semicircolare messo in relazione con un’abside di età paleocristiana, non più ispezionabile, oltre la quale compare un’altra struttura relativa a una fase della fine del XII-inizi XIII secolo che ha interessato l’edificio11, prima del suo ultimo rifacimento. Al di sopra del pavimento musivo, spostata verso ovest, è stata identificata una piccola struttura muraria a forma di esedra, le cui funzioni non sono chiare12. La chiesa è stata messa in collegamento con la presenza di un culto a sant’Oronzo, patrono della città prima di san Gerardo, o Aronzio, martire africano, 9 R. Moreno Cassano, Mosaici paleocristiani di Puglia, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Antiquité», LXXXI, 1, 1976, pp. 277-326; negli ultimi anni in area pugliese sono stati rinvenuti altri pavimenti musivi databili al V-VI secolo nella cattedrale di Bitonto (R. Cassano, I mosaici pavimentali della basilica paleocristiana di Bitonto, in C.S. Fioriello [a cura di], Bitonto e la Puglia tra Tardoantico e Regno Normanno. Atti del Convegno (Bitonto 15-17 ottobre 1998), Bari 1999, pp. 151-69), in uno dei due edifici ecclesiastici rinvenuti in località San Giusto (G. Volpe [a cura di], San Giusto. La villa, le ecclesiae. Primi risultati dagli scavi nel sito rurale di San Giusto (Lucera): 1995-1997, Bari 1998, pp. 149-68), nella cattedrale di Barletta (R. Giuliani, I mosaici del complesso paleocristiano di Barletta, in «Vetera Christianorum», 37, 2001, pp. 157-82), oltre che nella cattedrale di Bari (G. Bertelli, S. Maria que est episcopio. La Cattedrale di Bari dalle origini al 1034, Bari 1994, pp. 43-63). 10 Messina, Storie di carta, cit., pp. 25-26 riteneva il pavimento ascrivibile al periodo tra IV e V secolo; cfr. anche Capano, Potenza, cit., p. 6 che sembrerebbe accettare la datazione alta. 11 Messina, Storie di carta, cit., pp. 21-32; M. Salvatore, scheda su Potenza in P. Testini, G. Cantino Wataghin, L. Pani Ermini, La cattedrale in Italia, in Actes du XI Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève et Aoste, 21-28 sept. 1986), «Collection de l’École Française de Rome», 123, Roma 1989, vol. I, p. 112, ove la studiosa non fornisce datazioni per questa struttura più tarda; Spera, L’evoluzione del cristianesimo, cit., p. 103; Capano, Potenza, cit., pp. 6-7. 12 Cfr. Messina, Storie di carta, cit., pp. 26-27 e anche quanto scritto alla nota seguente. Nelle more della stampa del presente contributo è comparso uno studio di P. Favia, Testimonianze musive e architetture sacre medievali in Basilicata: i casi delle preesistenze della Cattedrale di Potenza e di Sant’Ippolito a Monticchio, in C. Angelelli (a cura di), Atti del X Colloquio dell’Associazione italiana per lo studio e la conservazione del Mosaico (Lecce, 18-21 febbraio 2004), Tivoli 2005, pp. 257-68, in cui lo studioso mette in relazione il frammento musivo con due strutture ad andamento rettilineo poste a sud e a ovest di questo; successivamente venne realizzata, sfruttando il piano mosaicato, una muratura semicircolare rivolta a est, forse in relazione con un sacello.

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Fig. 4. Potenza, Cattedrale: pianta dei rinvenimenti (da G. Messina, Storie di carta - storie di pietra, Potenza 1980).

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la cui venerazione è ricordata dal martirologio geronimiano assieme ai fratelli Onorato, Fortunaziano e Sabiniano13. Certo è che un’analisi più dettagliata delle strutture finora identificate nella città e delle relative testimonianze scultoree potrebbe fornire ulteriori informazioni sulle prime fasi di vita della Potenza di età paleocristiana14. Per Acheruntia, in cui la presenza di un vescovo è attestata alla fine del V secolo15, le testimonianze relative a fasi di vita risalenti alla prima fase cristiana sono molto labili e, per il momento, poco comprensibili. La cattedrale probabilmente doveva occupare l’area su cui sorge quella medievale, all’interno del circuito murario16; quale unica testimonianza di una fase così antica rimangono oggi, inserite nella cortina muraria esterna della zona absidale della costruzione medievale, alcune frammentarie colonnette in marmo, sicuramente da mettere in relazione con una divisione dello spazio interno della chiesa o forse con i sostegni di un ciborio posto a protezione dell’altare. Si tratta di elementi decorati per la parte superiore da una serie di spirali che prendono l’avvio da una piccola fascia poggiata a sua volta su un’alta base liscia (fig. 5). La loro datazione, a mio parere, va ascritta al VI secolo in base ad alcuni confronti con colonnette marmoree presenti in Terrasanta (Nazareth, museo presso la basilica dell’Annunciazione; Betlemme, chiesa della Natività) e con altri esemplari identificati negli ultimi anni in area pugliese (Bari, Barletta, Trani, Canne, Monte Sant’Angelo)17, che con la loro presenza attestano per le regioni 13 Spera, L’evoluzione del cristianesimo, cit., p. 103 sottolinea l’ipoteticità del culto a sant’Aronzio o Oronzo, come pure le funzioni di domus ecclesiae dell’edificio originario. Per Salvatore, scheda su Potenza, cit., p. 112 la struttura identificata poteva essere un sacello. 14 È in corso, diretta da chi scrive, una rilettura delle strutture e degli elementi scultorei finora identificati a Potenza relativi alle prime fasi di vita cristiane. Secondo un’ipotesi formulata da Messina, Storie di carta, cit., p. 27, nel sarcofago tardo-romano che ha accolto in un prosieguo di tempo il corpo di san Gerardo potrebbero aver trovato posto i resti dei tre fratelli martiri. 15 Si tratta di Iustus, cui sono indirizzate alcune lettere di papa Gelasio I (492496) e che fu presente al concilio romano di papa Simmaco del 499; cfr. P.F. Kehr, Italia Pontificia, vol. IX, Samnium-Apulia-Lucania, Berolini 1962, pp. 455-56; cfr. anche Campione, La Basilicata paleocristiana, cit., pp. 81-83. 16 L. Pani Ermini, L’Italia centro-meridionale insulare, in Testini, Cantino Wataghin, Pani Ermini, La cattedrale in Italia, cit., p. 68; P. Belli D’Elia, C. Gelao, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999, p. 70. 17 In anni passati, sulla base della presenza a Ravenna di alcune colonnette spiraliformi con base baccellata impiegate nel ciborio di Sant’Eleucadio, su cui è

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Fig. 5. Acerenza, Cattedrale: colonnetta inserita nella zona absidale (foto G. Bertelli).

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Puglia e Basilicata una produzione di elementi tutti molto simili per decori e misure, quasi «standardizzata», finalizzata, sembrerebbe, a essere impiegata in un preciso manufatto di arredo liturgico mobile. L’esistenza di una sede diocesana a Venusia è testimoniata da due lettere (494-495) di papa Gelasio indirizzate al vescovo Stefano e a Giusto, vescovo di Acerenza18, e dalla presenza del presule venosino ai concili romani del 501 e 502, indetti da papa Simmaco19. Con tale personaggio è stata, ipoteticamente, messa in relazione una iscrizione databile al VI secolo rinvenuta su un frammento marmoreo trovato nell’area del battistero in cui si fa riferimento a un’attività costruttiva in relazione a un «beato episcopo»20; a Stefano viene comunemente riferita la realizzazione del primo complesso episcopale costruito nell’area della SS. Trinità21, area decentrata rispetto all’abitato di età romana, ma interessata ugualmente dalla presenza di una numerosa presente un’iscrizione che ricorda l’arcivescovo Valerio (P. Angiolini Martinelli, Altari, amboni, cibori, cornici, plutei con figure di animali e con intrecci, transenne e frammenti vari, in «Corpus» della scultura paleocristiana, bizantina e altomedievale di Ravenna, Roma 1968, n. 35), datato agli inizi del IX secolo per motivi stilistici, avevo ritenuto che in generale tale produzione potesse essere riconducibile a età alto-medievale; una revisione delle mie precedenti convinzioni, in base anche alle presenze di simili manufatti in Terrasanta databili al VI secolo e di altre colonnette conservate a Ravenna reimpiegate nell’ingresso della chiesa dello Spirito Santo, mi hanno portato a ritenere che, ove non ci siano motivi espliciti per una datazione alto-medievale, vada preferita quella al VI secolo; probabilmente uno studio mirato sulle colonnette del ciborio di Sant’Eleucadio porterebbe a riconsiderarle in maniera diversa: cfr. G. Bertelli, Le diocesi della Puglia centro-settentrionale, in Corpus della scultura altomedievale, vol. XV, Spoleto 2002. Probabilmente suggestionati dalla datazione al IX secolo proposta per il ciborio ravennate sia A. Rusconi, Il ciborio longobardo della Cattedrale di Acerenza, in Atti del II Congresso nazionale di archeologia cristiana (Matera 25-31 maggio 1969), Roma 1971, pp. 423-32 che R. Jurlaro, Di un ciborio del secolo VIII in Bari, in «Archivio storico pugliese», 26, 1973, pp. 22-27 hanno preferito datare le altre simili colonnette a loro note (Canne, Bari, Trani, Acerenza) intorno all’VIII secolo. 18 Kehr, Italia Pontificia, vol. IX, cit., pp. 456-57. 19 Per l’esistenza di un consistente patrimonio fondiario ecclesiastico nel Venosino cfr. Campione, La Basilicata paleocristiana, cit., pp. 66-67. 20 M. Salvatore, Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto 1984, pp. 75-76; cfr. anche la relativa scheda d. 1, in Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale di Venosa, Matera 1991, p. 280. 21 L’intitolazione dell’edificio alla Trinità è probabilmente più tarda rispetto alla prima costruzione; tale dedicazione è attestata con più frequenza in età longobarda; cfr. in tal senso Ead., Venosa: un parco archeologico, cit., p. 76.

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serie di abitazioni anche di tipo artigianale22, di un complesso termale di età tardo-antica, in gran parte in disuso e in stato di abbandono quando avvenne l’occupazione della zona da parte dei cristiani. In relazione a questo momento dovrebbe essere inquadrata la risistemazione di un tratto di strada all’esterno dell’edificio religioso più antico, tratto che giungeva fino all’anfiteatro23 e che sembra essere rimasto in uso ancora per lungo tempo; un altro tratto dell’antico sistema stradale romano era ubicato nei pressi del muro perimetrale occidentale della cattedrale di età alto-medievale e in seguito venne occupato da tombe. La realizzazione del complesso paleocristiano in questa zona, distante dal centro urbano, fu dovuta quasi sicuramente alla presenza di reliquie di martiri, dei quali nel tempo si è persa la memoria24. Il complesso si articola in due edifici: una articolata struttura con scopi battesimali, probabilmente la più antica, di cui rimangono solo le murature a livello di fondazione; risulta ubicata a meridione della seconda, che, pur avendo subito nel tempo alcune trasformazioni, ha conservato quasi intatto il suo aspetto originario. L’edificio più antico negli anni Sessanta del XX secolo è stato oggetto di indagini che, condotte con metodi molto approssimativi, hanno annullato la possibilità di riconoscerne i diversi momenti di vita. Inoltre, i numerosi resti delle strutture murarie messe in luce, privati di ogni possibilità di lettura stratigrafica e pertinenti anche a fasi costruttive precedenti, rendono problematica la ricostruzione dell’edificio. Al triconco con vasca battesimale poligonale posta al centro25 si innestava, secondo le ipotesi più accreditate26, una navata unica (fig. 6), alla quale dovrebbero essere state aggiunte nel tempo le 22 M.L. Marchi, M. Salvatore, Venosa. Forma e urbanistica, «Città antiche in Italia», 5, Roma 1997, p. 143. 23 Sul basolato della strada si sono rinvenuti un orecchino d’argento e una fibula bronzea a cavalluccio, databili tra VI e VII secolo (Salvatore, Venosa: un parco archeologico, cit., p. 71). 24 Cfr. quanto scritto al proposito infra, nota 33. 25 Secondo l’ipotesi formulata in anni passati da F. Schettini, Due monumenti paleocristiani inediti del Vulture e loro riflessi sull’architettura medievale, in «Archivio storico pugliese», 19, 1966, pp. 93-177, in particolare pp. 118-27, il battistero di V-VI secolo doveva essere quadriconco. 26 Salvatore, Venosa: un parco archeologico, cit., pp. 71-76; Ead., La SS. Trinità di Venosa e la cattedrale paleocristiana: recenti scoperte, in Atti del VI Congresso nazionale di archeologia cristiana (Pesaro-Ancona 1983), Pesaro 1985, pp. 825-42; Marchi, Salvatore, Venosa, cit., pp. 145-55.

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Fig. 6. Venosa, area della Trinità: pianta della zona (da L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano [a cura di], Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, 2 voll., Matera 1996).

navate laterali e il deambulatorio, secondo quanto si stava realizzando nell’altra chiesa; lungo la navata centrale venne poi costruita una seconda vasca battesimale di tipo cruciforme in tufi e mattoni (fig. 7), più tarda, secondo una tipologia che trova confronti in altre simili strutture di area campana realizzate tra la seconda metà del VI e il VII

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Fig. 7. Venosa, area della Trinità: la vasca cruciforme (foto G. Bertelli).

secolo, come ad esempio nella vasca cruciforme di Pratola Serra, in quella di Ponte Barizzo e di Aeclanum27. In relazione con questo edificio sono poi alcune strutture con mosaici pavimentali di VI secolo e altri brani più tardi, ma che comunque andarono in disuso, come dimostra la presenza di due tombe che invasero irregolarmente l’area28; altre sepolture all’esterno del triconco, 27 Per Pratola Serra cfr. P. Peduto (a cura di), S. Giovanni a Pratola Serra. Archeologia e storia nel ducato longobardo di Benevento, Salerno 1992, pp. 28-43; per Ponte Barizzo e Mirabella Eclano, che dovrebbero essere databili tra VI e VII secolo, P. Peduto, Insediamenti longobardi del Ducato di Benevento (secc. VI-VIII), in S. Gasparri, P. Cammarosano (a cura di), Langobardia, Udine 1990, pp. 307-73, in particolare p. 346 e ancora A. Felle, Regio II. Hirpini, in Inscriptiones Christianae Italiae Septimo Saeculo antiquiores, vol. VIII, Bari 1993, pp. 76-77; la vasca è datata tra la fine del VI e gli inizi del secolo seguente, anche se viene ventilata una cronologia più tarda. Nella Puglia settentrionale, a Belmonte nei pressi di Altamura, è attestata una vasca battesimale di tipo cruciforme, in cui le terminazioni dei bracci risultano curve, recentemente ascritta al VI secolo (G. Volpe, P. Favia, R. Giuliani, Chiese rurali dell’Apulia tardoantica e altomedievale, in Pergola [a cura di], Alle origini della parrocchia rurale, cit., pp. 285-93). 28 Per il corredo rinvenuto all’interno cfr. M. Salvatore, Le sepolture, in Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale, cit., pp. 285-94, in particolare p. 287.

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verso nord, si addossarono a un muro ad andamento semicircolare, di cui rimane la traccia della fossa di fondazione, forse relativo a un oratorio. Se per l’edificio esaminato molto poche sono le certezze sulla sua icnografia originaria e sulle fasi di vita, dati più attendibili e confortanti sono emersi dalle indagini archeologiche condotte in anni più recenti da Mariarosaria Salvatore per quanto riguarda l’altro edificio, la cosiddetta «chiesa vecchia»29. Al di sotto del transetto dell’edificio odierno sono state identificate alcune tombe, di cui una intesa come luogo di sepoltura di un corpo di un martire, racchiuse in una sorta di recinto; in relazione con questo nucleo è stata messa una piccola vasca, installatasi in un ambiente di una abitazione, che avrebbe svolto funzioni di fonte battesimale, poiché la vasca poligonale della basilica esterna, nel momento in cui si dette inizio alla costruzione del nuovo cantiere relativo alla «chiesa vecchia», doveva essere in disuso30. La chiesa costruita in quest’area si articolava in tre navate divise da pilastri, transetto, un’abside arricchita da otto grandi arcate aperte e un deambulatorio che correva alle sue spalle; la zona presbiteriale prevedeva anche la presenza di una recinzione, una sorta di solea, che occupava lo spazio centrale del transetto e si allungava verso la navata centrale; al di sotto del transetto era poi una piccola cripta a corridoio longitudinale (fig. 8). L’edificio doveva essere provvisto di un nartece e forse un atrio, come farebbe ritenere la presenza di alcune strutture identificate all’esterno del muro di facciata. La pavimentazione interna era composta da un tappeto musivo, realizzato intorno alla seconda metà del VI secolo, secondo quanto indicherebbe anche il ritrovamento al di sotto dello strato preparatorio per la stesura dei mosaici di una moneta di Tiberio I (578-582). L’edificio fu, in età più tarda, sottoposto a una serie di ristrutturazioni che portarono anche all’eliminazione del muro del deambu29 Ead., Venosa: un parco archeologico, cit.; Ead., La SS. Trinità di Venosa, cit., pp. 825-42; Ead., Venosa tra tardoantico e altomedioevo, tra destrutturazione e riorganizzazione urbana, in Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale, cit., pp. 58-63; Ead., Il complesso episcopale della Ss. Trinità: un esempio di stratificazione urbana tra tardoantico e altomedioevo, in Marchi, Salvatore, Venosa, cit., pp. 145-55. 30 Su un muro in relazione con la vasca è stato identificato un cristogramma; in più un coppo è stato utilizzato come canale di adduzione per l’acqua (Ead., Il complesso episcopale, cit., p. 148). Secondo l’opinione di Salvatore, l’utilizzazione della vasca come fonte battesimale va messa in relazione con il periodo in cui fu attivo il cantiere in età alto-medievale.

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Fig. 8. Venosa, Chiesa vecchia: pianta (da Bubbico, Caputo, Maurano [a cura di], Monasteri italogreci, cit.).

latorio e alla conseguente parziale chiusura delle otto arcate che si aprivano sul muro più interno. Altre strutture ascrivibili al periodo tra XI e XII secolo sono state identificate nella zona fra il transetto e le navate, collegate tra di loro da passaggi; nella navata centrale una fossa, con la relativa forma, realizzata per la fusione delle campane. Tali strutture sarebbero indicative di un momento di abbandono dell’edificio, che venne restaurato con il prolungamento della navata centrale verso nord-ovest e la messa in opera di un nuovo pavimento a quota più alta rispetto al precedente; operazioni che per l’XI secolo sono da mettere in relazione con la presenza della famiglia degli Altavilla e in specie con le figure di Drogone, che fece della chiesa dedicata alla Trinità il centro di un potente e ricco complesso monastico, e di Roberto il Guiscardo, che dopo il 1069, quando divenne duca, vi realizzò il luogo deputato ad accogliere le sepolture degli esponenti della sua famiglia31; nel XII secolo, invece, venne abbandonato il progetto relativo alla costruzione della grandiosa chiesa detta 31 I. Herklotz, «Sepulcra» e «Monumenta» del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia, Roma 1985, pp. 49-58.

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l’Incompiuta, che doveva sorgere alle spalle della «chiesa vecchia» o della Trinità e che, una volta terminata, avrebbe previsto l’abbattimento di questa32. L’edificio più antico nella sua prima fase doveva, proprio per la sua particolare articolazione architettonica, rivestire una funzione liturgica di un certo rilievo; la presenza, infatti, lungo il muro absidale di otto grandi arcate e di un deambulatorio alle spalle di queste fa ritenere che nella zona dell’altare dovessero essere custodite reliquie particolarmente venerate, che dovevano attirare un cospicuo numero di pellegrini33; l’inconsueta icnografia permette di avvicinare la «chiesa vecchia» a soluzioni adottate in area campana: si pensi ad esempio alla basilica severiana, poi detta di San Giorgio Maggiore, a Napoli, forse della fine del IV secolo, o a quella di San Giovanni Maggiore, probabilmente realizzata al principio del V secolo, la cui zona absidale presenta quattro grandi arcate aperte; in entrambe le costruzioni le arcate dovevano permettere di accedere a un deambu-

32 Il nuovo grandioso progetto dell’Incompiuta sarebbe stato ideato dall’abate Berengario, normanno, e da Sichelgaita, seconda moglie di Roberto il Guiscardo: cfr. L. De Lachenal, I Normanni e l’antico. Per una ridefinizione dell’abbaziale Incompiuta di Venosa in terra lucana, in «Bollettino d’arte», serie VI, 81, aprile-settembre 1996, pp. 1-80. 33 Non conoscendo l’originaria intitolazione dell’edificio non è possibile ipotizzare in nessun modo una presenza di reliquie. Salvatore, Venosa: un parco archeologico, cit., pp. 75-76, aveva ritenuto che potesse essere dedicata alla Vergine, mentre l’edificio triconco al culto di san Felice, vescovo di Thibiuca, dal momento che gli altri edifici con funzione di cattedrale, che vennero realizzati in età molto più tarda all’interno del nuovo centro abitato, recano ancora l’intitolazione a san Felice, oltre che a sant’Andrea. Solamente in età medievale, probabilmente all’epoca di Roberto il Guiscardo, vennero trasferite da San Marco Argentano nella Trinità le reliquie dei santi Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata, probabilmente martiri mai esistiti: cfr. H. Houben, La «Passio SS. Senatoris, Viatoris, Cassiodori et Dominatae»: un esempio per traduzioni dal greco in latino a Montecassino nel sec. XI, in Id., Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del Mezzogiorno Medioevale, Galatina 1989, pp. 137-57. Al di sotto del piano attuale di pavimentazione della chiesa è stata identificata una sepoltura che dovrebbe potersi riferire a un martire: cfr. Salvatore, Venosa tra tardoantico e altomedioevo, cit., pp. 61-63 e nota 1, in cui la studiosa mette in evidenza come sulla chiusura della tomba, all’altezza del petto dell’inumato, sia stato praticato un foro circolare in corrispondenza del quale si sono rinvenuti frammenti di stoffa, introdotti forse al fine di ottenere reliquie; e in asse con la sepoltura un mattone, «forse un signaculum dinanzi al quale si sono trovate numerose monete di seconda metà età IV-inizi V sec. d.C., interpretabili forse come offerta funeraria»; come ultimo intervento Marchi, Salvatore, Venosa, cit., p. 147.

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Fig. 9. Venosa, Chiesa vecchia, interno: un pulvino (foto G. Bertelli).

latorio retrostante34. La presenza in Lucania di un modello icnografico così particolare sembrerebbe evidenziare stretti rapporti con l’area campana, in specie napoletana, ove queste soluzioni architettoniche parrebbero essere tra le più antiche. All’interno dell’edificio sono ancora in opera due bassi pulvini, posti al di sopra di due capitelli di età romana, posizionati a loro volta sulle colonne ai lati della navata centrale verso il transetto; si tratta di due manufatti decorati sui due lati in vista (fig. 9); il motivo sul lato centrale è costituito da una piccola croce a braccia espanse posta al centro della composizione, dalla cui base si dipartono due grossi racemi ad andamento sinuoso con grosse foglie piatte di tipo cuoriforme; lungo i racemi sono poi disposti piccoli terminali a riccio; l’altro lato visibile ospita invece solo un lungo racemo dalle stesse caratteristiche

34 A. Venditti, Architettura bizantina nell’Italia meridionale. Campania-Calabria-Lucania, Napoli 1967, pp. 487-96; R. Farioli, in A. Prandi (a cura di), Aggiornamento all’opera di E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903, Roma 1978, vol. IV, pp. 189-90; F. Bologna, Momenti della cultura figurativa nella Campania medievale, in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Storia e civiltà della Campania. Il Medioevo, Napoli 1992, pp. 171-275, in particolare p. 180.

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del precedente. Iconograficamente il motivo della croce dalla cui base fuoriescono vegetali è tra i più noti e attestati nel corso del VI secolo; elementi meno ricorrenti sono le terminazioni a riccio che si dispongono con una certa regolarità sui racemi stessi35; una datazione verso la fine del VI secolo per i due pulvini venosini, in accordo anche con quanto evidenziato dalle indagini archeologiche, mi sembra la più attendibile. Ascrivibile ancora verso la fine del VI secolo è un capitello a stampella decorato da una croce conservato nel piccolo antiquarium attiguo alla chiesa. Un discorso a sé riguarda invece la chiesa dell’Incompiuta, non tanto la sua costruzione, che rientra nell’ambito della fine dell’XI secolo36, quanto il problema dell’approvvigionamento dei grossi conci con cui sono stati realizzati i muri perimetrali dell’edificio, molti dei quali recano sulla faccia in vista motivi decorativi tra i più disparati, che sembrerebbero indicare una provenienza da altri edifici sia di età romana sia più tarda. Il problema è già stato messo in rilievo da diversi studiosi37, i quali hanno ritenuto che i pezzi con iscrizioni romane possano provenire dalla zona del Foro o comunque da un’area pubblica, o anche da zone di necropoli. I conci che invece presentano motivi decorativi che possono essere ascritti ad età alto-medievale dovrebbero provenire da un edificio ecclesiastico, di difficile identificazione, che servì come cava per l’approvvigionamento del materiale per la chiesa più tarda38. 35 In area ravennate si ritrovano attestazioni simili: cfr. Angiolini Martinelli, Altari, amboni, cibori, cornici, cit., n. 139 a, b. 36 Cfr. quanto scritto da C. Bozzoni in questo stesso volume; inoltre come ultima pubblicazione De Lachenal, I Normanni e l’antico, cit., pp. 1-80. 37 M. Aberson, M. Tarpin, Les inscriptiones en lettres de bronze en remploi dans l’Eglise inachevée de la Ss. Trinità à Venosa, in Basilicata. L’espansionismo romano nel sud-est d’Italia. Il quadro archeologico. Atti del Convegno (Venosa 1987), Venosa 1990, pp. 51-62; L. Todisco, La scultura romana di Venosa e il suo reimpiego, Roma 1996; De Lachenal, I Normanni e l’antico, cit. 38 Numerosi sono i conci che conservano una decorazione costituita da motivi appartenenti alla produzione scultorea alto-medievale di area occidentale; si tratta di specchiature rettangolari su cui sono realizzate coppie di arcatelle entro cui trovano posto croci arricchite da fiori a sei petali entro dischi; singole arcatelle che ospitano motivi vegetali; quadrati ospitanti rombi e occhielli a ogiva con fogliette negli spazi di risulta; quadrati e cerchi legati ancora da occhielli a ogiva che trovano un preciso corrispondente in una lastra reimpiegata nella chiesa di San Michele a Potenza. Non potendo qui esaminare i singoli motivi, vorrei precisare che ho in preparazione uno studio più analitico sulla produzione scultorea paleocristiana e alto-medievale in Basilicata. Una breve notizia sulla presenza di sculture di VI

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Le più recenti indagini archeologiche avviate sia nella zona prossima al complesso paleocristiano, verso sud-ovest, sia nel centro di Venosa, oltre a rivelare una serie di strutture abitative di età romana, hanno permesso di riconoscere fasi di vita di età tardo-antica e alto-medievale, caratterizzate da vari livelli d’uso e dalla presenza anche di ambienti adibiti a officine artigianali39. Sulla vicina collina della Maddalena, a circa 1,5 km verso nordnord-est da Venosa, si situano alcuni ipogei cristiani, variamente articolati, che hanno restituito testimonianze di una frequentazione cristiana tra IV e VI secolo (lucerne, graffiti, epigrafi, tra cui una databile al 503)40. L’ultima sede diocesana nota dalla documentazione scritta è quella di Grumentum; da uno scritto di papa Pelagio veniamo a conoscere l’esistenza di un vescovo di nome Tulliano41 e nel 599 papa Gregorio Magno ricorda un certo «Salustium [...] servum ecclesiae s. Mariae, in parochia Grumentina sitae»42. In altri documenti ancora dell’epoca di papa Gelasio43 Grumentum non compare mai citata come sede vescovile, ma affidata ad arcidiaconi, diaconi o clerici che sembrano fare riferimento al vescovo di Marcellianum (Consilinum). secolo e di età alto-medievale rintracciate a Marsiconuovo, Irsina e Matera è in G. Bertelli, Per un corpus della scultura paleocristiana e altomedievale in Basilicata, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, Le architetture, Matera 1996, pp. 224-25. Ad Acerenza un riesame dell’apparato scultoreo inserito nel portale della cattedrale ha portato all’individuazione di materiale reimpiegato (L. Derosa, La chiesa medievale. Il portale, in Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit., pp. 139-41). Nella muratura esterna della chiesa di Santa Maria in Olivola a Tolve è reimpiegato un concio su cui compare, a bassorilievo, una piccola croce a estremità espanse, inserita in un elemento circolare, di età alto-medievale (P. Rescio, Le chiese medievali di Trivigno e Tolve: S. Leone e S. Maria degli Ulivi, in «Basilicata Regione. Notizie», XXV, 97, 2000, fig. a p. 78). 39 Per le fasi di vita di Venosa, anche le più tarde, cfr. Marchi, Salvatore, Venosa, cit., pp. 99-111. 40 C. Colafemmina, Apulia cristiana. Venosa. Studi e scoperte, Bari 1973; Id., Iscrizioni paleocristiane di Venosa, in «Vetera Christianorum», 13, 1976, pp. 14965. 41 P. Jaffé, Regesta Pontificum Romanorum, vol. I, Lipsiae 1885 (rist. 1956), n. 1015; F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), «Studi e testi», 35, Faenza 1927, vol. I, pp. 324-25. 42 Jaffé, Regesta, cit., n. 1737. 43 Ivi, nn. 678, 727, 728, 1017.

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Alla figura del martire Laverio è legato l’inizio del cristianesimo nel piccolo centro lucano; di costui possediamo una passio redatta per le parti più antiche nel 1162 da Roberto di Romana, diacono di Saponara, la collina su cui sorge oggi la nuova Grumento, probabilmente frequentata già in età romana. Dalla lettura del documento44 apprendiamo che Laverio fu martirizzato all’epoca di Costantino, prima che questi si convertisse, e che fu sepolto a Grumento in un luogo ove fu poi costruita una chiesa a lui dedicata. L’edificio nella seconda metà del X secolo venne ristrutturato da san Luca di Armento in forme più ridotte, come ci attesta anche la traduzione latina della vita greca del santo, abate fondatore del monastero italo-greco di Carbone45. Purtroppo della presenza di un edificio dedicato a Laverio Grumentum non conserva alcuna testimonianza archeologica, carenza dovuta probabilmente al fatto che sono state indagate finora solo alcune zone dell’insediamento frequentate in età romana; i risultati di tali indagini hanno evidenziato che i principali edifici non sono stati riutilizzati nel tempo con funzioni diverse da quelle originarie e che le ultime fasi di vita del centro, particolarmente attivo tra l’età imperiale e gli inizi del V secolo46, sono da collocare proprio entro la metà del V secolo, come conferma la diminuzione dei materiali ceramici rinvenibili in loco a partire proprio da tale data. La particolare importanza dell’abitato in età romana è legata alla sua posizione geografica, al centro di un incrocio di strade pubbliche che lo mettevano in comunicazione con Potentia e Venusia verso nord e con Taranto verso sud-est47. Se la raccolta sul terreno di materiali ha rilevato una diminuzione sostenuta della presenza umana nel luogo dell’insediamento romano, l’individuazione di una necropoli nei pressi dei ruderi del piccolo edificio dedicato a san Marco, all’esterno 44 F. Ughelli, Italia Sacra, vol. VII, Venetiis 1721, cc. 493-96; per la figura di san Laverio cfr. anche A. De Monte, S. Laverio martire. Sul nome e culto del santo patrono di Laurignano. Saggio storico-critico, Mottola 1988. 45 Acta Sanctorum Octobris, VI, Parisiis et Romae 1868, p. 341 nella vita di san Luca; Ughelli, Italia Sacra, cit., c. 495 nella vita di san Laverio. 46 L. Giardino, Grumentum e Metaponto: due esempi di passaggio dal tardoantico all’alto medioevo in Basilicata, in La Calabre de la fin de l’Antiquité au Moyen Age, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Age», 103, 1991, pp. 82758, in particolare pp. 827-37; la studiosa ritiene che l’abbandono definitivo dei monumenti romani sia da mettere in relazione con un avvenimento traumatico e improvviso. 47 Ivi, p. 828 e la bibliografia citata alla nota 3.

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dell’area urbana, databile al VI secolo48, sembra invece attestare ancora una frequentazione del luogo, sebbene con modalità diverse. Si tratterebbe di un’area cimiteriale da mettere in relazione con una piccola comunità dislocata sul territorio, secondo «modelli aggregativi che segnano una netta frattura con il periodo precedente»49 (fig. 10). Le tombe si insediano all’interno della necropoli meridionale della città romana e sono in relazione con il muro di facciata della chiesa di San Marco, questa ancora non indagata archeologicamente. Le sepolture presentano caratteristiche costruttive differenti: alcune erano a forma di cassone costruite con blocchi di pietra di riutilizzo di età romana, anche lavorati, con una o più deposizioni; altre del tipo a cappuccina; altre ancora, coperte da tegoloni messi di piatto e legati con malta, prevedevano la realizzazione di fosse che venivano foderate e divise internamente da muretti per ospitare più inumati. I pochi corredi rinvenuti hanno restituito ceramica dalle forme consuete e ricorrenti in Basilicata e Puglia tra il VI e VII secolo50, e altri vari oggetti51; ma l’elemento più interessante, proveniente dalla tomba F, è costituito da una moneta d’argento dell’imperatore Eraclio (610-641), che fornisce 48 P. Bottini, Nuove ricerche nelle necropoli di Grumentum. Parte I. L’area cimiteriale di S. Marco, in «Bollettino storico della Basilicata», 6, 1990, pp. 64-97; Ead., L’altomedioevo nell’area grumentina: il cimitero di S. Marco, in La Calabre, cit., pp. 859-64; Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale dell’Alta Val d’Agri, Lavello 1997, pp. 327-35. 49 Giardino, Grumentum e Metaponto, cit., p. 833. 50 Si tratta generalmente di brocchette anche dipinte in rosso e bruno, di anfore a pareti costolate e piccole olle monoansate acrome che a volte possono presentare una decorazione incisa: cfr. per una prima generale analisi di tali manufatti F. D’Andria, Osservazioni sulle ceramiche in Puglia tra tardoantico e altomedioevo, in «Annali della Scuola normale superiore di Pisa, Classe di Lettere e filosofia», serie III, VII, 1, 1977, pp. 75-89; M. Salvatore, La ceramica altomedievale nell’Italia meridionale: stato e prospettive della ricerca, in «Archeologia medievale», IX, 1982, pp. 47-66; Ead., La ceramica tardoromana e altomedievale in Basilicata alla luce delle recenti scoperte, in M. Gualtieri, M. Salvatore, A.M. Small, Lo scavo di S. Giovanni di Ruoti e il periodo tardo-antico in Basilicata. Atti della Tavola rotonda (Roma 4 luglio 1981), Bari 1983, pp. 111-22; per le ultime osservazioni su materiali ceramici provenienti da San Giovanni di Ruoti cfr. Small, L’occupazione del territorio, cit., in particolare pp. 593-97; per altri rinvenuti nella piccola necropoli di San Marco a Grumentum Bottini, L’altomedioevo nell’area grumentina, cit., pp. 859-64 e Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico dell’Alta Val d’Agri, cit. 51 Tra gli oggetti rinvenuti si segnalano pettini in osso, due fibule in bronzo ad anello terminante in volutine, un coltello in ferro, un’armilla in ferro, un anello d’argento con una corniola incisa con Bellerofonte e Pegaso: cfr. Bottini, L’altomedioevo nell’area grumentina, cit., pp. 861-63.

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Fig. 10. Grumentum, Chiesa di San Marco: pianta (da P. Favia, L’insediamento religioso rurale in Basilicata dal IV all’VIII secolo, in Ph. Pergola [a cura di], Alle origini della parrocchia rurale (IV-VIII sec.). Atti della giornata tematica dei Seminari di archeologia cristiana (École Française de Rome - 19 marzo 1998), Città del Vaticano 1999).

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Fig. 11. Grumentum, Museo archeologico: un capitello (da P. Bottini, Il Museo Archeologico Nazionale dell’Alta Val d’Agri, Lavello 1997).

così un termine cronologico per l’esistenza della necropoli. La chiesa, lunga circa 20 m e larga 14, è a tre navate, probabilmente divise da pilastri, con abside a ovest; le strutture murarie sono realizzate con materiale litico di diverse dimensioni misto a blocchi più regolari, rivenienti dalla città romana; l’interno, non indagato, conserva tracce di una divisione52; all’esterno del muro di facciata sono stati individuati due setti murari in attacco con i muri perimetrali, forse un nartece, nel cui spazio hanno trovato posto le sepolture sopra ricordate. Dall’area su cui sorge l’edificio provengono tre bassi capitelli in pietra calcarea (fig. 11), molto particolari, realizzati riutilizzando lastre funerarie ascrivibili al I secolo d.C.53, decorati tutti allo stesso modo. Più o meno delle stesse dimensioni (70 x 70 x 24 cm), i tre esemplari, inediti, risultano poco sviluppati in altezza e con abaco rettilineo; presentano motivi simili sui lati opposti: una semplice e liscia croce di tipo latino posizionata al centro di due lati; un motivo vegetale trifido affiancato da due lunghi e piatti caulicoli terminanti in volute arricciate sugli altri 52 Cfr. la pianta pubblicata in Ead., Nuove ricerche nella necropoli, cit., figg. 2 e 3 e Ead., L’altomedioevo nell’area grumentina, cit., fig. 2. 53 Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico dell’Alta Val d’Agri, cit., p. 287.

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due lati. Il tipo di decorazione, molto semplificato, privo di elementi particolarmente caratterizzanti, si apparenta in modo abbastanza stretto a quello presente su un capitello-imposta rinvenuto negli scavi di San Giovanni di Ruoti, proveniente da un edificio pubblico e datato alla fine del V secolo54, confermando quindi una datazione anche per questi tre elementi in tale ambito cronologico. Ancora da Grumentum, secondo un’ipotesi formulata da Lucrezia Spera55, potrebbe provenire il frammento di lastra scolpita inserita nella muratura esterna della chiesa di San Gianuario a Marsiconuovo (fig. 12), databile entro la seconda metà del V secolo56, dal momento che, secondo quanto attestato dalla lettura della passio di san Laverio, già ricordata57, la città sarebbe stata distrutta dai Saraceni nel IX secolo e abbandonata definitivamente sotto Leone VIII nel 963-964; di conseguenza, la sede vescovile sarebbe passata a Marsiconuovo nel corso dell’XI secolo58. Nei pressi dell’altro edificio noto come chiesa di Santa Maria Assunta, sorto in prossimità dell’anfiteatro romano, è stato identificato un altro gruppo di sepolture prive di corredo, ritenute di età medievale, attestatesi sullo strato di abbandono che ha interessato la strada basolata di età romana. L’edificio non è stato indagato, ma probabilmente fu utilizzato come centro di culto fino al XIII-XIV secolo, data cui sembra potersi ascrivere un frammento di affresco rinvenuto nell’abside centrale con un volto di una santa.

54 A.M. Small, in Gualtieri, Salvatore, Small, Lo scavo di S. Giovanni di Ruoti, cit., pp. 21-37, in particolare pp. 30-32; A.M. Small, R.J. Buck, The Excavations of San Giovanni di Ruoti, vol. I, The Villas and Their Environment, Toronto 1994, pp. 217-18 e 416-17. 55 Spera, L’evoluzione del cristianesimo, cit., pp. 99-115, in particolare p. 109. 56 La lastra, spezzata inferiormente, presenta entro una cornicetta rettangolare un clipeo formato da una corona fogliata, entro cui trova posto il monogramma cristologico a otto bracci; ai lati del clipeo compaiono due sottili racemi; il pezzo trova confronti con la produzione scultorea di V-VI secolo di area ravennate; nel paramento murario dell’edificio è inserito ancora un concio su cui è realizzata una stilizzata figura umana, probabilmente di età alto-medievale: cfr. Bertelli, Per un corpus, cit., p. 224. 57Cfr. supra, nota 44. 58 Sul trasferimento della sede cfr. P.F. Kehr, Italia Pontificia, vol. VIII, Regnum Normannorum-Campania, Berolini 1935, pp. 373-75; tale datazione è basata sulla tradizione locale: cfr. Bottini, L’altomedioevo nell’area grumentina, cit., p. 861 e Favia, L’insediamento religioso rurale, cit., pp. 326-29, con le relative note.

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Fig. 12. Marsiconuovo, Chiesa di San Gianuario: lastra (foto G. Bertelli).

La scomparsa del centro abitato, o la sua trasformazione in piccoli nuclei sparsi sul territorio, nel corso del VI secolo viene confermata anche dalle fonti documentarie richiamate in precedenza, dalle quali si evidenzia che all’epoca di papa Gelasio e poi di papa Gregorio il centro era affidato a ecclesiastici che dovevano fare riferimento al vescovo di Marcellianum-Consilinum. Un caso a parte è quello che riguarda il centro di Metapontum, sulla costa ionica, per il quale non è attestata alcuna documentazione scritta per il periodo tardo-antico e alto-medievale e che, forse, non dovette essere sede vescovile, sebbene la presenza di un complesso religioso articolato in chiesa e battistero possa in qualche modo inficiare tale asserzione. Nel castrum della città dal III secolo a.C. ebbe sede il nucleo principale dell’insediamento a seguito di un notevole restringimento dell’antico abitato e di un suo spostamento verso la

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linea di costa59; esso continuò a vivere fino alla metà del VI secolo circa60, interessando anche un’area molto prossima, la cosiddetta zona Mele, in cui sono state identificate strutture relative a magazzini, da mettere in relazione con il porto di età tardo-antica della città61, non ancora individuato con certezza sul terreno. Nel corso di alcune campagne di scavo in quest’area si sono rinvenute strutture di tipo abitativo, relative a edifici pubblici (fontana e impianto termale) e materiali ceramici che ne attestano la frequentazione nel periodo tardo-antico e un complesso cultuale composto da una basilica e da un battistero annesso62. La prima, molto mal conservata, misura 26 x 12 m ed è stata realizzata sfruttando in parte le strutture della stoà ellenistica per il muro settentrionale e orientale della zona presbiteriale; ha forma quadrangolare e risulta priva di abside (fig. 13); lo spazio interno è diviso in tre navate, di dimensioni irregolari, tramite quattro pilastri; le murature sono realizzate in conci squadrati di tufo calcareo messi in opera a secco, seguendo quindi il modo di costruire impiegato nel centro urbano fin dalla sua origine. La zona presbiteriale risultava leggermente rialzata rispetto al piano di calpestio della navata e doveva essere rivestita da una pavimentazione in cocciope59 Per le vicende urbane di Metaponto in periodo tardo-antico Giardino, Grumentum e Metaponto, cit., pp. 837-58; Ead., Porti e approdi antichi in Basilicata, in M.L. Nava (a cura di), Archeologia dell’acqua in Basilicata, Potenza 1999, pp. 175-87. 60 Le vicende relative all’insediamento di età tardo-antica videro un momento di vita molto attiva del castrum fra il IV e il VI secolo, seguito da una crisi che determinò il definitivo abbandono del centro, con la realizzazione di nuclei abitativi sparsi sul territorio e la creazione, in età più tarda, documentata da carte di età normanna, di un nuovo centro sotto il nome di Castrum Sanctae Trinitatis e poi di Torre di Mare; per le vicende relative a questo insediamento cfr. G. Bertelli, D. Roubis (a cura di), Torre di Mare. I. Ricerche archeologiche nell’insediamento medievale di Metaponto (1995-1999), in Siris 2. Studi e ricerche della Scuola di specializzazione in archeologia di Matera (1999-2000), Bari 2002. 61 Giardino, Grumentum e Metaponto, cit., pp. 852-57; Ead., Porti e approdi antichi in Basilicata, cit., pp. 175-87. 62 Nel 1978 alcuni scavi intrapresi da Elena Lattanzi avevano portato all’individuazione, a nord della basilica identificata in seguito, di resti di strutture messe in relazione con un edificio di tipo cultuale, dal momento che lungo il muro perimetrale orientale si disponevano due tombe con questo in relazione; una ha restituito un corredo costituito da pochi oggetti (tra cui una fibula bronzea a cavalluccio e un’armilla in argento) databili tra VI e VII secolo; in quest’area si rinvenne anche un frammento di transenna ed «embrici di tipo bizantino» (E. Lattanzi, Un complesso di edifici paleocristiani a Metaponto, in Gualtieri, Salvatore, Small, Lo scavo di San Giovanni di Ruoti, cit., pp. 11-19, in particolare pp. 15-19).

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Fig. 13. Metaponto, castrum romano: pianta dei rinvenimenti (da L. Giardino, Grumentum e Metaponto: due esempi di passaggio dal tardoantico all’alto Medioevo in Basilicata, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Age», 103, 1991).

sto. La mancanza dell’abside, la cui presenza secondo Elena Lattanzi era invece leggibile a livello di fondazione63, fa accostare l’edificio a soluzioni presenti in area alto-adriatica, ma anche in area pugliese. Ad esempio in località Belmonte, nei pressi di Altamura, centro al confine con la Basilicata, è documentata la presenza di un edificio basilicale forse privo di abside, affiancato da un battistero con vasca cruciforme, ultimamente datato nell’ambito del V-VI secolo anche in base alle evidenze stratigrafiche64. Secondo un’ipotesi formulata da Liliana Giardino65, l’edificio dovrebbe risalire a un momento anteriore alla metà del IV secolo, in base ad alcuni elementi che indirettamente permettono di formulare una cronologia: il primo è costituito dal rinvenimento di un miliarium iscritto di Giuliano l’Apostata (361-363) in una fossa scavata tra il battistero e il muro meridionale della basilica stessa, che potrebbe Ivi, p. 15. D. Ciminale, P. Favia, R. Giuliani, Nuove ricerche archeologiche nell’insediamento altomedievale di Belmonte (Altamura), in «Taras», XIV, 2, 1994, pp. 339-440; G. Volpe, P. Favia, R. Giuliani, Chiese rurali dell’Apulia tardoantica e altomedievale, in Pergola (a cura di), Alle origini della parrocchia rurale, cit., pp. 286-93. 65 Giardino, Grumentum e Metapontum, cit., p. 844. 63 64

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essere messo in relazione con la distruzione di un piccolo monumento celebrativo collocato all’interno della chiesa. Il secondo elemento, a mio parere più probante, è costituito dal fatto che l’area della navata settentrionale e quella del presbiterio vengono occupate da piccoli ambienti ad uso privato e pubblico, abbandonati in seguito a causa di un incendio sopravvenuto nel corso dell’ultimo quarto del V secolo; da tali zone provengono anfore commerciali di un tipo diffuso nel V secolo, oltre che ceramica dipinta, a conferma di quanto proposto66. Sul lato meridionale della basilica è ubicato il battistero a pianta quadrangolare, le cui strutture sono poco leggibili, con vasca di tipo circolare esternamente e quadrilobata internamente (fig. 14). L’edificio, che presenta almeno due fasi di frequentazione, è stato ritenuto già in uso nel corso della seconda metà del IV secolo67, in base al rinvenimento, tra i due livelli di pavimentazione individuati, di una moneta in bronzo di Valentiniano II (morto nel 392), e abbandonato nell’ultimo quarto del V secolo, in relazione alle ultime fasi di vita della vicina basilica. La vasca battesimale ha subito alcune trasformazioni che hanno portato al restringimento interno dei quattro lobi, fenomeno attestato con frequenza sia in Occidente sia in Oriente e messo in relazione con il cambiamento del rito del battesimo da immersione ad aspersione. Ma anche per i casi più noti risulta molto arduo proporre una cronologia precisa per tale trasformazione. Il tipo di conca quadrilobata, con profilo circolare esterno, è presente in alcuni edifici battesimali di V e VI secolo; per l’Italia nel battistero di San Giovanni di Nurachi in Sardegna e in quello identificato a San Giusto presso Lucera68. Pur nella mancanza di prove certe, anche per il battistero di Metaponto, proprio per le caratteristiche insite nella scelta della tipologia della vasca, mi sembra possa essere avanzata una datazione meno alta, da Ivi, pp. 844-46. Ivi, p. 851. 68 Per un esame delle diverse tipologie delle conche battesimali cfr. S. Ristow, Frühchristliche Baptisterien, in «Jahrbuch für Antike und Christentum», 27, 1998 e in precedenza A. Khatchatrian, Les baptistères paléochrétiens, Paris 1962, e, ancora, dello stesso autore, Origine et typologie des baptistères paléochrétiens, Mulhouse 1982; in particolare per il caso di Metaponto cfr. le considerazioni di G. Sorrenti, Battisteri paleocristiani della Basilicata: il caso di Metaponto, in L’edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi. Atti dell’VIII Congresso nazionale di archeologia cristiana (Genova, Sarzana, Albenga, Finale Ligure, Ventimiglia, 21-26 settembre 1998), Bordighera-Firenze 2001, pp. 1131-48. 66 67

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Fig. 14. Metaponto, castrum romano: vasca battesimale (foto G. Bertelli).

collocare tra la seconda metà del V e il VI secolo; nell’edificio andrebbero dunque viste diverse fasi di vita: una più antica, attestata dalla prima pavimentazione in pietre calcaree attorno alla vasca; una seconda – e forse la moneta di Valentiniano II può anche non essere presa come principale elemento datante, poiché la sua presenza potrebbe essere messa in relazione con una situazione creatasi in modo accidentale (terra di riporto, rinvenimento casuale di monete preesistenti, situazione ancora oggi verificabile), dato il vasto arco cronologico di vita dell’intero insediamento di Metaponto – da collocare nel corso del V secolo, cui apparterrebbe la vasca; infine una terza fase, cui vanno riferite le modifiche attuate a quest’ultima con il restringimento dei quattro lobi. Il battistero andrebbe, perciò, messo in relazione per le ultime fasi, una volta abbandonato il vicinissimo edificio ecclesiastico nel corso dell’ultimo quarto del V secolo, con un’altra struttura ancora non rintracciata sul terreno, ma che non doveva essere poi molto distante. Dalle tre sepolture identificate nei pressi delle strutture messe in luce da Elena Lattanzi69, in cui si era riconosciuta la primitiva chiesa, provengono manufatti relativi a corredi funerari databili tra la secon69

Lattanzi, Un complesso di edifici paleocristiani, cit.

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da metà del VI e il VII secolo; tra questi una fibula a forma di cavallino, da riferire a una produzione autoctona, e una coppia di orecchini d’argento del tipo a cestello70. Le recenti indagini archeologiche avviate nella zona Mele, più spostata verso la linea di costa e nelle immediate vicinanze dell’antica foce del fiume Basento, hanno permesso di riconoscere ancora una serie di ambienti a pianta rettangolare con apertura sul lato occidentale, divisioni interne e tettoie esterne che devono aver svolto funzioni di magazzini, dato anche il rinvenimento al loro interno di anfore commerciali di produzione nord-africana e cipriota; tra questi un ambiente aveva destinazione a ufficio, come attestano i manufatti lì rinvenuti: una bilancina, strumenti in bronzo, forse stili, un sigillo in piombo. Tutta l’area venne interessata alla fine del V secolo da un violento incendio, che non impedì, però, la ricostruzione degli ambienti, ancora in uso nel corso della prima metà del VI secolo; la loro funzione è stata messa in relazione con l’esistenza di una struttura portuale riconosciuta in una zona retrodunale tra il castrum e la linea di costa71. Si può, quindi, sulla base delle risultanze archeologiche, ritenere che Metaponto abbia subito uno spostamento o allargamento dell’abitato verso est nel corso del IV secolo, con la realizzazione di edifici e di un tracciato viario che conservavano l’orientamento di quelli della città greca; abitazioni private e strutture pubbliche erano presenti nel castrum, mentre sulla fascia costiera vennero realizzati magazzini; alla fine del IV secolo l’intera area fu interessata da un evento traumatico, un incendio, e la ricostruzione che ne seguì testimonia uno scadimento del tenore di vita che culminò con l’abbandono del sito, messo in relazione con gli effetti della guerra greco-gotica. Le tracce di frequentazione dell’area urbana di Metaponto non sembrano spingersi oltre il VI-VII secolo; dove, dunque, si trasferirono gli abitanti, prima della loro ricomparsa nel vicino insediamento di Torre di Mare? Le indagini archeologiche avviate in questo sito non hanno dato risultati che vadano più indietro del XIII secolo, anche se le fonti scritte ne attestano l’esistenza già in età normanna72; forse 70 Per la fibula dalla tomba 2 ivi, p. 18; per gli oggetti dalla tomba 3 Giardino, Grumentum e Metaponto, cit., p. 851; in generale per gli orecchini a cestello E. Possenti, Gli orecchini a cestello altomedievali in Italia, Firenze 1994, in particolare n. 75. 71 Giardino, Grumentum e Metapontum, cit., p. 854; Giardino, Porti e approdi antichi, cit., p. 185. 72 Bertelli, Roubis (a cura di), Torre di Mare, cit.

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tracce di un abitato potrebbero essere rintracciate nell’area in cui nel XVIII e XIX secolo era ubicato il lago di Santa Pelagina73, formatosi quasi alla foce dell’antico percorso del fiume Basento, deviato nel corso della metà del XIII secolo a causa di un’alluvione; in questa zona Michele Lacava alla fine del XIX secolo individuò alcune strutture, ipoteticamente messe in relazione con un piccolo edificio di culto74; molto probabilmente nell’area, non ancora sottoposta a indagini archeologiche, potrebbero esservi ancora tracce di una frequentazione di età alto-medievale75, come sembrano far ritenere alcune ricognizioni di superficie effettuate recentemente. Un piccolo edificio religioso più tardo è stato invece rinvenuto da Mariarosaria Salvatore nel corso di un intervento di emergenza nei pressi dell’insediamento attuale di Torre di Mare76, attorniato da una serie numerosa di sepolture; i dati 73 Dalle ultime e recentissime ricerche intraprese nel sito è emerso che il lago in età tardo-antica, alto e basso-medievale non è mai esistito; nei documenti, a iniziare dalla fine dell’XI secolo, pur descrivendosi l’esistenza di un porto e di una salina sul litorale in relazione all’insediamento di Santa Trinità e poi di Torre di Mare, non si fa mai cenno alla presenza di un lago. Resti di strutture messe in relazione con un edificio furono individuati da Michele Lacava alla fine del XIX secolo, Topografia e storia di Metaponto, Napoli 1891 (rist. Matera 1973); secondo lo studioso non si doveva trattare di un edificio di culto cristiano, nonostante alcuni indizi relativi all’icnografia originaria e la presenza di alcune sepolture con un modesto corredo potessero anche giocare in favore di tale interpretazione; alle conoscenze attuali, infatti, tutto l’insieme risulta compatibile con tale identificazione; si tratterebbe perciò di una testimonianza molto antica, risalente al VI-VII secolo, dell’esistenza di un piccolo centro cultuale del tutto anonimo. L’identificazione del sito con una chiesa intitolata a santa Pelagina proposta da Favia, L’insediamento religioso rurale, cit., pp. 330-31 è quindi da considerarsi puramente indicativa. L’edificio, secondo lo studioso, forse sopravvalutando in qualche modo il ruolo, dovette aver «svolto una importante funzione liturgica e pastorale nel conseguente processo di rimodellamento del popolamento, in forme rurali parcellizzate e disperse, nel fondovalle del Basento e del Bradano». 74 Lacava, Topografia e storia, cit.; all’interno degli ambienti che costituivano l’edificio (di cui si identificò la presenza di due vani longitudinali e di un emiciclo absidale verso est, che per Lacava non dovevano appartenere a un edificio religioso) si rinvennero alcune tombe che probabilmente, in base alla descrizione fattane, dovrebbero appartenere a età alto-medievale. 75 La Scuola di specializzazione in archeologia di Matera ha in corso una serie di ricognizioni di superficie dell’area tra le foci del fiume Bradano e Basento avviate proprio a tale fine. 76 M. Salvatore, Lo scavo del 1982, in Bertelli, Roubis (a cura di), Torre di Mare, cit; dallo scavo provengono alcune formelle in terracotta molto rozze, decorate con motivi vegetali, animali e antropomorfi, probabilmente da ascrivere al XII secolo.

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di scavo hanno permesso di identificare due momenti di vita del complesso, di cui il più antico dovrebbe risalire al XII secolo. Ma la storia che riguarda il periodo tardo-antico e alto-medievale di Metaponto, con gli spostamenti dell’abitato, di dimensioni molto ridotte, in relazione anche ai percorsi dei fiumi Bradano e Basento è, a mio parere, ancora in gran parte da scrivere; le tracce, se pure labili, dell’esistenza di diversi piccoli nuclei demici sparsi lungo la costa sono evidenti e lasciano supporre una continuità di vita nella zona, se pure molto parcellizzata e frammentata. 2. Gli insediamenti monastici: Santa Maria di Banzi, Sant’Ippolito a Monticchio, Sant’Angelo a San Chirico Raparo In un territorio come quello lucano, caratterizzato nei secoli passati dall’esistenza di vaste zone boschive e impervie, sono attestati per il periodo alto-medievale rari insediamenti di tipo monastico, legati a una presenza benedettina o anche a monaci di origine italo-greca, insediatisi in luoghi apparentemente isolati rispetto ai principali percorsi stradali o in zone legate a culti, come quello micaelico, che prevedevano l’occupazione di siti posti su alture o in grotte. Ben poco sappiamo delle origini dell’abbazia di Santa Maria di Banzi; i documenti più antichi ne attestano l’esistenza a partire dal 797-798, quando, per volontà di Grimoaldo III77, il monastero divenne dipendente dal cenobio benedettino di Montecassino, situazione modificatasi in seguito solo dopo l’occupazione normanna del territorio. I lavori di risistemazione e ristrutturazione del complesso, effettuati in anni recenti a seguito del sisma del 1980, uniti a indagini archeologiche avviate all’interno dell’edificio ecclesiastico, hanno

77 L’autenticità del documento non è accettata in modo unanime; cfr. come ultimo intervento C.D. Fonseca, Introduzione, in D. Pannelli, Le memorie bantine. Le memorie del monastero bantino o sia della Badia di Santa Maria in Banzia, ora Banzi: pubblicate d’ordine del Cardinale di Sant’Eusebio abate commendatario di essa Badia, a cura di P. De Leo, Banzi 1995, in particolare per il documento ricordato a p. vii, nota 57; in precedenza cfr. anche G. Bronzino, Fonti Bantine (secc. VIII-XIII), in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», I, 1, 1980, pp. 7-17, che fornisce un quadro delle posizioni assunte dalla critica circa l’autenticità delle carte di Banzi.

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Fig. 15. Banzi, Santa Maria: pianta dei rinvenimenti (da Bubbico, Caputo, Maurano [a cura di], Monasteri italogreci, cit.).

permesso di individuare, al di sotto del piano di calpestio della chiesa medievale, completamente alterata da interventi architettonici realizzati nei primi decenni del XIII secolo78, resti di strutture messe in relazione con una frequentazione di età romana e di murature ad andamento rettilineo di limitate dimensioni; queste ultime, presumibilmente, da collegare con un edificio di età alto-medievale, avvalorano quindi quanto affermato dalle carte scritte circa l’esistenza di un centro di culto già verso la fine dell’VIII secolo. Lo sviluppo dei pochi resti architettonici permette di ipotizzare solamente che la chiesa in origine fosse di dimensioni minori rispetto a quanto realizzato in età medievale79 (fig. 15). 78 Per l’edificio medievale e il pavimento musivo con questo in relazione, risalente al XII secolo, cfr. G. Bertelli, Il mosaico pavimentale di S. Maria di Banzi (Basilicata), in F. Guidobaldi, A. Paribeni (a cura di), Atti del VI Colloquio dell’Associazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico (Venezia 20-23 gennaio 1999), Ravenna 2000, pp. 303-14. 79 M. Salvatore, I resti architettonici e l’archeologia: Banzi, S. Maria, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. I, Storia, fonti, documentazione, Matera 1996, pp. 53-58; per i documenti L. Bubbico, F. Caputo, Banzi. L’abbazia di S. Maria, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., pp. 39-47.

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Più intricati sono i dati che riguardano il complesso abbaziale di Sant’Ippolito a Monticchio80, sulle sponde del lago omonimo, che, nonostante sia stato interessato da vari interventi di scavo in anni passati81 e da altre più recenti indagini che hanno privilegiato un’area a sud-est della chiesa82, ancora oggi presenta vicende architettoniche poco chiare che impediscono una ricostruzione certa delle diverse fasi di vita e della relativa cronologia83, probabilmente agevolate anche dal fatto che agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo i ruderi furono interessati dall’attraversamento della strada statale 167 dei laghi, in seguito smantellata, ma che, comunque, ha arrecato gravi danni a tutto l’insediamento. Recenti tentativi di lettura delle strutture murarie leggibili sul terreno hanno portato a ritenere una preesistenza dell’edificio triconco e del nartece a questo collegato, abbastanza profondo e arricchito da absidi a nord e a sud (fig. 16), da ricondurre, secondo alcuni84, a una presenza benedettina sul Vulture già attestata nel corso dell’VIII secolo, da cui gli ideatori del programma icnografico di Sant’Ippolito avrebbero potuto mutuare alcune soluzioni costruttive, come l’aula trichora, messa in relazione con gli ultimi adattamenti strutturali realizzati nella crypt-church del complesso monastico di San Vincenzo al Volturno nel Molise, all’epoca dell’abate Epifanio (824-842)85. 80 Collegato all’abbazia di Sant’Ippolito è l’altro centro monastico di San Michele, che sorge lungo le pendici del monte Vulture, sul piccolo lago di Monticchio; di origine rupestre, il vasto insediamento ha subito modifiche e accrescimenti strutturali nel tempo; delle fasi di frequentazione più antica non è rimasto nulla di visibile; la piccola cappella al centro della costruzione conserva un ridotto ciclo di affreschi di età medievale: cfr. M. Falla Castelfranchi in questo stesso volume. 81 F. Schettini, Due monumenti paleocristiani inediti del Vulture e loro riflessi sull’architettura medievale, in «Archivio storico pugliese», 19, 1966, pp. 93-167. 82 A. Capano, Sant’Ippolito: la chiesetta del complesso monastico e la sua sepoltura femminile, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., pp. 12-13. 83 Per le altre vicende del complesso monastico e i suoi legami con le grandi abbazie benedettine dell’Italia meridionale cfr. L. Bubbico, F. Caputo, Un’ipotesi sulle fasi e l’impianto di S. Ippolito a Monticchio, ivi, pp. 14-21; L. Cirigliano, Atella. Le Badie di S. Ippolito e S. Michele, ivi, pp. 8-11. 84 C. Bozzoni, S. Ippolito a Monticchio, in S. Benedetti, G. Miarelli Mariani (a cura di), Saggi in onore di Guglielmo De Angelis D’Ossat, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’architettura», nuova serie, 1-10, 1983-87, pp. 87-90. 85 Per le indagini archeologiche che hanno interessato l’insediamento di San Vincenzo al Volturno cfr. R. Hodges (a cura di), San Vincenzo al Volturno 1: The 1980-1986 Excavations, Part I, «Archaeological Monographs of the British School

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Fig. 16. Monticchio, Sant’Ippolito: pianta delle strutture rinvenute nell’area (da Bubbico, Caputo, Maurano [a cura di], Monasteri italogreci, cit.).

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La fase più antica dell’insediamento sarebbe dunque da ascrivere al periodo tra VIII e IX secolo; nel corso dell’XI secolo l’edificio sarebbe stato interessato da una serie di interventi ricostruttivi che avrebbero previsto la realizzazione di un edificio absidato, antistante la trichora e il nartece, posto a quota più alta rispetto a questi; la crea­ zione di una serie di pilastri posti a divisione del nartece e al centro del varco di accesso all’ambiente triconco86; infine, come ultimo intervento, sarebbe stata realizzata la costruzione di una torre sul lato meridionale della nuova chiesa; si sarebbe così giunti alla creazione di un organismo in cui la zona orientale, sottoposta al nuovo piano di campagna raggiunto, avrebbe svolto funzioni di cripta. Queste soluzioni, se per un verso hanno apportato alcune modifiche e miglioramenti alla prima lettura realizzata da Franco Schet­tini87, per l’altro lasciano ancora in sospeso e non comprensibili appieno alcune soluzioni adottate, come la costruzione dei due muri rettilinei continui con asse est-ovest che delimitano uno spazio centrale all’interno dell’aula della chiesa più tarda e che rendono indipendenti e non fruibili, almeno all’apparenza, i vani laterali; e come pure la presenza a est, nell’area antistante il triconco, di un organismo particolarmente articolato arricchito da due cappelle laterali inserite nel cosiddetto «nartece». Se per il triconco in forma isolata o come elemento absidale di un’aula a più navate in Italia meridionale sono attestati esempi che si dislocano tra l’età paleocristiana e l’alto Medioevo88, la complessità delle diverse soluzioni adottate nella fase più at Rome», 7, London 1993; Id. (a cura di), San Vincenzo al Volturno 2: The 19801986 Excavations, part II, «Archaeological Monographs of the British School at Rome», 9, London 1995. 86 Bozzoni, S. Ippolito a Monticchio, cit.; l’autore non è chiaro quando propone (p. 80) per la zona della trichora-nartece una funzione di cripta, intendendo i pilastri (che sono realmente fuori asse rispetto alla costruzione) realizzati all’interno di tale spazio come elementi portanti per sorreggere una costruzione superiore, che non sarebbe mai stata nemmeno iniziata, ma abbandonata agli inizi del XII secolo (p. 89). 87 Schettini, Due monumenti paleocristiani, cit., vedeva nel complesso una serie di interventi così riassumibili: tra VII e VIII secolo presenza di un ambiente a trichora e doppio nartece con volta a crociera, preceduti da un ampio vano o atrio scoperto, che a sua volta inglobava la torre a meridione; nell’XI secolo i Benedettini avrebbero tripartito l’area del recinto scoperto con due pareti longitudinali continue e aperta l’abside verso est dando origine a una chiesa a un’unica navata. 88 Alcuni significativi monumenti sono ancora visibili in Campania e in Calabria; la basilica a trichora preceduta da un’aula voluta da Paolino da Nola alla

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antica di Sant’Ippolito (triconco-struttura antistante con absidi) sembra, però, avvicinare l’edificio a tipologie derivate dal mondo orientale. Un utile confronto ritengo possa essere istituito con la pianta del Katholikòn della Grande Lavra sul Monte Athos, del X secolo, il cui schema architettonico risulta composto da un triconco e da una struttura antistante chiamata litae, costituita da ampi narteci e cappelle laterali, dette cappelle dei monaci89, molto simile a quanto realizzato nel Sant’Ippolito. Rimane, però, da chiarire come tali modelli architettonici possano essere giunti in questa zona; forse al seguito di qualche esponente del monachesimo orientale; infatti sia la Basilicata sia la Calabria tra X e XI secolo ospitarono numerosi monaci, anche legati a un tipo di vita cenobitico, alcuni dei quali ebbero stretti contatti con il centro atonita e con il mondo greco. Una rilettura più precisa delle varie fasi architettoniche e delle strutture murarie, pur riconoscendo che oggi l’edificio non si presenta nelle migliori condizioni, potrebbe sicuramente portare nuovi elementi alla comprensione dello sviluppo del complesso monastico. Di questo negli ultimi anni (1992) sono state identificate altre strutture90 riferibili a un piccolo oratorio absidato, i cui muri perimetrali

fine del V secolo a Cimitile; la chiesa di San Martino al Sele presso Calabritto; la chiesa di San Nicola delle Donne del X secolo a Padula; la cattedrale di Policastro Bussentino; la chiesa di San Martino del VI secolo a Copanello: cfr. L. Kalby, Contributi e note su nuove documentazioni paleocristiane nella Campania meridionale, in Atti del II Congresso nazionale di archeologia cristiana, cit., pp. 245-54; Venditti, Architettura bizantina, cit.; Bozzoni, S. Ippolito a Monticchio, cit. trova alcuni legami con modelli architettonici orientali di V-VI secolo. Un discorso a parte ritengo che debba essere fatto per la crypt-church di San Vincenzo al Volturno, ove un organismo a triconco venne inserito nella zona presbiteriale dell’edificio, che fu in tale occasione sopraelevata per permettere anche la creazione di una cripta; cfr. la bibliografia citata supra, nota 85. In età medievale, a partire circa dalla seconda metà dell’XI secolo, in Calabria sono attestati edifici che icnograficamente potrebbero in qualche modo richiamare le soluzioni adottate in Sant’Ippolito; ma negli esempi noti, valga per tutti il tipo identificabile nell’edificio di San Giovanni Vecchio di Bivongi, le due piccole cappelle poste ai lati del transetto non sorgono a fianco di una zona absidale definita da una struttura a trichora (Venditti, Architettura bizantina, cit., pp. 906-14). 89 Per la pianta P.M. Mylonas, s.v. Athos, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. II, Roma 1991, p. 694; cfr. anche C. Mango, Architettura bizantina, Milano 1978, p. 116. 90 Capano, S. Ippolito: la chiesetta, cit., pp. 12-13.

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presentano un notevole spessore, collocato all’esterno del triconco sul lato meridionale. Il pavimento rinvenuto all’interno risulta costituito da una serie di mattoni quadrangolari di diverse dimensioni che delimitano un’area centrale in cui la decorazione è realizzata con tessere lapidee bianche e grigie e frammenti di terracotta disposti a formare motivi a croce; negli spazi di risulta trovano posto tessere più piccole, che a loro volta formano fiori quadripetali con il vertice al centro. I motivi decorativi del pavimento, pur nella loro semplicità, sembrano riallacciarsi a un tipo di produzione di età pienamente alto-medievale, che ha anche lasciato una serie di testimonianze in area pugliese91. Nella curva dell’emiciclo absidale è stata poi identificata una sepoltura relativa a un personaggio femminile; l’epigrafe, ascritta al IX secolo, è incisa sul rovescio della lastra di copertura e ricorda il nome dell’inumata: «hic requiescit Maria»92. Il piccolo sacello, le cui strutture sembrano essere indipendenti da quelle della trichora dell’edificio principale, potrebbe essere a questa antecedente93, costituendo, forse, uno dei nuclei più antichi dell’intero complesso. A quest’ultima interpretazione si accompagna anche una nuova proposta di lettura delle strutture che precedono la trichora: i muri del cosiddetto nartece o litae si dovevano prolungare ancora verso sud-ovest, ove sono state identificate tracce di una muratura che «molto probabilmente è la testimonianza superstite della facciata appartenente alla chiesa trilobata di X-XI secolo»94. Se anche fosse provata l’esistenza di un

91 In area pugliese tra X e gli inizi dell’XI secolo sono testimoniati numerosi pavimenti realizzati con tessere marmoree di colori diversi a fingere l’opus sectile oppure con l’impiego di tessere calcaree disposte a formare motivi diversi: cfr. G. Bertelli, Rivestimenti pavimentali in Puglia nell’alto Medioevo, in C. Gelao (a cura di), Archeologia arte, restauro e tutela, archivistica. Studi in onore di Michele D’Elia, Matera 1996, pp. 75-84; cfr. quanto scritto, nelle more della stampa di questo intervento, da Favia, Testimonianze musive, cit., pp. 257-68 che ritiene il pavimento di IX-X secolo. 92 L’iscrizione non è stata pubblicata, pertanto si riporta la datazione fornita da Capano, S. Ippolito: la chiesetta, cit., p. 12; l’analisi dei resti rinvenuti nella deposizione ha confermato che si tratta di un individuo di sesso femminile. 93 Secondo il parere di Capano (ibid.), il sacello è posteriore come pure per Favia, Testimonianze musive, cit., pp. 262-63; di parere contrario sono Bubbico, Caputo, Un’ipotesi sulle fasi, cit., pp. 16-17. 94 Secondo il parere di Bubbico e Caputo, Un’ipotesi sulle fasi, cit., pp. 16-17, la successione delle fasi sarebbe la seguente: a) piccolo oratorio absidato risalente al IX secolo; b) impianto a tre navate, di cui le laterali concluse da due absidi (quelle del presunto nartece) e la centrale dalla trichora, realizzato tra il secolo

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corpo relativo al nartece molto più sviluppato di quanto finora ipotizzato, riterrei comunque che il frazionamento dello spazio nella zona nord-orientale dell’edificio porterebbe a ritenere l’esistenza a monte di un progetto costruttivo estraneo all’architettura occidentale per i secoli dell’alto Medioevo. In relazione a una frequentazione di tipo cenobitico va intesa la costruzione di un piccolo edificio di culto impiantatosi al di sopra di una ampia cavità rocciosa dedicata all’arcangelo Michele in località Sant’Angelo nei pressi di San Chirico Raparo. San Vitale da Castronuovo, che insieme a una nutrita schiera di monaci di origine italo-greca popolò tra il X e l’XI secolo la Basilicata al confine con la Calabria, secondo quanto attesta la sua biografia, dopo essersi fermato in Calabria giunse al monte Raparo, ove era già una grotta dedicata all’angelo. Con questo personaggio e alla sua temporanea permanenza in tale località dovrebbe potersi mettere in relazione la struttura absidata preceduta da un’aula, identificata in anni recenti al di sotto del grande edificio monastico a questa succeduto verso la fine dell’XI secolo o agli inizi del seguente95. Si tratta di un ambiente di culto mononave e monoabsidato di piccole dimensioni, il cui interno presenta resti di una struttura rettilinea interrotta al centro a delimitare la zona presbiteriale (fig. 17); gli accessi erano lungo il muro di facciata e su quello orientale; sullo spigolo orientale del muro di facciata era poi una torre con funzioni di difesa; al piccolo complesso, costruito probabilmente tra la fine del X e gli inizi del secolo seguente96, sono

X e la prima metà del seguente, con resti di murature riferibili alla facciata; c) ampliamento tra XI e XII secolo verso ovest con la prosecuzione delle navate fino alla torre campanaria, costruita in un momento posteriore; la chiesa trilobata viene trasformata in cripta. Ma su questa successione probabilmente un’analisi più mirata delle murature e una rilettura delle strutture identificate, pur se prive di indicazioni stratigrafiche, potrebbe apportare nuovi elementi almeno per tentare di definire una cronologia relativa. 95 Per le indagini archeologiche che hanno portato all’identificazione di tale struttura cfr. P. Favia, Primi risultati dell’indagine archeologica nell’Abbazia di Sant’Angelo al Monte Rapàro, in C. Carletti, G. Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte S. Angelo 18-21 novembre 1992), Bari 1994, pp. 453-78; per l’edificio medievale e il suo ciclo di affreschi G. Bertelli, E. Degano, S. Angelo a San Chirico Rapàro, ivi, pp. 427-52. 96 I confronti istituibili con alcuni edifici calabresi sembrano rimandare a questo arco cronologico: cfr. Favia, Primi risultati, cit., pp. 467-69.

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Fig. 17. San Chirico Raparo, Sant’Angelo: pianta delle strutture precedenti l’edificio medievale (da P. Favia, Primi risultati dell’indagine archeologica nell’Abbazia di Sant’Angelo al Monte Rapàro, in C. Carletti, G. Otranto [a cura di], Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte Sant’Angelo 1992), Bari 1994).

da riferire altri resti di strutture identificate più a valle, in relazione all’insediamento di un piccolo nucleo monastico italo-greco. 3. Gli edifici religiosi rurali Indagini avviate negli anni Ottanta del XX secolo97 in località Leo­ nessa, contrada Tesoro (Melfi), hanno portato all’identificazione di una villa fondata tra la fine dell’età repubblicana e la prima età impe97 C. Klein Andreau, Trouvailles d’époque romaine sur le territoire de Melfi, in Attività archeologica in Basilicata 1964-1977. Scritti in onore di D. Adamesteanu, Matera 1980, pp. 345-66; Salvatore, Venosa: un parco archeologico, cit., pp. 30-31; G. Volpe, La Daunia nell’età della romanizzazione. Paesaggio agrario, produzione, scambi, Bari 1990, pp. 142-44; Di Giuseppe, Insediamenti rurali, cit., p. 210; M. Salvatore, La dinamica insediativa in Basilicata tra tardo antico e altomedieovo, in Gelao (a cura di), Archeologia arte, cit., pp. 66-74.

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Fig. 18. Leonessa (Melfi): pianta delle strutture rinvenute (da C. Klein Andreau, Trouvailles d’époque romaine sur le territoire de Melfi, in Attività archeologica in Basilicata 1964-1977. Scritti in onore di D. Adamesteanu, Matera 1980).

riale nella cui pars rustica si sono insediate alcune strutture relative a un piccolo edificio (m 12 x 6), probabilmente con funzioni religiose (fig. 18). La costruzione è realizzata con materiale di reimpiego prelevato da murature precedenti; si presenta a una sola navata, priva di partizioni interne; la zona absidale risulta qualificata dalla presenza alla base del muro curvilineo di una bassa banchina, interpretata dalla

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critica come synthronon98; al suo interno e lungo i muri perimetrali all’esterno si sono rinvenute quattro sepolture. Nell’edificio si è identificato un oratorio di tipo rurale, databile tra il VI e VII secolo, che doveva accogliere, data la presenza del banco intorno alla curva absidale, un certo numero di esponenti del clero, almeno in certi momenti particolari dell’anno liturgico, poiché tale dispositivo appare solitamente in contesti ben più articolati e molto raramente in insediamenti rurali99. Le sepolture rinvenute all’esterno dell’edificio, realizzate in blocchi di pietra e frammenti di tegole coperte con lastre, non hanno restituito oggetti relativi al corredo funerario dell’inumato; solo in quella identificata all’interno, verso nord-est, se ne sono rinvenuti alcuni appartenenti a un corredo femminile, databili tra la seconda metà del VII e gli inizi dell’VIII secolo: un anello, un orecchino, un castone con una pietra (forse un pendaglio), andato disperso100. La fattura dell’orecchino risulta poco frequente, soprattutto in ambito meridionale: la forma è allungata, periforme (fig. 19); la lavorazione è a traforo e presenta piccoli inserti in smalto colorato; l’oggetto è stato ritenuto, forse in maniera impropria, come appartenente al

98 Le indicazioni fornite da Klein Andreau circa il synthronon sono molto sommarie e nelle fotografie del suo rapporto non appare nulla del genere; forse la struttura delineata nella pianta con una serie di conci potrebbe essere messa in relazione con una fase precedente la costruzione dell’edificio; infatti, sul lato settentrionale dell’edificio, ben visibile sulla pianta fornita da Klein Andreau ma non spiegato, compare, a un livello più basso, un’ulteriore piccola struttura curvilinea; l’abside della chiesetta potrebbe, forse, aver sfruttato in parte una precedente struttura, di dimensioni più contenute; oggi purtroppo nessuno di questi elementi è identificabile sul terreno, poiché il sito, come altri, ad esempio lo stesso San Giovanni di Ruoti, non sottoposto a periodica manutenzione, è stato ricoperto dalla vegetazione; quindi le proposte avanzate da Klein Andreau e in seguito accettate dalla critica non possono più essere verificate in alcun modo. 99 Per le evidenti difficoltà insite nell’attribuire funzioni religiose a un edificio in base alla presenza di strutture non caratterizzanti in maniera esplicita l’impianto cfr. le considerazioni espresse da Favia, L’insediamento religioso, cit., pp. 312-49, in particolare p. 322, nota 28. 100 M. Salvatore, Antichità altomedievali in Basilicata, in La cultura in Italia fra tardoantico e altomedioevo. Atti del Convegno del CNR (Roma 12-16 novembre 1979), vol. II, Roma 1981, pp. 958-59; Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico, cit., pp. 288-89.

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tipo di orecchini «a cestello», di cui condivide la lavorazione, ma non la forma caratteristica101. L’edificio di Leonessa, anche per le funzioni funerarie svolte, può essere visto come elemento di aggregazione nei confronti delle comunità circostanti; ciò sembra essere confermato anche dal rinvenimento nell’area di frammenti ceramici, oltre che contemporanei alle fasi di vita della villa romana102, anche

Fig. 19. Venosa, Museo archeologico: orecchino proveniente da Leonessa (da M. Salvatore [a cura di], Il Museo Archeologico di Venosa, Matera 1991).

101 Gli orecchini di questo tipo sono costituiti da un piccolo cestello, che costituisce la parte posteriore, realizzato con fili a giorno saldati su un disco anteriore, decorato a sua volta a filigrana, con perla al centro o con castoni e pietre o paste vitree; per l’esemplare di Leonessa cfr. Salvatore, Antichità altomedievali, cit., p. 959; Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico, cit., p. 288; C. D’Angela, G. Volpe, Aspetti storici e archeologici dell’altomedioevo in Puglia, in R. Francovich, G. Noyé (a cura di), La storia dell’Alto Medioevo italiano alla luce dell’archeologia. Atti del Convegno internazionale, Firenze 1994, p. 304; P.G. Guzzo, Oreficerie della Lucania antica, in «Bollettino storico della Basilicata», 10, 1994, pp. 45-46. Per i diversi tipi di orecchini a cestello A. Melucco Vaccaro, Oreficerie altomedievali da Arezzo. Contributo al problema dell’origine e diffusione degli «orecchini a cestello», in «Bollettino d’arte», 57, 1972, pp. 8-19; Possenti, Gli orecchini a cestello cit., ove l’esemplare lucano non viene inserito proprio per la forma non canonica. In generale gli orecchini del tipo a cestello possono essere considerati come prodotti particolari di un grande centro del Mediterraneo orientale, diffusisi poi in tutta l’area mediterranea sia nei territori bizantini sia in quelli ove erano altri tipi di popolazioni: cfr. A. Melucco Vaccaro, I Longobardi in Italia, Milano 1988, pp. 149-50; Possenti, Gli orecchini a cestello, cit., pp. 27-28. 102 Volpe, La Daunia, cit., pp. 142-44; Di Giuseppe, Insediamenti rurali, cit., p. 210; nel suo studio la Di Giuseppe fornisce una serie di risultati interessanti

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di VI-VII secolo103 e di età medievale (ceramica a bande rosse e invetriata)104. 4. Necropoli e corredi funerari Le necropoli, insediatesi nelle immediate vicinanze di un centro urbano, spesso presso il polo di attrazione costituito da un edificio religioso105, o in siti rurali, occupati da villae tardo-antiche, che a partire dal V-VI secolo vengono lentamente abbandonati106, hanno restituito un numero di oggetti che formavano piccoli corredi legati alla vita quotidiana del defunto, composti, oltre che da rari manufatti ceramici, da orecchini, piccoli anelli, fibule e, in casi sporadici, cinrivenienti da indagini archeologiche realizzate sul territorio lucano che riguardano soprattutto strutture identificate in villae tardo-romane; tra questi va ricordato il sito ubicato in località San Pietro presso Tolve, con frammenti di ceramica tipo Calle, abbandonato tra la fine del V e gli inizi del VI secolo; in tale località, nonostante il toponimo, non si sono rinvenute tracce della presenza di un edificio di tipo religioso, cfr. pp. 214-19. In località Calle di Tricarico indagini archeologiche hanno permesso di identificare, per l’ultima fase di occupazione del sito, tra il IV e gli inizi del VI secolo, una fornace da cui provengono manufatti ceramici dipinti in rosso, anforette e scodelle destinati anche a una diffusione extraregionale, pp. 221-22. 103 Klein Andreau, Trouvailles, cit., p. 360, nota 16; Volpe, La Daunia, cit., p. 144; Di Giuseppe, Insediamenti rurali, cit., p. 210. 104 Cfr. la tesina elaborata da R. Flaminio, La villa di Leonessa-Contrada Tesoro nei pressi di Melfi: la trasformazione in chiesa e le ultime fasi di vita del sito, nell’ambito di una ricerca realizzata per l’insegnamento di Archeologia e storia dell’arte medievale presso la Scuola di specializzazione in archeologia dell’Università degli Studi della Basilicata, a.a. 1997-98. Il casale di Leonessa risulta ancora abitato alla fine del XV secolo; nel 1674 era ancora visibile il castello: cfr. T. Pedio, La Basilicata dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. I, Bari 1987, p. 217. 105 A Matera, ad esempio, presso la chiesa di San Francesco è stata identificata una necropoli scavata nel banco roccioso di età alto-medievale da mettere in relazione con la precedente chiesa dei Santi Pietro e Paolo, come pure nell’area della cattedrale da cui provengono monete bizantine di IX-XI secolo e frammenti ceramici dello stesso periodo; la stessa situazione si propone per il vicino insediamento di Santa Lucia alle Malve (M. Salvatore, in Matera, Piazza San Francesco d’Assisi. Origine ed evoluzione di uno spazio urbano, Matera 1986, pp. 113-46), scavo recentemente ripreso e pubblicato da B. Bruno, Archeologia medievale nei Sassi di Matera, in S. Patitucci Uggeri (a cura di), Scavi medievali in Italia 1996-1999, Roma 2001, pp. 137-48. 106 Per la presenza sul territorio di insediamenti rurali attivi fino al V-VI secolo cfr. supra, nota 2; per un quadro analitico della dislocazione delle aree cimiteriali rinvenute in area lucana cfr. Di Giuseppe, Insediamenti rurali, cit., pp. 210-34.

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ture arricchite da placchette in metallo, anche ageminato; raramente si trattava di un corredo di un certo prestigio, come è accaduto nel caso della tomba di Leonessa, di cui si è scritto prima, o per le due sepolture rinvenute a Senise, o ancora per altri oggetti identificati nelle tombe presso l’area necropolare della «chiesa vecchia» della Trinità di Venosa; altre volte i ritrovamenti sono sporadici, spesso privi di ogni relazione con il loro contesto di origine107. Si tratta in alcuni casi di orecchini ad anello desinenti a testa di serpente (rinvenuti a Cervarezza presso Banzi) di V-VI secolo o con pendenti cui sono sospese perline, della seconda metà del VI secolo (tomba 144/85 all’esterno della Trinità di Venosa), o ancora di orecchini con anello di sospensione, lavorati a traforo, rinvenuti a Leo­ nessa, di metà VII-inizi VIII secolo, già menzionati. Tra le fibule se ne segnalano alcune ad anello con estremità desinenti in volutine (da Venosa, tomba 144/85); da Banzi (località Cervarezza), di metà VIVII secolo; altre presentano le estremità desinenti con teste di animali e un’iscrizione sul lato superiore con il nome del proprietario e un’invocazione beneaugurante (+ lupu biba), di un tipo ricorrente in area pugliese108; particolare è il rinvenimento di una fibula a forma di cavallino con la superficie decorata a «occhi di dado», propria del costume femminile, proveniente da Atella, contrada Magnone (fig. 20); si tratta di una tipologia diffusa sul territorio italico e identificata come tipica della produzione romano-mediterranea109; ancora dall’area cimiteriale di San Marco a Grumentum provengono pochi oggetti,

107 Nel Museo Ridola di Matera, ad esempio, è conservato un frammento in porfido di dimensioni cilindriche, di provenienza sconosciuta, che presenta incise sulla superficie una serie di scene di combattimento; il pezzo è stato ritenuto come appartenente a una colonnetta e ascritto al VII secolo; le scene sono state messe in relazione con alcune dell’Iliade ambrosiana: cfr. A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981, p. 13; un esame da me effettuato in anni passati porterebbe invece a ritenere l’oggetto di tutta altra natura; forse potrebbe trattarsi di un sigillo di forma cilindrica di provenienza orientale. 108 G. Volpe, C. D’Angela, Insediamenti e cimiteri rurali tra tardoantico e altomedioevo nella Puglia centro-settentrionale: alcuni esempi, in La Calabre, cit., in particolare p. 816 e nota 71. 109 Salvatore, Antichità altomedievali, cit., pp. 960-61; Ead. (a cura di), Il Museo Archeologico, cit., t.18.1, p. 289; per l’area di diffusione della fibula cfr. G.C. Menis (a cura di), I Longobardi, Venezia 1990, scheda II.23, a cura di V. Bierbrauer, p. 123.

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Fig. 20. Venosa, Museo archeologico: fibula proveniente da Atella (da Salvatore [a cura di], Il Museo Archeologico di Venosa, cit.).

tra cui una fibula in bronzo a forma di uccello ad ali spiegate, databili tutti tra VI e VII secolo110. Tra le testimonianze più note in area lucana circa la presenza di oggetti di un certo prestigio va ricordata la cosiddetta lamina Garrucci (Berlino, Staatliche Museen, Pr. Kulturbesitz, Skulpturengal.), il cui uso forse poteva essere funerario; si tratta di un bratteato in oro, circolare, con la Madonna in trono, recante avanti a sé il Bambino contenuto in un disco, probabilmente fiancheggiata da due angeli, secondo un’iconografia ben nota in ambito bizantino; l’oggetto è datato al VI-VII secolo e sembra appartenere a una tipologia abbastanza diffusa anche in Calabria, ove sono attestati altri esemplari111.

Bottini (a cura di), Il Museo Archeologico dell’Alta Val d’Agri, cit., pp. 331-34. A. Lipinsky, Testimonianze di oreficerie e arti minori tardoromane, veterocristiane e bizantine in Basilicata, in Atti del II Congresso nazionale di archeologia cristiana, cit., pp. 261-99, in particolare pp. 268-69; Id., L’arte orafa bizantina nell’Italia meridionale e nelle isole. Gli apporti e la formazione delle scuole, in La chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo. Atti del Convegno interecclesiale (Bari 30 aprile-4 maggio 1969), Padova 1973, vol. III, pp. 1431 sgg. e 1466; R. Farioli, Le arti suntuarie, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 357-58. 110

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Dal cosiddetto «tesoro longobardo» di Senise (oggi al Museo archeologico nazionale di Napoli), rinvenuto all’interno di una deposizione femminile posteriore al 659-668, provengono oggetti di alta qualità: si tratta di orecchini a cestello ornati anteriormente da una placca circolare decorata a cloisonné con due teste femminili (fig. 21), due anelli, una fibula a disco in filigrana d’oro, una crocetta d’oro, ritenuti opera o di un’officina longobarda operante a Benevento112 oppure di una bizantina113, attiva nella seconda metà del VII secolo. Il «tesoro bizantino» (Reggio Calabria, Museo nazionale), proveniente dalla stessa località, risulta invece composto da oggetti liturgici: una croce benedizionale in argento arricchita da un’iscrizione in greco alla base, un anello aureo decorato in verroterie, da ascrivere alla metà del VII secolo, un piccolo incensiere di bronzo semisferico con catenelle di sospensione e un anello con alto castone molto simile a quello presente nel «tesoro longobardo»114. Interessanti sono alcuni oggetti provenienti da due sepolture identificate, una, nell’area esterna della Trinità di Venosa, la seconda all’interno della chiesa; si tratta, nel primo caso, di una croce astile in bronzo di VII secolo, a imitazione di quelle processionali di origine bizantina, che trova un corrispondente con una simile presente nel tesoro bizantino di Senise, e di una piccola croce reliquiario, con piccola teca all’incontro dei bracci, databile tra VIII e IX secolo115. 112 Lipinsky, Testimonianze, cit., pp. 275-78; Id., L’arte orafa bizantina, cit., pp. 1389-447; la data 659-668 è derivata dal fatto che negli orecchini sono impiegate bratteate ricalcate su solidi degli imperatori Eraclio e Tiberio; lo studioso dà notizia anche dell’esistenza della lipsanoteca Stroganoff proveniente dalla Basilicata e poi passata nel museo dell’Hermitage a San Pietroburgo, a forma di icona, composta da elementi eterogenei, con smalti di ottima fattura probabilmente di X-XI secolo e figure sbalzate di cui alcune probabilmente più antiche (ivi, pp. 1435, 1440, 1466); interessanti le notizie sui gioielli della collezione Dzyalinski provenienti genericamente dalla Magna Grecia, purtroppo andati perduti (ivi, pp. 1401-1402, 1467); cfr. anche Id., Testimonianze, cit., pp. 270-74. 113 Il tesoro fu rinvenuto in località Salsa, presso Senise (Id., L’arte orafa bizantina, cit., p. 1468); Salvatore, Antichità altomedievali, cit., pp. 948-64; Farioli, Le arti suntuarie, cit., schede n. 192 e 213, pp. 406 e 412; cfr. come ultimo intervento M. Corrado, Note in margine ad alcune oreficerie «beneventane» da Senise (PZ), in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento. Atti del XVI congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 20-23 ottobre 2002, Benevento, 24-27 ottobre 2002), t. II, Spoleto 2003, pp. 1301-13. 114 Il tesoro fu rinvenuto in località Pantano presso Senise (Lipinsky, Testimonianze, cit., pp. 278-81; Id., L’arte orafa bizantina, cit., pp. 1414-15 e 1468). 115 Salvatore (a cura di), Il Museo Archeologico, cit., p. 281.

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Fig. 21. Napoli, Museo archeologico nazionale: orecchini da Senise (da Salvatore [a cura di], Il Museo Archeologico di Venosa, cit.).

Legati alla presenza di un’etnia di origine longobarda sono alcuni manufatti provenienti ancora da tombe individuate nell’area esterna della «chiesa vecchia» di Venosa, riferibili a guerrieri; si tratta di elementi di cintura (fig. 22), della seconda metà del VII secolo, lavorati ad agemina e composti da placchette, fibbie e puntali, decorati con incisioni di tipo vegetale e animalistico e, nel caso del corredo proveniente dalla tomba 21, anche con il nome del proprietario, preceduto e seguito da segni di croce. Da altre inumazioni presenti nella stessa area provengono inoltre coppie di orecchini ad anello, molto semplici, databili tra X e XI secolo, che attestano la funzione funeraria della zona anche in età più tarda116.

Ivi, pp. 290-92. Nel Museo di Venosa sono conservati anche altri manufatti riferibili a corredi funerari rinvenuti sia nell’area della Trinità sia in altre zone del territorio (Banzi, Leonessa, Lavello), come pure lucerne in terracotta di V-VI secolo provenienti dall’ipogeo cristiano identificato nei pressi della collina della Maddalena (ivi, pp. 279-80) e un laterizio proveniente da Lavello decorato con una croce a rilievo entro un elemento circolare, che è stato messo in relazione con una produzione laterizia in zona, forse anche da collegare con la produzione laterizia attestata a Canosa (G. Sabatini, ivi, p. 280). 116

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Fig. 22. Venosa, Museo archeologico: ricostruzione grafica della cintura ageminata (da Salvatore [a cura di], Il Museo Archeologico di Venosa, cit.).

5. Gli affreschi della cripta del Peccato originale Tra le testimonianze pittoriche anteriori al Mille in Italia meridionale occupa un posto a sé il ciclo, ancora oggi in gran parte leggibile, che si dispiega lungo due delle pareti della grotta nota con il nome del Peccato originale, pochi chilometri a sud-ovest di Matera, in località Gravina di Pietrapenta, nelle vicinanze della statale 7 (via Appia) che collega Matera con Ferrandina. La grotta si affaccia sul versante meridionale della gravina di Picciano, che in questo tratto presenta su entrambi i lati una serie di cavità naturali e artificiali di dimensioni diverse che potevano essere collegate tra di loro tramite un guado lungo il torrente Gravina117. La grotta ha impianto rettangolare (fig. 23); il suo accesso originario, oggi ripristinato e agibile, era a occidente; gli affreschi si dispiegano lungo le tre absidiole ricavate sul lato orientale della cavità e sul muro rettilineo meridionale, muro che per poter ac-

117 Devo questa notizia a Gianfranco Lionetti di Matera, che più volte mi ha accompagnato in sopralluoghi alla cripta del Peccato originale e che ringrazio per la sua ampia disponibilità.

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Fig. 23. Matera (dintorni), Cripta del Peccato originale: pianta.

cogliere i dipinti è stato, per la parte superiore, livellato anche con la stesura di uno spesso strato di intonaco; sul lato sinistro di questo, in basso, è stata realizzata una nicchia appena incavata sulla roccia con un affresco che presenta due personaggi in abiti ecclesiastici. A fianco, compare una nicchia più profonda ad arco e sono leggibili resti di una escavazione rettangolare, elementi che permettono di ipotizzare che sia stata realizzata una sepoltura per un personaggio di un certo riguardo. La parete occidentale, la copertura piana e lo zoccolo al di

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sotto degli affreschi campiti sul muro meridionale, per un’altezza di circa 2 metri, non presentano, almeno oggi, resti di decorazione. Il piano di calpestio originario non doveva essere molto regolare a giudicare dalla presenza di banchi di roccia ancora visibili, soprattutto verso occidente; nella zona a est, ove si aprono le tre absidi, è ancora leggibile il segno di un piano di calpestio che doveva correre al di sotto della zoccolatura in finto marmo, conservata solo nell’absidiola con san Pietro, per una altezza di circa 50 cm. La cripta doveva essere già nota a uno dei più attenti studiosi dell’area materana: Domenico Ridola, il quale la ricorda come la cripta dei Santi, probabilmente a causa delle numerose figure che popolano gli affreschi118; ancora in anni più recenti indagini avviate sul territorio dal circolo materano La Scaletta hanno fatto riaccendere l’interesse per la grotta, soprattutto per il ciclo pittorico in essa conservato119, che sottoposto a un recentissimo intervento di recupero, volto anche a risanare definitivamente l’ambiente scavato nella roccia, ha rivelato, dopo decenni di abbandono120, la straordinarietà

118 D. Ridola, La grotta dei Pipistrelli e la grotta funeraria in Matera, Matera 1912, p.12; lo studioso annotava che nella grotta erano dipinti insieme i tre arcangeli. 119 A. Rizzi, Per una storiografia artistica della Basilicata, in “Napoli nobilissima”, 5, 1966, pp. 199 sgg., in particolare p. 204, data la grotta al IX secolo; Id., Note sulle chiese rupestri di Matera, in Studi in onore di R. Pane, Napoli 1972, pp. 21-44, in particolare p. 31; la grotta, secondo Rizzi, andrebbe intesa come una cappella di una comunità agricolo-pastorale a insediamento trogloditico; tale visione mi sembra sia fin troppo riduttiva se soltanto si tiene conto del tipo di iconografie impiegate sulle pareti della grotta, che presuppongono una consuetudine con il mondo spirituale molto profonda. Cfr. anche B. Cappelli, Le chiese rupestri del materano, in “Archivio storico della Calabria e della Lucania”, 26, 1957, pp. 223-89; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 13; La Scaletta, Le chiese rupestri di Matera, Roma 1966, pp. 266-68; M. Padula, C. Motta, G. Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri di Matera, Roma 1995, pp. 129-31; cfr. anche G. Giordano, La cripta del Peccato Originale. Iconografia e teologia, Matera 1989. 120 L’intervento è stato portato avanti dai tecnici dell’Istituto centrale del restauro e da restauratori della cooperativa CBC, sotto la supervisione di Michele D’Elia, che ringrazio per avermi permesso di accedere alla grotta durante i lavori, per esaminare, alla luce di quanto si andava evidenziando, gli affreschi. La grotta è stata acquisita dalla Fondazione Zétema, al cui presidente, avvocato Antonello De Ruggieri vanno i miei ringraziamenti per la disponibilità e fiducia dimostratemi in diverse occasioni. La redazione del progetto di restauro e la risistemazione dell’ambiente circostante la grotta è stato affidato all’ingegner Sante Lomunno; cfr. M. D’Elia, Per Luisa Mortari: un ricordo e un progetto. Il restauro della cripta del Peccato

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e la freschezza dei suoi colori originari, e ha reso possibile esaminare stilisticamente le numerose scene affrescate lungo le pareti, di alcune delle quali si era persa la memoria, mentre di altre non se ne conosceva l’esistenza. Un rinnovato interesse per il sito si è registrato ancora negli ultimi anni, prima dunque dell’intervento di risanamento e restauro ricordato, non ancora definitivamente concluso, da parte di alcuni studiosi che avevano messo in evidenza gli stretti rapporti esistenti tra gli affreschi e quelli presenti in area campana (Santa Sofia di Benevento), molisana (San Vincenzo al Volturno, sia per gli affreschi della prima metà del IX secolo, attribuibili all’operato dell’abate Epifanio, 824-42, sia per quelli identificati più recentemente, attribuibili alla figura dell’abate Giosué, 792-817) e pugliese (tempietto di Seppannibale, presso Fasano); in effetti, in questi episodi i cicli pittorici mostrano una comune matrice culturale e stilistica121 che è alla base anche del ciclo materano, ove pure sono leggibili agganci e rimandi a scelte iconografiche di chiara origine romana, affiancati da elementi provenienti dal mondo bizantino122. La datazione proposta dalla critica oscilla tra X123 e IX secolo, quest’ultimo termine visto in rapporto con le datazioni dei cicli di Benevento, del Volturno e di Seppannibale124. originale a Matera, in M. Pasculli Ferrara (a cura di), Per la Storia dell’Arte in Italia e in Europa. Studi in onore di Luisa Mortari, Roma 2004, pp. 61-63. A seguito dei ricordati interventi di restauro mi è stato affidato lo studio degli affreschi, ormai in via di ultimazione. Nell’area pianeggiante che insiste al di sopra della grotta, nel corso dei lavori ricordati, è stata identificata una sepoltura scavata nel banco roccioso con un piccolo corredo di età alto-medievale. 121 V. Pace, Basilicata, in C. Bertelli (a cura di), La pittura in Italia. L’Altomedioevo, Milano 1994, pp. 275-79. 122 M. Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991, pp. 27-28, sottolinea come, ad esempio, la presenza di alcuni motivi nella figura della Vergine sia da ricercare nel mondo bizantino. 123 N. Lavermicocca, Gli affreschi della Cripta del Peccato Originale a Matera, in C.D. Fonseca (a cura di), Le aree omogenee della Civiltà rupestre nell’ambito dell’Impero Bizantino, Atti del quinto Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medievale nel Mezzogiorno d’Italia (Lecce-Nardò 12-16 ottobre 1979), Galatina 1981, pp. 403-20; all’epoca di tale intervento alcuni degli affreschi, oggi ritornati visibili, erano ancora, seppure in modo parziale, leggibili; si trattava degli episodi dislocati lungo la parete rettilinea al di sopra della nicchia con le figure dei tre arcangeli. 124 Oltre a Pace, Basilicata, cit., e Falla Castelfranchi, Pittura monumentale, cit., cfr. anche, per le diverse ipotesi di datazione, G. Bertelli, Cultura longobarda nella

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Nella prima delle tre absidiole sono raffigurati Pietro con le chiavi nella mano sinistra, con la destra alzata nel segno della parola; a lato della testa la scritta che lo qualifica «SCS P(E)TRUS»; a destra san Giovanni evangelista, con la destra alzata e nella sinistra il libro del Vangelo riccamente decorato; a sinistra sant’Andrea, di cui rimane leggibile il volto e la scritta «SCS ANDRE…». Nella zoccolatura alla base compare un rivestimento in finte lastre di marmo dalle venature colorate, secondo modelli ben noti e attestati anche in ambito volturnense. Nella parte di parete rocciosa soprastante, i recenti lavori hanno permesso di riportare in luce brani affrescati, molto lacunosi, probabilmente in relazione con episodi che vedono l’apostolo Pietro protagonista; quello che resta della scena permette di identificare un personaggio, sulla sinistra, armato, provvisto di uno scudo circolare con umbone al centro e una lancia, tenuta con l’altra mano, di cui si scorge molto bene la terminazione appuntita e ben lavorata: si tratta di manufatti che rimandano a prodotti di officine attive in età longobarda. Altri due personaggi sono posti davanti a questo, entrambi aureolati; uno di questi ha in mano un rotulo; ancora si leggono bene due braccia che si incrociano con le dita levate nel gesto della parola, i resti di un’iscrizione relativa a Pietro; di un altro personaggio, non aureolato, si scorgono appena i capelli lunghi a piccoli ricci di colore scuro; forse, anche se le ampie lacune non permettono una certezza assoluta, si potrebbe trattare della scena dell’arresto di Cristo con Pietro che, preso dall’ira, taglia l’orecchio a Malco, il servo del sommo sacerdote, secondo quanto ci testimonia il vangelo giovanneo (Gv. 18,10)125. Altri affreschi si susseguono ancora, ma per il momento non sono interpretabili. Sicuramente al termine di tutti gli interventi, sarà possibile, alla luce anche di riprese fotografiche effettuate con specifiche apparecchiature, operare una lettura più meticolosa di tutta la decorazione. Particolare è la posizione di questa absidiola, più arretrata rispetto alle altre, fornita di una zoccolatura in finto marmo e in asse con il probabile ingresso originario della grotta. Puglia altomedievale. Il Tempietto di Seppannibale presso Fasano, Bari 1994, pp. 11550; Ead., L’Italia meridionale nell’alto Medioevo: testimonianze pittoriche tra Puglia e Basilicata, in C. Bertelli, G.P. Brogiolo (a cura di), Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno, catalogo della mostra (Brescia 18 giugno-19 novembre 2000), Milano 2000, pp. 372-73. 125 È stato anche suggerito di vedere nella scena l’incontro tra Pietro e Paolo; ma in tale episodio i due apostoli solitamente appaiono abbracciati.

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Nell’absidiola centrale è ritratta la Vergine stante, riccamente vestita, con una sorta di corona a tre punte sulla testa da cui fuoriescono tre apici e con il Bambino in braccio; a lato della testa la scritta «SCA MARIA» (fig. 24); ai lati, più basse e piegate, a seguire la curva dell’absidiola, quasi in atteggiamento di adorazione, due sante: per quella di sinistra l’affresco lacunoso non permette di proporre una identificazione; per quella di destra l’iscrizione «SCA LUCE [N?]TIA» non ci è di aiuto nell’identificazione del personaggio ritratto, dal momento che è una santa sconosciuta; forse il nome potrebbe essere una trasposizione dal greco di santa Fotina126. Sulla porzione corrispondente nella zona superiore si leggono altri frammenti di affreschi; si tratta dei simboli degli evangelisti disposti attorno a un clipeo centrale127 che doveva contenere un elemento, forse un agnello da quel poco che si può ancora scorgere. Nella terza abside sono campite le figure dei tre arcangeli (fig. 25) Michele al centro, Raffaele a destra, Gabriele a sinistra, accompagnati dalle relative scritte che li identificano128. Al di sopra delle absidiole si scorgono ancora altri tratti affrescati molto lacunosi che il restauro permette oggi di poter decifrare meglio rispetto al passato; si leggono molto bene le figure di due arcangeli, di cui rimangono alcune lettere relative ai nomi, Michele e Gabriele, colti nell’atto di chinarsi in avanti, formando con il corpo un angolo quasi di novanta gradi, con le grandi ali spiegate verso l’alto, in una posa alquanto ardita, realizzata dal pittore per poter sfruttare il poco spazio a disposizione; al centro compare un clipeo con il busto di Cristo. Sulla parete meridionale si svolge un grandioso affresco, che si dispiega su tutta la superficie, con le fasi della Creazione del mondo tratte dal libro della Genesi: la creazione della luce e delle tenebre, la creazione di Adamo e di Eva (fig. 26), la tentazione di Eva; Adamo che mangia il frutto proibito; ogni scena è accompagnata dalla relativa 126 Per santa Fotina e compagni, che non risultano storicamente documentati, cfr. Bibliotheca Sanctorum, vol. V, Roma 1964, pp. 993-94; secondo la relativa passio greca, Fotina è la samaritana cui Gesù chiese l’acqua; è stata anche avanzata l’ipotesi che Fotina vada identificata con santa Illuminata venerata a Massa Martana e a Montefalco in Umbria, dal momento che la passio di Illuminata presenta molti spunti identici alle passiones greche relative all’altra santa. 127 Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso questi affreschi erano visibili, pur se in pessime condizioni: cfr. Lavermicocca, Gli affreschi, cit., p. 405. 128 Anche di questi brani Lavermicocca (cfr. ibid.) aveva dato notizia nel suo intervento; cfr. inoltre La Scaletta, Le chiese rupestri, cit., p. 130.

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Fig. 24. Matera (dintorni), Cripta del Peccato originale: particolare della Vergine col Bambino (foto G. Bertelli).

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Fig. 25. Matera (dintorni), Cripta del Peccato originale: particolare dell’arcangelo Michele (foto G. Bertelli).

iscrizione. Sul lato sinistro, leggermente in basso, è stata scavata sulla parete una piccola nicchia, poco profonda, su cui è stata affrescata una scena liturgica con due personaggi: uno, il diacono, ritratto nell’atto di versare l’acqua da una brocca; il secondo, il vescovo, di lavarsi le mani. Il piano su cui poggiano i piedi tutte le figure è costituito da un vasto campo di colore giallo arricchito da numerosi fiori rossi di diverse dimensioni, un motivo che compare anche nelle absidiole e che è una sorta di «cifra», comune a tutta una serie di affreschi di età altomedievale (cattedrale di Benevento, San Vincenzo al Volturno, grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo, Seppannibale). Il ciclo materano, che ha alla base delle scelte iconografiche operate per gli episodi della Genesi un programma desunto da miniature di Bibbie di tradizione antica129, a prima vista appare abbastanza omo129 H.L. Kessler, The Illustrated Bibles from Tours, Princeton-New Jersey 1977; K. Weitzmann, H.L. Kessler, The Cotton Genesis, British Library Codex Cotton Otho B.VI, Princeton-New Jersey 1986.

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Fig. 26. Matera (dintorni), Cripta del Peccato originale: la creazione di Eva (foto G. Bertelli).

geneo e sembrerebbe realizzato tutto in un’unica fase; la possibilità offerta, durante i restauri, di utilizzare i ponteggi e quindi di esaminare a distanza molto ravvicinata le pareti e i relativi affreschi, ha fatto sì che si siano potute evidenziare non solo la presenza di maestranze diverse ma anche fasi decorative differenti. Tutto ciò appare chiaro

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se confrontiamo, ad esempio, il modo in cui sono state realizzate le vesti dei personaggi disposti entro le absidiole, definite da grosse e piatte pennellate, che non mettono in alcun modo in risalto la corporeità delle figure e non danno vitalità ai panneggi dei vestiti e quanto rimane della figura centrale del Creatore nella scena lungo la parete meridionale; qui la costruzione delle pieghe della tunica, il loro ondeggiare, l’aprirsi verso il basso come corolle di campanule, la ricchezza delle soluzioni cromatiche, evidenziano molto bene le differenze stilistiche che intercorrono tra gli affreschi campiti sulle due pareti; queste considerazioni valgono per tutte le scene relative alla Genesi, sia per le figure sia per i motivi decorativi. Un altro elemento che si è evidenziato, a seguito dell’analisi ravvicinata condotta, riguarda la possibilità che la piccola nicchia con la scena della lavanda delle mani, che stilisticamente si avvicina a quanto affrescato nelle tre absidiole, possa essere stata realizzata in un secondo momento; ciò sembra confermato dal fatto che, se si esamina da vicino lo strato di intonaco su cui questa risulta campita, questo sembra coprire quello relativo alla scena sovrastante; inoltre si notano alcune discrepanze nella realizzazione della scena stessa: i vegetali, appartenenti alla decorazione superiore, sembrano uscire direttamente dai capelli del diacono; i piedi della figura sovrastante sono realizzati in modo differente, molto raffinato il sinistro di chi guarda, meno perfetto nella resa l’altro; tutte queste anomalie farebbero pensare che la nicchietta sia stata realizzata in un secondo momento, quando la scena superiore era già terminata e che questo intervento, per i motivi stilistici evidenziati, vada messo a sua volta in relazione con le maestranze che hanno affrescato le tre absidiole, meno padrone della tecnica pittorica rispetto a chi ha eseguito la grandiosa scena tratta dalla Genesi. Per quanto riguarda la datazione dell’intero ciclo, dal momento che non credo vi sia una grande differenza cronologica tra le due fasi riconosciute, il confronto soprattutto con gli affreschi della chiesa-cripta di San Vincenzo al Volturno, dell’età di Epifanio (824-842), sembra essere abbastanza convincente, non solo per quanto riguarda la grande scena sulla parete meridionale, ma anche per i restanti affreschi campiti nella zona orientale; la «lezione» di San Vincenzo al Volturno è ancora ben individuabile nelle maestranze all’opera nella grotta, pur se gli esiti formali, che si possono cogliere nelle soluzioni adottate per la resa dei personaggi nelle absidiole, fa intendere che

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questa seconda maestranza doveva essere decisamente meno «colta» rispetto all’altra. Probabilmente, a monte del programma iconografico e dei modelli realizzati, nella grotta del Peccato originale, unica testimonianza rimasta relativa a una attività pittorica di età alto-medievale in area lucana, è ben percettibile la presenza di un progetto pittorico articolato e ambizioso da mettere in collegamento con il mondo benedettino, la cui presenza doveva essere radicata sul territorio, anche se si è sempre ritenuto, sulla base della mancanza di una documentazione scritta al riguardo, che tale ordine monastico non abbia mai vissuto in ambito rupestre130; forse l’esistenza di questo sito e i suoi presunti legami con l’ordine benedettino, non provati dai documenti ma evidenziati dalla presenza di affreschi legati al mondo monastico di area longobardo-beneventana, potrà aprire nuovi percorsi di indagine. Il territorio materano e le zone interne della Basilicata, per i secoli dell’alto Medioevo, furono sotto il potere del ducato longobardo di Benevento; in questo senso va letta, dati i rapporti tra l’area materana e la sede del ducato, una donazione, risalente al 774, di Arechi II al monastero benedettino di Santa Sofia di Benevento di una «ecclesiam SS. Angeli et Mariae quae posita est in Galo nostro Materae»131, chiesa che, anche se non identificabile con la grotta in esame, evidenzia in ogni modo gli stretti legami storici e culturali esistenti tra le due aree in epoca alto-medievale. 130 Cfr. quanto scritto da P. Dalena, I monasteri benedettini in rupe: un problema storico-archeologico, in C.D. Fonseca (a cura di), L’esperienza monastica benedettina e la Puglia. Atti del Convegno di studio organizzato in occasione del XV centenario della nascita di San Benedetto (Bari, Noci, Lecce, Picciano, 6-10 ottobre 1980), Galatina 1984, vol. II, pp. 313-32. 131 Per la critica più recente il documento citato andrebbe messo in relazione con la chiesa di Santa Maria della Vaglia o della Valle negli immediati dintorni dell’abitato di Matera; cfr. Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri di Matera, cit., pp. 60 e 81, n. 160.

EDILIZIA RELIGIOSA E CIVILE DALL’ALTO MEDIOEVO AI NORMANNI di Corrado Bozzoni Offrire un quadro organico dell’architettura e degli aggregati abitativi, nei secoli dell’alto Medioevo, per il territorio che oggi conosciamo con il nome di Basilicata, esteso dal Vulture alle valli del Sinni e del Lao, che rispettivamente verso lo Ionio e il Tirreno ne costituiscono il confine meridionale, è compito arduo e forse, allo stato attuale degli studi, ancora impossibile da assolvere, a causa dell’inesistenza pressoché totale di strutture edilizie riferibili a questo periodo, che siano conservate nella loro integrità o, quanto meno, in modo sufficiente a chiarirne con sicurezza soluzioni e forme originarie, dopo le molteplici distruzioni e trasformazioni dovute a eventi naturali o ad avvenimenti prodotti dall’uomo; e comunque, per il numero oggettivamente esiguo di edifici e siti monumentali che siano stati oggetto di indagini e di ricerche archeologiche atti a metterne in luce le vicende più antiche. Valga per tutti il caso della cattedrale longobarda e poi bizantina di Acerenza, che certo dovette esistere, presumibilmente nello stesso luogo della fabbrica attuale, ma di cui (o delle quali) in sostanza non si conosce nulla1; o quello del celeberrimo monastero dei santi Elia e Anastasio di Carbone, assai bene documentato per 1 Osservando alcuni frammenti di colonne reimpiegate nella costruzione, A. Rusconi, Il ciborio longobardo della cattedrale di Acerenza, in Atti del II Congresso nazionale di archeologia cristiana, Matera 25-31 maggio 1969, Roma 1971, pp. 42336, ha proposto la restituzione ideale di un ciborio riferibile a epoca longobarda. Vedi pure T. Pedio, Acerenza longobarda, in «Radici», 12, 1993, pp. 63-84. Circa l’introduzione del rito orientale, nel 968 la diocesi di Acerenza, come testimonia Liutprando, insieme a quelle di Gravina, Matera, Tricarico e Tursi, fu sottoposta dal patriarca di Costantinopoli Polieucto all’autorità della chiesa metropolita di Otranto.

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l’aspetto diplomatico, di cui, relativamente all’architettura, si ignora tutto, anche la stessa precisa localizzazione del primitivo impianto alto-medievale. Tuttavia, rispetto alla sintesi tracciata circa quarant’anni fa, sullo scorcio degli anni Cinquanta, da Biagio Cappelli2, qualche nuovo fatto e ritrovamento è intervenuto ad arricchire il quadro delle conoscenze, consentendo di precisare, ma non di modificare sostanzialmente, il giudizio dello studioso che indicava la cultura artistica della regione, dalla fine del tardo antico, come orientata secondo due direttrici diverse, quella «romana», o più in genere occidentale, e quella importata dai vari territori dell’Oriente bizantino: direttrici che in seguito, e in alcuni casi, «troveranno una fusione ad opera del mediatore elemento locale». 1. Venosa e il Vulture Novità utili a verificare e integrare le ipotesi precedenti, per i secoli anteriori al Mille, provengono da Venosa, grazie alle sistematiche indagini archeologiche condotte da Mariarosaria Salvatore sul più antico complesso episcopale, nel sito occupato in seguito dall’abbazia della SS. Trinità: alla metà dell’VIII secolo o nel IX, presumibilmente ormai da tempo in disuso la prima chiesa con terminazione trilobata e vasca battesimale, nella cui area sono state rinvenute numerose sepolture che fanno supporre una precoce utilizzazione di tutta la zona come cimitero, dovrebbe essere rimasto in funzione, per il culto, l’edificio a tre navate pressoché coincidente con il perimetro della cosiddetta «chiesa vecchia» (per distinguerla dalla successiva «Incompiuta»), il quale sulla base delle risultanze archeologiche era stato realizzato a distanza di alcuni decenni, forse nemmeno un secolo o poco più, dopo il menzionato triconco: una moneta, databile agli anni 578-582, rintracciata nella preparazione del mosaico pavimentale, fornisce una sicura data post quem per l’ultimazione di questa seconda cattedrale3. La quale sembra essere stata una basilica a tre 2 B. Cappelli, Aspetti e problemi dell’arte medioevale in Basilicata, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 31, 1962, pp. 283-300. Si tratta di una rielaborazione della relazione presentata al primo congresso storico della Basilicata del 1958. 3 M. Salvatore, La SS. Trinità di Venosa. Recenti scoperte, in Atti del VI Congresso nazionale di Archeologia cristiana (Pesaro-Ancona 19-22 settembre 1983), Pe-

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navate, lunga circa 33,20 m (100 piedi carolingi?4), con sei campate, vasto transetto non sporgente, abside forata da due gruppi di quattro aperture alte e strette, disposte ai lati di un «pieno» centrale, che la mettevano in comunicazione con un ambulacro concentrico, svolto sull’ampiezza dell’intero transetto; sotto l’abside si apriva un vano sotterraneo, ampliato e trasformato in epoca successiva, ma forse già esistente fin dal primo impianto (Salvatore), che è stato identificato come un precoce esempio di cripta a corridoio. La datazione agli ultimi anni del VI secolo o agli inizi del VII trova conferma dai residui tratti di mosaico della navata centrale, del transetto e dell’ambulacro, che possono essere messi in stretta relazione con quelli dei monumenti tardo-antichi di Canosa5. Questo schema planimetrico rappresenta una soluzione, se non eccezionale, certamente inconsueta: sono state ricordate in proposito le chiese di Napoli, con absidi traforate da archi su colonne, che pertanto dovevano aprirsi in una sorta di deambulatorio, come in San Giorgio Maggiore e San Giovanni Maggiore6, cui va aggiunta la basilica di San Gennaro extra moenia (con due archi che danno accesso alle attigue catacombe). Secondo Krautheimer7, le absidi aperte sono una caratteristica delle chiese paleocristiane campane, di dove il modello può essere pervenuto a Venosa. Tuttavia, la totale trasformazione dello spazio saro 1983, pp. 825-42; ma ora anche Ead., Il restauro architettonico e l’archeologia: Venosa, SS. Trinità, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. I, Storia, fonti, documentazione, Matera 1996, pp. 39-52. La chiesa con terminazione trilobata è attribuita agli anni del vescovo Stefano, documentato tra la fine del V e i primi anni del VI secolo. 4 Il piede «carolingio» di 333 m è pressoché identico al piede drusiano, che è usato già in costruzioni tardo-antiche, e attesta in genere rapporti dei costruttori con l’area settentrionale. 5 Salvatore, La SS. Trinità, cit.; i mosaici presentano in genere motivi geometrici, ma in quelli del presbiterio anche elementi figurati; il pavimento delle navate laterali era in opus spicatum. 6 Ibid. Per le chiese napoletane cfr. A. Venditti, Architettura bizantina nell’Italia meridionale. Campania-Calabria-Lucania, Napoli 1967, pp. 487-96; secondo un’ipotesi non accolta dallo studioso, lo spazio dietro l’abside avrebbe, in alcuni casi, assolto la funzione di matroneo. Questi esempi e altre chiese, datate tra il V e il VII secolo, erano già state ricordate, in relazione all’abside della «chiesa vecchia», da R. Bordenache, La SS. Trinità di Venosa, in «Ephemeris Dacoromana», 7, 1937 (estratto, pp. 1-76). 7 R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Torino 1986, p. 223; lo studioso ipotizza che l’abside di San Giorgio Maggiore si aprisse originariamente su una strada o un cortile.

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retrostante e la perdita delle navate originali, negli esempi napoletani, non consentono di stabilire un rapporto preciso tra questi e la soluzione venosina. Così pure il riferimento addotto, in base alla presenza di un ambulacro che avvolge l’intero corpo delle tre navate, alle basiliche cimiteriali di epoca costantiniana, costruite sulle vie Appia, Tiburtina, Nomentana e Labicana, è suggestivo, ma non può essere sostenuto a causa delle diverse funzioni attribuite a questi edifici romani, dove abside e ambulacro non sembrano essere stati in rapporto con la presenza di un altare (Krautheimer). Piuttosto l’esistenza di un ambiente interrato, sotto l’abside, dà credito all’ipotesi, che ugualmente è stata avanzata, della conservazione in questo vano di una sepoltura o di sacre reliquie oggetto di venerazione popolare. Benché non ne esista alcuna prova documentaria certa, la Salvatore ricorda la tradizione secondo cui, a Venosa, avrebbe avuto luogo il martirio del vescovo africano Felice e dei suoi compagni; inoltre è costantemente testimoniato il culto locale dei martiri Dominata, Senatore, Viatore e Cassiodoro. In questa luce assume un certo interesse la possibilità che l’ambulacro sia stato previsto per dare accesso o per alloggiare le reliquie, costituendo una sorta di retro-altare, in qualche modo analogo a quello alle spalle della tomba di san Lorenzo, nella basilica romana costruita da papa Pelagio II (579-590); spazio quest’ultimo, come è noto, ristrutturato all’epoca di Adriano I (772-795) con la realizzazione di una seconda abside, concentrica a quella originaria, che venne allora opportunamente forata per rendere visibili le tombe retrostanti. Non è impossibile che una simile trasformazione abbia interessato la cattedrale-chiesa vecchia di Venosa, pur senza escludere l’impiego di questo modello sin dall’origine; d’altra parte, l’innesto dell’abside esterna non in continuità di parete con i muri delle fiancate laterali, ma formando con questi una specie di dente, potrebbe essere indizio di una realizzazione successiva, o almeno prolungata nel tempo, di tale struttura. In ogni modo, nell’ottica che interessa questo contributo, sebbene absidi perforate siano presenti anche in chiese paleocristiane orientali, i riferimenti citati, la presenza di una cripta e l’assenza di pastophoria o di cappelle orientate con analoghe funzioni, suggeriscono forse una datazione più avanzata nell’ambito del VII secolo, ma soprattutto la derivazione da modelli occidentali e latini. Il vano chiesastico venne comunque trasformato, nel corso dell’alto Medioevo più tardo, ricavando all’interno del corpo delle navate alcuni spazi minori destinati a funzioni diverse, come sembrano

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a

Fig. 1. Venosa, complesso della Trinità: a) planimetria generale (in evidenza il vano trilobato tardo-antico); b) la chiesa del VI-VII secolo e, a tratteggio o punteggiate, le trasformazioni posteriori (A, ipotetico nucleo originario longobardo della «Foresteria»; B, torri di facciata; C, prolungamento della navata; D, strutture dell’XI secolo e successive); c) la navata della «chiesa vecchia» durante i lavori di restauro.

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B

C D B D b

c

A

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testimoniare alcuni muri di fattura rozza, posati direttamente sul pavimento più antico, ma in alcuni punti con tracce di decorazione (Salvatore), che ne attestano un uso non propriamente effimero8. L’ipotesi di adeguamenti, riguardanti tutto il complesso architettonico nel suo insieme, forse già tra VII e IX secolo, quando la città, rapidamente risollevatasi dalla depressione seguita alla guerra greco-gotica, sembra conseguire una certa floridezza, soprattutto grazie alle attività commerciali svolte da una ricca e influente colonia ebraica9, era già stata avanzata da Cagiano de Azevedo, indicando nel nucleo originario della cosiddetta «Foresteria» quanto meno il ricordo di una struttura abitativa longobarda10, forse un ospizio per i pellegrini, annesso alla chiesa, come farebbe supporre, secondo questo studioso, anche la tradizionale denominazione dell’edificio (domus hospitalis), ancora attestata nel Trecento11. In realtà questa fabbrica è stata profondamente ristrutturata in epoca normanna e nel basso Medioevo, quando assunse le funzioni di abitazione dell’abate, e poi fino ai restauri moderni, ma presenta, nelle campate poste a sud-est, prossime alla chiesa, la struttura tipica di una residenza alto-medievale, con il 8 Salvatore, Il restauro architettonico, cit., p. 46. La studiosa, che ha individuato tali strutture nel corso della campagna di scavo da lei diretta entro il perimetro della «chiesa vecchia», mette in evidenza la difficoltà di spiegare la funzione di questi muri e dei relativi ambienti, che attribuisce all’XI secolo, ad anni cioè molto vicini alla ristrutturazione dell’intero edificio chiesastico. In via d’ipotesi la creazione di tali spazi potrebbe essere in relazione con il monastero, annesso alla chiesa già prima del trasferimento del titolo vescovile ad altro edificio. Per queste vicende cfr. infra. 9 Un’importante comunità ebrea è documentata, a Venosa, tra il IV e il IX secolo d.C.: Ead. (a cura di), Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto 1984, p. 88, con bibliografia sull’argomento. Ma cfr. anche T. Pedio, La storia, in AA.VV., Venosa, Venosa 1992. Il periodo di relativa prosperità, prodotto dalla tollerante politica longobarda, potrebbe avere avuto termine intorno alla prima metà del IX secolo, quando la città subisce il saccheggio (842) e poi l’occupazione da parte dei Saraceni di Taranto. 10 M. Cagiano de Azevedo, Considerazioni sulla cosiddetta «Foresteria» di Venosa, in «Vetera Christianorum», 13, 1976, pp. 367-74. Sull’argomento lo studio più recente è I. Herklotz, Die sogennante Foresteria der Abteikirche zu Venosa, in C.D. Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Melfi-Venosa, 19-23 ottobre 1985), Galatina 1990, pp. 243-82. 11 Herklotz (Die sogennante Foresteria, cit., p. 274) osserva che la dizione domus hospitalis si riferisce all’appartenenza dell’abbazia all’ordine gerosolimitano e non a una specifica struttura architettonica; le stesse considerazioni valgono per altre espressioni analoghe usate in documenti del XIV secolo.

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piano terreno porticato e in gran parte aperto e quello superiore forse costituito da un unico vano, la tipica saal germanica. I confronti proposti da Cagiano sono tutti rivolti a occidente (Milano e la Germania; Torhalle di Lorsch) e verso la Puglia longobarda; tuttavia, il sito non è stato ancora archeologicamente indagato a verificare l’attendibilità della proposta. L’opera dei Benedettini, o viceversa quella di monaci orientali, sono state alternativamente indicate all’origine delle soluzioni architettoniche del monastero di Sant’Ippolito, che sorgeva, tra Monticchio e Atella, sull’opposto versante del Vulture a non molti chilometri da Venosa. La prossimità dei due centri, insieme all’adozione nell’impianto planimetrico dell’abbaziale di Monticchio di uno schema trilobato, investe il problema del rapporto tra la chiesa e la più antica cattedrale venosina attribuita al vescovo Stefano; ma proprio la diversa qualificazione funzionale dei due edifici, oltre a una certa diversità nel disegno, nelle proporzioni e nei collegamenti con le strutture adiacenti, suggeriscono piuttosto l’ipotesi di un modello o di modelli comuni che non quella di una derivazione diretta. Il quale modello può essere presumibilmente indicato nel martyrium di San Felice a Cimitile costruito da Paolino di Nola (401-402), che certamente trovò un’eco significativa nell’ambito delle costruzioni religiose dei principati longobardi di Benevento e Salerno, come attestano la cripta dell’abate Epifanio (824-842) nel complesso di San Vincenzo al Volturno o la cattedrale di Policastro Bussentino; nella stessa area vulturense, o ai suoi limiti, il tema fu ripreso qualche volta anche in ambito rupestre (nella cosiddetta Madonna delle Spinelle presso Melfi) e conosce una replica, forse assai tarda, nella chiesa di San Lorenzo a Pescopagano. Segnalato per la prima volta negli anni Sessanta da Franco Schettini12, l’edificio trilobato di Sant’Ippolito fu da questi attribuito al VII-IX secolo e all’attività di monaci italo-greci, la cui presenza nel monastero di Monticchio era già stata affermata da Giustino Fortunato13, sulla base di una consolidata tradizione, ma senza sicure 12 F. Schettini, Due monumenti paleocristiani inediti del Vulture e loro riflessi sull’architettura medievale, in «Archivio storico pugliese», 19, 1966, pp. 93-167. E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1904, p. 145, aveva potuto osservare solo la chiesa benedettina tardo-medievale a una navata, giudicandola di scarso interesse. 13 G. Fortunato, La badia di Monticchio, Trani 1904 (rist. anast. Venosa 1985).

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conferme documentarie. L’impianto, conservato per l’altezza di qualche metro sopra il livello del pavimento, risultava preceduto da un ambiente rettangolare trasversale, diviso in due campate da una fila di cinque pilastri, interpretato come un doppio nartece coperto con volte a crociera; sulla parete nord-est di quest’ultimo, ai lati del vano d’accesso al triconco, due absidiole finestrate. Secondo Schettini, questo complesso originariamente doveva essere completato da un atrio scoperto, una sorta di giardino murato e protetto all’estremità sud-ovest da una torre quadrata, ancora esistente, ritenuta più antica delle altre strutture. All’interno dell’atrio rimanevano, uniche strutture visibili prima degli scavi condotti da Schettini, le pareti di una chiesa a unica navata priva di copertura, che nell’XI secolo i Benedettini, succeduti ai Basiliani, avrebbero costruito, aprendo l’abside in breccia nella fronte del nartece, senza utilizzare gli spazi retrostanti, già in stato di decadenza. In realtà, a una pur rapida osservazione, la storia edilizia del monumento appare meno semplice e lineare di quella così ricostruita, per la presenza di tracce di pilastri, all’interno del triconco o addossati alle tre absidi, analoghi a quelli visibili nel cosiddetto «doppio nartece», che non sembrano coevi alle corrispondenti murature perimetrali; ne consegue l’ipotesi di una fase intermedia, di trasformazione di queste strutture. Né mancano altri indizi14. La complessità della vicenda trova conferma nei risultati, ancora incompleti, di scavi più recenti15, che hanno messo in luce i resti di due ambienti absidati a nave unica, disposti approssimativamente secondo un asse nord-est/ sud-ovest, non perpendicolare rispetto a quello comune al triconco e alla successiva chiesa «benedettina». Il più ampio di tali ambienti, a sud, è collegato con altri vani e sarebbe stato illuminato da una fila di finestre su un solo lato; quello minore, a nord, che in parte risulta non 14 C. Bozzoni, S. Ippolito di Monticchio, in S. Benedetti, G. Miarelli Mariani (a cura di), Saggi in onore di Guglielmo De Angelis d’Ossat, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’architettura», nuova serie, 1-10, 1987, pp. 87-90. 15 Le ricerche (con rilievi delle strutture emerse a cura di A. Rosa, S. Coronato, M. Cozzi, A. Catena) sono state condotte dalla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici della Basilicata. In questa sede si utilizza quanto riferito nelle schede di L. Cirigliano, Atella, le badie di S. Ippolito e S. Michele; di A. Capano, S. Ippolito: la chiesetta del complesso monastico e la sua sepoltura femminile; di L. Bubbico e F. Caputo, Un’ipotesi sulle fasi e l’impianto di S. Ippolito a Monticchio, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, Le architetture, Matera 1996, pp. 8-21.

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B C

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C

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Fig. 2. Monticchio, Abbazia di Sant’Ippolito: a) pianta (A, resti dell’originaria aula monoabsidata; B, chiesa con presbiterio triconco e corpo delle navate di lunghezza ridotta; C, limite del complesso nella fase iniziale); b) ipotesi restitutiva della basilica con presbiterio rialzato e cripta; c) fianco meridionale e torre.

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ispezionabile perché sottostante la moderna strada carrozzabile, presenta un’abside ampia quasi quanto l’intero lato nord-est, all’interno della quale è stata rinvenuta una sepoltura femminile, con iscrizione latina riferibile al IX secolo. Tra questi due ambienti trovò posto un chiostro largo circa 30 m, compresa l’ampiezza dei bracci coperti del portico, da cui probabilmente provengono i numerosi capitelli a stampella rintracciati nell’area, databili alla fine del XII o agli inizi del XIII secolo, per i quali è stato proposto un riferimento ai modi di Sarolo di Muro16. Allo stato attuale delle conoscenze, l’interpretazione di queste strutture non è facile. Per esempio risulta arduo definire se la piccola chiesa ad aula con la tomba femminile al suo interno sia anteriore o meno all’edificio trilobato: i muri retrostanti l’abside, che sembrano addossarsi a quelli del triconco, non necessariamente sono pertinenti all’impianto originario dell’aula e pertanto non offrono un’indicazione di valore assoluto. D’altra parte, se la costruzione di questa chiesa è da mettere in relazione diretta con il vano maggiore, ad essa rigorosamente parallelo, collocato a sud-est, e quindi con il vasto chiostro interposto tra i due ambienti, si configura un impianto di grandi dimensioni, sorprendente rispetto alla datazione alto-medievale attestata dalla presenza di una sepoltura di IX secolo. In base a queste considerazioni e alle testimonianze documentarie disponibili, ma in via ipotetica in attesa dei risultati del completamento della ricerca archeologica, è possibile proporre una cronologia17 delle fasi di accrescimento del complesso abbaziale che pone all’origine dell’insediamento benedettino (prima metà del IX secolo) la piccola chiesa ad aula monoabsidata; la datazione trova sostegno nella notizia di una donazione di alcuni beni «in loco Vultere» a favore di Montecassino18 e dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno (anno 800). L’edificio era probabilmente completato da un portico sul lato meridionale e da un locale adibito ad abitazione dei monaci, ma il prestigio raggiunto 16 A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981, p. 23. 17 La cronologia che si propone deriva da quella avanzata nella scheda di Bubbico e Caputo, Un’ipotesi, cit., pp. 14-21, con la quale sostanzialmente coincide, salvo per alcuni aspetti non essenziali. 18 La notizia, dedotta dal Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, 3 voll., «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 58-60, Roma 1925-40, vol. I, p. 255, è riportata nella scheda citata alla nota precedente e conferma la precoce presenza dei Benedettini nell’area.

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dalla comunità dovette rendere necessaria ben presto, forse nel IX secolo stesso, o nel X, la costruzione di una nuova chiesa, con abside trilobata e corpo longitudinale a pilastri con tre navate, quelle laterali desinenti nelle absidi del cosiddetto nartece. Il diverso orientamento, non a squadro, di questa costruzione rispetto all’aula originaria potrebbe essere dovuto alla conformazione del terreno in pendio oppure al reimpiego di una preesistenza, forse un sacello più antico19; comunque la ripresa del modello triconco, testimonianza dell’adesione dei costruttori alla tradizione paleocristiana certamente viva nella regione, non costituisce una particolarità eccezionale nel quadro dell’architettura benedettina longobarda, perché trova riscontro nei diversi esempi ricordati in precedenza, ai quali si può aggiungere, riferibile alla metà del IX secolo o agli inizi del X, la chiesa di Sant’Angelo in Audoaldis a Capua20. Per il monastero di Monticchio, la prima citazione certa del complesso è relativamente tarda, in un diploma di Ottone II del 982, nel quale si fa riferimento a una sua connessione con il culto longobardo dell’arcangelo21. Già in questa fase dovette essere realizzato il primitivo nucleo del chiostro, in dimensioni relazionate alla lunghezza alquanto ridotta della navata della chiesa e presumibilmente di forma trapezia, mantenendosi su uno dei suoi lati la piccola aula originaria. Il valore di memoria connesso a questa cappella, testimoniato, o prodotto, dalla sepoltura nell’abside, fu certamente molto sentito, se essa venne conservata anche nel corso delle successive ricostruzioni del complesso, anzi se il suo allineamento risultò determinante per quello dell’opposto lato del chiostro, quando quest’ultimo fu ristrutturato nella di19 Cfr. Bozzoni, S. Ippolito di Monticchio, cit. e Bubbico, Caputo, Un’ipotesi, cit. L’eventualità di una preesistenza non trova riscontri convincenti nelle fonti, e l’attribuzione dell’edificio triconco a monaci basiliani, che avrebbero raggiunto questa regione nel VII secolo, provenendo dalla Calabria o dal Salento (Schettini, Due monumenti, cit.), si basa solo su confronti iconografici tra la restituzione proposta da questo studioso e costruzioni del Mediterraneo orientale. 20 Non considerando l’ipotesi di un corpo longitudinale anteposto al triconco, Schettini esclude il riferimento alla chiesa paoliniana di Cimitile e non esamina i confronti qui suggeriti con costruzioni benedettine, per le quali cfr. A. Pantoni, Le chiese e gli edifici del monastero di S. Vincenzo al Volturno, Roma 1980; S. Vincenzo al Volturno, scavi 1994, in «Archeologia medievale», 22, 1995, pp. 37-92; G. Zampino, La chiesa di S. Angelo in Audoaldis a Capua, in «Napoli nobilissima», 7, 1968, pp. 138-50. 21 Cfr. Cirigliano, Atella, cit., p. 8; l’autenticità del documento è generalmente accettata.

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mensione più ampia, probabilmente, come si è detto, nei primi anni del XIII secolo, a quanto sembrano attestare i numerosi e già ricordati capitelli a stampella. Ma già prima di questa fase la chiesa con terminazione triconca dovette essere ampliata, portandone la lunghezza al limite attuale; poi, con l’avvento dei Normanni, si può supporre che si sia dato inizio a un più ambizioso processo di trasformazione, soprelevando parzialmente il pavimento delle navate e riducendo l’area del triconco e quella del cosiddetto nartece a un’unica ampia cripta sottostante un nuovo presbiterio rialzato22. Se è giusta questa ipotesi, che qui si avanza per completare la restituzione delle vicende edilizie, ma ormai oltre i limiti cronologici previsti da questa trattazione, forse il processo non poté essere portato a compimento per qualche sopravvenuta difficoltà, probabilmente connessa al lungo periodo di crisi che ha inizio per la comunità monastica con il terzo decennio del XIII secolo e culmina negli ultimi anni della dominazione sveva; oppure, in tale giro di anni, la nuova fabbrica da poco ultimata crollò o subì qualche irreparabile danneggiamento. Di certo, se mai il corpo longitudinale fu in effetti terminato, non sappiamo se esso fosse scandito da pilastri o da colonne, queste ultime eventualmente, e inspiegabilmente, del tutto scomparse23; poi, in epoca angioina, la chiesa fu ricostruita sfruttando per le pareti perimetrali dell’unica nuova navata le fondazioni continue dei «colonnati» della chiesa normanna e aprendo in breccia un’abside nel muro di contenimento della cripta. Tale l’edificio è rimasto, fino e anche dopo l’abbandono definitivo seguito all’ulteriore crollo del 1456, nelle forme che vide Bertaux, ridottissima testimonianza di quello che oggi si rivela uno dei più interessanti siti monumentali della regione. Quasi nulla resta, di strutture architettoniche alto-medievali, nelle altre emergenze edilizie nell’area del Vulture ricordate da documenti e da cronache. Gli scavi condotti entro il perimetro della moderna chiesa dell’abbazia di Banzi consentono di restituire con buona attendibilità la pianta dell’edificio normanno consacrato da Urbano II nel 1089, ma non hanno fornito indicazioni apprezzabili riguardo alle

22 Trovano una spiegazione, in questo modo, sia la differenza di quota tra i due pavimenti, sia la presenza dei pilastri nel triconco, oltre che nel cosiddetto nartece, introdotti per sorreggere le volte e su queste il pavimento del nuovo presbiterio. 23 L’ipotesi di un corpo longitudinale con colonne è avanzata da Bubbico, Un’ipotesi, cit., p. 19, per il ritrovamento nell’area di tre grandi capitelli.

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caratteristiche della costruzione precedente24: tracce di un muro trasversale in prossimità della facciata potrebbero autorizzare l’ipotesi di un impianto più corto, ma simile a quello dell’XI secolo, che era una semplice basilica su pilastri, preceduta da un nartece o portico d’ingresso, e con presbiterio forse rialzato di tre gradini. Le tre absidi, delle quali rimangono tracce in pianta e in elevato, erano strettamente concatenate, come a Montecassino e in alcune sue discendenze, che sviluppano un impianto molto simile a quello dell’abbaziale di Banzi25. E in effetti sembra che quest’ultima fosse assoggettata fin dal 797-798 al cenobio campano, retto allora dall’abate Gisulfo della famiglia dei duchi di Benevento, promotore di una ricostruzione della sua basilica, nella quale si è riconosciuto il diretto modello della fabbrica desideriana26. L’appartenenza di Banzi a Montecassino appare confermata in documenti sicuri, precedenti la conquista normanna27: i diplomi di Hugone e di Lotario del 943, di Ottone II (981), Enrico II (1014), Corrado (1038), Enrico III (1047). Da queste notizie riceve ulteriore sostegno l’ipotesi avanzata, che la costruzione alto-medievale della chiesa sviluppasse già l’impianto basilicale triabsidato di derivazione cassinese, ripreso ancora nel successivo rifacimento di epoca nor24 M. Salvatore, Il restauro architettonico e l’archeologia. Banzi, S. Maria, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. I, cit., pp. 53-58, e la scheda di L. Bubbico, F. Caputo, Banzi, l’abbazia di S. Maria, ivi, vol. II, cit., pp. 39-47. La chiesa normanna presentava sei o sette campate; l’incertezza in proposito deriva dall’ipotesi che l’ultimo valico, corrispondente al presbiterio rialzato, risultasse più ampio, come avviene anche nella chiesa di Santa Maria a Montemilone, dipendenza di Banzi, che forse ripeteva il modello dell’abbaziale madre, in forme ridotte (ivi, vol. II, cit., p. 54). 25 Disegno e proporzioni delle absidi, nella chiesa dell’XI secolo, trovano una buona corrispondenza con il Sant’Angelo in Formis e con il San Pietro ad Montes (entrambe però con colonne anziché pilastri), con le quali Banzi avrebbe in comune anche la soluzione priva del transetto. Per il tipo della basilica a pilastri sono possibili i confronti con numerosi esempi abruzzesi, in particolare con il San Pietro ad oratorium presso Capestrano. L’impiego di questo tipo di sostegni al posto delle colonne costituisce indubbiamente una variante «provinciale» del modello, o connessa all’indisponibilità di materiale antico, ma è anche in qualche modo indice di un gusto per la modulazione stereometrica dello spazio di matrice alto-medievale e preromanica. Cfr. in proposito anche G. Carbonara, Iussu Desiderii. Montecassino e l’architettura campano-abruzzese nell’undicesimo secolo, Roma 1979. 26 A. Pantoni, Le vicende della Basilica di Montecassino attraverso la documentazione archeologica, Montecassino 1973; Carbonara, Iussu Desiderii, cit. 27 La dipendenza dell’abbazia di Santa Maria di Banzi da Montecassino fin dal 797-798, o dall’815-816, è accettata dalla storiografia recente; per questa notizia e per gli altri documenti citati cfr. Caputo, Banzi, cit., p. 39.

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manna. Che anzi, attraverso questo edificio, ad opera di Montecassino, il modello sia precocemente penetrato nella regione e quindi fatto proprio dai costruttori locali, anche in chiese secolari, seppure nella versione più semplice, caratterizzata dalla sostituzione delle colonne con pilastri e, in molti casi, dall’assenza del transetto e in forme non esenti da accattivanti contaminazioni con influenze diverse e con motivi propriamente locali. In altre parole, dagli esempi fin qui considerati emerge, tra fine VIII e ultimo quarto del X secolo, il contributo determinante dei monaci di Montecassino, di San Vincenzo al Volturno e in genere dei Benedettini, legati alle corti di Benevento e di Salerno da strette connessioni dinastiche e politiche, alla formazione e alla diffusione di un linguaggio architettonico proprio della regione. Questa ipotesi evidentemente richiede ulteriori riscontri sul territorio, ardui per la scomparsa e difficoltà di lettura delle testimonianze edilizie alto-medievali, ma trova conferma nelle fonti che testimoniano una presenza capillare dei monaci, favorita dalle donazioni di duchi e gastaldi longobardi: a Matera l’abbazia di Santa Sofia di Benevento possiede la chiesa di Sant’Angelo e Santa Maria del Galo28; i Benedettini di San Vincenzo al Volturno quelle di Sant’Elia e San Pietro (probabilmente cripte rupestri) nella stessa città, e sul Bradano la chiesa di San Silvestro e il San Lorenzo vicino Montescaglioso29. Gli stessi sono presenti, già nei primi anni del IX secolo, in finibus Acerentinis, essendo loro confermata nell’833 la chiesa di San Secondo presso Acerenza30,

28 Forse da riconoscere nella cripta del Peccato originale, con affreschi di derivazione campano-apula (V. Pace, in C. Bertelli [a cura di], La pittura in Italia. L’altomedioevo, Milano 1994, p. 278). Secondo un’altra ipotesi la chiesa longobarda del Galo sarebbe da identificarsi con le strutture alto-medievali ravvisabili nel complesso della Vaglia (le prime due campate prospicienti il primo portale a sinistra). Cfr. M. Padula, C. Motta, G. Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri rupestri di Matera, Roma 1995 e la scheda di B. Lafratta, S. Maria della Valle, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., pp. 142-47. 29 Cronicon vulturnense, vol. II, pp. 12-14. Il documento è discusso nella scheda di F. Caputo, Matera, gli insediamenti benedettini altomedievali, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., pp. 110-13. Dal fatto che la chiesa di San Lorenzo nel 1099 risulti appartenere all’abbazia di San Michele di Montescaglioso, dove i Benedettini si insediano verso la metà dell’XI secolo, F. Caputo (ivi, p. 149) postula un possibile collegamento tra questa comunità e il monastero del Volturno. 30 Cronicon vulturnense, vol. I, pp. 255, 261, 292.

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Fig. 3. a) Banzi, Abbazia di Santa Maria: pianta restitutiva della chiesa del XII secolo (in tratteggio ipotetiche strutture alto-medievali); b) Montemilone, Abbazia di Santa Maria: pianta; c) San Chirico Raparo, Abbazia di Sant’Angelo: pianta (A, chiesa del X-XI secolo; B, fondazioni torre; C, chiesa del XII secolo; D, torre del XII secolo).

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mentre possedimenti dell’abbazia di San Benedetto di Salerno sono testimoniati a Potenza, a Matera e a Grumento31. Matera in particolare, tra IX e X secolo, in un periodo che pur segna la piena affermazione nell’area dell’autorità imperiale bizantina, conosce in un clima di operosa coesistenza tra Latini, Longobardi e Greci, un importante fiorire di insediamenti benedettini. Tra questi, il monastero di Sant’Eustachio: qui la chiesa, ricostruita e consacrata nel 1082, nella forma di una basilica a colonne con portico antistante, fu realizzata presumibilmente in sostituzione di un impianto più antico di schema analogo32. Inoltre, già prima dell’XI secolo, monaci e monache occidentali entrano in possesso di complessi ipogeici, forse originariamente appartenuti ai Basiliani, come testimonia la presenza di pitture «benedettine» riferibili all’alto Medioevo. A fronte di questa documentata diffusione, le notizie relative agli insediamenti di monaci orientali anteriori al X secolo (allorché si verifica un forte afflusso di religiosi greci provenienti dalla Calabria e dalla Sicilia a seguito del compimento dell’occupazione araba dell’isola e delle lotte interne tra i musulmani), sono molto più scarse, e ancora meno significative le testimonianze relative ad architetture costruite, limitate quasi esclusivamente alla tipologia della nave unica, di modeste dimensioni, con un’abside e talora due absidiole o nicchie laterali estradossate o in spessore di muro. Tra le poche eccezioni, San Laviero di Acerenza, ora scomparsa, avrebbe presentato una pianta a croce greca iscritta con volta a crociera sulla campata centrale; San Nicola dei Greci a Rivel-

31 A Grumento l’individuazione di una basilica a pilastri (San Marco), riferibile al IX o X secolo, con abside nella navata centrale, oltre a offrire un esempio che testimonia il precoce impiego di questa tipologia in ambito regionale, potrebbe essere messa in relazione con la presenza dei Benedettini salernitani, confermando l’ipotesi dell’introduzione del modello nella regione da parte di questi monaci. Per le indagini archeologiche sull’edificio cfr. P. Bottini, Nuove ricerche nelle necropoli di Grumentum, in «Bollettino storico della Basilicata», 6, 1990, pp. 89-97. 32 Quanto resta della chiesa abbaziale è solo una cripta, in parte scavata e in parte costruita, costituita da nove campate quasi quadrate coperte a cupola, che pertanto allude al tipo della croce greca; ma le testimonianze letterarie sembrano unanimi nel descrivere il soprastante impianto sub divo come una basilica a sviluppo longitudinale. Così pure, secondo la scheda di Caputo, Matera, gli insediamenti benedettini, cit., p. 111, doveva presentarsi originariamente l’insediamento ipogeico di San Nicola sull’Appia (San Pietro in principibus), di cui ciò che rimane costituirebbe il presbiterio di una chiesa basilicale a pilastri, poi crollata, da collocarsi pertanto in ambito benedettino. Cfr. anche Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. I, p. 348.

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lo, che già nel titolo attesta la sua pertinenza al rito orientale, sembra suggerire un originario impianto a croce libera33. 2. L’architettura di matrice bizantina Il processo di bizantinizzazione della Basilicata, in senso amministrativo ma anche religioso, riceve un forte impulso con il ripristino del potere imperiale in gran parte dell’Italia del Sud dopo l’886, grazie ai successi militari riportati dagli eserciti di Niceforo Foca. Alcuni studiosi inoltre hanno sottolineato come questo fenomeno abbia incontrato un terreno particolarmente favorevole grazie a un sostrato locale profondamente intriso di cultura e spiritualità greca, dovuto all’azione di monaci eremiti basiliani provenienti dall’Africa e dalla Siria, attratti verso i territori longobardi, già nel VII secolo, dalla natura selvaggia dei luoghi, e poi, nell’VIII, spinti a rifugiarvisi dalla politica iconoclasta delle autorità bizantine34; e questa ultima osservazione, pur senza voler dare al fenomeno iconoclasta un’importanza eccessiva, merita attenzione, quando si considerino le indiscutibili tracce di grecità riscontrabili nell’area che si può definire «Lucania longobarda», cioè la Lucania a ovest del Tanagro (attualmente esterna ai confini amministrativi della Basilicata), che di fatto non è mai stata direttamente soggetta al controllo politico di Bisanzio, salvo la breve parentesi immediatamente successiva alla fine della guerra greco-gotica. Tuttavia, a tanta ricchezza di memorie, espressa nei toponimi, nel linguaggio popolare, nelle consuetudini liturgiche, corrisponde ben poco, come si è detto, nel campo dell’architettura costruita, sicché si può indicare l’unica «architettura» autenticamente bizantina della regione35, o almeno l’unica conservata fino quasi ai 33 Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, p. 878; Cappelli, Aspetti e problemi, cit., pp. 288 sgg., cui si deve una sintetica descrizione della chiesa di Acerenza, parla di «pianta quadrata con quattro sostegni centrali sui quali si incardina tutto un sistema di volte a botte e a crociera», che «prelude» in forma ridotta a quello della Santa Lucia di Rapolla, in genere ritenuta di periodo normanno o anche più tarda. 34 Sostiene questa tesi in particolare B. Cappelli, Il monachesimo basiliano e la grecità medioevale, in Id., Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani, Napoli 1963, pp. 11-33. 35 Così («le seul monument byzantin») lo definisce A. Guillou, La Lucanie byzantine, in «Byzantion», 35, 1965, p. 139; ad esso si può aggiungere la già ricordata

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nostri giorni e ben conosciuta, nella chiesa del monastero di Sant’Angelo sul monte Raparo, con la sua cupola (crollata circa settanta anni fa) caratterizzata all’estradosso dal singolare profilo a gradoni coperti con filari di tegole laterizie. L’edificio, che sorge in posizione isolata su un terreno in forte pendio, a poca distanza dal centro abitato di San Chirico, si presentava, e venne descritto da Stefan Bals36, come un vano pressappoco rettangolare allungato, coperto da volta a botte, interrotta dalla cupola antistante il bema, che si innalzava su un alto tamburo cilindrico decorato all’esterno mediante archeggiature cieche e forato da quattro aperture; il raccordo tra quadrato di base (emergente sulle falde del tetto con un semplice dado) e imposta circolare del tamburo fu realizzato con pennacchi a tromba. Una sola abside, con finestra in asse37, conclude ancora la navata, fiancheggiata da profondi arconi longitudinali, quasi cappelle laterali, che ritmano le pareti in quattro campate (nella terza si elevava la cupola, su archi assai più alti e a sesto acuto38, configurando in tal modo una specie di transetto): era proprio questo articolato sistema strutturale, in realtà addossato in un periodo successivo al muro originario rettilineo, a sorreggere le pesanti coperture, pressoché triplicando la profondità resistente delle pareti e riducendo contemporaneamente la luce di volte e cupola. La «sapienza» costruttiva delle maestranze si manifestava anche in altro modo, perché l’enorme rinfianco soprastante gli archi laterali risultava alleggerito da un sistema di vani con voltine longitudinali, che avevano l’ulteriore scopo di contrastare la spinta delle coperture maggiori. Sul lato della facciata, del tipo a capanna, verso monte, fu

chiesa di Santa Lucia a Rapolla. Per la datazione a epoca normanna dell’impianto del monte Raparo cfr. infra. 36 S.M. Bals, Sant’Angelo al Monte Raparo Basilicata, in «Ephemeris Dacoromana», 5, 1932, pp. 35-56. Lo studioso accenna all’esistenza di «quattrocento e più chiese bizantine» esistenti fino al XIV secolo nell’Italia meridionale, delle quali non rimane quasi nulla. 37 Una seconda finestra, a quota più bassa e leggermente disassata, appare pertinente a una precedente fase costruttiva, per la quale cfr. infra. 38 Bals, Sant’Angelo al Monte Raparo, cit., p. 43 interpreta questa forma, diversa da quella dei restanti archi a tutto sesto, come un’accortezza statica dei costruttori, in ragione dei carichi maggiori prodotti dalla cupola; l’arco acuto è impiegato anche nel portalino della facciata, che per i suoi caratteri costruttivi (bel paramento in pietra squadrata) sembra riferibile a un momento costruttivo diverso, forse da mettere in relazione con l’intervento di maestranze occidentali.

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Fig. 4. San Chirico Raparo, Abbazia di Sant’Angelo: a) sezione longitudinale; b) veduta del monastero prima del crollo.

