Spazi pubblici e dimensione politica nella città romana: funzioni, strutture, utilizzazione 8869232514, 9788869232510


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Spazi pubblici e dimensione politica nella città romana: funzioni, strutture, utilizzazione
 8869232514, 9788869232510

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DISCI

DIPARTIMENTO storia culture civiltà

Archeologia

Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica.

Spazi pubblici e dimensione politica nella città romana: funzioni, strutture, utilizzazione

Espaces publics et dimension politique dans la ville romaine: fonctions, aménagements, utilisations Clermont-Ferrand 30 marzo 2015 Bologna 27 ottobre 2015 a cura di Carlotta Franceschelli, Pier Luigi Dall’Aglio, Laurent Lamoine

Bononia University Press

I saggi sono stati sottoposti a blind peer review

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7, 40123 Bologna tel. (+39) 051 232 882 fax (+39) 051 221 019 © 2017 Bononia University Press ISSN 2284-3523 ISBN 978-88-6923-251-0 ISBN online 978-88-6923-537-5

www.buponline.com [email protected]

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

In copertina: Veduta del foro della città romana di Ostra (Ostra Vetere - AN) (foto Carlotta Franceschelli)

Progetto grafico: Irene Sartini Impaginazione: DoppioClickArt - San Lazzaro (BO) Prima edizione: novembre 2017

à Mireille Cébeillac-Gervasoni

Sommario

Presentazione – Présentation Pier Luigi Dall’Aglio

IX

Introduzione – Introduction Carlotta Franceschelli

1

La percezione degli spazi urbani nella storiografia moderna: paradigmi interpretativi e realtà storiche Positivismo e/o idealismo nella valutazione della spazialità nell’architettura romana Cairoli Fulvio Giuliani Lieux publics chez les Gaulois. Bilan historiographique Laurent Lamoine

9 15

La città e le sue trasformazioni: aspetti teorici e metodologici A proposito di sventramenti urbani Luisa Migliorati

25

Edifici per spettacoli in età romana: Asia minore e Nord Africa a confronto Jesper Carlsen

43

La “crisi” tardoantica nelle città romane della VIII Regio Pier Luigi Dall’Aglio, Paolo Storchi

53

Spazi urbani e istituzioni cittadine La gestione politica delle opere nella città romana: i curatores operum publicorum Alessandro Cristofori À la recherche des lieux de l’administration municipale à travers la documentation épigraphique Laurent Lamoine, Françoise Sudi-Guiral

75

103

Spazi urbani e dinamiche del potere La memoria publica della civitas esposta negli archivi cittadini: il capitolium di Verona romana Lauretta Maganzani

115

Sur un jeu de mots bilingue d’un citadin facétieux : arcs honorifiques et propagande politique à la fin de l’époque flavienne Cyril Courrier

133

Les lieux de vote à Rome et l’évolution du rôle politique du peuple entre la république et le principat Virginie Hollard

153

La piazza forense tra l’applicazione di modelli e l’adattamento alle realtà locali Fori cisalpini, fori transalpini: variazioni sul tema Stefano Maggi

165

Spazi pubblici a Ercolano: il problema del foro Mario Pagano

175

Les fora en Gaule du nord entre le milieu du IIIe siècle et le Ve siècle : un état des lieux Blaise Pichon

185

Strade e morfologia urbana: sintassi spaziale e funzioni politiche, religiose, sociali La définition de parcours symboliques dans la ville romaine : le cas de l’allée monumentale du Péchin (Néris-les-Bains, Allier) Carlotta Franceschelli

201

Hospitalité publique, hospitalité privée dans la ville Philippe Leveau

225

Conclusioni – Conclusions Laurent Lamoine

251

Autori – Auteurs

255

PRESENTAZIONE PRÉSENTATION

Questi Atti raccolgono i testi di due giornate di studi, che si sono tenute a Clermont-Ferrand il 30 marzo del 2015 e a Bologna il 27 ottobre dello stesso anno. Può sembrare a prima vista strano che questa iniziativa, per quanto unitaria, si sia articolata su due sedi lontane e che non hanno, nel settore dell’antichistica, una tradizione di studi e di iniziative comuni. In realtà, nell’ambito specifico della lettura storica e storico-topografica del territorio e della città, le due Università hanno molto in comune. Bologna vanta una lunga tradizione di studi storico-topografici che si rifanno ad Arturo Solari prima e poi, e soprattutto, a Nereo Alfieri e un’altrettanto importante tradizione di studi urbanistici legata all’attività e al magistero di Guido Achille Mansuelli. Clermont-Ferrand, oltre ad essere un centro di eccellenza in Francia per gli studi di archeologia del paesaggio, è il luogo dove sono stati tenuti diversi incontri, in cui sono stati presentati i risultati di una ricerca pluriennale coordinata da Mireille Cébeillac-Gervasoni, che purtroppo ci ha recentemente lasciato, proprio sulla vita e l’amministrazione delle città dell’Occidente romano e sulle élite municipali. Volendo affrontare la lettura della città sotto diversi punti di vista, era abbastanza inevitabile che queste due linee di ricerca, quella più propriamente archeologica e storico-topografica di Bologna e quella più specificamente storica di Clermont-Ferrand, finissero per incontrasi e per interagire tra loro, andando a riannodare un legame tra le due città che risale a Carlo Magno e al trasferimento, ad opera del re, delle reliquie dei Santi Vitale e Agricola da Bologna alla Cattedrale di Clermont. A prescindere comunque da questa reminiscenza storica, delle giornate di studi miranti ad affrontare il problema degli spazi pubblici nelle città romane attraverso letture diverse e complementari non potevano trovare due sedi più adatte e, d’altro canto, non è certo casuale che Bologna e Clermont siano anche unite da un progetto Erasmus rivolto agli studenti di Archeologia e Storia. È anche pensando a questo progetto Erasmus che si è deciso di organizzare queste giornate su due sedi, anziché in una sede unica. L’obiettivo che si voleva perseguire non era infatti solo quello di fornire agli studenti di due Università l’opportunità di riflettere sulla complessità del fenomeno urbano, ma di venire a contatto con studi e linee di ricerca portati avanti da ricercatori di due Paesi, che, pur essendo vicini sia geograficamente che culturalmente, hanno comunque spesso impostazioni e approcci differenti. Queste finalità sia scientifiche che didattiche sono state le motivazioni che hanno spinto le

X

Presentazione – Présentation

nostre rispettive strutture di appartenenza, vale a dire il Centre d’Histoire «Espaces et Cultures» di Clermont-Ferrand e il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, a sostenere concretamente la nostra iniziativa. Come si è accennato all’inizio, le linee di ricerca delle due Università si integrano senza sovrapporsi completamente. Si è perciò cercato di organizzare le due giornate tenendo presente le specificità delle due sedi. A Clermont il problema degli spazi pubblici nella città romana è stato affrontato soprattutto da un punto di vista più propriamente storico, rimanendo così nel solco tracciato dai quattro convegni qui organizzati da Mireille Cébeillac-Gervasoni all’interno del programma da lei pilotato sulle élites municipali. Questa impostazione non ha però portato a tralasciare l’archeologia e la topografia antica, così come la prevalenza data all’archeologia e all’urbanistica antica nella giornata bolognese non è andata comunque a discapito degli aspetti e dei temi più propriamente storici. Le due giornate hanno dunque mantenuto un’impostazione comune, vale a dire quella di una lettura multidisciplinare della città, e la collaborazione tra le due Università non è stata puramente formale, quanto piuttosto un’integrazione culturale e scientifica. Pier Luigi Dall’Aglio

INTRODUZIONE INTRODUCTION

Carlotta Franceschelli

Questo volume riunisce i contributi presentati in occasione delle due giornate di studio Spazi pubblici e dimensione politica nella città romana: funzioni, strutture, utilizzazione (Espaces publics dans la ville romaine  : fonctions, aménagements, utilisations), che hanno avuto luogo a Clermont-Ferrand e Bologna, rispettivamente, nei mesi di marzo e ottobre 2015. Esse si inseriscono in un programma di ricerca che fa capo al Centre d’Histoire «Espaces et Cultures» dell’Université Clermont-Auvergne, di Clermont-Ferrand, e al Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna1, che si pone come obiettivo di riflettere sul vasto tema degli spazi pubblici urbani, tentando tuttavia di circoscriverlo alla sua “dimensione politica”, come peraltro indicato nel titolo degli incontri. Con ciò, si sono dunque voluti porre all’attenzione dei partecipanti i due temi, strettamente connessi, della dimensione politica, che permea la città romana in molte delle sue parti, e del suo rapporto con gli spazi pubblici urbani, nei quali questa dimensione politica si esplica in modo particolare, soprattutto attraverso pratiche collettive2. Il termine “pubblico” viene qui inteso secondo l’accezione correntemente impiegata nell’antichità, in riferimento cioè a luoghi e monumenti caratterizzati da una sostanziale inalienabilità e da una destinazione d’uso collettiva3. Su di un piano strettamente giuridico, infatti, la titolarità di spazi e beni qualificati come “pubblici” spettava di solito a un soggetto collettivo, quale in senso stretto il popolo romano4. Ad essi erano tuttavia assimilabili anche spazi e monumenti che, a livello locale, erano desti  Per quanto riguarda il Centre d’Histoire «Espaces et Cultures» (CHEC), la ricerca si annovera tra le attività dell’Axe 3 – Espaces, sociétés et représentations : approches historiques et archéologiques, cui fanno capo Laurent Lamoine e Carlotta Franceschelli; per quanto riguarda il Dipartimento di Storia Culture Civiltà (DiSCi), la ricerca fa parte delle attività della Cattedra di Topografia Antica, coordinate da Pier Luigi Dall’Aglio. 2  Su questi temi, si registra una proficua convergenza tra il nostro programma di ricerca e quello sviluppato alla Maison de l’Orient et de la Méditerranee di Lione, di cui dà conto Virginie Hollard, nel suo contributo in questo volume. 3   Si vedano, in proposito, Dubouloz 2003, in specie alle pp. 921-923 e 952-953 e De Marco 2004, pp. 11-29. Per una sintesi sulla questione, cfr. Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008, pp. 10-11. 4   Si vedano, in particolare, D. 50.16.15 Ulp. 10 ad ed.: «Bona civitatis abusive “publica” dicta sunt: sola enim ea publica sunt, quae populi Romani sunt», oppure, D. 50.16.16 Gai. 3, ad ed.: «Eum qui vectigal populi Romani conductum 1

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Carlotta Franceschelli

nati all’universitas dei cives costituita, ad esempio, dall’insieme degli abitanti di un municipium, i quali, nei fatti, esercitavano su di essi una sorta di proprietà collettiva5. All’opposto, beni e spazi privati si caratterizzavano per un uso e una proprietà individuali, cioè attribuite a un singulus6. Per quanto riguarda invece la “dimensione politica”, con questo termine abbiamo voluto fare riferimento, in primo luogo, a quelle attività direttamente connesse con il governo della città, e dunque “politiche” in senso stretto, quali per esempio le pratiche del voto, o le iniziative e gli atti che promanavano dal potere centrale o locale. Vi abbiamo tuttavia associato, con un’accezione più ampia, tutte le attività che, per quanto meno formalizzate e istituzionalizzate, concorrevano comunque alla partecipazione e, dunque, alla costruzione della vita cittadina, quali ad esempio quelle volte a suscitare il consenso o quelle che, al contrario, erano espressione del dissenso, senza dimenticare le innumerevoli forme con cui si manifestava la competizione tra differenti categorie sociali o tra membri dell’élite, il cui peso politico è innegabile7. Vogliamo fare un’ultima precisazione circa la dimensione spaziale cui si è inteso indirizzare le riflessioni che seguono. Se, naturalmente, non si è ignorato il singolo edificio che, con i suoi aspetti architetturali e decorativi, diviene supporto di messaggi fortemente connotati in chiave politica, un’attenzione particolare si è tuttavia voluta porre alla città nel suo insieme e a quegli interventi di pianificazione volti a organizzare spazi ed edifici entro un contesto omogeneo, esso stesso portatore di un valore semantico, capace di precisare e amplificare il significato di ogni singola componente8. Entro questo approccio, la via da seguire resta, a nostro avviso, quella a suo tempo indicata da Guido Achille Mansuelli, per il quale la dimensione spaziale urbana non può essere considerata il risultato fortuito dell’accostamento di diverse strutture, quanto piuttosto la risposta ai bisogni di una collettività, sul piano politico, ideologico e funzionale, attraverso la codificazione di schemi e percorsi preferenziali9. Si tratta di un tema sul quale convergono da tempo gli interessi di diversi specialisti del mondo antico, quali in particolare storici, giuristi, archeologi e topografi antichisti, che hanno contribuito a fare avanzare la riflessione in proposito, ciascuno secondo la propria impostazione metodologica e il proprio approccio specifico. In particolare, gli studi degli archeologi e topografi antichisti hanno permesso di incrementare le conoscenze circa l’aspetto materiale degli spazi pubblici urbani, con particolare riferimento alla loro forma, alle loro dimensioni, alle strutture che li compongono e al loro aspetto più o meno monumentale. D’altro canto, le ricerche di storici e giuristi hanno portato a chiarire numerosi aspetti legati alla funzione e alla gestione di questi spazi, nonché alle modalità precise di svolgimento delle attività che dovevano aver luogo nel loro ambito, anche grazie al largo impiego delle fonti epigrafiche, quali in particolare leggi e regolamenti municipali. Il dialogo tra queste diverse competenze, invocato da più parti, tanto da essere divenuto oramai quasi un’ovvietà, ha portato, in questi ultimi decenni, a indubbi progressi in quest’ambito. Bisogna tuttavia ammettere come, al di là delle condivisibili petizioni di prinhabet, “publicanum” appellamus. Nam “publica” appellatio in compluribus causis ad populum Romanum respicit: civitates enim privatorum loco habentur». 5   Sulla questione, si veda De Marco 2004, pp. 11-29 e 41-42, con particolare riferimento al giurista Gaio, cfr. in particolare, D. 1.8.1 pr. (Gai 2.9-11 inst.). Si rinvia, in proposito, a Lauretta Maganzani, nel suo contributo in questo stesso volume. 6   Sono tuttavia presenti, in età romana, fenomeni di “porosità” all’interno della dicotomia “pubblico-privato”, per esempio in relazione al criterio dell’usus. Si vedano, al riguardo, i contributi di Philippe Leveau e della scrivente in questo volume, con bibliografia precedente. 7  Cfr. Porena 2005. 8   Mansuelli 1982b; Balty 1994; Grassigli 1994; Gros 2007; De Maria 2010. Si veda anche il contributo della scrivente in questo stesso volume. 9   Mansuelli 1970.

Introduzione – Introduction

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cipio, restino ancora relativamente rari i contesti nei quali, concretamente, storici, giuristi, archeologi e topografi antichisti si ritrovano a riflettere e discutere intorno a un tavolo, su di un tema comune10. Nell’ambito della tematica generale così definita, abbiamo individuato alcune questioni specifiche, che abbiamo voluto porre all’attenzione dei partecipanti a questi incontri. Si tratta innanzitutto dell’annosa questione dell’applicazione di modelli, architettonici e urbanistici, all’interno della città romana, che ha suscitato un dibattito particolarmente acceso e stimolante negli anni 1970-1980 e che ritorna ciclicamente nelle riflessioni di topografi e archeologi11. Diciamo subito che l’approccio al tema in termini esclusivamente tipologici, secondo il rigido meccanismo “modello-replica”, non soddisfa per nulla12 e che si aderisce invece all’approccio proposto da Guido Achille Mansuelli il quale, con una suggestiva metafora, parla di «un fondamento linguistico suscettibile di traslati, un tema suscettibile di variazioni»13. Ci sembra tuttavia che restino ampi margini di riflessione sulle dinamiche, politiche, culturali, sociali, che sono all’origine di questa circolazione di schemi architettonico-urbanistici ricorrenti. Essa è dettata da necessità funzionali, in risposta al bisogno di spazi codificati destinati ad accogliere attività codificate, o risente piuttosto del peso esercitato da una sorta di koiné culturale dominante? In che misura, poi, si tratta di interventi calati o suggeriti “dall’alto”, o invece promossi “dal basso”, allo scopo di mostrare la propria adesione alla realtà del nuovo potere, sin nei suoi aspetti più esteriori14? Si tratta di componenti che senza dubbio coesistono e il cui equilibrio oscillava in funzione di numerose variabili esterne (geografia fisica15, preesistenze…), con differenze locali che peraltro giustificano la vasta latitudine geografica degli interventi proposti in queste giornate di studio16.

  In questo, ci piace e ci onora rivendicare una continuità di metodi e intenti con le importanti ricerche pilotate da Mireille Cébeillac-Gervasoni a partire dal 2002 nell’ambito del programma EMIRE (Élites Municipales Italiennes de la République et de l’Empire) sul tema Le quotidien institutionnel des cités (cfr. Cébeillac-Gervasoni 2003 e 2006) e, dal 2008, con la collaborazione di Clara Berrendonner e Laurent Lamoine, nell’ambito del programma Les pouvoirs locaux depuis l’Antiquité romaine (cfr., da ultimo, Lamoine, Berrendonner, Cébeillac-Gervasoni 2012). A Mireille, che ci ha lasciato recentemente, va il nostro commosso ricordo. 11   Per un’efficace sintesi su questo dibattito, che ha avuto illustri protagonisti quali, in particolare, John Bryan WardPerkins, favorevole all’individuazione di «stereotipi», e, sul fronte opposto, Guido Achille Mansuelli, Raymond Chevallier e Pierre Gros, si veda Balty 1994, in specie a p. 91. Per una più recente ripresa del tema, si vedano, in particolare, Bejor 1990; Zanker 2000; Maggi 2007 e 2011 e, da ultimo, Sewell 2014. 12   Si concorda in questo con Stefano Maggi (cfr. infra, in questo stesso volume), per cui la questione, posta in questi termini, sarebbe un «falso problema». 13  Cfr. Mansuelli 1982a, pp. 146-148, dove aggiunge che, anche se «nessuna città può essere considerata soltanto per sé, ma parte di un sistema», sarebbe tuttavia errato parlare di «stereotipizzazione». Sulla questione, con particolare riferimento al foro, si veda il contributo di Stefano Maggi, in questo volume. 14   Merita qui di essere ricordato il noto passaggio di Gellio (N.A. 16, 13), solitamente estrapolato nel punto in cui si afferma che le colonie «quasi effigies parvae simulacraque esse videntur» e spesso citato a riprova del fatto che le colonie fossero quasi delle copie ridotte e delle immagini di Roma. In realtà, da una lettura integrale del passo, emerge come il parallelo ivi suggerito sia tra le colonie e l’amplitudo e la maiestas del popolo romano, senza dunque un preciso riferimento agli aspetti urbanistici. È tuttavia ragionevole pensare, come propone Paul Zanker (Zanker 2000, p. 41), che «the cityscape with its monumental buildings makes this concept visible». 15   Un’attenzione particolare al rapporto tra le diverse forme del popolamento e la geografia fisica, senza tuttavia cadere in troppo rigide forme di determinismo, è da sempre rivendicata negli studi della scuola di Topografia Antica dell’Università di Bologna (cfr. Dall’Aglio 1994). Per quanto riguarda la questione specifica della città romana, meritano poi di essere segnalati gli studi di Pier Luigi Dall’Aglio (Dall’Aglio et alii 2007) e gli studi sull’urbanistica di piano di Paolo Sommella (Sommella 1976 e 1988). 16   È interessante, al riguardo, il parallelo proposto da Dall’Aglio c.s. con l’impero austro-ungarico, quale viene evocato nei primi capitoli del romanzo di Joseph Roth La cripta dei Cappuccini. Vi si evidenziano infatti, alla scala dell’impero, affinità formali tra edifici e spazi destinati ad accogliere servizi e attività in qualche modo connesse con il potere centrale, in modo da essere facilmente riconoscibili e creare ovunque “un’atmosfera di casa”. 10

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Carlotta Franceschelli

Un secondo tema di riflessione è quello del rapporto tra gli spazi pubblici e le dinamiche del potere17. Se infatti è indubbio che questi ambiti fossero il luogo per eccellenza della messa in scena del potere, tanto centrale quanto locale, e che questo si esprimesse principalmente tramite interventi di monumentalizzazione, in cui spesso si associavano felicemente architettura e immagine, si è voluto qui porre l’attenzione sul ruolo esercitato dallo scritto, eventualmente associato a documenti raffiguranti l’organizzazione della città o del territorio, all’interno di questi spazi destinati alla rappresentazione. Anche in questo caso, si tratta di un tema non nuovo, eccellentemente posto alcuni anni orsono da Mireille Corbier18, ma che è stato riportato alla ribalta da alcune pubblicazioni recenti19. Sempre nell’ambito del rapporto tra spazi urbani e dinamiche del potere, si è poi voluto riflettere sull’impatto di questi interventi. Se nella maggior parte dei casi la loro efficacia sembra certa o, quanto meno, estremamente probabile, sono al contrario attestati esempi in cui questa pratica sia stata condotta in modo maldestro o “eccessivo”, con esiti addirittura controproducenti20? Un terzo tema di riflessione è poi legato al riconoscimento21 e al divenire di questi spazi urbani nel corso del tempo, in particolare quando le pratiche che si svolgevano al loro interno avevano perso la loro centralità in un contesto di mutate esigenze, politiche, religiose, economiche. Se di solito questo ha comportato, in tempi più o meno lunghi, la trasformazione degli spazi interessati, con un adattamento alla funzionalità rinnovata22, non si possono al contrario escludere casi in cui la divaricazione tra la funzione reale e la valenza simbolica di determinate pratiche si sia accentuata a tal punto che, pur venendo meno la prima, la seconda sia rimasta operante per un certo tempo, giustificando in questo modo la persistenza delle pratiche in questione, anche se soltanto sotto forma di rituale collettivo. Con implicazioni non secondarie sul piano della conservazione degli spazi di riferimento, di cui si continuava dunque ad avvertire la necessità23. Questi e altri24 sono i temi che si è inteso affrontare – anche riservando ampi spazi alla discussione – nel corso delle due giornate di studio Spazi pubblici e di cui si è dato conto nelle sei sezioni tematiche in cui sono ripartiti i contributi di questo volume. Si tratta certamente di questioni complesse e spesso di lungo corso, per le quali non si ambiva certo a trovare soluzioni o risposte definitive, quanto piuttosto a fornire nuovi input di riflessione e ricerca, nuove problematiche domande, anche grazie all’approccio metodologico applicato, caratterizzato da una fattiva e proficua interdisciplinarità tra specialisti del mondo antico. Bibliografia Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008 = P. Ballet, N. Dieudonné-Glad, C. Saliou (dir.), La rue dans l’Antiquité. Définition, aménagement et devenir de l’Orient méditerranéen à la Gaule, Rennes 2008. Balty 1994 = J.-Ch. Balty, Le centre civique des villes romaines et ses espaces politiques et administratifs, in La ciudad en el mundo romano (XIV Congreso Internacional de Arqueològia Clásica, Tarragona 5-11/9/1993), Tarragona 1994, pp. 91-106.   Sulla gestione di questi spazi a livello municipale, si veda il contributo di Alessandro Cristofori in questo volume.   Corbier 1987 e 2006. 19   Si pensa, in particolare, ai due catasti veronesi, per i quali Lauretta Maganzani propone un’interessante chiave di lettura. 20   Cfr. il contributo di Cyril Courrier in questo volume. 21   Cfr. il contributo di Laurent Lamoine e Françoise Sudi-Guiral e, con particolare riferimento al foro, quelli di Stefano Maggi e di Mario Pagano in questo volume. 22   Si vedano il contributo di Pier Luigi Dall’Aglio e Paolo Storchi e quello di Blaise Pichon in questo volume. 23   Si vedano, ad esempio, le pratiche del voto che, con l’età imperiale, si caratterizzano per una progressiva dissociazione tra prerogative reali e funzione simbolica, con una sopravvivenza praticamente esclusiva di quest’ultima. Cfr. Hollard 2010; Dall’Aglio, Franceschelli, Tassinari 2014, in specie alle pp. 358-370, e il contributo di Virginie Hollard in questo volume. 24   Per questioni di ordine metodologico, legate alla rappresentazione e all’interpretazione degli spazi pubblici nella città romana, si vedano in particolare i contributi di Cairoli Fulvio Giuliani, Jesper Carlsen e Laurent Lamoine. 17 18

Introduzione – Introduction

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Carlotta Franceschelli

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La percezione degli spazi urbani nella storiografia moderna: paradigmi interpretativi e realtà storiche

POSITIVISMO E/O IDEALISMO NELLA VALUTAZIONE DELLA SPAZIALITÀ NELL’ARCHITETTURA ROMANA

Cairoli Fulvio Giuliani

Cito dalla locandina del convegno: «Gli archeologi mirano alla ricostruzione degli spazi sulla base dei dati di scavo. Gli aspetti funzionali e spaziali sono però strettamente connessi, per cui il dialogo tra i diversi pareri e le diverse metodologie è ormai indispensabile». So di passare come un esponente attardatissimo di quel positivismo di cui Gustavo Giovannoni, nel 1938, fu esponente già allora attardato, nella polemica con i Venturi, Adolfo e Lionello1; ma il tema riporta alla memoria quanto esponeva Bruno Zevi nei primi anni ’70 del secolo scorso in Architettura in nuce2, soprattutto nel capitolo Problemi della storiografia architettonica. In sostanza si tratta dell’attrito tra architetti da un lato e archeologi e storici dell’arte dall’altro. Della controversia si trovano tracce fin dalla metà dell’Ottocento in Francia3, quando, nel 1840, con la fondazione della Revue générale de l’Architecture et des Travaux Publics da parte di César Daly, si manifestava il disagio della coesistenza delle due figure da parte degli architetti pensionari dell’École des Beaux Arts di Villa Medici i quali si trovavano a lavorare a fianco degli archeologi. Fin dal 1875 F. Lenormant, nella prolusione alla cattedra di Archeologia della Biblioteca Nazionale di Parigi, definisce le caratteristiche del lavoro dell’archeologo rivendicando ad esso nettamente il riconoscimento di “storico”, approfondendo così, il solco tra le due categorie. Egli afferma tuttavia che «per quanto vasta e solida conoscenza si abbia dell’antichità letteraria4, non si potrebbe essere un buon archeologo se non vi si aggiungesse quell’istinto e quell’esperienza pratica dell’arte, senza i quali ogni ricerca sarebbe infruttuosa, ogni spiegazione incerta, ogni successo quasi impossibile». Non sappiamo se in quell’«esperienza pratica dell’arte» si comprendesse anche la consapevolezza dello “stato dell’arte” del costruito, che è implicito in una materia sperimentale in cui lo “stato dell’arte” ha svolto per oltre due millenni un ruolo decisivo5.   C’è chi infatti sostiene che la polemica più che da Adolfo, ormai anziano, sia stata mossa dal figlio Lionello. Pracchi 1996. 2   Zevi 1972. 3   Brice 1985. 4   Si tratta sempre di una letteratura parziale, da cui sono esclusi quasi sistematicamente i testi scientifici di tradizione ellenistica, cfr. Russo 2013. 5   Per “stato dell’arte”, regola dell’arte, o diligenza dell’arte si intende oggi il complesso degli accorgimenti messi a punto dalle maestranze durante l’esercizio della pratica al fine di conferire alla struttura solidità, stabilità e durabilità. Il concetto 1