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realizzata una torre difensiva, collegata alle costruzioni residenziali, delle quali, già all’epoca della visita di Bals, rimaneva soltanto il corpo di fabbrica più a valle. L’accentuata pendenza naturale del sito fa sì che la chiesa poggi, per il suo fianco a monte, direttamente sulla roccia, mentre il lato opposto richiese un’opportuna sostruzione muraria, costituita da un cunicolo longitudinale coperto a botte e da altri vani, che inoltre danno accesso, mediante una ripida scala in discesa, a una grotta anacoretica sottostante l’edificio sacro, dove sono stati individuate tracce di strutture costruite, che ne accertano l’antico uso liturgico. Secondo la vita di san Vitale da Castronuovo, il monastero fu fondato da questo santo siciliano, il quale, proveniente dalla Calabria, «pervenit ad criptam S. Angeli»; nei pressi della quale si sarebbe stabilito, in una data anteriore al 984, restaurando un’antica chiesa dedicata a sant’Adriano. Viene naturale supporre la coincidenza, rispettivamente, della grotta sottostante la chiesa e della chiesa stessa, con la cripta e con l’edificio sacro menzionati dalla biografia, ma in realtà, a parte l’evidenza, per la chiesa, di almeno due fasi costruttive distinte (come già si è accennato in sede di descrizione, una prima relativa alle pareti longitudinali rettilinee, comportanti una probabile copertura lignea, la seconda con la realizzazione dei contrafforti, degli archi interni, delle volte e della cupola), né l’una né l’altra di queste successive costruzioni possono essere messe in rapporto con l’originaria fabbrica del X secolo39. Scavi, recentemente condotti all’interno dell’area della chiesa, hanno accertato in fondazione l’esistenza di un impianto chiesastico più antico, rappresentato da un’aula rettangolare monoabsidata, la cui datazione su base archeologica può essere fatta risalire agli ultimi decenni del X secolo40, forse 39 L’attribuzione della chiesa all’epoca di san Vitale è sostenuta invece da Cappelli, Aspetti e problemi, cit. ed era stata avanzata anche in opere generali come quelle di P. Orsi, Le chiese basiliane della Calabria, Firenze 1929 e di C. Cecchelli, Sguardo generale all’architettura bizantina in Italia, in «Studi bizantini e neoellenici», 5, 1935 (riferimento al X-XI secolo); a questa ultima indicazione, comunque a epoca precedente alla conquista normanna, si attiene anche Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, p. 886. Bals, Sant’Angelo al Monte Raparo, cit., che per primo distinse due fasi costruttive diverse, rilevando la presenza di affreschi sotto i contrafforti interni della navata (pertanto da riferirsi a un intervento successivo rispetto alle pareti), ritenne invece «l’architettura generale della chiesa» non anteriore al XII secolo. 40 Cfr. per le ricerche condotte all’inizio degli anni Novanta C. Carletti, G.

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divisa in due vani da una parete trasversale o da un arco. Pertanto la chiesa costruita o restaurata da san Vitale doveva essere un edificio semplicissimo, di un tipo largamente diffuso in tutta l’Italia meridionale, e soprattutto in Calabria, tra X e XV secolo. Ma due particolarità sembrano distinguere la struttura in esame dai modelli più consueti. In primo luogo la divisione in due ambienti, caratteristica che si riscontrava anche nella scomparsa chiesa di San Pietro a Santa Severina41 e in pochi altri esempi: il vano anteriore, quasi quadrato42, poteva servire da nartece; più difficilmente segnava la separazione tra navata e bema, perché nel secondo vano sembrano identificabili le tracce di un’iconostasi43. In secondo luogo la probabile presenza, rilevata in fondazione, di una torre, come nel Sant’Ippolito di Monticchio, eretta a valle per proteggere i due ingressi della chiesa, sul lato occidentale e meridionale, forse da mettere in relazione con la posizione isolata dell’abbazia; una torre, a monte, verrà innalzata

Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte S. Angelo, 18-21 novembre 1992), Bari 1994, con i contributi di G. Bertelli, G. Degano, S. Angelo a San Chirico al Raparo, pp. 427-52; P. Favia, Primi risultati dell’indagine archeologica nell’Abbazia di Sant’Angelo al Monte Raparo, pp. 452-86; R. Giuliani, Elementi decorativi in stucco dall’Abbazia di Sant’Angelo al Monte Raparo, pp. 487-506. 41 Si può osservare che in corrispondenza del setto divisorio i muri perimetrali formano visibilmente un angolo ottuso, che fa presumere due fasi costruttive diverse; la stessa particolarità si nota anche nella chiesetta di San Leonardo a Orsomarzo (attribuita al XIV secolo), dove però la piegatura non corrisponde a una divisione in due vani, ma solo a una differenza di quota segnata da un gradino. 42 Un vano quadrato, per il quale si è avanzata l’ipotesi di destinazione a cappella funeraria, precede anche la navata del San Giovanni Vecchio di Stilo, ma per la prima chiesa del Raparo l’indagine archeologica non ha rivelato la presenza di sepolture, e comunque sotto ogni aspetto l’edificio calabrese, con il suo complesso presbiterio, è diverso dal tipo di chiesa ad aula semplice. Qualche rapporto, invece, esiste tra il San Giovanni, generalmente attribuito ai primi anni del XII secolo, e l’ultimo rifacimento della chiesa del Raparo: per esempio il basamento quadrato, emergente dalle coperture al di sotto del tamburo (più evidente nella chiesa di Stilo), che contribuisce a dare risalto alla cupola e a fare di questa il perno visivo dell’intera composizione; o l’analogo motivo di archeggiature nel tamburo stesso. L. Bubbico, F. Caputo, Caratteri dell’architettura monastica in Basilicata, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., p. 229, segnalano inoltre l’esistenza di un rudere, riferibile alla chiesa di Santa Maria a Trivigno, che nel profilo planimetrico presenta un andamento quasi identico al presbiterio del San Giovanni di Stilo. 43 P. Favia, Primi risultati, in Carletti, Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici, cit., pp. 466-67.

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anche a difesa del successivo rifacimento. È possibile che qui, come in altri casi, fosse affidato al monastero il compito di protezione di uno dei villaggi rurali (chorìa) che in periodo bizantino costituiscono il paesaggio abitativo della regione. L’esistenza di un cenobio dedicato all’arcangelo è menzionata ripetutamente in documenti normanni a partire dal 108544; se ne può dedurre che il monastero del Raparo rappresenti una delle prime testimonianze dell’interesse e del favore dei conquistatori nei riguardi di una comunità italo-greca45. Grazie al quale, nello stesso periodo (terzo quarto dell’XI secolo), dovette essere costruita la nuova chiesa46, sempre del tipo a nave unica e una sola abside, senza partizioni interne, ma in proporzioni ormai monumentali: un’estensione longitudinale di circa 22 m, forse 70 piedi bizantini di 31,5 cm, rappresenta un esempio eccezionale per questa tipologia, che raramente supera i 50 piedi (tra i pochi casi il San Giovanni di Fossato o l’Annunziata di San Niceto, entrambi in Calabria ultra, che raggiungono rispettivamente 55 e 58 piedi bizantini), e assimila l’edificio ai maggiori impianti basiliani di epoca normanna dell’Italia meridionale. Peraltro, lo sviluppo verticale della chiesa, in questa fase, rimase probabilmente contenuto, assai minore di quello conseguito con il successivo rifacimento (ormai nel XII secolo, quando furono realizzate volte e cupola), come sembra evidenziare la trasformazione dell’abside, soprelevata, in tale occasione, e articolata con una serie di archeggia-

Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, p. 886. La politica dei Normanni verso le comunità italo-greche, già nel periodo della conquista, non dovette essere improntata a una generale ostilità, ma piuttosto a un atteggiamento duttile, attento alle varie situazioni demografiche e sociali: cfr. C.D. Fonseca, L’esperienza monastica benedettina nelle antiche province della Puglia: bilancio storiografico e prospettive di ricerca, in Id. (a cura di), L’esperienza monastica benedettina e la Puglia. Atti del Convegno di studio in occasione del XV centenario della nascita di S. Benedetto (Bari-Noci-Lecce-Picciano, 6-10 ottobre 1980), 2 voll., «Università degli Studi di Lecce-Istituto di Storia medioevale e moderna, Saggi e ricerche», 9, Galatina 1983-84, vol. I, p. 33. 46 Conferma questa ipotesi la datazione alla fine dell’XI secolo del registro più antico di pitture presenti nell’edificio, esteso, come fu osservato da Bals, al di sotto dei pilastri che sorreggono le arcate interne (Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, cit., pp. 122-24; G. Bertelli, Gli affreschi e gli stucchi di S. Angelo al Raparo, in Bubbico, Caputo, Maurano [a cura di], Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., p. 190). 44 45

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ture simili a quelle del tamburo, accecando una precedente finestra più bassa. L’impiego, per la chiesa del Raparo, del tipo a nave unica, con semplice copertura a tetto, attesta gli stretti legami, attraverso l’opera di religiosi itineranti, tra l’esperienza monastica italo-greca in Basilicata e in Calabria, dove questo modello è di gran lunga il più frequente negli impianti chiesastici basiliani. Potrebbe essere una conferma dell’ipotesi avanzata da Cappelli, anche in base alle fonti agiografiche, dell’importazione di questa tipologia (peraltro largamente diffusa in tutte le province bizantine) dalla Calabria alla Basilicata, e in particolare dal Sud alle zone monastiche del Mercurion e del Latinianon, che nel X secolo vedono un afflusso imponente di monaci provenienti dalle estreme regioni meridionali47. Un’ulteriore testimonianza archeologica sembra venire dalla chiesa di Sant’Elia presso Lauria, antico possesso di un cenobio di San Filippo, che potrebbe identificarsi con quello fondato da san Saba il Giovane stabilitosi nel Mercurion con i monaci Cristoforo e Macario: l’aula, recentemente restaurata, presentava la particolarità di un arco, circa a metà del suo sviluppo, a sostenere le travi lignee del tetto. Nello stesso ambito territoriale, Cappelli ricorda le chiese di Rivello, dove, oltre a quella di San Nicola, forse a croce libera, già menzionata, il tipo più semplice è testimoniato nella chiesa di Santa Barbara; e a Maratea, Santa Maria degli Ulivi, probabilmente di origine non monastica, presenta due absidiole in spessore di muro ai lati dell’abside, secondo una variante visibile anche in numerosi esempi calabresi. Sempre ai confini calabro-lucani, ma sul basso corso del Sinni, presso Colobraro, con il titolo di Santa Maria della Neve rimane ancora, privata dell’abside originaria, la chiesa del monastero di Santa Maria di Cironofrio, menzionato nel XII secolo ma certamente più antico. Tuttavia, il problema della diffusione del tipo della chiesetta ad aula in Basilicata, nei suoi rapporti con gli analoghi edifici di Cala47 Cappelli, Aspetti e problemi, cit.; nella sostanza l’ipotesi è ripresa anche da Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. I, pp. 163 sgg. Per la localizzazione della regione monastica del Mercurion tra la valle del Lao e l’alto corso del Sinni cfr. B. Cappelli, Il Mercurion, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 25, 1956, pp. 43-62; per il Latinianon, individuato in corrispondenza del medio corso del Sinni, Id., Alla ricerca di Latinianon, in Il monachesimo basiliano, cit., pp. 255-71.

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bria e Terra d’Otranto e con la grande diaspora dei monaci siculo-greci nel X secolo, richiede una verifica, mediante ulteriori specifiche indagini archeologiche e più estese, sistematiche ricerche su tutto il territorio48. Infatti è necessario osservare, in primo luogo, che per quasi tutti gli esempi citati (e per gli altri che si possono aggiungere) non sono pacificamente accettate le ipotesi relative alle origini dell’insediamento e conseguentemente alle cronologie; in secondo luogo, che il tipo di chiesa a nave unica absidata, nelle sue diverse varianti, è impiegato, nella regione, anche per le costruzioni benedettine e degli altri ordini monastici occidentali, probabilmente già dal IX e X secolo, se fu benedettina la primitiva chiesa dell’abbazia di Monticchio, ricordata in precedenza, che conserva nell’abside una tomba con iscrizione latina. L’impiego di questa tipologia, comunque, si riscontra in molte chiese costruite da monaci «occidentali», documentate dal XII e XIII secolo ma forse di origine precedente, come Santa Maria del Monte49, in località Toppo Sant’Agata, non lontana da Melfi, dove le pareti longitudinali sono scandite da tre risalti piatti, addossati a sorreggere archi trasversali; Santa Maria di Monte Irso, dipendente dal monastero benedettino di Santa Maria dello Juso; San Nicola a Oppido Lucano, che al posto delle absidiole aveva due nicchie rettangolari sollevate dal pavimento; Santa Maria di Serra Cognato a Calciano, con unica abside in spessore di muro, e Santa Maria degli Armeni a Forenza, queste ultime entrambe dipendenti da Montevergine: esempi, seppure tardi, che testimoniano il profondo radicamento di questo modello spaziale nella tradizione edilizia della regione e sembrano escluderne un’importazione relativamente recente. Inoltre, sotto l’aspetto tipologico, l’assoluta prevalenza dell’ingresso assiale, sempre presente, di contro alla preferenza per l’accesso su uno dei lati lunghi, generalmente quello a sud, come invece negli esempi calabresi, dà consistenza all’ipotesi di una genesi e di uno sviluppo del tipo di chiesa ad aula, in Basilicata, in modo parallelo ma indipendente dai modelli delle estreme regioni 48 Cfr., per analoghe riserve, Bubbico, Caputo, Caratteri dell’architettura monastica, cit., p. 228. 49 Cappelli, Aspetti e problemi, cit. e Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, p. 850 postulano l’afferenza di questa chiesa a un insediamento basiliano; tuttavia l’edificio, a partire dalla bolla di Callisto II del 1120, in favore dell’abbazia benedettina di Monticchio, è costantemente menzionato tra le dipendenze di quest’ultima.

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meridionali, forse attraverso l’esperienza dell’architettura religiosa rupestre50.

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Fig. 5. Chiese a navata unica: a) Lauria, Chiesa di Sant’Elia: pianta; b) Colobraro, Santa Maria di Cironofrio: pianta; c) Oppido Lucano, San Nicola: pianta; d) Toppo Sant’Agata, Chiesa di Santa Maria del Monte: pianta; e) Calciano, Chiesa di Santa Maria di Serra Cognato: pianta. 50 Tra le molte chiese rupestri materane del tipo ad aula presenta l’ingresso su uno dei lati lunghi solo quella di San Gregorio (sicuramente tarda: XII secolo?).

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Le strutture rupestri costituiscono, come è noto, un capitolo importante nel quadro edilizio regionale, favorite non solo dalla natura geologica e morfologica del territorio, caratterizzato dalla presenza delle cosiddette «lame» e «gravine»51, ma rispondendo anche a una precisa scelta abitativa delle popolazioni, che, in relazione al processo di inaridimento delle campagne culminato nel VII secolo, tendono a occupare queste depressioni vallive e rocciose, nel fondo delle quali si concentrano le migliori risorse agricole e naturali. Il fenomeno trogloditico pertanto, fin dalle sue origini, non è da mettere in rapporto esclusivamente con l’opera di eremiti o con insediamenti di tipo monastico, sia basiliani che benedettini, presentando, nel campo stesso delle realizzazioni sacre, aspetti diversi e interessando impianti parrocchiali o di altro genere a servizio dei nuclei abitativi. Oltre che alla loro destinazione, altrettanta cautela va rivolta al problema della datazione delle chiese rupestri, perché se la relativa attività di scavo è già fiorente tra IX e X secolo, essa si protrae tuttavia oltre la fine del Medioevo, talora replicando con piccole varianti soluzioni tradizionali; la frammentarietà o inesistenza di fonti documentarie rende ardua una definizione cronologica di tali organismi, che, in attesa di ulteriori indagini, si basa su considerazioni di carattere ambientale (quali la posizione isolata, l’attestarsi attorno alla chiesa di celle riferibili a una laura monastica o la presenza di sepolture: particolarità generalmente messe in rapporto con strutture di origine alto-medievale) oppure su riscontri tipologici. Il tipo ad aula semplice, di forma approssimativamente quadrilatera, con una o più absidi ed eventuali altri ambienti annessi al vano principale, in funzione di nartece o sacrestia, è rappresentato nella forma più completa, tra le chiese della città e dell’agro di Matera, dalla «cripta» di Santa Barbara. Si tratta di un vano trapezoidale, con la base maggiore verso il presbiterio e, dal lato opposto, l’ingresso preceduto da un piccolo nartece che si amplia, sulla sinistra, in un altro ambiente; il presbiterio è separato dall’unica navata mediante una quinta, traforata da un arco d’accesso e da coppie di aperture

51 «Costituite le prime da brevi e contenute vallette che hanno il fondo ricco di terreno vegetale [...] le seconde da profondi spacchi, con pareti che cadono ripidissime e alle volte quasi a strapiombo, le quali rinserrano [...] un corso d’acqua» (B. Cappelli, Le chiese rupestri del Materano, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 24, 1955, pp. 223-89).

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simmetricamente disposte, costituita da una parete di tufo conservata in situ nel lavoro di scavo. Questa sorta di rozza iconostasi, o templon, suggerisce immediatamente il carattere bizantino e la rispondenza al rito orientale dello spazio, confermati dalla presenza delle due embrionali «cupole» scavate nella copertura piana, disposte sull’asse della navata, e dalla conformazione del presbiterio, con profonda abside semicircolare e con un’altra cavità, a fondo piano, probabilmente in funzione di pròthesis, a sinistra. Anche le pareti dell’aula presentano nicchie e arcature, attraverso una delle quali si accede a un ambiente che forse serviva da alloggio al sacerdote o al custode della cappella. La datazione è incerta, in assenza di epigrafi e di qualsiasi documento utile a questo scopo; le pitture dell’iconostasi e delle pareti sono certamente tarde (XV-XVI secolo) e testimoniano quindi, con sicurezza, solo il prolungato uso della struttura. Cappelli ritiene la chiesetta non anteriore all’886 (riconquista bizantina del territorio), Venditti alla metà del X secolo52; nonostante una certa rozzezza dell’intaglio, la complessità e l’articolazione dell’impianto iconografico, e soprattutto la presenza dell’iconostasi, suggeriscono una data ancora più bassa, nel corso dell’XI secolo o dopo53. Tuttavia, un carattere che forse rivela la persistenza di procedimenti progettuali e di consuetudini visive legati alla tradizione tardo-antica è ravvisabile nella decisa deviazione dell’asse verso destra, nel passaggio dal nartece alla navata; particolarità che non dovrebbe essere accidentale, perché si riscontra anche in altre chiese rupestri materane del tipo ad aula, come quella di Sant’Agnese. Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. I, p. 338. Una ricerca condotta sulle chiese rupestri di Cappadocia, Puglia e Sicilia escluderebbe la presenza di tali tramezzi risparmiati nello scavo, in chiese anteriori allo scisma del 1054, quando cominciò a imporsi l’uso di corrispondere alle normative liturgiche del rito orientale. Cfr. F. Dell’Acqua, A. Messina, Il templon nelle chiese rupestri dell’Italia meridionale, in «Byzantion», 59, 1989, pp. 20 sgg. Per questa chiesa, per quella precedentemente ricordata di San Gregorio (in realtà apparentemente più complessa, nella ricerca di effetti prospettici quasi illusionistici) e per la cripta di San Nicola alla Murgia, che presenta tra aula e presbiterio un’iconostasi con arco centrale fiancheggiato da due finestre, gli stessi studiosi propongono una datazione agli inizi del XII secolo. Cfr. F. Dell’Acqua, A. Messina, Considerazioni sulle chiese rupestri del Materano, in Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri, cit., pp. 17-20. Il tipo ad aula rettangolare, suddiviso mediante un diaframma in due campate quasi quadrate, le quali «simulano» con notevole precisione di intaglio coperture a crociera costolonate, si osserva nella Madonna della Croce, da ritenersi ancora più tarda. 52 53

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Qui il tipo a nave unica è impiegato nella sequenza nartece, arco di ingresso, aula con nicchia sulla parete sinistra (che forse allude all’intenzione, poi abbandonata, di realizzare un impianto centrico), presbiterio squadrato; ma nella cripta del Peccato originale, per la quale la presenza di importanti affreschi attribuiti alla prima metà del IX secolo (e all’attività di maestranze volturnensi o beneventane) implica la datazione dello scavo al periodo alto-medievale e il suo probabile riferimento all’opera di monaci benedettini, lo spazio è un semplice vano pressappoco rettangolare, con ampio ingresso sul lato corto rivolto a nord e una sequenza di absidiole e di nicchie in corrispondenza della parete sinistra, che prosegue con un’ulteriore nicchia sul lato di fondo, dove il motivo si interrompe, ed è assente l’abside centrale. Sebbene lo schema appaia risolto in modo anomalo e forse incompleto nella realizzazione architettonica, questa struttura testimonia la precoce assunzione, in ambito regionale, del tipo a nave unica, che d’altra parte è di gran lunga il più frequente in tutti i paesi del Mediterraneo, sia negli esempi scavati come in quelli sub divo. Una datazione alto-medievale, entro il IX secolo, può essere avanzata anche per un’altra cripta ad aula rettangolare, esistente lungo la strada che sale alla Murgia Timone, se in essa deve essere riconosciuta quella chiesa di Sant’Elia «intus civitate Matere», che risulta già di pertinenza dell’abbazia del Volturno in un atto dell’89354; dove l’aderenza al modello, con abside del tipo a nicchia squadrata, è assoluta nelle forme e nelle misure. In Basilicata però, e in particolare nel Materano, non è questo il solo modello impiegato per le chiese rupestri, perché proprio nelle «cripte», a fronte della relativa uniformità tipologica degli edifici costruiti, si riscontra un’assai maggiore varietà di impianti e di schemi planimetrici. Di particolare interesse sono le chiese con due santuari affiancati, di forme e proporzioni simili o invece del tutto diverse, le quali si presentano secondo due principali varianti nella parte aperta ai fedeli: con un unico vano in funzione di naòs (è il caso delle cripte di San Falcione e di San Vito), o con due navatelle parallele, comunicanti tra loro mediante arcate, come negli esempi di San Nicola dell’Annunziata e del Cappuccino Vecchio. Si tratta di un modello non estraneo alla tipologia chiesastica bizantina anche sub divo, che tuttavia nell’area 54 Per il documento dell’893 cfr. supra, nota 29. L’identificazione si basa sulla conservazione del toponimo che indica l’area come gravina Sancti Elie. Cfr. Padula, Motta, Lionetti (a cura di), Chiese e asceteri, cit., p. 97.

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materana si ripete con frequenza tale da dare credito, in un territorio di confine interessato dalla convivenza di genti e culti diversi, all’ipotesi dell’impiego della medesima struttura per il rito greco e latino55, in alternativa a quella della dedicazione dell’edificio a due differenti

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Fig. 6. Chiese rupestri ad aula: a) Matera, Chiesa di Santa Barbara: pianta; b) Matera, Chiesa di San Gregorio: pianta; c) Matera, Chiesa di Sant’Agnese: pianta; d) Matera, Chiesa del Peccato originale: pianta; e) Matera, Chiesa di Sant’Elia: pianta. 55 L’usanza di celebrare secondo i due riti nello stesso edificio sarebbe documentata in Italia meridionale per le chiese di monasteri greci dipendenti dall’abbazia di Cava: L. Mattei Cerasoli, La Badia di Cava e i monasteri greci della Calabria superiore, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, p. 274. S. Ghigonetto, con riferimento ad altri ambiti territoriali, ha recentemente proposto di riferire la presenza di due absidi alla duplice natura, divina e umana, del Cristo.

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Fig. 7. Chiese rupestri con doppio presbiterio: a) Matera, Chiesa di San Falcione: pianta; b) Matera, Chiesa di San Vito: pianta; c) Matera, Chiesa di San Nicola dell’Annunziata: pianta; d) Matera, Chiesa del Cappuccino Vecchio: pianta.

santi. Meno convincenti le interpretazioni della doppia navata con una distinzione per sessi o con il timore di un’insufficiente resistenza della roccia in rapporto all’estensione dello scavo, che non spiegano la compresenza di due presbiteri; piuttosto non è improbabile, in qualche caso, l’esecuzione dell’opera in fasi diverse, cioè la sintesi, in un momento successivo, di due organismi autonomi preesistenti in un’unica struttura. In ogni modo la modulazione dello spazio che ne deriva, frammentato e fluttuante nell’incerta definizione dei limiti e

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Fig. 8. Chiese rupestri a tre navate: a) Matera, Chiesa di San Pietro in principibus (San Nicola sull’Appia): pianta; b) Matera, Chiesa di Santa Maria delle Virtù: pianta; c) Matera, Chiesa di Santa Lucia alle Malve: pianta, prima fase; d) Matera, Chiesa di Santa Lucia alle Malve: pianta, seconda fase.

nei molteplici approfondimenti, diversamente gerarchizzato nelle sue parti, corrisponde a una sensibilità fondamentalmente bizantina, che permea questa architettura religiosa e la sostanzierà ancora per secoli. Meno numerose le chiese rupestri a tre navi, connesse in genere, dalla storiografia, con insediamenti benedettini; tra queste, la «cripta» di San Pietro in principibus (San Nicola sull’Appia), ipoteticamente ricostruita come un organismo con navata a pilastri, ma di cui rimane solo il presbiterio triabsidato; le tracce di un altro sostegno, allinea-

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to con i due pilastri residui, non escludono però che originariamente potesse trattarsi di un impianto del tipo deuterobizantino a croce greca iscritta. Tale sembra essere, in base alla pianta, anche la chiesa di Santa Maria delle Virtù, forse databile all’XI secolo, ma l’osservazione diretta, in questo caso, porta a conclusioni parzialmente diverse, perché la copertura delle navate centrali, caratterizzata da un interessante soffitto a due falde decorato da un doppio ordine di archeggiature incise, a simulare una sorta di galleria, è decisamente orientata in senso longitudinale, escludendo ogni richiamo centralizzante; inoltre, in corrispondenza della campata mediana, la roccia rivela tracce di lavorazione successiva, che potrebbero indicare l’abolizione di una coppia di sostegni intermedi. Carattere bizantino invece presenta il presbiterio, con tre basse cupolette ornate di croci a braccia espanse, come nella cripta di Sant’Antonio abate; il confronto più stringente è con la chiesa ipogea di San Salvatore di Giurdignano nel Salento (Venditti). Altro impianto rupestre a tre navate tra i più problematici è, così come appare attualmente, la «cripta» di Santa Lucia alle Malve, nel Sasso Caveoso; la chiesa, secondo la tradizione, sarebbe appartenuta a monache benedettine, forse già nel IX-X secolo56. I tre vani longitudinali nei quali si articola l’organismo sono divisi da massicci pilastri, di forme, proporzioni e numero diversi, due tra la navata sinistra e quella centrale, tre sul lato destro; le navate terminano con tre presbiteri, a loro volta differenti sia per profondità che per l’articolazione delle rispettive absidi. A tali anomalie si accompagnano altre osservazioni: la presenza di residui bassi muretti in roccia tra i pilastri della navata destra; la differenza di quota tra questa navata e le altre due; le tracce di un’iconostasi davanti al presbiterio della navata centrale. In base a questi aspetti è stata prospettata l’ipotesi che in origine l’impianto fosse costituito da due diverse chiese, riunite soltanto in epoca relativamente tarda (XIV secolo) con l’abolizione della parete divisoria57: l’una (corrispondente alla navata destra) a nave unica, l’altra costituita La prima testimonianza dell’insediamento risale però al 1093, data nella quale Lupo Protospatario ricorda la morte della badessa Eugenia, seppellita nell’abbazia di Sant’Eustachio. 57 L’ipotesi è avanzata da B. Lafratta, Monastero di SS. Lucia e Agata, in Bubbico, Caputo, Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, cit., pp. 122-30, che offre un’ampia ricostruzione delle vicende costruttive del complesso; l’autore ribadisce l’individuazione di due fasi successive nella realizzazione della chiesa, rilevando come nel «pilastro centrale appartenente al setto 56

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da due navate, precedute da un vestibolo comune e dotate ciascuna di un presbiterio autonomo, secondo lo schema consueto per questo tipo di organismi. Il presbiterio di destra (sull’attuale navata centrale) è ampio e concluso da un’abside profonda, quello di sinistra più corto, con abside ridotta e fiancheggiata da due nicchie ad arco (posteriori?); per quest’ultimo sussistono anche tracce di un’iconostasi poi soppressa, mentre un altro diaframma, ugualmente abolito, avrebbe separato la prima campata della navata sinistra dal profondo presbiterio di quella adiacente. Nella chiesa a due navate, più antica, si potrebbe forse riconoscere un impianto di culto bizantino alto-medievale già esistente, assegnato alle monache occidentali all’atto del loro insediamento nella città; l’ipotesi è interessante58, e in qualche modo conforta la congettura avanzata in precedenza, del processo formativo di spazi complessi attraverso l’aggregazione di organismi più semplici, originariamente autonomi. Con essa trovano spiegazione inoltre le particolarità iconografiche di questa struttura, diversa da quelle delle altre chiese di rito latino di Matera (Santa Maria della Vaglia, Santa Maria delle Virtù, Santo Spirito59). Ma a parte la necessaria prudenza imposta dall’indisponibilità di conferme documentarie, va rilevato come anche le «cripte benedettine» non siano comunque esenti da caratteri e accenti bizantini, riconducibili all’integrazione operata dalla comune tradizione locale, formatasi nello scambio di apporti tecnici e culturali e attraverso l’opera mediatrice di una secolare convivenza.

murario che separa la navata destra da quella centrale [...] la modellatura degli spigoli e l’accenno di un capitello [...] evidenziano una tecnica litotomica più avanzata rispetto al resto delle strutture». 58 La complessa articolazione e suddivisione dello spazio liturgico lascia però qualche dubbio su una datazione molto alta dello scavo. La chiesa a nave unica, identificata con quella di Sant’Agostino, sarebbe stata aggregata al complesso delle monache benedettine nel 1310 (ivi, p. 124). 59 La cripta di Santo Spirito, oggi molto rimaneggiata, risulta già nel 914 di pertinenza dell’abbazia di San Benedetto di Salerno; in origine poteva essere un impianto a tre navate, con tre absidi, orientato in senso perpendicolare all’organismo chiesastico attuale (XVII secolo). Ma la presenza di una copertura che simula una volta costolonata tra le strutture residue riferibili alla chiesa benedettina induce a ritenere queste ultime comunque rimaneggiate posteriormente alla fase alto-medievale.

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3. La conquista normanna L’avvento dei Normanni in Basilicata segna una svolta fondamentale nella storia della regione e di tutta l’Italia meridionale, con effetti innovativi anche in campo artistico e soprattutto architettonico, che saranno evidenti nel volgere di pochi decenni, imponendo una sorta di «scarto» linguistico e soprattutto dimensionale, del quale la cattedrale di Acerenza e la cosiddetta «Incompiuta» di Venosa rappresentano, per quanto attiene l’edilizia religiosa, le manifestazioni più significative; ma nel periodo della conquista e del consolidamento del potere, i cui estremi cronologici, ai fini che interessano in questa sede, possono essere compresi tra l’insediamento di Guglielmo Bracciodiferro e degli altri condottieri normanni a Melfi (1042) e la definitiva resa di Salerno a Roberto il Guiscardo (1076), ben poco può essere riferito con sicurezza all’iniziativa dei conquistatori, e ancora meno sono le manifestazioni che attestano una più o meno diretta importazione di modi connessi alle esperienze artistiche della Francia settentrionale. Forse, accanto al castello che conserva alcune parti riferibili all’XI secolo, anche nella cattedrale di Melfi fu adottato già in questo periodo, per l’impianto del coro, il tipo con navatelle parallele di profondità decrescente (cosiddetto coro a gradoni), qui divise da massicci pilastri, che rappresenta un modello largamente impiegato nell’area franco-normanna, e pertanto in rapporto con idee e programmi introdotti dai nuovi dominatori; certo l’insolito, notevole sviluppo longitudinale dell’attuale presbiterio e dei vani che lo affiancano potrebbe rimandare a una formulazione originaria attestante una linea operativa di diretta discendenza settentrionale60, alternativa alle soluzioni «sincretiche», ridotte o mediate da apporti classicistici, adottate in altri casi dai committenti normanni; ma la successiva ricostruzione dell’edificio, intorno alla metà del XII61, e il pesante rifaci-

60 Forse la scomparsa cattedrale di Reggio Calabria, realizzata intorno al 1080 ad opera del vescovo normanno Guglielmo, presentava un analogo impianto con coro a gradoni e navate divise da pilastri; negli stessi anni, o già prima, l’abbaziale di Mileto in Calabria aveva inaugurato un modello diverso, fondendo il coro a gradoni, di profondità ridotta, con il tipo della navata a colonne di Montecassino e Salerno. 61 La ricostruzione della cattedrale di Melfi è attribuita agli ultimi anni del regno di Ruggero o a quello di Guglielmo I. Cfr. Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, p. 1030. Del XII secolo rimane, pressoché integralmente conservato, lo

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mento condotto nel XVIII secolo non consentono allo stato attuale delle ricerche di andare oltre una semplice ipotesi. Il cantiere che offre le indicazioni più interessanti è ancora una volta quello dell’abbazia della Trinità di Venosa. Secondo una notizia riportata dal Chronicon Cavense, generalmente ritenuta falsa, perché interpolata nel Settecento, ma forse sulla base di un documento autentico oggi perduto, il complesso abbaziale sarebbe sorto nel 942 per iniziativa del principe Gisulfo I di Salerno62; ad ogni modo, circa cento anni più tardi esso risulta «costruito», o «ricostruito», con una iniziativa che presenta tutti i caratteri di una vera e propria fondazione ex novo63, da Drogone di Altavilla, divenuto nel 1046 conte di Puglia succedendo a Guglielmo Bracciodiferro, ma che già dal 1041 aveva il controllo della città di Venosa. Drogone muore nel 1051, probabilmente lasciando incompiuta la costruzione, perché la bolla di Niccolò II, che riporta queste notizie, accenna a ulteriori lavori di restauro, o di completamento, prima del 105964, quando il titolo di conte di Puglia era stato assunto già due anni prima da Roberto il Guiscardo, a seguito della morte dell’altro fratello Umfredo, a sua volta succeduto a Drogone. Nello stesso anno, il 17 agosto, il papa aveva consacrato la chiesa abbaziale, cioè la «chiesa vecchia» venosina, essendo stato contemporaneamente trasferito il titolo di cattedrale ad altro edificio, interno alla nuova cinta muraria, nel sito dell’attuale castello; ma un impegno diretto del Guiscardo in queste operazioni non è testimoniasplendido campanile, opera di Noslo di Remerio, datato per via epigrafica al 1153, che presenta decorazioni a tarsie laviche, secondo un gusto comune a numerosi episodi campani e siciliani dello stesso periodo. 62 Sulla questione H. Houben, Il «libro del capitolo» del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Materiali e documenti», 1, Galatina 1984; Id., Die Abtei Venosa und das Mönchtum im normannisch-staufischen Süditalien, «Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 80, Tübingen 1995, pp. 135-36. 63 Id., Die Abtei Venosa, cit., p. 137 e già L.-R. Ménager, Les fondations monastiques de Robert Guiscard, Duc de Pouille et de Calabre, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 39, 1953, p. 41, il quale osserva che in tale occasione vennero stabilite non solo le grandi linee della disciplina religiosa e la condizione del monastero, ma anche i censi dovuti alla Santa sede, fissati nella misura annua di 1 oncia aurea. 64 La bolla del 25 agosto 1059, diretta all’abate Ingilberto, è esplicita: «monasterium Sanctae Trinitatis de veteri civitate Venusia labore extructum a Dregone comite, restaurari ceptum per te». Cfr. P.F. Kehr, Italia Pontificia, vol. IX, Samnium-Apulia-Lucania, Berolini 1962, p. 493, n. 4.

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to con certezza, perché i suoi primi interventi in favore della comunità monastica sono posteriori al 1059, e neppure è possibile affermare sicuramente che, a tale data, fosse già stata assunta la decisione di elevare la SS. Trinità a chiesa funeraria della dinastia65. È difficile restituire quali trasformazioni siano state apportate alla più antica struttura chiesastica nel corso del processo di formazione dell’abbazia, forse a seguito di un periodo di parziale abbandono, durante il quale le funzioni liturgiche potrebbero essere state sospese o limitate al solo presbiterio e al transetto, come farebbero supporre la già ricordata suddivisione delle navate in ambienti minori, ottenuta con muri semplicemente posati sul pavimento antico. Questi vani furono cancellati per ripristinare la spazialità unitaria, annegando le tracce dei divisori sotto un nuovo pavimento in opus tessellatum policromo, rialzato di circa 60 cm su quello precedente (Salvatore); in questa fase66 sembra sia stata iniziata la costruzione di due torri quadrate, poste davanti alle navatelle ai lati della facciata tardo-antica, tra le quali la nave mediana fu prolungata, realizzando una sorta di endonartece. Forse questo progetto non fu in effetti condotto a termine, perché sembra altrimenti inspiegabile la totale scomparsa di entrambe le strutture turrite al di sopra del piano di spiccato67, e soprattutto la mancanza di tracce sulle murature esterne alle quali si sarebbe addossata la torre settentrionale; in ogni modo, probabilmente, il progetto prevedeva la creazione di un ambiente trasversale, portico, nartece o galilea, antistante la facciata con le torri. 65 Di questa opinione è invece I. Herklotz, «Sepulcra» e «monumenta» del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia, Roma 1985, cap. II; contra, H. Houben, Roberto il Guiscardo e il monachesimo, in Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, cit., pp. 238-39, ritiene invece assunta solo alla fine degli anni Sessanta la decisione di trasformare la chiesa in pantheon familiare. 66 Salvatore, Il restauro architettonico, cit., p. 50, attribuisce questa operazione alla fine XI-inizi XII secolo, in base alla tipologia del tessellato, che ricorda analoghi pavimenti pugliesi, tutti di XI, e al ritrovamento di una moneta bizantina riferibile allo stesso secolo nel sottofondo del pavimento della chiesa, laddove durante i lavori era stata realizzata una fossa per la fusione di una campana. 67 La torre settentrionale, corrispondente alla navata sinistra, è visibile solo in fondazione e, semmai fu innalzata sopra questo livello, fu rasa al suolo a seguito di un evento per ora non determinabile; di quella meridionale potrebbe essersi conservata qualche traccia nelle attuali prima e seconda campata della navata destra, ma i rilievi dell’edificio anteriori ai restauri degli anni Sessanta (condotti da Franco Schettini) non lasciano supporre strutture riferibili a una torre tra le murature abolite in tale occasione.

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Fig. 9. Venosa, Abbazia della Trinità: a) facciata del nartece, galleria; b) facciata del nartece, galleria, particolare.

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Quanto resta del prospetto di questo portico, attualmente non visibile dall’esterno essendogli stato anteposto il vano scala che dà accesso al piano superiore della Foresteria, presenta al di sopra di tre archi di diversa luce e altezza una serie di nove archeggiature su colonnette diverse, alternate a telamoni e a un pilastrino costituito da una lapide tombale antica; la serie risulta bruscamente interrotta, alle due estremità, dove si leggono con evidenza gli innesti di altre due ghiere incompiute o troncate. Se il motivo era limitato al corpo di fabbrica anteriore, così come oggi appare (esteso cioè dal portale di ingresso al cantonale sud della facciata, dove si innesta all’edificio della Foresteria68, lasciando libero il tratto antistante la navata nord), esso poteva completarsi con un altro elemento, o al massimo due, a destra e a sinistra69; se invece il portico, nel progetto originario, fosse stato previsto davanti all’intera facciata della chiesa, le archeggiature della galleria sarebbero state di più, non meno di sedici. Una galleria, più o meno estesa, di questo tipo è ricorrente sulle fronti o nei fianchi di molte chiese normanne. Il suo impiego a Venosa sembra assumere valore di «segno» connotante la speciale qualifica del complesso abbaziale nel quadro della politica religiosa e dinastica dei conquistatori. Anche per la scultura decorativa, capitelli, telamoni e il singolare fregio che corre sotto le archeggiature, eseguiti da modeste maestranze che li interpretano anche in base a esempi disponibili in loco, il rimando sembra a esperienze settentrionali70: i telamoni sono due figure maschili, sedute e con le braccia alzate, sintetizzate in modo da alterare 68 La Foresteria è, quale oggi si presenta, un edificio tardo-medievale, riferibile a epoca angioina, ma è possibile che esso sia fondato su una struttura molto più antica, o comunque preesistente al portico-nartece. Un indizio dell’anteriorità della Foresteria rispetto a quest’ultimo potrebbe desumersi dall’allineamento delle sue strutture murarie, non ortogonale alla facciata della chiesa, che condiziona la parete meridionale del portico. Per l’attribuzione del nucleo originale della Foresteria a epoca longobarda, come ipotizzato da M. Cagiano de Azevedo, cfr. supra, nota 10. 69 Per motivi di simmetria rispetto alla conformazione dei sostegni si potrebbe ipotizzare la presenza di due ulteriori elementi a sinistra e uno solo a destra, in modo da stabilire la sequenza: due archi-pilastro telamone-quattro archi-pilastro lapide-quattro archi-pilastro telamone-due archi. 70 Cfr. per un’analisi della scultura P.C. Claussen, Il portico di S. Maria di Anglona. Scultura normanna nell’Italia meridionale del XII secolo: Santa Maria di Anglona e la SS. Trinità di Venosa, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 55-56, che propone confronti, oltre che con le sculture «normanne» di Anglona (cfr. infra), con esempi della Francia settentrionale.

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appena la compatta volumetria del blocco parallelepipedo nel quale sono scolpiti; i rozzi capitelli sono a foglie piatte ed elici, di un tipo «corinzieggiante» molto ridotto, o a figure affrontate, compatibili con modelli della Francia settentrionale; il fregio invece riprende lo schema a triglifi e metope71, dedotto da un esemplare antico osservato sul posto, alternando fiori, animali e teste umane ormai quasi irriconoscibili. Le archeggiature, le citazioni classiche, le figure troneggianti, l’inserimento di spolia, tutto quanto tende con evidenza, pur nella modesta qualità dell’esecuzione, a conferire al prospetto un carattere «aulico» e «politico». Può essere significativo, a questo proposito, che nessuna figurazione indichi direttamente connotazioni religiose: lo stesso abbigliamento dei personaggi in trono, tuniche corte e un mantello per quello di sinistra, come ha osservato Claussen, sembra chiaramente profano. Per la datazione, il significato e la funzione originaria di questa struttura sono state avanzate diverse ipotesi, che convergono almeno nell’indicare, per il progetto e l’esecuzione del portico e della galleria, gli anni 1070-8072. Ingo Herklotz, accogliendo questa datazione, sulla base di un documento del 1145 nel quale si accenna alla «presenza» nel monastero della Trinità di una aula regia, ha proposto di identificare quest’ultima con un ambiente al livello superiore del portico73, contrassegnato dalle archeggiature «normanne», che poteva essere stato previsto e già destinato alla stessa funzione per ospitare Roberto il Guiscardo. Aula ducis quindi, nel programma originario, o palatium annesso alla chiesa, secondo la tradizione carolingia e più generalmente imperiale (cui Roberto programmaticamente si richiamerebbe nelle sue ambizioni di legittimazione dinastica74), che designa uno specifi71 Per il reimpiego di fregi dorici, tratti da edifici antichi, ricorrente in varie parti del complesso della Trinità e anche in costruzioni civili della città, cfr. L. Todisco, La scultura romana di Venosa e il suo reimpiego, Roma 1996, pp. 138-39. 72 C. Bozzoni, Saggi di architettura medievale. La Trinità di Venosa, il duomo di Atri, Roma 1979, p. 64; C. Garzya Romano, La Basilicata. La Calabria, «Italia romanica», 9, Milano 1989, p. 44; la datazione è accettata anche da Claussen, Il portico di S. Maria, cit., p. 57. 73 Herklotz, Die sogennante Foresteria, cit., pp. 243-82. Per il documento del 1145, noto da una trascrizione sei-settecentesca, cfr. Id., Il Chronicon Venusinum nella tradizione di Eustachio Caracciolo, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 38, 1984, pp. 405-27; Houben, Die Abtei Venosa, cit., pp. 351-52, doc. 117. 74 Herklotz, «Sepulcra» e «monumenta», cit., p. 67 ritiene che, in tale ottica, il modello per l’elevazione della Trinità a pantheon dinastico sia stato, non in senso

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co spazio «fisico», in genere posizionato al di sopra dell’atrio o del portico d’ingresso, ai compiti amministrativi e giurisdizionali svolti dal sovrano durante il soggiorno presso l’abbazia. Ipotesi suggestiva, ma va osservato che le archeggiature della galleria non possono corrispondere alla quota di un piano superiore, perché si impostano solo circa 4,5 m sopra il pavimento dell’atrio75: troppo poco, quand’anche il portale originario della chiesa fosse stato assai più modesto di quello realizzato nel 1287 da Magister Palmerius76; per cui l’esistenza di un secondo livello del portico può addirittura essere messa in dubbio. Per di più Houben ha rilevato come, in base alla forma e al contesto del documento, il termine aula regia debba essere riferito piuttosto a una particolare sessione giurisdizionale tenutasi nell’abbazia che non a un concreto ambiente edilizio77. Se quindi, per l’abbaziale della SS. Trinità, l’ipotesi del progetto di una facciata con due torri e antistante portico, forse a un solo piano, è esatta, l’analogia con la cattedrale «normanna» di Anglona risulta certamente molto forte e induce a considerare con nuova attenzione questo edificio, e in particolare la scultura architettonica dell’avancorpo, nella quale, come per la galleria del portico di Venosa, sono state spesso riconosciute ascendenze nordiche, per l’impiego di una fascia a zig-zag nell’archivolto interno del portale, combinata con una cornice a testine di animali (beak heads) in quello esterno. Claussen, in base a confronti molto stringenti sul piano iconografico con opere del XII secolo, francesi e inglesi, propone una datazione del portale tra il 1150 e il 118078, ma per l’aspetto della qualità esecutiva riscontra invece figurativo-artistico ma ideologico, quello imperiale bizantino dell’antica chiesa degli Apostoli. 75 La restituzione di Herklotz, Die sogennante Foresteria, cit., fig. 7, con quattro arcate uguali di altezza ridotta al piano terreno, è improbabile, per l’ovvia difficoltà di trasformare un tale portico nella forma attuale, conservandone la parete al di sopra, che d’altra parte non presentava più alcun interesse, al momento di questa operazione; si osservi anche che difficilmente le archeggiature potevano essere lucifere, come ritiene Herklotz (ivi, p. 256). 76 Claussen, Il portico di S. Maria, cit., p. 57. 77 Houben, Die Abtei Venosa, cit., p. 129. 78 Claussen, Il portico di S. Maria, cit., p. 54. Per l’aspetto iconografico l’analogia è particolarmente stretta col portale della parrocchiale di Adel nello Yorkshire, come ha rilevato G. Zarnecki, Romanesque Arches Decorated with Human and Animal Heads, in «Journal of the British Archaelogical Association», 20-21, 1957-58, pp. 1-35, estendendosi alla presenza del tema del tetramorfo unito all’Agnello di Dio, nella decorazione del timpano.

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divergenze con questi esempi, che interpreta con la «traduzione» dei modelli franco-normanni da parte di artefici locali. La possibile pertinenza di questo avancorpo alla facciata con due torri, forse iniziata e condotta fino a una certa altezza già prima della fine dell’XI secolo79, anticipando la conclusione dell’opera di qualche decennio (1110?), dà corpo però all’ipotesi che le riscontrate differenze stilistiche siano riferibili all’attività di scalpellini normanni, «prossimi» a quelli attivi a Venosa e meno raffinati dei maestri operanti in Francia nella seconda metà del XII secolo. Infatti il trasferimento della cattedra episcopale dalla sede «bizantina» di Tursi ad Anglona, attestato intorno al 1110, deve essere avvenuto già prima, ad opera di un vescovo latino, probabilmente normanno, forse quell’Engelberto ricordato in alcuni documenti tra il 1065 e il 1068, o un suo successore, con il conseguente inizio dei lavori di costruzione del nuovo impianto nell’ultimo ventennio del secolo; l’esistenza nel 1092 di almeno un nucleo primitivo della cattedrale sembra confermata dalla testimonianza del soggiorno in Anglona di Urbano II, il 20 novembre di quell’anno. Ma in effetti tempi e motivi dell’operazione di trasferimento non sono definitivamente chiariti: per questi ultimi si può pensare, in un’ottica normanna, all’importanza strategica dell’area, e forse alla volontà di costituire un «segno» forte in un sito80 sul quale gravitava la parte più intensamente ellenizzata della regione, la zona montuosa tra le valli dell’Agri e del Sinni, dominata dalle cime del monte Volturino e del Raparo. Di certo il portico della SS. Trinità, e successivamente quello della cattedrale di Anglona, testimoniano riferimenti a modelli tipologici e artistici settentrionali, in rapporto diretto con l’impiego di maestranze normanne (i monaci stessi oppure scalpellini giunti al loro seguito), o 79 Per la storia e le vicende costruttive della cattedrale di Anglona cfr. M. D’Onofrio, Struttura e architettura della cattedrale: vicende costruttive e caratteri stilistici, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., pp. 43-52, oltre al Discorso di apertura di C.D. Fonseca, ivi, pp. 11-13, e in genere i saggi contenuti in questo volume; cfr. pure C. Bozzoni, La cattedrale di Anglona: vicende edilizie e qualche osservazione sui restauri, in «Palladio», VII, 14, 1994, pp. 69-78. 80 Secondo Guillou, La Lucanie Byzantine, cit., pp. 143-47, il tema di Lucania, esteso dal Basento al Tanagro, avrebbe avuto come capitale amministrativa Tursi (Toursikon); di certo questa cittadina, in periodo bizantino, fu capoluogo di una tourma, menzionata ancora in un documento del 1121: cfr. V. von Falkenhausen, La diocesi di Tursi-Anglona in epoca normanno-sveva terra d’incontro tre greci e latini, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., p. 29.

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Fig. 10. Anglona, Cattedrale: a) facciata; b) portale, prima dei restauri.

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almeno secondo precise indicazioni dei committenti connesse ad un particolare momento del processo di acquisizione del territorio: nel quale le «esigenze artistiche» dei conquistatori si richiamano ancora alle esperienze del paese d’origine. In seguito, ben presto in realtà, l’orizzonte cambia: la committenza normanna si volge a modi e a modelli di altro genere, funzionali alla glorificazione dinastica e «monarchica», mediati attraverso la sintesi con apporti classicistici e orientali, come è nella tomba di Boemondo a Canosa e in quella di Alberada a Venosa stessa. In un quadro politico e culturale sostanzialmente mutato, Melfi e la Basilicata sono sempre più lontani dal centro del potere, e l’architettura della regione si richiude su se stessa, ripetendo, in qualche caso con risultati felici, ma inevitabilmente provinciali, i modelli della propria tradizione. Le poche operazioni81 che superano questo isolamento con nuovi apporti europei rimarranno senza esito, interrotte prematuramente prima della conclusione o adattate, nel corso della realizzazione, a modelli culturali diversi, echi, affascinanti ma senza sviluppo, di una stagione breve. 81 La datazione dei lavori per l’«Incompiuta» di Venosa, che non sembrano riferibili allo stesso cantiere del nartece antistante la «chiesa vecchia», è incerta. La maggioranza degli studiosi propende per l’ultimo decennio dell’XI o per i primi del XII secolo. I contributi più recenti sull’argomento sono: M. D’Onofrio, L’abbatiale normande inachevée de Venosa, in M. Baylé (a cura di), L’Architecture normande au Moyen Âge, vol. I, Regards sur l’art de bâtir. Actes du colloque de Cerisy-la-Salle (28 septembre-2 octobre 1994), Caen 1997, pp. 111-24; L. De Lachenal, I Normanni e l’antico. Per una ridefinizione dell’abbaziale incompiuta di Venosa in terra lucana, in «Bollettino d’arte», serie VI, 81, 1996 (1997), pp. 1-80; Ead., L’incompiuta di Venosa. Un’abbaziale fra propaganda e reimpiego, in N. Poisson, J.-M. Poisson (a cura di), Società e insediamento in Italia meridionale nell’età dei Normanni: il caso della Calabria, in «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen âge», 110, 1998, pp. 299-315; E. Ricciardi, L’abbazia della SS. Trinità di Venosa, in «Beni culturali», IX, 1, 2001, pp. 21-27. Per la cattedrale di Acerenza, che propone il medesimo schema planimetrico del presbiterio con deambulatorio e cappelle radiali presente nell’abbaziale venosina, in forme più svettanti, le quali effettivamente suggeriscono un richiamo ad esempi d’oltralpe, ma che risolve il corpo longitudinale nei modi tradizionali della basilica a pilastri, vedi: AA.VV., Acerenza, Venosa 1995; P. Belli D’Elia, C. Gelao, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999.

IL PANORAMA ARTISTICO TRA XI E XIV SECOLO: ARCHITETTURA E SCULTURA di Mario D’Onofrio Nel trattare questo capitolo della storia dell’arte in Basilicata nell’età normanno-sveva è opportuno far presente preliminarmente che i confini regionali di cui si terrà conto sono più o meno quelli stabiliti nell’attuale ripartizione del territorio nazionale, che però, com’è noto, corrispondono solo in parte a quelli in uso nel Medioevo, quando ad esempio il confine tra l’antica Lucania e l’attuale Campania era costituito dal fiume Sele. Lo studio per ragioni di sintesi e chiarezza espositiva non può che tradursi in una rassegna critica delle principali emergenze monumentali e della relativa produzione scultorea, in cui risulti agevole cogliere gli aspetti più qualificanti sia della civiltà artistica sviluppatasi nel periodo della dominazione normanna sia di quella del periodo svevo, anche se lo spartiacque tra le due civiltà – caratterizzate peraltro dall’intreccio di forme culturali mediate dalle regioni limitrofe – non sempre si delinea in termini di assoluta trasparenza. 1. La tarda fase greca Nella fase iniziale dell’espansione normanna si avverte nella regione un tardivo adattamento di forme bizantine, non diversamente dalla vicina Calabria, dove l’influsso bizantino dominò piuttosto incontrastato perché tenuto in vita dalle comunità monastiche basiliane1. An1 Sull’incidenza avuta dal monachesimo italo-greco sul versante storico-artistico, oltre al contributo fornito dagli storici (in particolare da A. Guillou, La Lucanie

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che quando a partire dalla seconda metà dell’XI secolo la conquista normanna accelerò il processo di espansione monastica benedettina nel Mezzogiorno, il territorio lucano rimase per buona parte grecizzato, come è attestato ancora nel secolo successivo dall’abbazia di Sant’Elia di Carbone, al cui archimandrita il re Guglielmo II affidò nel 1168 la giurisdizione sui monasteri greci della regione2. La chiesa monastica di Sant’Angelo presso San Chirico al monte Raparo, fondata secondo la tradizione da san Vitale da Castronuovo, ma databile alla prima metà dell’XI secolo nella sua forma originaria desumibile dalle strutture anteriori al crollo avvenuto negli anni Trenta del secolo scorso, si inserisce tra le più interessanti testimonianze basiliane del Meridione. Ciò a motivo della sua navata unica ricoperta da una volta a botte interrotta da una cupola con tamburo su trombe d’angolo all’altezza di un rudimentale transetto contenuto nel perimetro della pianta3. Gli arconi sorreggenti la cupola e le arcate aperte sulle pareti a disegnare cappelle laterali costituiscono insieme un

byzantine. Étude de geographie historique, in «Byzantion», 25, 1965, pp. 119-49), cfr. le panoramiche storico-artistiche offerte da E. Bertaux, I monumenti medievali della regione del Vulture, supplemento a «Napoli nobilissima», 6, 1897, pp. i-xxxv; V. De Cicco, L’arte nella Lucania, in «Arte e storia», 16, 1897, pp. 103-10 e 118-19; E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1904 (con l’Aggiornamento a cura di A. Prandi, Roma 1978); C. Valente, L’arte nella Basilicata, Potenza 1948; B. Cappelli, Aspetti e problemi dell’arte medioevale in Basilicata, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 31, 1962, pp. 283-300 (ristampato in Id., Medioevo bizantino nel Mezzogiorno d’Italia ed altri saggi di storia e d’arte medievale, prefazione di E. Zinzi, Castrovillari 1993, pp. 311-33); A. Rizzi, Per una storiografia artistica della Basilicata, in «Napoli nobilissima», 5, 1966, pp. 199-206; G. Muscio, I massimi monumenti sacri medioevali della Basilicata, Napoli 1967; A. Grelle Jusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981 (rist. 2001, con Note di aggiornamento a cura di A. Grelle Iusco e S. Iusco); C. Garzya Romano, La Basilicata. La Calabria, «Italia romanica», 9, Milano 1989, pp. 11-22. Dunque alla luce della tesi ormai consolidata da questi autori regge solo in parte l’ipotesi (avanzata da A. Prandi, Arte in Basilicata, in Basilicata, Milano 1964, pp. 161-240) che ritiene essere la Lucania medievale una regione emancipata dai temi bizantini. 2 Cfr. G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, voll. I-II, Roma 1928-30 («Orientalia Christiana», XI, 5, XV, 2; XIX, 1 = nn. 44, 53, 62) e H. Houben, Il monachesimo in Basilicata dalle origini al secolo XX, in Monasticon Italiae, vol. III, Puglia e Basilicata, a cura di G. Lunardi, H. Houben, G. Spinelli, Cesena 1986, pp. 180-81. 3 A. Venditti, Architettura bizantina nell’Italia meridionale. Campania-Calabria-Lucania, Napoli 1967, vol. II, p. 880.

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«ingegnoso accorgimento strutturale» (Venditti)4. Le arcate disposte all’esterno del tamburo, attestate dalla documentazione anteriore al crollo, suggeriscono analogie con altri esempi del Mezzogiorno, quali ad esempio la chiesa di Santa Filomena in Santa Severina, quella dei Santi Niccolò e Cataldo a Lecce, la cattedrale di Taranto e San Giovanni Vecchio di Stilo, mentre la copertura era del tipo a gradoni, come a San Pietro di Frascineto presso Castrovillari e a Sant’Anna a Palizzi Superiore in provincia di Reggio Calabria. Nella chiesa di Santa Lucia di Rapolla, la cui datazione cade verosimilmente tra il 1027/1037 e il 1042, può considerarsi caratteristica bizantina la presenza delle due cupolette ellittiche, chiuse ognuna in un tamburo quadrato, stabilite al di sopra della doppia croce formata dalle volte a botte perpendicolari tra loro5. Le strutture portanti sono costituite da pilastri quadrangolari definenti le tre navate, di cui la centrale termina con un’abside semicircolare. Per alcune assonanze nella spazialità interna e nel sistema delle coperture, la chiesa può essere accostata ad altri edifici del Mezzogiorno, datati nell’arco dell’XI secolo, tra cui in particolare la chiesa di Ognissanti presso Valenzano, la cattedrale di Molfetta, Sant’Andrea di Trani e San Pietro di Otranto. Nella regione denunciano accenti orientali anche la chiesa di Santa Barbara presso Rapolla, con una volta a guisa di cupola, la più tarda chiesa di Santa Maria delle Spinelle vicino Melfi, attribuita a maestro Guglielmo Iurebenigno, dove al termine delle tre navate s’innalza un’ampia cupola depressa con incavo centrale a profili multipli, i ruderi di una piccola chiesa sulla non lontana collina di Toppo Sant’Agata e un’altra chiesa, anch’essa di esigue dimensioni, detta di San Laviero ad Acerenza, dove i quattro sostegni centrali sorreggono volte a botte e a crociera, rispettivamente sulle navate laterali e su quella centrale6. Da menzionare, infine, sono le piccole chiese a navata unica e gli oratori bizantineggianti, databili tra X e XI secolo, esistenti in varie località della zona calabro-lucana: Anglona, Cassano allo Ionio (San

Ibid. Illustrano bene gli aspetti bizantini della chiesa G. Mongiello, La chiesa di Santa Lucia di Rapolla, in «Bollettino d’arte», 49, 1964, pp. 165-73, che ne pubblica un accurato disegno, e Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, pp. 948-52. 6 Cfr. Cappelli, Medioevo bizantino, cit., pp. 318-19. 4 5

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Marco), Moranello (Madonna di Montevergine), Muro Lucano, Santa Maria di Mercuri nei dintorni di Orsomarso, Scalea ecc.7. 2. La conquista normanna La conquista normanna, nel contribuire al ridimensionamento dell’influenza bizantina nel Mezzogiorno, poté favorire anche in Lucania la latinizzazione incidendo sulla vita delle sedi episcopali e promuovendo l’istituzione di abbazie benedettine e cattedrali esemplate nello spirito e nelle forme sulle esperienze costruttive maturate in Occidente. Le soluzioni adottate nei monumenti più rappresentativi riconducono o allo schema di chiesa con coro profondo dotato di deambulatorio e cappelle radiali proprio dell’area franco-normanna o alla tipologia dell’abbaziale di Montecassino dell’abate Desiderio (1066-71)8. Verosimilmente non si dovette guardare a questi modelli in via diretta e univoca, poiché appare probabile una loro mediazione dalle regioni limitrofe, dove gli stessi modelli avevano già trovato 7 Cfr. Id., Un gruppo di chiese medioevali della Calabria settentrionale, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 6, 1936, pp. 41-62 (ora in Medioevo bizantino, cit., pp. 239-61); D. Minuto, S. Venoso, Chiesette medievali calabresi a navata unica. Studio iconografico e strutturale, Cosenza 1985 e, degli stessi autori, Primo supplemento alle «chiesette medievali calabresi», in «Rivista storica calabrese», 6, 1985, pp. 415-30; M. D’Onofrio, Struttura e architettura della cattedrale. Vicende costruttive e caratteri stilistici, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 43-52, in particolare p. 45. 8 Per quanto riguarda la tipologia franco-normanna sopra ricordata, se ne parlerà diffusamente più avanti a proposito di Venosa, mentre in merito alla tipologia benedettino-cassinese si rimanda – a titolo esemplificativo – ai seguenti edifici: cattedrale di Anglona, nella sua prima fase; chiesa di San Michele Arcangelo a Potenza (secoli XII-XIII), con pilastri quadrati a divisione delle tre navate, tre absidi, transetto e una facciata a salienti coronata da archetti pensili; chiesa dei Morti a Rionero in Vulture, che sebbene rimaneggiata mostra tre absidi; chiesa di Santa Maria del Casale a Pisticci, ristrutturata dopo una prima fase risalente alla fine dell’XI secolo; chiesa di Santa Maria di Pierno, le cui tre absidi semicircolari sono ora perdute; chiesa di Santa Maria Assunta ad Albano di Lucania, ora del tutto rifatta; Santa Maria di Capodigiano (già Capitignano) presso Muro, attribui­ ta a Maestro Sarolo (cfr. Cappelli, Aspetti e problemi, cit., p. 325 della ristampa). Invece, stando alle emergenze monumentali conosciute, sembra pressoché assente dalla regione la tipologia cosiddetta benedettino-cluniacense, ispirata alla chiesa di Cluny II dell’abate Mayeul (955-981).

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applicazione e dove peraltro si veniva consolidando un tipo di cultura eclettica che attingendo nelle direzioni più diverse dava vita al cosiddetto «stile misto» (Mischstil), attestato ad esempio in ciò che resta (alcuni capitelli a stampella figurati) della badia di Banzi e ripreso anche dall’architettura della Sicilia romanica. Nella congiuntura politica che vedeva i Normanni alleati con la Chiesa latina riformata, si pongono come edifici di primissimo piano, anche per la ricchezza del loro arredo scultoreo, la chiesa abbaziale della Trinità di Venosa, detta l’Incompiuta, in quanto iniziata dai Normanni e mai terminata, la cattedrale di Acerenza e la cattedrale di Anglona presso Tursi. A Venosa una particolare suggestione deriva dai ruderi severi del monumento, distesi su una piana verdeggiante secondo un impianto architettonico trasparente e vigoroso a un tempo, mentre l’uso di materiale di spoglio, la tecnica costruttiva, la cura dei dettagli, la scultura architettonica e i segni dei lapicidi trasmessi sulle pietre suscitano peculiari motivi di interesse (figg. 1-14)9. A ciò si aggiunga l’intrigante rapporto sia con la vicina chiesa preesistente di fondazione paleocristiana, già cattedrale, chiamata «chiesa vecchia», posta sullo stesso asse, sia con gli ambienti monastici antistanti e con la cosiddetta Foresteria, databili in parte ai primissimi anni del ducato di Roberto il Guiscardo e in parte prima. La facciata d’ingresso odierna del complesso è frutto di restauri recenti. Per fortuna la natura tipologica della costruzione incompiuta non presenta equivoci di sorta: si conviene infatti unanimemente che la chiesa risulta impostata su uno schema progettuale unitario di indiscussa matrice franco-normanna. La presenza sul coro di un deambulatorio espanso da cappelle radiali, pur comune ad altri edifici italiani tra XI e XII secolo, quali la cattedrale di Aversa, di qualche decennio anteriore, quella stessa di Acerenza, poco più tarda, e le successive abbaziali di Sant’Antimo presso Castelnuovo l’Abate, ai piedi del monte Amiata, e di Santa Maria a Pié di Chienti, stabilisce oggettivi rimandi con un più antico e nutrito gruppo di edifici francesi e anglo-normanni, il cui modello

9 Per la definizione delle vicende costruttive cfr. M. D’Onofrio, L’abbatiale normande inachevée de Venosa, in M. Baylé (a cura di), L’architecture normande au Moyen Age, vol. I, Regards sur l’art de bâtir. Actes du colloque de Cerisy-la-Salle (28 septembre-2 octobre 1994), Caen 1997, vol. I, pp. 111-24 (con bibliografia precedente).

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Fig. 1. Venosa, veduta aerea del complesso della Trinità.

Fig. 2. Venosa, complesso della Trinità: chiesa vecchia e Incompiuta normanna.

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Fig. 3. Venosa, Incompiuta normanna: veduta absidale.

Fig. 4. Venosa, Incompiuta normanna: capitello del deambulatorio.

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Fig. 5. Venosa, Incompiuta normanna: capitello del deambulatorio.

Fig. 6. Venosa, Incompiuta normanna: capitello del deambulatorio.

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Fig. 7. Venosa, Incompiuta normanna: capitello del deambulatorio.

Fig. 8. Venosa, Incompiuta normanna: capitello del deambulatorio.

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Fig. 9. Venosa, Incompiuta normanna: pilastro a fascio.

Fig. 10. Venosa, Incompiuta normanna: capitello delle navate.

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Fig. 11. Venosa, Incompiuta normanna: contrassegno di lapicida.

Fig. 12. Venosa, Incompiuta normanna: contrassegno di lapicida.

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Fig. 13. Venosa, Incompiuta normanna: contrassegno di lapicida.

Fig. 14. Venosa, Incompiuta normanna: contrassegno di lapicida.

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primario viene individuato ormai nella chiesa di San Martino di Tours (903-918)10. Meno definita potrebbe apparire invece la collocazione cronologica del monumento venosino nelle sue singole fasi costruttive, dal momento che a questo riguardo le notizie storiche sembrano alquanto generiche e quindi di scarsa utilità. Le datazioni relative alla fondazione del monumento avanzate dagli studiosi oscillano dubitativamente tra il XII e il XIII secolo, con la distinzione di due fasi più o meno distanziate fra loro: si è proposto il 1170-80 per l’avvio dei lavori e il 1200 circa per la seconda fase costruttiva11. Ma a voler analizzare con la dovuta attenzione le fonti disponibili e il documento primario costituito dalla stessa Incompiuta, si può avanzare la tesi che l’inizio della fabbrica non si colloca affatto così tardi, poiché una data di fondazione più alta, compresa tra il 1080/1085 e il 1100/1110 appare più verosimile storicamente e criticamente. A questa prima fase, che potremo definire in senso lato guiscardiana, ne segue poi una seconda a distanza di poco più di mezzo secolo, come vedremo. Un passo di Guglielmo di Puglia sembra fare esplicito riferimento alla costruzione in Venosa della chiesa nuova quando dice che a commissionarla furono i fratelli degli Altavilla colà sepolti12: «Urbs Venusina nitet tantis decorata sepulchris [...] hic subhumatorum fabricata iussibus horum ecclesia, cuius decus praenitet» («La città di Venosa risplende per i sepolcri importanti di cui si fregia [...], qui per volontà di costoro che vi sono sepolti è costruita una chiesa, il cui decoro risplende maggiormente»). Se Guglielmo di Puglia scrive tra il 1095 e il 1099, le sepolture a cui egli fa riferimento – poste necessariamente in via provvisoria nella chiesa vecchia della Trinità – sono quella di Roberto il Guiscardo, morto nel 1085, quelle dei fratelli Guglielmo Bracciodiferro, Drogone e Umfredo e forse anche di Malgerio, le cui spoglie erano state raccolte a Venosa dal Guiscardo già nel 1069, nonché la sepoltura di Alberada, prima moglie dello stesso Guiscardo, morta nel 1090. Ma il cronista, mentre ricorda Venosa adorna appunto dei numerosi sepolcri degli Altavilla, allude anche 10 Cfr. M. D’Onofrio, Precisazioni sul deambulatorio della cattedrale di Aversa, in «Arte medievale», 7, 1993, pp. 65-79. 11 Cfr. C. Bozzoni, Saggi di architettura medievale. La Trinità di Venosa, il duomo di Atri, Roma 1979, pp. 15 sgg. 12 Guglielmo di Puglia, La geste de Robert Guiscard, a cura di M. Mathieu, «Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, testi e monumenti», 4, Palermo 1961, vv. 404 e 407-408, pp. 248-58.

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alla «fabbrica» di una chiesa diversa da quella vecchia, anche se non precisa se fosse compiuta o meno, voluta espressamente (iussibus) dagli stessi Altavilla; una chiesa che comunque negli ultimi anni dell’XI secolo già faceva trasparire uno splendore superiore a quello conferito alla città dai sepolcri normanni. Pertanto, sia pure con le riserve del caso, l’elogio molto preciso rivolto alla ecclesia fabricata può essere riferito non tanto alla chiesa paleocristiana, la quale – a giudicare anche dalle risultanze archeologiche emerse – doveva apparire in quegli anni ormai fatiscente, nonostante i necessari interventi di adattamento promossivi dai Normanni, bensì alla nuova costruzione che, destinata a diventare una sorta di mausoleo dei committenti, faceva parlare delle sue straordinarie fattezze ancor prima d’essere ultimata, ovvero mentre i lavori erano in corso d’opera. Gli avvenimenti che rappresentano i momenti di maggiore splendore nella storia dell’abbazia venosina potrebbero aver costituito il contesto ideale per lo svolgimento delle principali fasi costruttive della chiesa: da una parte, alla reggenza dell’abate di origine normanna Berengario (circa 1077-94), che trasformò la comunità monastica venosina da venti a cento unità, con monaci chiamati da Saint-Evroultsur-Ouche, si potrebbe legare la prima fase esecutiva dei lavori, proseguita forse anche con l’abate Pietro (circa 1103-1108); dall’altra, durante l’abaziato di Egidio (1168-84), che godeva di particolare prestigio presso la corte siciliana, si potrebbe collocare la ripresa dei lavori della seconda fase, dopo l’interruzione di oltre cinquant’anni che si era avuta nel frattempo. Ciò che poi traspare dal monumento in questione può chiarirne meglio le vicende. Non v’è dubbio ormai che nella progettazione della nuova abbaziale venisse contemplato l’abbattimento del vetusto e modesto luogo di culto (la chiesa paleocristiana), di cui si intendeva comunque riproporre l’ampiezza delle navate. Infatti i muri perimetrali della nuova chiesa voluta dai principi normanni si allineano quasi perfettamente a quelli dell’edificio preesistente, pur denunciando rispetto a questo caratteristiche tecniche di assoluta estraneità. Il vecchio edificio doveva essere salvato e utilizzato come mausoleo provvisorio degli Altavilla, come si è accennato, fino a quando fosse stata ultimata la nuova chiesa, la cui fabbrica si è spinta sul versante orientale incalzando spietatamente l’edificio preesistente quasi a volerlo fagocitare all’altezza dell’abside e del relativo deambulatorio esterno, già intaccato peraltro dal posizionamento di una monumen-

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tale colonna pertinente appunto alla nuova costruzione. La vecchia chiesa della Trinità, già stretta sulla fronte dalla cosiddetta Foresteria, la cui datazione si pone in un momento alquanto anteriore rispetto alla nuova chiesa, non aveva scampo. Ma stranamente tutto si è interrotto, come per incanto. Anche in seguito, nonostante la ripresa dei lavori nella seconda fase, nulla più ha potuto soppiantare la vecchia e gloriosa chiesa, oggi di nuovo riabilitata come santuario dopo i lunghi restauri della fine del secolo scorso che ne hanno comunque chiarito le tormentate vicende. Le ragioni dell’interruzione iniziale e del successivo abbandono definitivo dell’ambizioso progetto appaiono ipotizzabili solo vagamente: o l’abbazia aveva perso d’importanza all’epoca dell’abate Ugone (1114-39), proveniente da Cava dei Tirreni, o gli interessi della famiglia degli Altavilla si erano trasferiti altrove, vale a dire in Sicilia, oppure era sopraggiunta un’improvvisa penuria di risorse finanziarie. Se nella chiesa vecchia l’uso del materiale di spoglio è molto limitato o appare quasi del tutto assente negli ambienti della Foresteria, nella costruzione della nuova fabbrica se ne registra il sistematico impiego13. Servirono da giacimenti per i blocchi di pietra le mura difensive e i monumenti sepolcrali di età romana della zona, nonché la sinagoga e il cimitero ebraici, dove a sua volta si era già registrato il reimpiego di materiale antico. Nell’Incompiuta i blocchi con sculture e scritte romane si alternano a quelli con iscrizioni e immagini ebraiche, a sottolineare l’importanza del progetto proprio attraverso il recupero dell’antico, pur nell’intento pratico di ridurne i costi. Anche le pietre di nuovo taglio venivano estratte, a quanto pare, dalle stesse cave utilizzate in età romana, di cui i dintorni di Venosa orientati soprattutto verso la Puglia sembrano disseminati. Ma il fatto più sorprendente è che la tecnica muraria adottata si ripropone in maniera costante lungo tutta la fabbrica, tanto che in virtù di essa si deve ammettere l’indiscussa contemporaneità dello spiccato della pianta e l’isometria di tutti gli alzati, fatta eccezione della parete superiore del versante meridionale del corpo basilicale con la fila delle monofore, dove i segni speciali lasciati dai lapicidi denunciano una seconda fase, ovvero un momento costruttivo diverso e del tutto a se 13 Cfr. L. De Lachenal, I Normanni e l’antico. Per una ridefinizione dell’abbaziale incompiuta di Venosa in terra lucana, in «Bollettino d’arte», 96-97, 1996, pp. 1-80.

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stante. In particolare è caratterizzato dal procedimento isometrico l’intero perimetro della chiesa fino a un’altezza di circa 6 m, per cui nella fase dei lavori che si è voluto definire in senso lato guiscardiana si pongono più precisamente il coro, il deambulatorio con le cappelle radiali (escluse le rispettive calotte di copertura), il transetto, i muri d’ambito delle navate fin poco sotto le monofore del lato meridionale e l’unico colonnato interno (esclusi i capitelli e il piliere composito all’incrocio del transetto). Va quindi corretta la tesi di Bertaux, il quale dividendo il monumento in due parti distinte assegnava a una prima fase costruttiva (ma all’interno del XII secolo) il transetto col deambulatorio e a una seconda fase, distanziata di oltre una cinquantina d’anni, il resto della chiesa14. Sul piano tecnico, la matrice oltremontana del sacro edificio si esplicita anche in alcuni dettagli, quali ad esempio la fattura delle colonne in muratura poste a divisione delle navate e soprattutto lo stile del corredo scultoreo delle parti più antiche. Le colonne libere del corpo longitudinale, strutturalmente affini alle semicolonne presenti nel deambulatorio, si compongono di conci lapidei appositamente lavorati e sovrapposti a formare la struttura portante secondo una tradizione costruttiva che, pressoché estranea al Mezzogiorno, rimanda a esemplificazioni dell’Italia centro-settentrionale e soprattutto della Francia e dell’Inghilterra dopo la conquista normanna. Così le basi dei semipilastri e i capitelli del deambulatorio, questi ultimi di libera ispirazione corinzia, scolpiti a fogliame, a canestrature, oppure con figurazioni zoomorfe e umane, evocano esempi della Normandia di poco anteriori15. Da considerarsi legato alla prima fase è anche il portale nel fianco sud del corpo longitudinale, dove la decorazione a formelle con fantasiosi motivi floreali sul lato interno degli stipiti si richiama ai soggetti analoghi già presenti nella tomba ritenuta di Roberto il Guiscardo e ora sul portale d’ingresso alla chiesa vecchia, firmato da Maestro Palmerio e datato al 128716. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, cit., pp. 318-26. Sulla scultura dell’abbaziale venosina cfr. M. D’Onofrio, La Basilicata, in Id. (a cura di), La scultura d’età normanna tra Inghilterra e Terrasanta. Questioni storiografiche. Atti del Congresso internazionale di studi storico-artistici (Ariano Irpino 1998), Roma-Bari 2000, pp. 140-51. La Grelle Iusco propende ad assegnare il corredo scultoreo della chiesa incompiuta al XII secolo senza addentrarsi però nello studio dell’edificio (Arte in Basilicata, cit., p. 20). 16 Cfr. P.C. Claussen, Il portico di S. Maria di Anglona. Scultura normanna nell’Italia meridionale del XII secolo: Santa Maria di Anglona e la SS. Trinità di Veno14 15

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Anche le sculture della Foresteria conservate in una parete interna con arcate cieche, di cui ancora non sembra chiara l’esatta funzione, si pongono tra le prime testimonianze della scultura del Mezzogiorno della prima età normanna. La decorazione consiste in una fascia inferiore a imitazione di un antico fregio a metope e triglifi, con una serie di bucrani interrotta da motivi floreali, tre teste maschili e due cavalli. Il modello poteva essere desunto dall’ornamentazione del vicino anfiteatro, ma la fattura è grezza, forse a motivo della pietra usata, un tufo poroso non adatto per una lavorazione accurata. Non meno rozze sono le figure maschili sedute e con le braccia alzate scolpite su due pilastri posti a sorreggere le arcate superiori. Non è escluso che la natura di tali sculture, oltre alle tendenze trasmesse da una tradizione del luogo, peraltro poco conosciuta, rifletta in qualche modo il gusto dei committenti normanni, ancora fortemente legati alla loro terra di provenienza. In Normandia infatti gli esiti formali della poca scultura a lastre della seconda metà dell’XI secolo di cui si ha conoscenza sono abbastanza rozzi e indeterminati17. Quanto alla seconda fase della costruzione dell’abbaziale incompiuta, essa è circoscritta: alla parete alta del muro che delimita la navata laterale di sud-est, come si è già detto; al piliere composito che affaccia sulla crociera, realizzato in sostituzione di una colonna iniziale a cui era destinato il capitello trasformato poi in acquasantiera (ora nel museo della città); ai superbi capitelli sopra il colonnato e alle mensole che li fronteggiano sul muro d’ambito (ad eccezione della prima mensola in corrispondenza della prima colonna libera, riconducibile alla prima fase). Osservando attentamente la muratura su questo versante sud-orientale, proprio nella parte più alta, si nota che rispetto al resto della fabbrica compaiono elementi nuovi, pur nella sorprendente omogeneità della muratura: vi si constata la presenza di particolari contrassegni di lapicidi a partire dalla seconda fila di conci al di sotto della soglia delle finestre (se ci si pone a osservare dall’esterno della chiesa), oppure a partire dalla prima fila di conci al di sotto dello strombo delle finestre stesse (se si osserva dall’interno). sa, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., pp. 53-59, in particolare p. 57. 17 Ibid. Cfr. anche I. Herklotz, Die sogenannte Foresteria der Abteikirche zu Venosa, in C.D. Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Melfi-Venosa, 19-23 ottobre 1985), Potenza 1990, pp. 243-82; D’Onofrio, La Basilicata, cit., pp. 140-43.

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Anche a occhio nudo è possibile scorgere qua e là lance con banderuole, del tipo ricamato sull’arazzo di Bayeux (1077), asce da cantiere e soprattutto ricci di pastorale che talora si confondono quasi con la sagoma del guscio delle lumache. Se nella prima fase i punti di riferimento della scultura architettonica riconducono in qualche modo alla lontana Normandia, per la scultura della seconda fase (capitelli del piliere sulla crociera, capitelli del colonnato e corrispondenti mensole addossate sulla parete d’ambito destinate a sorreggere gli archi trasversali delle crociere previste sulla navata laterale destra) i confronti più prossimi si possono cogliere in direzione della Puglia e forse anche dell’Abruzzo, dove ormai si erano consolidate botteghe di capaci lapicidi sensibili alla tradizione classicistica: si pensi per le analogie ai capitelli del San Benedetto a Brindisi, a quelli presenti nella crociera della cattedrale di Troia, sulla facciata della cattedrale di Foggia, nel pulpito della cattedrale di Barletta, nella navata della cattedrale di Altamura e nell’atrio dell’abbaziale di San Clemente a Casauria del 1176. Un ulteriore termine di confronto, sicuramente molto avanzato nel tempo, ma da considerarsi comunque un inderogabile termine ante quem, è dato dai piccoli capitelli della struttura a baldacchino che sovrasta la tomba di Alberada di Buonalbergo conservata nella stessa chiesa vecchia di Venosa. Sappiamo che la tomba della prima moglie del Guiscardo mostra solo in parte gli elementi della struttura originaria, essendo stata rimaneggiata in un momento successivo alla sua costruzione, quando furono rea­ lizzati i capitelli e le basi delle colonne dell’attuale baldacchino18. Per quanto slanciata, la forma di questi capitelli richiama appunto quella dei più grandi capitelli sul colonnato della chiesa nuova, così come le basi delle colonne sorreggenti il baldacchino si adeguano, nel motivo delle unghiature angolari, alla base ben più articolata del piliere della stessa chiesa nuova. Naturalmente si tratta di imitazione più che di stretta affinità stilistica, nel senso che tra i pezzi posti a confronto esiste un divario cronologico che fissa l’ultima sistemazione conferita alla tomba di Alberada e sopraggiunta ai nostri giorni intorno al 1287, anno che si ricava dal portale attuale della chiesa vecchia. Come si è accennato, quel portale fu eseguito utilizzando pezzi ritenuti della tomba di Roberto il Guiscardo o di un mausoleo di famiglia, quando 18 Cfr. H. Herklotz, «Sepulcra» e «Monumenta» del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia, Roma 1985, p. 55.

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ormai si era persa ogni speranza di completare la chiesa nuova e si era deciso pertanto di riservare le necessarie attenzioni alla chiesa vecchia abbellendola nel portale con marmi ricavati da un indeterminato arredo marmoreo o da qualche urna degli Altavilla, allora manomessa perché considerata fatiscente o per altra ragione che oggi ci sfugge. In questa fase di manomissione dei sepolcri, solo la tomba di Alberada fu salvata e opportunamente ristrutturata, e ciò forse a motivo della suggestione esercitata dalle vicende del personaggio, che fu prima moglie del Guiscardo, ripudiata nel 105919. Se nella storia di Venosa spicca la figura dell’abate Berengario, ad Acerenza s’impone quella dell’arcivescovo Arnaldo, a cui si deve la costruzione della cattedrale nel suo impianto attuale, sorta su una rupe che domina l’alta valle del Bradano (figg. 15-19). La fondazione avvenne nel 1080 a seguito del rinvenimento delle reliquie del santo patrono, san Canio, che comportò l’abbattimento di una precedente cattedrale non meglio documentata archeologicamente20. Ma a causa di un furioso incendio verificatosi nella città una decina d’anni dopo, la cattedrale avviata da Arnaldo fu devastata completamente. Se, come sembra, le parole che si leggono in Romualdo di Salerno relative a questo incendio non sono avvolte da enfasi, il sacro edificio – ultimato o meno che fosse – dovette subire danni irreparabili: «nullum invenitur edificium, quod non ab igne comsumptum deperierit»21. La ricostruzione, voluta dallo stesso Arnaldo, fu immediata. Ma a questo punto ci si domanda se la cattedrale successiva al 1090 abbia riproposto la tipologia dell’edificio di cui prendeva il posto – del 19 Cfr. P. Dalena, «Guiscardi coniux Alberada»: donne e potere nel clan di Roberto il Guiscardo, in Fonseca (a cura di), Roberto il Guiscardo, cit., pp. 157-58. 20 Per lo studio sia delle vicende costruttive sia della scultura della cattedrale di Acerenza si rimanda alla letteratura più recente: F. Aceto, La cattedrale di Acerenza nel Medioevo, in AA.VV. Acerenza, Venosa 1995, pp. 25-48; K. Kappel, Buckelquader an Sakralbauten Süditaliens. Symbol staufischer Herrschaft?, in Rücksicht. Festschrift für Hans-Jürgen Imiela zum 5. Februar 1997, Mainz 1997, pp. 43-58, in particolare p. 50; P. Belli D’Elia, La chiesa medievale. Duecento anni di letture e restauri e La chiesa medievale. La parola alla fabbrica, entrambi in P. Belli D’Elia, C. Gelao, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999, pp. 33-35 e 36-117; L. Derosa, La chiesa medievale. Il portale, ivi, pp. 127-66; D’Onofrio, La Basilicata, cit., pp. 151-57. 21 Romualdo Salernitano, Chronicon, in Rerum Italicarum Scriptores, vol. VII/1, Bologna 1935, p. 199. Si esprime a favore dell’attendibilità della notizia di Romualdo H. Houben, Acerenza, metropoli ecclesiastica della Basilicata normanno-sveva, in Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit., pp. 27-28.

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Fig. 15. Acerenza, Cattedrale: planimetria.

Fig. 16. Acerenza, Cattedrale: veduta esterna.

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Fig. 17. Acerenza, Cattedrale: portale.

Fig. 18. Acerenza, Cattedrale: portale, intradosso dello stipite.

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Fig. 19. Acerenza, Cattedrale: portale, intradosso dell’arco.

quale si poteva essere salvato lo spiccato della pianta – o invece ne abbia abbandonato il tracciato per rifarsi a qualche altro archetipo di grande prestigio. Su tale questione si è aperto da tempo il dibattito critico, che non sembra ancora avviato verso la conclusione. Considerata la mancanza di ogni altro elemento utile, solo l’analisi dei dati stilistico-formali presenti nell’edificio acheruntino, specie al confronto obbligato con l’Incompiuta di Venosa, potrebbe suggerire, come vedremo, una soluzione al problema. Comunque, appare certo che la nuova costruzione nascesse in sintonia con la fortunata situazione politica che vedeva ulteriormente affermata la presenza della Chiesa latina, grazie al sostegno dei conquistatori normanni. La cattedrale ne doveva essere il segno forte e tangibile, da percepirsi anche a distanza con la sua mole imponente. Orientato a est, l’edificio si presenta sul versante orientale con un blocco strutturalmente omogeneo, specie se visto dall’esterno, costituito dal coro allungato con deambulatorio e cappelle radiali, transetto sporgente e torrette cilindriche scalari, mentre il vano delle tre navate divise da pilastri semplici e la facciata affiancata dall’unico campanile superstite sul lato di sinistra si distinguono nettamente dal

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resto. Non è escluso che a marcare la differenza tra i due blocchi di fabbrica abbiano contribuito le vicende successive della chiesa, segnata da alcuni interventi duecenteschi e dai lavori di ristrutturazione di età angioina e colpita tra l’altro nel 1456 da un terremoto che danneggiò soprattutto il corpo longitudinale. Il campanile, a cui originariamente corrispondeva sul lato opposto un’altra torre, porta sul basamento a scarpa la data del 1555. Di restauro moderno è il tiburio ottagonale, che ne sostituisce uno più antico a pianta cilindrica. Nell’approfondire lo studio dei caratteri originari del monumento, suffragandone quindi la datazione all’indomani dell’incendio del 1090, diventa d’obbligo, come si è accennato, il confronto con l’Incompiuta di Venosa. Tra i due edifici esistono connotazioni comuni, soprattutto in rapporto alla planimetria e alle proporzioni, tanto che si parla di copia dell’una dall’altra. Anzi vi è stato pure chi ha voluto tentare, sia pure un po’ troppo forzatamente, una sovrapposizione grafica del duomo di Acerenza sull’abbaziale di Venosa al semplice scopo di immaginare quest’ultima nella sua forma definitiva22. Ma nonostante le affinità che pur si riscontrano tra i due edifici, alcune considerazioni strutturali e stilistiche farebbero ritenere la fabbrica acheruntina non solo successiva, sia pure di qualche decennio, a quella di Venosa, e quindi databile fra il 1090 e il 1110/1120, ma anche impostata con una certa disinvoltura su canoni meno rigidi rispetto a quelli venosini. Pur in ossequio a uno stesso modello di riferimento di marca oltremontana, Venosa presenta un impianto del deambulatorio fatto di concretezza, con una spazialità interna ben articolata ma dall’aspetto ancora del tutto statico e bloccato. Acerenza, invece, mostra nell’insieme maggiore spigliatezza nello sviluppo delle forme, essenzialità decorativa, più slancio e ampiezza di respiro, mentre è dotata di archi trasversi con un taglio più sottile rispetto a quelli previsti a Venosa, nella prospettiva denunciata di alleggerire le coperture. Inoltre ad Acerenza, a differenza di Aversa e Venosa, non si nota la presenza di finestre nei tratti del deambulatorio tra le cappelle radiali, particolare questo che contribuisce a dare alla fabbrica acheruntina il senso di una diversa e più nitida ricerca spaziale all’interno del deam­bulatorio e che, rispetto alle chiese omologhe, contribuisce a far propendere per una datazione più avanzata, sia pure limitatamente 22

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V. Paliotti, La bella incompiuta, in «Bell’Italia», 65, settembre 1991, pp. 116-

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al corpo orientale. In ultimo, anche il profilo esterno delle torrette scalari esistenti sia a Venosa che ad Acerenza appare diverso. Nel primo caso osserviamo uno sviluppo massiccio di questi elementi, che seguono linee geometriche presentando una scansione tripartita nella zona inferiore della superficie esterna e verosimilmente poligonale nella parte alta, nell’ipotesi che si innalzassero oltre le coperture del transetto. Ad Acerenza, invece, siamo in presenza ancora una volta di un consapevole alleggerimento delle forme ottenuto attraverso lo sviluppo cilindrico delle torrette scalari virtualmente svincolato sin dalla base dal resto dell’edificio. Anche la scultura più antica presente nel portale principale del duomo acheruntino rivela caratteri stilistici riconducibili all’ultimo decennio dell’XI secolo o alla fase iniziale del secolo successivo. Il motivo delle palmette e i tralci ricavati sulle facce esterne di ambedue i montanti della mostra a rincasso centinata sembrano rifarsi per il loro intaglio nitido e secco a formule della bottega di Acceptus, attiva alcuni decenni prima nella non lontana Canosa, mentre i nastri viminei intrecciati disposti nell’intradosso dello stipite destro sono un motivo aniconico che si ritrova agevolmente in Puglia (portale sud della chiesa di San Benedetto a Brindisi, alcuni capitelli della basilica di San Nicola a Bari) e nella stessa Trinità incompiuta di Venosa (qualche capitello del deambulatorio)23. Inoltre, le parti figurate di tutta l’incorniciatura suggerite da un cespo vegetale in cui si intersecano uomini, animali e immagini care alla fantasia degli artefici romanici sembrano realizzate in particolare da uno scultore locale intento a dar forma a uno o più prototipi di provenienza nordica e a emulare qualcuno dei preziosi manufatti eburnei di matrice bizantina (olifanti) circolanti allora un po’ ovunque sia nel Mediterraneo che oltralpe. Sempre nel portale principale la struttura a baldacchino attuale, che si configura come una sorta di protiro mutilo, va considerata invece opera della prima o seconda metà del Duecento, come sembra indicare lo stile di alcuni pezzi residui sul versante di sinistra (arpia-mensola e blocco con protome angelica), somiglianti formalmente e iconograficamente alle sculture architettoniche della cattedrale di Matera. Il baldacchino fu però messo in opera recuperando alcuni elementi più antichi, verosimilmente della stessa epoca 23 Cfr. Aceto, La cattedrale, cit., pp. 42-46; De Rosa, La chiesa medievale, cit., pp. 134-35.

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dell’incorniciatura a rincasso. Tali elementi (gruppo scultoreo alla base con figura maschile imprigionata da un demone, colonnine con relativi capitelli e protome angelica sulla destra dell’archivolto) avrebbero fatto parte della cattedrale successiva al 1090, definendo un archivolto aggettante non dissimile da quello che si conserva nella sacrestia della cattedrale dell’Assunta a Monopoli, animato dalla sequenza intera delle testine d’angelo e percorso dalla scritta recante sia la data di fondazione della cattedrale (1107) sia i nomi di Romualdo e Ruggero, rispettivamente il vescovo committente e il conte normanno – uno dei figli di Roberto il Guiscardo – che finanziò l’impresa24. Verosimilmente si potrebbe riconoscere negli archivolti di Acerenza e Monopoli due esiti più o meno paralleli e similari, circoscritti alla prima età normanna, scaturiti entrambi da sollecitazioni comuni trasmesse plausibilmente dalle regioni anglo-normanne, dove l’idea di porre in sequenza testine umane o animali a decoro dei portali o delle finestre delle chiese romaniche appare particolarmente diffusa25. Peraltro le testine allineate che si riscontrano sui portali di altri edifici del Mezzogiorno normanno (cattedrale di Matera, castello di Uggiano, basilica di San Nicola a Bari, cattedrale di Anglona) possono essere viste come varianti sul tema scaturite dallo stesso tipo di suggestione. Nella cattedrale di Santa Maria di Anglona (figg. 20-23) la pianta iniziale – dei primi decenni del XII secolo – è del tipo benedettino-cassinese, ovvero con tre navate desinenti in altrettante absidi allineate, come nella chiesa tuttora ben conservata di Santa Maria di Casale a Pisticci, fondata quasi certamente negli ultimi anni dell’XI secolo, ma successivamente ristrutturata di sana pianta26. Fra i primi 24 Cfr. P. Belli D’Elia, Monopoli. Cattedrale, in V. L’Abbate (a cura di), Il territorio a sud-est di Bari in età medievale. Società e ambienti, catalogo della mostra (Conversano 1983), Bari 1983, pp. 153-60; Ead., Il portale della cattedrale di Monopoli. Osservazioni e proposte, in Società, cultura, economia nella Puglia medievale. Atti del Convegno di studi (Conversano 1983), Bari 1985, pp. 187-204; Ead., La Puglia, Milano 1986, pp. 216-22; M.S. Calò Mariani, Considerazioni sulla cultura artistica nel territorio a sud-est di Bari tra XI e XV secolo, in Società, cultura, economia, cit., pp. 385-428; D’Onofrio, La Basilicata, cit., pp. 154-55. 25 Cfr. G. Zarnecki, Romanesque Arches Decorated with Human and Animal Heads, in «Journal of the British Archaeological Association», 20-21, 1957-58, pp. 1-35 (ora in Id., Studies in Romanesque Sculpture, London 1979). 26 Cfr. G. Mongiello, La chiesa di Santa Maria del Casale in Pisticci, in «Arte cristiana», 66, 1978, pp. 317-28.

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Fig. 20. Anglona, Cattedrale: veduta esterna.

Fig. 21. Anglona, Cattedrale: protiro d’ingresso.

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Fig. 22. Anglona, Cattedrale: protiro d’ingresso, particolare.

Fig. 23. Anglona, Cattedrale: veduta esterna dell’abside.

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decenni e la metà del XII secolo la chiesa di Anglona si arricchì di un avancorpo con arcate a risalti multipli sulla fronte e colonne incastrate sui montanti interni27. Qui l’impostazione generale, la fascia con il motivo a bastoni spezzati e soprattutto la sequenza delle protomi sulla ghiera più esterna suggeriscono sorprendenti legami con la cultura artistica francese del XII secolo dell’area normanna. Isolatamente l’arcata decorata con il cordone zigzagato rimanda pure a sporadici esempi del Mezzogiorno normanno (Santa Maria la Nuova a Melfi, Santa Maria di Pierno a San Fele, in provincia di Potenza, e chiese siciliane di Bivona e Girgenti). Così le singole testine umane e animali, per quanto corrose dalle intemperie, possono trovare rispondenze in un settore della scultura lucano-pugliese tra XI e XII secolo (Foresteria di Venosa, castello di Uggiano e San Nicola di Bari). Purtuttavia la genesi, la compresenza dei due elementi decorativi (linea segmentata e testine radiali) e la loro peculiare disposizione, tutto questo sembra spiegabile solo attraverso i portali di alcune chiese normanne del Calvados, quali ad esempio Fontaine-Henry e Saint-Contest, del quarto decennio circa del XII secolo28. Come si è detto, il motivo con testine, caratterizzato generalmente dall’elemento umano, era popolare anche in Inghilterra, dove, a partire dall’abbazia di Reading, subentrò il motivo animalistico caro all’arte scandinava29. Tuttavia, il protiro lucano va ricondotto a una bottega di scalpellini locali che pur imitando il linguaggio e i modelli del Nord si sono espressi sul piano stilistico con un cifrario fortemente legato alla realtà meridionale. Del tutto incerta è invece la natura dei pannelli sovrastanti con i simboli degli evangelisti ai lati dell’agnello mistico e le figure di santi ai lati del protiro stesso: il modesto livello qualitativo e il cattivo stato di conservazione non ne permettono nessuna discussione sui legami stilistici. Probabilmente tra la fine del secolo XII e gli inizi del successivo, in relazione a eventi storici che purtroppo ci sfuggono, la cattedrale fu ampliata con l’aggiunta di un transetto ad ali basse non sporgenti rispetto alle navate laterali e di un coro profondo con volta a botte in cotto e abside terminale semicircolare. Le volte dei bracci del transetto sono ugualmente in cotto e non si esclude che lo fosse anche la 27 Cfr. D’Onofrio, Struttura e architettura, cit, pp. 43-52; Id., La Basilicata, cit., pp. 158-62. 28 Ibid. 29 Cfr. Zarnecki, Romanesque Arches, cit.

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crociera, dove le lesene affiancate ai montanti del coro, con la funzione di sostenere la prevista copertura non bene definibile, appaiono mozze come per denunciare un progetto mai eseguito. Seguendo il percorso cronologico prescelto, a questo punto s’impone all’attenzione il campanile del duomo di Melfi (figg. 24-26), che risulta datato ad annum, come recita l’iscrizione di una lapide in­cassata nella muratura: «Hoc opus regium regina celi comendet [...] Anno Domini MCLIII», mentre una seconda iscrizione tramanda il nome del progettista, Noslo di Remerio30. È facile comprendere l’importanza di una committenza aulica, vale a dire quella di Ruggero II e del figlio Guglielmo I, oltre che per la significativa implicazione politica del primo – da oltre un quindicennio signore di tutta l’Italia meridionale –, anche per le valenze iconologiche sottese al reimpiego di leoni sul campanile, essendo il leone il simbolo della potenza regia, con in più un esplicito richiamo all’obbedienza per una città spesso ribelle31. Il coinvolgimento di così alti committenti si traduce in una struttura poderosa, quanto mai curata sia nell’impianto quadrangolare sia nell’opera muraria. Se infatti all’esterno una nitida tessitura a corposi blocchi si staglia sugli spigoli per poi passare a una trama di masselli calcarei più piccoli nei restanti campi del maestoso basamento e dei successivi ordini, l’interno, scandito e insieme innervato da volte a crociera, che sono state apparentate a quelle di una torre del castello della città, costituisce un ulteriore elemento di stabilità che ha permesso al campanile di passare indenne o quasi attraverso i terremoti succedutisi nella zona nel tempo32. Nella parte più alta emerge la valenza più decorativa del manufatto architettonico: qui l’accurato tessuto murario si apre in bifore analoghe a quelle del piano sottostante; una di esse, sulla faccia principale, si presenta 30 Cfr. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, cit., p. 520; Cappelli, Aspetti e problemi, cit., p. 294; L. Todisco, L’antico nel campanile normanno di Melfi, in «Mélanges de l’École Française de Rome», 99, 1987, pp. 123-58; Id., Il leone «custos iusticie» di Bari, in «Rivista dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte», 10, 1987, p. 144; Garzya Romano, La Basilicata. La Calabria, cit., p. 35. 31 Cfr. H. Houben, Melfi. Venosa, in G. Musca (a cura di), Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari 1993, p. 326. 32 La tecnica muraria è stata collegata alla produzione pugliese di età romanica da Venditti, Architettura bizantina, cit., vol. II, p. 955. Cfr. poi P. Pistilli, s.v. Melfi, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. VII, Roma 1966, p. 297.

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Fig. 24. Melfi, Cattedrale: campanile.

Fig. 25. Melfi, Cattedrale: campanile, particolare.

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Fig. 26. Melfi, Cattedrale: campanile, particolare.

corredata ai lati di due figure di animali, interpretate come grifoni, oppure leone e pantera. Simile decorazione a intarsio si collega, più che ad altri episodi, a quelli diffusi soprattutto nella vicina regione campana, quali i campanili di San Nicola al Vaglio di Lettere, San Pietro alli Marmi di Eboli, Annunziata di Minori, cattedrale di Telese33. Il corredo ornamentale, che si estendeva anche al coronamento, tradotto oggi nel rimaneggiamento ottocentesco, si completa con il materiale di reimpiego, costituito da lapidi e sculture, in particolare leoni aggettanti all’altezza della breve cornice che divide il piano basamentale, secondo abitudini costruttive ampiamente diffuse nella terra normanna del Sud34. Sul tema della decorazione a intarsio cfr. E. Galli, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in «Bollettino d’arte», XXVI, 7, 1933, pp. 321-22; L.G. Kalby, Tarsie ed archi intrecciati nel romanico meridionale, Salerno 1971, p. 85; L. Cielo, Il campanile della cattedrale di Telese e la tradizione architettonica campana, in «Samnium», LI, 1-2, 1978, pp. 93-95; M.S. Calò Mariani, in Prandi (a cura di), Aggiornamento, cit., pp. 691-93; Garzya Romano, La Basilicata. La Calabria, cit., pp. 36-37; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 15. 34 Cfr. P. Pensabene, Contributo per una ricerca sul reimpiego e il «recupero» 33

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Nella fase finale della dominazione normanna e nel passaggio a quella sveva la cultura artistica lucana sembra segnata dalla figura di magister Sarolus di Muro Lucano, architetto e scultore. Le opere certe di questo maestro sono solo due: la chiesa di Santa Maria di Pierno presso San Fele (1189-97) e i rilievi con l’Annunciazione (fig. 27) e il Peccato originale (fig. 28) provenienti dal campanile della cattedrale di Rapolla (1209)35. Nella badia di Santa Maria di Pierno l’iscrizione sull’architrave ci informa del committente dell’opera, Gilberto II di Balvano, signore normanno, della data di inizio dei lavori (1189) e degli autori: Sarolo, suo fratello Ruggero e altri collaboratori, anch’essi provenienti dalla città di Muro. Un’altra iscrizione, scolpita sull’archivolto e sulla lunetta, riporta il nome di Agnese, badessa di Goleto, da cui la badia di Pierno dipendeva, e indica fra l’altro l’anno, il 1197, in cui furono ultimate le operazioni. Qui Sarolo si firma qualificandosi come magister. Sulla lunetta è raffigurata una croce affiancata da due motivi ad annodature che presentano tracce di una decorazione a intarsio che suggerisce un ulteriore rimando alla tecnica a incrostazione usata da Noslo di Remerio nel campanile della cattedrale di Melfi. Per quanto riguarda poi l’architettura della chiesa di Pierno, poco resta dell’assetto originario progettato da Mae­stro Sarolo, essendo l’edificio fortemente rimaneggiato già a partire dal Cinquecento. Sulle navate laterali sono poste delle mensole che originariamente dovevano sorreggere archi trasversi e che appaiono lavorate con rappresentazioni umane e animali per mano degli aiuti di Sarolo. Il maestro lucano, come si evince dal salto stilistico, opera invece nei due rilievi posti attualmente all’esterno della navata laterale destra della cattedrale di Rapolla. L’iscrizione, posta sotto l’Annunciazione, afferma che l’opera fu compiuta nel 1209, all’epoca del vescovo Riccardo. L’iscrizione che si trova sulla cornice del Peccato originale, oltre che ripetere la data, spiega l’accostamento dell’iconografia delle due dell’antico nel Medioevo. Il reimpiego nell’architettura normanna, in «Rivista dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte», 13, 1990, pp. 5-118, in particolare pp. 37-38. 35 Sulla badia di Pierno cfr. G. Fortunato, Santa Maria di Pierno, Trani 1899; L. Cappiello, S. Pagliuca, Santa Maria di Pierno: il santuario e i resti della badia, in «Basilicata Regione. Notizie», 2, 1999, pp. 137-50. Sulle sculture di Rapolla V. Pace, Apulien, Basilicata, Kalabrien, Darmstadt 1994, p. 445; L. Derosa, La cattedrale di Rapolla, in «Basilicata Regione. Notizie», 2, 1999, pp. 89-90.

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Fig. 27. Rapolla, Cattedrale: campanile, Annunciazione di Maestro Sarolo.

Fig. 28. Rapolla, Cattedrale: campanile, Peccato originale di Maestro Sarolo.

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lastre: Maria, attraverso il concepimento del Salvatore, ha riscattato l’umanità dal peccato commesso da un’altra donna, Eva. Il divario stilistico rispetto a Pierno è dato da un modellato caratterizzato da forme turgide e levigate, memore degli avori, talora estroso, con incavi taglienti, e da un certo illusionismo spaziale che sfocia in una maggiore ricerca di pittoricità. Sulla base di queste due opere certe e sulla scia di analogie stilistiche più o meno palesi, molte altre opere, comprese in quell’arco temporale della sua attività, sono state attribuite a Sarolo dagli studiosi (un portale messo in opera nel castello di Melfi, un gruppo di capitelli suddivisi fra Monticchio e Melfi, lastra con teste angeliche in Santa Maria di Vetrano presso Montescaglioso, San Michele a Potenza, cappella di Santa Maria delle Grazie in Capodigiano presso Muro, protiro di Anglona)36. Si tratta però di generici tentativi volti a far luce su una realtà artistica, quella della Basilicata nel primo Duecento, che a causa delle numerose lacune risulta sfuggente e disorganica e che proprio a ragione di questo non può essere considerata unicamente il prodotto di una sola bottega con a capo un maestro più o meno di talento. Tuttavia, quelle opere non escludono del tutto l’ipotesi dell’esistenza di un gruppo di lapicidi che dopo le prime esperienze maturate sul cantiere di Santa Maria di Pierno accanto a Maestro Sarolo ne abbiano poi seguito i dettami in altri cantieri apertisi sul territorio. 3. Il passaggio dallo Stato normanno a quello svevo La vera svolta nel passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva nel Regnum Siciliae si avverte negli anni in cui Federico II riorganizza a livello politico ed economico il Mezzogiorno, prevedendo una serie di castelli e fortificazioni che, oltre a rendere più sicuri i confini territoriali, potessero controllare anche quei domini feudali che si erano rafforzati sino ad allora. Una fonte come lo Sta-

36 Circa le attribuzioni cfr. in particolare Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 23. Un’estensione dell’attività di Sarolo è stata vista anche nella cattedrale romanica di Potenza, dedicata a san Gerardo, ricordata da un’epigrafe murata all’interno della chiesa odierna (cfr. A. Borghini, Potenza perché..., Potenza 1984, p. 14). Cfr. anche S. De Pilato, Architetti di Basilicata, Potenza 1932, pp. 5-7.

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tutum de reparatione castrorum ci può dare l’idea di quanto fitta fosse questa rete: solo fra Puglia e Basilicata si contavano 111 edifici tra domus e castra37. Se scarse sono le costruzioni religiose d’ispirazione gotica38, la scultura architettonica presente nel castello di Lagopesole (fig. 29) manifesta le tendenze che la plastica federiciana stava assumendo sul territorio lucano, in linea con le altre esperienze regionali caratterizzate da un forte naturalismo proteso oltre le influenze classiche e gotico-cistercensi che ne erano alla base39. Si pensi a esemplari quali i capitelli federiciani di Troia o alla plastica di Castel del Monte. A Lagopesole i brani di scultura, e cioè le mensole ancora in situ che dovevano sorreggere archi diaframma e il portale della cappella, sono di qualità e tipologia piuttosto eterogenee; per questo si è cercato di distinguervi diverse botteghe. Mentre nell’ala superiore nord, ad esempio, le mensole sono uniformi e connotate da grossi crochets che emergono dalle nervature delle foglie, quelle al piano inferiore della stessa ala tentano un’esplorazione più naturalistica del mondo vegetale, ma sono presumibilmente opera di botteghe diverse, una proveniente forse dall’area transalpina, l’altra locale. Altre mensole variano il motivo dei crochets arricchendoli di uncini a voluta corinzia e pervenendo a risultati di forte senso classico. Le mensole più belle sono però conservate al piano superiore dell’ala ovest, quella imperiale, dove compaiono splendide rappresentazioni naturalistiche, probabilmente ispirate dalla flora e dalla fauna locali: piante, erbe, fichi, viti e querce sono popolati da ghiri, uccelli, serpenti e altri animaletti di bosco. Lo stile di queste mensole, sintetico ma attento nel cogliere 37 Cfr. R. Licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1994, pp. 127-30. 38 Accanto alle forme d’ispirazione gotica perdurano forme del romanico pugliese. Questo ispira al termine del Duecento la chiesa di San Domenico a Matera, il duomo della stessa città, in cui appaiono reminiscenze del duomo di Bitonto e di altre costruzioni pugliesi, e la facciata di Santa Maria della Palomba presso Matera (cfr. Cappelli, Aspetti e problemi, cit., pp. 327-28; M.S. Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia, Torino 1984, pp. 177-86; Garzya Romano, La Basilicata. La Calabria, cit., pp. 111-36, 295-96, 298). 39 Cfr. M. Righetti Tosti Croce, La scultura del castello di Lagopesole, in Federico II e l’arte del Duecento italiano. Atti della terza settimana di studi di storia dell’arte medievale dell’Università di Roma (Roma 1978), Roma 1980, pp. 237-52; A. Cadei, Il castello di Lagopesole, in C.D. Fonseca (a cura di), Mezzogiorno-Federico II-Mezzogiorno. Atti del Convegno internazionale di studio, Potenza-Avigliano-Castel Lagopesole-Melfi 18-23 ottobre 1994, pp. 849-81.

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Fig. 29. Lagopesole, Castello: mensola.

i dettagli botanici e zoologici, sembra evocare gli stessi interessi naturalistici da cui era scaturito il De arte venandi cum avibus con le sue illustrazioni40. Tuttavia, il tentativo di distinguere in Lagopesole la provenienza e la formazione delle varie botteghe di lapicidi ha indotto qualche studioso a voler riconoscere, in specifiche testimonianze, delle precise personalità41. Ad esempio a Mele da Stigliano, attivo nella loggia federiciana del castello di Bari (1240 circa), dove firma due capitelli, si attribuiscono alcune mensole e il portale della cappella dello stesso castello lucano, la cui ornamentazione richiamerebbe quella dell’imposta del capitello con aquilotti nel castello di Bari42. La questione non può che rimanere aperta.

40 A. Cadei, s.v. Lagopesole, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. VII, cit., pp. 547-50. 41 Solleva la questione, puntualizzandone per alcuni versi la prospettiva, Righetti Tosti Croce, La scultura del castello, cit, pp. 251-52, nota 43. 42 Sull’artista cfr. De Pilato, Architetti, cit., pp. 9-10; S. Iusco, Mele da Stigliano, in «Studi lucani e meridionali», 1978, pp. 227-33; F. Abate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Roma 1997, p. 248.

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Qualcosa però la figura di Mele può suggerire: egli, essendo originario di Stigliano, un paese di montagna in provincia di Matera, dove forse si era anche formato artisticamente, e avendo lavorato negli anni Quaranta del XIII secolo a Bari, in un cantiere federiciano, costituisce un’ulteriore testimonianza non solo della presenza di botteghe locali in Basilicata alla metà del Duecento, ma anche della circolazione di maestranze, e con loro delle diverse soluzioni formali, nelle regioni limitrofe43. Dopo Sarolo di Muro Lucano e Mele da Stigliano, completa la triade delle personalità artistiche lucane di maggiore spicco Melchiorre da Montalbano. Anche in questo caso le fonti documentarie sull’artista sono scarse, mentre sono molte le opere che gli vengono attribuite. Due iscrizioni consentono di ricostruire i momenti dell’attività certa di Melchiorre: la prima posta sull’architrave del portale della cattedrale di Rapolla, la seconda sul fianco sinistro del pulpito della cattedrale di Teggiano, oggi in provincia di Salerno44. La prima delle due è poi particolarmente interessante poiché fornisce informazioni anche biografiche sull’artista, in particolare sulla sua provenienza e sul suo stato sociale. Vi si dice che il portale della chiesa è stato portato a termine nel 1253 per iniziativa del vescovo Giovanni, il quale aveva iniziato a soprelevare la parte più alta della chiesa, e che «l’artefice (faber) di quest’opera degna di lode è Melchiorre, chierico ad Anglona, cresciuto a Montalbano». Ma, nonostante la ricchezza delle informazioni, l’iscrizione non consente di stabilire con esattezza l’intervento di Melchiorre nella fabbrica della chiesa rapollese, crollata e riedificata più volte, e tuttora in pessimo stato di conservazione. La presenza di pilastri a fascio, messa in relazione alle parole di Bertaux45, che vide tracce delle originarie volte a crociera costolonate, hanno fatto però ritenere che si trattasse di una chiesa di impianto cistercense. Da ciò è derivata l’opinione che la formazione di Melchiorre sia avvenuta nei cantieri federiciani (Castel del Monte, Lagopesole), accanto

43 Cfr. F. Aceto, «Magistri» e cantieri nel «Regnum Siciliae»: l’Abruzzo e la cerchia federiciana, in «Bollettino d’arte», 59, 1990, pp. 15-96, in particolare p. 63, dove Mele e i suoi compagni sono definiti «poco più che rozzi tagliapietre». 44 Cfr. De Pilato, Architetti, cit., pp. 8-9; M. Mormone, Il pulpito di Melchiorre da Montalbano nella cattedrale di Teggiano, in «Napoli nobilissima», XIX, 5-6, 1980, pp. 165-73. 45 Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, cit., p. 766.

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a maestranze di quell’ordine46. Sulla stessa strada porta l’analisi del portale dai tipici capitelli a crochets, che è l’unica parte superstite della cattedrale sicuramente autografa. Nell’altra iscrizione, posta sul pulpito di Teggiano, datato 1271, Melchiorre si definisce magister. Il pulpito (figg. 30-31) mostra una raggiunta maturità da parte dell’artista, derivata per alcuni aspetti dallo studio dell’arte antica e dall’acquisizione di innovazioni che lo rivelano partecipe dell’ambiente culturale di un artista di talento di ascendenza pugliese, Nicola di Bartolomeo da Foggia, autore del pulpito del duomo di Ravello, che segue, almeno in ordine cronologico (1272), quello di Teggiano. Melchiorre si rivela qui abile, ma nello stesso tempo aspro e vigoroso, a tratti anche rozzo, non arrivando alla raffinatezza del collega pugliese. Nel tentativo di individuare le ragioni di tale originale personalità, esse sono state rintracciate, oltre che nei cantieri federiciani di area pugliese, come si è già accennato, anche in ambito abruzzese47, oppure nella stessa regione di provenienza dell’artista, la Basilicata48. Inoltre, partendo dai due monumenti certi e dalle origini dell’artista, altre opere sono state attribuite a lui e alla sua bottega (ambone di Ferrazzano, lastre con i simboli degli evangelisti della chiesa di San Michele Arcangelo nella stessa Teggiano, architettura e scultura architettonica di San Gianuario a Marsiconuovo, portale di San Michele, sempre a Marsiconuovo, portale di Santa Maria de Plano a Calvello ecc.)49. Ma nessuna di queste attribuzioni appare convincente, data fra l’altro la notevole distanza che le separa dalle opere autografe. Da Bertaux è stata proposta anche l’attribuzione della chiesa superiore del monastero di San Guglielmo al Goleto (1247-55), in Campania, dove, come nella

46 Ibid. e M.S. Calò Mariani, Aspetti della scultura sveva in Puglia e in Lucania, in «Archivio storico pugliese», 26, 1973, pp. 441-74; Ead., Ancora sulla scultura sveva in Puglia e in Lucania, in Atti delle terze giornate federiciane (Oria, 26-27 ottobre 1974), Bari 1977, pp. 155-95; Ead., La scultura in Puglia durante l’età sveva e proto-angioina, in C.D. Fonseca (a cura di), Civiltà e culture in Puglia, vol. II, La Puglia fra Bisanzio e l’Occidente, Milano 1980, p. 292; Ead., L’arte del Duecento, cit., pp. 195-96. 47 Cfr. M. Mormone, Il pulpito di Melchiorre da Montalbano nella Cattedrale di Teggiano, in «Napoli nobilissima», 18, 1980, pp. 1-9; Calò Mariani, Ancora sulla scultura, cit., pp. 177 e 180; Aceto, «Magistri» e cantieri, cit., pp. 60-61. 48 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 25; F. Gandolfo, La scultura normanno-sveva in Campania, Roma-Bari 1999, p. 121. 49 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 23-26.

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Fig. 30. Teggiano, Cattedrale: pulpito di Melchiorre da Montalbano.

Fig. 31. Teggiano, Cattedrale: pulpito da Melchiorre da Montalbano, particolare.

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Fig. 32. Teggiano, Cattedrale: portale d’ingresso.

cattedrale di Rapolla, affiorano caratteristiche cistercensi e assonanze con Castel del Monte50. Tuttavia, mancano anche in questo caso elementi espliciti e quanto meno obiettivi che confermino tale attribuzione. È invece più che probabile la partecipazione di Melchiorre alla costruzione della stessa cattedrale di Teggiano, che ebbe luogo negli stessi anni in cui veniva realizzato il pulpito, ma che è stata completamente ricostruita alla fine dell’Ottocento. Lo dimostrerebbe il portale della chiesa (fig. 32), unica opera non firmata in cui è possibile riconoscere con quasi assoluta certezza la mano dell’artista, Melchiorre, il quale – vedendosi riconosciuta la qualifica di magister, ovvero di capo delle maestranze e responsabile dei lavori – doveva pure avere le competenze necessarie per dirigere l’intero cantiere. 50

Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, cit., p. 766.

EDILIZIA RELIGIOSA E CIVILE DELL’ETÀ ANGIOINA E ARAGONESE di Luisa Derosa 1. Premessa Una storia della Basilicata in età angioina e aragonese è impresa assai ardua, tenendo presente una serie di fattori che hanno determinato nelle vicende della regione una situazione del tutto particolare. Innanzitutto manca una storiografia artistica che coniugando l’analisi dei monumenti alle fonti e alla storia dei restauri restituisca ai singoli episodi artistici il giusto ruolo nella storia. Monumenti, fonti e restauri sono tre variabili indipendenti legate al passato di questa regione da sempre terra di frane, terremoti, ruberie, incurie che hanno portato a una «perdita della memoria», in un contesto che ogni qualvolta si analizza rivela dinamiche comuni a numerose altre aree culturali del Mezzogiorno. Indubbiamente negli ultimi tempi sono stati compiuti grandi passi avanti. Ai meritori e pionieristici studi di Schulz, Lenormant, Bertaux, Diehl, Salazaro, Bals, Bordenache, Avena, Arslan e, sul fronte locale, di Cappelli, Fortunato e Guarini sono seguiti interventi di specialisti qualificati che hanno indubbiamente contribuito a far luce sulla storia di molti monumenti. Se l’interesse degli studi si è concentrato sugli episodi più caratterizzanti della regione, in particolare legati al periodo alto-medievale e medievale (si pensi alla SS. Trinità di Venosa o alla cattedrale di Acerenza), invece man mano che ci si avvicina al periodo angioino e aragonese comincia a crearsi un vuoto in cui trovano spazio solo alcune voci solitarie di cultori locali, con i relativi meriti e demeriti. Come giustamente messo in evidenza da Kalby, si ripete in Basilicata «il fenomeno riscontrato in altre aree del Mezzogiorno ove [...] sembra che le memorie artistiche vadano ricercate soltanto nel periodo

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dell’età classica e sino al Medioevo»1. In tale contesto bisogna riconoscere che il versante della pittura e della scultura risulta in questi ultimi anni più indagato e conosciuto, perché più ricco, rispetto a quello dell’architettura. L’ampio catalogo pubblicato nel 1981 da Anna Grelle Iusco insieme alle indicazioni dell’allora soprintendente Michele D’Elia hanno tracciato le linee fondamentali delle future ricerche sulla storia dell’arte della regione2. Non altrettanto può dirsi per gli studi di storia dell’architettura, sia perché molte e sostanziali sono state le trasformazioni di età moderna, sia perché i terremoti che da sempre hanno lacerato la regione hanno giocato, come è facile immaginare, un ruolo centrale per la conservazione del patrimonio artistico. Basti rileggere le pagine di Paci o le ricognizioni degli anni Trenta del soprintendente di Reggio Calabria Edoardo Galli per farsene un’idea3. Un dipinto settecentesco conservato nella cappella del SS. Sacramento della cattedrale di Melfi e raffigurante il Cristo in maestà circondato dalla Vergine, san Giuseppe e santi mostra un’ampia veduta della città dopo il terremoto del 1694. L’immagine è desolante: dovunque vi sono case diroccate, chiese distrutte, torri crollate, pare che l’intero paese sia ridotto a un cumulo di macerie. Dietro tale immagine potrebbe celarsi quella di numerosi altri centri della Basilicata, che hanno condiviso le sorti di un passato destinato all’oblio. L’elenco dei terremoti che hanno devastato queste terre è incredibilmente lungo. Già a partire dal 1248 e poi nel 1273 quando un grande sisma colpì principalmente la zona di Potenza, al punto che, secondo Giustiniani, la città venne rifondata4. Un’altra terribile calamità naturale fu il terremoto del 1456. L’enorme estensione del territorio interessa-

1 L.G. Kalby, Arti figurative e committenze, in A. Cestaro (a cura di), Storia della Basilicata, vol. III, Età moderna, Roma-Bari 2001, p. 304. 2 A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981 (rist. 2001, con Note di aggiornamento a cura di A. Grelle Iusco e S. Iusco); M. D’Elia, Un profilo dei beni artistici e storici della Basilicata, in La Lucania e il suo patrimonio artistico, Roma 1991, pp. 45-57. Cfr., inoltre, i recenti volumi Tardogotico e Rinascimento in Basilicata, Matera 2002; Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII secolo alla prima metà del XVI secolo, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, 1° luglio-31 ottobre 2004), Torino 2004. 3 G.M. Paci, Il terremoto del 1851 in Basilicata, Napoli 1853 (rist. Melfi 1990); E. Galli, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in «Bollettino d’arte», 26, 1932, pp. 321-40. 4 V. Claps, Cronistoria dei terremoti in Basilicata, Galatina 1982, p. 19.

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to e gli immensi danni provocati forse non hanno pari nella storia del Mezzogiorno, al punto da segnare, secondo alcuni, «una sorta di spartiacque nella storia delle popolazioni dell’Italia meridionale, come lo saranno più tardi la peste del 1656 o il maremoto di Messina del 1908»5. Vennero distrutti numerosi paesi del Vulture, la città di Melfi ricevette molti danni, ad Atella crollarono la cattedrale e il convento benedettino di Santo Spirito, mentre definitivamente abbandonati furono i numerosi casali che ancora popolavano la valle di Vitalba6. Una delle città che registrò maggiori danni fu quella di Acerenza, che venne quasi rasa al suolo e contò, secondo il Summonte (che riprende a sua volta la cronaca di sant’Antonino arcivescovo di Firenze) 12.000 morti7. In conseguenza di tale evento Sisto IV divise l’arcivescovado di Acerenza e Matera in due sedi distinte, con pari dignità, e fu probabilmente in conseguenza di tale evento che dopo otto anni la città venne alienata per 12.000 ducati da Ferdinando I d’Aragona al nobile napoletano Matteo Ferrillo8. Un altro terribile evento si verificò nel 1694: vennero distrutte ancora una volta le città di Atella e Muro Lucano, dove sinistro presagio fu il crollo della torre in cui era stata uccisa la regina Giovanna. A Melfi crollò la facciata della cattedrale, rifatta in veste barocca dall’arcivescovo Antonio Spinelli dopo il 1723, oltre a ricevere ingenti danni la chiesa di Ognissanti e il convento degli Agostiniani e dei Cappuccini9. Pescopagano, Rapolla, Rapone, Ripacandida, Venosa, Brindisi di Montagna, Potenza, Tito, Vietri di Potenza sono solo alcuni dei centri maggiormente danneggiati10. Da ricordare è anche il terremoto del 1851, che diede inizio alla stagione dei restauri in stile: in conseguenza di un crollo venne, ad esempio, ricostruito il coro della chiesa di San Francesco a Potenza11, come anche la cattedrale di Rapolla, che «in un baleno cadde in rovina, e solo un mucchio di pietre mostra ove già fu»12. Una vecchia 5 C. Gelao, Il terremoto del 1456 e i suoi riflessi sulla cattedrale, in P. Belli D’Elia, C. Gelao, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999, p. 177. 6 Paci, Il terremoto del 1851, cit. 7 Gelao, Il terremoto del 1456, cit., pp. 177-78. 8 Ibid. 9 G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi nell’antico Reame di Napoli, Firenze 1866, pp. 358-70. 10 Claps, Cronistoria dei terremoti, cit., pp. 30-37. 11 G. Messina, Storie di carta-storie di pietra, Potenza 1980, p. 97. 12 Paci, Il terremoto del 1851, cit., pp. 48-49. L’illustrazione che accompagna il testo (tav. V) mostra un edificio ormai diruto del quale restano parte della facciata

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foto mostra l’interno della chiesa nella ricostruzione ottocentesca, senz’altro molto più fedele all’aspetto originario della chiesa di quanto lo sia oggi, dopo i restauri eseguiti in conseguenza del terremoto del 193013. Queste poche osservazioni inducono, com’è facile immaginare, a un’estrema cautela e spesso scoraggiano anche lo studioso più volenteroso. Per superare tale ostacolo sarebbe necessario iniziare una nuova stagione di studi che ricostruisca le vicende dei singoli monumenti a partire dalla storia dei restauri, recuperando la documentazione esistente tanto nelle fonti storiche quanto negli archivi delle soprintendenze. In quest’ottica sono stati realizzati il volume sulla chiesa di Anglona e sulla cattedrale di Acerenza, ma la strada è ancora lunga14. In questo saggio si sono voluti mettere in evidenza gli episodi più salienti che caratterizzano questi due secoli di storia lucana. Si tratta di un primo approccio che richiederà ben altri approfondimenti, soprattutto considerando che la maggior parte delle vicende artistiche di età angioina e aragonese costituiscono, nel campo dell’edilizia sacra, solo una fase all’interno di una storia che ricopre un lungo arco temporale. L’individuazione di tali fasi, dove manca uno studio complessivo sul monumento, risulta spesso assai complessa15. 2. Tra Svevi e Angioini All’atto del passaggio dal dominio svevo a quello angioino erano ancora aperti alcuni grandi cantieri ecclesiastici; non sappiamo se il ricambio delle forze al potere determinò profonde trasformazioni o

con il portale, stretto tra due barbacani (un terzo si nota sul lato destro della facciata), la cupola settecentesca per metà crollata e infine una piccola finestra a sesto acuto in alto a sinistra in corrispondenza della navata laterale dell’edificio. 13 Galli, Danni e restauri, cit., pp. 321-40, in particolare pp. 331-33. 14 C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996; Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit. 15 Si pensi, ad esempio, alla cattedrale di Melfi sulla quale, nonostante la presenza del celebre campanile, manca uno studio esaustivo relativo alle vicende architettoniche.

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forzate battute d’arresto per quegli edifici che erano ormai in fase di completamento. È probabile che per alcuni decenni non ci sia stato un grosso mutamento di indirizzi culturali e artistici. Soprattutto in Basilicata l’architettura religiosa al tempo del primo sovrano angioino non espresse elementi originali. Furono al contrario le opere di difesa e fortificazione che assorbirono quasi del tutto le energie del sovrano, preso dall’ambizioso progetto di espansione verso Oriente. I castelli su cui intervennero Pierre d’Agincourt e gli altri architetti sia francesi che italiani, presentano un linguaggio fortemente unitario assente nell’ambito dell’architettura religiosa. Nel campo dell’edilizia sacra non esistono sostanziali diversità tra livello architettonico e scultoreo tra opere realizzate nella prima e nella seconda metà del secolo. Tale è il motivo delle oscillazioni cronologiche che riguardano alcuni monumenti. Nella zona del Vulture, all’indomani della morte dello svevo si metteva mano al completamento della cattedrale di Rapolla, come documenta l’iscrizione posta sul portale maggiore dell’edificio, che ricorda il completamento delle «parti più alte» all’epoca del vescovo Giovanni, nel 1253, ad opera dello scultore Melchiorre da Montalbano16. Si lavorava ancora, invece, al completamento della chiesa cattedrale di Matera (fig. 1), stando all’iscrizione attualmente murata sulla porta che conduce al campanile, che indica nel 1270 l’anno di completamento dei lavori del nuovo edificio, «domus spectamine laeta»17. A costituire il modello della cattedrale materana non fu, come pure è stato sostenuto, la maggiore chiesa barese, ma la cattedrale normanna di Lecce, nella nuova versione duecentesca datale dal vescovo Roberto Voltorico18. Un’idea abbastanza chiara di questo 16 L. Derosa, La Basilicata e i terremoti: il fortuito caso della cattedrale di Rapolla, in «Tarsia», 2001, pp. 3-39. 17 M.S. Calò Mariani, in M.S. Calò Mariani, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati (a cura di), La Cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Milano 1978, fig. 10. L’iscrizione, sia pure restaurata in epoca antica, è considerata attendibile da tutti coloro che si sono occupati del monumento. Quanto all’inizio dei lavori, in genere legata al 1203, più probabile è la notizia riportata da Cappelletti relativa alla consacrazione dell’edificio da parte dell’arcivescovo Fabrizio Antinori, avvenuta nel 1627, quando l’edificio risultava costruito da 397 anni, dunque nel 1230: G. Cappelletti, Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, vol. XX, Venezia 1866, p. 441. 18 P. Belli D’Elia, L’architettura sacra, tra continuità e innovazione, in Le eredità mormanno-sveve nell’età angioina. Persistenze e mutamenti nel Mezzogiorno. Atti

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Fig. 1. Matera, Cattedrale.

edificio si ha nella veduta di Pompeo de’ Renzi che illustra la Lecce sacra di Infantino del 163419. In realtà le vicende della Maior Ecclesia Matherana si chiariscono in parte dal confronto con un gruppo di edifici materani costruiti nel Duecento avanzato e a fine secolo tutti ancora in fase di completamento: Santa Maria la Nova, già in costruzione nel primo trentennio, San Domenico, San Francesco e Santa Maria della Valle20. Matera era a metà secolo una città in grande fermento. Se la costruzione della nuova cattedrale, seguita all’elevazione dell’episcopio materano a sede arcivescovile, aeque principaliter unita con quella di Acerenza, aveva dato un nuovo impulso all’intera comunità, fu in sedelle quindicesime giornate normanno-sveve (Bari, 22-25 ottobre 2002), Bari 2004, pp. 303-39, in particolare pp. 306-308. 19 G.C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634, p. 7; M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1978, pp. 35-89. 20 C. Foti, Ai margini della città murata. Gli insediamenti monastici di San Domenico e di Santa Maria la Nova, Lavello 1996.

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guito all’arrivo di nuovi ordini religiosi che la città crebbe oltre le mura, attraverso un processo di riqualificazione urbana d’intere zone relegate ai margini dell’insediamento alto-medievale21. All’alacre impegno dell’arcivescovo Andrea, il primo della serie materana, si deve nel 1230 l’arrivo delle suore Penitenti provenienti da Accon22, a cui seguì l’insediamento delle prime comunità francescane e domenicane. Se dapprincipio tali comunità occuparono edifici già esistenti, fu proprio in età angioina che fu dato nuovo impulso alla costruzione di edifici di culto e annessi conventi in grado di ospitare le ormai fiorenti comunità religiose23. Sulla cresta di una delle due vallette poste di fronte alla Civita furono costruite le chiese di San Domenico e di Santa Maria la Nova o dei Foggiali, nell’area dell’attuale via San Biagio24. La comunità francescana scelse invece, secondo un fenomeno comune a numerose aree geografiche, un luogo esterno alla cinta muraria medievale, ma ad essa immediatamente vicino, nei pressi della porta Pepice o del Sambuco, una zona a vocazione prevalentemente commerciale (che compare nei documenti trecenteschi come platea rerum venalium)25. Ciò che accomuna gli edifici materani in questa fase non è tanto lo sviluppo planimetrico, dal momento che alcuni di questi edifici sorsero riadattando alle esigenze delle comunità conventuali luoghi di culto già esistenti26, in ottemperanza ai dettami costruttivi degli ordini religiosi cui appartenevano, quanto la tipologia degli alzati, il trattamento delle pareti murarie e il tipo di decorazioni che ornano portali e finestre, che fanno pensare a un’officina di maestranze spe21 La cattedrale venne edificata sull’area in parte occupata dal monastero di Sant’Eustachio. Nel 1223 iniziò la costruzione del palazzo arcivescovile, mentre nella stessa area sorgevano le chiese rupestri di San Pietro alla Civita, Sant’Angelo alla Civita, San Giacomo alla Civita, San Benedetto alla Civita e San Marco alla Civita. Sulla situazione urbanistica cfr. C.D. Fonseca, R. Demetrio, G. Guadagno, Matera, Roma-Bari 1998, p. 23; sul problema della fondazione della cattedrale Calò Mariani, La cattedrale di Matera, cit., pp. 13-16. 22 Le suore vennero ospitate dapprincipio nel monastero benedettino della Madonna della Virtù, ubicato nella Civita, in attesa del completamento del monastero di Santa Maria dei Foggiali, intitolato a metà Seicento a San Giovanni Battista. 23 Foti, Ai margini della città murata, cit. 24 Ivi, pp. 38-44. Sul popolamento in età medievale cfr. P. Dalena, Da Matera a Casalrotto. Civiltà delle grotte e popolamento rupestre (secc. X-XV), Galatina 1990. 25 Fonseca, Demetrio, Guadagno, Matera, cit., pp. 30-34. 26 È il caso, ad esempio, della chiesa di Santa Maria la Nova e di San Domenico (Foti, Ai margini della città murata, cit.).

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cializzate in loco27. D’altro canto in zone dove c’era una buona pietra da taglio esistevano botteghe locali di tagliapietre che in questi anni rielaborarono, spesso in maniera eccentrica, elementi di una tradizione più che secolare. La chiesa di San Domenico si presentava, come i recenti restauri hanno chiarito, ad aula unica, illuminata da slanciate monofore protette da transenne lapidee e con un tetto a falde, secondo una tipologia tipica degli ordini mendicanti. La stessa planimetria si ripeteva nella chiesa dei Francescani, insediatisi in un primo momento nell’antico complesso ipogeo dedicato ai santi Pietro e Paolo. La storia di questo complesso, uno dei primi insediamenti nella regione lucana, ritornato alla luce dopo gli ultimi restauri, è sintomatico di una modalità di insediamento che si ritrova pressoché identica in quasi tutta l’area lucana. È infatti noto che le prime comunità francescane si insediarono in prevalenza in strutture religiose già esistenti, ricevute in donazione28. Come è stato messo in evidenza, «i Mendicanti nacquero alla storia dell’arte essenzialmente come restauratori»29. Nel momento in cui si completò il processo di integrazione nelle singole comunità cittadine e iniziò il flusso di lasciti e donazioni, le vecchie fabbriche vennero trasformate attraverso modifiche sostanziali. Nel San Francesco di Matera30 si mise mano a un progetto per una chiesa sub divo intorno alla metà del XIII secolo, come dimostrerebbero i resti di strutture più antiche sulla parete est dell’attuale cella campanaria31. In seguito al cospicuo lascito testamentario del barone di Timmari Buccardo Rovarelli, che richiedeva espressamente di essere sepolto nell’edificio32, si decise, dopo il 1270, di realizzare un progetto più ambizioso, Calò Mariani, La cattedrale di Matera, cit., pp. 26-31. Per questi problemi cfr. Architettura e urbanistica degli ordini mendicanti, in «Storia della città», 9, 1978, con relativa bibliografia. 29 A.M. Romanini, L’architettura degli ordini mendicanti: nuove prospettive di interpretazione, ivi, pp. 5-15, in particolare p. 10. 30 Controversa, anche per le ragioni esposte, è la data di arrivo dei Francescani a Matera. Sulla questione cfr. A. Altavilla, La chiesa, in Matera, Piazza San Francesco d’Assisi. Origine ed evoluzione di uno spazio urbano, Matera 1986, pp. 213-22. 31 L’ipotesi di Altavilla è che tale parete, alla quale si addosserebbe il muro sud della cella, avrebbe avuto la funzione di facciata principale di un edificio disposto ortogonalmente all’attuale. 32 La notizia è riferita da Nicolò Domenico Nelli (Descrizione della città di Matera, della sua origine e denominazione..., mss. del Museo nazionale D. Ridola di Matera, inv. 334, f. 139). 27 28

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che comportò, per ragioni orografiche, la rotazione di novanta gradi dell’edificio. Venne edificata una chiesa a navata unica, con una copertura a capriate lignee e coro piatto voltato a crociera a cui si accedeva attraverso un arco trionfale a sesto acuto. L’edificio era illuminato da strette monofore strombate e archiacute, come hanno rivelato saggi eseguiti sulla parete laterale destra della navata33. Accanto all’abside fu costruita la cella campanaria, che inglobò resti del precedente impianto, probabilmente mai concluso, a pianta quadrangolare con snelli costoloni impostati su peducci scolpiti con motivi zoomorfi e antropomorfi di sapore tardo-duecentesco. Vi si accedeva dall’esterno attraverso un piccolo portale trilobato, oggi murato ma ancora parzialmente visibile lungo il muro orientale, ritmato da archeggiature cieche che, secondo il modello della cattedrale, costituiscono una sorta di Leitmotiv dei monumenti materani di questo periodo. La chiesa venne coperta con un prezioso soffitto ligneo dipinto realizzato in modo analogo a quello della cattedrale, uno dei primi esempi apparsi in area appulo-lucana34. Motivi aniconici, intrecci geometrici e zoomorfi, tra cui piccoli gigli entro tondi e animali fantastici, sono comuni a entrambe le opere, ma se nella cattedrale il repertorio decorativo è attinto dalla coeva produzione di pittura rupestre, nel soffitto del San Francesco compaiono temi e motivi straordinariamente vicini a modelli siciliani, in particolare al duomo di Cefalù35. Questi modelli potrebbero essere giunti a Matera non tanto attraverso un rapporto diretto con l’isola, difficile da dimostrare dopo il 1282, quanto attraverso il principato di Taranto, i cui rappresentanti dimorarono stabilmente nella capitale del regno, caratterizzata, già a partire da Carlo II, da una grande vivacità culturale dovuta alla presenza di colonie di genovesi, fiorentini, marsigliesi, catalani36. Tale nesso, ancora tutto da approfondire nonostante i numerosi contributi critici, è intuibile in altri edifici materani come quello di San Altavilla, La chiesa, cit., p. 220. La realizzazione di questo soffitto suggellò la fine dei lavori nella chiesa. Cfr. C. Gelao, «Tecta dipinta» di chiese medievali pugliesi, «Quaderni dell’Amministrazione provinciale», 9, Bari, s.d. 35 M. D’Elia, Considerazioni sull’antico soffitto della cattedrale di Matera, in Circolo La Scaletta, Restauri in Cattedrale, Matera 1986, pp. 7-20, in particolare p. 17. 36 G. De Blasiis, Le case dei principi angioini nella piazza di Castelnuovo, in «Archivio storico per le province napoletane», XI, 3, 1886, pp. 473-74. Per questi problemi cfr. inoltre Gelao, «Tecta dipinta», cit., pp. 30-32. 33 34

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Domenico, edificato nella prima metà del XIV secolo37. I due prospetti visibili della chiesa, quello principale e quello laterale nord (essendo le parti restanti inglobate nell’attuale edificio della Prefettura), sono come di consueto scompartiti da piatte lesene che partono da un alto zoccolo e reggono una serie di archetti ciechi su mensole, motivo che ritorna anche sulla facciata della chiesa di Santa Maria della Valle, sul cui portale compare la firma di Magister Leorius di Taranto. Sul prospetto principale, il consueto rosone con la rappresentazione del tema della «ruota della Fortuna», dove in alto è rappresentato l’arcangelo Michele vittorioso sul drago, ai lati due figurine di cui quella di sinistra sembra essere travolta dalla ruota e l’altra appare tesa nel tentativo di risalirla, in basso un Atlante che con le braccia levate sorregge il peso dell’intera composizione: uno schema che non trova precedenti in area pugliese, ma che risulta essere tipico degli edifici materani38. Nel corso dei recenti interventi di restauro sono anche venute alla luce due monofore a sesto acuto, profondamente strombate, con resti di lunette traforate in tufo con un motivo floreale rappresentato da un giglio, la cui presenza è stata considerata indicativa della committenza dell’opera nell’ambito del principato di Taranto39. Si tratta dello stesso motivo della monofora rinvenuta nella cella campanaria della chiesa di San Francesco, che ritorna ancora tra i temi decorativi dei due citati soffitti lignei40. Se lo schema iconografico di questi edifici rispondeva ai dettami costruttivi degli ordini mendicanti, la regola di costruire secundum loci conditionem, ribadita nelle stesse prescrizioni narbonesi del 126041, spiega la ripresa, a livello decorativo, di temi e modelli dive37 Il problema di un altro insediamento domenicano legato alla venuta dei frati a Matera è stato analizzato da Foti, Ai margini della città murata, cit., pp. 57-71. 38 E. Miranda, Motivi decorativi nel rosone della cattedrale di Matera, in «Archivio storico per le province napoletane», VII-VIII, 80-81, 1968-69, pp. 197-205. 39 Foti, Ai margini della città murata, cit., pp. 81-82. 40 D’Elia, Considerazioni sull’antico soffitto, cit., pp. 9-20; A. Altavilla, San Francesco d’Assisi: il complesso conventuale. La chiesa, in Matera, Piazza San Francesco d’Assisi, cit., pp. 213-38. 41 M. Bihl, Statuta generalia Ordinis edita in capitulis generalibus celebratis Narbonae an. 1260, Assisii an. 1279 atque Parisiis an. 1292, in «Archivum Franciscanum Historicum», 34, 1941, pp. 45-46; R.A. Sund, Mediocres domos et humiles habeant fratres nostri: Dominican Legislation on Architecture and Architectural Decoration in the 13th Century, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 46, 1987, pp. 394-407.

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nuti consueti in quella vasta zona di territorio, che un tempo era la Terra d’Otranto, cui Matera a pieno titolo apparteneva e che proprio nella cultura circolante nel principato di Taranto trovava il canale di diffusione più aggiornato. Si spiegano in tal caso il rapporto esistente tra gli edifici materani e un nutrito gruppo di edifici pugliesi più o meno coevi come Santa Maria Assunta a Castellaneta, Santa Maria della Giustizia e San Domenico Maggiore a Taranto, Santa Maria del Casale di Brindisi, oltre a Santa Maria della Lizza ad Alezio, Santa Caterina di Galatina, San Domenico di Brindisi, e ancora, sul piano decorativo e scultoreo, i Santi Nicolò e Cataldo di Lecce e Santa Maria delle Cerrate a Squinzano42. Alla stessa cultura appartengono i portali delle chiese di Miglionico (Santa Maria Maggiore), Senise (Santa Maria degli Angeli) e Pisticci (Santa Maria del Casale), databili fra XIII e XIV secolo, che presentano un identico schema compositivo (portale architravato con lunetta archiacuta riquadrata da un timpano pensile), con temi decorativi tratti il più delle volte dalla tradizione romanica43. 3. L’età angioina Con la costruzione del San Domenico e del San Francesco di Matera, tra innovazione e tradizione, si apre la storia del Trecento in Basilicata. Trascorso il burrascoso momento della conquista del Mezzogiorno da parte di Carlo I d’Angiò, che aveva toccato le punte più tragiche con il diroccamento delle mura di Potenza e la distruzione dei centri ribelli di Armaterra e Ruvo del Monte, si assiste nella regione a un progressivo infeudamento che non risparmia città, castelli e beni demaniali. Si affacciano sulla scena nuovi signori, in genere milites francesi, come i Del Balzo (De Baux), o esponenti locali distintisi nelle lotte antighibelline, come i Sanseverino. Questi ultimi che avevano come centro del loro potere la contea di Chiaromonte, giunsero a controllare tutto il territorio sud-orientale della regione,

42 Su alcuni di questi edifici cfr. il contributo di M. Tocci, Problemi di architettura minorita: esemplificazioni in Puglia, in «Bollettino d’arte», 60, 1975, pp. 201-208. 43 D. Kemper, SS. Nicolò e Cataldo in Lecce als ein Ausgangspunkt für die Entwick­lung mittelalterlicher Bauplastik in Apulien und der Basilicata, Worms 1994, pp. 196-97 e 199-200; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 44-45.

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compreso tra i fiumi Agri e Sinni, estendendo il loro potere su quasi tutta la regione ad eccezione della zona del Vulture, dove comunque per un breve periodo ottennero i feudi di Genzano e Venosa44. Quest’ultima città, fedele agli Svevi dopo la morte dell’imperatore, visse nella prima età angioina un periodo di profonda decadenza45. Sintomatiche sono le vicende relative alla SS. Trinità. Il declino delle fortune della dinastia normanna degli Altavilla aveva già determinato una notevole perdita di importanza per l’abbazia46. Dopo un periodo di profonda decadenza morale ed economica, segnata dalla gestione fallimentare di alcuni abati che avevano dissipato l’ingente patrimonio ereditato, grazie all’attività dell’abate Nicola, già a capo della fiorente comunità di Montescaglioso, e a quella del suo successore Barnaba, l’abbazia riuscì a recuperare parte del suo antico prestigio. È in questi anni che probabilmente matura il progetto di abbandonare definitivamente la nuova fabbrica ancora in costruzione. Lo dimostra, sia pure indirettamente, il portale (fig. 2) che viene realizzato per la vecchia chiesa nel 1287 dal Magister Palmerius47. Se nello schema generale l’autore si ispira a numerosi esemplari di età angioina, nella realizzazione egli non fa altro che riprendere una consuetudine ampiamente praticata nella costruzione dell’Incompiuta, sia pure con ben diversa sensibilità, forse anche per rispondere all’esigenza della committenza di abbattere i costi di realizzazione dell’opera. Il portale è, infatti, costituito da una serie di frammenti riutilizzati: l’architrave e lo stipite fanno parte di un unico frammento di età imperiale, probabilmente riscolpito in alcune parti durante la messa in opera48; la lunetta, composta da tre lastre mutile, di cui quella 44 M. Giganti, I Sanseverino e la Basilicata tra Svevi e Angioini, in AA.VV., Studi storici della Basilicata, Bari 1987, pp. 83-130. 45 P. De Grazia, L’insurrezione della Basilicata contro Carlo d’Angiò, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 8, 1938, pp. 225-64. 46 H. Houben, Il «libro del capitolo» del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, «Università degli Studi di Lecce-Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Materiali e documenti», 1, Galatina 1984, pp. 49-52. 47 Sulla cornice esterna del portale è incisa la seguente iscrizione: «anno domini mcclxxxvii sub exp(ension)e / reverendi o.d.m. tri(nitati) domini / barnab(a) e abba(t)is hoc opus factum est / per man(us) mag(ist)ri palmieri». 48 T. Garton, Early Romanesque Sculpture in Apulia, New York 1974, pp. 199200; M. Salvatore (a cura di), Il Museo Archeologico Nazionale di Venosa, Matera 1991, pp. 299-300.

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Fig. 2. Venosa, Chiesa della SS. Trinità: portale di Magister Palmerius.

principale con archi a ferro di cavallo intervallati da rosette, come pure le colonnine che fiancheggiano il frontone, le mensole e gli aquilotti che le coronano, proverrebbero, invece, dalla tomba del Guiscardo, forse mai messa in opera e destinata all’Incompiuta49. Neanche i Cavalieri ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, che subentrarono ai Benedettini nel 1297, completarono la costruzione della nuova chiesa, impresa forse per i tempi assai dispendiosa, soprattutto rispetto al ruolo marginale che ormai rivestiva la città e la stessa abbazia nella nuova geografia del regno. Ai Cavalieri gerosolimitani si deve, invece, il riassetto del presbiterio della vecchia chiesa, con la costruzione dei due arconi a sesto acuto, poggianti direttamente sul pavimento della cripta, già all’epoca inutilizzata50. 49 P.C. Claussen, Il portico di Santa Maria d’Anglona. Scultura normanna nell’Italia meridionale del XII secolo. Santa Maria di Anglona e la SS. Trinità di Venosa, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., p. 57. 50 M. Salvatore, Il restauro architettonico e l’archeologia: Venosa, SS. Trinità, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. I, Storia, fonti, documentazione, Matera 1996, pp. 48-49.

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Difficile è individuare, dati i continui rimaneggiamenti, eventuali lavori di sistemazione e/o ampliamenti di età angioina su edifici religiosi già edificati. Uno dei rari casi è quello della cattedrale di Acerenza. Sul corpo della navata sono ancora visibili, nonostante i numerosi risarcimenti, due coppie di finestre alte e strette, con profilatura in pietra da taglio accuratamente lavorata a doppio strombo, databili tra la fine del Duecento e gli inizi del secolo successivo51. Per Carlo I questa chiesa dové esercitare un grande fascino, dal momento che il 14 febbraio 1281 in una lettera al giustiziere di Basilicata ordinò di far eseguire una rilevazione dell’edificio allo scopo di ricostruirlo, con le stesse dimensioni, in una posizione più accessibile in pianura52. Come sappiamo questo progetto non andò in porto, probabilmente a causa dei notevoli costi dell’impresa, in un momento non privo di difficoltà economiche per il sovrano. Furono dunque eseguiti lavori di ristrutturazione della navata, poiché, come si intuisce dal documento, la chiesa non doveva versare in buone condizioni, al punto che si era deciso di abbandonarla. L’interesse dei sovrani angioini per questa chiesa potrebbe spiegarsi per l’attualità che la sua pianta presentava rispetto alle nuove soluzioni architettoniche elaborate nei cantieri del domain royal, che iniziavano a penetrare a Napoli e nelle province53. Quando ad Acerenza questi lavori siano stati realizzati è impossibile dirlo, ma in via ipotetica si potrebbe pensare al periodo compreso fra il 1306 e il 1334, decenni nei quali si successero sulla cattedra acheruntina due arcivescovi appartenenti all’ordine domenicano, Landolfo, morto in odore di santità, e Roberto, del quale sono ben noti i rapporti privilegiati con la casa d’Angiò54. La critica ha, infatti, giustamente messo in evidenza come la presenza di questi ordini, soprattutto all’indomani dell’elezione di papa Clemente IV, ha il sapore di una riconquista delle terre meridionali

51 P. Belli D’Elia, La chiesa medievale. La parola alla fabbrica, in Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit., p. 104. 52 E. Bertaux, I monumenti medievali della regione del Vulture, supplemento a «Napoli nobilissima», 6, 1897, p. xxii. Sarebbe estremamente interessante verificare la notizia, riportata da R. Giura Longo (La Basilicata dal XIII al XVIII secolo, in Storia del Mezzogiorno, vol. VI, Le province, Napoli 1989, p. 336), di un viaggio nella cittadina lucana del sovrano con Arnolfo di Cambio. 53 Belli D’Elia, La chiesa medievale, cit., p. 106. 54 Ibid.

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all’obbedienza romana dopo le note vicende storiche dell’età di Federico II, così come, in altri tempi e con altre modalità, l’espansione benedettina lo era stata per il papato durante il periodo normanno55. Non è un caso, dunque, che alla guida delle singole diocesi si trovino, in questo periodo, soprattutto esponenti dell’ordine domenicano e francescano. In un primo momento furono i Domenicani ad avere un ruolo chiave nell’organizzazione della Chiesa lucana, evento che, però, non fu accompagnato da un particolare rinnovamento edilizio da parte dell’ordine stesso, che preferì insediarsi nei grandi centri del regno e svolgere nelle province la propria missione morale e culturale attraverso il controllo delle comunità religiose locali56. La loro presenza fu, spesso, favorita da esponenti della classe feudale, come Ruggero Sanseverino, vicario di Carlo I d’Angiò a Roma e marito di Teodora, sorella di san Tommaso d’Aquino, che appoggiò due illustri vescovi domenicani sulla cattedra di Marsico, Reginaldo da Lentini e il beato Rainaldo da Piperno. Lo stesso conte, dopo aver sottomesso i riottosi potentini, provvide all’elezione di un altro vescovo domenicano, Gualtiero57. Se nella zona meridionale della regione si ebbero in prevalenza vescovi domenicani, nella zona nord si concentrarono, invece, vescovi provenienti dall’ordine francescano, come a Melfi, dove compare un fra’ Sinibaldo nel 1236, e dopo alcuni decenni il dotto perugino Monaldo de Monaldi (1328-32)58. La diffusione dei conventi fu invece capillare, anche se in un primo momento gli insediamenti francescani nella regione furono pochi e strettamente legati al favore accordato agli ordini da parte del potere laico59. Quanto ai modelli architettonici, l’adozione di un unico schema costruttivo, reiterato per circa due secoli, finisce per essere l’unica novità registrabile in tutto il XIV secolo nella regione, dove, ad ecce55 Per questi problemi cfr. B. Vetere, Insediamenti francescani pugliesi e chiesa locale, in B. Pellegrino, F. Gaudioso (a cura di), Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno moderno. Atti del seminario di studi (Lecce, 29-31 gennaio 1986), Galatina 1987, vol. II, pp. 341-60. 56 G. Cioffari, Storia dei Domenicani di Puglia (1221-1350), Bari 1986. 57 Giganti, I Sanseverino e la Basilicata, cit., pp. 83-130. 58 G. Messina, Di alcuni minoriti vescovi nelle diocesi della Basilicata, in G. Bove, C. Palestina, F.L. Pietrafesa (a cura di), Francescanesimo in Basilicata. Atti del Convegno di Rionero in Vulture 7-10 maggio 1987, Napoli 1989, vol. I, pp. 73-79. 59 G. Vitolo, Ordini mendicanti e dinamiche politico-sociali nel Mezzogiorno angioino e aragonese, in «Rassegna storica salernitana», 30, 1998, pp. 67-101 e 129.

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zione del discorso sull’architettura fortificata, il panorama artistico si rivela estremamente povero. Le caratteristiche principali di questo stile risiedono nella semplicità delle linee architettoniche e nella sobrietà decorativa. Generalmente si tratta di edifici a navata unica, coro piatto più basso delle navate, finestre alte e strette, secondo il modello tipico dell’architettura mendicante60. Anche lì dove dovrebbero emergere i singoli linguaggi locali, come nella realizzazione dell’apparecchio murario o nella decorazione scultorea – che riveste un ruolo poco significativo nell’edilizia francescana – non si registrano novità di rilievo. Anche gli interni sono nella maggior parte dei casi estremamente austeri, con pareti lisce e soffitti lignei. È probabile che queste pareti fossero un tempo ricoperte di affreschi e che anche in Basilicata si fosse verificato quanto osservabile in altre chiese dell’ordine, dove il luogo liturgico divenne spazio «per l’azione scenica della predicazione»61. È il caso del San Francesco di Tricarico, uno dei primi insediamenti francescani della regione e senza dubbio il più interessante, sebbene assai poco indagato. La chiesa con annesso convento venne fondata nel 1314 da Tommaso di Sanseverino, conte di Marsico, e da Sveva D’Avezzano, sua terza moglie e figlia di Grimondo, signore di Tricarico e capostipite del ramo dei principi di Bisignano. I Sanseverino nei primi decenni del XIV secolo erano diventati la più importante famiglia feudale della Basilicata: il loro dominio si estendeva su tutta la parte occidentale della regione, dal Cilento ai confini con la Calabria62. Il favore accordato agli ordini mendicanti dai Sanseverino rientra nella politica di controllo delle comunità greche, principalmente il grande e ricco monastero di Carbone, che sorgeva nel contado di Chiaromonte, nei confronti del quale Federico d’Aragona aveva sin da subito mostrato grande simpatia63. Quanto si è conservato di questo complesso, insieme alle sue memorie storiche, è estremamente Un’ampia casistica è in G. Zampino, Architettura in Basilicata, in La Lucania e il suo patrimonio, cit., pp. 129-31. Lo studioso elenca, comunque, edifici di diverse tipologie costruiti in un arco cronologico compreso tra il XIV e il XVII secolo. 61 Romanini, L’architettura degli ordini mendicanti, cit., p. 10. 62 Ricordiamo il matrimonio del figlio di Tommaso Giacomo con Margherita di Chiaromonte. 63 Per le tradizioni orientali dei monaci di rito greco, in Sicilia, Calabria e Basilicata, cfr. Giganti, I Sanseverino e la Basilicata, cit., pp. 97-105. 60

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sintomatico del rapporto che si venne a creare in tutta la regione tra potere laico e ordine dei Minori. Come molti edifici francescani, la chiesa aveva, infatti, il valore di Memorial-Bau, poiché conteneva una monumentale sepoltura marmorea dei Sanseverino di Bisignano (1465) sita «in cornu Evangelii», oggi scomparsa64. La stessa cosa si verifica a Matera, come abbiamo avuto modo di vedere, ma anche a Irsina e Potenza. Il convento si era insediato alla sommità della collina che divideva il borgo medievale dall’area della fortificazione normanna che, come nel caso di Matera e di Potenza, divenne nei secoli successivi una delle zone di maggiore sviluppo edilizio. L’edificio, fortemente compromesso dall’ultimo terremoto, al punto che si è reso necessario l’abbattimento del campanile a vela65, presenta un’estrema semplicità nell’apparecchio murario esterno, con la facciata dal profilo a capanna movimentata da un semplice portale d’ingresso sormontato da una monofora a sesto acuto. Più tarda una nicchia ricavata tra queste due aperture. Il portale, caratterizzato da una ghiera racchiusa entro un arco leggermente aggettante e da una lunetta realizzata con conci disposti radialmente, accoglie in alto e ai lati dell’imposta dell’arco piccole sculture di leoni, la cui presenza potrebbe essere interpretata sia come un revival del tema degli acroteri e stilofori romanici sia come una semplificata citazione del motivo tardo-gotico e rinascimentale dell’inserimento di sculture a tutto tondo ai lati e alla sommità di strutture architettoniche (fig. 3). Altre mensole, che probabilmente un tempo accoglievano altrettanti rilievi, affiancano quella posta alla sommità dell’arco. Su ognuna di queste mensole corre un’iscrizione: «en caro / in cineres / conversa». I caratteri epigrafici rimandano a una datazione più tarda, tra XV e XVI secolo, di quella tradizionalmente assegnata al portale. Dal momento che un’iscrizione all’interno dell’edificio ricorda che la facciata della chiesa crollò in conseguenza del terremoto del 1851 e venne ricostruita da padre Alfonso Aragiusto nel 1882, è ipotizzabile che la risistemazione di queste mensole sia avvenuta in tale occasione. L’iscrizione di carat-

64 C. Biscaglia, I Minori conventuali a Tricarico e il complesso monastico di San Francesco, in «Rassegna storica lucana», 12, 1990, pp. 79-105. 65 Insediamenti francescani in Basilicata. Un repertorio per la conoscenza, tutela, valorizzazione, Roma 1988, vol. II, p. 248.

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Fig. 3. Tricarico, Chiesa di San Francesco: portale principale.

tere funerario potrebbe indicare l’appartenenza di queste mensole a uno dei numerosi monumenti funerari presenti nell’edificio, oggi scomparsi66. Si potrebbe anche ipotizzare che gli stessi leoni, inseriti quasi forzatamente nel setto murario, facessero in origine parte di un altro contesto. Se nei singoli stilemi compaiono elementi della tradizione romanica, come ad esempio gli occhi con le palpebre rilevate e la pupilla segnata con il foro del trapano, la rigida posa inespressiva, il trattamento delle superfici articolate per piani paralleli, la schematica fattura delle criniere, la sottile mandibola dal profilo curvilineo spingono verso una datazione più tarda, una sorta di revival romanico di sapore tardo-quattrocentesco. Il portale originale della chiesa poteva presentarsi come quello della chiesa di Santa Maria de Spec-

66 Attualmente nell’edificio si conserva solo la sepoltura dei Corsuto (1575). Per la descrizione dei numerosi monumenti funebri cfr. Biscaglia, I Minori conventuali, cit., pp. 93-105.

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tandis (della Speranza), in agro di Lavello, unica testimonianza di età angioina del piccolo centro volturense67. Ritornando alla chiesa di Tricarico, l’interno (fig. 4), dai volumi nitidi e rigorosi, è illuminato da una serie di monofore dal profilo strombato lungo le pareti della navata. Il coro, dal quale si accedeva a una cappella laterale (ancora oggi presente nell’edificio a destra dell’altare maggiore), dove aveva sede il monumento funebre dei Sanseverino, era completamente affrescato, come probabilmente anche le altre zone dell’edificio sacro. Frammenti di alcuni affreschi, provenienti dal refettorio del convento, ascrivibile all’esperienza di pittori maturati nell’ambito del principato di Taranto, sono attualmente custoditi in episcopio68. La navata, che forse era in origine coperta a capriate, è scandita da arconi a tutto sesto che dividono l’ambiente in una triplice sequenza di crociere69. La contessa Sveva de Bazano, personaggio chiave delle vicende della chiesa di Tricarico, ormai vedova di Tommaso Sanseverino, fu anche munifica finanziatrice del convento delle Clarisse, già dedicato ai santi Pietro e Paolo70. Il complesso sorse all’interno del castello, occupandone la zona a nord-ovest e divenendo in brevissimo tempo uno dei conventi più ricchi della città71. Di questo edificio, profondamente rimaneggiato nel corso dei secoli, restano a testimonianza della sua fase tardo-trecentesca alcune monofore ad arco ogivale che illuminano l’invaso unico della navata, decorata con stucchi seicenteschi. Sul versante del Vulture, negli stessi anni, consistenti trasformazioni politico-territoriali riguardarono quelle che erano state le città più 67 Oltre a un torrione circolare facente parte dell’antica cinta muraria. La chiesa è ricordata in una contesa tra il senescalco del regno, Galerano de Juriaco, che l’aveva ricevuta nel 1271 da Carlo I, insieme a tutte le pertinenze, e il «milite» Goffredo Terzarello, che ne accampava i diritti. Per queste notizie A. Rosucci, Lavello in età angioina, in Melfi, i paesi e le genti del Vulture in età medievale. Atti del convegno di Melfi (25 maggio 1991), Napoli 1992, pp. 73-115, in particolare pp. 80-81. 68 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit. pp. 38-39; C. Muscolino, in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., p. 248. 69 Ricordiamo che l’edificio venne profondamente rimaneggiato nel 1636 e in seguito nel 1746. Per queste notizie cfr. Biscaglia, I Minori conventuali, cit., pp. 87-88. 70 G. Bronzino, Codex diplomaticus Tricaricensis (1055-1342), in «Bollettino storico della Basilicata», 8, 1992, pp. 65-68. 71 C. Biscaglia, Il privilegio di Ludovico re d’Ungheria e di Sicilia, in «Bollettino storico della Basilicata», 11, 1995, p. 74.

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Fig. 4. Tricarico, Chiesa di San Francesco: interno.

importanti del periodo normanno-svevo. Se assai labili sono le memorie artistiche di questo secolo, le tracce della politica angioina ricostruibili storicamente aiutano a far luce su alcune importanti vicende che di li a poco determineranno profondi cambiamenti nell’assetto di questa vasta area geografica. La costruzione del grandioso castello di Melfi, seguito da un progetto su vasta scala urbana che interessò la zona verso l’antica cattedrale normanna, in direzione della piana di Valleverde e della strada per l’Ofanto, voleva nei propositi del primo sovrano angioino rilanciare da un punto di vista militare e strategico la Basilicata «appula»72. Nell’età angioina giunse a Melfi la prima comunità di Frati Minori, a cui seguì la fondazione della chiesa di Sant’Antonio, con annesso convento. L’attuale complesso, frutto di ampie ricostruzioni, serba ancora, nella grande aula retrostante la chiesa, attualmente adibita a 72 R. Colapietra, Un profilo storico dei principali centri urbani della Basilicata (XI-XIX secolo), in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 59, 1992, pp. 109-51, in particolare pp. 115-16.

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sagrestia, tracce della originaria fondazione trecentesca per la presenza di due monofore dal profilo strombato venute alla luce nel corso degli ultimi restauri. Secondo la tradizione, nell’edificio fu sepolto nel 1374 il fiorentino Francesco di Stasio Portinari (zio di Beatrice Portinari)73. L’unica testimonianza di edilizia civile trecentesca conservata a Melfi è la casa palaziata del giudice Ranfrido. Sul portale dell’edificio, andato purtroppo perduto nell’ultimo dopoguerra, c’era un’iscrizione dedicatoria che riportava il nome del committente, trascritta da Bertaux, che ebbe modo di vederla nel 189774. Se la costruzione della fortificazione angioina proseguì fino agli anni Ottanta del XIII secolo, la svolta napoletana di Carlo II, determinò un mutamento di prospettiva circa il successivo sviluppo. La consistente presenza fiorentina, il favore accordato agli ordini mendicanti, il controllo del territorio affidato ai principi della numerosa figliolanza di Carlo II75 sottolineano l’evoluzione di quest’area a svolgere un ruolo eminentemente commerciale tra la nuova capitale del regno e la vivace Puglia. All’interno di tale progetto un ruolo cruciale è svolto dalla fondazione della città di Atella, avvenuta nel 1330 per volere di Giovanni d’Angiò, conte di Gravina e futuro conte di Durazzo, signore di San Fele, Vitalba e Armaterra76. L’edificazione di questa nuova città su una zona collinare fu accompagnata da una sorta di bonifica della valle dell’Ofanto e dalla volontà di far convergere la popolazione verso i grandi centri urbani non aiutando più economicamente i piccoli casali e determinandone di conseguenza la scomparsa77.

73 P.A. Amoroso, Melfi, Sant’Antonio da Padova (S. Francesco d’Assisi), in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., pp. 132-33. 74 Il testo riportato da Bertaux è il seguente: «hec domus ut luna celo terra nitet una vi. ranfridus secunxada (p)atronus: vivant rectores iohannes necne rob(ertus)». Cfr. Bertaux, I monumenti medievali, cit., p. viii. 75 L’espressione è in Colapietra, Un profilo storico, cit., p. 115. 76 F.L. Pietrafesa, M. Saraceno (a cura di), Apprezzo della Terra di Atella e del suo Casale Rionero fatto dal Tavolario Honofrio Tanga nell’anno 1642 a’ 14 giugno, Venosa 1988. Il documento sulla fondazione di Atella è pubblicato in G. Fortunato, Santa Maria di Vitalba con cinquanta documenti inediti, Trani 1898, pp. 132-33. Sulla storia della città e del suo territorio cfr. AA.VV., Dal casale alla terra di Atella, Venosa 1996. 77 Colapietra, Un profilo storico, cit., pp. 115-16.

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La città, nonostante i continui terremoti, conserva importanti tracce della sua facies trecentesca78. Del convento benedettino di Santo Spirito resta oggi una bifora murata all’esterno del complesso conventuale, attuale sede del municipio, insieme a un’altra bifora, evidentemente rifatta, con un capitello proviene dalla chiesa di San Nicola, una delle antiche parrocchie di Atella, distrutta durante il terremoto del 169479. La finestra del convento di Santo Spirito, realizzata con un arco a sesto leggermente acuto decorato con un triplice motivo a zig-zag, lunetta caratterizzata da due archetti trilobi, piedritti conclusi da due risvolti orizzontali decorati ad altorilievo, riprende un modello ampiamente diffuso in tutto il Mezzogiorno fra XIII e XIV secolo, soprattutto nel campo dell’edilizia civile. Basti pensare alle finestre di palazzo Mergolese a Siracusa o, sull’altro versante, a una bifora di Francavilla a Mare in Abruzzo80. Un modello tradizionale e conservatore, dunque, quello che contraddistingue le maestranze atellane. La presenza dello stemma di Giovanni d’Angiò sulla lunetta di questa bifora, oltre che su un’altra finestra di cui ci è rimasto il ricordo in un disegno di Guarini e su alcuni frammenti conservati nel municipio81, la rende a pieno titolo una città feudale che in più luoghi serbava le memorie e il ricordo del suo fondatore. La chiesa matrice, col titolo di Santa Maria ad Nives, pur distrutta varie volte, nelle linee architettoniche è l’unico monumento che conserva ancora numerosi elementi di pura marca angioina82. L’edificio si presenta a navata unica, secondo un modello consueto mutuato dall’architettura mendicante, con un coro profondo monoabsidato,

78 Sullo sviluppo urbanistico N. Masini, L’impianto urbano di Atella nel Tardo medioevo, in AA.VV., Dal casale alla terra di Atella, cit., pp. 51-74. 79 G. Guarini, Curiosità d’arte medievale nel melfese, in «Napoli nobilissima», 9, 1900, pp. 132-36 (rist. Rionero in Vulture 1988), fig. XVIII-XIX. 80 G. Agnello, L’architettura aragonese-catalana nell’Italia insulare e continentale, in «Rivista storica del Mezzogiorno», I, 3-4, 1966, pp. 243-59; I.C. Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, Milano-Roma 1927, pp. 301-302; A. Vinaccia, Le finestre dell’architettura medioevale in Terra di Bari, in «Rassegna tecnica pugliese», 3, 4, 10, 1910. 81 Guarini, Curiosità d’arte medievale, cit., p. 40, nota 1, fig. XIX; L. Derosa, Il convento di Santa Maria degli Angeli e la cultura artistica di età angioina ad Atella, in AA.VV., Dal casale alla terra di Atella, cit., pp. 115-62, in particolare pp. 128-30. 82 Paci, Il terremoto del 1851, cit., p. 40 ricorda che nel terremoto del 1456 la chiesa madre fu «abbattuta [...] interamente».

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sfondato nel XVII secolo nel corso di ingenti lavori di ristrutturazione (fig. 5). In corrispondenza dei pilastri di accesso all’attuale presbiterio sono state rinvenute tracce di un’abside estradossata relativa alla fondazione della chiesa83. Sulla parete meridionale sono state riportate alla luce, inoltre, un’elegante bifora archiacuta e alcune monofore, oltre all’ingresso secondario dell’edificio, realizzato ad arco acuto con un rilievo raffigurante la Vergine con Bambino in trono, tanto rovinata da non poterne più apprezzare i caratteri stilistici. Altre sculture appartenenti a questa prima fase sono ancora conservate sulla facciata principale dell’edificio (fig. 6)84. Quest’ultima, profondamente manomessa nel corso dei secoli, al punto da perdere il profilo a spioventi che doveva caratterizzarla, conserva ancora il curioso portale incorniciato da una teoria di archetti rovesciati con i simboli cristologici del sole e della luna sull’archivolto, reinterpretazione quattrocentesca dell’archivolto del portale realizzato da Melchiorre da Montalbano per il portale del duomo di Teggiano85. La teoria ad archetti rovesciati è in realtà una ripresa di un tema ampiamente diffuso in Spagna86, rielaborazione di un motivo di antica origine paleocristiana (cfr. l’esempio di Ruweiha in Siria). Tali elementi indicano che probabilmente fu la Campania il tramite attraverso cui giunsero nel piccolo centro lucano idee e modelli per la realizzazione della chiesa atellana. Circa i rapporti tra gli autori del portale e la chiesa di Teggiano, ricordiamo che nella cittadina atellana è conservato un capitello, di fattura tardo-duecentesca e di provenienza ignota, attribuito a Melchiorre da Montalbano87. Sul lato sinistro della facciata sorge ancora l’antica torre campanaria, più volte ricostruita per essere stata distrutta in conseguenza dei 83 Cfr. AA.VV., La chiesa madre di Atella. Note storiche e di restauro, in «Tarsia», 13, 1993, in particolare F. Calice, Lavori di restauro, pp. 59-60. 84 Derosa, Il convento di Santa Maria degli Angeli, cit., p. 130. 85 La riproduzione più antica è in R. Mallet, Il grande terremoto napoletano del 1857, Bologna 1987, vol. II, fig. 319. La foto mostra, in confronto alla condizione attuale, gli ulteriori danni subiti dalla facciata e dallo stesso portale. Su Teggiano e sull’attribuzione allo scultore lucano del portale dell’edificio cfr. M. De Cunzo, Note per una storia dei monumenti di Teggiano, in Il Vallo ritrovato. Scoperte e restauri nel vallo di Diano, Napoli 1989, p. 23; M.S. Calò Mariani, L’Arte del Duecento in Puglia, Torino 1984, pp. 195-96; M. Mormone, Il pulpito di Melchiorre da Montalbano nella cattedrale di Teggiano, in «Napoli nobilissima», 19, 1980, pp. 165-73. 86 N. Masini, comunicazione orale. 87 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 24-25.

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Fig. 5. Atella, Chiesa madre: coro, particolare lato sud.

Fig. 6. Atella, Chiesa madre: facciata.

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numerosi terremoti che funestarono la città. Una vecchia foto pubblicata da Mallet mostra ancora la bifora quattrocentesca inserita nel primo ordine, probabilmente coeva al portale e dunque al rifacimento della facciata88. Poco distante dal centro abitato sorge invece il convento di Santa Maria degli Angeli, appartenuto ai Minori Osservanti89. Il complesso, distrutto nel terremoto del 1642, non conserverebbe alcuna traccia medievale se non fosse per un bel portale, che un tempo fungeva da ingresso alla chiesa, trasportato attualmente sulla facciata est dell’edificio90. La sagoma di forma centinata, definita da una larga fascia continua non aggettante dal filo della parete, è decorata con un doppio motivo a zig-zag. Il portale è fiancheggiato da due colonnine tortili sormontate da capitelli di buona fattura a decorazione vegetale con foglie realizzate a profonde nervature e turgidi crochets che sortiscono l’effetto di un forte rilievo plastico91. Il frammento di un secondo portale, decorato da un motivo a tralcio con mezze palmette e da due figure aureolate nella lunetta, di cui oggi a fatica si intuiscono gli esili profili, giace smontato in uno dei locali a pianterreno del convento. Queste opere rientrano a pieno titolo tra le prime fondazioni della città. Il motivo a zig-zag, presente nella cappella di Lagopesole, che secondo Bertaux fornì il modello ai lapicidi autori del portale di Atella92, era a quella data ormai molto diffuso in tutto il Mezzogiorno (si pensi ai numerosi esempi siciliani e pugliesi, dal duomo di Cefalù alle cattedrali di Bitonto, Altamura, Conversano, Giovinazzo, per citare Mallet, Il grande terremoto napoletano, cit., p. 319. F.L. Pietrafesa, Notizia della presenza nella regione del Vulture dei Terziari regolari della penitenza in tre insediamenti del XV secolo, in Bove, Palestina, Pietrafesa (a cura di), Francescanesimo in Basilicata, cit., vol. II, pp. 87-89; L. Wadding, Annales Minorum seu trium ordinum a S. Francisco institutorum, Firenze 1932, vol. XI, p. 230 e vol. XII, p. 310. Per la storia del convento cfr. Derosa, Il convento di Santa Maria degli Angeli, cit., pp. 115-62. 90 La chiesa, come è consuetudine negli insediamenti francescani, si trova sul lato nord del convento, preceduta da un locale adibito a sacrestia e da una cappella dedicata al santissimo rosario. 91 L’archivolto esterno è evidentemente rifatto, al pari di altri conci decorati con il motivo a zig-zag che presentano alcune lesioni lungo i bordi, frutto probabilmente del rimontaggio ottocentesco. Sul concio chiave è scolpita una piccola croce entro un tondo. 92 Bertaux, I monumenti medievali, cit. 88 89

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Fig. 7. Rapolla, Cattedrale: iscrizione sul lato sinistro della facciata.

solo alcuni esempi). Nella stessa Basilicata ricordiamo il portale della chiesa di Santa Maria La Nova a Melfi e le bifore del campanile di Irsina93. Nella vicina Rapolla, intanto, probabilmente a causa di profondi dissesti alla struttura, si rimise mano alla costruzione della chiesa maggiore. Personaggio chiave di questa vicenda è un vescovo francescano vicino alla corrente degli Spirituali, Pietro Scarrier, di origini catalane, il quale era stato molto vicino ai figli di Carlo II durante la loro prigionia catalana e in seguito a tali rapporti era divenuto familiare e confessore di re Roberto, fino a diventare arcivescovo di Rapolla94. Una figura importante, dunque, la cui vicenda è estremamente sintomatica delle dinamiche che caratterizzarono i rapporti tra la corte angioina e la Chiesa lucana. I lavori eseguiti sulla cattedrale sono ricordati da un’iscrizione (fig. 7) murata sulla facciata principale dell’edificio, a sinistra del portale: hoc opus fieri fecit cu(m) toto choro

/

pulpito d(omi)n(u)s frat(er)

petrus d(e) catalonia ve(nerabilis) he(piscopus) sim(us) q(uoque) pi(us) anno d(omini) mccc...

93 94

/

rapoll(ensis) mitis-

Derosa, Il convento di Santa Maria degli Angeli, cit. E. Pásztor, Per la storia di San Ludovico d’Angiò, 1274-1297, Roma 1955.

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Secondo Bertaux, la lapide attesterebbe l’ampliamento di una nuova campata dell’edificio duecentesco con l’inserzione di altre due absidi, di cui resta memoria nel locale attualmente adibito a sacrestia, voltato a crociere costolonate95. Bisogna osservare che il motivo a denti di sega che occupa la parte superiore dell’epigrafe ricorre anche su uno dei pilastri ottagoni della chiesa, segno probabilmente di un ulteriore intervento sulla fabbrica trecentesca di cui si è persa memoria. Gli stessi pilastri ottagoni inglobati nella muratura della facciata rivelano un successivo arretramento di questa, durante uno dei numerosi restauri. La forma di questi pilastri è stata ricondotta a modelli dell’architettura monastica meridionale, dalla chiesa della Badiazza di Messina a quella di Santa Maria di Viano presso Sgurgola96. A questa data la cattedrale di Rapolla è comunque l’unico edificio sacro della regione ad adottare una simile soluzione, probabilmente grazie all’intervento di maestranze non autoctone giunte per interessamento del dotto prelato. È probabile che l’inserimento di questi pilastri indichi l’ampliamento dell’edificio in un momento di rilancio della diocesi, considerando le complesse vicende – peraltro tutte ancora da indagare – relative ai rapporti con la vicina Melfi e alla scomparsa dei casali della valle di Vitalba, che di fatto, riducevano notevolmente il territorio su cui la chiesa di Rapolla esercitava la giurisdizione. Il portale di Melchiorre sarebbe stato così spostato sulla nuova facciata, poi crollata e ricostruita. La stessa iscrizione del nobile Pietro di Catalogna potrebbe non essere stata ubicata in origine sul prospetto principale dell’edificio. Poco distante dal Vulture sorge l’antico convento di Banzi. Completamente trasformato fra il 1733 e il 1736 con la ricostruzione della chiesa e di parte delle strutture conventuali, il complesso badiale conserva solo in parte tracce dell’assetto raggiunto tra XIV e XV secolo97. Una storia, quella del ricchissimo complesso benedettino, comune a molti insediamenti del Mezzogiorno, con una fase di profonda crisi

Bertaux, I monumenti medievali, cit., p. viii. R. Wagner Rieger, Die italinische Baukunst zu Beginn der Gotik, Graz 1957, vol. II, pp. 124-25. 97 L. Bubbico, F. Caputo, Banzi, l’Abbazia di Santa Maria, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, Le architetture, pp. 39-47. 95 96

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iniziata negli anni Venti del Duecento e risolta grazie alla vendita di una parte del cospicuo patrimonio che l’antica abbazia aveva accumulato98. In seguito all’alienazione al vescovo di Tricarico99 della tenuta di Andrace nel territorio di Montalbano, avvenuta nel 1354, si mise mano alla ristrutturazione del complesso abbaziale, che giaceva in pessime condizioni. Il progetto modificò sostanzialmente l’aspetto delle vecchie fabbriche. La costruzione del nuovo palazzo badiale fece avanzare tutto il fronte orientale del complesso con la creazione di un nuovo chiostro raccordato al preesistente dall’antico ingresso, localizzabile in adiacenza all’antica torre normanna. Un elegante portale a sesto acuto e alcune sontuose bifore ogivali testimoniano una matura fase tardo-gotica. Su questo arco è ancora visibile una bifora trecentesca dal profilo leggermente strombato che ha perduto la colonnina centrale, sostituita da un sottile architrave. La lunetta con due archetti trilobi e oculo centrale riprende consueti modelli ancora duecenteschi. A testimonianza di ulteriori interventi trecenteschi nella chiesa, completamente trasformata tra XVII e XVIII secolo utilizzando le fondazioni del precedente edificio romanico, resta il bassorilievo murato sulla facciata della chiesa, originariamente posto sull’altare maggiore, raffigurante la Vergine in trono ai cui piedi figura il committente, l’abate Domenico da Cervarezza, come si apprende dall’iscrizione apposta sul margine inferiore del rilievo stesso che porta la data 1331100. La storia del Trecento in Basilicata si chiude, almeno per quanto riguarda le testimonianze artistiche, con la realizzazione della cripta

98 Grazie all’opera di un erudito settecentesco, Domenico Pannelli, segretario del cardinale Enrico Enriquez, commendatario dell’abbazia, che raccoglie una serie di importanti documenti relativi al cenobio benedettino sin dalle origini accompagnando il testo con descrizioni e notizie sulla scia della più genuina tradizione storiografica di stampo muratoriano. Un’edizione critica del manoscritto è D. Pannelli, Le memorie bantine. Le memorie del monastero bantino o sia della Badia di Santa Maria in Banzia, ora Banzi: pubblicate d’ordine del Cardinale di Sant’Eusebio abate commendatario di essa Badia, a cura di P. De Leo, Banzi 1995. 99 Ivi, pp. 98-100. 100 Sulla storia dell’edificio sacro cfr. M. Civita, S. Maria di Banzi. Un’esperienza di restauro tra fonti documentarie e fabbriche, in Studi in onore di Renato Bonelli, «Quaderni di storia dell’architettura», Roma 1993, pp. 1007-17; per il rilievo Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 44-46.

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di San Francesco nella cittadina di Irsina, antica Montepeloso, a più riprese sede vescovile (dal 325 al 1123, dal 1451 al 1797), facente parte della contea di Montescaglioso101. Quest’ultima era stata affidata da Carlo d’Angiò a Pietro de Beaumont, che aveva affiancato Ruggero Sanseverino nella soppressione della rivolta antiangioina del 1268. Passata per linea ereditaria alla figlia Margherita, nel 1307 fu assegnata, per mancanza di eredi, a Bertrando del Balzo102. Consigliere di Carlo I d’Angiò e suo vicario a Roma, Bertrando sposò Beatrice d’Angiò, figlia di Carlo II, la quale aveva ricevuto in dote dal precedente marito la contea di Andria. Alla morte di Beatrice si unì in seconde nozze con Margherita di Alneto: da questo matrimonio nacque Francesco, personaggio importante nella storia del regno e committente dell’importante ciclo di affreschi conservato nella cripta in esame. Seguendo le orme del padre, costui sposò una parente degli Angiò, Margherita, figlia del principe Filippo di Taranto, da cui ebbe una figlia, Antonia, futura regina di Trinacria in seguito al matrimonio con Federico III. Personaggio ambizioso, in lotta dapprima contro Filippo di Taranto suo cognato ed erede del principato, poi contro la comunità benedettina di Santa Maria Nuova di Irsina, infine contro i Sanseverino, Francesco fu dalla regina Giovanna privato di tutti i beni ed esiliato ad Avignone, da cui ritornò solo con l’avvento sul trono di Napoli di Carlo III di Durazzo. Tali vicende rivestono un ruolo importante per la storia della chiesa francescana di Irsina. La sontuosa cappella, con le pareti e la volta ricoperte di affreschi, venne creata in una delle torri quadrangolari dell’antica fortezza di Montepeloso, esattamente in quella rivolta a oriente, presso «Porta Aranacea»103. In tale struttura, che Ianora riporta essere stata fondata da Federico II, ma che con ogni probabilità risale al periodo normanno104, fu costruita, nella seconda metà del Trecento, una cappella, in un luogo che a quella data non aveva più

101 M. Ianora, Memorie storiche, critiche e diplomatiche della città di Montepeloso (oggi Irsina), Matera 1901, pp. 642 sgg. 102 Ivi, p. 78. 103 E. Galli, Monumenti ignorati del Bruzio e della Lucania. La cripta di San Francesco ad Irsina, in «Bollettino d’arte», 8, 1927-28, pp. 385-414. 104 M. Nugent, Affreschi del Trecento nella cripta di San Francesco ad Irsina, Bergamo 1933.

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alcuna funzione difensiva105. Attualmente vi si accede dalla zona presbiteriale della sovrastante chiesa e più precisamente attraverso la cappella dedicata a Sant’Antonio. Originariamente l’ingresso era aperto nell’abside. Per trasformare il suddetto vano venne creata una volta a botte sostenuta da un ringrosso della muratura con quattro grandi nicchie contrapposte sulla parete orientale e occidentale per alleggerirne il peso. Delle due nicchie sulla parete occidentale la prima mette in comunicazione con la scala d’accesso all’ipogeo (oggi ricostruita), la seconda immette invece in un piccolo vano di forma ovale, quasi una specie di cripta ad arcosolio, con uno stretto loculo, a destinazione sepolcrale, sulla parete di fondo. La scala terminava con un portale ogivale, ancora oggi esistente, costruito con l’arco in pietra e la mostra esterna a tufi squadrati. Un altro arco ogivale si apriva nella medesima parete occidentale in corrispondenza dell’altra nicchia. Per dare luce alla cappella vennero praticate in alto due aperture fortemente strombate sui lati nord e sud. Lungo le pareti correva un sedile in muratura, oggi ripristinato. Edoardo Galli, nel corso dei restauri eseguiti negli anni Venti del secolo scorso, rilevò anche le tracce nella nicchia di fronte al vano ovoidale di un tronetto a due posti, con un finto drappeggio dipinto. Fu questo uno degli elementi presi in considerazione dallo studioso per dimostrare che la cappella in esame era stata commissionata dai Del Balzo per essere destinata al castello e non, come sostenuto da Ianora e poi ripreso dalla Nugent e da tutti gli studiosi che anche di recente si sono occupati del monumento106, per diventare oratorio del nuovo convento francescano edificato nella fortezza. All’epoca della realizzazione degli affreschi la comunità francescana era già presente a Irsina, così come è attestato nel Provinciale Ordini Fratrum Minorum, contenuto nel codice Vaticano lat. 1960 di fra’ Paolino da Venezia, risalente agli anni

105 Lo dimostrerebbe il tipo di pavimentazione originario della torre, costituito da un battuto di brecciolino mescolato a poca calce, disteso sopra un terreno da riporto con numerosi avvallamenti. Per queste notizie cfr. Galli, Monumenti ignorati, cit., p. 386. 106 Nugent, Affreschi del Trecento, cit.; L. Bubbico, F. Caputo, in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., pp. 82-86; R. Villani, La cappella ipogea di S. Francesco a Irsina, in Itinerari del Sacro in Terra Lucana: la Basilicata verso il Giubileo, in «Basilicata Regione», XXIV, 2, 1999, pp. 225-28; Ead., Pittura murale in Basilicata, Potenza 2000, pp. 86-99.

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Quaranta del XIV secolo, che riporta: «Custodia 3ª Materana (habet conventus): Materam, Gravinam, Montepilosum, Tricaricum»107. È verosimile che i frati, non potendo disporre di un convento, edificato solo nel 1531, come si evince dalla bolla di papa Clemente VII che concede di «costruere et aedificare [...] in lique congruo et convenienti loco [...] una domum [...] cum Ecclesia, campanili humili, coemeterio, refecterio, claustro, hortis [...] et aliis necessariis officinis», abbiano ricavato all’interno del fortilizio svevo il piccolo ambiente adibito a cappella per le celebrazioni liturgiche108. L’ipotesi trova conferma non solo nell’iconografia degli affreschi, nell’ideazione frutto di una committenza colta che suggerisce l’intervento di uno dei frati francescani alla cui cura l’oratorio era affidato, ma anche nella tipologia dell’insediamento della comunità francescana nella cittadina lucana109. Gli stretti rapporti tra personaggi laici legati alla corte angioina e l’ordine francescano si sostanziano in Basilicata, almeno in una prima fase, attraverso l’insediamento dei frati in strutture fortificate che, avendo ormai perso in alcuni territori il loro valore strategico e difensivo, vengono trasformate, almeno in una parte, in conventi. Oltre al citato caso di Tricarico, nel cui castello è ospitata una comunità monastica femminile, ricordiamo anche l’esempio del San Francesco di Miglionico, sorto nel castello di Santa Sofia110 e di Genzano, dove le Clarisse vengono accolte nel 1324 nel castello di proprietà della principessa Aquilina Sancia111. Non è un caso forse che tale modalità insediativa si ritrovi in altri territori appartenenti a grandi dinastie feudali. Il ciclo di affreschi di Irsina sarebbe stato realizzato per volere di Margherita del Balzo e di sua figlia Antonia, i cui ritratti compaiono nell’intradosso di uno dei sottarchi della parete orientale.

Nugent, Affreschi del Trecento, cit., p. 20. Galli, Monumenti ignorati, cit., pp. 407-408; Bubbico, Caputo, in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., p. 82. 109 Sull’ideazione tematica del ciclo, oltre allo studio della Nugent, si segnala A. Festa, Mistica francescana e committenza signorile. Una lettura iconografica degli affreschi della cripta di S. Francesco ad Irsina, tesi di laurea in Storia dell’arte medievale e moderna, Università degli studi di Bari, facoltà di Magistero, a.a. 1993-94. 110 A. Altavilla, Miglionico, San Francesco di Assisi, in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., p. 136. 111 G. Ciotta, La cultura architettonica in Basilicata, in Bove, Palestina, Pietrafesa (a cura di), Francescanesimo in Basilicata, cit., vol. I, p. 25. 107 108

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Il programma pittorico suggella il profondo legame esistente tra i Del Balzo e l’ordine mendicante: lo rivelano la presenza di numerosi santi cari agli stessi Francescani. Contestualmente la presenza di santa Elisabetta d’Ungheria, di cui Margherita era pronipote, e di san Ludovico da Tolosa ribadiscono il legame esistente tra l’ordine e la casa d’Angiò112. La chiesa cinquecentesca, ampiamente rimaneggiata nel 1717 con l’aggiunta di cappelle laterali e il rifacimento della facciata, ha l’abside ricavata nella preesistente torre il cui livello inferiore è appunto costituito dalla cappella affrescata113. L’adattamento a questa precedente struttura fa sì che la navata non risulti perfettamente in asse con il coro114. Lo schema originario dell’edificio, a navata unica con coro profondo, ricalca il tipico modello delle chiese conventuali. Sempre ai Del Balzo si deve, probabilmente, la riedificazione della cattedrale, oggi restituitaci nella sua veste settecentesca, ma che conserva ancora nel campanile tracce della sua facies medievale. Evidentemente rifatto, come mostrano i differenti tipi di muratura ma anche la diversa altezza dei vari piani, al di sopra di un coronamento ad archetti accoglie due eleganti bifore che si aprono sui lati ovest e sud. È probabile che altre bifore fossero state realizzate sui restanti lati, altrimenti non si spiegherebbe la presenza della finestra sul lato sud, quasi nascosta dalla mole dell’edificio sacro. Un repertorio stereotipato, ma improntato a un forte gusto decorativo, caratterizza entrambe le opere. Motivi a zig-zag, piccoli pomi, tralci floreali fortemente a rilievo, piccole bugne impreziosiscono le due finestre. Se la lunetta della bifora sul lato ovest è rifatta, sul lato sud la stella a sedici raggi scolpita nel centro rivela la committenza dell’opera. Quest’ultima bifora, caratterizzata nella fascia esterna degli stipiti da una serie di colonnine sovrapposte, presenta nella colonnina centrale lo stesso motivo a zig-zag della bifora del duomo di Atella. Altre due piccole sculture medievali, assai rovinate, sono state inserite ai lati delle due monofore dell’ultimo ordine.

Nugent, Affreschi del Trecento, cit., pp. 71-73. Ianora, Memorie storiche, cit., pp. 642 sgg. 114 Bubbico, Caputo, in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., p. 85. 112 113

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4. L’età aragonese: i casi di Venosa e Potenza L’età aragonese fu caratterizzata da una serie di profonde crisi che modificarono in maniera consistente il tessuto sociale ed economico della regione. Il tentativo da parte di Alfonso d’Aragona di ammodernare le strutture dello Stato soprattutto attraverso la frantumazione delle grandi signorie feudali e, di conseguenza, l’estensione delle città demaniali, creò una grande tensione sociale, culminata con la congiura dei baroni del 1485-86. Parallelamente nel XV secolo si registra nella regione il consistente fenomeno della fondazione di nuovi conventi dell’Osservanza, incrementati dall’istituzione di una vicaria autonoma nel 1484. I primi conventi, oggi poco leggibili nel loro assetto iniziale, vennero edificati a Miglionico, Venosa, Atella (Santa Maria di Vitalba, distrutta) e Melfi. I radicali rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli hanno determinato nel campo dell’architettura la sopravvivenza di pochi episodi significativi. Con gli Aragonesi è la capitale del regno a esercitare una forte egemonia culturale nei confronti della provincia in tutte le manifestazioni artistiche, fungendo anche da filtro per quelle novità che provenivano da altre aree geografiche e determinando, di conseguenza, un preciso orientamento di gusto. Gli interventi di maggiore rilievo furono determinati dalla volontà, da parte della nuova aristocrazia, di imprimere attraverso le trasformazioni del paesaggio urbano il segno tangibile del proprio potere. Nel campo dell’architettura il gusto di questa nuova feudalità risulta particolarmente legato al trionfo di forme tardo-gotiche, di stampo durazzesco. Gli episodi di maggiore rilevanza del Quattrocento lucano riguardarono il radicale rimaneggiamento urbanistico di Venosa e la trasformazione in chiave durazzesco-catalana della città di Potenza. A Venosa Pirro del Balzo, duca d’Andria e principe di Altamura, succeduto agli Orsini nel 1458, si fece promotore di una serie di progetti a scala urbana che ne ridefinirono l’assetto generale. Scopo principale della sua azione fu quello di dotare la città di un saldo impianto difensivo che proteggesse l’antico centro dalle pretese che su quel feudo accampava il principe di Taranto,

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suo cognato e Giovanni Caracciolo, duca di Melfi. Gli ingenti danni ricevuti dalla città nel 1456 contribuirono a rafforzare tale proposito. Nel 1460 fu iniziata la costruzione del nuovo castello, progettato, sia pure in scala ridotta, secondo il modello sagreriano di Castelnuovo a Napoli. Per fare posto al nuovo maniero venne abbattuta la vecchia cattedrale dedicata a San Felice, costruita nella zona sud-occidentale della città, sul luogo più alto, ma anche più indifeso, dello sperone roccioso che costituisce la struttura morfologica dell’insediamento. Il Cappellano ricorda che nell’operazione vennero rase al suolo altre dieci chiese parrocchiali, un ospedale (forse l’antico hospitium costruito da Carlo I d’Angiò) e numerosissime abitazioni private115. L’accordo tra il duca e l’arcivescovo Nicola Geronimo Porfido prevedeva la costruzione di una nuova chiesa cattedrale. Ma il duca in un primo momento pensò bene di venir meno all’impegno solenne, consegnando all’arcivescovo la chiesa di San Domenico appena restaurata per l’occasione. La minaccia della scomunica fece ritornare il Del Balzo sui suoi passi e nel 1470 fu iniziata la nuova costruzione, posta, come ricorda Cenna, «nel meglio della città», in un’area verso la quale nelle intenzioni di Pirro doveva indirizzarsi la nuova espansione dell’abitato116, secondo un modello simile a quello della città campana di Sant’Agata dei Goti. La realizzazione della grande piazza e la successiva creazione del palazzo arcivescovile e del campanile contribuirono a qualificare tale zona come centro del potere religioso117. L’edificio, completato solo nel 1512 dal maestro campano Cola de Conza, porta i segni di numerose manomissioni e restauri. Nell’impianto generale è però ancora chiaramente leggibile il progetto di Pirro del Balzo, le cui armi campeggiano in numerosi punti

115 A.T. Cappellano, Descrittione della città de Venosa, sito et qualità di essa, manoscritto 237F, Biblioteca angelica di Roma, ed. a stampa a cura di R. Nigro, Venosa 1985. 116 G. Cenna, Cronaca venosina, manoscritto del secolo XVII, Biblioteca nazionale di Napoli, prefazione e note di G. Pinto, Venosa 1982, p. 165. 117 E. Masiello, Venosa Storia Città Architettura, Lavello 1994, in particolare pp. 277-79.

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della chiesa. L’edificio, definito dal Rosi «nudo e potente»118, presenta un impianto basilicale a tre navi con transetto non sporgente terminante con un’abside poligonale (fig. 8). Sotto al presbiterio si sviluppa un’ampia cripta. La navata centrale è divisa da quelle laterali da grandi archi a ogiva. La sua notevole ampiezza rispetto alle navate laterali, la sapiente modulazione della luce ottenuta da strette monofore archiacute che scandiscono le singole campate, il grande arcone che immette nel presbiterio, a cui fa da quinta scenografica il coro poligonale, sono elementi che danno all’edificio un sapore già rinascimentale. Ma se nell’ossatura planimetrica e nell’alzato la cattedrale di Venosa rispecchia una committenza attenta e aggiornata sui gusti del rinascimento napoletano, quando poi si analizzano le specifiche cadenze strutturali e decorative, si scopre un’architettura di sapore ancora tardo-medievale, probabilmente espressione di maestranze locali che tradussero temi e modelli innovativi secondo il proprio linguaggio attardato e provinciale. Potenza è, invece, la città della Basilicata che conserva maggiori tracce dell’età aragonese, soprattutto di influenza catalana. Le memorie artistiche sopravvissute indicano nell’area napoletana e casertana la provenienza di nuovi modelli di cui si fece portavoce una committenza attenta e aggiornata, incapace però di diffondere su vasta scala le novità elaborate nella capitale del regno, che rimasero pertanto limitate a pochi e sporadici episodi. Autore del rinnovamento artistico potentino è, a metà secolo, un nobile uomo d’armi catalano, Innico de Guevara, il quale, ricevuta la città in feudo nel 1445, insieme alle terre di Vignola, Anzi, Vietri e Rivisco, avviò un processo di profonda trasformazione urbana, mostrandosi attento e munifico committente nei confronti della chiesa locale. Alla sua morte, avvenuta nel 1471, gli successe il figlio Antonio, gran siniscalco del regno, come il padre, e conte di Potenza dal 1471 al 1514. Negli anni in cui fu signore di Potenza ricoprì anche numerosi incarichi pubblici: nel 1491 divenne ambasciatore del regno di Castiglia; nel 1496 capitano della città di Napoli e precettore del figlio di Federico d’Aragona, Ferrante119.

M. Rosi, Carinola, una Pompei quattrocentesca, Napoli 1980, p. 36. N. Masini, La città dei de Guevara e il ruolo dei francescani, in A. Buccaro (a cura di), Potenza, Napoli 1997, pp. 36-40, con biblografia. 118 119

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Fig. 8. Venosa, Cattedrale: particolare della volta del coro.

Nel campo dell’edilizia religiosa un ruolo privilegiato fu svolto dall’ordine francescano. Nel 1488 si diede inizio alla ricostruzione dell’antica chiesa templare di Santa Maria al Sepolcro sul preesistente impianto del XII secolo, così come è riportato in un’epigrafe seicentesca murata nel nartece della chiesa120. L’edificio sorgeva a poca distanza dalla residenza di campagna dei conti, sull’antica via Erculia, e nelle intenzioni del conte doveva diventare luogo di culto e sepolcro della famiglia. Il Rendina ricorda, infatti, che nella chiesa si trovava l’antica cappella dei Guevara, dove era stata sepolta la madre di Carlo de Guevara, pronipote di Innico121. L’edificio si sviluppa a navata unica con un coro profondo in cui allo spazio rettangolare occupato dall’altare e coperto da una volta a crociera segue uno spazio poligonale con una copertura a ombrello con esili costoloni (fig. 9). È lo stesso schema, di sagreriana memoria, che si ritrova nella chiesa di San Francesco, sempre a Potenza. I costoloni

Ivi, p. 38. G. Rendina, Historia della città di Potenza, manoscritto del 1758, Biblioteca provinciale di Potenza, f. 537. 120 121

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Fig. 9. Potenza, Chiesa di Santa Maria al Sepolcro: coro.

delle volte a ombrello affondano direttamente nella muratura, senza fare ricorso all’uso di piedritti, allo scopo di ricreare uno spazio il più possibile unitario. Nell’arco di accesso al coro ritorna lo stile durazzesco-catalano che caratterizza tutta la scultura potentina di fine secolo: un ampio arcone modanato con peducci d’imposta ornati a foglie d’acanto, sormontati da due piccole sculture a tutto tondo raffiguranti dei leoncini. I capitelli proseguono poi sulla muratura oltre il profilo dell’arco con due rilievi raffiguranti l’Agnus Dei. Una formella quadrata con un inserto floreale corona i due rilievi. La chiesa, con annesso convento, venne affidata da Antonio de Guevara ai Frati Minori dell’Osservanza122. Ai Conventuali appartenne invece il complesso di San Francesco, uno dei primi conventi dell’ordine, sorto in origine a ridosso del perimetro murario123.

122 123

D.G. Murro, La chiesa di S. Maria del Sepolcro di Potenza, Potenza 1974. A. Pellettieri, L’età angioina, in Buccaro (a cura di), Potenza, cit., p. 20.

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L’edificio, che nelle linee generali richiama la chiesa del convento di Santa Maria dei Làttani di Roccamorfina, quella di Santa Maria del Pozzo a Sommavesuviana e l’Annunziata di Carinola124, si presenta ad aula unica con un ampio arco d’accesso al coro. Le volte vennero rifatte dopo il terremoto del 1857, sia pure nel rigoroso rispetto delle forme originali125. Esili costoloni scandiscono la copertura a ombrello, interrotti alle imposte da piccoli capitelli a crochet e da nervature orizzontali che seguono il contorno dell’abside, terminando su snelli semipilastri a sezione poligonale. Il portale d’accesso è caratterizzato da un arco ribassato, riquadrato da una cornice a bilanciere: una tipologia che ritroviamo in Basilicata nel convento di Sant’Antonio di Tricarico (1491), nel Sant’Antonio di Rivello (1514) e, in esempi più tardi, nel castello di Lavello e in una cappella attigua al palazzo Santangelo-Lioi a Venosa126. L’arco del portale potentino è decorato da un’esile teoria di rosette quadripetali. Motivi floreali sono inseriti anche nello spazio di risulta tra l’arco e la cornice e negli stipiti a larga fascia. Ma è nell’elegante trama dell’intaglio ligneo della porta che le maestranze potentine rivelano una maggiore abilità, trasferendo nel legno il gusto flamboyant per il traforo su curve concave e convesse di sapiente disegno, come nel più tardo esempio di Rivello. Il portale del San Francesco di Potenza, ripresa quasi letterale del portale napoletano del Palazzo Colonna di Napoli, fu tra le ultime opere realizzate nella chiesa. Una maggiore aderenza al gusto catalano mostrano il portale d’accesso al convento (fig. 10) e la soprastante bifora. L’adozione dell’arco polilobato, la cui origine è da rintracciarsi nell’arco superiore della tomba di Ladislao in San Giovanni a Carbonara, e dell’arco inflesso riquadrato da un’elegante cornice con capitelli pensili, è tipica del gusto durazzesco di matrice napoletana che caratterizza l’arte lucana di questo periodo. La bifora non faceva, però, parte del complesso, ma fu sistemata lì dove ancora oggi la si può ammirare nel 1940 in seguito alla deM. Rosi, Architettura meridionale del Rinascimento, Napoli 1983, pp. 90-91, ora in Rosi, Carinola, una Pompei quattrocentesca, cit., p. 39. 125 G. Messina, Storie di carta-storie di pietra, Potenza 1980, p. 97. 126 R. Pane, Il Rinascimento nell’Italia Meridionale, 2 voll., Milano 1975; A. Venditti, Presenze ed influenze catalane nell’architettura napoletana del Regno D’Aragona (1142-1503), in «Napoli nobilissima», 13, 1974, pp. 14-16; M. Rosi, Presenza catalana nell’architettura del Rinascimento in Puglia, Napoli 1977; Masini, La città dei de Guevara, cit., p. 140, nota 202. 124

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Fig. 10. Potenza, Convento di San Francesco: portale di accesso.

molizione di un edificio che sorgeva nelle immediate vicinanze della chiesa, segno che sicuramente tali forme dovettero essere molto più diffuse di quanto oggi non sia dato constatare. Delle fabbriche del convento resta ancora un’ala del chiostro, addossata alla parete sinistra della chiesa, e la porta d’accesso alla chiesa, datata 1499, i cui battenti lignei sono caratterizzati da una profusione di ornati con figure di musici, simboli francescani, demoni alati e figure zoomorfe. La ricchezza delle decorazioni mostra anche in questo caso la predilezione dell’arte durazzesco-catalana per la scultura, con un forte gusto per un’ornamentazione minuta e preziosa, tipica del gusto tardo-gotico. A Potenza si conservano anche rari esempi di edilizia civile. Nella zona di San Gerardo venne elevato il nuovo palazzo comitale, secondo alcune fonti mai terminato e in seguito profondamente manomesso dopo l’acquisizione della contea da parte dei Loffredo nel 1604. L’edificio conserva ancora un vasto cortile prospiciente l’antica strada del duomo e un ampio arco d’accesso, sempre in stile durazzesco. Affine a questo portale doveva essere, sempre stando alle fonti, l’arco

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d’accesso al sedile, ristrutturato in epoca aragonese e andato distrutto nella seconda metà dell’Ottocento in seguito a un terremoto127. Un altro esempio, miracolosamente scampato a tali distruzioni, si trova in una traversa di via Pretoria, all’altezza di Porta San Giovanni: si tratta di una bifora realizzata con un’ampia cornice che segue il profilo della finestra, i cui archetti sono separati da una colonnina con un capitello a motivi vegetali128. Di controversa datazione è la chiesa di San Donato di Ripacandida129, a navata unica con coro piatto, con quattro grandi pilastri addossati ai muri d’ambito che definiscono tre campate coperte a crociera a sesto acuto. Poco studiata nei suoi aspetti architettonici, la chiesa è invece famosa per il ciclo di affreschi che riveste interamente le pareti e le vele delle volte. Il secolo XV si chiude con la fondazione di una nuova città, Ferrandina, avvenuta presumibilmente tra il 1487 e il 1498130. Il nuovo insediamento fu voluto da Federico D’Aragona, che «a solo construxit, muro cinxit, turribus ornavit» per trasferirvi gli abitanti della vicina Uggiano, in parte distrutta dopo un terremoto131. Mentre la costruzione della città proseguiva, il piccolo centro fortificato non veniva del tutto abbandonato. A nord-est del castello sono ancora visibili i ruderi della chiesa di San Domenico, a navata unica con grandi archi acuti che delimitavano lo spazio destinato agli altari laterali, come nella cattedrale di Melfi. Sul portale di accesso principale alla fortezza compare il nome di un artista, Iacopo Trifoggio, originario di Stigliano, il piccolo centro

127 Di quest’opera restano per fortuna la descrizione di Lenormant e un’immagine fotografica di Mallet, risalente a poche settimane dopo il terremoto del 1857, quando si decise l’abbattimento (F. Lenormant, A travers l’Apulie et la Lucanie. Notes de Voyages, Paris 1883, pp. 309-29; Mallet, Il grande terremoto, cit., foto n. 106). 128 Buccaro (a cura di), Potenza, cit., p. 124, fig. 120. 129 G. Ciotta, Ripacandida, in Insediamenti francescani in Basilicata, cit., pp. 192-93. 130 F. Lisanti, Evoluzione e caratteri urbani di una città cinquecentesca, in N. Barbone Pugliese, F. Lisanti (a cura di), Ferrandina. Recupero di una identità culturale, catalogo della mostra (maggio-luglio 1987), Galatina 1987, pp. 77-132. 131 Uggiano faceva parte dei possessi di Pirro del Balzo, che aveva perduto i suoi beni in conseguenza della ribellione da lui capeggiata nella congiura dei baroni. La città era così passata al genero di Ferdinando I, Federico D’Aragona. Per queste notizie Lisanti, Uggiano, in Barbone Pugliese, Lisanti (a cura di), Ferrandina, cit., pp. 1-20, in particolare p. 10.

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della bassa Lucania che aveva dato già i natali a Mele, uno degli scultori che eseguirono nel castello di Bari i capitelli del portico. La firma di questo maestro compare nello stesso giro di anni sul campanile della chiesa matrice di Pignola. Entrambe le opere, per il corredo scultoreo, rivelano una cultura ormai attardata che vive di accenti popolareschi e di modelli legati alla tradizione del secolo precedente. Altrettanto ritardata ma sempre vitale è la cultura espressa, per quel che rimane ormai da leggere, in alcuni episodi minori, come l’arco ribassato che attualmente dà accesso all’oratorio di Santa Lucia ad Anzi e le tarde bifore dell’abbazia di San Michele di Montescaglioso132. 132

Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 61.

DAI NORMANNI AGLI ANGIOINI: CASTELLI E FORTIFICAZIONI di Nicola Masini 1. Premessa Accingendomi a scrivere questo contributo, innanzi tutto mi sono chiesto se il tema «castelli di età medievale in Basilicata» fosse un soggetto storico e in che misura. Lungi dal voler risolvere tale questione, il sollevare tale problematica è stato in ogni caso illuminante perché mi ha suggerito le linee guida da seguire nell’impostazione di questo lavoro. Il saggio è diviso in tre paragrafi, ciascuno relativo a un’epoca storica, e al contempo a un segmento tematico. Il paragrafo relativo all’età normanna parte dall’analisi delle dinamiche evolutive e dei caratteri dell’incastellamento, in rapporto ai fattori territoriali, politici, militari e sociali, alla cui realizzazione hanno concorso. Intorno ai castelli come sistema è stato impostato il paragrafo svevo, nel quale si è focalizzata altresì l’attenzione sui caratteri innovativi dell’epoca, relativi in particolare all’amministrazione castellare e alle tipologie architettoniche. Infine, per l’epoca angioina sono stati approfonditi gli aspetti legati al funzionamento e all’organizzazione del cantiere e di tutto quanto ad esso è correlato, dall’appalto all’approvvigionamento dei materiali, dalle maestranze alle tecniche costruttive. Siamo dunque alla presenza di un doppio percorso che ha come scenario la Basilicata: uno di carattere storico generale, che parte dai Normanni e arriva agli Angioini passando per Federico II; un altro di carattere tematico, che inizia dalla scelta del sito da fortificare e

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arriva al cantiere, ripercorrendo tutte le tappe e le vicende della vita di un castello. 2. L’incastellamento in età normanna 2.1. Normanni costruttori di castelli «Normanni in Italiam pervenerunt. Qui sibi omnia diripientes, castella ex villis edificare ceperunt»1. Delle testimonianze del monaco Giovanni, di Johanne Berardi, di Romualdo Salernitano e di altri cronisti, si alimenta il topos «normanni costruttori di castelli», che da sempre attraversa l’intera storiografia ufficiale2. Altrettanto feconda è la letteratura che si occupa del valore militare della gens Normannorum. A tal riguardo, l’anonimo autore della Vita Leonis ci restituisce lo scenario bellico tipico di quei tempi, in cui gli chevaliers sono descritti come dei guerrieri che non si fermavano davanti a nulla. Dovendo attaccare un abitato, per prima cosa «vineas [...] messes [...] devastabant», in maniera da ridurre le risorse e le possibilità di sopravvivenza, poi cingevano le terre e lo stesso abitato con un fossato3. L’età normanna, e in particolare il XII secolo, come si dirà meglio in seguito, rappresenta, per certi aspetti, un’epoca di svolta, per altri di transizione nell’ambito dell’evoluzione dell’architettura fortificata: dalle tecniche di ingegneria militare fino agli aspetti più prettamente architettonico-funzionali. La terminologia legata alla pratica del fortificare risente di un certo clima di fervore culturale e politico. In particolare, uno dei problemi

1 Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, 3 voll., «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 58-60, Roma 1925-40, vol. I, p. 231. 2 Johanne Berardi, Chronicon Casauriense, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. II, parte II, Milano 1726, III, Prologus, p. 797: «ex villis munitiones et ex casalibus castella fieri coeperunt [...] eadem castella invaluerunt». Romualdo Salernitano, Chronicon, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. VII, Milano 1725, p. 197: «urbes vero quas cepit castellibus turribus munivit». 3 Il brano della Vita Leonis IX è tratto da R. Licinio, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1994, p. 33, nota 46, che a sua volta ha fatto riferimento a G. Crudo, La SS. Trinità di Venosa. Note storiche, diplomatiche, archeologiche, Trani 1899, p. 71, nota 2.

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maggiormente dibattuti dagli studiosi italiani e stranieri è quello relativo alle differenze lessicali tra castrum, castellum, oppidum ecc. Nella generalità dei casi, in Italia meridionale e quindi in Basilicata il castellum era la rocca o l’avamposto inserito all’interno del sistema di fortificazione urbana. Ad esempio, nella descrizione del 1089 che si fa del primigenio nucleo urbano di Calvello, l’ecclesia di San Nicola è ubicata nei pressi del castellum. Ancora oggi il castello è separato da una piccola piazza dalla chiesa suddetta4. Anche per Banzi non vi sono dubbi sul significato di castellum, attestato nel 11515. L’abitato fortificato o l’insieme delle fortificazioni urbane, tra i secoli XI e XII, compaiono nei documenti come castrum. Tali erano il castrum Aquabelle, donato da Roberto il Guiscardo nel 1063 all’abbazia della SS. Trinità di Venosa6, il castrum di Forenza, di cui era dominus un certo Paganus nel 10847, o il castrum Vaccaritie, che re Guglielmo donò nel 1156 al vescovo Guglielmo III8. Il problema nasce quando i termini castrum e castellum sono impiegati indiscriminatamente per identificare la stessa realtà9, come nel caso di Forenza, per il quale l’abitato fortificato era castrum nell’XI 4 N. Masini, Calvello: dal castrum al palazzo, «Collana dell’Istituto internazionale di studi federiciani-Acta et Documenta», 2, Napoli 1996, p. 9. 5 Codex diplomaticus Regni Siciliae (da ora in poi CDRS), Rogerii II Regis Diplomata Latina, a cura di C. Brühl, Köln-Wien 1987, serie I, vol. II/1, doc. 79, Palermo, ottobre 1151, p. 229. Nel documento Ruggero II restituisce «dictum castellum» al monastero di Santa Maria di Banzi, dopo che lo stesso castello fu «a Normannis [...] subtractum». 6 H. Houben, Die Abtei Venosa und das Mönchtum im normannisch-staufischen Süditalien, «Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom», 80, Tübin­ gen 1995, pp. 241-43, doc. 9, 1063. 7 Ivi, pp. 274-75, doc. 43, gennaio 1084. Il documento riguarda la donazione da parte di Paganus, dominus castri Florentie, al monastero della SS. Trinità di Venosa di due chiese «positas in tenimento eiusdem castri». Il documento è eloquente sul significato di terra o abitato fortificato del termine castrum. Pertanto non vi è alcun dubbio sul fatto che il castrum in questo caso non è il castello. 8 CDRS, Guillelmi I Regis Diplomata, a cura di H. Enzensberger, Köln 1996, serie I, vol. III, p. 40, Salerno, luglio 1156. 9 Anche Noyé per la Calabria lamenta «l’emploi souvent indifférencié des mots castrum et castellum» (G. Noyé, Féodalité et habitat fortifié en Calabre dans la ­deuxième moitié du XIe siècle et le premier tiers du XIIe siècle, in Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen (Xe-XIIIe siècles), Paris 1980, pp. 60728, in particolare pp. 609-10).

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secolo, mentre in alcuni documenti della fine del XII compare come castellum10. Probabilmente la differenza in questo caso sta nella diversa valutazione che si fa della grandezza dell’abitato fortificato, che in un caso compare come castrum, nell’altro come castellum. Dunque la dicotomia castrum-castellum in molti casi sarebbe riconducibile alla differenza tra un grande e un piccolo abitato fortificato, come per l’età bizantina. A quest’ultimo riguardo, secondo Guillou, entrambi i termini kastron e kastèllion rimanderebbero ad abitati fortificati. Il kastèllion sarebbe semplicemente più piccolo del kastron, dal quale era legato da un vincolo di dipendenza amministrativa, come ad esempio il kastèllion di Tolve11, che dipendeva dal kastron di Acerenza12. In molti altri casi l’uso di alcuni termini costituisce un vezzo o una prerogativa di un cronista, come Alessandro di Telese, che impiega sistematicamente il termine oppidum. In un oppidum a Lagopesole, nel 1127, Ruggero con il suo esercito incontra Roberto di Grandmesnil13. Un munitissimum oppidum era ad Armento14 e, ancora, un oppidum, espugnato da Ruggero, si trovava a Matera15. In tutti questi casi doveva trattarsi di un castello. Se è difficile trovare una regola che consenta di associare al termine impiegato il suo significato specifico, ancor più arduo è il tentati10 In un documento del 1196 compare un certo Andrea Rapacaldo «castelli Florencie habitator» (T. Colamarco, Le Carte della Chiesa di S. Maria degli Armeni in Forenza (1146-1548), Napoli 1995, pp. 7-9, Forenza, 2 febbraio 1196). Sei anni dopo, un tale Ainardo, «castelli Florencie habitator», vende «domum intus in eodem castello Florencie sitam cum casili sibi adherenti» (ivi, pp. 10-12, Forenza, gennaio 1202). 11 Della cinta muraria medievale di Tolve rimangono pochi resti murari, una torre e quattro porte d’ingresso, queste ultime rimaneggiate. 12 A. Guillou, Città e campagna nell’Italia meridionale bizantina (VI-XII secc.), in C.D. Fonseca (a cura di), Habitat-strutture-territorio. Atti del III Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Taranto-Fasano, 19-23 settembre 1977), Galatina 1978, p. 35. 13 Alessandro da Telese, De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri IV, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. V, Milano 1724, I, XX, p. 620: «Rogerius agens axercitum vadit ad oppidum, quod vulgo nominatur Lacupesulum». Dieci anni dopo, «iuxta fluenta de Lacu Pesele», si accampano per trenta giorni il papa e l’imperatore Lotario; cfr. Falcone Beneventano, Chronicon, ivi, p. 122. 14 Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XXXIX, p. 628. 15 Ivi, II, XXXVIII, p. 628. Falcone Beneventano impiega il termine oppidum in contrapposizione a quello di civitas («omnes civitates [...] Alexandri Comitis et oppida suae submissit»); Falcone Beneventano, Chronicon, p. 115.

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vo di individuare una linea evolutiva della terminologia castellana. Il significato va trovato caso per caso considerando il contesto storico locale, il contenuto e la tipologia della fonte e verificando la plausibilità della tesi, sulla base anche di approfondimenti di carattere archeologico-urbano16. 2.2. Castelli e fortificazioni durante la conquista del regno La prima fase di fortificazione da parte dei Normanni si ha durante la campagna militare di conquista del regno. Castella e castra diventano le sedi operative nelle quali si preparano gli eserciti e si mettono a punto le strategie per l’imminente scontro armato, che si risolveva o in un assedio o in una battaglia in campo aperto. Negli anni 1041-42, il castrum di Montepeloso (oggi Irsina)17 e quello di Melfi18 sono i quartieri generali rispettivamente dell’esercito bizantino, guidato dal catepano Exaugusto, e delle truppe normanne al comando di Atenolfo. Tra i due centri fortificati si colloca nel mezzo il presidio di Monte Serico. Come si evince dalla cronaca di Amato di Montecassino, la sua conquista risulta decisiva per l’esito finale della battaglia, che si risolse a vantaggio dei Normanni19. Siamo solo agli inizi di cento anni di assedi, schermaglie e sommosse, che caratterizzeranno il lungo cammino che i cavalieri normanni dovranno percorrere per la conquista del regno meridiona-

16 Sulla differenza tra castellum, castrum, oppidum ecc. Settia (A.A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XII secolo, Napoli 1984, pp. 41-43) lascia sostanzialmente aperta la questione. Da una parte mette in luce quelli che sono i denominatori comuni («la consultazione di un glossario di medio latino […] tanto castellum quanto castrum indicano locus munitus, arx, munitio»), dall’altra non può non sottacere le specificità che emergono in taluni ambiti geostorici («Isidoro di Siviglia [...] nella prima metà del VII secolo [...] pensa [...] che oppidum sia un luogo murato tale da poter servire da rifugio in caso di guerra», differenziandosi da altri termini come pagus e castellum «per la maggiore ampiezza»). 17 Anonimo Barese, Chronicon, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. V, cit., p. 151: «Descendit Exaugusto Catapanus filius Bugiano. Iterum fecit proelium cum Normanni e cum Atinolfo Dux eorum de Benevento sub Monte Peloso». 18 Ivi, p. 150: «Et Arduino Lanbardo intravit in Melfi, [...] coadunavit ubicum­ que potuit Francos, e rebellium exegit contra Catapanum e ceciderunt de ipsis Graecis e adeo ipse Catapanus fugiit in Bari». 19 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. de Bartholomaeis, «Fonti per la storia d’Italia», 76, Roma 1935, pp. 88-90.

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le20. Fino a quel momento la scena politica e militare era dominata da divisioni e particolarismi istituzionali. Il famoso accordo dei dodici signori normanni a Melfi, nel 1042, costituisce solo l’atto iniziale di una lunga campagna militare. In base a tale accordo, dodici città della Basilicata, della Puglia e dell’Irpinia vengono assegnate ad altrettanti signori normanni. Cinque erano della Basilicata: Acerenza, affidata ad Asclettino Drengot, il quale però preferisce risiedere nel castello di Genzano; Lavello concessa ad Arnolino; Venosa a Drogone; Montepeloso a Tristano; Sant’Arcangelo a Rodolfo, figlio di Tristano21. Melfi, «la principal citè», rimane indivisa in maniera da costituire il centro dell’organizzazione militare, sia per la difesa dei territori in possesso normanno, sia per la conquista di altri22. Alla sua posizione strategica assolve anche nel secolo successivo. Qui nel 1130 Ruggero II convoca tutti i conti, i vescovi e gli abati dell’intero Mezzogiorno peninsulare, facendo giurare fedeltà al re e ai suoi figli. Due anni dopo sempre Ruggero II prepara a Melfi la campagna militare di riconquista di quelle città ancora in mano ai suoi nemici, tra questi Tancredi di Conversano23. Il ruolo primario della città del Vulture non poteva non riflettersi sulle strutture e sul disegno urbano. In particolare, ciò che risaltava era la qualità delle sue fortificazioni che la facevano «moult fort» e «citè la plus superlative de toute la contè»24 (fig. 1).

20 Sulla storia della dominazione normanna in Italia meridionale non si può prescindere da F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie, 2 voll., Paris 1907. Importante è anche la sintesi di E. Duprè-Theseider, Lo stanziamento dei Normanni nel Mezzogiorno, in A. Prandi (a cura di), Aggiornamento all’opera di E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903, Roma 1978, vol. IV, pp. 67-131. 21 Licinio, Castelli medievali, cit., p. 34. 22 La centralità di Melfi si conferma nel 1059, quando nella capitale normanna viene attribuito a Roberto il Guiscardo dal papa Niccolò II il titolo di duca di Puglia, Calabria e Sicilia. 23 Falcone Beneventano, Chronicon, p. 113: «Rex Rogerius, consilio communicato [...] apud civitatem Melphitanam diebus non multis moratus est. Continuo quosdam ex Baronibus suis vocari mandavit, quos valde praecipiendo admonuit, quatenus in eius permanerent fidelitate, & dilectione. Mandavit etiam, ut iuxta eorum vires a Tancredi de Conversano consortio caveant» (Alessandro da Telese, De rebus gestis, I, XXI, p. 620: «Dux Melfiam properans, cunctos Apuliae Otimates ad se convenire iussit»). 24 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, p. 77.

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Fig. 1. Melfi, veduta della città (da G.B. Pacichelli, Del regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici provincie, Napoli 1703, parte I).

Dunque l’accordo di Melfi è la prima divisione di feudi, terre e città a favore di milites e comites normanni. Nei decenni successivi la lista si allunga e così troviamo Ezelino a Montemilone, Osmundo a Petrolla25, Robertus de Solico a Monte Serico26, Sarolo a Montemarcone27, Raginoldus o Raynaldus Malecovenientiae comes Marsici28, Sarlus a Satrianum29. Da questo elenco di milites e di terre sorge spontaneo 25 Houben, Die Abtei Venosa, cit., p. 279, doc. 49, agosto 1059-luglio 1085. Un altro Osmundo de Messanello (Missanello) compare come testimone in un atto di donazione del 1092 (ivi, p. 296, doc. 63, 1092). 26 Ivi, p. 262, doc. 29, gennaio-agosto 1078. 27 Ivi, pp. 360-61, doc. 127, Melfi, 1149. 28 Ivi, pp. 259-60, doc. 25, dicembre 1066; ivi, pp. 260-61, doc. 27, marzo 1077-febbraio 1078. 29 Nei decenni successivi si assiste già a un ricambio: nel dominio di Montepeloso a Tristano succedono tra gli altri Goffredo (ivi, p. 267, doc. 34, 1080), Roberto e nel secolo successivo Tancredi di Conversano; a Lavello, Arnolino cede il dominio a Ugo de Ollia (ivi, p. 266, doc. 33, 1080); infine a Venosa, nell’XI secolo, vari milites, tra cui Aitardo, succedono a Drogone.

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l’interrogativo sul ruolo diretto o indiretto che tali personaggi, legati in maniera diversa alla famiglia Altavilla e comunque facenti parte della gens Normannorum, avrebbero svolto per la fortificazione di terre e città, di cui erano i legittimi domini, sia pure a vario titolo. I documenti e le cronache dicono poco a tal riguardo, ad eccezione di qualche caso come quello di Torremare, citato in un documento del 1168 come Torre di Umfredo30 . Tanto meno abbiamo notizie approfondite sull’officium di custodia dei castelli, di cui conosciamo pochi nomi di castellani, tra cui Guido de sancta cruce castellanus Acerenzie nel 117431, il custode del castrum di Montepeloso32 e un tale miles Giovanni, castellano di Forenza nel 120333. Un dato però è certo. Molte delle opere di fortificazione vengono ristrutturate in seguito ad alcuni eventi bellici, come fu per il castello di Matera dopo l’occupazione nel 1064 da parte del conte Roberto34, e per la cittadella fortificata di Montepeloso (fig. 2) (Pelusii montis castrum35), rafforzata da Goffredo di Montescaglioso per difendersi dall’assedio delle truppe di Roberto il Guiscardo36. Va detto a tal ri-

30 Ciò induce a ipotizzare un ruolo diretto nella costruzione della struttura fortificata di Torremare da parte di Umfredo. Il documento tratto da V. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in epoca bizantina e normanna, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, p. 85, nota 189, è pubblicato da W. Holtzmann, PapstKaiser- und Normannen-urkunden aus Unteritalien, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», XXXVI, 1956, pp. 67-69. 31 Codice diplomatico barese, Le Pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo normanno (1075-1194), vol. V, Bari 1902, p. 233, § 52, doc. 133, Bari, marzo 1174. 32 Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard, a cura di M. Mathieu, «Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, testi e monumenti», 4, Palermo 1961, II, 459-74, pp. 156-58. Sulla figura del castellanus in età normanna cfr. E. Cuozzo, Quei maledetti normanni. Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989, pp. 150-52. 33 Licinio, Castelli medievali, cit., p. 54. 34 Anonimo Barese, Chronicon, p. 152: «Et capta est Materia a Robberto Comite suo». Vent’anni prima Matera fu teatro di uno scontro armato tra Normanni e Bizantini, in cui persero la vita 200 soldati («Manaki [...] similiter in civitate Materie truncavit homines CC», ivi, p. 151). 35 Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard, II, 459-474, pp. 156-58. 36 Licinio, Castelli medievali, cit., p. 36.

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Fig. 2. Montepeloso, veduta della città (da Pacichelli, Del Regno di Napoli, cit.).

guardo che il sistema di difesa urbano doveva essere molto accurato ed efficiente, tanto che consentì a Goffredo di resistere per molto tempo alle azioni offensive del più forte nemico, il quale ebbe la meglio solo dopo essere riuscito a corrompere il «custodem castri godefridi», con la promessa del possesso del castello di Uggiano37. Nel secolo successivo sempre il castrum di Montepeloso viene ulteriormente rafforzato da Tancredi di Conversano, il quale vi si rifugia nel tentativo di sottrarsi alla cattura da parte di Ruggero II nel 1133. Lo stesso Ruggero II è legato in maniera diretta alla storia del castello di Melfi. Prima lo fece demolire, poi restituì l’importante munitionem ai cives melfitani38. 37 Il castello di Uggiano si trova nei pressi di Ferrandina (Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard, II, 459-74, pp. 156-58). 38 Alessandro da Telese, De rebus gestis, I, XXIV, p. 621: «Dux [...] Melfiam [...] Ubi etiam munitionem, quae a civibus, jubente eodem Duce, subversa fuerat, restituit compellit»; Falcone Beneventano, Chronicon, p. 116: «Rex Rogerius [...] Melphitanam Civitatem depopulatus est».

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Tale evento si inserisce nell’ambito della campagna militare che lo stesso re compie, negli anni 1132-33, per ristabilire nei territori della Basilicata e della Puglia l’ordine turbato a seguito delle sommosse fomentate da Tancredi di Conversano. A Melfi si preparano e da lì partono tutte le spedizioni militari, mentre a Montepeloso si consuma l’epilogo delle speranze di Tancredi di riuscire a contrastare il costituendo regno di Ruggero. Tra i due fatti si inserisce una lunga serie di assedi che mettono a dura prova le difese urbane di molte città e terre della Basilicata, tra le quali Venosa, Matera, Anzi e Armento39. Venosa, già assediata da Tancredi, viene occupata da Ruggero II40. A partire da qui inizia l’occupazione di altre civitates et oppida appartenenti a baroni che avevano tradito la fiducia regia, come i conti Goffredo e Alessandro. Per prima Ruggero II occupa Matera, che acriter viene assediata ed espugnata insieme al suo oppidum41. Poi passa ad Anzi, che sottomette facilmente, sottraendo un «thesaurum auri et argenti» allo stesso conte Alessandro42. Altre terre della Basilicata passano a Ruggero, come Aquabella e Grottole, già domini di Goffredo, conte d’Andria. Per avere la meglio sul fortissimo oppidum di Armento, Ruggero è costretto a cingerlo d’assedio. A difendere il detto oppidum è Roberto, fratello di Goffredo, che alla fine è costretto ad arrendersi alla potenza militare dell’esercito regio43. Al termine di questo breve, ma intenso conflitto non si contano i morti e le distruzioni di castelli e città. L’importante centro di Montepeloso viene raso al suolo («succenso atque subverso»44), mentre l’oppidum di Matera è quasi completamente distrutto. Non indenni da devastazioni, come si è detto, sono la città di Venosa, la terra di Anzi e l’oppidum di Armento. Si salva solo Acerenza, nonostante Falcone Beneventano, Chronicon, pp. 115-16. Ivi, p. 115: «Tancredus de Conversano [...] civitatem Venusiam supersedit [...] Rex Rogerius [...] civitatem Venusinam, quam Tancredus compraehenderat». 41 Ibid.: «Rex [...] civitatem nomine Materam obsedit, quam acriter expugnans»; Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XXXVIII, p. 628. 42 Falcone Beneventano, Chronicon, p. 115; CDRS, Rogerii II Regis Diplomata Latina, cit., Appendix I, doc. VI, Napoli, 22 novembre 1141, p. 251: «Alexandrum [...] regnantem in Matera, viribus et armis debellavimus et iusto bello […] et thesaurus auri et argenti privavimus». 43 Su Aquabella e Grottole cfr. Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XXXVIII, p. 628; riguardo all’occupazione di Armento cfr. ivi, II, XXXIX. 44 Ivi, II, XLVII, p. 630. 39 40

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l’appoggio che la civitas acheruntina aveva tributato a Tancredi. Non fu certo un atto di clemenza da parte di Ruggero a farlo desistere dai suoi propositi bellicosi («Gilentiam obsessurus properat»), ma la consapevolezza che una città così forte non sarebbe stata facile da espugnare («deinde considerans se nec tunc eam capiendi facultatem posse habere»), specie alla fine di una guerra tanto dispendiosa e cruenta45 (fig. 3). Dunque tra demolizioni, ristrutturazioni e costruzioni ex novo in Basilicata si esaurisce la prima fase di incastellamento, durante la quale si passa dallo scontro con l’esercito dell’impero bizantino e con le forze particolariste ad esse legato a una conflittualità interna all’ambiente normanno che si alimenta di aspirazioni mai sopite, di rivendicazioni di privilegi e di autogoverno del territorio. 2.3. L’incastellamento come progetto di controllo territoriale Per ottenere una cartografia tematica con il fine di rappresentare il valore strategico dei singoli siti per la difesa e il controllo del territorio in una determinata epoca storica, una sorta di «sistema informativo territoriale dell’incastellamento», è necessario sovrapporre e integrare alcuni «livelli informativi» quali l’idrografia, la rete viaria, l’ubicazione topografica dei siti fortificati e di altri nodi strategici come ponti e strutture ospedaliere46. Non meno importante come livello informativo è la carta dei limites feudali47. L’incastellamento che in età bizantina era uno strumento prevalentemente politico-militare, in età normanna diventa la rete e la struttura su cui si basa l’intera organizzazione feudale48. Tra XI e XII secolo, in Basilicata si dà corso alla costruzione di nuove fortificazioni e al rifacimento di molte strutture preesistenti, 45 Ivi, II, XLVII, p. 630. Con un’abile operazione diplomatica Ruggero risparmia Acerenza da un assedio, in cambio impone che il dominio sulla città venga restituito al suo fedele Polutinus. 46 Sul rapporto tra castelli, rete viaria e altri poli territoriali in età medievale si ritengono fondamentali gli studi di Settia, tra cui Chiese, strade e fortezze nell’Italia medievale, Roma 1991. Per quanto riguarda gli «itinerari dei castelli» in Italia meridionale cfr. P. Dalena, Ambiti territoriali, sistemi viari e strutture del potere nel Mezzogiorno medievale, Bari 2000, pp. 26-29. 47 Sul processo di infeudazione nel regno meridionale cfr. E. Cozzo, Catalogus baronum. Commentario, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 101.2, Roma 1984. 48 Licinio, Castelli medievali, cit., p. 56.

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Fig. 3. Acerenza, veduta della città (da Pacichelli, Del Regno di Napoli, cit.).

ciascuna delle quali aveva il compito di controllare un territorio, una direttrice fluviale, una vallata, un abitato fortificato e un castello prospicienti49. In particolare, è proprio lungo i fiumi e i torrenti che troviamo buona parte del sistema di difesa esistente in età normanna (fig. 4). L’alto e il medio Basento erano controllati dalla torre e dal castrovetere di Potenza, dalle rocche di Pietrapertosa e Castelmezzano, di probabile origine saracena, e dal castello normanno di Brindisi di Montagna. Poi, nella sua discesa verso il mar Ionio, il fiume incontrava in ordine i castelli di Grottole, Ugianum, Camarda e Torremare, quest’ultimo nei pressi della foce. L’alto Bradano era presidiato sulla parte destra dai castelli di Acerenza e Genzano, più a nord da quello di Venosa, sotto il quale scorreva la fiumara omonima, uno dei principali affluenti del Bradano stesso. Scendendo più a sud, sempre a destra dell’alveo, incontrava Oppido, che intorno alla metà dell’XI secolo venne fortificata con 49 Sulle scelte insediative finalizzate a rendere visibili una fortificazione da un’altra cfr. infra, par. 2.6.

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Fig. 4. La rete dell’incastellamento in rapporto alle principali direttrici fluviali e viarie tra XI e XII secolo.

un castello50. Lungo la riva sinistra, nei pressi del torrente Basentello, sorgevano il fortilizio di San Gervasio e il castrum di Aquabella e poco più lontano il castello di Monte Serico, il cui colle presentava un «grand fossez et autre forteresces» già prima dell’arrivo degli chevaliers normanni. Tra questi due corsi d’acqua su un rilievo collinare dominava Montepeloso, ben fortificata già sotto i Bizantini. 50 R. Maino, Oppido Lucano e le sue origini normanne, in A. Giganti, R. Maino (a cura di), Popoli paesi e società della Basilicata, «Quaderni Lucani di storia e cultura», 3, Bari 1989, pp. 93-97.

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Più a sud, con la costruzione del castrum Passabanti51, agli inizi del XII secolo, viene rinforzata la difesa del basso Bradano, affidata fino a quel momento ai castra di Montescaglioso e Matera. Il fiume Sinni era presidiato da Episcopia52 e Faratrum (Fardella) nella parte alta, Chiaromonte53 e Senise nella parte mediana, dalla Rabatana di Tursi, già capitale di uno temi del catepanato bizantino, e dalla rocca di Favale54 nell’ultimo tratto del corso fluviale, mentre le torri di San Mauro e di Craco vigilavano sul Cavone. Quest’ultimo nei pressi della foce passava sotto il castello di San Basilio, che sempre intorno alla metà dell’XI secolo viene fatto erigere da Ruggero il gran conte55. Nella parte occidentale della regione si segnalano la torre di impianto normanno di Satrianum, che si affacciava sul torrente Melandro, e i castelli e le fortificazioni di Picerno, Muro e Balvano. Nella zona del Camastra, interessata tra l’altro da un diverticolo della via Herculia, sorgevano i presidi di Abriola, Anzi, Calvello e Laurenzana56. Infine, il fiume Agri era una delle direttrici fluviali tra le meglio presidiate. A partire da Marsiconuovo e Marsicovetere, dotate di difese urbane in età normanna, da nord-ovest a sud-est, incontriamo nell’ordine Saponara, Viggiano, il cui castello viene rifatto comple51 G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, vol. III, p. 361, doc. 11, luglio 1119. 52 Del castello di Episcopia, probabilmente già esistente in età normanna, si conserva una torre e altre strutture, che benché rimaneggiate in tempi recenti sono ascrivibili a un periodo storico compreso fra il XIII e il XV secolo. 53 Delle fortificazioni medievali di Chiaromonte si conservano oggi poche strutture della cinta muraria. Delle porte, tre sono ancora riconoscibili, ancorché rimaneggiate. 54 L’odierna Valsinni. 55 Licinio, Castelli medievali, cit., p. 43. 56 Di questi quattro castelli solo quelli di Anzi e Calvello sono chiaramente attestati all’epoca normanna: al 1089 risale la prima notizia sul castello di Calvello (Masini, Calvello: dal castrum al palazzo, cit., p. 9), mentre tra il 1132 e 1133 il castello insieme all’abitato di Anzi viene cinto d’assedio dall’esercito di Ruggero II (Falcone Beneventano, Chronicon, p. 115). Della fase normanna a Calvello rimane una torre a pianta quadrata inglobata dal resto del castello. Del castello di Anzi oggi vi sono solo labili resti murari sulla sommità del monte Siri, al di sopra dell’abitato. Nel XIX secolo vi erano ancora gli «avanzi di due torri» della cinta muraria, una nei pressi del Palazzo Pomarici, l’altra vicino all’allora già diruta chiesa di Sant’Andrea, cfr. Anzi, in Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato. Opera dedicata alla maestà di Ferdinando II, vol. VI/5, Basilicata, Napoli 1853.

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tamente in età angioina, il munitissimum oppidum di Armento57 e i centri fortificati di Sant’Arcangelo, Montalbano e Tursi58. Se analizziamo la distribuzione dei siti fortificati in rapporto alla rete viaria vengono fuori allineamenti lungo determinate direttrici e percorsi. Importante ad esempio era il primo tratto settentrionale della via Herculia, che collegava Benevento all’alta valle del Bradano; tale arteria, percorsa da Ruggero II nel 1128, proprio per la sua importanza era presidiata da numerosi muniti loci59. Da nord a sud troviamo nell’ordine Venusia, con il castello di origine longobarda e l’abitato cinto da mura, la fortificata Montemarcone, poi divenuta domus in età sveva, l’oppidum di Lagopesole, le già citate strutture fortificate a Potenza, Brindisi di Montagna, Abriola e Anzi. Nel Nord-Est della Basilicata si segnala la direttrice Venosa-Cervarezza-Spinazzola, costituita dall’unione della via venusina con la via que venit a Spinaciola ad casalem Cervaricium, e l’antica via che collegava Forenza con Genzano, verso cui confluiva la via que vadit Acheruntiam60. Lo studio dei rapporti tra la rete viaria e i castelli non può prescindere dalla conoscenza dei percorsi minori che o intercettavano le strade principali o attraversavano gli alvei fluviali o li tangevano a mezza costa. Di essi talvolta è dato conoscere il tracciato dai documenti61. Interessante ad esempio è la fitta rete di stratae e mulattiere attestate nel 1133, che attraversavano il fiume Basento all’altezza di Salandra. In particolare, delle adduzioni trasversali consentivano di passare da una sponda all’altra del fiume mediante due ponti, uno de ligno e un altro de petra. Seguiva invece il corso del fiume una strata vetere, que ferit ad Castelluzzum, per poi proseguire verso Pisticci e presumibilmente finire a Torremare, sullo Ionio62. Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XXXIX, p. 628. La posizione geografica di Tursi era particolarmente strategica, in quanto consentiva di controllare i due fiumi Agri e Sinni. 59 G. Fortunato, Il castello di Lagopesole, Trani 1902, p. 21. 60 CDRS, Rogerii II Regis Diplomata Latina, cit., pp. 230-31, doc. 79, Palermo, ottobre 1151. 61 Dalena, Ambiti territoriali, cit. 62 CDRS, Rogerii II Regis Diplomata Latina, cit., pp. 72-75, doc. 26, Palermo, 31 agosto 1133. Nel documento si riconoscono delle località ancora oggi esistenti, quale Castelluzzum, l’attuale Castelluccio, e il tenimento de Monte, nel quale oggi si trova il santuario della Madonna del Monte. 57 58

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Anche l’Agri era interessato da adduzioni trasversali che passavano o direttamente sul letto fluviale o tramite dei ponti, come quello in flumine Acri attestato nel 1118 e fatto costruire da Ruggiero di Pomarico63. Infine, per quanto riguarda il Sud della Basilicata, è plausibile che vi fosse un dedalo di stratellae e viae che nel complesso costituivano un collegamento trasversale tra la via Popilia e la direttrice litorale ionica64. 2.4. Le mura e il disegno urbano della città medievale La storia delle fortificazioni urbane nel Mezzogiorno d’Italia è strettamente legata all’evoluzione delle tecniche costruttive. Le prime forme di protezione di un abitato erano naturali, pertanto la scelta del sito su cui insediarsi era dettata prevalentemente da esigenze di carattere difensivo. A tal riguardo i rilievi collinari e montuosi solcati alle pendici da profondi torrenti e valloni rappresentavano una condizione ideale. Talvolta non tutti i versanti erano natura munitissimi e si rendevano necessarie ulteriori opere di sbarramento quali fossati e palizzate. Se ciò non fosse bastato si realizzavano delle motte come quella di Gaudiano, vicino Lavello. Col tempo si evolve anche la tecnologia bellica: le lignarum machinae, i vinea e altri belli aparati consentivano agevolmente di superare e talvolta colmare i fossati e le depressioni naturali che proteggevano gli abitati dall’esterno. Sorge dunque l’esigenza di alzare cinte murarie che garantiscano una maggiore resistenza passiva agli attacchi militari. È significativo quanto si dice a proposito delle difese urbane di Melfi che, nei primi anni di dominio normanno, aveva un sistema difensivo che integrava forme «leggere» di sbarramento con robuste opere murarie. A tal riguardo Amato di Montecassino così descrive Melfi nell’XI Crudo, La SS. Trinità di Venosa, cit., pp. 207-208. Citiamo ad esempio la via qua itur Rubium seu Calabriam, di cui rimane testimonianza documentaria degli inizi del XV secolo (A. Giganti, Le Pergamene del Monastero di S. Nicola in Valle di Chiaromonte (1359-1439), «Deputazione di Storia Patria per la Lucania, Fonti e studi per la storia della Basilicata», IV, Potenza 1978, p. 200, doc. 38, Senise, 20 marzo 1430). Rubium corrisponde all’attuale torrente Rubbio, affluente del Sinni. Nei pressi dello stesso torrente vi erano l’insediamento monastico medievale di Santa Maria della Saectara (Sagittario) e l’abitato di Chiaromonte (cfr. anche Dalena, Ambiti territoriali, cit., p. 143). Per quanto riguarda la viabilità interna calabro-lucana cfr. Id., Strade e percorsi nel Mezzogiorno d’Italia (secc. VI-XIII), Cosenza 1995, pp. 33-40. 63 64

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secolo: «assize en un lieu haut, laquelle de divers flumes est atornoié, et entor est guarnie»65. Siamo dunque a una svolta nell’evoluzione delle fortificazioni urbane. Sistemi più leggeri incominciano a essere soppiantati dalle poderose cinte murarie che all’inizio non si evidenziavano molto per l’altezza, come è dato riscontrare sempre a Melfi, che nell’XI secolo si presentava «cloze de mur non haut». Del resto, l’edilizia comune era costituita prevalentemente da strutture in legno, nel migliore dei casi in terra cruda, che non consentivano di superare i due livelli di impalcato. Sempre a Melfi la cinta muraria sembrava essere stata costruita più «de bellece et de fortesce que de hautesce». Dunque le mura erano poco alte, ma spesse e con una certa cura estetica nell’arte del costruire. Le considerazioni di Amato, probabilmente non scevre da forzature, in ogni caso ci fanno capire come si siano evolute le fortificazioni nel tempo. La difesa si basava prevalentemente sulla resistenza passiva delle murature e, a quell’epoca, un elevato spessore murario era già sufficiente a garantire un’adeguata protezione e rendere la città «moult fort», come Amato definisce Melfi (fig. 1). Se per Melfi era importante lo spessore delle mura che cingevano l’abitato lungo le pendici non molto acclivi del colle, meno decisivo era in quegli abitati posti alla sommità di impervi rilievi collinari e montuosi, come ad esempio nel caso di Uggiano (fig. 5), vicino Ferrandina, dove le mura non si distinguono per la loro grossezza. Infatti a causa della posizione sopraelevata sarebbe stato difficile assediare l’abitato con macchine belliche, pertanto non era necessario realizzare mura di grosso spessore. In molti altri casi, specie nelle aree interne dell’Appennino lucano, si faceva a meno delle stesse mura su quei versanti tanto acclivi da costituire una barriera naturale a una qualsiasi forma di assedio66. 65 Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni, p. 77. Le successive descrizioni delle fortificazioni di Melfi nell’XI secolo sono tratte sempre da Amato di Montecassino. 66 Sugli abitati fortificati medievali della Basilicata cfr. G. Noyé, Problèmes posés pour les habitats fortifiés médiévaux de Calabre et Basilicate, in A. Bazzana, P. Guichard, J.-M. Poisson (a cura di), Habitats fortifiés et organisation de l’espace en Méditerranée médiévale. Actes de la rencontre de Lyon, 4-5 maggio 1982, Lyon 1983, pp. 109-11 e di D. Adamesteanu, Topografia e urbanistica dei castelli meridionali, estratto della tavola rotonda nazionale su Metodologia nella ricerca delle strutture fortificate nell’alto medioevo, Udine-Cividale-Trieste, 26-29 ottobre 1967, Udine 1975, pp. 67-78.

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Fig. 5. Uggiano, il castello e l’abitato fortificato.

A Satrianum, ad esempio, la cinta muraria delimitava su tre lati il crinale collinare, mentre era assente sulla parte nord, che avendo un pendio molto ripido non richiedeva alcuna opera di fortificazione (fig. 6)67. A Brienza le mura recingevano solo una parte del rilievo collinare, escludendo il borgo sottostante (fig. 7). Le stesse mura mancavano parzialmente ad Anzi ed erano completamente assenti a Brindisi di Montagna68, Pietrapertosa, Castelmezzano, dove all’acclività del pendio si aggiungeva la natura rocciosa dei versanti a rendere complicata e inutile la costruzione di opere di protezione e sbarramento 67 N. Masini, A. Pellettieri, M.R. Potenza, Satriano: città fortificata, in C.D. Fonseca (a cura di), Castra ipsa possunt et debent reparari. Indagini conoscitive e metodologie di restauro delle strutture castellane normanno-sveve. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Castello di Lagopesole, 16-19 ottobre 1997, vol. II, Roma 1998, pp. 779-86; Idd., Ricostruzione della forma urbis medievale di due città della Basilicata: note storico-topografiche, analisi morfologica, fotointerpretazione e fotogrammetria aerea del centro storico della città di Potenza e dell’antica Satrianum, in Proceedings of 1st International Congress on «Science and Technology for the Safe­ guard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin» (Catania-Siracusa, 27/112/12 1995), Palermo 1999, pp. 91-97. 68 N. Masini, Il castello di Brindisi di Montagna in età medievale, in «Regione Basilicata», 3, 1994, pp. 65-72.

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Fig. 6. Satrianum, veduta aerea.

Fig. 7. Brienza, il castello e le mura.

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Fig. 8. Brindisi di montagna, il sito fortificato.

(fig. 8). «Natura precipue munitissima», come riporta Alessandro di Telese69, era anche Acerenza, che beneficiava di una favorevole posizione topografica, al di sopra di un rilievo di roccia tufaceo-conglomeratica, che la distaccava in altezza di qualche centinaio di metri rispetto alla piana e ai valloni sottostanti (fig. 9). Ciononostante, non mancava di mura e di un castello già in epoca normanna. Dunque la difesa si basava su accorgimenti che fossero finalizzati a tenere lontani eventuali attacchi armati, come i fossati, e a rafforzare la resistenza «passiva» delle mura. Ancora non si avvertiva l’esigenza di difendersi con sistemi e mezzi che migliorassero il potenziale di controffensiva. In Basilicata una maggiore altezza delle mura e un sistema di camminamenti di ronda più complesso di quello costituito da semplici torri lignee e ballatoi a sbalzo sono delle acquisizioni successive, probabilmente risalenti già al XII secolo. A quest’epoca siamo sicuramente in presenza di un sistema di difesa più evoluto. Le cortine murarie erano già dotate di torri di fiancheggiamento con strutture antemurali quali masti e barbacani. Questi ultimi avevano la funzione di controllare e 69 Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XXXIII, p. 627: «Erat e civitas quaedam nomine Gilentia non solum opere, sed et natura praecipue munitissima».

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Fig. 9. Acerenza, l’abitato fortificato.

contrastare eventuali tentativi di sfondamento con arieti. Inoltre potevano interrompere o scoraggiare opere di scavo e gallerie finalizzate a scalzare le fondazioni della cortina muraria. La cinta muraria di Montepeloso, che nell’XI secolo era circondata da un fossato in parte artificiale e in parte naturale, nel XII secolo era dotata nella parte più debole di un barbacane antemurale (fig. 10). Tali strutture incominciano a comparire in Europa e in Medio Oriente già a partire dalla seconda metà dell’XI secolo. Tancredi, durante la permanenza in Terrasanta, probabilmente ebbe modo di vedere la Torre di David70 e tanti altri castra in Palestina e in Siria, dotati di strutture antemurali, che fece poi realizzare a Montepeloso, dove si asserragliò nel 1133 per difendersi da Ruggero II71. Riguardo alla datazione delle mura degli abitati lucani, purtroppo mancano studi specifici, basati sulla lettura archeologica degli elevati 70 Gugliemo da Tiro, Historia rerum in partibus transmarinus gestarum ­MXCV-MCLXXXIV, in S. De Sandoli, Itinera Hierosolymitana Crucesignatorum, vol. I, Jerusalem 1978, I, III, VIII, p. 23. 71 «Tancredus ergo, suisque a loco illo funditus rejecti, intra Barbacanuum recipiuntur» (Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XLI, p. 629).

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Fig. 10. Montepeloso (oggi Irsina), veduta aerea.

architettonici. Pertanto dobbiamo fare riferimento solo alle notizie che si possono trarre dai documenti, che consentono di attestare all’XI secolo l’esistenza di mura a Melfi, Montepeloso, Venosa e Lavello72. È molto probabile che in età normanna vi fossero altre terre e città della Basilicata cinte da mura, tra cui verosimilmente Potenza73, Matera e Acerenza, quest’ultima fortificata già all’epoca della guerra greco-gotica74. Nei documenti le mura compaiono spesso in quanto rappresentano dei limiti topografici per descrivere l’ubicazione di monasteLe mura di Venosa sono attestate nel 1053 e 1081, quelle di Lavello nel 1094 (Houben, Die Abtei Venosa, cit., pp. 232-35, doc. 4, 1053; p. 271, doc. 38, Venosa, 29 ottobre 1081; pp. 300-301, doc. 69, agosto 1094). 73 A. Pellettieri, Le mura di Potenza in età angioina, in «Tarsia», 9, 1995, pp. 21-31. 74 «Agerentia sane propter munitissimam loci positionem capere minime po­ tuit» (Procopio di Cesarea, La guerra gotica, a cura di D. Comparetti, «Istituto storico italiano, Fonti per la storia d’Italia», 24, vol. II, Roma 1896, p. 340). 72

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ri75, di quartieri («habitantium intramoenia Venusine civitatis»76) e di chiese77. Ai fini di uno studio sul disegno urbano tale informazione viene di solito utilizzata per individuare in una zona della città la posizione delle mura rispetto a una data emergenza di cui è rimasta memoria o traccia. Talvolta una lettura diacronica di documenti di epoche diverse consente di scoprire l’ampliamento della cinta muraria: è questo il caso di Melfi, dove la chiesa di San Benedetto, con annesso monastero, risultava nel 1044 ubicata «a foris muro dominico». Un secolo dopo, precisamente nel 1147, la chiesa si trovava «intra muros civitatis»78. Dunque dopo appena un secolo a Melfi si ha un ampliamento della cinta muraria, probabilmente in seguito a un incremento demografico che ha portato a un’espansione dell’edificato urbano (fig. 11). Lo studio della forma urbana e delle fortificazioni non può prescindere da altre metodiche di analisi quali la prospezione aerea79. Di recente su alcuni siti fortificati medievali l’impiego integrato della fotointerpretazione e della fotogrammetria aerea ha fornito degli esiti particolarmente significativi. Riguardo a Monte Serico (fig. 12), ad esempio, l’elaborazione di foto aeree nadirali e panoramiche e di immagini satellitari ha consentito di ricostruire parte della cinta muraria e il disegno della forma urbana del casale scomparso e, inoltre, di scoprire la presenza di un fossato a ovest del castello cui fa cenno Amato da Montecassino80. Infine di Satrianum l’interpretazione dei 75 Houben, Die Abtei Venosa, cit., pp. 232-35, doc. 4, 1053: «monasterio Sancte Trinitatis, quod est situm prope muros Venusii civitatis [...] monasterium Sancti Georgis foris murum». 76 Ivi, p. 271, doc. 38, Venosa, 29 ottobre 1081. 77 Ivi, p. 300, doc. 69, agosto 1094: «ecclesiam Salvatoris, qua adiacet moenibus Lavelli»; CDRS, Guillelmi I Regis Diplomata, cit., p. 22, Salerno, marzo 1155: «tres ecclesias, duas infra ambitum murorum civitatis Melfie». 78 I. Aurora, Fonti per la ricostruzione urbana della città di Melfi e del suo contado fra XII e XIV secolo, in Fonseca (a cura di), Castra ipsa, cit., p. 62. 79 Sugli esiti di alcune applicazioni della fotointerpretazione aerea in Basilicata cfr. N. Masini, La fotointerpretazione aerea finalizzata allo studio morfologico dei siti urbani e fortificati medioevali della Basilicata, ivi, pp. 205-50. 80 Id., Note storico-topografiche e fotointerpretazione aerea per la ricostruzione della «forma urbis» del sito medievale di Monte Serico, in «Tarsia», 16-17, 1995, pp. 45-64; Id., La fotointerpretazione aerea, cit., pp. 217-26; R. Lasaponara, N. Masini, QuickBird-Based Analysis for the Spatial Characterization of Archaeological Sites: Case Study of the Monte Serico Medioeval Village, in «Geophysical Research Letters», 32, 12, 2005.

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Fig. 11. Melfi, veduta aerea panoramica del castello e dell’abitato.

segni ha portato alla ricostruzione del tessuto urbano con il perimetro della cinta muraria di età medievale81. 2.5. Castelli e mura come macchine da guerra Tra XI e XII secolo molti castelli e abitati fortificati in Basilicata sono stati interessati più volte da assedi militari che hanno causato la distruzione parziale o totale delle strutture difensive. Nell’XI secolo, in particolare intorno al 1041, i castelli di Monte Serico, gli abitati fortificati di Melfi e Montepeloso sono stati sede di operazioni militari e oggetto di attacchi. Più che i documenti, sono le cronache medievali a fornire maggiori informazioni su come si svolgeva una campagna militare: dalla preparazione delle guarnigioni alle tecniche di fortificazione dei castelli e delle mura82. Masini, Pellettieri, Potenza, Satriano: città fortificata, cit., pp. 779-86. Cfr. E. Cuozzo, Trasporti terrestri militari, in G. Musca (a cura di), Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle undicesime giornate normanno-sveve, Bari 26-29 ottobre 1993, Bari 1995, pp. 31-66. 81 82

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Fig. 12. Monte Serico, fotointerpretazione aerea dell’abitato medievale (conc. SMA n. 222 dell’11 novembre 1994).

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In particolare, sono le cronache di Alessandro da Telese e di Falcone Beneventano a illuminarci sulla guerra medievale: dai milites ai cives, dai castelli alle mura, dalle tattiche alle macchine militari. A tal riguardo, ci soffermiamo in particolare sull’assedio di Montepeloso del 1133, da parte di Ruggero II. L’obiettivo di questi era «stanare» Tancredi di Conversano83, che vi si era asserragliato, insieme con Ruggero di Pleuto e la sua guarnigione di armati84. Quindici giorni durò l’assedio da parte di Ruggero e sarebbero durato ancora di più se lo stesso non avesse messo in campo tutta la sua grande perizia militare e non avesse fatto uso di particolari macchine da guerra e di altri strumenti di offesa85. All’epoca gli assedi venivano condotti con l’ausilio di macchine belliche la cui azione offensiva era finalizzata a indebolire la resistenza passiva delle mura e delle torri di fiancheggiamento e ad aprire dei varchi nella cinta difensiva. Si iniziava con i trabucchi che, azionati da due o più uomini, consentivano di scagliare proiettili di pietra86. Gli assediati, protetti dai merli del camminamento superiore o dalle feritoie poste davanti ai ballatoi inferiori, rispondevano con frecce lanciate con l’ausilio di archi e balestre. In una fase successiva si cercava di incrementare l’azione di sfondamento mediante arieti che preparavano l’attacco finale con gallerie

83 Tra le due cronache registriamo alcune differenze riguardo alle circostanze che portarono all’assedio di Montepeloso. Secondo Falcone Beneventano, Tancredi si rifugia nella cittadella fortificata per sfuggire a Ruggero e questi, per porre fine ai piani destabilizzanti del ribelle, mobilita il suo esercito per distruggere Montepeloso («Deinde amoto exercitu, Rex ipse [...] Montem Pilosum, ubi Tancredus de Conversano [...] obsedit», Falcone Beneventano, Chronicon, p. 115). Secondo Alessandro da Telese, Tancredi, avendo saputo dell’intenzione di Ruggero «ad obsidendum Montempilosum», ritorna rapidamente nella cittadina per difenderla (De rebus gestis, II, XLI, p. 629). Va detto a tal riguardo che Tancredi, dopo aver venduto e rinunziato a terre e castelli perché in partenza per Gerusalemme (ivi, II, XXI), si pente della sua scelta e comincia a occupare terre e città, tra cui Montepeloso e Acerenza (ivi, II, XXXIII). 84 Ivi, II, XXXIII, p. 627: «Tancredus [...] in Montepiloso [...] milites coadunare praesumit». 85 Falcone Beneventano, Chronicon, p. 115: «Rex [...] Rogerius [...] machinas lignorum, et belli apparatus super Montem Pilosum mandavit». 86 Il trabucco era una sorta di grande fionda dotata di bilanciere. Per aumentare la potenza, il trabucco veniva dotato di due contrappesi, prendendo in questo caso il nome di biffa o bleda.

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e testuggini mobili (gattus e vinea). Queste ultime coprivano i soldati che si accingevano all’attacco finale, o con l’invasione della fortezza o con la distruzione delle mura mediante mine e brecce. Tali macchine belliche avevano talvolta solo lo scopo di impressionare e infondere terrore sia ai milites che ai rustici locali87, contro i quali, se ciò non fosse bastato, venivano impiegati altri espedienti per ridurre la resistenza fisica, impedendo ad esempio l’approvvigionamento idrico88 e distruggendo i raccolti nelle terre e negli orti extra moenia. Infine, fuoco, pece e acqua non venivano risparmiati sia da parte degli assediati che degli assedianti. Un siffatto scenario militare non è tanto diverso da quello che si verificò a Montepeloso nel 1133, con Ruggero II impegnato a espugnare l’abitato fortificato e Tancredi di Conversano chiuso entro le mura, nel suo tentativo disperato di resistere ai suoi attacchi. In quell’occasione Ruggero fece costruire «machinam lignorum, belli aparatum e molimina»89, ossia dei trabucchi per lanciare dardi di pietra e traverse di legname e probabilmente un ariete di sfondamento90. Ma Ruggero comprese subito che per espugnare l’urbs munitissima91 sarebbe servita tutta la sua astuzia e intelligenza tattica. Il sistema difensivo di cui era dotata Montepeloso era altresì avanzato per quei tempi, dotato di un barbacane attestato davanti alle mura. Al barbacane antemurale Ruggero contrappose una catuvella, una sorta di galleria coperta, con la funzione di scalzare le fondazioni delle mura o, più probabilmente, una torre mobile lignea, talvolta

87 Falcone Beneventano, Chronicon, p. 221: «Milites itaque castellum illud servantes terrorem machinarum». Ad esempio, la forza distruttiva dei trabucchi era talmente nota che talvolta bastava minacciare il loro impiego per ottenere la resa dell’assediato. 88 Ibid.: «Comes ipse ordinari praecepit, aquam vero fluminis, quod prope aderat, et fontes ibi contiguos die, noctuque custodiri, ne a rusticis hauriretur». 89 Ivi, p. 219 («machina lignorum et belli aparatum»); Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XLII, p. 629 («constructo molimine»). 90 Per molimina si intendono quelle macchine dotate di meccanismi con ruote e argani; dovrebbe trattarsi pertanto di trabucchi. La machina lignorum dovrebbe essere sempre un trabucco predisposto al lancio di traverse di legno, come viene effettivamente impiegato nell’assedio di Montepeloso («Saraceni per illud instrumentum ligna […] iactabant»). Non si conosce la funzione del belli aparatus: il termine suggerisce una macchina complessa come ad esempio l’ariete. 91 Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XLII, p. 629.

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rivestita di pelli, che consentiva agli assedianti di superare i fossati mediante ponti di legno92. A tal riguardo, va detto che il problema principale di Ruggero era proprio quello di superare il fossato che proteggeva la città, in particolare colmando la depressione nella parte meno profonda93. Pertanto i Saraceni, al soldo di Ruggero, gettarono delle traverse di legno, mentre altri con pale e rastrelli di ferro («ferreis rastris ab aggere summo nisu terram trahentes»), rimossero la terra dall’argine del fossato per depositarla sul legname. Ma Tancredi, accortosi di tale operazione, fece appiccare un incendio al «costruendo» impalcato ligneo. La sua reazione fu però tardiva, perché le truppe di Ruggero erano già pronte a spegnere il fuoco con l’acqua convogliata da un canale appositamente realizzato («contra [...] per canalem ligneum aqua derivata intus deflueret»)94. La situazione si fece critica per Tancredi, che insieme ai più stretti collaboratori si era rifugiato nel barbacane per dirigere la controf-

92 Sull’origine etimologica di catuvella si possono formulare più ipotesi. Potrebbe derivare da catus, che già all’epoca dei Romani e dei Galli, come riporta il Du Cange, era una macchina bellica costituita da una galleria mobile, detta anche vinea («vinea dicitur quaedam machina bellica, quae Gallice dicitur chat», C. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort 1883-87 [rist. anast. Bologna 1971-72], vol. II, p. 231). Tale tettoia mobile («Erant carri vimineis tabulis que tecti ligneis», ibid.) consentiva ai soldati di operare al coperto, spostandosi agevolmente su ruote di legno. Per tale ragione veniva impiegata per suffodere muros, ossia per scalzare le fondazioni o scavare delle gallerie sotto le mura («Erant carri [...] in quibus latentes milites fundamenta suffoderent murorum», ibid.). Catuvella potrebbe altresì derivare da gattus, che nel Medioevo era una galleria o una torre mobile, o da cata, macchina lignea che veniva impiegata per superare e colmare fossati («Demum fuit consilium aedificare machinam ligneam, quam vocabant Catam, in qua terram et aliqua pertraherent ad replenda fossata», ivi, p. 232). Delle tre ipotesi l’ultima sembra la più plausibile, in considerazione di quanto avviene a Montepeloso, dove i soldati di Ruggero si prodigano per spianare il fossato. 93 La zona meno profonda del fossato, dove probabilmente si trovava il barbacane, è nella zona sud dell’abitato, ossia nel punto diametralmente opposto rispetto alla porta principale, situata oggi nei pressi di Palazzo Nugent. La tesi si basa sulla lettura e l’analisi della morfologia urbana effettuata con l’ausilio di foto aeree e mappe cartografiche. Delle strutture fortificate di Montepeloso (oggi il paese si chiama Irsina) rimangono tratti consistenti della cinta muraria, in buona parte inglobati nel tessuto edilizio cresciuto a ridosso delle mura stesse. Inoltre si conservano una torre e alcune porte di accesso. Altre torri sono state distrutte, altre potrebbero essere state inglobate all’interno di fabbriche, o private o religiose, come la chiesa di San Francesco. 94 Alessandro da Telese, De rebus gestis, II, XLIII, p. 629.

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fensiva. Le mura e il fossato erano stati violati e i milites del re «cum longissima pertica», dotata di uncino di ferro, dopo vari tentativi demoliscono l’antemurale baluardo difensivo95. Le mura e l’oppidum di Montepeloso non salvarono Tancredi, né tanto meno «civitatem ipsam [...] Monasteria, viros, et mulieres», dalla furia omicida di Ruggero II, che «omnes habitatores cum parvulis […] trucidavit»96. Negli assedi di castelli e abitati murati, un ruolo importante, nell’aiutare gli armati a organizzare la difesa, veniva svolto dai cives locali. Fu proprio quest’ultimo fattore uno dei punti deboli della difesa di Tancredi: gli abitanti di Montepeloso, infatti, consapevoli del potenziale offensivo dell’esercito regio e «ferocitatem regis, et praeliorum terrores persentiens», rinunciarono a combattere («pugnare contra eum nolebant»)97. 2.6. Dalla scelta del sito all’arte del fortificare Riguardo all’evoluzione storico-tipologica del castello, vale in parte quanto già detto sulle fortificazioni urbane. In generale in Europa, superata la fase alto-medievale, si assiste a un salto di qualità nell’impiego dei materiali e delle tecniche costruttive. Il legno, la paglia e la terra cruda, che costituivano l’ossatura portante non solo dell’edilizia comune, ma anche delle fortificazioni, cedono il passo alle murature in pietra. Si riprende a costruire archi e volte per coprire vani e campate di luci elevate. L’arco a tutto sesto, impiegato sia come membratura strutturale autonoma, sia come direttrice di volte a botte, diventa l’elemento su cui si basa un nuovo modo di concepire e di costruire la struttura portante. L’architettura trilitica viene soppiantata da quella di tipo spingente. Quest’ultima in realtà non era mai scomparsa: volte e cupole si ritrovano in alcune architetture religiose alto-medievali di una certa importanza, però solo a partire dal X secolo tali strutture spingenti riprendono a essere impiegate anche nell’architettura civile e fortificata. Siamo dunque agli inizi di una svolta epocale nell’arte del costruire. Quando una stagione storica è caratterizzata da un’intensa attività costruttiva, ragioni tecniche, culturali ed economiche favoriscono

95 Ibid.: «cum longissima pertica, in cuius summo uncinus ingens ferreus erat, ipsum antemurale, quod et vulgo Barbacanus dicitur, divellere incipiunt». 96 Falcone Beneventano, Chronicon, p. 219. 97 Ibid.

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la diffusione di alcune tipologie, che in particolare portano a un’omologazione parziale di schemi planimetrici e di criteri distributivi e funzionali. Tale regola vale soprattutto per l’architettura religiosa, in particolare per quella monastica, ma anche, seppure in misura minore, per l’architettura fortificata, che in quest’epoca trova nella torre a pianta quadrata l’elemento cardine intorno al quale si articola l’impianto generale. Tale struttura non era certo inespugnabile, sia per le sue dimensioni limitate, sia per la sua scarsa resistenza ad azioni d’urto in corrispondenza degli spigoli, sia, ancora, per le sue capacità di controffensiva, basate sulla sola difesa piombante. Però grazie alla sua economicità di realizzazione ha consentito di creare una fitta e ben distribuita rete di presidi in Italia meridionale. Va detto a tal proposito, che la torre, specie se isolata, fungeva da vedetta e faceva parte di una rete di punti di osservazione finalizzata al controllo del territorio e al coordinamento tra le varie guarnigioni in occasione di operazioni militari. Fondamentale era la possibilità di creare torri di vedetta visibili tra di loro, in maniera da poter comunicare mediante messaggi di fumo di giorno e di fuoco di notte. In Basilicata ciò era possibile grazie soprattutto all’orografia e a una scelta sapiente dei siti da fortificare. Studiare la topografia dell’incastellamento medievale nella regione lucana significa ricostruire le «maglie», i «nodi» e i «terminali» di una rete informativa. Ad esempio in età normanna, a partire dal kastron o da una torre di vedetta situata a Tricarico, era possibile far giungere un’informazione sulla rupe fortificata di Pietrapertosa, attraverso il kastèllion di Tolve, il torrione di San Chirico Nuovo, il castello di Brindisi di Montagna98. Tornando ai torrioni a pianta quadrata, gli esempi più rilevanti si trovano a Satrianum, Monte Serico, Brindisi di Montagna, Craco, San Chirico Nuovo, Lagopesole, per i quali si registrano delle dimensioni variabili in pianta da 11 a 15 m e in altezza da 12 a 18 m99. Tale elemento tipologico, come si è detto, è un’acquisizione normanna, però rimane anche nella successiva età sveva, come nel caso del mastio

98 N. Masini, I castelli e gli itinerari medievali in Basilicata, in AA.VV., Basilicata: il turismo possibile, in «Basilicata Regione Notizie», 3-4, 1997, pp. 83-90. 99 Gli spessori murari variano da 1,60 a 2,50 m.

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Fig. 13. Monte Serico, veduta sud-ovest.

di Lagopesole e del castello a Pyramidenturm di Monte Serico (fig. 13)100. Tali manufatti erano ubicati in posizione eccentrica rispetto a una corte recintata o ai margini di un abitato fortificato, come a Satrianum101. All’interno della corte, di solito di forma irregolare, vi erano altre fabbriche adibite ai più svariati usi, dalle stalle ai depositi, dal forno alle residenze dei sudditi e delle guarnigioni. Nell’ambito dell’intero complesso il torrione costituiva l’estremo ricovero in caso di attacchi nemici102.

100 N. Masini, Il castello normanno-svevo di Monte Serico, in N. Masini, A. Pellettieri (a cura di), Città, Cattedrali e Castelli in età normanno-sveva: storia, territorio e tecnica di rilevamento. Miscellanea di studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, in «Tarsia», 19, 1996, pp. 47-63. 101 Un’altra torre di probabile fondazione normanna, poi rimaneggiata, si trova a San Mauro Forte, così come a Tricarico, quest’ultima rifatta in età aragonese (G. Schmiedt, Città e fortificazioni nei rilievi aerofotografici, in R. Romano, C. Vivanti [a cura di], Storia d’Italia, vol. V/1, I documenti, Torino 1973, p. 144). 102 Nella Francia tra XI e XII secolo, come riporta Viollet-Le-Duc, il donjon rappresentava «la dernière défense de la citadelle»; inoltre, «commande les défenses du château» (E.-E. Viollet-Le-Duc, Encyclopédie médiévale, a cura di G. Bernage, vol. I, Tours 2000, p. 403 - rifacimento del Dictionnaire raisonné de l’architecture).

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Per tale ragione, come è dato riscontrare a Satriano, a Lagopesole103 e probabilmente a San Chirico, queste torri erano concepite senza un comodo accesso al piano terra. Quest’ultimo di solito era destinato a ospitare una cisterna che costituiva una priorità per la vita all’interno di un castello. Le strutture soprastanti della torre garantivano una protezione esterna e una temperatura costante dell’acqua. La presenza di una cisterna alla base del castello-torrione è un elemento che accomuna molte strutture fortificate costruite tra XI e XIII secolo in Europa, dai donjon anglo-normanni ai Bergfried tedeschi ai masti dell’Italia meridionale. Dei casi citati in Basilicata essa si trova nei masti di Satriano, Lagopesole e Monte Serico. Al di sopra della cisterna venivano realizzati di solito altri due livelli dove trovavano alloggio la residenza del signore, la tesoreria e un’eventuale dispensa di derrate alimentari. Un discorso a parte meriterebbe il nucleo normanno di Melfi, costituito da un blocco quasi quadrato, delimitato non solo da semplici pareti murarie, ma anche da fabbriche. In origine, prima dei rimaneggiamenti seicenteschi, l’impianto era rinforzato agli angoli da torri quadrate e conteneva un piccolo cortile interno104. È molto probabile che già a quest’epoca vi fosse una cortina muraria, che viene trasformata prima in età sveva, poi in quella angioina.

3. Il sistema castellare in età sveva 3.1. Amministrazione dei castelli All’indomani dell’incoronazione imperiale, avvenuta il 22 novembre 1220, da parte di papa Onorio III, Federico II trovò un regno nel quale dominavano disordine e anarchia. In particolare dalla morte di Guglielmo II, nel 1189, i territori

103 Nonostante l’origine sveva del donjon, continuiamo a fare riferimento ad esso in quanto è un esempio significativo ed evoluto della tipologia del mastio normanno. Lo stesso discorso vale per Monte Serico. 104 L’ipotesi è di G. Lenzi, Il castello di Melfi e la sua costruzione. Note ed appunti, Roma-Amatrice 1935, pp. 33 e 58, che nei primi anni Trenta ha diretto i lavori consolidamento del castello, in seguito ai danni subiti dal terremoto del luglio 1930.

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del Mezzogiorno erano stati coinvolti nelle lotte interne fra Tancredi ed Enrico VI per la conquista del regno. «Propter imbecillitatem aetatis nostrae plerumque etiam propter absentiam nostram»105, si venne a creare un vuoto di potere di cui approfittarono baroni e milites che all’interesse generale anteponevano i loro fini personali. Il particolarismo istituzionale che si stava ripristinando trovava terreno fertile nella frammentazione del controllo territoriale. La presa di coscienza di questo pericolo da parte di Federico II fu alla base della sua ferma decisione di ricostituire un vasto demanio. La politica di incameramento dei beni demaniali venne supportata da una ricca produzione legislativa106. Il processo fu graduale ed ebbe come atto fondativo il corpo di disposizioni emanate in occasione della dieta di Capua del 1220. Il fine era di rientrare in possesso di un «demanium [...] plenum et integre», costituito da civitates, munitiones, castra, villa, casalia107. Per prima cosa bisognava incamerare «omnia castra, munitiones, muri et fossata [...] que non sunt in manus nostras», al fine di diroccarli o riportarli allo stato originario, antecedente alla morte di Guglielmo II. Per quanto riguardava, invece, le fortificazioni costruite o ampliate in terra demaniale, si doveva decidere caso per caso108.

105 È quanto dice Federico II nel proemium al Liber Constitutionum, mostrando di avere un quadro chiaro delle cause che avevano portato allo stato di caos il Regnum Siciliae; cfr. A. Romano (a cura di), Constitutiones Regni Siciliae, Messina 1992 (ed. or. Constitutiones Regum Regni Utriusque Siciliae, Neapoli 1786), p. x, Proemium, p. 3. 106 Limitandoci ad alcuni contributi essenziali, non si possono trascurare i lavori di G. De Vergottini, Studi sulla legislazione imperiale di Federico II in Italia. Le leggi del 1220, Milano 1950 e di S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, Torino 1986. 107 Riccardo di San Germano, Chronica priora (1208-1226), a cura di C.A. Garufi, in Rerum Italicarum Scriptores, VII/2, Bologna 1937, p. 89. 108 Ivi, tit. XIX, p. 90. Secondo Santoro, «l’azione di acquisizione al demanio dei più importanti castelli del regno era prevista anche per tenere a freno le popolazioni cittadine, a condizione, però, che tali edifici sorgessero fuori degli abitati, per evitarne l’assedio in caso di rivolte e, quindi, tagliati fuori da ogni possibilità di aiuto esterno» (da L. Santoro, I castelli di Federico II: funzioni e messaggi, in B. Ulianich, G. Vitolo [a cura di], Castelli e cinte murarie nell’età di Federico II. Atti del Convegno di studio organizzato dal Comune di Montefalco (PG), Montefalco, 27-28 maggio 1994, Montefalco 2001, pp. 49-71, in particolare p. 54).

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In generale, vennero salvate quelle rocche che si trovavano a guardia di importanti direttrici viarie, nei pressi di snodi verso cui confluivano più arterie stradali o lungo i confini territoriali109. Per impadronirsene Federico II fece di tutto: dall’assedio all’occupazione con inganno, dalla compravendita alla confisca110. I concetti e gli impegni programmatici, espressi nelle assise di Capua, trovano una più dettagliata e completa formulazione nelle Constitutiones regni Siciliae, emanate dal castello di Melfi nel 1231. In particolare, in merito alla volontà di avere un controllo totale sulle strutture fortificate del regno, quanto detto nelle disposizioni capuane viene ribadito con maggiore fermezza e con nuove argomentazioni nelle Constitutiones, in particolare nel De novis aedificiis e nel De proibita in terra demanii constructione castrorum111. Ad esempio, il dettato legislativo relativo all’illiceità di costruire castra e munitiones senza l’autorizzazione regia o al divieto di fortificare terre demaniali viene supportato anche dalla considerazione che il livello di protezione del regno era sufficiente112. Alla stessa epoca delle Costituzioni melfitane risale l’ufficio del cosiddetto provisor castrorum113, le cui mansioni erano finalizzate a garantire un adeguato stato di efficienza e funzionalità dei castelli, come probabilmente già era consuetudine sin dai tempi di Ruggero II e di Guglielmo II114. 109 E. Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. Und Karl I. von Anjou, Tübingen 1914 (trad. it. L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia, sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, a cura di H. Houben, presentazione di C.D. Fonseca, Bari 1995), pp. 6-9. 110 Si citano su tutti i casi relativi al castello di Cerro, nella Terra di Lavoro, di cui si impadronì grazie a uno stratagemma; al castello di Cascia, nel ducato di Spoleto, di cui sono documentate le trattative per l’acquisto; infine, alle fortificazioni di Antrodoco, nei pressi di Rieti, cadute nelle mani dell’esercito imperiale nel 1233, dopo un assedio. 111 Constitutiones Regni Siciliae, III, XXXII, p. 188; III, XXXIII, p. 188. 112 «Munitiones etenim nostras [...] quod est securius [...] plene sufficere credimus ad tutelam» (ivi, III, XXXIII, p. 188). 113 Pur risalendo ai primi anni Trenta del XIII secolo, i provisores castrorum non compaiono nelle Constitutiones, nelle quali si fa cenno invece ai magistri castrorum. 114 E. Winkelmann, Acta Imperii inedita saeculi XIII. Urkunden und Briefe zur Geschichte des Kaiserreichs und des Königreichs Sizilien in den Jahren 1198 bis 1273, vol. I, Innsbruck 1880 (rist. 1964), p. 606, n. 764: «Illa eciam castra, que reparacione videbitis indigere, faciatis ab illis districtione, qua comvenit, reparari, a quibus tempore bone memorie Roger et Guillelmi secundi, consibrini nostri, fieri consuevit».

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Tali figure istituzionali sono state precedute in passato dai magistri castellani, a cui fanno cenno le disposizioni capuane, e i magistri castrorum di cui si parla nelle Constitutiones115. Intorno agli anni 123031 risalgono i primi atti di nomina dei provisores omnium castrorum Principatus, Terre Laboris et terre Beneventane116, a cui si aggiunge il mandato del 1231 con la nomina di provisor dei castelli d’Abruzzo117. Dunque, in una prima fase si privilegiano quelle province quali la Terra di Lavoro e l’Abruzzo, i cui castelli erano ritenuti strategici ai fini del controllo dei confini settentrionali del regno e delle principali arterie di collegamento con lo Stato pontificio. Solo al 1239 risalgono le nomine dei provisores delle altre province, tra cui la Basilicata118. Tale mandato imperiale è ritenuto altresì importante in quanto decreta la divisione del regno in cinque distretti, ciascuno affidato a un provisor che doveva sovrintendere a quanto necessario «ut […] custodiam et munitionem castrorum»119. La Basilicata faceva parte del distretto, affidato a Guidone del Guasto, che comprendeva anche la Capitanata, la Terra di Bari e la Terra Ydronti120. Nel mandato relativo all’Abruzzo è dato sapere degli adempimenti, delle responsabilità e dei diritti del provisor castrorum. Tra questi vi era quello di destituire i castellani, qualora «culpabiles essent et pena digni», ad eccezione di un numero ristretto di castelli, i cosiddetti castra exempta, come quelli di Melfi e San Fele121, «in quibus non sunt castellani removendi sine coscientia nostra»122. Molte altre erano le mansioni del provisor, il quale, nell’esercizio delle sue funzioni, aveva a disposizione tre scudieri, un notaio e un corriere.

Constitutiones Regni Siciliae, I, XCII, pp. 94-95. Winkelmann, Acta Imperii, cit., vol. I, pp. 606-607, n. 764. 117 Ivi, p. 626, n. 804. 118 Ivi, p. 646, n. 840, Milano, 5 ottobre 1239. Il 1239 è un anno altresì importante in quanto segna un’ulteriore tappa verso il processo di burocratizzazione del regno. Alla riforma dell’ufficio del provisor castrorum fa seguito l’istituzione del nuovo ufficio dei collectores (Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 25). 119 Winkelmann, Acta Imperii, cit., vol. I, pp. 646-47, n. 840. 120 Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 129, app. II, n. 2. 121 Ivi, p. 129, app. II, n. 2, III. Nello stesso distretto gli altri castra exempta erano a Rocca Sant’Agata, Canosa, Barletta, Castrum Paganum, Monte Sant’Angelo, Trani, Bari, Brindisi, Taranto, Ostuni, Oria e Gravina. 122 Winkelmann, Acta Imperii, cit., vol. I, p. 647, n. 840, § 28. 115 116

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Innanzitutto doveva sovrintendere alla manutenzione dei manufatti con ispezioni periodiche, di cui rimaneva testimonianza in rapporti, compilati in triplice copia, nei quali si descriveva lo stato di conservazione. Il loro compito non si esauriva qui. Gli alti ufficiali dovevano altresì controllare i rifornimenti di arma, animalia, victualia, verificare che la guarnigione di armati, servientes et alii fosse adeguata come numero e preparazione e provvedere al loro pagamento123. Infine, dovevano persino controllare che fosse prestata la necessaria cura e diligenza per vineis, arbustis, molendinis, ortis e terris, da cui si potevano ricavare le necessarie risorse per la municio ipsorum castrorum124. Oltre al lavoro ordinario, i provisores castrorum ottemperavano talvolta a incarichi speciali come quello, commissionato loro da Federico II tra gli anni 1241 e 1246, di effettuare un’inchiesta finalizzata a censire i castelli di proprietà regia dei quali bisognava provvedere in maniera sistematica alle necessarie opere di manutenzione e riparazione125. Nel documento noto come Statutum de reparatione castrorum126 è dato sapere dell’esistenza di oltre 250 castelli demaniali in tutto il regno di Sicilia. Di questi 29 erano in Basilicata, divisi tra 19 castra e 10 domus127 (fig. 14). Per lo stato di conservazione di tali castelli dovevano provvedere gli abitanti dei centri limitrofi e non solo. In alcuni casi era sufficiente il contributo degli homines eiusdem terre, come per le domus di Gaudiano, Monte Serico e Monte Albano e il castrum di Abriola. In assenza di un centro demico nei pressi del castello, la manutenzione era a carico degli abitanti di un solo paese più o meno vicino, come ad esempio le domus di Cisterna, che «reparari possunt per homines Rapolle», e la domus di Agromonte, il cui stato di conservazione era a cura degli abitanti di Forenza. Ivi, pp. 606-607, n. 764, doc. 1230-31. Ivi, p. 607. 125 Lo Statutum de reparatiome castrorum riporta nell’attuale Basilicata ben 19 castra e 10 domus. 126 Sthamer, Die Verwaltung, cit., appendice I, pp. 94-127. 127 Si intende in questo caso la Basilicata attuale. Infatti in età sveva il giustizierato della Basilicata aveva dei confini leggermente diversi: più allargati verso la Calabria, dalla parte ionica e a nord-est; più ristretti a est, verso Matera, e a ovest tra la Val d’Agri e il Vallo di Diano. Pertanto i castra di Spinazzola e Rocca Imperiale rientravano nel giustizierato di Basilicata, mentre i castra di Brienza e Matera facevano parte rispettivamente del Principato e della Terra d’Otranto. 123 124

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Fig. 14. I castelli demaniali in età federiciana in Basilicata.

Per altri castelli era sufficiente il contributo degli abitanti di due o tre centri demici, come nel caso delle domus di Lavello e Boreano e dei castra di Petrulle, Lagonegro e Gorgoglione, di quattro o cinque per i castra di Melfi, San Fele, Pescopagano, Petre de Acino e per le domus di Lagopesole e Montemarcone. Da sei a sette erano i paesi che dovevano farsi carico della manutenzione dei castra di Calvello, Torremare e Policoro. Non è chiaro se il numero dei paesi che dovevano contribuire fosse proporzionale all’importanza e alla grandezza del castello. In alcuni casi, come per il castrum di Acerenza, parrebbe confermata tale tesi, considerato che le sue strutture «reparari possunt per homines» di ben quindici città,

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terre e casali, tra cui Potenza e Tricarico, o come per il castrum di Muro, la cui conservazione era a carico di otto centri demici. Tale tesi lascia più di qualche dubbio se consideriamo che per la manutenzione di ciascuno, tra i castra di Anzi e Brindisi di Montagna, dovevano contribuire gli abitanti di ben tredici paesi. Probabilmente i criteri seguiti per l’assegnazione degli homines erano legati da una parte a fattori contingenti, riferibili ad esempio alle specifiche condizioni di conservazione del singolo manufatto, dall’altro a fattori più oggettivi quali la grandezza del castello e la densità degli insediamenti demici nei dintorni del castello stesso. 3.2. Il sistema castellare svevo: tipologie e quadri territoriali di riferimento Lo Statutum de reparatione castrorum non consente di conoscere l’intero patrimonio castellano della prima metà del XIII secolo, in quanto mancano i castelli feudali, le torri urbane e le torri di vedetta rurali, salvatisi dalla politica federiciana di «normalizzazione» delle opere fortificate. In ogni caso fornisce un quadro conoscitivo significativo di tali costruzioni, in particolare per quanto riguarda il loro stato di conservazione e i rapporti topografico-funzionali tra le strutture fortificate e il territorio. L’elenco dello Statutum fa riferimento a più tipologie di opere fortificate e civili: i castra, i palatia, le domus e le domus solaciis deputate. Dunque anche per l’età sveva si pongono i soliti problemi di interpretazione della terminologia fortificatoria. Nella documentazione e nelle fonti narrative coeve non vi è un significato univoco del termine castrum. Però nei mandati e nei responsales di età sia sveva sia angioina, nello stesso Statutum e infine nei documenti relativi all’amministrazione dei castelli, per castrum il più delle volte si intendeva una fortificazione all’interno della quale vi era solo la guarnigione militare128. Quando nel castello o nella fortezza alloggiavano anche dei civili si utilizzava più frequentemente il termine fortellicia. È questo il caso della fortezza di Lucera, che in età angioina ospitava molte famiglie di origine provenzale129, e del castello di Acerenza, noto nei documenti sia come castrum sia come fortellicia130. Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 2. Ibid. 130 Id., Dokumente zur Geschichte der Kastellbauten Kaiser Friedrichs II. und Karls I. von Anjou, vol. II, Apulia und Basilicata, Tübingen 1926, p. 162, n. 1030, Lucera, 14 febbraio 1281. Nel caso di Acerenza non si capisce se la fortellicia fosse all’interno del castrum Ageroncie o più semplicemente un sinonimo dello stesso. 128 129

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Più articolata e circostanziata è invece la terminologia fortificatoria impiegata nella legislazione. Nelle disposizioni di Capua, oltre ai castra, troviamo le munitiones, i muri e i fossata; nel Liber Constitutionum si parla anche delle turres di cui si vietava la costruzione, da parte di privati, «in locis demanii». In ogni caso nel XIII secolo, rispetto ai secoli precedenti, il castrum pare indicare molto più spesso un castello o una fortezza che un abitato fortificato131. Oltre ai castra e ai fortellicia, troviamo infine le domus e i palacia. In queste strutture, ancorché realizzate con tecniche edilizie tipiche dell’architettura fortificata, «non risiedeva una guarnigione ma un singolo custode»132, ad eccezione probabilmente di quelle domus cui afferiva una defensa di grande estensione133. C’è da dire che anche alcuni castra di «scarsa importanza strategica» non ospitavano una guarnigione ma solo un custode; pertanto, da questo punto di vista «erano [...] sostanzialmente affini a queste domus e palacia»134. Dal punto di vista architettonico, le domus apparentemente non sono molto diverse dai castelli militari. Ma se analizziamo in dettaglio gli elementi costruttivi, mancano quegli accorgimenti tipici di una struttura di difesa. Ad esempio nella domus di Lagopesole non vi sono caditoie, balestriere, feritoie sagomate a guisa di saettiere ecc.; inoltre le torri angolari sono dei semplici rinforzi. Alcuni segni di discontinui­ tà nelle murature, sia in verticale sia in orizzontale, suggeriscono una storia costruttiva tutt’altro che lineare e scontata. È molto probabile che l’impianto fosse stato inizialmente concepito come una fortezza135, 131 Per quanto riguarda il Nord Italia Settia sostiene che dal XII al XIII secolo si assiste a un generale «restringimento del significato del termine castrum», che non designa più l’abitato fortificato ma la residenza signorile. Inoltre sull’evoluzione del significato di castrum da cinta fortificata a residenza signorile Settia mette in rilievo «come nella documentazione notarile del XIII secolo si parli del castrum nel castrum» (A.A. Settia, Il castello da villaggio fortificato a residenza signorile, relazione tenuta al convegno internazionale Castelli: storia e archeologia, Cuneo, 6-8 dicembre 1981, in E. De Minicis, Notiziario, in «Storia della città», 20-21, luglio 1981-marzo 1982, p. 180). 132 Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 2. 133 Della guarnigione a servizio del custos defensarum si ha notizia solo in età primo-angioina, come si dirà in seguito. 134 Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 2. 135 Sulle origini dell’impianto da tempo si è aperto un dibattito su cui si fa qualche cenno essenziale più avanti.

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con una grande piazza d’armi. Poi per ragioni a noi sconosciute il progetto originario non viene realizzato. Gli spazi rimangono però sovradimensionati per una domus, ancorché solaciis deputata. Per capire cos’erano le domus, perché venivano costruite e soprattutto perché Federico II le considerava così importanti, quasi come se fossero delle opere di valore strategico, alla stregua di fortezze, ponti e strade, non si può non partire da un’analisi topografica di tali insediamenti. Se confrontiamo gli elenchi dei vari distretti scopriamo che in Basilicata e in Puglia, oltre ai castra, vi era un cospicuo numero di domus imperiales. La Basilicata a sua volta si distingueva in quanto tali domus imperiales erano solaciis deputate, in altre parole erano residenze rurali destinate ai «sollazzi» dell’imperatore. Tali domus, se si eccettua quella di Montalbano, situata tra il Cavone e il basso Agri, sono tutte ubicate a nord, tra la valle di Vitalba e le pendici del Vulture. La ragione di tale concentrazione va vista in rapporto all’importanza che all’epoca aveva quel vasto demanio a spiccata vocazione agricola e zootecnica che abbracciava il Nord della Basilicata, la Capitanata e la Terra di Bari136. Riguardo poi al Vulture e alla valle di Vitalba, non va sottaciuto l’habitat particolare e vario, fatto di boschi, laghi e vallate, che si prestava in maniera ottimale all’attività venatoria e in particolare all’ars venandi cum avibus137, di cui Federico II era appassionato e profondo conoscitore138. Nella valle di Vitalba in un raggio di una decina di chilometri vi erano le domus di Lagopesole, Montemarcone e Agromonte (fig. 15). 136 Per avere un’idea dell’importanza economica che aveva per la tesoreria regia la gestione del sistema delle masserie pugliesi e lucane, basti considerare che ogni anno si pagava un tributo pari a un dodicesimo su tutte le derrate alimentari, il lino, la canapa e i legumi prodotti nelle terre demaniali (R. Licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle Pecore, Bari 1998, p. 143). 137 A.L. Trombetti Budrieri (a cura di), De arte venandi cum avibus, «Centro europeo di studi normanni, Collana di fonti e studi», 10, Roma-Bari 2000. 138 In particolare, Lagopesole sembrerebbe essere il cuore del cosiddetto Parco dell’uccellagione, come dimostrerebbe la suppellettile trovata nei recenti scavi (A. Giovannucci, P. Peduto [a cura di], Il Castello di Lagopesole da castrum a dimora reale. Visita al Castello e guida alla Mostra, Salerno 2000), che come giustamente rileva Fonseca «presenta interessanti elementi di raffronto per ricostruire l’habitat ornitologico di cui Federico ci fornisce minute e accattivanti descrizioni» (C.D. Fonseca, Federico II e la Basilicata, in corso di stampa) nel trattato De arte venandi cum avibus.

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Fig. 15. La valle di Vitalba da una bifora del castello di Lagopesole.

Nella estremità nord-est della regione, non lontano dall’Ofanto, si trovavano ben quattro domus: San Nicola de Ofido, Lavello, Boreano e Gaudiano. Infine vi erano le domus, un tempo strutture a carattere difensivo, di Monte Serico a nord-est di Genzano e Torre di Cisterna a nord-ovest di Melfi. In ogni caso, tali manufatti vanno considerati anche come presidi funzionali per il controllo e la gestione produttiva di un tenimento, una massaria, una marescallia139. Ciascuna di esse faceva parte di un «sistema massariale» di portata regionale il cui impegno nella gestione e amministrazione rese necessaria l’istituzione dei cosiddetti provisores massariarum140.

139 Sul sistema massariale in rapporto all’organizzazione del territorio sono fondamentali i lavori di Raffaele Licinio, in particolare Masserie medievali, cit. 140 Ivi, p. 144. In età angioina i provisores massariarum prendono il nome di magistri massariarum e le loro competenze nei primi decenni (1266-79) si estesero a un territorio molto ampio, come ad esempio la Basilicata e la Terra di Bari. A partire poi dal 1279, con Goffredo Vaccario di Melfi (1279-83) e per tutti gli anni

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In Basilicata tali massariae sono riconducibili a due tipologie. La prima si riferisce a un concetto classico di masseria, ossia azienda destinata alla produzione del grano, come nel caso dei territori «presidiati» dalle domus di Gaudiano e San Nicola, o all’allevamento di vacche e cavalli, come nella zona di San Gervasio, dove vi era la regia domus Marescalle, particolarmente importante negli anni tra i regni di Manfredi e Carlo I d’Angiò (fig. 16). La seconda tipologia è legata al cosiddetto Parco dell’uccellagione, ovvero ad aree prevalentemente boschive, ma con vaste radure e vallate coltivate a grano e colline coperte da uliveti e vigneti. Quando il paesaggio era particolarmente ameno e la rete viaria era adeguata, la domus viene particolarmente valorizzata diventando una fastosa dimora estiva, ovvero un locum solatiorum, come nel caso di Lagopesole. Dunque l’habitat ameno, all’interno di un demanio agricolo vasto e fertile, sta all’origine di tali domus solaciis deputate della Basilicata, ancorché, a nostro parere, non tutte erano deputate ai «sollazzi dell’imperatore». Per quanto riguarda i castra, in Basilicata si registra una singolare ed eterogenea distribuzione. Tale fatto è giustificabile se messo in rapporto al diverso carattere strategico del territorio, da riferire a quell’insieme di fattori topografici e funzionali che legano la scelta di fortificare un sito alla presenza di una direttrice, di uno snodo viario, di un confine territoriale, di un centro demico di una certa importanza. Ad esempio, di indubbio valore strategico era il sito di Torremare. Esso costituiva il terminale di una delle direttrici fluviali più importanti, il Basento, e si trovava inoltre nei pressi di Policoro, ove giungeva la via Herculia. Infine, era dotato di un porto che Federico II fece realizzare dopo il 1239141. Riguardo ai castra (fig. 14), notiamo alcune concentrazioni in territori omogenei, quali l’area nord-occidentale con i castra di Muro Lucano, Pescopagano e San Fele, la zona attraversata dai torrenti

Ottanta si registra la presenza di magistri massariarum competenti per la sola Basilicata (ivi, p. 159). 141 Il novus portus di Torremare fu uno degli undici porti che Federico II ordinò di realizzare per rinforzare la protezione di alcune coste del regno meridionale (J.L.-A. Huillard-Brèholles, Historia Diplomatica Friderici Secundi sive constitutiones, privilegia, mandata, instrumenta quae supersunt istius imperatoris et filiorum eius, vol. V/1, Paris 1857, rist. 1995, p. 419).

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Fig. 16. San Gervasio, domus marescalle: particolare di una torre angolare.

Camastra e Sauro, presidiata dai castra di Abriola, Anzi, Calvello e Gorgoglione, l’area sud-occidentale, con i castelli di Maratea e Lagonegro, e infine il litorale ionico, con le strutture fortificate di Policoro, Castrum Petrulle e naturalmente Torremare. Isolati rispetto agli altri castra erano i castelli urbani di Melfi, Acerenza e Matera, la cui funzione militare era legata non solo al controllo di un territorio, ma anche alla difesa del vicino abitato. Una lettura dell’intero sistema castellare collegato alla rete delle direttrici e dei percorsi viari mette in luce precisi allineamenti geografici di strutture fortificate. Lungo la via Herculia sul tratto nord si attestavano le domus di Agromonte e Lagopesole; mentre a sud di Potenza la stessa Herculia e alcune sue adduzioni erano controllate dai castra di Abriola, Anzi e Calvello. Percorsi mediante semitae e carrarae a mezza costa su calanchi argillosi o nelle vicinanze di alvei

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fluviali partivano dall’alto Basento, sotto il castrum di Brindisi, deviavano prima verso il torrente Cavone poi verso l’Agri, passavano per i castra di Petre de Acino, Montalbano, Petrulle e terminavano infine sulla foce nei pressi del castrum Policorii. Quest’ultimo, a sua volta, era funzionale alla difesa e al controllo della direttrice litoranea ionica, insieme con Torremare (fig. 17) e Rocca Imperiale142. 3.3. Dal «Pyramidenturm» all’impianto a corte: l’architettura fortificata federiciana in Basilicata Lo studio delle tecniche costruttive, degli elementi stilistici e dei caratteri distributivi dell’architettura federiciana in Basilicata non può prescindere da una visione più ampia dal punto di vista dell’ambito geografico di riferimento e delle problematiche culturali e artistiche coinvolte. Lo spazio esiguo in questa sede non consente di trattare il tema in maniera esaustiva. Pertanto si cercherà di fornire alcuni elementi significativi al fine di capire quanto le testimonianze lucane siano riconducibili al fenomeno generale dell’architettura federiciana in Italia meridionale. In Basilicata quattro sono le architetture fortificate di cui è plausibile ipotizzare una consistente fase costruttiva maturata negli anni di dominio svevo. Si tratta delle domus di Monte Serico e Lagopesole, della masseria regia di San Gervasio e del castrum di Melfi (fig. 18). L’unica a presentare un autentico impianto di fondazione sveva è la masseria regia di San Gervasio, costituita da un blocco quadrangolare di forma quasi regolare, che si articola su due livelli, intorno a un cortile143. Dell’impianto originario fanno parte un’ala e i resti di due torri quadrate angolari. A Monte Serico (fig. 18c), invece, siamo alla presenza di un impianto che viene riconfigurato in età sveva su preesistenze di età normanna e prenormanna. Il castello è costituito da un torrione centrale a pianta quadrata, intorno al quale si sviluppa in maniera concentrica un recinto murario di forma quadrata su cui insistono verso l’interno dei corpi di fabbrica. In elevato il manufatto tende ad assumere una forma tronco-piramidale, con il torrione centrale notevolmente più alto rispetto al recinto murario; quest’ultimo termina al suolo me-

142 Rocca Imperiale in età sveva faceva parte del giustizierato di Basilicata, oggi è un centro della Calabria. 143 Sulla masseria regia di Palazzo San Gervasio cfr. G. Leone, Palazzo S. Gervasio e il suo castello, Fasano 1985.

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Fig. 17. Torremare.

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Fig. 18. a) castello di Melfi: pianta; b) castello di Lagopesole: pianta; c) castello di Monte Serico: pianta e sezione.

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diante dei muri a scarpa. Per questo castello non è una forzatura parlare di una vera e propria tipologia, che Haseloff ebbe a denominare Pyramidenturm. Secondo lo studioso tedesco, a tale forma tipologica afferiscono anche il castrum di Lucera, una torre di Castelfiorentino e i castelli di Termoli e Tertiveri. A Lagopesole la domus è un parallelepipedo a pianta rettangolare (fig. 18b), con due cortili separati da una cortina muraria interna, sette torri quadrate, di cui quattro angolari, una torre mediana e due binate in corrispondenza dell’entrata principale (fig. 19). Un massiccio mastio domina all’interno del cortile minore. Il problema delle origini e dell’evoluzione della domus di Lagopesole è da tempo oggetto di dispute tra studiosi. La teoria di Willemsen del doppio cortile come conseguenza di due fasi costruttive distinte (la prima normanna e la seconda svevo-angioina), le tesi di Avagnina144, di Bertaux145 e di altri, tutte accomunate dalla centralità della fase federiciana, sono state ultimamente messe in discussione da un’ipotesi basata su una prevalente fase normanna durante la quale sarebbe stata realizzata gran parte dell’impianto fortificato146. Al di là delle questioni relative all’epoca dell’impianto, il castello di Lagopesole presenta al suo interno elementi architettonici e artistici risalenti alla prima metà del XIII secolo. Ci riferiamo innanzitutto allo schema strutturale in alzato con archi diaframma di chiara origine cistercense, che sarebbe stato realizzato solo in parte e di cui riman-

144 M.E. Avagnina, Lagopesole: un problema di architettura federiciana, in A.M. Romanici (a cura di), Federico II e l’arte del Duecento italiano. Atti della III settimana di studi di storia dell’arte medievale dell’Università di Roma, Roma, 15-20 maggio 1978), vol. I, Roma 1980. 145 E. Bertaux, I monumenti medievali della regione del Vulture, supplemento a «Napoli nobilissima», 6, 1987, pp. xx-xxii. 146 I recenti scavi condotti da Paolo Peduto nel cortile minore del castello hanno portato al rinvenimento di strutture, suppellettili, ceramiche ed elementi scultorei riferibili a un ampio arco temporale, dall’età alto-medievale all’epoca angioina. Gli esiti di tali scavi sono pubblicati in Giovannucci, Peduto (a cura di), Il Castello di Lagopesole, cit., in cui si propone una diversa lettura delle origini e delle fasi costruttive del castello. In particolare (cfr. i saggi di P. Peduto, Il castello di Lagopesole da castrum a dimora reale, pp. 9-14, e di A. Giovannucci, T. Saccone, Le fasi costruttive, pp. 15-20), ad eccezione del donjon federiciano e della cappella protosveva, l’impianto sarebbe il risultato di quattro o cinque fasi costruttive tutte riferibili all’età normanna.

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Fig. 19. Castello di Lagopesole: ingresso.

gono solo i capitelli e le imposte degli archi. I costoloni di una volta a crociera in corrispondenza dell’angolo nord-ovest e altri elementi formali sarebbero anch’essi di età sveva. Ciò che accomuna i primi tre castelli citati è la forma geometrica regolare dei relativi impianti, che non si adeguano alla morfologia del sito, ma si sovrappongono ad esso, entrando in contrapposizione: caratteristica tipica dell’architettura civile e fortificata del XIII secolo147. Inoltre, si registra una prevalenza di spazi con funzioni civili e la conseguente mancanza di elementi costruttivi riconducibili a funzioni legati alla difesa e alla controffensiva. Spazi destinati alla residenza

Il XIII secolo costituisce un punto di arrivo di un’evoluzione che parte in età alto-medievale, con le strutture fortificate realizzate con materiali leggeri, fondati su motte o, nel caso della Basilicata, su costoni rocciosi e protetti da palizzate e fossati. Si passa poi attraverso una fase di transizione durante la quale si riprende ad alzare le pareti del castello e del recinto esterno con pietre e malta. Recinti murari dalla forma irregolare e torri all’interno costituiscono la penultima fase evolutiva prima che si affermi il castello con corte interna e icnografia dalla forma regolare. 147

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erano previsti, anche nei castelli militari, come nel caso di Policoro, in cui è documentata l’esistenza di una «domus [...] castri minantur ruinam»148. Alla regola geometrica fa eccezione il castello di Melfi (fig. 18a). In età sveva doveva presentare un impianto costituito da un recinto di forma irregolare con torri quadrate, di cui rimangono solo due, che racchiudevano al suo interno il citato mastio normanno149. Nella successiva età angioina il tutto sarebbe stato ristrutturato con opere di ampliamento e di rimaneggiamento che hanno interessato soprattutto il recinto150. L’analisi stilistica e delle tecniche costruttive e lo studio delle fonti potrebbero allargare la cerchia di quelle opere fortificate che presentano parti di impianto o elementi architettonici riferibili all’età sveva. Citiamo su tutti il castello di Policoro, di cui sono documentate le opere di riparazione effettuate intorno al 1240151, e i castelli di Miglionico, Uggiano e San Chirico Nuovo152. Solo degli accurati e specifici studi monografici sulle singole architetture fortificate potranno portare a una conoscenza del problema allargata anche a episodi cosiddetti minori. 4. Castelli e cantieri in età angioina 4.1. Premessa Dopo la presa del potere da parte di Carlo I d’Angiò, i primi anni di governo del regno si svolgono in uno stato di continua conflittualità, alimentata dai sostenitori del partito filosvevo e da coloro che appoggiavano i nuovi signori. Lo stato di incertezza politica si riflette inevitabilmente sulla vita e il funzionamento delle istituzioni. In particolare l’amministrazione dei castelli vive una fase transitoria nella quale più volte cambiano i Fonseca, Federico II e la Basilicata, cit. Cfr. Lenzi, Il castello di Melfi, cit., p. 58. 150 In età angioina la nuova cinta muraria sarà rinforzata da un certo numero di torri di fiancheggiamento a forma quadrata e poligonale. 151 Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 87. 152 Nel caso della torre di San Chirico Nuovo, alcuni conci rifiniti a bugnato molto simili a quelli che troviamo a Lagopesole rimanderebbero all’età sveva. Tale ipotesi andrebbe avvalorata dalle fonti storiche, che al momento sono poco significative. 148 149

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ruoli e le responsabilità amministrative. Nei primissimi anni di regno, nell’amministrazione dei castelli si registra la presenza di due provisores castrorum, uno competente nei territori della Capitanata, Terra di Bari e di Otranto, l’altro responsabile dei castra della Sicilia153. La continuità con l’amministrazione sveva si interrompe intorno al 1268, quando gli uffici dei provisores vengono accorpati insieme con quelli dei giustizieri154. Poi, a partire dai primi anni Settanta del XIII secolo, viene istituita la figura del magister balistariorum, che aveva il compito di occuparsi della «provisionem reparationem et munitionem omnium castrorum»155. Infine, intorno agli anni 1273-74 viene ripristinato l’ufficio autonomo del provisor castrorum, con compiti e ruoli molto simili a quelli rivestiti in età sveva. Nonostante la continuità con l’età sveva per quanto riguarda l’architettura e il funzionamento dell’amministrazione dei castelli, in età angiona riscontriamo alcune peculiarità, tra cui il ruolo di maggiore prestigio, entro i limiti di una concezione centralistica dello Stato, di alcune figure preposte alla gestione dei castelli. Ci riferiamo ai custodi e ai castellani, che non a caso vengono scelti tra fidati funzionari quasi sempre di origine francese. In Basilicata solo nei primi anni di regno si segnalano custodi non di origine transalpina, come Nicola da Potenza, castellano di Lagopesole nel 1267, e Nicola Frezzario di Venosa, custos della marescallia di San Gervasio nel 1266. Già a partire dal 1268-69 si registrano in prevalenza nomi francesi156, come Jean de Saumery ad Acerenza157, Bernard Bourguignon a Melfi, Jean de Bayle a San Fele; e ancora nel 1271 il castrum di Matera era sotto la custodia di Henry Cornut, mentre a Torremare vi era Egidio de Grallers. Infine, le nomine dei custodes e dei castella153 Si tratta rispettivamente di Iohannes Tafarea e di Guido dictus Conversus, citati in due documenti del 1268 (Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 26). 154 Ibid. 155 Ivi, p. 136, Capua, 16 febbraio 1270. 156 Nei primi anni Settanta troviamo ancora dei castellani non francesi, come ad esempio Giovanni Corasio, che nel 1272 risulta essere castellano castri Acherontie; cfr. I Registri della Cancelleria Angioina, vol. VII, 1269-1272, Napoli 1970, p. 245, n. 173. 157 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. I, 1265-1269, Napoli 1963, pp. 116, n. 35, Foggia, 3 luglio 1268; n. 50, p. 119, Lucera, 21 maggio 1268; p. 198, n. 34.