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Cairoli Fulvio Giuliani

Qualche anno dopo, nel 1878-79, La Sapienza istituì a Roma la cattedra di Topografia di Roma Antica per Rodolfo Lanciani, filosofo, matematico e ingegnere6, che la tenne fino al 1922. È evidente che senza una preparazione tanto complessa non avrebbe potuto lasciare una traccia altrettanto profonda nella conoscenza topografica e urbanistica di Roma antica. Ne è prova la perversa mutazione avvenuta ai nostri giorni7. La storia, come nota lo Zevi, sembra aver dato ragione all’idealismo dei Venturi, per l’affermarsi, fino a poco tempo fa, della ricerca stilistica e della personalità artistica del progettista. Ma nel campo archeologico, soprattutto per l’architettura romana, restarono protagonisti i tecnici: A. Choisy, G.T. Rivoira, G. Giovannoni, G. Cozzo, I. Gismondi, L. Crema, G. De Angelis d’Ossat e altri, tutti del versante “tecnico”. Dal lato umanistico (idealistico?), lo studio delle strutture si limitò alla classificazione delle tecniche edilizie romane, esigenza sentita da molti studiosi (Ashby, Van Deman, Tenney Frank), ma soprattutto da M.E. Blake e G. Lugli, tutti del versante letterario. La loro opera è stata e rimane utile per orientarsi genericamente nell’intrico della cronologia dei resti murari. Però non bastava, perché quello che doveva essere un primo passo basato sull’aspetto esteriore della muratura, che, in genere, non riesce ad andare oltre la pelle dell’edificio, fu anche l’unico e malauguratamente fu considerato soddisfacente perché funzionale alla descrizione. A causa del marcato carattere ingegneristico della progettazione architettonica romana, questa trovava più facile lettura da parte dei tecnici e sotto questo punto di vista non si può negare che avesse ragione Giovannoni rivendicando la necessità della preparazione tecnica nei giudizi di storia dell’architettura. Oggi, però, le cose stanno cambiando, forse perché manchiamo di figure in grado di dar luogo e sostenere una polemica di livello sul come ci si debba occupare delle costruzioni storiche, più che sul chi abbia titolo per farlo. I termini seri della discussione del 1938 e delle teorie del 1972, si vanno dissolvendo in soluzioni fantarcheologiche o archeomantiche sia nella ricostruzione dei singoli edifici sia del loro rapporto con l’intorno, con lo spazio urbano ma anche, semplicemente, con il territorio o i caratteri distributivi, come nel caso di Villa Adriana. Di questa deriva intellettuale sono esemplari la ricostruzione della Casa di Augusto sul Palatino e il suo rapporto con il Lupercale ed il Circo Massimo e l’Atlante di Roma Antica immaginati da A. Carandini8. Ma non sono da sottovalutare neppure le teorie di M. De Franceschini e G. Veneziano9 e di F. Chiappetta10 sulla Villa Adriana. Il problema, dunque, più che risolto sembra essere semplicemente evaporato. Tuttavia gli edifici antichi, per fortuna, sono ancora lì, con tutti i loro problemi. Per questo resta nell’aria la domanda se ad occuparsene debbano essere gli architetti (e gli ingegneri) provvisti del bagaglio tecnico necessario in quanto appartenenti al “quadrivio”, oppure gli storici dell’arte capaci di rintracciare stili e personalità artistiche perché umanisti del “trivio”. Il problema non sarebbe poi molto complesso: trattandosi di rintracciare prima la “storia” di un edificio e poi di individuarne le caratteristiche e la funzione (in sostanza capire di cosa si tratta), se dipende dalla “regola dell’arte” che Antonino Giuffré e la sua scuola riportarono in auge negli anni ’80 del secolo scorso Cfr. Anche E. Benvenuto, S. Di Pasquale e S. D’Agostino e che adesso è autorevolmente portato avanti, tra pochi altri, da Giovanni Cangi e Francesco Giovanetti. 6   Rodolfo Lanciani studiò prima al Collegio dei Gesuiti di Fano e poi al Collegio Romano. Qui, nel 1863, conseguì la laurea in Filosofia, nel 1865, presso La Sapienza, quella in Filosofia e Matematica, poi frequentò la Scuola Speciale degli Ingegneri laureandosi nel 1867 Architetto Civile e nel 1868 Ingegnere Civile. G.B. De Rossi e C.L. Visconti furono i suoi maestri per quello che riguarda l’approccio archeologico. Cfr. Palombi 2006, pp. 41-43. 7  Cfr. Carandini 2012 e la sua estensione territoriale in preparazione. 8   Carandini 2008 e Carandini, Bruno, Fraioli 2010. Cfr. Giuliani 2012. 9   De Franceschini, Veneziano 2011. 10   Chiappetta 2008.

Positivismo e/o idealismo nella valutazione della spazialità nell’architettura romana

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ne occupi chiunque riesca a mettersi in grado di farlo, sia dal punto di vista del metodo sia da quello delle conoscenze tecniche, con un minimo di onestà intellettuale; importante è evitare la descrizione soggettiva e impressionistica e le soluzioni fantastiche. Non è certo la prima volta che sostengo che l’archeologia, se non vuole limitarsi a comporre “guide”, non può contentarsi di descrivere un edificio attribuendo ad esso tutti gli eventi storici che riesce a desumere dalle fonti, quasi si trattasse di un indiscutibile contenitore di avvenimenti importanti. È essenziale sapere prima di cosa si tratti e, a tale scopo, la filologia deve, purtroppo, cedere il passo all’analisi strutturale, alla pratica del cantiere e soprattutto alle inesorabili leggi della fisica che governano gli edifici, ai meccanismi che li rendono costruibili e alla conoscenza della tecnologia dell’epoca di cui si parla, ai cinematismi cui vanno inevitabilmente soggetti. Senza ciò, non si comprendono le fasi e si rischia anche di portare avanti restauri incongrui11. In questo senso ritengo avesse ragione Gustavo Giovannoni. D’altra parte, la dottrina idealistica dell’archeologo si esercita, nel campo dell’architettura, soprattutto nel confronto “stilistico” (quasi sempre finalizzato alla definizione della cronologia e limitato alla bidimensionalità della “tecnica edilizia” e alla decorazione) e la ricerca delle “personalità” si limita a quella del personaggio committente, soprattutto all’imperatore, piuttosto che al tentativo di rintracciare la presenza di personalità architettoniche diverse (anche se purtroppo quasi sempre anonime). Così le categorie dell’architettura “sillana”, il Tabularium di Lutazio Catulo (ma non del suo architetto Lucio Cornelio), il “bugnato claudio” (inteso nel senso dell’imperatore), il “barocco flavio”. Anche per questo, dubito che sia possibile tracciare una storia dell’architettura antica sulla base idealistica dell’individuazione dello stile e delle personalità artistiche. Perché, in archeologia, inseguendo gli “stili” e le “personalità” si finisce a quanto pare nell’assurdo paradosso di attribuire tutto quello che fece Traiano ad Apollodoro di Damasco12! Mentre stranamente si parla di Rabirio solo per la domus Flavia ma non per il Colosseo (nemmeno per l’attico domizianeo) e dei machinatores Severo e Celere solo per la Domus Aurea. A ben guardare, è più agevole tracciare una storia dell’ingegneria romana, seguendo l’analisi strutturale, magari il quadro fessurativo, la storia della cantieristica, la conoscenza della tecnologia antica, campi questi in cui, per tradizione e formazione, l’archeologo “globale” si dimena a fatica13. La difficoltà di ricostruire la consistenza stessa di un edificio antico, che possiamo considerare la parte “positiva”, materiale e caratterizzante dell’architettura, diventa impossibilità ogni volta che si tenta di individuare i caratteri dell’intorno, che è l’elemento caratterizzato, ma anche caratterizzante. Secondo Bruno Zevi sarebbe possibile trovare una soluzione al problema dello spazio distinguendo la storia architettonica da quella urbanistica, considerando la prima storia di poeti e la seconda storia letteraria, ma è giusto dire che l’ipotesi non appare convincente allo stesso Zevi14. Per l’architettura romana, poi, questo è impossibile (soprattutto su basi idealistiche) per l’assenza di elementi utili alla valutazione specificamente architettonica, per l’incertezza stessa della ricostru  Solo per un esempio cfr. Giuliani 2014.  Cfr. Giuliani 1983-1987. 13   Per chiarire questo concetto è prezioso Russo 2013, a patto che se ne accettino le conseguenze metodologiche nei giudizi archeologici e non si aderisca piattamente ai concetti espressi da Russo solo per mostrare di averli letti. Un recente caso deteriore è la presentazione all’Accademia dei Lincei del rinvenimento di parte della presunta coenatio rotunda neroniana sul Palatino (ovviamente dei machinatores Severo e Celere!). In quell’occasione un illustre accademico, per esaltare la correttezza dell’interpretazione – che condivideva – del ritrovamento, avendo appena citato l’alto valore dell’opera di Lucio Russo, accettava il funzionamento di un macchinario ancora tutto da ricostruire nella sua stessa esistenza, oltre che nelle caratteristiche di funzionamento. In questo modo, scavalcando ogni legge della meccanica ellenistica, si accettava un funzionamento che, almeno per quanto illustrato nella esposizione, dava luogo a forti dubbi consigliando estrema cautela. 14   Zevi 1972, pp. 85-87. 11 12

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Cairoli Fulvio Giuliani

zione dei resti, se non nei rarissimi casi in cui si hanno fonti documentarie sicure e l’edificio conservato. E poi perché, come già ho detto, è troppo diffuso l’attribuzionismo al committente e la convinzione, imprudente, del progetto e dell’esecuzione unitari, senza interferenze, accidenti costruttivi, senza una storia interna all’edificio. Ancor peggio, quando si tratta di considerare e ricostruire lo spazio urbanistico in cui la costruzione si inquadrava, ma contribuiva prepotentemente a caratterizzare. Non si tratta di cosa da poco. Da un lato c’è l’importanza dei valori strutturali, tangibili e reali da utilizzare per comprendere l’edificio, dall’altro, sulla scia che potremmo definire “vasariana” della contiguità della pittura con la scultura e l’architettura, si percorre la via dello studio stilistico, ma quasi sempre limitato al particolare decorativo, al valore magari del kyma o del dentello, quasi mai alla personalità dell’architetto. Riesumare oggi, in assenza di figure adeguate, in un mondo culturale entro il quale si pensa di ricostruire l’arena del Colosseo o il tempio G di Selinunte, il problema messo sul tavolo nel 1938 è non solo velleitario, ma totalmente inutile. Normalmente l’oggetto architettonico, anche avulso dal contesto, continua a permettere il suo godimento plastico, massivo, ma la sua originaria esperienza spaziale è perduta per sempre. Si guardi l’altare di Pergamo nel Museo di Berlino, ma anche l’Ara Pacis Augustae che, da elemento ospitato nella sommessa teca di Morpurgo, nella quale era protagonista (tra l’altro, diciamolo una volta per tutte, penso che fosse urbanisticamente armonizzata e non pretendeva di servirsi dell’Ara ma solo di proteggerla), è stata trasformata in oggetto di arredamento a pretesto del protagonismo sciatto ed urbanisticamente invadente e incolto della struttura di Mayer. Ma si pensi anche al Colosseo che, isolato dall’orografia originaria e dal proprio contesto urbanistico, rimane un oggetto, certamente valutabile nella sua sostanza estetica, ma il cui rapporto con lo spazio urbanistico resta stravolto per sempre. Nel mondo romano, la presenza di resti di antiche architetture è decisamente ingombrante e spesso in conflitto con l’urbanistica attuale. Penso che tale conflitto, quando risulta da secoli di giustapposizione, è riuscito a trovare una sua decantazione e a ricucire gli strappi tra antico e contemporaneo in un equilibrio accettabile ed accettato, equilibrio che le soluzioni di forza possono solo danneggiare: basta guardare i primi (ma anche gli ultimi) interventi in via dei Fori Imperiali effettuati, ancora non lo capisco bene, se per ragioni scientifiche o per artritiche visioni politiche. La mancanza dei dati di superficie (colori, decorazioni, giochi di luci ed ombre, quando non anche i caratteri distributivi, inserimenti funzionali nella sintassi urbana spesso del tutto assente, etc.), indispensabili nella valutazione architettonica ma irrimediabilmente perduti, rende vano il tentativo. Diverso è, invece, quanto riguarda la storia dell’ingegneria, facilitata proprio dallo stato di rudere dell’edificio che, evidenziando l’ossatura murale della costruzione, attraverso il quadro fessurativo può non solo raccontare le caratteristiche ingegneristiche del lavoro, ma anche le sue vicende strutturali suggerendo per esempio quanti “padri” ha avuto (o può aver avuto) il singolo edificio. Tuttavia siccome dagli scavi, oltre le statue, la ceramica, i mosaici, capitelli, intonaci dipinti, spesso emergono anche strutture (a parte quelle che in tutto o in parte sono visibili fuori terra), occorre in qualche modo occuparsi anche di esse, cioè di quelle scatole che contengono tutte le US di cui non possiamo più fare a meno e che facciamo traboccare anche sulle strutture, ma solo sulla pelle (le UUSSMM!). E qui sta il problema. Bibliografia Brice 1985 = C. Brice, Il dibattito tra architetti e archeologi attraverso la Revue générale de l’Architecture et des Travaux Publics (1840-1890), in Roma Antiqua, l’area archeologica centrale (Catalogo della mostra “Envois” degli architetti francesi 1788-1924), Roma 1985, pp. XXXI-XXXVI. Carandini 2008 = A. Carandini, La casa di Augusto, dai “lupercalia” al Natale, Bari 2008. Carandini 2012 = A. Carandini, Atlante di Roma antica, Milano 2012.