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ni effettuate nel 1282 costituiscono un elenco ininterrotto di milites francesi: Reginald de Sanverre ad Acerenza, Pierre de Longhchamp a Lagopesole, Anselme de Montilies a Melfi, Jozet de Pont a Muro, Galeran d’Ivry a San Gervasio, Jean d’Agincourt a San Fele e Pierre Cornut a Torremare158. I castelli citati, ad eccezione delle domus di San Gervasio e Lagopesole, erano i cosiddetti castra exempta, che erano sotto la giurisdizione diretta della curia regia. In particolare, i custodi non venivano designati dal provisor castrorum competente, ma direttamente dal re. In età sveva, in Basilicata, erano appena due i castra exempta, quelli di San Fele e Melfi, che diventano cinque sotto Carlo I d’Angiò a partire dal 1269159. Si tratta dei castra di Melfi, San Fele, Acerenza, Torremare e Matera160, a cui si aggiunge nel 1282 il castrum di Muro161. Ciascun castello era dotato di una propria guarnigione costituita da un castellanus e da un certo numero di servientes, a cui si aggiunge nel 1278 la figura del capellanus. Nelle liste delle guarnigioni il castellanus viene distinto in miles o in scutifer; a loro volta divisi, a partire dal 1280, tra chi che era titolare di un feudo (habens terram) e chi no (non habens terram). Di solito i castelli più importanti erano affidati a dei milites, come nel caso di Melfi e Acerenza nel 1278 e 1282, e ancora di Melfi nel 1280162. Ma l’importanza strategica ai fini difensivi del castrum va soprattutto commisurata alla consistenza numerica della guarnigione. Analizzando, a tal riguardo, i dati relativi alle liste dal 1268 al 1282, notiamo che il castrum di Acerenza era quello che presentava la guarnigione più numerosa. Nel 1268 erano ben 110 i servientes castri Aceruntie163. Nel 1278 e 1280 su 86 servientes alloggiati nei castra Licinio, Castelli medievali, cit., pp. 320-21. Sthamer, Die Verwaltung, cit., pp. 10 e 134-35, app. II, n. 4, Napoli, 28 novembre 1269. 160 Il castrum di Matera faceva parte della Terra Ydronti, a cui afferiva anche Torremare a partire dallo Statutum del 1278 (ivi, p. 146, app. II, n. 14, Belvedere, 10 febbraio 1278), a cui segue lo Statutum del 1280, che non registra alcuna variazione rispetto al precedente. 161 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXVI, 1282-1283, Napoli 1979, n. 28, 4 ottobre 1282. 162 Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 146, Belvedere, 10 febbraio 1278. 163 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. I, cit., p. 119, n. 50, Lucera, 21 maggio 1268. 158 159

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exempta della provincia di Basilicata, 60 si trovavano ad Acerenza, a cui si aggiungono altri 40, i cosiddetti additi, nel 1282. A Melfi la guarnigione era addirittura limitata al solo castellanus scutifer nel 1269, a cui vengono aggiunti 20 servientes solo a partire dal 1278. Guarnigioni meno numerose si trovavano nei castelli di Muro, San Fele, Matera e Torremare164. Oltre ai castra exempta in Basilicata vi erano altri castelli che sfuggivano al controllo regio specialmente in epoche caratterizzate da conflitti bellici, come i Vespri. In alcuni di questi castelli alloggiavano guarnigioni anche numerose al soldo di baroni che approfittando della situazione bellica si impadronivano di feudi e di castelli, come quelli di Vaglio165 e Moliterno166. Molti altri sono i castelli di cui si ha notizia in età angioina, tra i quali quelli di Uggiano, Montemilone, Calvello, Brienza, Picerno, Balvano, Grottole. Infine, un discorso a parte riguarda la custodia delle domus, i cui adempimenti non concernevano solamente il manufatto, ma anche le relative defensae e i tenimenti, come a San Gervasio, dove Nicola Frezzario di Venosa era titolare dell’officio custodie palacii et defensarum167. Naturalmente per l’importante officium il custos aveva a disposizione del personale. Sempre a San Gervasio, ad esempio, «pro diligentiori custodia […] palacii et defensarum» Frezzario poteva contare sulla collaborazione di «frusterii equites quatuordecim et pedites octo»168.

164 A Muro vi erano un castellanus scutifer e venti servientes nel 1282; a San Fele un castellanus scutifer e otto servientes nel 1269, un castellanus scutifer e sei servientes dal 1278 al 1280 e un castellanus scutifer e dodici servientes nel 1282; a Matera il solo castellano nel 1269; a Torremare il solo castellano dal 1269 al 1280, un castellanus scutifer e venti servientes nel 1282. Tutti i dati relativi alle guarnigioni dei castra demaniali della Basilicata sono tratti da Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 62. 165 I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XXXII, 1289-1290, Napoli 1982, p. 234, n. 504, 19 giugno 1290. 166 Ivi, p. 245, n. 542, 5 agosto 1290 e n. 544, 16 agosto 1290. 167 Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., pp. 147-49, doc. I, 24 febbraio 1267. 168 Ivi, p. 149, doc. I, 24 febbraio 1267. In età primo angioina altre defensae erano quelle di Lavello, il cui custos nel 1269 era un tale Perronus, e Aquabella, custodita da un certo Gebiet nel 1270 (Houben, Die Abtei Venosa, cit., p. 408, doc. 196, Melfi, 29 settembre 1269, e 198, Capua, 25 gennaio 1270).

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4.2. Cantieri e tecniche costruttive dei castelli dalla documentazione angioina I primi vent’anni di governo angioino sono stati caratterizzati da una febbrile attività edilizia, finalizzata alla realizzazione di infrastrutture e alla costruzione e all’adeguamento di opere fortificate. In Basilicata si registrano almeno quattro cantieri di castelli, dei quali si dispone di documentazione sufficiente per conoscere il tipo e le finalità degli interventi realizzati. In particolare sul cantiere di Melfi, a cui si rimanda in seguito per un approfondimento, le notizie consentono di ricostruire tutte le fasi operative, dall’appalto all’approvvigionamento dei materiali, dalle maestranze alle opere effettivamente realizzate. Gli altri cantieri sono relativi al castrum di Acerenza, alla dimora di Lagopesole e alla domus Marescalle di San Gervasio. Altri lavori si registrano nel castrum di Lavello169 nel 1279, a Cisterna170, dove si dà corso nel 1272 alla reparatio domorum, a Matera, dove vengono rinforzate le mura e viene eretta una nuova torre all’epoca dei Vespri171, a Venosa, dove nel 1296 si ristrutturano le mura172, a Brienza, Picerno, Calvello e Uggiano, i cui castelli vengono ristrutturati e ampliati. Vediamo più da vicino quali erano quelle fasi, dalla stima dei lavori all’appalto, che precedevano il cantiere di un castello. Dopo mandati e responsales con i quali si poneva il problema di intervenire sulle fabbriche, formulando già delle ipotesi sulla tipologia delle opere da realizzare e talvolta sulle risorse economiche necessarie, si passava finalmente alla vera e propria operatività sul manufatto da riparare. Il momento topico era la formazione di una commissione, di solito composta da un giudice, un notaio, magistri fabricatores e alii probi viri esperti in talibus per eum requirendis, che alla presenza del castellano, come avviene a Lagopesole nel 1269, si recano sul posto («ad castrum [...] se personaliter conferat»), per rendersi conto delle opere da eseguire, stimandole in termini quantitativi («et facta […] diligen-

169 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 163, n. 1048, Capua 27 marzo 1279. 170 Ivi, p. 169, n. 1054, Trani 12 aprile 1272. 171 T. Pedio, La Basilicata dalla caduta dell’Impero romano agli Angioini, vol. IV, La Basilicata da Federico II a Roberto d’Angiò, Bari 1989, p. 281. 172 Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 211, doc. XXXIV, 21 agosto 1296.

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ti et legali extimacione de omnibus et singulis, que [...] reparande fuerint») e calcolando, infine, il costo economico («et de quantitate pecunie, que pro reparatione […] videbitur oportuna»)173. In altri casi, come avviene sempre a Lagopesole nel 1270, il sopralluogo veniva effettuato da un giudice e da «architecti […] ad hoc ydonei et fidedignis adhibitis»174. Quando per la extimacio era necessaria una certa precisione, il magister incaricato veniva accompagnato da altri esperti consulenti, come avviene a San Gervasio nel 1275, dove il magister viene accompagnato e coadiuvato da ben cinque magistri, di cui tre carpentieri, un fabbricatore e un altro muratore175. La spesa occorrente per le opere di manutenzione dei castelli era solitamente a carico degli abitanti del centro abitato interessato e di altre terre e casali. In alcuni casi, come ad Acerenza, i paesi gravati dall’onere fiscale per la reparatio castri erano gli stessi dell’età sveva176. Diverso è il caso di una costruzione ex novo, le cui risorse finanziarie provenivano direttamente dalla curia regia. Esaurita questa fase si espleta l’appalto e dopo l’aggiudicazione potevano finalmente iniziare i lavori. Le opere più frequenti di cui è stata trovata testimonianza documentaria riguardano la riparazione delle coperture. I problemi di infiltrazione rappresentavano, infatti, una costante per quei castelli caratterizzati da coperture piane, che, benché lastricate, non sempre erano idonee a garantire il drenaggio delle acque meteoriche, specie in un clima rigido e piovoso come quello lucano. Così, intorno al 1269 si pone il problema di riparare tecta domorum del castello di Lagopesole177. Dopo varie stime effettuate178, in-

173 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 163, n. 1033, Foggia 16 aprile 1269. 174 Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 150, doc. II, 30 dicembre 1270. 175 Ivi, pp. 152-56, doc. IV, 4 marzo 1275. 176 Non è chiaro invece come venivano finanziate le manutenzioni delle domus. Al contrario che in età sveva, probabilmente non sempre erano a carico degli abitanti dei centri limitrofi. Ad esempio per la reparatio tectorum della domus di Lagopesole nel 1270, su richiesta di un giudice, si dà ordine al giustiziere e all’erario di Basilicata di pagare «pecuniam necessariam» (Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 150, doc. II, 30 dicembre 1270). 177 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 163, n. 1033, II, Foggia, 16 aprile 1269. 178 Ibid.; Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 150, Trani, 30 dicembre 1270.

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torno al 1271 si dà inizio alle prime reparationes delle coperture179. Ad esse seguono altri interventi realizzati nel 1277180. Anche per la domus Marescalle di San Gervasio nel 1275 si rendono necessarie delle opere di ristrutturazione dei tetti delle scuderie e dell’ala residenziale181. Tra i lavori che maggiormente raccoglievano l’interesse di chi era preposto a finanziarli vi era quello relativo alle opere di smaltimento e convogliamento delle acque, al fine di garantire le indispensabili risorse idriche. Essendo i castelli in gran parte costruiti in cima a rilievi collinari e montuosi, si trovavano di solito a una quota più alta rispetto ai livelli piezometrici delle falde idriche e di conseguenza delle sorgenti. Pertanto, quasi sempre il problema dell’acqua si risolveva con la costruzione di una cisterna interrata. L’unica eccezione riguardava Lagopesole, che in età sveva beneficiava dell’acqua proveniente da un acquedotto. Il sistema di approvvigionamento era completato da due cisterne, una alla base del donjon, l’altra situata al di sotto del cortile maggiore, che fungevano altresì da serbatoi di riserva. L’acquedotto andato in disuso doveva essere o riabilitato o rifatto con materiali e tecniche diverse. Tra il 1277 e il 1279 vengono studiate e computate varie soluzioni: dalle tubazioni in piombo, troppo costose, si passa alle condutture in pietra viva182. Il risparmio era rilevante, ma non sufficiente a giustificare l’investimento. Pertanto, alla fine si «spurga» l’acquedotto esistente, realizzato con canali drenanti di sabbia183. La documentazione di età angioina in alcuni casi fa luce non solo sulla tipologia dell’intervento, ma anche sui materiali da impiegare, con le relative quantità e costi. A San Gervasio, ad esempio, per la copertura servivano «quatuor miliaria» di embrici di buona qualità, «ad racionem de tarenis auri vigenti» per ciascun «migliaro» di embrici, 179 Nel documento datato 30 dicembre 1270 (in Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 150) si dà ordine direttamente al giustiziere della Basilicata di disporre della «pecuniam necessariam pro reparatione […] tectorum», sulla base della stima fatta dagli architetti incaricati («iuxta […] Architectorum extimationem»). È presumibile che i lavori siano stati eseguiti a partire dal 1271, come si ricava dalla data del documento. 180 Ivi, pp. 160-62, doc. VII, 12 marzo 1277. 181 Ivi, pp. 152-56, doc. IV, 4 marzo 1275. 182 Ivi, pp. 160-62, doc. VII, 12 marzo 1277; pp. 185-86, doc. XVII, 19 aprile 1279; pp. 189-90, doc. XIX, 13 maggio 1279. 183 Ivi, pp. 189-90, doc. XIX, 13 maggio 1279.

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per un costo totale di 2 once d’oro e 20 tareni184. La struttura portante doveva essere costituita da «trabes grossas viginti» il cui costo, comprensivo di tutte le varie fasi di lavorazione, tra cui il taglio (incisura) e la posa in opera (delatura), era di 20 tareni185. Dalle quantità impiegate si ricavano anche alcune informazioni sulla tecnologia costruttiva, come ad esempio il rapporto tra legante e inerte delle malte, che doveva essere pari a 1:2 a San Gervasio186. Nel cantiere di Melfi del 1278 le direttive sono ancora più precise: infatti non solo si stabilisce che il rapporto tra calce e sabbia debba essere pari a 1:2 («in fabricis […] murorum tertiam partem calcis […] et due partes arene poni faciat»), ma si precisa anche che la «pars calcis» è da intendersi «non extinta». Infatti nel caso contrario le malte sarebbero state inadeguate e «muri ipsi non fortes et boni, immo minus boni et debiles viderentur»187. «Pro coquenda calce» le direttive non trascuravano gli aspetti legati al reperimento del legname188, che veniva bruciato in fornaci molto spesso costruite nei pressi di boschi189. Il legname era altresì importante per la carpenteria. Per questo uso la scelta dei boschi e degli alberi da abbattere era ancora più laboriosa, tanto da richiedere talvolta delle direttive regie che avevano il fine di disciplinare il taglio nelle regiae forestae. Così per la costruzione di vedette e anditi nelle mura di Venosa, nel 1296, Carlo II autorizzò gli homines venusini a servirsi dei boschi di Lagopesole, San Gervasio, Ripacandida e Lavello190.

184 Ivi, p. 152, doc. IV, 4 marzo 1275: «in revolvendo tecto eiusdem Marescalle imbricum miliariis quatuor bonorum que predicti magistri carpenterii [...] estimaverunt posse haberi». Il costo unitario era di 20 tareni al migliaro, che moltiplicato per quattro facevano 2 once d’oro e 20 tareni (30 tareni valevano 1 oncia d’oro). 185 La incisura era il taglio della trave, mentre per delatura doveva intendersi tutto quell’insieme di operazioni preliminari alla messa in opera, tra cui le verifiche e le correzioni delle tolleranze dimensionali (Du Cange, Glossarium, cit., p. 50). 186 «Reparandis dictis presepiis Marescalle predicte de calce salmas decem, de arena salmas viginti» (Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., pp. 155-56, doc. IV, 4 marzo 1275). 187 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, pp. 170-71, n. 1064, Capua, 26 febbraio 1278. 188 Ivi, p. 175, n. 1081, Capua, 24 aprile 1278. 189 Due fornaci sono attestate nei boschi vicino Lavello, cfr. I Registri della Cancelleria Angioina, vol. XX, 1277-79, Napoli 1966, p. 167, n. 438. 190 Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 211, doc. XXXIV, 21 agosto 1296.

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L’attenzione dei magistri alla qualità dei lavori non era limitata solamente alle murature, ma anche alle caratteristiche geologiche e geotecniche del sito, specie se i terreni si presentavano «lapidosa et aspera ad fodendum», come ad Acerenza, dove lo scavo per le foveae fu tutt’altro che un lavoro semplice191. Fu per questa ragione che il progetto iniziale di costruire dieci foveae di capacità pari a 100 salme ciascuna192 viene cambiato in favore di un’altra soluzione che prevedeva lo scavo di tre foveae, per una capacità totale pari sempre a 1.000 salme193. Il cantiere di un castello era dunque tra i più complessi per le varie tipologie di opere da realizzare, dal palacium alle mura, dalle torri alle cisterne, e per le numerose categorie di lavori, come lo scavo, la posa in opera delle fondazioni e delle murature, il taglio e lo sbozzo dei conci lapidei, la preparazione della calce, la carpenteria ecc. Pertanto era richiesta un’elevata specializzazione delle maestranze, che comprendevano tra gli altri i magistri fabricatores, responsabili della posa in opera degli apparecchi murari, di scalpellini e lapicidi (scappatores lapidum e incisores lapidum et cantonum), che si occupavano dello sbozzo delle pietre, del taglio dei cantonali e dell’incisione di modanature lapidee, di magistri carpenterii, il cui lavoro non si limitava alla sola realizzazione di capriate e di strutture lignee delle coperture, ma anche alla costruzione di centine per archi e volte e impalcature di una certa complessità. Infine vi erano i manipuli, cioè i manovali, il cui lavoro era di supporto ai magistri specializzati, in particolare ai fabricatores194. Per i grandi cantieri, quali Melfi, Bari e Lucera, che negli anni Settanta erano in febbrile attività, la macchina burocratica angioina mostrò grande efficienza nel creare una sorta di rete di centri di produzione e distribuzione dei materiali. Ad esempio, per la fornitura del legname necessario per i lavori nel castello di Melfi l’extallerius 191 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, pp. 161-62, n. 1028, Melfi, 13 luglio 1279; n. 1029, Brindisi, 22 novembre 1279. 192 Ivi, p. 161, n. 1028, Melfi, 13 luglio 1279. 193 Ivi, pp. 161-62, n. 1029, Brindisi, 22 novembre 1279. In questo modo si limitarono le spese e l’impegno tecnico nella fase di scavo del terreno roccioso. 194 Nel cantiere di Melfi nel 1279 per ogni magister fabricator vi erano ben cinque manipuli. Nello stesso cantiere vi erano trenta magistri fabricatores, venti scappatores lapidum, venti incisores lapidum et cantonum e infine 200 manipuli, di cui cinquanta «pro fodendis et faciendis turrium et cisterna» (Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 192, n. 1131, Capua, 22 febbraio 1279).

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incaricato riceveva lignamina et trabes dal cantiere del castello di Bari. Va detto che tali sinergie da una parte erano favorite dal fatto che i vari funzionari erano impegnati contemporaneamente in più cantieri195, dall’altra erano auspicate e coordinate al livello centrale, come ad esempio la mobilità a cui si sottoponevano i vari prepositi operis, specie se serviva l’officium di un grande protomagister come Riccardo da Foggia, il quale dopo il 1278 non può più dedicarsi a tempo pieno al castello di Melfi, perché serviva la sua competenza nell’«opus fossati castri Lucerie»196. Al fine sempre di razionalizzare le procedure costruttive e ottimizzare i costi economici, su alcuni materiali come i mattoni in laterizio si arrivò a definire perfino delle dimensioni standard. Come si legge dai documenti i matuncelli, impiegati sia a Melfi sia a Lucera, dovevano essere «bene cocti et studiose facti» e di dimensioni «longitudinis 1 pedis manualis amplitudinis medii pedis manualis et grossitudinis 3 digitorum»197. Il controllo delle dimensioni era severo e passava attraverso le verifiche e la certificazione eseguita da un funzionario preposto198. 4.3. Storia di un cantiere: il castello di Melfi Per tutta l’età medievale l’importanza di Melfi e della città risiede innanzi tutto nella sua posizione strategica. Capitale all’epoca delle campagne di conquista normanna, in età sveva il suo castello è tra i pochi castra exempta. La sua felice posizione geografica rimane tale anche in età angioina. La vicinanza alla più importante direttrice di collegamento tra la Capi-

195 Nel caso specifico della fornitura di legname, tra i cantieri di Bari e di Melfi, essa fu probabilmente favorita dalla circostanza che il magister Ricardus de Barberia fosse protomagister operis carpentarie lignaminum sia del castello di Bari sia di quello di Melfi; ivi, p. 19, n. 602, Melfi, 10 luglio 1278. 196 Ivi, p. 173, n. 1074, Capua, 8 aprile 1278. Nei documenti successivi compare ancora Riccardo da Foggia, che continua ad avere un ruolo direttivo nel cantiere di Melfi. Pertanto non è improbabile che il protomagister pugliese fosse stato affiancato dal nuovo prepositur operis Bancolinum de Elegio o Balzolinum, di origine ultramontana (in francese Baucelin de Linais). 197 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, pp. 179-80, n. 1092, Lagopesole, 21 luglio 1278. Cfr. anche ivi, pp. 178-79, n. 1088, Melfi, 10 luglio 1278. 198 I matuncelli venivano confezionati «secundum formam et modum, quam et quem designatos et factos de lignis assignavimus […] in curia nostra» e «secundum quos te inde [...] capitanus fortellicie Lucerie certificaverit» (ivi, pp. 179-80, n. 1092, Lagopesole, 21 luglio 1278).

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tanata, i porti pugliesi e la provincia del principato199 fa sì che tra i grandi cantieri che Carlo I d’Angiò avvia nella seconda metà degli anni Settanta, anche in prospettiva di future mire espansionistiche verso i Balcani, vi è quello di Melfi, alla pari di Lucera, Manfredonia, Barletta, Bari, Brindisi e Oria200. Il cantiere di Melfi rappresenta quindi il più importante della Basilicata in quest’epoca. Ripercorrerne la storia consente di conoscere il funzionamento del cantiere dalla parte amministrativa a quella più tecnica, dalla progettazione (provisio e designatio) e appalto (extaleum) alla conduzione ed esecuzione dei lavori. I primi atti amministrativi, tesi a predisporre le procedure preliminari ai lavori, risalgono al 1269. In quell’anno il magister carpenterius Iohannes de Tullio viene incaricato di sovrintendere alle prime extimaciones fatte insieme con altri magistri periti, «ad reparationem e pro perficiendis domibus castri nostri Melfie»201. Due anni dopo viene emanato l’elenco delle terrae «que ad reparationem castri [...] tenentur»: si trattava di Melfi, Monticchio, casale di Sant’Andrea e Venosa202. Nel 1272 compare per la prima volta uno dei protagonisti della storia dei restauri del castello, il giudice Franciscus de Melfia, designato prepositus super reparatione castri203. Nel 1274 vengono redatte le ultime extimaciones, secondo cui sarebbero servite 49 once d’oro circa; poche se confrontate con le 173 once stimate, in quella stessa epoca, per le reparationes del castello di Acerenza204. Si ha dunque l’impressione che il progetto iniziale fosse limitato a parziali opere di riparazione e che solo più avanti nel tempo

199 La direttrice viaria era Melfi-Spinazzola-Minervino dalla parte orientale, mentre da quella occidentale, partendo sempre da Melfi, si giungeva alla valle tra Rocchetta e Sant’Agata (Sthamer, Die Verwaltung, cit., p. 22). Tramite qualche adduzione da Melfi si intercettava l’importante strata Crepacordi che collegava Bovino e Troia con Ariano Irpino (Lenzi, Il castello di Melfi, cit., p. 74). 200 Sthamer, Die Verwaltung, cit., pp. 22-23. 201 Id., Dokumente zur Geschichte cit., vol. II, p. 168, n. 1049, San Lorenzo di Foggia, 4 marzo 1269; ivi, p. 168, n. 1050, Foggia, 17 marzo 1269, e n. 1051, Lucera, 29 aprile 1269; pp. 168-69, n. 1052, Melfi, 29 settembre 1260. 202 Ivi, p. 169, n. 1053, Melfi, 13 settembre 1271. Tale elenco viene confermato sei anni dopo: cfr.; ivi, p. 169, n. 1057, Lagopesole, 18 luglio 1277. 203 Ivi, p. 169, n. 1054, Trani, 14 aprile 1272. 204 Ivi, p. 160, n. 1020, Lagopesole, 23 settembre 1274.

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i lavori fossero estesi portando, come vedremo, a una riconfigurazione dell’intero impianto normanno-svevo. Nel 1277 viene finalmente espletato l’extaleum, che viene aggiudicato a Franciscus de Melfia. Intanto entrano in campo i più importanti architetti e protomagistri del regno, tra i quali Petrus de Agincourt e Riccardus de Fogia, impegnati anche in altri cantieri del regno205. Dai documenti già si evince un piano di opere più vasto per il quale era stato espletato l’appalto, finalizzato a «facere [...] in castro [...] Melfie palacium, quod, ac turres et muros». Si trattava dunque non di una semplice reparatio, ma di un insieme di opere de novo206. I lavori hanno inizio alla fine del 1277. L’entità delle opere da realizzare è tale da richiedere un numero elevato di operai: otto lapicidi (scappatores lapidum), trenta magistri muratores207, a cui si aggiungeranno l’anno successivo sei magistri carpenterii208 e probabilmente un centinaio di manovali, sotto la direzione di Riccardo da Foggia. Quest’ultimo era il prepositus operis209, una sorta di «direttore dei lavori», rappresentante degli interessi della curia regia e responsabile tecnico e amministrativo delle opere. Da lui partivano tutte le direttive atte ad assicurare la regolarità e la celerità dei lavori, a gestire le maestranze, i mezzi di trasporto e le forniture210. Talvolta aveva perfino il compito di comminare pene pecuniarie a operai indisciplinati211. A dirigere il cantiere operis palacii et turrium di Melfi fu dunque scelto uno dei più grandi prepositi dell’epoca, tra i pochi non di ori205 Nel 1277 Petrus de Angicurt era l’extallerius incaricato di costruire delle torri prope portum Manfridonie, Iohannes de Tullio (o Tilio) era prepositus e capitaneus fortellicie Manfridonie. In particolare era il responsabile dei lavori per la realizzazione o riparazione del fossato e dell’officina (forgia) del porto (Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. I, p. 59, n. 210, Casalbore, 4 novembre 1277 e p. 57, n. 206, Melfi, 15 ottobre 1277). 206 Ivi, vol. II, p. 169, n. 1059, Troia, 3 novembre 1277. 207 Ibid. 208 Ivi, p. 172, n. 1071, Capua, 10 marzo 1278. 209 Riguardo alla figura del prepositus operis nei cantieri angioini della Puglia cfr. A. Haseloff, Architettura sveva nell’Italia meridionale, a cura di M.S. Calò Mariani, vol. I, Bari 1992 (ed. or. Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920), pp. 82, 89, 148-51, 168-69, 171, 234-36. 210 Era il prepositus a decidere ad esempio quanti manovali dovessero lavorare («pro opere [...] precipimus [...] manipulos in numero, quem idem mag. Riccardus providerit», cfr. Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, pp. 169-70, n. 1059, Troia, 3 novembre 1277). 211 Tale circostanza occorre nel cantiere di Lucera intorno al 1273 (Haseloff, Architettura sveva, cit., p. 150).

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gine francese a godere della stima di Carlo I d’Angiò212, il quale aveva già incaricato il protomagister pugliese di dirigere i cantieri della cappella del castello di caccia di San Lorenzo213 e delle fortificazioni di Lucera. Riccardo da Foggia era coadiuvato sul piano tecnico dal magister ingenierus, di origine lorenese, Iohannes de Tullio. Da questi dipendeva la progettazione e la supervisione delle opera lignamina, per quanto riguardava non solo la qualità e le essenze, ma anche le dimensioni («longitudine amplitudine grossitudine et mensura trabium et lignamium»). Inoltre, si occupava di tutto il processo costruttivo, dai preventivi all’acquisto del legname, fino alla scelta degli alberi da abbattere. Era uno dei protomagistri maggiormente specializzati, un antesignano dell’architetto militare dell’epoca rinascimentale214. A Melfi si mobilita, dunque, il gotha degli architetti e delle mae­ stranze per realizzare «opera murorum palacii turrium et cortine» (fig. 20). Non mancano descrizioni più dettagliate dei lavori che l’extallerius Francesco da Melfi doveva eseguire. In particolare, il contratto lo vincolava entro un certo termine «in faciendis» non solo «turribus muris», ma anche le sale, le stanze, le finestre e i camini215. Le salae si riferiscono al corpo di fabbrica rettangolare stretto e lungo, posto a nord del primigenio nucleo normanno, adibito a «sala del trono» al primo livello e «salone degli armigeri» al piano sottostante. L’edificio incide in maniera rilevante sulla forma dell’impianto, dividendo in due cortili lo spazio a nord tra la fabbrica normanna e la cortina muraria216. Doveva trattarsi dunque del cosiddetto palatium217. Quest’ultimo 212 Sono molti i francesi, provenienti soprattutto dalla Provenza, ad assumere importanti incarichi nella direzione dei cantieri di castelli, mura e porti di età primo-angioina. Tra questi citiamo Pierre d’Agincourt di Beauvais, Jean de Toul proveniente dalla Lorena, Pierre de Chaule della Piccardia, Baucelin de Linais, Charles de Chapot, Stefano d’Orléans. 213 Haseloff, Architettura sveva, cit., p. 82. 214 Come esperto di lignamina si occupava anche della costruzione di macchine belliche. Opere sue furono le macchine da guerra fatte realizzare durante l’assedio di Lucera e quelle costruite in Albania nel 1280 per l’assedio della città di Berat (ivi, p. 168). 215 «Salis fenestris privatis ciminedis» (Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 173, n. 1074, Capua, 8 aprile 1278). 216 I cosiddetti cortili della «cisterna» e degli «armigeri». 217 A tal riguardo i documenti non sono espliciti, però va detto che laddove si citano le salae non si fa cenno al palacium. Questo dato quindi porterebbe a far coincidere le salae con il palacium.

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Fig. 20. Castello di Melfi, veduta generale con la cortina muraria e le torri.

compare in un documento come «palatium magnum novum», che non lascerebbe alcun dubbio sulla datazione angioina della cosiddetta sala del trono218. Gli stessi elementi architettonici e artistici rimanderebbero, per buona parte, a un’epoca sicuramente posteriore a quella sveva. Dai documenti, però, sappiamo che i lavori iniziarono alla fine del 1277 e dopo appena quattro-cinque mesi si faceva richiesta del «ferrum necessarium pro faciendis virgis apponendis in fenestris palacii»219 e che nel luglio del 1278 si affidava l’incarico a un magister di realizzare dei tramezzi220, «pro clausuris camerarum […] in eodem palacio»221. C’è da chiedersi se il palacium, ovvero le salae, poteva essere stato costruito, per lo meno nelle sue principali strutture, in due-tre mesi, o se esisteva già prima del 1277. In quest’ultimo caso il suo impianto

218 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, pp. 191-92, n. 1130, Capua, 19 febbraio 1279. 219 Ivi, p. 174, n. 1076, Capua, 22 aprile 1278 e p. 175, n. 1081, Capua, 15 aprile 1278. 220 Ivi, p. 178, n. 1088, Melfi, 10 luglio 1278. 221 Ivi, p. 179, n. 1092, Lagopesole, 21 luglio 1278.

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andrebbe retrodatato o all’età sveva o ai primissimi anni di quella angioina222. In ogni caso, la facies architettonica è da far risalire a un’età più tarda di quella sveva. In particolare, buona parte delle membrature architettoniche, tutte le opere di finitura, le finestre223, i divisori interni224 e la copertura risalirebbero proprio ai lavori eseguiti tra gli anni 1277-79. Agli stessi anni, in particolare al 1279, risale anche la costruzione della cisterna e la realizzazione del cortile soprastante225. Riguardo alle fortificazioni, non ci sono dubbi sulla loro realizzazione ex novo in età angioina. Come riportano i documenti, sei furono le torri costruite, sotto la guida di Riccardo da Foggia e Pierre d’Agincourt, «quarum 3 sint simplices et 3 duplices»226; una in più rispetto al progetto originario, che tra l’altro prevedeva la realizzazione di cinque torri, tutte simplices, ovvero a pianta quadrata. In particolare, a Pierre d’Agincourt si deve la costruzione delle tre torri duplices, ovvero a pianta pentagonale, di cui due situate lungo la cortina occidentale227, la terza228 posta a guardia dell’entrata nel cortile principale229. Parte dell’attuale cortina muraria e il rifacimento 222 In un documento del 1269 si legge: «Volumus [...] quatinus [...] ad requisicionem mag. Iohannis carpenterii [...] pro perficiendis domibus castri nostri Melfie» (Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 168, n. 1051, Lucera, 29 aprile 1269). Quand’anche il termine domus possa riferirsi al palacium, in ogni caso non prova alcunché. Tra l’altro, dal contenuto del documento e di altri, dello stesso anno e degli anni immediatamente successivi (ivi, p. 159, n. 1017, Brindisi, 5 marzo 1274; p. 168, n. 1049, San Lorenzo, 4 marzo 1269; p. 168, n. 1050, Foggia, 17 marzo 1269; p. 169, n. 1053, Melfi, 13 settembre 1271; p. 169, n. 1054, Trani, 14 aprile 1272; p. 160, n. 1020, Lagopesole, 23 settembre 1274: «reparacio castri Melfie reparari poterat pro unc. aur. 49 tar. 26 gr. 5»), non si evince l’esistenza di un cantiere attivo. Probabilmente si era ancora nella prima fase di predisposizione degli atti amministrativi e contabili prima dell’espletamento dell’appalto. 223 Sthamer, Dokumente zur Geschichte, cit., vol. II, p. 174, n. 1076, Capua, 22 aprile 1278 e p. 175, n. 1081, Capua, 25 aprile 1278. 224 Ivi, p. 179, n. 1092, Lagopesole, 21 luglio 1278. 225 Dell’opera di scavo e di fondazione della cisterna si ha notizia nel febbraio 1279 («manipulos alios 50 pro fodendis et faciendis fundamentis turrium»): ivi, p. 192, n. 1131, Capua, 22 febbraio 1279. 226 Ivi, p. 177, n. 1085, Roma, 7 giugno 1278. 227 Note come «baluardo dello stendardo» e «baluardo del lione»; cfr. F. Canevaro, Pianta del castello di Melfi, 1695, in Archivio Doria Pamphili, pubblicata in Lenzi, Il castello di Melfi, cit., tav. II. 228 La cosiddetta «torre dell’orologio». 229 La scelta di D’Agincourt di modificare il sistema di fortificazione previsto nel progetto iniziale sollevò non poche lamentele da parte dell’appaltatore e del

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del fossato completano le opere di fortificazione. Tra fabbriche ex novo e rifacimenti di strutture preesistenti, il castello assume una facies angioina che prevale su quella normanno-sveva. Non è un caso se nel 1299, quando si pone il problema di riparare il castrum melfitano, su una extimacio di circa 155 once, 150 erano destinate «pro reparatione novorum edificiorum» e appena 5 circa «pro reparatione operum antiquorum», presumibilmente di età normanno-sveva230. 4.4. Gli ambienti di un castello: il caso di Atella Al XIV secolo risale l’impianto del castello di Atella, eretto al fine di costituire un baluardo di difesa del costruendo abitato fondato per volontà di Giovanni d’Angiò dopo il 1330231. Oggi rimane un torrione cilindrico, parti di una torre più piccola e le fondazioni di una terza torre e delle cortine murarie che nell’insieme individuavano un impianto quadrangolare. Il resto si conosce grazie alle testimonianze documentarie pervenuteci. La fonte da cui si traggono le prime informazioni sulla forma architettonica è in lingua castigliana e risale al XV secolo232. Da essa è dato conoscere l’esistenza di un castello con «quatro turriones y bueno fosso». Da un’altra descrizione più dettagliata, datata 1615, emerge un impianto ben più grande di quello che si può ricavare da un’osservazione immediata di quanto rimane oggi233. superastans. A tal riguardo, in un primo momento il re si pronunziò disponendo di attenersi al contratto iniziale; in seguito, probabilmente informato nel merito tecnico, dovette cambiare idea (Lenzi, Il castello di Melfi, cit., p. 100). 230 G. Fortunato, La badia di Monticchio, Trani 1904, pp. 405-407, doc. XVI, 13 gennaio 1299. 231 Sulla fondazione di Atella cfr. AA.VV., Dal casale alla terra di Atella, Venosa 1996, in particolare i saggi di A. Pellettieri, Dai casali della valle di Vitalba alla nascita della Terra di Atella: territorio, storia feudale, sviluppo urbano e sociale tra medioevo ed età moderna, pp. 21-49 e N. Masini, L’impianto urbano di Atella nel Tardo medioevo, pp. 51-74. 232 G. Vitale, Le rivolte di Giovanni Caracciolo, duca di Melfi, e di Giacomo Caracciolo, conte di Avellino, contro Ferrante I d’Aragona, in «Archivio storico per le province napoletane», serie III, 5-6, 1966-67, p. 34. 233 Da A. Pellettieri, Castelli e nuclei demici della regione del Vulture tra Normanni, Svevi e Angioini, in Fonseca (a cura di), Castra ipsa, cit., p. 56, sono tratti i brani del documento che si trova in Archivio di Stato di Napoli, Archivio Caracciolo Torella, 121/11, Apprezzo della Terra di Atella fatto nel 4 aprile 1615 dal tavolario napoletano Orazio Grasso.

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In origine il castello era una vera e propria cittadella fortificata, separata dall’abitato mediante un fossato e un recinto murario. Si entrava mediante «un ponte di taccole a levatura sopra il quale» vi era «una porta» cui ne seguiva un’altra «con la guarda porta» (guardiola). Superata quest’ultima si apriva allo sguardo «un cortiglio» tanto grande da alimentare ben due cisterne «atte a tener acqua». Nei passi successivi la descrizione si fa sempre più interessante per quanto riguarda la distribuzione e la destinazione d’uso dei vari ambienti. Sul piano del cortile vi erano «una cocina grande con forno, con una dispensa, et saglituro». Quest’ultimo era una sorta di montacarichi che serviva «per portare le vivande coperte» ai piani superiori del castello. Sul cortile affacciavano due stalle, di cui una «grandissima con le balausti intorno», «dei lochi da tener paglia [...] un cellario, et tre altre stanze […] in una delle quali» si trovava un secondo forno grande «per cocere il pane». Da un’altra stanza si usciva dal cortile per andare verso la «Cittadella per ponte». Attraverso una gradinata si saliva al piano residenziale, dove si incontrava per prima una «loggetta coverta», dalla quale si poteva entrare in un «salone» e in una cappella. Collegato al salone, sul lato lungo vi era un «braccio» con quattro camere. A una testata dello stesso salone vi era l’entrata in uno dei torrioni, su un altro vi era un «camerone con una loggia coverta, quale si chiama Belvedere […] in capo della quale vi è una cameretta, et appresso segue un’altra sala, la quale serveria per altro abitamento et seguitando detta Sala si ritrovano sette altre camere in piano». Come emerge da questa descrizione, il piano nobile si presentava molto articolato, con camere o direttamente comunicanti o collegate tramite spazi «filtro» quali logge e saloni. Il castello qui descritto, nato nel Trecento per usi difensivi, agli inizi del XVII secolo era un vero e proprio palazzo residenziale. È presumibile che esso sia stato concepito sin dall’inizio con dimensioni abbastanza rilevanti. Si consideri a tal riguardo che alla fine del XIV secolo fu capace di ospitare il quartier generale dell’esercito di Ladislao, impegnato a ristabilire l’ordine e a riaffermare il proprio dominio sulle terre di Basilicata. Inoltre il fortilizio fu tanto forte e autosufficiente da opporre resistenza all’assedio dei francesi nel 1496, uno degli ultimi atti bellici che portarono alla fine della sovranità aragonese sull’Italia meridionale. Fu probabilmente uno degli ultimi assedi ai quali un castello come quello di Atella, concepito alla maniera medievale, ancorché già

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dotato di accorgimenti difensivi che «guardavano» all’artiglieria, poteva resistere. Le nuove armi e la polvere da sparo stavano già rivoluzionando l’architettura fortificata. Qualche decennio prima, a poche decine di chilometri, Pirro del Balzo avrebbe già costruito il castello di Venosa.

ARTI FIGURATIVE: SECOLI XI-XIII di Marina Falla Castelfranchi Se, in relazione al periodo dell’occupazione bizantina della regione, fra X e XI secolo, si sono conservate, apparentemente, scarne tracce relative alla pittura monumentale di direzione bizantina, il periodo che coincide con l’età normanna e sveva appare al contrario ricco di testimonianze pittoriche: esse sono coagulate per lo più a Matera, dove la produzione presenta caratteri omogenei e raffronti persuasivi con gli affreschi dell’area tarantina, sì da permettere, in alcuni casi, di ipotizzare l’attività di botteghe itineranti attive in particolare nella prima metà del XIII secolo, e nella zona del Vulture, ove si registra una più eclatante influenza della cultura artistica angioina. In realtà, il quadro è ben più ampio e variegato di quanto non appaia, con punte di straor­dinaria qualità, legate a una committenza di alto rango, ad esempio la decorazione pittorica di direzione tardo-comnena della cattedrale di Anglona e quella della chiesa monastica italo-greca di San Michele Arcangelo presso San Chirico Raparo, ambedue del tardo XII secolo – per quest’ultima si tratta della seconda fase. Si tenga poi presente che in origine il territorio era più ampio, e comprendeva parte dell’attuale provincia di Salerno: ciò giustifica, in alcuni casi, una certa omogeneità stilistica che permea alcuni cicli, quali quello di san Giovanni a Vietri di Potenza e quello della cappella funeraria di San Filadelfo in Santa Maria di Pattano presso Vallo della Lucania, oggi in provincia di Salerno. Si tenga conto anche del fatto che numerosi monasteri bizantini del territorio del principato longobardo di Salerno dipendevano dal più importante monastero italo-greco della Lucania, quello dei Santi Elia e Anastasio di Carbone, una sorta di basilike¯ mone¯ fondata da Luca Karbounes nella seconda metà del X secolo1. In linea 1

V. von Falkenhausen, Il monastero dei SS. Anastasio ed Elia di Carbone in epoca

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generale, e soprattutto dal pieno XII secolo in poi, nell’area materana il latino delle iscrizioni che accompagnano gli affreschi sostituisce il greco e nella compagine dei santi, quasi tutti orientali, si infiltrano via via santi occidentali il cui culto fu introdotto dai nuovi dominatori, i Normanni, seguiti dagli Svevi e dagli Angioini. Questo processo non interesserà i monasteri bizantini, la cui decorazione pittorica appare ancora allineata alla tradizione bizantina, e in alcuni casi mostra di essere perfettamente aggiornata alle coeve tendenze stilistiche e iconografiche metropolitane. 1. Tradizioni bizantine e influssi occidentali tra il X e il XII secolo Fra le più antiche attestazioni si pongono i dipinti murali superstiti della chiesa di San Giovanni a Vietri di Potenza, di cui si conserva la decorazione delle tre absidi, staccata e oggi custodita presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico (PSAE) di Matera. L’edificio che la ospitava, di piccole dimensioni, a navata unica, con tre piccole absidi aggettanti direttamente innestate su un bancone roccioso, è costruito con una tecnica rozza che impiega conci irregolari di pietra calcarea messi in opera con ciottoli di fiume, frammenti di laterizio di riutilizzo, in specie tegole, e malta, cioè un sistema costruttivo peculiare dell’Italia meridionale a partire dal IX-X secolo. Le absidi sono innestate non al centro della parete bensì spostate verso destra, in modo da creare un invaso articolato in due ambienti, pur se privo di divisioni interne, ognuno dei quali doveva essere destinato a svolgere distinte funzioni. Nel settore sinistro, infatti, privo di absidi, qualificato da un impianto rettangolare allungato, è probabilmente da riconoscersi un parekklèsion2, ovvero uno spazio in cui si svolgevano funzioni funerarie, come indicano alcuni casi analobizantina e normanna, in C.D. Fonseca, A. Lerra (a cura di), Il monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna. Nel millenario della morte di S. Luca Abate. Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Università degli Studi della Basilicata in occasione del Decennale della sua istituzione (Potenza-Carbone, 26-27 giugno 1992), Galatina 1996, pp. 61-87. 2 Sui parekklèsia, in generale, cfr. G. Babic´, Les chapelles annexes des églises byzantines. Fonctions liturgiques et programmes iconographiques, «Bibliothèque de Cahiers Archéologiques», III, Paris 1969 e M.J. Johnson, s.v. Parekklesion, in A.P. Kazhdan et alii, The Oxford Dictionary of Byzantium, vol. III, New York-Oxford 1991, pp. 1578 sg.

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ghi, come quelli situati presso la chiesa di San Pietro di Otranto3, la chiesa detta dello Spedale a Scalea4, la Panaghia di Rossano5, la chiesa funeraria di San Filadelfo di Pattano6, tutti esempi databili tra fine X e XI secolo, e via enumerando: inoltre, nella maggior parte dei casi, essi risultano aggiunti agli edifici preesistenti a non molta distanza cronologica dalla loro fondazione, come sembra il caso del parekklèsion della chiesa di Vietri di Potenza, dove è ben leggibile una cesura nel muro orientale. Una piccola nicchia all’estremità della parete meridionale, presso l’area del santuario, può, forse, essere interpretata come la nicchia della pròthesis, ove si preparavano la patena con il pane santo (prosphorà) e il calice dell’eucarestia7. Lungo le pareti interne si intravedono numerosi lacerti di affreschi che lasciano supporre la presenza di un probabile ciclo pittorico, in aggiunta alla decorazione delle absidi, cui si accennava. Essa si dispiega nell’abside centrale e in quelle laterali e presenta una decorazione abbastanza singolare. Nel catino (fig. 1) è visibile una struttura da identificare probabilmente con i montanti di un trono su cui era assiso Cristo, rappresentato fra due angeli, come sembra potersi desumere da un’immagine parzialmente conservata a destra, di taglia modesta: si trattava dunque di una Maiestas Domini, con alcune varianti, ovvero una scelta segnata da chiare suggestioni paleocristiane: gli apostoli, in origine, sembra, solo sei – o cinque – scelti secondo un criterio gerarchico, si dispongono infatti nel cilindro dell’abside centrale, dove erano in origine campite quattro figure, rappresentate a coppia ai lati di una decorazione verticale a graticcio, che anima anche la zoccolatura, mentre altri due sono 3 F. D’Andria, Otranto. Ricerche archeologiche a S. Pietro, in C.D. Fonseca (a cura di), Le aree omogenee della Civiltà rupestre nell’ambito dell’Impero bizantino: la Cappadocia. Atti del quinto Convegno internazionale di studio sulla Civiltà rupestre medioevale sul Mezzogiorno d’Italia (Lecce-Nardò, 12-16 ottobre 1979), Galatina 1981, pp. 223-33. 4 M. Falla Castelfranchi, Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli X-XIX), in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture dei territori. Atti dell’VIII e IX Incontro di studi bizantini, Reggio Calabria 1985 e 1988, Soveria Mannelli 1991, pp. 21-42, in particolare pp. 28 sgg. 5 L. Altomare, A. Coscarella, Rossano e il suo territorio. Un progetto di musealizzazione, Cosenza 1991, pp. 58 sgg. 6 M.R. Marchionibus, Il Cilento bizantino. Monastero di Santa Maria de Pactano, Torchiara 2004. 7 Cfr. Ead., La chiesa di San Giovanni a Vietri di Potenza e la sua decorazione pittorica, in Atti del VI Congresso nazionale di studi bizantini (Catania-Messina, 2-5 ottobre 2000), Catania 2004, pp. 491-523.

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Fig. 1. Matera, deposito della Soprintendenza PSAE. Decorazione dell’abside della chiesa di San Giovanni a Vietri di Potenza (foto M. Falla).

incastonati nelle absidi laterali. Circa l’abside centrale è ben riconoscibile, a destra, san Paolo e forse, nell’apostolo giovane e sbarbato accanto, san Giovanni: Marchionibus, che di recente ha scritto un saggio su questi affreschi, ha notato, nella seconda figura a sinistra, di cui rimangono esigui lacerti, impressi sull’intonaco i resti di una mano che stringe, forse, delle chiavi, ipotizzando dunque che al centro del cilindro, ai lati della decorazione a graticcio, fossero rappresentati i corifei degli apostoli, Pietro e Paolo. Circa gli altri santi campiti nelle absidiole, in quella di sinistra è probabilmente effigiato sant’Andrea (fig. 2), che indossa, come gli altri, tunica bianca e pallio rosso, mentre nell’absidiola destra compare un santo giovane, dall’abbigliamento diverso, con una tunica rossa sotto un mantello bianco, decorata da un motivo a triangoli, il quale inoltre regge una croce e non il rotulo, come le altre figure. La vena decisamente espressiva, il violento cromatismo, le ombreggiature geometrizzate, la resa piatta, quasi sgram-

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Fig. 2. Matera, deposito della Soprintendenza PSAE. Sant’Andrea dalla chiesa di San Giovanni a Vietri di Potenza (foto M. Falla).

maticata delle pieghe, sono stilemi che rinviano a orizzonti piuttosto orientali che occidentali, come era stato supposto, e come del resto indicherebbero anche alcune lettere greche pertinenti al nome del santo, presso la figura di sant’Andrea. Questi affreschi sono stati ipoteticamente collegati dalla Grelle Iusco alla pittura medievale catalana e assegnati al tardo XII secolo, alla prima metà dello stesso secolo da Pace8. Una linea genealogica innanzitutto italo-greca permette di cogliere persuasivi confronti con alcuni affreschi di X-XI secolo in gran parte pertinenti a fondazioni monastiche bizantine nell’attuale provincia di Salerno, situate a non molta distanza, in linea d’aria, da 8 A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981, p. 20 e fig. 13; cfr. inoltre V. Pace, La pittura medievale nel Molise, in Basilicata e Calabria, in C. Bertelli (a cura di), La pittura in Italia. L’Altomedioevo, Milano 1994, pp. 270-88, in particolare p. 281 e figg. 338-39.

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Vietri di Potenza. Si tratta della decorazione pittorica superstite della cappella funeraria di San Filadelfo, ubicata nel complesso monastico bizantino di Santa Maria di Pattano, in specie i santi vescovi9; della decorazione, inedita, pertinente a un probabile Giudizio finale, conservata nell’oratorio che, probabilmente tra fine X e inizi XI secolo, si inalveolò, trasformandolo in parte, nel battistero di Marcellianum e, soprattutto, della testa oggi visibile all’esterno della chiesa di Santo Stefano a Sala Consilina10. La linea genealogica si dirama poi verso la Grecia – ad esempio alcuni affreschi pertinenti alla decorazione del primo strato delle chiese di Santo Stefano a Kastoria e Taxiarchi Metropoleos, della fine del X secolo, fino a comprendere numerosi casi di pitture coeve della Cappadocia11 e di aree periferiche quali la Georgia, come nel caso degli affreschi, di stile popolare e arcaicizzante, della chiesa di Santa Barbara a Khé, in Svanezia (Georgia), dell’XI-XII secolo12. Per quanto riguarda, in linea generale, il periodo compreso fra l’XI e il XII secolo, la produzione superstite è scarna e comprende opere sia di tradizione bizantina sia occidentale, in relazione alla situazione storica e geografica della regione stessa. Esigui lacerti di affreschi databili entro l’XI secolo si scorgono sul pilastro di sinistra, oggi esterno, della cripta di San Nicola dei Greci a Matera, in una sorta di palinsesto dove lo strato più antico – ovvero una figura di santo a sinistra e il volto di Cristo, contraddistinto da un probabile nimbo crucigero13, a destra – sembra in relazione all’escavazione della cripta e alla presenza di alcune tombe scavate nel piano di calpestio, confermando la valenza funeraria e l’utilizzo «privato» della maggior parte delle chiese rupestri dell’Italia meridionale14. Allo scorcio dello stesso secolo si può attribuire la decorazione superstite della cripta di San Nicola dell’Annunziata, presso Matera, di cui si legge soprattutto l’immagine di Cristo nella piccola abside15, segnata da una vena Marchionibus, Il Cilento bizantino, cit. Ivi, pp. 73 sgg. 11 Ibid. 12 T. Velmans, L’église de Khé, en Géorgie, in «Zograf» 10, 1979, pp. 71-82. 13 M. Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991, p. 81. 14 Ivi, pp. 89 sg. 15 Circolo La Scaletta (a cura di), Le Chiese rupestri di Matera, Roma 1966, pp. 253 sg.; F. Dell’Aquila, A. Messina, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Bari 1998, p. 190. 9

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linearistica che lo avvicina a opere dell’XI secolo, come il Cristo fra angeli della cripta dei Santi Stefani a Vaste (Lecce) e le immagini sulle porte bronzee importate da Bisanzio in Italia meridionale16. Uno strato di affreschi da attribuire ancora una volta all’arco dell’XI secolo è quello che si intravede nella parete sinistra e su quella di fondo dell’edicola di San Michele a Monticchio, decorata con affreschi del XII secolo17: in particolare sotto l’immagine del primo santo, a sinistra, emergono tracce di un costume di tipo imperiale decorato con perle e gemme, forse da riferire all’immagine dell’arcangelo Michele, titolare dell’insediamento, anche alla luce del fatto che, di consueto, nelle chiese rupestri, delle tre iconografie principali legate alla rappresentazione di san Michele prevale quella in abiti imperiali18. Particolare interesse riveste la decorazione della cripta della Madonna degli Angeli presso Matera, distribuita entro un ampio arco di tempo, dalla fine dell’XI-inizi XII secolo al pieno XIII secolo – alcuni dipinti murali furono asportati nel 196219. Fra questi, una testa di santo vescovo, con occhi bruni segnati da una doppia palpebra, cannula nasale ben evidenziata, orecchie rese graficamente e guance scavate da una linea scura che segue i contorni del volto, si può probabilmente datare nel periodo compreso tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo: ciò anche sulla base di confronti con opere più o meno coeve, ad esempio la fase di XI secolo, e in particolare i vescovi nel cilindro, della chiesa detta dello Spedale a Scalea20. A questo periodo si può forse legare un’altra testa, questa volta di un santo monaco con cucullo, nella stessa chiesa rupestre, ma oggi scomparsa21, segnata dalla medesima tendenza. Pure ascrivibile al maturo XI secolo

Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina, cit., pp. 71 sgg., fig. 56. Pace, La pittura medievale, cit., p. 281, figg. 356-57. 18 M. Falla Castelfranchi, La persistenza della tradizione iconica nella pittura rupestre di Puglia e Basilicata, in La legittimità del culto delle icone. Oriente e Occidente affermano insieme la fede cristiana. Atti del III Convegno storico interecclesiale, Bari 1987, Bari 1988, pp. 297-314, in particolare p. 305. 19 M. Tommaselli (a cura di), Guida alle chiese rupestri del Materano, Matera 1988, figg. alle pp. 68, 69, 85 e 86. 20 M. Falla Castelfranchi, Disiecta membra. La pittura bizantina in Calabria (secoli IX-XII), in W. Tronzo (a cura di), Italian Church Decoration of the Middle Ages and Early Renaissance. Functions, Forms and Regional Traditions. Ten Contributions to a Colloquium held at Villa Spelman, Florence, 1987, Bologna 1989, pp. 81-100, figg. 12, 14, 18. 21 Cfr. Tommaselli (a cura di), Guida alle chiese rupestri, cit., fig. a p. 85. 16 17

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Fig. 3. Pignola (Potenza), Chiesa di San Donato: coppia di santi (foto Soprintendenza PSAE, Matera).

sembra il pannello con due santi – a tutt’oggi inediti –, una donna a sinistra, in cattivo stato di conservazione, e un uomo a destra, serrati entro riquadri definiti da una spessa cornice: (fig. 3) esso si conserva oggi presso la Soprintendenza di Matera, ma in origine nella chiesa di San Donato a Pignola (Potenza), ridotta allo stato di rudere22. La figura maschile, particolarmente interessante poiché reca in testa una corona perlinata da cui aggettano, in altezza, segmenti anch’essi perlinati a terminazione circolare, benedice con la destra, mentre con la sinistra regge un grosso libro: è visibile un elemento rettangolare decorato da una croce, che sembra tenuto in mano dal santo, assieme al libro. Potrebbe trattarsi della coppia Elena-Costantino, particolar22 Ho preso visione di questo pannello attraverso una fotocopia procuratami dal dott. Giuseppe Castelluccio, dottorato presso la facoltà di Beni culturali dell’Università di Lecce, che ho seguito in relazione alla ricerca sulla pittura medievale in Basilicata nel XIII e XIV secolo, cui avevo consigliato di consultare la fototeca della Soprintendenza di Matera: suggerimento rivelatosi utile poiché il dott. Castelluccio vi ha rinvenuto materiale inedito e di grande interesse.

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mente venerata a Bisanzio, ma non in Italia meridionale, se accanto alla testa del santo, a destra, non comparissero alcune lettere, «VE» in alto e più in basso «SA» (?): si potrebbe, a questo punto, pensare al santo sovrano Venceslao di Boemia23, se le lettere «VE» fossero quelle iniziali del nome, ma comunque non credo che questo santo, patrono della Boemia, fosse venerato in Italia meridionale. L’ipotesi però potrebbe essere non del tutto peregrina se si pensi ai suoi legami con sant’Adalberto di Praga, anch’egli vissuto nel X secolo, a quelli di sant’Adalberto con Ottone III e, ancora, tra sant’Adalberto e il padre Ottone II con l’ambito italo-greco24. Un posto particolare occupa, nel quadro della pittura medievale lucana del tardo XI secolo, per la tematica, desueta, e le valenze storiche, il pannello nella cripta dei Santi Pietro e Paolo della chiesa di San Francesco d’Assisi a Matera, che forse rappresenta un episodio legato alla visita del papa Urbano II a Matera nel 1093 (fig. 4), anche se alcuni studiosi datano più tardi l’affresco e ne propongono letture diverse25: i personaggi – il papa, se si tratta di lui, seduto in trono che riceve l’omaggio di un prelato o di un abate, e una figura monumentale di santa, a destra – appaiono come bloccati entro uno spazio esiguo e, se è vero che la scena rappresenta la celebre visita, l’episodio appare quasi marginale rispetto alla figura della santa non identificata, di taglia maggiore. Anche in questo caso poi, come sembra peculiare di una parte della produzione pittorica lucana, l’ingenuità di certe soluzioni, ad esempio le architetture che fanno da quinta, più o meno della stessa taglia dei personaggi, è riscattata dai vividi colori della tavolozza e dalla preziosità di certi dettagli, come la dalmatica del papa, che presenta elementi bizantini: lo stile lineare e certi stilemi, ad esempio i grandi occhi bruni e fissi, potrebbero confermare una sua datazione tra fine XI-inizi XII secolo. 23 R. Turek, s.v. Venceslao, patrono nazionale della Boemia, santo martire, in Bibliotheca Sanctorum, vol. XII, Roma 1969, cc. 991-1000. 24 Su questi rapporti cfr. F. Burgarella, Aspetti della cultura greca nell’Italia meridionale in età bizantina, in Fatti, patrimoni e uomini intorno all’abbazia di S. Nilo nel Medioevo. Atti del I Colloquio internazionale, Grottaferrata 1985, Grottaferrata 1988, pp. 19-46, in particolare pp. 40 sg. 25 Pace, La pittura medievale, cit., p. 281, fig. 355 e R. Villani, Pittura murale in Basilicata, Potenza 2000, pp. 38 sgg., con la bibliografia precedente. Sulla presenza di Urbano II a Matera cfr. M. Padula, Il pontefice Urbano II a Matera. Centenario 1093-1993, Matera 1993 e P. Dalena, Istituzioni religiose e quadri ambientali nel Mezzogiorno medievale, Cosenza 1996, p. 96.

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Fig. 4. Matera, Cripta dei Santi Pietro e Paolo: visita di Urbano II a Matera (foto da Circolo La Scaletta [a cura di], Le chiese rupestri di Matera, Roma 1966).

Grande rilevanza doveva rivestire la primitiva decorazione della chiesa monastica italo-greca di San Michele Arcangelo presso San Chirico Raparo, fondato nel tardo X secolo dal celebre monaco siculo-greco san Vitale da Castronuovo – della cui originaria costruzione sono state di recente rinvenute cospicue tracce26. Circa la decorazione pittorica, oggi sono visibili solo scarni lacerti da riferire soprattutto alla seconda stagione decorativa, del tardo XII secolo: sotto la figura del diacono Lorenzo (fig. 5), campito sulla porzione sinistra della parete absidale, emergono lievi tracce di uno strato pittorico più antico. Bertaux segnalò significativi affreschi nell’abside,

26 G. Bertelli, E. Degano, S. Angelo a San Chirico Rapàro, in C. Carletti, G. Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte S. Angelo, 18-21 novembre 1992), Bari 1994, pp. 427-52 e P. Favia, Primi risultati dell’indagine archeologica nell’Abbazia di Sant’Angelo al Monte Rapàro, ivi, pp. 53-86.

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Fig. 5. San Chirico al Raparo (Potenza), Chiesa di San Michele Arcangelo: parete absidale, particolare della figura di san Lorenzo (foto M. Falla).

da attribuire a due periodi diversi27: la fase più antica, di fine XI-inizi XII secolo, presentava la Deisis nel catino, immagine protagonista di questo spazio significativo nelle chiese bizantine dell’Italia meridionale28 e, nel cilindro, la comunione degli apostoli, con il Cristo sdoppiato e gli apostoli divisi in due gruppi introdotti da Pietro e Paolo, ai lati dell’altare, scena che, in questa posizione, compare spesso nelle chiese bizantine a partire dal X, ma soprattutto dall’XI 27 E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903, pp. 122 sgg. e figg. 40-41. 28 M. Falla Castelfranchi, Del ruolo dei programmi iconografici absidali nella pittura bizantina dell’Italia meridionale, e di un’immagine desueta e colta nella cripta della Candelora a Massacra, in C.D. Fonseca (a cura di), Il popolamento rupestre dell’area mediterranea: la tipologia delle fonti. Gli insediamenti rupestri della Sardegna. Atti del Seminario di studio, Lecce 19-20 ottobre 1984, Galatina 1988, pp. 187-208; sulla decorazione delle absidi delle chiese rupestri della Puglia e della Basilicata cfr., recentemente, K.R. Althaus, Die Apsidenmalereien der Höhlenkirchen in Apulien und in der Basilikata. Ikonographische Untersuchungen, «Schriften zur Kulturwissenschaft», 11, Hamburg 1997.

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secolo29 e che, fino a poco tempo fa, sembrava l’unica superstite in Italia meridionale. Di recente infatti io stessa ho pubblicato un affresco che rappresenta insieme la comunione degli apostoli e la Trinità liturgica – le figure di Cristo sono due e non tre – a Cimitile (Napoli), da assegnare probabilmente al tardo X secolo, che rappresenta una delle più antiche attestazioni della comunione degli apostoli in generale. Nello stesso anno Piazza segnalava un’altra raffigurazione della stessa scena nella chiesa rupestre del Salvatore presso Vallerano (Viterbo), databile, a suo avviso, tra la seconda metà del IX secolo e il maturo X secolo30: nella nostra penisola, dunque, sembrano attestate alcune fra le più antiche raffigurazioni di questa scena31, di origine segnatamente orientale. Nel corso del XII secolo, in sincronia con lo spostamento dell’asse normanno verso la Sicilia, la produzione pittorica di direzione bizantina in Basilicata, ma anche in Puglia, subisce, a giudicare dalle testimonianze superstiti, un deciso ridimensionamento: sono infatti rari i casi di affreschi datati e databili entro questo arco di tempo, coagulati soprattutto fra la metà e lo scorcio del XII secolo. In questa temperie storica e culturale sembrano rinsaldarsi i legami con Bisanzio e con la coeva pittura bizantina, che permeerà la produzione lucana almeno

29 C. Walter, Art and Ritual of the Byzantine Church, «Birmingham Byzantine Series», I, London 1982, pp. 184 sgg., 215, 231; C. Jolivet-Lévy, Les églises byzantines de Cappadoce. Le programmes iconographiques de l’abside et des ses abords, Paris 1991, pp. 140 sgg.; A. Weil Carr, s.v. Lord’s Supper, in Kazhdan et alii, The Oxford Dictionary of Byzantium, cit., vol. II, p. 1251. 30 S. Piazza, Une Communion des Apôtres en Occident. Le cycle pictural de la Grotte del Salvatore près de Vallerano, in «Cahiers Archéologiques», 47, 1999, pp. 137-58. 31 Seppure diversamente orientata – la scena della comunione degli apostoli nella grotta di Vallerano è campita sulla parete occidentale, in relazione all’altare –, si tratta inoltre, se si accetta la datazione di Piazza, a mio avviso molto convincente, di una delle più antiche, se non addirittura della più antica raffigurazione della scena nell’abside, dato che in Cappadocia, dove sono attestate tradizionalmente le più antiche testimonianze della stessa scena, essa non compare ancora nell’abside principale. Va però precisato che in assoluto la più antica raffigurazione della comunione degli apostoli nell’abside principale dell’edificio di culto sembra quella campita nell’abside della chiesa sud del celebre complesso monastico copto di Bawit, probabilmente dell’VIII secolo: questo caso farebbe ipotizzare che la rappresentazione della scena nella pittura monumentale, e il suo dipanarsi non certo casuale nell’abside principale per la sua valenza innanzitutto liturgica, siano stati sperimentati in ambito monastico.

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fino al pieno XIII secolo, quando, in epoca tardo-sveva e soprattutto angioina, la variegata cultura artistica di Napoli, oramai centro egemone, via via inizia a minarne la compattezza. In linea generale inoltre, la produzione pittorica del pieno XII secolo mostra agganci con le tendenze più innovative della pittura comnena e soprattutto tardo-comnena, con testimonianze di alta qualità che si pongono sullo stesso piano qualitativo dei grandi cicli bizantini contemporanei, sottolineando il livello del milieu greco e delle committenze. In alcune chiese rupestri di Matera, dove si conservano dipinti murali del maturo XII secolo, va segnalata, in aggiunta alla finezza di esecuzione e al grado di aggiornamento delle maestranze, anche l’adeguarsi, sotto il profilo iconografico, alle tendenze metropolitane: ad esempio, compare più spesso che in altre aree dell’Italia meridionale la Vergine con Bambino fra arcangeli al posto della Deisis. Un deciso fare tardo-comneno svela l’immagine, in parte acefala, della Madonna con Bambino a San Giovanni in Monterrone, segnata dal panneggio, fluido e nello stesso tempo corposo, del costume del Bambino, che si sovrappone a un sant’Andrea di cui si conserva la testa32. In campo iconografico, la decorazione delle absidi superstiti di Matera si mostra aggiornata ai modelli bizantini per la presenza, in alcuni casi, dell’immagine della Vergine con Bambino fra angeli, ad esempio nella cripta dei Santi Pietro e Paolo33, dove la Vergine è serrata dagli arcangeli Michele e Gabriele vestiti del ricco costume imperiale bizantino, sostanzialmente immota: qui l’artista si riscatta indugiando nei particolari decorativi, esaltati dalla vivida cromia. Di più ampio respiro appare la più o meno coeva Vergine con Bambino fra arcangeli della cripta della Madonna delle Croci (fig. 6), la cui cronologia è stata di recente confermata da Marcato al tardo XII-ini­ zio XIII secolo, individuandone un deciso accento ancora una volta comneno, con confronti puntuali che vanno dalla coeva Vergine con Bambino fra angeli della cripta di Poggiardo a certi esempi tar-

32 Sul problema delle sovrapposizioni e delle ridipinture che interessano alcuni dipinti murali rupestri della Basilicata cfr. E. Marcato, Pittura rupestre in Basilicata: il problema della sovrapposizione e della ridipintura in alcune immagini ad affresco, in «Ocnus. Quaderni della Scuola di specializzazione in archeologia dell’Università degli studi di Bologna», 5, 1997, pp. 137-50. 33 Sulla cripta cfr. recentemente Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., pp. 35 sgg.

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Fig. 6. Matera, Cripta della Madonna delle Croci: abside, Vergine con Bambino fra Arcangeli (da Circolo La Scaletta [a cura di], Le Chiese rupestri di Matera, cit.).

do-comneni ciprioti34. La Vergine, che regge il Bambino benedicente con la destra, è assisa su un monumentale trono dallo schienale a lira, verso cui si chinano due arcangeli con turibolo: la composizione, giocata sui toni del rosso, giallo oro e azzurro cupo, è campita, come spesso si nota nella pittura bizantina, su uno sfondo a fasce blu, giallo al centro. La sua testa mostra notevoli affinità, io credo, con la bella testa della Vergine, proveniente dalla cripta materana della Madonna delle Tre porte e oggi conservata presso la Soprintendenza PSAE di Matera, che si data grosso modo allo stesso periodo, a giudizio di Pace35, ma che comunque potrebbe essere leggermente più tarda di 34 E. Marcato, L’affresco della Madonna delle Croci: nuovi aspetti sull’adozione del canone bizantino nel territorio di Matera, in F. Conca (a cura di), Byzantina Mediolanensia. Atti del V Congresso nazionale di studi bizantini, Milano1994, Soveria Mannelli 1996, pp. 275-89. 35 Pace, La pittura medievale, cit., p. 281, fig. 360.

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quella della Madonna nella cripta della Madonna delle Croci per la decorazione floreale all’interno dell’aureola. Certo è che, a giudicare dalle testimonianze pittoriche superstiti, nella Basilicata medievale il culto verso la Vergine con Bambino appare ben radicato, si esprime in diversi modi sia nella pittura monumentale sia in quella su tavola, a partire soprattutto dal XIII secolo36. Non v’è dubbio che, all’interno di questa compagine l’elemento latino, al contrario di ciò che accade in riferimento alla produzione pittorica del Salento, vero enclave greco, domina nelle iscrizioni e affiora nella scelta dei santi: accanto ai santi bizantini, infatti, compaiono santi occidentali quali Leonardo, Gilio, Donato – ma si tratta del Donato di Arezzo o piuttosto di Donato di Èvria, anch’esso vescovo, il cui culto si trasferì, insieme con gli abitanti, dall’Epiro a Umbriatico in Calabria, Ἐυϱία nelle fonti greche medievali, di cui è patrono, almeno dal 1115?37 – Agnese, Francesco e via enumerando. Purtuttavia, allo scorcio del XII secolo si situano due episodi di straordinaria rilevanza, legati a un monastero italo-greco e a una cattedrale latina dove la decorazione pittorica, della più alta tradizione bizantina, accompagnate da iscrizioni in greco, riflette, nel programma iconografico, la posizione della regione fra Bisanzio e l’Occidente. Mi riferisco ai dipinti murali della seconda fase del monastero italo-greco di San Michele Arcangelo a San Chirico Raparo (Potenza), e della cattedrale latina di Santa Maria di Anglona (Potenza) che, per l’alta qualità e l’articolazione del programma iconografico, sono da porsi accanto ai più celebri esempi della pittura tardo-comnena. Nell’abside della prima Bertaux38 segnalò quattro immagini di santi vescovi con cartigli recanti iscrizioni liturgiche39, allora ben conservati, di cui pubblicò una fotografia, che avevano obliterato la ricordata scena della comunione degli apostoli, in omaggio a una tendenza dei cicli iconografici bizantini attestata a partire dal XII secolo maturo: oggi nell’abside si intravedono solo scarne tracce di affresco, fra cui si segnala l’immagine, solo in parte conserP. Belli D’Elia (a cura di), Icone di Puglia e Basilicata dal Medioevo al Settecento. Bari, Pinacoteca Provinciale 9 ottobre 1988-7 gennaio 1989, Milano 1988. 37 E. Follieri, S. Donato vescovo di Èvria in Epiro, in Conca (a cura di), Byzantina Mediolanensia, cit., pp. 165-75. 38 Cfr. supra, nota 27. 39 Le iscrizioni sono state lette da M. Berger, Les peintures de l’abside de S. Stefano à Soleto, in «Mélanges de l’École Française de Rome-Moyen Age», 94, 1982, pp. 121-70, in particolare p. 144. 36

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Fig. 7. San Chirico al Raparo (Potenza), comune. Frammenti di affresco con Eva dalla chiesa di San Michele Arcangelo (da G. Bertelli, E. Degano, S. Angelo a San Chirico Rapàro, in C. Carletti, G. Otranto (a cura di), Culto e insediamenti micaelici nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo. Atti del Convegno internazionale (Monte S. Angelo, 18-21 novembre 1992), Bari 1994.

vata, del diacono Lorenzo (fig. 5), vestito di bianco, sistemata presso lo spiccato sinistro dell’abside, ubicazione canonica per le figure dei diaconi nella pittura bizantina40. Inoltre, circa la decorazione della seconda fase della chiesa di San Michele presso San Chirico Raparo, Bertelli di recente ha confermato la datazione alla fine del XII secolo, recuperando preziosi frammenti di alcuni episodi della Genesi, in particolare la figura di Eva (fig. 7), accompagnata da iscrizioni in greco: la studiosa ha anche posto in rilievo la rarità delle scene del Vecchio Testamento nella pittura bizantina dell’Italia meridionale, avanzando precisi confronti con San Pietro a Otranto e Anglona41. Non appare 40 G. Bertelli, Gli affreschi della cripta detta di S. Lorenzo nel territorio di Fasano, in Fonseca (a cura di), Il popolamento rupestre dell’area mediterranea, cit., pp. 209-20. 41 Cfr. supra, nota 26.

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chiaro, poi, se vi fosse uno stretto rapporto con un eventuale ciclo del Nuovo Testamento: la presenza delle scene del Vecchio Testamento a destra potrebbe evocare modelli «romani», nella fattispecie petrini, dato che, come è noto, nella navata centrale della basilica di San Pietro, sulla parete destra, si susseguivano quarantasei scene del Vecchio Testamento e altrettante del Nuovo erano campite su quella sinistra42. Sulla presenza di un ciclo del Nuovo Testamento in questo edificio ritengo non vi siano dubbi, ed è anche probabile che questo si dipanasse sulla parete sinistra, come del resto avverrà, nella stessa regione, nella contemporanea decorazione di Santa Maria di Anglona. I modellati morbidi, l’aura classicheggiante che permea queste frammentarie immagini, campite su uno sfondo blu lapislazzuli, pongono la decorazione della seconda fase di questa chiesa monastica italo-greca, che dipendeva dal più celebre monastero bizantino di Lucania, quello di Sant’Elia di Carbone, fra le più alte espressioni della pittura tardo-comnena. Come è emerso da una mia ricerca sulla frammentaria decorazione pittorica del celebre monastero italo-greco di San Filippo di Fragalà presso Frazzanò (Messina), costruito su committenza di Ruggero I il gran conte nel 1090, con molta probabilità sulla parete sinistra della chiesa monastica si svolgevano scene del Vecchio Testamento, di cui rimane un lacerto, peraltro di non facile lettura, mentre alcune scene relative a miracoli di Cristo si intravedono sulla parete destra: e dunque, alla luce di questa preziosa testimonianza, il rapporto fra la decorazione di San Pietro e le chiese italo-greche va anticipato di almeno un secolo, alla fine dell’XIini­zi del XII secolo, epoca cui va a mio avviso attribuita la decorazione pittorica del katholikòn di Fragalà43. A questi stessi ambiti culturali appartiene la coeva decorazione di un edificio con funzioni diverse, una cattedrale di segno latino, Santa Maria di Anglona, a sottolineare come, ancora in età tardo-normanna, 42 Cfr. W. Tronzo, The Prestige of St. Peter: Observation on the Function of Monumental Narrative Cycles in Italy, in «Studies in the History of Art of the National Gallery of Art», 16, 1985, pp. 93-112; H.L. Kessler, L’antica basilica di S. Pietro come fonte e ispirazione per la decorazione delle chiese medievali, in M. Andaloro, F. Gandolfo (a cura di), Fragmenta picta. Affreschi e mosaici staccati del Medioevo romano, catalogo della mostra, Roma 1989, pp. 45-64; W. Tronzo, I grandi cicli pittorici romani e le loro influenza, in Bertelli (a cura di), La pittura in Italia, cit., pp. 355-68. 43 M. Falla Castelfranchi, I modelli culturali di Ruggero I. Con particolare riferimento alla decorazione pittorica del monastero italo-greco di S. Filippo di Fragalà, in S. Tramontana (a cura di), Ruggero I, Serlone e l’insediamento normanno in Sicilia. Convegno internazionale di studi (Troina, 5-7 novembre 1999), s.l. 2001.

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Fig. 8. Anglona (Matera), Cattedrale: interno, parete destra della navata centrale, Storie dell’Antico Testamento e profeti (foto M. Falla).

la sola pittura diffusa, e compresa, in questi territori, pure in ambiti latini, fosse quella bizantina. La decorazione superstite è campita sulla parete destra della navata centrale, sulla parete sinistra della stessa navata – solo alcuni frammenti –, nei sottarchi, nelle absidiole laterali e all’inizio della parete meridionale. Sulla parete destra della navata, come a San Michele Arcangelo a San Chirico Raparo, dove però il ciclo doveva essere più ridotto, si sviluppa un ricco ciclo della Genesi (fig. 8), che comprendeva quarantuno scene e che presenta strette affinità iconografiche con i cicli musivi della Palatina e di Monreale, come ha sottolineato Kessler44. Nelle scene emergono, quale carattere distintivo dei frescanti di Anglona, innanzitutto le posture dinamiche dei personaggi, un’attenzione verso gli effetti naturalistici, l’indulgere nei particolari. È anche possibile che le figure superstiti di profeti 44 H.L. Kessler, I cicli biblici a Santa Maria di Anglona, in C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996, pp. 61-71; sugli affreschi cfr. anche V. Pace, Il ciclo di affreschi di Santa Maria di Anglona: una testimonianza italomeridionale della pittura bizantina intorno al 1200, ivi, pp. 103-10.

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con cartigli, le cui iscrizioni non sono più leggibili – nei triangoli di risulta fra le arcate di destra –, siano in relazione con alcune scene del ciclo veterotestamentario. Circa queste figure, va segnalato il loro movimento, quasi di danza ritmica, con le braccia aperte a seguire la forma trapezoidale del triangolo di risulta, come avviene per le figure superstiti dei profeti della chiesa monastica italo-greca dei Santi Adriano e Natalia a Sant’Adriano Corone (Cosenza), in Calabria, dello stesso periodo, da poco messe in luce e, prima ancora, a Sant’Angelo in Formis (Caserta). Ad Anglona in particolare, anche in relazione alle figure degli evangelisti, poste su una superficie piana, la parte alta del pilastro, anziché incastonati nei pennacchi di una cupola, sembrerebbe che sia stato adattato in parte un programma concepito per una chiesa bizantina a pianta centrale, dove i profeti si dispongono di consueto nel cilindro della cupola e gli evangelisti nei pennacchi: lo stesso adattamento si verificò, allo scorcio del XIII secolo, nel programma iconografico della chiesa di San Mauro presso Gallipoli (Lecce)45. Nella pittura tardo-comnena il ciclo di Anglona si distingue sotto vari profili: raro e prezioso, ad esempio, era il ciclo del martirio dei dodici apostoli, di cui io stessa ho ricostruito il dipanarsi sulle pareti delle navate laterali – dodici scene sulle due pareti, articolate probabilmente in due episodi ciascuna – di cui rimangono le scene relative al martirio degli ultimi apostoli, Simone e Giuda46. Il ciclo doveva iniziare, sulla parete sinistra, con il martirio dei santi Pietro e Paolo, anche in relazione alla presenza della monumentale testa di san Pietro nell’absidiola sinistra (fig. 9): rappresentato raramente – un altro celebre caso, ben conservato, è quello di San Marco a Venezia, del 1200 circa – a partire dal X secolo in ambito bizantino, almeno a giudicare dalle testimonianze superstiti, nel caso di Anglona, come dimostrano gli episodi del martirio di Simone e Giuda (fig. 10), 45 M. Falla Castelfranchi, Gli affreschi della chiesa di San Mauro presso Gallipoli. Note preliminari, in «Byzantion», 51, 1981, pp. 159-68. 46 Ead., Santa Maria di Anglona fra Roma e Palermo. Sulla decorazione delle navate laterali, in Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., pp. 8997. Desidero precisare che queste scene sono state da me per prima correttamente identificate (Ead., Il cosiddetto «martirio di S. Simone» a Santa Maria di Anglona, in «Arte medievale», V, 1, 1991, pp. 67-69), in un saggio preliminare, di contro a fantasiose letture proposte da alcuni studiosi, Pace fra questi: meraviglia che, nel volume su Santa Maria di Anglona, gli studiosi intervenuti, e Pace in particolare, di solito aggiornato, non abbiano citato questo lavoro, uscito puntualmente nel corso del 1991.

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Fig. 9. Anglona (Matera), Cattedrale: interno, abside sinistra, testa di san Pietro (foto M. Falla).

Fig. 10. Anglona (Matera), Cattedrale: interno, Martirio dei santi Simone e Giuda (foto M. Falla).

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la mente colta che concepì il programma utilizzò fonti latine e greche, a forgiare immagini dallo straordinario spessore. Inoltre, a sottolineare vieppiù la rilevanza del ciclo anglonese, a ciascun episodio del martirio degli apostoli corrispondeva, in basso, in asse, uno o due episodi del martirio di un santo, come indicherebbe la scena del martirio, forse di san Teodoro, posto sotto la scena del martirio di Simone e Giuda. La decorazione della cattedrale latina di Anglona si pone dunque, sotto il profilo dei modelli culturali, fra Roma e Palermo circa la presenza di un ciclo veterotestamentario contrapposto a quello del Nuovo Testamento, ma anche fra Roma, Palermo e il mondo bizantino: lo stile degli affreschi, infatti, rinvia alla pittura tardo-comnena, e in specie ad alcuni cicli – ad esempio quello della chiesa della Panaghia nel monastero di San Giovanni evangelista a Patmos, del 1180 circa –, con la quale si identifica: nell’ambito della maestranza, inoltre, ritengo, al contrario di Pace47, che il maestro che decorò le navate laterali si distingua da quello delle scene veterotestamentarie per un maggior vigore, una tendenza al plasticismo che manca nelle scene suddette. Né sono d’accordo con le conclusioni di alcuni studiosi, Pace per primo – che, si ricordi, aveva già pubblicato più di un saggio sugli affreschi di Anglona datandoli agli inizi del XIV secolo –, a proposito della loro cronologia, ora fissata in epoca sveva, agli anni Venti-Trenta del XIII secolo, per motivi stilistici e culturali: l’impronta tardo-comnena degli affreschi è talmente profonda e fresca, i confronti con cicli bizantini degli anni Ottanta-Novanta del XII secolo così persuasivi, da non lasciare dubbi, io credo, sulla collocazione all’epoca tardo-normanna della decorazione pittorica anglonese: questa proposta, del resto, è confermata dagli stretti legami, storici e culturali, con Monreale, come io stessa ho ricordato48. La disseminazione di stilemi tardo-comneni nella pittura lucana del tardo XII secolo si coglie dunque con una certa frequenza, sia nelle chiese monastiche bizantine sia nelle cattedrali latine, legate a committenze di più alto rango, ma anche nelle chiese rupestri, come si è visto. A questi ambiti culturali va per esempio collegata, in aggiunta ai casi citati, la bella testa di un santo anonimo (san Nicola?), da riferire al primo strato (fig. 11),

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Pace, Il ciclo di affreschi, cit., p. 145. Falla Castelfranchi, Santa Maria di Anglona, cit.

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Fig. 11. Matera, Cripta di Santa Lucia alle Malve: San Nicola (?) (da Circolo La Scaletta [a cura di], Le chiese rupestri di Matera, cit.).

nella cripta di Santa Lucia alle Malve49, con le bozze frontali accentuate, le guance scavate e grandi occhi liquidi, che rinvia, tra gli altri confronti, alla testa dell’arcangelo Michele nella lunetta d’ingresso a Sant’Angelo in Formis, del tardo XII secolo, o alla sinopia della testa di san Nicola sulla lunetta laterale destra del monastero benedettino dei Santi Niccolò e Cataldo a Lecce, fondato da Tancredi di Lecce nel 1179-8050; e ancora l’elegante figura, solo in parte conservata, di un probabile apostolo, da riferire al secondo strato, sul pilastro della cripta di San Nicola dei Greci, sempre a Matera, segnata da una vivida cromia (fig. 12).

49 Tommaselli (a cura di), Guida alla chiese rupestri, cit., pp. 130 sgg.; Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., pp. 46 sgg. 50 M. Falla Castelfranchi, La lunetta con S. Nicola nell’ambito della pittura tardocomnena dell’Italia meridionale, in B. Pellegrino, B. Vetere (a cura di), Il Tempio di Tancredi, Milano 1996, pp. 75-81.

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Fig. 12. Matera, Cripta di San Nicola dei Greci: pilastro esterno, figure di santi (foto M. Falla).

2. La pittura del XIII secolo Nel corso del XIII secolo, se da una parte la decorazione superstite si configura decisamente più ricca rispetto ai secoli precedenti e stilisticamente più omogenea, con strette affinità con la produzione dell’area tarantina, sì da far ipotizzare, in certi casi, l’attività di mae­ stranze itineranti che operarono in questo territorio, se ne registra anche, paradossalmente, la parabola discendente, in quasi perfetta sincronia con l’apparire di un linguaggio nuovo, grazie alla mutata situazione storica del Mezzogiorno d’Italia, ormai controllato dagli Angioini. In linea generale la produzione, seppure ancora in gran parte di tradizione bizantina, appare come ripiegata su se stessa, conservatrice, di livello modesto, ad eccezione di rari casi, come la cosiddetta Madonna della Bruna nella cattedrale di Matera, un affresco oramai con funzione di icona che rappresenta la Madonna con Bambino (fig. 13), inserito da Calò Mariani nell’ambito della pittura rupestre materana, con possibili legami con le opere di Giovanni e Ri-

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Fig. 13. Matera, Cattedrale: Madonna della Bruna (foto M. Falla).

naldo da Taranto51. I programmi iconografici delle chiese rupestri ruotano sempre sulla rappresentazione di immagini di santi, essenzialmente votive, con l’inserimento talvolta di un’unica scena, di solito l’annunciazione, fatto del resto peculiare di tutta la produzione pittorica rupestre di direzione bizantina dell’Italia meridionale. Purtuttavia, compaiono alcune novità, in specie in campo iconografico – ad esempio le icone agiografiche, e mi riferisco specificatamente alle celebri immagini di santa Margherita e alle storie della sua vita, nell’omonima cripta, e a santa Lucia e alle storie della sua vita nella cripta di Santa Lucia, entrambe presso Melfi, dell’avanzato XIII secolo52: e ancora, figure di santi raramente rappresentati, come san Donato o santa Sofia. Sempre nel corso del XIII secolo si moltiplicano le immagini della Vergine con Bambino – fra cui una rara Madonna che allatta 51 M.S. Calò Mariani, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati (a cura di), La cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Cosenza 1978, p. 32. 52 Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., pp. 54 sgg.

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nella cripta di Santa Lucia alle Malve53 –, ormai in funzione di icona, e compaiono anche le icone su tavola, effetto dell’arrivo dell’icona in Occidente dopo il sacco di Costantinopoli, ad opera dei crociati, a partire dal 1204. La decorazione pittorica, a giudicare dalle testimonianze superstiti, appare concentrata soprattutto nelle chiese rupestri, mentre nelle chiese subdiali rimangono solo rare tracce, almeno per ciò che riguarda il XIII secolo: il quadro appare notevolmente più ricco nel secolo successivo. L’icona della Vergine in trono con Bambino, conservata nella chiesa di San Martino dei Greci a Venosa, con angeli che reggono un turibolo disposti araldicamente ai lati del dossale del trono (fig. 14), inaugura simbolicamente il XIII secolo, pur se appare ancorata, all’esame stilistico, alle tendenze degli ultimi decenni del precedente. Non v’è dubbio infatti che l’impronta tardo-comnena sia prevalente, anche se si avvertono delle novità, ad esempio le aureole a rilievo, dorate, decorate con motivi a doppia ansa: l’inserimento degli angeli con turibolo sembra piuttosto un legato occidentale, e così le corte tuniche, anch’esse di derivazione occidentale, come ha sottolineato Belli D’Elia54. Essa mostra affinità strette con l’icona di santa Margherita e le storie della sua vita – conservata nel Museo provinciale di Bari, ma proveniente dalla chiesa di Santa Margherita di Bisceglie –, a mio avviso del tardo XII secolo, e non da attribuire, come è opinione di alcuni studiosi, a un generico XIII secolo55: l’icona lucana però mostra delle inflessioni più rigide rispetto alla lingua dei prototipi tardo-comneni, ivi compresa l’icona di santa Margherita. In linea generale, la tendenza principale di questa produzione è quella grafica, che segna, in gran parte, la pittura monumentale di altre aree periferiche dell’impero bizantino. Se ne colgono i riflessi, ad esempio, in alcuni pannelli conservati nella chiesa rupestre di

53 Tommaselli (a cura di), Guida alle chiese rupestri, cit., fig. a p. 33. Su questa iconografia cfr. E. Sendler, Les icônes byzantines de la Mère de Dieu, Paris 1992, pp. 165 sgg. 54 Belli D’Elia (a cura di), Icone di Puglia e Basilicata, cit., p. 115, e fig. 16 a p. 56. 55 Cfr. la scheda curata da M. Milella Lo Vecchio ivi, p. 123. A me pare che sia l’icona in oggetto, sia quella di san Nicola e storie della sua vita, entrambe provenienti dalla chiesa di Santa Margherita di Bisceglie (Bari), chiesa privata fondata nel 1197 dalla famiglia Falcone, siano da ancorare alla fondazione dell’edificio, per il quale erano state confezionate: inoltre, sulla base della lettura stilistica la data 1197 si confà perfettamente a entrambe le icone.

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Fig. 14. Venosa (Potenza), Chiesa di San Martino dei Greci: Madonna in trono con Bambino (da P. Belli D’Elia [a cura di], Icone di Puglia e Basilicata dal Medioevo al Settecento. Bari, Pinacoteca Provinciale 9 ottobre 1988-7 gennaio 1989, Milano 1988).

San Nicola dei Greci a Matera, come la bella immagine di san Pantaleone56, noto santo medico bizantino, che è infatti rappresentato con un contenitore di unguenti (fig. 15) – di consueto vi sono anche strumenti chirurgici –, nella mano sinistra: la decorazione dell’aureola, che accoglie al suo interno girali che si dispongono entro un fondo giallo oro, mostra una decisa contaminazione con i decori a rilievo su fondo oro delle aureole, peculiari della coeva pittura su cavalletto. Al contrario, gli apostoli Pietro e Giacomo nella cripta di San Giovanni a Monterrone57, sempre a Matera, rappresentati sotto arcate e campiti contro uno sfondo bicromo, monumentali, con panneggi volumetrici, nel loro misurato classicismo denunciano ancora un’impronta decisamente tardo-comnena.

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Cfr. da ultimo Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., pp. 40 sgg., fig. 41. Ivi, pp. 43 sgg., con la bibliografia precedente.

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Fig. 15. Matera, Cripta di San Nicola dei Greci: San Pantaleone (foto M. Falla).

Si diceva che, all’interno della produzione del XIII secolo, appaio­ no raramente cicli all’interno di chiese subdiali: fra questi ricordo le decorazioni frammentarie della chiesa di Santa Maria a Monte Vetere presso Moliterno (Potenza) e di quella di San Michele a Marsico Nuovo. Nella prima rimane, nell’abside, una frammentaria Ascensione, con Cristo nella mandorla retta da quattro angeli: meglio conservate sono le figure degli apostoli, in basso, di cui in alcuni casi si conserva il nome, dinamicamente espressive, dipinte a colori molto vivaci. Nella chiesa di Marsico Nuovo invece si intravedono, nell’abside originaria, solo in parte conservata, i resti di una Deisis (fig. 16) e di una scena di battesimo, campita sulla porzione sinistra della parete absidale, in basso, la cui ubicazione è desueta nell’ambito dei programmi iconografici bizantini58. Va anche precisato che la chiesa, nel 1737, subì un ribaltamento di assi, fatto che comportò la parziale distruzione dell’abside medievale. Alcuni dipinti murali del XIII secolo si conservano anche 58

Falla Castelfranchi, Del ruolo dei programmi iconografici, cit., p. 189, nota 8.

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Fig. 16. Marsico Nuovo (Potenza), Chiesa di San Michele: Deisis, particolare della figura della Vergine (foto M. Falla).

nella chiesa della SS. Trinità di Venosa – dove si conservano soprattutto, com’è noto, significativi affreschi del XIV secolo –, ad esempio una santa Apollonia, solenne ed elegante (fig. 17), su uno dei pilastri della chiesa. Pure al pieno XIII secolo, se non alla fine, appartiene la figura di papa Leone Magno, campita in un’absidiola della chiesa di Santa Maria di Anzi (Potenza), con il costume episcopale e la mitra di gusto decisamente occidentale: si tratta di un santo poco venerato nell’Italia meridionale medievale. Si diceva che, nel corso del XIII secolo, si infittisce l’inserimento di santi occidentali nelle agiografie dipinte della regione. Fra questi san Donato appare particolarmente venerato, e la sua iconografia è caratterizzata da un pastorale che termina con una voluta decorata da una testa di serpente o drago, secondo una formula di origine germanica, attestata dopo il Mille59, come indicano due ritratti con59 D. Thurre, s.v. Pastorale, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. IX, Roma 1988, pp. 240-46: cfr. anche, per il tipo di pastorale, lo splendido riccio di pastorale

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Fig. 17. Venosa (Potenza), Chiesa della SS. Trinità: Santa Apollonia (foto M. Falla).

servati nelle cripte materane di Santa Lucia alle Malve (fig. 18)60 e San Donato61: in ambedue i casi, inoltre, il santo vescovo di Arezzo è rappresentato anziano, con barba e capelli bianchi, con una mitra di tipo occidentale, se di lui si tratta, in quanto, come si è anticipato, v’è da tener presente che si conosce un altro vescovo dello stesso nome, Donato di Èvria in Epiro, poi patrono di Umbriatico in Calabria, dove pare si sia rifugiata parte della popolazione della città epirota62 nell’alto Medioevo.

detto di san Cataldo, che termina con una testa di serpente analoga a quella raffigurata nel pastorale retto da san Donato nei due dipinti lucani, conservato nel tesoro della Cappella palatina di Palermo e attribuito al X-XI secolo (L’età normanna e sveva in Sicilia, Mostra storico-documentaria e bibliografica, Palermo 1994, p. 200, fig. a p. 201). 60 Etichettato come san Gregorio in Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., fig. a p. 46: effettivamente l’analisi delle lettere superstiti pone qualche problema. 61 Dell’Aquila, Messina, Le chiese rupestri, cit., p. 298. 62 Cfr. supra, nota 37.

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Fig. 18. Matera, Cripta di Santa Lucia alle Malve: San Donato (?) (da Circolo La Scaletta [a cura di], Le chiese rupestri di Matera, cit.).

Ma è ancora una volta nelle chiese rupestri che si registra il lento infiltrarsi, in una compagine finora di marca più o meno bizantina, di una nuova maniera, veicolata dai nuovi signori del Mezzogiorno e dal loro entourage culturale, gli Svevi e, quindi, gli Angioini, un preludio al ruolo egemone che svolgerà la città capitale, Napoli, a partire soprattutto dall’epoca angioina. All’interno delle cripte materane questo nuovo linguaggio appare raramente attestato: si segnala, anche per il tema decisamente gotico, l’Incoronazione della Vergine nella cripta di Santa Lucia alle Malve63, dove però i santi conservano l’impianto bizantino, a formare una sorta di Deisis allargata a più personaggi. Soprattutto nelle cripte dell’area del Vulture si concentrano i cicli che si presentano aggiornati alle tendenze «internazionali» dell’arte angioina. Mi riferisco a parte della decorazione della chiesa rupestre di Santa Margherita a Melfi, in specie al Contrasto fra i vivi e i morti, ai martiri di san Lorenzo e di sant’Andrea64, all’icona agiografica della titolare dell’inse63 64

Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 33, e fig. 60 a p. 32. Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., pp. 54 sgg.

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diamento, santa Caterina, giudicati di matrice catalano-roussillonese da Bologna per primo, e quindi da Leone de Castris65, violentemente espressivi, quasi naïf. A questi episodi si contrappone l’altera pacatezza della rappresentazione di santa Margherita in vesti regali, e con una monumentale corona in testa, un tipo di acconciatura che si ritrova in relazione alle sante regine e alla Vergine, a partire dall’epoca sveva66: le scenette agiografiche mostrano invece, per la loro stessa struttura a carattere narrativo, una maggiore vivacità. Più o meno negli stessi anni, ovvero nell’ultimo decennio del XIII secolo, fu decorata la cripta di Santa Lucia presso Melfi, dove, come per la decorazione pittorica di Santa Margherita, pannelli bizantini – ad esempio la Madonna con Bambino e la Santa Lucia –, vivono in serena simbiosi con le nove scenette della vita di santa Lucia, anch’esse da inserirsi nell’ambito di quella circolazione internazionale, nella fattispecie provenzale e pirenaica, come ha sottolineato Leone de Castris67, peculiare della cultura artistica della Napoli angioina: questi dipinti, datati al 1292, furono commissionati da un esponente del clero locale, rappresentato in abiti occidentali, tonsurato, ai piedi della Vergine con Bambino e accompagnato da un’iscrizione in latino. Il tema dell’icona agiografica si ritrova anche in una chiesa, questa volta subdiale, ovvero la chiesa madre di Picerno (Potenza): si tratta di un santo vescovo benedicente alla greca – l’affresco è inedito68 –, ma con mitra di tipo occidentale, ai lati del quale si dispongono alcuni riquadri, assai frammentari, con storie della sua vita. Non si tratta di storie della vita di san Nicola, come si legge nelle schede della Soprintendenza di Matera; Nicola in genere è anziano, con barba e capelli bianchi, invece in questo caso il vescovo è bruno, più giovane, e soprattutto le scenette meglio leggibili, due a destra, non coincidono in nessun modo con le note scene della vita del santo di Myra. Nella prima scena leggibile sono visibili due personaggi, una donna a sinistra e un uomo con una sorta di paiolo in mano a destra, mentre nella scena successiva sono raffigurati un vescovo, al centro, fra due diaconi: delle scenette di sinistra non rimane quasi nulla. Al periodo angioino Belli

65 P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina. Da Carlo I a Roberto il Saggio, Firenze 1986, p. 159, figg. 13-15. 66 Villani, Pittura murale in Basilicata, cit., fig. a p. 55. 67 Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., p. 169, nota 44. 68 Anche in questo caso le foto dell’affresco sono state rinvenute dal dott. G. Castelluccio nell’archivio fotografico della Soprintendenza di Matera.

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D’Elia riferisce ancora l’icona della Vergine con Bambino, detta Madonna del terremoto, nella chiesa di San Francesco a Potenza69, collegandola stilisticamente al gruppo di tavole che fa capo a Giovanni da Taranto. Non si è posto l’accento, credo, e ciò gioca a favore di una sua collocazione all’epoca angioina, sui tre gigli rossi che decorano l’aureola del Bambino, visibili dopo che ambedue le teste sono state liberate dalle corone tarde che in parte le obliteravano. Come si evince da questo quadro, dunque, la cultura figurativa medievale dell’attuale Basilicata solo all’apparenza può sembrare marginale, statica, conservatrice: in realtà, ad approfondire le questioni, e alla luce del fatto che molte pitture sono ancora inedite, ci si trova davanti a una produzione variegata, in molti casi aggiornata, con punte di straordinario livello – ad esempio Anglona e San Michele Arcangelo a San Chirico Raparo (fine del XII secolo) –, che rappresentano alcune delle testimonianze più significative della pittura tardo-comnena e, un secolo più tardi, le pitture angioine di alcune cripte vulturine, che anticipano la grande fioritura, questa volta di stampo segnatamente occidentale, gotico, della pittura lucana del secolo successivo. 3. Corredi liturgici Circa questo settore, ben poco si è conservato in Basilicata, in specie per ciò che attiene ai secoli centrali del Medioevo: la situazione appare più ricca a partire dal XIV secolo. All’XI secolo pieno appartiene l’enkòlpion d’argento di Matera (fig. 19), attribuito sia a botteghe costantinopolitane70 sia locali, precisamente «apulo-bizantine»71: la scelta dei santi mi pare sia a favore di ambedue le ipotesi. Infatti Nicola, Giorgio, Basilio e Pantaleone, ad esempio, sono particolarmente venerati in Italia meridionale, in specie Nicola, già prima della Belli D’Elia (a cura di), Icone di Puglia e Basilicata, cit., pp. 128 sg., fig. 32 (a colori). 70 M. Rotili, Arte bizantina in Calabria e Basilicata, Cava dei Tirreni 1980, pp. 191 sg., tavv. LXXXVI-LXXXVII. 71 A. Lipinski, L’arte orafa bizantina nell’Italia meridionale e nelle isole. Gli apporti e la formazione delle scuole, in La chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI sec. Atti del Convegno storico interecclesiale, Bari 1969, Padova 1973, vol. III, pp. 13881477, in particolare p. 1467. 69

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Fig. 19. Matera, Cattedrale: encolpio (da M. Rotili, Arte bizantina in Calabria e Basilicata, Cava dei Tirreni 1980).

traslazione del 1087, e Pantaleone, protettore di alcuni siti della Campania, come Ravello e Vallo della Lucania: lo stile dei clipei, poi, rinvia a un gruppo di affreschi pugliesi dell’avanzato XI secolo72. Il pezzo è in argento, con racemi a niello sui bracci, terminanti con una piccola voluta, e con cinque clipei in argento dorato racchiudenti altrettante immagini di santi, a sbalzo: al centro, sul probabile recto, compare il celebre vescovo cappadoce Basilio, uno dei padri della liturgia bizantina, e in alto, in asse e racchiuso entro un altro clipeo, san Nicola di Myra. Gli altri santi raffigurati nei restanti medaglioni, ivi compresi quelli sul verso, non tutti identificabili, sembrano appartenere alla categoria dei santi militari, i protettori per eccellenza, insieme con Pantaleone, celebre santo medico, raffigurato nel verso, all’interno del clipeo inferiore: essi vestono l’abito del dignitario bizantino, cioè clamide e tablion, con la clamide fermata sulla spalla destra da una fibula. Credo però che bisognerebbe cercare di leggere meglio le iscri72

Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina, cit., pp. 66 sgg.

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zioni che trasmettono il nome dei santi, laddove si sono conservate, poiché alcune identificazioni non sembrano convincenti. Mi riferisco in particolare al supposto sant’Andrea martire di Antiochia nel clipeo di destra, sul recto, identificato da Guglielmi Faldi, ipotesi accettata da Rotili: questo santo, martirizzato con Cirillo e compagni ad Antiochia, è però quasi sconosciuto73, né può trattarsi dell’apostolo Andrea, sia poiché di consueto raffigurato anziano, con capelli e barba bianchi, sia per il contesto, in cui compaiono, in aggiunta ai due vescovi del recto, solo santi militari e medici. A Bisanzio essi sono gli intercessori privilegiati, tant’è che in numerosi edifici di culto occupano posizioni gerarchicamente preminenti, presso o all’interno del santuario74. Un altro santo dall’identificazione dubbia è il supposto sant’Alessandro nel clipeo superiore, sul verso: se l’identificazione è esatta, potrebbe trattarsi di uno dei santi di Sebaste in Armenia, anch’egli militare, abbastanza venerato in Cappadocia, ma non nel resto del mondo bizantino, per cui mi sembra permangano dubbi circa la sua identificazione. La fruizione di questo bel pezzo va probabilmente collegata a un personaggio appartenente ai ranghi della chiesa per la scelta di due celebri santi vescovi orientali campiti sul verso, soprattutto di san Basilio nel clipeo centrale, una scelta politica e liturgica al contempo. Rimane poi da capire, in aggiunta all’identificazione di alcuni santi, se l’enkòlpion ebbe anche una fruizione pubblica all’interno di una chiesa lucana di rito bizantino – beninteso se il pezzo fin dalle origini era stato commissionato per una chiesa di questa regione –, se cioè, ad esempio, sia stato trasformato in croce processionale. Proviene invece da un non meglio identificato monastero italo-greco della Basilicata la cosiddetta lipsanoteca Stroganoff (fig. 20), oggi conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, costituita da pezzi appartenenti a periodi diversi il cui assemblaggio fu eseguito probabilmente nella stessa regione nel XIII secolo75. Nella cornice di rame dorato si alternano castoni che contenevano reliquie di santi, i cui nomi sono precisati da iscrizioni in greco, e castoni per gemme in gran parte perdute: verticalmente, tra i castoni, furono sistemate alcune placchette con immagini di 73 J.-M. Sauget, s.v. Cirillo vescovo di Antiochia, Andrea e compagni, santi martiri, in Bibliotheca Sanctorum, vol. III, Roma 1962, c. 1325. 74 Cfr. ad esempio la situazione in Cappadocia (Jolivet-Lévy, Les églises byzantines, cit., p. 345). 75 Rotili, Arte bizantina, cit., pp. 191 sg., con bibliografia precedente.

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Fig. 20. San Pietroburgo, Ermitage: cosiddetta lipsanoteca Stroganoff (da Rotili, Arte bizantina, cit.).

santi, Pietro e Paolo a sinistra e san Teodoro Stratilate in basso – la placchetta è più piccola delle altre: a destra, Giovanni evangelista, Matteo e Bartolomeo, mentre in basso compare una placchetta con il Cireneo. Intorno all’immagine centrale, una Crocifissione in smalto, sono distribuite in alto, in asse con la Crocifissione, una Kòimesis in argento dorato e sbalzato, inquadrata dalle piccole figure di due santi con una croce in mano e serrata fra due grandi lastre che contengono i clipei di san Giovanni Crisostomo a destra e san Basilio a sinistra, cui vanno collegati, in basso, altre due immagini di santi vescovi, Nicola e Atanasio: lateralmente, fra le placche d’argento con i vescovi, si incuneano, ritagliate malamente, le immagini in smalto – ma non della stessa epoca dello smalto con la crofissione –, di Giacomo l’Adelfoteo e Gregorio il Teologo. Fino a oggi però nell’esegesi del pezzo è sfuggita l’esatta interpretazione dello smalto posto sotto la Crocifissione, etichettato genericamente come «Cristo morto fra gli arcangeli Michele e Gabriele»76. In realtà si tratta di un’immagine 76

Ivi, p. 192.

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ben più complessa, che di consueto decora un tessuto liturgico di seta che, a Bisanzio, prende il nome di epitàphios, che indica simbolicamente la tomba di Cristo e viene portato in processione il sabato santo: esso di solito è ricamato e mostra, al centro, il Cristo morto (Amnòs) inquadrato da due arcangeli con flabelli e accompagnato da iscrizioni: anche in questo caso si intravedono iscrizioni in greco sulla cornice d’argento dorato che corre lungo il lato superiore dello smalto. L’epitàphios nel suo più specifico significato di tessuto liturgico si codifica a Bisanzio non prima dell’iniziale XIV secolo, in sincronia con lo stabilizzarsi dei rituali del sabato santo77: sarebbe interessante, dunque, approfondire l’analisi di questa immagine e dell’iscrizione relativa per meglio definirne la collocazione cronologica, capire cioè se è anteriore o posteriore all’iniziale XIV secolo. Fra gli altri elementi interessanti che emergono dall’analisi di questo pastiche è l’iscrizione presso il piccolo castone sulla cornice, in basso a sinistra, che conteneva una particella del corpo di santo Stefano Iuniore, celebre martire dell’iconoclastia, fatto questo da segnalare per la rarità del suo culto al di fuori di Bisanzio. In definitiva, questo interessante reliquiario è il risultato del riutilizzo di placche d’argento dorato e smalti di epoche diverse, dal tardo XI-metà XII secolo le più antiche – ad esempio lo smalto centrale con la Crocifissione – al XII-XIII secolo le placche con i santi. Inoltre, esso pone interessanti problemi non solo di natura cronologica ma, come si è visto, anche iconografica. Oscilla entro un ampio arco di tempo la datazione del reliquiario in argento detto Braccio di sant’Eustachio, custodito presso il Museo diocesano di Matera. Secondo Lipinsky, solo la parte conica del pezzo, decorato con racemi e foglie stilizzate, è originale e andrebbe attribuita a una bottega apulo-bizantina del XII-XIII secolo78, mentre Guglielmi Faldi lo attribuisce all’iniziale XV secolo79. A una bottega arabo-sicula vanno invece riferite la

77 A. Gonosova, s.v. Epitaphios, in Kazhdan et alii, The Oxford Dictionary of Byzantium, cit., vol. I, pp. 720-21 e S. C´urcˆic´, Late Byzantine Loca Sancta? Some Questions regarding the Form and Function of Epitaphioi, in S. C´urcˆic´, D. Mouriki (a cura di), The Twilight of Byzantium. Aspects of Cultural and Religious History of the Late Byzantine Empire. Papers from the Colloquium Held at Princeton University, 8-9-May 1989, Princeton 1991, pp. 252-61. 78 Cfr. Lipinsky, L’arte orafa bizantina, cit. 79 C. Guglielmi Faldi, in Calò Mariani, Guglielmi Faldi, Strinati (a cura di), La cattedrale di Matera, cit., p. 100.

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Fig. 21. San Mauro Forte, parrocchiale: cassetta eburnea (foto Soprintendenza PSAE, Matera).

pisside e la cassettina (fig. 21), entrambe in avorio, conservate nella parrocchiale di San Mauro Forte, databili, secondo Grelle Iusco, che le ha segnalate, al XII-XIII secolo80. Questi preziosi oggetti, di cui in Italia meridionale e in Sicilia si conservano numerosi esemplari, venivano utilizzati in modo diverso, ad esempio come reliquiari, per contenere strumenti chirurgici, gioielli o ancora prodotti per il trucco, ma spesso la loro specifica funzione non si può definire con certezza. Allo stesso periodo Grelle Iusco attribuisce il riccio di pastorale custodito nella parrocchiale di Pietrapertosa (Potenza), in cattivo stato di conservazione, ma probabilmente più tardo: la studiosa segnala altri due pezzi interessanti, che data al XIII secolo, una sorta di bacile limosino, assai raffinato, conservato nell’episcopio di Acerenza e una croce d’argento sulmonese, che forse è da porsi a cavallo fra il XIII e il XIV secolo81: tutti questi pezzi meritano dunque indagini più approfondite. 80 81

Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 34 e figg. 66-67. Ivi, p. 34 e figg. 68-71.

ARTI FIGURATIVE: IL TRECENTO di Pierluigi Leone de Castris Le tracce della cultura artistica lucana nel corso del Trecento appaiono oggi, ai nostri occhi, in definitiva scarse e piuttosto modeste; eppure in esse si coglie ancora il più ampio respiro delle vicende del secolo precedente e si perpetua quel sapore – comune ad altre regioni dell’Italia meridionale nel tardo Medioevo – di confine fra Oriente e Occidente. La grande stagione sveva e la promozione di centri interni del Vulture, come Melfi e Lagopesole, a sedi della vita di corte, avevano sin d’allora favorito un innesto interessante e originale fra la tradizione bizantina – profondamente radicata, e con specifiche testimonianze specie nel Materano, sia di elaborazione locale sia di verosimile immigrazione di maestranze, come ad Anglona – e alcune prime aperture alle nuove esperienze gotiche d’oltralpe: esperienze che è possibile cogliere non solo nell’ormai nota produzione plastica di stretto ambito federiciano, o anche manfrediano, con la sua intensa carica naturalistica – dal caso pilota del cantiere di Lagopesole sino ai capitelli della cattedrale di Matera e a quello più antico, erratico, del castello di Venosa –, ma anche in casi significativi d’importazione dall’autonomo respiro europeo lungo le rotte della committenza religiosa, come nel caso del tesoro del duomo di Acerenza, ancor oggi ricco d’un gemellion limosino databile poco prima del 1250 e d’uno splendido e ancor più antico evangeliario miniato invece toscano, forse pisano (fig. 1), dipendente dagli elementi di cultura bizantina propri della Bibbia di Calci1. 1 Per un quadro generale della cultura artistica lucana del Duecento cfr. A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, catalogo della mostra (Matera 1978) Roma 1981, pp. 20-36 (ed. aggiornata, Roma 2001, pp. 20-37, 234-40) e i contributi precedenti citati in questo stesso volume, con più ampia bibliografia;

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Fig. 1. Acerenza, Episcopio. Ignoto miniatore toscano del XIII secolo, Iniziale miniata di evangelario, particolare.

Nella seconda metà del Duecento, d’altronde, e già sotto il dominio degli Angiò di Napoli, questo delicato equilibrio è testimoniato dai caratteri figurativi della plastica dell’ultimo grande scultore propriamente lucano erede dei vari Mele da Stigliano e Sarolo da Muro, ed ancora i saggi di chi scrive in A.L. Larotonda (a cura di), La Provincia di Matera. Segni e luoghi, Milano 2002, pp. 91-94; e in P. Leone de Castris, P. Venturoli (a cura di), Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, catalogo della mostra, Matera-Torino 2004, pp. 7-18. Sui singoli problemi citati, dell’«importazione bizantina» e degli affreschi di Anglona, della scultura sveva a Venosa, Matera, Lagopesole e dell’evangeliario miniato della biblioteca di Acerenza, si aggiungano a questo rispettivamente almeno i contributi di M. Rotili, Arte bizantina in Calabria e Basilicata, Cava dei Tirreni 1980; C.D. Fonseca, V. Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona. Atti del Convegno internazionale di studio (Potenza-Anglona, 13-15 giugno 1991), Galatina 1996; M.S. Calò Mariani, Aspetti della scultura sveva in Puglia e in Lucania, in Atti delle seconde giornate federiciane, Oria, 16-17 ottobre 1971, Bari s.d., pp. 151-84; M.S. Calò Mariani, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati, La Cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Cosenza 1978, pp. 48-53; A. Giganti, Un evangelario latino del sec. XII della biblioteca di Acerenza, in Dante e la cultura sveva. Atti del I Convegno di studio, Melfi 1969, Firenze 1970, pp. 59-81 (per altro con ipotesi diverse da quelle qui prospettate).

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e cioè il Melchiorre comunemente detto da Montalbano, ancora nel 1271 – nel suo pulpito della cattedrale di Teggiano – bisognoso di leggere e di interpretare la fresca cultura federiciana all’insegna di più arcaiche e ruvide soluzioni grafiche di ascendenza romanica2; mentre e tuttavia la persistenza di un’importazione di alto profilo europeo, e dal sapore ben presto gotico, è testimoniata a fine secolo e sul crinale fra Due e Trecento dai casi dei Crocifissi «iberici» in legno, legati alla coeva produzione catalana e pirenaica, della chiesa di Sant’Andrea a Muro Lucano, della parrocchiale di Noepoli e soprattutto della cattedrale di Rapolla (fig. 2), quest’ultimo simile non solo – come s’è detto – a quello forse spagnolo del duomo di Andria, ma anche a quello più antico del Compianto francesante del duomo di Scala3. Ma è soprattutto nella pittura, al passaggio fra Due e Trecento, che più si coglie questa dialettica fra Oriente e Occidente presente nel panorama artistico lucano d’età angioina. Se non nel caso molto dibattuto e ritenuto anche trecentesco del ciclo di Santa Maria di Anglona, che le più recenti ricerche datano più verosimilmente invece fra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, di certo negli affreschi che decorano molte chiese, rupestri e non, di Matera ma anche di Melfi, Anzi, Tricarico e Moliterno. 2 Su Melchiorre, già detto da Montalbano, cfr. in sintesi E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1904, pp. 763-66; M.S. Calò Mariani, in La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente, Milano 1980, p. 292; M. Mormone, Il pulpito di Melchiorre da Montalbano nella Cattedrale di Teggiano, in «Napoli nobilissima», XVIII, 5, 1980, pp. 1-9; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 23-26 (ed. 2001, pp. 2326, 236); Leone de Castris, in Larotonda (a cura di), La Provincia, cit., pp. 91-93. Al catalogo della Grelle si faccia riferimento anche per l’illustrazione del caso – anche qui di «riduzione grafica» d’una cultura gotica, ma più avanzata e già d’età angioina – del portale della Trinità di Venosa firmato da un Maestro Palmerio e datato al 1287 (p. 34); con l’avvertenza però che le presunte «persistenze» di cultura islamica rilevate nelle lastre della lunetta non si debbono ad altro che al riutilizzo di elementi scultorei più antichi, da taluni datati attorno al 1100 (cfr. P.C. Claussen, Il portico di S. Maria di Anglona. Scultura normanna nell’Italia meridionale del XII secolo. Santa Maria di Anglona e la SS. Trinità di Venosa, in Fonseca, Pace [a cura di], Santa Maria di Anglona, cit., pp. 57 e 59, note 52-55, con bibliografia). 3 Per il notevole Crocifisso della cattedrale di Rapolla e per quelli, ancor meno noti, di Sant’Andrea a Muro e della parrocchiale di Noepoli, cfr. Leone de Castris in Leone de Castris, Venturoli (a cura di), Scultura lignea, cit., pp. 15-18, 118-21, 134-39; per quello di Andria e per il gruppo di Scala, rispettivamente M. D’Elia (a cura di), Mostra dell’Arte in Puglia dal tardoantico al Rococò, Bari-Roma 1964, pp. 13-14, fig. 15; F. Bologna, R. Causa (a cura di), Sculture lignee nella Campania, catalogo della mostra, Napoli 1950, pp. 53-55, nota 15.

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Fig. 2. Rapolla, Cattedrale. Ignoto intagliatore meridionale di cultura iberica, fine XIII-inizi XIV secolo, Crocifisso.

A Matera, infatti, sul crinale fra i due secoli molti sono i «tabelloni» con figure di santi, Madonne e scene cristologiche che proseguono la tradizione bizantina, «forse di provenienza tarantina» (Grelle) del cosiddetto «Maestro della Bruna», di recente identificato toutcourt con l’autore del Giudizio primotrecentesco della cattedrale di Matera (fig. 3), Rinaldo da Taranto: in San Giovanni in Monterrone, ad esempio – un Battista, un San Giacomo e un San Pietro –, in Santa Lucia alle Malve – una Madonna del latte, un San Gregorio, una Deposizione, un San Nicola, un’Incoronazione della Vergine e santi –, in San Nicola dei Greci – una Crocifissione –, in San Donato – una testa di santo –, in Santa Maria della Palomba – una Madonna col Bambino – e nella chiesa della Vaglia – i resti di un’analoga Madonna. E così, come s’è detto, anche ad Anzi, in Santa Maria – un San Leone –, in San Francesco a Tricarico – un San Bartolomeo, un San Giacomo, una Madonna col Bambino, una Crocifissione – e nel duomo di Melfi – una lunetta con la Vergine, il Bambino e angeli. Una

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Fig. 3. Matera, Cattedrale. Rinaldo da Taranto, Giudizio finale, particolare.

tradizione bizantina, caratterizzata da ombreggiature forti, schematiche, violente e da un certo tono «drammatico», che le icone della badia di Banzi e di San Francesco a Potenza (fig. 4), datate in genere tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, confermano viva – e in forte contatto con la realtà pugliese – anche nel settore della pittura su tavola4.

4 Per Anglona cfr. Fonseca, Pace (a cura di), Santa Maria di Anglona, cit., col rimando alle precedenti proposte di V. Pace per una datazione trecentesca del ciclo. Per gli affreschi di Matera, Anzi, Melfi e Tricarico cfr. A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, Roma 1939, passim; Circolo La Scaletta, Le chiese rupestri di Matera, Roma 1966, passim; Calò Mariani, Guglielmi Faldi, Strinati, La cattedrale, cit., p. 49; A. Grelle Iusco, in Ead. (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 29-33 (ed. 2001, pp. 29-33, 238-39); S. Iusco, Note sugli affreschi delle chiese rupestri di Matera, in «Basilicata Regione. Notizie» X, 3-4, 1997, pp. 119-28; Leone de Castris in Larotonda (a cura di), La Provincia, cit., pp. 93-95. Per le due «icone» ricordate, la seconda delle quali verosimilmente di data già trecentesca, cfr. anche E. Arslan, Relazione di

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A Melfi, invece, la decorazione delle due cripte di Santa Margherita e Santa Lucia segnala, nel corso dell’ultimo decennio del Duecento o poco più, la rottura dell’omogeneità di questa tradizione e la compresenza con essa d’infiltrazioni culturali di marca occitanica: in Santa Margherita di certo negli ormai noti Martiri di Sant’Andrea, San Lorenzo e Santo Stefano, nella Natività e nel raro Contrasto dei tre vivi e dei tre morti, dove Bologna ha giustamente individuato la formula narrativa vivacissima, il bizzarro senso dello spazio, il gusto astratto per le campiture affiancate di colore forte e persino i motivi decorativi – come le stelle a otto punte – d’un frescante di nazione catalana o pirenaica del tutto estraneo al contesto lucano e prossimo in effetti ai pittori dei frontali di Santa Maria de Avia e Soriguerola; e però anche negli altri tabelloni, verosimilmente dovuti ad artisti locali fortemente impressionati dal «Maestro del Contrasto e dei Martiri», con le Sante Margherita, Caterina e Lucia, i Santi Paolo, Pietro e Nicola, il San Michele ed altri santi, il Cristo benedicente, gli Evangelisti e il Cristo in gloria, i tondi infine con Cristo e angeli che l’acuto senso gotico lineare e la predisposizione narrativa e descrittiva, a tratti quasi profana, cortese, vieta di considerare cosa meramente bizantina5. In Santa Lucia, fatta affrescare da un prete Biagio alla data del 1292, nei più modesti affreschi della Madonna col Bambino e di Santa Lucia con storie della sua vita, dove quest’ultima, medesima cadenza «gotica» e narrativa si sposa con una formazione qui davvero più tradizionale, che ricorda – specie nelle storiette – le icone agiografiche della Pinacoteca di Bari, provenienti da Bisceglie, e assieme, semmai, gli affreschi svevi di Casaranello e i più «vicini» affreschi (fig. 5) dal non

una missione artistica in Basilicata, in Campagne della Società Magna Grecia 1926-27, Roma 1928, p. 83; E.B. Garrison, Addenda ad Indicem, II, in «Bollettino d’arte», 36, 1951, p. 303; P. Leone de Castris, Pittura del Duecento e del Trecento a Napoli e nel Meridione, in La Pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1985, p. 470. 5 Sugli affreschi, ormai molto noti e studiati, della cripta di Santa Margherita cfr. in sintesi F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, 1266-1414, Roma 1969, pp. 60-62, 76-77, note 316-27; P. Vivarelli, Pittura rupestre dell’alta Basilicata. La Chiesa di S. Margherita a Melfi, in «Mélanges de l’École Française de Rome», LXXXV, 2, 1973, pp. 547-85; A. Rizzi, Ancora sulle cripte vulturine, in «Napoli nobilissima», 12, 1973, pp. 74-78; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 37 (ed. 2001, pp. 37, 240); P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina. Da Carlo I a Roberto il Saggio, Firenze 1986, pp. 158-59; Id., Pittura del Duecento, cit., pp. 468-70.

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Fig. 4. Potenza, Chiesa di San Francesco. Ignoto pittore meridionale, fine XIII-inizi XIV secolo, Madonna col Bambino. Fig. 5. Banzi, Badia. Ignoto pittore meridionale di cultura iberica, seconda metà del XIII secolo, Figura di servitore.

dissimile carattere – ma purtroppo molto frammentari e comunque poco noti – della badia di Banzi6. Di dove questa ventata occitanica, e nel dettaglio questi pittori di nazione iberica, catalana, siano poi giunti fin nel centro del Vulture non è facile dire. Bologna ha sottolineato come Carlo I d’Angiò aves6 Su quest’altra cripta melfitana aggiungi inoltre, ai titoli qui citati in nota 5, A. Prandi, in Basilicata, Milano 1964, figg. 197-99; P. Vivarelli, Problemi storici ed artistici delle cripte medievali del Vulture, in Studi lucani. Atti del II convegno di storiografia lucana, Montalbano-Matera 1972, Galatina 1976, pp. 327-41. Gli affreschi, guasti e frammentari all’estremo, ma di grande interesse, della badia di Banzi non mi risultano studiati.

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se «attratto alla corte di Napoli le orfane del signore di quei luoghi, Tebaldo del Dragone, avviando nella valle del Vitalba la sostituzione dell’influenza sveva con quella direttamente provenzale» e come – nel 1283 – Melfi avesse ospitato un sinodo inteso a finanziare il principe di Salerno Carlo lo Zoppo nella guerra dei Vespri, senza dire che, a partire dal 1276, il giustiziere di Basilicata Bertrand de Baume aveva assorbito proprio «la chiesa di Santa Margherita al feudo della Badia di Monticchio della diocesi di Rapolla, dove si susseguirono numerosi abati di origine francese, fino ad Adenolfo (13 febbraio 1317), che era catalano»7; e chi scrive, per parte sua, ha ricordato come, all’incirca dal 1285 e per i tre lustri successivi, il dominio nell’area calabra e lucana, e persino su centri importanti del principato di Salerno come Eboli o Castellabbate, fosse disputato agli Angiò – peraltro legati in questi anni da vincoli politici, militari e matrimoniali col regno di Majorca e con quello di Aragona – dagli stessi aragonesi, vittoriosi in Sicilia dopo il Vespro, che ne avrebbero così occupato per anni singole zone, come Policastro o Rocca Imperiale8. Quale che sia l’importanza da attribuire a queste circostanze storiche, è un fatto che l’insorgere di questo fenomeno di marca appunto occitanica nella regione del Vulture, vuoi in pittura così come anche in scultura, debba essere considerato come l’indizio chiaro di un’apertura – di contro al consueto gravitare verso l’area pugliese e murgiatica – del panorama culturale lucano verso le regioni tirreniche, verso Napoli e verso Salerno, centri dove gli affreschi appunto salernitani della chiesa del Crocifisso o l’«icona» del san Domenico e alcuni codici miniati invece napoletani attestano per l’appunto la diffusa presenza, fra il 1280-85 e il 1300-1305, di artisti catalani e di contatti culturali con l’altra sponda del Mediterraneo occidentale; a indizio chiaro, dunque, d’una crescente attrazione, a partire dalla fine del Duecento, esercitata almeno su questa parte della Basilicata dalla corte angioina e dalla sua capitale, divenuta centro propulsore anche in fatto d’arte, di moda, di costume, ormai di tutto il regno meridionale9. Bologna, I pittori, cit., p. 60. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., p. 158. 9 Su questi problemi, più in generale, cfr. i testi citati alle due note precedenti, rispettivamente alle pp. 55-64 e 155-73. Nell’area del salernitano, e ad una data già pienamente trecentesca, sono da aggiungere a questi episodi ormai ben noti gli sconosciuti affreschi – una Madonna e Santi, una Crocifissione – della cripta di Santa Maria della Foce a Sarno. 7 8

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Dimostrazione poi della natura non occasionale, e anzi protratta nel tempo, di questo fattore iberico, occitanico, nel panorama culturale della Basilicata ormai già trecentesca è il più rustico, ma non per questo meno alieno dal contesto locale di tradizione bizantina, ciclo di affreschi dell’altra chiesa rupestre di Sant’Antuono a Oppido Lucano; un ciclo cristologico di storie dell’infanzia e della passione – una Natività, un’Adorazione dei magi, una Fuga in Egitto, una Strage degli innocenti, un Battesimo, un Ingresso in Gerusalemme, un’Ultima cena, una Cattura, un Cristo davanti a Erode, una Crocifissione (fig. 6) e altri frammenti – nel quale si legge messo in opera un linguaggio sapidamente narrativo, semplificato, persino popolaresco, ma capace di soffermarsi con piacere sui dettagli di costume e sulle masse – feroci al limite del caricaturale – di armati, un linguaggio di chiara impronta ancora una volta pirenaico-catalana denunciato anche dalla chiassosa ripartizione dei fondi in bande cromatiche alternate e dalla pronunciata sigla gotica, che qui ricorda pure – al di là dei Pirenei – l’analoga sommarietà e l’analogo gusto della narrazione presente negli affreschi provenzali della Tour Ferrande dei de Beaux a Pernes-les Fontaines10. Ma anche a Picerno, nei frammentari affreschi con San Nicola (?) e sue storie della cripta della chiesa madre (fig. 7), a Matera, nell’affresco ad esempio di Santa Marina regina e donatori e in altri frammenti in Santa Lucia alla Gravina, e persino a Rapolla, nella monumentale e purtroppo ridipintissima icona della Vergine col Bambino e un donatore, compaiono sul crinale del 1300 inflessioni «occitaniche» analoghe a quelle degli esempi melfitani11. Inequivocabilmente, come s’è detto, questi indizi parrebbero segnalare – a cavallo dei due secoli – un’inversione d’orientamento

10 Cfr. A. Medea, Resti di un ciclo evangelico, affreschi della cripta di S. Antuono ad Oppido Lucano, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 31, 1962, pp. 302-11; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 40-42 (ed. 2001, pp. 4042, 240); A. Giganti, La chiesa di Sant’Antuono di Oppido Lucano, Potenza 2000; e, con un’ottica analoga a quella presente, Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., p. 159; Id., Pittura del Duecento, cit., pp. 469-70; Id., in Leone de Castris, Venturoli (a cura di), Scultura lignea, cit., pp. 21, 150. 11 Non mi risulta che né gli affreschi di Picerno (sui quali è però ora un cenno in Grelle Iusco [a cura di], Arte in Basilicata, cit., ed. 2001, p. 240) e di Matera, né l’icona della chiesa madre di Rapolla siano stati studiati in questa prospettiva. Nonostante i guasti, almeno quest’ultimo, straordinario manufatto meriterebbe – nella povertà della produzione iconica lucana a cavallo fra Due e Trecento – un’attenzione specifica.

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Fig. 6. Oppido Lucano, Convento di Sant’Antuono. Ignoto pittore catalano, prima metà del XIV secolo, Crocifissione.

Fig. 7. Picerno, Chiesa madre. Ignoto pittore meridionale, fine XIII secolo, San Nicola e sue storie, particolare.

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dai centri pugliesi, accomunati da una medesima cultura figurativa orientale di base, ai centri del nuovo potere regio angioino, verso ovest, Napoli e Salerno. Tuttavia, il fenomeno non va probabilmente visto come una scelta lucana di «separazione» dalle vicende della vicina Puglia, quanto piuttosto come segnale in loco d’una penetrazione complessiva, globale, di cultura gotico-occitanica dalla capitale e dalle sponde tirreniche del regno verso le regioni più interne e adriatiche dello stesso, verosimilmente lungo gli itinerari delle rotte «crociate» verso l’Oriente latino – e di ritorno da esso – e in virtù degli interessi feudali d’un ramo degli stessi Angiò nel principato di Taranto o di altre grandi famiglie d’origine francese e provenzale – come gli stessi de Beaux, o del Balzo – su quelle stesse terre12. È infatti in questa chiave – non forse nei termini di così dichiarata ascendenza catalana propri degli affreschi lucani, ma piuttosto in quelli d’uno snodo d’influssi scambievoli e di bizzarra miscela fra la cultura dell’Oriente latino e quella gotica e «cortese» d’Occidente, e sotto il segno dominante degli Angiò, titolari del regno di Gerusalemme dal 1277 e possessori sino al 1286 della piazza di Acri, tenuta dal giustiziere di Terra d’Otranto Eude Poilechien – che vanno letti anche in Puglia affreschi non certo giudicabili col metro d’una tradizione bizantina «osservante», e ricchi invece di suggestioni gotiche e, appunto, «laiche», come il tabellone con san Pietro Martire e storie della sua vita in Santa Lucia a Brindisi, come il trittico a fresco delle sante Lucia e Caterina d’Alessandria nella chiesa rupestre della Buona Nuova a Massafra o ancora come l’altro tabellone votivo con santa Caterina e sue storie e altri riquadri con l’omaggio di cavalieri alla Vergine in Santa Maria del Casale a Brindisi; un’impresa decorativa – quest’ultima – dichiaratamente legata alla committenza di Filippo di Taranto, figlio di Carlo II d’Angiò, e della moglie Caterina di Valois-Courtenay-Costantinopoli e nella quale gli aspetti «occitanici» convivono con la più tradizionale cultura bizantina di Rinaldo da Taranto, autore a inizio secolo del grande Giudizio della controfacciata, ben noto fra l’altro in terra lucana – a indizio d’uno stretto rapporto e politico e figurativo – e replicato nell’analogo e 12 Cfr. nuovamente Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., pp. 159-60 e 169, note 40-46, ma anche Id., Pittura del Duecento, cit., pp. 464-76; Id., Italia meridionale, in Pittura murale in Italia. Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, Bergamo 1995, pp. 181-84; Id., in Larotonda (a cura di), La Provincia, cit., pp. 93-95.

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citato frammento di Giudizio ricomparso anni fa nella cattedrale di Matera (fig. 3)13. Napoli sembra così divenire, sul crinale del 1300, il luogo d’avvio d’un’estesa penetrazione culturale verso oriente, la Puglia e la Lucania; una penetrazione culturale che in quegli anni si sostanzia nel linguaggio gotico-transalpino e occitanico in auge a corte, ma che nei decenni a seguire si produrrà in modelli figurativi altri e diversi, seguendo la linea d’evoluzione in chiave «italiana» del gusto dei nuovi sovrani e in particolar modo di Roberto d’Angiò, il «re saggio». Già in alcuni degli affreschi delle stesse chiese rupestri (e non) della Basilicata databili nel corso della prima metà del XIV secolo la cultura ancora prevalentemente bizantina dei frescanti locali mostra a tratti inflessioni che richiamano le maggiori esperienze di marca centro-italiana, assisiate, romana o toscana, maturate a Napoli dentro il primo scorcio del Trecento. Ad esempio, e forse, nel catino absidale assai frammentario e guasto di Santa Maria Veterana a Moliterno, con un’Ascensione e svariate figure di apostoli, nella cui formula stilistica semplificata e sanguigna la Grelle Iusco ha voluto individuare un’eco del linguaggio, fra cimabuesco e proto-giottesco, di Montano d’Arezzo, forse effettivamente noto a quest’artista provinciale almeno in quello che io credo essere il suo aspetto al tempo del suo primo apparire a Napoli, e cioè nella decorazione della cappella Minutolo in duomo14. Poi l’esperienza dello stesso Montano nella sua fase invece più matura e già trecentesca, e ancora e soprattutto quella di Pietro Cavallini nei suoi cicli pittorici del duomo e di San Domenico Maggiore (1308-10) e dell’allievo e seguace di quest’ultimo Lello da Orvieto al duomo e in Santa Restituta (1314-22 circa) – e quindi ad Ana13 Cfr. i testi di chi scrive citati alla nota precedente. Per gli affreschi di Santa Maria del Casale a Brindisi nel loro complesso cfr. M.S. Calò Mariani, La chiesa di S. Maria del Casale presso Brindisi, Brindisi 1967, pp. 47-60; per quelli della cattedrale di Matera, riscoperti e poi restaurati nel 1983, aggiungi Restauri in Cattedrale, catalogo della mostra, Matera 1986, pp. 27-39; L’antico nascosto, catalogo della mostra, Matera 1986, pp. 40-51, con il corretto collegamento agli affreschi brindisini di Rinaldo da Taranto, ma con una datazione, a mio avviso troppo avanzata, alla metà circa del Trecento; e Iusco, Note, cit., p. 124. 14 A. Grelle Iusco, in Ead. (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 37-39. Su Montano d’Arezzo cfr., in sintesi, Bologna, I pittori, cit., pp. 99-106; Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., pp. 196-201 e 205-208; Id., Montano d’Arezzo a San Lorenzo, in S. Romano, N. Bock (a cura di), Le chiese di San Lorenzo e San Domenico. Gli ordini mendicanti a Napoli. Atti della II giornata di studi su Napoli, Losanna 2001, Napoli 2005, pp. 95-125.

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Fig. 8. Matera, Chiesa della Vaglia. Ignoto pittore lucano del primo terzo del XIV secolo, Cristo in Deesis con la Madonna e i Santi, particolare.

gni (1324-25) – negli affreschi d’una Madonna col Bambino e d’un Cristo in deesis con la Vergine, san Giovanni, san Giacomo e santa Maria di Valleverde che decorano un’abside e una parete della già più volte ricordata chiesa rupestre della Vaglia a Matera (fig. 8), dove peraltro le novità plastiche e il ricchissimo pigmento tessuto, le ombre, i trapassi chiaroscurali di quell’arte sofisticata si traducono in una sorta di tondeggiante correzione «moderna» e di snellimento del rigido formulario bizantino, un po’ come nei coevi affreschi pugliesi della chiesa rupestre di San Michele presso Altamura – una Deesis – o dell’altra chiesa rupestre di Santa Croce ad Andria – una Crocifissione –, ma verosimilmente con l’aggiunta dell’esperienza – già fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo – del «Maestro delle tempere francescane»15. 15 Cfr. Leone de Castris, in Larotonda (a cura di), La Provincia, cit., p. 94; e Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 39, col rimando a Circolo La Scaletta, Le chiese rupestri, cit., tav. 1, nonché Leone de Castris, Pittura del Duecento, cit., p. 499. Per i raffronti pugliesi proposti cfr. La Puglia, cit., pp. 137 e 523.

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Più difficile, invece, seguire il senso e l’indirizzo della contemporanea evoluzione in chiave gotica della scultura locale, vuoi in pietra o marmo, vuoi in legno. La formula essenzialmente grafica delle decorazioni di portali, finestre o capitelli delle facciate nei campanili o nei chiostri delle chiese di Santa Maria Maggiore a Miglionico, di Sant’Antonio a Muro Lucano, di San Francesco a Senise, delle matrici di Irsina e di Atella e di Santa Maria del Casale a Pisticci sembra indicare una prosecuzione senza grandi slanci o innovazioni della tradizione duecentesca lucana, e i rari casi databili con certezza e precisione, come nel caso della lastra con la Madonna e il Bambino, datata 1331, della badia di Banzi (fig. 9), piuttosto una giustapposizione – come è stato notato – fra un mero formulario gotico di motivi architettonici – archi a ogiva, crochets, fioroni salienti – e una secca e arcaizzante presentazione iconica delle figure; laddove soltanto alcuni rilievi sepolcrali – come quelli di vescovi o abati in Sant’Antonio a Melfi o nella parrocchiale di Miglionico – paiono segnalare un assorbimento, pur nella loro modestia e rigidità estrema, delle novità plastiche introdotte nella Napoli di primo Trecento dagli scultori romani della cerchia di Arnolfo16. Assai più consistente, sotto il profilo quantitativo, ma analogamente difficile da decrittare è il fenomeno della produzione lignea, dominata – se si eccettuano casi isolati di palese importazione come quello già ricordato del Crocifisso di Rapolla – da una serie piuttosto numerosa di gruppi della Madonna, in genere assisa, col Bambino; serie distribuita abbastanza omogeneamente nelle chiese di tutta la Basilicata, ma particolarmente lungo il corso dell’Agri e nell’area del Vulture17. 16 Cfr. A. Prandi, in Basilicata, cit., passim; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 42-46 (ed. 2001, pp. 42-46, 240-41), che ricorda anche utilmente il nome d’un lapicida Angelo da Potenza, attivo nel 1314, e la data (1331) del rilievo – qui citato – della badia di Banzi. 17 Cfr. qui anche il contributo di C. Gelao. Sulle Madonne lignee medievali di Basilicata cfr. complessivamente gli accenni di A. Prandi, in Basilicata, cit., passim; P. Belli D’Elia, Bari Pinacoteca Provinciale, Bologna 1972, p. 27; A. Grelle Iusco, in Ead. (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 46-48 (ed. 2001, pp. 46-48, 241-42); Opere d’arte restaurate a Matera, catalogo della mostra, Matera 1985, pp. 8-12; L’antico nascosto, cit., pp. 70-77; Percorsi d’arte, catalogo della mostra, Venosa 1997, pp. 22-26; Restauri in Basilicata, 1993-97, catalogo della mostra, Matera 1998, pp. 11-17; C. Gelao (a cura di), La Pinacoteca Provinciale di Bari. Opere dall’XI al XVIII secolo, Roma 1998, pp. 29-30; ed ora Leone de Castris, in Leone de Castris, Venturoli (a cura di), Scultura lignea, cit., pp. 3-26, 84-165 (con più ampia bibliografia).

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Fig. 9. Banzi, Badia. Ignoto scultore lucano del 1331, Madonna col Bambino.

Fra i gruppi più antichi occorre ricordare l’esemplare della chiesa del convento di Calvello, creduto già trecentesco dalla Grelle Iusco, ma più verosimilmente ancora pienamente duecentesco, con un certo sapore di bloccata terribilità ancora romanica e le fitte pieghe schiacciate, a ventaglio, quasi sovrapposte ai volumi sodi dei corpi, un po’ come nei capitelli ancora di gusto manfrediano del duomo di Matera, e gli altri esemplari, pur essi «svevi» e di maggiore nobiltà, delle chiese di San Biagio a Rapolla e della Madonna del Bosco a Montemilone; laddove ancor più antiche, e ancora una volta di cultura iberica, catalana, paiono le altre Madonne lignee di Santa Maria d’Orsoleo, della badia di Banzi, di Santa Lucia ad Armento, del santuario del Sauro a Guardia Perticara e infine quella «celebre e potentissima» – evocata da Carlo Levi – del santuario di Viggiano18. 18 C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino 1954, p. 106. Su questo gruppo di Madonne cfr. i titoli alla nota precedente, e in particolare Leone de Castris in Leone de Castris, Venturoli (a cura di), Scultura lignea, cit., pp. 7-15, 84-116 (con bibliografia).

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È sul finire del secolo XIII che le Madonne assise di Sant’Arcangelo, Chiaromonte e Castelmezzano innovano l’impostazione tradizionale degli esemplari duecenteschi adottando un accentuato sviluppo verticale e falcature di panneggi dal sapore gotico, in contatto con la Napoli «francese» e angioina e con la coeva scultura di Capitanata; mentre ormai pienamente trecentesche appaiono quelle della parrocchiale di Marsicovetere, dell’ospizio di Brienza, di Santa Maria Assunta e Santa Maria dei Termini a Spinoso, del santuario della Vergine del Ponte a Policoro, di Santa Lucia ad Anzi, di Santa Maria a San Chirico Raparo, di San Luca ad Armento, quelle ancora di San Nicola a Roccanova e della chiesa del Belvedere a Oppido Lucano, nonché forse l’altra Vergine – stante questa volta – della cattedrale di Marsico Nuovo (figg. 10-11)19; nelle quali, in vario grado, compare una falcatura spezzata o comunque un accentuato linearismo delle pieghe, un’iconografia più colloquiale ed affettuosa, un’attenzione – persino – ai dettagli d’una moda laica e «cortese», e pose talvolta ardite e divaricate, rampanti, del Bambino, tali da suggerire una certa conoscenza della scultura lignea primo-trecentesca meridionale di sofisticata cultura gotico-transalpina – le Madonne, ad esempio, di Pugliano e, specie, di Lucera – e dunque un più stretto contatto col centro d’irraggiamento di questo influsso, e cioè con Napoli e la corte ancora una volta angioina20. Occorre però tornare sul terreno della pittura per registrare gli adeguamenti più certi e vistosi alle nuove sorti dell’arte napoletana sotto il regno, lungo e ricco di avvenimenti culturali, di Roberto d’Angiò. Anche per il panorama artistico lucano, infatti, l’evento davvero significativo, in grado di provocare una svolta chiara rispetto a una tradizione – come abbiamo visto – assai consolidata e resistente, coincide con l’arrivo e l’attività di Giotto a Napoli, fra il 1328 e il 1333, e con la formazione – a partire dagli anni Trenta del secolo – di un’intera generazione di pittori giotteschi locali, meridionali21.

19 Cfr. ancora Leone de Castris, in Leone de Castris, Venturoli (a cura di), Scultura lignea, cit., pp. 12-15, 19-26, 122-65. 20 Bologna, Causa (a cura di), Sculture lignee, cit., pp. 76-77, nota 23; Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., pp. 162-63. 21 Su questo tema cfr., in sintesi, Bologna, I pittori, cit., pp. 179-320; Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., parte V, pp. 313-447, col rinvio alla restante, vasta bibliografia.

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Fig. 10. Marsico Nuovo, Cattedrale dell’Assunta. Ignoto intagliatore di cultura francese della prima metà del XIV secolo, Madonna col Bambino (in deposito a Matera, Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata).

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Fig. 11. Oppido Lucano, Chiesa della Madonna del Belvedere. Ignoto intagliatore lucano del secondo quarto del XIV secolo, Madonna col Bambino.

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Fra le testimonianze più antiche e rilevanti della produzione di questa nuova generazione di artisti ancora conservate in territorio lucano è lo splendido trittichetto portatile dell’episcopio di Tursi, proveniente da Colobraro, del cosiddetto «Maestro delle tempere francescane» (fig. 12), un pittore le cui opere – lo ha ben sottolineato Bologna già dal 1969 – sembrano tracciare la mappa di una circolazione mediterranea, da Napoli e dal regno alla Sicilia, alla Sardegna e alla Provenza, legata alla peregrinazione dei più noti francescani dissidenti, come Arnaldo da Villanova, Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Filippo di Maiorca22. Sebbene l’iconografia del trittico di Colobraro – una Madonna col Bambino e angeli sormontata da un crocifisso nelle braccia dell’Eterno e fra la Vergine e san Giovanni nel pannello centrale, e i due san Giovanni, il Battista e l’evangelista, sormontati dall’annunciazione in quelli laterali – non presenti esplicite tracce di questa committenza francescana e dissidente, è stato supposto che la sua presenza in Basilicata possa legarsi all’espansione, nel corso degli anni Trenta, verso la valle dell’Agri di cenacoli appunto pauperisti raccolti attorno alla carismatica figura di fra’ Angelo Clareno; e l’impressione che l’artista anonimo responsabile di queste opere fosse parte integrante di questa circolazione, sorta di «pittore francescano itinerante», è anzi accentuata dalla circostanza, sinora scarsamente rilevata, della presenza di affreschi di sua mano – inspiegabili dunque, come eventualmente nel caso del trittico ora a Tursi, in termini di mera importazione – a Matera, in Santa Lucia delle Malve23. Qui la raffinata e però guasta testa d’un santo ricorda infatti la tornita calibratura spaziale di stampo giottesco, e di carattere però assieme «cortese», delle cose mature del «Maestro delle tempere» – come ad esempio il polittico di Ottana –, mentre la secchezza arcaizzante

22 Bologna, I pittori, cit., pp. 235 sgg. Sul trittico di Colobraro cfr. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 39; O. Pujmanova, Robert Anjou’s Unknown Tabernacle in Brno, in «The Burlington Magazine», 1979, pp. 473-91; F. Bologna, P. Leone de Castris, Percorso del Maestro di Offida, in Studi di storia dell’arte in memoria di Mario Rotili, Napoli 1984, p. 284; Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, cit., pp. 411-12 e 420, note 33 e 36; Id., Pittura del Duecento, cit., pp. 499-500. 23 Leone de Castris, Pittura del Duecento, cit., p. 500; Id., Arte di corte nella Napoli angioina, cit., p. 421, nota 36; Id., Italia meridionale, cit., p. 198; Id., in Larotonda (a cura di), La Provincia, cit., p. 96.

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Fig. 12. Tursi, Episcopio. Maestro delle tempere francescane, Madonna col Bambino e Santi, trittico (in deposito a Matera, Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata).

dei due san Giovanni e la tipologia iconica della Vergine nel trittico citato di Colobraro fanno piuttosto pensare a una data più antica, forse attorno alla metà del quarto decennio, al tempo in cui questo bizzarro ma davvero straordinario pittore andava gradatamente maturando in chiave appunto giottesca i termini di una formazione verosimilmente spesa negli anni Venti al seguito delle formule umbro-romane di un Lello d’Orvieto24. Tracce di una presenza personale in Basilicata d’un secondo, e persino più intrinseco, «filiato» di Giotto nel corso degli anni imme24 Cfr. specie Id., Arte di corte nella Napoli angioina, cit., pp. 411-12; F. Bologna, Un’aggiunta a Lello da Orvieto, in P. Leone de Castris (a cura di), Scritti di storia dell’arte in onore di Raffaello Causa, Napoli 1988, p. 51.

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diatamente a seguire si conservano anche a Venosa, nella chiesa della Trinità. Qui infatti, non diversamente che a Matera, un tradizionale «tabellone» votivo a fresco – una Santa Caterina d’Alessandria con una Pietà (fig. 13) – e il frammento d’una mutila Annunciazione si distaccano per modernità di linguaggio dagli innumerevoli altri casi analoghi di decorazione murale; con tanta forza da essere stati precocemente riconosciuti come opere napoletane di metà Trecento – e anzi del maggior pittore giottesco locale dell’epoca, Roberto d’Oderisio – già da Berenson nel 1923, per essere poi finalmente restituiti da Bologna, nel 1969, all’altro notevole e anonimo seguace napoletano di Giotto, battezzato – da un ciclo di affreschi in San Pietro a Majella a Napoli – «Maestro della cappella Pipino», ma verosimilmente identico al pittore attivo in anni ancor più antichi nella cappella Barrile in San Lorenzo Maggiore, sempre a Napoli25. D’altronde, se il caso di questa Santa Caterina della Trinità di Venosa è stato con buona verosimiglianza ricondotto al tramite diretto della committenza «feudale» di Giovanni Pipino, conte sino al 1356 di Altamura, Potenza, Bari e Minervino26, e se queste di Matera e di Venosa sono effettivamente le due presenze maggiori e di più alto livello in terra lucana del nuovo linguaggio giottesco maturato a corte, esse – a un vaglio attento – non si possono nemmeno dire del tutto isolate; anzi, sommate ad altri episodi di più modesta caratura, e all’indicatore comunque importante dei rari prodotti su tavola conservatisi sul territorio, vengono ad assumere valore di vero e proprio fenomeno culturale, segnale – come s’è detto – d’uno spostamento deciso degli orientamenti figurativi, attorno alla metà del secolo, verso le novità della capitale. Appartengono infatti a pittori di cultura giottesco-napoletana seguaci rispettivamente del «Maestro delle tempere francescane» e del già citato Roberto d’Oderisio, da un lato le guaste Stimmate di San Francesco fino a qualche tempo fa celate dal coro ligneo della chiesa di

Cfr. B. Berenson, A Panel by Roberto Oderisi, in Studies in Medieval Art, New Haven 1930, p. 81; Bologna, I pittori, cit., pp. 317-18; Leone de Castris, Pittura del Duecento, cit., p. 499. 26 Bologna, I pittori, cit., pp. 311-14, che segnala l’appartenenza al medesimo artista (o – meglio – coppia di artisti in società) degli affreschi della cappella appunto Pipino in San Pietro a Majella, verosimilmente databili attorno al 1348-50. Nell’affresco di Venosa, di qualità più dura e macchinosa, appare in effetti la Pietà sottostante la figura di santa. 25

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Fig. 13. Venosa, Chiesa della Trinità. Maestro di Giovanni Barrile, Santa Caterina d’Alessandria, particolare.

San Francesco a Senise, caratterizzate dai consueti umori espressivi, e dall’altro gli angeli torniti e plastici della cripta materana della Vaglia, una Crocifissione nella medesima chiesa di San Francesco a Senise e forse certi altri, guastissimi affreschi in quella del Crocifisso a Rapolla, questi ultimi due episodi verosimilmente ancora di fine Trecento, laddove già ampiamente quattrocenteschi saranno quelli nel campanile dell’Annunziata di Picerno27; e odorisiana pure, ma di una qualità e di 27 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 40-42. Il San Francesco stimmatizzato riemerso nel coro della chiesa di San Francesco a Senise è citato da C. Muscolino, in Insediamenti francescani in Basilicata, Matera 1988, vol. II, p. 229, e A. Grelle Iusco, in Ead (a cura di), Arte in Basilicata, cit., ed. 2001, p. 240; ed è stato riproposto come «traccia giottesca» in terra lucana da P. Belli D’Elia in occasione del convegno romano Giotto di fine secolo (1999).

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un orientamento «cortese» direttamente confrontabili con l’analoga raffigurazione già in Santa Chiara a Napoli e con la cultura del «Mae­ stro del Liber celestium revelationum di Santa Brigida di Svezia», è l’ingiustamente mal nota ma rilevante Madonna col Bambino affrescata nella più volte ricordata abbazia della Trinità a Venosa (fig. 14). Questa progressiva, crescente attrazione della Basilicata entro l’orbita culturale napoletana non deve tuttavia far pensare che – nel corso del Trecento – la regione interrompesse i legami, sino ad allora tanto stretti, con la Puglia e l’area adriatica, perdendo del tutto l’antico ruolo di terra d’incontro e di «cerniera» fra Oriente e Occidente. Almeno un caso, assai significativo, segnala come questa antica natura e propensione di filtro e terreno di scambio funzionasse ancora – poco prima della metà del secolo – a congiungere il versante adriatico e quello tirrenico del regno angioino nel segno d’un unico itinerario e dell’esperienza unitaria d’un bizzarro artista: il «Maestro di Offida»28. Appartiene infatti alla mano di questo pittore – ed è anzi una delle sue opere più notevoli – il trittico portatile con la Vergine e il Bambino in trono al centro e sei storie del Battista e della Maddalena nei due sportelli laterali (la Visitazione, la Nascita del Battista e il Battesimo a sinistra, la Cena in casa di Levi, la Maddalena nel deserto e la Morte della santa a destra) conservato nella chiesa della Rabatana a Tursi, in provincia di Matera, ma verosimilmente proveniente dal vicino e più antico santuario di Santa Maria di Anglona (fig. 15); un dipinto da altri ritenuto cosa pugliese o napoletana degli anni Settanta del Trecento, ma nel quale già a suo tempo Ferdinando Bologna e chi scrive hanno indicato gli elementi congiunti e originali – attorno al 1340-45 – d’una originaria formazione riminese-marchigiana e d’un successivo incontro con le esperienze giottesco-masiane di Napoli tipici appunto dell’artista responsabile del ciclo della cripta di Santa

28 Cfr. Bologna, Leone de Castris, Percorso del Maestro, cit., pp. 283-305 (cui si aggiunga P. Leone de Castris, Gli affreschi del Trecento e del primo Quattrocento, Cattedrale, Atri, e Gli affreschi trecenteschi del sottotetto. Collegiata di San Michele Arcangelo. Città Sant’Angelo, in Documenti dell’Abruzzo teramano, V.1, Dalla valle del Piomba alla valle del basso Pescara, Teramo 2001, pp. 215-25, 293-96; Id., Gli affreschi dell’antico coro della chiesa di San Domenico e l’attività del presunto Luca d’Atri a Penne, ivi, VI.1, Dalla valle del Fino alla valle del medio e alto Pescara, Teramo 2003, pp. 480-82), con la precedente bibliografia su questa figura di artista girovago.

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Fig. 14. Venosa, Chiesa della Trinità. Ignoto seguace napoletano di Roberto d’Oderisio, Madonna col Bambino, particolare.

Fig. 15. Tursi, Chiesa Rabatana. Maestro di Offida (Luca d’Atri?), Madonna col Bambino e storie del Battista e della Maddalena, trittico (in deposito a Matera, Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata).

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Maria della Rocca a Offida e di altri affreschi, databili all’incirca fra il 1330 e il 1370, nelle chiese marchigiane e abruzzesi di San Francesco a Montefiore dell’Aso, delle Benedettine di Offida, di San Tommaso e San Vittore ad Ascoli Piceno, di San Clemente al Vomano, di San Salvatore a Canzano, presso Teramo, di Santa Maria a Piè di Chienti presso Montecasaro Scalo, di Santa Maria di Ronzano presso Castel Castagna e del duomo di Atri. A una data ancora precoce nell’itinerario di questo ignoto maestro il trittico della Rabatana di Tursi, infatti, sposa la salda tornitura plastica e la monumentale frontalità della figura della Vergine, o anche l’attenta architettura «spaziosa» del trono, palesemente a giorno dei risultati raggiunti da Giotto stesso – con Maso e il resto della bottega – a Napoli fra il 1328 e il 1333 e di quelli dei suoi primi seguaci meridionali – Oderisi, il «Maestro di Giovanni Barrile» e il «Maestro delle tempere francescane» –, con una verve narrativa, una capacità vivace e puntuale di descrizione «mondana» e un certo allungato arcaismo nelle figure degli scomparti laterali che difficilmente possono pensarsi senza la conoscenza – oltre che del napoletano «Maestro delle tempere» – dei pittori riminesi della seconda generazione, come i «Maestri della vita del Battista» o «della Madonna Cini»29. Lungo quale itinerario e per quali tramiti questo dipinto sia poi giunto a Tursi, o nella vicina Anglona, non è dato dire con sicurezza. Nel 1984, studiandone l’operosità, i luoghi, le tappe, le possibili committenze, Ferdinando Bologna provava ad affermare – ipotizzando un’anticipazione della prassi di «migrazione adriatica di prodotti artistici dal Nord verso il Sud, già ben documentata per la Puglia del tardo Trecento in avanti» – una presenza non solo di opere, ma dell’artista in persona, fra Puglia e Lucania («per il Maestro di Offida la prova dei fatti convince che egli stesso, non solo le sue tavole, scorresse in lungo e in largo la costa dell’Adriatico»); appoggiando inoltre queste induzioni ai possibili nessi religiosi fra la chiesa premostratense di Santa Maria di Ronzano in Abruzzo – sede, come s’è detto della sua attività poco dopo la metà del secolo – e gli altri antichi insediamenti dell’ordine a Brindisi, Barletta e Camerota, e anche alla presenza a Potenza negli stessi anni d’un vescovo «Guglielmo di Tor29 Ivi, pp. 283-85. Il trittico di Tursi era stato precedentemente presentato come opera di «ignoto pittore pugliese (?) attivo verso l’ottavo decennio del sec. XIV» alla mostra Arte in Basilicata, cit., pp. 161-64, nota 2 (con la precedente, magra bibliografia).

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re de Adria», e cioè di Atri, altra primaria tappa abruzzese dell’itinerario del nostro pittore30. Oggi è possibile aggiungere a queste stesse ipotesi la circostanza, assai più fattuale e concreta, di altre opere certamente di mano del «Maestro di Offida» eseguite per due centri della Puglia costiera e tali – almeno in un caso – da implicare per forza di cose una presenza appunto personale dell’artista nell’area del basso Adriatico. A Molfetta è infatti suo un affresco staccato con la Madonna e il Bambino in trono conservato nel Seminario regionale, simile agli altri affreschi di Ronzano e Montefiore dell’Aso e assieme sapido e squadrato quasi fosse un Allegretto Nuzi nostrano; e a Barletta, nel Museo diocesano, sono della stessa mano le miniature d’un graduale proveniente dal tesoro della cattedrale, molto vicine – la Natività, ad esempio – alla grande sensibilità descrittiva e alla capacità di narrazione delle storiette del trittico di Tursi31. Sceso per certo lungo la costa adriatica, perciò, sino ai principali porti di Puglia, il «Maestro di Offida» dovette di qui – già prima del 1350 – essere attratto verso Napoli, e di qui rientrare, di ritorno da Napoli, verso i territori usuali della sua attività, Atri e, più su, le Marche; transitando dunque di persona più d’una volta in terra lucana, in una di queste circostanze – con tutta probabilità dopo aver soggiornato a Napoli e aver conosciuto le cose giottesche meridionali – lasciandovi il suo dipinto su tavola; in un territorio, fra «Anglona, Colobraro e Tursi, dove si trovavano e si trovano tuttora, poco meno che a fronte, il trittico del Maestro delle tempere francescane e quello ora alla Rabatana del Maestro di Offida» e dove «non è difficile intravedere come la corrente premostratense-agostiniana che da Brindisi e da Barletta era risalita lungo la costa adriatica fino a toccare Santa Maria di Ronzano venisse ad incontrare proprio in Basilicata, con il suo ramo meridionale, la corrente francescano-pauperistica che discendeva da Napoli»32.

Ivi, pp. 283-84 e 293. Sull’affresco di Molfetta cfr. Leone de Castris, Italia meridionale, cit, p. 201. Sul graduale di Barletta cfr. invece la breve segnalazione, come opera del XIV secolo, da parte di L. Rossi, Musei ecclesiastici in Terra di Bari – VI. Il Museo Diocesano di Barletta, in «Arte cristiana», 760, 1994, pp. 51-56. Su entrambi cfr. ora Leone de Castris, in Larotonda (a cura di) La Provincia, cit., p. 97. 32 Bologna, Leone de Castris, Percorso del Maestro, cit., p. 293. 30 31

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Queste presenze di metà secolo – la sua e quella appunto del «Mae­ stro delle tempere», ma anche del «Maestro di Giovanni Barrile» e forse di Roberto d’Oderisio –, di cui oggi ci rimangono tracce scarse e puntuali, e questi incontri lucani fra le sponde tirreniche e quelle adriatiche del regno dovettero rappresentare, anzi, un nodo di riferimento figurativo per tutta la cultura artistica locale. Se ne ha una chiara idea riguardando con occhio attento, e avvertito di queste circostanze, al ciclo di affreschi che decora la cappella ipogea di San Francesco a Irsina, sempre nel Materano: un ciclo, già studiato nel 1933 dalla Nugent e già da lei datato – anche per la presenza ante quem non d’una immagine di papa Urbano V – agli anni Settanta del Trecento, realizzato da due o tre pittori di cultura in qualche modo napoletana ma a uno dei quali la Grelle Iusco (1981) si è provata non a caso a riferire lo stesso trittico della Rabatana di Tursi del «Maestro di Offida»33. Il ciclo ha fra l’altro una complessità e un’articolazione che con difficoltà s’incontra in esempi lucani dell’epoca; e alterna tradizionali tabelloni con figure singole – fra cui appunto Urbano V, San Ludovico o la Madonna col Bambino in trono –, angeli e simboli degli evangelisti, a più ampi scomparti narrativi, ad esempio con l’Annunciazione, la Presentazione al tempio, l’Ultima cena, la Crocifissione, la Morte e l’Incoronazione della Vergine, mentre nella volta spicca la rara rappresentazione dell’Antico di giorni nella visione del profeta Daniele (7, 9). Ma anche sotto il profilo della cultura figurativa i pittori che ne dovettero essere responsabili – meno forse il più «odorisiano» maestro dell’Incoronazione, maggiormente, ad esempio, quelli degli altri affreschi citati – dichiarano una loro matrice locale proprio nella capacità di mescolare le suggestioni dai giotteschi napoletani – Oderisi, il «Mae­stro delle tempere francescane» – ad arcaismi e resistenze tradizionali e a una vivacità d’espressione – riconoscibile nei volti appuntiti o negli occhi ammiccanti a capocchia di spillo – dichiaratamente a giorno dell’attività meridionale del «Maestro di Offida»34. 33 Cfr. in sintesi M. Nugent, Affreschi del Trecento nella cripta di S. Francesco di Irsina, Bergamo 1933; Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 40 (ed. 2001, pp. 40, 240); V. Pace, Kunstdenkmaler in Italien. Apulien-Basilicata-Kalabrien, Darmstadt 1994, p. 420; Leone de Castris, Italia meridionale, cit., p. 200; Id., in Larotonda (a cura di), La Provincia, cit., pp. 97-98. 34 Sul trittico di Acerenza cfr. Grelle Iusco, in Ead. (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 40, con la giusta notazione d’una dipendenza da «informazioni di Cristoforo Orimina e Niccolò di Tommaso», ma apparentemente con una troppo generica e precoce datazione nel corso (agli inizi ?) della «seconda metà del secolo», laddove

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Il ciclo di San Francesco a Irsina è dunque il prodotto più significativo di questa congiuntura, di questa doppia influenza «adriaticoemi­liana» e «giottesco-napoletana» in terra di Basilicata; e allo stesso tempo – assieme agli altri già ricordati affreschi dell’abbazia della Trinità di Venosa, di San Francesco a Senise, della chiesa del Crocifisso a Rapolla e di quella della Vaglia a Matera – della diffusione di quest’ultimo linguaggio, ancora in auge nella capitale angioina, nella cultura artistica lucana dell’ultimo trentennio del secolo. Non l’ultimo però: che, a parte la data verosimilmente tardiva di alcuni fra questi episodi – come quello, ad esempio, di Senise – e a parte il caso isolato ma davvero interessante del trittico con Sant’Antonio abate in trono al centro, l’Annunciazione e i Santi Onofrio e Paolo Eremita (nelle vesti di centauro) dell’episcopio di Acerenza – dove la cultura degli stessi frescanti di Irsina mostra di aprirsi, sul crinale forse tra i due secoli, alla conoscenza delle imprese napoletane di Niccolò di Tommaso e a un certo iniziale sapore, nel trono «fiorito» ad esempio, di «gotico-internazionale» – sarà più tardi, specie nel Materano, l’emergere di artisti sensibili ai contemporanei eventi di Santa Caterina a Galatina a confermare la validità e la tenuta di questa doppia apertura, verso est e verso ovest35. In età durazzesca, ancora durante il primo trentennio del nuovo secolo, i tabelloni a fresco con i Santi Luca, Giuliano e Pietro martire e la Madonna col Bambino riemersi nella cattedrale di Matera sotto il già citato e più antico Giudizio universale, una Madonna col Bambino nella chiesa madre di Barile e soprattutto – a ben più alto livello – gli affreschi riferiti a un cosiddetto «Maestro dei pastori» in Santa Barbara, Sant’Antonio, San Francesco e San Nicola dei Greci a Matera forse si tratta piuttosto di opera ritardataria di fine Trecento. Apparentemente una datazione ancor più alta e un rapporto – assai più flebile – col «Maestro delle tempere francescane» sono avanzati nella scheda relativa della mostra Percorsi d’arte, cit., pp. 27-31, che peraltro riassume utilmente la provenienza del trittico dalla locale chiesa di Sant’Antonio Abate e la sua menzione già in una visita pastorale del 1542. 35 Sui rapporti con Galatina, la Puglia e il tardo-gotico adriatico di queste testimonianze di primo Quattrocento cfr. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 48-52 (ed. 2001, pp. 48-52, 242-44); Restauri in Cattedrale, cit., pp. 27-39; L’antico nascosto, cit., pp. 40-51; Iusco, Note, cit., p. 127; Leone de Castris, in Larotonda (a cura di) La Provincia, cit., pp. 98-99; A. Cucciniello, La pittura del ’400 in Basilicata e Giovanni di Pietro Charlier di Francia, in F. Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento in Basilicata, Matera 2002, pp. 35-97; e cfr. anche l’intervento di C. Gelao in questo stesso volume.

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e nell’abbazia della Trinità a Venosa stanno a testimoniare in vario modo come il caso del «Maestro di Offida» e dei suoi emuli avesse davvero aperto una nuova tappa di questo tradizionale bilanciamento fra Oriente e Occidente; una tappa nella quale – se l’«Occidente» rimaneva pur sempre identificato in Napoli – la tradizione bizantina doveva invece cedere il passo, come punto di riferimento culturale, a un «Oriente» assai più vicino, a una dimensione adriatica dominata – come sarà per tutto il Quattrocento e il Cinquecento – dall’esportazione di prodotti e di artisti appunto marchigiani e soprattutto veneti, ben attestata infatti in Puglia sin dal tardo Trecento e ben presto estesa ai centri vicini della Basilicata.

ARTI FIGURATIVE: IL QUATTROCENTO di Clara Gelao Il quadro delle arti figurative nel Quattrocento in Basilicata si presenta come una realtà disomogenea e variegata a causa della particolare posizione geografica della regione, idealmente divisa tra penetrazioni tirreniche da un versante e adriatiche dall’altro. Le prime, se trovavano un naturale ostacolo verso l’interno nelle difficoltà di comunicazione conseguenti all’asperità del territorio, erano però favorite dalla presenza, in alcuni centri lucani, di grandi famiglie feudali di origine napoletana e dalla straordinaria forza d’espansione della cultura della capitale. Sull’opposto versante adriatico la provincia di Matera gravitava invece culturalmente verso la Puglia e la Terra d’Otranto in particolare, di cui essa fece parte integrante sino al 1663. La vicinanza al mare e ad alcuni grandi porti pugliesi e la facilità di penetrazione tramite le grandi vie di comunicazione rappresentate dai fiumi (Basento, Agri, Sinni) permise inoltre l’arrivo da questo versante, se non di artisti, di opere provenienti dal Veneto e dal basso Adriatico. La duplicità delle influenze culturali di cui si trova a essere collettore la Basilicata è in gran parte negata da Abbate, il quale ridimensiona di molto l’apporto di Venezia, il cui ruolo non avrebbe avuto «né un’importanza determinante, né un séguito», a tutto favore della presenza napoletana, che si sarebbe però estrinsecata in Basilicata attraverso filoni culturali attardati, già superati nei luoghi d’origine dalle nuove ondate delle avanguardie1. La visione pan-tirrenica e pan-napoletana che ne scaturisce spiega però solo in parte, a mio parere, la complessa situazione artistica che caratterizza nel Quattrocento la regione, la quale al contrario nel rapporto continuo e privilegiato con l’area 1 F. Abbate, Tardogotico e Rinascimento in Basilicata, in Id. (a cura di), Tardogotico & Rinascimento in Basilicata, Matera 2002, pp. 1-29, in particolare p. 17.

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adriatica, con tutto quel che ne consegue a livello culturale, trova uno dei momenti più qualificanti. La disomogeneità di influssi sembra comporsi solo nella diffusione un po’ in tutta la Basilicata, nel corso del Quattrocento, del gotico internazionale; composizione che però non impedisce di distinguere, nei singoli episodi in cui esso si è espresso, matrici spesso confuse e aggrovigliate, un Leitmotiv ricorrente all’interno della cultura artistica della Basilicata, che la rende una palestra di confronti talvolta «unici», assai interessanti e suggestivi. Occorrerà peraltro tenere presente che, a fronte dei diversi stimoli esterni, vi si manifesta con continuità la cultura di fondo statica e restia al rinnovamento propria di una civiltà prevalentemente agricola e pastorale, che ama riconoscersi nelle proprie tradizioni e nel proprio passato. Sino a Quattrocento inoltrato si perpetua pertanto un linguaggio di matrice medievale, tardo-romanico addirittura, che convive con le penetrazioni esterne più aggiornate e che trova per lo più, anche se non esclusivamente, consensi negli strati più bassi e culturalmente meno vivaci della committenza. Da questo complesso intreccio e dall’inevitabile dialettica culturale insita in un contesto qual è quello descritto bisognerà partire nella ricostruzione, sia pure per sommi capi, di ciò che è avvenuto nel panorama delle manifestazioni artistiche del secolo XV. 1. Pittura Il capitolo riguardante la pittura è forse il più interessante nella storia delle arti figurative in Basilicata, ma è, al tempo stesso, quello che ha opposto maggiori resistenze a un’univoca interpretazione critica. Notevoli sono infatti le discordanze di giudizio degli studiosi in relazione ad alcuni episodi pittorici risalenti al XV secolo, quasi che l’apertura della regione alle grandi correnti pittoriche che giungevano dall’esterno e la misura in cui l’una ha prevalso sull’altra abbiano intorbidato e ibridato a tal punto le acque da rendere pressoché impossibile una sistemazione critica condivisa. Né, a dir vero, i più recenti interventi sull’argomento hanno contribuito a fare chiarezza, restituendo anzi talvolta un quadro culturale ulteriormente sfuggente. Uno degli episodi più intriganti della pittura lucana della prima metà del Quattrocento è rappresentato dall’attività di un notevole artista, probabilmente locale, noto alla storiografia col nome di Maestro

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dei Pastori o Maestro di Santa Barbara per aver affrescato, sull’iconostasi della chiesa rupestre di Santa Barbara a Matera, uno scomparto con l’immagine a tutta figura della santa, fiancheggiata da due scomparti disuguali, raffiguranti rispettivamente una minuscola scena bucolica con un pastore2 – presenza che fa riferimento a una categoria certamente assai numerosa all’epoca nel territorio murgiano e forse organizzata in una confraternita di mestiere3 – orante fra le pecore del suo gregge e una Madonna con Bambino in trono (la cosiddetta Madonna del fico), purtroppo giuntaci deturpata a causa della vandalica asportazione della testa del Bambino, avvenuta qualche decennio fa4. Gli affreschi sono collegati in basso da un’alta fascia di minute decorazioni geometriche di vaga eco cosmatesca, simile a quella che divide gli scomparti maggiori, dove è intervallata da tondi, e a quella superiore. Le figure di santa Barbara e della Vergine in trono si stagliano su un’uniforme campitura blu scuro, assai abrasa in corrispondenza del riquadro di destra, profilata da un listello nero che, al pari della fascia geometrica, s’incurva in alto in corrispondenza dell’aureola. La santa indossa una veste bianca ornata da grandi patere geometrizzanti rosse e nere ottenute «a stampino» e un manto rosso, listato da un gallone dorato e fissato sul petto da una fibula mistilinea. La testa, sormontata da una corona tempestata di gemme, ha volto rotondeggiante con occhi «a pesce», naso dritto, bocca socchiusa nel sorriso e un’ombra abilmente sfumata sotto il mento, incorniciato da capelli biondi ondulati fermati sulla fronte da un nastrino nero i cui lembi ricadono sul collo cilindrico. Dall’insieme promana una grazia dolce e acerba tipicamente tardo-gotica, mentre meno leggibile, a causa delle peggiori condizioni di conservazione, è la figura della Vergine, il cui mantello blu scuro foderato di verde ha nel gallone d’oro che ne

2 In realtà i pastori raffigurati sono due, ma di quello di sinistra possono intravedersi solo parte delle gambe, rivolte in senso contrario rispetto al pastore visibile, e il bastone, essendo caduto l’intonaco in corrispondenza del resto della figura. 3 A. Rizzi, La chiesa rupestre di S. Barbara a Matera (III), in «Napoli nobilissima», VII, 1968, pp. 168-82, ritiene (p. 181, note 43-44) che la presenza dei pastori sia da collegare alla leggenda secondo cui proprio un pastore avrebbe rivelato al padre di Barbara, Dioscuro, il nascondiglio della figlia. Ma, a parte il fatto che i pastori presenti nell’affresco sono due e non uno, è per lo meno singolare che l’atteggiamento di quello superstite sia di profondo riguardo nei confronti della santa di cui auspicava la cattura. 4 Una foto precedente all’atto vandalico è pubblicata da Rizzi, ivi, p. 173, fig. 16.

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Fig. 1. Matera, Chiesa rupestre di Santa Barbara. Maestro dei Pastori o Maestro di Santa Barbara, Santa Barbara, Madonna con Bambino, Scena pastorale (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

profila interamente i bordi gli stessi arricciolati manierismi di quello di santa Barbara. La vicenda critica degli affreschi ha inizio nel 1968, quando Rizzi, rendendoli noti per la prima volta agli studi, ne sottolineava l’alta qualità e poneva in rapporto l’epoca d’esecuzione con la data 1448 graffita sull’arco d’accesso alla «cella del custode». La mano dello stesso anonimo artista lo studioso riconosceva poi in un Sant’Antonio abate affrescato nella cripta di Sant’Antuono nell’omonimo convicinio di Matera, la cui condotta pittorica è connotata a suo dire dagli stessi stilemi decorativi di matrice tardo-gotica5. Nel 1981 la Grelle Iusco, nel ritornare su questo importante episodio pittorico la cui datazione anticipa al secondo-terzo decennio del Quattrocento, suggeriva l’ipotesi che l’ignoto frescante si fosse formato nel milieu napoletano seguendo un percorso che, partendo dai rimandi a Niccolò di Tomma5

Ivi, passim.

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Fig. 2. Matera, Cripta di Sant’Antuono. Frescante del XV secolo, Sant’Antonio abate, particolare (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

so – autore nel 1371 di un trittico per il monastero di Sant’Antuono a Napoli ora nel Museo di San Martino – avvertibili nell’affresco materano di uguale soggetto, giungeva ad assorbire le umorose cadenze gotico-internazionali del cosiddetto Maestro dei Penna6. Di altro 6 A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981, pp. 48-49. A questa ipotesi si allinea sostanzialmente Leone de Castris, che identifica modi tardo-trecenteschi di ascendenza odorisiana nel Sant’Antuono, mentre gli affreschi della chiesa rupestre di Santa Barbara mostrerebbero un linguaggio diverso, evolutosi a contatto con i marchigiani attivi a Napoli e in particolare con il Maestro dei Penna (P. Leone de Castris, La pittura a Napoli e nel Meridione nel Quattrocento, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, Milano 1987, vol. II, p. 469). Com’è noto, l’acquisizione agli studi di quest’ultimo artista è merito di F. Bologna che, in I pittori alla corte angioina di Napoli 1266-1414 e un riesame dell’arte nell’età fridericiana, Roma 1969, p. 349, riconoscendone la cultura marchigiano-iberica, gli attribuiva l’affresco raffigurante la Madonna fra Antonio e Onofrio Penna (donde l’appellativo di Maestro dei Penna), distrutto durante l’ultima guerra, sul sepolcro di famiglia nella chiesa di Santa Chiara a Napoli e un trittico, già nella chiesa di San-

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avviso è, poco dopo, Boskovits, che considera l’anonimo maestro profondamente radicato nella tradizione locale, peraltro permeata di influssi veneti, e pone la sua formazione in rapporto con l’ambiente dei frescanti di Galatina, considerando la sua pittura un fenomeno parallelo, anche se più eletto, del cosiddetto Maestro del Messale di San Corrado di Molfetta7 – un miniatore affine a Giovanni Charlier di Francia, quest’ultimo da tempo identificato con Zanino di Pietro e attivo con la sua bottega a Bologna, Venezia e in Italia meridionale dal 1389 al 1448, che giocò un ruolo importante nella cultura apulo-lucana del primo Quattrocento8. Lo stesso Boskovits ampliava il catalogo del Maestro di Santa Barbara con diversi altri dipinti, tra cui il polittico del Musée des Beaux Arts di Lille raffigurante la Madonna con Bambino e santi, datato 1432 e già attribuito a Jacobello del Fiore, il cui stile mostra un’analoga, esasperata ondulazione degli orli delle vesti e la cui provenienza da Trani lo studioso ritiene verosimile per la presenza, in uno scomparto, di san Nicola pellegrino, patrono di quella diocesi: in tutte le sue opere l’artista dimostrerebbe una piena autonomia stilistica non soltanto rispetto all’arte toscana, ma anche a quella napoletana9. Una posizione più prudente sembra tenere Abbate, ta Monica a Napoli, ora nel Museo di San Lorenzo Maggiore. A questi aggiungeva un altarolo con Scene della passione di Cristo nella chiesa di Santa Maria della Consolazione ad Altomonte (Cosenza), oggi nell’annesso museo. Tale suggerimento veniva pienamente accolto dagli studiosi successivi (tra cui M.P. Di Dario Guida, in Arte in Calabria. Ritrovamenti, restauri, recuperi, Cava dei Tirreni 1975, pp. 35-37). Recentemente A. De Marchi ha impresso un’importante svolta allo studio dell’artista (cfr. A. De Marchi, Andrea de Aste e la pittura a Genova e Napoli all’inizio del Quattrocento, in «Bollettino d’arte», 68-69, 1991, pp. 113-30), identificandolo con il piemontese Andrea de Aste (ovvero Asti), attivo in Liguria e a Napoli; su questa base Abbate ha ridimensionato decisamente la portata della cultura marchigiana nella sua formazione, sottolineandone piuttosto le acquisizioni iberiche (Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Roma 1998, pp. 143-48). Naturalmente, per quanto si dice nel testo, la questione del Maestro dei Penna – o Andrea de Aste, se si accetta l’identificazione proposta da De Marchi –, per quanto assai interessante in sé, ha un’importanza solo relativa ai nostri fini, in quanto mi pare dubbio che l’artista abbia qualcosa in comune col maestro attivo nella cripta di Santa Barbara a Matera, se non generiche assonanze. 7 M. Boskovits, Il Maestro di Santa Barbara a Matera, in Scritti di storia dell’arte in onore di Roberto Salvini, Firenze 1984, pp. 233-37. 8 Per un sintetico riesame dell’attività di Zanino di Pietro (alias Giovanni di Francia) e per la bibliografia più recente cfr. M. Lucco, Venezia, 1400-1430, in La pittura nel Veneto. Il Quattrocento, Milano 1989, pp. 13-48, passim. 9 Boskovits, Il Maestro di Santa Barbara, cit., p. 235.

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il quale esprime qualche perplessità circa l’appartenenza al Maestro di Santa Barbara della tavola di Lille, ritenendo però reale il collegamento e sicura testimonianza della «forza d’irradiazione della pittura venetizzante anche nelle zone più interne»10. La vicenda storiografica degli affreschi, che ha visto di recente gli interventi di Leone de Castris11, della Villani12 e della Cucciniello13, dà la misura, crediamo, della disomogeneità del giudizio critico che, a tutt’oggi, non può a mio parere essere definitivo e risolutorio. Difficile pronunciarsi infatti sull’attribuzione al Maestro di Santa Barbara del Sant’Antuono nell’omonimo convicinio materano, figura assai lacunosa, dato che di originale – cosa mai finora notata – sopravvive solo il busto, e sulle sue tangenze con il Niccolò di Tommaso del trittico napoletano, che a me paiono più iconografiche che stilistiche. Quanto all’«accartocciarsi giocoso di stoffe e cartigli», tratto che Boskovits considera tipico dello stile dell’artista, esso rappresenta in realtà un elemento formale all’epoca ampiamente diffuso che accomuna, in misura più o meno accentuata, il già citato Maestro dei Penna (si veda soprattutto l’affresco in Santa Chiara a Napoli distrutto durante l’ultima guerra)14 a molti artisti operosi lungo la costa adriatica, da Jacobello del Fiore a Michele Giambono, da Gentile da Fabriano a Zanino di Pietro, pittore che non a caso Zeri considerava «all’inizio di una corrente diffusasi lungo le coste adriatiche, e soprattutto in Dalmazia, almeno durante i primi quattro decenni del secolo XV»15. Se questo è vero, credo non si possa andare oltre la certezza che il Maestro di Santa Barbara è un frescante locale di cultura adriatica, 10 F. Abbate, Pittura e scultura del Rinascimento, in Storia del Mezzogiorno, vol. XI, t. 4, Roma 1993, p. 451. Il catalogo del Maestro di Santa Barbara è stato in seguito ampliato dalla Muscolino, che gli attribuisce due degli affreschi – esattamente la Madonna con Bambino in trono e San Luca evangelista – scoperti nella cattedrale di Matera rimuovendo un altare nella navata destra (C. Muscolino, in L’Antico nascosto, catalogo della mostra, Matera 1987, pp. 49-50). 11 P. Leone de Castris, I segni dell’arte. Le arti figurative nel territorio di Matera, in A.L. Larotonda (a cura di), La Provincia di Matera. Segni e luoghi, Milano 2002, p. 98. 12 R. Villani, Pittura murale in Basilicata dal Tardo Antico al Rinascimento, Catanzaro 2000, pp. 104-14. 13 In Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 54-60. 14 L’affresco è riprodotto in Bologna, I pittori alla corte angioina, cit., fig. VIII-27. 15 F. Zeri, Aggiunte a Zanino di Pietro, in «Paragone», 153, 1962, pp. 56-60, in particolare p. 59.

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in cui refluiscono elementi veneti, bolognesi e marchigiani, né peraltro mi sembra prudente avanzare precise identificazioni sul tipo di quella che lo vuole autore della tavola di Lille, prodotto sì della stessa cultura, ma di qualità invero molto più eletta: probabile che il centro d’irradiazione di questa pittura dai caratteri davvero «internazionali» possa essere stata davvero Galatina, come voleva Boskovits, nel cui cantiere poté formarsi l’ignoto maestro materano16. Le irradiazioni galatinesi in Basilicata, pur se di accento diverso, non rappresentano peraltro un fatto isolato: esse possono cogliersi infatti in altri affreschi quattrocenteschi, come un Sant’Antonio abate e un San Vito frammentari rinvenuti all’interno della cella campanaria della chiesa di San Francesco d’Assisi a Matera17, o nelle figure di San Pietro martire e di San Giuliano che, sulla parete destra della cattedrale della stessa città, affiancano i due pannelli dalla Muscolino attribuiti al Maestro di Santa Barbara18 – figure che, per inciso, sono sicuramente di mano dello stesso maestro di formazione galatinese attivo nella cripta di San Nicola dei Greci sempre a Matera, raffiguranti un Sant’Antonio Abate e un San Pietro martire. Echi galatinesi giungono inoltre a Venosa, e ciò non dovrà suscitare meraviglia se solo si tengano presenti i legami di parentela tra i del Balzo Orsini principi di Taranto e Maria Donata Orsini, moglie di Pirro del Balzo, conte di Venosa (Giovanni Antonio del Balzo Orsini era zio della contessa venosina). A maestranze galatinesi possono essere attribuiti infatti alcuni affreschi staccati nella chiesa della SS. Trinità (San Biagio e San Quirico, quest’ultimo vicino, nella sottile grazia tardo-gotica, alla Santa Barbara materana, e un assai danneggiato Sant’Antonio abate con storie della sua vita). 16 Recentemente Grelle Iusco, Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, cit. (rist. anast. con note di aggiornamento di A. Grelle Iusco e S. Iusco, Roma 2001), nel pubblicare (figg. 431-34) i brani superstiti di una Sequenza apostolica pertinente a un’Ascensione perduta degli inizi del Quattrocento, venuti alla luce nel catino absidale della chiesa sottostante l’Immacolata a Maratea, opera di un ignoto frescante che a un’impaginazione di tradizione bizantina sovrappone espressionismi e forzature di matrice iberico-catalana, ritiene di riconoscervi «idiomatismi» che caratterizzano tra l’altro anche la formazione del Maestro dei Pastori (p. 243). 17 Su questi cfr. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 49, che li considera collocabili «fra epigoni di Roberto d’Odorisio e prime penetrazioni camerinesi»; C. Muscolino, in Matera, Piazza San Francesco d’Assisi. Origine ed evoluzione di uno spazio urbano, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, Centro Carlo Levi, giugno-settembre 1986), Matera 1986, pp. 297-99. 18 Muscolino, in L’Antico nascosto, cit., pp. 48-49.

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Fig. 3. Matera, Cattedrale. Frescante del XV secolo, San Giuliano (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

A una congiuntura culturale per alcuni aspetti non troppo dissimile rimandano alcuni fatti accaduti nel territorio del Vulture – dal 1420 feudo di ser Gianni Caracciolo, gran connestabile di Giovanna II – dove nella tavola raffigurante la Madonna con Bambino in trono e angeli della chiesa matrice di Atella, purtroppo assai guasta, è stata riconosciuta di recente un’opera uscita direttamente, tra il quarto e quinto decennio del Quattrocento, dalla bottega di Giovanni di Francia19, alcuni dipinti del quale erano giunti, com’è noto, sino in Puglia, dove l’artista sembra aver lavorato anche di persona20. Con la pala 19

47.

Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 44-

20 M. D’Elia, Mostra dell’arte in Puglia dal tardoantico al rococò, Roma 1964, pp. 54-56; R. Lorusso Romito, Cultura figurativa «adriatica» in Puglia tra XIV e XV secolo, in R. Cassano, R. Lorusso Romito, M. Milella (a cura di), Andar per mare. Puglia e Mediterraneo fra mito e storia, catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo, 14 giugno-16 novembre 1997), Bari 1998, pp. 351-58.

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Fig. 4. a e b. Genzano, Chiesa del Sacro Cuore. Maestro del XV secolo, Sant’ Antonio e Santa Chiara (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

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a

b

di Atella erano state collegate in passato, a mio parere giustamente, le due tavolette, parti di un polittico smembrato, nella chiesa del Sacro Cuore di Genzano, con Santa Chiara e Sant’Antonio da Padova21, più recentemente espunte dalla congiuntura veneto-adriatica di cui è esponente Giovanni di Francia e messe in relazione con l’ambiente campano, fra Angiolillo Arcuccio e il Colantonio degli anni Sessanta-Settanta22. All’ignoto maestro attivo ad Atella e Genzano, forse in una fase più precoce, va sicuramente attribuita anche la tavola raffigurante la Madonna della misericordia nella cattedrale di Venosa, in cui la Vergine ripara sotto il suo ampio mantello due nutriti gruppi di devoti dalle frecce che un Eterno insolitamente feroce sta scagliando dall’alto. Iconografia presente in Basilicata anche nel grande affresco nella chiesa di Santa Lucia ad Atella, dove le frecce che piovono numerose sui devoti stretti sotto il manto della Vergine vengono porte 21 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 49-52; Leone de Castris, La pittura a Napoli, cit., p. 470. 22 Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 94.

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Fig. 5. Venosa, Cattedrale. Maestro del XV secolo, Madonna della Misericordia (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

all’Eterno da due compunti angeli che ne tengono ciascuno un mazzo, ben ordinato e pronto per l’uso. In esso, se emergono ancora nella parte superiore vaghi ricordi di Giovanni di Francia, è assente però del tutto la vivace sigla lineare tipica del suo stile, sostituita, nella figura della Vergine, da una monumentalità quasi pierfrancescana23. Intorno al 1450-60 deve datarsi a mio avviso una tavoletta, non estranea al linguaggio di Giovanni di Francia, ma tradotto in una sapida cifra popolaresca, conservata nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Barile, con la Vergine a mezza figura che regge un grasso Bambino seduto in una scomoda posizione a gambette accavallate, con un uccellino al laccio24. Molto alterato, invece, a causa delle pesanti ridipinture che ne hanno gravemente compromesso l’aspetto 23 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 49; Leone de Castris, La pittura a Napoli, cit., p. 470; Villani, Pittura murale, cit., pp. 122-24; Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 62. 24 La Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 58, la considera invece opera di uno dei pittori attivi a Ripacandida (cfr. oltre nel testo).

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originario, l’affresco raffigurante l’Annunciata nell’omonimo santuario di Picciano, non lontano da Matera, per il quale si può fissare una datazione intorno alla metà del secolo25. Col progredire della seconda metà del secolo, la cultura dei mae­ stri locali si arricchisce di nuove componenti, spesso recepite con ritardo o malintese, che s’innestano su un fondo sostanzialmente conservatore. Fra il sesto e settimo decennio del Quattrocento si pone l’attività di un anonimo frescante, noto come Maestro di Miglionico dalla località in cui sorge la cappellina rurale della SS. Trinità, il cui interno, completamente affrescato, costituisce senz’altro la sua opera più nota. Gli affreschi, di poco precedenti al 1466 (data graffita sull’intonaco), occupano la controfacciata, entrambe le pareti laterali e la parete di fondo della minuscola cappella. I meglio conservati sono indubbiamente quelli sulla parete destra, dove, all’interno di cornici geometriche, troviamo nel registro inferiore la Santissima Trinità, la Madonna in trono con Bambino e angeli musicanti, San Luca (?) e San Giacomo maggiore; in quello superiore Sant’Antonio da Padova, Maria di Giacobbe, la Madonna in trono con Bambino, Maria Salomè e Maria Maddalena. Si tratta di un artista locale indubbiamente ancora partecipe, seppur con considerevole ritardo storico, del gotico internazionale, che egli interpreta con una cifra tutta personale, riconoscibile nei colori vivaci e sgargianti, nell’esuberanza decorativa delle vesti dei personaggi femminili, tempestate di fiorami o motivi geometrici iterati, nel modo di animare i panneggi con lumeggiature due o tre toni più chiare del colore di fondo, nei visi tondeggianti dagli occhi attoniti, caratterizzati da una certa ripetitività nei tipi maschili e femminili26. Questo artista locale ancora senza nome dovette godere ai suoi tempi di una certa fama e di un certo apprezzamento anche da parte del piccolo clero materano: la sua mano è stata riconosciuta 25 Per questo affresco cfr. D. Giordano O.S.B., in F. Di Pede (a cura di), Matera. S. Maria di Picciano, Matera s.d., pp. 18-23; C. Campoli, Picciano. Una presenza lunga e significativa in Basilicata, «Quaderno della Comunità monastica benedettina di Santa Maria di Picciano-Matera», 7, Matera 1987, pp. 86-91. 26 Per gli affreschi della cappella della Trinità di Miglionico cfr. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 58; Leone de Castris, La pittura a Napoli, cit., pp. 46970; C. Muscolino, Quando nel tre ci sta il quattro. A proposito degli affreschi della Santissima Trinità di Miglionico, in C. Gelao (a cura di), Studi in onore di Michele D’Elia. Archeologia, Arte, Restauro e Tutela, Archivistica, Matera-Spoleto 1996, pp. 206-12; Villani, Pittura murale, cit., pp. 126-30; Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 70-81 (a).

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Fig. 6. Miglionico, Cappella della Trinità. Maestro di Miglionico, Madonna in trono con Bambino, Maria di Giacobbe, Sant’Antonio da Padova (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

infatti nel ciclo d’affreschi, ora staccati e depositati presso la Soprintendenza per il patrimonio storico-artistico ed etnoantropologico della Basilicata, che decoravano le pareti della cripta di Santa Maria de Idris a Matera: una serie di tabelloni votivi dove ritornano gli identici stilemi formali presenti a Miglionico, se non fosse per la vena decorativa, che risulta alquanto attenuata27. L’attribuzione al Maestro di Miglionico degli affreschi materani ora citati consente di assegnargli senza possibilità di dubbio quelli recentemente messi in luce in una delle cappelle laterali, probabilmente in origine dedicata a San Gio27 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 58 e scheda n. 4 alle pp. 169-71; Leone de Castris, La pittura a Napoli, cit., pp. 469-70; Villani, Pittura murale, cit., pp. 132-33; Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 70-81 (b, c, d, e).

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vanni Battista e interamente affrescata, nella chiesa di San Pietro Caveoso nella stessa città28. Assai lacunose le pitture sulla parete laterale sinistra, mentre nella destra sono riconoscibili, sebbene devastati dalle martellature, ampi brani delle Storie del Battista articolate in riquadri. Sopravvivono in condizioni relativamente buone gli affreschi che rivestono la calotta dell’abside e i risvolti di muro ai lati di questa, i quali ultimi dovevano sovrastare delle sepolture, come si evince dalle iscrizioni incise lungo il margine inferiore. Nella concavità dell’abside sono distribuite, rispettivamente a sinistra e a destra d’un riquadro centrale assai lacunoso, le figure stanti di Sant’Antonio abate, Santa Margherita, San Leonardo, San Pietro martire, San Pietro e San Paolo, i due ultimi contitolari della chiesa. Il catino absidale, delimitato lungo il bordo da una doppia fascia con tondi inquadranti testine di santi, ospita una solenne Deisis, accompagnata da angeli e da un minuscolo committente: scena purtroppo godibile solo in parte a causa delle vaste lacune. I confronti che si possono stabilire con le altre opere del maestro sono di tale inoppugnabile evidenza da non aver bisogno di particolari sottolineature: in particolare la Santa Margherita è sorella della Maria Salomè e della Maria di Giacobbe di Miglionico, mentre il San Leonardo è pressoché sovrapponibile a quello presente nella chiesa di Santa Maria de Idris a Matera. Nelle parti meglio conservate, come quelle superstiti del catino, si possono apprezzare inoltre le capacità coloristiche dell’ignoto maestro nell’incarnato terreo di San Giovanni Battista, nei panneggi delle vesti rialzati dalle caratteristiche lumeggiature, nella ricchezza e precisione della decorazione. Al Maestro di Miglionico sono stati attribuiti anche una Deisis, nonché altri affreschi (una Crocifissione, una Madonna con Bambino e un’Annunciazione), purtroppo assai rovinati e facile preda a tutt’oggi del più sfrenato vandalismo, nella chiesa rupestre delle Tre Porte a Matera29, ma la qualità più scadente e corsiva nonché l’assenza di alcuni carat28 Agli affreschi recentemente scoperti si accenna in M. Padula, C. Motta, San Pietro Caveoso. Note storiche, Matera 1994, p. 65, i quali li ritengono opera del tardo XVII secolo (sic!) di mano di Martino Deghello che, in realtà, come ho potuto accertare, è solo il titolare di uno dei sepolcri presenti nella cappella. Per un esame aggiornato degli affreschi cfr. Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 70-81 (f), la quale, complicando inutilmente le cose, alla comune denominazione di Maestro di Miglionico sostituisce quella di Maestro del sepolcro di Martino de Chello. 29 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 58; Leone de Castris, La pittura a Napoli, cit., p. 470; Villani, Pittura murale, cit., pp. 130-32.

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teri stilistici peculiari del maestro non sembrano indicare la sua mano, quanto piuttosto quella di un ignoto seguace e imitatore locale che, in particolare nella Deisis, trascrive in maniera letterale l’immagine assai più articolata e complessa presente nella cappella di San Pietro Caveoso30. Una cultura per certi versi affine a quella del Maestro di Miglionico mi paiono rivelare anche alcuni affreschi provenienti dalla chiesa rurale di Santa Maria della Foresta al Bosco delle rose poco fuori Lavello31, attualmente esposti nella sede della Banca di credito cooperativo di Gaudiano-Lavello nella stessa città32. Si tratta di una serie di tabelloni votivi, non legati da un ciclo narrativo e in genere assai abrasi, in alcuni dei quali, meglio conservati dal punto di vista cromatico (San Giacomo maggiore, erroneamente indicato in sede d’esposizione come San Paolo, e San Pietro, Cristo in trono, l’Annunciazione), ritornano nei panneggi alcuni manierismi affini a quelli adottati dal maestro attivo a Matera e Miglionico. Intorno al 1470, a ridosso del terribile terremoto del 1456, si situa a mio parere l’inizio dell’impresa certo più significativa nell’ambito della vicenda della pittura gotico-internazionale in Basilicata: gli affreschi che coprono volte, pareti e pilastri della chiesa di San Donato a Ripacandida, poco lontano da Venosa, dedicata al monaco virginiano originario della stessa Ripacandida morto diciannovenne nel 119833. Un’impresa che, ancora una volta, ha visto gli studiosi discordi sia nella datazione del complesso pittorico che nel riconoscimento delle correnti culturali che in essa hanno trovato voce e nella precisazione della provenienza dei frescanti attivi in questa remota contrada del30 Di recente, gli affreschi sono stati attribuiti alla bottega di Giovanni di Francia (Cucciniello, in Abbate [a cura di], Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 50-53). 31 Gli affreschi sono stati pubblicati, ancora nella loro sede originaria, da Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 58 e scheda alle pp. 164-68. Un cenno è anche in Leone de Castris, La pittura a Napoli, cit., p. 470. Più di recente cfr. Villani, Pittura murale, cit., pp. 115-20; Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 64-69. 32 Per le ragioni del trasferimento cfr. A. Rosucci (a cura di), Una chiesa medioevale di Lavello e gli affreschi del XV secolo (Santa Maria della Foresta al Bosco delle Rose), Lavello 1997. 33 Un rapido cenno alla chiesa è in N. Barbone Pugliese, Ripacandida (Potenza). Chiesa di San Donato, in «Bollettino d’arte», 29, 1985, pp. 141-45, in particolare p. 141. Per le fonti relative al convento cfr. G. Ciotta, Insediamenti francescani in Basilicata. Rassegna delle fonti inedite e bibliografia, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», VII, 12, 1986, pp. 117-41, in particolare p. 138.

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Fig. 7. Ripacandida, Chiesa di San Donato. Veduta dell’interno (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

Fig. 8. Ripacandida, Chiesa di San Donato. Maestro del XV secolo, affreschi della volta, particolare (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

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Fig. 9. Ripacandida, Chiesa di San Donato. Maestro del XV secolo, affreschi con le Storie di Sant’Antonio Abate e San Paolo eremita (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

la Basilicata. La chiesa di San Donato risulta essere stata affidata ai Francescani Osservanti solo nel 160434, ma la presenza negli affreschi di santi francescani (lo stesso San Francesco, San Bernardino da Siena – secondo altri, invece, si tratterebbe del domenicano san Vincenzo Ferrer –, San Ludovico da Tolosa) ci rende certi che sin dal Quattrocento vi si fosse insediata una comunità francescana35. Gli affreschi di Ripacandida, talvolta citati come un insieme unitario, sono in realtà di mano e di cronologia diverse: il ciclo principale, frutto di un’unica maestranza che comunque contava al proprio interno artisti dotati di ineguali capacità espressive, interessa la seconda e la terza campata 34 S. Iusco ritiene invece (Gli affreschi della chiesa di San Donato a Ripacandida, in Itinerari del sacro in terra lucana. La Basilicata verso il Giubileo, Potenza 1999, pp. 167-78, in particolare p. 167) che questa data si riferisca non alla chiesa di San Donato, ma ad altro insediamento francescano a Ripacandida. 35 Barbone Pugliese, Ripacandida (Potenza), cit., p. 141.

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della chiesa e illustra temi veterotestamentari (Storie di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Giuseppe; Storie della Genesi; Storie di Noè), Storie di sant’Antonio abate e san Paolo eremita, San Francesco che consegna la regola al primo e secondo ordine della sua religione sulle volte e sulle pareti, e santi entro tabelloni votivi sui pilastri. Gli affreschi nella prima campata, con Scene della vita di Maria e della passione di Cristo, insieme a Sibille e Virtù, di caratura stilistica ben più modesta, sono invece posteriori (inizi secolo XVI) e gravemente danneggiati in corrispondenza della controfacciata. Il restauro successivo al sisma del 1980 ha scelto di non eliminare, per non compromettere la leggibilità degli affreschi, le ridipinture e riprese ottocentesche, cosa che ne impedisce a tutt’oggi una valutazione obiettiva36. La storia critica di questo importante episodio di pittura murale in Basilicata prende avvio nel 1932-33, quando Galli segnalava per la prima volta gli affreschi, datandoli alla prima metà del Quattrocento37; successivamente Prandi individuava in essi la mano del «più singolare artigiano che forse è mai vissuto in Lucania»38. La Grelle Iusco, distinguendo negli affreschi la mano di un maestro anonimo certamente locale da quella di due aiuti, ne sottolineava i rapporti con la cultura tardo-odorisiana e vi individuava un «linguaggio ‘cortese’ nella complessa accezione percepibile a Napoli già nei primi decenni del secolo»; linguaggio che si arricchiva poi a suo parere, nei santi affrescati sui pilastri, di echi marchigiani39. A una cultura iberico-marchigiana rimanda Abbate, che considera gli affreschi di Ripacandida stilisticamente vicinissimi, tanto da potersi parlare di un’identità di mano, a quello raffigurante l’Andata al Calvario nel convento della SS. Pietà a Teggiano, datato 148740. Più di recente lo

36 La situazione è descritta esattamente nelle perizie del restauro, effettuato da Mauro Franzesini, conservate nell’Archivio della Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico della Basilicata. 37 E. Galli, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in «Bollettino d’arte», serie III, 26, 1932-33, pp. 321-41, in particolare pp. 339-40. 38 A. Prandi, Arte in Basilicata, in Basilicata, Milano 1965, pp. 206-10. 39 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 57-58. Leone de Castris (La pittura a Napoli, cit., p. 470) pensa a un maestro locale per gli affreschi di soggetto veterotestamentario, mentre a un «secondo maestro orientato verso i modi più raffinati del Gotico internazionale sanseverinate» attribuisce i santi sui pilastri. 40 Abbate, Pittura e scultura, cit., p. 451. L’ipotesi è ribadita in Id., Storia dell’arte, cit., pp. 176-77. Per l’affresco di Teggiano e la cultura che in esso si esprime cfr. C. Restaino, in Il Vallo ritrovato. Scoperte e restauri nel vallo di Diano, Napoli 1989,

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Iusco, sottolineando giustamente la necessità di distinguere gli artisti attivi rispettivamente nella prima e nella seconda-terza campata, avanza l’ipotesi che la realizzazione degli affreschi si sia protratta sino al primo trentennio del Cinquecento: le storie veterotestamentarie sarebbero da attribuire a Nicola da Nova Siri, che le avrebbe eseguite intorno al 1506 e che successivamente, alla svolta del terzo decennio, sarebbe tornato a Ripacandida per eseguire gli affreschi sui pilastri. Quanto al ciclo cristologico della prima campata, esso sarebbe opera di Antonello Palumbo di Chiaromonte, che firma un affresco raffigurante una Madonna in Maestà venuto recentemente alla luce nella chiesa di San Francesco a Pietrapertosa41. La tesi è sostanzialmente accolta dalla Cucciniello che, correggendo giustamente il luogo d’origine del frescante Nicola da Nova Siri in Novi Velia e dirottandone quindi la formazione in area campana, anticipa comunque il primo intervento dell’artista a Ripacandida alla seconda metà del Quattrocento42. Pur non disconoscendo le varie componenti culturali, anche indirettamente «tirreniche», che s’intersecano e interagiscono in un’opera delle dimensioni del ciclo di Ripacandida, in cui certamente un maestro di più elevate capacità, riconoscibile nelle scene di qualità più eletta, formulò il piano generale, affidando a diversi, numerosi aiuti, talora locali, singole scene o figure o motivi decorativi, credo vada riaffermata in questa sede la cultura essenzialmente umbro-marchigiana di fondo, d’accezione sanseverinate, di queste maestranze probabilmente itineranti, scese in Lucania lungo l’Adriatico43. È evidente peraltro, mi sembra, il ricorso a fonti miniatorie, a erbari, libri di caccia e a bestiari, soprattutto nelle scene della Genesi (si vedano ad esempio i riquadri con la Creazione degli uccelli e la

pp. 48-49; F. Abbate, Aspetti della cultura figurativa nel Vallo di Diano. Committenza e territorio, ivi, pp. 31-42, in particolare p. 36. 41 Iusco, Gli affreschi della chiesa di San Donato, cit. In questi affreschi (o, per lo meno, nella scena raffigurante l’Annunciazione), Alparone credeva invece di riconoscere la mano di Giovanni di Gaeta (G. Alparone, Presenza di Giovanni da Gaeta a Ripacandida, in «Arte cristiana», 80, 1992, pp. 151-52). 42 Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 8293. 43 Tale interpretazione, che non ritengo di dover modificare, è stata da me già sostenuta nella schedatura degli affreschi condotta negli anni Ottanta per conto della Soprintendenza della Basilicata.

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Creazione degli animali) e nelle Storie di Noè, pervase da un gusto narrativo quasi fiabesco, che non disdegna la descrizione minuta e realistica, eppur di incantevole ingenuità, dei particolari. I rimandi che più facilmente affiorano alla memoria sono quelli allo Jacopo e al Lorenzo Salimbeni dell’oratorio di San Giovanni a Urbino, dove in scene come il Battesimo dei neofiti troviamo la stessa atmosfera fiabesca, lo stesso gusto narrativo che indulge alla cura dei particolari, la stessa vena naturalistica nonché una simile ambientazione in un paesaggio irto di irreali roccioni scheggiati44. Certo, si tratta di assonanze (nel San Francesco che riceve le stimmate su uno dei pilastri della chiesa di Ripacandida riecheggia persino Gentile da Fabriano45), ma sufficienti, mi sembra, per affermare che la cultura di matrice marchigiano-sanseverinate che si esprime a Ripacandida non sia un ribattito da Napoli, dove essa appare commista a tangenze diverse, catalano-valenzane in specie, quanto piuttosto un autonomo filone giunto attraverso la facile via dell’Adriatico (non si dimentichi, d’altronde, la facile possibilità d’accesso al territorio del Vulture partendo dai porti di Barletta e di Trani)46. All’artista attivo nella cappella della SS. Pietà di Teggiano mi sembra vadano piuttosto restituite due figure a fresco (un San Francesco d’Assisi e una Santa Chiara) nella chiesa di San Francesco a Potenza, stilisticamente vicine a quelle di San Francesco, un santo martire francescano e san Bernardino da Siena affrescate in un trittico nella chiesa di San Francesco a Teggiano, recentemente attribuito all’autore dell’Andata al Calvario nella stessa città47, e forse, il San Bernardino

Per le illustrazioni di confronto cfr. A. Rossi, I Salimbeni, Milano 1976. Abbate, Storia dell’arte, cit., p. 176 vi vede invece un richiamo ai modi di Giovanni da Gaeta. 46 Uno dei maestri, quasi sicuramente locale, attivo in alcune figure dei pilastri della chiesa di Ripacandida (Santo diacono, San Biagio, San Nicola), affresca almeno tre figure (San Paolo, San Vito e San Nicola, questi ultimi staccati) nella chiesa della SS. Trinità a Venosa. 47 Restaino, in Il Vallo ritrovato, cit., p. 50; Abbate, Storia dell’arte, cit., p. 176. La d’Aniello attribuisce dubitativamente al Maestro della Pietà di Teggiano anche il ciclo d’affreschi con Storie di Cristo e della Vergine; Madonna con Bambino e apostoli; Dottori della Chiesa nella chiesa di San Filippo d’Agira a Laurito (cfr. A. d’Aniello, in Il Cilento ritrovato. La produzione artistica nell’antica Diocesi di Capaccio, catalogo della mostra (Padula, Certosa di San Lorenzo), luglio-ottobre 1990, Napoli 1990, pp. 77-79). L’opinione viene accolta nella sostanza anche da Abbate (Storia dell’arte, cit., pp. 176-77). 44 45

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nella chiesa di San Francesco a Senise, concordemente attribuito al già Nicola da Nova Siri, ora da Novi Velia48. L’ultimo episodio «locale», non ancora immune da cadenze tardo-gotiche, degno di menzione è l’affresco raffigurante la Madonna con Bambino tra san Giovanni Battista e san Cataldo dipinto nel 1494 nella conca dell’abside della chiesetta del Calvario a Maratea per i confratelli di San Cataldo da Giovanni Palumbo da Chiaromonte, fratello del già citato Antonello, che appone una lunga iscrizione lungo il margine inferiore dell’affresco. Ripartito in scomparti da cornici con minuti motivi geometrici, con le consuete decorazioni a stampino nei drappi usati come fondale alle figure di santi, e a estofado in quello dietro la Vergine, l’affresco è viva testimonianza della persistenza di una cultura attardata, legata strettamente a matrici goticheggianti ancora alla svolta del secolo, appena vivificata dalla più pungente tensione espressiva dei volti49. In un panorama già così ricco e arduo da decifrare si inseriscono dialetticamente gli arrivi di dipinti dai grandi centri di elaborazione artistica in Italia (Venezia, ma non solo), opera di artisti di grido interpellati da una committenza colta e danarosa, quasi sempre ecclesiastica, che desiderava assicurarsi testimonianze artistiche di prestigio attraverso le quali manifestare la sua potenza economica e il suo livello d’aggiornamento culturale.

48 Cfr. per ultima Cucciniello, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 89. 49 Sull’affresco cfr. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 64 che, attribuendolo al supposto Antonio Aiello, è vittima della confusione esistente all’epoca tra questi e Giovanni Palumbo di Chiaromonte sul Sinni, che in realtà lo data e lo firma (curiosamente, a p. 155, nota 120, la stessa Grelle Iusco si chiede perché l’affresco di Maratea sia attribuito ad Antonio Aiello pur essendo firmato da Giovanni Palumbo!). Lo stesso pseudo-Antonio Aiello è da lei riconosciuto anche nel Cristo in gloria nel catino della cappella dell’Annunziata a Rivello, datato 1517 (recentemente assegnato ad Antonello Palumbo, fratello del Giovanni attivo a Maratea, cfr. Iusco, Gli affreschi della chiesa di San Donato, cit., p. 171), e nella decorazione absidale della chiesetta di Santa Barbara sempre a Rivello. Sull’affresco di Maratea è ritornata recentemente la Cucciniello (in Abbate [a cura di], Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 81), che inserisce Palumbo nel solco del Maestro del sepolcro di Martino de Chello, alias Maestro di Miglionico. Colgo l’occasione per ringraziare il restauratore Paolo Schettino di Maratea, che con enorme disponibilità mi ha fornito la documentazione fotografica a colori dell’affresco della chiesa del Calvario di Maratea.

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Fig. 10. Napoli, Gallerie di Capodimonte, dalla cattedrale di Montepeloso, attuale Irsina. Andrea Mantegna, Santa Eufemia (foto Bari, Pinacoteca provinciale, su autorizzazione della Soprintendenza Polo museale napoletano).

Agli inizi della seconda metà del Quattrocento, esattamente nel 1454, giungeva a Montepeloso (l’attuale Irsina) la tela di Andrea Mantegna raffigurante Santa Eufemia, datata appunto a quell’anno: dipinto che, dopo essere passato, presumibilmente alla fine del Settecento, in collezione Borgia e successivamente nel museo di Velletri, è approdato nelle gallerie di Capodimonte50. In origine la tela (probabilmente rinforzata sul retro da una tavola) doveva apparire in una forma più complessa rispetto a come la vediamo attualmente, dato che comprendeva anche due sportelli (perduti o irrintracciabili) 50 C. Gelao, Per Andrea Mantegna: una precisazione e una proposta, in Ead. (a cura di), Studi in onore di Michele D’Elia, cit., pp. 239-52, in particolare pp. 239-41. Sulla tela cfr. K. Christiansen, in J. Martineau (a cura di), Andrea Mantegna, catalogo della mostra (Londra, Royal Academy of Arts-New York, Metropolitan Museum of Art), Milano 1992, pp. 140-42, dove ancora non è nota l’ubicazione originaria del dipinto e, più recentemente, ancora C. Gelao, Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia alla cattedrale di Montepeloso, Matera 2003, pp. 98-105.

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in cui erano raffigurati episodi della vita della santa e martirii da lei subiti. L’aspetto originario del dipinto e le circostanze del suo arrivo a Irsina, dove fu portato direttamente dal committente, il presbitero Roberto de Amabilibus (nei documenti padovani citato più frequentemente come de Mabilia), un illustre montepelosino trasferitosi giovanissimo a Padova per studiare nella locale università e qui divenuto rettore della chiesa di San Daniele51, sono descritti nel poemetto sulla vita della santa scritto da Pasquale Verrone, sacerdote nella diocesi di Montepeloso e in seguito arcidiacono del capitolo cattedrale, dato alle stampe a Napoli nel 159252, ritrovato e ripubblicato qualche anno fa53. La presenza in Basilicata del dipinto di Mantegna, uno dei capolavori giovanili dell’artista, non ha lasciato altre tracce, oltre quelle forniteci dal poemetto di Verrone. Il suo arrivo precede quello di altre opere venete, nel quadro di un diffuso fenomeno che investe tutta la zona nord-orientale della regione come riflesso di quanto avveniva, in forme ben più vistose e programmate, nell’adiacente Puglia, dal punto di vista artistico vera e propria provincia, sin quasi alla fine del Cinquecento, della Serenissima. Agli inizi del settimo decennio del Quattrocento viene per lo più datato un polittico a nove scomparti nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Matera, smembrato e rimontato sulla cantoria della chiesa nel tardo Seicento, che denota riprese vivarinesche (più da Antonio che da Bartolomeo), e più in generale echi di cultura padovana (la vicenda critica del dipinto è stata ripercorsa qualche anno fa dalla Giannatiempo, alla quale si rimanda per più minute puntualizzazioni)54. Come Longhi ha riconosciuto sin dal 193455, si tratta di un’opera appartenente alla prima maturità di Lazzaro Bastiani (Venezia, attivo 1449-1512), pittore e mosaicista che 51 Su de Mabilia cfr. Gelao, Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia, cit., pp. 23-36. 52 P. Verrone, Vita Divae Euphemiae Virginis et Martyris, stampata «apud Jo. Jacobum Carlinum, & Antonium Pacem», Napoli 1592. Il raro volumetto è conservato in due copie nella Biblioteca vaticana. 53 N. di Pasquale, Vita di Sant’Eufemia Vergine e Martire di Calcedonia protettrice della città di Irsina, Matera 1987 (rist. 2001). 54 M. Giannatiempo, in Piazza San Francesco, cit., pp. 285-96. Sul polittico cfr. più di recente A. Palumbo, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 174-79. 55 R. Longhi, Officina ferrarese, Firenze 1934. Abbiamo utilizzato l’edizione contenuta in Opere complete, vol. V, Firenze 1956, p. 97, nota 59.

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Fig. 11. Genzano, Chiesa di Santa Maria della Platea. Giovanni Bellini (?), polittico (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

alcune fonti dicono aver compiuto il suo alunnato presso Antonio Vivarini, maturandosi nella temperie culturale «squarcionesca» padovana e divenendo poi a sua volta maestro di Vittore Carpaccio56. Allo stesso Bastiani, a una data corrispondente al 1473-74, è stato assegnato da Rizzi un altro polittico, composto di sei tavole forse manomesse, nella chiesa di Santa Maria della Platea a Genzano57, che nei panneggi inamidati di alcuni personaggi (come il Sant’Antonio abate e il San Pietro dello scomparto in basso a sinistra, e il San Giovanni 56 Sull’artista cfr. E. Arslan, s.v. Lazzaro Bastiani, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. VII, Roma 1965, pp. 167-69; P. Humfrey, Lazzaro Bastiani, in La Pittura nel Veneto. Il Quattrocento, cit., vol. II, pp. 733-34. 57 A. Rizzi, Un polittico inedito di Lazzaro Bastiani, in «Arte veneta», 23, 1969, pp. 21-30. L’autore aveva già anticipato l’attribuzione a Bastiani in Per una storiografia artistica sulla Basilicata, in «Napoli nobilissima», 5, 1966, p. 206, fig. 31.

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Battista e il San Sebastiano nel corrispondente scomparto di destra58), mostra anch’esso tangenze vivarinesche. Ma la qualità discontinua e i persistenti «grecismi», come il manto crisografato dell’Annunziata, indurrebbero piuttosto a riconoscervi la mano del giovane Bellini – in una fase in cui l’artista prova ad accogliere nella sua pittura portati più moderni e aggiornati, non riuscendo però a superare l’impressione di una meccanica sovrapposizione fra vecchio e nuovo. Ancora da Venezia proviene lo splendido polittico di Cima da Conegliano recentemente ritornato nella chiesa matrice di Miglionico – ma già nella chiesa di San Francesco d’Assisi nella stessa città – che, stando a una tradizione assai radicata in loco, riportata per la prima volta da Menegazzi, non sarebbe stato dipinto per la chiesa conventuale lucana ma vi sarebbe giunto assai più tardi, nel 1598, acquistato a Venezia o a Lipsia da don Marcantonio Mazzoni, per quattro mesi arciprete di Miglionico e maestro di cappella prima dei Gonzaga, poi della Serenissima nonché amico di poeti come Tasso. Egli intendeva adornarne con i singoli elementi gli stalli del coro della chiesa matrice, dove sarebbe stato collocato in un primo tempo e donde passò nella chiesa di San Francesco al momento della partenza da Miglionico, che l’avrebbe donato al priore del convento francescano59 (nel Settecento esso fu poi arricchito da una fastosa cornice lignea a fogliami dorati). La notizia, pur non essendo inverosimile, credo però vada più attentamente vagliata: appare difficile infatti immaginare che si potesse progettare di inserire scomparti di misura così diversa nei dossali (?) del coro e, soprattutto, che fosse disponibile sul mercato un polittico di tale complessità, per di più sicuramente dipinto per una chiesa francescana, com’è facile intuire dalla presenza, nelle figurazioni, di numerosi santi dell’ordine (San Francesco, Sant’Antonio, Santa Chiara, San Ludovico di Tolosa, San Bernardino da Siena e vari santi france58 Curiosamente B. Di Mase, in V. Savona, M. Francione (a cura di), Percorsi d’arte. Tra luoghi di culto. La diocesi di Acerenza, Venosa 1997, p. 34 interpreta il Sant’Antonio abate dello scomparto in basso a sinistra come San Paolo. Quanto allo scomparto in alto a destra, interpretato come San Bernardo di Chiaravalle e la Vergine da Rizzi (Un polittico inedito, cit., p. 22), esso credo raffiguri invece San Francesco e l’Annunciata (legati iconograficamente all’Angelo annunciante e crocifisso dello scomparto simmetrico) per la chiara presenza delle stimmate sul costato del santo. 59 L. Menegazzi, Cima da Conegliano (catalogo), Treviso 1962, p. 28; Id., Cima da Conegliano, Treviso 1981, pp. 105-106; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 58.

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Fig. 12. Miglionico, Chiesa matrice. Cima da Conegliano, polittico, particolare del San Girolamo (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

scani protomartiri nella predella). C’è da chiedersi, in definitiva, se il polittico, la cui realizzazione coincide con la fine del secolo (è datato 1499), non fosse già sin dall’origine destinato a Miglionico e se, di conseguenza, il ruolo avuto da Mazzoni non sia stato diverso rispetto a quello che la tradizione gli attribuisce60. Testimonianza di un momento di Cima assai vicino al Bellini maturo, come indica la condotta pittorica morbida e fusa, il polittico di Miglionico costituisce una delle rare opere dell’artista articolata in scomparti disposti su più registri ed è sicuramente posteriore al polittico della chiesa parrocchiale di Olera (Bergamo), dove le figure 60 Sul polittico cfr. di recente A. Palumbo, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 184-88; G. Scarcia (a cura di), Il Polittico di Cima da Conegliano a Miglionico, Napoli 2002.

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campeggiano ancora su un uniforme fondo d’oro, mentre precede quello della chiesa madre di San Fior di Sopra (Conegliano), databile entro il primo decennio del Cinquecento, in cui la figura centrale del Battista è immersa in un vero e proprio paesaggio con rocce, alberi e una veduta di città61. 2. Scultura Il panorama della scultura del Quattrocento in Basilicata è piuttosto vivace, animato dall’attività di vari maestri locali, impegnati soprattutto nella scultura lignea, e dagli arrivi di opere provenienti da centri di produzione esterni alla regione, giunte tanto via Tirreno quanto via Adriatico. Lungo le rotte del «golfo di Venetia» giungerà, per citare il caso più importante di cui dovremo riparlare più estesamente fra poco, lo straordinario carico delle due sculture in pietra di Nanto partite da Padova alla volta di Montepeloso (oggi Irsina) al seguito del già citato Roberto de Mabilia. In linea generale non sembra però che tali arrivi, e in particolare quello da Padova, abbiano stravolto, o almeno vivificato, la fisionomia culturale della regione. Bisogna anzi ammettere che, all’epoca, la reazione che se ne ebbe fu più fredda rispetto a quel che oggi ci aspetteremmo se è vero che gli scultori lucani, salvo qualche raro caso, continuarono a ripetere forme e modelli arcaizzanti, senza che le aggiornate forme rinascimentali introdotte da questi arrivi in Basilicata incidessero sulle loro opere più di tanto. Il caso più emblematico di «ritardo culturale», tanto accentuato da sembrare quasi incomprensibile, è rappresentato dal coro ligneo della cattedrale di Matera, il più antico fra quelli sopravvissuti in Basilicata, firmato da certo Giovanni Tantino di Ariano Irpino (cittadi61 Di difficile attribuzione risulta a tutt’oggi il trittico smembrato con San Giovanni Battista, Zaccaria ed Elisabetta della cattedrale di Tricarico, che la Grelle Iusco dice «ritenuto opera di un ignoto allievo del Bellini, forse Iacopo da Valenza» (Arte in Basilicata, cit., pp. 58-60), opinione riportata senza commenti da Leone de Castris (La pittura a Napoli, cit., p. 472). Il precario stato di conservazione in cui versa la tavola vieta di farsi un’idea precisa dell’autore del trittico che, però, mi sembra appartenere non a Jacopo da Valenza (not. 1484-1509) – allievo non di Bellini, ma di Alvise Vivarini –, ma a un artista ignoto di area non necessariamente veneta. Penserei piuttosto a un pittore meridionale, non immune, nella figura della Vergine, da influenze fiamminghe.

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na oggi in provincia di Benevento) e datato 145362. Si sa che nel 1451 fu deliberato da parte del capitolo della cattedrale di far realizzare un nuovo coro, a sostituzione di quello già esistente, ormai fatiscente. Concluso due anni dopo, esso ebbe probabilmente, almeno sino al 1605, un numero di stalli superiore rispetto a quelli attuali: a seguito del suo spostamento, nella prima metà del Settecento, nel nuovo presbiterio della chiesa, fu infatti ampliato con i cinque stalli centrali dell’ordine superiore, compreso quello, più grande, riservato all’arcivescovo, e raccordato in alto da un massiccio cornicione, nonché con i sette seggi sottostanti per i mansionari, sicché oggi risulta costituito da ben 58 stalli, divisi in 35 nell’ordine superiore e 23 nell’inferiore63. Il recente restauro ha permesso di rendere leggibili e, nel caso degli stalli capofila – recanti rispettivamente le figure di san Giorgio e di sant’Eustachio – di scoprire le figurazioni e le decorazioni a intaglio scolpite sull’imponente manufatto: dal San Giorgio che salva la principessa, con il santo a cavallo, completamente coperto dall’armatura, che infilza l’asta nelle fauci del grosso drago che ha poc’anzi atterrato, in presenza della fanciulla irrigidita dal terrore; al Sant’Eustachio, protettore di Matera, che se ne va a caccia a mani giunte sul suo destriero, mentre un angelo lo benedice dall’alto; ai grossi, pesanti girali uscenti da una maschera sputaracemi che ornano uno dei fiancali; ai clipei romboidali includenti varie scene figurate che decorano il dossale degli stalli; alla Vergine stante, con grosso panneggio cannulato e testa incredibilmente piccola, dello stallo capofila di destra: repertorio composito, che giustappone reminiscenze romaniche, tratte in taluni casi dagli stucchi, a figurazioni proto-rinascimentali, trattate con estrema minuzia e cura dei particolari (si noti la gualdrappa del cavallo di sant’Eustachio o gli enormi speroni dello stesso santo guerriero), dando luogo a un manufatto estremamente «tipizzato» e interessante. 62 Sul coro cfr. C. Guglielmi Faldi, Il coro ligneo, in M.S. Calò Mariani, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati, La Cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Milano s.d. (ma 1978), pp. 55-63; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 53-55. Dopo il restauro esso è stato riesaminato da A. Altavilla, in Restauri in Basilicata 1988-1993, catalogo della mostra (Matera-Palazzo Lanfranchi, gennaio-febbraio 1995), Matera 1994, pp. 10-13 e, più recentemente, da Leone de Castris, I segni dell’arte, cit., pp. 99-100 e da R. Bianco, La scultura lucana nel XV secolo, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., scheda alle pp. 134-49. 63 Per una minuta disamina delle parti rifatte cfr. Bianco, La scultura lucana, cit., p. 137.

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Per quel che riguarda la scultura locale, quasi esclusivamente lignea, ancora nel Quattrocento si assiste al perpetuarsi della tradizione, documentata da una nutrita serie di statue sparse in tutta la Basilicata e spesso rimaneggiate nel corso dei secoli a seconda delle necessità imposte dalla devozione o, semplicemente, dal gusto64, delle Madonne in trono – di cui sopravvivono esemplari databili forse già alla fine del secolo XII –, rinnovata con timidi apporti di marca rinascimentale. Il numero di esemplari quattrocenteschi giunti sino a noi, a dir vero, è stato di recente notevolmente contratto in occasione della grande mostra sulla scultura lignea lucana tenutasi a Matera nel 2004 che, sulla scorta di un nuovo, più capillare censimento e dei numerosi restauri effettuati dalla locale Soprintendenza negli ultimi decenni – che hanno liberato le statue dalle numerose superfetazioni accumulatesi nel tempo –, ne ha anticipato, talvolta anche di uno o due secoli, la datazione. Se è sicuramente da accettare l’opinione di Leone de Castris che vede nelle più antiche Madonne lucane «un’apertura verso la cultura gotica d’Oltralpe e insieme verso gli sviluppi più moderni dell’arte centro-italiana di secondo Duecento, fra la Toscana e gli Abruzzi»65, e se certe anticipazioni e accostamenti appaio­ no convincenti, in altri casi la cronologia delle statue deve restare a mio parere ancora sospesa, a motivo della perdurante difficoltà di stabilire – al di là delle pregiudiziali ideologiche invocate da Leone de Castris – se le forme arcaizzanti che le caratterizzano siano indice di una datazione più alta, e di tanto più alta, o non piuttosto frutto della mentalità, insita nella devozione e verificabile in episodi figurativi di altro tipo, di perpetuare nel tempo, anche visivamente, l’oggetto del culto attraverso le stesse formule stilistiche e iconografiche66. Ci 64 La bibliografia sulla scultura lignea lucana, che sino a qualche anno fa faceva capo sostanzialmente a Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 46-48 e 60, con bibliografia precedente, si è recentemente arricchita con S. Abita (a cura di), Madonne lucane, catalogo della mostra (Matera, Chiesa di Cristo flagellato, 12 febbraio-11 marzo 2001), Matera 2001; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, rist. anast. cit.; Bianco, La scultura lucana, cit.; Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, 1° luglio-31 ottobre 2004), Torino 2004. 65 P. Leone de Castris, Le origini, dal XII al XIV secolo, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 13. 66 Per chiarire, anche a costo di giungere al paradosso: non è un pregiudizio ideologico notare che la Pietà di Michelangelo in San Pietro a Roma è del 1499 e che la Pietà di Stefano da Putignano nella cattedrale di Polignano, ispirata ancora alle antiche Madonne tardo-gotiche, appartiene al secondo decennio del XVI secolo!

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sembra inoltre statisticamente improbabile che, di una tradizione così radicata in Basilicata come quella della scultura lignea, dalle decine di esemplari databili tra la fine del XII a tutto il XIV secolo o retrocessi a tale datazione, del XV ne restino in numero così limitato. Tra questi, comunque, si segnalano la Madonna con Bambino in trono detta Madonna del Piano, dei primi del Quattrocento, oggi nella chiesa di San Nicola a Episcopia, che nel bel volto di misura protoclassica mi sembra ritenere persino qualcosa della coeva scultura toscana67, appartenente a un gruppo cui fanno capo esemplari lignei come quelli di Roccanova e Colobraro, e la Madonna con Bambino della chiesa madre di Missanello, dalle forme più sciolte e morbide, da datare ai primi del Quattrocento, ma anche esemplari in malta o conglomerato a Lauria, Grumento Nova e Rossano di Vaglio. Quasi un unicum è la Madonna con Bambino in trono della chiesa di Santa Maria dell’Olmo a Castelmezzano, in cui l’accoglimento di un’iconografia e di un repertorio decorativo tipici del primo Rinascimento (il Bimbo, nudo, è colto nell’atteggiamento dell’ostentatio genitalium, mentre le decorazioni a volute del trono appartengono al linguaggio decorativo quattrocentesco) non è d’ostacolo alla creazione di una sorta di idolo «senza tempo», non privo di un sapido carattere popolaresco, al cui misterioso, quasi ipnotico fascino contribuisce anche la tardiva inserzione di occhi di cristallo68. Altre Madonne si adeguano invece con successo a modelli rinascimentali più colti, derivati probabilmente da Silvestro dell’Aquila, come nel caso della pregevole Madonna che adora il Bambino (nudo e sdraiato sul suo grembo, ma benedicente e col globo terracqueo) della chiesa madre di Abriola, con panneggio dalle profonde pieghe rigorosamente disposte a ventaglio in corrispondenza della base69. A una tipologia diversa, di gusto si direbbe «pisano» e mediato sicuramente attraverso il Tirreno, appartiene invece un’esile Madonna con Bambino lignea, coronata e in posizione stante, e con panneggio gonfio e profondamente scavato, della chiesa di Sant’Anna a Lagone-

67 G.M. Fachechi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 166-68. La scultura è pubblicata con una didascalia errata anche in Le tracce del sacro. Arte e devozione in Lucania attraverso le opere restaurate nel decennio 1980-1990, s.l. 1990, p. 12. 68 Cfr. B. Di Mase in Savona, Francione (a cura di), Percorsi d’arte, cit., p. 32. 69 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., fig. 119; Abita (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 30.

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Fig. 13. Abriola, Chiesa matrice. Ignoto scultore lucano, Madonna che adora il Bambino (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

gro, databile agli inizi del Quattrocento (o più probabilmente alla svolta del secolo precedente). Le difficoltà di collocazione cronologica già evidenziate per le Madonne lignee di produzione lucana si pongono spesso anche per la nutrita serie di crocifissi disseminati nella regione, da quello della chiesa madre di Noepoli, degli inizi del XV secolo, recentemente retrodatato tra la fine del XIII e i primi del XIV secolo, a mio parere senza convincenti motivazioni, da Leone de Castris70, a quello della chiesa di Santa Maria Maggiore a Tursi, della prima metà del XV secolo, che da esso palesemente deriva71, a quello di pregevolissima fattura Leone de Castris, Le origini, cit., p. 138, con bibliografia precedente. R. Casciaro, Apporti esterni e identità locale nella scultura lignea lucana del Quattrocento e del primo Cinquecento, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 170. 70 71

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Fig. 14. Melfi, Chiesa dei Cappuccini. Ignoto scultore meridionale, Crocifisso (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

e caratterizzato da un esasperato espressionismo che lo accomuna al crocifisso di San Gregorio Armeno a Napoli o a esemplari calabresi coevi, conservato nella chiesa dei Cappuccini di Melfi, opera di uno scultore di area tirrenica, forse meridionale72, a vari altri. Diverso il caso del crocifisso, parte di un Calvario, e connotato da un manierato grafismo che evidenzia, oltre che le costole, le tibie delle gambe, nella chiesa di San Nicola a Lagonegro, che sembra doversi datare, più che alla prima metà del XV secolo, come vuole Casciaro, alla fine del secolo o ai primi del secolo successivo73. Alcune sculture databili nella seconda metà del XV secolo ma difficilmente collocabili ad annum denotano l’esistenza di numerosi 72 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 56-57; L.G. Kalby, Arti figurative e committenze, in G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Storia della Basilicata, vol. III, L’Età moderna, Roma-Bari 2000, p. 310; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, rist. ­anast. cit., p. 244; Bianco, La scultura lucana, cit., pp. 19-20; Casciaro, Apporti esterni e identità locale, cit., p. 180. 73 Casciaro, Apporti esterni e identità locale, cit., p. 28, fig. 4 e p. 31.

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Fig. 15. Atella, Chiesa di Santa Lucia. Ignoto scultore locale, San Vito (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

maestri locali di più o meno modeste capacità, pedissequi ripetitori di modelli arcaizzanti e impegnati a produrre rigide e schematiche statue devozionali, non prive comunque di un certo fascino, per il piccolo clero della provincia: si possono ricordare a questo proposito il Sant’Antonio da Padova della chiesa di Santa Maria del Pantano a Pignola, figura araldica, quasi rigorosamente simmetrica se non fosse per il diverso atteggiamento delle mani74, o il San Vito nella chiesa di Santa Lucia ad Atella, curiosamente simile, nella rigidezza della posa e nelle gambe forti e tarchiate, a un kouros arcaico trasformato in santo occidentale75, vicino a un San Sebastiano recentemente entrato a far parte della Pinacoteca provinciale di Bari76. Ivi, p. 172, con bibliografia precedente. G. Castelluccio, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 176, con bibliografia precedente. 76 Cfr. C. Gelao, in Ead. (a cura di), Intorno a Corrado Giaquinto. Acquisizioni, donazioni restauri 1993-2004, catalogo della mostra (Bari, Pinacoteca Provinciale, 20 novembre 2004-27 febbraio 2005), Matera 2004, p. 42. 74 75

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Nella stessa chiesa di Atella sono presenti un San Bernardino da Siena ligneo (già identificato come Sant’Antonio da Padova), in cui al ductus rigido e schematico delle pieghe fa contrasto la ricca vena decorativa che si esprime negli ornamenti dorati entro sottili riquadrature geometriche della cocolla e del corporale e nel sole raggiato sulla copertina del volume sostenuto col braccio destro, nonché la perfetta sfericità della testa, dal giovanile volto sorridente77. Singolare opera d’uno scultore provinciale di formazione galatinese è, nella cattedrale di Venosa, il mausoleo di Maria Donata Orsini, coniuge di Pirro del Balzo, conte di Venosa, morta nel 1485. Di esso restano attualmente due colonnine con capitelli a fogliami collegate da un semplice architrave, una lastra con la figura della defunta raffigurata a braccia conserte, vestita da terziaria francescana, un’altra recante una lunga iscrizione, e infine lo stemma dei del Balzo Orsini. L’usanza di farsi rappresentare, nei monumenti funebri, con abito francescano, non è nuova nell’ambito della famiglia (così è infatti ritratto Raimondello nel mausoleo della chiesa di Santa Caterina a Galatina, dove più tardi nella stessa foggia sarà ritratto il figlio Giovanni Antonio nel rispettivo mausoleo; ma è usanza che i del Balzo Orsini trasmetteranno anche ai consanguinei, come Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona, genero di Giovanni Antonio del Balzo Orsini per averne sposato la figlia Caterina, nel mausoleo della chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano). Ma non è solo il dato iconografico che ci rimanda all’area galatinese (o di derivazione galatinese), bensì anche la peculiarità di rappresentare gli illustri cadaveri ribaltati completamente verso lo spettatore, in modo da renderli visibili78. Difficile comunque dare un nome all’autore di questa scultura senza tempo, databile all’ultimo decennio del Quattrocento e di qualità invero modesta. La Grelle Iusco ne fa una delle prime opere del Maestro di Noepoli, una sorta di «gemello» di Francesco da Sicignano, al quale attribuisce una serie di opere disseminate in territorio lucano (la lastra raffigurante la Madonna con Bambino tra angeli reggitenda nella chiesa di Santa Maria del Sepolcro a Potenza, due tondi con l’Angelo annunciante e l’Annunciata nella cattedrale di Melfi, la Madonna con 77 G.C. Madio, in Scultura lignea della Basilicata, cit., p. 174, con bibliografia precedente. 78 Il recente rimontaggio del monumento non ha tenuto conto della posizione originaria della lastra, visibile in Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 62, fig. 127; la lastra è stata infatti rimontata in posizione piana, in basso.

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Bambino nella chiesa madre di Rotonda e due lastre con il gruppo dell’Annunciazione nella cattedrale di Tursi, del 1519): opere in cui la studiosa vede influenze fiammingo-catalane79 e che, se veramente dello stesso artista, non contrastano comunque con una prima formazione galatinese, qui da noi proposta. Un capitolo non trascurabile della scultura di questo periodo è rappresentato dalle sue applicazioni all’architettura, in cui trova diffusione soprattutto il linguaggio tardo-gotico. Così è, per esempio, per la bella finestra ad archi inflessi della chiesa di San Francesco a Potenza, della seconda metà del XV secolo, dovuta alle stesse maestranze che hanno scolpito l’arcone che immette nel presbiterio della chiesa di Santa Maria del Sepolcro, nella stessa Potenza, mentre un portale in perfetto stile durazzesco, la cui datazione si spinge forse sino agli inizi del Cinquecento, è quello della chiesa del convento di Sant’Antonio a Tricarico. Se questo è sostanzialmente il panorama della scultura locale, si dovrà tener conto di come contemporaneamente, e lungo tutto il corso del secolo, si susseguano importazioni di opere scultoree da entrambi i versanti, ovest ed est, della Basilicata, che sebbene in misura assai limitata determinano un qualche rinnovamento nel linguaggio di alcuni artisti locali. Una Pietà in pietra della cattedrale di Venosa, oggi nel Museo nazionale di Matera, considerata dubitativamente opera del Baboccio dalla Grelle Iusco80, appare invece opera di scultore nordico per il panneggio oltremodo manierato del manto della Vergine, di gusto ancora gotico81: una delle tante Vesperbilder in pietra o in impasto, insomma, giunte dal Nord lungo l’Adriatico82 e destinate a suscitare Ivi, pp. 61-62. Ivi, p. 49. Stranamente Abbate, che pur la considera «orientata a riflettere l’esperienza delle Vesperbild nordiche», la considera di probabile provenienza napoletana (Abbate, Pittura e scultura, cit., p. 451). A. Basile, in Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata-Palazzo Lanfranchi Matera, Napoli 2002, p. 40, la considera più genericamente opera di un lapicida meridionale posticipandola alla prima metà del XVI secolo. La Bianco, La scultura lucana, cit., p. 150) la giudica opera di un non meglio precisato scultore adriatico del XV secolo. 81 Casciaro, Apporti esterni e identità locale, cit., p. 29. 82 La recente scoperta di una Pietà in steinguß nella chiesa di Santa Maria della Pietà a Barletta dimostra che gli esemplari nordici erano all’epoca più numerosi di quanto oggi siamo in grado di affermare. Al gruppo «importato» potrebbe infatti appartenere anche la Pietà già in San Bernardino a Molfetta (ora nel locale municipio). 79 80

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Fig. 16. Matera, Museo nazionale d’arte medievale e moderna, dalla chiesa di San Biagio di Melfi. Ignoto scultore nordico, Pietà (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

modeste imitazioni, come la Pietà nella chiesa di San Biagio di Melfi, oggi anch’essa nel Museo materano83. Innegabilmente veneta, come con felicissima intuizione ha di recente sostenuto Casciaro, attribuendola alla bottega dei Moranzon, è la lignea Vergine orante, probabilmente parte di un’Incoronazione84, nella chiesa di San Giovanni Battista a Calciano85, databile intorno alla metà del XV secolo, con volto tondo e aggraziato, naso sottile e bocca socchiusa e con panneggi oro-blu oltremarino profondamente falcati, già a torto considerata d’area napoletana86. Dal Veneto è giunto Bianco, La scultura lucana, cit., p. 152, con bibliografia precedente. Non concordo né con l’opinione più diffusa, che vi vede una Vergine annunciata, né con le diverse opinioni di S. Abita, in Le tracce del sacro, cit., p. 42, secondo cui si tratterebbe di una Madonna di Maestà facente parte di un gruppo presepiale, e di Casciaro (Apporti esterni e identità locale, cit., p. 184), che pensa a una Madonna adorante il Bambino (sia per la ripresa di tre quarti sia per l’assoluta mancanza di tracce della presenza del Bambino sul grembo). 85 Casciaro, Apporti esterni e identità locale, cit., p. 184. 86 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 49; Abbate, Pittura e scultura, cit., p. 451; Abita, in Le tracce del sacro, cit., pp. 16 e 42; Kalby, Arti figurative e committenze, cit., p. 309; Abita (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 30. 83 84

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Fig. 17. Calciano, Chiesa di San Giovanni Battista. Bottega dei Moranzon, Vergine orante, parte di un’Incoronazione smembrata) (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

anche il San Giovanni Battista della chiesa matrice di Miglionico, dal panneggio profondamente inciso e dagli arti tesi e nervosi, ritenuto anch’esso in passato opera napoletana87 ma giustamente ricondotto da Casciaro in area veneta88, anche se a mio parere esso va datato alla fine del Quattrocento in quanto si mostra palesemente ispirato a modelli veneti d’accezione padovano-donatelliana. Ma l’importazione via Adriatico senz’altro più consistente è il nucleo di sculture padovane, cui sino a qualche anno fa non era stata prestata attenzione, che si conserva a Irsina, l’antica Montepeloso. Chi scrive ha dal 1996 reso nota agli studi, proponendone l’attribuzione ad Andrea Mantegna – del quale numerose testimonianze, coeve o di poco posteriori all’artista, parlano come di un eccellente scultore –, 87 Abita, in Le tracce del sacro, cit., p. 16; A. Altavilla, in Vatican Treasures. 2000 Years of Art and Culture in the Vatican and Italy, Milano 1993, p. 283; Ead., in Restauri in Basilicata 1988-1993, cit., p. 17; S. Abita, in Cultura artistica della Basilicata. Opere scelte, Napoli 1999, p. 20; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, rist. anast. cit., p. 244; Abita (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 30; Bianco, La scultura lucana, cit., p. 352. 88 Casciaro, Apporti esterni e identità locale, cit., p. 186.

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Fig. 18. Irsina, Cattedrale. Andrea Mantegna, Santa Eufemia (foto Vittorio Savona, Rutigliano).

una statua in pietra di Nanto dipinta raffigurante Santa Eufemia, di qualità invero straordinaria, conservata nella cattedrale di Irsina, che la stessa insospettabile fonte a stampa del 1592 (il poemetto in esametri latini di Pasquale Verrone) dice portata da Padova nella cittadina lucana dal già citato presbitero Roberto de Mabilia89. Se la statua, dal punto di vista iconografico, sta a metà strada tra la Santa Giustina del polittico di San Luca ora all’Accademia di Brera, databile non più tardi del 1453, e la Santa Eufemia di Capodimonte, firmata e datata 1454, dal punto di vista stilistico i riscontri con la produzione giovanile di Mantegna sono inoppugnabili: il volto della santa, largo, leggermente sorridente, incorniciato da lunghi capelli biondi (purtroppo raschiati sulla sommità del capo per porvi una corona) sciolti sulle spalle, è straordinariamente vicino a quello dell’Assunta della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani di Padova, mentre il panneggio della tunica verde salvia e del manto dorato corrisponde in maniera assolutamente sovrapponibile a quello della già citata Santa 89

Gelao, Per Andrea Mantegna, cit.

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Fig. 19. Irsina, Cattedrale. Andrea Mantegna, Santa Eufemia, particolare (foto Vittorio Savona, Rutigliano).

Giustina. Agli argomenti già addotti a suo tempo a sostegno di quest’ipotesi attributiva – sicuramente rischiosa, ma che appare l’unica praticabile per quegli anni – si può aggiungere che la data 1454 è stata confermata da un’iscrizione incisa lungo il perimetro del capitello di una colonnina erratica in breccia di Verona, parte superstite di una struttura perduta, anch’essa conservata nella cattedrale di Irsina; iscrizione che reca, oltre la data (che è poi la stessa cui risale il dipinto raffigurante Santa Eufemia ora a Capodimonte), il nome di Roberto de Mabilia, committente di hoc opus e donatore del consistente nucleo di opere portate a Irsina da Padova90. Ead., Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia, cit., pp. 3-8, 52-81, 124-26. Prima della pubblicazione (2003) di questo volume, ove si discute ampiamente di tutta la donazione e della sua cronologia, sulla statua cfr. R. Signorini, A. Radcliffe, «Una figura nuda legata a un tronco»: una statuetta in bronzo dorato qui attribuita ad Andrea Mantegna (1). «Una figura nuda legata a un tronco»: A Gilt Bronze Statuette here Attributed to Andrea Mantegna (II), in «Atti e memorie dell’Accademia nazionale virgiliana di scienze, lettere ed arti», nuova serie 65, 1997, pp. 52-54; M. Ceriana, Una nuova opera di Pietro Lombardo, in «Venezia arti. Bollettino del 90

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Fig. 20. Irsina, Cattedrale. Niccolò Pizolo (?), Madonna con Bambino (foto Atelier «Il Fotogramma», Bari).

Nel 1996, al momento della prima pubblicazione della Santa Eufemia, avanzavo cautamente l’ipotesi che allo stesso Mantegna potesse appartenere anche una statua raffigurante la Madonna con Bambino – allora deturpata da una pesantissima, rozza ridipintura a tempera – identificabile con la scultura di questo soggetto che lo stesso Pasquale Verrone diceva portata anch’essa da de Mabilia da Padova a Montepeloso91. Il restauro della statua mi pare confermi Dipartimento di storia e critica delle arti Giuseppe Mazzariol dell’Università di Venezia», 1997, pp. 139-41 (che l’attribuisce a Pietro Lombardo ma ne mantiene la datazione al 1454); C. Gelao, La scultura pugliese del Rinascimento nel contesto della «koiné» culturale adriatica, in Cassano, Lorusso Romito, Milella (a cura di), Andar per mare, cit., pp. 369-78, in particolare p. 370; A. Canova, Gian Marco Cavalli incisore per Andrea Mantegna e altre notizie sull’oreficeria e la tipografia a Mantova nel XV secolo, in «Italia medievale e umanistica», 42, 2001, p. 177, nota 93; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, rist. anast. cit., p. 245; Leone de Castris, I segni dell’arte, cit., p. 100; G. Agosti, in G. Agosti, M. Natale, G. Romano (a cura di), Vincenzo Foppa. Un protagonista del Rinascimento, postcatalogo della mostra (Brescia, Santa Giulia, Museo della Città, 3 marzo-30 giugno 2002), Milano 2003, p. 106, nota 11; Bianco, La scultura lucana, cit., pp. 166-69. 91 Gelao, Per Andrea Mantegna, cit., p. 244.

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Fig. 21. Irsina, Cattedrale. Niccolò Pizolo, Madonna con Bambino, particolare (foto Atelier «Il Fotogramma», Bari).

la validità dell’area culturale individuata, se non dell’attribuzione: si tratta infatti di una scultura ad altorilievo, di qualità appena inferiore (o, meglio, di qualità non del tutto omogenea, e destinata a essere vista dal basso) rispetto alla Santa Eufemia, e dalle forme più palesemente influen­zate dal Donatello dell’altare del santo a Padova, sì da far pensare a un’opera uscita dall’area donatelliana e ricalcata su una creazione dell’artista fiorentino ora perduta92. L’esistenza, nella chiesa di San Gaetano a Padova, di una Madonna con Bambino dall’identica iconografia (solo la testa, più tarda, è frutto di un’interpolazione di epoca neoclassica), attribuita da Gentilini agli inizi di Andrea Briosco detto il Riccio93, e ritenuta invece dalla Markham Schulz un’opera uscita dalla bottega di Donatello94, credo confermi 92 Per la trattazione più recente della statua e per gli esposti aggiustamenti attributivi cfr. Ead., Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia, cit., pp. 82-97. 93 Cfr. G. Gentilini, Un busto all’antica del Riccio e alcuni appunti sulla scultura in terracotta a Padova tra Quattro e Cinquecento, in «Nuovi studi. Rivista di arte antica e moderna», 1, 1996, pp. 29-46, in particolare p. 35. 94 A. Markham Schulz, Niccolò di Giovanni Fiorentino e il portale di Santa

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pienamente l’ipotesi e permetta di ascrivere anche la Madonna di Irsina, in pietra di Nanto dipinta, a uno scultore affascinato dal verbo donatelliano – probabilmente Niccolò Pizolo – tanto da averne copiato una creazione perduta, di cui oggi possediamo almeno due «ricalchi» (la statua di Irsina e quella, più tarda, di Padova). Frutto del gusto antiquariale in auge nella bottega dello Squarcione è invece il basamento della Madonna irsinese, che simula un capitello antico scheggiato e che è scolpito nello stesso blocco di pietra in cui è scolpita la statua (se ne ritrova uno simile a sostegno di una statua raffigurante San Daniele, nell’omonima chiesa padovana, anch’essa commissionata con tutta probabilità da de Mabilia). Fra le opere che, secondo l’inoppugnabile testimonianza di Pasquale Verrone, de Mabilia avrebbe portato da Padova a Montepeloso sono anche un grande fonte battesimale, identificabile con quello, in breccia di Verona, scolpito con motivi di attardato gusto romanico, oggi collocato nella prima cappella destra della cattedrale, al di sopra di un piede formato da un frammento di capitello95, e il bellissimo Crocifisso d’area donatelliana, databile intorno alla metà del secolo e riconosciuto solo di recente come parte del grande donativo96. Questa massiccia importazione dal Veneto, la cui importanza e consistenza non trova analogie in tutta l’area meridionale, non risulta aver esercitato sulla scultura locale la sterzata che ci si aspetterebbe, e forse neppure il protagonista della scultura pugliese e lucana tra Quattro e Cinquecento, Stefano Pugliese da Putignano (not. 149[...]1538), che pure contribuì indubbiamente alla rinascita della statuaria monumentale, conobbe le statue, dato che il suo squarcionismo sembra dipendere dalla pittura, più che dalla scultura, adriatica e, tutt’al più, da tardi echi di Pietro Lombardo97. Gli echi veneti sono peraltro piuttosto rari nella scultura lucana di fine Quattrocento. Un esempio in tal senso è rappresentato da una

Maria alle Isole Tremiti, in C. Gelao (a cura di), Scultura del Rinascimento in Puglia. Atti del Convegno (Bitonto, 21-23 marzo 2001), Bari 2004, pp. 118-19. 95 Gelao, Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia, cit., pp. 106-11. 96 Ivi, pp. 118-23. Il crocifisso, recentemente restaurato, è stato considerato opera di un ignoto lucano del XVII secolo da B. Di Mase, Irsina: un caso emblematico delle complesse problematiche del restauro, in «Basilicata Regione. Notizie», XXVIII, 104, 2003, p. 152. 97 Sullo scultore cfr. C. Gelao, Stefano da Putignano nella scultura pugliese del Rinascimento, Fasano 1990.

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Fig. 22. Miglionico, Chiesa matrice. Scultore veneteggiante seconda metà del XV secolo, San Sebastiano (foto Franco Santeramo).

statua di misura terzina nella chiesa matrice di Miglionico, restaurata di recente98, un impressionante, contorto San Sebastiano, ispirato forse a una stampa di Mantegna, con un braccio sollevato e l’altro legato dietro la schiena, il volto sofferente arrovesciato, col perizoma, le frecce, la faretra, impreziositi dalla foglia d’oro, statua che non mi risulta abbia finora attirato l’attenzione degli studiosi99. Se il suo autore, presumibilmente locale o tutt’al più meridionale, è innegabilmente influenzato da modelli veneti nel modulo della figura dalle spalle strette e dai fianchi larghi con ventre prominente, la sua datazione va invece discussa in relazione a quella di una copia della 98 Si ringrazia il restauratore Franco Santeramo, che mi ha fornito le fotografie del San Sebastiano di Miglionico. 99 Un breve cenno è solo in C. Gelao, La scultura pugliese del Rinascimento. Aspetti e problematiche, in Ead. (a cura di), Scultura del Rinascimento in Puglia, cit., p. 50, nota 36. In ambito locale si favoleggia di una statua classica (addirittura prassitelica) che sarebbe stata modificata per trasformarne il soggetto nel santo cristiano. Al di là delle fantasticherie, è comunque interessante notare che tali credenze sono significativa testimonianza di un generalizzato, seppure ingenuo, apprezzamento della qualità della statua, invero notevoli.

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statua esistente nella chiesa matrice di Noci, dov’è inserita nel polittico lapideo sull’altar maggiore, opera dello scultore galatinese Nuzzo Barba (circa 1460-dopo il 1523-24); polittico che, già datato entro il 1481100, sulla base di recenti ricerche è stato posticipato intorno al 1520. La cronologia della statua lucana, prototipo dell’analoga statua nocese, potrà quindi essere fissata intorno al 1485-90101. Per quel che riguarda le influenze giunte dal versante tirrenico, un caso esemplare è offerto dal gruppo scultoreo ligneo raffigurante Sant’Anna, la Vergine e il Bambino (Sant’Anna Metterza) – iconografia pressoché unica in Basilicata – della chiesa di Santa Maria Assunta a Stigliano (ora nel Museo nazionale di Matera), caratterizzato da uno spiccato carattere nordico nella tipologia della Vergine regina e nei panneggi falcati e profondamente scavati che lo ha fatto accostare alla bottega di Pietro e Giovanni Alemanno, due scultori tedeschi trapiantati a Napoli nella seconda metà del secolo, dove importarono la tradizione del presepe ligneo monumentale e dove realizzarono un notevole numero di opere dall’accento ancora fortemente tardo-gotico, seppur non prive di monumentalità, alcune delle quali inviate anche nel territorio del regno102. Recentemente lo si è voluto identificare con l’autore delle parti lignee dei polittici di Simone da Firenze, che, oltre che nelle suddette opere di carpenteria, si sarebbe cimentato anche nella scultura, realizzando la Madonna con Bambino e i Quattro evangelisti del polittico ora nella stessa chiesa stiglianese, datato 1521 e, appunto, il gruppo della Sant’Anna Metterza, che quindi scivolerebbe cronologicamente ai primi del XVI secolo103. A dir vero, però, nutro qualche dubbio che le affinità e i punti d’in100 C. Gelao, in Ead. (a cura di), Confraternite arte e devozione in Puglia, catalogo della mostra (Bari, Pinacoteca Provinciale, 9 ottobre-24 novembre 1994), Napoli 1994, pp. 288-89, con bibliografia precedente. 101 Per un esame più approfondito della statua di Miglionico cfr. Ead., Prototipi, copie, derivazioni e repliche nella scultura pugliese del Rinascimento, in La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea. Atti del convegno (Lecce, ex monastero degli Olivetani, 9-11 giugno 2004), in corso di stampa. 102 Già segnalato in Le tracce del sacro, cit., pp. 16 e 49, il gruppo ligneo è stato studiato da A. Basile, in Restauri in Basilicata 1993-1997, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, 4 aprile-30 maggio 1998), Matera 1998, pp. 18-20 e in seguito da S. Abita, in Id. (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 32; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, rist. anast. cit., p. 244; A. Basile, in Museo Nazionale, cit., p. 222. 103 Bianco, La scultura lucana, cit., pp. 342-51. L’opinione è accolta da Casciaro, Apporti esterni e identità locale, cit., p. 222.

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Fig. 23. Stigliano, Chiesa matrice. Scultore meridionale, Sant’Anna Metterza, particolare.

contro notati dalla Bianco tra le sculture stiglianesi, da lei definite tanto forti da risultare inutile soffermarvisi, siano effettivamente tali: e d’altronde, se pur lo fossero, potrebbe trattarsi di una più tarda ripresa del Maestro del polittico di Stigliano – che, lo si ammette dalla stessa studiosa, si sarebbe provato assai episodicamente con la scultura monumentale – da un’opera, la Sant’Anna Metterza, che per la sua qualità e la sua rara iconografia doveva godere di un certo grado di considerazione e che a me appare ancora tardo-quattrocentesca, con panneggi rigidi e falcati di gusto tardo-gotico ben diversi da quelli gonfi e «rigirati» della Madonna del polittico stiglianese, che è invece vicinissima, come ha ben individuato Naldi, alla Madonna con Bambino della chiesa della SS. Annunziata ad Albano di Lucania e alla Madonna delle grazie della chiesa di Sant’Antonio da Padova a Pisticci104.

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R. Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 226-28.

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3. Argenti e oreficerie Nel corso del secolo, in Basilicata ha modo di manifestarsi la vivacità delle botteghe argentarie locali (soprattutto di quelle di Matera), i cui prodotti si affiancano, talvolta imitandoli, a quelli giunti per importazione da Napoli (il maggior centro di produzione dell’Italia meridionale), da altre città del Meridione non sempre identificate e, forse, anche dall’opposta sponda adriatica105. Solo di recente è stato reso noto un consistente nucleo di argenti106, concentrati in buona parte a Matera e quasi tutti impressi col punzone «MATA», testimonianza dell’attivismo delle botteghe di questa città i cui artefici, presumibilmente non organizzati in vere e proprie corporazioni ma solo in gilde, esportarono sicuramente i loro prodotti, seppure in un raggio piuttosto limitato. D’altro canto, la politica accentratrice che i Durazzeschi prima e gli Aragonesi poi esercitarono in questo settore, scoraggiando l’attività sviluppatasi nelle province, in primis a Sulmona, Teramo, L’Aquila, ma anche a Cosenza, Bari, Lecce, oltre che a Matera, impedì che tali botteghe – fatta eccezione per le più grandi o per quelle che, proprio in virtù del loro esiguo sviluppo, più facilmente potevano sfuggire ai controlli – continuassero la loro produzione anche nei secoli successivi, sicché ciò che è sopravvissuto non va quasi mai oltre il XV secolo107. Particolarmente interessante risulta il gruppo di tre bracci-reliquiario conservati nel tesoro della cattedrale di Matera (uno dei quali proveniente dalla chiesa di San Pietro Caveoso ma forse, in origine, nella chiesa di San Giovanni di Matera). Il più antico, databile alla pri-

105 Per l’argenteria cfr. il recentissimo saggio di A. Cucciniello, Per un esame compilativo dell’argenteria di epoca rinascimentale. Note documentarie, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 379-99. È strano come la storiografia non abbia mai preso in considerazione, per la Basilicata, la possibile importazione di argenti dall’opposta sponda adriatica. Per una buona illustrazione di alcuni prodotti argentari di quest’area cfr. I. Petricioli, Mostra permanente dell’arte sacra. Zadar, Zadar 1980. 106 Cfr. soprattutto C. Guglielmi Faldi, Oggetti medioevali e rinascimentali nel Tesoro della Cattedrale, in Calò, Guglielmi Faldi, Strinati, La Cattedrale di Matera, cit.; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 136 sgg.; Argenti in Basilicata, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, luglio-settembre 1994), Napoli 1994, passim. 107 E. Catello, Un grande patrimonio di argenti antichi, in Argenti in Basilicata, cit., p. 10.

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Fig. 24. Matera, Cattedrale. Argentiere prima metà del XV secolo, Braccio reliquiario di Sant’Eustachio (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

ma metà del Quattrocento e contenente le reliquie di sant’Eustachio, è caratterizzato da una fitta, regolare tessitura decorativa di giglietti entro entrelacs di gusto ancora medievale, che ricopre completamente il braccio, dal quale fuoriesce una grossa mano distesa, con le dita perfettamente accostate tranne il pollice, molto sporgente. Nella parte interna del braccio è presente un’apertura quadrangolare cruciata, profilata da un motivo ritorto, con l’immagine del crocifisso108. Apertura presente anche negli altri due reliquiari, rispettivamente di san Biagio e di san Giovanni da Matera, tra loro assai simili e databili alla seconda metà del Quattrocento, col braccio perfettamente liscio tranne semplici motivi decorativi in corrispondenza del polso e della base. Recanti anch’essi il punzone «MATA», sono caratterizzati dalla più morbida plasticità della mano, fissata in atteggiamento benedicente109.

108 109

S. Di Sciascio, ivi, pp. 50-51, con bibliografia precedente. Ivi, pp. 44-47, con bibliografia precedente.

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Fig. 25. Matera, Cattedrale. Argentiere materano, Testa-reliquiario di Sant’Agapito (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

Nel tesoro della cattedrale di Matera si conserva anche la preziosa testa-reliquiario di sant’Agapito, presumibilmente eseguita nella stessa città e variamente collocata tra fine Trecento-inizi Quattrocento e seconda metà del secolo. Qui la vaga aria «angioina» – anzi, com’è stato detto, addirittura «martiniana» – si coniuga con echi rivenienti dall’opposta sponda dalmata (particolarmente stretti i rapporti con il reliquiario di san Nicola a Zadar), a fornirci indirettamente il ritratto di una bottega di provincia, dove si mescolano e si sovrappongono, senza soluzione di continuità e senza rigidi criteri di scelta, gli influssi più diversi110. Alla metà del Quattrocento può essere fissata la datazione di una grande croce astile, bifacciale, ancora nel tesoro della cattedrale di Matera che, sciaguratamente destinata alla fusione di argenti ordinata nel 1480 da Ferrante d’Aragona per fronteggiare le spese della guerra 110 La vicenda critica del busto reliquiario è riassunta ivi, p. 48, con bibliografia precedente.

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a

b

Fig. 26. a e b. Matera, Cattedrale. Argentiere materano, Croce astile, prima del 1480, recto e verso (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

contro i turchi, fu invece riscattata da tal Antonio (o Tata) Santoro, materano, e restituita alla chiesa. A croce latina, con le estremità dei bracci polilobate e rinforzo quadrangolare all’incrocio, ha subito varie interpolazioni (la figura dello Spirito Santo all’apice della faccia anteriore, il rilievo della Madonna della Bruna sul retro), ma conserva intatto, sostanzialmente, il carattere composito tipico delle botteghe provinciali, oscillante tra reminiscenze romaniche ed echi di prodotti abruzzesi della scuola di Nicola da Guardiagrele111. A questa croce astile, usata per accompagnare le processioni funerarie dei nobili, si ispira quasi pedissequamente un’altra croce nello stesso tesoro, dalle forme più grevi e ritardatarie, pagata nel 1493 al maestro argentiere Santoro Paulicelli di Matera. Non si tratta dell’unica opera di lui conosciuta, dato che Gattini citava una croce nella parrocchiale di Stigliano, datata 1501, oggi irrintracciabile, e un’altra

111

Per la storia critica della croce cfr. ivi, pp. 42-43.

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nella chiesa di San Pietro Caveoso a Matera, anch’essa dispersa112. Allo stesso artefice viene attribuita con certezza una croce, assai simile a quella materana, nella chiesa matrice di Santeramo113 (Bari), mentre ipotetiche restano le attribuzioni di un crocifisso in rame dorato nel palazzo municipale di Atella, ascrittogli dalla Grelle Iusco114, del braccio-reliquiario di santo Stefano nella predetta chiesa santermana115, nonché dei due bracci-reliquiario di san Biagio e di san Giovanni da Matera, nel tesoro della cattedrale materana, cui già si è fatto cenno precedentemente. Alla sua bottega si devono inoltre alcune formelle inserite nella più tarda croce astile della chiesa di San Luigi ad Aliano, commissionata (o forse riattata) nel 1573 da certo Giovanni Perticario di Matera per la locale confraternita del Corpo di Cristo116. A un gusto ancora spiccatamente tardo-gotico, probabilmente mediato attraverso la capitale, Napoli, si informano altri prodotti argentari di quest’epoca, di manifattura locale, come il turibolo (rubato nel 1975) già nella chiesa matrice di Miglionico, con campana minutamente traforata, su cui era impresso il punzone dell’ufficio di controllo materano117, o il portampolle della chiesa di Santa Lucia ad Anzi118. Non mancano comunque opere di importazione, come la croce, datata 1423, nella chiesa di San Nicola Magno a Missanello, ancora alla ricerca di un centro di produzione e recentemente attribuita ad anonima bottega argentaria calabrese119. Commissionata, a quanto attesta un’iscrizione che vi è incisa, dal conte Ruggero di Missanello, d’origine normanna, che si fa effigiare inginocchiato e orante nella faccia anteriore, ai piedi del crocifisso, è interamente percorsa da una sottile decorazione arabescata incisa, sulla quale spiccano le figure a mezzo rilievo, di forme già rinascimentali. Tratta di peso dalla pittura gotica è la figura dell’angelo all’apice della faccia anteriore, colto mentre, capovolto, si appresta a incoronare Cristo.

Ivi, pp. 40-41. Cfr. da ultimo ivi, pp. 52-53. 114 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 144. 115 Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, cit., p. 49. 116 Ivi, pp. 54-55. 117 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 141. 118 Ivi, p. 142. 119 Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 140-41, con bibliografia precedente. 112 113

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Fig. 27. Irsina, Episcopio. Argentiere veneto del XV secolo, Reliquiario di San Paolo (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

A un argentiere della prima metà del XV secolo, forse napoletano, è stato attribuito il reliquiario architettonico in rame dorato della cattedrale di Irsina (forse in origine ostensorio)120, che raccoglie una reliquia di san Paolo. La teca tubolare in vetro decorata da archi rampanti e conclusa da un’edicola cuspidata, esemplata sul cosiddetto modello ambrosiano, diffuso soprattutto in Lombardia (per un confronto in quest’ambito, si veda un ostensorio assai simile del Civico museo d’arti applicate di Milano121), lo sposterebbe invece in area veneta, la stessa da cui proviene, nella stessa chiesa, il piede del reliquiario di santa Eufemia – rimaneggiato agli inizi del Seicento con la sostituzione di un braccio d’argento all’originaria teca di cristal-

120 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 136-37, che lo data ai secoli XIV-XV; G.G. Borrelli, in Argenti in Basilicata, cit., p. 68. 121 Cfr. O. Zastrow, Musei e Gallerie di Milano. Museo d’Arti applicate. Oreficerie, Milano 1993, pp. 97-99, n. 37.

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lo – parte superstite del reliquiario contenente il braccio della santa, nuova patrona della città, portato da Padova a Irsina da Roberto de Mabilia122. Nell’area gravitante intorno a Napoli è stato collocato il piede superstite di una coppa in argento nella chiesa di San Biagio a Maratea nonché un ostensorio, assai rimaneggiato, nella cattedrale di Muro Lucano123. Più semplice e arcaizzante risulta il reliquiario del duomo di Melfi, degli inizi del Quattrocento, forse anch’esso opera di una bottega locale che tiene presente modelli napoletani, con piede esalobato piatto, grande nodo a cipolla schiacciata e teca cubica in cristallo sormontata da un semplice pinnacolo conico su base quadrata124. A una bottega meridionale, non identificata ma pienamente allineata alle forme stilistiche in voga nella capitale nella seconda metà del Quattrocento, è da attribuire il bel calice in argento dorato nel tesoro della cattedrale di Matera, con base esalobata a bozze, simile a quella dei calici di Bari, Capua, Montecassino, ornata nella fronte del gradino da un raffinato motivo a fuselli di gusto flamboyant, e coppa sostenuta da un motivo fogliato. Sulla base sono presenti le armi di Nicola Francesco Ciccarelli, figlio di Jacobello, citato in un atto notarile del 1448, dove figura come giudice della città di Matera125. Sicuramente napoletana e uscita da una bottega specializzata, già intorno alla metà del XV secolo, nella lavorazione dello smalto filigranato, è invece la raffinata croce astile, bifacciale, della chiesa madre di Abriola, interamente profilata da una sequenza di foglie d’acanto dorate e con le solite estremità potenziate. Bollata con il punzone del Plaustret, vigente tra il 1465 e il 1505, essa è quindi databile all’ultimo quarto del secolo e si mostra già aperta a più moderne forme rinascimentali. A bottega toscana è invece comunemente riferito il prezioso riccio di pastorale, in argento e smalto traslucido, della chiesa di Santa Maria Assunta a Tricarico, avvitato a un’asta seicentesca126. La decorazione 122 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 141-42; Gelao, Andrea Mantegna e la donazione de Mabilia, cit., pp. 112-17. 123 Borrelli, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 146-47. 124 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 141. 125 Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 142-43. 126 Ivi, pp. 144-45.

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è costituita da lastrine in argento, ricoperte da smalto traslucido e raffiguranti santi, abati e il Cristo, alternate a lastrine dorate con coppie di fiori dai gambi sinuosi. L’estremità ricurva del riccio, a forma di mensole, doveva sostenere piccole sculture, perdute, sostituite in epoca imprecisata da un incongruo piccolo pomolo. Interessante e assolutamente singolare il motivo di levrieri che inseguono caprioli che corre lungo tutto il profilo esterno del riccio, messo in relazione col vescovo tricaricense Munzio Antonio de Caprioli, che avrebbe fatto personalizzare il pastorale con un soggetto simbolicamente connesso alla sua insegna vescovile. A maestranze tedesche attive presumibilmente negli Abruzzi, solerti esportatrici in tutto il Meridione, nel Quattrocento, di manufatti di tal tipo, si devono alcuni piatti da questua in rame sbalzato, presenti a Matera (chiesa del Purgatorio), Abriola (chiesa madre), Maratea (chiesa di San Biagio)127. Il più inconsueto, se non il più interessante, sembra quello di Matera, recante sul fondo, entro una cornice circolare, due personaggi maschili che, su un’asta caricata sulle spalle, trasportano un enorme grappolo d’uva (?). Le scritte in tedesco che appaiono lungo la cornice del fondo ci fanno certi che si tratti di manufatti usciti da botteghe forestiere, ma prodotti ad essi ispirati uscirono forse anche dalle botteghe di ramaioli attive a Rivello e a Maratea. In Basilicata si conservano, infine, alcuni oggetti in argento e cristallo di rocca, materiale trasparente tradizionalmente considerato simbolo di purezza, come la stauroteca della chiesa di Santa Maria di Banzi (secoli XIV-XVI)128 e quella, di assai controversa datazione (dal XIV al XVI secolo), del tesoro della cattedrale di Acerenza, a mio parere da essa derivata129. Concordemente datata alla prima metà del XV secolo è invece la stauroteca della chiesa matrice di Ferrandina, commissionata dai Sanseverino, conti di Tricarico e principi di Bisignano, che, come attesta il bollo «NAPL» impresso sul piede, fu realizzata a Napoli, in un periodo che possiamo restringere tra il 1414

Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 143. Per un riepilogo della questione cfr. V. Savona, in Savona, Francione (a cura di), Percorsi d’arte, cit., pp. 19-21. 129 Per le varie tesi e la bibliografia precedente cfr. C. Gelao, I doni dei Ferrillo: sete, cristalli e argenti per la cattedrale, in P. Belli D’Elia, C. Gelao, La cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999. 127 128

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Fig. 28. Ferrandina, Chiesa matrice Santa Maria della Croce. Argentiere napoletano del XV secolo, Stauroteca (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

e il 1435, all’interno di una bottega memore della tecnica, tipicamente angioina, degli smalti champlevés130. Costituita da due brevi bracci in cristallo tubolare, con base e fusto in argento, essa risulta palesemente rimontata forse nel momento in cui – presumibilmente nel Seicento – la si arricchì di una cornice in rame, romboidale, decorata con lingue di fiamma. 130

dente.

Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 66-67, con bibliografia prece-

LA SCULTURA DEL CINQUECENTO di Clara Gelao Il panorama offerto dalla scultura del Cinquecento in Basilicata si presenta piuttosto ricco e articolato, con un andamento che non manifesta novità di rilievo rispetto al secolo precedente se non l’affermarsi prepotente, come del resto nella limitrofa Puglia, della scultura in pietra, praticata quasi esclusivamente dagli artisti locali anche a motivo delle difficoltà opposte all’esportazione dai costi del trasporto. Continua peraltro senza soluzione di continuità la produzione di statue lignee (per lo più Madonne e crocifissi), cui si affiancano le frequenti importazioni da Napoli e in genere dall’area campana e, ormai meno frequentemente, dal Veneto e in genere dalla costa adriatica. Nonostante il notevole numero di pezzi resi noti negli ultimi anni e le tante attribuzioni e correzioni di tiro proposte, si avverte comunque ancora la necessità di una più approfondita riflessione sulle componenti culturali in gioco, spesso intrecciate e sovrapposte, che non può che essere condotta in altra sede. Ci limiteremo pertanto a segnalare le sculture più importanti, avvertendo che l’ambito culturale di appartenenza o la singola attribuzione potrà, col prosieguo degli studi, subire modifiche. Allo scorcio del Quattrocento se non agli inizi del secolo successivo si pongono alcune opere provenienti da Napoli, testimonianza della cultura di ascendenza lombarda che all’epoca vi predominava, come le due lastre marmoree, superstiti di una struttura distrutta, nella chiesa madre di Viggiano, raffiguranti rispettivamente la Madonna con Bambino e San Giovanni evangelista, opera di uno scultore lombardo-napoletano identificato in Jacopo della Pila1, e i due An-

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A. Grelle Iusco, Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, Roma 1981, p. 62.

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geli adoranti murati all’esterno della chiesa di Santa Maria Maggiore a Maratea, considerati opera dell’officina di Tommaso Malvito2. Va datato sicuramente entro il 1501 se, come afferma Abbate3 e come propendo a credere, è opera di Francesco da Milano, morto appunto in quell’anno, il cosiddetto sarcofago di San Canio nel succorpo della cattedrale di Acerenza, ispirato nella forma a un sarcofago tardo-antico o paleocristiano, con due genietti che sostengono l’emblema del conte Giacomo Alfonso Ferrillo e della consorte, la principessa serba Maria Balsa4. Queste opere, dislocate abbastanza casualmente nel territorio della Basilicata, sono più che altro indicative di una committenza colta e mirata, talvolta nobiliare, come nel caso dei conti di Acerenza. Fra le importazioni nei primi decenni del secolo sono da annoverare anche alcune statue lignee che, pur da tempo note, sono a tutt’oggi oggetto di giudizi contrastanti, divisi ancora, talvolta, financo sulla definizione dell’area di provenienza. Tra gli arrivi più precoci è quello della Madonna con Bambino della chiesa madre di San Chirico Raparo, caratterizzata dal ductus duro e alquanto semplificato dei panneggi, databile non oltre il secondo decennio del Cinquecento e da considerarsi opera di uno scultore meridionale sicuramente aggiornato su modelli napoletani, tratti più da Domenico Gagini che da Giovanni da Nola, come pure è stato affermato5. La scultura trova il suo momento migliore nel muto colloquio di gesti e di sguardi del Bimbo con la madre, quest’ultima purtroppo svisata nell’espressione dall’inserimento di incongrui occhi di cristallo. L’ipotesi è ripresa da R. Bianco, in F. Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento in Basilicata, Matera 2002, pp. 154-55. 2 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 62; Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 306-307. 3 F. Abbate La scultura napoletana del Cinquecento, Roma 1992, p. 33, nota 65. 4 Sul sarcofago cfr. il recente intervento di C. Gelao, in P. Belli D’Elia, C. Gelao, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, Venosa 1999, pp. 228-32. Cfr. anche Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 314-15. 5 A. Basile, in Restauri in Basilicata 1988-1993, catalogo della mostra (Matera-Palazzo Lanfranchi, gennaio-febbraio 1995), Matera 1994, pp. 31-33; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, rist. anast. con note di aggiornamento di A. Grelle Iusco e S. Iusco, Roma 2001, p. 260; Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 334 (che l’attribuisce tout court a Giovanni da Nola). Nega l’attribuzione a quest’ultimo R. Naldi, in Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, 1° luglio-31 ottobre 2004), Torino 2004, p. 212.

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Fig. 1. Marsiconuovo, Chiesa del Carmine. Scultore abruz­ zese (?), Madonna con Bambino (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

Già segnalata come opera legata da precisi riferimenti a Giovanni da Nola dalla Grelle Iusco6 e in seguito ascritta dalla Muscolino a un artista molto prossimo al Marigliano, «memore oltre che della scultura nordica, anche di elementi adriatico-abruzzesi»7, la Madonna in trono con Bambino nella chiesa del Carmine a Marsiconuovo, enigmatico idolo chiuso nelle sue vesti dorate, di recente è stata invece a ragione spostata decisamente in area abruzzese, come prova anche la tipologia del Bimbo, con vestina dorata che gli lascia scoperte le spalle e ingenua collanina di corallo al collo8. Più dolce e classicheggiante e

Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 155, nota 126. C. Muscolino, in Opere d’arte restaurate a Matera 1982/83, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, luglio-settembre 1985), Matera 1985, pp. 10-11. 8 S. Abita (a cura di), Madonne lucane, catalogo della mostra (Matera, Chiesa di Cristo flagellato, 12 febbraio-11 marzo 2001), Matera 2001, p. 44; F. Speranza, in Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata-Palazzo Lanfranchi Matera, Napoli 2002, pp. 52-53; Id., in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 188-91. Continua invece a inserirla nella bottega di Giovanni da Nola Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 338-39. 6 7

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Fig. 2. Melfi, Castello. Giovanni da Nola, San Sebastiano (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

più morbida nei panneggi appare la Madonna con Bambino in trono della chiesa di Santa Lucia ad Anzi (ora nel Museo nazionale di Matera), un altorilievo collocabile negli stessi anni e anch’esso accostato a Giovanni da Nola ma, più probabilmente, opera di provenienza adriatica, forse abruzzese. Madonna alla cui grazia malinconica e alla cui misura si oppone un gigantesco Bambino, che si direbbe aggiunto, se non fosse per lo scarto a sinistra della figura della madre, che ne presuppone la presenza, e per l’intimità dei gesti reciproci, che escludono un rifacimento9. Fra gli scultori extraregionali che inviano opere in Basilicata la storiografia ha spesso posto in rilievo Giovanni da Nola, cui è stato asse9 V. Savona, in V. Savona, M. Francione (a cura di), Percorsi d’arte tra luoghi di culto: la diocesi di Acerenza, Venosa 1997, p. 39. Per trattazioni più recenti cfr. Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 318; Speranza, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 220.

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Fig. 3. Tito, Chiesa del convento. Giovanni da Nola, Madonna con Bambino (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

gnato un notevole corpus di sculture di qualità ineguale e di stile anche molto diverso. Di altissima qualità, nonostante una curiosa caduta di stile nella visione di profilo del volto, che appare alquanto schiacciato, è la statua raffigurante San Sebastiano nel castello di Melfi, connotata da un sottile, quasi elegiaco classicismo e da passaggi chiaroscurali sfumati e quasi impercettibili. Ascritta dalla Grelle Iusco al periodo giovanile di Marigliano, entro il secondo decennio del Cinquecento, e messa in relazione con la Madonna delle grazie nella parrocchiale di Villamar (Sardegna)10, e in seguito inserita nell’ambiente della scultura tardo-gotica meridionale da Abita, che la retrodata tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento11, la scultura è stata da

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Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 176. S. Abita, in Cultura artistica della Basilicata. Opere scelte, Napoli 1999, p. 20.

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ultimo correttamente restituita al nolano12. A quest’ultimo va riferita senza dubbio anche la splendida Madonna con Bambino nella chiesa del convento di Sant’Antonio a Tito, vicinissima alla Madonna con Bambino nella chiesa della Madonna delle Grazie a Benevento13, e due crocifissi, rispettivamente nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a San Martino d’Agri e nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Rivello, recentemente resi noti14. Altri esemplari accostati al nolano, pur di notevole qualità, non sembrano essergli riferibili: tra questi sono la Madonna col Bambino nella chiesa di Santa Maria del Monte a Viggiano15, di recente dirottata in direzione di un maestro di cultura germanica16, e, a mio parere, il Sant’Antonio da Padova nella chiesa della SS. Annunziata a Cancellara, qualitativamente molto al di sotto della produzione dell’artista17; una più tarda imitazione di un esemplare del nolano mi pare invece la Madonna con Bambino nella chiesa di Sant’Antonio a San Mauro Forte18. Una interessante Madonna delle grazie nell’omonima cappella di Vietri di Potenza, recentemente studiata da Naldi, che la considera «l’esito di una personale riflessione su di un modello del tipo della ‘Madonna con Bambino’ nel convento di Sant’Antonio da Padova a Tito» da parte di un ignoto scultore lucano19, nella sua grazia gracile e acerba mi pare piuttosto da accostare all’assai manomessa Madonna con Bambino in trono della chiesa di San Rocco a Picerno, già datata al XV secolo20. Gravitante in orbita napoletana è anche l’autore di una

12 Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 330-31; Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 194-96, con aggiornata bibliografia. 13 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 65; Muscolino, in Opere d’arte restaurate a Matera, cit., p. 11; Abita (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 40. Sulla storia critica della statua, la cui attribuzione a Giovanni da Nola è stata messa in dubbio ancora di recente (Bianco, in Abbate [a cura di], Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 336-37), cfr. Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 206, che ne ribadisce l’assegnazione al nolano. 14 Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 200-204. 15 V. Savona, in Restauri in Basilicata 1988-1993, cit., pp. 29-31. 16 R. Casciaro, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 192. 17 Per l’attribuzione al nolano cfr. Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 332; Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 198. 18 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 66; Abita (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 38; Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 340; Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 210. 19 Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 218. 20 Savona, in Restauri in Basilicata 1988-1993, cit., p. 19.

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Madonna con Bambino e delle statue di San Giovanni evangelista e di San Giuseppe inserite nel grande polittico, datato 1548, nella chiesa del SS. Salvatore a Picerno. La statua della Vergine, accostata da Savona alla Santa Margherita nella chiesa di Santa Maria dei Lombardi a Novi Velia21, è replicata dallo stesso maestro in quella della cappella di Sant’Antonio Abate a Tolve, di recente restaurata22. Infine, la bella Madonna con Bambino che occupa lo scomparto centrale del polittico di Pietrapertosa, più che a Pietro Belverte, come ipotizza la Grelle Iusco23, mi sembra vicina ai modi di Domenico Napoletano, come ha giustamente riconosciuto la Bianco24. Per quel che riguarda la scultura in pietra, che costituisce sicuramente il capitolo più nutrito della scultura del Cinquecento in Basilicata, rispetto al panorama scultoreo del secolo precedente, povero di personalità artistiche locali di rilievo e caratterizzato da importanti, pur se sporadiche importazioni, questo secolo vede un protagonista quasi assoluto, Altobello Persio (Montescaglioso 1507-Matera 1593), e una marcata prevalenza culturale della parte orientale della regione, legata peraltro dal punto di vista amministrativo alla Terra d’Otranto. Dalla Puglia giungono artisti affermati, come Stefano da Putignano (not. 149[...]-1538)25, presente a Matera con alcune opere come un Sant’Antonio da Padova nella chiesa di San Francesco d’Assisi26; una Madonna con Bambino in trono, in pietra policromata purtroppo pesantemente ridipinta, nella chiesa di San Domenico, databile intorno al 1515-2027 – non dissimile dai tanti esemplari dello stesso soggetto da lui realizzati, disseminati in molte chiese del Sud-Est barese, tutti 21 Ivi, p. 25. Sulle statue di Picerno cfr. di recente Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 323-25 (scultore napoletano); Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 242-44. 22 Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 248. 23 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 182. 24 Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 320. Concorda con questa ipotesi, anche se con numerose perplessità, Naldi, in Scultura lignea in Basilicata, cit., p. 214. 25 L’attività dello scultore in Puglia e Basilicata è ricostruita da C. Gelao, Stefano da Putignano nella scultura pugliese del Rinascimento, Fasano 1990. 26 C. Muscolino, in Matera, Piazza San Francesco d’Assisi. Origine ed evoluzione di uno spazio urbano, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, Centro Carlo Levi, giugno-settembre 1986), Matera 1986, pp. 316-18; Gelao, Stefano da Putignano, cit., p. 103. 27 Ivi, p. 78. Sulla scultura cfr. di recente Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., p. 356.

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Fig. 4. Matera, Chiesa di San Domenico. Stefano da Putignano, Madonna con Bambino (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

caratterizzati da vaghe assonanze lauranesche nei volti perfettamente ovali, da panneggi fittamente e minutamente incisi, di gusto si direbbe squarcionesco, e da una massività ancora «romanica»28 –, e un imponente San Pietro martire, in cui lo scultore si attarda sui particolari macabri della ferita alla testa e al petto, anch’esso nella chiesa di San Domenico29. I riferimenti pittorici (da Mantegna ai Vivarini a Ercole de’ Roberti), già da tempo evocati a proposito della scultura di Stefano da Putignano – riferimenti che, nel caso della Madonna materana, indirizzano verso la bella tavola di Alvise Vivarini nella chiesa di Sant’Andrea a Barletta – sono particolarmente riconoscibili nel San Pietro martire, chiaramente desunto dalla tavola dello stesso soggetto dipinta da Giovanni Bellini per la chiesa di San Domenico a Monopo-

28 Per le Madonne con Bambino di Stefano da Putignano, Gelao, Stefano da Putignano, cit., pp. 69; 73-84; 86-90. 29 Ivi, p. 105.

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Fig. 5. Matera, Chiesa di San Domenico. Stefano da Putignano, San Pietro martire (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

li, oggi presso la Pinacoteca provinciale di Bari: il rovello lineare che ne connota lo stile ha però a che fare anche col tardo mantegnismo di uno scultore come Pietro Lombardo. Le sculture eseguite per i Domenicani di Matera quasi sicuramente non sono le uniche testimonianze di Stefano da Putignano in Basilicata (è molto probabile infatti che gli si debba attribuire un Eterno nella chiesa di San Pietro Barisano)30: non è escluso quindi che altre opere, a lui riferibili, possano emergere col progredire della ricerca. Dalla Puglia proviene anche il misterioso Sannazzaro Panza d’Alessano che, insieme ad Altobello Persio, scolpisce il monumentale presepe in pietra dipinta della cattedrale di Matera31. Si tratta dell’uniIvi, p. 98. Per questo cfr. G. Gattini, Note istoriche sulla città di Matera e sulle sue famiglie nobili, Napoli 1882, p. 420; C. Guglielmi Faldi, in M.S. Calò Mariani, C. Guglielmi Faldi, C. Strinati (a cura di), La Cattedrale di Matera nel Medioevo e nel Rinascimento, Cinisello Balsamo 1978, pp. 63-68; Grelle Iusco, Arte in Basilicata, 30 31

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ca opera documentata dello scultore di origine salentina, sicuramente più anziano di Altobello e fratello di un altro scultore, noto solo da testimonianze documentarie, Adario Panza32; successivamente il suo nome si ritrova, senza alcun riferimento ad altre opere, in molti contratti notarili redatti a Castellana (Bari), dove risiedeva e dove risulta morto alla data del 24 dicembre 155533. Il Cinquecento è però dominato, come abbiamo anticipato, da Altobello Persio che, sebbene certamente meno raffinato del fratello minore Aurelio (scultore di ben altra levatura, formatosi a Palermo, dove è documentato tra il 1539 e il 1543 nella bottega di Antonello Gagini, e ritornato verso la metà del Cinquecento a Castellana, dove nel 1551 firma un’imponente ancona in pietra nella chiesa matrice, oggi smembrata tra l’interno e l’esterno della chiesa e il castello di Santo Stefano a Monopoli)34, ha goduto di una pressoché costante attenzione da parte degli studiosi locali. Nel corso della sua lunghissima vita, dal 1541 svoltasi ininterrottamente a Matera, dove si era trasferito dalla natia Montescaglioso, Altobello eseguì un numero di opere certamente assai superiore alle poche, firmate o documentate, riconosciute come sue, comprese tra il 1534 e il 1540, come prova la straordinaria quantità di statue in pietra dipinta, databili lungo tutto l’arco del Cinquecento, esistenti nelle chiese di Matera e dintorni, in larga misura rapportabili – anche se con caratteri talvolta piuttosto diversi – allo stile di Altobello. Proprio questa ineguale qualità ci fa convinti che, già a cominciare dagli anni Quaranta, Persio affiancasse al suo personale impegno come scultore l’attività di abile impresario, titolare di una fiorentissima bottega che monopolizzava quasi completamente il mercato e nella quale si distinguono allievi e seguaci anche di notevole talento35. cit., p. 78; Gelao, Stefano da Putignano, cit., p. 51; Ead., Il presepe artistico pugliese, in C. Gelao, B. Tragni, Il presepe pugliese. Arte e folklore, Bari 1992, pp. 63-66; Ead., Tra Lucania, Puglia e Sicilia: Aurelius de Basilicata e Altobello Persio di Montescaglioso, in «Storia dell’arte», 89, 1997, pp. 37-66, in particolare pp. 48-50. Cfr. anche, di recente, Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 368-72. 32 Gelao, Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., p. 40. 33 Ibid. 34 Su Aurelio Persio, sulla sua formazione e sulle sue opere in Sicilia e in Puglia cfr. ivi, pp. 37-47. 35 Per un approfondimento di tutta la questione e per i relativi riferimenti bibliografici cfr. ivi, pp. 47 sgg.

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Fig. 6. Matera, Chiesa di San Pietro Caveoso. Altobello Persio (?), Il salvataggio del naufrago (foto Soprintendenza PSAE della Basilicata).

A rinfoltire il catalogo di Altobello Persio si sono cimentate, negli ultimi anni, la Guglielmi Faldi36 e soprattutto la Grelle Iusco, che estende l’attività dello scultore oltre i confini di Matera, attribuendogli le statue lignee di Isabella e Federico d’Aragona nella chiesa matrice di Ferrandina, di San Pietro nella chiesa matrice di Atella e dei Santi Pietro e Paolo nell’omonima chiesa di Oppido Lucano37.

36 Guglielmi Faldi, in Calò Mariani, Guglielmi Faldi, Strinati (a cura di), La Cattedrale di Matera, cit., pp. 63-78, 82, 123, nota 233. 37 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 80. Sulle statue di Ferrandina è ritornato di recente Speranza, in Scultura lignea in Basilicata cit., p. 250.

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Fig. 7. Matera, Cattedrale. Sannazzaro Panza d’Alessano e Altobello Persio, Presepe, 1534 (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

Più di recente, è stato ipotizzato che, prima del già citato presepe nella cattedrale di Matera (che costituisce la sua più antica opera nota), Altobello abbia scolpito sei lastre in pietra policromata, facenti parte di un ciclo raffigurante Storie di Sant’Antonio, scoperte tra il 1991 e il 1992, al di sotto di un altare, nella chiesa di San Pietro Caveo­ so a Matera38. Ma l’ingenua, gustosa commistione di elementi quotidiani e favolosi, per certi versi ancora anacronisticamente tardo-gotica, presente nell’intero ciclo lapideo sembra avere pochi elementi in comune con l’intimismo e la massività, palesemente desunta da Stefano da Putignano, del grande gruppo presepiale della cattedrale di Matera, anche a tener conto che quest’ultimo fu realizzato insieme a Sannazzaro Panza d’Alessano39. Nonostante sia stato spesso ripetuto, da parte degli studiosi, che il presepe, commissionato nel 1534 per la cappella di questo titolo, 38 39

Cfr. A. Altavilla, in Restauri in Basilicata 1988-1993, cit., pp. 34-38. Gelao, Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., pp. 47-48.

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Fig. 8. Matera, Cattedrale. Altobello Persio, Dossale di San Michele (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

doveva per contratto ricalcare quello, andato distrutto durante il terremoto del 1731, che figurava nel duomo vecchio di Cerignola, in realtà, stando allo strumento d’allogagione del notaio Marcantonio Sanità, il rapporto sembrerebbe essersi limitato all’impostazione generale «in grotta» e al numero e ai soggetti delle figure. L’opera mostra una cultura artistica tutt’affatto «locale», i referenti della quale sono facilmente individuabili nella scultura pugliese contemporanea: oltre al già citato Stefano da Putignano, anche Paolo da Cassano, un raffinato maestro, comprimario di quest’ultimo, attivo in Terra di Bari, di cui recentemente sono state scoperte le tracce anche in Basilicata (un San Giuseppe e un’acefala Madonna orante, rispettivamente nella chiesa matrice e nella chiesa di San Francesco di Miglionico, figure superstiti di un presepe andato distrutto)40. Analogamente ai numerosi

40 Ead., Prototipi, copie, derivazioni e repliche nella scultura pugliese del Rinascimento, in La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione

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esemplari che compongono il nutrito capitolo della presepistica apulo-lucana, il presepe di Matera assurse a sua volta a modello per altri simili gruppi, come quello, realizzato presumibilmente fra il 1547 e il 1550, per la chiesa della Rabatana a Tursi, recentemente restaurato, opera già di bottega di cui forse Altobello si riservò i sei Angeli musicanti, di più elevata qualità formale41, e il più tardo presepe (1589) della cattedrale di Altamura, anch’esso da collocare nell’ambito della bottega dello scultore materano, anche se la tradizione dice esserne stato autore un misterioso Scriba de Iudicibus42. L’opera cronologicamente successiva di Altobello è il retablo cosiddetto di San Michele, collocato nella cattedrale di Matera, che nell’attuale aspetto è frutto di una ricomposizione settecentesca, in virtù della quale nell’intelaiatura architettonica del dossale già sull’altar maggiore, dedicato all’arcangelo Michele e di patronato dei Benedettini di Montescaglioso (il cosiddetto «altare del Cappello»), furono inserite con qualche forzatura le statue (Madonna con Bambino, San Simone e San Giuda, San Giacomo maggiore e Santa Caterina d’Alessandria) tolte dal dossale eretto nel 1539 col lascito di Simone di Francesco de Simone e realizzato da Altobello. Sopravvivono anche, variamente collocate nella chiesa, alcune statue (San Michele arcangelo, Madonna del latte e due santi benedettini) che facevano parte dell’originario dossale di patronato benedettino, presumibilmente scolpito tra il 1534 e il 1539. In tutte queste opere, Altobello mostra spiccati caratteri gaginiani, sicuramente appresi durante un viaggio che egli compì alla volta di Palermo, dove soggiornavano il fratello Aurelio e già, prima di questi, un altro fratello, Francesco, che godeva della cittadinanza palermitana sin dal 1526. Le statue provenienti dal dossale dell’altar maggiore, però, più grossolane e più vicine, nella loro rudezza un po’ paesana, al presepe del 1534, rappresentano bene la fase intermedia di Altobello, nella quale egli accoglie modelli esterni, specificamente siciliani, traducendoli in un

mediterranea. Atti del Convegno (Lecce, ex monastero degli Olivetani, 9-11 giugno 2004), in corso di stampa. 41 Ead., Il presepe artistico, cit., pp. 69-72; A. Basile, in Restauri in Basilicata 1993-1997, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, 4 aprile-30 maggio 1998), Matera 1998, pp. 22-27. Più di recente, cfr. Speranza, in Scultura lignea in Basilicata, cit., pp. 254-55. 42 Gelao, Il presepe artistico, cit., pp. 72-75.

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linguaggio ancora ben radicato nel gusto locale. Più spinte le componenti gaginiane nelle statue del dossale de Simone, e particolarmente nel gruppo della Madonna con Bambino, che riprende dal punto di vista iconografico, a una data antecedente all’importazione in Puglia di tali tematiche da parte di Aurelio Persio, le tante statue d’analogo soggetto dei Gagini sparse per tutta la Sicilia43. Ma, tra il 1534 e il 1539-40, oltre alle due macchine lapidee di cui abbiamo appena parlato, Altobello realizza l’opera sua forse più impegnativa, la cappella dell’Annunziata nella cattedrale di Matera che, sulla base di una tradizione tanto infondata quanto tenace, era attribuita sino a qualche anno fa a un figlio di Altobello, Giulio, che l’avrebbe realizzata sul finire del secolo44. Ma né le fonti riguardanti la cattedrale né le scarsissime notizie che si posseggono su Giulio Persio offrono supporto a questa ipotesi. Per di più, la cappella dell’Annunziata può essere precisamente datata tra l’ottobre 1538 (data cui risale il testamento del notaio Marcantonio Sanità, che ne dispone l’erezione) e il 1544, anno della visita pastorale di monsignor Giammichele Saraceno, in cui risulta già esistente. Che la cappella intitolata all’Annunciazione, voluta dal notaio Sanità nel 1538, corrisponda a quella attuale si evince non solo dal codicillo del testamento, dello stesso anno, in cui si fa riferimento alla preziosa architettura della cappella e all’altare, che dovrà essere arricchito multis et variis ornamentis, ma anche dal fatto che se ne prevede una rapidissima realizzazione, entro un anno dal decesso di Sanità: in caso contrario il capitolo della cattedrale, erede universale, avrebbe dovuto cedere l’incombenza – e l’eredità – al convento di San Francesco di Matera. Gli studiosi hanno sottolineato il gusto fortemente classico della cappella, coperta da una volta a botte cassettonata e articolata lungo le pareti laterali da nicchie pausate da lesene scanalate, individuandone i modelli – napoletani e romani per la Guglielmi Faldi45, na­ poletano-romani e fiorentini per la Grelle Iusco46, dalmati per chi

43 Tutta la questione è ampiamente discussa in Ead., Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., pp. 50-54. 44 Sulla cappella e sulle varie opinioni a suo riguardo cfr. ivi, pp. 54-58, con bibliografia precedente. 45 Guglielmi Faldi, in Calò Mariani, Guglielmi Faldi, Strinati (a cura di), La Cattedrale di Matera, cit., pp. 82-83. 46 Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 104-105.

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Fig. 9. Matera, Cattedrale. Altobello Persio, Cappella dell’Annunziata (insieme) (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

scrive47. Ma, una volta stabilita la cronologia anticipata della cappella, è chiaro come essa sia del tutto coerente con il percorso di Altobello, così come l’abbiamo visto configurarsi sino ad ora, qualificandosi come un’ulteriore testimonianza del suo viaggio siciliano: nessuno ha notato, infatti, come il motivo delle nicchie che pausano le pareti compaia anche nella cappella dei marinai nel santuario dell’Annunziata di Trapani, una meta che Altobello non dovette trascurare e che all’epoca del suo viaggio in Sicilia era in fase di avanzata costruzione48. Ad Al47

37.

Ho espresso questa opinione in Gelao, Stefano da Putignano, cit., p. 14, nota

48 Per questa tesi, cui sono approdata di recente, cfr. Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., p. 56.

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Fig. 10. Matera, Cattedrale, cappella dell’Annunziata. Altobello Persio, Annunciazione, San Rocco, Santa Caterina, Pietà (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

tobello appartengono anche le statue e i gruppi plastici che figurano sull’altare della cappella: l’Annunciazione (che segue un modello gaginiano ed è del tutto simile a quella della chiesetta di Mater Domini a Matera, opera dello stesso Altobello), il San Rocco e la Santa Caterina, confrontabili con le statue del polittico de Simone, il gruppo della Pietà, pervaso da una contenuta emozione resa in un linguaggio forte ed essenziale. Quanto al rilievo con l’Eterno al centro della volta, le cui misure sono calcolate in rapporto ai lacunari, l’ascrizione ad Altobello è comprovata dalla stretta contiguità con il rilievo di analogo soggetto nella lunetta del dossale di San Michele Arcangelo49.

49

Ivi, pp. 56-58.

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Fig. 11. Matera, Cattedrale, cappella dell’Annunziata, particolare della volta. Altobello Persio, Eterno benedicente (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

Al 1540 si data il dossale, purtroppo assai rimaneggiato, nella cappella di Santa Maria di Costantinopoli annessa alla cattedrale di Matera, di cui vanno notati un’Annunciazione, dello stesso tipo di quella già realizzata nella cappella dell’Annunziata, e un Cristo risorto, firmato sulla base, in cui ritroviamo lo stesso modello utilizzato per il San Rocco, oggi entrambi nel Museo nazionale di Matera50. Nella prima metà del Cinquecento, contemporaneamente a Stefano da Putignano e ad Altobello Persio, è attivo in Basilicata anche un altro maestro anonimo, probabilmente pugliese, che in altra sede ho proposto di denominare Maestro della Madonna di San Benedetto di Brindisi51 per essere autore di una statua di questo soggetto (nota Ivi, p. 57; B. Di Mase, in Cultura artistica della Basilicata, cit., p. 28. Di questo maestro, ancora anonimo, mi sono occupata una prima volta in La Madonna della Neve di Brindisi nel panorama della scultura pugliese del Rinascimento, in AA.VV., Contributi alla Storia dell’Arte in Puglia. La Madonna della Neve nella Chiesa di San Benedetto a Brindisi, Brindisi 1992, pp. 7-14; più recentemente 50 51

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Fig. 12. Matera, Chiesa del Carmine. Maestro della Madonna di San Benedetto di Brindisi, Madonna in trono con Bambino (foto Pinacoteca Provinciale di Bari).

come Madonna della neve), nella chiesa di San Benedetto a Brindisi, intorno a cui ho raggruppato un certo numero di sculture conservate a Taranto (una Madonna con Bambino – Mater gratiae nell’appellativo locale – nella chiesa di San Francesco di Paola; un altorilievo dello stesso soggetto e una Santa Caterina, rispettivamente in cattedrale e nell’omonima chiesa) che, ad onta delle innegabili somiglianze con la produzione certa di Stefano da Putignano, si rivelano però da taluni particolari opera di un diverso maestro, pienamente inserito anche nell’ambiente materano. Lo dimostra una Madonna in trono con Bambino proveniente dalla chiesa di Santa Maria degli Armeni di Matera e trasferita dal 1776 nella chiesa del Carmine, sicuramente opera dello stesso maestro ho cercato di ricostruire l’intera produzione dell’ignoto scultore in Il «Maestro della «Madonna di San Benedetto» di Brindisi, in «Fogli di periferia», XII, 1-2, 2000, pp. 5-12 e in Prototipi, copie, derivazioni e repliche, cit., cui si rimanda per una più approfondita trattazione di quanto discusso nel testo.

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nonché tassello fondamentale per la ricostruzione della cronologia del suo corpus scultoreo. Reduce da un recente restauro, che ne ha svelato la vivace cromia originaria, il gruppo, che presenta lo stesso tipo di Vergine delle altre opere del maestro ma, soprattutto, lo stesso Bimbo, seminudo e quasi schiacciato sul corpo della madre, è inserito in un’edicola cuspidata coeva, sulla quale è presente uno stemma identificabile, grazie all’iscrizione che corre lungo l’intera arcata, con quello del materano Pietro de Querciis, vescovo di Mottola dal 1512 al 1524. Nella produzione materana del maestro sono da annoverare anche due statue che formano il gruppo dell’Annunciazione, già conservate a Matera nel Museo di Palazzo Ridola e recentemente approdate nel Museo nazionale della stessa città. Qui la Vergine, dal caratteristico volto rotondeggiante, accoglie con le braccia incrociate, inginocchiata su un leggio con fronte decorata da un busto all’antica, l’angelo nunziante, anch’egli inginocchiato con le ali sollevate e con il capo coperto da una corta e liscia zazzeretta sottilmente incisa. Già inspiegabilmente attribuite dalla Grelle Iusco ad Aurelio Persio52, fratello del già citato Altobello, che a mio parere non ha lasciato alcuna opera a Matera, le statue sono state sorprendentemente riconfermate ad Aurelio dall’Altavilla53, nonostante si accolga in pieno la tesi, da me sostenuta, di una formazione dell’artista nella bottega di Antonello Gagini a Palermo. Ma la Sicilia entra per traverso e per via mediata anche nella formazione del nostro maestro: la Madonna di Brindisi ha infatti chiaramente guardato alle Madonne allattanti realizzate da Altobello Persio nella cattedrale di Matera, eco periferica, queste ultime, delle tante statue gaginiane ispirate alla Madonna di Trapani viste da Altobello durante il suo viaggio in Sicilia54. Quanto all’Annunciazione, l’impaginazione compositiva che la caratterizza (con due figure staccate, di cui quella della Madonna inginocchiata su un leggio) non si ritrova altrove, né in Puglia né in Lucania, fatta eccezione per le opere materane di analogo soggetto realizzate da Altobello: ed è un’impaginazione, anche questa, che Persio mutuò dalle Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 81. A. Altavilla, in Cultura artistica in Basilicata, cit., p. 32. L’attribuzione è ripetuta in una scheda, senza firma, contenuta in Abita (a cura di), Madonne lucane, cit., p. 46 e in Museo Nazionale, cit., p. 48. 54 Per il presumibile viaggio di Altobello Persio in Sicilia cfr. Gelao, Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., p. 53. 52 53

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tante Annunciazioni viste in Sicilia, tra cui quella del municipio di Erice, che Antonello Gagini realizzò intorno al 152455, è certamente una delle più indicative al proposito. Ad Acerenza, feudo lucano di un esponente dell’alta aristocrazia napoletana, Giacomo Alfonso Ferrillo, nella cripta della cattedrale, frutto del profondo rinnovamento della chiesa avvenuto a seguito del terremoto del 1456 e protrattosi ben addentro il Cinquecento56, nei capitelli e nelle decorazioni che percorrono le paraste, i piedistalli e la trabeazione, tutti realizzati in pietra calcarea, si può riconoscere senza difficoltà l’opera di maestranze locali che, pur allineate a uno standard qualitativo piuttosto modesto, rivelano al loro interno lapicidi di diverse capacità. Rozzi e sommari e di livello poco più che artigianale i rilievi dei piedistalli delle colonne, in cui gli echi iconografici di matrice medievale sembrano ricordare, ma a un livello assai più provinciale, Francesco da Sicignano, attivo in varie località del Cilento al servizio dei Sanseverino57. Altri rilievi, come le basi delle paraste perimetrali, opera di un maestro diverso, denotano un gusto compositivo che cresce «per proliferazione», non privo di una venatura grottesca. Su un gradino più alto si pongono gli scultori e lapicidi impegnati nella trabeazione: qui, a riempire gli spazi, putti reggistemma si alternano a rozzi profili maschili, a testine di cherubini, a Pflanzenkandelaber, a corrucciati mascheroni fitomorfi, a cantari baccellati, a delfini affrontati e via dicendo, con un frequente impiego del trapano in funzione decorativa. I migliori risultati sono raggiunti in alcuni capitelli, soprattutto in quelli degli spigoli sud-est e nord-est che, se non rappresentano delle integrazioni più tarde, anticipano, nei temi decorativi e nell’esuberanza plastica, la scultura salentina della metà del Cinquecento. 55 H.W. Kruft, Antonello Gagini und seine Söhne, München 1980, pp. 376-77 e doc. CII. 56 Per la cripta Ferrillo cfr. N. Barbone Pugliese, La cripta Ferrillo nel Duomo di Acerenza, in «Napoli nobilissima», XXI, 1982, pp. 168-82; Ead., La cripta nella cattedrale, in Comunità montana Alto Bradano (a cura di), Acerenza, Venosa 1995, pp. 49-64. Per una trattazione più esaustiva cfr. C. Gelao, in Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit., pp. 199 sgg. 57 Sullo scultore cfr. F. Abbate, in Il Cilento ritrovato. La produzione artistica nell’antica Diocesi di Capaccio, catalogo della mostra (Padula, Certosa di San Lorenzo, luglio-ottobre 1990), Napoli 1990, pp. 83-88. Sui rilievi lapidei della cripta di Acerenza cfr. recentemente Bianco, in Abbate (a cura di), Tardogotico & Rinascimento, cit., pp. 308-13.

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È possibile ritrovare queste stesse maestranze girovaghe, padrone di un repertorio decorativo che si ripete monotonamente con piccole varianti e aggiornamenti, in numerose altre località della Basilicata: a Venosa, in cattedrale, nell’arcone scolpito, datato 1520, che immette nella cappella del SS. Sacramento; a Potenza, nel portale della cappella dell’Annunziata, datato 1534, rimontato in epoca imprecisata nel chiostro del convento di San Francesco o, nella chiesa attigua, nel monumento funebre di gusto napoletano, con la figura del defunto distesa su un sarcofago, sormontato da una lunetta con la Madonna col Bambino, che certo Donato de Grassi fece erigere da vivo per sé e per la consorte nello stesso 1534; al monumento funebre di Eustachio Paolicelli nella chiesa di San Francesco a Matera; a ciò che resta del sepolcro De Querquis, nella chiesa del Carmine, sempre a Matera, o, ancora, a Montescaglioso, nel portale che immette al chiostro occidentale o nei capitelli e nei fregi del chiostro orientale. A queste opere bisognerà aggiungere il modesto portale della chiesa dell’Annunziata a Genzano, dove ricompaiono gli stemmi Balsa-Ferrillo, cioè dei committenti della cripta acheruntina58. Nella seconda metà del secolo continua la produzione della bottega di Altobello Persio, anche se quasi sicuramente le opere uscite dall’atelier furono solo impostate dal caposcuola materano ed eseguite dai numerosi allievi e discepoli. Fra le opere sicuramente attribuibili alla bottega di Altobello va inserita l’ancona in pietra della chiesa di Santa Maria di Picciano (Matera), assai rimaneggiata e manomessa e già considerata secentesca, ma che due iscrizioni emerse a seguito del recente restauro ci permettono di datare tra il 1545 e il 157059; il protrarsi dell’impresa è probabilmente all’origine dei massicci interventi di bottega che possono cogliervisi. La cona occupa attualmente l’intera parete di fondo della chiesa (corrispondente all’originaria controfacciata) – come già nella chiesa matrice di Castellana quella di Aurelio Persio, fratello di Altobello – a incorniciare la venerata immagine dell’Annunziata (un frammento d’affresco staccato a massello, fatto oggetto nei secoli di ripetuti interventi, la cui stesura originaria può verosimilmente farsi risalire a circa la metà del Quattrocento). Dopo il Gelao, in Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit., pp. 207-209. Ead., Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., pp. 58-60; M. Padula, Un ex voto d’eccezione: il dossale del presbiterio del santuario di Picciano, in Un ex voto d’eccezione: il dossale del presbiterio del santuario di Picciano, in Fasci di luce sulla storia di Picciano, Matera 1996, pp. 62-77. 58 59

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restauro della cona è possibile cogliere con maggiore chiarezza i caratteri stilistici dell’intaglio, che ne fanno un’opera gravitante nell’area di Altobello e caratterizzata, oltre che da palmari riprese dal dossale di San Michele nella cattedrale di Matera, da un gusto classicheggiante che si manifesta nell’imbotte dell’arcata, decorata da lacunari includenti rosette, come la volta della cappella dell’Annunziata, sempre a Matera. Dal punto di vista stilistico la cona segna un’ulteriore tappa nella «parlata» di Altobello che, se agli inizi si mostra estremamente recettiva e curiosa rispetto ai fenomeni della scultura a lui contemporanea (non solo strettamente locali, ché anzi il soggiorno a Palermo dei fratelli Francesco e Aurelio non mancò, come si è visto, di avere riflessi sulla sua arte), nella fase centrale della sua attività, a Picciano, sembra ripiegarsi su un linguaggio privo di sostanziali rinnovamenti, affidato in gran parte alla sua bottega. Nella vastissima produzione scultorea in area materana della seconda metà del Cinquecento la sua impronta è infatti onnipresente (basterà citare, tra le tante di più o meno buona qualità, almeno le sculture lapidee delle chiese di San Pietro Caveoso, San Pietro Barisano, Santa Maria della Palomba, San Domenico, San Giovanni Battista, tutte a Matera, e i già citati presepi nella chiesa della Rabatana a Tursi e nella cattedrale di Altamura), ma filtrata dalla mano di aiuti e collaboratori, alcuni dei quali di notevole talento, come l’ignoto scultore della sua cerchia, che vorremmo chiamare Maestro della Palomba, al quale appartengono alcune statue che la Grelle Iusco attribuiva non già ad Altobello Persio, ma al fratello Aurelio60, attivo come si è visto in Sicilia e a Castellana. Mi riferisco alla Madonna con Bambino sulla facciata della cattedrale di Matera (riveniente, insieme alle due statue raffiguranti rispettivamente San Pietro e San Paolo, da un polittico lapideo già all’interno della chiesa) che, almeno sotto il profilo iconografico, è vagamente ispirata a un prototipo gaginesco. Della Madonna esistono altre tre versioni con irrilevanti varianti, rispettivamente nella chiesa della Palomba a Matera, nella chiesa di San Rocco a Grottole (ora nel Museo nazionale di Matera) e nella cappella del cimitero di Pomarico (in deposito presso la Soprintendenza)61. Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., pp. 80-81. Gelao, Tra Lucania, Puglia e Sicilia, cit., pp. 60-62; Ead., Prototipi, copie, derivazioni e repliche, cit. Per opinioni diverse cfr. Speranza, in Museo Nazionale, cit., pp. 50-51. Per la statua di Pomarico cfr. anche Grelle Iusco, Arte in Basilicata, cit., p. 66 (rist. anast cit., p. 268). 60 61

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Fig. 13. Matera, Chiesa di San Pietro Caveoso. Bottega di Altobello, Madonna del Gonfalone (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

Nell’alveo della bottega di Altobello, pur se a un livello assai più provinciale, è da inserire anche la grande edicola in pietra, datata 1570, nella cattedrale di Acerenza, commissionata dalla confraternita del SS. Sacramento, su cui figura lo stemma di Sigismondo Saraceno, arcivescovo di Acerenza dal 1557 al 1585, quasi certamente suggeritore del complesso programma iconografico svolto nei rilievi soprastanti. L’edicola, sino a poco tempo fa del tutto ignorata negli studi sulla scultura in Basilicata, se si fa eccezione per i contributi, di ambito locale, di Festa62, Grillo63 e Borghini64, nonostante le ambizioni pro62 M. Festa, L’edicola del SS. Sacramento nella Basilica Cattedrale di Acerenza, pro manuscripto 1981; Id., L’edicola del SS. Sacramento nella Cattedrale di Acerenza, in 1995. 63 A. Grillo, Percorsi di una Cattedrale, Lavello 1995, pp. 28-30. 64 A. Borghini, Acerenza. Città Cattedrale, Potenza 1995, p. 43.