Positivismo e/o idealismo nella valutazione della spazialità nell’architettura romana

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LIEUX PUBLICS CHEZ LES GAULOIS. BILAN HISTORIOGRAPHIQUE

Laurent Lamoine

« Les Gaulois n’avaient pas plus d’édifices pour loger leurs sénats que de temples pour loger leurs dieux ».

Cette remarque péremptoire est issue du livre de Jacques-Gabriel Bulliot et de Jules Roidot, les découvreurs de Bibracte dans la seconde moitié du XIXe siècle, intitulé La cité gauloise, selon l’histoire et les traditions1. L’ouvrage est publié en 1878 à Autun2, mais de l’aveu même de ses auteurs dans une note finale il aurait été écrit dix ans auparavant, avant la chute du Second Empire. Dans le chapitre IX, consacré au « gouvernement » de la cité gauloise3, Bulliot et Roidot abordent la question des lieux publics mais pour rejeter de façon catégorique leur matérialité. En fait, ils s’inscrivent en faux contre les hommes de l’Âge classique et des Lumières, et de leurs héritiers de la première moitié du XIXe siècle, qui, attestant a priori de l’existence matérielle de ces lieux, auraient voulu surtout civiliser ce gouvernement et son siège. Pour nos deux auteurs, la réflexion érudite et archéologique moderne devait conduire au contraire à ensauvager la question. Scandée par une critique acharnée de ceux qu’ils appellent les partisans d’une « érudition de collège »4 qui transformaient les cités gauloises en petites Athènes5 et les « sénats » gaulois en parlements ou présidiaux d’Ancien Régime6, trompés par le lexique des auteurs gréco-romains (en particulier celui de César), leur démonstration se fonde sur la croyance dans un état politique au contraire rudimentaire, embryonnaire, à peine transformé par quelques « germes »7 grecs, celui de la « tribu » dont les auteurs pensent retrouver des avatars dans   Bulliot, Roidot 1878, p. 215.   1879 à Paris. 3   Bulliot, Roidot 1878, pp. 193-229. 4   Bulliot, Roidot 1878, p. 197. 5   Bulliot, Roidot 1878, pp. 195-197. Les auteurs citent et critiquent en particulier l’abbé Pierre-Bénigne Germain (1689-1751) qui est l’auteur de Lettres sur les Antiquités d’Autun (1719) qui ont été republiées dans les Annales de la Société éduenne en 1860-1862. L’abbé Germain comparait volontiers les Éduens d’Autun aux Athéniens. 6   Bulliot, Roidot 1878, p. 215. 7   Bulliot, Roidot 1878, p. 200. 1 2

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l’Afrique coloniale et dans l’Amérique des Peaux-Rouges8. Les hommes de la tribu se rassemblent dans ce que César appelle le « sénat » et le « conseil armé », et « l’étreinte de l’ennemi » au Ier siècle av. J.-C. aurait provoqué un essor de ces réunions que les auteurs voient de plus en plus larges et livrées à la passion9. Tributaires en outre de leur grille de lecture médiévale10, ils assimilent ces assemblées au mallum publicum ou aux plaids du Haut-Moyen Âge11. Quelques lignes après la remarque mise en exergue, les auteurs se livrent malgré tout à une description saisissante du lieu de réunion gaulois par excellence et des activités qui s’y déroulaient : C’est dans un lieu sauvage, entouré des terrassements de l’oppidum, sur des plateaux fortifiés par leur escarpement, dans des clairières de leurs vastes forêts, que se réunissent les chefs de la cité, ou ceux de la Gaule. Tantôt ils s’y montraient avec le luxe et l’appareil de chevaux et de cavaliers qu’ils aimaient à déployer dans les occasions solennelles, tantôt, s’il s’agissait de quelque conciliabule secret, de ces complots qui furent si fréquents pendant les guerres de conquête, ils dissimulaient leurs projets par des marches nocturnes, des haltes dans les bois, entourés d’un petit nombre de serviteurs dévoués. Arrivés au lieu du rendez-vous, lorsque l’assemblée était complète, que les chefs avaient pris place dans l’enceinte circulaire des menhirs, des druides aux vêtements blancs observaient le vol des oiseaux, et immolaient les victimes12. Puis la délibération commençait. Le plus ancien des chefs prenait la parole le premier13. Debout sur un rocher qui dominait l’assemblée, et d’où il pouvait être vu et entendu au loin, l’orateur prenait ses attitudes en s’appuyant sur son bouclier aux couleurs éclatantes. Sa voix menaçante et fière, comme il convient à un chef, se prêtait cependant aux artifices d’une éloquence tantôt subtile, insinuante et sobre comme celle d’un sauvage, tantôt enflée, impétueuse, violente, et capable, dit Diodore14, de s’emporter aux mouvements les plus tragiques. L’insulte, l’ironie étaient leurs armes familières, ils en accablaient leurs ennemis, tout en s’exaltant eux-mêmes, naturellement habiles aux ruses et aux souplesses oratoires. César et Tacite nous ont conservé dans des discours de Vercingétorix, de Critognat, de Galgac de Karadoc15 des monuments qui ne sont pas indignes de la postérité. Si un membre de l’assemblée troublait ou interrompait l’orateur, dit Strabon16, un héraut armé l’avertissait deux fois, à la troisième il lui coupait un pan de son vêtement. Mais cette police ne comprimait pas toujours les ressentiments et les passions. Les colères de la multitude s’y échauffaient jusqu’à la fureur, et l’on vit les Sénons, dans un conseil public, se jeter sur Cavarill17, placé par César à la tête de la cité. Ils l’eussent mis en pièces s’il ne fût parvenu à se soustraire à leur rage. Poursuivi jusqu’à la frontière, il ne dut son salut qu’à la rapidité de sa fuite. La musique seule avait le pouvoir de calmer ces emportements, selon le témoignage de Scymnus de Chio18 qui écrivait un siècle avant notre ère. Cet auteur fait évidemment allusion à l’intervention des bardes, qui dans les assemblées comme au milieu des combats faisaient tomber l’exaltation des partis en jouant de la harpe. Telle était au vrai la physionomie de ces assemblées où l’on a cru retrouver l’image des sénats antiques ou même des corps délibérants de nos législations modernes. Il n’y a là que des chefs qui traitent   Bulliot, Roidot 1878, p. 199.   Bulliot, Roidot 1878, pp. 210-214. 10   Bulliot est un négociant en vins qui abandonne son activité en 1868 pour se consacrer aux fouilles du Mont-Beuvrais soutenues par Napoléon III. Roidot est un magistrat qui mène une carrière de 1849 à 1883. Les deux hommes se sont liés d’amitié fondée sur la passion commune de la conservation du patrimoine ancien, et d’abord médiéval, d’Autun et du Morvan. 11   Bulliot, Roidot 1878, p. 210. 12   Les auteurs revoient à Tacite, Agr. 27 qui mentionne des sacrifices scellant les alliances des Bretons. 13   Les auteurs revoient à Tacite, Germ. XI qui décrit le fonctionnement des assemblées chez les Germains où la parole du roi ou du chef est privilégiée. 14   Pas de référence. Il s’agit de Diodore de Sicile, Bibl. hist. V, 28, 5. 15   Pour Vercingétorix : Caes., B.G. VII, 14 (politique de la terre brûlée), 20 (au moment du siège d’Avaricum), 29 (après la chute d’Avaricum), pour Critognatus : B.G. VII, 77 (dans Alésia), pour le Calédonien Calgacus : Tac., Agr. 30-32. 16   Strab. IV, 4, 3. 17   Cavarillus est un Éduen (Caes., B.G. VII, 67, 7), il s’agit plutôt de Cavarinus (B.G. V, 54 et VI, 5). 18   En fait il s’agit du Pseudo-Scymnos, d’une description géographique de l’Europe et de l’Asie, Duval 1971, p. 228, n° 52. 8 9

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de leurs intérêts communs, mais rien qui ressemble à un gouvernement. Ces réunions en plein air, leur courte durée, les intervalles qui les séparaient, leur composition et leur forme, suffisent pour démontrer qu’elles ne touchaient à rien de vital dans la constitution et les coutumes ; qu’elles ne s’occupaient pas de ces améliorations intérieures qui sont le besoin permanent des peuples civilisés19.

Nous sommes loin du forum ! Encore que l’intervention des prêtres prenant les auspices et la prise de parole initiale par le « plus ancien des chefs », reflet exact du prince du Sénat romain, ramènent implicitement le lecteur dans ses humanités et à Rome. Bulliot et Roidot sont tombés à leur tour dans le piège de la comparaison classique dont ils critiquaient l’usage chez leurs devanciers20. Cette description est devenue une image d’Épinal très populaire, un concentré de tout ce qui fait des Gaulois des sauvages à domestiquer. Le lieu de réunion est nécessairement à l’écart, loin des villes (mais pour nos auteurs la ville gauloise n’existe pas), dans les clairières voire au fin fond des forêts. Il est très souvent inhospitalier. La description n’est pas exempte de contradictions. Alors que le choix du lieu est le plus souvent aléatoire, commandé par la proximité d’un champ de bataille, Bulliot et Roidot n’hésitent pas à évoquer « l’enceinte circulaire des menhirs » qui semble accueillir régulièrement les activités des druides. En outre, les réunions sont tantôt des plaids généraux21 drainant une « multitude » bruyante et haute en couleurs, tantôt des « conciliabules secrets » de comploteurs. Le paysage tourmenté accueille une éloquence brutale d’hommes qui n’hésitent pas à se battre. Comme bien souvent, le « héraut » du texte de Strabon est interprété comme un signe supplémentaire de la barbarie des Gaulois. J’ai écrit ailleurs ce qu’il fallait penser de cette lecture à charge de cette notation de Strabon22. Seuls les bardes, avec leur musique, réussissent à rétablir l’harmonie, comme autant d’avatars du poète mythique Orphée qui savait charmer les bêtes sauvages. Les druides, pourtant maltraités par Bulliot et Roidot dans les deux derniers chapitres du livre qui leur sont consacrés et présentés comme des suppôts de divinités malfaisantes et assoiffées de sang23, sont convoqués mais comme autant de succédanés des prêtres romains qui ouvraient les réunions politiques par les rites de la prise des auspices et du sacrifice. Mais pour le lecteur contemporain de Bulliot et de Roidot parvenu au bout de La cité gauloise, la mention de l’immolation de victimes pouvaient faire écho à la longue description du sacrifice humain24. L’éloquence, quand elle n’est pas brutale, est une reconstruction des auteurs gréco-romains euxmêmes, réélaboration que Bulliot et Roidot passent sous silence. Les morceaux de bravoure rhétorique d’un Vercingétorix, d’un Critognatus ou d’un Calgacus, soulignés par les deux auteurs, sont surtout à mettre au crédit de César et de Tacite. Cette conception des lieux publics gaulois est donc tributaire d’une succession de clichés dont l’écheveau est difficile à démêler. À la strate du discours barbarologique des sources gréco-romaines elles-mêmes et de leurs commentaires érudits depuis la Renaissance, Bulliot et Roidot ont ajouté celles étroitement liées à leur contexte d’écriture des années 1860-1870. Nos auteurs fortement marqués par leur parti pris médiéval n’hésitent pas à affirmer que la société gauloise qu’ils étudient ressemble à s’y méprendre à la féodalité, la modération chrétienne en moins25. En outre, Bulliot   Bulliot, Roidot 1878, pp. 215-216.   Bulliot, Roidot 1878, p. 215 : « les savants du dix-septième siècle » comparaient les « chefs de clan » aux « pères conscrits ». 21   Bulliot, Roidot 1878, p. 221. 22   Lamoine 2017. 23   Bulliot, Roidot 1878, chapitres X et XI. Ces deux chapitres ont été écrits contre les théories de Jean Reynaud (Considérations sur l’esprit de la Gaule, Paris, 1847) qui faisaient des druides des philosophes inspirés et du druidisme un idéal religieux à redécouvrir. 24   Bulliot, Roidot 1878, pp. 206-208. 25   Bulliot, Roidot 1878, pp. 228-229. Ils terminent le chapitre IX par une longue citation du comte Beugnot qui évoque le temps des premiers Capétiens. 19 20