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Fig. 14. Picciano, Santuario dell’Annunziata. Bottega di Altobello, Ancona lapidea (foto Pinacoteca provinciale di Bari).

grammatiche è opera di fattura dura, sommaria, a tratti ingenua, ma interessante perché dimostra comunque il perdurare nella regione, sino almeno agli anni Settanta del Cinquecento, di botteghe locali probabilmente uscite da quella materana che, pur arricchendo il proprio repertorio decorativo con apporti tratti dalla scultura lombardo-napoletana, assimilano peraltro tale repertorio solo superficialmente, senza coglierne lo spirito più intimo e profondo65. Anche nella seconda metà del secolo si assiste alla produzione di un grande numero di immagini lignee, spesso rivelate, al di sotto le ­superfetazioni barocche e settecentesche, da recenti restauri: statue che spesso consentono di individuare un’area di produzione che si spinge sino al Cilento, come in quelle di Santa Caterina e di Santa Bar65 Per l’edicola cfr. recentemente Gelao, in Belli D’Elia, Gelao, La Cattedrale di Acerenza, cit., pp. 260-63.

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bara (?) nella chiesa del convento di Sant’Antonio a Rivello, ascrivibili a una bottega napoletana attiva nella seconda metà del Cinquecento66; dell’Angelo custode di ignoto napoletano del XVI-XVII secolo, nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Miglionico67; del pregevole Sant’Antonio da Padova nella chiesa dei Santi Luca e Giuliano a Grottole68, attribuito a un ignoto maestro locale operante in area napoletana. Savona, in Restauri in Basilicata 1988-1993, cit., pp. 39-41. M. Francione, in Opere d’arte restaurate a Matera, cit., pp. 19-21. 68 Id., in Restauri in Basilicata 1993-1997, cit., p. 36. 66 67

OREFICERIA E ARGENTERIA NEL CINQUECENTO di Rita Mavelli Per le arti decorative, e soprattutto per la produzione di oreficerie e argenterie, il Cinquecento si pone in linea di continuità con il secolo precedente per la presenza di una forte tradizione locale che si misura con l’importazione di manufatti provenienti da botteghe della capitale. L’arrivo di argenterie di produzione partenopea andrà intensificandosi negli anni maturi del secolo, fino a stabilizzarsi, nella prima metà del XVII secolo, con la completa «napoletanizzazione» della maggior parte delle lavorazioni di arti decorative, saldamente regolate dal regime corporativo istituito nella capitale, che esprimerà per circa tre secoli la volontà dei viceré di esercitare su di esse un proficuo controllo economico1. Almeno dal XIV secolo è attestata a Matera la presenza di argentieri e orafi, le cui botteghe per secoli furono concentrate nella Piazza Grande del Sedile. Dai documenti conservati presso l’Archivio arcivescovile si ricavano nomi di maestri la cui attività in alcuni casi è difficile poter stimare, mancando la documentazione di opere effettivamente realizzate. Dalle fonti risultano soprattutto impegnati in 1 Cfr. E. Catello, Introduzione allo studio delle arti decorative nel Mezzogiorno, in Storia del Mezzogiorno, vol. XI, Napoli 1993, p. 577. Riferimenti bibliografici essenziali per un quadro di insieme delle argenterie e oreficerie rinascimentali in Basilicata sono: A. Grelle, Per l’oreficeria dal XV al XIX secolo, in A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, catalogo della mostra (Matera, palazzo del Seminario 1981), Roma 1981, pp. 136-53; Argenti in Basilicata, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi, luglio-settembre 1994), Matera 1994; A. Grelle, S. Iusco, Aggiornamenti all’edizione del 1981, in A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, Roma 2001 (rist. anast. dell’ed. 1981), pp. 324-28; ed il recente F. Abbate, R. Bianco, A. Cuciniello, A. Palumbo, Tardogotico e Rinascimento in Basilicata, Matera 2002, pp. 378-99.

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Fig. 1. Matera, Cattedrale. Santoro Paulicelli, Croce astile, 1493.

riparazioni di suppellettili e per produzione di ornamenti femminili, come si evince dai contratti matrimoniali rogati sulla piazza materana. Le botteghe locali, che nel Quattrocento erano organizzate in gilda e garantivano i loro lavori con il punzone «MATA», persero autonomia con la legislazione spagnola che finì per esaurire la loro attività. Caso significativo di continuità fra XV e XVI secolo è l’attività della bottega di Santoro Paulicelli, mentre per il Cinquecento affiorano i nomi di Marcho Pirrone e di Julius Parvulus, o Giulio Parvolo, pagato per la riparazione di argenti e per la produzione di suppellettili fino ai primi anni del XVII secolo2 e autore di una pace datata 16003. Al sorgere del nuovo secolo Santoro Paulicelli rappresenta il persistere della tradizione locale con un corpus di opere che è ormai possibile circoscrivere con certezza. Si tratta di alcune croci: quella detta «dei morti» nella cattedrale di Matera (datata 1493) e l’altra presso 2 C. Mottola Padula, Orafi e argentieri di Matera, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 177-79 e 182, con bibliografia precedente. 3 La data è rilevabile su una pace (cfr. Argenti in Basilicata, cit., p. 15).

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Fig. 2. Matera, Cattedrale. Santoro Paulicelli, Cristo crocifisso, particolare di croce astile, 1493.

la chiesa di Sant’Erasmo a Santeramo in Colle, alle quali, con riserva, vengono affiancati alcuni bracci-reliquiario, quelli di san Giovanni da Matera e di san Biagio, nel tesoro della cattedrale materana, e l’altro di santo Stefano, sempre a Santeramo. Perdute invece risultano le croci della parrocchiale di Stigliano (1501) e della collegiata di San Pietro Caveoso4. I tratti stilistici di Paulicelli sono caratterizzati da un atteggiamento di fondamentale conservatorismo appena vivificato dagli echi di una vasta circolazione di cultura oltremontana, affievoliti dalle molteplici mediazioni avvenute per il tramite di manufatti lignei5: elementi che l’argentiere traduce in una condotta scultorea Sul corpus di opere riconosciute all’argentiere cfr. S. Di Sciascio, ivi, pp. 4041, 44-47, 49-53, con bibliografia precedente, e Grelle, Iusco, Aggiornamenti, cit., pp. 324-25. Quasi tutti i pezzi citati recano il punzone «MATA», che ne attesta la lavorazione in una bottega materana (cfr. E. e C. Catello, L’oreficeria a Napoli nel XV secolo, Cava dei Tirreni 1975, p. 83). 5 Cfr. P. Venturoli (a cura di), Scultura lignea in Basilicata dalla fine del XII alla prima metà del XVI secolo, catalogo della mostra (Matera, Palazzo Lanfranchi 1° luglio-31 ottobre 2004), Torino 2004. 4

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Fig. 3. San Mauro Forte, Chiesa madre. Bottega materana, Eterno benedicente, particolare di croce astile, 1550.

approssimativa, se pur di intensa espressività. Nella produzione di croci Santoro desume dal modello quattrocentesco della croce grande della cattedrale di Matera6 i caratteri tipologici, alcune iconografie, come quelle dei dolenti e del sant’Eustachio, e l’aspetto arcaizzante venato di accenti di gusto romanico. È significativo che le sculture del Cristo crocifisso presentino, come stilema ormai avulso dall’originario contesto, la caratteristica di avere una forte strozzatura in corrispondenza della vita che pone in contrasto torace e fianchi, facendo risaltare l’addome rigonfio, come già avveniva nel Crocifisso della parrocchiale di Noepoli7. A questo si aggiunga il particolare dei talloni divaricati e ricondotti con forza a sovrapporsi, che si ritrova nel crocifisso ligneo della chiesa della Maddalena ad Aversa, di ben altra levatura formale, ma eloquente declinazione di quelle istanze nordiche di cultura tardo-gotica che, passando per il cantiere del duomo di Milano, provenivano dall’area tedesca e da quella boema, trovando il 6 7

Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 42-43. Grelle, Per l’oreficeria, cit., pp. 59-60, fig. 120.

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Fig. 4. Aliano, Chiesa madre. Bottega materana, Croce astile, 1573.

loro elemento di coagulo alla corte di Ladislao di Durazzo nella figura di Antonio Baboccio da Piperno8. Il Cristo delle croci di Matera e Santeramo presenta inoltre alcune tipizzazioni, come la schematizzazione anatomica del busto con i muscoli pettorali tondeggianti, solcati nel centro da una punzonatura circolare a mo’ di capezzolo o come il perizoma, lungo e drappeggiato, incrociato sul davanti, che diventano delle sigle stilistiche di questo argentiere. Ben diverso ductus si ritrova nel Cristo crocifisso, vivo e trionfante, in lega metallica dorata, rinvenuto presso il palazzo comunale di Atella9, che a nostro avviso va espunto dal corpus di opere di Santoro per la 8 Cfr. B. Ulianich (a cura di), La Croce. Dalle origini agli inizi del secolo XVI, catalogo della mostra (Napoli, Castel Nuovo 25 marzo-14 maggio 2000), Napoli 2000, pp. 114-16, fig. 26. 9 Anche Anna Grelle, che per prima lo ha attribuito a Santoro Paulicelli (Per l’oreficeria, cit., p. 146, fig. 305), ha di recente avanzato l’ipotesi che sia opera di un aiuto di bottega del maestro (Grelle, Iusco, Aggiornamenti, cit., p. 324).

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resa squisitamente calligrafica dei risalti anatomici e delle pieghe del perizoma a fronte di una diversa condotta plastica del corpo. L’attività delle botteghe locali, seppure di modesta qualità e attestata su stilemi arcaizzanti, fu prolifica e interessò fino agli anni maturi del secolo anche il territorio pugliese, cui la Basilicata fu a lungo storicamente legata. Episodio saliente a riguardo è costituito da un gruppo di croci distribuite tra San Mauro Forte, Aliano, Bovino, Conversano e Gioia del Colle, innegabilmente legate tra loro da una serie di rimandi stilistici, fra cui l’utilizzo dello stesso modello per la fusione del corpo del Crocifisso10. Capostipite del gruppo è la croce della chiesa conventuale di San Francesco di Conversano, che sul verso reca l’iscrizione «Matere 1547», incisa sotto il suppedaneo che sostiene l’immagine del santo fondatore dell’ordine francescano che occupava il complesso monastico. Seguono le due croci lucane, quella della chiesa madre di San Mauro Forte, donata da Chimanza della Porta nel 1550, e l’altra della chiesa di San Giacomo ad Aliano, che fu commissionata dalla locale confraternita del Corpo di Cristo e realizzata a Matera. Nell’iscrizione incisa sul verso di quest’ultima11 compare il nome di Giovanni (di Castrum) Perticari, autore secondo alcuni (A. Grelle) del lavoro o forse semplicemente esecutore del mandato della confraternita. Ultime in ordine di tempo le croci della cattedrale di Bovino e della chiesa di Santa Maria Maggiore a Gioia del Colle, databili fra il 1578 e il 1593 in base ad attestazioni contenute nelle visite pastorali. Nelle parti omogenee queste croci12 rimandano a una cultura formatasi su ma10 Segnalate da A. Grelle, sono state oggetto di ulteriori recenti studi per i quali si rimanda a Di Sciascio, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 54-55; G. Boraccesi, Una croce astile da Matera a Conversano, in «Fogli di periferia», VII, 1, 1995, pp. 39-42; Id., D’argento è la Puglia. Oreficerie gotiche e tardo gotiche, Bari 2000, pp. 76-77; Grelle, Iusco, Aggiornamenti, cit., pp. 324-25. 11 Sotto la figura della Vergine con Bambino è inciso il seguente testo: «+ co(n) fraternitas / g(loriosi) corporis x(rist)i d(i) / ali(ano) f(ieri) f(ecit) i(n) matera / p(er) io(annem) p(er)ticar(ium) p(ro) c(onfraternita) / 1573. Sull’interpretazione dell’iscrizione cfr. anche R. Ruotolo, Società, committenza e artigianato artistico, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 30-31, e il recente Grelle, Iusco, Aggiornamenti, cit., p. 325. 12 Più o meno tutte sono state interessate nel tempo da interpolazioni e rimontaggi incongrui delle parti figurate, segnatamente i capocroce, che hanno provocato un’alterazione degli originari programmi iconografici, con l’inserimento di elementi provenienti da altri simili manufatti o comunque di diversa mano, in consonanza con quanto dichiarato nelle fonti, che cioè gli orafi locali erano impegnati in riparazioni delle suppellettili conservate presso le chiese. La croce di Aliano presenta due capocroce spuri: quello con la Maddalena, su un fondo di grandi

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nufatti napoletani tardo-quattrocenteschi su cui si saldano suggestioni desunte dalla croce grande della cattedrale di Matera, soprattutto sensibili nelle figure dei dolenti. Il modo di concepire la forma però è più ampio e meno cadenzato, ormai libero da inflessioni espressive di memoria tardo-gotica e disponibile ad aperture in senso più moderno. Gli esiti stilistici di questa produzione, pur caratterizzati da un marcato conservatorismo e dall’iterazione di formule standardizzate, nei simboli zoomorfi degli evangelisti e nel pellicano mistico13, pervengono a forme più monumentali con volti regolari, se pur irrimediabilmente attoniti, tributarie della produzione napoletana del primo quarto del Cinquecento. Un punto di arrivo in tal senso può considerarsi la croce processionale di Capodimonte (già in collezione Borgia), datata 1598, che Boraccesi14 propone di assegnare allo stesso argentiere materano designandolo come «Maestro del suppedaneo», per la costante di inserire uno scanno sotto le figure collocate sul verso in antitesi al Cristo. Accettando con cautela15, la proposta attributiva, non si può far a meno di registrare un notevole avanzamento rispetto alla produzione precedente: la figura del Cristo mostra un’accentuata padronanza nella resa anatomica, ma soprattutto la Vergine con il Bambino nella sua ieratica fissità, ricalca, con piccole variazioni iconografiche, la Madonna delle Grazie della croce di Alianello, per la quale erano state indicate tangenze con la prima attività di Giovanni da Nola. Sul versante delle importazioni dalla capitale si pone, prima in ordine di tempo, proprio la croce di Alianello (Santa Maria Assunfoglie, e quello del pellicano mistico, che mostrano analogie stilistiche e tecniche (il trattamento della lamina di fondo a minuscole punzonature anulari) con una seconda croce, questa reliquiario, nella chiesa matrice di San Mauro Forte. D’altro canto, sulla croce astile della stessa località sono interpolate le formelle con la Madonna dolente e il pellicano, i cui modi sono assai prossimi a quelli dell’autore della quattrocentesca croce grande di Matera. Di analogo avviso Grelle, Iusco, Aggiornamenti, cit., p. 324. 13 È stato osservato (Di Sciascio) che il toro alato di Luca e il leone di Marco presentano, alla saldatura dell’ala, una piccola voluta ornamentale, retaggio di iconografie di radice romanica. 14 Già ritenuto un artigiano laziale, il maestro è stato convincentemente riconosciuto da Boraccesi come argentiere materano, in base ai caratteri stilistici della croce e a una circostanza storica, l’appartenenza del committente, Scipio Degonnora, al patriziato della città lucana. La croce inoltre, confluita nella collezione del cardinale Stefano Borgia, potrebbe provenire dalla cattedrale di Irsina, come la nota tela raffigurante santa Eufemia di Andrea Mantegna, presente nella stessa collezione (Boraccesi, D’argento è la Puglia, cit., pp. 76-77). 15 La croce mi è nota solo attraverso fotografie scarsamente leggibili.

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Fig. 5. Alianello, Chiesa madre. Bottega napoletana, Croce astile, primo quarto del XVI secolo.

ta), databile ai primi decenni del XVI secolo e contraddistinta dal punzone «NAPL», in caratteri latini staccati e sormontati da corona. Il restauro presso l’Opificio delle pietre dure di Firenze ha reso giustizia all’alta qualità del pezzo, consentendo di rilevare disparità tecniche e qualitative, come fosse frutto del lavoro di un’équipe, fatto non inconsueto nell’organizzazione del lavoro in bottega. A fronte dei caratteri ancora arcaici della figura del Cristo, esemplato su modelli abruzzesi, risalta la pluralità di suggestioni che si liberano dalla figura della Vergine e le inflessioni espressionistiche delle figure dei dolenti, tributarie delle terracotte mazzoniane della chiesa napoletana di Monteoliveto, realizzate entro il 1493. Mentre nell’impianto della Maddalena, inginocchiata di spalle ai piedi della croce, è riconducibile alle Madonne lignee nei presepi degli Alamanno16. Il modello del Cristo ritorna analogo in una croce conservata a Tortorella (chiesa di 16 La croce è stata resa nota da Grelle Iusco, in Ead. (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 171-74, seguita da E. Catello, Per l’oreficeria dal XV al XIX secolo, in «Napoli nobilissima», XXI, 3-4, 1982, pp. 153-55; Id., Un grande patrimonio di argenti antichi, in Argenti in Basilicata, cit, pp. 11 e 14; ivi, pp. 70-71.

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Fig. 6. Alianello, Chiesa madre. Bottega napoletana, Pellicano mistico, particolare di croce astile.

Santa Maria Assunta) e datata 1532, mentre qui la figura della Maddalena, abbracciata al legno della croce, echeggia una simile formella presente nel quattrocentesco crocifisso di Abriola17. Accanto alle croci ci sono pervenuti un certo numero di vasi sacri di produzione napoletana, in maggioranza calici, disseminati presso le tante chiese della regione. Si tratta di manufatti della seconda metà del secolo rispondenti alla tipologia messa a punto dalle botteghe della capitale: piede circolare a tesa bassa, fusto con nodo per lo più ovoidale e sottocoppa sbalzato e inciso. Per tutto il secolo, salvo nel caso di suppellettili di particolare pregio, i materiali utilizzati sono il rame dorato e, per la sola coppa, l’argento con doratura nella parte interna. I reper­tori decorativi, di ascendenza classica, non alterano mai le linee strutturali del calice e si arricchiscono, negli anni del terzo quarto, degli strumenti della passione di Cristo sotto evidente sollecitazione delle prescrizioni post-tridentine. L’esemplare più raffinato, tra quelli 17 Cfr. A. Cuciniello in F. Abbate (a cura di), Visibile latente. Il patrimonio arti­ stico dell’antica diocesi di Policastro, catalogo della mostra, Roma 2004, pp.176-78.

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Fig. 7. Matera, Cattedrale. Bottega napoletana, Calice, anni Settanta del XVI secolo.

finora rintracciati, è il calice conservato nel tesoro della cattedrale di Matera18, dono dell’arcivescovo napoletano Sigismondo Saraceno, che resse la diocesi di Acerenza e Matera dal 1557 al 158519. Benché sul calice manchino riferimenti all’argentiere e alla data di esecuzione, è lecito proporne, con qualche cautela20, una datazione intorno agli anni Settanta in base a una serie di considerazioni strutturali e stilistiche: la coppa del calice si presenta svasata con l’orlo superiore largo e non defluente, caratteristica che verrà abbandonata progressivamente verso la fine del secolo; inoltre, circa a metà della superficie che emerge dal sottocoppa compare una fascia incisa a intrecci di racemi; analoga lavorazione è riscontrabile sul calice Rebiba conservato nel tesoro delGrelle, Per l’oreficeria, cit., pp. 146 e 148, fig. 311. L’iscrizione dedicatoria è incisa alla base del collo del piede: «archiepiscopus. saracenus. sigismundus». 20 Le riserve sono dovute al fatto che pochissimi argenti liturgici cinquecenteschi sono databili con certezza; i bolli di garanzia, quando sono presenti, hanno una validità che abbraccia parecchi decenni, i punzoni degli argentieri sono molto rari e anche il panorama degli orientamenti stilistici presenta ancora zone d’ombra. 18 19

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Fig. 8. Troia, Cattedrale. Bottega napoletana, Calice, 1560 ca.

la cattedrale di Troia, realizzato circa un decennio prima in base alla presenza degli stemmi. Entro cartelle presenti sul piede, sul nodo e sul sottocoppa, il calice Saraceno reca cesellate, su un fondo con incisioni parallele a bulino, panoplie con gli strumenti della passione di Cristo. Si tratta di un ciclo particolarmente esteso e alieno dagli inevitabili stereotipi dovuti a una lunga iterazione, quindi precoce rispetto a quelli riscontrati su altri esemplari21. Infine, l’impaginazione dell’apparato decorativo del calice Saraceno è abbastanza vicina a quella di 21 Zio paterno di Sigismondo fu monsignor Giovanni Michele Saraceno, che resse la diocesi materana dal 1531 al 1556 e che nel 1545 prese parte al Concilio di Trento, circostanza non estranea probabilmente agli orientamenti del nipote in materia di suppellettili liturgiche. Altri calici inediti con i simboli della passione, di cui esistono schede di catalogo firmate da F. Bibbo e R. Ruotolo nell’archivio della Soprintendenza ai beni artistici e storici di Matera, sono conservati nella chiesa di San Giacomo Maggiore a Lauria Superiore, in quella di Santa Maria Maggiore a Maratea, in San Giovanni Battista a Chiaromonte e in Sant’Antonio Abate a Lagonegro. Quest’ultimo, completo di patena, reca in un’iscrizione il nome dell’offerente: «p. d. de. fran.co ventapane». Ripetuto due volte, vi compare anche il bollo di un ignoto argentiere siglato «S.A.A.».

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Fig. 9. Matera, Cattedrale. Bottega napoletana, Cassetta per oli crismali, metà del XVI secolo.

un esemplare conservato nel tesoro dell’abbazia di Montecassino, sul quale compaiono anche teste di cherubini. Quest’ultimo reca le sigle di un argentiere, «S.M.», e il bollo di garanzia del console Domenico Mazzola, rilevato anche su un piatto eseguito tra il 1578 e il 161422. Ai due arcivescovi Saraceno si deve inoltre l’offerta alla cattedrale di Acerenza di due sobri ma eleganti vasetti crismali, il più grande datato 1544 e forse realizzato prima del secondo, che tuttavia ne ripete i caratteri in formato ridotto23. Un’analoga cassetta per oli crismali è stata di recente rintracciata nel tesoro della cattedrale di Matera24. Il corpo parallelepipedo è definito da marcate cornici digradanti e sorretto da quattro corti piedini; il coperchio, articolato da cerniera, è a doppia piramide con infiorescenze a cuspide per la presa. La cassetta di Matera presenta un gusto ornamentale più marcato rispetto a 22 Cfr. C. Catello, Vasi sacri di Montecassino, in «Arte cristiana», 71, 1983, pp. 98-99, fig. 11. 23 Argenti in Basilicata, cit., pp. 72-73; Grelle, Iusco, Aggiornamenti, cit., p. 325. 24 Campagna di catalogazione 1998-99, scheda di F. Picca.

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Fig. 10. Matera, Cattedrale. Gian Pietro Parascandolo, Calice, ultimo quarto del XVI secolo.

quella acheruntina: le superfici della cassa, riquadrate a cesello, sono ornate da due racemi, sorgenti da un nodo centrale e terminanti con fiori, mentre un’infiorescenza si innalza al centro della biforcazione. Anche le piramidi del coperchio sono organizzate in campiture triangolari decorate da palmette o ospitanti iscrizioni cesellate. Sempre nel tesoro della cattedrale di Matera si conserva un bell’esempio di calice del tipo a baccellature sul piede ed eleganti godronature sul nodo ovoidale. Il sottocoppa, realizzato a traforo, reca una decorazione a medaglioni cuoriformi, separati da serti di fiori penduli e campiti da sontuose infiorescenze, ed è sormontato da un coronamento a gigliuzzi e cuspidi cuoriformi. Il calice è attribuibile alla bottega di Gian Pietro Parascandolo25 per le forti analogie con l’esemplare realiz25 I Parascandolo sono una famiglia di argentieri di cui si hanno notizie dalla fine del Cinquecento e per tutto il secolo successivo. Il bollo «G.P./P.» di Giovan Pietro, oltre a essere impresso sotto il piede in rame del calice di Torre del Greco, figura anche su calici conservati nella cattedrale di Ariano Irpino, nella basilica di San Nicola a Bari e sul reliquiario di san Zenone nella cattedrale di Bovino (E. e C.

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zato dal maestro per la chiesa di Santa Maria la Bruna a Torre del Greco26, datato 1586, di cui costituisce una variante più preziosa, essendo tutto in argento, parzialmente dorato, e allo stesso tempo più ornamentale, per il ricorso a elementi fitomorfi. A rafforzare tale convinzione valga il confronto con il calice di analoga tipologia, ma di fattura e di materia più correnti, conservato nella chiesa madre di Armento, che reca impresso il punzone di Parascandolo27. Nella stessa chiesa si trova anche un altro calice, sicuramente riferibile al maestro per la presenza del punzone, che mostra una diversa tipologia decorativa. Fermi restando i caratteri strutturali e gli ornati sulle modanature del piede, dove solitamente si alternano motivi a treccia, a ovoli, a volute, il piede e il nodo sono ripartiti in settori che si presentano lisci o incisi con elementi vegetali, mentre il sottocoppa porta il consueto sbalzo di baccellature, coronato da un motivo a gigliuzzi. Un esemplare analogo con il punzone di Parascandolo è rintracciabile nel tesoro dell’abbazia di Montecassino28. Tutta questa produzione, allo stato attuale delle conoscenze, gravita intorno a un’unica data certa, il 1586, apposta sul calice di Torre del Greco. Simili tipologie decorative compaiono diffusamente su calici e pissidi (tra le altre quella di Marsicovetere)29 senza che tale circostanza implichi necessariamente l’attribuzione a un unico maestro, dal momento che ancora poche delle botteghe partenopee attive nel Cinquecento sono state individuate. Analogie con la produzione di Giovanni Antonio Pisa30, anche lui attivo negli anni Ottanta,

Catello, Argenti napoletani dal XVI al XIX secolo, Napoli 1973, p. 146; Idd., I marchi dell’argenteria napoletana dal XV al XIX secolo, Sorrento-Napoli 1996, p. 86). 26 Ivi, pp. 210-11, tav. VII. 27 Altri calici di analoga tipologia sono conservati nel palazzo vescovile di Marsiconuovo e nella chiesa matrice di Castelluccio Superiore. 28 Cfr. Catello, Vasi sacri, cit., pp. 97 e 99, fig. 9. 29 La pisside in argento del convento dei Cappuccini a Ferrandina, databile alla seconda metà del secolo, porta invece la decorazione a girali vegetali incisa su registri paralleli, che si snodano su tutto il corpo del vaso, dal piede al coperchio, alternati ad altri lisci (F. Bibbo, in N. Barbone Pugliese, F. Lisanti [a cura di], Ferrandina: recupero di una identità culturale, catalogo della mostra [maggio-luglio 1987], Galatina 1987, p. 286). Nella matrice di Corleto Perticara è conservata un’altra pisside, inedita, con la coppa e relativo coperchio, incisi a settori alternativamente lisci e decorati da grandi infiorescenze. L’opera è databile agli anni Settanta-Ottanta del XVI secolo e proviene dal locale convento dei Minimi Osservanti, come conferma l’emblema francescano inciso sulla coppa. 30 Questo argentiere firma e data un calice nel tesoro dell’abbazia di Montecassino (1581) e un altro (1584) presso la chiesa di San Giovanni Battista a Massaqua-

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Fig. 11. Maratea, Chiesa madre. Bottega napoletana, Calice, ultimo quarto del XVI secolo.

presentano altri vasi sacri, fra cui segnatamente i due inediti esemplari conservati in Santa Maria Maggiore a Maratea. Verso gli ultimi anni del secolo si intensificano gli arrivi di argenti dalla capitale e si innalza la qualità dei pezzi. A un ignoto argentiere, di raffinato gusto ed elevata qualità tecnica, si deve l’ostensorio d’argento donato alla chiesa matrice di Armento nel 1599 da don Luca Ferro31. La custodia si presenta nella tipologia a sole, già affermatasi verso la fine del XV secolo, che identifica l’eucarestia col sole raggiante e la presenta ai fedeli per l’adorazione32. Sul no di Vico Equense (cfr. Catello, Vasi sacri, cit., pp. 97 e 99, fig. 10; E. e C. Catello, Argenti napoletani, cit., pp. 210-11, tav. VII). 31 Sul piede è incisa la lunga iscrizione dedicatoria: «hanc custodiam fieri fecit reverendus donus lucas ferrus archipresbiter terre armenti ad ho(no) rem et gloriam sanctissimi sacramenti iunii 1599». 32 La funzione liturgica di esporre alla venerazione dei fedeli l’ostia si venne a sommare a quella primitiva di semplice custodia delle Sacre Specie, allorché l’antica festa del Corpus Domini, celebrata per la prima volta a Liegi nel 1264 e ratificata successivamente nel 1311-12, si diffuse e fu celebrata con solenni processioni du-

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piede e sul nodo a cipolla del fusto sono sbalzate e cesellate ricciute testine di cherubini intervallate da festoni di foglie, fiori e frutti, di sapore profano tardo-rinascimentale. La sontuosa struttura si arricchisce di tre sculture, eseguite a getto, raffiguranti angeli oranti di intonazione manierista: due sono disposti ai lati, su cornucopie saldate ai nodi del fusto33, e convergono verso il terzo, che fa parte del fusto e sostiene la teca raggiata, innestata all’apice del suo capo. La raggiera è composta dall’alternanza di raggi lanceolati interrotti da un raggio fiammeggiante, mentre al culmine svetta la figura del Cristo risorto, ormai priva del consueto vessillo. L’ostensorio documenta efficacemente una tipologia elaborata durante il Cinquecento, ravvisa­bile ad esempio nei reliquiari della chiesa del Purgatorio a ­Lanciano (1593) e nella cattedrale di Teano34 e poi diffusasi, nella prima metà del Seicento, con riprese anche nei secoli successivi. L’esemplare più prossimo all’ostensorio di Armento è quello della Confraternita del SS. Sacramento di Acquaviva delle Fonti (cattedrale), che verosimilmente (Pasculli Ferrara) va fatto scivolare ai primi anni del secolo XVII, seguito da quello conservato nel tesoro della cattedrale di San Cataldo a Taranto, che è opera pienamente seicentesca35. Un insieme omogeneo di argenti di produzione napoletana è costituito dal bel gruppo di croci «ad albero», chiaro riferimento all’arbor vitae, diffuso in ampie zone del regno, dalla Calabria al Molise, alla Terra di Bari e al territorio di Potenza36. Questo tipo di croce rante le quali si portava il SS. Sacramento, favorite dalle indulgenze concesse dai papi Martino V ed Eugenio IV tra il 1417 e il 1447 (cfr. B. Montevecchi, S. Vasco Rocca, Suppellettile ecclesiastica, «Dizionari terminologici». 4. Firenze 1987, pp. 113 sgg.; Catello, Vasi sacri, cit., p. 105). 33 L’uso di moltiplicare le parti figurate, con l’inserimento di due bracci fissati al fusto su cui collocare sculture, è già presente nella base della stauroteca detta «di san Leonzio», opera di orafo napoletano databile tra il 1465 e il 1484 (cfr. Ulianich [a cura di], La Croce, cit., pp. 77 e 80 e fig. a pp. 88-89). 34 Cfr. E. e C. Catello, Argenti napoletani, cit., pp. 212-13, fig. VIII. 35 Per l’ostensorio di Acquaviva delle Fonti cfr. C. Gelao (a cura di), Confraternite, arte e devozione in Puglia dal Quattrocento al Settecento, catalogo della mostra (Bari, Pinacoteca provinciale 9 ottobre-27 novembre 1994), Napoli 1994, p. 326, scheda V.6, mentre l’ostensorio di Taranto è stato assegnato da A. Convenuto al quarto decennio del XVII secolo, cfr. A. Cassiano (a cura di), Il barocco a Lecce e nel Salento, catalogo della mostra (Lecce, Museo provinciale 8 aprile-30 agosto 1995), Roma 1995, pp. 196-97, cat. 10. 36 Accanto alle croci lucane vanno ricordate quelle di Santa Maria della Colonna a Rutigliano (cfr. G. Boraccesi, Rutigliano: cinque secoli di argenteria sacra, Lecce

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Fig. 12. Armento, Chiesa madre. Bottega napoletana, Ostensorio, 1599.

presenta la caratteristica di avere montante e traversa tortili, lavorati in lamina d’argento o di metallo dorato, da cui si dipartono rami secchi troncati e sui quali si avvolgono tralci con grappoli di uva e pampini. Questa particolare iconografia trae origine dalla simbologia di Cristo-arbor vitae37, che con il suo sangue, a cui direttamente allude la presenza dei grappoli d’uva, fa germogliare l’albero della conoscenza nel giardino dell’Eden, secondo l’interpretazione con1987, pp. 34-37), della cattedrale di Acquaviva delle Fonti e della chiesa matrice di Tricase, in Puglia, e quelle di San Pietro a Magisano, di Santa Maria della Visitazione ad Ajeta e di Zumpano in Calabria (cfr. A. Frangipane, Calabria: inventario degli oggetti d’arte d’Italia, Roma 1933, pp. 72, 141-42, 255). 37 Tema già presente nelle croci abruzzesi quattrocentesche, come quella processionale di Santa Maria Maggiore a Lanciano, realizzata da Nicola da Guardiagrele nel 1422, per la cui iconografia sono state dimostrate tangenze con miniature di ambito senese (cfr. M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, La croce processionale di Lanciano ed alcune proposte per Nicola da Guardiagrele, in C. Gelao [a cura di], Studi in onore di Michele D’Elia, Matera-Spoleto 1996, pp. 213-20).

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Fig. 13. Lauria Superiore, Chiesa madre. Bottega napoletana, Pellicano mistico, particolare di croce astile, 1583.

tenuta negli scritti di san Bonaventura38. Il programma iconografico si completa con le sculture del Crocifisso, del pellicano mistico nel capocroce superiore e di eventuali figure devozionali sul verso. Le modalità della genesi di questo tipo di croce in ambito napoletano non sono note; si può solo affermare, allo stato attuale delle conoscenze, che l’iconografia era già definita nei suoi caratteri peculiari alla metà del secolo, dal momento che l’esemplare più antico, la croce di San Martino a Campodipietra nel Molise, è datato 155839. Le croci lucane, piuttosto ripetitive quanto a caratteri iconografici, differiscono per alcuni particolari decorativi e per la presenza di figure devozionali, in relazione sovente con la dedicazione della chiesa per la quale le croci stesse furono commissionate. Tutte di qualità piuttosto elevata e di datazione documentata, esse sono distribuite 38 Questa versione contiene un rimando al rapporto fra il peccato originale e la crocifissione (J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, pp. 120-21). 39 Per le croci ad albero in Basilicata cfr. Catello, Un grande patrimonio, cit, p. 14; R. Ruotolo, in Argenti in Basilicata, cit., pp. 75-78, con bibliografia precedente.

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Fig. 14. Lauria Superiore, Chiesa madre. Bottega napoletana, San Nicola e Adeodato, particolare di croce astile, 1583.

nei decenni della seconda metà del secolo fino alla prima decade del successivo. In questo gruppo la croce della chiesa di Sant’Antonio ad Acerenza, priva di sculture sul verso, è la più antica, recando il punzone dell’argentiere Vincenzo Longo, attivo fra 1560 e 158040, e un bollo consolare «G.B.C.» non ancora identificato. Sulla coda del pellicano mistico della croce di Lauria Superiore (chiesa matrice di San Nicola) è incisa la data 1583. Si tratta di uno degli esemplari più belli fra quelli rinvenuti, tutti stilisticamente affini, tanto da averne fatto assegnare la realizzazione a un’unica bottega (Ruotolo). Il montante termina con il nido a canestro del pellicano, in parte realizzato in argento cesellato e in parte tessuto a filo d’argento liscio e ritorto. Di grande raffinatezza si rivela la scultura del Cristo passo, a fusione, 40 Argentiere di un certo prestigio, Longo fu console dell’arte nel 1561; viene assegnata alla sua bottega la cassetta per il crisma della Reale casa dell’Annunziata (C. Catello, L’arte orafa ed argentaria nel Mezzogiorno d’Italia dall’età normanna al Regno Unito, in Storia del Mezzogiorno, vol. XI, cit., p. 596). Il bollo consolare «G.B.C.» è stato rilevato anche su una lamina di croce nella cattedrale di Monopoli (Grelle, Per l’oreficeria, cit., pp. 148-49; Catello, I marchi, cit., p. 27).

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Fig. 15. Moliterno, Chiesa madre. Bottega napoletana, Croce astile, 1611.

con barba e capelli dorati, il cui nudo si allunga languido e flessuoso in sintonia con modelli della pittura devozionale tardo-manierista di fine secolo. Gli corrisponde, in piedi su una mensola sostenuta da turgidi fogliami, la figura del santo di Myra, benedicente in abiti vescovili, affiancato da Adeodato. L’alta qualità del modello fuso in argento si compendia nel volto, fortemente caratterizzato dai grandi occhi sgranati tra le rughe di espressione e nel ricco corredo dei capelli e della barba, trattati a piccole ciocche vivacemente mosse. Il Cristo crocifisso della croce di Cirigliano (chiesa matrice), datata 1609, avvalora la tesi della provenienza da un’unica bottega perché il modello utilizzato per la fusione è il medesimo. In relazione con l’ingresso nel nuovo secolo può essere spiegata la soluzione dei capocroce della traversa che, al posto delle consuete terminazioni a forma di pigna, ne presentano altre a testa di cherubino, le stesse

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Fig. 16. Moliterno, Chiesa madre. Bottega napoletana, Vergine Assunta, particolare di croce astile, 1611.

che sottolineano l’incrocio dei bracci. A conferma di ciò segnaliamo la medesima circostanza nella croce della chiesa di Santa Maria Assunta a Moliterno, datata 1611, dove l’orafo ha inserito uccellini beccanti fra i grappoli d’uva41. Sul verso l’immagine della Vergine assunta, elegante e sinuosa, con andamento a serpentina, rimanda nuovamente a fonti pittoriche da rintracciare in quel manierismo di matrice toscana, diffuso a Napoli con la presenza di Marco Pino e alimentato, fino alla fine del secolo, dalla sua cerchia di seguaci42.

41 R. Ruotolo segnala che un particolare simile ricorre nella croce di Santa Maria della Visitazione ad Ajeta (Argenti in Basilicata, cit., p. 78). 42 Cfr. P.L. Leone De Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in La pittura il Italia. Il Cinquecento, vol. II, Milano 1988, pp. 487-94.

ARTI FIGURATIVE: IL CINQUECENTO di Maria Giannatiempo López Una singolare congiuntura di eventi determinò, agli albori del Cinquecento, il nuovo assetto politico-culturale del Mezzogiorno. Il 16 maggio 1503 il regno delle due Sicilie passava, per mano del condottiero Consalvo di Cordova, dalla monarchia indipendente degli Aragona sotto la diretta sovranità dei re cattolici. Per oltre due secoli il governo dei viceré spagnoli assicurò a queste terre una relativa stabilità politica e tranquillità sociale; ne favorì lo sviluppo economico intensificando i traffici commerciali nel bacino del Mediterraneo e consolidò quella koinè culturale che, nel corso del Quattrocento, aveva fatto di città quali Napoli e Palermo poli di una cultura figurativa di respiro internazionale e centri propulsori di iniziative artistiche di grande livello qualitativo. Napoli, sede politica e amministrativa del vicereame, restava saldamente alla ribalta come crocevia obbligato degli scambi sia di natura commerciale che culturale tra Italia e Spagna, ma «mutando radicalmente la dinamica dei rapporti precedenti»1; se da un lato, infatti, la città si configurava come il centro egemone delle province meridionali, dall’altro veniva a trovarsi in posizione subalterna e periferica rispetto alle correnti culturali che s’irradiavano da Roma, nuova emergente fucina della grande maniera cinquecentesca. Nel medesimo anno, il 1503, l’ascesa al soglio pontificio di Giulio II Della Rovere, succeduto ad Alessandro VI Borgia, determinò un 1 F. Bologna, Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanino a Ferdinando il Cattolico, Napoli 1977, p. 235. Per un esame analitico delle ricerche condotte sul tema fino al 1988 cfr. R. Naldi, I rapporti tra Italia meridionale e penisola iberica nel I° Cinquecento attraverso gli ultimi studi: bilancio e prospettive, in «Storia dell’arte», 64, 1988, pp. 215-23.

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profondo mutamento nella temperie culturale della capitale, assurta in breve tempo a centro di riferimento per la formazione di artisti provenienti da tutta Europa; la presenza a Roma di Raffaello e di Michelangelo sovvertì il clima artistico nei domini della Chiesa e, di conseguenza, decretò la diaspora di numerosi artisti di formazione per lo più umbra i quali trovarono nelle terre del vicereame un’immediata sintonia tra il proprio linguaggio figurativo e le istanze devozionali dei committenti. Il rifluire di pittori già affermati «messi in crisi dai mutamenti stilistici in atto» determinò «un processo di periferizzazione che relegò molte regioni italiane in una condizione di subalternità culturale destinata a prolungarsi nel corso dei secoli successivi»2. Di fatto in pochi anni Napoli, e con essa tutto il Mezzogiorno, vennero a trovarsi stretti tra l’«egemonia politica spagnola e quella culturale tosco-romana»; ma una siffatta congiuntura determinò un clima artistico così vivace e diversificato «da provocare negli artisti che vi si stabilirono fenomeni vistosi ed inattesi di trasformazione per assimilazione»3. Fin dai primi decenni del Cinquecento le condizioni culturali della capitale appaiono assai distanti da quelle delle province che, ancorate a modelli stilistici arcaici e attardate su schemi iconografici superati, sul piano artistico continuarono a dipendere quasi esclusivamente da quell’unico centro propulsore. Una delle cause principali di tale fenomeno consistette, come noto, «nel minor peso relativo della vita cittadina e dei ceti ad essa particolarmente legati, con una conseguente persistenza di forme di vita economica e sociale ‘medioevali’ che si rifletteranno nelle forme del lavoro e della vita associata, nella struttura e nelle preferenze della committenza e nei suoi gusti tendenzialmente conservatori»4. Condizionate da tali fattori socio-culturali, anche in Basilicata le arti figurative si svilupparono nel corso dei secoli XVI e XVII senza particolare originalità e autonomia.

2 E. Castelnuovo, C. Ginzburg, Centro e periferia, in Storia dell’Arte italiana, vol. I, Torino 1979, p. 320. 3 G. Previtali, Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale, in Id. (a cura di), Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale, catalogo della mostra, Firenze 1986, pp. 9 sg. 4 Ibid.

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Dapprima la regione ricevette dalla capitale una serie sporadica di impulsi innovatori che incisero solo occasionalmente sulle tradizioni artistiche locali; cospicua fu invece, nel corso del Cinquecento, l’importazione dalle aree geografiche finitime di dipinti, sculture, oreficerie destinati a cattedrali, chiese e conventi lucani. Alcuni pittori di provenienza nord-italiana, i quali dopo avere abbandonato i propri paesi d’origine non avevano riscosso consensi in centri più evoluti, si stabilirono in Basilicata incontrando il favore della committenza locale. In tal modo si consolidò quel sincretismo culturale, presente anche nelle regioni limitrofe fin dai secoli antecedenti, che si venne configurando come espressione di una molteplicità di etnie, di sedimenti storici, di tradizioni religiose e che trasse fuori dall’isolamento e dal rischio di strenuo provincialismo le più remote terre del vicereame. Addentrandoci oltre la metà del Cinquecento assistiamo al fiorire delle prime individualità artistiche autoctone degne di qualche rilievo, le quali – sebbene incapaci di autonomia creativa – ebbero il merito di diffondere in Basilicata modelli iconografici e devozionali che trovarono ampia consonanza con la religiosità semplice ed elementare di comunità contadine rozze e retrograde. Sul finire del secolo penetrarono in tutte le regioni meridionali le correnti tardo-manieristiche – propugnate soprattutto da una schiera di pittori fiamminghi che si spinsero nel vicereame italiano dopo la rivolta antispagnola dei Paesi Bassi (1572) – improntate a quella rigida precettistica tridentina in materia di immagini sacre che condizionò, fino agli inizi del Seicento, le arti figurative «con una gigantesca congerie di regole, tradizioni, dogmi»5. Nel corso del XVII secolo si registra finalmente, anche in Basilicata, «una relativa capacità della provincia di reagire all’incontro con la cultura metropolitana o sintonizzandosi o elaborando varianti»6: alcuni artisti lucani si trasferirono temporaneamente nella capitale del vicereame e si formarono presso i maggiori protagonisti del barocco napoletano; l’importazione di opere anche dalla vicina Puglia si fece più intensa, incrementata ora non soltanto dalla committenza religiosa o aristocratica, ma anche e soprattutto laica e borghese. 5 F. Zeri, Pittura e Controriforma. L’arte senza tempo di Scipione da Gaeta, Torino 1957, p. 23. Sulla diffusione del fenomeno nella vicina Puglia cfr. S. Calò, Il fenomeno dell’importazione emigrazione e immigrazione di pittori, in La pittura del ’500 e del primo ’600 in Terra di Bari, Bari 1969. 6 Castelnuovo, Ginzburg, Centro e periferia, cit., p. 321.

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All’anno 1503 risale il polittico eseguito per la parrocchiale di Calciano da Bartolomeo da Pistoia che, per primo, introdusse in Basilicata le dolci e trasognate atmosfere umbre di matrice peruginesca. L’opera rappresenta l’esordio di questo modesto artista toscano emigrato a Napoli la cui attività culminò nel 1523 con la pala raffigurante l’Adorazione dei magi eseguita per la chiesa di San Giuseppe de’ Falegnami (Napoli, Museo di Capodimonte); dipinto che pur nell’evidente apertura alle correnti figurative più aggiornate, attesta i persistenti legami stilistici di Bartolomeo con le proprie radici culturali7. Il polittico lucano si presenta come un complesso pittorico misurato ed elegante, ma d’impianto decisamente arcaico, nel quale accanto a reminiscenze di sapore umbro-toscano compaiono tipiche cadenze meridionali, come denota la scansione monotona degli apostoli nella predella8. Le tavole centrali, raffiguranti la Madonna in trono tra i santi Giovanni Battista e Nicola di Bari, furono replicate dal pittore in modo perfettamente speculare e con poche varianti in un trittico riportato alla luce di recente9. Un espediente non certo isolato che documenta come artisti di modesta levatura e soprattutto botteghe ben organizzate, rielaborando invenzioni proprie o contaminando modelli iconografici già collaudati, furono in grado di soddisfare col minimo impegno le richieste di un mercato di provincia poco esigente e raramente aggiornato sulla produzione artistica corrente. L’opera che apre questa rassegna sulla pittura del XVI secolo – sebbene modesta sul piano qualitativo – presenta delle peculiarità che è opportuno evidenziare.

7 Il nome del pittore compare in un atto notarile del 1527, rinvenuto recentemente, relativo al retablo della chiesa napoletana degli Eremitani (A. Zezza, Documenti per la «cona magna» di Sant’Agostino alla Zecca, in «Prospettiva», 75-76, 1994, pp. 136-52). 8 Per la bibliografia sull’opera cfr. A. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata. Rinvenimenti e restauri, catalogo della mostra Matera 1979, Roma 1981, pp. 155 sgg., note 127-128. 9 Le tavole raffiguranti San Giovanni Battista e San Nicola di Bari (Gesualdo, Sant’Antonio) furono esposte per la prima volta nella certosa di San Lorenzo a Padula nel 1986 (cfr. P. Salerno, Bartolomeo di Niccolò Guelfo, in Previtali [a cura di], Andrea da Salerno, cit., pp. 90 e 243 sgg.). Recentemente è stato identificato nella Madonna col Bambino e offerente (ubicazione ignota) lo scomparto centrale del trittico (P. Giusti, P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 15101540, forastieri e regnicoli, Napoli 1988, p. 274).

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Dal punto di vista morfologico, il polittico di Calciano conferma la predilezione delle regioni meridionali per complesse alzate d’altare (formate da vari scomparti figurati, dalla predella e dalla cimasa), le quali poco alla volta s’ingrandirono a dismisura: aumentò il nu­mero degli scomparti, che spesso vennero disposti su un doppio registro; in qualche caso la tavola centrale fu sostituita da eleganti sculture policrome. Il successo dei dossali così strutturati fu decretato dagli ordini mendicanti e in particolare dai Francescani, capillarmente presenti nelle regioni meridionali, i quali impiegarono queste grandiose macchine lignee – sulle quali l’oro è profuso in abbondanza e i santi dalle vesti sgargianti e dai gesti magniloquenti campeggiano solenni – come fondali delle austere aule ecclesiali d’impianto medievale: in tal modo la pala d’altare rafforzava con la sua posizione assiale alla navata quel senso spaziale unitario tipico dell’architettura mendicante e, al tempo stesso, fungeva da diaframma per isolare dai fedeli la zona raccolta del coro riservata all’orazione comunitaria. Altro elemento caratterizzante l’opera di Bartolomeo Guelfo è la presenza del «donatore» inginocchiato ai piedi della Vergine che, all’interno della composizione, raffigura il committente del dipinto, ma che in modo emblematico allude al ruolo primario che nobili ed ecclesiastici, laici e confraternite religiose ebbero nel corso di quel secolo non solo nella produzione e nell’importazione di opere d’arte, ma soprattutto nella diffusione – nelle città come nelle campagne – di quei modelli devozionali sui quali s’incentrava la predicazione e l’educazione religiosa dei fedeli. Connotati stilistici analoghi a quelli delle opere di Bartolomeo da Pistoia caratterizzano la produzione di Stefano Sparano, attivo nei primi decenni del Cinquecento, il quale si differenzia dalla maniera scarna e calligrafica del pittore toscano grazie all’influsso di Andrea Sabatini, di cui egli – in età matura – divenne un attardato epigono. Nel polittico di Tolve (fig. 1), databile tra il primo e il secondo decennio del secolo per l’evidente analogia formale con il dittico raffigurante San Giovanni evangelista e San Nicola di Bari (Padula, San Michele) del 1509, ritroviamo – sebbene temperate da un’esecuzione più compunta e attenta alla cura dei dettagli – i caratteri stilistici tipici delle opere giovanili dello Sparano, accomunati a un saldo impianto compositivo che esalta la compostezza dei personaggi senza menomare la grazia delle loro movenze. Peculiarità queste da

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Fig. 1. Tolve, Chiesa madre di San Nicola. Stefano Sparano, Polittico.

cui traspare evidente la matrice umbro-laziale della prima formazione dell’artista. Dopo una fugace ma sentita adesione al plasticismo di origine lombarda di Antonio Rimpatta – documentata dalla grande pala della Madonna delle grazie, eseguita per la chiesa napoletana di Santo Stefano (Napoli, Museo di San Martino) – il pittore caiatino manifesta nel polittico di Tolve un diligente ritorno al decorativismo quattrocentesco che permarrà anche in opere successive: il polittico ad Amiens (Musée de Picardie) e quello nella chiesa di Sant’Antonio a Portici, del 1513. Leone de Castris ha rivendicato di recente a Stefano Sparano una pala d’altare nella chiesa di San Nicola a Calvello raffigurante la Madonna col Bambino in trono10, giudicata da Anna Grelle una «debole 10 P. Leone de Castris, Inizi di Stefano Sparano, in «Antichità viva», XXIV, 2-3, 1986, p. 22, nota 21; la tavola era stata segnalata da M. D’Elia, Prima mostra dei dipinti restaurati, Roma 1968, p. 12.

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replica» di modelli sparaneschi11. Allo stesso pittore è da attribuire anche una lunetta nel duomo di Tricarico con l’Annunciazione tra le sante Chiara e Caterina da Alessandria12; sebbene in parte ridipinta, l’opera mostra nella delicatezza dell’esecuzione connotazioni tipiche delle opere giovanili dell’artista e un’evidente affinità con le sante raffigurate nella predella del polittico conservato nel Museo di San Martino. Le opere menzionate pongono la figura di Stefano Sparano all’origine di quel «filone di cinquecentismo provinciale, espressivo e rustico ma conservativo al tempo stesso, che con Bartolomeo Guelfo e Simone da Firenze doveva raccogliere successi duraturi fra la Lucania e il Salernitano»13. Simone da Firenze è senza dubbio il personaggio chiave della cultura figurativa lucana durante il terzo e il quarto decennio del Cinquecento. Ma prima d’inoltrarci nell’esame di questa eclettica personalità, che riscosse ampi consensi presso le comunità religiose francescane ed ebbe largo seguito nell’ambiente artistico locale, è opportuno passare in rassegna alcune opere che nel corso dei primi decenni del XVI secolo pittori di varia origine e formazione (marchigiani, greci, campani) inviarono in Basilicata provocando un’azione di stimolo sulla cultura figurativa locale che, sebbene lenta a recepire le innovazioni, intraprendeva in quello stesso periodo un cammino di emancipazione che le permise di raggiungere, durante il XVII secolo, un livello di autonomia riconosciuto e messo in evidenza dalla storiografia artistica più recente. Sul finire del secondo decennio del Cinquecento Andrea Sabatini da Salerno eseguì per l’abbazia benedettina di Banzi un polittico del quale sopravvivono solo tre piccole tavole raffiguranti la Madonna col Bambino, San Pietro e San Giovanni Battista, assegnate quasi unanimemente dagli studiosi a questo comprimario della pittura campana del Rinascimento14 (fig. 2). La solida «impostazione plastica e spaziale delle immagini, rese solo più diafane dallo sgranarsi del colore»15 s’accorda con i sapienti Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 67. Ivi, p. 66, fig. 136. 13 Leone de Castris, Inizi di Stefano Sparano, cit., p. 20. 14 Per la bibliografia specifica e di riferimento cfr. A. Basile, in Percorsi d’arte tra luoghi di culto: la diocesi di Acerenza, Venosa 1997, pp. 41 sg. 15 D’Elia, Prima mostra dei dipinti, cit., p. 13, scheda 8. 11 12

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Fig. 2. Banzi, Abbazia. Andrea Sabatini, Madonna col Bambino tra San Pietro e San Giovanni Battista.

valori pittorici che, nonostante le mutilazioni subite, emergono dalle tavolette di Banzi percorse da una malinconia insolitamente venata di sensualità. L’opera mostra in quale misura il tenero sfumato leonardesco, che trasfigura il paesaggio in elemento complementare alla composizione, e la lezione di Raffaello, da cui deriva l’impostazione grave e assorta delle figure, siano penetrati nel lessico del pittore salernitano attraverso la mediazione di Cesare da Sesto. Ad Andrea Sabatini sono state riferite dubitativamente alcune tavole dipinte nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Bella16, sulle quali tuttavia un recente intervento di restauro ha consentito di formulare importanti precisazioni17. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 67. M. Francione, Ignoto pittore meridionale, in L’antico nascosto, catalogo della mostra, Matera 1986, pp. 31-39. Da Leone de Castris il polittico è stato avvicinato prima alla maniera dell’Imparato e poi a quella di G. Angelo D’Amato (P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli 1573-1606, Napoli 1991, p. 245, nota 83). 16 17

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La Confraternita del Salvatore di San Mauro Forte commissionò al pittore cretese Angelo Bizamano un’icona votiva raffigurante Cristo alla colonna, in cui gli adepti incappucciati sono effigiati in umile atteggiamento di supplica. Il dipinto, eseguito a Barletta, si pone come un chiaro esempio di quella corrente neo-bizantineggiante che, nei primi decenni del Cinquecento, investì le regioni adriatiche e di cui Angelo Bizamano e suo fratello Donato si fecero portatori soprattutto in Puglia. La presenza di questa tavola in provincia di Matera è una conferma «delle persistenze e del rifiorire del gusto bizantineggiante in Basilicata e del favore incontrato dagli iconografi pugliesi nelle aree, anche dell’entroterra, di antica cultura greca»18. Un trittico nell’episcopio di Melfi – proveniente dalla locale chiesa di Sant’Antonio19 – attribuito concordemente a Francesco da Tolentino ci riporta invece nella temperie culturale umbro-marchigiana corroborata dagli esempi del lombardo Cesare da Sesto e del bolognese Antonio Rimpatta. Dopo gli squarci aperti dalla storiografia locale sull’attività del pittore marchigiano in Capitanata – documentata intorno al 1534 –, di recente Gennaro Toscano ha approfondito quel periodo cruciale della formazione artistica di Francesco che va dal suo trasferimento a Napoli – forse al seguito di Antonio Solario che, intorno al 1506, dalle Marche si trasferì nella città partenopea dove ricevette il prestigioso incarico di affrescare il chiostro del Platano, annesso al monastero benedettino dei Santi Severino e Sossio – all’intensa attività svolta autonomamente nell’agro nolano e in Irpinia fino al 153020. Una possibile collocazione cronologica delle tavole lucane raffiguranti la Madonna col Bambino e quattro Santi dovrebbe essere tra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento, poiché i connotati stilistici sembrano apparentarle a opere quali la Madonna col Bambino e angeli 18 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 178. Sull’opera cfr. anche la scheda in C. Gelao (a cura di), Confraternite, arte e devozione in Puglia, catalogo della mostra, Napoli 1994, pp. 214 sg. 19 Qui fu visto e segnalato da E. Arslan, Relazione di una missione artistica in Basilicata, in Campagne della Società Magna Grecia 1926-27, Roma 1928, p. 86. L’attribuzione a Francesco da Tolentino si deve a R. Causa, Pittura napoletana dal XV al XIX secolo, Bergamo 1957, p. 18. 20 G. Toscano, Francesco da Tolentino e Andrea da Salerno a Nola, Cicciano (NA) 1992. Dello stesso autore Itinerario di Francesco da Tolentino, in «Antichità viva», XXXIII, 5, 1994, pp. 20-28.

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Fig. 3. Pietrapertosa, Chiesa di San Francesco. Giovanni Luce, Polittico.

nella chiesa napoletana di Santa Maria del Parto (databile tra il 1510 e il 1515) e il polittico di Vico di Palma Campania, di poco posteriore, piuttosto che allo scomparto centrale del trittico di Serra­capriola (chiesa di San Mercuriale) come è stato sostenuto da alcuni studiosi21. Un nodo cruciale dell’attività meridionale di Francesco da Tolentino è rappresentato dal polittico francescano di Pietrapertosa (fig. 3), che vede la critica divisa su posizioni discordanti. Se da un lato, i­ nfatti, non convince appieno l’attribuzione dell’opera allo sconosciuto Giovanni Luce da Eboli proposta dalla Grelle in base al confronto con gli affreschi presenti nell’abside della stessa chiesa di San Francesco22 – a causa di un sensibile scarto qualitativo tra le due imprese pittoriche – Id., Francesco da Tolentino, cit., pp. 48 e 57, nota 52. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 180-83. L’attribuzione, respinta decisamente da G. Alparone, La prima mostra di restauri in Basilicata, in «Brutium», 1979, p. 4, è riproposta da M. D’Elia, Un profilo dei beni artistici e storici della Basilicata, in G. Appella, F. Sisinni (a cura di), La Lucania e il suo patrimonio culturale, Roma 1991, p. 47. 21 22

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dall’altro suscita qualche perplessità anche l’inserimento del polittico nel catalogo del pittore marchigiano, proposto da Leone de Castris23. L’impianto compositivo delle figure denota un sensibile divario da quei modelli umbri che conferiscono un tono fiabesco al ciclo di affreschi eseguiti nella cappella di San Catervo della cattedrale di Tolentino, ritenuti il capolavoro giovanile dell’esordiente Francesco24; al tempo stesso il polittico lucano mostra una commistione di reminiscenze venete (nel Cristo in pietà) e iberiche (nel San Pietro in cattedra) che non è dato riscontrare in altre opere dell’artista marchigiano. Non v’è dubbio, tuttavia, che alcuni tratti fisionomici dei volti, così come la compostezza dei gesti e il morbido drappeggio delle vesti, rimandino ai polittici di Vico di Palma Campania e di Saviano. Ma solo un accurato restauro di questi ultimi, al momento in pessimo stato di conservazione, potrà far luce sul retablo di Pietrapertosa, che si impone comunque, nel panorama artistico meridionale della prima metà del Cinquecento, come un caposaldo d’indiscussa qualità pittorica e di forte impatto devozionale. Tra gli epigoni delle correnti figurative che animarono il variegato panorama artistico delle province meridionali nei primi decenni del secolo devono annoverarsi gli autori dei trittici di Armento, di Tricarico, della chiesa delle Sante Lucia e Agata a Matera, nonché quelli dei polittici di Rivello e di San Martino d’Agri; pittori tutti al momento anonimi, ma dei quali non possiamo escludere a priori l’origine lucana. Se l’impianto ancora tardo-quattrocentesco delle figure assorte e compassate della Vergine col Bambino tra i santi Francesco e Antonio rende improbabile l’attribuzione del trittico conservato nella cattedrale di Tricarico allo ZT25, – il bizzarro pittore attivo in Puglia fino al 1540 che mescola con successo «elementi di cultura neo-bizantina e umbro-fiammingheggiante»26 –, i personaggi paludati del trittico di Armento (parrocchiale) ci riconducono in un ambito culturale proto-cinquecentesco, vicino a quello dell’anonimo «Maestro del polit23 Giusti, Leone De Castris, Pittura del Cinquecento, cit., p. 475. La proposta è condivisa da Toscano, Francesco da Tolentino, cit., pp. 42 sg. 24 R. Battistini, Francesco da Tolentino, in P. Dal Poggetto, P. Zampetti (a cura di), Lorenzo Lotto nelle Marche: il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra, Firenze 1981, pp. 82-84. 25 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 64, fig. 136. 26 D’Elia, Prima mostra dei dipinti, cit., pp. 11 sg.

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tico di Angri», riconoscibile anche nel San Leonardo, un dipinto su tavola presente nella medesima chiesa affine agli scomparti del trittico anche per la carpenteria della cornice lignea, che in modo dubitativo è stato assegnato a un seguace di Pedro da Aponte27. Un modesto pittore, formatosi probabilmente nell’ambito di Agostino Tesauro, eseguì il dossale d’altare trasferito nel Museo Ridola di Matera dal locale monastero benedettino fondato tra il IX e il X secolo ed estintosi nel 193828. Dedicato in origine a sant’Agata, l’insediamento monastico assunse intorno alla metà del Duecento la duplice denominazione di Santa Lucia e Sant’Agata. La descrizione sommaria dell’arredo della chiesa, fornita dalla visita pastorale effettuata il 28 gennaio 1544 dall’arcivescovo Giovanni Michele Saraceno, ricorda un «altare ligneo» che fronteggia un «altro altare della stessa chiesa e monastero con Cappella dentro in parete con immagine S.te Lucie scolpite in lapide ornata di colori e validamente ornata con oro»29. Tale documento potrebbe rappresentare un termine ante quem per i dipinti materani; ma poiché la badessa Antonia Muschettula di Taranto, committente dell’opera, è documentata nel monastero benedettino fin dal 1505 quale artefice di lavori di ampliamento e di abbellimento dell’edificio, nulla osta ad anticipare l’esecuzione del trittico raffigurante la Madonna in trono tra le sante Lucia e Agnese al quarto decennio del secolo, per l’evidente derivazione dal suo scomparto centrale di un affresco nella chiesa rupestre degli Evangelisti a Matera, datato 1536. Di qualità molto più modesta, il polittico nella chiesa di Santa Barbara a Rivello è un’opera di carattere eminentemente devozionale che testimonia l’accettazione da parte delle comunità lucane anche di prodotti figurativi popolareschi destinati soprattutto a stimolare la devozione dei fedeli. Ben diverso è il caso del polittico ricomposto nella chiesa francescana di San Martino d’Agri che prima del restauro, eseguito nel 1977, si trovava incastonato tra le tavole dipinte del soffitto settecentesco 27 Giusti, Leone De Castris, Pittura del Cinquecento, cit., p. 13, fig. 4 e p. 267. In precedenza la tavola era stata avvicinata alla maniera di Bartolomeo da Pistoia (Salerno, Bartolomeo di Niccolò, cit., p. 243). 28 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 193 sgg., figg. 375-78. 29 B. Lafratta, Matera, il Monastero di S.S. Lucia e Agata, in L. Bubbico, F. Caputo, A. Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, vol. II, Le architetture, Matera 19972, p. 127, nota 34.

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soprastante la navata dell’edificio30. Conservatosi solo parzialmente (è infatti privo della predella, della cimasa e di uno scomparto dell’ordine superiore) e per di più mutilato da vaste cadute di colore, mostra tuttavia dei connotati stilistici ben definiti, tali da suggerire una stretta correlazione tra il suo autore e quel «Maestro dei polittici francescani» che la critica a volte ha avvicinato a Vincenzo De Rogata, altre volte ha identificato con Girolamo da Salerno31. Se l’attività di questo anonimo pittore campano prese avvio intorno al 1515 con i due polittici già nel duomo di Salerno, non è improbabile che le tavole di San Martino d’Agri, datate 1538, rappresentino l’apice di una maturazione artistica avvenuta nell’eclettico clima campano, aperto alle influenze espressioniste centro-italiane – soprattutto ferraresi – e iberiche. Che ci troviamo di fronte a uno stesso pittore lo dimostra in modo inconfutabile la figura di santa Chiara identica, anche se raffigurata in controparte, a quella del polittico nel Museo del duomo di Salerno. Vanno infine segnalati alcuni dipinti sparsi nell’area potentina, collegabili alle più attive botteghe della capitale, che si distaccano dalla produzione artistica locale, incapace di una coerente evoluzione figurativa. Si tratta di una tavola nell’episcopio di Marsiconuovo, che introduce tra i soggetti mariani più ricorrenti e cari alla devozione popolare l’iconografia della Madonna del soccorso, propugnata dall’ordine agostiniano32; di un dipinto inedito raffigurante la Madonna del suffragio (Barile, Santi Rocco e Anastasio), così affine alla maniera nervosa di Marco Cardisco sia nei panneggi schematizzati in cordonature sulle quali si rapprende la luce, sia nella caratterizzazione fisionomica dei volti che «il fervore religioso deforma [...] fino al grottesco»33, da farlo ritenere opera di bottega del pittore calabrese; di due tavole, rinvenute nel 1992 a Grumento, riconosciute come elementi superstiti di un polittico attribuito con qualche incertezza, a causa della lacunosità del colore, a Giovan Filippo Criscuolo34; e in Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 190-92, figg. 372-74. F. Abbate, Maestro dei polittici francescani, in Previtali (a cura di), Andrea da Salerno, cit., pp. 102-105 e 251 sg. 32 S. Abita, Introduzione, in Le tracce del sacro, catalogo della mostra, Matera 1990, figg. 18-19. L’opera è stata assegnata dubitativamente a Pietro Befulco da Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 66 33 Giusti, Leone de Castris, Pittura del Cinquecento, cit., p. 234. 34 V. Savona, S. Nicola da Bari - Ascensione, in Restauri in Basilicata. 1993-1997, catalogo della mostra, Matera 1998, p. 32, figg. 15-18. 30 31

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ultimo di tre scomparti, forse provenienti da un dossale d’altare, in cui figurano Santa Lucia, Santa Caterina d’Alessandria e San Lorenzo35, che oscillano tra il dinamismo nervoso di Cardisco e il naturalismo venato di malinconia di Savero Ierace – si veda in particolare la Santa Caterina nel Museo di Nocera Inferiore – senza poter escludere un’influenza diretta sul loro autore del polittico di Francesco da Tolentino a Serracapriola (San Mercuriale). I dipinti sono caratterizzati dalla monumentalità dei personaggi, racchiusi a fatica entro la superficie delle tavole, e dal risalto dato ai loro attributi iconografici, in ossequio a certi precetti dottrinali che non di rado spinsero le rappresentazioni sacre ai confini della teatralità. Non si è ancora fatto cenno a quelle rarissime personalità lucane che nei primi decenni del Cinquecento, uscendo dall’anonimato, lasciarono memoria di sé in pochi lacerti di affreschi superstiti. Possiamo supporre che gran parte della produzione pittorica ad affresco risalente a quell’epoca sia andata distrutta dai rifacimenti o dalle trasformazioni subite da quasi tutti gli edifici sacri della regione nel corso dei secoli XVII e XVIII; ma quanto della produzione autoctona è sopravvissuto testimonia i caratteri involuti e ritardatari della cultura figurativa locale. Non è possibile aggiungere elementi nuovi a quanto la Grelle è riuscita a ricostruire dell’attività di Nicola da Nova Siri, che nel 1513 datò alcuni affreschi a Senise (convento e chiesa di San Francesco), e di Antonio Ajello, che affrescò nel 1517 l’abside dell’Annunziata a Rivello e, poco dopo, quella di Santa Barbara ripetendovi un tema iconografico quasi identico36; tuttavia, quanto finora ci è dato conoscere palesa un linguaggio tenacemente ancorato ai modelli arcaici della pittura rupestre tardo-medievale, ignaro delle novità che avevano investito le arti figurative nel corso del primo Rinascimento. Altre sporadiche testimonianze si potrebbero aggiungere a questo sparuto elenco citando, ad esempio, alcuni affreschi presenti nelle chiese ruI dipinti sono riprodotti da M. Giannatiempo, L’arredo nelle chiese francescane dal XIV al XVIII secolo, in Insediamenti francescani in Basilicata, Roma 1988, vol. I, pp. 128 sg. Dalla relazione della visita pastorale fatta nel 1729 dal vescovo di Muro sappiamo che la chiesa aveva un altare dedicato a san Lorenzo. Nel 1744 risultano aggiunti altri tre altari, tra cui uno dedicato a santa Lucia (L. Cirigliano, Ruvo del Monte, in Insediamenti francescani, cit., vol. II, p. 207); non è improbabile che le tavole, già smembrate, trovassero collocazione su detti altari. 36 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 64. 35

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pestri di Matera (Sant’Antonio Abate, Cripta degli Evangelisti, Madonna delle Virtù, San Donato ecc.) – nei quali, sopitesi l’austerità formale e la pregnanza simbolica d’ascendenza bizantina, prevalsero temi realistici, immagini domestiche, vivaci policromie –, ma la frammentarietà di questi testi figurativi non consente di compendiare in una visione d’insieme la produzione autoctona dei primi decenni del XVI secolo. Per completare il quadro delle vicende artistiche che interessarono la Basilicata mentre dilagava il successo di Simone da Firenze occorre tornare per un momento a Giovanni Luce (o meglio di Luca) da Eboli37, ricordato a proposito del polittico di Pietrapertosa, poiché proprio in quel cantiere francescano – nel quale egli lavorò con aiuti accanto all’artefice del grandioso dossale ligneo38 – si consolidò, sul finire degli anni Venti, quel sincretismo tra reminescenze di grazia umbro-marchigiana e rude schiettezza di sapore popolaresco che ritroviamo nel ciclo di affreschi superstiti nella chiesa di Sant’Antonio a Cancellara raffiguranti Cristo in maestà e Storie di santa Caterina d’Alessandria. A questa impresa pittorica prese parte anche Giovanni Todisco da Abriola – un pittore ancora tardo-gotico che «stentamente si orienta verso un linguaggio rinascimentale, nella ricerca faticosa di equilibri compositivi e di inquadramenti prospettici»39. Va ricordato infine l’erudito ciclo pittorico che riveste le volte della cripta del duomo di Acerenza poiché – al pari della realizzazione architettonica, che è un esempio «significativo di integrazione culturale tra le novità del momento, importate e riecheggiate dall’esterno, e gli orientamenti tradizionali della regione» – la decorazione monocroma inserita tra finte cornici che profilano gli archi delle crociere testimonia «un aggiornamento sui nuovi indirizzi figurativi che si sviluppano nei centri di più intensa elaborazione della penisola»40 av­vicinandosi al manierismo di stampo raffaellesco di Giovan Filippo Criscuolo. 37 Il pittore ebolitano Giovan Luca de Luca, che nel 1577 firmò la tela raffigurante la Madonna del rosario (Teggiano, vescovado), è quasi certamente suo figlio (cfr. Il Cilento ritrovato. La produzione artistica nell’antica diocesi di Capaccio, catalogo della mostra di Padula, Napoli 1990, p. 20). 38 Il ciclo è stato approfondito da A. Convenuto, Pietrapertosa, Chiesa del convento di San Francesco, affreschi, in Insediamenti francescani, cit., vol. II, pp. 167-72. 39 N. Barbone Pugliese, La cripta Ferrillo nel Duomo di Acerenza, in «Napoli nobilissima», XXI, 5-6, 1982, p. 177. 40 Ivi, p. 168.

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E veniamo finalmente a Simone da Firenze, cioè a quella sanguigna personalità artistica scoperta dal Rizzi41 e messa a fuoco dalla Grelle42 della quale Riccardo Naldi, in un recente studio monografico, ha puntualizzato la formazione, il bagaglio culturale, i modelli ispiratori, il metodo di lavoro43. Ne emerge un artista estremamente abile nell’assecondare le tendenze figurative delle comunità religiose lucane realizzando imponenti macchine d’altare entro le quali i personaggi sacri palesano una formidabile capacità comunicativa, ma in cui non mancano concessioni al decorativismo di sapore tardo-gotico nello svettare di pinnacoli intagliati e di guglie dorate. Le sue opere sono caratterizzate da «una materia pittorica densa e pastosa [...] nonché da una carica espressiva – quasi ai limiti del grottesco – nella rappresentazione delle fisionomie»44; elementi questi che costituiscono un valido sussidio per distinguere i lavori autografi di Simone dalla produzione della sua bottega. Dell’origine e della presunta formazione fiorentina ben poco è deducibile dai suoi dipinti, che mostrano, al contrario, prevalenti connotazioni linguistiche meridionali. Se nel bagaglio culturale di Simone si riscontrano sedimentati ricordi dei maestri toscani di fine Quattrocento – da Lorenzo di Credi a Filippino Lippi, da fra’ Bartolomeo al Verrocchio –, egli aggiorna continuamente il suo repertorio iconografico sul massimo esponente della pittura rinascimentale, Raffaello, attraverso la conoscenza delle stampe che Marcantonio Raimondi aveva desunto dalle invenzioni del maestro e che ne diffusero la «dolce maniera» in tutti gli angoli d’Europa. Una volta individuato in questo formidabile veicolo di riproduzione «a buon mercato» – responsabile come si sa della diffusione dei prototipi della cultura figurativa italiana del Cinquecento – il mezzo con il quale Simone da Firenze, pur soggiornando stabilmente nelle province meridionali, riuscì a rendere moderno e sempre nuovo il

41 A. Rizzi, Un pittore rinascimentale in Lucania: Simone da Firenze, in «Napoli nobilissima», IX, 1-2, 1970, pp. 11-19; Id., Altre opere lucane di Simone da Firenze, in «Antichità viva», XV, 1, 1976, pp. 11-16. 42 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 73-75 e 184-89. 43 R. Naldi, Centro e periferia nel primo cinquecento meridionale: il caso di Simone da Firenze pittore senza disegno, in «Bollettino d’arte», LXXIII, 49, 1988, pp. 17-52. In appendice è riportato il catalogo delle opere di Simone con la bibliografia relativa a ciascuna di esse. 44 Ivi, p. 19.

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suo linguaggio pittorico, «a volte copiando fedelmente a volte dissimulando abilmente il modello attraverso varianti compositive o di significato»45, Naldi propone di seriare la vasta produzione lucana dell’artista servendosi sia dei dati insiti nelle opere stesse (iscrizioni, date, stemmi ecc.), sia di quelli «dedotti dai modelli, tenendo sempre d’occhio la loro sequenza cronologica»46. Così il polittico di San Chirico Raparo (Santi Pietro e Paolo), il più vicino ai prototipi del tardo Quattrocento fiorentino, viene anticipato alla fine del secondo decennio del Cinquecento inaugurando l’attività di Simone in Basilicata; segue il polittico nella parrocchiale di Stigliano, databile da un’iscrizione al 1520, del quale sopravvive autografa la sola cimasa (le tavole del primo ordine, infatti, non sono ridipinte, come spesso è stato affermato, bensì abrase dei pigmenti originali e dipinte ex novo). L’elegante pala di Maratea (SS. Annunziata), che interpreta con toni intimistici lo straordinario evento dell’incarnazione del verbo divino, si correla strettamente al polittico di Salandra (SS. Annunziata) per l’analogia del tema, che ha il proprio precedente iconografico in un disegno preparatorio di Raffaello. Il polittico francescano di Senise, firmato e datato 1523, si pone come un caposaldo della produzione lucana di Simone da Firenze, poiché in esso rifulgono con raro equilibrio i dati salienti del suo stile, caratterizzato dalla «eroica, profonda, talvolta rude umanità delle figure, dall’ampio e sicuro attestarsi nello spazio, dalla loro pastosa saldezza»47 (fig. 4). Intorno agli anni Trenta avvenne un sensibile mutamento nell’orientamento culturale di Simone; l’attenzione sempre rivolta a quel crogiolo di correnti artistiche che era la città di Napoli favorì l’incontro del pittore con il raffaellismo maturo di Polidoro da Caravaggio, che vediamo riflesso nelle ultime opere lucane dell’artista: il San Pietro a Moliterno (Santa Maria Assunta) e gli scomparti di un polittico smembrato in Santa Maria del Sepolcro a Potenza, nei quali è oltremodo evidente «una sterzata in direzione dell’espressionismo iberico»48.

Ivi, p. 43. Ivi, p. 27. 47 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 184. 48 Naldi, Centro e periferia, cit., p. 37. 45 46

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Fig. 4. Senise, Chiesa di San Francesco. Simone da Firenze, Polittico.

Le opere ricordate non esauriscono il catalogo di Simone da Firenze, ma sono sufficienti a mettere in risalto l’importanza della sua personalità e dell’influsso da lui esercitato sulla cultura figurativa lucana dei decenni centrali del primo Cinquecento, contribuendo a «convogliare verso le soglie del manierismo le cadenze gotiche del linguaggio artistico locale»49. Un’eco immediata e fedele del suo stile la troviamo – tradotta in affresco – nella chiesa rupestre di Cristo alla Gravinella (Matera), in una frammentaria Sacra Famiglia nella cattedrale di Venosa e, in modo ancor più palese, nel ciclo pittorico che riveste con figure di Profeti e di Dottori della Chiesa la cripta della Rabatana a Tursi, eseguito tra il 1547 e il 1550. 49

Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 184.

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Tra i dipinti su tavola sarà sufficiente ricordare il polittico di San Pietro Caveoso (Matera), opera di un rude seguace di Simone che accentua la stilizzazione sia del trono della Vergine che delle vesti dei santi Pietro e Paolo e sottolinea i tratti fisionomici dei personaggi, particolarmente di quelli affastellati nella predella, con pungenti caratterizzazioni50; e quello, inedito, in Santa Maria del Poggio di Rivello (dal quale è stato trafugato nel 1977 lo scomparto centrale), più attento alle sollecitazioni neoraffaellesche di Polidoro da Caravaggio. Intorno alla metà del Cinquecento si affermò un pittore di Abriola, Giovanni Todisco, che con l’aiuto di una valida bottega eseguì una serie di cicli decorativi di grande impegno per conto soprattutto di comunità francescane. Si tratta di un pittore di modesta levatura, dagli orizzonti culturali assai limitati, eppure la sua vena di agiografo colorito e popolaresco gli consentì di illustrare i temi della storia sacra con un tono «così cordiale e dimesso da stemperare e quotidianizzare anche le desunzioni culturali più auliche e raffinate sia a livello iconografico che a livello formale»51. La prima attività di Giovanni da Abriola è stata in parte ricostruita sulla base di raffronti stilistici con le poche opere certe52, ma le ipotesi della critica potrebbero essere avvalorate da nuovi ritrovamenti conseguenti alla scopertura di affreschi ancora sotto scialbo. Tuttavia, il suo nome dovette avere qualche risonanza nella ­regione tra il terzo e il quarto decennio del secolo se nel 1545, quando il pittore compare sulla scena artistica lucana, è operoso nel prestigioso convento francescano di Sant’Arcangelo (Santa Maria d’Orsoleo) – fatto erigere nel 1474 dal principe di Stigliano Eligio della Marra – ­residenza del ministro provinciale degli Osservanti di Basilicata e sede di un importante studio teologico e filosofico. In quel contesto, certamente animato da vivaci fermenti culturali, a Giovanni Todisco venne affidata l’esecuzione di un ciclo pittorico di grande impegno iconografico poiché in esso, tra episodi neotestamentari e storie della vita di san France­sco, campeggiano due grandi figurazioni emblematiche del programma spirituale dell’ordine: il Trionfo della morte e il Trionfo della fede. Per assolvere un compito così arduo probabilmente il pittore si servì dell’ausilio di stampe, di testi agiografici o di uso liturgico preIvi, pp. 195-97. D’Elia, Un profilo dei beni artistici, cit., p. 47. 52 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 83-85. 50 51

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senti nella ricca biblioteca del convento53, ma incalzato da un ingenuo fervore narrativo tradusse quegli aulici modelli in forme corsive e popolaresche, dando vita a figurazioni concitate e a volte bizzarre. Un lasso di tempo di dieci anni intercorre tra gli affreschi di Sant’Arcangelo e il vasto ciclo cristologico in Santa Maria ad Anzi, commissionato a Todisco nel 1555 dai coniugi Muccio e Guglielma Cagnone; ma lo stile di Giovanni da Abriola appare immutato e, anche in questo caso, la desunzione dei soggetti da stampe nord-italiane non sembra aver condizionato la sua propensione a tradurre le scene evangeliche in quadretti di vita popolare vivaci, ingenui, minuziosamente descrittivi, in piena sintonia con lo spirito semplice dei destinatari. Nel 1558 il pittore affrescò una serie di lunette nel chiostro del convento di Oppido Lucano (Sant’Antonio) con fatti dell’Antico e del Nuovo Testamento; l’anno seguente risulta attivo a Rivello (convento di Sant’Antonio) dove decorò due lati del chiostro ed eseguì nell’attiguo refettorio un grande riquadro con l’Ultima cena che sintetizza efficacemente le connotazioni del suo stile «nella resa penetrante dei sentimenti, la genuina naturalità, l’attenta registrazione del quotidiano»54 (fig. 5). Il cantiere di Rivello fu completato molti decenni più tardi dal figlio di Giovanni Todisco, Girolamo, al quale si deve la decorazione dell’ala settentrionale del chiostro e quella del pronao della chiesa. Il suo stile si profila più compassato e mostra dei punti di contatto con alcune botteghe lucane attive a cavallo tra XVI e XVII secolo (quelle degli Stabile e di Giovanni di Gregorio); lo conferma la frammentaria Madonna col Bambino e Sant’Anna (Vaglio, Sant’Antonio), firmata da Girolamo e datata 1618. A lui si attribuiscono anche il ciclo di affreschi in Santa Maria degli Angeli a Calvello – sui quali è iscritta la data 1616 – in cui il pittore recupera cadenze e impianti compositivi di cultura manieristica combinati con esperienze figurative più recenti, e le decorazioni della biblioteca del grandioso complesso benedettino di Montescaglioso: nell’erudito programma iconografico che le sostanzia troviamo riflesso il clima culturale tipico di fine Cinquecento, in cui «il persistente culto dell’antichità classica, dei suoi miti e della

53 N. Barbone Pugliese, Santarcangelo, in Insediamenti francescani, cit., vol. II, pp. 224-26. 54 A. Convenuto, Rivello, affreschi della chiesa del convento S. Antonio da Padova, in Insediamenti francescani, cit., vol. II, p. 201.

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Fig. 5. Rivello, Chiostro di Sant’Antonio. Giovanni Todisco, Ultima cena.

sua filosofia, e l’adesione sempre viva alla tradizione ermetica e ai suoi simbolismi, s’intrecciano a profonde istanze di rinnovamento etico, culturale e scientifico»55. A partire dalla seconda metà del XVI secolo anche in Basilicata lo sviluppo delle arti figurative dev’essere esaminato alla luce di quei complessi fenomeni socio-religiosi originati dagli impulsi innovatori del Concilio di Trento che marcarono fortemente non solo le istituzioni ecclesiastiche (diocesi, parrocchie, seminari) e il rinnovamento spirituale del clero, ma anche gli aspetti della vita civile e associativa, con ripercussioni pratiche sull’ordinamento sulla società laica (nascita di ospedali, di monti di pietà, di confraternite)56. Anche nel Mezzogiorno infatti l’applicazione dei decreti conciliari, per gli effetti che produsse sulla vita religiosa e culturale delle popolazioni, «non fu un fatto interno alla Chiesa ma un evento storico che incise sulla società, sulla spiritualità, sulla cultura, sull’arte, sulla letteratura e come tale non può essere considerato marginale alle complesse vicende del Viceregno»57. Di fatto in quest’epoca non è possibile separare la produzione artistica – condizionata dalle norme conciliari che imponevano alla S. Abita, Presentazione, in La Biblioteca dell’Abate, Napoli 1990, p. 9. Sui temi di carattere generale cfr. Società e religione in Basilicata, 2 voll., Roma 1977-78. Sul fenomeno specifico delle confraternite nel Mezzogiorno cfr. il numero monografico della rivista «Ricerche di storia sociale e religiosa», 37-38, 1990, e il catalogo della mostra Confraternite, arte e devozione in Puglia, cit. 57 A. Cestaro, L’applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno: l’area salernitano-lucana, in Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, Venosa 1988, vol. I, p. 21. 55 56

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pittura, così come alla predicazione, il fine precipuo dell’edificazione morale dei fedeli – da eventi di natura religiosa che segnarono la vita delle comunità cristiane: l’influsso dell’azione pastorale dei vescovi sui costumi, sulla pratica sacramentale e sulla pietà popolare; il moltiplicarsi di luoghi di culto, di santuari, di devozioni locali e cerimonie pubbliche; la nascita di nuove congregazioni religiose e, al tempo stesso, l’espansione nelle città e nelle zone rurali degli ordini mendicanti di origine medievale; la funzione sociale, soprattutto di tipo caritativo-assistenziale, svolta dalle confraternite e la rilevanza pubblica nonché il peso economico delle loro molteplici attività. Tali complessi fenomeni ebbero ripercussioni immediate sulla trasformazione degli edifici sacri, sul rinnovamento degli apparati decorativi e delle suppellettili liturgiche, sulla nascita di nuovi modelli iconografici che godettero di immediata e vasta diffusione. In conseguenza delle innovazioni liturgiche apportate dal Concilio, molti polittici vennero rimossi o smembrati; all’interno delle chiese si moltiplicarono le cappelle e gli altari privati (di proprietà di confraternite, di nobili e borghesi) che accolsero nuove immagini religiose in sintonia con gli orientamenti devozionali dei committenti. Il culto della Vergine ricevette un impulso straordinario ad opera dei Domenicani, dei Francescani, dei Carmelitani, i quali propagarono – rispettivamente – il culto della Madonna del rosario, dell’Immacolata concezione e della Madonna del Carmine58; anche la devozione ai santi, invocati come intercessori a difesa dai pericoli spirituali e dalle calamità naturali, conobbe un nuovo slancio di pietà che si tradusse nel moltiplicarsi di immagini dipinte e scolpite59. Questo clima di diffuso fervore religioso, e soprattutto le frequenti manifestazioni pubbliche di penitenza e di pietà collettiva, diedero nuovo impulso sia all’importazione di opere d’arte dalla Campania

58 L. Kalby, Iconografia della Madonna tra riforma e controriforma in Lucania, in Società e religione in Basilicata, cit., pp. 539-58. Sul tema cfr. inoltre F. Strazzullo, L’iconografia della «Madonna delle Grazie» tra il ’400 e il ’600, Napoli 1968; V. Pacelli, Problemi di iconografia cristiana: il purgatorio e il suffragio, in Momenti di storia in Irpinia, Roma 1989, pp. 99-102; P. Scaramella, Le Madonne del Purgatorio. Iconografia e religione in Campania tra Rinascimento e Controriforma, Genova 1991. 59 M.P. Digiorgio Viti, Peste, terremoti e culto dei Santi tra XVII e XIX secolo nella provincia di Matera, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 35, 1989, pp. 129-40.

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che all’attività delle botteghe lucane chiamate a soddisfare le richieste dei meno esigenti committenti di provincia. A Leonardo da Pistoia, attivo a Napoli durante il quinto decennio del Cinquecento, si devono le tavole potentine dell’Immacolata tra i santi Francesco e Rocco (Santa Maria del Sepolcro) – esemplare per la scarna essenzialità del disegno memore di certo purismo manieristico di origine toscana – e della Natività (San Francesco), in cui è evidente l’intervento della bottega60; ma anche l’anonima Madonna del suffragio tra i santi Agostino e Francesco nella parrocchiale di Oliveto Lucano va ricondotta nell’ambito di Leonardo da Pistoia per via «della tavolozza luminosa e di un cromatismo particolarmente vivace» rimesso in luce nel corso di un recente intervento di restauro61 (fig. 6). Dalla bottega napoletana di Marco Pino sembra provenire la vivace Resurrezione di Cristo (Venosa, cattedrale) che riecheggia la pala del maestro al Gesù Vecchio di Napoli, mentre a Michele Manchelli, genero del pittore senese, si deve un’aggraziata Madonna del rosario (Anzi, Santa Maria) che servì da modello a molte composizioni analoghe ancora oggi rintracciabili in Basilicata62. Nelle tavole raffiguranti la Pietà e l’Eterno benedicente, poste nella chiesa degli Osservanti di Brienza, sono stati riconosciuti due pregevoli autografi di Silvestro Buono risalenti all’ottavo decennio del Cinquecento. Si tratta con molta probabilità dei pannelli superstiti di una pala d’altare smembrata al centro della quale, secondo una convincente ipotesi di Nuccia Barbone, doveva trovarsi un’Annunciazione. I dipinti mostrano un livello qualitativo molto elevato, ragion per cui vanno considerati come «una significativa testimonianza dell’attività matura del Buono, segnata dall’innesto di cadenze fiamminghe e suggestioni toscane sul nucleo centrale di un linguaggio espressivo elaboratosi sui testi polidoreschi, dei romanisti nordici e sulle opere napoletane di Leonardo da Pistoia»63. 60 P. Leone de Castris, La Pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in G. Briganti (a cura di), La Pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 19882, p. 488. 61 M. Francione, in Restauri in Basilicata. 1993-1997, cit., pp. 44-47. Il dipinto era stato assegnato dal de Castris prima a Michele Manchelli e poi a Decio Tramontano (P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli 1540-1573, Napoli 1996, pp. 210 e 306. 62 N. Barbone Pugliese, Contributo alla pittura Napoletana del Seicento in Basilicata, in «Napoli nobilissima», XXII, 3-4, 1983, p. 82. 63 Ead., Due tavole di Silvestro Buono a Brienza, in «Napoli nobilissima», XXIV, 3-4, 1985, p. 95. Ead., Silvestro Buono, in L’antico nascosto, cit., pp. 65-69. L’ipotesi

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Fig. 6. Oliveto Lucano, Chiesa madre. Leonardo da Pistoia (bottega di), Madonna del suffragio.

Qualche affinità con la maniera di Silvestro Buono mostrano la pala dell’Immacolata tra i santi Francesco e Stefano a Lagonegro (convento di San Francesco) – si confrontino i due santi con gli scomparti laterali del trittico nella cappella d’Avalos a Montesarchio – nella quale un anonimo pittore di modesta levatura traduce in convenzionale pietismo l’intensa carica devozionale del maestro, e una rovinatissima Madonna del rosario a San Chirico Raparo (Natività), dalla quale emerge vispo e scattante un Bambino Gesù dalle carni tornite di luce, che ricorda analoghe figure infantili di Silvestro Buono. Meritano infine di essere ricordate, per un evidente collegamento a botteghe pittoriche napoletane, l’elegante Annunciazione nella parrocchiale di Episcopia64 e due tele, ritagliate e sagomate con grave danno delle stesse (Pomarico, Sant’Antonio), che replicano la pala di attributiva è confermata da R. Naldi, Un «San Giacomo Maggiore», ed altro, per Silvestro Buono, in «Prospettiva», 57-60, 1990, pp. 47-54. 64 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 91, fig. 196.

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Scipione Pulzone già in San Domenico di Gaeta, del 1587, di chiara matrice tizianesca (Napoli, Museo di Capodimonte). Nel corso del settimo decennio del Cinquecento esordì il «nobile» pittore potentino Antonio Stabile, il quale, avvalendosi di un’attiva bottega, operò da un estremo all’altro della regione soprattutto per conto dei Minori Osservanti e di confraternite laiche che mostrarono di gradire la misurata compostezza della sua arte «senza tempo», basata su modelli formali stereotipati e su stilemi compositivi convenzionali; un’arte apparentemente in linea, per il rifiuto a qualsiasi concessione estetizzante, con la rigida precettistica tridentina – avversa ai languori sentimentali e alla lascivia carnale della pittura del Rinascimento –, ma in realtà incapace di elaborare un linguaggio figurativo in grado di conciliare l’edificazione religiosa dei fedeli con l’afflato umano delle storie sacre. Circa trenta dipinti – tra polittici e pale d’altare – costituiscono il corpus pittorico di questa affermata bottega potentina attiva per oltre un ventennio – che ricevette prestigiose commissioni anche nella città partenopea65 e nei vicini centri pugliesi66 – nella quale Antonio ebbe spesso come diretto collaboratore il fratello Costantino. Una breve ma esauriente monografia, apparsa nel 1992, esamina tutta la produzione artistica degli Stabile, ordinando cronologicamente, su basi stilistiche e iconografiche, le molte opere non documentate o prive di datazione all’interno di una serie di punti fermi rappresentati dal polittico di Tramutola (SS. Trinità) del 1569, dalla Madonna del rosario di Potenza (San Michele), commissionata dall’omonima confraternita nel 157667, dalla Madonna delle grazie a Picerno (chiesa dei Cappuccini), datata 1577, dal polittico smembrato di Tricarico (cattedrale e Sant’Antonio) del 1580, dalla Madonna delle grazie risa65 De Dominicis ricorda nella chiesa napoletana dei Santi Severino e Sossio la pala dell’Immacolata concezione, eseguita da Antonio Stabile nel 1582 (B. De Dominicis, Vite di Pittori, Scultori e Architetti napoletani, Napoli 1742 [rist. anast. Bologna 1971], p. 222). Ma le fonti storiografiche gli attribuiscono un altro dipinto, oggi perduto, nella chiesa di San Francesco delle Monache, raffigurante la Madonna e Santi. 66 Per le opere pugliesi attribuite agli Stabile e per l’attività della loro bottega cfr. Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 100-103. 67 A.L. Sannino, Le Confraternite potentine dal XV al XIX secolo, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 37-38, 1990, p. 122, nota 13. Cfr. A. Miraglia, Antonio e Costantino Stabile pittori, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», XII, 18-19, 1991, pp. 37-40.

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Fig. 7. Acerenza, Catte­ drale. Antonio Stabile, Madonna del Rosario.

lente al 1582 (Potenza, Santa Maria del Sepolcro), dalla grande pala della Madonna del rosario nella cattedrale di Acerenza del 1583 (fig. 7), dalla Sacra famiglia a Vaglio (chiesa madre), datata 1587, e infine dall’Annunciazione (Lavello, Sant’Anna), opera estrema firmata da Antonio e Costantino Stabile e datata 159[...]68. L’esame complessivo delle opere, se da un lato rende credibile l’alunnato di Antonio presso Silvestro Buono, ricordato da De Dominicis, dall’altro deve far supporre un’attività parallela ma autonoma di Costantino all’interno della bottega familiare, come d’altronde conferma il ritrovamento di alcuni contratti da lui sottoscritti in proprio. La grazia «devota» e la piacevolezza cromatica riscontrabili nel trittico raffigurante la Madonna col Bambino e san Giovannino tra le 68 A. Miraglia, Antonio Stabile. Un pittore lucano nell’età della controriforma, Potenza 1992. L’autrice parte dal presupposto di una parentela tra i pittori potentini e Girolamo Stabile, autore di un polittico a Formia, e cerca di ricostruire un’ipotetica attività giovanile di Antonio a Napoli. Non è del tutto convincente l’ordine cronologico che la studiosa assegna alle opere degli Stabile ritrovate in Basilicata.

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sante Caterina D’Alessandria e Maria Maddalena e nel polittico francescano, entrambi nella chiesa conventuale di Oppido Lucano, non solo attestano la dipendenza stilistica del giovane Antonio dall’entourage Buono-Lama, e ancor più dall’elegante manierismo tosco-romano di Leonardo da Pistoia, ma trovano un coerente punto d’arrivo nella pala napoletana del 1582, in cui le asperità proprie del suo stile maturo si stemperano in virtù di un nuovo, diretto contatto con l’ambiente artistico napoletano. Col passare degli anni la pittura di Antonio Stabile subì un processo di progressiva astrazione formale: l’azione scenica venne confinata entro uno spazio sempre più angusto e irreale dal quale fu bandito il paesaggio; i personaggi che assistono agli eventi sacri, epurati da ogni afflato emotivo, incarnano un devozionismo freddo e compunto che si esprime con gesti convenzionali e sguardi inespressivi; anche il cromatismo, dapprima morbido e cangiante, divenne via via più acceso, violento, contrastante, finché – nelle opere tarde – assunse tonalità spente e fredde, in sintonia con un formulario stilizzato e distaccato dalla realtà. Il repertorio iconografico ripetitivo, cristallizzato in modelli stereotipati, di Antonio Stabile mostra in definitiva l’intrinseca incapacità del pittore di innovare il suo repertorio figurativo e di evolvere il proprio linguaggio formale sull’onda dei mutamenti in atto anche nell’ambiente artistico lucano. La formazione culturale di Costantino Stabile sembra partire da presupposti analoghi a quelli del fratello, ma egli si mostra più incline a contaminare precocemente i modelli figurativi appresi nella bottega di Leonardo da Pistoia con formule già sperimentate, desunte attraverso le stampe. Pur conseguendo con tale artificio dei risultati assai modesti, egli si conquistò uno spazio sempre maggiore nelle commissioni di Antonio, alla cui morte continuò a gestire la bottega potentina esaudendo le richieste artistiche dei centri più interni della regione. La Madonna del rosario di Potenza (San Michele) del 1576 – la prima opera per la quale è documentata la collaborazione di Costantino a un’impresa del fratello – non solo rivela il rispetto puntuale dell’iconografia minuziosamente fissata nel contratto, ma mostra una sorprendente tangenza stilistica con la maniera dell’esordiente pittore campano Giovanni Angelo D’Amato, che in quello stesso anno firmava il polittico di Atrani (Santa Maria Maddalena) e che in opere ad

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esso coeve – la Madonna del rosario e l’Annunciazione a Maiori (Santa Maria a Mare) – palesa un identico devozionismo freddo e distaccato e una secchezza disegnativa che confermano il comune ambito culturale della loro formazione giovanile. Ma la conoscenza del linguaggio pittorico di Costantino resta affidata alle pale d’altare di Lavello e di Spinazzola69, dalle quali è possibile desumere con certezza gli elementi tipologici e sintattici che rendono inconfondibile il suo stile goffo e legnoso. Sullo scorcio degli ultimi due decenni del Cinquecento nuovi arrivi di opere d’arte dalla città partenopea immisero con maggior respiro la Basilicata in quel circuito culturale in perenne osmosi con altre «officine» artistiche della penisola – arricchito proprio in quegli anni dalla presenza di una folta colonia di pittori fiamminghi – dal quale prenderanno le mosse i due massimi esponenti della pittura lucana del Seicento: Giovanni di Gregorio e Pietro Antonio Ferro. Intorno al 1580 il canonico Giovanni Pietro Sanità commissionò un’imponente pala d’altare per la cattedrale di Matera; l’opera, realizzata a Napoli, giunse via mare fino a Taranto (fig. 8). Un testimone oculare ci ha lasciato memoria scritta del viaggio e della messa in opera del dipinto nel presbiterio della chiesa, entro un’elaborata macchina lignea, ma egli non fa alcuna menzione del suo autore, al riconoscimento del quale – il pittore napoletano Fabrizio Santafede – la critica è giunta solo recentemente attraverso un faticoso iter attributivo70. Un’attenta analisi formale dell’opera, caratterizzata da una «contenutezza di modi, un equilibrio compositivo tra toscano e raffaellesco, un impasto cromatico denso che stemperano e quasi annul­lano la tensione ‘michelangiolesca’ del disegno»71, ha consentito ulteriori acquisizioni sulla produzione giovanile del pittore colmando così il vuoto che intercorreva tra 1576 – data del primo documento riferito a Santafede – e il 1593, anno di esecuzione della pala benedettina per la chiesa napoletana dei Santi Severino e Sossio. Ne è emersa una sequenza serrata di dipinti che illustrano l’evoluzione stilistica del pittore «dall’incerta fisionomia iniziale ad 69 N. Barbone Pugliese, Contributo alla conoscenza degli Stabile, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», V, 8, 1984, pp. 69-78. 70 G. Previtali, La «cona dell’altare grande» della Cattedrale di Matera e la giovinezza di Fabrizio Santafede, in Scritti in onore di Ottavio Morisani, Catania 1992, pp. 293-301, con bibliografia precedente. 71 Ivi, p. 298.

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Fig. 8. Matera, Cattedrale. Fabrizio Santafede, Madonna col Bambino in gloria e Santi.

una serie ben definita di nodi culturali che accertano una costante ansia di rin­novamento»72. Agli studi sulla colonia di pittori fiamminghi attivi a Napoli nell’ultimo quarto del XVI secolo la Grelle ha apportato un valido contributo pubblicando una serie di dipinti – alcuni dei quali inediti – e documentando altre tele andate perdute73 che testimoniano ampia72 C. Restaino, La giovinezza di Fabrizio Santafede, in «Prospettiva», 57-60, 1990, p. 92. Sul tema cfr. anche N. Barbone Pugliese, La «Madonna del Suffragio» di Sant’Antonio a Manduria e gli inizi di Fabrizio Santafede, in «Prospettiva», 50, 1987, pp. 56-70. Dall’Archivio di Stato di Napoli sono emersi recentemente alcuni documenti che comprovano l’esecuzione di altre due opere da parte del Santafede per la città di Lauria (cfr. S. Saccone, Petrafisianus pingebat. Opere di Giovanni de Gregorio. 1608-1653, Maratea 1993, p. 27, nota 17). 73 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 92-94. È appena il caso di ricordare che il primo studioso a occuparsi della questione fu Giovanni Previtali

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mente la penetrazione nella provincia lucana di questa vivace corrente figurativa che rappresentò un vero e proprio punto di convergenza delle più intense esperienze pittoriche del Rinascimento italiano, «dall’affascinante pittoricismo del Barocci, intriso del pietismo nobile e riservato del Pulzone, alla sensualità panica del tardo manierismo internazionale con la sua idolatria di Michelangelo e il suo sogno irresistibile e inquietante di conservare la bellezza fisica e la sensualità del mondo pagano sotto le spoglie del sacro»74. L’attribuzione della languida Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Paolo (Potenza, San Michele) a Teodoro d’Errico è stata accolta unanimemente dalla critica75, mentre alcuni dubbi sono stati avanzati riguardo ad un’altra tela, la Madonna col Bambino e san Francesco nella parrocchiale di Pomarico, che la Vargas propende ad assegnare a Girolamo Imparato sia per la concezione globale del dipinto che per «l’allungamento patetico-espressivo delle figure, la ricerca di un effetto chiaroscurale che punta a far emergere le forme da un gioco di contrasti tra sottili creste luminose e più larghe zone d’ombra»76. Al catalogo del pittore fiammingo è stata aggiunta successivamente la Resurrezione presente nella badia benedettina di Banzi, già assegnata a Pietro Antonio Ferro, collocata per ragioni stilistiche entro l’ottavo decennio del Cinquecento77. A un altro artista nordico, Aert Mytens di Bruxelles – identificato ormai senza incertezza con il «Rinaldo fiammingo» a cui si riferiscono i documenti pubblicati dal Filangieri78 – che giunto a Napoli nel 1575 entrò nella bottega di Cornelis Smet, sono state assegnate due tele nella parrocchiale di Albano: l’Annunciazione del 1581, esem­ plata sul dipinto di analogo soggetto di Teodoro d’Errico (Montorio dei Frentani, parrocchiale) e già attribuita al Ferro, e la Madonna

nel saggio su Teodoro D’Errico e la questione meridionale, in «Prospettiva», 3, 1975, pp. 17-35. 74 N. Barbone Pugliese, A proposito di Teodoro D’Errico e di un libro recente, in «Prospettiva», 62, 1991, p. 90. 75 Per la datazione dell’opera cfr. ivi, pp. 86 sg. 76 C. Vargas, Teodoro d’Errico. La maniera fiamminga nel Viceregno, Napoli 1988. 77 Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli, cit., ed. 1991, pp. 60 e 81, nota 81. 78 G. Filangieri, Documenti per la storia, le arti e le industrie delle province napoletane, Napoli 1981, vol. VI, pp. 156 sg.

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della neve79. Un terzo dipinto, presente nella stessa chiesa e raffigurante l’Ultima cena, mostra evidenti assonanze con la prima maniera di Smet; non è improbabile che la realizzazione di due delle tre tele commissionate al pittore fiammingo dall’arciprete di Colobraro nel 1583, aventi come soggetti proprio l’Ultima cena e Santa Maria della neve80, sia stata affidata da Smet al suo diretto collaboratore e che, in epoca imprecisabile, esse siano emigrate da Colobraro nella vicina Albano dove tuttora si conservano81. Del pittore di Malines, uno dei massimi esponenti della colonia fiamminga a Napoli, che fu attivo nelle province meridionali tra il 1574 e il 1591, resta nella cattedrale di Muro Lucano la «cona d’altare» documentata da Filangieri al 1589 e raffigurante la Madonna del rosario82 (fig. 9). Un’opera celebre ed emblematica dalla quale ha preso le mosse la ricostruzione critica del catalogo dell’artista fiammingo83 e alla quale sono debitrici numerose pale d’altare di analogo soggetto sparse in tutte le province meridionali. Il dipinto su tavola di Muro Lucano, per l’equilibrato e solenne impianto compositivo, per l’attenta caratterizzazione dei personaggi inginocchiati ai piedi della Vergine, per i sensibili e ben calibrati accordi cromatici, denota la svolta compiuta da Cornelis Smet in direzione dei modelli figurativi controriformati, avversi «agli intellettualismi e all’eccentricità della tradizione manieristica e fautori, invece, di immagini semplici e posate, concepite all’insegna del ‘decoro’ e del pietismo»84. Essendo andato perduto il dipinto eseguito nel 79 Leone de Castris, La Pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, cit., p. 497; Id., Pittura del Cinquecento a Napoli, cit., ed. 1991, p. 87, p. 102 nota 18. L’attribuzione è stata accolta favorevolmente da Barbone Pugliese, A proposito di Teodoro d’Errico, cit., pp. 86 sg. e ribadita da P. Leone de Castris, Su Aert Mijtens e la colonia dei pittori fiamminghi a Napoli, in «Prospettiva», 93-94, 1999, pp. 69-78. 80 Filangieri, Documenti per la storia, cit., p. 465. 81 L’ipotesi è avvalorata dalla testimonianza sul sistema organizzativo delle botteghe artistiche fiamminghe nel corso degli anni Ottanta, in ognuna delle quali il capobottega era assistito da lavoranti, discepoli, garzoni e «contrattisti» occasionali (cfr. C. Vargas, Cornelis Smet tra i «paisani» fiamminghi, in «Mélanges de l’École Française de Rome», CIII, 2, 1991, pp. 629-80). 82 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 197-201, con bibliografia precedente. 83 L’ultimo contributo al riguardo si deve a N. Barbone Pugliese, Sulle tracce di Cornelis De Smet tra Napoli e la Provincia, in «Bollettino d’arte», LXXVII, 73, 1992, pp. 93-106. 84 Ead., Contributo alla pittura napoletana, cit., p. 83.

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Fig. 9. Muro Lucano, Cattedrale. Cornelis Smet, Madonna del Rosario.

1593 per i Cappuccini di Picerno da Wenzel Coberger, altro grande esponente della colonia fiamminga presente a Napoli tra il 1580 e il 1596, restano tuttora in Basilicata numerose testimonianze dell’attività di Cristiano D’Annona85, tanto da indurre a pensare che il pittore di Anversa, non riscuotendo consensi presso l’esigente committenza artistica della capitale a causa del marcato espressionismo, della secchezza grafica, della maniera rude e al tempo stesso patetica del suo stile, si sia spinto a cercare nella provincia lucana nuove opportunità di lavoro. All’elenco di dipinti ritrovati dalla Grelle ad Atella (parrocchiale), a Melfi (episcopio), a Bella (parrocchiale), a Ripacandida (Santa Maria), a Tursi (Rabatana) – tra i quali il solo firmato e datato 85 Il pittore è stato identificato con il «Cristiano de Noja» di cui parla un documento del 1594 (Leone de Castris, La Pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, cit., p. 496).

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(1589) è la Crocifissione nella cappella del castello normanno di Melfi86 – va aggiunta la tela inedita raffigurante il Sangue di Cristo (San Chirico Raparo, chiesa madre), assai vicina al patetico espressionismo dell’omologo dipinto conservato a Santa Maria di Ripacandida (fig. 10). La lezione fiamminga trovò immediata adesione in un piccolo stuolo di seguaci locali, di levatura piuttosto modesta, i quali mostrarono sostanzialmente un interesse ai dati esteriori – cioè stilistici o cromatici – delle opere di quei maestri, senza riuscire a cogliere l’essenza della loro poetica, intrisa di una religiosità dai toni ora accesi e mistici, ora patetici e visionari, che sublimando il verismo della rappresentazione era riuscita a calare gli eventi più straordinari della storia sacra nell’umile quotidianità della storia umana. Tra questi anonimi pittori meritano di essere ricordati l’autore della Deposizione nella chiesa di San Francesco a Matera, memore dell’ascetismo del D’Annona87; il «Maestro di Moliterno», attivo tra il 1597 e il 1607, cui spettano gli affreschi in Santa Maria Veterana a Moliterno e le pale d’altare con la Deposizione (Rivello, Sant’Antonio) e con il Crocifisso tra san Michele arcangelo e san Nicola di Bari (Armento, San Vitale), datata 1605; un elegante seguace di Wenzel Coberger che eseguì nel 1597 l’Annunciazione nella chiesa di Sant’Antonio a Rivello88; infine, l’impacciato autore di una tela ritrovata fortunosamente nella chiesa madre di Pisticci – datata 1610 e raffigurante la Deposizione89 – il quale appare come il più mediocre epigono di questa importante corrente pittorica che segnò le vicende artistiche dell’Italia meridionale per oltre un ventennio. Dalla schiera di questi mediocri pittori emergono, per la capacità di elaborare un linguaggio autonomo e originale, le personalità di Giovanni di Gregorio da Satriano detto Il Pietrafesa, il quale – senza rinnegare le suggestioni dell’arte fiamminga, scoperta durante il soggiorno giovanile nella città partenopea, presenti persistentemente nella sintassi del suo linguaggio pittorico eclettico e raffinato – assiGrelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 92. Dell’Immacolata, già nella parrocchiale di Rapolla, si conserva una foto nell’archivio della Soprintendenza ai beni artistici e storici di Matera. 87 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 204, scheda 17. 88 La tela era stata attribuita dalla Grelle a Filippo Vitale (ivi, p. 109), ma tale attribuzione è stata respinta decisamente da G. De Vito, Un contributo per Filippo Vitale, in «Ricerche sul ’600 napoletano», 6, 1987, p. 107. 89 A. Altavilla, Deposizione, in Restauri in Basilicata. 1993-1997, cit., pp. 65-67. 86

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Fig. 10. San Chirico Raparo, Chiesa madre. Cristiano Danona (bottega di), Sangue di Cristo.

milò nel corso della lunga attività le principali componenti culturali dell’arte figurativa napoletana del primo ventennio del Seicento (dal Parmigianino a Federico Barocci, dall’Azzolino a Ippolito Borghese) e quella di Pietro Antonio Ferro da Tricarico che, prese le distanze dall’ambiente artistico locale e «indossati gli abiti del vojageur, peregrina da un santuario all’altro della grande pittura del tardo Rinascimento dell’Italia meridionale e centrale desumendo forme e motivi che elabora poi nelle sue meditate composizioni pittoriche»90. Ma prima che questi ragguardevoli comprimari della pittura lucana del Seicento acquistassero fama e monopolizzassero le committenze artistiche della regione, fino al Cilento e al Vallo di Diano91, altri importanti dipinti vennero ad arricchire il patrimonio artistico della Basilicata: quel patrimonio rimasto nascosto e ignorato per secoli che D’Elia, Un profilo, cit., p. 48. Cfr. le schede in Il Vallo ritrovato. Scoperte e restauri nel vallo di Diano, Napoli 1989; Il Cilento ritrovato, cit. 90 91

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la dedizione e l’intuito di alcuni studiosi tenaci e appassionati ha riportato alla luce negli ultimi decenni. Dalla cittadina di Colobraro, da cui nel 1583 erano state commissionate a Cornelis Smet tre pale d’altare, partirono in tempi diversi due richieste al pittore napoletano Francesco Curia per esaudire la devozione e adempiere un voto da parte di alcuni fedeli locali. Erede della grazia formale e dal pastoso cromatismo parmigianesco, che i pittori fiamminghi avevano assimilato durante la loro discesa verso le regioni meridionali e che avevano innestato autorevolmente sul ceppo della cultura tosco-romana imperante nel vicereame fino agli anni Settanta del Cinquecento, Francesco Curia aveva saputo ricondurre il pietismo a volte eccentrico degli artisti d’oltralpe nel solco edificante e devoto della Controriforma cattolica. Le tele scoperte a Colobraro dalla Grelle nel 1981 – la Madonna col Bambino, san Leonardo e offerenti (parrocchiale), firmata e datata 159592 – e poco dopo dalla Barbone Pugliese nella chiesa del convento di Sant’Antonio93 – la Madonna del Carmine tra i santi Francesco d’Assisi e Francesco di Paola, ascritta ai primi anni del Seicento per alcune analogie con la Madonna del rosario a Orta di Atella, del 160394 – costituiscono due significativi apporti al catalogo dell’artista partenopeo il quale, in tali composizioni, rivela ben chiari i segni di quella «crescente schematizzazione formale, di quella accensione fantastica di colori acidi, di quella sorta infine di ‘smagrimento’ devozionale»95 che caratterizzano la sua produzione estrema. Per il fatto di evocare nell’eleganza formale della composizione la «maniera tenera» di Francesco Curia, è da citare infine un dipinto inedito raffigurante la Madonna delle grazie (Aliano, chiesa madre) (fig. 11) che si può supporre provenga dalla cappella foranea di Santa Maria del Carmelo, nel territorio di Aliano, iuspatronato della famiglia Vaccaro, nella quale la Grelle ipotizza che fosse ubicata originariamente la pala votiva di Carlo Sellitto raffigurante la Madonna del 92 Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., pp. 201-203, scheda 16. Leone de Castris propende – come di fatto sembra attendibile – per una lettura della data «1598» (Pittura del Cinquecento a Napoli, cit., p. 112). 93 Barbone Pugliese, Contributo alla pittura napoletana, cit., p. 86; Ead., Colobraro, Chiesa S. Antonio: Francesco Curia, in «Bollettino d’arte» LXX, 29, 1985, p. 146. Dopo il restauro, condotto tra il 1996 e il 1997, l’opera è stata pubblicata da V. Savona in Restauri in Basilicata. 1993-1997, cit., pp. 54-57. 94 Barbone Pugliese, A proposito di Teodoro d’Errico, cit, p. 91. 95 Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli, cit., ed. 1991, p. 110.

M. Giannatiempo López   Arti figurative: il Cinquecento

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Fig. 11. Aliano, Chiesa di San Lui­ gi Gonzaga. Carlo Sellitto, Madonna delle grazie.

suffragio e donatore, eseguita proprio per un membro della famiglia Vaccaro96. Ma la gamma cromatica e il ductus pittorico più pacati, la ricerca di un naturalismo e di una devozionalità più domestiche inducono ad avvicinare il dipinto alla produzione giovanile di Bernardo Azzolino, ultimo esponente «della lunga stagione ‘riformata’ promossa da Fabrizio Santafede» e, al tempo stesso, «spia inquietante di tanti elementi di continuità che avrebbero caratterizzato il mercato e la produzione di immagini»97 nei primi decenni del Seicento. Proprio allo scadere del Cinquecento – quando i committenti lucani più sensibili ed evoluti manifestavano un interesse progressivo dal devoto pietismo tardo-manieristico al nascente naturalismo di matrice caravaggesca – giunse in Basilicata il raffinato polittico eseguito da Cima da Conegliano nel 1499, acquistato a Venezia e trasferito 96 97

Grelle Iusco (a cura di), Arte in Basilicata, cit., p. 205, scheda 18. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli, cit., ed. 1991, p. 312.

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Parte terza. Urbanistica, architettura e arti figurative

nella chiesa parrocchiale di Miglionico dall’arciprete Marcantonio Mazzoni nel 159898. Il contrasto stridente tra il sapore arcaico di quest’opera e le più aggiornate correnti figurative penetrate dalla capitale del vicereame nel corso del XVI secolo non deve sorprendere; l’evento è spiegato infatti dal persistere nelle regioni meridionali di un legame ininterrotto con la cultura figurativa adriatica – e veneta in particolare – ai cui stimoli è da attribuirsi il lento ma progressivo risveglio culturale di questa remota provincia del regno di Napoli, nella quale le tradizioni iconografiche e devozionali consolidatesi nel corso del secolo precedente potevano tranquillamente convivere con l’incalzante evoluzione stilistica determinata dall’arrivo nel Meridione di nuove, e a volte dirompenti, personalità artistiche. 98

L. Menegazzi, Cima da Conegliano, Treviso 1981, pp. 105 sg.

Parte quarta LINGUA, CULTURA E PRODUZIONE LETTERARIA

LA CULTURA LETTERARIA di Francesco Tateo 1. Classicismo federiciano a Venosa Come avviene per le altre regioni del Mezzogiorno comprese durante l’alto Medioevo nel dominio bizantino, unificate sotto i Normanni ed entrate in una compagine politica dominata dal centro napoletano, per la Basilicata l’individuazione di una letteratura geograficamente definita deve fare i conti con la scarsa documentazione dei suoi centri culturalmente attivi, ma anche con la diaspora degli intellettuali, attratti dalla capitale e non collocabili in un organico, per quanto variegato, paesaggio regionale. E tuttavia anche in questo caso il problema risiede appunto nella possibilità o meno di spiegare la cospicua presenza di letterati originari della Basilicata nella cultura generalmente identificata come napoletana, e nella cultura nazionale o europea. Le origini non sono, il più delle volte, casuali, ma rimandano a tradizioni di cultura sommerse che possono aver contribuito, talora decisamente, a indirizzare certi intellettuali verso un’attività che li vede operanti altrove. Il compito che una storiografia moderna dovrebbe porsi è proprio quello di individuare il peso avuto da queste tradizioni e la consistenza dei centri minori dai quali alcuni letterati si sono mossi, e in quale direzione, per poi operare altrove. Su di essi, comunque, non può tacere un discorso che intenda ricostruire per via indiziaria la real­ tà culturale della regione, o meglio dei suoi luoghi più rinomati, ovvero sopravvissuti all’oblio. Un punto sicuro di riferimento è certamente la città di Venosa, la cui importanza come antica sede vescovile, come sede di una celebre abbazia benedettina dell’età normanna, come sede amministrativa della giustizia nell’età federiciana, si confonde con la sua notorietà

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quale patria di Orazio. Al ricordo nostalgico di Orazio, che vi aveva trascorso la fanciullezza, risaliva la presenza suggestiva del Vulture come immagine simbolica della regione. Fra l’altro il testo oraziano nobilitava nel caro ricordo alcune città lucane sopravvissute, ai confini con la Puglia, oltre la famosissima fonte Bandusia (Carm. 3, 13, 1) che si è un tempo ritenuto possibile includere fra le memorie venosine: Me fabulosae Volture in Apulo nutricis extra limina Pulliae    ludo fatigatumque somno     fronde nova puerum palumbes texere, mirum quod foret omnibus, quicumque celsae nidum Aceruntiae    saltusque Bantinos et arvum      pingue tenent humilis Forenti [...]1

La reminiscenza oraziana non è di poco conto, non solo perché testimonia l’esistenza di un’antica tradizione di scuola, sia pure a livelli elementari, ma perché al nome del grande poeta latino si collegano, nella città di Venosa, le propaggini della rinascita classicistica non a caso propense a interessi di poesia. Il vanto di aver avuto una gloria latina s’inquadra insomma in quel costume intellettuale che caratterizza la Rinascita, la quale ebbe fra i suoi topoi fondamentali quello del recupero delle antiche, finanche mitiche radici cittadine. Ma, se il vero e proprio fenomeno della Rinascita va collocato, per la Basilicata come per tutto il Mezzogiorno, nel tardo Quattrocento e soprattutto nello sviluppo accademico del Cinquecento, la ripresa della cultura latina si associa con l’estinguersi dell’egemonia bizantina e con lo sviluppo della cultura benedettina a partire dal secolo XII. Non fa quindi meraviglia, come è potuto avvenire a qualche studioso soggetto alla tradizionale idea della barbarie medievale, che nel XIII secolo due personaggi che operano a Venosa, ambedue giuristi e collegati con il potere svevo, abbiano lasciato testimonianze di prim’ordine di una 1 Orazio, Carm. 3, 4, 9-16: «Me quand’ero fanciullo, stanco di giochi e di sonno, fuor dei confini della Puglia, favolosa nutrice, sull’appulo Vulture le colombe coprirono di novelle foglie, una cosa che doveva destare la meraviglia a chiunque abitasse la piccola sede di Acerenza, i boschi di Banzi e i fertili campi della bassa Forenza».

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notevole conoscenza della lingua latina e di una squisita sensibilità letteraria, Riccardo da Venosa ed Eustachio da Matera. «Venusinae gentis alumnus», nato da famiglia venosina si proclama con un’enfasi che non nasconde l’orgoglio il giudice Riccardo, fissando il suo nome nei primi versi di una singolare commedia che egli stesso ci fa sapere scritta per essere offerta a Federico II e che reca negli ultimi versi il nome del duca Rinaldo di Spoleto, rimasto a governare il regno in assenza dell’imperatore partito per la crociata. Le circostanze desunte dal testo stesso hanno potuto far collocare fra il 1228 e il 1232 la composizione dell’opera, ma la situazione in cui dovette essere composta e dedicata non è estranea al senso di essa, che si presenta, secondo una consuetudine letteraria, come lo svago di un dotto impegnato in ben più gravi mansioni: Tempus adest aptum quo ludere nostra Camoena    debeat, et curis se leviare suis2.

L’autore coglie in effetti ogni occasione per affrontare in forma sentenziosa, favorita dall’uso del distico elegiaco che scandisce i detti con l’opportuna brevitas, i più importanti temi della trattatistica morale: i difetti della vecchiaia e della giovinezza, l’avarizia e la ricchezza, il timore e l’audacia, l’onore, la nobiltà, l’elogio del matrimonio. Il componimento si conforma secondo il genere della commedia elegiaca, diffusasi nel Medioevo sui moduli tematici della commedia antica, senza riprodurne né lo schema metrico né la mobilità scenica. Tre personaggi, ma non più di due insieme sulla scena. Un notaio, Fulcone, riceve dalla vecchia Polla l’incarico di farsi intermediario presso il vecchio Paolino perché si decida a sposarla malgrado l’età, e nel sobbarcarsi, malvolentieri, a tale incombenza adopera la sua arte suasoria, ma incorre in una serie di noie, come quella di saltare il pasto, di venire alle mani con Paolino per un equivoco (gli aveva dato uno schiaffo per assicurarsi di non stare sognando data l’assurdità della vicenda), di cadere nel fango e di essere preso per ladro mentre rincorre il suo cliente. La commedia non manca quindi di movimento, ma quest’ultimo interviene a spezzare il discorso o a risolverlo nella catastrofe 2 Riccardo da Venosa, Paolino e Polla, a cura di M. Rigillo, Melfi 1906, vv. 3-4: «È un momento adatto, perché la nostra arte si dedichi al divertimento, e si alleggerisca delle sue pene».

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finale, emergendo piuttosto attraverso il racconto dell’autore, al quale è affidato appunto il compito di legare l’azione con qualche passaggio di carattere narrativo che ha pressoché la funzione della didascalia. In effetti il gioco promesso all’inizio dal giudice venosino è tutto nell’uso artistico, perfino artificioso, della parola, che alterna la serietà gnomica alla parodia e si avventura nel manierismo tipico della lingua dotta dell’ambiente notarile, utilizzando qualche neologismo, ma soprattutto rari vocaboli desunti e da Plauto e da autori della tarda latinità, come Plinio e Petronio. Così, se ricorre in luogo di dicere il notificare della lingua cancelleresca, il gatto che ha portato via la carne dalla mensa di Fulcone è un murilegus («raccoglitore di topi»), la lingua della donna è litivoma («vomitatrice e fomentatrice di liti») e la donna stessa è linguosa (un aggettivo che risale a Petronio), il villano è spurcidus (un aggettivo ricavato dallo spurcidicus di Plauto). Così, nel cercar di persuadere Paolino, Fulcone manipola passi biblici trasformando ad esempio la minaccia contro l’uomo «solo» che non può contare sugli amici in una minaccia contro chi non prende moglie: Vae soli cui cum cadet adiutore carebit!    Vae soli cui non consiliator adest3.

Il distico figura come una solenne premessa alla serie comica di versi in cui si consiglia il matrimonio come rimedio all’impotenza dell’età senile, attraverso la ripresa ironica del famoso proverbio della pietra cavata da un’assidua gutta e della metafora del cavallo che non corre più e che potrebbe riprendere a correre, e uno sfoggio di tipici bisticci verbali del linguaggio comico («cum ferula ferula sepe rotata calet», «a ferro ferrum sibi mutuo sumet acumen», «Feminea caro carne viri connupta resumit / igniculos»)4. Sarebbe difficile ricavare dall’impiego fitto della topica morale una linea ideologica. Il livello artistico della commedia consiste proprio nell’abuso retorico degli argomenti come nella ricerca assidua di un lessico raro, che mentre fa il verso al volgare si adopera in un gioco aristocratico secondo una linea che sarà seguita nella letteratura propriamente umanistica sul piano della ricerca comica. Forse 3 Ivi, vv. 775-776: «Guai a chi è solo quando cadrà e non avrà nessuno che lo aiuti! Guai a chi è solo e non c’è nessuno che gli dia un consiglio!». 4 Ivi, vv. 780-781 e 783.

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un segno dell’aristocraticità intellettuale di Riccardo risiede nel ripetuto accenno al tema della nobiltà, risolto in una critica alla mera nobiltà dei natali in favore di un concetto che si andrà affermando nella borghesia colta del tardo Medioevo con la valorizzazione della virtù e dell’ingegno: «Non genus ingenium, generis sed nobilitatem / ingenium superat: sic generosus homo»5. Forse perfino la satira del «villano», che può ben essere inserita fra le intenzioni del poemetto e collegarsi con un tema fortunatissimo nei secoli successivi, va ricondotta a questa stessa ideologia che identifica la mentalità rozza col ceto sociale rustico e la contrappone simbolicamente alla cultura del ceto intellettuale. Appartiene certo alle intenzioni ideologiche della commedia il richiamo alla giustizia garantita dall’imperatore e dal suo vicario con cui non a caso si conclude la sequenza tragicomica finale. Il nome del duca Rinaldo, evocato come quello dell’amministratore della giustizia, ha un sapore cortigiano e appartiene a un costume che diverrà sempre più frequente mano a mano che si stringerà il patto fra il ceto intellettuale e i rappresentanti del potere politico. Che un altro giudice operante a Venosa nello stesso secolo, Eustachio da Matera, anche lui inserito nell’apparato amministrativo e politico degli Svevi benché esule dopo il 1266, scrivesse versi è la conferma di una tradizione esistente in questo centro lucano. Pervenuto in pochi frammenti, il poema di Eustachio in quattordici libri e in distici elegiaci sulle sventure dell’Italia (Planctus Italiae) si inserisce nel diffuso genere elegiaco del lamento, ma anche in quello dell’elogio delle città che si andrà sviluppando fra storiografia e antiquaria. Elogio e lamento, ma anche erudizione storica, presiederanno alla rinascita del mito di Roma nella cultura umanistica. L’elogio di Taranto di Eustachio inserisce già il motivo dell’emulazione di Roma nella rifioritura delle città: Emulus hic Rome situs in bellisque notatus, fertilis urbsque mari diviciosa suo. Vitibus hec variis multis frondescit olivis, diversis pomis, ficubus atque piris6, 5 Ivi, vv. 959-960: «La stirpe non è superiore all’ingegno, anzi l’ingegno è superiore alla nobiltà della stirpe: questo è il fondamento della nobiltà umana». 6 «Questo centro emulo di Roma e famoso per eventi bellici è una città fertile e ricca in virtù del suo mare. Essa è rigogliosa di viti varie e di molti olivi, di frutta diversa, di fichi e di pere».

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mentre l’ammirazione per Potenza, austera città longobarda divenuta più ricca di tutte le sue vicine, e il pianto per la sua sorte, impreziositi dai fiori dell’elocuzione e da allusioni etimologiche, ci fanno avvertire già il topos umanistico della grandezza e della bellezza perdute: montibus et pratis, gregis armentique feraces   et lini late praedita cultat agros, Lombardis populis austera potensque colonis    prestat vicinis diviciosa suis. Auditis cedum furiis, victore minante,   insanit populus, turbine turba ruit. Iram victoris placet hoc placare furore,   vindictam facere, cedere cede viros7.

2. L’egemonia umanistica napoletana L’esilio di Eustachio rappresenta per la letteratura latina in Basilicata, in certo qual modo e in misura ridotta data la documentazione, quello che per la lirica volgare fu la dissoluzione della scuola siciliana. Certamente favorita dalla presenza di un sovrano come Federico II, la cultura di quel ceto di magistrati formatisi sulla retorica e sul diritto romano, come avveniva nel centro bolognese, subì un cedimento che corrispose al diffondersi della letteratura cortese introdotta dagli Angioini. Napoli ne diviene il centro, avviando un’egemonia che durerà a lungo, ma sul piano socio-culturale si va costituendo una supremazia dei centri feudali, che favorisce nell’ambito della Basilicata l’ascesa di Melfi e nella stessa Venosa fa emergere l’attività di mecenati e di cultori delle lettere della nobiltà locale. È significativo, sotto questo aspetto, che non si possano citare scrittori latini di spicco di origine lucana fino al Quattrocento inoltrato, quando invece emergono, fra una serie sparuta di anonimi autori di versi e religiosi versati in studi di natura scolastica, alcuni pregevoli letterati, ma all’interno del circolo umanistico napoletano. Il più orga7 «Fornita di monti e di prati, coltiva per largo tratto campi fecondi di greggi, di armenti e di lino, gloriosa per la gente longobarda e forte di coloni, supera per la sua ricchezza i vicini. Udita la furia delle stragi, sotto la minaccia del vincitore, il popolo infuria, la turba si precipita come un turbine. Con questo furore piace placare l’ira del vincitore, fare vendette e stragi».

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nico all’accademia pontaniana è Gabriele Altilio, nato a Caggiano nel 1430 circa e finito vescovo di Policastro dopo aver svolto importanti missioni diplomatiche per conto dei re aragonesi ed essersi distinto come grammatico. A lui Pontano affida nell’Actius la trattazione del genere storico, la parte più originale del dialogo, mentre la sua fama di poeta è rimasta legata all’Epitalamio che scrisse in onore degli sposi Giovanni Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona. Strutturato secondo lo schema catulliano, con un’analoga iterazione solenne del verso rituale, quantunque adattata a una cornice bucolica («Dicite Hymen, Hymenaee Hymen ter dicite, Nymphae»), il canto nuziale è un capolavoro di eloquenza celebrativa e di evocazioni spettacolari. Isabella sale sulla nave come Teti condotta a sposare Emone su un cocchio tirato da un pesce, o come Venere sulla conca marina: Talis ad Haemonium frenato pisce maritum Vecta Thetis, levis aut sedit quum Cypria concha8;

e le Nereidi, i cui nomi affastellano i versi come nell’epica antica, l’accompagnano. Lo stesso Nettuno corre sulle acque per placarle e dai luoghi della regione celebrati dalla poesia accorrono, come nel mitico epitalamio per le nozze di Partenope di Pontano, le figlie di Partenope in un tripudio di colori e di fiori: Pars vitta, pars caerulis implexa hyacinthis; Illae apio, hae narcisso, aliae immortali amarantho9.

Un diplomatico era fondamentalmente Giovanni Albino, nativo di Castelluccio, che ci ha lasciato un’opera storica sulle gesta dei re aragonesi divisa in quattro libri dedicati rispettivamente alla guerra condotta da Alfonso in Toscana, alla guerra d’Otranto, alla congiura dei baroni e all’invasione di Carlo VIII10. La chiave elogiativa nei

Epithalamium, in G. Altilio, Poesie, a cura di G. Lamattina, Salerno 1976, vv. 213-214: «Tale appare Teti quando procede in sella a un pesce per raggiungere lo sposo Emonio, oppure quando siede leggera sulla conchiglia di Cipro». 9 Ivi, vv. 46-47: «Parte avviluppata dalla benda, parte ornata di cerulei giacinti; quella di apio, queste di narcisi, quelle d’immortale amaranto». 10 Cfr. V. Fenicchia, s.v., in Dizionario biografico degli Italiani, vol. II, Roma 1960, pp. 12-13. Il De bello Hydruntino è ora edito a cura di I. Nuovo, cui si rimanda per una valutazione di Albino storico e per la notizia delle edizioni, in L. 8

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confronti di Alfonso II e la caduta del regno nocquero forse alla fortuna dell’opera, giunta inedita alla fine del secolo successivo, quando fu pubblicata per onorare gli Acquaviva, ai quali risaliva, nella parte dedicata alla guerra di Otranto, un illustre ricordo di eroismo. Ma i quattro libri nascevano da una notevole consapevolezza letteraria, se adattavano il modello sallustiano alla più consueta trama liviana, al concetto di una storiografia che privilegia gli avvenimenti drammatici e soprattutto ricerca una consonanza con il modello storico, oltre che stilistico, della latinità. Dalla nativa Senise un altro lucano, entrato al servizio degli Arago­ nesi ma vissuto oltre la catastrofe del regno fra Venezia, Roma e la Napoli spagnola, avrebbe lasciato inedita un’opera storica in latino sfavorita dai suoi umori ideologici e dalla sopravvenuta affermazione del volgare. Girolamo Borgia, fra carmi e panegirici, scrisse una Historia de bellis Gallicis in 21 libri per narrare lo scontro fra Spagna e Francia sul suolo italiano11. Non più che dei titoli rimangono invece di Tommaso Chiaula da Chiaromonte, il quale avrebbe narrato in latino episodi di storia romana (sulla guerra macedonica e sulla guerra cimbrica), ma dovette coltivare anche il genere epico in senso encomiastico, come indica il Carmen heroicum ad Alphonsum Aragonensem Siciliae regem che gli viene attribuito12. Inedita rimaneva anche un’altra testimonianza storiografica della letteratura celebrativa aragonese, il De bello regis Alphonsi del materano Ciccolino Gattini. Nel secolo XVI, una volta dissolto insieme alla monarchia aragonese anche il modello storiografico umanistico, si avrà anche in Basilicata lo sviluppo del genere antiquario e di quello cronachistico in volgare, generalmente legati alle memorie locali e orientati verso la compilazione erudita senza velleità letterarie13. Si distingue nel XVI secolo Gualdo Rosa, I. Nuovo, D. Defilippis (a cura di), Gli umanisti e la guerra otrantina. Testi dei secoli XV e XVI, introduzione di F. Tateo, Bari 1982. Cfr. di G. Resta l’introduzione ad A. Panormita, Liber rerum restarum Ferdinandi regis, Messina 1968, pp. 28-30 e F. Tateo, I miti della storiografia umanistica, Roma 1990, pp. 162-66. 11 Su Borgia cfr. M. de Nichilo, Borgia, Guicciardini, Machiavelli-Nifo e la caduta degli Aragonesi, in V. Fera, G. Ferraù (a cura di), Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, Padova 1997, pp. 547-87. 12 Cfr. T. Pedio, Storia della storiografia lucana, Bari 1964, p. 23. 13 Cfr. F. Tateo, Epidittica e antiquaria nelle memorie cittadine del Mezzogiorno, in U. Bastia, M. Bolognini (a cura di), La memoria e la città. Scritture storiche tra Medioevo ed età moderna, Bologna 1975, pp. 29-43.

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la città di Matera, che avrà un catalogo di vescovi e una Descrittione et sito de la città di Matera ad opera di un ecclesiastico come Donato Frisonio (1524-97), che era peraltro oratore e predicatore di un certo rilievo e autore di un Modo di ben vivere, manuale di virtù cristiane. Non mancano le genealogie di famiglie, come quella di Eustachio Verricelli, anche lui autore di una cronaca della città di Matera, indagini curiose sulle origini cittadine, come quelle riguardanti Potenza, esposte in un’orazione, quindi secondo la tradizione degli elogia, dal legista ed erudito Francesco Teleo. Alla fine del secolo XVI la Lucania aveva il suo monumento erudito di Antiquitates a livello regionale, non più solo municipale, ad opera di Pietro Lasena (le Antiquitates Lucanae, ora smarrite, furono utilizzate almeno nel secolo successivo), secondo quel che era avvenuto per la Terra d’Otranto e per la Calabria sulla traccia umanistica di Biondo. Nel secolo successivo con la Lucania illustrata Luca Mandelli (morto nel 1672) trasferiva in volgare l’operazione avvertendo il problema dell’identità regionale, se polemizzava con Barrio che trattando della Calabria non aveva riconosciuto la presenza Lucana14. La caduta del regno aragonese, che produsse certamente nella capitale una trasformazione del costume e del clima politico, sul piano culturale ebbe un effetto più evidente nelle province napoletane, dove non esisteva un’istituzione, quantunque informale, come l’accademia pontaniana a garantire una sorta di continuità nell’inevitabile cambiamento. Va messa forse in relazione con questo fenomeno di rallentamento dell’attrazione esercitata da Napoli la rotta diversa che sembra seguire, in taluni casi di un certo rilievo anche se limitati, il flusso culturale fra i paesi lucani e centri quali la Roma rinascimentale dei Farnese, o Parigi, o il ducato sforzesco di Bari, oltre che la più vicina Napoli, che costituiva una meta più consueta e quasi obbligata. Un caso tipico è quello di Giovanni Darcio. Dopo aver insegnato a Venosa, dovette stabilirsi in Francia, dove le uniche sue tracce sono rimaste in un volume di versi latini pubblicato a Parigi nel 1543 e, se si accetta l’identificazione con Jean Darce cappellano del cardinale di Tournon, in una traduzione francese del De re rustica di Palladio Rutilio stampata a Parigi nel 1554. L’interesse per l’argomento agricolo collega in effetti i due libri, il primo dei quali rivela un emu14 L’opera di Barrio è edita in G. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, a cura di E.A. Mancuso, Cosenza 1979.

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lo squisito degli antichi poeti georgici e dell’Ovidio delle Heroides. Un’esercitazione ovidiana è infatti l’epistola di Deidamia ad Achille, la quale imita e innova l’analoga epistola che Ovidio immagina inviata all’eroe greco da Briseide. Una sorta di panegirico del cane è invece il poemetto Canes, ispirato al genere dei Cynegetica e inteso a trasferire la materia pliniana in un’agile e vivace enumerazione delle virtù dell’animale, a cominciare dalla capacità di impegnarsi nella caccia fino alla funzione di compagnia che esso svolge presso le Heroides, come vengono chiamate le signore nella trasfigurazione classicheggiante dell’umanista. A questi aspetti del costume cortigiano si riferisce forse il vanto, dichiarato nella lettera introduttiva al vescovo di Calcedonia, di aver aggiunto alla materia tratta dagli auctores alcune cose ricavate dall’esperienza. Nella descrizione del cane «maltese», Darcio profonde infatti i vezzi del linguaggio alessadrino non alieno da tratti di erotismo: Veste sedent fluxa et pedibus mylesia calcant Serica, sub tyrioque recumbunt molliter ostro: Nunc caput exertant gremio, saliuntque decorum Nobilis in vultum dominae, lusuque fatigant Labra corallino modicum suffusa rubore, Vernantesque genas, et ebur superantia colla, Smaragdoque graves digitos et Perside gaza; Nunc tenui latrare sono, pictoque videbis Lascivire toro, aut nitida iuveniliter aula15.

Divagazioni giovanili, composte – come confessa l’autore – nelle ore libere in ossequio all’edonismo della poetica rinascimentale. Ma il carme si colloca anche, bucolicamente, nel nostalgico paesaggio venosino quale alternativa alla fatica del vivere: 15 G. Darcio da Venosa, Canes. Item epistola Deidamiae ad Achillem cum aliquot epigrammatis, a cura di M.T. Imbriani, Napoli 1994, vv. 269-277; cfr. R. Nigro, Basilicata tra Umanesimo e barocco: testi e documenti, Bari 1981, pp. 84-85 (si è dovuto fare qualche intervento sulla punteggiatura): «Siedono su panni fluenti e con le zampe pestano le sete milesie, e mollemente riposano sulla porpora di Tiro: ora traggono fuori il capo dal grembo e saltano sul bel volto della nobile signora, e solo per gioco tormentano le labbra un po’ soffuse di rosso corallino, le guance fiorenti, il collo che supera il bianco dell’avorio, le dita cariche di smeraldi e di gioie persiane; ora li vedrai latrare con suono leggero, ora scherzare sul letto ricamato, o nello splendido salone con giovanile esuberanza».

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Talia condebam venosino lentus in agro; Dum pueri (quorum ratio mihi carior omni Laude fuit) reditum ad Musas recidivaque fesso Indulgent studia, et ferulae sceptra improba cessant16;

dove la sottile reminiscenza oraziana della ferula (Serm. 1, 3, 120) e forse del plagosus insegnante odiato dal poeta latino, accanto alla precisazione della propria vocazione pedagogica, costituisce una preziosa testimonianza biografica e ancora un segno della presenza ideale di Orazio nell’intellettualità venosina.

3. Giuristi e naturalisti fra letteratura ed erudizione Mentre dalla nativa Atella e dal centro universitario di Napoli un giurista come Vincenzo Massilla passava al servizio di Isabella e quindi di Bona Sforza, offrendo la sua opera di cronista alla corte di Polonia e lasciando un memorabile studio sulla nobiltà barese, da Venosa, e da una medesima famiglia che diede altri illustri personaggi nel campo militare ed ecclesiastico, provengono due esemplari figure di umanisti cinquecenteschi, l’uno versato nel diritto, Roberto Maranta, e l’altro, Bartolomeo Maranta, nelle scienze e nella critica letteraria. Roberto, formatosi a Napoli, ha lasciato soprattutto due volumi ad uso dei giuristi, una raccolta di Disputationes perutiles nonnullarum questionum et conclusionum (Napoli 1532) e un Tractatus de ordine iuditiario, uscito postumo a Napoli nel 1547, opere che rivelano una carriera di professore di diritto, oltre che l’esperienza di un uomo di legge. Bartolomeo, formatosi negli Studi di Napoli e di Pisa e venuto a contatto con Ulisse Aldovrandi, diviene un maestro nel campo della botanica e delle scienze connesse (nel 1558 pubblicava un trattato sul metodo per riconoscere le sostanze medicamentose chiamate «semplici»), ma la frequentazione dell’ambiente accademico napoletano e di personaggi come Berardino Rota e Scipione Ammirato sollecita la sua vocazione letteraria, che si esprime, più che nell’esercizio poeti16 Ivi, vv. 291-294, p. 80: «Questi versi componevo distesamente nella campagna di Venosa, mentre i ragazzi (la cui educazione mi è stata sempre più cara di ogni gloria) mi permettevano il ritorno alla poesia e agli studi, stanco com’ero, e la bacchetta, quello scettro cattivo, era ferma».

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co, nella severa scienza delle lettere. Seguendo il costume letterario umanistico di tradurre in forma dialogica le questioni culturali, egli ambientò nella villa di Ferrante Loffredo, e cioè all’ombra dei ricordi antiquari e virgiliani della Napoli rinascimentale, le Lucullianae questiones, nelle quali si discute della poesia virgiliana assunta a esempio massimo di poesia, ma soprattutto sottoposta a un’analisi minuziosa di ordine retorico, quale corrispondeva alla più avanzata poetica del secolo. Nel 1559 aveva pubblicato a Napoli uno studio sulle acque minerali che scaturivano in quel territorio, indicandone le virtù terapeutiche. Ma stampate a Basilea nel 1564, le Lucullianae questiones entrano in un orizzonte europeo sullo stesso piano della recente e ben più nota Poetica dello Scaligero e risentono di un orientamento verso il manierismo, nel cui segno il gusto del tardo umanesimo volgare fiorente a Napoli si incontrava in certo qual modo con gli sviluppi in senso scolastico della filologia umanistica d’oltralpe. Bartolomeo Maranta non si improvvisò da medico filologo: la sua era una tipica figura di letterato del mondo meridionale, proveniente dagli studi naturalistici e passato attraverso gli ozi letterari dell’accademia, secondo uno schema formativo del resto non dissimile da quello di altri suoi colleghi dello studio pisano con i quali ebbe stretti rapporti, come Aldovrandi. L’indagine virgiliana, che tocca alcuni problemi classici della critica, quali il rapporto fra il poeta mantovano, i poeti arcaici e i moderni, la possibilità di convertire la narrazione epica in genere tragico, il problema dell’unità della favola, quello dell’invenzione e della verisimiglianza, si muove in realtà intorno a un tema fondamentale che investe anche l’area naturalistica, quello della parola e della frase come composizione di suoni capaci di rappresentare, al di là del loro significato, una mutevole gamma di immagini e di affetti. L’articolazione e la combinazione dei suoni, che riguardavano la retorica umanistica in quanto elementi dello stile, vengono viste come stimolatrici di idee sul piano dell’esperienza sensibile17. Non va dimenticato lo stimolo che lo stesso Maranta riconosceva di aver ricevuto da un libro di poetica di Scipione Ammirato, il Dedalione; in quel libro egli aveva potuto trovare indicata l’analogia fra poeta e medico, in particolare il naturalista che cura la febbre come il poeta

17 Cfr. F. Tateo, La critica virgiliana di B. Maranta e l’Ermogene di A. Bonfini, in Tradizione classica e cultura umanistica. Per Alessandro Perosa, Roma 1985, pp. 661-73.

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cura l’iracondia. La problematica risaliva al platonismo e Maranta utilizzava il Cratilo, dove Platone tratta della qualità semantica delle lettere dell’alfabeto, oltre ad Aristotele quando discute della voce o Ermogene di Tarso quando definisce il pregio delle vocali. Anzi proprio sulla linea di quest’ultimo, un retore della tarda antichità destinato a grande fortuna nel Cinque e Seicento, divulgato in Occidente nel secolo precedente da Giorgio di Trebisonda e già utilizzato, fra gli altri, da Giovanni Pontano, si muove la riflessione di Maranta in sintonia con una parte rilevante della critica cinquecentesca. La trattazione tuttavia si complica in una sottile analisi delle analogie fra gli elementi vocali e la realtà naturale, nella convinzione che i suoni esprimano la stessa natura, e si apre a considerazioni di ordine fisico-naturalistico. Virgilio appare come il massimo esempio di questo sistema che mette in relazione i suoni umani con la realtà fisica, per l’ampiezza di documentazione che il corpus della sua opera può offrire. È anche questa una manifestazione di fedeltà virgiliana, ma in effetti la lettura umanistica di Virgilio viene stravolta nel meticoloso e spesso cavilloso rilevamento della sua arte, non intesa più, sostanzialmente, come modello di equilibrio e di varietà. Si riflette in Maranta un modo sostanzialmente nuovo d’intendere l’imitazione, come trasposizione simbolica nel sistema fonico verbale, del sistema della natura fisica e psichica che permetterebbe al lettore attento e sensibile di cogliere al di là del significato della parola il senso più vero, quello che egli chiama vis, distinguendola dalla significatio. Penetrare nel sistema musicale della poesia virgiliana voleva dire per l’esimio naturalista, malgrado oscillazioni e cadute, cogliere i segreti di un linguaggio magico, divinatorio, che aveva spesso conservato la parola straniera o arcaica per non perderne l’originaria forza divina. E infatti gli squarci per così dire «scientifici» che interrompono la trattazione letteraria riguardano anche il versante magico. Un tema caro al folklore meridionale quale quello del morso della tarantola viene inserito nel corso della discussione accademica sulla poesia virgiliana, non solo come uno dei consueti accorgimenti per variare e allentare la tensione del discorso colto, ma per insistere sull’analogia fra medicina e poesia. L’irresistibile voglia di cantare e danzare che suscita la poesia virgiliana, quella bucolica soprattutto, viene accostata alla frenesia della danza e del canto provocata dal morso della tarantola; in tutti e due i casi si manifesterebbe la funzione terapeutica della musica e del canto, che era stata teorizzata

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dalla filosofia antica e veniva recuperata nell’ambito del platonismo rinascimentale. Del morso della tarantola si interessava un altro dotto lucano dell’epoca, rimasto famoso piuttosto per un libro di curiosità storico-scientifiche, il Teatro degli inventori di tutte le cose stampato a Napoli nel 1603. Vincenzo Bruno, originario di Melfi, studiò medicina a Napoli con Baldassarre Anania ed esercitò la professione di medico a Melfi e poi a Venosa, dove fissò definitivamente la sua residenza sposando la figlia di un dottore venosino della rinomata famiglia dei Porfido. Il figlio avuto da questo primo matrimonio lo ritroveremo autore di una favola pastorale. Ma la vena letteraria di Bruno, diversamente da quella di Maranta, rimaneva nell’ambito della professione medica, anche se si rivolgeva, in conformità con l’indirizzo e l’attesa del pubblico dell’epoca, verso le curiosità offerte dalla natura e dalla tecnica. Il Teatro, che ha conservato a lungo la fama di opera interessante per l’erudizione scientifica, è potuto sembrare18 insulso se confrontato con i risultati della nuova scienza o con lavori del medesimo genere ma più selettivi per quel che riguarda le notizie favolose, come il De inventoribus rerum di Polidoro Virgilio pubblicato già nei primi anni del secolo XVI. Si trattava di un genere di divulgazione che aveva alle spalle il settimo libro dell’Historia naturalis di Plinio e che con Polidoro Virgilio forniva una gran messe di informazioni sullo svolgimento delle arti, delle lettere, delle istituzioni e della religione, su cui la censura ecclesiastica era dovuta perfino intervenire, in occasione della traduzione in volgare, per evitare il discredito delle istituzioni religiose. L’opera di Vincenzo Bruno si rifà a questa stessa tradizione registrando seimila vocaboli e indicando l’inventore delle cose relative senza alcuna discriminazione: una nozione filosofica come il vuoto di natura, attribuito alla scoperta di Epicuro, figura insieme al vin cotto, scoperto da Iapet figlio di Noè, personaggi storici sono accostati a personaggi mitici con grande disinvoltura. Ma è appunto il segno di un’epoca e di un gusto diversi. L’affastellamento dei dati, che ha del grottesco, e il vario livello dell’informazione, che comprende fin le cose umili e familiari, rispecchiano l’abbandono dell’erudizione di tipo umanistico, sorvegliata dalla filologia e funzionale alla ricostruzione

18 Cfr. B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, Bari 19532, vol. II, pp. 47-51; A. Quondam, Dal Manierismo al Barocco, in Storia di Napoli, vol. V/1, Napoli 1972, pp. 486-89.

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storica. Anche il maggiore interesse verso argomenti magici e tradizioni popolari riflette la trasformazione di un genere sotto la spinta di un pubblico curioso. I Dialoghi delle tarantole appartengono a questo genere di ricerca. Vi figurano accanto, nell’edizione del 1602, un dialogo Del vivere e del morire e uno scritto sulle pietre preziose e i semplici. Ancora una volta la medicina morale accanto alla medicina naturale. La riflessione sul ben vivere e sul ben morire faceva parte dei più frequentati filoni della spiritualità rinnovata, che rilanciava la meditazione sul destino dell’uomo e sulla sua collocazione nel regno della natura, con cui del resto si concludeva con eloquenza predicatoria, non priva di velleità tragiche, anche il Teatro degli inventori delle cose: che altro è l’uomo, a cui la miglior parte di queste cose è sottoposta, e per cui è fatta, e per cui ha fine, che una mente incarnata, una anima fatigosa, un abitacolo di poco tempo, un recettacolo de spirto, un fantasma di tempo, un speculator della vita, un abbandonator della luce, un passeggier viatore, un moto eterno et un schiavo di morte [...]?

L’indagine naturalistica, che in Maranta e in Bruno era orientata in senso medico e si prestava in tutti e due i casi a sviluppi di carattere letterario, nonostante l’interesse botanico dell’uno ed erudito dell’altro, assume in due personaggi di origine materana una direzione più definibile in senso fisico e dialettico. La non lontana presenza dell’accademia cosentina, dominata alla fine del XVI secolo dalla figura di Bernardino Telesio, promotore di un rilancio dell’aristotelismo scientifico, e gli studi condotti nell’Università padovana, roccaforte dell’aristotelismo, spiegano in gran parte la diversa opzione di Ascanio e Antonio Persio, nei quali pur non mancano significative sortite in campo propriamente letterario. Ascanio Persio, che nacque a Matera nel 1554, studiò a Padova durante l’insegnamento di Jacopo Zabarella e divenne anche maestro nell’Università di Bologna: intervenne infatti nella questione, acuitasi nel Cinquecento, dell’origine delle lingue e in particolare della lingua italiana19. La questione riguardava marginalmente il più largo problema retorico dell’uso della lingua letteraria, ma affrontava uno degli argomenti fondamentali più delicati nel dibattito sulla lingua 19

Cfr. C. Vasoli, Studi sulla cultura del Rinascimento, Manduria 1968, p. 316.

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in un’epoca in cui la superiorità del toscano era sostenuta anche attraverso il principio della sua purezza, ossia della sua più nobile e diretta discendenza dalle lingue dell’antichità. Il Discorso intorno alla conformità della lingua italiana con le più antiche lingue, e principalmente con la greca raccoglie l’esperienza umanistica della lingua greca e latina, ma anche delle parlate regionali nelle quali Persio riscontrava la persistenza del lessico antico. Con tale criterio egli era indotto a legittimare i dialetti non toscani e a rifiutare il principio puristico su cui si impiantava in questi decenni il vocabolario della Crusca. La persuasione della mutevolezza e del necessario accrescimento della lingua, come l’adesione a un modello di lingua italiana, non necessariamente fiorentina, si spiega alla luce della formazione di Persio avvenuta in un ambiente tradizionalmente sensibile ai problemi della lingua ma autonomo rispetto all’egemonia toscana; su questo orientamento dovette influire però anche la sua origine meridionale e il più organico contatto che i centri meridionali conservavano con la tradizione di lingua greca20. Si pensi a un lavoro filologico come l’indice omerico pubblicato a Bologna nel 1597 e alla raccolta di componimenti poetici volgari, latini e greci, dovuti a diversi autori e dedicati alla Santa Imagine dipinta di s. Luca la quale si serba nel Monte della Guardia presso Bologna, cui aggiunse una Historia in dette tre lingue (1601). Lo scritto s’inseriva in una rifiorente letteratura agiografica, di cui esistono esempi notevoli anche in Puglia, che rifletteva i nuovi rapporti fra le sponde adriatiche dovuti alla presenza ormai secolare del pericolo turco e l’esigenza di fare dell’Italia il rifugio non solo della cultura, ma anche della religione dell’Oriente cristiano. Ascanio Persio aveva conservato rapporti con la patria d’origine prima di trasferirsi definitivamente a Bologna. I primi due libri di postille alla critica rivolta da Bernardino Petrella da Borgo San Sepolcro alla logica di Zabarella, intitolati Logicarum exercitationum libri duo, pubblicati a Venezia nel 1585, sono dedicati a Lelio Orsini signore di Gravina e Matera, mentre il terzo libro è dedicato a un patrizio veneziano, Giulio Contarini, e la difesa di Zabarella a un patrizio bolognese, don Giovanni Angelello21. Il fratello maggiore Antonio, 20 Sui riflessi della questione della lingua in Basilicata e in particolare su Ascanio Persio cfr. N. De Blasi, L’italiano in Basilicata. Una storia della lingua dal Medioevo a oggi, Potenza 1994. 21 Sugli aspetti specifici di questa polemica cfr. E. Garin, La Filosofia, Milano 1947, vol. II, pp. 49-51.