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et Roidot, qui appartiennent à la bourgeoisie provinciale conservatrice, restée fidèle in pectore au Second Empire, projette sur la vie publique des Gaulois leur crainte d’un peuple-enfant, jouet des « factieux » toujours prêts à échafauder des conspirations. On trouve dans la bibliographie de l’Histoire de la Gaule du grand Camille Jullian, républicain et patriote, la référence au livre de Bulliot et de Roidot, pourtant marqué par l’obsolescence reconnue par Bulliot lui-même à la mort de son ami en 189326. Dans son chapitre II de La Gaule indépendante consacré aux institutions politiques27, sans suivre les inventeurs de Bibracte dans leur tableau sombre de la Gaule à l’époque de la conquête césarienne, C. Jullian a bien du mal à écrire sur l’espace public gaulois. S’il n’ignore pas l’importance de l’espace quand il reconstitue la naissance des chefs-lieux issus de la fusion du « foirail et [de] l’autel », des « rendez-vous d’affaires » et des « rendez-vous de prières »28, il laisse flotter dans les airs les sénateurs gaulois et le peuple, en particulier le peuple en armes qui anime une «  démocratie tumultuaire  »29 sans ancrage spatial explicite. Quant aux vergobrets éduens et aux druides, ils sont élus pour les premiers et se réunissent chez les Carnutes pour les seconds dans des « lieux consacrés »30. Chez les devanciers et maîtres de Jullian comme chez ses continuateurs on ne trouve pas plus d’ancrage spatial du fait politique. On ne trouve rien chez Numa-Denis Fustel de Coulanges31 ni chez Ernest Desjardins. On aurait pu espérer disposer chez ce dernier qui prétend fournir une Géographie historique et administrative de la Gaule romaine un éclairage sur les lieux de réunion des Gaulois. Il n’en est rien ; il distingue jusqu’à cinq catégories de concilia32 sans évoquer les lieux qui pouvaient les accueillir. C’est encore le « mystère des forêts » qui abrite « pour délibérer en secret »33 le concilium des chefs gaulois de 52 av. J.-C. après l’exécution du Sénon Acco34. L’historiographie des XIXe et XXe siècles insiste sur la rupture que représente l’intégration dans l’empire romain : « Presque chaque année, les Gaulois voyaient disparaître quelque chose de leur passé »35 et les villes sont dotées d’un forum à la romaine36. Cette conception est popularisée par l’enseignement scolaire de la IIIe République qui oppose de façon manichéenne le forum ordonné de la ville gauloise au temps des Romains au village misérable d’avant César comme sur cette planche d’un manuel Lavisse de 1909 (Fig. 1). Ces deux images, associées à celles de l’intérieur lumineux d’une riche demeure gallo-romaine opposée au déroulement sylvestre et nocturne du sacrifice humain et de la marche désordonnée des guerriers gaulois rapportée au « bon ordre » des légionnaires, conduisent à faire comprendre aux élèves la marche du progrès. Les hommes de la Belle Époque n’étaient pas à une contradiction près quand il s’agissait de construire le « roman national ». On en trouve un avatar dans la farce de Jules Romain, Les copains, publiée en 1913, quand la bande de copains délurés assiste et perturbe l’inauguration d’une statue équestre de Vercingétorix à Issoire37. Le député de la circonscription, un   Bulliot 1893, en particulier pp. 187-188.   Jullian 1908. 28   Jullian 1908 (réédition de 1993, I, pp. 234-235). 29   Jullian 1908 (réédition de 1993, I, p. 289). 30   Jullian 1908 (réédition de 1993, I, pp. 230 et 249). C. Jullian se fonde sur Caes., B.G. VII, 33, 3 (Cotus a été désigné vergobret alio loco) et VI, 13, 10 (loco consecrato). 31   Fustel de Coulanges 1891 qui comporte une mise au point sur les institutions gauloises avant la victoire césarienne. 32   Desjardins 1878, pp. 540-544 distingue « l’assemblée militaire locale » (le concilium armatum), le « concilium ordinaire de chaque cité », le « concilium des officiers » ou « conseil de guerre », le « concilium général de toute la Gaule, ou le concilium d’une région entière » et les « assemblées électorales » des Éduens. 33   Desjardins 1878, pp. 541-542. 34  Caes., B.G. VII, 1, 4 : Indictis inter se principes Galliae conciliis siluestribus ac remotis locis queruntur de Acconis morte. 35   Jullian 1914 (réédition de 1993, I, p. 670). 36   Jullian 1920 (réédition de 1993, II, p. 27). 37   On peut se demander si cette inauguration d’Issoire n’est pas une parodie de celle de Clermont-Ferrand de 1903. 26 27

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Fig. 1. Page d’un ouvrage scolaire d’Ernest Lavisse : La première année d’histoire de France, cours moyen (de 9 à 11 ans), Armand Colin éditeur, 1909 (© Kharbine Tababor).

certain Cramouillat, salue, au moment du dévoilement de la statue, « Vercingétorix, [dont la] noble stature va dominer notre forum »38. Dans son discours, M. Cramouillat n’hésite pas à associer ainsi le héros de la résistance gauloise et le forum romain dans un même éloge des « bases de la démocratie » française. Le personnage aurait bien été en mal de rendre au chef arverne son véritable espace de parole, ignoré par les sources et la recherche de son temps. Le personnage de Lesueur qui s’est substitué au Vercingétorix de bronze, qui interrompt Cramouillat et « mitraill[e] les notabilités »39 de pommes cuites, n’est pas sans rappeler le poncif du Gaulois indiscipliné, espiègle et querelleur40. Jacques Harmand, dans son « portrait de la Gaule dans le De Bello Gallico » en 1973, et Serge Lewuillon, dans celui de la « féodalité » gauloise « à la fin de la République et au début de l’Empire », en 1975, qui ont livré des synthèses qui quarante ans après peuvent encore servir de socle à la recherche actuelle, n’abordent pas la question des lieux publics. Les historiens s’intéressent aux hommes, titulaires de responsabilités et convoqués dans les assemblées, et à l’étendue des différentes expressions de la puissance publique, mais ne traitent pas des lieux41. Cent ans après Jullian, en 2008, Enrique García Riaza et moi-même ne faisons pas mieux que nos devanciers, pas plus qu’eux nous n’examinons la question des lieux de réunion quand nous traitons des réunions politiques des Gaulois42. Cependant, nous ne sommes plus sous l’influence du tropisme sylvestre, ce qui n’est pas un mince résultat quand on sait la force de cette image nourrie en particulier par le récit césarien43.     40   41   42   43   38 39

Romain 1922, p. 138. Romain 1922, p. 139. Lamoine 2017, pp. 193-206. Harmand 1973 et Lewuillon 1975. GarcÍa Riaza, Lamoine 2008. Clavel-Lévêque 1989 (le texte est de 1967).

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Raymond Chevallier a bien montré que César avait exploité avec excès la référence à la forêt44. Tandis que les études récentes sur la mise en valeur du territoire gaulois ont démontré que la Gaule à l’âge du Fer n’était en rien « chevelue »45. Les forêts, en grande partie défrichées, ne représentaient donc pas les lieux les plus indiqués pour tenir les réunions politiques. En 2009, Yann Le Bohec publie un opuscule de « lecture socio-juridique du Bellum Gallicum »46 dans lequel il n’aborde pas non plus directement la question des lieux publics. Cependant, quand il présente la question de l’urbanisme en Gaule et de l’existence d’une hiérarchie urbaine, il évoque les grands oppida qui pouvaient recéler des espaces publics. Il cite en particulier Avaricum que les Bituriges ont sauvé de la politique de terre brûlée de Vercingétorix47. Alors que les combats font rage pour s’emparer ou défendre la place, César précise que des unités de défenseurs gaulois « se reformèrent sur le forum et sur les places »48. Que signifie exactement in foro ac locis patentioribus cuneatim ? La traduction de Léopold-Albert Constans, qui est un monument de prudence, n’est pas satisfaisante. Que sont en particulier ces lieux ouverts distincts du forum où les guerriers gaulois se ressaisirent en formant des unités de combat en forme de coin (de triangle)49? Les études archéologiques ont bien entendu depuis longtemps infirmé la déclaration de Bulliot et de Roidot concernant l’absence de temple, affirmation mise en exergue au début de ce texte. Les divinités gauloises ne sont pas des « sans domicile fixe ». Les fouilles de Gournay-sur-Aronde (Oise) et de Ribemont-sur-Ancre (Somme) ont révélé deux grands sanctuaires, construits dès le IIIe siècle av. J.-C. et agrandis (réaménagés) aux IIe et Ier siècles av. J.-C., célèbres pour leurs trophées associant des armes et des os humains50. En se fondant sur la démesure des dépôts de Ribemont-sur-Ancre (plus de 20 000 os humains) et sur la superficie du sanctuaire (plus d’un hectare), Jean-Louis Brunaux suggère que le lieu pouvait servir à de grands rassemblements de guerriers belges51. L’essor de ce que les archéologues et les historiens ont appelé le fanum, le « temple romano-celtique », à l’époque impériale, peut être interprété ainsi comme la conséquence d’une tradition ancienne du sanctuaire en Gaule52. Un certain nombre de sanctuaires laténiens continuent d’ailleurs de fonctionner et d’être aménagés à l’époque romaine comme celui de Ribemont-sur-Ancre53. L’intérêt pour les sanctuaires gaulois qui ne s’est pas démenti depuis des décennies54 et la comparaison qui est toujours menée avec les sanctuaires gréco-romains et le forum ont conduit à des réflexions établissant un lien étroit entre sanctuaire et espace public type forum dans le monde gaulois55. Certains chercheurs n’ont pas hésité à proposer l’existence d’activités politiques, comme l’expression d’un vote d’allégeance, dans les espaces clos des sanctuaires situés en particulier dans les oppida. Ces activités dépassent alors le simple rassemblement de commensalité56. Les exemples du Titelberg (Luxembourg), du « Camp d’Antoine » au Mont Beuvray (Saône-et-Loire) ou de Corent sont bien connus57. Celui de   Chevallier 1985. César prétend apporter des données géographiques et techniques (dans la construction), il développe surtout la thématique de la « forêt refuge », de la « forêt embuscade » et de la « forêt sanctuaire » pour reprendre les expressions de R. Chevallier. 45   Trément 2010. 46   Le Bohec 2009. 47   Le BoheC 2009, p. 20. 48  Caes, B.G. VII, 28, 1. 49   Patentior : ouvert, découvert ; cuneatim : en forme de coin, de triangle. 50   Brunaux 1996, pp. 59-90. 51   Brunaux 1996, p. 90. 52   Fauduet 2010. 53   Fauduet 2010, p. 145 : « Dans une cinquantaine de sites au moins en Gaule, la construction d’un temple succède à un ensemble cultuel » et p. 162. 54   Vauchez 2000. 55   Provost 2006. 56   Poux 2011, pp. 162-163. 57   Metzler, Gaeng, Méniel 2006. 44

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Villeneuve-Saint-Germain (Aisne) a nourri bien des polémiques58. Les auteurs ont voulu souvent reconnaître dans les structures repérées des saepta gaulois. Remarquons que l’épigraphie latine a fourni à Lhuis (Ain), à Coblence et à Périgueux des mots composés avec saeptum, circumsaeptum pour les deux premiers et consaeptum pour le troisième59. Si consaeptum semble bien concerner « un mur de clôture tout autour du temple »60 à Périgueux, les attestations de circumsaeptum semblent plus énigmatiques. Le résultat le plus intéressant de ces recherches me semble être l’idée qu’il existait des espaces publics gaulois abritant une expression politique collective qui ne se contentaient pas comme décor des paysages minéraux et végétaux de la nature. Bien entendu, l’accumulation de données, interprétées à l’aune du sanctuaire, carrefour religieux, politique et économique (présence d’artisans), conduit paradoxalement à retrouver « le foirail et l’autel » de C. Jullian. À l’observation circonscrite à la Province et à la Gaule Chevelue, il faut élargir le focus à l’ensemble du monde celte. Dans le champ des sources écrites, les comparaisons menées par Enrique García Riaza et son équipe (dans le cadre des programmes Occidens)61 avec la péninsule Ibérique ont apporté d’autres indices. Le choix de bouleutérion par Appien pour qualifier le lieu de réunion des bouteutes de la cité celtibère de Belgeda, détruit par un incendie en 93 av. J.-C. au cours de troubles internes62, n’est sans doute pas qu’une interpretatio de l’époque impériale, mais peut être aussi un indice de la variété de lieux publics indigènes. Comme les études archéologiques séquencent l’histoire des sites, l’interrogation des sources écrites se doit d’essayer de retrouver entre le IIIe et le Ier siècles av. J.-C. les ondoiements des institutions gauloises et des lieux qui les accueillaient. Bulliot et Roidot se trompaient ! Comme les Gaulois avaient « de[s] temples pour loger leurs dieux », ils avaient sans aucun doute « d[es] édifices [ou des lieux] pour loger leurs sénats ». Bibliographie Brunaux 1996 = J.-L. Brunaux, Les religions gauloises. Rituels celtiques de la Gaule indépendante, Paris 1996. Bulliot 1893 = J.-G. Bulliot, J.-M.-C. Roidot, ancien président du tribunal civil d’Autun, secrétaire perpétuel de la Société éduenne, in «Mémoires de la Société éduenne» 21, 1893, pp. 159-193. Bulliot, Roidot 1878 = J.-G. Bulliot, J. Roidot, La cité gauloise, selon l’histoire et les traditions, Autun 1878. Chevallier 1985 = R. Chevallier, Le bois et la forêt dans la Guerre des Gaules, in Le bois et la forêt en Gaule et dans les provinces voisines, « Caesarodunum » 21, Paris 1985, pp. 112-120. Clavel-Lévêque 1989 = M. Clavel-Lévêque, La forêt gauloise vue des textes, in Puzzle gaulois. Les Gaules en mémoire, images – textes – histoire, Paris 1989, pp. 151-171. Desjardins 1878 = E. Desjardins, Géographie historique et administrative de la Gaule romaine, II. La conquête, Paris 1878. Duval 1971 = P.-M. Duval, La Gaule jusqu’au milieu du Ve siècle, Paris 1971. Fauduet 2010 = I. Fauduet, Les temples de tradition celtique en Gaule romaine, Paris 2010. Fustel De Coulanges 1891 = N.-D. Fustel de Coulanges, Histoire des Institutions politiques de l’ancienne France, I. La Gaule romaine, Paris 1891. GarcÍa Riaza 2006 = E. García Riaza, Un aspecto de la práctica institucional en las comunidades indígenas hispanas: el control del espacio público, in «Cahiers du Centre Gustave Glotz» XVII, 2006, pp. 175-185. GarcÍa Riaza, Lamoine 2008 = E. García Riaza, L. Lamoine, Les réunions politiques des Gaulois (Ier siècle av. J.-C.-Ier siècle ap. J.-C.), in C. Berrendonner, M. Cébeillac-Gervasoni, L. Lamoine (dir.), Le Quotidien municipal dans l’Occident romain, Clermont-Ferrand 2008, pp. 129-146. Harmand 1973 = J. Harmand, Une composante scientifique du Corpus Caesarianum : le portrait de la Gaule dans le De Bello Gallico I-VIII, in ANRW I.3, Berlin-New York 1973, pp. 523-595. Jullian 1908 = C. Jullian, Histoire de la Gaule, II La Gaule indépendante, Paris 1908.   Peyre 2000.   ILGT, 306 ; CIL, XIII, 7623 et ILA Pétrucores, 19. 60   ILA Pétrucores, 19, p. 99. 61  http://www.occidens.es. 62   GarcÍa Riaza 2006, en particulier p. 177 (App., Hisp. 100). 58 59