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nato nel 1542, tenne più lunghi e stretti rapporti con i signori della sua terra, i duchi Orsini di Gravina, presso i quali fu precettore e dai quali ottenne gli aiuti necessari a proseguire negli studi a Napoli, dove ebbe la ventura di incontrare un maestro come Telesio22. Nonostante si fosse avviato alla vita religiosa entrando nell’ordine dei Minori Conventuali, la sua attività fu tutta dedita alla battaglia in favore del nuovo aristotelismo telesiano e alla sua divulgazione; quando infatti nel 1596 la Chiesa materana gli offrirà il decanato, non si tratterrà nella sede destinatagli e finirà per rinunciare alla carica per attendere ai suoi studi. Come precettore degli Orsini fu nel 1571 a Perugia, dove affrontò la sua prima disputa in difesa del pensiero telesiano scontrandosi con il futuro papa Sisto V, e attraverso gli Orsini entrò a Roma in contatto con Tommaso Campanella nel 1590. Il comune interesse per la dottrina di Telesio fu ancora al centro di questo incontro, se è vero che Campanella affidò a Persio un suo scritto in cui si commentavano alcune teorie telesiane, l’Apologetico dell’origine delle vene, dei nervi e delle arterie e della pulsione, che il filosofo materano curò di far pubblicare in Germania. Rimangono testimonianze rilevanti della presenza di Antonio Persio nel dibattito filosofico dell’epoca, quali la pubblicazione da parte di Manuzio nel 1576 del Trattato dell’ingegno dell’uomo, che raccoglieva il frutto di una vivace disputa sostenuta da Persio a Venezia nell’anno precedente, il grave impegno da lui assunto di pubblicare una serie di opere di Telesio, alcune ricevute direttamente dal filosofo cosentino, altre affidate alle sue cure di editore, la disputa ingaggiata con un personaggio di prim’ordine come Francesco Patrizi in difesa dell’aristotelismo telesiano (Apologia pro Bernardino Telesio adversus Franciscum Patritium), l’amicizia stretta col marchese Francesco Cesi attraverso il quale entrava a far parte della prima generazione dell’Accademia dei Lincei. E fu proprio Cesi a conservare gran parte degli scritti di Persio, fra cui il Trattato dei portamenti della Signoria di Venezia verso Santa Chiesa, che testimonia la tempra di un polemista, ma anche la propensione antiveneziana sulla scia di Campanella, e il De natura ignis et caloris, che riprendeva uno dei temi cari alla riflessione fisica del maestro. 22 Ivi, pp. 124-27; cfr. L. Artese, Antonio Persio e la diffusione del ramismo in Italia, in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria», 46, nuova serie 32, 1981, pp. 83-116; C. Vasoli, Francesco Patrizi da Cherso, Roma 1989.

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Nell’ambiente materano si svolge invece l’attività di un nipote dei due filosofi, nato a Matera nel 1577, Orazio Persio, la cui formazione risente invece più direttamente della cultura napoletana, fra interessi giuridici collegati con la sua professione di avvocato e interessi letterari divisi fra lirica e teatro. Le rime, che non ebbero fortuna editoriale, come buona parte dei suoi pezzi teatrali, drammi pastorali e commedie, partecipano di quell’indirizzo che vedeva nello stesso periodo affermarsi sulle orme di Marino e di Tasso, ma fuori della regione, un altro materano suo coetaneo, Tommaso Stigliani. Giunsero invece alla stampa alcune tragedie di argomento storico e sacro quali il Pompeo Magno e la Santa Dorotea, pubblicate a Napoli rispettivamente nel 1603 e nel 1627, mentre un poema in dodici canti su La vita di san Vincenzo Ferreri usciva a Trani presso la tipografia di Valeri nel 1634. A Napoli fu anche pubblicato nel 1602 Il giuditio di Paris, favola pastorale composta da un figlio di Vincenzo Bruno, Donato Porfido Bruno, la cui cultura, nonostante il genere leggero cui appartiene questa sua opera, appare assai vicina all’erudizione e alla curiosità filosofica paterna. Di qui anche l’ipotesi, giustamente avanzata23, che l’ideazione, se non il completamento del singolare pezzo teatrale, sia avvenuta negli anni giovanili dell’autore, trascorsi sicuramente a Venosa. L’ambientazione bucolica della «favola» s’incontra con il naturalismo di fondo della sua ideazione, che introduce la mitica vicenda iniziata con le nozze di Teti e Peleo e la provocazione da parte della Discordia attribuendole un significato cosmico: il caos iniziale, la discordia degli elementi, l’intervento di Giove e il giudizio sulla bellezza della dea Venere rappresentano una sorta di storia della formazione del mondo dovuta all’armonia della musica e della poesia. Una serie di vicende d’amore intrecciate sullo sfondo pastorale fra personaggi di sapore tassesco come Silvio e Clorinda, personaggi di rilievo comico come Sinone e Berecinzia, amanti in cerca di suicidio come Arpinio, villani spregiudicati come Cavoto, il quale si esprime in dialetto, compongono un groviglio molto simile al pastiche che andrà sempre più di moda sulle scene secentesche. In questo crogiuolo che mescola le situazioni fondate sulla casistica d’amore del dramma pastorale e gli 23 La notizia dell’opera è stata recuperata e il testo ampiamente esaminato da R. Nigro, D. Porfido Bruno, ovvero ironia e polemica sugli stili e sulla lingua tra Cinque e Seicento, in «Bollettino della Biblioteca provinciale di Matera», III, 4, 1982, pp. 53-68.

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interventi tragici di figure simboliche come la Fortuna e il Fato spicca l’uso del dialetto napoletano per dar tono realistico alla presenza del personaggio comico e sottolineare il capovolgimento del codice aulico d’amore. Né va trascurata la mescolanza dei generi, oltre che dei registri, dal momento che la rappresentazione si alterna con la narrazione e con la ripresa perfino di forme liriche popolari come la «caccia». Anche la mescolanza un po’ contraddittoria di linguaggio aulico e dialetto, una sorta di plurilinguismo derivante in definitiva dalla stessa storia della cultura napoletana, che aveva visto la separazione tra esperienza accademica ed esperienza borghese e popolare, proietta quest’opera verso il variegato sviluppo del Seicento «comico» in area napoletana. 4. Manierismo cortigiano e rimeria sacra Sulla linea del manierismo cortigiano24, ma tenendo fede all’umanesimo latino, si era sviluppata intanto la facile vena di Sebastiano Facciuta, entrato tramite il vescovo di Melfi Alessandro Rufino nell’entourage del cardinale Farnese e dedito a versi encomiastici, bucolici ed elegiaci. Siamo intorno agli anni Settanta del secolo XVI (Facciuta era nato da nobile famiglia melfitana intorno al 1543) e la fisionomia politico-culturale della città è mutata. Lo sviluppo degli ordini religiosi dovuto alla Riforma cattolica ha diffuso un clima religioso che investe l’intellettualità della regione, la curia di Melfi esercita un’attrazione anche per merito del vescovo mecenate, legato al circolo farnesiano, e Sebastiano Facciuta giunge alla poesia cortigiana tramite la carriera ecclesiastica; con lui un gruppo di giovani ecclesiastici tenta la fortuna letteraria e professionale mediante versi celebrativi che costituiscono uno dei filoni più ricchi dell’editoria cinque-seicentesca. I numerosi versi di Facciuta non giunsero alla stampa, rimanendo fra le più interessanti testimonianze della civiltà letteraria del Cinquecento e della capacità del latino, affinato alla scuola dei classici e divenuto duttile strumento di comunicazione colta, di sostenere una sorta di perpetuo colloquio fra dotti. Le Ecloghe e i tre libri di 24 Per un quadro ricco e articolato della poesia e della riflessione sulla poesia nell’area napoletana fra Cinque e Seicento, in riferimento alla produzione volgare, cfr. Quondam, Dal Manierismo al Barocco, cit., pp. 291-336.

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Epigrammi25 che si conservano manoscritti contengono lodi per i personaggi della famiglia Farnese e altri personaggi del circolo farnesiano fra cui Fulvio Orsini, ma si alternano in gran parte con carmi di Lorenzo Gambara, recuperando la funzione epistolare che l’uno e l’altro genere hanno avuto nella cultura tardo-medievale e umanistica. I carmi di risposta di Facciuta, artificiosamente costruiti in modo da far corrispondere a ogni verso dell’interlocutore un verso con la medesima parola (per easdem consonantias), sono certamente il segno di un’esercitazione letteraria, ma anche l’indice di una raffinata abilità, di un maturo possesso della lingua latina e anche, forse, della condizione subalterna di Facciuta nei confronti del più rinomato poeta. Simili versi venivano così non solo a rinforzare la celebrazione del Farnese eseguita da Gambara, ma a celebrare lo stesso celebratore doppiando i suoi versi. Il punto di riferimento è sempre la fonte di Caprarola, il luogo dove i Farnese avevano eretto un palazzo e un parco meravigliosi, esempio di potenza e di splendore. Ma il luogo così ricco di bellezze naturali alimentava la vena bucolica, che appare sia nelle egloghe, sia negli epigrammi generalmente impiegati a esaltare una sorta di età dell’oro rappresentandola nei giardini di Caprarola. Si avverte, in questi carmi pur così virgilianamente agghindati, l’eco di quella poesia del giardino che avrebbe accompagnato lo sviluppo del manierismo cinquecentesco. Lympharum levitas dulci sub murmure rivi    Me iuvat ut dicam carmina Farnesio. Dum me delectat cantus audire volucrum    Sentio pegaseam psallere fontis aquam. Nec mirum, lympha est crystallo clarior; o quam    Farnesius gaudet murmure dulcis aquae. Nec minus in sylvis cantans ego numina Phaebes    Virginea laetor virginis ambrosia. Et quam gaudebit puris Optavius undis    Si inspiciet domini insignia tecta mei, Lumine qui solem vincit generosior unus    Lacteque candidior pectora plena tenet. 25 Ne ha dato notizia R. Nigro (Centri intellettuali e poeti nella Basilicata del secondo Cinquecento, Melfi 1979), al quale si deve una descrizione del contenuto della copia manoscritta posseduta dalla Biblioteca nazionale di Napoli (pp. 13133). Ringrazio Nigro per avermi fornito la riproduzione fotografica del manoscritto, dal quale traggo l’epigramma citato.

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Ergo Caprarolae gelidas permessidos undas    Perquire et vitae commoda grata tuae26.

L’invito è rivolto in questo caso a Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, a venire nel paradiso di Caprarola, ma il motivo ricorrente, variato a non finire, è quello della freschezza e limpidezza della sorgente che figura nel titolo della raccolta poetica, quasi un simbolo di vitalità e di poesia, che riassume un ideale edonistico di vita e di cultura. Sembra che Facciuta evochi, qui come altrove, il tono della poesia oraziana, al di là di una possibile gara ingaggiata con l’immagine famosa dell’acqua più trasparente del cristallo, con cui il poeta latino aveva immortalato la fonte Bandusia. Ma nel secolo precedente Melfi, già nobilitata come una delle residenze federiciane, era stata illustrata dalla famiglia Caracciolo, che costituisce uno degli esempi più notevoli della cultura feudale dell’età aragonese. Troiano Caracciolo e il figlio Giovanni, marchese di Atella, sono in rapporto con Tristano Caracciolo, il grande umanista del ramo napoletano della famiglia, il quale scelse proprio Giovanni quale destinatario del suo opuscolo sull’educazione morale, politica e militare del principe (Ad Marchionem Atellae)27, un tema centrale della cultura umanistica che sempre più individuava nel «principe» l’ideale secolare della vita attiva sorretta dall’intelligenza. Giovanni Caracciolo era esperto di testi letterari e scientifici; al padre l’umanista Andrea Matteo Acquaviva aveva inviato la sua traduzione del De virtute morali di Plutarco perché vi esprimesse un parere e con una 26 S. Facciuta, Epigrammi, libro II, Ad Optavium Farnesium Parmae et Placentiae Ducem (da una copia fotografica fornitami da Raffaele Nigro): «Mi piace la leggerezza delle linfe sotto il dolce mormorio del rivo, che mi aiuta a cantare le lodi del Farnese. Mentre mi diletto a udire il canto degli uccelli, sento risuonare l’acqua della fonte quasi fosse quella pegasea. Non mi meraviglio, perché la linfa è più chiara del cristallo; oh quanto gode il Farnese al mormorio dolce dell’acqua. Anch’io, cantando nelle selve il nume di Diana, mi allieto della virginea ambrosia della vergine. E quanto potrà godere Ottavio delle onde pure, se vedrà la nobile dimora del mio signore! Il quale vince per splendore il sole, unico per generosità, e il suo animo è più candido del latte, il suo cuore è colmo di bontà. Perciò cerca le gelide onde di Caprarola, pari a quelle del Permesso, e gli ozi che rendono piacevole la tua esistenza». 27 Cfr. G. Vitale, L’Umanista Tristano Caracciolo ed i principi di Melfi, in «Archivio storico per le province napoletane», serie III, 2, 1963, pp. 343 sgg. L’opera di Caracciolo è edita in T. Caracciolo, Opuscoli storici e inediti, a cura di G. Paladino, in Rerum Italicarum Scriptores, vol. XXII, parte I, Milano 1733.

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dedica al padre e al figlio, lodati per l’impegno profuso nelle lettere, uscì nel 1526 presso l’editore de Frizis ad opera di Pietro Summonte il commentario acquaviviano ch’era appunto un compendio di questioni filosofiche, scientifiche e tecniche28. Una profonda trasformazione sembra doversi perciò registrare fra questo tipo di cultura che affonda le radici nella scolastica, imbevuta di averroismo e tuttavia aperta ai più schietti valori dell’umanesimo pontaniano, e i prevalenti interessi religiosi che rivelano sia Facciuta, sia, ancor prima di lui, nella stessa famiglia dei principi di Melfi, un Antonio Caracciolo con la composizione di rime sacre in volgare29. In realtà non si devono trascurare la presenza del Sannazaro autore del De partu Virginis e della Lamentatio de morte Christi, oltre che di sonetti sulla passione nel primo Cinquecento napoletano, e la relazione che lo stesso Sannazaro tenne con i circoli culturali di Francia interessati alla tematica religiosa della Riforma, per valutare la svolta che si riflette nell’opera del Caracciolo ultimo discendente dei principi di Melfi, costretto all’esilio in Francia dopo la caduta della città nelle mani di Lautrec nel 1528. Antonio Caracciolo era in quel tempo forse un adolescente e le sue prime prove seguirono la scia della poesia cortigiana e perfino erotica del Rinascimento italiano, finché la conversione improvvisa, l’ingresso nell’abbazia di San Vittore, una difficile carriera religiosa che lo vede variamente dislocato fra cattolicesimo e calvinismo, fra le accuse di eresia, l’assunzione al vescovato riformato di Troyes, la vana aspirazione al cappello cardinalizio, ne fanno un tipico intellettuale ecclesiastico non inquadrato perfettamente nell’uno o nell’altro fronte della Riforma negli anni cruciali del Concilio di Trento. Nella tenuta di Chateauneuf, dove trascorse i suoi ultimi anni fino alla morte che lo colse nel 1570, si dedicò forse a raccogliere e in parte almeno a comporre quei versi che ci sono stati tramandati distinti, forse ad opera di una persona a lui vicina, in tre libri col titolo di Rime sacre. Cfr. F. Tateo, Feudatari e umanisti nell’impresa tipografica, in Id., Chierici e feudatari del Mezzogiorno, Roma-Bari 1984, pp. 69-96. In realtà la traduzione originaria del testo plutarcheo, diretta al padre Troiano Caracciolo, si legge nel manoscritto Regin. lat. 1747, che nel catalogo della Biblioteca apostolica vaticana e in O. Kristeller, Iter Italicum, London-Leiden 1963, vol. II, p. 410, figura adespoto, come ho dimostrato in Feudatari e umanisti, cit., pp. 82 sgg. 29 Cfr. B. Barbiche, s.v. Antonio Caracciolo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XIX, Roma 1976, pp. 304-307. 28

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Il soggiorno in Francia e la militanza religiosa sono certo a fondamento di questa poesia che s’inquadra in un filone destinato a una certa fortuna nell’età della Riforma, ma si tratta comunque di un’esperienza che muove dalla matrice petrarchistica, nonostante il livello meno liricamente teso della scrittura. Basti considerare il tono semplice, quasi colloquiale, in cui si esprime il motivo della conversione che si riflette sulla scelta poetica: Io non vo’ più cantar com’io solea né d’amor, né di cose altre profane, Ché le lacrime ch’io per ciò spargea eran dal cielo, ohimè, troppo lontane (Rime sacre, I, 2)30.

Una scioltezza paragonabile a quella dei «rispetti» popolareschi e quasi un’ingenuità espressiva che ben si adatta alla serie di stanze che compongono quasi tutto il primo libro affronta la tematica teologica dell’incarnazione: Questa semenza santa e benedetta uscita d’una vergine pudica, eternamente fu scelta ed eletta dalla bontà divina, al mondo amica, per usar contro a lei quella vendetta che meritò la nostra colpa antica. Così si fe’ mortal quel ch’era eterno per, morendo, disfare il nostro inferno. Volse il Verbo di Dio in carne farsi, a ciò ch’Adamo vecchio, insano e brutto, potesse in sua bellezza trasformarsi, unito essendo col niente il tutto. O misteri di Dio, come narrarsi tanta clemenza può col volto asciutto, come può l’alma peccatrice e immonda sapienza gustar tanto profonda? (Rime sacre, I, 9).

Ma la trascrizione poetica del tema della passione non è così ingenua da non permettere alcune allusioni ai gravi problemi teologici che 30 Le rime sacre di Caracciolo sono leggibili nel codice manoscritto Ital. 1384 della Biblioteca nazionale di Parigi.

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venivano dibattuti, e che rappresentarono per Caracciolo un motivo di disagio nella sua carriera ecclesiastica. Sembra infatti che talora affiori il tema della grazia in termini assoluti, al limite dell’eresia: Il libro che di Morte il rio sigillo tenea serrato, ha il morto Agnello aperto, et quel che in croce col suo sangue aprillo have il tesoro ascoso a noi scoperto. Tal ch’in stato felice almo e tranquillo gl’eletti posti son senza lor merto, et Natura corrotta et peccatrice sen va santificata et infelice (Rime sacre, I, 28).

Né questa idea dell’«elezione» senza merito può assumersi come riflesso di quel pessimismo mistico che aveva avuto da secoli una certa fortuna nella letteratura devota, poiché alcune stanze successive insistono sulla medesima considerazione della salvezza come frutto della mera benignità divina, tacciando di superbia la presunzione di dare spiegazioni razionali della redenzione: Ogni superbia vana et presunzione lieva dal cuor de’ cittadini tuoi, acciò non pensi alcun di dar ragione dell’opre tue, ma de’ peccati suoi. Et avendo di sì cognitioni confessi che tu solo et vali et puoi, et che la sapientia tua infinita la chiave ha della morte et della vita. Tu le tue gratie et le ricchezze doni a chi col cuor confessa esser niente et rimetti le colpe et le perdoni ad ognun che perdon chiede umilmente. Padre benigno, mai non abbandoni chi t’ama et chi ti serve fedelmente, ma noi delle tue gratie ti serviamo et sol del tuo remunerarti siamo (Rime sacre, I, 40-41).

Sicché la notevole icasticità di quest’ultimo verso, in cui l’uomo è concepito come opera della grazia divina, e nient’altro, non pare contraddetto da una puntata satirica, piuttosto convenzionale, contro

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l’ozio («Perché non denno gratie così rare / dagl’uomini otiosi possedersi, / né virtù così degne et sì preclare / nel sonno pigro et nell’inertia aversi»), dove soltanto si evita il fraintendimento volgare del principio della salvezza per mezzo della fede. E si tratta di un passaggio episodico in un discorso serrato che insiste invece sulla debolezza dell’uomo e sull’analogia fra le sofferenze della passione di Cristo che hanno prodotto la salvezza e le spine del peccato che hanno causato la passione. In ogni modo un sonetto della seconda parte, dove pure lo stesso sistema metrico generalmente adottato contribuisce certamente a una maggiore presenza petrarchesca e a un effetto di eloquenza classicheggiante, accoglie limpidamente il tema dell’anima serva del peccato sin dalla nascita dell’uomo, con un notevole aggravamento del tono e del senso delle rime spirituali del modello trecentesco: Poi che dal primo dì ch’al mondo nasce ciascun si truova avvolto, anzi legato, dalla nequitia et natural peccato, prima assai che da’ panni et da le fasce; perché di vana oppenion si pasce che sia in arbitrio suo d’esser salvato, infelice, et non sa ch’egli è dannato, se, nato in carne, in spirto non rinasce, non è segno d’un cuor duro e protervo, d’un animo superbo et arrogante, voler libero dirsi, essendo servo? Ma l’antico serpente, che di tante ruine è causa, ha sparso un tal veleno, miseri noi, a le nostr’alme in seno.

S’inseriscono in questa trama teologica, sensibilmente attraversata dal motivo del «servo arbitrio», i più consueti temi della lirica devota, fra i quali spicca quello della morte che proprio in quei decenni veniva recuperato come nucleo centrale della meditazione religiosa. La trattatistica sulla morte quale sigillo e quasi pietra di paragone della vita, oltre che porta verso l’eternità, aveva in Francia una larga diffusione: in Caracciolo, che dovette risentire di questo clima spirituale, non manca di emergere insieme il tema classico della morte come «uscir di pena»:

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Poi che la morte è fin di tanti affanni, travagli e stenti, onde la vita è piena, poiché morendo l’uom esce di pena, di tante tese insidie et tanti inganni, alma che in questi pochi mesi et anni scorsi, mai non avesti ora serena, perché di veder romper la catena, che legata ti tien, tanto t’affanni?

Se il petrarchismo di fondo di Caracciolo, nonostante fosse ricollegabile a quello dell’area napoletana, si nutriva di esperienze d’oltralpe e costituiva un episodio di un certo rilievo nel travaglio della Riforma europea, tutto circoscritto nell’area lucana fu quello di Isabella, figlia di Giovan Michele di Morra barone di Favale in Basilicata, la quale lo esercitò nel castello di Valsinni, dove rimase rinchiusa fino alla morte. In una canzone alla Fortuna lamentava di dover vivere in un luogo che non si confaceva alle sue aspirazioni: «fra questi dumi / fra questi aspri costumi / di gente irrazional, priva d’ingegno, / ove senza sostegno / son costretta a menare il viver mio, / qui posta da ciascuno in cieco oblio». E in un sonetto indirizzato al padre, che aveva scelto l’esilio di Francia con altri nobili napoletani, confessava l’ansia e l’attesa di cui si sostanziava la sua vita solitaria: «D’un alto monte onde si scorge il mare / miro sovente io, tua figlia Isabella, / s’alcun legno spalmato in quello appare, / che di te, padre, a me doni novella». Eppure tenne rapporti culturali con Alamanni, un petrarchista di primo piano anche lui costretto a esulare in Francia: significativo indizio, accanto a quel che si raccontò di uno scambio di versi e di lettere con lo spagnolo don Diego Sandoval de Castro tramite il suo maestro, di un’esperienza letteraria che non dovette arrestarsi a una limitata educazione di scuola. Ma non si sa molto di lei, né si hanno dati sicuri della famosa tragedia che la vide vittima dei fratelli, i quali avrebbero vendicato il suo presunto adulterio uccidendo il suo maestro e forse il suo nobile corrispondente. La lettura di Petrarca affiora verso per verso nelle poche rime rimasteci31, spesso con un mutamento di senso, 31 Il testo delle rime e le notizie sulla poetessa e su tutta la sua vicenda si leggono in B. Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, Palermo 1983 (il volume riproduce il saggio e l’edizione pubblicati nella «Critica», 1929). Ma sul problema del testo cfr. F. Vitelli, Il testo delle «Rime» di Isabella di Morra, in A. Gra-

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a cominciare da quel presagio di morte enunciato in un sonetto rivolto al fiume Siri, che le faceva venire a mente il fiume dell’oltretomba, dove non il canto «disacerba» il dolore, come nel poeta di Laura, ma la morte libera la poetessa dalla sventura: Torbido Siri, del mio mal superbo, or ch’io sento da presso il fine amaro, fa’ tu noto il mio duolo al padre caro, se mai qui’l torna il suo destino acerbo. Dilli com’io, morendo, disacerbo l’aspra fortuna [...].

Le rime di argomento religioso, dove si avverte l’eco della ventata spirituale che attraversava il mondo cristiano, appaiono sicuramente le più elaborate sulla linea di un petrarchismo avviato verso la maniera propria della lirica meridionale del Cinquecento. Anzi Isabella di Morra rappresenta proprio un esempio di come il petrarchismo penetrasse, a un livello non pedissequo e all’altezza dei tempi, in un angolo riposto della regione lucana, sia pure nell’ambito sociale della nobiltà. È significativa d’altra parte, per inquadrare la dimensione della poetessa, la testimonianza dei suoi rapporti intellettuali con un poeta della statura di Luigi Alamanni. Anche in Isabella Morra il tema della passione, con la centralità della figura di Cristo, prende il sopravvento e trasforma la confessione e la preghiera petrarchesca in un fervido inno religioso che attinge i toni del misticismo platonizzante. La poetessa prende le mosse dalla canzone alla Vergine del grande modello trecentesco per variarne lo sviluppo in due distinte canzoni fondate su un medesimo schema, l’una dedicata alla bellezza di Cristo, l’altra alla bellezza della Vergine. Più che il travaglioso desiderio di espiazione e la consapevolezza del limite che guida la lirica spirituale di Petrarca si afferma in Isabella la celebrazione della divina bellezza cui l’anima si eleva attraverso il disgusto del mondo terreno. Ne scaturisce una sorta di trasfigurazione nese, S. Martelli, E. Spinelli (a cura di), I Gaurico e il Rinascimento meridionale. Atti del Convegno di studi, Salerno 1992, pp. 445-63. Rimando al mio saggio su Le liriche religiose di Isabella Morra, in Isabella Morra e la Basilicata. Atti del Convegno di studi su Isabella Morra, Matera 1981, pp. 41-53, e per la bibliografia a Vitelli, Il testo delle «Rime», cit.

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della poesia amorosa, ripresa perfino in alcuni suoi elementi lessicali e strutturali che costituiscono la «loda», in poesia spirituale: Signor, che insino a qui tua gran mercede, con questa vista mia caduca e frale, spregiar m’hai fatto ogni beltà mortale, fammi di tanto ben per grazia erede, che sempre ami te sol con pura fede, e spregie per innanzi ogni altro oggetto, con sì vivace affetto, che ognun m’additi per tua fida amante in questo mondo errante.

Petrarca chiedeva soccorso per la sua anima che si era fatta irretire da una cosa mortale; Isabella invoca Cristo perché, avendogli fatto già la miracolosa grazia di farle disprezzare la beltà mortale pur con la vista «caduca e frale» di cui disponeva, gli faccia ora l’altro miracolo di riuscire a ritrarre con ingegno e mano mortale la sua figura che è fattura divina. «Caduco e fragil» era in Petrarca (Canzoniere, 350) il bene che «ha nome beltade». È un esempio di trasposizione concettosa di attributi in un passo che assume il modello petrarchesco per modificarne il contenuto tematico, cioè non per variarne soltanto l’elocutio, ma per incidere sull’inventio. Un’amorosa, ma tormentata lettura del testo petrarchesco quella della poetessa lucana, che non si uniformava alle più raffinate scelte stilistiche del bembismo, ad esempio nella selettività della rima e nella sintassi del verso, ma dimostrava altrettanta consapevolezza d’elaborazione. Quello di Antonio Caracciolo, come quello di Isabella Morra, sono casi singolari anche se inquadrabili nella più generale fortuna del petrarchismo. In effetti, la Basilicata partecipa alla storia della lirica italiana attraverso autori di rime petrarchesche che si collegano realmente o idealmente a quella importante stagione che è il bembismo napoletano. Autori più noti, come quell’Alessandro Flaminio di Tricarico che tenne rapporti con i petrarchisti napoletani e con Ammirato ed entrò nella fortunata silloge di Rime di diversi illustri signori napoletani pubblicata a Venezia nel 1552, o rimasti quasi sconosciuti, come ad esempio Pierangelo Pierio di Matera, morto forse nel 1554, il quale scrisse rime cortigiane accanto a orazioni encomiastiche. Non è questa la sede per dilungarsi su un notevole letterato originario di Saponara, Pietro Antonio Corsuto, che partecipa con il dialogo Cape-

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ce alla polemica fra difensori di Tasso e di Ariosto, schierandosi per il primo, denigrando il linguaggio dantesco e osteggiando le posizioni della Crusca proclive a recuperare il livello «popolare» del fiorentino. La scelta rispondeva all’orientamento dell’aristocrazia colta napoletana e l’autore è tutto proiettato in quell’ambiente intellettuale che partecipa alla definizione aulica della lingua letteraria italiana. Allo stesso modo non sarà il caso di soffermarsi su Tommaso Stigliani, che allontanandosi dalla sua Matera seguì un percorso tutto «italiano», scontrandosi con Marino più sul piano teorico che nella prassi manieristica, la quale continuava sostanzialmente la tradizione lirica napoletana, pur senza che vi si possa riconoscere un particolare vincolo con il suo paese. 5. Da Luigi Tansillo all’Accademia venosina Il fenomeno letterario più tipicamente riconducibile alla storia della Basilicata rimane quello dell’Accademia venosina fiorita alla fine del Cinquecento in un momento critico della scrittura poetica e del costume letterario non solo italiano. Il fenomeno, che ha tutte le caratteristiche dell’evento provinciale e che certamente si connette con il riflusso secentesco verso la memoria locale e con la crisi del Rinascimento umanistico, laddove ne sembra e ne vuol essere una rinnovata manifestazione, si vale comunque di quella tradizione cui si è accennato all’inizio, e certo di un ambiente costantemente sensibilizzato alla produzione poetica. È significativo infatti che l’accademia nasceva dopo che un poeta di notevole statura come Luigi Tansillo32 aveva risuscitato a Venosa l’orgoglio di essere la città di Orazio. Con il ricordo del poeta latino iniziava la rassegna delle «persone letterate della città di Venosa» Jacopo Cenna, autore di una Cronaca compilata nella prima metà del secolo XVII. Nato nel 1560, e figlio di Ascanio, un giurista letterato i cui componimenti italiani e latini trovarono posto in raccolte di versi encomiastici, si era cimentato in un Poema heroico su la guerra fatta in questo Regno di Napoli tra la terra di Cidignola e Barletta per discacciare i Francesci da questo Regno di Na32 Per una completa informazione critica e bibliografica cfr. di R. Cremante la voce del Dizionario critico della letteratura italiana, Torino 1986, vol. IV, pp. 239-42.

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poli. La Cronaca ha il merito di dare un certo spazio a notizie sulla vita culturale della città, culminata nella costituzione dell’Accademia dei Piacevoli nell’ultimo decennio del secolo. La rassegna cominciava da Orazio, «honore perpetuo e grandezza della sua patria, che da tutti scrittori, per la diversità dei suoi poemi, è tenuto averne pigliato il primo loco tra poeti lirici», e dopo aver ricordato Eustachio da Matera, del quale rivendicava l’origine venosina, segnalava il primato moderno di Tansillo, soffermandosi sulle testimonianze che lo legavano alla città di Venosa: gli argomenti del poema sulle Lacrime di S. Pietro composti a Venosa da Giambattista Attendolo, il ricordo della propria nascita e del tributo di affetto rivolto alla città che gli era stata culla («il che ne’ versi miei talor non tacqui»), la preghiera rivolta a don Pietro di Toledo di «liberare» la sua città natale, la rappresentazione di un’ecloga fatta recitare a Venosa «con gran stupore dell’ascoltanti». In effetti, fra tanti scrittori che nei secoli XV e XVI sono partiti dalla regione lucana per esprimere altrove la loro personalità, o che rimasti in Lucania hanno sostanzialmente partecipato a fenomeni culturali diffusi tutt’altro che definibili entro i limiti regionali se non per la ridotta risonanza della loro opera, Luigi Tansillo è quello che a maggior titolo può rientrare in una storia della Basilicata. Forse la suggestione della patria oraziana non ha giocato soltanto nel giudizio di quei critici che hanno inteso accostare al grande poeta latino il carattere cronachistico e autobiografico, i modi discorsivi, perfino la prosaicità di molta parte della poesia tansilliana33, ma ha agito sullo stesso poeta nella scelta di un genere quale i Capitoli, che tradizionalmente presumevano riprodurre in terza rima, come nelle satire ariostesche, l’immediatezza e lo scarso formalismo stilistico della conversazione. Certo i Capitoli, composti fra il 1537 e il 1552 e rimasti inediti fino all’Ottocento, oltre a riprendere direttamente qualche spunto oraziano, si collocavano sulla scia di certa poesia satirica e bernesca, che a sua volta ricorreva anche al modello dell’Orazio dei Sermoni e delle Epistole34. E le Stanze a Bernardino Martirano del 1540, una confessione e narrazione delle noie dei viaggi per mare al seguito di don Garcia di Toledo, al di là del ricorrente encomio per il suo signore, Cfr. anzitutto B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1967, pp. 357-68. Cfr. F. Tateo, s.v. Italia, in Enciclopedia oraziana, Roma 1996, vol. III, pp. 570-77. 33 34

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contengono il medesimo approccio per così dire realistico alle cose viste e alle impressioni provate. Questa disposizione dello scrittore sembra dissolversi nelle opere sue più fortunate e apprezzate, quali le Rime35 e il poema sacro sulle Lacrime di S. Pietro, forse perché convergenti col gusto egemone dell’epoca, il petrarchismo manieristico e la poesia sacra, che ne fanno quasi un poeta diverso, proiettato verso gli sviluppi secenteschi. Invece la sua precoce ispirazione giovanile non può essere intesa, come i Capitoli e le Stanze, senza un riferimento alla sua terra, nonostante fosse sollecitata dalla lettura della poesia bucolica e naturalistica di Sannazaro e Pontano. Nato a Venosa da padre nolano nel 1510, Tansillo trovò infatti accoglienza presso l’aristocrazia napoletana e una collocazione dignitosa nella corte del viceré forse anche per merito dei suoi primi lavori, i quali ebbero fortuna perché potevano essere fruiti dal gusto cortigiano sia per lo svago di società, sia per il divertimento osceno, ma in effetti nascevano dalla mitizzazione del mondo rusticano nelle forme della bucolica e della georgica, con un certo paganesimo di fondo che ha piuttosto un simbolismo naturalistico. L’egloga I due pellegrini, scritta a diciassette anni, riproduce la situazione dell’Arcadia sannazariana con uno sviluppo in senso scenico per diretto influsso della Cecaria di Marcantonio Epicuro, lo scrittore abruzzese che aveva convertito nella forma della tragicommedia la struttura dialogica del carme pastorale. Perciò l’opera fu qualche anno dopo, nel 1538, rappresentata in occasione di un banchetto offerto da don Garcia ad Antonia Cardona. Ricalcando con intenzioni autobiografiche la situazione dell’Arcadia, Tansillo faceva del mondo pastorale il luogo della sofferenza, dove i due pastori protagonisti rappresentano due specie diverse d’infelicità d’amore, quella derivata dall’abbandono e quella derivata dalla morte della donna amata, e additava nella città di Nola, nobile di tradizioni storiche e sede di un mecenate eccezionale, la dimora che potrà accogliere e consolare gli addolorati amanti-poeti-pastori. Si rispecchia in questo motivo buco35 Il Canzoniere edito e inedito, secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe, introduzione e note di E. Percopo, 2 voll., Napoli 1926, è stato riprodotto a Napoli 1996 (vol. I, Poesie amorose, pastorali e pescatorie, personali, famigliari e religiose; vol. II, Poesie eroiche ed encomiastiche, con l’edizione delle carte autografe di E. Percopo, a cura di T.R. Toscano). Sul petrarchismo cfr. G. Petrocchi, L. Tansillo e il petrarchismo napoletano, in Storia di Napoli, vol. V, cit., pp. 291-310.

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lico, che ha un antico modello nella prima egloga virgiliana, la vicenda tipica del letterato di provincia che aspira a entrare nella cerchia del potere: la campagna viene idoleggiata come ispiratrice degli affetti, ma fonte di pena. Il Vendemmiatore, che risale al 1532, trasferisce invece nei termini della coltivazione della vite la vicenda erotica, con una dovizia di doppi sensi che rasentano l’oscenità, se non fosse per la trasfigurazione mitica con cui è trattata l’origine della pianta, e soprattutto per una sorta di naturalismo che fa dell’erotico il simbolo della vitalità, rifacendosi certamente a una tradizione agricola e alla consuetudine carnevalesca dei fescennini. Si spiega con questo spirito carnevalesco la condanna della «vergogna» con cui si conclude l’opera e che da una parte capovolge l’elogio del «pudore» e dall’altro trasforma comicamente la più tragica riflessione che in un Tasso faceva esaltare e rimpiangere l’età dell’oro, il mondo puro della natura intatta dove appunto non esisteva il «pudore»: Vattene via Vergogna, vatten via, ch’altro color che’l tuo vo’ che ne copra! Seguite il suon dell’alta voce mia, voi che di Bacco esercitate l’opra: cacciam da noi questa malvagia e ria, che i vostri e i mie’ tesor non vuol ch’io scopra! Vattene via, Vergogna aspra e severa, cagion ch’ogni piacer nel mondo pèra36.

Il gusto bucolico e georgico, in cui s’incontravano le letture e i ricordi, e forse le esperienze della giovinezza, sarebbe rimasto il fondamento di gran parte della poesia di Tansillo, dalla Clorida, il poemetto che descrive i giardini del suo signore con una sorprendente cura nel considerare la varietà dei fiori e dei frutti37, al Podere, che assume una definita forma didascalica fino a contemplare ragioni di ordine economico. Nel luogo della sua giovinezza, frattanto, l’intellettualità locale avrebbe costituito, secondo la consuetudine dell’epoca, l’Accademia

36 L. Tansillo, L’Egloga e i Poemetti, introduzione e note di F. Flamini, Napoli 1893, p. 82. 37 Su questo poemetto e sui Due pellegrini rimando alle pagine che ho dedicate al tema del giardino e alla poesia pastorale di Tansillo in Chierici e feudatari del Mezzogiorno, cit., pp. 120-25.

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dei Piacevoli nel 1592 e all’estinguersi di questa, nel 1612, l’Accademia dei Rinascenti38. Giacomo Cenna attribuiva la nascita della prima a un incontro fra Scipione de Monti e suo padre Ascanio, e all’adesione di una serie di letterati, di cui riferiva anche il nome accademico ma non era in grado di fornire la documentazione di un’attività che sarebbe stata invece intensa. La presenza del de Monti, attivo nella Napoli illustrata dalla grande Accademia degli Oziosi, indica che quella venosina nasceva in effetti come una filiazione, o almeno come un’imitazione, dell’insigne fenomeno della capitale. La nuova Accademia dei Rinascenti nasceva invece ad opera di Emanuele Gesualdo, quindi col favore della famiglia feudale di Venosa, che aveva avuto nel principe Carlo un insigne autore di madrigali ed esperto musicista. Nello stemma dell’accademia, il baco da seta con la scritta «Imbuet alas», convergeva il concetto ormai consolidato della renovatio sia culturale che spirituale, forse con un’allusione all’opera poetica intesa come liberazione dai vincoli del corpo. Il sonetto che illustrava la cosiddetta impresa accennava infatti ai pregi della poesia: L’animal rinascente et immortale Che da piccolo seme in sen portato Esce verme gentile e forma, nato, Carcer pietoso alla sua spoglia frale, Dedal novello, indi poi spiega l’ale Per volar no, ma per poggiare ornato Oltra i confini del mortale stato, Schermendo della morte il fiero strale [...].

Nelle riflessioni degli accademici, come anche in un Discorso della poesia di Giacomo Cenna, non mancava il ricordo di Orazio, della sua Ars poetica che le poetiche del Cinquecento avevano in vario modo utilizzato e fuso con i precetti aristotelici, ma soprattutto nel resoconto che Cenna faceva degli incontri fra i letterati non mancavano l’identificazione dell’Accademia venosina con il mitico Parnaso e il tra38 Tutta la vicenda è narrata da Jacopo Cenna nella Cronaca venosina pubblicata da G. Pinto dal manoscritto conservato nella Biblioteca nazionale di Napoli, Trani 1902. Delle parti del manoscritto relative agli atti accademici che Pinto ha tralasciato ha dato notizia offrendone anche una larga trascrizione R. Nigro in Basilicata, cit. e in Centri intellettuali, cit.

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vestimento pastorale del ritrovo accademico. L’accademia rinnovava la poesia antica, ma il suo narratore rinnovava l’Arcadia sannazariana con i poeti che si esibivano e il coro degli ascoltatori che faceva eco fra commenti e approvazioni. Non si sa fino a qual punto il racconto fosse cronaca e fino a qual punto fosse una ricostruzione fantastica di luoghi poetici. Certo la celebrazione della cittadina apparteneva a quel fenomeno, caratteristico del XVII secolo, di recupero dell’identità locale, in questo caso mediante l’orgoglio di aver serbato intatte le consuetudini del mondo pastorale: Piacquero molto alli signori Accademici li sopradetti versi e li lodarono molto, et ordinorno che per alcuni giorni stessero in detta quercia appesi, dove concorsero molti gioveni innamorati e ciascuno in detta quercia scriveva il nome della sua innamorata, sì che in breve detta quercia fu piena di tutte le belle donne di Venosa.

TRADIZIONI AGIOGRAFICHE FRA SCRITTURA MONASTICA E PITTURA RUPESTRE di Giovanni Battista Bronzini La documentazione scritta dell’agiografia medievale lucana è piuttosto esigua. Il filologo romanzo Antonio Viscardi, delineando negli anni Quaranta la geografia agiografica italiana dell’alto Medioevo, accennava solo a due traduzioni latine eseguite in Lucania, di passioni bizantine, riguardanti i santi siciliani Luca (morto nel 997) e Vitale (morto nel 994), composte non molto tempo dopo il loro effettivo martirio. Per il duplice intento che lo studioso, da storico della cultura più che da mero critico letterario, si proponeva: di far emergere l’alto tasso di latinità che pervade la nascita delle lingue e letterature romanze e di misurare il livello di arte retorica anche nei testi agiografici, al pari che in quelli diplomatici ed epistolari, egli rilevava il grado notevole raggiunto dalla scrittura latina nella Lucania del secolo XII, sottolineando l’osservanza del cursus nella traduzione della vita di san Vitale, eseguita all’incirca nell’anno 1194 a uso liturgico e dedicata a Roberto vescovo di Tricarico. Ecco un saggio del prologo: Cum sitis varijs ac diversis, eruditissime praesul Roberte, fertilium agrorum floribus assueti; mirari non desino incultis et insipidis hortuli mei vos oleribus delectari. Nam claris Doctoribus praetermissis, imperitiam meam instanti compellitis iussione: ut vitam, conversationem et actus sanctissimi Confessoris, et praecipui eremitae Vitalis, quoque ordine ab aliquibus personis gloriosum illius corpus fuerit Armentum deductum, ex opaca Graecorum silva transferam in Latinum […] quatenus tempore nostro splendeat1. 1 Riporto integro e corretto il passo trascritto da A. Viscardi, Le origini, Milano 1942, pp. 324-25, lasciando il corsivo che segna il cursus.

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1. Il bifrontismo bizantino-latino La geografia agiologica culturale, in sincronia e in sintonia con quella agiografica testuale, presenta nei secoli IX-XI un analogo bifrontismo bizantino-latino, in coincidenza con il periodo di più stretto incontro e intreccio delle due culture in campo scritturale, iconografico, ideologico e devozionale. L’estensione dell’area bizantina nei suddetti secoli a zone della Puglia e della Lucania quali la Terra d’Otranto, la Terra di Bari e le valli del Basento e del Bradano, dorsali della Basilicata, con le civitates di Gravina, Matera, Tricarico e Tursi, provocò un dirottamento della tradizione calligrafica dominante da più secoli nell’Italia meridionale, e facente capo allo scriptorium di Montecassino, verso una tendenza mista o giustapposta, greca-lombarda-beneventana, che si riscontra in documenti pugliesi, come nel famoso Exultet I (1025), inno pasquale della basilica di San Nicola, il cui amanuense «vergò nei margini [...] in capitali greche i nomi dei Santi rappresentati nei vari medaglioni del rotolo», come nelle epigrafi apposte agli affreschi delle chiese rupestri materane, che quasi sempre si limitano alla scrizione del nome del santo. La maggioranza di queste epigrafi è in lingua latina. Poche sono quelle espresse in caratteri greci. E ve ne sono alcune in cui le due scritture si fondono. In un affresco della chiesa di San Falcione, che rappresenta la scena della presentazione al tempio, l’iscrizione, posta su un cartello tenuto dalla profetessa Anna, presenta lettere greche mescolate alle latine; nell’affresco absidale della Madonna della Croce, oltre ad alternarsi caratteri latini e greci, vengono latinizzate le desinenze dei vocaboli greci: «Agelus Gabriel Agelus». Vi corrisponde l’alternarsi di forme greche e latine nell’architettura delle chiese rupestri materane, i cui caratteri ed elementi distintivi più appariscenti sono: l’orizzontalismo delle costruzioni di alcune chiese sicuramente latine; nell’interno la presenza dell’iconostasi tra il posto dell’officiante e lo spazio riservato ai fedeli (separazione ispirata alla tendenza aristocratica propria di Bisanzio nel predisporre il rito religioso), tramezzo dal tipo semplice a muretto (San Nicola a Chiancalata, Sant’Agnese, San Nicola dei Greci, Cappuccino Vecchio, Santa Lucia alle Malve, cripta del Vitisciulo, San Francesco a Chiancalata) al tipo più complesso, costituito da due ampie arcate delimitanti l’aula (San Falcione e San Vito) o col piano rialzato del

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bema (cripte di Pandona e del Canarino); e poi la vera e propria pergula, che si richiama a moduli paleocristiani, in Santa Barbara, Santa Lucia e San Gregorio. Molteplici sono, altresì, i segni di questo bifrontismo, che rappresenta una varietà assunta dall’arte bizantina in remote province d’Italia2, rilevabili e in gran parte rilevati nelle pitture murali delle chiese rupestri di Matera3. In alcune di tali pitture è evidente il contrasto tra la fissità dello sguardo, la frontalità delle figure e una certa libertà di composizione riscontrabile nel volto e nelle vesti dei santi. Di tal tipo sono anche le pitture posteriori alla conquista normanna. Solo dal XIV secolo in poi s’instaura il tipo toscano, irradiato per l’Italia meridionale dalle scuole campane, in cui predominano il senso reale del colore e la corporeità del personaggio. Anche il contenuto si amplia: l’immagine sacra si appropria dei segni che si riferiscono alla vita, per lo più romanzesca, del santo o della santa, segni corrispondenti ai motivi più caratteristici della leggenda. Così, per esempio, santa Barbara, nella chiesa di San Nicola dei Greci, è rappresentata (secolo XII) in modi tipicamente bizantini, con figura frontale, fissa, immobile, non diversamente da altre sante, riconoscibile dunque solo per l’iscrizione; mentre in pitture dei secoli successivi la santa appare in atteggiamenti mossi e ornamenti arabizzanti, propri dello stile tosco-campano, ed è accompagnata da scene ed episodi allusivi alla sua leggenda: il pastore che vide fuggire, per volere divino, la santa rincorsa dal padre che voleva ucciderla; la torre merlata, sostenuta sulla mano sinistra, con le tre finestre, da lei fatte costruire, indicanti la Trinità simbolo della sua fede, per cui subì il martirio. Non è dubbio che la torre con le tre finestre appartenga alla componente favolosa o romanzesca della leggenda greca, formatasi forse già nell’VIII secolo, priva tuttavia di elementi sicuramente storici che possano farci ritenere che la santa sia realmente vissuta, sì che non è improbabile che

Cfr. P. Toesca, Il Medioevo, vol. X, Torino 1965, pp. 419-20. Per la documentazione fa testo il volume del Circolo La Scaletta, Le chiese rupestri di Matera, Roma 1966. Cfr. la presentazione di G.B. Bronzini, Significato di una scoperta: storia arte e cultura nelle chiese rupestri di Matera, in «La rassegna pugliese», 3, 1968, pp. 279-305. Il recupero in loco compiuto dalla Scaletta (nome ormai simbolico di un’impresa culturale tra le più significative del secondo dopoguerra nel Mezzogiorno d’Italia) ha un precedente bibliografico nello studio di B. Cappelli, Le chiese rupestri del Materano, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 26, 1957, pp. 223-89. 2 3

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santa Barbara debba subire la sorte di santa Filomena, cancellata dal calendario ecclesiastico ma fortemente radicata nel culto popolare. C’è tuttavia un gruppo di affreschi che rivelano soltanto una tenue influenza del linguaggio iconografico orientale ed esprimono la tradizione latina in tutta la sua viva plasticità. Vi primeggiano i dipinti della cripta del Peccato originale, che sono tra i più antichi (databili tra l’VIII e il IX secolo) e tra i più interessanti. Essi riflettono, nella carica espressiva volta a umanizzare i personaggi (la Madonna con due ciocche di capelli è di tipo occidentale), un’arte chiaramente romana, calata nello stampo formale orientale, evidente nella fissità bizantineggiante delle triarchie, nella sfarzosità degli abiti imperiali della Madonna, effigiata come Basìlissa. Le precise corrispondenze rilevate da Rizzi4 con gli affreschi di Santa Sofia a Benevento e soprattutto con quelli di San Vincenzo al Volturno ci riportano al periodo della massima potenza longobarda, durante il quale continua si fece sentire la presenza benedettina. Il collegamento con gli ordini religiosi influenzò la scelta dei santi e delle sante raffigurati. Ai santi della Chiesa greca si affiancarono quelli della Chiesa latina o latinizzati, come san Nicola, la cui immagine ricorre più volte sulle pareti delle chiese rupestri materane: il suo culto, irradiato da Bari in tutta Europa, dovette trasmettersi direttamente alla contigua zona materana. Mancano – fatta eccezione per gli affreschi della cripta del Peccato originale e per quelli tardi (secolo XVII), di fattura popolare, della chiesa di Sant’Eustachio, che narrano i principali episodi della leggenda del santo – veri e propri cicli narrativi, come si trovano invece nelle chiese rupestri di Terra d’Otranto e della Lucania occidentale5: altro indizio del carattere itinerante del monachesimo nel Materano, che non permise il fiorire di un’epica figurativa stanziale. La devozione per i santi a cui sono dedicate le chiese ci viene comunque confermata da tradizioni religiose popolari di lunga trasmissione orale e cerimonializzazione rituale, in taluni casi anche da testimonianze medievali di altro ambito culturale. Un santo che dovette godere di una particolare devozione nella società contadina

4 Cfr. A. Rizzi, Le chiese rupestri di Matera, in «Basilicata», 11, maggio-giugno 1967, pp. 53-54, in particolare p. 54. 5 Cfr. C.D. Fonseca, Civiltà rupestre in terra jonica, Roma 1970.

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e pastorale lucana fu san Martino. Sono a lui dedicate una chiesetta ipogea nel rione Lombardi, al vico I dei Fiorentini n. 8, nel Sasso Barisano, e una misera cappella del tipo di quelle dei casali (secoli XIV-XV), che sorge nella contrada omonima costeggiante la Gravina di Picciano. Verso la metà del Quattrocento il parroco della chiesa di San Martino di Stigliano, probabilmente uno stiglianese (giacché prima del Concilio di Trento le parrocchie venivano di solito assegnate a preti locali), tal Petrus de Zupo, interessato a ricercare l’agiografia del santo della sua parrocchia, compilò a Stigliano o a Firenze (nel capoluogo toscano poté forse soggiornare in occasione del Concilio ecumenico del 1439) un volgarizzamento della Vita Sancti Martini di Sulpicio Severo e lo inserì fra sermoni, precetti, laudi e preghiere, trascritti pare dalla stessa mano, in un codice del XV secolo (il manoscritto 2624 della Riccardiana), che ci offre, benché frammentaria, la prima e unica documentazione del volgare in Lucania6. L’arrangiamento (che si configura come un «fai da te») del prete e parroco stiglianese, come l’asprezza che mostra nelle sue linee essenziali (grafia, fonetica, morfologia) la struttura dell’antico lucano, rappresentano segni di una cultura contaminata e instabile. Questa ebbe, per quanto riguarda il fenomeno artistico e religioso, la sua forza primigenia nel monachesimo basiliano, quindi ricevette impulso in quello benedettino e si sviluppò nell’attività monastica dei nuovi ordini dei Francescani e dei Domenicani, che coincise con l’avvento svevo e angioino, allorché i religiosi, impadronitisi di terre e ritiratisi in città, dove fondarono i nuovi monasteri, lasciarono laure e cenobi all’uso e alla devozione dei rustici, i quali furono a loro volta attratti a seguire le orme dei monaci orientali, condividendo l’aspirazione a un’esistenza celeste migliore dopo una vita terrena grama e frustrata. Alla base di questa serie variegata di popoli e di monachesimi che si sono susseguiti in Lucania nel Medioevo c’è un denominatore comune, stabile e nello stesso tempo mutato per opera dell’uomo. Esso è costituito dall’ambiente naturale e dal paesaggio. L’aspetto geofisico della Murgia non è un elemento marginale e casuale, ma rappresenta la componente fondamentale del monachesimo materano nelle varie fasi della sua evoluzione dall’alto al basso 6 Cfr. M. Braccini, Frammenti dell’antico lucano, in «Studi di filologia italiana», 22, 1964, pp. 205-362.

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Medioevo. È stato rilevato che la similarità della natura geologica fra le terre di origine dei monaci sopravvenuti dall’Oriente, in particolare dalla Cappadocia, e il dorsale murgiano lucano-pugliese, l’analogia del modo di vivere, l’uguale tecnica litotomica (le chiese furono scavate con lo stesso sistema con cui venivano scavate le case) spinsero le comunità monastiche a fermarsi sugli spalti del torrente Gravina, tra una popolazione già adusata a un trogloditismo «dettato da ragioni pratiche ed economiche» che «divenne un trogloditismo di natura e finalità religiose»7. Nomen omen, dice una fortunata formula paronomastica latina per indicare la corrispondenza fra nome di persona o cosa e le sue speciali qualità o funzioni, in prevalenza magiche e soprannaturali. Una consequenzialità sancita dal diritto (Institutiones di Giustiniano) esprime la frase Nomina sunt consequentia rerum, citata anche da Dante (Vita nuova, 13, 4). Il significato di roccia è contenuto negli etimi di Murgia (da murex, attestato prima del Mille) e di Gravina, che ha nel Mezzogiorno valore toponomastico, da gravena derivato dal mediterraneo grava, risalente alla radice gar-, «gola rocciosa», comune al nome del promontorio Gargano nel Nord della Puglia. Questo mostra affinità fisica e parentela mitica col celebre personaggio di Rabelais, Gargantua, che delinea la figura di un maestoso gigante dalla profonda gola, conforme alla roccia che l’ha plasmata. Alla medesima radice si rifanno i grabilioni, in dialetto guarvigghioni8, indicanti sempre rocce attraversate da acqua: elementi di culto animistico nelle religioni primitive e di grande attrazione ascetica nelle religioni superiori. Tali cavità bene si predisponevano alla funzione pratica di nascondigli o ripari abitativi per i primi insediamenti monastici e a quella economica di stalle o depositi granari a cui venivano adibite. Per la mentalità primitiva, a cui si adeguavano i monaci itineranti, il sacro e l’economico coincidono. Alle isolate immagini del Cristo Pantocratore, della Madonna e dei santi dipinte sulle pareti rocciose delle chiese basiliane e pseudo-basiliane dei Sassi di Matera fanno contrasto stupefacente – e pongono complessi problemi di provenienza e cronologia, oltre che di attribuzione – i cicli santuali raffigurati nelle cripte del Vulture, di cui fa da

7 Cfr. Cappelli, Le chiese rupestri, cit., p. 284; Id., Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani, Napoli 1963, cap. I, pp. 11-33, in particolare p. 19. 8 Cfr. M. Morelli, Storia di Matera, Matera 1963, p. 21; R. Giura Longo, Le origini ed il popolamento dei Sassi di Matera, Roma 1966, p. 5.

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campione privilegiato, per essere «la più organica dal punto di vista strutturale», quella di Santa Margherita, sita in prossimità di Melfi9. Vi troviamo raffigurati gli episodi principali della vita e del martirio della santa, compresi quelli che la critica agiografica ha giudicati del tutto fantasiosi, come il suo duplice incarceramento con l’apparizione del demonio in forma di gigantesco drago, dal cui ventre ella esce miracolosamente indenne, in corrispondenza con la tradizione orale che tramanda la relativa leggenda in prosa e in versi, tuttora diffusa nelle regioni dell’Italia centrale e meridionale10. 2. L’occidentalizzazione dello stile Lo stile nordico, e talvolta propriamente gotico, con cui sono state ritagliate le immagini nella suddetta cripta di Santa Margherita, è più sicuramente rilevabile nelle Storie di santa Lucia dell’omonima cripta melfitana, datate su un’iscrizione al 1292. La galleria di santi e sante che si snoda lungo gli assi verticali e orizzontali, nonché sulla volta, della cripta (san Michele arcangelo, Madonna in trono con Bambino, san Giovanni evangelista, san Nicola, san Giovanni Battista, sant’Andrea, santa Lucia e santa Caterina), pur nella fissità per lo più frontale delle figure, implica per ognuna un movimento narrativo, col segno del suo martirio o il simbolo della sua santità, in corrispondenza con la rispettiva tradizione orale e cultuale che si è localmente formata e radicata. La cui osservazione ha indotto una giovane studiosa, attenta e preparata, la già citata Pia Vivarelli, ad allineare alla fine del XIII secolo e oltre tutte le espressioni figurative dell’alta Basilicata, concentrate nella zona del Vulture, stabilendo una suggestiva parentela con altre raffigurazioni agiografiche cicliche dell’area meridionale, come le storie di santa Caterina d’Alessandria negli affreschi di Casaranello e della cripta di Sant’Antonio a Laterza. Rispetto alla pittura rupestre (così definibile in senso etimologico) rappresentata nella zona bassa della regione, incline a conservare

9 Cfr. P. Vivarelli, Pittura rupestre nell’alta Basilicata. La chiesa di S. Margherita a Melfi, in «Mélanges de l’École Française de Rome», 85, 1973, pp. 547-85. 10 Cfr. P. Toschi, La poesia religiosa del popolo italiano. Vecchi canti religiosi popolari raccolti da P.T. con introduzione e bibliografia, Firenze 1923, pp. 138-41.

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forme e tipi bizantineggianti, quella della zona montuosa tende palesemente a occidentalizzarsi, ispirandosi a moduli, modelli e colori del tardo Trecento fiorentino, come si nota specialmente nei tre martirii di santo Stefano, sant’Andrea e san Lorenzo, che trovano la loro apoteosi tematica nel Contrasto dei vivi e dei morti, le cui affinità stilistiche con affreschi duecenteschi della Spagna coincidono con effettivi rapporti personali e istituzionali intercorsi dalla metà del secolo XIII all’inizio del XIV fra il Vulture e la Catalogna11. Tali contatti e contagi iberici riattivarono i culti religiosi e dovettero costituire forti incentivi per riscoprire e rivalutare i martirii di santi locali, esclusi dai martirologi ufficiali, come quelli dei dodici fratelli potentini, che trovarono la morte in Africa per aver dileggiato i sacrifici pagani e proclamato di essere cristiani, come Rendina riferì a voce a Ferdinando Ughelli e racconterà nella sua Istoria della città di Potenza, iniziata a metà del Seicento e accresciuta da altri nel Settecento12. Tale storia, come ha rilevato Cosimo Damiano Fonseca, mette a fuoco in particolare il periodo normanno-svevo del Medioevo, nel quale la città presenta un dinamismo sociale notevole per il formarsi di un cospicuo ceto borghese grazie all’immigrazione nel centro urbano di mercanti e letterati accolti presso l’aristocrazia ghibellina. L’agiografia lucana che venne allora riscoperta risale ai secoli V e VI e ha come campo di azione l’Africa. È probabile che profughi da quel continente abbiano trasmesso notizie, sulla cui base furono redatte in Italia anche le leggende dei santi martiri lucani. La più famosa è la passio di san Laverio, scritta «in rustico stile» nel 1162 da Roberto di Romana, diacono della chiesa di Saponara di Grumento, come dichiara, per incarico dell’arciprete della medesima diocesi, Saulo di Goffredo. È il testo pubblicato da Ughelli13.

11 Cfr. F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli e un riesame dell’arte nell’età federiciana, Roma 1969, pp. 61 e 77. 12 Historia della città di Potenza di Don Giuseppe Arcidiacono Rendina de’ baroni di Campomaggiore accresciuta da tempo in tempo. Trascritta ed accresciuta da Don Giuseppe Picernese: così recita il titolo del manoscritto, che è stato tenuto presente da R.M. Abbondanza Blasi per l’edizione moderna, intitolata Storia di una città: Potenza. Da un manoscritto della seconda metà del sec. XVII, Salerno 2000. 13 F. Ughelli, Italia sacra, 10 voll., Venetiis 1717-222, vol. VII, c. 681. Tradotto in volgare, era stato pubblicato nel 1597 da G.F. Bruno, cfr. G. Racioppi (a cura di), L’agiografia di San Laverio del MCLXII, Roma 1881, pp. 13-14, che ne diede in appendice una nuova edizione commentata (ivi, pp. 122-69).

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La leggenda, divisibile secondo Racioppi in tre parti, mostra nella prima l’intento unico di narrare la vita evangelica e il martirio dell’apostolo grumentino; nella seconda, probabilmente scritta tra il secolo XV e il XVI, si vuole accennare alle vicende burrascose di traslazione delle reliquie a Satriano e Grumento con un sommario sulla storia ecclesiastica delle suddette città; nella terza, aggiunta moderna all’antico documento, si cerca di stabilire un concatenamento ideale fra il presente e la spiritualità che emana dal testo. La tessitura dell’intero racconto favoloso è, comunque, fatta su una tradizione laveriana attestata in varie località dell’alta Lucania, quali Ripacandida, Rapolla, Spinoso, Acerenza. San Laverio è accostato a san Luca abate, nato verso la metà del secolo XI a Melicuccà (Reggio Calabria) e morto nel dicembre 1114. Fu elevato nel 1092 a vescovo della diocesi di Isola Capo Rizzuto, per le qualità dottrinarie e le virtù predicatorie che profuse, compiendo anche miracoli, nell’attraversare le terre siciliane, calabresi e lucane. La sua biografia, composta da un suo discepolo, rimasto anonimo, è contenuta nel codice Mess. gr. 29, ff. 245-250. È nota una versione latina, eseguita da un monaco e pubblicata da Caietani. Viscardi la giudica rozza, mentre apprezza molto la traduzione, fatta alla fine del secolo XII, della vita di san Vitale (X secolo), dall’originale versione greca composta da uno scrittore quasi coevo del santo. 3. Le influenze aragonesi L’onda cultuale dell’agiografia medievale lucana, rivolta ai martiri cristiani durante le persecuzioni del tardo impero romano, si spinse fino al Quattrocento, allorché la dinastia aragonese iniziò a privilegiare i culti mariani di tradizione spagnola, che si diffusero sempre più nel Mezzogiorno d’Italia trovandovi la sanzione ecclesiale in età controriformistica. Ce ne offre una rappresentazione globale e particolareggiata nel contempo, sotto un’allegoria astronomica perfettamente in linea con il sistema copernicano e galileiano, riconosciuto esatto negli ambienti conventuali più avanzati, l’opera monumentale del padre domenicano S. Montorio, intitolata Zodiaco di Maria ovvero le dodici Provincie del Regno di Napoli come tanti Segni illustrate da questo Sole per mezo delle sue prodigiosissime Immagini, che in esse quasi tante Stelle risplendono (1715).

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Per la Basilicata vi sono illustrate come quindicesima stella del Toro Santa Maria del Ponte fuori le mura di Marsiconuovo, sedicesima stella del medesimo segno zodiacale Santa Maria del Monte nella terra di Viggiano della stessa diocesi, diciassettesima stella, stesso segno, Santa Maria di Avigliano nel territorio della città di Campagna; come prima stella del Sole in Cancro Santa Maria del Sagittario in Chiaromonte, diocesi di Anglona e Tursi, come seconda stella Santa Maria di Orsoleo, stessa diocesi, come terza stella Santa Maria del Principio con altre cinque nella città di Lavello. Una recente catalogazione dei santuari in Basilicata, puntuale ed esaustiva dal punto di vista di chi intende censire e documentare14, conferma la fitta presenza e l’affollata frequentazione dei luoghi di culto dedicati alla Madonna, che sono stati e sono tuttora mete di pellegrinaggi provenienti anche da paesi e regioni contermini. Al confronto risultano senz’altro minoritari per numero quelli contrassegnati dai miracoli di santi bizantini, che pure hanno determinato la costruzione e visitazione devozionale di cappelle e chiesette in loro onore. Alcuni di tali santuari sono raggruppati e illustrati in tre sezioni d’appendice alla suddetta opera. Per una retrospettiva storica è da osservare che quelli e altri precedono di molti secoli i santuari mariani, proliferati questi ultimi in maggioranza nel Seicento. La maggiore arcaicità va riconosciuta ai santuari micaelici, sorti in Lucania (Atella, Pignola, San Chirico Raparo) per diretta irradiazione del culto di san Michele arcangelo, attestato fin dal IV secolo sulla montagna sacra del Gargano15. Un patronato conseguente direttamente da traslazione è quello di san Canio (III-IV secolo), il cui corpo nel 799 fu traslato nella cattedrale di Acerenza, dove tuttora la tradizione popolare ne vede scolpita la figura sul portale, mentre altri v’intravedono l’imperatore Giuliano l’Apostata e gli storici dell’arte propendono a considerarla di età federiciana o rinascimentale locale16. Comunque il santo viene festeg­giato il 1° settembre come patrono di Acerenza. Secondo una 14 V. Verrastro (a cura di), Con il bastone del pellegrino, attraverso i santuari cristiani della Basilicata, Matera 2000; Ead. (a cura di), Sui passi dei pellegrini. Un itinerario attraverso i luoghi del sacro in Basilicata. Guida alla mostra, Potenza 2000. 15 Cfr. G.B. Bronzini, Il culto garganico di San Michele, in Id. (a cura di), La Montagna Sacra-San Michele Monte Sant’Angelo il Gargano, prefazione di C.D. Fonseca, Galatina 1991, pp. 295-353. 16 Cfr. AA.VV., Acerenza, Venosa 1995, p. 73.

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tradizione leggendaria Canio sarebbe uno dei dodici vescovi africani costretti dai Vandali, al tempo di Arcadio e Onorio, a rifugiarsi in Campania. Popolarissima, per essere legata al mondo contadino e pastorale, è la storia di san Biagio (IV secolo), assunto come patrono di Sebaste e Maratea, per quanto dubbio sia il magistero episcopale che il santo vi avrebbe esercitato. La prospettata proiezione a oggi dell’agiografia medievale lucana può essere integrata rilevando che il recupero della santità protettiva degli antichi martiri al maschile si ebbe fin dal Medioevo bizantino in seguito al rinvenimento più o meno fortuito o alla traslazione più o meno fortunosa delle sacre reliquie. È il caso di molti patronati, costruiti con intrecci di contaminazione e confusione fra tradizioni scritte e orali di santi omonimi o omologati. La sovrapposizione di almeno due santi con lo stesso nome, quello venerato a Sora e Atina (Acta Sanctorum die XXVII Januarii) e quello venerato a Rimini (Acta Sanctorum die XXII Junii), con qualche residuo culturale del mito edipico innucleato nella leggenda di san Giuliano l’ospedaliere (Acta Sanctorum die XXI Januarii) è dato riscontrare nel patrono di Accettura, identificabile nel suddetto san Giuliano di Sora, proveniente dalla Dalmazia, che sarebbe stato decapitato durante le persecuzioni di Antonino Pio (138-161) dall’empio centurione Flaviano. L’importazione del relativo culto ad Accettura è datata al 29 aprile del 1797, allorché il primicerio canonico della cattedrale di Sora fece donazione, attestata da regolare bolla, di una reliquia del santo al francescano accetturese padre Bernardino Cifuni, perché la portasse nel suo paese natio a protezione della comunità. In diretta corrispondenza con tale traslazione ad personam del prezioso donativo si iniziarono nel 1800 circa i festeggiamenti annuali in onore del santo, che si fecero coincidere, per la parte popolare, con un’antica festa campestre, quella del maggio, celebrata dalla domenica di Pentecoste al martedì successivo. Proveniente da Piacenza, sua città natale, è il san Gerardo vescovo di Potenza, il cui culto nel capoluogo lucano è accertato dalla metà del secolo XIII, con la festa celebrata il 12 maggio a ricordo del trasferimento, avvenuto nel 1250, delle reliquie del santo nella cattedrale potentina. Un altro esempio di tradizione confusa è quello di san Gianuario o Genuario, il santo taumaturgo e contadino, patrono di Marsiconuo-

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vo, che non trova riferimento certo d’identità nell’agiografia storica e che potrebbe essersi generato per corruzione linguistica e figurale da san Grimaldo, vescovo marsicense di Cartagine17 o addirittura da san Gennaro (IV secolo)18, annotando altresì che un san Genuario compare nella leggenda potentina dei cosiddetti dodici fratelli africani.

17 Ughelli, Italia sacra, cit., vol. VII, c. 497. Cfr. Racioppi (a cura di), L’agiografia di S. Laverio, cit., p. 81. 18 Cfr. A. Lotierzo, S. Gianuario, agiografia e folklore, Napoli 1985.

PAROLE E POPOLI IN MOVIMENTO: «LOMBARDI», LONGOBARDI E BIZANTINI di Nicola De Blasi 1. La Basilicata tra lingua e storia L’osservazione della Basilicata dal punto di vista linguistico svela, com’è noto, una regione non uniforme, differenziata al suo interno tra aree orientate verso i dialetti adriatici, altre assimilabili a quelli campani e altre ancora prossime – anche per tratti dialettali – all’area calabrese1. Tale differenziazione nell’ambito della stessa regione è tutt’altro che eccezionale nel quadro dialettologico italiano, poiché tutte le regioni italiane presentano, al loro interno, differenze anche consistenti tra un’area e l’altra: solo per limitarci alle regioni più vicine, Calabria e Puglia sono attraversate da un confine linguistico che distingue i dialetti meridionali da quelli meridionali estremi; i dialetti della Sicilia occidentale presentano differenze rispetto a quelli della Sicilia orientale; ed è infine solo apparente la compattezza linguistica della Campania2. Va da sé, quindi, che la consistenza regionale non presuppone una completa uniformità linguistica, così come il mancato livellamento linguistico interno non è, di per sé, indizio di un’identità problematica. Per una descrizione delle caratteristiche linguistiche dell’area lucana cfr. F. Fanciullo, Lukanien/Lucania, in G. Holtus, M. Metzeltin, C. Schmitt (a cura di), Lexicon der Romanistischen Linguitsik, Tübingen 1988, vol. IV, pp. 669-88. Un quadro d’insieme sulla storia linguistica della regione è dato da P. Bianchi, N. De Blasi, F. Fanciullo, La Basilicata, in M. Cortelazzo, C. Marcato, N. De Blasi, G. Clivio (a cura di), I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, Torino 2002, pp. 757-92. 2 N. De Blasi, F. Fanciullo, La Campania, in Cortelazzo, Marcato, De Blasi, Clivio (a cura di), I dialetti italiani, cit., pp. 628-29. 1

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A tale breve riflessione preliminare se ne aggiunge un’altra: i confini linguistici non coincidono con i confini amministrativi, perciò all’interno della Basilicata incontriamo caratteristiche comuni ad altre aree confinanti, così come osserviamo tendenze o fenomeni che non esauriscono le proprie implicazioni all’interno della regione. Inoltre, nel considerare i nessi tra dati linguistici ed eventi storici conviene sempre sottolineare che lo spostarsi o il radicarsi di parole e di fenomeni fonetici hanno avuto luogo in quanto alcune persone si sono spostate da un luogo all’altro, seguendo l’evolversi della propria vicenda individuale, che quando ha coinvolto un numero significativo di persone ha poi assunto una rilevanza anche sul piano storico-linguistico. Degli spostamenti che hanno avuto come meta l’area dell’attuale Basilicata resta traccia nei dialetti e nella toponomastica: qui si accenna in primo luogo all’immigrazione di genti di provenienza settentrionale, poiché in questo caso proprio i tratti linguistici diventano indizi di fatti storici3 considerati poco documentati. 2. Immigrazione di settentrionali La presenza di tratti linguistici gallo-italici nei dialetti di Potenza e dintorni (cioè a Pignola, Vaglio, Tito, Picerno, in misura minore a Ruoti, Avigliano, San Fele) e a Trecchina (con propaggini in altri centri vicini) fu individuata da Gerhard Rohlfs, che riconobbe in essi gli indizi di una remota immigrazione di coloni settentrionali, provenienti dal Piemonte e dalla Liguria4. Alcune residuali caratteristiche di origine settentrionale sono tuttora avvertibili in queste zone5, anche se tali dialetti «risultano mi3 Cfr. A. Varvaro, Popolo e lingua in Basilicata, in «Annuario dell’Università degli studi della Basilicata», 1983-84, pp. 23-27. 4 G. Rohlfs, Galloitalienische Sprachkolonien in der Basilikata, in «Zeitschrift für romanische Philologie», 51, 1931, pp. 249-79 (trad. it. di E. Morlicchio, Colonie linguistiche galloitaliche in Basilicata, in Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento, Galatina 1988, pp. 7-37, in particolare pp. 35-37). 5 Le ricerche su queste aree sono favorite dal fatto che il migliore e più attendibile dizionario dialettale di area lucana sia proprio quello che studia il lessico di due dialetti lucani gallo-italici; mi riferisco a M.T. Greco, Dizionario dei dialetti di Picerno e Tito, Napoli 1991. La persistenza dei tratti gallo-italici nell’uso è inoltre verificabile attraverso il testo della lunga intervista trascritta (con piena affidabilità) in M. Romeo, M.T. Greco, Storia di Maria, Potenza 2004.

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metizzati tra i circostanti meridionali, dei quali condividono buona parte del lessico, parte della fonetica e della morfologia»6. Tra le spie fonetiche più vistose di questi contatti figura il trattamento delle consonanti sorde intervocaliche, che in genere nei dialetti meridionali si conservano sorde, mentre in quelli settentrionali diventano sonore e poi fricative: perciò, invece di sapone, sapore o saporoso, nel dialetto potentino troviamo savone, savore, savurose7; a Vaglio incontriamo la serie nëvorë «nipote» (con passaggio t > r, come per esempio nel potentino alla scurdara, «a tempo perso»8), skova «scopa» fuγe «fuoco» demmèneγa «domenica», che tra l’altro è immediatamente confrontabile con forme come skuva, düdménëga del dialetto di Briga in provincia di Cuneo9. Un analitico riesame dei fenomeni e un riscontro con i dialetti delle aree gallo-italiche ha di recente permesso a Toso10 di individuare in Liguria le zone di partenza di lontani emigrati giunti in Basilicata. Più che descrivere i fenomeni di origine settentrionale, e prima di segnalare alcuni elementi del lessico, è opportuno però considerare aspetti problematici relativi a tale immigrazione. Già Rohlfs proponeva un quesito sulle motivazioni che la dettarono e sulle circostanze storiche in cui ebbe luogo11: Non possediamo alcuna notizia neanche sui motivi che possano aver spinto gli immigrati a lasciare le loro antiche sedi: difficoltà economiche o persecuzioni contro gli eretici, iniziate nel XII sec. in Italia settentrionale? Le fonti storiche a riguardo tacciono. Gli abitanti dei centri stessi non conoscono né il periodo della fondazione delle loro città né l’esistenza di immigrazioni.

In un saggio successivo è avanzata con maggiore decisione, ma sempre come ipotesi, l’idea che la partenza dal Nord al Sud sia col-

6 Sono parole di Franco Fanciullo, in Bianchi, De Blasi, Fanciullo, La Basilicata, cit., p. 764. 7 V. Perretti (con la collaborazione di E. Matassini), Glossario a dengua putenzese, Potenza 2003, p. 179. 8 Ivi, p. 191, con citazione di un verso del poeta contemporaneo Rocco Brindisi, nato nel 1944. 9 Fanciullo, in Bianchi, De Blasi, Fanciullo, La Basilicata, cit., p. 764. 10 F. Toso, Il galloitalico di Lucania: contributo alla precisazione dell’area d’origine, in G. Holtus, J. Kramer (a cura di), Ex traditione innovatio. Miscellanea in honorem Max Pfister septuagenarii oblata, vol. II, Miscellanea sociorum operis in honorem magistri conscripta, Darmstadt 2002, pp. 413-32. 11 Rohlfs, Colonie linguistiche galloitaliche, cit., p. 36.

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legabile alla persecuzione contro gli eretici12: «Non è improbabile che la spinta all’emigrazione sia stata data dalle persecuzioni contro gli eretici iniziate allora nel Nord». L’ipotesi, però, al pari di altre, non può essere suffragata da riferimenti o da prove che rimandino a circostanze precise. D’altra parte, se mancano notizie su eventi puntuali, è possibile che esse siano andate perdute, ma può anche essere che tali eventi in realtà non si siano verificati o, per meglio dire, che essi non siano stati percepiti come eccezionali in un’epoca in cui le regioni meridionali, che si trovavano prima sotto il controllo dei Normanni, poi sotto quello degli Angioini, erano di fatto esposte a continui contatti con persone provenienti dal Nord. Si aggiunga inoltre che gli insediamenti di settentrionali nell’area potentina e a ridosso del golfo di Policastro possono avere assunto anche una funzione strategica13. Ciò però non contrasta con quanto osservava Rohlfs domandandosi perché mai dei coloni avrebbero dovuto stabilirsi in queste zone14: Chi conosca l’inospitale e spesso desolata campagna nei dintorni di Potenza si chiederà con ragione come mai questi immigrati settentrionali si siano fermati proprio qui. Il motivo principale potrebbe ricercarsi nel fatto che la regione era abbastanza spopolata, come la Sicilia dopo la cacciata dei Saraceni.

In merito a questi spostamenti mancano dunque notizie certe, ma non è detto che davvero manchino del tutto, a parte i tratti linguistici e toponomastici, segnali d’altro genere. In primo luogo è il caso di rileggere alcuni versi del Planctus Italiae di Eustachio da Matera, il quale, parteggiando per gli Svevi, a metà Duecento così celebra il ruolo giocato da Potenza in quel frangente storico (mio il corsivo)15: 12 Id., Galloitalienische Sprachkolonien am Golf von Policastro, in «Zeitschrift für romanische Philologie», 51, 1931, pp. 249-79 (trad. it. Colonie galloitaliche sul Golfo di Policastro, in Studi linguistici, cit., p. 76). 13 Fanciullo, in Bianchi, De Blasi, Fanciullo, La Basilicata, cit., p. 764. 14 Rohlfs, Colonie linguistiche galloitaliche in Basilicata, cit., p. 36. 15 A.N. Veselovskij, Eustachio di Matera (o di Venosa) e il suo Planctus Italiae, Melfi 1907, p. 19; cfr. anche E. Viggiano, Memorie della città di Potenza, Napoli 1805 (rist. anast. Bologna 1975), p. 72; «Potenza è una città avvolta dai boschi lucani, sorretta, o San Gerardo, dai tuoi favori, fornita di monti, prati, greggi, coltiva campi ricchi per ogni dove di bestiame e di lino. Vigorosa e potente per le popolazioni lombarde e per gli abitatori, sopravanza abbondante le terre vicine».

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Urbs est Lucanis girata Potentia lucis, Fulta patrociniis Sancte Girarde tuis: Montibus et pratis gregis armentique feraces. Et lini late praedita cultat agros. Lombardis populis austera, potensque Colonis Praestat vicinis divitiosa suis.

Solo di recente è stato indicato16 in questi versi un possibile nesso con la presenza di settentrionali a Potenza e dintorni. Già a metà Duecento, dunque, Eustachio parla di Potenza come di un centro caratterizzato dalla presenza dei «lombardi», cioè degli italiani settentrionali17. Ma consideriamo di nuovo il quesito posto da Rohlfs su «come mai questi immigrati settentrionali si siano fermati proprio qui», lasciando le proprie terre per trasferirsi nella «inospitale e spesso desolata campagna nei dintorni di Potenza». Una sola, per quanto generica e banale, è la possibile risposta: evidentemente tali terre offrivano agli immigrati condizioni di vita (o speranze in tal senso) migliori di quelle che a loro garantiva la terra di origine. Al pari degli emigranti di qualsiasi altra epoca, anche quelli che giunsero a Potenza o a Trecchina tra XII e XIII secolo si saranno mossi sulla spinta del bisogno, attratti da speranze di una vita migliore. Tale trasferimento, che senz’altro sarà stato reiterato nel tempo, coinvolgendo migliaia di persone, ebbe forse caratteristiche simili a un’altra partenza che, in un conto del Novellino duecentesco, intitolato D’una grande carestia che fu una volta in Genova, presenta la partenza dalla Liguria di alcune imbarcazioni dirette in Sardegna: In Genova fu un tempo un gran caro18; e là si trovavano sempre più ribaldi che in niun’altra terra. Tolsero alquante galee, e tolsero19 conducitori, e pagârli20, e mandarno il bando che tutti li poveri andassero alla riva, e avrebbero del pane del Comune. Andârvene tanti21, ch’è maraviglia; e ciò I versi sono stati già segnalati in questa prospettiva da chi scrive, L’italiano in Basilicata, Potenza 1994, pp. 28-30. 17 F. Bruni, Fra Lombardi, Tusci e Apuli: osservazioni sulle aree linguistico-culturali, in Testi e chierici del medioevo, Genova 1990, pp. 11-41. 18 «Carestia». 19 «Presero». 20 «Li pagarono». 21 «Ve ne andarono tanti». 16

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fu perché molti che non erano bisognosi si travisaro22. E li ufficiali [dissero così]: «Tutti questi non si potrebbero cernire, ma vadano li cittadini in su quello legno, e’ forestieri nell’altro; e le femmine co’ fanciulli in quelli altri»; sicché tutti v’andaro suso. I conducitori furono presti: diedero de’ remi in acqua, e apportârli23 in Sardigna. E là li lasciaro, che v’era dovizia24; e in Genova cessò il caro.

Secondo questo racconto, a bordo di «alquante galee» partono per la Sardegna (dove c’era «dovizia») genovesi e forestieri, uomini, donne e bambini, che la carestia ha privato di mezzi di sostentamento: essi sono attratti non dalla prospettiva del viaggio, ma semplicemente dalla promessa di una razione di pane che li richiama verso il porto, dove poi vengono imbarcati, quasi indipendentemente dalla loro volontà. Se tale narrazione si assume come exemplum fittizio di spostamenti non rarissimi e non limitati nel tempo, è anche possibile pensare che con modalità dello stesso genere si sia compiuto il viaggio verso il Sud dei liguri e dei piemontesi (forse più liguri che piemontesi, secondo quanto suggerito da Toso25); costoro, dirigendosi verso le terre meridionali, andavano con ogni probabilità alla ricerca di quella «dovizia» che permettesse loro di dimenticare una specifica carestia o le generiche difficoltà da cui si allontanavano. Il conto del Novellino conferma che il mare rappresentava nel Medioevo la via di collegamento più agevole e più battuta: pertanto è molto probabile che proprio il mare, grazie al tramite degli esperti navigatori genovesi, abbia contribuito a fare entrare in contatto le coste liguri e l’entroterra ligure-piemontese con le coste e l’entroterra campano e lucano. Dal Novellino si deduce infatti che sulla costa confluiscono per la partenza persone provenienti da parti diverse, dalla città ma anche dalle campagne più vicine, come da quelle più «Ciò accadde perché molti che non erano bisognosi finsero di esserlo». «Li trasportarono». 24 «Abbondanza». 25 Toso, Il galloitalico di Lucania, cit., p. 418 esamina caratteri linguistici che come fonte dei tratti gallo-italici lucani «parrebbero individuare con discreta approssimazione un dialetto di tipo ligure centro-occidentale interno» con «una notevole ‘apertura’ verso il tipo piemontese». Dopo aver precisato che talune caratteristiche sono «presenti soprattutto, nelle condizioni attuali, nell’alta Val Bormida», lo studioso non manca di sottolineare, con la dovuta cautela, che i riscontri tra l’area lucana e l’area ligure-piemontese sono possibili solo attraverso «l’esame delle condizioni dialettali attuali, che in passato avrebbero potuto essere diversamente estese o variamente combinate» (p. 420). 22 23

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lontane («cittadini e forestieri»): del resto, anche per le emigrazioni transoceaniche di fine Ottocento e del Novecento, il porto di Napoli rappresentava il punto di partenza per tutti quelli che si avviavano verso le Americhe, anche provenendo da zone molto remote dal mare. In movimenti di questo genere svolgeva nel Medioevo un ruolo importante anche la forza di persuasione di sovrani o feudatari. Come ha suggerito Max Pfister26, le colonie gallo-italiche di Sicilia sono riconducibili al fatto che nel XII secolo Enrico di Monferrato, conte di Paternò, aveva richiamato presso di sé gruppi cospicui di coloni settentrionali. Nello stesso periodo un movimento migratorio si è forse orientato anche verso la Basilicata, visto che il figlio di Enrico, Simone di Monferrato, era feudatario di Policastro. Nel tragitto dalla Liguria alla Sicilia, svolto secondo la tecnica – usuale nel Medioevo – della navigazione di cabotaggio che non si allontanava molto dalla costa, l’approdo del golfo di Policastro avrà tra l’altro rappresentato un comodo e necessario scalo intermedio, trasformatosi poi in meta di arrivo, dal momento che garantiva l’accesso ad aree non particolarmente popolate (dunque ospitali e promettenti). Gli immigrati, giunti nel golfo di Policastro in ondate successive, si saranno poi avviati verso le aree interne, fino a Potenza. Che con i Normanni siano arrivate nelle regioni del Sud genti settentrionali è confermato da tutti i toponimi che alludono appunto ai lombardi (Sant’Angelo dei Lombardi, Torella dei Lombardi, un tempo Monticchio dei Lombardi) e dagli elementi lessicali che si sono radicati nei dialetti meridionali27. Se le prime immigrazioni si sono compiute con i Normanni, non è improbabile che vi siano stati spostamenti successivi in epoca angioina, forse anche dopo il disastroso terremoto che nel 1273 colpì l’attuale capoluogo28, causando un’ulteriore crisi demografica (e quindi un bisogno di ripopolamento) in una 26 M. Pfister, Gerhard Rohlfs e le colonie gallo-italiche nella Basilicata, in N. De Blasi, P. Di Giovine, F. Fanciullo (a cura di), Le parlate lucane e la dialettologia italiana, Galatina 1991, pp. 91-106. 27 G. Alessio, Ripercussioni linguistiche della dominazione normanna nel nostro Mezzogiorno, in «Archivio storico pugliese», 12, 1959, pp. 197-232, in particolare p. 202. 28 L’ipotesi è stata formulata da A. Varvaro, Sulla nozione di area isolata: il caso della Lucania, in F. Albano Leoni et al. (a cura di), Italia linguistica: idee, storia, strutture, Bologna 1983, pp. 149-66 (ora in Id., La parola nel tempo. Lingua, società e storia, Bologna 1984, pp. 127-44, in particolare p. 138).

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zona già segnata dalle violente lotte tra Svevi e Angioini e già abitata da settentrionali, secondo la testimonianza di Eustachio da Matera29. Sin dall’avvento dei Normanni derivarono un mutamento della funzione della regione e un diverso disporsi dei suoi equilibri: essa, da punta avanzata dell’influenza orientale sull’Italia, divenne ora base organizzativa indispensabile – anche se non più di frontiera – di itinerari opposti, questa volta dovendo contribuire ad assicurare o a facilitare la penetrazione della cultura italica verso l’Oriente o il Mediterraneo30.

Ai Normanni che percorrevano la penisola si unirono francesi e italiani settentrionali (lombardi): gli uni e gli altri dovettero di poi invitare parenti, amici, connazionali a raggiungerli per dar loro man forte. Si cominciò fin d’allora a stabilire, lungo le così dette vie francigene, che univano l’Italia con i paesi transalpini della Francia, un afflusso continuo di avventurieri e di mercanti, in cerca di fortuna31.

Tra i poli di attrazione di settentrionali all’interno della Basilicata – a conferma che certi indizi storici non sono del tutto assenti – possiamo includere i signori della famiglia piemontese dei Lancia, a cui apparteneva la madre di Manfredi. Infatti non pochi rappresentanti di questa casata, tra i quali Galvano Lancia, reso da Manfredi signore di Rapolla e di Monticchio, «si erano trasferiti quaggiù»32. Indizi storici ancora più concreti sono quelli che si riferiscono agli anni successivi all’avvento di Carlo d’Angiò33. Nei dintorni di Potenza l’arrivo dei nuovi padroni del regno fu senz’altro avvertito in modo diretto, dal momento che non sono poche le tracce di una presenza del re e della corte nel castello di Lagopesole34. Non è escluso che 29 G. Vitale, Potenza nel cozzo tra Svevi ed angioini per il possesso del Regno di Napoli. Rilievi da un fondo di pergamene, in «Archivio storico per le province napoletane», nuova serie 38, 1959, pp. 137-51. 30 R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli 1992, pp. 6-7. 31 Alessio, Ripercussioni linguistiche, cit., p. 228. 32 G. Fortunato, Il castello di Lagopesole, Trani 1902, p. 78 e pp. 102-103. 33 Ivi, p. 105. 34 I soggiorni del re Carlo a Lagopesole sono talvolta prolungati: il 12 aprile 1266 «tutta la corte angioina è raccolta apud fontem juxta Lacumpensilem, che re Carlo, come Manfredi, farà sua sede durante i forti calori estivi» (ivi, p. 90). Ciò

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tali soggiorni abbiano favorito un’ulteriore migrazione di sudditi settentrionali: Lagopesole è infatti a pochi chilometri da Avigliano (del cui comune è attualmente frazione) e non molto distante da Ruoti e Picerno, oltre che dalla stessa Potenza. 3. Elementi linguistici settentrionali Tra i settentrionalismi e i francesismi affermatisi tra Duecento e Trecento nelle regioni meridionali, accanto a quelli elencati da ­Rohlfs35, un caso significativo è quello di una parola, oggi percepita come tipicamente napoletana, che invece ha cominciato la sua diffusione italiana proprio a partire dalle campagne degli Appennini. La parola guaglione, infatti, prima che a Napoli si è radicata nei dialetti lucani e calabresi nella forma guagnone. Tra le due forme quella della capitale, in cui la nasale palatale viene dissimilata in laterale, è la più recente. La voce, collegabile al francese dialettale vaingnu «lavoratore della terra»36, ha ora il senso corrente di «ragazzo», che tuttavia non è l’unico tuttora in uso. Nel dialetto picernese, accanto a guagnone, che è un «aiutante nel lavoro dei campi»37, abbiamo anche guaglione, che è genericamente il ragazzo: la prima forma, sia vuol dire che la presa del regno comincia per re Carlo con un viaggio da Roma a Lagopesole. Nel giugno dello stesso anno Beatrice di Borgogna, moglie di Carlo d’Angiò, fa rogare a Lagopesole il suo testamento alla presenza di vescovi e feudatari provenzali: «Ormai i provenzali popolano il castello di Federico» (ivi, p. 93). In seguito (ivi, pp. 94 sgg.) sono frequenti i viaggi reali al castello di Lagopesole: il 16 giugno 1271 l’Università di Calitri deve provvedere all’invio giornaliero di viveri per il re che si trova a Lagopesole con la corte. Il 20 luglio 1274 viene registrato simile fodro a cui è tenuta l’Università di Lacedonia. Quindi la presenza della corte era avvertita a parecchi chilometri di distanza: il 7 luglio 1277 le università vicine a Lagopesole devono mandare a vendere a Lagopesole quanto occorre per la corte. Ancora il 15 luglio 1278 è registrato un fodro bisettimanale per la dimora della famiglia reale a Lagopesole. Il 12 ottobre 1278 il re è a caccia a Melfi. Nell’aprile-maggio 1279 per l’arrivo del re a Lagopesole si approntano lavori di riparazione. Il 10 luglio 1279 è registrato il restauro delle scuderie per l’arrivo di re e regina; il 14 marzo 1280 il re fa acquistare vino per il suo prossimo arrivo a Lagopesole; il 1° maggio 1294 è segnalato il prossimo arrivo di re Carlo II a Lagopesole. 35 Rohlfs, Colonie linguistiche galloitaliche, cit., pp. 33-35. 36 F. Fanciullo, Italiano meridionale guaglione «ragazzo», probabile francesismo d’epoca angioina, in «Zeitschrift für romanische Philologie», 107, 1991, pp. 398-410. 37 Greco, Dizionario dei dialetti di Picerno e Tito, cit.

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sul piano fonetico che su quello semantico, è la più vicina a quella originaria, quindi è più antica rispetto a guaglione, che potrebbe perfino dipendere da una seconda diffusione della parola, re-irradiata a partire dalla capitale del regno. Sempre di provenienza nord-occidentale è la forma femminile di guagnone, che nell’area che a noi interessa è guagnarda, mentre nella zona napoletana è guagliona. Il suffisso -arda, che si incontra ad esempio anche a Vallata, in provincia di Avellino38, è lo stesso che troviamo in «savoiardo» o «nizzardo»39, cioè in etnici che si riferiscono ad aree non remote da quelle degli emigrati partiti per il Sud in cerca di terre e di fortuna. Anche la conservazione di questo suffisso di origine settentrionale fa riconoscere (g)uagnarda come un arcaismo rispetto al tipo guagliona diffuso in area napoletana. Un’altra parola venuta dal Nord è quintana o cuntana «vicolo», «strada stretta e cieca»40. Questa parola è caratteristica del dialetto di Potenza e dei centri vicini. Si tratta del continuatore del lat. quintana, «via negli accampamenti romani», che ha poi dato luogo in italiano alla voce quintana, «giostra cavalleresca»; ma il significato dialettale, che è diverso da quello latino, fa pensare a una derivazione mediata attraverso le parlate settentrionali. L’accezione di «vicolo», infatti, è abbondantemente documentata sia nei dialetti odierni, sia in carte latine medievali di area ligure (con estensione fino al Piemonte), dove chintana vale «vicoletto»41. La coincidenza rivelerebbe perciò una parola diffusasi a Potenza e dintorni dopo l’immigrazione di coloni 38 Uagnarda (femminile di uagnone) nel senso di «ragazza», «donna nubile», è presente nel dialetto di Vallata secondo la testimonianza di D.M. Cicchetti, Un’isola nel mare dei dialetti meridionali, Vallata 1988, p. 189. Un altro femminile di guaglione è vagliotta: cfr. L. De Blasi, Dizionario dialettale di San Mango sul Calore (Avellino), Potenza 1991, p. 93. 39 G. Rohlfs, Grammatica storia della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino 1969, vol. III, § 1108. 40 Cfr. il glossario di L.C. Rutigliano, Potenza dalle origini al secolo XVIII con notizie sulla Chiesa potentina. La leggenda di San Gerardo Piccolo lessico e locuzioni potentine di uso comune, Roma 1969. Perretti, Glossario a dengua putenzese, cit., p. 77 segnala anche il diminutivo cuntagnuola (dove il dittongo in una forma femminile, in prossimità di palatale, è altro tratto ascrivibile a influsso gallo-italico). 41 Estesa e convincente è la documentazione fornita da Toso, Le colonie galloitaliche, cit., pp. 425-27; per le attestazioni lessicografiche cfr. G. Alessio, C. Battisti, Dizionario etimologico italiano, Firenze 1950-57; M. Cortelazzo, C. Marcato, Dizionario etimologico dei dialetti italiani, Torino 1998, registrano chintana, «pozzo nero», «vicolo», come forma ligure oltre che biellese.

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settentrionali di provenienza ligure-piemontese. Se ci si spinge un po’ più in là, si può anche azzardare un’altra ipotesi: la parola quintana, che designa un vicolo tra due case, per lo più cieco da un lato (perché conduceva, almeno a Potenza, verso le mura esterne), può essersi affermata in un periodo in cui la città ha conosciuto una fase di attività edilizia particolarmente sviluppata, con conseguente influsso sulla toponomastica (come può realizzarsi per esempio in coincidenza di una ripresa demografica o di una risistemazione urbana che segue una rovina sismica)42. Probabili settentrionalismi sono inoltre il sanfelese murtiere, «mortaio», con il suffisso tipico delle parole importate dal francese o dai dialetti settentrionali43, ialino, «giallo» nei testi antichi44, e, a Potenza, fumjére, «letame» (cfr. il francese fumier)45. In particolare, è notevole, nel dialetto di Trecchina, il ligurismo carruggio, così glossato dal lessicografo Leandro Orrico: «(per pista di carri, ma è di pedoni) strada percorsa ripetutamente da viandanti, vejàteca»46. Nell’area di Trecchina il radicamento di questa parola è dimostrato da un lato dal nesso di sinonimia con vejàteca47, dall’altro dal possibile riflesso che si coglie, nella vicina Maratea, nel toponimo carroso, che non sarà tanto da collegare a carro, quanto forse proprio a carruggio, poiché chi ha studiato la toponomastica di Maratea osserva che tale nome si riferisce

42 Come per guagnarda, anche per quintana si rintracciano punti di contatto tra i dialetti di aree riconosciute come gallo-italiche e quelle di altri paesi dove con un po’ di attenzione sarebbero forse anche rintracciabili residui settentrionali: cuntagna nel senso di «fogna» è testimoniato per Calitri (provincia di Avellino) da G. Acocella, Dizionario del dialetto calitrano, Firenze 1988, p. 76. 43 All’esito -iere, dal latino -arium, corrisponde nei dialetti meridionali -aro. Si noti che in questo caso il tipo lessicale non è locale, poiché la voce corrispondente attestata in altri dialetti meridionali è pisature. 44 Ialino è in un documento del 1293 trascritto da B. Ferrante, Le pergamene della Trinità a Potenza, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 33, 1964, p. 68; jalno in un testo del 1541 (di Marsiconuovo) edito da A.M. Compagna, Testi lucani del Quattro e Cinquecento, Napoli 1983, p. 137. 45 Cfr. Fanciullo, in Bianchi, De Blasi, Fanciullo, La Basilicata, cit., p. 767. 46 L. Orrico, Il dialetto trecchinese, Napoli 1985, p. 71. La parola è «ligure con propaggini a Voghera, in Corsica e Gallura» e si ritrova anche all’Elba: cfr. M. Cortelazzo, Il dialetto di Trecchina dopo Rohlfs, in De Blasi, Di Giovine, Fanciullo (a cura di), Le parlate lucane, cit., pp. 43-53, in particolare p. 51. 47 Vejàteca è il «continuato calpestare di una strada in ripetuti movimenti di andata e ritorno, iterato frequentare d’un posto lasciando quasi le pedate sulla strada percorsa, carruggio» (Orrico, Il dialetto trecchinese, cit., p. 179).

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a un vallone segnato da un torrente, «attraverso il quale passava una delle strade di penetrazione verso l’interno»48. Meno vistosi, perciò anche più significativi, sono alcuni tipi lessicali che si sono profondamente radicati nei dialetti locali, ma che risaltano poco perché all’apparenza assimilabili a forme presenti anche in italiano. Per esempio è di origine settentrionale il tipo testa, che si trova nelle aree lucane gallo-italiche, mentre in tutta l’Italia meridionale è generalizzata la forma capo. Della stessa origine sono sire, «padre» (anche a Maratea), e dònna (o rònna) nel senso di «suocera», che si oppongono ai tipi meridionali pate e socra. Ancora a Maratea, cioè a un’area esterna a quella oggi specificamente riconosciuta come gallo-italica, riporta fèla, «fiele», femminile come nei dialetti settentrionale (e non neutro come per esempio la forma ’o ffèle in area campana)49. Altre tracce linguistiche riconoscibili come indizi della presenza settentrionale affiorano nell’onomastica e nella toponomastica degli atti notarili del Duecento e del Trecento. Nelle pergamene edite da Biagio Ferrante50 si registrano, accanto ad attestazioni di quintana e quintanella, taluni nomi di persone sospettabili di provenienza settentrionale: innanzi tutto un Gerardus dalivalta (nel 1300), che se interpretato come Gerardus da Rivalta potrebbe anche far pensare a un’origine piemontese51. A un toponimo francesizzante (quello del bosco Li Foi) rinvia il nome di Nicola di Giovanni «de Foia» autorizzato a fare il medico nel 130752 e identificato con il nome del luogo di provenienza. Altri due nomi dalla vaga impronta settentrionale sono Nicola de Prehugo e, ancora per il suffisso, Leonardo Palminterio53. Dello stesso genere è il toponimo Vallone Benluigerii, in un documento del 48 J. Cernicchiaro, V. Perretti, L’antica «terra» di Maratea nel secolo XVIII, Potenza 1992, p. 259. 49 Fanciullo, in Bianchi, De Blasi, Fanciullo, La Basilicata, cit., p. 767. 50 Cfr. Ferrante, Le pergamene, cit. 51 Il cognome Rivalta è oggi molto diffuso anche nelle province di Alessandria, Cuneo, Torino (E. De Felice, Dizionario dei cognomi in Italia, Milano 1978, pp. 211-12). 52 Cfr. R. Calvanico, Fonti per la storia della medicina e della chirurgia per il Regno di Napoli nel periodo angioino (1273-1410), Napoli 1962, p. 117; il documento è segnalato nel regesto curato da T. Pedio in G. Fortunato, Badie, feudi e baroni della Valle di Vitalba, a cura di T. Pedio, Manduria 1968, vol. III, p. 330, ma per errore viene riferito a Giovanni de Foja. 53 Cfr. Ferrante, Le pergamene, cit., pp. 75-76 (doc. XII del 1306) e pp. 78-79 (doc. XIV dello stesso anno).

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6 novembre 1311, altrove nelle forme contrada Benligerio e contrada Bellu Jou54. Tra i toponimi di uso attuale si segnalano vattenniere a San Fele55, armatiere, sempre a San Fele, con il già notato suffisso -iere. Tra i toponimi56 traspare poi un’origine settentrionale in Tiera, che designa un torrente tra Potenza e Vaglio: questa forma sembra affine al ligure tèjra, «fila» (filare di alberi) e al piemontese téra, con lo stesso significato57. Al tipo lessicale settentrionale vèrna, «ontano», si riconduce, nella toponomastica di Maratea, vadda d’u virnitu58. Francesismo di età normanna, rimasto tra i toponimi, è grangia59: Foresta grangia o grancia è tra Vaglio e Brindisi di Montagna, mentre a Maratea è segnalato un vallone delle Grangie60. Braida, infine, nei pressi di Potenza, è un toponimo lombardo (e non longobardo, nonostante l’etimologia): lo si deduce proprio dall’area di diffusione, che coincide con quella «in cui sono disseminate le già note colonie gallo-italiche»61. Da una serie di rilievi sparsi, destinati a infittirsi attraverso indagini sistematiche in parte già avviate in Campania, sembra ipotizzabile che l’area raggiunta da persone di provenienza settentrionale fosse in origine più ampia. Di recente è stato riconosciuto come gallo-italico Ivi, documenti del 1345 e del 1362. Cfr. A.I. Luciano, Dizionario dialettale di San Fele (Potenza), Potenza 1992, p. 210; il toponimo era localizzato solo in Sicilia e in Calabria da Alessio, Ripercussioni linguistiche, cit., p. 220. 56 Per lo studio della toponomastica lucana, o almeno di alcune sue aree, si dispone di una serie di repertori di microtoponomastica relativi ad alcuni paesi: per l’area gallo-italica cfr. ad esempio M.T. Greco (a cura di), Toponomastica di Picerno, Napoli 2001. 57 Cfr. P.A. Faré, Postille italiane al «Romanisches Etymologisches Wörterbuch» di W. Meyer-Lübke comprendenti le «Postille italiane e ladine» di Carlo Salvioni, Milano 1972, lemma n. 8663 b, e Cortelazzo, Marcato, Dizionario etimologico, cit. 58 Cfr. G. Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi in Lucania. Repertorio onomastico e filologico, Ravenna 1985, p. 366; per il toponimo marateota cfr. Cernicchiaro, Perretti, L’antica «terra» di Maratea, cit., p. 423. 59 Cfr. A. Varvaro, Notizie sul lessico della Sicilia medievale. I francesismi, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 12, 1973, pp. 72-104. 60 Cernicchiaro, Perretti, L’antica «terra» di Maratea, cit., p. 305. 61 F. Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia meridionale e mediana, Firenze 1963, p. 40, nota; braida si trova, oltre che nei dintorni di Potenza, nel Foggiano e in Irpinia, cioè proprio dove abbondano i toponimi formati con «lombardo» e risalenti a età normanna (ivi, pp. 50-51). Tali indicazioni (risalenti al 1963) non sono state tenute in conto da recenti opere lessicografiche: braida è tuttora voce di area esclusivamente settentrionale sia per il Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino 1990, p. 97 sia per Cortelazzo, Marcato, Dizionario etimologico, cit. 54 55

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il dialetto di Tortorella62 (nei pressi di Sapri, nell’entroterra del golfo di Policastro), dove ricorrono forme come savé, «sapere», o krave, «capra». Inoltre, Patrizia Del Puente ha ora individuato tra Casaletto Spartano e Vibonati altre tracce di gallo-italicità, come l’anteposizione del possessivo con i nomi di parentela, per cui si incontra ma frate, «mio fratello», ma sore, «mia sorella» (così come a Potenza mi fra), contro la sequenza meridionale frateto, soreta63. Per il lessico, sempre nelle prossimità del golfo di Policastro, troviamo probabili tracce gallo-italiche nel dialetto di Torre Orsaia: verna, «ontano», fumiere, «letame» (anche a Ricigliano), ostieri, «locale terraneo adibito a deposito o al ricovero di bestiame». Infine, per la morfologia è notevole il pronome indiretto mi (che è dell’area galloita­lica lucana) in come a mmì (a Sant’Andrea di Conza)64, vicine a mmì a Ricigliano65. La presenza di lessico di origine settentrionale in aree ormai riconosciute come gallo-italiche appare oggi meno sorprendente, ma, come suggerisce Franco Fanciullo, «uno scavo metodico del lessico degli altri dialetti meridionali potrebbe condurre a risultati forse insospettabili»66. Le caratteristiche dialettali di origine gallo-italica, infatti, possono essersi conservate in modo più o meno duraturo anche in rapporto alla maggiore o minore apertura verso l’esterno che ha caratterizzato la vita di certe aree nelle epoche successive a quelle dell’arrivo dei settentrionali. Certe aree lucane che nel corso del Medioevo sono state esposte al passaggio di Greci, Longobardi, settentrionali giunti al seguito di Normanni o Angioini, probabilmente hanno conosciuto in seguito una relativa stabilità demografica, priva di quei sensibili apporti dall’esterno o di aperture a traffici di vario genere che invece hanno interessato altre aree (si pensi per esempio a Calitri, centro collocato lungo la direttrice che da Napoli conduce a Foggia e all’Adriatico).

E. Radtke, Tortorella - eine bislang unbekannte galloitalienische Sprachkolonie im Cilento, in «Zeitschrift für romanische Philologie», 113, 1997 pp. 82-108. 63 Questi primi risultati delle indagini di Patrizia Del Puente sono resi noti da Fanciullo, in Bianchi, De Blasi, Fanciullo, La Basilicata, cit., p. 765. 64 F. Giorgio, Quanne méne faugne. Poesie in dialetto di S. Andrea di Conza (Avellino), Teramo 1992, p. 4. 65 De Blasi, Fanciullo, La Campania, cit., pp. 649-50. 66 F. Fanciullo, Etimologie dell’Italo-romània, Alessandria 2002, p. 21. 62

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Se si leggono le intense pagine dedicate da Giustino Fortunato ai regnanti angioini e ai loro contatti con le terre meridionali, sembra quasi di poter intravedere che la crisi della casa regnante, ormai definitivamente orientata verso Napoli67, coincide con il destino di progressiva perifericità per le terre che fino a quel momento avevano ospitato, sin dal tempo dei Normanni, i frequenti passaggi e soggiorni dei sovrani68: Quando re Carlo I, unitamente con la moglie Margherita di Borgogna e il genero Filippo di Courtenay [...] lasciava Lagopesole nel 5 settembre del 1280, certo egli non credeva di non ritornarvi mai più, di chiudere, con quell’anno, i due secoli e più di vita politica (dal primo avvento de’ Normanni a Melfi), che contano i paesi del Vulture nella storia generale dell’Italia meridionale.

Proprio al re Carlo I d’Angiò si lega dunque l’ultima stagione in cui la regione lucana svolge un ruolo centrale, quando il re vi si reca, nel 1284, per l’ultima volta69: Alla fine del novembre raggiunge la moglie nel castello di Melfi, ove trascorre triste l’ultimo suo natale, in vista del fumante Appennino di Lagopesole, ricoperto dalle nevi: il Capodanno è a Foggia, nel palazzo reale già costruito da Federico II [...]; ivi, nel 7 gennaio del 1285, spira l’anima lasciando il baliato del Regno al Conte d’Artois, suo nipote.

67 Con l’inizio del Trecento i castelli del Vulture non sono più presi in considerazione nemmeno come residenza estiva: re Roberto, salito al trono nel 1309, trasferì «la sede estiva della Corte a Castellammare di Stabia, edificandovi ‘Quisisana’, la sua cara domus sana, Lagopesole era troppo lontano e, siamo giusti, troppo selvaggio per un uomo e per un re come Roberto, – parolaio e saccente: basta averlo veduto una volta, col suo florido viso gaudente e l’abbondante persona, assiso in trono, su l’alto del magnifico e celebrato mausoleo di Santa Chiara di Napoli» (Fortunato, Il castello di Lagopesole, cit., p. 131). In queste parole di Fortunato, dettate anche dall’amore per i luoghi prima frequentati poi abbandonati dagli angioini, sembra quasi di cogliere i segni di un torto subito e non ancora accettato a distanza di oltre sei secoli. 68 Ivi, p. 126. 69 Ivi, p. 127.

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4. Longobardi e longobardismi Già prima di Normanni e Angioini, però, la Basilicata si era trovata esposta a correnti di innovazione linguistica. Molto prima che dai «lombardi», cioè dagli italiani settentrionali, tracce linguistiche considerevoli sono state lasciate nei dialetti lucani dai Longobardi, in un’epoca in cui la Basilicata «veniva a porsi quasi al centro dello scontro in atto tra grandi potenze, tra popoli e civiltà che allora si contendevano il predominio del Mediterraneo»70. Tale situazione, che è ricca di conseguenze sulla lingua, si delinea già quando vengono a contatto in Basilicata Greci e Longobardi, per cui nei gastaldati di Acerenza, Latiniano, Laino e Lucania si intensificarono «i rapporti umani, economici e politici tra la provincia bizantina e lo stato longobardo»71. Gli effetti linguistici non sembrano di poco conto. Secondo una tesi di Parlangèli, il dualismo longobardo-bizantino provocò la definitiva diversificazione dei dialetti pugliesi dai salentini, da un lato, e dei dialetti calabresi da quelli lucani, dall’altro. Non è improbabile che «se dal nord non fossero calati i langobardi, oggi, forse, si parlerebbe a Reggio come a Napoli, a Foggia come a Lecce, e a Taranto come a Salerno o, quanto meno, le differenze dialettali non sarebbero così profonde»72. La dissoluzione dell’iniziale unità latina, divisa tra l’influenza greca e quella longobarda, non fu in seguito mai più ricomposta, neanche quando con l’occupazione normanna si costituì l’unità politica del regno. Tra Calabria e Lucania, così come tra Puglia e Salento, «là dove si formò un confine politico, amministrativo e militare fra territori langobardi e territori bizantini, là si formò anche un importante confine linguistico: la storia dei nostri dialetti può insomma dare un notevole contributo alla storia delle relazioni, in territorio italiano, fra i langobardi di Benevento e i greci di Bisanzio»73. Il costituirsi di una Langobardia meridionale, lungo una direttrice sviluppatasi in un primo tempo sul versante adriatico degli AppenniGiura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, cit., pp. 4-5. V. von Falkenhausen, I Longobardi meridionali, in G. Galasso (a cura di), Storia d’Italia, vol. III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983, pp. 251-364, in particolare p. 274. Cfr. inoltre N. Cilento, La Lucania bizantina, in «Bollettino storico della Basilicata», 1, 1985, pp. 95-107, in particolare pp. 97-98. 72 O. Parlangèli, Storia linguistica e storia politica nell’Italia Meridionale, Firenze 1960, p. 37. 73 Ivi, p. 55. 70 71

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ni, può avere tra l’altro favorito, grazie alla funzione dei centri campano-sannitici, un «duplice processo di livellamento interno dell’area tradizionale osca e di allargamento e sistemazione dei suoi confini verso le aree meridionali di spiccato particolarismo»74. Per una migliore definizione della storia linguistica lucana è necessario averne un’idea meno statica, convincendosi, ad esempio, che nel periodo in cui si fissarono le principali differenziazioni dialettali (tra i secoli VI e X) la regione è stata di fatto un’area di frontiera, su cui vivevano in contatto e in contrapposizione popoli con idiomi, riti religiosi e usi giuridici diversi: se non si tengono in conto questi aspetti storici concreti, «le ricostruzioni linguistiche rischiano sempre di restare delle semplici formule astratte»75. I Longobardi venuti ad abitare nell’Appennino meridionale erano probabilmente poche migliaia: ciò però non deve far sottovalutare l’incidenza del loro stanziamento. Essi occuparono zone interne, in genere meno popolate di quelle costiere (da questo lato la scarsa popolosità della Basilicata medievale è tutt’altro che un’eccezione). La loro presenza, per quanto ridotta in termini assoluti, sarà stata tuttavia rilevante rispetto alle popolazioni locali. Perciò nella toponomastica si trovano i riflessi di una occupazione del territorio, di una presa di possesso effettiva da parte dei nuclei familiari dei nuovi arrivati. Tale occupazione, tuttavia, non comportò un’affermazione della lingua e della cultura degli occupanti a scapito di quelle preesistenti: si realizzò anzi un costante processo di integrazione tra le due componenti etniche. Da un lato i Longobardi imposero le proprie consuetudini giuridiche, dall’altro accolsero la religione cristiana e conservarono solo un ricordo della propria76. Dall’italiano e dai dialetti si riceve conferma che l’identificazione con le popolazioni locali si è realizzata anche sul versante linguistico. Gli elementi toponomastici e lessicali di origine longobarda si presentano infatti come relitti: sono quel che resta della lingua originaria di un popolo che si è progressivamente latinizzato. I Longobardi cioè, cominciando a parlare la lingua degli indigeni, abbandonarono a lungo andare la propria, tanto che nel

Sabatini, Riflessi linguistici, cit., p. 127. Parlangèli, Storia linguistica, cit., p. 44. 76 Cfr. F. Albano Leoni, Vitalità della tradizione longobarda nell’Italia meridionale, in «Medioevo romanzo», 6, 1979, pp. 3-21. 74 75

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Chronicon Salernitanum (del 978 circa) si parla della «lingua todesca quod olim Longobardi loquebantur»77. L’integrazione non dipese forse solo da un eventuale senso di inferiorità dei nuovi arrivati rispetto alle vestigia prestigiose della romanità (non si sa fino a qual punto avvertibili nel contatto quotidiano con le genti che i Longobardi trovavano sulla propria strada stanziandosi lungo le valli appenniniche). Piuttosto si può pensare all’esigenza di costituire un’identità comune, in funzione ad esempio della difesa di terre che sia i discendenti dei latini sia i Longobardi vedevano come la propria unica patria: anche le prime manifestazioni scritte del volgare, realizzatesi a Montecassino, sono in un certo senso connesse alla necessità longobarda di difendere i «confini della latinità di fronte alla pressione greco-bizantina, che saliva dalla Basilicata e dalla Puglia, e di fronte alle scorrerie arabe»78. Si affermava, in quel modo, una nuova coscienza linguistica che «s’approfondirà col tempo e finirà col diventare, per lunghi secoli della storia d’Italia, tutt’uno colla coscienza nazionale»79. Nella toponomastica si riconoscono i segni della «reale influenza della dominazione longobarda nell’assetto fondiario di certe regioni»80. Non sono pochi i nomi che derivano dal longobardo wald (adattato in latino come gualdus), cioè una «vera entità economica e amministrativa», costituita da terre del fisco, in gran parte boschi, nonché «ogni unità fondiaria distaccata da questo patrimonio e concessa in godimento a enti, comunità, dignitari»81. Secondo l’evoluzione fonetica dei dialetti meridionali, l’iniziale w- dà come esito la velare sonora g-, e la -l- preconsonantica può velarizzarsi in -u-; ma talvolta da -ld- si ha anche una doppia -ll-, visto che il nome dialettale di Bernalda può suonare Bernalla82. I riflessi di un antico gualdus si incontrano perciò nei seguenti toponimi: Costa B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, p. 48. I. Baldelli, La letteratura dell’Italia mediana dalle Origini al XIII secolo, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. I, L’età medievale, Torino 1987, pp. 27-63, in particolare p. 30. 79 P. Fiorelli, Marzo Novecentosessanta, in «Lingua nostra», 21, 1960, pp. 1-16, in particolare p. 16. 80 Sabatini, Riflessi linguistici, cit., p. 53. 81 Ibid. 82 Cfr. M.T. Greco, Toponomastica lucana nei documenti medievali, in Atti e memorie del VII Congresso internazionale di scienze onomastiche, vol. II, Toponomastica, Firenze 1961, pp. 99-108, in particolare p. 104. 77 78

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del Gaudo e Gautelle presso Muro Lucano; il Gaudo presso Rionero; Gaudipiano Galdo presso Balvano; Bosco Galdo presso Tramutola; Serra Gaudipiano presso Viggiano; Galdo e Galdicello presso Lauria; Manca di Galdo e Fosso del Galdo presso Calvera; Gaudella presso Bernalda; Guallella83; Gaudianello a Monticchio. Anche Pietragalla è forse dipendente da gualdus, attraverso un eventuale *petra de gualdo84. Infine è già segnalata da Racioppi85 la Difesa di Aurisiello o Gaurisiello presso Cancellara. La serie si incrementa con i continuatori di *waldmann («guardiano dei boschi»), vale a dire Gaudemanno presso Banzi, Valdemanna presso Marsicovetere, Bosco Guardemmauro presso Grumento Nova86. Il toponimo fara («gruppi gentilizi» in migrazione e, in seguito, i poderi da loro dipendenti) riconduce all’insediamento di interi nuclei familiari87. Si definivano così i veri e propri stanziamenti, caratterizzati da una precisa connotazione etnica: il nome, se non era imposto sempre direttamente dai Longobardi, quanto meno era dovuto a genti che «con essi avevano tanta dimestichezza da accoglierne un toponimo così caratteristico»88. In Basilicata ritroviamo quattro fare: una è sulla sinistra dell’Ofanto (a nord-ovest di Lavello); un’altra si trova a nord-est della precedente, a circa 20 km di distanza; nei pressi di Melfi è Fara d’Olivo, mentre vicino a Genzano (in provincia di Matera) è Serra fara Cafiero89. Un reale stanziamento abitativo (e non solo il possesso delle terre) è implicito nel toponimo Sala, che equivale a «casa per la residenza padronale nella curtis», «casa di campagna»90. In Basilicata si incontrano masseria La Sala presso Banzi; masseria e molino La Sala presso Oppido, masseria e fontana La Sala presso Vaglio; in provincia di Matera la contrada La Sala presso Montalbano Ionico. Un’altra parola che giustifica alcuni toponimi è snaida; con essa si designava in origine il «taglio nel bosco (o un’incisione sugli alberi) Sabatini, Riflessi linguistici, cit., p. 62. Greco, Toponomastica lucana, cit., p. 104. 85 G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, 2 voll., Roma 1889, vol. II, p. 41. 86 Sabatini, Riflessi linguistici, cit., p. 44. 87 Ivi, p. 27. 88 A. Varvaro, Storia problemi e metodi della linguistica romanza, Napoli 1968, p. 322. 89 Sabatini, Riflessi linguistici, cit., p. 32. 90 Ivi, p. 33. 83 84

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per indicare il confine», poi la «pietra di confine», «termine»91. Nei documenti medievali, tra il secolo IX e il XII, erano frequenti sia sinàida (oggi rimasta solo nei dialetti abruzzesi), sia finaita (incrocio tra il latino finis e snaida): quest’ultimo tipo, diffuso fino alla Calabria e alla Sicilia, si incontra anche in un testo napoletano trecentesco92, a riprova di un suo radicamento nel lessico delle parlate meridionali. In Basilicata troviamo un Finaita presso Atella e un altro presso Viggiano, Finaide presso Savoia di Lucania e presso Moliterno, un monte Finata presso Colobraro e Fineta presso Forenza. Infine, non sono pochi in Italia meridionale i toponimi derivati da onomastica personale longobarda. Per la Basilicata va segnalato Ruoti, dal personale Roto93, e forse Sasso di Castalda, dato il nome Saxo, da cui dipendono toponimi di altre regioni (come Sassa in Abruzzo). Come in gran parte delle regioni italiane, anche nei dialetti della Basilicata si conservano tuttora relitti lessicali che rimasero nell’uso quotidiano dei Longobardi anche dopo che essi acquisirono la lingua delle popolazioni locali, continuando a nominare nel modo tradizionale gli oggetti domestici e tutto ciò che rientrava nell’esperienza più immediata e diretta, a cominciare dalle parti del corpo. Perciò, in italiano come nei dialetti, l’influsso longobardo si avverte soprattutto nella lingua d’uso popolare94, nei verbi concreti e in forme espressive. Nel latino dei documenti si infiltrano anche voci giuridiche, mentre nei dialetti si affermano parole che si riferiscono a usi o a nozioni di diritto, per così dire, quotidiano. All’abitudine di prevedere in un edificio parti comuni rinvia il longobardo *waiss-, «comune», «non appartenente a nessuno»: da questo etimo deriva il tipo gaifo, che, con diversi significati, si trova pure nelle varianti gafio, afio, vafio in tutti i dialetti meridionali95, donde passa come prestito occasionale al toscano della Cronica di

Ivi, p. 76. Cfr. N. De Blasi (a cura di), Libro de la destructione de Troya. Volgarizzamento napoletano trecentesco da Guido delle Colonne, Roma 1986, p. 48, in un luogo in cui con il volgare a li finayte si traduce il latino in finibus. 93 Sabatini, Riflessi linguistici, cit., pp. 88-89. 94 A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, Bologna 2000, pp. 67-94. 95 M. Pfister, Longob. «*BAUG-, *TREWWA, *WAIß-». Fonti e metodologia per lo studio del superstrato longobardo, in AA.VV., Studi linguistici e filologici per Carlo Alberto Mastrelli, Pisa 1985, pp. 361-71. 91 92

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Villani96. In Basilicata troviamo uafje, «pianerottolo di una scalinata esterna», a San Fele, «sottopassaggio tra una casa e l’altra, piccola galleria» ad Avigliano, e gafejetto, «loggia», a Trecchina97. Tra le voci concrete ed espressive figurano i continuatori del longobardo top, frequenti anche nella toponomastica minore: a Maratea u tuppu è uno scoglio98; a Sanfele toppe (femminile) è la «zolla», mentre il maschile tuoppe, con regolare dittongo metafonetico, è «altura», «sporgenza del terreno». Da wiffa, «ciuffo di paglia», «matassa»99, si ha in sanfelese jéffele, «grinza», «piega». A Melfi ha lo stesso significato la forma con velare iniziale ghèffle, mentre a Muro Lucano gheff significa «ciocca», «matassa». Da pakka, «natica», deriva a San Fele (ma certamente in un’area molto vasta) pacche con lo stesso significato, ma anche nel senso più generale di «metà o parte di qualcosa»; a Matera pacche d’ a noce è «mezzo gheriglio». A Muro Lucano è documentato, da Bigalke, il significato di «schiaffo». Un derivato è, sempre in sanfelese, paccherijà, «soffrire la fame», «essere senza soldi e senza lavoro». Altri longobardismi, attestati in sanfelese, ma di diffusione piuttosto ampia, sono i seguenti: scuffie, «cuffia», «copricapo» (da kupfja); pitt, «focaccia»; infurrizze, «pioggia improvvisa e di breve durata» (da in + longobardo *fuhra); taccule e tacculicchje, «pezzo di legno che cade sotto i colpi della scure» (longobardo *tahala); zaccature, «mazza, piccolo bastone usato dai pastori per allontanare il vitello dalla mucca che veniva munta»100, con un suffisso nominale di nomen agentis; zaccune, «pezzetto di legno», «ceppo da ardere»; zinne, «angolo», «spi96 Cfr. N. De Blasi, Una parola longobarda nella Valle Siciliana: il gàfio, in L. Franchi dell’Orto (a cura di), La Valle Siciliana o del Mavone, Roma 1984, vol. I, pp. 75-93. 97 Per le forme presenti nel lessico sanfelese cfr. Luciano, Dizionario dialettale, cit.; per il trecchinese cfr. Orrico, Il dialetto tecchinese, cit.; per l’aviglianese posso rinviare solo a F. Galasso, Nel belvedere (‘ndà lu bèlleveré), Lavello 1989. 98 Cfr. Cernicchiaro, Perretti, L’antica «terra» di Maratea, cit., p. 414. Questo longobardismo è anche nel latino dei documenti medievali: A. Varvaro, Appunti sulla situazione linguistica dell’Italia meridionale nel sec. XI (in margine ai voll. IX e X del Codice cavense), in G. Vitolo, F. Mottola (a cura di), Scrittura e produzione documentaria nel Mezzogiorno longobardo. Atti del Convegno internazionale di studio (Badia di Cava, 3-5 ottobre 1990), Badia di Cava 1991, pp. 41-54. 99 Rimando ai relativi lemmi di R. Bigalke, Dizionario dialettale della Basilicata, Heidelberg 1980. 100 Per l’etimologia dal longobardo zacken, «bastone a punta», cfr. Alessio, Battisti, Dizionario etimologico italiano, cit., p. 4104 e Luciano, Dizionario dialettale, cit., p. 221.

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golo», da zinna, «merlo», da cui deriva, con evoluzione metaforica, anche il senso di «mammella»101, che nei dialetti meridionali (Lucania compresa) è invece attribuito all’altro longobardismo zizza. 5. Componente greca nei dialetti lucani Se si riesaminano alcuni dati relativi ai grecismi lessicali da un lato risalta la continuità tra l’area lucana e quelle circostanti, dall’altro si delineano elementi in comune tra la parte meridionale della regione e quella più settentrionale. Nell’indagare sulla grecità delle regioni meridionali, Rohlfs riuniva una lista di 37 grecismi dei dialetti di Calabria e Lucania e osservava che «la percentuale dei grecismi diminuisce quanto più si procede verso Nord. Mentre nella provincia di Cosenza possiamo rintracciare ancora 33 grecismi, in Basilicata questi non sono più di 26 e nel Napoletano appena 19»102. Aggiungeva però che in specie nel bacino del Sinni si conservano anche altri grecismi, come vròtacu, «ranocchio»; camarda, «tettoia contro il sole»; mirizà, «odorare»; sima, «cicatrice»; spartu, «ginestra»; garamma, «fessura»103. Nella tabella che segue sono riuniti i grecismi presi in considerazione da Rohlfs. Con + sono indicati quelli che, alla luce delle sue indagini, si trovano sia in Calabria sia in Basilicata. Con il segno – si indicano le dodici parole che per Rohlfs sono assenti in Basilicata. Da recenti raccolte di lessico dialettale, però, risulta, come si vede qui in tabella, che otto di queste dodici parole sono conosciute ai parlanti di San Fele104 (nella zona del Vulture, quindi nell’area settentrionale della regione) o a quelli di Sant’Arcangelo105 (nella zona meridionale) o a quelli dell’area studiata da Lausberg106. Cfr. Alessio, Battisti, Dizionario etimologico italiano, cit.. G. Rohlfs, Scavi linguistici nella Magna Grecia, Halle-Roma 1933, p. 255. 103 Ivi, p. 256, nota. 104 Luciano, Dizionario dialettale, cit. 105 Cfr. la raccolta di L. Branco, Ricordi bizantini in un dialetto di Basilicata. Sant’Arcangelo, Moliterno 1985. 106 H. Lausberg, Die Mundarten Südlukaniens, Halle 1939. Sul maggior numero di grecismi rilevati da Lausberg richiama già l’attenzione A. Varvaro, I dialetti della Lucania nel Medioevo, in AA.VV., Lingua, dialetti e poesia popolare. Atti del V Convegno di storiografia lucana (Ruoti 1980), Potenza 1985 pp. 37-48, in particolare p. 46. 101 102

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 1 àpalo, «(uovo) molle» – San Fele  2 vàllene, «castagne lesse» –  3 vòtene, «cavità nel terreno» +  4 mùmmule, «vaso», «orcio» –  5 grasta, «vaso da fiori» – San Fele, Sant’Arcangelo, Lausberg  6 caccheve, «caldaia» +  7 cambu, «bruco» +  8 cardogna, «specie di cardo» +  9 cata, «presso» – San Fele, Sant’Arcangelo 10 centìmulo, «mulino» + 11 cendre, «chiodo» + 12 cerasu, «ciliegio» + 13 curine, «parte fina del lino» + 14 còscino, «cerchio del crivello» + 15 cuccuvedde, «civetta» + 16 làgana, «pasta sfoglia» – San Fele, Sant’Arcangelo, Lausberg 17 lippu, «sedimento melmoso» – San Fele, Sant’Arcangelo, Lausberg 18 mattra, «madia» + 19 matréja, «matrigna» + 20 naca, «culla» + 21 ruagne, «stoviglia» – San Fele, Sant’Arcangelo, Lausberg 22 uosimo, «fiuto» + 23 podia, «lembo della veste» – Lausberg 24 suricchia, «lucertola» + 25 sete, «melagrana» + 26 scifo, «truogolo» – 27 spanu, «sbarbato» + 28 sparne, «fascia» + 29 spara, «cercine» + 30 strumble, «trottola» + 31 tiano, «padella» – San Fele, Sant’Arcangelo, Lausberg 32 zile, «diarrea» + 33 tompagno, «fondo della botte» + 34 fratta, «siepe» – San Fele, Sant’Arcangelo (frattine), Lausberg 35 follone, «nido» + 36 zilona, «testuggine» + 37 zimmaro, «capro» +

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Se si considerano i dati qui inseriti nella colonna più a destra, risulta che la differenza tra la quantità di grecismi di area calabrese e quelli di area lucana non sarebbe nettissima (da 37 a 25), ma considerevolmente più ridotta: in effetti tra i grecismi considerati da Rohlfs mancherebbero in Basilicata soltanto vàllene, «castagna lessa», mummele, «orcio», e scifo, «truogolo»: ma Bigalke rileva scife a San Severino Lucano e mùmmule o mummuwe a San Giorgio Lucano107. Mancherebbe alla fine solo vàllene, presente peraltro in Campania. D’altronde lo stesso Rohlfs, in altre sue pagine, rivalutando la grecità di quest’area, segnalava che «all’estremo Nord della Calabria, al confine con la Basilicata (Lucania) troviamo nuovamente una regione in cui l’influsso greco si manifesta in maniera sorprendente»108. Limitandosi poi a considerare il lessico della sola area calabrese meridionale, riuniva un’altra lista di grecismi (in tutto 39) raccolti in quest’area. Si tratta però di parole presenti in buon numero anche nei dialetti lucani. A fronte l’elenco, con l’indicazione (con il segno +) delle forme documentate, in seguito, in Basilicata dalle ricerche di Lausberg109. Una buona parte degli elementi lessicali greci dei dialetti calabresi raggiunge pertanto anche la Basilicata meridionale. Non meno interessante è la fissazione dei grecismi nella toponomastica. Quelli indicati da Fanciullo sono110 Maratea, Propani, Serrapotamo, Cersosimo. Non poche sono poi le forme spiegabili come grecismi nella toponomastica minore di Maratea111: Auli, Brefaro, Cangito, Cirpaone, Coccovello, Cropaglia, Filocaio, Garàmma, Lacco, Lauro, Milozzo, Papadevola, Pircocu, Spani, Garazza, Vàvozo di zimmari. Inoltre è significativo il suffisso greco -ota (plurale -oti) di marateota, lauriota, «abitante di Maratea», «di Lauria». Altre indagini sul lessico della zona meridionale della regione potranno rivelare una presenza ancora più cospicua di grecismi diffusi anche nel resto della Basilicata: è ben noto, infatti, che il metodo di indagine di Rohlfs, privilegiando l’individuazione di forme fortemente caratteristiche per ciascuna area, lasciava in secondo piano ciò che

Cfr. Bigalke, Dizionario dialettale, cit. Rohlfs, Scavi linguistici, cit., p. 61. 109 Lausberg, Die Mundarten Südlukaniens, cit., pp. 178-80. 110 Fanciullo, Lukanien/Lucania, cit., p. 684. 111 Cfr. Cernicchiaro, Perretti, L’antica «terra» di Maratea, cit. 107 108

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 1 Alliestica, «molenda»  2 ntracchia, «porcellana»  3 Arìa, «quercia»  4 vrotacu, «rana»  5 vrisi, «vena d’acqua»  6 vruome, «avena selvatica»  7 ‘ngogna, «angolo di casa»  8 sijìja, «acero»  9 gurguliju, «gufo» 10 trinice, «ventilabro a tre denti» 11 camarranci, «euforbia» 12 càrcara, «parte del mulino» 13 citrie, «ginepro» 14 cìtrinu, «giallo» 15 cissu, «edera» 16 cùmmaro, «corbezzola» 17 grise, «pulicaria» 18 còssuve, «merlo» 19 co, «angolo di muro» 20 mànnulu, «chiavistello» 21 malagne, «guidalesco» «livido» 22 mirizza, «odorare» 23 ciggiastru, «agrifoglio» 24 littirina, «pipistrello» 25 paraciddu, «porcile» 26 parmidìa, «fiaba» 27 muru saràmitu, «muro a secco» 28 sajitta, «navetta del telaio» 29 sammucu, «sambuco» 30 spartu, «ginestra» 31 simpèssere, «consuocero» 32 sbrègliara, «crescione» 33 fraca, «erba stramba» 34 fèddaru, «tiglio» 35 lagarìa, «terreno fangoso» 36 garamma, «fessura» 37 asprèvita, «orzo selvatico» 38 ègliena, «biscia»

+ + + + + + + + + + + +

+ + + + + + +

+ +

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ogni zona condivideva con altre112. Ad esempio, alcuni incrementi alla lista dei grecismi in Basilicata sono resi possibili dal lavoro di Branco, che dà conto (per l’area di Sant’Arcangelo) di grecismi lessicali già attestati nel Cilento o nel Nord della Basilicata. Eccone alcuni: camastra, «catena del camino»; caccavo, «paiolo», carusà, «tagliare i capelli molto corti»; casentele, «lombrico»; centrone, «grosso chiodo»; gàve­ ta, «cassa in cui si uccide il maiale»; lope, «nebbia»; muca, «muffa»; naspre, «zucchero fuso»; ‘ngignà, «inaugurare»; nunne, «padrino»; pedàle, «grosso recipiente di terracotta»; pidànne, «giara»; pernecocche, «albicocca»; pesùle, «sedile di pietra»; piòche, «pino marino»; pòsema, «amido»; scalandrone, «palo», «piccola scala»; strummolo, «trottola»; talle, «germoglio», «ramo d’ulivo»; tappina, «pianella»113, zilona, «tartaruga»; zilo, «diarrea». Grecismo, infine, è forse anche tìngola, «gioco del nascondino», nel dialetto di Potenza e anche in area cilentana114. Da tempo, per le attestazioni del lessico dialettale, si dispone anche dello studio dei testi volgari medievali che, per quanto non antichissimi (i primi risalgono al Quattrocento), danno tuttavia una testimonianza non trascurabile. Il lessico è d’altra parte ben documentato anche dagli inventari latini, poiché vi affiorano spesso le parole dell’uso quotidiano. 112 Cfr., a questo riguardo, le osservazioni di A. Varvaro, Implicazioni teoriche delle ricerche dialettali di Gerhard Rohlfs in Lucania, in De Blasi, Di Giovine, Fanciullo (a cura di), Le parlate lucane, cit., pp. 141-53. 113 Il grecismo tappina è ad esempio registrato a Picerno nel senso di «pianella» (Greco, Dizionario dei dialetti di Picerno e Tito, cit.) ed è correntemente usato nell’italiano potentino anche per designare le «ciabatte da spiaggia» in plastica. Quest’ultima accezione, certo non riconducibile alla cultura tradizionale, è in un certo senso indizio di un’evoluzione semantica del dialettalismo originario adottato per identificare un tipico prodotto del contemporaneo consumismo industriale. Di questa parola, che manca nel dialetto napoletano, si coglie un’attestazione, per ora isolata, in un testo volgare quattrocentesco dell’umanista Giovanni Brancati, che era probabilmente originario di Policastro e perciò partecipe della grecità linguistica del Cilento meridionale: cfr. S. Gentile, Il libro pliniano sugli animali acquatici (N.H., IX) nel volgarizzamento dell’umanista Giovanni Brancati. Inedito del secolo XV, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», nuova serie 10, 1961 pp. 307-44, solo nell’estratto pp. xxii + 38 (tappini in un breve glossario a p. xviii). 114 Questa voce appare collegabile al verbo dialettale (attestato in calabrese) tingare, «toccare», da ricondurre al greco thingano, «tocco», «tasto», «prendo», «afferro» (Alessio, Battisti, Dizionario etimologico, cit., p. 3794); nel gioco del nascondino l’esclamazione «tingola!» è pronunciata da chi si mette in salvo toccando il luogo dove è stata fatta la conta. Nel linguaggio quotidiano si registra il verbo tingolare nel senso di «scoprire», «stanare».

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Nel Liber visitationis (1457-58) di Atanasio Calceopulo, nell’inventario latino dei beni del monastero di Carbone115 incontriamo i seguenti grecismi: mandilia (accanto a tobalea), assartum, «grossa corda», cindato, mitrie, camastre, caccabi, curtina, coperta (kopertia nel greco moderno). Queste attestazioni non dimostrano naturalmente che a Carbone o in altri centri si parlasse il greco nel Quattrocento116, ma rivelano pur sempre che oggetti di uso quotidiano serbavano i nomi imposti in passato da persone che usavano il greco o da altri che con i grecofoni avevano contatti assidui117. 6. L’arcaicità dell’area Lausberg Alla coesistenza di Greci e Latini in epoca medievale è collegabile la nota questione della cosiddetta area Lausberg e dell’arcaicità di alcune sue caratteristiche fonetiche e morfologiche. L’area Lausberg, che prende il nome da chi ne scoprì le caratteristiche dialettali, comprende parte della Basilicata meridionale e parte della Calabria settentrionale. A nord il confine dell’area segue una linea che congiunge Acquafredda sul Tirreno con la foce del fiume Agri sulla costa ionica. Come elementi di arcaicità linguistica della zona sono stati in genere interpretati il vocalismo tonico e le forme verbali di seconda e terza persona. Qui Lausberg individuò un sistema pentavocalico di tipo sardo, in cui ogni vocale deriva dalle corrispondenti lunghe e brevi latine (cioè la i del dialetto deriva da i lunga e i breve latine; la e da e lunga ed e breve ecc.). 115 L’inventario si legge nell’edizione di M.H. Laurent, A. Guillou (a cura di), Le «Liber visitationis» d’Athanase Chalkéopulos (1457-1458). Contribution à l’histoire du monachisme grec en Italie méridionale, «Studi e testi», 206, Città del Vaticano 1960, pp. 155-56. Per il lessico del Liber cfr. inoltre lo studio di A. Varvaro, Capitoli per la storia linguistica dell’Italia meridionale e della Sicilia. IV Il «Liber visitationis» di Atanasio Calceopulo (1457-1458), in «Medioevo romanzo», 11, 1986, pp. 55-110. 116 Cfr. Varvaro, I dialetti, cit., p. 40. 117 Dai testi notarili editi da Compagna, Testi lucani, cit. si raccoglie un’altra piccola messe di grecismi: càccavo, camastra, zimarrino, «del caprone», cilona, «baldacchino», cìtrino, «giallo», corine, «canapa», mandolicchio, «nottolino», rogagno, «recipiente», sterpa, «femmina di animale sterile, priva di latte» (cfr. Id., L’area linguistica della Lucania dal Medioevo al Rinascimento, in Holtus, Metzeltin, Schmitt [a cura di], Lexicon, cit., vol. II/2, pp. 200-12).

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In una parte della stessa area (a Maratea) egli incontrava però un altro sistema, sempre pentavocalico, ma di tipo siciliano, in cui le e e le o lunghe danno luogo rispettivamente a i e u. Un altro tratto arcaico dei dialetti dell’area Lausberg è la conservazione di -s e -t che (come in latino) si incontrano nelle desinenze di seconda e terza persona. Questa caratteristica (che investe anche i dialetti cilentani) non è uniforme in tutta la zona118. La spiegazione storica di questi tratti119 è stata in genere ricercata nell’isolamento dell’intera zona e ricondotta a una norma della linguistica areale, secondo cui le innovazioni linguistiche raggiungono più tardi o parzialmente (o non raggiungono per niente) le zone più isolate. L’isolamento delle aree lucane, dopo le prime osservazioni di Rohlfs e Lausberg, è stato accolto in seguito come un dato acquisito e scontato; la prima perplessità al riguardo, insieme con una proposta di diversa interpretazione, è stata sollevata da Varvaro120, il quale ha tra l’altro segnalato che per Lausberg il riferimento all’isolamento non esauriva il problema dell’arcaicità di quest’area. Dopo aver sottolineato l’esistenza, sin dall’antichità, della via Popilia121, che congiungeva Capua a Reggio Calabria, e dopo aver osservato che l’isolamento e l’abbandono delle aree lucane e calabresi si accentuano in età moderna, mentre la loro percorribilità era nel Medioevo paragonabile a quella di qualsiasi altra zona (poiché dappertutto gli spostamenti avvenivano perlopiù a piedi o a cavallo), Varvaro avanza un’altra spiegazione: invece che come conseguenza dell’isolamento, che farebbe presupporre una plurisecolare immutabilità etnica e linguistica, la conservazione sarebbe il prodotto non casuale dell’identità linguistica delle popolazioni lucane, che nella lingua avrebbero trovato un elemento di coesione. Tale identità può essere stata sollecitata e rinforzata particolarmente nelle zone in cui 118 Cfr. Lausberg, Die Mundarten Südlukaniens, cit., §§ 313 sgg. e Fanciullo, Lukanien/Lucania, cit., p. 670. 119 Come si accennerà più avanti, non tutti condividono l’idea che l’area Laus­ berg sia arcaizzante: cfr. P. Caratù, Südlukanien/La Lucania meridionale, in Holtus, Metzeltin, Schmitt (a cura di), Lexicon, cit., vol. IV, pp. 688-95. 120 Varvaro, Sulla nozione di area isolata, cit. 121 A parere di alcuni la via Popilia si chiamava in realtà via Annia: cfr. al riguardo la documentata perorazione di V. Bracco, Della via Popilia (che non fu mai Popilia), in P. Borraro (a cura di), Studi lucani e meridionali, Galatina 1978, pp. 9-18. Non vi è tuttavia dubbio che l’importanza e la funzione della strada restino immutate anche con l’eventuale diversa denominazione.

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le popolazioni sono state «esposte alla vicinanza di comunità antagonistiche per lingua e/o tradizioni religiose»122. Questa impostazione del problema, a ben guardare, renderebbe ragione a una zona di frontiera che, occupata dai Longobardi e poi rioccupata dai Bizantini, ha effettivamente accolto genti di lingua greca accanto alle popolazioni che parlavano il volgare romanzo. Il processo di rafforzamento dell’identità si sarebbe realizzato con modalità differenti nei vari centri e avrebbe comportato una certa frammentarietà linguistica (si è detto della non uniforme conservazione di -s e -t e dei due sistemi vocalici): ciò sarà dipeso dall’assenza di «grandi centri urbani in grado di innescare processi di aggregazione sopra-locale, su scala regionale»123, oltre che di proporsi come punti di irradiazione di novità linguistiche. La non irrisoria quantità di grecismi nei dialetti della Basilicata meridionale accrediterebbe la possibilità che dalla convivenza di genti di lingua greca e di quelle di lingua romanza siano derivate conseguenze di ordine linguistico. Diverso è a questo riguardo il parere di Paolo Martino124, che riaffermando la validità del binomio arcaismoiso­lamento125 precisa, nonostante sia accertata dagli storici una «notevole immigrazione di popolazioni grecofone provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria meridionale»126, che la «grecizzazione bizantina della Lucania, a giudicare dai riflessi conservati nei dialetti romanzi locali, fu ben più debole che in altre aree»127. Varvaro, Sulla nozione di area isolata, cit., p. 144. Ibid. 124 P. Martino, L’«area Lausberg» isolamento e arcaicità, Roma 1992, p. 32. 125 Ivi, p. 23. 126 V. von Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, p. 69. 127 Martino, L’«area Lausberg», cit., p. 32. Lo stesso studioso inoltre, per dimostrare che le popolazioni lucane e calabresi del Medioevo non potevano in nessun modo affermare una volontà di conservazione linguistica in nome della propria identità culturale, ricorda che in genere «le popolazioni dell’Italia meridionale mostrano un senso di ‘vergogna’ per la propria dialettofonia e, invece di quella sicurezza linguistica o ‘autofiducia’ che di norma ogni parlante ostenta per la propria lingua materna, manifestano una forma di autodenigrazione e desiderano l’accesso all’italiano come emblema di promozione socioculturale» (ivi, p. 99). A sostegno di questa valutazione vengono richiamate alcune impressioni di H. Lüdtke, Die soziologische Stellung der Mundart in Portugal und Süditalien: ihre Bedeutung für Sprachgeschichte, in «Orbis», 5, 1956, pp. 123-30, un’osservazione di T. De Mauro e M. Lodi, Lingua e dialetti, Roma 1979, p. 38 e finanche un’inchiesta dell’«Espresso» del 17 marzo 1957. Va da sé, 122 123

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La percezione dell’isolamento in tempi a noi vicini sembra però a volte proiettarsi sul passato. Si leggano ad esempio queste frasi con cui Rohlfs rievocava i suoi primi contatti con Acquafredda (miei i corsivi)128: Per facilitarmi il compito in una regione con zone ancora assai arretrate nel senso del moderno turismo, il console d’Italia a Berlino ebbe la gentilezza di favorirmi una lettera di raccomandazione per un suo parente nel Mezzogiorno d’Italia: era l’Ex-ministro Francesco Saverio Nitti, lucano di nascita, che soleva passare la villeggiatura nel suo villino a Acquafredda (fraz. di Maratea) in Basilicata. In questo modo quel piccolo paese, situato in una meravigliosa zona litorale (ma ancora senza albergo o locanda), diventò la prima stazione per il mio viaggio. Da un rapido sondaggio sulla parlata di quel paese ancora non accessibile con strade, mi resi conto di trovarmi in un angolo della Lucania con dialetto estremamente interessante per certi fenomeni di tipo originale che palesavano un’antica latinità.

Con poche parole, quasi dosate in punta di penna, e con il ricorso, per ben tre volte, ad «ancora», Rohlfs, in questa pagina peraltro suggestiva scritta nel 1985, alluderebbe a un’immutabile condizione di isolamento della zona («un angolo»), collegandola all’antica latinità del dialetto del luogo. Inoltre è indubbio che con l’allusione a un isolamento costante nel tempo si proiettano all’indietro nel tempo (non di pochi anni, ma di oltre un millennio) impressioni e dati ricavati dall’osservazione diretta del presente. A questo proposito è utile uno sguardo all’orografia dei luoghi. Come è ben noto, al centro dell’area Lausberg, che si estende dal Tirreno allo Ionio, si trova il massiccio del Pollino, che ha la sua vetta più alta nella Serra Dolcedorme, di 2266 m (ma che è fatto, al pari di ogni massiccio, di valli e altipiani oltre che di vette). La presenza del Pollino sembra quasi offrire la prova decisiva dell’isolamento dell’intera zona, inaccessibile e non transitabile in quanto montagnosa. Non è improbabile invece che l’area del Pollino, conquistata dai Longobardi, poi ripresa dai Bizantini e raggiunta da un flusso migratorio non solo monastico, non sia stata sempre considerata inavvicinabile. Tale idea appare forse meno peregrina se si aggiunge che l’attuale area però, che la percezione e la valutazione dei parlanti non possono essere presupposte come entità immutabili e irrelate da un preciso contesto storico. 128 Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi, cit., p. 9.

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Lausberg non è tutta montagnosa, o quanto meno che non tutti i suoi centri abitati sono arroccati sulle montagne, come potrebbe suggerire una prima impressione. In realtà, tra i diciotto paesi che rientrano nell’area Lausberg, dodici (Tursi, Valsinni, Nova Siri, Episcopia, Senise, Francavilla in Sinni, Castelluccio Inferiore, Viggianello, Rotonda, Cersosimo, Rotondella, Colobraro) si trovano tra i 200 e i 600 m di altitudine, mentre solo due (San Severino e Terranova) sono a più di 800 m. Ciò vuol dire che i paesi del Pollino sono in larga misura collinari (come quasi tutti i paesi abruzzesi, molisani, irpini, sanniti, cilentani, calabresi e lucani). Al riguardo si consideri che quasi tutti questi paesi sorgono a un’altitudine di gran lunga inferiore a quella di Potenza (in genere non ritenuta area isolata), che si trova a 819 m. Ne consegue dunque che l’altitudine non è un parametro sufficiente per valutare un eventuale isolamento. D’altra parte, se il massiccio del Pollino fosse stato in passato un baluardo insormontabile, esso avrebbe contribuito a separare e a differenziare i dialetti della Calabria settentrionale da quelli della Basilicata meridionale; non è invece irrilevante che esso non segni alcun confine linguistico, ma sia anzi al centro di un’area ben individuabile (nonostante una frammentazione interna), che accomuna i dialetti dei due versanti (come si è appena visto a proposito dei grecismi). Un altro elemento dinamico è rappresentato dal ruolo strategico di certe aree, se è vero che esse furono contese da Longobardi e Bizantini, e poi prontamente occupate dai Normanni. Per di più in queste zone si trovavano le foreste, una ricchezza tenuta in gran conto nel passato129: La leggendaria produzione di legname, di resina e di catrame, e inoltre l’allevamento del bestiame, costituivano senza dubbio la base economica che indusse il governo di Costantinopoli a istituire il tema di Lucania alla metà del X secolo, allorché l’insediamento rurale consentì al catasto e al fisco bizantino introiti sufficienti per assicurarne il funzionamento e la difesa.

Gli stessi monaci greci, che risalirono la Calabria nei secoli X e XI per stabilirsi nella Basilicata meridionale e nel vicino Cilento, non cercavano solo la meditazione eremitica e la preghiera. Essi si radunavano in comunità per dedicarsi all’agricoltura, tanto che «la colonizzazione 129 A. Guillou, L’Italia bizantina dalla caduta di Ravenna all’arrivo dei Normanni, in Galasso (a cura di), Storia d’Italia, vol. III, cit., pp. 3-126, in particolare p. 44.

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monastica, attraverso questi monaci dissodatori, si segnala per la conquista di nuove terre alle colture»130. Dalle vite dei santi apprendiamo dell’opera di bonifica che accompagnò i nuovi insediamenti131: Saba e Macario portano la vita nelle regioni per l’innanzi spopolate del Mercurion e del Latinianon, e insegnano ai contadini con la loro attività la pratica della rotazione delle terre, e di concimare con il debbio, la tecnica dell’innesto degli alberi fruttiferi e della costruzione delle case: S. Luca di Armento restaura di sua mano la chiesa di S. Laverio.

Al momento di questa seconda colonizzazione nella zona meridionale lucana i confini amministrativi coincidono con quelli religiosi. Oronzo Parlangèli osservava che «le circoscrizioni diocesane, meglio di quelle amministrative, rispecchiano le partizioni dialettali»132; Tursi, sede episcopale, era anche capitale del tema di Lucania: l’attuale area Lausberg corrisponde infatti alla diocesi di Tursi e Anglona, le cui frontiere correvano lungo il corso dell’Agri, che oggi segna il confine della conservazione di -s e -t. L’organizzazione religiosa e le comunità monastiche, nel segno di una «coralità della vita religiosa, espressa con la massima partecipazione verso l’esterno», entravano in contatto con le popolazioni locali, «senza porsi in antitesi come classe privilegiata»133; i monaci, pertanto, erano parte della popolazione agro-pastorale e fungevano da richiamo per altri nuclei abitativi. Una conferma di come gli insediamenti monastici richiamassero le popolazioni agro-pastorali e di come l’insediamento umano fosse connesso all’insediamento monastico si ricava dal caso del monaco Giona. Questi nel 983 circa fondò un chorìon presso Tricarico, chiedendo all’igumeno della Theotokos del Rifugio di metterlo a coltura; «e questi provvede a chiamarvi degli eleuteroi, dei contadini liberi per lavorarla»134. Lo scenario che si intuisce attraverso le vite dei santi comporta insomma una comunicazione assidua tra i monaci e gli altri coltivatori: tra loro dovevano passare, se non altro, le informazioni quotidiane in Cilento, La Lucania bizantina, cit., p. 100. Ivi, p. 101. 132 Parlangèli, Storia linguistica, cit., p. 39, nota. Per la coincidenza tra l’area Lausberg e la diocesi di Tursi cfr. Martino, L’«area Lausberg», cit., p. 33. 133 Cilento, La Lucania bizantina, cit., p. 101; a p. 99 si ricorda inoltire che san Saba fondò un monastero sulle rive del Sinni. 134 Ibid. 130 131

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merito alla concimazione delle terre o alle tecniche di costruzione. Chissà che proprio attraverso contatti del genere, sia detto per inciso, non abbia attecchito, tra gli altri, il grecismo muro a salamete, che designa il «muro costruito a secco». Senz’altro fu poi rilevante il ruolo di aggregazione dei monasteri greci che sorsero in Calabria e Basilicata intorno al Pollino, costituendo col tempo un saldo polo della cultura greca in Italia meridionale, al cui interno vi era anche margine per l’impiego nella scrittura del volgare locale. Tali monasteri, che controllavano aree molto estese, come accadeva a quello di Carbone, accoglievano anche diverse centinaia di monaci135. I monasteri greci conobbero dal Duecento in poi un lento e definitivo declino; in ciò è tuttavia la dimostrazione di come la storia dell’area Lausberg e delle sue aggregazioni sociali, culturali e religiose sia stata tutt’altro che statica nel corso dei secoli. Lo stesso declino dei monasteri è per l’appunto un elemento di straordinaria dinamicità, un segno del mutare di alcune circostanze che avevano in precedenza favorito la fioritura delle realtà monastiche bizantine. Basterebbe tale considerazione, per quanto ovvia nella sua evidenza, ma anche nella sua concretezza, a sfatare l’idea di una zona vissuta in perenne segregazione e in uno stato di immobilità costante. Tale decadenza, intervenuta tra l’età angioina e quella aragonese (quando ormai le differenze dialettali si erano stabilizzate da alcuni secoli), è infatti indizio di una perifericità progressiva della zona, ma è anche testimonianza certa di una situazione precedente del tutto diversa. Nel Liber visitationis di Calceopulo, per gli anni 1456-57, quasi di ogni monastero si dice che è «circumdatum spinis et deductum in ruinam, tam ecclesiam quam alia beneficia, licet fuisset magna fatica constructum»136: al di là dell’immagine forse topica delle rovine, sembra evidente che le cose siano profondamente cambiate rispetto a un passato fiorente, testimoniato peraltro dalle stesse rovine. 135 Dai documenti editi da G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and St. Anastasius of Carbone, in «Orientalia Christiana», 44, 1928; 53, 1929; 62, 1930, si apprende ad esempio (parte prima, p. 188) che nel 1080 a Carbone risiedevano 318 monaci. A proposito dell’«ampio orizzonte geografico, sul quale il Monastero di Carbone esercitava [...] il suo dominio spirituale», sia al di qua che al di là del Pollino, cfr. F. Mosino, Origine, storia e lingua, in P. De Leo (a cura di), Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Cava dei Tirreni 1988, pp. 15-36 (citazione da p. 36). 136 Cfr. Cilento, La Lucania bizantina, cit., p. 104.