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La città e le sue trasformazioni: aspetti teorici e metodologici

A PROPOSITO DI SVENTRAMENTI URBANI

Luisa Migliorati

Nell’ambito dello studio sulla città antica – lavoro che implica anche la considerazione delle modifiche del tessuto urbano intervenute nel tempo – il termine “sventramenti” ricorre abbastanza di frequente, con accezione a volte dilatata ad operazioni urbanistiche che in realtà fanno capo a diversi concetti. Per focalizzare la questione in termini più precisi, diventa necessario partire dal significato della parola. Riporto il contenuto della voce di due dizionari di tema specifico: 1. «Termine invalso nell’uso soprattutto durante il ventennio fascista per designare operazioni urbanistiche compiute, nello stesso periodo, in alcune tra le principali città italiane e, in particolare a Roma. Tali operazioni consistevano nel praticare tagli indiscriminati nel tessuto urbano dei quartieri centrali di una città (da cui il termine) allo scopo di creare nuove e più capaci arterie di traffico o nuovi assi prospettici, per isolare determinati monumenti e, più in generale, per soddisfare una malintesa esigenza di grandiosità connessa con la politica di potenza perseguita dal regime»1. 2. «Criterio di intervento urbanistico (ristrutturazione urbanistica) consistente in drastiche demolizioni e ricostruzioni del tessuto edilizio tradizionale. Nelle varie epoche storiche assume significati culturali diversi: da quello positivo del risanamento di parti della città nell’Ottocento, a quello più recente, negativo, che in Italia ha generato la cultura del diradamento, più attenta alle preesistenze»2.

Il termine “sventramento” è in effetti pesante se ne cogliamo il riferimento alla fisicità corporea, ma la derivazione del senso urbanistico dal significato del lemma di «aprire il corpo di animale macellato per levarne le interiora»3 è perfettamente congruente. Un secondo significato, per estensione, ma non figurativo, è «ferire al ventre, uccidere ferendo al ventre». Mi chiedo se siano ambedue i concetti a passare nel lessico urbanistico, poiché, a voler essere pignoli, è percepibile una differenza tra i due significati. Mi spiego: nella seconda espressione si coglie un riferimento più generale – non direzionato ad uno specifico ambito spaziale delle componenti urbanistiche – più coinvolgente il centro vitale della città   Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica, Roma 1969, s.v. sventramento.   http://www.atelier-artu.it/glossario-urbanistica/2s/. L’ARTU è l’Atelier di Ricerca Territoriale e Urbana del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze (DIDA). 3   N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna 1996 (12a ed.). 1 2

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Fig. 1. Veduta di Roma di Giovanni Maggi, 1625: l’area vaticana dopo la realizzazione di Borgo Nuovo (1) parallelo a Borgo Vecchio (2) e prima della creazione delle piazze del Bernini e Rusticucci. La spina di Borgo (3) verrà cancellata per creare via della Conciliazione (da Frutaz 1962, tav. 318, part.; modif.).

dal punto di vista culturale e sociale, ma anche adattabile al significato tratto dal secondo dizionario urbanistico che può prevedere la ricostruzione, in altre forme, dell’edificato demolito e dunque ferito del centro storico. La prima accezione, invece, quella più cruda, mi sembra, come dicevo, più centrata sul tema dell’intervento, perché suggerisce un’operazione urbanistica che, variamente motivata, lascia nel tessuto urbano pluristratificato un vuoto non pianificato all’origine: strada, piazza, giardini, etc. Seguendo questo secondo concetto, devo dire che, dei numerosi sventramenti avvenuti in età moderna, sono passati alla storia soprattutto quelli effettuati a Roma e soprattutto quelli del ventennio fascista. Non è quasi il caso di ricordare che non sono mancati tuttavia analoghi interventi precedenti nell’ambito della storia moderna: basti pensare all’attività edilizia dei papi del XV-XVII secolo. Cito gli esempi meno noti di Alessandro VI, che aprì via Alessandrina o Borgo Nuovo nel tessuto edilizio stratificatosi tra San Pietro e Castel Sant’Angelo, e di Giulio II, autore del più famoso intervento di via Giulia, che “sventrò” per lungo tratto un settore paratiberino, tracciando via della Lungaretta per collegare Santa Maria in Trastevere e ponte Santa Maria (attuale Ponte Rotto)4. Un altro Pontefice,   Londei 2009, p. 16.

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Fig. 2. P.R del 1883: (1) la stazione Termini; (2) via Nazionale; (3) area dei Fori Imperiali; (4) pendici nord del Campidoglio su cui verrà costruito il monumento a Vittorio Emanuele II; (5) via del Corso; (6) corso Vittorio Emanuele II (da Cimino 1997, modif.).

Alessandro VII, creò il vuoto di piazza Rusticucci, oggi rivisitata in piazza Pio XII, quasi vestibolo della piazza del Bernini appena edificata; l’intervento appare un’anticipazione della demolizione della Spina dei Borghi (Fig. 1), che fu oggetto, da allora, di numerosi progetti5 prima di terminare con l’apertura di via della Conciliazione (1936-1950). Inoltre quasi sempre dimentichiamo che l’inizio delle più recenti operazioni chirurgiche – mi si passi il termine ancora una volta fisico – sul tessuto urbano romano è segnato dal primo piano regolatore di Roma Capitale6; presentato una prima volta nel 1873, fu a lungo discusso restando dunque in un limbo7 e se ne deve il recupero alla legge 209 del 20 maggio 1881 legata all’intervento finanziario dello Stato nei lavori pubblici decisi per lo sviluppo (miglioramento edilizio e viario, espansione) di Roma. La legge presupponeva un nuovo Piano Regolatore che, approvato il 23 settembre del 1882 dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, fu reso attuativo nel marzo del 1883, secondo linee analoghe alle precedenti e sempre su redazione di Alessandro Viviani; il PR (Fig. 2) doveva adeguare   Sulle varie proposte di sistemazione urbanistica della zona, v. Giovannoni 1958, pp. 442-446 e 524-532. Per un commento comparato tra dati dell’edilizia storica e cartografia urbana sotto i pontificati di Sisto V e Urbano VIII, v. Borsi 1986, pp. 114-121 e 1990, pp. 118-121. 6   Per una chiara e sintetica presentazione della questione, anche se con una focalizzazione sull’arteria di corso Vittorio Emanuele II, v. Cimino 1997. 7   Benché nel frattempo qualcosa venisse deciso: ad es. nel 1876 era stato fissato di condurre lo sbocco di via Nazionale a piazza Venezia. 5

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Fig. 3. P.R. del 1883: particolare del Campo Marzio. In tratto marcato il progetto di apertura o ampliamento della viabilità nel tessuto storico. Sono visibili in filigrana le modifiche previste, tra cui l’isolamento di: (1) palazzo della Cancelleria; (2) Palazzetto Le Roy ed edifici adiacenti; (3) Palazzo Massimo alle Colonne (da Racheli 1984a, modif.).

la Città Eterna alle grandi metropoli europee aprendo larghe strade di collegamento interquartieri, risanando aree ad edilizia abitativa soffocante, delineando piazze di ampio respiro. È vero che ancora pochi anni prima della presa di Roma, la città appare raccolta quasi tutta all’interno dell’ansa del Tevere, lontana dai limiti della cinta muraria di Aureliano, che, tra l’altro, all’epoca non aveva circondato nemmeno l’intera superficie edificata8. Entro l’ancora valido circuito murario, solo nel settore di nord-est, tra il 1860 e il 1867, si era andato disegnando un nucleo di nuova urbanizzazione: la costruzione della Stazione Termini decisa da Pio IX nell’area espropriata alla famiglia dei Massimo presso le Terme di Diocleziano divenne trainante degli interventi di speculazione edilizia portati avanti da mons. De Mérode lungo l’asse che sarà poi via Nazionale, prima sezione del collegamento tra il terminale ferroviario e la regione Vaticana9. Certamente anche osservando la planimetria utilizzata per il Piano regolatore del 1883, si può constatare che si trattava di un quartiere in cui la regolarità, se non l’ortogonalità, contrastante con l’aspetto dell’allora centro storico, denunciavano un sistema urbano meglio organizzato. Forse, è guardando alla storia urbana che, nel 1892, F. Gregorovius, proprio in riferimento alla decisione di portare la capitale a Roma e contrario all’idea, scrisse: «L’aria di Roma non è adatta per un regno da poco risorto, che ha bisogno di materia facile da trattare, che possa essere rapidamente   Per la distinzione dei termini tra città racchiusa entro il circuito murario e l’edificato esterno, v. D. 50.16.2 Paul.; commento in Frézouls 1987, pp. 382-384. 9   Per la storia della realizzazione di via Nazionale e della sfera di interessi che l’hanno accompagnata, v. Pasquarelli 1984. 8

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plasmato… Non mi riesce, infatti concepibile quest’evento smisurato, Roma ridotta a capitale di un regno italiano…»10. A parte l’ironia dell’ultima frase, sappiamo bene che, se si fossero messi in atto tutti i piani per far diventare Roma una capitale europea, la città avrebbe ben più delle ferite, che, ormai storicizzate, non ci appaiono più tali; e non poco del salvataggio della Roma medievale e rinascimentale si deve all’intervento del barone Haussmann11, proprio l’uomo la cui operazione urbanistica a Parigi il nuovo Stato italiano intendeva imitare. L’allontanamento dal progetto iniziale non toccò ovviamente tutti i settori interessati dal nuovo Piano regolatore (Fig. 3); per citare uno dei casi, il prolungamento di via Nazionale per collegare Termini ai Prati di Castello, come si denominavano i terreni transtiberini presso Castel Sant’Angelo, attraverso il tessuto di edilizia per lo più minuta del Campo Marzio, si trovò ad avere un ampliamento della sede stradale da 16 a 20 m12. Per abbellire la città, l’indicazione della Commissione di architetti e ingegneri nominata dalla Giunta provvisoria di Governo il 30 settembre 1870 (a dieci giorni dalla breccia di Porta Pia!) era quella di creare «intorno ai principali monumenti tutte quelle demolizioni che concorrono a dar loro maggiore imponenza» e «eziandio di farne risaltare la bellezza artistica, facendo loro corona di deliziosi giardini»13. Nel nuovo tracciato di corso Vittorio Emanuele II, nel secondo lotto di lavori, da piazza Sant’Andrea della Valle alla via Larga, si attua l’isolamento di Palazzo Massimo alle colonne (che Baldassarre Peruzzi aveva disegnato sulla curva dell’odeion di Domiziano), del palazzetto Le Roy (attribuito ad Antonio da Sangallo il giovane) e del cinquecentesco palazzo della Cancelleria; tutto avvenne con il sacrificio della prospettiva urbanistica raggiunta nel tempo, cui non furono estranee ovviamente le modifiche architettoniche legate a nuovi concetti e a nuove funzionalità. Ad esempio l’arretramento della fronte degli isolati a corso Vittorio portò a centrare nella facciata i portoni dei palazzi, la cui posizione era un tempo legata alle manovre per l’ingresso di carrozze nei cortili interni coerentemente con le dimensioni ridotte delle sedi stradali. Un’altra proposta della Commissione del 1870 fu quella di pianificare «tra le principali arterie che rendano facile la comunicazione interna, il prolungamento, sebbene non rettilineo, della via del Corso fino al Colosseo…; esso si presta a dare accesso con comode rampe al Campidoglio e a comunicare con la parte monumentale di Roma»14 (Fig. 4). Il progetto fu ridimensionato molto presto, nel 1871, disegnando via del Corso che si arresta alle falde del Campidoglio15, ma è facile vedere nella prima proposta una anticipazione della ben più tarda via dei Fori Imperiali. Per questo asse, che raccordava il Campidoglio e il Colosseo, i lavori di demolizione del tessuto urbano minuto iniziarono nel 1931 per chiudersi nel 1934 (Fig. 5), pur essendo stati previsti nei PRG 1873, 1883,1909, con una variante del 1925-2616.   Gregorovius 1892: citazione da Cimino 1997, p. 24, nota 3.   Una breve nota su Georges Eugène Haussmann e il suo rapporto con le testimonianze di Roma antica è in Nicolini 1997. È da ricordare che sempre ad un francese (Napoleone I) si devono interventi risolutivi per liberare il Foro Romano dagli scarichi di terra e la Colonna traiana dalle abitazioni sorte intorno, attraverso l’opera del Valadier tra il 1811 e il 1812. Sul tema v. Debenedetti 1987, in part. pp. 527-539. 12   Per la storia degli interventi su via Nazionale, v. Pasquarelli 1984; il tema su corso Vittorio Emanuele II, trattato per la storia edilizia moderna in Racheli 1984a e Racheli 1984b, è stato ripreso con estensione degli studi dalla storia urbanistica antica a quella moderna in Cimino, Nota Santi 1998. 13   Insolera, Perego 1983, p. 5. 14   Insolera Perego 1983, p. 5. Sulle cause delle modifiche e sulle modifiche stesse apportate al percorso della via del Corso e alla quinta architettonica che la accompagnava a partire dal XVI secolo, v. Giovanetti, Pasquali 1984. 15   Si era ancora lontani dal progetto del monumento a Vittorio Emanuele II. Sulla trasformazione urbanistica del colle Capitolino, con le conseguenti implicazioni archeologiche, attraverso un’accuratissima raccolta di documenti d’archivio, v. Coppola 2012. 16   Sugli antefatti dell’apertura di Via dei Fori Imperiali, v. Insolera Perego 1983, pp. 3-30. 10 11

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Fig. 4. Veduta aerea della zona dell’attuale piazza Venezia prima del completamento degli sventramenti intorno al Vittoriano. La linea bianca indica il progetto di collegamento (1870) tra via del Corso e il Colosseo (da Rendina 1987, modif.).

Fig. 5. Veduta aerea di via dei Fori Imperiali (allora via dell’Impero) nel 1933 (da Rendina 1987).

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Si interveniva nuovamente in un’area cruciale dal punto di vista politico17. Appena qualche anno prima, nel 54 a.C., Cesare aveva comprato dai privati, e a caro prezzo, come sappiamo da Cicerone, Plinio e Svetonio18 (con cifre tuttavia non collimanti), le aree in cui avrebbe realizzato la sua piazza, uno spazio chiuso e dunque fissato nella sua forma, destinato, come scrive Appiano, «non per il mercato, ma per gli affari di chi vi convenisse, sul tipo di quello presso i Persiani, ove si chiede e si riceve giustizia»19. Non solo le fonti storiche, ma anche i dati archeologici documentano la demolizione di costruzioni preesistenti20. Mentre la basilica Iulia e la curia Iulia si propongono come una sostituzione di edifici (rispettivamente la basilica Sempronia e la curia Hostilia), il forum Iulium inserisce un ampio vuoto in un’area centralissima. Si tratta di circa 6500 mq21 di piazza, a cui poco sottrae il tempio22 che la impegna solo parzialmente portando la superficie a cielo aperto a circa 5600 mq (Fig. 6). L’operazione di definizione topografica del foro aveva: a) un limite orografico a nord-ovest nella sella tra Campidoglio e Quirinale, benché sia da ricordare che la forma irregolare delle tabernae dietro i portici del lato lungo sud-occidentale della piazza, pur condizionata dalle pendici del Capitolium, costituiva la sostruzione necessaria a conservare un edificio già esistente sulla quota superiore, evidentemente a forte valenza politica23; b) un vincolo a sud-est nell’intreccio di strutture e percorsi caratterizzante l’area a contatto tra il quartiere dell’Argileto e il Foro Romano. I dati di scavo hanno mostrato che, azzerando l’edificato esistente, il nuovo foro riprende l’orientamento di strutture presillane, probabilmente più coerenti con la morfologia della zona. I necessari lavori di livellamento per la realizzazione della piazza e l’intervento sulla sella Campidoglio-Quirinale, intaccata per la costruzione del tempio di Venere Genitrice, sono associati alla conservazione di alcune pendenze per il raccordo dei livelli tra l’Argileto e il Foro Romano24. Attento dunque alla scelta dell’area e all’adeguamento al terreno (con minime aggressioni all’orografia), Cesare indica ai successori   Per la storia antica dell’area occupata dall’intero complesso dei Fori Imperiali, v. Palombi 2005, che tuttavia manca della documentazione grafica, che è invece ampiamente presente nel successivo lavoro: Palombi 2016. Sui vari livelli di vita che si succedono nel settore nord-occidentale dell’area, restano riferimenti basilari Tortorici 1991 (con un capitolo dedicato alle fonti storiche citate) e Tortorici 1993. È da considerare che non è questa l’unica zona in cui nell’età antica si attuano ripetuti interventi volti a modificare il preesistente: solo per portare un altro esempio ricordo che la costruzione del teatro di Marcello da parte di Augusto ha comportato la demolizione di due templi, poi accolti come sacelli nello spazio retroscenico e la stessa zona, saturata dall’edilizia per lo più abitativa nei secoli successivi, è stata coinvolta nelle demolizioni per l’apertura della via del Mare (1926-1932), con soluzioni urbanistiche protrattesi fino al 1940, come la ricostruzione della chiesa di S. Rita sui resti del tempio di Bellona; cfr. Cianfa et alii, pp. 534-537. 18   Cicerone (Att. IV, XVII, 7: «…cum privatis non poterat transigi minore pecunia») parla di acquisto da privati per 60 milioni di sesterzi; Plinio il Vecchio (Nat. hist. XXXVI, 24, 103: «…solum tantum foro exstruendo») menziona la spesa di 100 milioni di sesterzi in riferimento al terreno, come confronto a quanto speso da Clodio per una casa (14.800.000 sesterzi); anche Svetonio (Caes. 26, 2: «Forum de manubiis incohavit, cuius area super sestertium milies constitit») parla della spesa di più di 100 milioni in rapporto all’area; ma dai dati di scavo (v. infra) è chiaro che pur non trattandosi di un’area satura dal punto di vista edilizio, era occupata da qualche costruzione. Per una giustificazione delle divergenze rapportabile ad una scansione temporale del progetto motivata dalla libertà di manovra di Cesare, che si era ampliata in pochi anni, v. Amici 1999, pp. 319320. Sulle operazioni immobiliari di Cicerone nell’ambito dei progetti cesariani a Roma, v. anche Migliorati 2015. 19  App., B.C. II, 102; trad. Gabba, Magnino 2001. 20   Sulla documentazione dell’area già pluristratificata all’epoca dell’intervento cesariano (la prima attestazione è un pavimento in lastre di tufo datato tra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C.), v. Morselli, Tortorici 1989, con uno studio che investe anche il Foro Transitorio; Amici 1991, pp. 21-27 e 2007 con l’analisi di nuovi dati d’archivio. 21   I calcoli sono basati sui rilievi di Amici 1991. Sottolineo la corrispondenza tra l’impegno areale della basilica (6000 mq) e la piazza. 22   Le modifiche al tempio dovute alla ristrutturazione traianea (con maggiori interventi sull’orografia) non incidono sostanzialmente sul calcolo delle superfici. 23   Ne è attestata la costruzione nel periodo dal III sec. a. C. ai primi del II a.C.; per la documentazione e per la proposta dell’identificazione con l’atrium libertatis, v. Amici 1999, con citazione delle diverse precedenti ipotesi. 24   Per i dati di scavo e le conseguenti osservazioni sulla morfologia del settore, v. nota 20; in Palombi 2005, p. 83 nota 5, si trova il riferimento ad un valore inferiore per l’altezza del raccordo morfologico tra Campidoglio e Quirinale. 17

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Fig. 6. Il Foro di Cesare: in puntinato le aree coperte (da Amici 1991).

non solo il mezzo di tradurre concretamente un’idea politica nell’uso dello spazio urbano (e non solo in quest’area25), ma definisce una ortogonalità di impianto che sarà seguita dalle successive piazze imperiali (Fig. 7) con interventi pesanti anche sulla conformazione fisica del luogo. Mi riferisco ovviamente all’opera di Domiziano sul taglio della sella Campidoglio-Quirinale, che Cesare aveva appena incisa, che sottintende un piano di strutturazione areale decisamente molto ampio. Il progetto, interrotto dalla morte dell’imperatore, fu ripreso e portato avanti da Traiano che approfittò probabilmente dell’evidente suggerimento urbanistico, lasciando libertà di riprogettazione ai suoi tecnici. Certamente è difficile definire con precisione fino a quale punto sia arrivata l’impresa di Domiziano e si deve pur sempre considerare che Traiano possa aver anche utilizzato i laterizi preparati con previdenza dal suo predecessore. Tuttavia recentissimi studi sui Mercati di Traiano contribuiscono in modo sostanziale al chiarimento di un tema tanto complesso e aggiungono dati risultanti da ampie e approfondite ricerche alle riflessioni presentate già da Lugli e poi da Giuliani e infine a quanto venne proposto successivamente26 sulla base dell’esame di infrastrutture e di alcuni muri, oltre che di specifici saggi stratigrafici, la cui analisi mostrò, attraverso la presenza di bolli laterizi, una congrua attività edilizia domizianea; si coglie un’organizzazione spaziale sottintendente una progettualità ardita, a cui la morte e la damnatio memoriae non permisero di legare la paternità di due innovativi interventi nel centro della città (ovviamente con peso diverso e quasi degli antonimi urbanistici: sbancamenti per ricavare una vasta area da destinare ad un nuovo fulcro pubblico e realizzazione di una quinta monumentale del percorso dell’Argileto). In ogni caso, quest’opera spianò davvero la strada alla futura via dei Fori Imperiali, mettendo in comunicazione il Campo Marzio con la serie di piazze che con varie motivazioni si erano andate giustapponendo e incastrando a nord-est della primitiva area pubblica, la quale, invece, si era andata coprendo di strutture27.   Per l’insieme delle operazioni urbanistiche di Cesare a Roma, v. Sommella 1991, pp. 287-291; Sommella 1998, pp. 90-92; Liverani 2008. 26   È di imminente pubblicazione un lavoro che focalizza gli impegnativi interventi strutturali e architettonici che hanno dato origine ai cd. Mercati di Traiano: Bianchini, Vitti c.s. (Ringrazio Marco Bianchini per avermi anticipato alcuni risultati delle indagini). In riferimento alle ipotesi già avanzate precedentemente, v. Lugli 1965 e Giuliani 1983-1987 con bibliografia puntuale e commento critico alle differenti interpretazioni dei dati archeologici e letterari; l’argomento è stato ripreso più di recente in Tortorici 1993; in part. pp. 12-13 per la riproposizione di un notevole cambiamento di progetto da Domiziano a Traiano. 27   Per la comprensione della piazza del Foro Romano come spazio vissuto, proposta attraverso il rilievo diretto de «l’insieme dei segni leggibili nelle strutture antiche», la verifica della documentazione di scavo dagli inizi del XIX secolo e i dati di saggi mirati degli anni 1979-83, v. Giuliani, Verduchi 1987. 25

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Fig. 7. I Fori Imperiali. La campitura evidenzia le aree a cielo aperto (chiara) e le aree coperte (scura). I portici sono considerati elementi di transizione (da Liverani 2008, modif.).

Anche nel caso del Foro di Traiano l’opera comportò la demolizione di strutture preesistenti almeno dall’età medio-repubblicana: ad un’area a destinazione commerciale fa pensare il ritrovamento, a nord della Colonna traiana, di una strada affiancata da vani obliterata dal livello traianeo28. Più a sudest i lavori di sbancamento hanno eliminato ogni altra possibile struttura. D’altra parte, la plausibile ricostruzione del percorso delle mura repubblicane lungo il versante sud-orientale della sella Campidoglio-Quirinale (Fig. 8) fa pensare alla possibile presenza di un edificato che ne utilizzasse l’ossatura, analogamente a quanto avviene alla Salita del Grillo con le tabernae traianee29. Ma la demolizione del quartiere a destinazione mista (residenziale e commerciale)30, che occupava l’ambitissima zona vicina al centro polifunzionale del Foro Romano, era continuata praticamente   Sulla documentazione dei rinvenimenti al di sotto del piano traianeo nei saggi da lui effettuati, v. Boni 1907, pp. 389-392; per osservazioni relative, v. Amici 1982, pp. 58-61. Per una molto ipotetica corrispondenza con il Vicus Insteius, v. Palombi 2016, pp. 248-249. 29   Per la ricostruzione dell’ampiezza della sella e del percorso orientativo delle mura e degli acquedotti della Marcia e della Tepula che ad esse si sarebbero addossate, v. Tortorici 1993, pp. 18-21; ma anche Tortorici 1991, pp. 31-33. Lo sfruttamento delle mura come fronte d’appoggio non è un fatto eccezionale, una volta persa la loro valenza difensiva (si pensi anche al solo esempio delle mura della colonia maritima ostiense, trasformate in muro di fondo di tabernae dopo la guerra annibalica). 30   Per considerazioni di carattere urbanistico sulla zona e più in particolare sul quartiere dell’Argileto, v. Tortorici 1991. Osservazioni riprese in Palombi 2016, pp. 235-240 in riferimento al settore artigianale e pp. 242-253 per le ipotesi di localizzazione degli edifici abitativi menzionati dalle fonti nell’area dei Fori Imperiali. Sulle possibili variazioni toponomastiche intervenute nel tempo a seguito degli interventi urbanistici, v. Palombi 2005, pp. 83-87 e nota 38. 28

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Fig. 8. Pianta schematica del Foro di Traiano con l’indicazione dei probabili limiti della sella Campidoglio-Quirinale e del possibile percorso delle mura repubblicane (da Tortorici 1993).