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Se con la fine del monachesimo greco si produce il fenomeno dei villages désertés137, ciò vuol anche dire che il popolamento dei villaggi era in diretto rapporto con la forza religiosa e culturale dei monasteri (non privi verosimilmente di prestigio linguistico). Nonostante la progressiva scomparsa dei «piccoli centri rurali aggregatisi intorno alle antiche fondazioni monastiche»138, per cui le terre abitate, che erano 148 nel 1265, scesero a 96 nel 1445, alcuni indizi fanno pensare che a metà Duecento fosse ancora avvertita la vitalità culturale e linguistica dei monasteri greci: è noto ad esempio che Manfredi apprese il greco dai monaci139; nel secolo successivo si formò poi nel monastero carbonense Leonzio Pilato140. Un’estrema propaggine del prestigio della cultura greca irradiato dai centri monastici si incontra nei testi in lingua volgare messi per iscritto a Carbone nei secoli XV e XVI: l’alfabeto usato dai monaci per le loro annotazioni è infatti quello greco141. Le notizie segnate nei libri liturgici, in una scrittura apparentemente casuale, sono consegnati a un sistema grafico consacrato da una tradizione plurisecolare (forse ancora considerata alternativa a quella latina). L’adozione dell’alfabeto greco è molto probabilmente il frutto di una scelta consapevole, poiché è indubbio che i monaci (se solo l’avessero voluto) avrebbero potuto usare l’alfabeto latino, come pure fanno alcuni di essi142. In conclusione, non è fuori luogo affermare che la latinità arcaica dell’area Lausberg si è conservata in una zona in cui per quattro o cinque secoli si sono avvertiti direttamente gli effetti anche linguistici della deuterellenizzazione143. Se ora torniamo brevemente ai tratti dialettali arcaici, osserviamo che nemmeno da un punto di vista di storia della lingua interna la situazione è sempre rimasta immutata. L’attuale distribuzione di Ibid. Ibid. 139 Ivi, p. 103. 140 Ivi, p. 104. 141 I testi sono editi da A. Varvaro, A.M. Compagna, Capitoli per la storia linguistica dell’Italia meridionale e della Sicilia: II. Annotazioni volgari di S. Elia di Carbone (secoli XV-XVI), in «Medioevo romanzo», 8, 1983, pp. 91-132. 142 Cfr. N. De Blasi, La Basilicata, in F. Bruni (a cura di), L’italiano nelle regioni, Torino 1992, pp. 720-50, in particolare p. 725. 143 Non sarebbe improprio estendere anche a quest’area la validità delle considerazioni di F. Fanciullo, Tra greco e romanzo nell’Italia meridionale, in «L’Italia dialettale», 54, 1991, pp. 15-56. 137 138

N. De Blasi   Parole e popoli in movimento

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vocalismo sardo e vocalismo siciliano (ora nel Cilento meridionale e a Maratea) non riflette probabilmente la situazione medievale. Nei testi antichi144 si nota infatti un’attestazione consistente di vocalismo siciliano anche in altre zone della regione. Ciò autorizza a credere che nella zona si sia realizzata un’innovazione di non poco conto, e proprio per quell’aspetto (il vocalismo tonico) che si è così disposti a vedere come esclusivamente conservativo. La situazione sembra insomma più complessa e dinamica di quanto non appaia a prima vista. Un’analisi in termini diversi da quelli della staticità e dell’isolamento è stata proposta di recente da Franco Fanciullo, che analizza gli esiti del vocalismo tonico come uno dei prodotti della lunga interferenza tra latino e greco145. Lo studioso muove dalla constatazione che il vocalismo siciliano si incontra solo nelle aree in cui (a cominciare dalla Sicilia) per molti secoli greco e latino hanno vissuto a stretto contatto. In queste zone di confine si sono realizzati numerosi scambi lessicali tra le due lingue, che riguardavano spesso parole tra loro diverse soltanto per la vocale tonica: dove in latino c’era una -e- lunga si incontrava in greco una -i-, dove c’era una -o- lunga si incontrava omega, che almeno in molti casi ha dato una -u-. Sarebbe quindi stato possibile un meccanismo di imitazione per cui coloro che parlavano il volgare locale di base latina avrebbero cominciato a pronunciare certe parole alla maniera greca, cioè articolando come -i- e come -u- tutte le vocali che in partenza erano e ed o lunghe. Questa spiegazione può essere convincente per il vocalismo siciliano in generale146, e spiega anche certe caratteristiche del vocalismo dell’area Lausberg, dal momento che anche qui greco e latino sono stati a lungo in contatto. Il vocalismo di quest’area non sarebbe dunque statico e immutabile nella sua arcaicità, ma sarebbe stato in un certo senso diviso tra forze innovative, di attrazione verso il modello greco, e forse conservative. Lo stesso Fanciullo sottolinea inoltre che l’area Lausberg viene considerata isolata in quanto arcaizzante, soprattutto perché si tende a considerare arcaico il vocalismo di tipo sardo; lo stesso vocalismo, però, caratterizzava «le parlate romanze sviluppatesi nell’Africa nord-occidentale e poi assorbite dall’arabo»147; sarebbe arduo 144 Cfr. l’esemplare descrizione linguistica di Varvaro, Compagna, Capitoli per la storia, cit. 145 Cfr. Fanciullo, Lukanien/Lucania, cit. e Tra greco e romanzo, cit. 146 Id., Tra greco e romanzo cit., pp. 27-41. 147 Id., La Basilicata, cit., p. 762.

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Parte quarta. Lingua, cultura e produzione letteraria

affermare in linea di principio che il latino diffuso nella Cartagine di età imperiale avesse caratteristiche di radicata arcaicità e non avesse assorbito le innovazioni del latino di Roma. Come le sfumature regionali dell’italiano, anche le caratteristiche linguistiche locali del latino dipendevano insomma dalla «reattività delle popolazioni di volta latinizzate», per cui il latino può avere «sviluppato vocalismi diversi a seconda delle lingue con le quali ha interagito»148, senza che l’uno o l’altro di tali vocalismi sia etichettabile in sé come più moderno o più arcaico. La complessa situazione del vocalismo nella Basilicata meridionale, dove si affiancano il vocalismo di tipo sardo, quello siciliano (a Maratea) e quello di tipo rumeno (che rappresenta una via di mezzo tra quello sardo e quello italiano comune), rimanda di fatto a un quadro piuttosto movimentato, difficilmente riconducibile a schemi precostituiti. La questione che fin qui si è cercato di riassumere rimane probabilmente ancora aperta e meritevole di ulteriori approfondimenti. Resta peraltro indubbio che, anche da questo punto di vista, lo studio della storia linguistica della Basilicata rappresenta un campo di indagine ricco e per molti aspetti affascinante, che può ricevere nuovi apporti anche attraverso un continuo riesame dei testi149.

Ibid. Gli studi di M. Braccini, Frammenti dell’antico lucano, in «Studi di filologia italiana», 22, 1964, pp. 205-362; A. Varvaro, Autografi non letterari e lingua dei testi (sulla presunta omogeneità linguistica dei testi), in AA.VV., La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce (22-26 ottobre 1984), Roma 1985, pp. 255-67 e Capitoli per la storia linguistica, cit., IV, pp. 55-110; Varvaro e Compagna (Capitoli per la storia, cit.) confermano che le edizioni di testi e le descrizioni linguistiche ben condotte consentono interpretazioni di ordine storico-linguistico e l’acquisizione di non poche informazioni sulle vicende linguistiche delle epoche passate. Se i testi antichi in volgare non riflettono mai per intero tutte le caratteristiche fonetiche dei dialetti, che in parte vengono «filtrate» (e ciò naturalmente vale per tutte le aree – per tutte le epoche – e non solo per la Lucania), non è detto che ad essi non si debba prestare fede, almeno per tutto ciò che vi è attestato (sempre che, pare ovvio, si faccia ricorso agli strumenti e ai metodi adeguati), né è cosa scontata che in tali testi si possa studiare solo l’espansione della Schriftsprache toscana (secondo una convinzione di Braccini, Frammenti, cit., riferita da Martino, L’«area Lausberg», cit., p. 76, nota). Tra le ponderate cautele espresse da P. Di Giovine, Le parlate lucane nell’indagine dialettologica, glottologica e sociolinguistica, in «Annuario dell’Università degli studi della Basilicata», 2, 1987-88, pp. 62-67 è tra l’altro da condividere la sollecitazione a non trascurare nelle indagini glottologiche i testi medievali e moderni (p. 64). 148

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GLI AUTORI Cosimo Damiano Fonseca (Massafra, Taranto, 1932) è stato professore ordinario di Storia medievale all’Università degli Studi di Bari. Primo rettore dell’Università degli Studi della Basilicata (dal 1982 al 1994), ha insegnato a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Lecce nella facoltà di Lettere e Filosofia di cui è stato preside. In Basilicata ha promosso l’istituzione dell’Area di ricerca del CNR ed è stato direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Federiciani. A Lecce e a Matera ha realizzato le prime due Scuole di specializzazione del Mezzogiorno in Archeologia classica e medievale. È membro di numerose accademie italiane ed estere, tra cui l’Accademia Nazionale dei Lincei, e di organismi scientifici nazionali e internazionali, tra cui la Commissione di storia ecclesiastica comparata del Comité International des Sciences Historiques. È stato vicepresidente del Centro di studi normanno-svevi, direttore del Dipartimento di Scienze storiche e sociali dell’Università degli Studi di Bari, presidente del Comitato tecnico-scientifico per gli Archivi del Consiglio superiore per i Beni culturali e paesaggistici, nonché componente del comitato direttivo dell’Enciclopedia Fridericiana dell’Istituto della Enciclopedia Italiana. La sua produzione scientifica, concretizzata in circa ottocento pubblicazioni, ha privilegiato alcuni nuclei tematici quali la politica anglo-franco-pontificia tra XII e XIII secolo, il particolarismo istituzionale e l’organizzazione ecclesiastica del Mezzogiorno medievale, il popolamento rupestre dell’area mediterranea, il Medioevo canonicale. Gioia Bertelli è stata professoressa ordinaria di Archeologia e Storia dell’arte paleocristiana e alto-medioevale e poi di Storia dell’arte medievale nell’Università degli Studi di Bari, dove ha insegnato anche presso la Scuola di specializzazione in Beni archeologici. Le sue ricerche si sono incentrate in particolare su argomenti pugliesi e lucani; ha al suo attivo una numerosa serie di pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali e alcune monografie. Corrado Bozzoni, professore emerito di Storia dell’architettura presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Per gli Editori Laterza ha pubblicato Storia dell’architettura medievale. L’Occidente europeo (con R. Bo-

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nelli e V. Franchetti Pardo, 1997) e L’architettura del mondo antico (con V. Franchetti Pardo, G. Ortolani, A. Viscogliosi, 2006). Gastone Breccia è ricercatore di Civiltà bizantina, prima presso l’Università degli Studi della Basilicata e attualmente presso l’Università degli Studi di Pavia, dove insegna anche Storia militare antica. Le sue ricerche hanno come temi principali il monachesimo bizantino nel Mezzogiorno d’Italia, la tradizione degli archivi italo-greci, l’analisi paleografica delle scritture documentarie greche di età bizantina e normanna e l’arte della guerra nel mondo bizantino. Dopo il 2010 si è occupato soprattutto di storia militare anche al di fuori dell’ambito bizantino, pubblicando numerose monografie. Per gli Editori Laterza ha scritto Lo scudo di Cristo. Le guerre dell’impero romano d’Oriente (2016). Giovanni Battista Bronzini († 2002), professore emerito, docente di Storia delle tradizioni popolari, Letteratura popolare e Antropologia culturale, ha insegnato nelle Università degli Studi di Roma, Bari, Lecce e Foggia. È stato tra i primi ispiratori e promotori dell’Università degli Studi della Basilicata, di cui – per due trienni – ha presieduto la facoltà di Lettere e Filosofia. È stato direttore di «Lares», la più antica e prestigiosa rivista italiana di studi demo-etnoantropologici. Filippo Burgarella († 2017) è stato professore ordinario di Storia bizantina all’Università degli Studi della Calabria, dove ha diretto anche il Dipartimento di Storia. È stato autore di articoli e saggi dedicati alla storia dell’Italia e delle istituzioni bizantine. Ha fatto parte di comitati scientifici di importanti riviste specialistiche di bizantinistica, nonché di prestigiose associazioni e di istituti di ricerca. Cesare Colafemmina († 2012) è stato docente di Sacra Scrittura e di Ebraico nel Pontificio Seminario Regionale Pugliese dal 1964 al 1983 e docente di Epigrafia e antichità ebraiche nell’Università degli Studi di Bari dal 1992 al 1999. Autore di numerose pubblicazioni, è stato tra i maggiori esponenti degli studi ebraici per Puglia, Calabria e Basilicata. Pietro Dalena è stato professore ordinario di Storia medievale presso l’Università degli Studi della Calabria, presidente del corso di laurea in Storia e conservazione dei beni culturali nella Facoltà di Lettere e Filosofia, Pro-Rettore ai rapporti con le istituzioni nazionali. Ha insegnato Didattica della storia presso la SSIS della medesima Università e Storia della città e del territorio presso la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università della Basilicata. È stato consulente di sismica storica dell’ENEA, responsabile di

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numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali, nonché deputato della Deputazione di Storia Patria della Calabria. Relatore in molti congressi nazionali e internazionali, è autore di numerosi saggi e volumi. Nicola De Blasi, già docente presso l’Università degli Studi della Basilicata, è professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università degli Studi di Napoli «Federico II» e accademico della Crusca. Si occupa di storia linguistica italiana, di storia dell’insegnamento dell’italiano, di dialettologia italiana – con particolare riferimento all’area campana e lucana – di storia di parole. Ha pubblicato diverse monografie e ha curato l’edizione critica di testi letterari e non letterari, tra i quali opere napoletane del Trecento e del Quattrocento, scritti di italiano popolare, raccolte poetiche di Ferdinando Russo e Salvatore Di Giacomo, e, con Paola Quarenghi, per la collana «i Meridiani», Mondadori, il Teatro di Eduardo De Filippo. Pietro De Leo è professore emerito di Storia medievale nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi della Calabria, dove ha insegnato anche Paleografia latina, Didattica della storia, Storia e cultura della Calabria, Storia della città e del territorio. È stato presidente dell’Istituto internazionale di Epistemologia «La Magna Grecia». È membro del comitato scientifico del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti e direttore del comitato scientifico del Centro di studi su Cassiodoro e il Medioevo calabrese. È stato presidente della Commissione cultura Stato-Regione Calabria. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Luisa Derosa, già ricercatrice presso l’Istituto Internazionale di Studi Federiciani del CNR di Castel Lagopesole e in seguito ricercatrice di Storia dell’arte medievale presso l’Università degli Studi di Bari, attualmente è in servizio presso l’Università degli Studi di Foggia. Nell’ambito dell’attività scientifica si è dedicata principalmente allo studio della produzione plastica e architettonica di età romanica tra Puglia e Basilicata, argomento sul quale ha pubblicato numerosi saggi. Mario D’Onofrio è stato professore ordinario di Storia dell’arte medievale presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Ha dedicato la sua attività di ricerca all’arte di varie epoche del Medioevo, con particolare riferimento all’area italiana, francese e tedesca. Ha organizzato importanti mostre a Palazzo Venezia, come «I Normanni popolo d’Europa» e «Romei e Giubilei». È autore di numerose pubblicazioni e ha curato importanti mostre sul Medioevo. Marina Falla Castelfranchi è stata professoressa ordinaria di Storia dell’arte medievale presso la facoltà di Beni culturali dell’Università degli

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Studi di Lecce. Si è occupata di storia bizantina in Italia meridionale e di architettura giustinianea in Asia Minore e Siria, campi nei quali ha all’attivo più di ottanta pubblicazioni. È membro dell’Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici «Bruno Lavagnini» di Palermo e dell’International Center of Medieval Art (USA). Clara Gelao è stata direttrice della Pinacoteca Metropolitana (già Provinciale) di Bari sino al 2018. Si è occupata e si occupa ancora oggi di museologia, disciplina nella quale è considerata una delle maggiori esperte nazionali, e di storia dell’arte, soprattutto meridionale. Fra i suoi molteplici interessi, la pittura e scultura lucana del Rinascimento e la pittura veneta nella Puglia storica, argomenti sui quali ha pubblicato alcuni fortunati volumi. Più di recente, ha ampliato i suoi studi occupandosi della pittura e della scultura meridionale dell’Ottocento e del Novecento. Maria Giannatiempo, già funzionario storico dell’arte presso le Soprintendenze per i beni storico-artistici di Matera e di Urbino. Oltre ai propri compiti istituzionali ha svolto un’intensa attività scientifica e di valorizzazione del patrimonio curando pubblicazioni inerenti il restauro d’importanti complessi artistici ed allestendo varie mostre. È stata docente di Legislazione artistica presso l’Università degli Studi di Urbino e membro dell’Accademia Raffaello di Urbino, dell’Accademia Filelfica di Tolentino e della Società Internazionale di Studi Storici Francescani. Hubert Houben è dal 2001 professore ordinario di Storia medievale nell’Università degli Studi del Salento e dal 2007 presidente del Centro interdipartimentale di ricerca sul’Ordine Teutonico nel Mediterraneo (CIROTM) della stessa Università. Ha insegnato nelle Università degli Studi della Basilicata (1983-84) e di Bologna (1992-94); è stato Senior Visiting Research Fellow al St John’s College di Oxford (1991-92), Direttore reggente dell’Istituto Internazionale di Studi Federiciani del CNR a Potenza-Castel Lagopesole (1994) e Visiting Professor nelle Università di Vienna (1997) e Berlino (FU Berlin, 1999). Dal 2016 è Presidente della Commissione Storica Internazionale per la ricerca sull’Ordine Teutonico (Vienna) e membro del Consiglio scientifico del progetto “L’edizione dei diplomi dell’imperatore Federico II” della Commissione Storica dell’Accademia Bavarese delle Scienze a Monaco di Baviera; dal 2010 è Socio ordinario dell’Accademia Pontaniana (Napoli) e dal 2017 è Socio straniero dell’Accademia Nazionale dei Lincei a Roma. Alfonso Leone († 2015) è stato docente di Storia medievale presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II». Studioso della storia socio-economica dell’Italia meridionale durante il Medioevo, si

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è occupato in particolare del commercio amalfitano nel Quattrocento, della banca fiorentina e del commercio estero nel regno di Napoli al tempo di Ferrante d’Aragona, della topografia e della società napoletana in età angioina e dell’evoluzione del notariato meridionale. Ha diretto la collana «Cartolari notarili del secolo XV». Pierluigi Leone de Castris ha lavorato per oltre vent’anni presso la Soprintendenza per i beni artistici e storici di Napoli, curando il riallestimento e i cataloghi dei dipinti antichi del Museo di Capodimonte, e organizzando numerose mostre in Italia e all’estero. Già professore a contratto di Museologia all’Università degli di Lecce, è stato professore ordinario di Storia dell’arte moderna, prima all’Università degli Studi della Basilicata, dal 2004 all’Università dgli Studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». Si è interessato di diversi aspetti dell’arte nel Meridione d’Italia fra XIII e XVII secolo, pubblicando lavori monografici su Polidoro del Caravaggio e su Simone Martini, altri volumi sulla pittura meridionale del Cinquecento, sull’arte alla corte angioina di Napoli, e alcuni studi sul patrimonio artistico della provincia di Matera e sulla scultura lignea in Basilicata. Nicola Masini è Direttore di ricerca dell’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR. Direttore e cofondatore della rivista «Heritage», insegna Fondamenti di restauro al Corso di laurea in Architettura e Sistemi costruttivi antichi e restauro alla Scuola di Specializzazione in Beni archeologici dell’Università della Basilicata (sede di Matera). È autore di 380 pubblicazioni nel campo delle scienze applicate all’archeologia, alla conservazione e restauro del patrimonio architettonico e allo studio delle tecniche costruttive. Rita Mavelli è stata docente a contratto di Storia dell’arte moderna presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Foggia. Si occupa di arti decorative e di cultura artistica del territorio di Capitanata, aspetti sui quali ha curato alcuni volumi e pubblicato vari saggi. Michele Miele è stato direttore della rivista «Sapienza» e ha fatto parte del collegio redazionale di «Campania Sacra»; è stato membro del consiglio direttivo dell’Associazione dei professori di Storia della Chiesa in Italia. Ha insegnato Storia della Chiesa e del cristianesimo, inizialmente nello Studio generale dei Domenicani, poi nella facoltà teologica dell’Italia meridionale e nella facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Napoli. Francesco Panarelli è professore ordinario di Storia medievale presso l’Università degli Studi della Basilicata, dove dirige il Dipartimento di Scienze umane. I suoi studi hanno essenzialmente approfondito la storia religiosa

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e monastica medievale e la storia delle città, con particolare attenzione al Mezzogiorno italiano. Letizia Pellegrini è professoressa associata di Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università degli Studi di Macerata. I suoi studi riguardano principalmente la Storia della Chiesa e la storia religiosa (XIII-XV secolo), con particolare riferimento alla cultura e alla pastorale degli Ordini Mendicanti. Le sue ricerche degli ultimi vent’anni vertono prevalentemente sul Quattrocento, con particolare attenzione all’agiografia, all’omiletica e alla letteratura dell’Osservanza minoritica cismontana, nonché alla progressiva definizione della sua fisionomia e delle sue autorappresentazioni nel quadro delle riforme religiose europee del XV secolo. È autrice di oltre 100 pubblicazioni tra cui si segnala da ultimo il manuale di Storia della Chiesa: il Medioevo (Bologna 2020). Antonella Pellettieri, già dirigente di ricerca per l’area Scienze Storiche presso l’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del CNR di Potenza. I suoi ambiti di ricerca vertono su due tematiche principali: ricostruzione della forma urbana dei centri demici dell’area del Mezzogiorno e studio degli ordini religioso-cavallereschi nel bacino del Mediterraneo. Francesco Tateo è stato professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Bari fino al 2006. Ha presieduto l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale e l’International Association for Neo-Latin Studies; fa parte della Commissione per l’edizione nazionale dei testi umanistici e presiede quella per le opere di Giambattista Della Porta. È nel Comitato scientifico delle riviste «Albertiana» e «Critica letteraria». Si è occupato prevalentemente di Dante, Petrarca e Boccaccio, del Rinascimento e dell’Ottocento letterario; ha promosso gli studi sull’Umanesimo nel Mezzogiorno d’Italia. Ha diretto la Storia di Bari per gli Editori Laterza.

INDICE DEI NOMI Abate, F., 643n. Abbate, F., 817n, 819 e n, 824 e n, 825n, 827n, 828n, 829n, 830n, 831n, 832n, 833n, 836 e n, 837n, 838n, 839n, 841n, 844n, 846n, 853n, 854n, 864n, 874n, 875n, 876n, 878n, 879n, 882n, 893n, 899n, 907n, 932n. Abbondanza Blasi, R.M., 271n, 286n, 304n, 1000n. Abelardo, nipote di Roberto I, duca di Puglia, 95. Aberson, M., 522n. Abita, S., 847n, 848n, 854n, 855n, 862n, 875n, 877 e n, 878n, 892n, 932n, 940n. Abramo, figlio di Isac Shem Tov di Tortosa, 324-25. Abramo ben Mosè de Balmes, 326. Abu Al Kassim Abbes ibn Khalef Ezzahrawi, 324. Acciaiuoli, A., 153, 218. Acciaiuoli, N., 153, 218. Acclavio, D., 18. Acconcia Longo, A., 78n, 339n, 340n. Accrocca, F., 416n, 419n. Aceto, F., 627n, 631n, 644n, 645n. Acocella, G., 1015n. Acocella, N., 61n. Acquaviva, A.M., 979. Adalberto di Praga, santo, 762. Adaloaldo, re dei Longobardi, 61. Adamesteanu, D., xi-xii, 505n. Adamo Rufo da Barletta, 403n. Adautto, martire di Venosa, 263, 271. Adelaia, contessa di Principato, 379. Adenolfo, abate, 798. Adeodato I, papa, santo, 918.

Adriano, santo, 275, 772. Adriano, Publio Elio, imperatore romano, 308. Adriano I, papa, 65, 567. Agapito II, papa, 196. Agata, santa, 930. Agazia di Mirina, detto lo Scolastico, 54. Agilulfo, re dei Longobardi, 61. Agnello, G., 669n. Agnese, badessa, 639. Agnese, santa, 768. Agni, T., arcivescovo di Cosenza, 451. Agosti, G., 858n. Agostino, frate, 394. Agostino, Aurelio, santo, 436, 597. Agostino da Roma, v. Favaroni, A. Agostino di Benevento, vescovo di Venosa, 471n, 473. Ahima’az ben Paltiel, 315, 319-20. Aitardo, miles, 695n. Ajello (Aiello), A., 839n, 933. Ajello, R., xi. Alamanni, L., 984-85. Albano Leoni, F., 1011n, 1021n. Alberada, signora di Colobraro e di Policoro, 375. Alberada di Buonalbergo, moglie di Roberto I il Guiscardo, 607, 620, 625-26. Alberigo, G., 436n. Alberti, L., 9 e n, 13, 15n, 18n, 20 e n, 24n, 25 e n, 26 e n, 48 e n, 178, 179n, 458. Albertino, mercante veneziano, 147. Alberto degli Aleramici, 110n. Albertoni, O., 70n.

­1048 Albini, G., 302n. Albino, G., 965 e n. Albiria, figlia di Tancredi d’Altavilla, re di Sicilia, 115. Aldovrandi, U., 969-70. Alemanno, G., 862. Alemanno, P., 862. Alessandro, conte di Matera, figlio di Goffredo di Conversano, 95, 100, 698 e n. Alessandro, imperatore bizantino, 73. Alessandro, santo, 787. Alessandro, signore di Marsicovetere, 199, 374, 379. Alessandro II (A. da Baggio), papa, 98, 246, 249-50, 252-53, 255, 257, 284. Alessandro III (R. Bandinelli), papa, 255-56, 285, 369-71. Alessandro IV (Rinaldo dei conti di Segni), papa, 436, 439. Alessandro VI (R. de Borja y Doms), papa, 470, 486, 920. Alessandro da Sant’Elpidio, poi vescovo di Melfi, 438n. Alessandro de Alessandrellis, 156. Alessandro di Chiaromonte, 100, 375. Alessandro di Telese, 692 e n, 694n, 697n, 698n, 703n, 708 e n, 709n, 714 e n, 715n, 716n. Alessio, G., 1011n, 1012n, 1014n, 1017n, 1025n, 1026n, 1030n. Alfano, arcivescovo di Salerno, xvii, 246, 255, 285. Alferio d’Isernia, 146. Alfonso II, re di Aragona, I conte di Catalogna, detto il Casto, 965-66. Alfonso II, re di Napoli, 30, 157-58. Alfonso V, re di Aragona, IV conte di Catalogna, I re di Napoli, detto il Magnanimo, 138 e n, 139, 142, 149, 154, 161n, 349, 430, 440, 459, 680. Aliberti, G., xi. Allen, E., 164n. Alonso, C., 435n. Alparone, G., 837n, 929n. Altavilla, famiglia, 91, 94, 98-99, 101, 110, 113-14, 116-18, 255, 364, 367, 519, 620-22, 626, 659, 696. Altavilla, A., 305n, 655n, 656n, 657n, 678n, 846n, 855n, 884n, 892n, 952n. Althaus, K.R., 764n.

Indice dei nomi

Altilio, G., 965 e n. Altimari, F., 349n, 351n. Altobello, v. Persio, Altobello. Altomare, L., 756. Alvermann, D., 89n. Amalasunta, regina degli Ostrogoti, 58. Amari, M., 169n, 208n. Amato, monaco, 298. Amato di Montecassino, 90 e n, 91 e n, 92 e n, 93-94, 216 e n, 693 e n, 694n, 704, 705 e n, 711. Ambrasi, D., 412n, 440n, 441n. Ambrogio Angelo da Melfi, frate, 44546. Ambrogio da Massa, 402n. Amelio, abate, 135n. Amelotti, M., 78n. Amerusio, N., 159. Ammar, S., 325n. Ammirato, S., 969-70, 986. Amoroso, P.A., 668n. Anacleto II (P. Pierleoni), antipapa, 368. Anania, B., 972. Anastasio di Carbone, santo, 336, 564, 754, 932. Andaloro, M., 770. Andenna, C., 288n. Andenna, G., 305n, 383n. Andrea, apostolo e santo, 189, 263, 269, 787. Andrea, arcivescovo di Acerenza e di Matera, 104n, 118n, 175, 286, 292, 654. Andrea, arcivescovo di Canosa, 250. Andrea, vescovo di Marsico, 294. Andrea Briosco, detto il Riccio, 859. Andrea de Aste, 824n. Andrea di Acerenza, 654. Andrea di Montemurro, frate, 461. Andrea di Ragusa, vescovo di Satriano, 473. Andrea di Venosa, frate, 443-44. Andreasi, O., beata, 461-62. Andriani, B., 450n. Angelelli, C., 510n. Angelello, G., don, 974. Angelini, G., xi. Angelo, vescovo di Tricarico, 214. Angelo da Chivasso, 425-26.

Indice dei nomi

Angelo da Potenza, 804n. Angelo de Berardis, 277, 483, 494. Angelo de Bernardo, v. Angelo de Berardis. Angelo de Brundusio, 501. Angelo di Giovanni Amerusio, 457. Angelo di Montepeloso, frate, 451. Angelo di Pomarico, 134. Angiò, v. Angioini. Angioini, dinastia, 17, 45, 128, 130-31, 138, 320-21, 351, 412, 450, 452, 459, 472, 676, 689, 755, 776, 783, 792, 798, 801, 964, 1008, 1012, 1020. Angiolini Martinelli, P., 514n, 522n. Anichino di Bongarten, 218. Anonimo Barese, 693n, 696n. Anonimo di Ravenna (Ravennate), 22, 24, 25 e n. Anonimo di Venosa, xvii. Anselmo, arcivescovo di Acerenza, 123. Anselmo da Montefalco, priore, 44546. Ante, martire, 271. Antinori, F., 652n. Antonella di Sangineto, 140. Antonini, G., xv. Antonino Pierozzi, santo, arcivescovo di Firenze, 467. Antonino Pio, imperatore romano, 1003. Antonio, abate, 186, 360. Antonio, nipote di san Luca di Demenna, 340. Antonio, priore, 444. Antonio, santo, eremita e abate, 189. Antonio D’Amato, G., 927n. Antonio (Placone) de Riccardis, detto Bianco, 192. Antonio di Bitonto, frate, 455, 456n. Antonio di Matera, frate, 456. Antonio di Padova, santo, 402n. Antonio di Rivello, vescovo di Melfi, 473. Antonio di San Giorgio, 158. Antonio di Sanseverino, conte di Tricarico, 161n, 423. Antonio di Sant’Angelo, 427. Antonio di Venosa, frate, 455, 458n. Antonio Giovannotto, frate, 471n. Antonio Michele de Renzo, 178.

­1049 Antonio Rocco di Carbone, frate, 335. Antonucci, G., 137n. Apollonia, santa, 189, 781. Appella, G., 929n. Aquilina Sancia, v. Sancia di Maiorca. Aragiusto A., 664. Aragonesi, dinastia, xvi, 133, 138, 450, 459, 472, 490, 680, 864, 966. Araneo, G., 650n. Arcadio, imperatore romano d’Oriente, 1003. Arcuccio, A., frate, 828. Arcuzio di Atella, 221. Arduino, comandante, 90 e n, 92n. Arechi I, duca longobardo di Benevento, 37, 61-62. Arechi II, duca longobardo di Benevento, 64, 65 e n, 66, 357, 563. Ariosto, L., 987. Ariovaldo, re dei Longobardi, 61. Aristotele, 326, 971. Arnaldi, G., 329. Arnaldo, arcivescovo di Acerenza, 246, 250, 256, 262, 272, 279, 284-85, 291, 626. Arnaldo, priore, 494. Arnaldo da Villanova, 808. Arnolfo, arcivescovo di Cosenza, 25051. Arnolfo di Cambio, 661n. Arnolino (Arnulino), conte di Lavello, 92-93, 694, 695n. Arone, signore di Brienza, 373. Arslan, E., 648, 795n, 842n, 928n. Artese, L., 975n. Asclettino, conte di Sicignano e signore di Polla, 372. Asclettino Drengot, conte di Acerenza, 92, 694. Ascoli, G.I., 309n, 314n, 316n, 319n. Asor Rosa, A., 1022n. Atalarico, re degli Ostrogoti, 9, 58. Atanasio, santo, 788, 1031. Atenolfo, comandante normanno, 693. Atenolfo di Capua, 72. Attendolo, G., 988. Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore romano, 5. Aurora, I., 144n, 156n, 159n, 160n, 294n, 305n, 306n, 711n.

­1050 Auvray, L., 384n, 385n. Avagliano, F., 334n, 362n. Avagnina, M.E., 734 e n. Avena, A., 648. Averroè, 326. Aversano, V., 87n, 147n, 209n. Azzolino, B., 955. Babic, G., 755n. Baboccio, A., 853, 903. Baer, Y., 322n. Baldelli, I., 1022n. Balducci Pegolotti, F., 158. Balduino, vescovo di Melfi, 256. Bals, S., 253n, 582n, 584 e n, 586n, 648. Balvano, famiglia, 108-109. Banti, O., 336n. Baratta, M., 128n, 138n. Barba, N., 862. Barbara, santa, 189, 821 e n, 822, 99596. Barbero, A., 405n. Barbiche, B., 980n. Barbone Pugliese, N., 687n, 833n, 835n, 893n, 912n, 934n, 939n, 942 e n, 947n, 948n, 949n, 950n, 954 e n. Barnaba, abate di Venosa, 659. Barnaba di Nardò, 461. Barnaba di Sanseverino, conte di Lauria, 157. Barocci, F., 949, 953. Barone, G., 405n. Baronio, C., 448n. Barra, F., 147n. Barrile, G., 814, 816. Barrio, G., 967 e n. Bartholomaeis, V. de, 90n, 216n, 693n. Bartolomea, figlia di Antonio (Placone) de Riccardis, 192. Bartolomeo, abate, 366. Bartolomeo, apostolo e santo, 788. Bartolomeo, frate, 493, 935. Bartolomeo, neoarchimandrita, 7, 346. Bartolomeo da Pisa, 395. Bartolomeo da Pistoia, 923-24, 931. Bartolomeo da Roma, frate, 344. Bartolomeo da Venezia (Bartholomaei Veneti), 435n, 445n. Bartolomeo di Andria, 129n.

Indice dei nomi

Bartolomeo di Donna Fasana, 123. Bartolomeo di Neocastro, 25n. Basile, A., 853n, 862n, 874n, 886n, 926n. Basilio, priore, 492-93. Basilio I, imperatore bizantino, detto il Macedone, 6, 71, 72n. Basilio Boioannes (Bojoannes), catepano, 84n, 89, 275, 339 e n. Basilio di Cesarea, detto il Grande, santo, 263, 334, 338, 345-46, 381, 785-88. Basilio Mesardonites, catepano, 84n, 339n. Bastia, U., 966n. Bastiani, L., 841, 842 e n. Batlle, C.M., 241n, 274n. Battifol, P., 366n. Battisti, C., 1014n, 1025n, 1026n, 1030n. Battistini, R., 930n. Baucelin de Linais, 745n, 748n. Baylé, M., 607n, 612n. Bazzana, A., 705n. Beatrice d’Angiò, figlia di Carlo II d’Angiò re di Sicilia, 676. Beatrice de Poncy (de Ponziaco), 140n. Beatrice di Borgogna, moglie di Carlo II d’Angiò, 1013n. Becker, J., 39n, 245n, 329n. Bedos, B., 327n. Befulco, P., 932. Beit-Arié, M., 326n, 327n. Belisario, generale, 20, 50, 52, 243. Belli D’Elia, P., 78n, 262n, 512n, 523n, 607n, 626n, 632n, 650n, 651n, 652n, 661n, 768n, 778 e n, 779, 784, 785 e n, 804n, 811n, 871n, 874n, 893n, 894n, 897n. Bellini, G., 842-44, 845n, 880. Belmonte, L., xiii. Beloch, K.J., 46n, 47n. Belting, H., 65n. Beltrando de Albemale, 125n, 126n. Belverte, P., 879. Benedetti, S., 538n, 572n. Benedetto, frate, 493. Benedetto, vescovo di Matera, 279. Benedetto VII, papa, 245, 250.

Indice dei nomi

Benedetto XII (J. Fournier), papa, 134n. Benedetto XV (G. Della Chiesa), papa, 350n. Benedetto da Norcia, santo, 190, 369, 381. Beniamino, monaco, 342. Beniamino da Tudela, 320. Benvenuto da Gubbio, frate, 400n, 402, 403 e n. Berardi, J., 690 e n. Berengario, abate, poi vescovo di Venosa, 364, 367, 520n, 621, 626. Berengario di Lauria, 135. Berenson, B., 810 e n. Berger, M., 768n. Bergeron, R., 274n. Bernardino da Fossa (o da Aquila), bea­ to, 419, 420 e n, 421. Bernardino da Siena, santo, 422, 424, 430. Bernardino di Namur, arcidiacono, 287. Bernardo, monaco, 69n. Bernardo, vescovo di Rionero, 210. Bernardo di Chiaravalle, santo, 476 e n. Bernheimer, C., 323n. Bertario, abate, 69. Bertaux, E., 168 e n, 187 e n, 188 e n, 280 e n, 571n, 576, 586n, 609n, 623n, 636n, 644 e n, 645, 647 e n, 648, 661n, 668 e n, 672 e n, 674 e n, 734 e n, 763-64, 768, 793n. Bertelli, C., 556n, 557n, 578n, 758n. Bertelli, G., 236 e n, 253n, 254n, 260n, 381n, 508-509, 510n, 513, 514n, 517, 521, 523n, 528n, 529, 530n, 533, 534n, 535n, 537n, 542n, 543n, 556n, 557n, 559-61, 585n, 586n, 763n, 769 e n, 770n. Berteraimo, conte di Andria, 110-11. Bertolani Del Rio, M., 303n. Bertolini, O., 66n. Bertrando del Balzo, conte di Montescaglioso e di Andria, 137, 676. Bessarione, G., cardinale, 155, 346. Beyerle, F., 69n. Biagio, igumeno, 336-37, 343-44. Biagio, santo, 337, 865, 868, 901, 1003.

­1051 Bianchi, P., 1005n, 1007n, 1008n, 1015n, 1016n, 1018n. Bianco, G., 494. Bianco, R., 846n, 847n, 850n, 853n, 854n, 855n, 858n, 862n, 863, 874n, 875n, 876n, 878n, 879 e n, 882n, 893n, 899n. Bibbo, F., 909n, 912n. Bierbrauer, V., 49n, 50n, 549n. Bigalke, R., 1025 e n, 1028 e n. Bihl, M., 657n. Biondo, F., 967. Biscaglia, C., 664n, 665n, 666n. Bizamano, A., 928. Bizamano, D., 928. Blasio, igumeno, 85n. Bluhme, F., 67n, 244n. Blumenkranz, B., 317n, 327n. Bochicchio, M.A., 398n, 421n, 422n, 423n, 425n, 426n, 429n. Bock, N., 802n. Boemondo I d’Altavilla, principe di Antiochia, 97, 99-100, 111, 607. Boemondo II d’Altavilla, principe di Antiochia, 99-100. Boenzi, F., 87n. Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino, santo, 323. Bologna, F., 521n, 784, 793n, 796 e n, 797, 798 e n, 802n, 806n, 808n, 809n, 810 e n, 812 e n, 814, 815n, 823n, 824, 825n, 920n, 1000n. Bolognari, M., 349n, 351n. Bolognini, M., 966n. Bonafos Bonfil Astruc (Azaria o G. Catulla), 322-23, 324 e n, 325-26. Bona Sforza, regina di Polonia, 969. Bonciani, G., 147. Bonfil, R., 316n. Bonifacio, famiglia, 140. Bonifacio, M., 453n. Bonifacio I, papa, santo, 235. Bonifacio VIII (B. Caetani), papa, 370, 410, 437-39, 441, 473, 488, 490. Bonifacio da Moscufo, 427. Bonifacio di Anglona, 126. Bonito, M., 46n. Bonoinfante, restauratore, 202. Boraccesi, G., 904n, 905 e n, 914n. Bordenache, R., 566n.

­1052 Borghese, I., 953. Borghini, A., 641n, 896 e n. Borgia, G., 966 e n. Borgia, S., cardinale, 905n. Borraro, P., xvn, xvin, 145n, 154n, 310n, 1032n. Borrelli, G.G., 869n, 870n. Borsari, S., 338n, 359n, 360n, 363n. Bosco, V., 168n. Boskovits, M., 824 e n, 825-26. Bottini, A., xi. Bottini, P., 24n, 262n, 525n, 527, 528n, 550n, 580n. Bourguignon, B., 737. Bove, G., 398n, 404n, 422n, 662n, 672n, 978n. Bozza, A., 351n. Bozzoni, C., 522n, 538n, 540n, 541n, 572n, 575n, 603n, 605n, 620n. Braccini, M., 997n, 1040n. Brancati, G., 1030n. Branco, L., 1026n. Braunfels, W., 66n. Breccia, G., 80n, 88n, 214n, 215n. Brémond, A., 456n, 458n, 459n, 460n, 462n, 463n, 464n, 471n. Briganti, G., 942n. Brindisi, R., 1007n. Briscese, R., 227n, 293n, 363n. Bröens, M., 165n. Brogiolo, G.P., 557n. Bronzini, G.B., xi. Bronzino, G., 42n, 112n, 222n, 536n, 666n. Brooten, B.J., 313n. Brown, R.A., 371n. Brühl, C., 216n, 252n, 363n, 365n, 691n. Brumario, 237. Bruni, F., 1009n, 1038n. Bruno, B., 548n. Bruno, D.P., 976. Bruno, G.F., 1000n. Bruno, V., 578n, 972-73, 976. Brunone, vescovo di Potenza, 284. Bubbico, L., 355n, 356n, 516, 519, 523n, 537 e n, 538n, 539, 542n, 566n, 572n, 574n, 575n, 576n, 577n, 578n, 585n, 586n, 588n, 596n, 660n, 674n, 677n, 678n, 679n, 931n.

Indice dei nomi

Buccaro, A., 153n, 162n, 195n, 259n, 278n, 480n, 507n, 682n. Buck, R.J., 22n, 195n, 528n. Buono, S., 942-43, 945-46. Burgarella, F., 7n, 19n, 50 e n, 53n, 56n, 84n, 328n, 329n, 331n, 332n, 334n, 336n, 338n, 340n, 341n, 342n, 762n. Busone da Fabriano, 304. Butilino, condottiero, 54. Bux, N., 334n. Cadei, A., 642n, 643n. Caetani, B., v. Bonifacio VIII. Caetani, G., 497n. Caggese, R., 134n, 135n, 321n, 497n, 500n. Cagiano de Azevedo, M., 24n, 570 e n, 571, 602n. Cagnone, G., 939. Cagnone, M., 939. Caietani, O., 1001. Calceopulo, A., igumeno, 155, 347, 1031, 1037. Calenzio, E., 179 e n. Calì, madre dei santi Saba e Macario, 340. Calice, F., 670n. Calice, N., xi, xvin. Callisto II (Guido, conte di Borgogna), papa, 197, 250-51, 273, 286, 588n. Callisto III (A. Borgia), papa, 370. Callisto III (Giovanni, abate di Strumi), antipapa, 260. Calò Mariani, M.S., 15n, 280n, 632n, 638n, 642n, 645n, 652n, 654n, 655n, 670n, 747n, 776, 777n, 789n, 792n, 793n, 795n, 802n, 846n, 864n, 881n, 883n, 887n, 922n. Calvanico, R., 1016n. Cammarosano, P., 517n. Campanella, T., 975. Campione, A., 23n, 24n, 36n, 231n, 232n, 235n, 237n, 239n, 241n, 270n, 271n, 506n, 512n, 514n. Candido, monaco, 375. Canevaro, F., 750n. Canio, santo, 39, 261-62, 269, 271, 626, 1002-1003. Cantarella, G.M., 101n.

Indice dei nomi

Cantino Wataghin, G., 259n, 510n, 512n. Capano, A., 259n, 507n, 510n, 538n, 541n, 542n, 572n. Cappellano, A.T., 681 e n. Cappelli, B., 338n, 555n, 565 e n, 581n, 584n, 587 e n, 588n, 590n, 591, 609n, 610n, 611n, 636n, 624n, 648, 995n, 998n. Cappelluti, G., 450n, 461n. Cappiello, L., 639n. Caprara, R., 165n. Caputo, F., 355n, 356n, 516, 519, 523n, 537 e n, 538n, 539, 542n, 566n, 572n, 574n, 575n, 577n, 578n, 580n, 585n, 586n, 588n, 596n, 660n, 674n, 677n, 678n, 679n, 931n. Carabellese, F., 379n. Caracciolo, famiglia, 155, 979. Caracciolo, A., 980, 981n, 982-84, 986. Caracciolo, ser Gianni, v. Giovanni I Caracciolo. Caracciolo, Giovannella, 141n. Caracciolo, N., vescovo di Melfi, 304. Caracciolo, T., 157n, 979 e n. Carafa, famiglia, 142, 352. Carafa, O., cardinale, 463, 470. Carafa, T., vescovo di Potenza, 278, 281, 301. Caratù, P., 1032n. Caravale, M., 104n, 106n, 113n. Carbonara, G., 577n. Cardini, F., 475n, 501n. Cardisco, M., 932-33. Cardona, A., 989. Carletti, C., 254n, 381n, 543n, 544, 584n, 585n, 763n, 769. Carlo II, imperatore, detto il Calvo, 317. Carlo V, re di Napoli, 351-52, 454. Carlo VIII, re di Francia, 139, 162, 965. Carlo I d’Angiò, re di Sicilia, 15, 17, 22, 26, 34, 123, 125-28, 129n, 131, 132n, 208, 320, 348, 406, 414, 440 e n, 452, 499, 658, 661-62, 666n, 673, 676, 681, 730, 736, 738, 746, 748, 797, 1019. Carlo II d’Angiò, re di Sicilia, detto lo Zoppo, 17, 46n, 47, 129n, 130-31, 133n, 158, 209-10, 215, 397n, 409,

­1053 412-13, 440n, 453, 473, 481, 500, 656, 668, 673, 676, 743, 798, 801, 1012 e n, 1013n. Carlo III di Durazzo, re di Napoli, 148, 211, 676. Carlo d’Angiò, duca di Calabria, 135n. Carlo Magno, imperatore, 65-66. Carpaccio, V., 842. Carrozza, P., 349n, 351n. Carucci, C., 209n. Caruso, S., 339n, 340n. Cascella, B., 129n. Casciaro, R., 849n, 850 e n, 853, 854 e n, 855 e n, 862n, 878n. Cassandro, M., 147n. Cassano, R., 510n, 827n, 858n. Cassiodoro, martire, 272, 520n, 567. Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio, 9n, 19n, 36n, 49, 50n, 51. Cassuto, D., 314n. Cassuto, U., 314n. Castellani, C., 436n, 442n, 1024n. Castelluccio, G., 761n, 784n, 851n. Castelnuovo, E., 921n, 922n. Castriota (Scanderbeg), G., 351. Catello, C., 901n, 910n, 911n, 912n, 913n, 914n, 917n. Catello, E., 864n, 899n, 901n, 906n, 911n, 912n, 913n, 914n, 916n. Catena, A., 572n. Caterina, sorella di san Fantino il Giovane, 81. Caterina, sorella di san Luca di Demenna, 41, 340, 360. Caterina d’Alessandria, santa, martire,189, 784, 801, 999. Caterina del Balzo Orsini, 852. Caterina di Valois-Courtenay-Costantinopoli, 801. Catulla, G., v. Bonafos Bonfil Astruc. Causa, R., 793n, 806n, 928n. Cavalieri, G.M., 471n. Cavallini, P., 802. Cavallo, G., 329n, 361n. Cecchelli, C., 584n. Cedrenus, G., 71n. Celestino III (Giacinto di Pietro di Bobone), papa, 320. Cenna, A., 987. Cenna, G., 681 e n, 991.

­1054 Cenna, J., 987, 991n. Centola, S., 462n, 463n. Ceriana, M., 857n. Cernicchiaro, J., 1016n, 1017n, 1025n, 1028n. Cesare da Sesto, 927-28. Cesi, F., 975. Cestaro, A., xi-xii, 290n, 327n, 649n, 850n, 940n. Chalandon, F., 89n, 694n. Chiara, santa, 932. Chiaromonte, famiglia, 95n, 96n, 199, 344, 362. Chiaula, T. da Chiaromonte, 966. Chiesa, B., 326n. Christiansen, K., 840n. Christou, P.C., 332n. Chrysonica, madre di san Vitale, 275. Ciardi Dupré Dal Poggetto, M.G., 915n. Ciasca, R., v, 303n. Ciccarelli, J., 870. Ciccarelli, N.F., 870. Cicchetti, D.M., 870, 1014n. Cicco Antonio de Caris, 140n. Cifuni, B., 1003. Cilento, N., 8n, 37n, 144n, 145n, 152n, 154n, 155n, 372n, 1020n. Cima da Conegliano, 843-44, 955. Ciminale, D., 531n. Ciminelli, famiglia, 277. Cioffari, G., 448n, 449 e n, 450n, 451n, 453n, 454n, 457n, 458n, 469n, 471n, 662n. Cipriano, rector Siciliae, 62. Cirigliano, L., 538n, 572n, 575n, 933n. Cirillo, martire, 787. Ciro il Grande, re di Persia, 324n. Citamiore, G., 351. Civita, M., 675n. Claps, V., 46n, 138n, 649n, 650n. Clareno, A., 413, 415-18, 419 e n, 42021, 432, 808. Clark, F., 369n. Claussen, P.C., 602n, 603 e n, 604 e n, 623n, 660n, 793n. Clemente IV (G. Fulcodi), papa, 661. Clemente V (B. di Goth), papa, 287, 409, 413-14, 474.

Indice dei nomi

Clemente VII (G. de’ Medici), papa, 678. Clemente da Barletta, priore, 444 e n. Clivio, G., 1005n. Cobello di Matteo di Raone, 305. Coberger, W., 951-52. Coco, P., 398n, 422n. Codrington, H.W., 335n. Coens, M., 269n. Cola de Conza, 681. Colafemmina, C., 157n, 309n, 310n, 311n, 312n, 314n, 315n, 316n, 319n, 320n, 326n, 327n, 523n. Colamarco, T., 692n. Colantonio, 828. Colapietra, R., xi, 667n, 668n. Colino de Four, 303. Colonna, famiglia, 140n, 142. Comba, R., 198n, 207n, 221n. Compagna, A.M., 1015n, 1031n, 1038n, 1039n, 1040n. Comparetti, D., 6n, 28n, 710n. Conca, F., 767n, 768n. Conde, R., 150n. Conese, F., 165n. Coniglio, G., 154n, 155n, 156n, 157n, 158n, 159n, 160n, 162n. Consalvo di Cordova, condottiero, 142, 154n, 920. Consolino, F.E., 342n. Contarini, D., 160. Contarini, G., cardinale, 469, 974. Convenuto, A., 914n, 934n, 939n. Cooperman, B., 311n. Copeti, A., 277, 449n. Coppola, M., 161. Coppola, P., viin. Corasio, G., 737n. Cornut, H., 737. Cornut, P., 738. Coronato, S., 572n. Corradi, A., 135n, 138n. Corradino di Svevia, 126, 406. Corrado, M., 551n. Corrado II di Franconia, detto il Salico, imperatore, 577. Corrado IV di Svevia, re dei Romani, 114, 122, 451. Corrado di Basilea, 493-94. Corsi, P., 20n, 63n.

Indice dei nomi

Corsuto, famiglia, 665n. Corsuto, P.A., 986. Cortelazzo, M., 1005n, 1014n, 1015n, 1017n. Coscarella, A., 756n. Cosma, fratello di san Fantino il Giovane, 81. Cosma, igumeno, 376. Cosma, monaco di San Basilio di Beniamino, 342. Costa de Nura, 378. Costante II, imperatore d’Oriente, 20, 63 e n, 64. Costantino, abate, 369. Costantino, tassiarca, 83. Costantino I, detto il Grande, imperatore, 271, 524, 761. Costantino VI, imperatore bizantino, 66. Costantino IX Monomaco, imperatore bizantino, 343. Costanza d’Altavilla, imperatrice, 11415, 370, 286, 370. Costanzo II, imperatore romano, 314. Cotecchia, V., 171 e n, 179n. Covella Ruffo, duchessa di Sessa, 140n. Cozza-Luzi, I., 10n, 82n, 340n, 359n. Cozzi, M., 572n. Cracco, G., 332n. Craveri, M., 243n. Cremante, R., 987n. Crescenzio, martire, 270. Criscuolo, G.F., 932, 934. Crispino, vescovo, 238. Cristoforo, miniatore, 809. Cristoforo, monaco, 587. Cristoforo da Collesano, 336, 340-41, 359. Croce, B., v, 162n, 179n, 972n, 984n, 988n. Crotti, R., 302n. Crudo, G., 128n, 134n, 272n, 489n, 491n, 690n, 704n. Crusconio, vescovo di Todi, 241. Csendes, P., 114n. Cucciniello, A., 817n, 825, 827n, 828n, 829n, 830n, 831n, 832n, 833n, 837 e n, 839n, 864n. Cuntz, O., 20n. Cuoco, L., xi.

­1055 Cuozzo, E., 89n, 92n, 94n, 95n, 96 e n, 97n, 100n, 101n, 102n, 103n, 104n, 105n, 106n, 108n, 109n, 110n, 112n, 114n, 115n, 119n, 147n, 252n, 265n, 364n, 374n, 696n, 712n. Curia, F., 954. Da Costa-Louillet, G., 78n, 186n, 252n, 274n, 276n. d’Agincourt, J., 738. d’Agincourt, P., 652, 747, 748n, 750 e n. D’Agostino, G., 142n. Dagron, G., 332n, 334n, 336n. Dalena, P., 7n, 12n, 13n, 14n, 17n, 21n, 31n, 34n, 35n, 44n, 130n, 136n, 141n, 165n, 174n, 175n, 177n, 178n, 180n, 232n, 253n, 254n, 274n, 339n, 384n, 385 e n, 563n, 626n, 654n, 699n, 703n, 704n, 762n. Dal Poggetto, P., 930n. D’Amato, G.A., 946, 927n. D’Andrea, G., xi, 389n, 395n, 407n, 412n. D’Andria, F., 525n, 756n. D’Angela, C., 166n, 167n, 309n, 490n, 547n, 549n. Daniele, priore di Cersosimo, 200, 37778. Daniele, profeta, 816. Daniele ben Iaqob di Venosa, 327. D’annona, C., 951-52. Dante Alighieri, 998. Daraio, G., 264n. Darcio (Jean Darce), G., 967, 968 e n. Darrouzès, J., 333n. David ben Menachem Zarfati, medico, 326. Day, J., 207n. de Baume, B., 798. de Bayle, J., 737. de Beaux, famiglia, 799, 801. de Benedictis, D., 18. De Blasi, N., 974n, 1005n, 1007n, 1008n, 1011n, 1014n, 1015n, 1016n, 1018n, 1024n, 1025n, 1030n, 1038n. De Blasiis, G.F., 448n, 656n. De Bonfils, G., 308n. De Bonis, M., 329n. de Chapot, C., 748n.

­1056 de Chaule, P., 748n. De Cicco, V., 609n. De Cunto, S., 270n, 272n. De Cunzo, M., 670n. De Dominicis, B., 944n, 945. Deér, J., 91n. De Felice, E., 1016n. Defilippis, D., 966n. De Frede, C., 162n. de Fronduta, E., 159. de Gaiffier, B., 269n. Degano, E., 253n, 381n, 543n, 763n, 769. Degano, G., 585n. Deghello, M., 832n. Degonnora, S., 905n. de Grallers, E., 737. De Grazia, P., 209n, 659n. De Gubernatis, D., 424n. De Lachenal, L., 368n, 520n, 522n, 607n, 622n. del Balzo, famiglia, 131, 141, 462n, 658, 677, 679, 801. del Balzo, A., 678. del Balzo Orsini, famiglia, 826, 852. del Balzo Orsini, R., 852. Del Bene, famiglia, 146. Delehaye, H., 65n, 269n, 270n. de Lellis, C., 140n. De Leo, P., 13n, 130n, 177n, 213n, 248n, 348n, 349n, 351n, 352n, 536n, 675n, 1037n. Del Fuoco, M.G., 449n. D’Elia, M., xi, 793n, 827n, 925n, 926n, 929n, 930n, 938n, 953n. Dell’Acqua, F., 591n. Dell’Aquila, F., 183n, 759n, 782n. dell’Aquila, S., 848. Delogu, P., 35n, 91n, 98n. de Longhchamp, P., 738. Delorme, F.M., 400n. Del Puente, P., 1018 e n. Del Re, G., 15n, 25n. Del Treppo, M., 121n, 139n, 143n, 146n, 147n, 148n, 149n, 161n, 411n. De Luca, G., don, 934n. De Marchi, A., 824n. De Mauro, T., 1033n. de Meijer, A., 435n. Demetrio, R., 93n, 166n, 170n, 172n,

Indice dei nomi

174n, 277n, 279n, 305n, 350n, 483n, 484n, 654n. De Minicis, E., 727n. De Monte, A., 271n, 524n. de Montilies, A., 738. de Monumento, famiglia, 109. Demurger, A., 501n. de Nichilo, M., 966n. Deodato, commendatore, 484. Deodato da Squillace, frate, 406. De Pilato, S., 641n, 643n, 644n. de Pont, J., 738. Dereine, Ch., 288n. de’ Renzi, P., 653. Derosa, L., 523n, 626n, 639n, 652n, 669n, 670n, 672n, 673n. De Robertis, F.M., 309n. De Rogata, V., 932. De Rosa, G., xi-xii, xvi, 631n, 850n. De Rosalia, A., 179n. De Ruggeri, N., 277n. De Ruggieri, A., 555n. De Ruggieri, R., 165n, 181n, 183n. De Sandoli, S., 709n. de Sanverre, R., 738. de Saumery, J., 737. Desiderio, abate, 611. Desiderio, priore, 374. Desiderio, re dei Longobardi, 65n. de Simone, F., 886. de Stampis, A., 481. de Stampis, F., 481. de Stampis, J., 481. de Tagaria, famiglia, 140. de Tauris, P., 158. de Toul, J., 748n. De Vergottini, G., 721n. Di Dario Guida, M.P., 824n. Diehl, Ch., 168 e n, 648. Digiorgio Viti, M.P., 941n. Di Giovine, P., 1011n, 1015n, 1030n, 1040n. Di Giuseppe, H., 505n, 544n, 547n, 548n. Di Mase, B., 843n, 848n, 860n, 890. Di Meo, A., 38n, 253n. Di Nubila, M., xi. Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, imperatore romano, 22, 270-71. Dionisio da Modena, priore, 438n.

Indice dei nomi

Dioscoride, Pedanio, 325-26. Dioscuro, padre di santa Barbara, 821n. di Pasquale, N., 841n. Di Pede, F., 830n. Di Pede, M., 185n. Di Sciascio, S., 865n, 869n, 870n, 872n, 901n, 902n, 904n, 905n. d’Itollo, A., 494n. Di Vasto, L., 342n. d’Ivry, G., 738. Domenico da Cervarezza, abate, 675. Domenico da Gravina, 30 e n, 136n. Domenico de Ruczo, 158n. Domenico di Guzman, santo, 448-49, 798. Domenico di Monte Leone, vescovo di Venosa, 473. Dominata, santa, 272, 520n, 567. Dominici, G., cardinale, 458. Donatello, Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto, 859. Donato, frate, 393-94. Donato, martire, 271. Donato de Grassi, 894. Donato di Arezzo, santo, 768, 777, 781, 782n. Donato di Èvria, santo, 768, 782. D’Onofrio, M., 144n, 605n, 607n, 611n, 612n, 620n, 623n, 624n, 626n, 632n, 635. Doria, famiglia, 142. Doria, A., 159n. Dormeier, H., 380n. Dossetti, G., 436n. d’Ouilly, famiglia, 93. Drogone d’Altavilla, conte di Puglia, 92-93, 98, 366, 519, 599, 620, 694, 695n. Dubois, J., 269n. Dubois de Montpereux, F., 165n. Du Cange, C., 716n, 743n. Duchesne, L., 63n, 243n, 253n, 302n. Duprè-Theseider, E., 694n. Durante di Provenza, 321. Durazzeschi, dinastia, 864. Ebner, P., 372n. Egidi, P., 409n. Egidio, abate, 369-70, 621.

­1057 Egidio da Viterbo, priore, 440, 446. Elemosina, frate, 404. Elena, madre di Costantino I, santa, 761. Eleuterio di Armaterra, 126. Elia, arcivescovo di Bari, 250, 255. Elia, categumeno, 376. Elia, discepolo e nipote di Vitale da Castronovo, 360. Elia lo Speleota, santo, 80, 336, 339, 360, 564. Eligio, santo, 189. Eligio della Marra, principe di Stigliano, 938. Elisabetta d’Ungheria, santa, 679. Elm, K., 475n, 476n. Emery, R.W., 322n. Emma, moglie di Ugo de Avena, 372. Emma di Montescaglioso, contessa, 97, 99, 112, 251. Empoli, L., 435n. Engelberto, vescovo di Tursi, 252, 330, 605. Enrico, conte di Satriano, 223. Enrico, vescovo di Marsico, 293. Enrico II, imperatore, 577. Enrico III, imperatore, 577. Enrico VI, imperatore, 114-15, 370, 721. Enrico VII di Svevia, re di Germania, 122. Enrico di Lavello, 126. Enrico di Monferrato, 1011. Enrico di Navarra, già conte di Montescaglioso, 109n, 112. Enrico di Oppido, 126. Enrico di Pietrapalomba, 126. Enrico di Rivello, 123. Enriquez, E., 675n. Enzensberger, H., 104n, 414n, 691n. Epicuro, 972. Epicuro, M., 989. Epifanio, abate, 538, 556, 562, 571. Epstein, S., 149n. Eraclio I, imperatore bizantino, 525, 551n. Erchemperto di Montecassino, 6n, 38n, 68n, 70n, 319n. Ercole de’ Roberti, 880.

­1058 Erculenzio, vescovo di Potenza, 234, 236-39, 506. Ermogene di Tarso, 971. Esch, A., 121n, 405n. Esposito, L.G., 448n, 454n, 457n, 458n, 460n, 461n, 462n, 463n, 465n, 468n. Esuperanzio, vescovo, 233 e n. Eubel, C., 393n, 471n. Eufemia, santa, 869, 905n. Eugenia, badessa, 279, 596n. Eugenio III (B. Paganelli), papa, beato, 253, 257, 285, 373. Eugenio IV (G. Condulmer), papa, 299, 346, 422-24, 426, 433 e n, 459, 914n. Eulalio, vescovo di Siracusa, 241. Eulogio, patriarca di Alessandria, 60. Eustachio, notaio di Matera, 277. Eustachio, santo, 158, 279, 846, 865, 902. Eustachio da Matera, 209, 961, 963-64, 988, 1008-1009, 1012. Eustazio, advocatus, 365. Ewald, P., 239n. Exaugusto, catepano, 693 e n. Ezelino di Montemilone, 695. Fabre, P., 253n, 302n. Fabrizio di Capua, 148. Facciuta, S., 977-78, 979 e n, 980. Fachechi, G.M., 848n. Falaschi, P.L., 302n. Falcando, U., 7n. Falco, P., 329n. Falcone, arcidiacono di Venosa, 293. Falcone, famiglia, 778n. Falcone Beneventano, 692n, 694n, 697n, 698n, 702n, 714 e n, 715n, 717n. Falcone di Cava dei Tirreni, abate, 298, 379 e n. Falkenhausen, V. von, 7n, 8n, 33n, 39n, 42n, 63n, 65n, 67 e n, 69n, 71n, 72n, 75n, 76n, 77n, 78n, 80n, 84n, 88 e n, 89n, 90n, 100n, 144n, 155n, 167n, 198n, 205n, 249 e n, 253n, 330n, 336n, 342n, 343n, 345n, 356n, 358n, 359 e n, 361n, 362, 365n, 366n, 372n, 605n, 696n, 754n, 1020n, 1033n.

Indice dei nomi

Falla Castelfranchi, M., 538n, 556n, 756n, 757-58, 759n, 760n, 764 e n, 770n, 771, 772n, 773, 774n, 775n, 776-77, 780 e n, 781-82, 786n. Fanciullo, F., 1005n, 1007n, 1008n, 1011n, 1013n, 1015n, 1016n, 1018 e n, 1028 e n, 1030, 1032, 1038, 1039 e n. Fanfani, T., 151n. Fantino il Giovane, santo, 80-81, 341. Faré, P.A., 1017n. Farioli, R., 521n, 550n, 551n. Farnese, famiglia, 967, 978. Farnese, A., cardinale, 977, 978. Farrugia, E.G., 335n. Faustiniano, chierico di Grumento, 238-39. Favaroni, A., beato, 439, 442-43. Favia, P., 505n, 507n, 510n, 517n, 526n, 528n, 531n, 535n, 542n, 543n, 544n, 546n, 585n, 763n. Fazello, T., 179 e n. Featherson, M., 332n, 338n. Federici, V., 6n, 75n, 357n, 574n, 690n. Federico I d’Aragona, re di Napoli, 162, 460, 463, 470, 663, 682, 687 e n. Federico III d’Aragona, re di Sicilia, 676. Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, 370. Federico II di Hohenstaufen, imperatore, ix, 13n, 15n, 22, 44-45, 113-14, 115 e n, 116-17, 118 e n, 119, 120n, 121 e n, 122-24, 132, 144, 174, 201204, 208, 215, 362, 385, 388, 404 e n, 405, 493, 498, 641, 662, 676, 689, 720, 721 e n, 722, 724, 728 e n, 730 e n, 961, 964, 1013n, 1019. Felice, martire, 270-71. Felice, vescovo di Agropoli, 61, 244. Felice da Corsano, frate, 442. Felice da Nola, martire e santo, 23, 24n, 232. Felice di Thibiuca, santo e martire, vescovo di Venosa, 263, 269-71, 520n, 567. Fellapane, C., frate, 443. Felle, A., 517n. Fenicchia, V., 965n. Fenicia, G., 151n.

Indice dei nomi

Fera, V., 966n. Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, detto Ferrante, 139, 142, 158, 162, 226, 350-51, 425, 430, 454n, 461-62, 464-65, 470, 472, 474, 490-91, 650, 682, 687n, 866. Ferdinando II d’Aragona, V re di Castiglia, III re di Napoli, II re di Sicilia, detto il Cattolico, 139, 162. Ferorelli, N., 160n, 321n, 322n. Ferrante, B., 1015n, 1016 e n. Ferrante, N., 80n. Ferrante I, re di Napoli, v. Ferdinando I d’Aragona. Ferrario, G., 278n. Ferraù, G., 966n. Ferrillo, famiglia, 893n, 894. Ferrillo, M., 650, 874, 893. Ferro, L., don, 913. Ferro, P.A., 947, 949, 953. Festa, A., 678n. Festa, F., 449n, 474n. Festa, M., 896n. Figliuolo, B., 198n, 349n. Filangieri, famiglia, 123. Filangieri, E., arcivescovo di Bari, 451. Filangieri, G., 460n, 486, 949 e n, 950 e n. Filangieri, R., 126. Filippo, vescovo di Amelia, 299. Filippo d’Angiò, principe di Taranto, 472, 676, 801. Filippo di Agira, santo, 336, 359. Filippo di Balvano, 108n. Filippo di Bussone, 104n. Filippo di Courtenay, imperatore latino di Costantinopoli, 1019. Filippo di Maiorca, 415, 418, 808. Filippo di Napoli, vescovo di Lavello, 473. Filippo di Pistoia, vescovo di Venosa, 471n, 473. Filippo di Puglia, frate, 458. Filippo di Sanseverino, 140n. Filomena, santa, 996. Fiorelli, P., 1022n. Fioriello, C.S., 510n. Flamini, F., 990n. Flaminio, A., 986. Flaminio, R., 548n.

­1059 Flaviano, centurione, 1003. Fleckenstein, J., 116n. Flori, J., 476n. Flusser, D., 308n. Fois, M., 424n. Follieri, E., 80n, 342n, 768n. Fonseca, C.D., xi-xii, 8n, 10n, 13n, 14n, 39n, 40n, 41n, 44n, 78n, 80n, 92n, 93n, 96n, 100n, 101n, 108n, 120n, 122n, 144n, 154n, 155n, 157n, 164n, 165n, 166n, 167n, 168n, 170n, 171n, 172n, 174n, 175n, 176n, 181n, 184n, 193n, 198n, 199n, 201n, 205n, 214n, 217n, 242n, 243n, 244n, 246n, 248n, 249n, 254n, 255n, 259n, 264n, 266, 273n, 277n, 278n, 279n, 281n, 283n, 288n, 289n, 297n, 302n, 326n, 330n, 339n, 350n, 355n, 356n, 359n, 361n, 363n, 366n, 371n, 383n, 405n, 475n, 476n, 490n, 493n, 536n, 556n, 563n, 570n, 586n, 600n, 602n, 605n, 611n, 624n, 626n, 642n, 645n, 651n, 654n, 660n, 692n, 696n, 706n, 711n, 719n, 722n, 728n, 736n, 751n, 755n, 756n, 764n, 769n, 771n, 772n, 792n, 793n, 795n, 996n, 1000, 1002n. Fortunato, martire, 271. Fortunato, G., v, 16n, 46n, 99 e n, 102, 127n, 128n, 129n, 132n, 135n, 137n, 173 e n, 187 e n, 201n, 210n, 211n, 216n, 218n, 221n, 280n, 384n, 571 e n, 639n, 648, 668n, 702n, 703n, 739n, 740n, 741n, 742n, 743n, 751n, 1012n, 1016n, 1019 e n. Fortunaziano, martire, 259, 512. Foti, C., 132n, 281n, 448n, 455n, 456n, 653n, 654n, 657n. Fotina, santa, 558 e n. Francesco d’Altomonte, frate, 467. Francesco da Melfi, 748. Francesco da Milano, 874. Francesco da Savona, frate, 420. Francesco da Sicignano, 852, 893. Francesco d’Assisi, santo, 392, 394, 398 e n, 399, 404, 407-408, 410, 417, 41920, 423, 433, 768, 938. Francesco da Tolentino, 928 e n, 92930, 933. Francesco da Zumpano, frate, 442. Francesco de Arbisso di Aversa, 496.

­1060 Francesco del Balzo, duca di Andria, 462n, 676. Francesco di Armaterra, 126. Francesco di Lecce, frate, 468. Francesco di Matera, frate, 451, 456. Francesco di Saponara, frate, 417. Francesco di Sanseverino, duca di Scalea, 154. Francesco di Stasio (Stagio) Portinari, 404, 668. Francesco Orsini, conte di Gravina, 140n. Francesco Securo di Nardò, frate, 469. Franchi dell’Orto, L., 1025n. Francione, M., 843n, 848n, 871n, 876n, 898n, 927n, 942n. Francovich, R., 547n. Frangipane, A., 915n. Franzesini, M., 836n. Frenkel, W., 312n. Frescobaldi, famiglia, 150. Frey, J.-B., 307n. Frezzario, N., 737, 739. Fridh, A.J., 50n. Friedberg, A., 411n, 437n. Frisonio, D., 967. Frugoni, C., 399n. Fucillo, N., 351n. Fugaro, D., 80n. Fulcherio di Chartres, 476n. Fulcone, notaio, 961-62. Fumagalli, V., 144n. Gabriele, conte di Gravina, 140-41. Gaetani, G., 497. Gagini, A., 882, 887, 892-93. Gagini, D., 874, 887. Gaio, martire, 271. Gaitelgrima di Atena, 373. Galasso, F., 1025n. Galasso, G., xi, 7n, 50n, 65n, 92n, 126n, 127 e n, 131n, 137n, 141n, 142n, 152n, 154n, 155n, 156n, 215 e n, 328n, 411n, 452n, 1020n, 1035n. Galeno, Claudio, 323. Galerano de Juriaco, 666n. Galletti, A.I., 391n. Galli, E., 638n, 649 e n, 651n, 676n, 677 e n, 678n, 836 e n.

Indice dei nomi

Gallo, M., 307n. Gambara, L., 978. Gandolfo, F., 645n, 770n. Gaprindashvili, G., 165n. Garcia di Toledo, don, 988-89. Gargano, L., 486. Garin, E., 974. Garrison, E.B., 796n. Garufi, C.A., 94n, 119n, 374n, 721n. Garvin, B., 311n. Garzia, vescovo di Potenza, 292, 296n. Garzya Romano, C., 603n, 609n, 636n, 638n, 642n. Gascou, J., 55n. Gaspare, frate, 461. Gasparri, S., 517n. Gassò, P.M., 241n, 274n. Gatta, C., xv. Gattini, C., 966. Gattini, G., 93n, 165n, 222, 279 e n, 280n, 449n, 474n, 486, 867, 881n. Gattini, M., 482n. Gattola, E., 38n, 248n, 357n. Gaudioso, F., 662n. Gavini, I.C., 669n. Gay, J., 71n, 73n, 74 e n, 75n, 76n. Gelao, C., 262n, 273n, 512n, 523n, 542n, 544n, 607n, 626n, 650n, 651n, 656n, 661n, 804n, 830n, 840n, 841n, 851n, 856n, 858n, 860n, 861n, 862n, 870n, 871n, 874n, 879n, 880n, 882n, 884n, 886n, 888n, 892n, 893n, 894n, 895n, 897n, 914n, 915n, 928. Gelasio I, papa, 233-39, 242, 273, 506, 512n, 514, 523, 529. Gennaro, martire di Venosa, 263. Gennaro, santo, 1004. Gentile, S., 1030n. Gentile, T., 126. Gentile da Fabriano, 825, 838. Gentile da Foligno, frate, 419 e n. Gentile de Petruro, 123, 126. Gentilini, G., 859 e n. Genuario, santo, 265, 1003-1004. Gerardo, vescovo di Rapolla, 473. Gerardo, vescovo di Toul, 257. Gerardo dalla Porta, vescovo di Potenza, santo, 260-61, 273, 286, 299, 510, 512n, 641n, 1003, 1008. Geronimo di Cremona, 159.

Indice dei nomi

Gesualdo, E., 991. Ghigonetto, S., 593n. Giacomo, apostolo e santo, 189, 779. Giacomo, vescovo di Venosa, 123n, 293. Giacomo Alfonso Ferrillo, conte di Acerenza, 874, 893. Giacomo da Amalfi, frate, 300. Giacomo da Molfetta, frate, 425 e n, 429. Giacomo da Venosa, 272. Giacomo da Viterbo, vescovo di Napoli, 414n, 441 e n. Giacomo del Regno, 459 e n, 469. Giacomo di Carbone, abate, 377. Giacomo di Marsico, frate, 469. Giacomo di Viterbo, arcivescovo di Taranto, 451. Giacomo l’Adelfoteo, santo, 788. Giacomo Sanseverino, conte di Tricarico, 115 e n, 119, 663n. Giambono, M., 825. Gianfrancesco da Potenza, 429. Giannatiempo, M., 841 e n, 933n. Giannone, P., 411, 412 e n. Giannotta, M.T., 239n. Gianuario, santo, 269, 271, 1003. Giardino, L., 195n, 524n, 525n, 530n, 531 e n, 534n. Gibel de Lauria, 104. Giganti, A., 8n, 15n, 18n, 133n, 138n, 141n, 208n, 262n, 289n, 291 e n, 297n, 304n, 386n, 480n, 481n, 494n, 659n, 662n, 663n, 701n, 704n, 792n, 799n. Gilberto di Balvano, conte di Gravina, 108, 110 e n. Gilberto II di Balvano, 639. Gilberto di Nogent, 475 e n. Gilio, santo, 768. Ginori, famiglia, 150. Ginzburg, C., 921n, 922n. Gioele, abate, 383. Giona, monaco, 28n, 1036. Giordano, D., 173n, 189n, 830n. Giordano, G., 555n. Giorgella di San Giorgio, 158. Giorgio, santo, 189, 785, 846. Giorgio, F., 1018n. Giorgio di Trebisonda, 971.

­1061 Giorgio Maniace, generale bizantino, 173. Giosué, abate, 556. Giotto, 806, 809-10, 814. Giovan Luca de Luca, v. Giovanni Luce da Eboli. Giovan Michele di Morra, barone di Favale, 984. Giovanna I d’Angiò, regina di Napoli, 136-37, 148, 156, 192, 218, 322, 41112, 432, 454, 650, 676. Giovanna II d’Angiò-Durazzo, regina di Napoli, detta Giovanetta, 140n, 147-48, 158, 226, 322-23, 454, 456, 457n, 827. Giovanna d’Aragona, moglie di Ferdinando I d’Aragona, 139, 470. Giovannello, frate, 444. Giovannetto, presbitero, 293. Giovanni, abate di Santa Maria di Banzi, 248. Giovanni, evangelista, apostolo e santo, 187, 189, 487, 557, 757, 788, 808809, 999. Giovanni, generale bizantino, detto il Sanguinario, 18-19, 52-53, 55, 243. Giovanni, ieromonaco, 365. Giovanni, miles, castellano di Forenza, 696. Giovanni, monaco, 6, 358, 690. Giovanni, restauratore, 202. Giovanni, spatarocandidato, 85 e n, 363. Giovanni, vescovo di Ascoli, 477. Giovanni, vescovo di Melfi, 256. Giovanni, vescovo di Milano, santo, detto il Buono, 437n. Giovanni, vescovo di Potenza, 292. Giovanni, vescovo di Rapolla, 644, 652. Giovanni, vescovo di Ravenna, 235. Giovanni, vescovo di Satriano, 223, 257. Giovanni I, abate della SS. Trinità di Venosa, 370. Giovanni I, vescovo di Marsico, 199, 294, 373. Giovanni II, vescovo di Marsico, 298. Giovanni III, vescovo di Marsico, 373, 379, 380, 381 e n. Giovanni VIII, papa, 196.

­1062 Giovanni XV, papa, 245. Giovanni XIX, papa, 250. Giovanni XXII (J. Duèze), papa, 441. Giovanni I Caracciolo, duca di Melfi, 140 e n, 155, 157, 159 e n, 160 e n, 349, 681. Giovanni III Caracciolo, 352. Giovanni Antonio del Balzo Orsini, principe di Taranto, 140n, 177, 323, 324 e n, 826, 852. Giovanni Battista, santo, 278, 754, 808809, 923, 999. Giovanni Buono, v. Giovanni, vescovo di Milano. Giovanni Caracciolo, marchese di Atella, 979. Giovanni Charlier (Zanino di Pietro), 824 e n, 827-29, 833n. Giovanni Climaco, santo, 338. Giovanni Crisostomo, santo, 334, 778. Giovanni da Abriola, 938-39. Giovanni d’Angiò, conte di Gravina, 47n, 154, 218, 668-69, 751. Giovanni d’Angiò, duca, 139. Giovanni da Capistrano, 299, 420. Giovanni da Caramola, 48. Giovanni da Cari, 160. Giovanni da Matera, santo, 865, 868, 901. Giovanni da Melfi, frate, 445. Giovanni da Montefusco, 406. Giovanni da Nola, 425, 874 e n, 875 e n, 876-77, 878n, 905. Giovanni da Procida, 123, 126. Giovanni da Taranto, 776-77, 785. Giovanni de Curte, 470. Giovanni de Foja, 1016n. Giovanni de Icis, 351. Giovanni di Drogo, 320. Giovanni di Francia, v. Giovanni Charlier. Giovanni di Gaeta, 837n, 838n. Giovanni di Gregorio da Satriano, detto il Pietrafesa, 939, 947, 952. Giovanni di Marsico, monaco cavense, 298, 379n. Giovanni di Matera, 383, 386. Giovanni elemosiniere, santo, 337. Giovanni Francesco de Judice di Cosenza, 351.

Indice dei nomi

Giovanni Galeazzo Sforza, duca di Milano, 965. Giovanni Luce da Eboli, 929, 934. Giovanni Pipino, conte di Altamura, Potenza, Bari, Minervino, 137, 810. Giovanni Salomone di Marsico, 140n. Giovannucci, A., 728n, 734n. Giraldo, arcidiacono di Conza, 272. Girardo de Ivort, 132. Girgensohn, D., 99n. Girgensohn, G., 245n, 253n. Girolamo da Salerno, 932. Girolamo di Sanseverino, principe di Bisignano, conte di Tricarico, 427. Gismondo da Melfi, frate, 394, 399, 400 e n, 401-402, 403 e n, 404. Gisulfo, abate, 577, 774. Gisulfo I, principe di Salerno, 599. Giuda, apostolo, 772. Giuliani, R., 510n, 517n, 531n, 585n. Giuliano, Flavio Claudio, imperatore romano, detto l’Apostata, 531, 1002. Giuliano di Salem (Iulianus de Salem), 435n, 443, 444 e n, 445n. Giuliano di Sora, santo, 14, 360, 1003. Giuliano l’Ospedaliere, santo, 1003. Giulio II (G. della Rovere), papa, 920. Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona, 852. Giura Longo, R., 661n, 998n, 1012n, 1020n. Giuseppe, abate, 376. Giuseppe, santo, 649. Giusti, P., 923n, 930n, 931n, 932n. Giustiniani, L., xv, 649. Giustiniano I, imperatore bizantino, 5, 37n, 28n, 53n, 58, 59 e n, 998. Giusto, vescovo di Acerenza, 234-35, 237-38, 240, 514. Gizzio di San Giorgio, 158. Godano, arcivescovo di Acerenza, 25051. Godescalco, dux Campaniae, 62n. Godino (o Godeno), protospatario, 38n, 74, 75 e n. Goffredo, conte di Andria, 110, 698. Goffredo, conte di Satriano, 223, 257, 373, 695. Goffredo, figlio di Unfredo, conte di Lavello, 97.

Indice dei nomi

Goffredo di Conversano, 94, 95 e n, 100n. Goffredo di Montescaglioso, 112, 374, 696-98. Goffredo di Taranto, 95 e n. Goffredo Malaterra, 24n, 93, 95n, 169 e n. Goffredo Vaccario, 129, 799n. Gondi, famiglia, 150. Gonosova, A., 789n. Gonzaga, famiglia, 461, 843. Gonzaga, F., 424n. Graetz, H., 322n. Granese, A., 984n, 985n. Grassi, D., 171 e n, 179n. Graziano, abate, 368. Greco, M.T., 1006n, 1013n, 1017n, 1022n, 1023n, 1030n. Grégoire, R., 189n. Gregorio, abate, 370. Gregorio, monaco di Turri, 35. Gregorio, primicerio, 70. Gregorio I, papa, santo, detto Magno, 19n, 20 e n, 36, 37 e n, 60 e n, 61 e n, 62 e n, 239n, 242, 244 e n, 273, 301, 369, 523, 529, 782n. Gregorio VII (Ildebrando di Soana), papa, santo, 248, 256-57. Gregorio IX (Ugolino dei conti di Segni), papa, 384-85, 388, 402. Gregorio X (T. Visconti), papa, 474. Gregorio da Rimini (Gregorius de Arimino), 435n, 443. Gregorio di Nazianzo, detto il Teologo, santo, 189, 788. Gregorio Tarcaniota, catepano, 82-83. Grelle, F., 313n, 314n. Grelle Iusco, A., 187n, 549n, 555n, 574n, 609n, 623n, 638n, 641n, 645n, 649 e n, 658n, 666n, 670n, 675n, 688n, 758 e n, 783n, 790 e n, 791n, 793n, 794, 795n, 796n, 799n, 802 e n, 803n, 804n, 805, 808n, 811n, 816 e n, 817n, 822, 823n, 826n, 828n, 829n, 830n, 831n, 832n, 833n, 836 e n, 839n, 843n, 845n, 846n, 847n, 848n, 850n, 852 e n, 853, 854n, 855n, 858n, 862n, 864n, 868 e n, 869n, 870n, 871n, 873n, 874n, 875 e n, 877 e n, 878n, 879 e n, 881n, 883 e n, 887 e n,

­1063 892 e n, 895 e n, 899n, 901n, 902n, 903n, 904 e n, 905n, 906n, 908n, 910n, 917n, 923n, 925, 926n, 927n, 928n, 929 e n, 930n, 931n, 932n, 933 e n, 935 e n, 936n, 937n, 938n, 943n, 944n, 948 e n, 950n, 951, 952n, 954 e n, 955n. Grillo, A., 896 e n. Grimaldo, santo, 1004. Grimoaldo I, duca di Benevento e re dei Longobardi, 62, 64. Grimoaldo III, principe di Benevento, 38, 51n, 66, 68n, 248, 357n. Grimoaldo IV, principe di Benevento, 248, 357n. Grimondo, signore di Tricarico, 663. Grisiberga, moglie di Rainaldo Durante, 376. Grisomila di Appio, 365. Grispo, R., xi. Grohmann, A., 158n, 160n. Gross, H., 322n, 323n, 325n, 326n. Guadagno, G., 93n, 166n, 170n, 172n, 174n, 277n, 279n, 350n. Guaimario I, principe di Salerno, 7374. Guaimario V, principe di Salerno, 7n, 91. Gualdo Rosa, L., 965n, 966n. Gualterio (Gualtiero) di Calabria, vescovo di Potenza, 471n, 473, 662. Gualtieri, M., 525n, 528n, 530n. Gualtieri di Brienne, 115. Gualtiero, conte di Civitate, 92. Guarini, G., 648, 669 e n. Guarniero, M., 192. Guastamacchia, G., 389n, 397n. Guelfo, B., 924, 926. Guerrieri, G., 496 e n, 501n. Guevara, famiglia, 683. Guevara, A. de, 684. Guevara, C. de, 683. Guglielmi Faldi, C., 280n, 652n, 777n, 787, 789 e n, 792n, 795n, 846n, 864n, 881n, 883 e n, 887 e n. Guglielmo, abate, 364. Guglielmo, conte di Gravina, 115. Guglielmo, conte di Marsico, 114, 298, 379. Guglielmo, conte di Potenza, 126.

­1064 Guglielmo, conte di Satriano, 223. Guglielmo, vescovo di Melfi, 114, 256. Guglielmo, vescovo di Potenza, 287, 292, 295, 814-15. Guglielmo, vescovo di Preneste, 260, 286. Guglielmo, vescovo di Reggio Calabria, 598n. Guglielmo I d’Altavilla, conte di Puglia, detto Braccio di Ferro, 91-94, 108n, 173, 366, 599, 620, 636. Guglielmo I d’Altavilla, re di Sicilia, detto il Malo, 96, 108, 111, 113, 346, 369, 598n. Guglielmo II d’Altavilla, re di Sicilia, detto il Buono, 7, 112-13, 120, 362, 369-70, 609, 691, 720-22. Guglielmo II d’Altavilla, duca di Puglia, 368. Guglielmo III d’Altavilla, duca di Puglia, 91n, 100, 110. Guglielmo III, vescovo di Troia, 691. Guglielmo IV, conte di Principato, 114, 373. Guglielmo Bracciodiferro, v. Guglielmo I d’Altavilla, conte di Puglia. Guglielmo da Cremona, priore, 438. Guglielmo da Tiro, 709n. Guglielmo da Vercelli, 383, 386. Guglielmo de Balaeto di Limoges, canonico, 287. Guglielmo de Guardia, priore, 373. Guglielmo de Guerriero, arciprete di Potenza, 292. Guglielmo de Habraam, 321. Guglielmo de Parisio, 126. Guglielmo di Campana, signore di Rotonda, 144. Guglielmo di Montescaglioso, 294. Guglielmo di Padova, 159. Guglielmo di Puglia (Guillaume de Pouille), xvii, 27n, 90n, 92 e n, 98 e n, 173 e n, 620 e n. Guglielmo di Saponara, signore di Brienza, 373. Guglielmo Malabranca, 130. Guichard, P., 705n. Guido, vescovo di Gravina, 261. Guido, vescovo di Venosa, 287. Guido de Guasto, 120.

Indice dei nomi

Guido di Castelvetere, 34, 132. Guidobaldi, F., 537n. Guidone, 10n, 22, 24, 25 e n, 29n. Guidone del Guasto, 723. Guillaume, P., 294, 371n, 374 e n, 696n, 697n. Guillou, A., xviin, 5n, 6n, 7n, 28n, 39n, 40n, 42n, 72n, 79n, 82n, 88 e n, 274n, 331n, 342n, 344n, 346n, 347n, 377n, 581n, 605n, 608n, 1031n, 1035n. Guimondo di Montellere, 106. Guiscardo, v. Roberto il Guiscardo. Gumbley, G., 471n. Gutiérrez, D., 435n, 438n, 442n. Guzzo, P.G., 547n. Halkim, F., 269n. Hall, J., 916n. Hartmann, L.M., 239. Haseloff, A., 734, 747n, 748n. Heissembuttel, D., 173n. Herklotz, I., 519n, 570n, 600n, 603 e n, 604n, 624n, 625n. Herrera, Th. de, 435n, 443 e n, 444 e n, 446 e n. Herveo, conte di Frigento, 90. Hirsch, F., 61n. Hoberg, H., 141n. Hodges, R., 538n. Hoffmann, H., 33n, 89n, 94n, 357n, 380n. Holtus, G., 1005n, 1007n, 1031n, 1032n. Holtzmann, J.-M., 383n. Holtzmann, W., 8n, 82n, 98n, 231n, 242, 346n, 383n. Houben, H., 11n, 12n, 35n, 36n, 41n, 44n, 45n, 80n, 89n, 93n, 98n, 99n, 101n, 111n, 129n, 141n, 144n, 152n, 167n, 174n, 185 e n, 199n, 208n, 246 e n, 253n, 263n, 270n, 272n, 284n, 305n, 330n, 331n, 355n, 356n, 358n, 359n, 361n, 362n, 363n, 364n, 366n, 369n, 375n, 381n, 384n, 385n, 390n, 477n, 483n, 489n, 493n, 494n, 496n, 498n, 520n, 599n, 600n, 603n, 604 e n, 609n, 626n, 636n, 659n, 696n. Hugone (Ugo) di Provenza, re d’Italia, 577.

­1065

Indice dei nomi

Huillard-Bréholles, J.-L.-A., 13n, 118n, 122n, 125n, 202n, 203n, 730n. Iacobo da Melfi, frate, 445. Iacopo, frate, 394. Iacopo da Venosa, frate, 444. Iannacio, cappellano, 320n. Ianora, M., 676 e n, 677, 679n. Idrisi (al-Idrisi, Abu ‘Abd Allah Muhammad), 7n, 10n, 12 e n, 14, 15n, 28 e n, 31 e n, 32n. Ierace, S., 933. Ilario, abate, 186, 275, 358. Ilarione, monaco, 363. Illuminata, santa, 558n. Imbert, J., 302n. Imbriani, M.T., 968n. Imparato, G., 927n, 949. Infantino, G.C., 653 e n. Ingelberto, abate di Venosa, 272, 36667. Ingelberto, vescovo di Tursi, 284. Inghirani, F., 161n. Innico de Guevara, conte, 162, 682-83. Innocenzo II (G. Papareschi), papa, 35, 251, 368. Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), papa, 115, 251, 266, 279, 280n, 285, 358n, 377. Innocenzo IV (S. Fieschi), papa, 123, 405-406. Innocenzo VIII (G.B. Cybo), papa, 457. Iorio, R., 485n. Iosef ibn Abba-Mari, 322. Isabella, regina di Castiglia, detta la Cattolica, 139. Isabella del Balzo, regina di Napoli, 965, 969. Isac Salamon dal Barri, 326 e n. Isac Shem Tov di Tortosa, 325. Iselio, R., 202n. Iurebenigno, G., 610. Iusco, S., 609n, 643n, 649n, 795n, 826n, 835n, 837 e n, 839n, 874n, 899n. Jacob, A., 334n, 335n. Jacobello del Fiore, 824-25. Jacopo da Valenza, 845n. Jacopo della Pila, 873.

Jaffé, P., 523n. Jahn, W., 88 e n, 90n, 92n, 93n, 94n, 95n, 96n, 97n, 100n, 102n, 364n. Jamison, E.M., 102n, 103n, 104n, 105n, 106n. Janora, M., 211n. Joannou, P., 436n. Johannes de Niciforu, 378. Johannes Marguleo, 378. Johnson, M.J., 755n. Jolivet-Lévy, C., 765n, 787n. Jonas, monaco, 40. Jones, P., 198n. Jura, F., 352. Jurlaro, R., 514n. Kaeppeli, T., 451n, 454 e n, 455n, 456 e n, 460n, 461n, 467n, 469n, 470n, 474n. Kalby, L.G., xi, 541n, 638n, 648, 649n, 850n, 854n, 941n. Kalfûn, capo berbero, 67. Kamp, N., 104n, 115n, 116n, 117n, 121n, 123n, 174n, 251n, 280n, 285n, 405n, 471n. Kappel, K., 626n. Kazhdan, A.P., 336n, 755n, 765n, 789n. Kehr, P.F., 39n, 197n, 223n, 231n, 243, 371n. Kelly, S., 413n. Kemper, D., 658n. Kessler, H.L., 560n, 770n, 771 e n. Keydell, R., 54n. Khatchatrian, A., 532n. Klapisch-Zuber, C., 46n, 207n. Klein Andreau, C., 544n, 545, 546n, 548n. Klewitz, H.W., 256n. Kohler, C., 69n. Koller, W., 131n, 133n. Kölzer, T., 115n. Krautheimer, R., 566 e n, 567. Kroll, T., 59n Kruft, H.W., 893. Krüger, P., 59n. L’Abbate, V., 632n. Lacava, M., xiii e n, 26n, 535 e n. Lacerenza, G., 309n, 313n, 314n. Ladiana, F., 436n.

­1066 Ladislao d’Angiò-Durazzo, re di Napoli, 140n, 148, 149n, 158, 321-22, 454, 685, 752, 903. Lafratta, B., 578n, 596n, 931n. Lamagna, famiglia, 440. Lamattina, G., 352n, 965n. Lampo di Fasanella, 106-107. Lancia, famiglia, 1012. Lancia, G., 123, 126, 1012. Lancieri, A., 320n. Landolfo, arcivescovo, 661. Landolfo IV, principe longobardo, signore di Capua e di Benevento, 77. Landolfo di Monticchio, 123. Landolfo Sigismondo, vescovo di Acerenza e Matera, 471n, 473-74. Lanzoni, F., 23n, 61n, 231, 233n, 239 e n, 523n. Laras, G., 323n. Larotonda, A.L., 792n, 793n, 795n, 801n, 803n, 808n, 815n, 816n, 817n, 825n. Lasena, P., 967. Latino, vescovo di Consilinum o Marcellianum, 58, 241. Lattanzi, E., 239n, 530n, 531, 533 e n. Laurent, M.-H., 346n, 347n, 377n, 1031n. Lauria, famiglia, 131. Lauridia, E., 263n. Lausberg, H., 1026 e n, 1027, 1028 e n, 1031, 1032 e n, 1035, 1036 e n, 1037-39. Lavazzuoli, V.G., 471n. Lavermicocca, N., 556n, 558n. Laviero (Laverio), santo, 196, 262-63, 269, 271, 276, 294, 340, 524 e n, 528, 1000-1001. Le Clerc, Ch., 352. Le Goff, J., 387n. Lefort, J., 344n. Lelio Orsini, signore di Gravina e di Matera, 974. Lello da Orvieto, 802, 809. Lembo, F., 164n, 166n, 183, 184n. Lemmens, L., 420n. Lenormant, F., 17 e n, 648, 687n. Lenza, S., 339n. Lenzi, G., 720n, 736n, 746n, 750n, 751n.

Indice dei nomi

Leonardi, C., 436n. Leonardo, santo, 190, 768. Leonardo da Pistoia, 942-43, 946. Leonardo de Mansuetis, 461, 464. Leone, A., 143n, 145n, 146n, 147n, 148n, 149n, 150n, 160n, 161n. Leone, G., 732n. Leone, abate, 385. Leone, igumeno, 363. Leone, imperialis strator et judex, 75. Leone, vescovo di Grumento, 197, 261, 286. Leone, vescovo di Montepeloso, 251. Leone, vescovo di Muro Lucano, 257. Leone, vescovo di Tursi, 252. Leone VI, imperatore bizantino, detto il Filosofo, 71 e n, 72n, 73 e n. Leone I, papa, santo, detto Magno, 781. Leone VIII, papa, 196, 528. Leone IX, papa, santo, 245, 257, 272, 284. Leone X (G. de’ Medici), papa, 429 e n. Leone II, vescovo di Acerenza, 271. Leone de Castris, P., 188n, 784 e n, 792n, 793n, 795n, 796n, 798n, 799n, 801n, 802n, 803n, 804n, 805n, 806n, 808n, 809n, 810n, 812n, 815n, 816n, 817n, 823n, 825 e n, 828n, 829n, 830n, 831n, 832n, 833n, 836n, 845n, 846n, 847 e n, 849n, 858n, 919n, 923n, 925 e n, 926n, 927n, 930 e n, 931n, 932n, 942n, 949n, 950n, 951n, 954n, 955. Leone Luca da Corleone, santo, 33940, 346. Leonzio, santo, 914n. Lerra, A., 8n, 41n, 78n, 80n, 100n, 199n, 214n, 246n, 254n, 330n, 339n, 355n, 359n, 363n, 696n, 755n. Levi, C., 805 e n. Levi, L., 320n. Licinio, R., 44n, 120n, 121n, 129n, 203, 215n, 642n, 690n, 694n, 696n, 699n, 702n, 728n, 729n, 738n. Lifshitz, B., 307n. Lionetti, G., 165n, 183n, 185n, 277n, 278n, 280n, 553n, 555n, 563n, 578n, 591n, 592n. Lipinsky, A., 550n, 551n, 785n, 789 e n. Lippi, F., 935.

Indice dei nomi

Lisanti, F., 687n, 912n. Lisimberti, P., 264n. Liutprando di Cremona, vescovo, 245n, 283n, 329, 564. Locatelli, G., 255n, 333n. Lodi, M., 1033n. Loffredi, famiglia, 174. Loffredo, F., 970. Loffredo, conte di Matera, 279. Loffredo, famiglia, 686. Lombardo, P., 858n, 860, 881. Lomunno, S., 555n. Longhi, R., 841 e n. Longo, C., 459n, 469n, 470n. Longo, V., 917 e n. Longuardo, E., vescovo di Acerenza e Matera, 472-74. Lorenzo, diacono, 763, 769. Lorenzo, sacerdote, 293. Lorenzo, santo, 189, 359, 567, 764, 783, 933n, 1000. Lorenzo, vescovo di Acerenza e di Matera, 471n, 473-74. Lorenzo, vescovo di Milano, 241. Lorenzo di Credi, 935. Lorusso Romito, R., 827n, 858n. Lotario I, imperatore e re d’Italia, 67. Lotario II, re d’Italia, 577. Lotario II di Supplimburgo, imperatore, III re di Germania e d’Italia, 33, 35, 692n. Lotierzo, A., 1004n. Loud, G.A., 371n, 372n. Löwenfeld, S., 238n, 239n. Luca, abate, 180. Luca, fratello di san Fantino il Giovane, 81. Luca, igumeno di San Giovanni Prodromo, 344n. Luca, santo, abate, 1001. Luca Carvuni, igumeno di Carbone, 337, 339 e n, 340, 342-44, 754. Luca di Demenna o di Armento, santo, 14, 41, 76, 186, 274, 276, 335, 339, 341-42, 346, 360, 394, 524 e n, 905n, 993, 1036. Lucco, M., 824n. Lucia, santa, 188-89, 801, 999. Luciano, A.I., 1017n, 1025n, 1026n.

­1067 Ludovico II, imperatore e re d’Italia, 67, 69, 70 e n, 76, 319. Ludovico IV, imperatore, detto il Bavaro, 438. Ludovico da Tolosa, santo, 679. Ludovico di Taranto, v. Luigi di Taranto. Ludovisio di Gaudiano, 216. Lüdtke, H., 1033n. Lugli, G., 22n. Luigi di Durazzo, re d’Ungheria, 218. Luigi di Sanseverino, 140n. Luigi di Taranto, marito di Giovanna I di Napoli, 137, 218. Luijk, B. van, 435n. Luisi, G., 8n, 133n, 208n, 486n. Lunardi, G., 41n, 80n, 129n, 174n, 246n, 330n, 355n, 390n, 483n, 609n. Lupoaldo, notaio, 257n. Lupo Protospatario, 93n, 94n, 95n, 173, 174 e n, 245n, 261n, 262, 279 e n, 596n. Luzzati, M., 157n, 326n. Macario, monaco, 155, 347, 587. Macario da Collesano, santo, 28n, 335, 340-41, 343, 1036. Macchiaroli, S., xv. Madio, G.C., 852n. Maestro dei pastori (Maestro di Santa Barbara), 817, 820-22, 824, 825 e n, 826 e n. Maestro dei Penna, 823 e n, 824n, 825. Maestro dei polittici francescani, 932. Maestro del Contrasto e dei Martiri, 796. Maestro della Bruna, 794. Maestro della cappella Pipino, 810-11. Maestro della Madonna di San Benedetto di Brindisi, 890-91. Maestro della Palomba, 895. Maestro della Pietà di Teggiano, 838n. Maestro delle tempere francescane, 803, 808-10, 814-16, 817n. Maestro del Liber celestium revelationum di Santa Brigida di Svezia, 812. Maestro del Messale di San Corrado di Molfetta, 824. Maestro del polittico di Angri, 930-31.

­1068 Maestro del polittico di Stigliano, 863. Maestro del suppedaneo, 905. Maestro di Giovanni Barrile, 811, 814, 816. Maestro di Miglionico (Maestro del sepolcro di Martino de Chello), 83031, 832 e n, 833, 839n. Maestro di Moliterno, 952. Maestro di Noepoli, 852. Maestro di Offida, 812-16, 818. Maestro Palmerio, 623, 659-60, 793n. Maestro Sarolo, 574, 611n, 639-40, 641 e n, 644. Maffeo Vegio da Lodi, 436n. Magistrale, F., 256n. Magnanimo, il, v. Alfonso V, re di Aragona. Magnario, notaio, 494. Magri, G., 349n. Maimonide, 323 e n. Mainardo, 381. Maino, R., 8n, 133n, 208n, 701n. Malaspina, S., v. Saba Malaspina. Malaterra, Gaufredus (Gaufredo), v. Goffredo Malaterra. Malatesta, signore di Cesena, 140n. Malatesta I da Verucchio, 322. Maletta, M., 123, 126. Malgerio I d’Altavilla, conte, 620. Mallet, C., 303n. Mallet, R., 670n, 672 e n, 687n. Malvito, T., 874. Manchelli, M., 942 e n. Mancini, M.L., 472n. Mancuso, E.A., 967n. Mancuso de Ghufono, N., detto Sclavone, 158. Mandelli, L., 967. Manfredi, re di Sicilia, 15, 25, 111, 114, 117, 122, 123 e n, 124-25, 132-33, 388, 405-406, 408, 451, 730, 1012 e n, 1038. Manfredi, vescovo di Potenza, 260, 273. Mangerisio, presbitero, 477. Mango, C., 541n. Maniace, v. Giorgio Maniace. Mannelli, L., xiv, xv, 756n, 767n. Mansi, J.D., 27n, 240n, 253n, 484.

Indice dei nomi

Mantegna, A., 840-41, 855-58, 861, 880, 905n. Manuzio, A., 975. Maranta, B., 969-73. Maranta, R., 969. Marcato, C., 1005n, 1014n, 1017n. Marcato, E., 766 e n, 767n. Marchi, M.L., 195n, 263n, 515n, 518n, 520n, 523n. Marchionibus, M.R., 756n, 757, 759n. Marco, evangelista, apostolo e santo, 204, 236, 262, 291, 487, 506, 524, 905. Marco, vescovo di Aecae, 236. Marco, vescovo di Anglona, 287, 377. Margherita, contessa di Chiaromonte, 410, 663n. Margherita, moglie di Francesco del Balzo, 676, 678-79. Margherita, santa, 189, 777-78, 784. Margherita de Beaumont, figlia di Pietro de Beaumont, 676. Margherita di Alneto, moglie di Bertrando del Balzo, 676. Margherita di Durazzo, regina di Napoli, 158, 321. Margherita di Navarra, regina di Sicilia, 110, 112, 369. Margherita di York, duchessa di Borgogna, 1019. Maria Balsa, principessa serba, moglie del conte Giacomo Alfonso Ferrillo, 874. Maria Cita, 493. Maria egiziaca, santa, 337. Maria Maddalena, santa, 812, 904n, 906-907. Marigliano da Nola, G., 875, 877. Marino, G., 976, 987. Marino, abate di Cava dei Tirreni, 294, 298, 379. Marino, arcivescovo di Acerenza, 286, 293. Markham Schulz, A., 859 e n. Martelli, S., 985n. Martin, J.-M., 51, 58 e n, 87n, 89n, 93n, 94n, 96n, 101n, 102n, 103n, 115n, 116n, 117n, 118n, 119n, 124n, 144n, 148n, 357n. Martineau, J., 840n.

Indice dei nomi

Martino, P., 1033 e n, 1036n, 1040n. Martino V (O. Colonna), papa, 140n, 299, 422, 438, 455 e n, 914n. Martino di Tours, santo, 190, 997. Martirio, vescovo di Terracina, 236, 238. Masiello, E., 681n. Masini, N., 193n, 196n, 217n, 219n, 226n, 264n, 266, 669n, 670n, 682n, 685n. Massaro, C., 148n. Massilla, V., 969. Massimiano Erculio, Marco Aurelio Valerio, imperatore romano, 22. Massimo, vescovo di Blera, 241. Matassini, E., 1007. Mathieu, M., 27n, 90n, 173n, 620n, 696n. Mattei-Cerasoli, L., 199n, 204n, 298n, 344n, 374n, 375n, 376n, 377n, 378n, 379n, 380 e n, 381 e n, 593n. Matteo, evangelista, apostolo e santo, 788. Matteo d’Aiello, 369. Matteo da Melfi, frate, 445. Matteo di Monticchio, 123. Matteo di Potenza, frate, 457. Matteo di Venosa, frate, 457. Matthew, D., 102n, 106n, 117n. Maurano, A., 355n, 356n, 516, 519, 523n, 537 e n, 538-39, 566n, 572n, 577n, 578n, 585n, 586n, 596n, 660n, 674n, 931n. Mauro, santo, 264, 269, 272. Mayeul, abate, 611n. Mazzarese Fardella, E., 101n. Mazzei, R., 151n, 309n. Mazzeo, D., 354n. Mazzola, D., 910. Mazzoni, M., don, 843-44, 956. Mc Culloh, J.M., 269n. Medea, A., 168 e n, 795n, 799n. Medici, famiglia, 150-51, 161. Melchiorre da Montalbano, chierico, 644-47, 652, 670, 674, 793 e n. Mele da Stigliano, 643, 644 e n, 688, 792. Melfisio, restauratore, 202. Melo da Bari, 84n. Melucco Vaccaro, A., 547n.

­1069 Mena, igumeno, 343. Ménager, L.-R., 93n, 599n. Menegazzi, L., 843 e n, 956n. Menis, G.C., 549n. Mercati, A., 202n, 295n, 303n, 304n, 477n, 478n. Mercurio, santo, 65n. Merghoub, B., 165n. Merlo, G.G., 405n. Meshullam ben Ionah, 326. Messina, A., 183n, 591n, 759n, 782n. Messina, G., 259n, 260n, 273n, 278n, 281n, 507n, 509n, 510n, 511, 512n, 650n, 662n, 685n. Meter Vitale, G., 299n, 300n. Metzeltin, M., 1005n, 1031n, 1032n. Meyers, E.M., 311n. Miarelli Mariani, G., 538n, 572n. Michelangelo Buonarroti, 847n, 921, 949. Michele, notaio, 85. Michele, vescovo di Tursi, 252, 330, 343. Michele Cerulario, 343. Michele di Montemurro, frate, 461. Michele di Venosa, frate, 454. Micheletto degli Attendoli, 140n. Miele, M., 449n, 458n, 459n, 463n, 467n, 470n. Migliorini, B., 1022n. Migne, J.-P., 71n, 174n, 233n, 377n. Milano, A., 149n. Milella, M., 778n, 827n, 858n. Milliez, P., 325n. Minieri Riccio, C., 253n. Minuto, D., 611n. Minzoli, C., 165n. Miraglia, A., 944n, 945n. Miranda, E., 657n. Modesto, martire, 270. Molin, D., 349n. Molinier, A., 69n. Moliterni, M., 165n. Mollat, M., 302n. Mommsen, Th., 9n, 59n. Monaldo de’ Monaldi, 662. Mongiello, G., 610n, 632n. Montano d’Arezzo, 802 e n. Montevecchi, B., 914n. Monti, G.M., 15n, 16n, 137n, 349n.

­1070 Montorio, S., 1001. Morano, M., 290n. Moranzon, famiglia, 854-55. Moras, comandante goto, 243. Morelli, M., 449n, 469n, 998n. Morelli, S., 112n. Moreno Cassano, R., 510n. Morini, E., 338n, 341n, 345n. Morlicchio, E., 1006n. Mormone, M., 644n, 645n, 670n, 793n. Morra, I. di, 985-86. Mosino, F., 1037n. Motta, A., 22n, 23n. Motta, C., 165n, 183n, 185n, 277n, 278n, 280n, 555n, 563n, 578n, 591n, 592n. Mottola, F., 1025n. Mottola Padula, C., 900n. Motzo, B.R., 13n. Munzio Antonio de Caprioli, vescovo di Tricarico, 871. Muratori, L.A., 84n, 95n, 136n, 690n, 692n, 693n. Murro, D.G., 684n. Musca, G., 11n, 33n, 35n, 42n, 94n, 98n, 101n, 116n, 152n, 198n, 316n, 319n, 493n, 636n, 712n. Muschettula, A., 931. Muscio, G., 609n. Muscolino, C., 666n, 811n, 825n, 826 e n, 830n, 875 e n, 878n, 879n. Muto, G., 151n. Mylonas, P.M., 541n. Mytens, A., 949. Naldi, R., 863 e n, 874n, 878 e n, 879n, 920n, 935 e n, 936 e n, 943. Nallino, C.A., 169n. Napoletano, D., 879. Napoli-Signorelli, P., xv. Nardoni, D., 307n. Narsete, generale bizantino, 53 e n, 54 e n. Nasalli Rocca, F., 302n. Natale, M., 858n. Natalia, santa, 275. Nava, M.L., 530n. Nedungatt, G., 332n, 338n. Nelli, N.D., 277, 468n, 655n.

Indice dei nomi

Nenni, M., xi. Neubauer, A., 308n, 323n, 324n, 325n, 326n. Neumann, R., 115n. Niccolò II (Gherardo di Borgogna), papa, 187, 246, 250-51, 367, 599, 694n. Niccolò Augusta, vescovo di Tricarico, 459, 473-74. Niccolò de Rutiliano, 478. Niccolò di Tommaso, 816n, 817, 822, 825. Niceforo II Foca, imperatore bizantino, xvi, 39, 71 e n, 72n, 76, 88, 245, 283, 329, 333, 581. Nicodemo di San Nicola di Peratico, igumeno, 376. Nicola, abate del monastero di Sant’Eustachio, 175. Nicola, abate di Santa Maria di Ripalta, 444. Nicola, arcivescovo di Canosa, 256. Nicola, conte di Principato, 374. Nicola, presbitero di Potenza, 292. Nicola I, abate di Venosa, 369, 659. Nicola da Guardiagrele, 867, 915n. Nicola da Nova Siri, 837, 839. Nicola da Potenza, 737. Nicola da Tolentino, santo, 436n. Nicola de’ Madia, frate, 451. Nicola di Bartolomeo da Foggia, 645. Nicola di Calabria, frate, 417. Nicola di Celano, 123. Nicola di Giovanni «de Foia», 1016. Nicola di Mira, santo, 189, 202, 774-75, 778n, 784-86, 788, 866, 923, 999. Nicola Paglia di Giovinazzo, beato, 449. Nicola Pitzingli, 76. Nicolotti, A., 335. Nifo, abate di Morbano, 293. Nifo, abate di Turri, 365. Nifo, igumeno, 376. Nigro, R., 321n, 681n, 968n, 976n, 978n, 979n, 991n. Nilo, abate, 362. Nilo, igumeno, 344. Nilo da Rossano, santo, 190, 366. Nitschke, A., 131n, 133n. Nitti, F.S., 1034.

Indice dei nomi

Nitti di Vito, F., 35n, 252n, 339n, 361n, 492n, 493n. Nitto de Rossi, G.B., 35n, 252n, 339n, 361n. Norberg, D., 19n, 60n. Noslo di Remerio, 599n, 636, 639. Noth, A., 363n. Novembre, D., 165n. Noy, D., 308n. Noyé, G., 6n, 50n, 51n, 57n, 58 e n, 64n, 94n, 148n, 547n, 691n, 705n. Nugent, M., 676n, 677 e n, 678n, 679n, 816 e n. Numeriano, Marco Aurelio Numerio, imperatore romano, 272. Nuovo, I., 965n, 966n. Nuzi, A., 815. Nuzzo, G., 179n. Oberto, vescovo di Potenza, 273. Oddi, I., 420n. Oderisi, v. Roberto d’Oderisio. Odoacre, re barbarico, 235. Oikonomidès, N., 75n, 344n. Onorato, martire, 259, 271, 512. Onorio, Flavio, imperatore romano, 308, 1003. Onorio III (C. Savelli), papa, 384, 720. Onorio IV (G. Savelli), papa, 132n. Orazio Flacco, Quinto, 184, 307-308, 960 e n, 969, 987-88, 991. Orimina, C., 816n. Orofino, G., 357n. Oronzo, santo, 259-60, 269, 273, 510, 512n. Orrico, L., 1015 e n, 1025n. Orsi, P., 584n. Orsini, famiglia, 140 e n, 141, 680, 975. Orsini, F., 978. Orsini, G., frate, 473. Orsini, M.D., moglie di Pirro del Balzo, 826, 852. Orsino, B., frate, 491. Orsino, C., frate, 491. Osmundo de Messanello, 695n. Osmundo di Petrolla, 695. Otranto, G., 254n, 381n, 506n, 543n, 544, 584n, 585n, 763n, 769.

­1071 Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, 979 e n. Ottone, vescovo di Rapolla, 257. Ottone I di Sassonia, imperatore del Sacro Romano Impero, 76 e n, 82, 329. Ottone II di Sassonia, imperatore del Sacro Romano Impero, 26, 77, 82, 358, 575, 577, 762. Ottone III di Sassonia, imperatore del Sacro Romano Impero, 762. Ottone IV di Brunswick, imperatore del Sacro Romano Impero, 104. Pacaut, M., 382n. Pace, V., 39n, 155n, 198n, 199n, 246n, 249n, 254n, 330n, 556n, 578n, 602n, 605n, 611n, 624n, 639n, 651n, 660n, 758n, 760n, 762n, 767n, 771n, 772n, 774 e n, 792n, 793n, 795n, 816n. Pacelli, V., 941n. Paci, G.M., 649 e n, 650n, 669n. Pacichelli, G.B., 260-61, 265, 267-68, 695, 697, 700. Paciocco, R., 400n, 403n, 413n. Pacurio, generale bizantino, 53 e n. Padula, M., 165n, 183n, 185n, 277n, 278n, 280n, 449n, 541n, 555n, 563n, 578n, 591n, 592n, 762n, 832n, 838n, 893n, 894n, 900n. Pagano di Matera, 26. Pagliuca, S., 639n. Paladino, G., 979n. Palese, S., 255n, 333n. Palestina, C., 227n, 294n, 398n, 404n, 422n, 462n, 463n, 662n, 672n, 678n. Paliotti, V., 630n. Palmerio di Melfi, 493-94. Palumbo, A., 836, 839 e n, 841n, 844n, 898n. Palumbo, G., 839 e n. Panarelli, F., 274n, 383n, 385n. Pandolfini, famiglia, 150. Pandolfo I, principe di Capua e di Benevento, detto Capo o Testa di ferro, 76n, 77. Pandolfo de Petruro, 123, 126. Pandolfo di Capua, figlio di Pandolfo I, 77.

­1072 Panella, E., 460n. Pani, M., 313n, 506n. Pani Ermini, L., 259n, 510n, 512n. Pani Rossi, E., v. Pannelli, D., 13n, 29n, 31n, 129n, 134n, 213n, 248n, 536n, 675n. Panormita, A. Beccadelli, detto il, 966n. Pantaleone, santo, 189, 779, 785-86. Pantoni, A., 575n, 577n. Panza, A., 882. Paoli, E., 404n. Paolicelli, E., 894. Paolino da Nola, 24n, 232 e n, 233, 540n, 571. Paolino da Venezia, frate, 393 e n, 395n, 397, 406, 416, 677. Paolo III (A. Farnese), papa, 253. Paolo da Cassano, 885. Paolo da Turano, 429. Paolo Diacono, Paolo Varnefrido, detto, 5 e n, 37 e n, 60, 61n, 63 e n, 64n, 65n, 68n, 168, 169n. Paolo di Calabria, frate, 467, 469-70. Paolo di Tarso, apostolo e santo, 189, 276-77, 322n, 360, 557n, 655, 666, 757, 764, 772, 788, 869, 938. Paone, M., 653n. Papachryssantou, D., 344n. Papagna, A., 319n. Parascandolo, famiglia, 911n. Parascandolo, G.P., 911 e n, 912. Paravicini, A., 405n. Paregora, figlia di Fozio, 317. Parenti, S., 331n. Pareti, L., ix. Paribeni, A., 537n. Parlangèli, O., 1020 e n, 1021n, 1036 e n. Parmigianino, F. Mazzola, detto il, 953. Parvolo, G., 900. Paschalides, S., 332n. Pasculli Ferrara, M., 556n, 914. Pasini, C., 336n. Pasquale II (Raniero), papa, 246, 251, 253-54, 256, 285, 320, 371. Passarelli, D., 449n. Passarelli, G., 335n. Pastor, L. von, 455n. Pásztor, E., 413n, 673n. Patitucci Uggeri, S., 548n.

Indice dei nomi

Patrizi, F., 975. Patroni Griffi, F., 151n, 152n, 160n, 321n. Paulicelli, S., 867, 900-901, 903n. Peccheneda, F., 474n. Pecere, O., 362n. Pedio, T., xi, xvin, 26n, 38n, 46n, 47n, 93n, 99n, 104n, 117n, 123n, 126n, 127n, 130n, 133n, 134n, 137n, 140n, 141n, 148n, 152n, 153n, 154n, 155n, 156n, 173n, 207n, 280n, 293n, 295n, 304n, 320n, 350n, 407n, 408n, 474n, 548n, 564n, 570n, 702n, 740n, 966n, 1016n. Pedro da Aponte, 931. Pedro de Toledo, viceré, 351. Peduto, P., 517n, 728n, 734n. Peeters, P., 269n. Pelagio I, papa, 58, 241-42, 273-74, 523. Pelagio II, papa, 567. Pellegrini, G.B., 202n. Pellegrini, L., 300n, 387n, 388n, 389n, 391n, 396n, 397n, 402n, 403n, 405n, 438n, 439n, 453n, 472n. Pellegrino, B., 662n, 775n. Pellettieri, A., 46n, 193n, 195n, 196n, 198n, 201n, 209n, 211n, 218n, 221n, 226n, 263n, 264n, 265n, 266, 278n, 303n, 304n, 305n, 321n, 348n, 353n, 477n, 480n, 684n, 706n, 710n, 712n, 719n, 751n. Pensabene, P., 638n. Perani, M., 309n, 313n, 319n. Percopo, E., 989n. Peregrino di Cassano, 363. Pergola, Ph., 505n, 517n, 526, 531n. Peri, V., 332n. Perpeta, N., frate, 460, 469-71. Perretti, V., 350n, 1007n, 1014n, 1016n, 1017n, 1025n, 1028n. Perrone, G., 157. Persio, Altobello, 879, 881-85, 888-90, 892 e n, 894-95. Persio, Antonio, 973, 975. Persio, Ascanio, 973, 974 e n, 975. Persio, Aurelio, 882 e n, 887, 892, 89495. Persio, G., 887. Persio, O., 976.

Indice dei nomi

Perticario (Perticari), G., 868, 904. Pertusi, A., 338n. Pertz, G.H., 6n, 93n, 174n, 245n. Peruzzi, famiglia, 150. Pescatori Colucci, G., 147n. Petrarca, F., 984-86. Petrella, B., 974. Petricioli, I., 864n. Petrillo di Genova, 159. Petrocchi, G., 989n. Petrone dei Loffredi, 174. Petronella, monaca, 62. Petronio Arbitro, 962. Petrucci, A., 110n. Petrucci, F., 454n. Petruccio da Rocca Montis Draconis, frate, 417. Petrus de Vinea (Pier della Vigna), 202n. Petta, P., 348n. Pfister, M., 1011 e n, 1024n. Pflugk-Harttung, J. von, 371n. Piazza, S., 765n. Pier Damiani, santo, 383. Pierio, P., 986. Pierozzi, A., santo, 467. Pietrafesa, F.L., 350n, 398n, 404n, 422n, 662n, 668n, 672n, 678n, 952. Pietro, abate, 293, 621. Pietro, apostolo e santo, primo papa, 189, 264, 269, 272, 277, 298, 334-35, 360, 555, 557 e n, 655, 666, 757, 764, 772-73, 779, 788, 801, 938. Pietro, arciprete e preposito, 381. Pietro, arcivescovo di Acerenza, 279, 285-86. Pietro, conte di Potenza, 126. Pietro, conte di San Fele, 492. Pietro, diacono, 293. Pietro, monaco di Turri, 35. Pietro, prepositus di San Vincenzo al Volturno, 75n. Pietro, presbitero, 293. Pietro, priore di Cersosimo, 376. Pietro, suddiacono di Acerenza, 271. Pietro, vescovo di Anglona, 253. Pietro, vescovo di Gravina, 261, 286 e n. Pietro, vescovo di Potenza, 58, 241-42. Pietro, vescovo di Ravenna, 241. Pietro, vescovo di Satriano, 257.

­1073 Pietro, vescovo di Venosa, 114. Pietro I, abate di Venosa, 368. Pietro II, abate di Venosa, detto Divinacello, 368-69. Pietro III, abate di venosa, 370. Pietro I, conte di Trani, 92, 94n. Pietro II, conte di Andria, 96. Pietro da Napoli, vicario, 426. Pietro de Beaumont, conte di Montescaglioso, 676. Pietro dell’Aquila, 458. Pietro de Madio, arcidiacono di Potenza, 292. Pietro de Querciis, vescovo di Mottola, 892. Pietro de Ruczo dell’Aquila, 158n. Pietro de Ylpeinis, vescovo di Marsiconuovo, 471n, 473. Pietro di Catalogna, vescovo di Rapolla, 210, 674. Pietro di Clusello, vescovo di Marsiconuovo, 473. Pietro di Giovanni Olivi, 413 e n. Pietro di Lupico, vescovo di Marsiconuovo, 473. Pietro di Matera, frate, 469. Pietro di Napoli, vescovo di Marsiconuovo, 471, 473. Pietro di Nardò, frate, 467. Pietro di Pietrafixa, 34, 132. Pietro di San Giorgio, 158. Pietro di Toledo, don, 988. Pietro Russo di Marsico, 298. Pietruccio di Rocca Mondragone, frate, 419n. Pignatelli, famiglia, 142. Pilato, L., 1038. Pinelli, C., 472n. Pino, M., detto Marco da Siena, 919, 942. Pinto, G., 327n, 681n, 991n. Pio II (E.S. Piccolomini), papa, 456. Pipino, famiglia, 131, 137. Pipino, re d’Italia, 66. Pirro del Balzo Orsini, duca d’Andria, di Venosa e principe di Altamura, 263, 454, 462, 464-65, 680-81, 687n, 753, 826, 852. Pirrone, M., 900. Pisa, G.A., 912.

­1074 Pisano, A., 350n. Pispisa, E., 123n. Pistilli, P., 636n. Pistorio, G., 209n. Pizolo, N., 858-60. Placidia, matrona, 235. Placido, abate, 377n. Plastu Accitanu, 378. Platone, 971. Plauto, 962. Plinio Secondo Gaio, detto il Vecchio, 962, 972. Plutarco, 979. Poggiaspalla, F., 288n. Poilechien, E., 801. Poisson, J.-M., 6n, 50n, 607n, 705n. Poisson, N., 607n. Polidoro da Caravaggio, 936, 938. Polidoro Virgilio, 972. Polieucto, patriarca di Costantinopoli, 39, 245, 283, 564. Polisena, sorella di Ruggero di Sanseverino, conte di Tricarico, 140n. Pompeo, Magno Gneo, 307. Pomponazzi, P., 469. Pontani, F.M., 55n. Pontano, G., 965, 971, 989. Pontieri, E., 24n, 95n, 169n. Ponzel, G., 132. Porfido, famiglia, 972. Porfido, N.G., arcivescovo, 681. Poso, C.D., 357n. Possenti, E., 534n, 547n. Postumiano, presbitero, 233. Potenza, M.R., 193n, 217n, 226n, 264n, 266, 706n, 712n. Potestà, G.L., 416n, 418n. Potthast, A., 132n, 285n, 286n. Prandi, A., 168 e n, 280n, 521n, 609n, 638n, 694n, 797n, 804n, 836 e n. Pratesi, A., 255n. Pratilli, F.M., 22n. Pressutti, P., 384n. Previtali, G., 921n, 923n, 932n, 947n, 948n. Primo, martire, 271. Procopio di Cesarea, 6 e n, 18 e n, 19n, 20n, 26 e n, 27n, 35 e n, 38, 49, 52n, 53n, 54 e n, 55 e n, 56 e n, 57, 243 e n, 710n.

Indice dei nomi

Prodi, P., 436n. Proficuo, vescovo di Salpi, 237. Prosdocimi, L., 302n. Pugliese Carratelli, G., xi, 521n. Pujmanova, O., 808n. Pulzone, S., 944, 949. Quaini, M., 194n. Quentin, H., 269n. Rabano Mauro, 269n. Rabbi Achima’az, 315, 320. Rabbi Isaq, 320. Rabbi Nathan, 320. Rabelais, F., 998. Racioppi, G., v e n, vii e n, viii, xi e n, x, xiii, xiv e n, xvi e n, 7n, 104n, 147n, 153n, 154n, 155n, 196n, 197n, 206 e n, 271n, 319n, 328n, 365n, 1000n, 1001, 1004n, 1023 e n. Radcliffe, A., 857n. Radechis, conte di Conza, 68n. Radelchi I, duca di Benevento, xiv, 6, 67, 73n, 244. Radelghisio (o Radelchi), protospataro, 38n, 74-75. Radelgisio, v. Radelchi I. Radtke, E., 1018n. Raffaello Sanzio, 921, 927, 935-36. Raginoldus (Raynaldus) Malecovenientiae, conte di Marsico, 695. Ragnaris, comandante, 53 e n, 54 e n, 243. Raimondi, M., 935. Raimondo da Capua, 466. Raimondo degli Orsini, signore di Laurenzana, 428. Raimondo di Santa Sofia, 126. Raimundo de Raimundo, 304. Rainaldo, abate di Montecassino, 33. Rainaldo, arcivescovo di Acerenza, 285-86. Rainaldo, arcivescovo di Bari, 255-56. Rainaldo da Piperno, vescovo, beato, 662. Rainaldo Durante, signore di Favacia, 376. Rainfredo, conte di Minervino, 92. Rainulfo, conte di Aversa, 90 e n, 91.

Indice dei nomi

Ranfrido, giudice, 668. Ranieri, L., viii e n, ix e n, x, xiiin. Rano, B., 439n. Rao, castellano di Atena, 373. Rao, monaco, 377. Rao de Molise, 223. Rapacaldo, A., 692n. Raymondo de Cardona, viceré, 227. Redigonda, A.L., 461n. Reginaldo di Lentini, vescovo di Marsiconuovo, 471n, 473, 662. Reginaldo di Piperno, vescovo di Marsiconuovo, 473. Reisinger, C., 114n. Renato I, duca d’Angiò e conte di Provenza, 440. Renaud, G., 269n. Rendina de’ baroni di Campomaggiore, G., arcidiacono, 286n, 292n, 304, 479. Rescio, P., 523n. Resta, G., 966n. Resta, P., 348n. Restaino, C., 836n, 838n, 948n. Restaino, R., 289 e n. Restucci, A., 165n. Revertera, famiglia, 142. Rhodostamo, vescovo di Trani, 250. Ricasoli, famiglia, 150. Riccardo, arcidiacono, 294. Riccardo, arcivescovo di Matera, 280. Riccardo, conte di Andria, 110. Riccardo, detto Senescalco, conte di Mottola e di Castellaneta, 96, 99. Riccardo, vescovo di Lavello, 498. Riccardo, vescovo di Rapolla, 639. Riccardo da Foggia, 745 e n, 747-48, 750. Riccardo da Venosa, 961 e n, 963. Riccardo di Balvano, 103, 108. Riccardo di Castelmezzano, 123. Riccardo di Chiaromonte, signore di Policoro, 100, 130-31, 375-76. Riccardo di Conza, 109. Riccardo di Lingèvres, 110-11. Riccardo di Montefusco, 118. Riccardo di San Germano, 119n, 721n. Riccardo di Santa Sofia, conte di Rivisco, 209. Riccetti, L., 219n.

­1075 Ricciardi, E., 607n. Riché, P., 332n, 336n. Richerio, vescovo di Melfi, 202, 303. Richler, B., 327n. Ridola, D., 279, 555 e n. Righetti Tosti Croce, M., 642n, 643n. Rigillo, M., 961n. Rimpatta, A., 925, 928. Rinaldo, duca di Spoleto, 961, 963. Rinaldo da Taranto, 794-95, 801, 802n. Rinaldo de Scalea di Colobraro, 130. Ripoll, T., 456n, 458n, 459n, 460n, 462n, 463n, 464n, 471n. Ristow, S., 532n. Riviello, R., v. Rizzi, A., 555n, 609n, 796n, 821n, 822, 842 e n, 843n, 935 e n, 966 e n. Roberto, arcivescovo di Acerenza e Matera, 286-87, 292, 472-74, 661. Roberto, vescovo di Tricarico, 340, 993. Roberto, vescovo di Venosa, 286, 293. Roberto I, duca di Puglia, detto il Guiscardo, 22, 26, 84, 94 e n, 95-100, 108n, 169n, 356, 364, 367-68, 491, 519, 520n, 598-99, 603, 612, 620, 623, 625, 632, 691, 694n, 696. Roberto I d’Angiò, re di Sicilia, detto il Saggio, 133 e n, 134 e n, 135n, 136, 145-46, 158, 211, 411-14, 415 e n, 418, 472, 481, 485, 496, 673, 802, 806, 1019n. Roberto I di Basunvilla, conte di Conversano, 110. Roberto II di Basunvilla, conte di Conversano, 110 e n. Roberto I di Montescaglioso, conte, 94, 95 e n, 96, 97n, 252 e n, 294. Roberto II di Montescaglioso, conte, 96. Roberto Benedetto Sanseverino, conte di Tricarico, 119. Roberto da Lavello, 126. Roberto de Amabilibus (de Mabilia), presbitero, 841, 845, 856-57, 870. Roberto de Cles, 104. Roberto dei Loffredi, 174. Roberto di Grandmesnil, abate, 364, 367, 692. Roberto di Loritello, 112. Roberto di Mileto, 415, 418-19.

­1076 Roberto di Montepeloso, 695n. Roberto di Napoli, frate, 458. Roberto di Quaglietta, 106, 109. Roberto di Romana, diacono di Saponara, 271, 524, 1000. Roberto di Sanseverino, principe di Salerno, 160. Roberto di Santa Sofia, 126. Roberto di Tricarico, 279. Roberto di Venosa, frate, 454. Roberto d’Oderisio, 810, 813-14, 816, 826n. Roberto Sansone di Senise, notaio, 157. Robertus de Solico di Monte Serico, 695. Robinson, G., 41n, 80n, 85n, 104n, 214n, 252n, 336n, 337n, 342n, 346n, 363n, 609n, 1037n. Rocco, santo, 303. Roche, M., 165n. Rodolfo, conte di Canne, 92. Rodolfo, conte di Montescaglioso, detto Maccabeo, 97. Rodolfo da Tossignano, 407n. Rodolfo di Bebana, conte di Sant’Arcangelo, 92, 694. Rodulfo, vescovo di Acerenza, 262. Rohlfs, G., 1006 e n, 1007 e n, 1008 e n, 1009, 1013 e n, 1014n, 1017n, 1026 e n, 1028 e n, 1032, 1034 e n. Romanelli, D., xv. Romanici, A.M., 734n. Romano, A., 721n. Romano, G., 858n. Romano, R., 49n, 719n. Romano, S., 802n. Romeo, R., 7n, 92n, 328n, 411n, 452n, 1006n. Romualdo, vescovo di Acerenza, 632. Romualdo I, duca di Benevento, 64 e n. Romualdo Salernitano, xvii, 94n, 100 e n, 101n, 262, 626 e n, 690 e n. Roncella, A., 180. Ronzani, A., 259n. Rosa, A., 572n. Roselli, F.S., 196n. Rosi, M., 682 e n, 685n. Rossetti, G., 114n, 144n, 146n. Rossi, A., 838n. Rossi, L., 815n.

Indice dei nomi

Rostaino de Romulis, 486 e n. Rosucci, A., 666n, 833n. Rota, B., 969. Rota, L., 165n. Rotili, M., 78n, 785n, 786, 787 e n, 788, 792n. Roubis, D., 530n, 534n, 535n. Rovarelli, B., 655. Rucellai, A., 440. Rufino, A., vescovo di Melfi, 977. Ruggero, conte di Andria, 111. Ruggero, priore di Cersosimo, 380. Ruggero, vescovo di Rapolla, 257, 383. Ruggero d’Altavilla, duca, figlio di Ruggero II, 370. Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia, detto Borsa, 97, 110, 320 e n, 368. Ruggero I d’Altavilla, conte di Sicilia, 97, 109, 169n, 364, 632, 770. Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia, 10, 22, 94, 96 e n, 97, 100 e n, 101n, 104, 107, 110-11, 113, 208, 292, 345, 362, 365 e n, 366, 368, 370, 379, 598n, 636, 691n, 692, 694, 697-98, 699 e n, 702 e n, 703, 709, 714 e n, 715, 716 e n, 717, 722. Ruggero da Todi, 402. Ruggero de Ieroli, 153. Ruggero di Fleming, 107, 111. Ruggero di Lauria, 135. Ruggero di Lentini, vescovo di Melfi, 406n, 451, 471, 473. Ruggero di Missanello, 868. Ruggero di Pleuto, 714. Ruggero di Pomareda, 13, 33. Ruggero di Sanseverino, conte di Tricarico, 99, 103, 107, 111-13, 115, 140n, 407. Ruggero di San Vincenzo, 496. Ruggiero di Pomarico, 704. Ruotolo, R., 904n, 909n, 916n, 917, 919n. Rusconi, A., 514n, 564n. Russi, A., viii-ix. Russo, A., 160. Russo, F., 222n, 341n, 485n, 486n. Rustico, vescovo di Buxentum, 239. Rutigliano, L.C., 1014n. Rutilio, P., 967.

Indice dei nomi

Saba da Collesano, detto il Giovane, santo, 28, 40, 335, 337, 340-42, 35960, 587, 1036 e n. Saba Malaspina, 15n, 133. Sabatini, A., 924, 926-27. Sabatini, F., 1017n, 1021n, 1022n, 1023n, 1024n. Sabatini, G., 552n. Sabiniano, fratello di sant’Oronzo, 259, 512. Sabino, vescovo di Consilinum, 235, 238. Saburro, condottiero, 64n. Sacco, A., 47n. Saccone, T., 734n, 948n. Saint Non, J.-C. R. de, 20, 25 e n. Salazaro, D., 648. Salerno, P., 923n. Salimbene de Adam, 405n. Salimbeni, J., 838. Salimbeni, L., 838. Salutati, famiglia, 150. Salvatore, M., 24n, 195n, 263n, 505n, 510n, 512n, 514n, 515n, 517n, 518 e n, 520, 523n, 525n, 528n, 530n, 535 e n, 537n, 544n, 546n, 547 e n, 548n, 549n, 550, 551n, 552-53, 565 e n, 566 e n, 567, 570 e n, 577n, 600 e n, 659n, 660n. Sancia di Maiorca, regina di Napoli, 137, 411, 413, 415, 418, 481, 678. Sandoval de Castro, D., don, 984. Sangermano, G., 145n, 147n. Sangi, P., 486. Sanità, G.P., 947. Sanità, M., 885, 887. Sannazaro, I., 980, 989. Sannazzaro Panza d’Alessano, 881, 884. Sannino, A.L., 278n, 281, 282n, 290n, 301n, 305n, 350n, 944n. Sanseverino, famiglia, 119, 131, 134, 140n, 141-42, 410, 459n, 469, 658, 663-64, 666, 676, 871, 893. Sanseverino, F., barone, xv. Sansterre, J.-M., 369n. Santafede, F., 947, 948 e n, 955. Santagata, A., 319n. Santeramo, F., 861 e n. Santoro, A., 867, 902.

­1077 Santoro, C., 171n, 184n. Santoro, L., 721n. Saraceno, G.M., arcivescovo di Acerenza, 289-91, 887, 909n, 910, 931. Saraceno, M., 154n, 668n. Saraceno, S., 896, 908, 910. Sarlus di Satrianum, 695. Sarolo di Montemarcone, 695. Sarolo di Muro Lucano, v. Maestro Sarolo. Sauget, J.-M., 337n, 787n. Saulo di Goffredo, 1000. Savino, T., 351n. Savona, V., 843n, 848n, 856-57, 871n, 876n, 878n, 879, 898n, 932n, 954n. Scaduto, M., 366n. Scafarelli, G.A., 305n. Scalise, A.M., 278n. Scanderbeg (Iskander beg), v. Castriota, G. Scaramella, P., 941n. Scarcia, G., 844n. Scarlatto, A., 159. Scarrier, P., 413 e n, 414 e n, 415 e n, 432, 673. Schaller, H.M., 121n. Schettini, F., 515n, 538n, 540 e n, 571 e n, 572, 575n, 600. Schettino, P., 839n. Schiapparelli, C., 208n. Schiapparelli, L., 357n. Schipa, M., 61n. Schmiedt, G., 719n. Schmitt, C., 1005n, 1031n, 1032n. Schnetz, J., 10n, 25n. Schöll, R., 59n. Schulz, H.W., 648. Schwarzfuchs, S., 322n. Scipione de Monti, 991. Scolastica, santa, 190. Scondito, F., vescovo di Melfi, 295. Sebastiano, santo, 189. Sellitto, C., 954-55. Senatore, santo, 272, 520n, 567. Sendler, E., 778n. Sensi, M., 419n. Sergio, padre di san Vitale, 274-75. Sergio di Senise, 363. Sernavacca de Castanea, 117.

­1078 Settia, A., 194n, 198n, 207n, 221n, 693n, 699n, 727n. Severo d’Antiochia, 9. Sforza, M.A., 140n. Sicardo, principe di Benevento, 67, 357. Sichelgaita, moglie di Arone, signore di Brienza, 373. Sichelgaita, moglie di Asclettino, conte di Sicignano e signore di Polla, 372. Sichelgaita (Sikelgaita), moglie di Goffredo, conte di Satriano, 223, 373. Sichelgaita, moglie di Roberto I, duca di Puglia, 98, 520n. Siconolfo, principe di Salerno, xiv, 6, 67-68, 73n, 244. Signorini, R., 857n. Silano, 315, 319. Silvestri, A., 154n, 155n, 159n, 160n. Silvestri, A.M., 157n. Silvestrini, M., 311n. Silvestro, chierico di Grumento, 23839. Silvestro, conte di Marsico, 298, 379. Silvestro, signore di Ragusa, 109 e n. Silvestro di Venosa, frate, 455. Simeone, abate di Cava dei Tirreni, 294, 374. Simeone, santo, 189. Simeone, vescovo di Tursi, 252, 330. Simeone de Sire Arturo, 494. Simmaco, papa, santo, 512n, 514. Simon, D., 347n. Simone, apostolo e santo, 772, 774. Simone, principe di Taranto, 111, 113n. Simone da Collazione, 402. Simone da Firenze, 862, 926, 934, 935 e n, 936-38. Simone di Benevento, frate, 452. Simone di Francesco de Simone, 886. Simone di Genova, 324-25. Simone di Monferrato, 1011. Simonsohn, Sh., 314n, 316n. Sinatti D’Amico, F., 204n. Sinibaldo, frate, 662. Sinibaldo, vescovo di Melfi, 295. Sirago, V.A., 49n. Siragusa, G.B., 7n. Sirat, C., 326n. Sisinni, F., xi, 929n.

Indice dei nomi

Sisto IV (F. della Rovere), papa, 299, 419-20, 424, 426, 433, 461, 464, 650. Sisto V (F. Peretti), papa, 975. Sivo, V., 493n. Small, A.M., 505n, 525n, 528n, 530n. Smet, C., 949-51, 954. Sofia, santa, 777. Solario, A., 928. Solimano II, sultano ottomano, 351. Solimene, G., 272n. Sommella, P., 263n. Sonzio, martire, 271. Sorbelli, A., 30n. Sorrenti, G., 532n. Spadaro, M.D., 328n. Spannocchi, famiglia, 150. Sparano, S., 924-26. Spera, G., 192 e n, 223n. Spera, L., 507n, 510n, 512n, 528 e n. Speranza, F., 875n, 876n, 883n, 886n, 895n. Spinelli, A., 650. Spinelli, E., 985n. Spinelli, G., 41n, 80n, 129n, 174n, 246n, 330n, 355n, 390n, 483n, 609n. Stabile, famiglia, 939, 944 e n, 945n. Stabile, A., 944 e n, 945-46. Stabile, C., 945-46. Stabile, G., 945n. Starr, J., 315n. Stazio, A., xi. Stefano, santo, 223, 257, 403, 789, 869, 901, 1000. Stefano, vescovo di Acerenza, 245. Stefano, vescovo di Melfi, 294, 477. Stefano, vescovo di Venosa, 234-35, 237-41, 514, 566, 571. Stefano IX (Federico dei duchi di Lorena), papa, 246, 254. Stefano di Arbe, 159. Stefano di Sanseverino, conte di Matera, 140n. Stefano d’Orléans, prepositus di castelli, 748n. Stefano Pugliese da Putignano, 847n, 860, 879, 880 e n, 881, 884-85, 89091. Stelladoro, M., 339n. Sthamer, E., 34n, 35n, 45n, 120n, 121n, 208n, 722n, 723n, 724n, 726n, 727n,

Indice dei nomi

736n, 737n, 738n, 739n, 740n, 741n, 743n, 744n, 745n, 746n, 747n, 748n, 749n, 750n. Stigliani, T., 976, 987. Strabone, viii. Strazzullo, F., xv e n, 941n. Strinati, C., 280n, 652n, 777n, 789n, 792n, 795n, 846n, 864n, 881n, 883n, 887n. Strozzi, famiglia, 150-51, 161 e n. Strozzi, F., 151, 160-61. Strozzi, L., 160-61. Stürner, W., 17n, 119n, 138n. Suavia, moglie di Tommaso di Sanseverino, 409. Sulpicio Severo, 997. Summonte, P., 650, 980. Sund, R.A., 657n. Susca, A., don, 292. Sveva D’Avezzano, 663. Sveva de Bazano, contessa, 666. Tabacco, G., 49n, 56n, 60n. Taegio, A., 458. Taft, R.F., 335n. Takayama, H., 101n, 102n, 103n. Tamani, G., 157n, 315n, 326n, 327n. Tancredi, conte di Conversano, 368, 694n, 695n, 697-99, 709, 714 e n, 715-17, 721. Tancredi d’Altavilla, re di Sicilia, già conte di Lecce, 91n, 100n, 114-15, 370, 775. Tancredi di Gravina, 115. Tansi, S., 251n, 483n. Tansillo, L., 987-89, 990 e n. Tantino, G., 845. Tarpin, M., 522n. Tasso, T., 843, 976, 987, 990. Tateo, F., 966n, 970n, 980n, 988n. Taurisano, I., 471n. Taviani-Carozzi, H., 87n, 88n, 89n, 92n. Teia, re degli Ostrogoti, 53, 54 e n. Teleo, F., 967. Telesio, B., 973, 975. Telleschi, A., viin. Teoctisto, patriarca di Costantinopoli, 61n.

­1079 Teodato, re degli Ostrogoti, 58. Teoderico, re degli Ostrogoti, 49, 55, 56n, 235. Teodora, matrona, 239. Teodora, sorella di san Tommaso d’Aquino, 662. Teodoro, abate, 374. Teodoro, igumeno, 343. Teodoro, nipote di san Luca di Demenna, 340. Teodoro d’Errico, 949. Teodoro Stratilate, santo, 788. Teodoro Studita, santo, 338, 774. Teofanio, igumeno, 343. Teofano, moglie di Ottone II di Sassonia, 77. Teofilatto, igumeno, 343. Terzarello, G., 666n. Tesauro, A., 931. Testini, P., 259n, 510n, 512n. Texier, B., 459. Thiel, A., 231, 233n, 235 e n, 237n, 238n, 506n. Thoma de Papia, v. Tommaso da Pavia. Thurre, D., 781n. Tiberio I, imperatore bizantino, 518, 551n. Tito, santo, 276. Tito Flavio Vespasiano, imperatore romano, 308. Tobler, T., 69n. Tocci, M., 658n. Todisco, A., 264n. Todisco, Giovanni, 934, 938-40. Todisco, Girolamo, 939. Todisco, L., 522n, 603n, 636n. Toesca, P., 995n. Tolosa, P., 162. Tommaselli, M., 165n, 760n, 775n, 778n. Tommaso Anglico, frate, 417. Tommaso da Celano, beato, 397 e n, 398 e n, 399, 451. Tommaso da Pavia, 399, 400n, 403n. Tommaso d’Aquino, santo, 662. Tommaso da Strasburgo, 438. Tommaso de Vio, 468. Tommaso di Acayre, vescovo di Satriano, 472-73. Tommaso di Potenza, frate, 457.

­1080 Tommaso di Sanseverino, conte di Marsico, 146, 409-10, 663. Tommaso di Sanseverino, milite di Tricarico, 222 e n, 485, 666. Torelli, F., 474n. Torelli, L., 435n. Torriani, G., 463, 467. Toscano, G., 928 e n. Toscano, T.R., 989n. Toschi, P., 999n. Toschi, U., xiii e n. Toso, F., 1007 e n, 1010 e n, 1014n. Totila, re degli Ostrogoti, 18, 52, 53 e n, 54n, 55, 56 e n, 57n, 58, 243. Toubert, P., 198n, 205n, 405n. Toynbee, A.J., viii. Tragni, B., 882n. Traiano, Marco Tullio, imperatore romano, 308. Tramontana, S., 721n, 770n. Tramontano, D., 942n. Tramontano, G.C., 162. Tranghese, S., 320n, 404n. Trifoggio, I., 687. Trifone, R., 136n, 138n. Trigezio, 236, 506. Trinchera, F., 13n, 40n, 252n, 343n, 344n, 362n, 374n, 375n, 376n. Trinci, P., 419-20. Tristagno, monaco, 400 e n, 401. Tristano, conte di Montepeloso, 92, 223, 694, 695n. Troiano, famiglia, 484. Troiano I Caracciolo, duca di Melfi e conte di Avellino, 141n, 979, 980n. Troiano II Caracciolo, principe di Melfi, 352. Troilo Sansone di Troia, frate, 222, 486. Trombetti Budrieri, A.L., 728n. Tronzo, W., 760n, 770n. Tropea, G., xv e n. Troupeau, G., 336n. Tucio de Scalzonibus, 162. Tulliano, possessor romano della Lucania, 52-53, 55 e n, 56-57. Tulliano, vescovo di Grumento, 241, 523. Turek, R., 762n. Tustaino de Duna, signore di Favacia, 376.

Indice dei nomi

Ubertino da Casale, 808. Ughelli, F., 63n, 118n, 245n, 262n, 377n, 474n, 524n, 1000 e n, 1004n. Ugo, priore di Montepeloso, 211. Ugo de Avena, 372, 375, 378. Ugo de Macchia, 115, 119. Ugo de Ollia, 695n. Ugo di Castelnuovo, 126. Ugo di Chiaromonte, 12, 201, 374. Ugo di Clairmont, 135. Ugo di Montescaglioso, 115. Ugo d’Ouilly, 93. Ugo Monocolo, 43. Ugo Tutabove, conte di Monopoli, 92. Ugone, abate di Venosa, 368-69, 622. Ugone, fratello di Margherita, contessa di Chiaromonte, 410. Ugonotto Alemanno, 486 e n. Ulianich, B., 721n, 903n, 914n. Umfredo, fratello di Roberto I, duca di Puglia, 599, 620, 696n. Unfredo, conte di Lavello, 93, 97 e n, 174, 251, 367. Uranio, discepolo di Paolino da Nola, 233 e n. Urbano II (Ottone di Lagery), papa, 27, 174 e n, 246, 250, 253, 255, 257, 284, 367, 475, 576, 605, 762 e n, 763. Urbano V (Guillaume de Grimoara), papa, 485, 816. Urbano VI (B. Prignano), papa, 411. Ursazio, 233. Ursino, arciprete, 294. Vaccaro, famiglia, 152, 954-55. Vaccaro, A., 453n. Valente, C., 609n. Valentiniano II, imperatore romano, 532-33. Valentino, martire, 271. Valeri, L., 976. Valeriano, corrector Lucaniae, 51. Valerio, arcivescovo di Ravenna, 514n. Valerio, console, 310. Vargas, C., 949 e n, 950n. Varvaro, A., 1006n, 1011n, 1017n, 1023n, 1025n, 1026n, 1030n, 1031n, 1032n, 1033n, 1038n, 1039n, 1040n. Vasco Rocca, S., 914n.

­1081

Indice dei nomi

Vasoli, C., 973n, 975n. Vauchez, A., 302n, 332n, 336n. Velmans, T., 759n. Venanzio, corrector Lucaniae et Bruttiorum, 55 e n. Venceslao di Boemia, santo, 762. Venceslao di Sanseverino, duca di Venosa, 140n, 385. Venditti, A., 165n, 521n, 541n, 566n, 580n, 581n, 584n, 586n, 587n, 588n, 591 e n, 596, 598n, 609n, 610 e n, 636n, 685n. Vendola, D., 133n, 224n, 250n, 252n, 257n, 286n, 287n, 295n, 297n, 482n. Veneziano, G., 350n. Venoso, S., 611n. Ventre, L., 265n. Venturoli, P., 792n, 793n, 799n, 804n, 805n, 806n, 901n. Venusio, D.C., 448n. Venusio, N., 162. Verrastro, V., xi, 286n, 492n, 1002n. Verricelli, E., 165n, 448n, 967. Verrocchio, Andrea di Francesco di Cione, detto il, 935. Verrone, P., 841 e n, 856, 858, 860. Veselovskij, A.N., 1008n. Vetere, B., 144n, 148n, 152n, 381n, 384n, 662n, 775n. Viatore, santo, 272, 520n, 567. Viggiano, E., 1008n. Vigilio, papa, 58. Villani, G., 121 e n, 1025. Villani, P., xi. Villani, R., 187n, 188n, 677n, 762n, 766n, 775n, 777n, 779n, 782n, 783n, 784n, 825 e n, 829n, 830n, 831n, 832n, 833n. Vinaccia, A., 669n. Vincenzo di Matera, frate, 456. Vincenzo Ferreri (Vincente Ferrer), santo, 322, 835. Violante, C., 232n, 234n, 259n, 273, 274n. Viollet-Le-Duc, E.-E., 719n. Virgilio Marone, Publio, 971. Virgilio Orsini, conte di Tagliacozzo, 157. Viscardi, A., 993 e n, 1001. Visceglia, M.A., 111n, 148n, 155n.

Vitale, F., 952n. Vitale, G., 154n, 155n, 157n, 159n, 160n, 300, 349n, 751n, 979n, 1012n. Vitale, O., 367. Vitale da Castronuovo, santo, 9, 22, 28, 35, 41, 186, 252, 274-76, 330, 335, 339-41, 346, 360, 584 e n, 585, 609, 763, 993, 1001. Vitaliano, generale, 243. Vitaliano, papa, santo, 63n. Vitelli, F., 984n, 985n. Vito, martire, 270-71. Vitolo, G., 114n, 126n, 135n, 137n, 205n, 371n, 372 e n, 373, 375n, 380n, 385n, 387n, 388n, 396n, 400n, 403n, 406n, 411n, 415n, 425n, 452n, 465n, 472n, 662n, 721n, 1025n. Vittore II (Gebeardo dei conti di Dolln­ stein-Hirschberg), papa, 272. Vivanti, C., 49n, 719n. Vivarelli, P., 187n, 188n, 796n, 797n, 999 e n. Vivarini, Alvise, 845, 880. Vivarini, Antonio, 842, 880. Voci, A.M., 405n. Vogüé, A. de, 37n, 369 e n. Volpe, F., xi, 271n. Volpe, F.P., 165n, 277 e n, 319n, 449n, 474n. Volpe, G., 309n, 510n, 517n, 531n, 544n, 547n, 548n, 549n. Volpicelli, L., xv. Voltorico, R., 652. Vultaggio, C., 30n. Wadding, L., 424n, 425n, 672n. Wagner Rieger, R., 674n. Waitz, G., 61n, 320n. Walter, C., 765n. Weil Carr, A., 765n. Weitzmann, K., 560n. Westerbergh, U., 51n, 262n. Whitehouse, D., 199n, 224n, 264n. Willemsen, C.A., 734. Winkelmann, E., 118n, 722n, 723n. Wirth, G., 52n. Wittmayer Baron, S., 327n. Yver, G., 142n, 145n, 146n.

­1082 Zabarella, J., 973-74. Zamagni, V., 302n. Zampetti, P., 930n. Zampino, G., xi, 575n, 663n. Zanino di Pietro, v. Giovanni Charlier. Zarnecki, G., 604n, 632n, 635n. Zastrow, O., 869n. Zavarrone, A., 252n. Zecchino, O., 102n, 138n. Zenone, santo, 911n. Zerachyah ben Isac Hen, 326.

Indice dei nomi

Zeri, F., 825 e n, 922. Zeya, comes Gothorum, 239. Zezza, A., 923n. Zotta, S., xi. Zottone, duca di Benevento, 60-61. Zurla, S., frate, 484. Zurlo, famiglia, 140n. Zurlo, Giacomo, 140n. Zurlo, Giovannello, 140n. Zurlo, Giovanni, 140n. Zurlo, M., 140n.