subito dopo la morte di Cesare. Anche Augusto si preoccupò infatti di aumentare i metri quadrati di area pubblica, destinata, questa volta, alle funzioni giudiziarie. Anche lui come Cesare comprò aree da privati, benché, dice Svetonio, la superficie della sua piazza fosse stata limitata dal fatto che «non ausus extorquere possessoribus proximas domos»31. Il riferimento dei resti strutturali e delle fonti sembra questa volta indicare con sufficiente sicurezza l’acquisizione di edifici a vocazione residenziale32. Un confronto sui tempi dei lavori desunti dalle fonti mostra che ambedue inaugurarono i complessi prima del compimento dei lavori: Cesare nel 46 e Augusto nel 2 a.C., pur avendo questi votato il tempio di Marte Ultore a Filippi nel 42. I tempi per la costruzione del Foro giulio, dall’acquisto dell’area (54 a.C.) all’inaugurazione e al completamento da parte del figlio adottivo (42 a.C.), non sono stati lunghi quanto più dei 40 anni impiegati da Augusto per il suo complesso, che venne appunto aperto al pubblico di fretta «necdum perfecta Martis aede»33. Benché Macrobio34 riporti un motto di Augusto sulla lentezza dell’architetto, è possibile che l’intera operazione sia costata più tempo per la maggiore densità edilizia della zona prescelta che comportava un maggiore impegno nelle contrattazioni per l’acquisto35 e nelle demolizioni. Anche Vespasiano contribuisce a dilatare le aree a cielo aperto costruendo il templum Pacis. L’azzeramento, ancorché parziale, di strutture precedenti si riferisce in questo caso all’edificio del mercato  Suet., Aug. 56, 2. Già Augusto stesso aveva sottolineato che la costruzione era avvenuta «in privato solo»: Res Gestae 21. 32   V. nota 30. La costruzione dietro l’esedra nord del Foro di Augusto viene identificata con la domus di Sesto Pompeo, risparmiata per la parentela con il Princeps: Castagnoli 1988, p. 109 nota 45. La struttura appare residuale di un’operazione non portata a termine; deve essere stata quindi effettivamente riconfigurata a causa dei lavori augustei, come suggerito in seguito da Tortorici 1993, p.17. 33  Suet., Aug. 29. 34  Macrob., Sat. 2, 4, 9. 35   Ricordo la citazione di Dione Cassio (LII, 41; 29 a.C.) sull’abilità mostrata da Ottaviano nella gestione politica ancor prima che diventasse Augusto: «Tuttavia non volle attuare subito ogni suggerimento (di Mecenate), temendo di cadere in qualche errore volendo che gli uomini cambiassero di colpo; ma riordinò alcune cose subito, altre dopo ed altre lasciò che le applicassero i successori, ritenendo meglio che fossero attuate successivamente.» 31

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pubblico ma l’area a cielo aperto che viene recuperata supera i 10.000 mq, con un tempio inserito nell’unico lato che ospita ambienti e allineato come questi dietro ai portici, benché in posizione centrale e tradita dal differente prospetto colonnato sulla piazza. Una nuova estromissione del privato è a carico del figlio Domiziano, che, contestualmente agli interventi condotti nel futuro Foro di Traiano, riesce a comporre una piazza nella monumentalizzazione della viabilità tra Foro Romano e Suburra-Carine, il Foro Transitorio. In realtà la piazza resta uno spazio longitudinale coerente con un percorso di collegamento: è larga 40 m e lunga 11536; l’inserimento del tempio di Minerva su uno dei lati corti aggettante solo parzialmente sulla superficie a cielo aperto, non ne compromette la percezione spaziale, semmai rende il passaggio verso la Suburra poco agevole. È tuttavia da menzionare l’ipotesi di lettura di fondazioni presenti a ridosso del lato corto sud-occidentale: H. Bauer ne suppone la pertinenza al tempio di Giano, lì edificato da Domiziano37. È chiaro che la presenza di un tempio contrapposto a quello di Minerva e in aggetto completo sulla piazza cambierebbe di molto la concezione dello spazio interno al foro. Dal punto di vista della destinazione d’uso dell’area, comunque, il complesso, saldandosi da un lato al Foro di Augusto e dall’altro a quello di Vespasiano, conclude lo sventramento di un quartiere a destinazione abitativo-commerciale, come ci risulta dalle fonti che sia stato l’Argileto38; Domiziano cancella la trama dell’edilizia minuta e, possiamo supporre, con un’organizzazione muraria irregolare, da quello che si era andato definendo da Cesare in poi come un settore urbano ad assetto ortogonale. In totale da Cesare a Traiano si attua un’operazione urbanistica su una superficie approssimativa di 8,5 ha, con 36.000 mq di inedificato (intendo le aree a cielo aperto, senza considerare i portici, elementi di transizione che assicurano la permeabilità delle strutture, e gli spazi di risulta, spesso inevitabili nell’accostamento dell’edificato). Il rapporto che ne risulta (inedificato/edificato) è quasi di 1:2 (v. Fig. 7). Ma in realtà all’area pertinente alle piazze si dovrebbe aggiungere la basilica Ulpia; qui, la dilatazione dello spazio interno ha fatto dell’area centrale «una piazza fornita di copertura», come è stato giustamente notato39. Sugli 8500 mq circa dell’intera struttura40, all’incirca 2200 erano liberi e sia il colonnato, che li circondava e schermava nello stesso tempo, sia l’altezza della sala dovevano accentuare l’impressione di trovarsi in una piazza. Escludendo la superficie del forum Pacis, che coinvolge soprattutto il macellum, ribadisco che chi faceva le spese della rimodulazione degli spazi urbani era il tessuto connettivo di Roma, l’edilizia privata di alto e medio livello come di struttura minuta, e l’edilizia commerciale frazionata. Queste operazioni non sono naturalmente prive di risvolti sociali. Negli anni 30 del secolo scorso, per l’apertura di via dei Fori Imperiali si scoprì un’area di 40.000 mq, demolendo 5500 vani abitabili, come venne concordemente indicato allora41. Considerando la densità media del Rione Monti, le persone costrette a spostarsi nella periferia più o meno lontana sono state calcolate in 7000. Per l’età antica, è difficile fare una stima adeguata del numero di trasferimenti obbligati per il periodo di circa 150 anni in cui si colloca la costruzione dei nuovi fori. Un indizio sulla soluzione adottata dai Romani può essere dato dalla registrazione nelle fonti delle leggi sull’altezza degli edifici, limitata a 70 piedi su strada sotto Augusto, valore massimo ribadito da Nerone, ma abbassato a 60 sotto Traiano; il che ha certamente un significato dal punto di vista strutturale, ma anche dal   Le misure sono prese a filo colonnato (rilievi Bauer 1976-77).   Bauer 1976-77, pp. 142-148; contra, v. Morselli, Tortorici 1989, pp. 50-51, 62, ove si sottolinea la necessità di scavi stratigrafici per poter definire la sequenza cronologica delle strutture. 38   Per le vicende delle strutture commerciali dell’area precedenti l’impianto del Foro della Pace e del Foro Transitorio, v. Tortorici 1991, pp. 37-55, con riferimento alle fonti, in particolare a Marziale, che documenta l’esistenza di librai e calzolai nell’aerea residuale dell’Argileto prima della costruzione del foro Transitorio. 39   Amici 1982, p. 16. 40  Rilievi Amici 1982. 41   Per i dati sugli immobili demoliti e sugli spostamenti dei residenti nelle aree coinvolte dagli sventramenti, v. Insolera, Perego 1983, pp. 149-161. 36

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punto di vista sociale: i problemi del sovraffollamento delle insulae e della trasgressione dei limiti sulle altezze erano senza soluzione. Se seguiamo i calcoli di E. Frézouls42 per le quattordici regioni di Roma, nel tardo Impero le aree pubbliche occupavano circa la metà della superficie urbana. Ricordando i sublimia tecta di Giovenale43 è chiaro che, per gli abitanti di Roma, non ci poteva essere una via di fuga se non verso il cielo. La figura di Nerone, che ho sopra menzionato, mi induce a ricordare, spostandosi appena dalla zona delle “Piazze”, lo sbancamento della Velia e la rettificazione del settore sud della via Sacra. Quest’ultimo intervento ci appare proprio nella sua accezione più comune di sventramento, se consideriamo che, alla obliterazione di tabernae, si associò l’ampliamento della sede stradale, che giunse a misurare 20 m. La volontà di conservare la strada in questa sua forma causò in seguito l’ulteriore resecazione della collina della Velia da parte di Massenzio per la costruzione della sua basilica. Infatti tra viabilità condizionanti ed edifici circostanti che intendeva rispettare, l’unica direzione verso cui si poteva sviluppare il nuovo edificio era verso la Velia. La basilica si sovrapponeva ampiamente agli horrea Piperataria, ma in questo caso il reperimento dell’area necessaria alla nuova costruzione, che raggiungeva i 7000 mq, fu facilitato dall’incendio del 283 che aveva colpito pesantemente la zona44; i conseguenti interventi sul vicino tempio di Venere e Roma ne modificano integralmente lo spazio architettonico interno, ma da un punto di vista urbanistico ne lasciano inalterato il rapporto visivo con la via Sacra, su cui adesso viene a gravitare anche la basilica. Una delle tante complicazioni che gli sventramenti portano con sé sono i problemi di ricuciture tra vecchio e nuovo e le cicatrici (tanto per restare in ambito chirurgico) sono difficili da eliminare. Per le aree di sutura, possiamo avere un’idea di situazioni irrisolte, o solo parzialmente risolte, da due esempi documentati dalla Forma Urbis severiana. La porticus Liviae viene edificata da Augusto sul colle Oppio dopo aver fatto demolire la casa di Vedio Pollione, che, come di frequente avveniva, gli era stata lasciata in eredità45. Dai frammenti della Forma Urbis46 si ricava che si tratta di un’area quasi completamente scoperta (in totale l’edificio impegna 8700 mq), ma che si presentava all’esterno come una struttura a perimetro continuo con un accesso principale che attraverso una scalinata permetteva di superare il dislivello con la via che la lambiva a nord, il clivus suburanus che risaliva l’Oppio dal Foro. È una macrostruttura che si inserisce in un quartiere densamente edificato, con rarefazioni del costruito dovute alla presenza di horti, come quelli di Mecenate. Cosa erano diventati gli edifici i cui residui si possono riconoscere all’esterno del recinto della porticus? Domanda lecita, tanto più se pensiamo al divario cronologico tra la costruzione e la Forma, che avrebbe permesso interventi di riassetto. Mentre i vani lungo i lati nord e sud fungono da cerniera con le strade, come mostra la loro profondità digradante, e, pur potendo appartenere a strutture precedenti, trovano una loro autonomia47, ci sono altri due settori che appaiono frutto di un’operazione di ritaglio (Fig. 9). Il secondo esempio riguarda il teatro e il quadriportico di Balbo48. La costruzione si inseriva in un quartiere già per gran parte occupato da edifici a destinazione pubblica e sembra esserne l’ultimo   Frézouls 1987, pp. 388-389.  Juv., Sat. III, 269. Riguardo a considerazioni sull’uso dello spazio nel passaggio da Nerone ai Flavi, v. Migliorati 1991. 44   Sull’assetto morfologico ed urbanistico dell’area anche per i periodi precedenti la costruzione della basilica, v. Amici 2005. 45   Dione Cassio (LIV, 23, 5-7) spiega la distruzione della casa di Pollione come una damnatio memoriae per la sua crudeltà. Alla domus forse appartengono resti di pavimento trovati al di sotto del massetto dell’area centrale della porticus: Panella 1985 e 1999. Gli scavi confermano la continuità della struttura anche oltre la documentazione offerta dalla Forma Urbis Severiana. 46   PM 1960, pp. 69-70, tav. XVIII, frr.10 l p q r, 11. 47   L’esempio analogo più noto è costituito dai vani presenti lungo i lati nord e sud della casa del Fauno a Pompei. 48   Resta punto di riferimento per l’analisi delle strutture del teatro e per le considerazioni dell’impatto della costruzione sul tessuto edilizio del settore Giuliani 1996. 42 43

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Fig. 9. Forma Urbis Severiana: porticus Liviae (da PM 1960). Sono cerchiate le strutture residuali dell’inserimento della macrostruttura nel tessuto edilizio preesistente.

tassello. Attraverso i frammenti della Forma Urbis49 (Fig. 10) appare evidente che il complesso è come incastrato in una zona organizzata su una trama minuta di edilizia abitativa e artigianale; quest’ultima viene tradita dalla planimetria, ma anche dalla documentazione epigrafica antica50 che trova tuttora continuità toponomastica nel quartiere. Gli scavi condotti all’esterno dell’esedra hanno tuttavia mostrato che non c’è precisa corrispondenza tra le strutture rilevate e quelle delineate dalla FUR51, resta comunque documentato il taglio netto della viabilità e degli ambienti che su di essa gravitavano; le modifiche strutturali, soprattutto legate all’edilizia minuta, attestano la naturale continua rielaborazione di se stesso dell’organismo urbano. L’inserimento delle macrostrutture in città da tempo strutturate non può essere senza sacrifici. È da considerare se i vantaggi siano maggiori degli svantaggi e naturalmente chi e quanti siano costretti al sacrificio. Penso, ad esempio, all’impatto che ha avuto la costruzione delle terme di   PM 1960, p. 106, tav. XXXII, frr. 39 a b.  Per l’attestazione epigrafica, v. Panciera 1975, pp. 224-225. Sul collegamento tra iscrizioni e collocazione topografica degli artigiani, v. Baratta 2009, pp. 274-275 e note 46 e 47. 51   Per considerazioni sul tema della corrispondenza o meno tra planimetrie verificate da dati archeologici e quelle documentate dalla FUR, v. Muzzioli 2014; Migliorati 2017. 49 50

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Fig. 10. Il teatro di Balbo. I frammenti della Forma Urbis Severiana (da PM 1960); a fianco, il disegno degli stessi frammenti con sovrapposizione della planimetria su base archeologica per mostrare le discordanze (da Vendittelli 2008).

Diocleziano nel quadrante nord-orientale della città. Le terme hanno infatti “mangiato”, o «comprato in blocco» come dice l’iscrizione dedicatoria52, un’area edificata, le cui strutture demolite53 servirono da substructio all’ampia superficie scoperta localizzata a sud-ovest del corpo centrale destinato al percorso dei bagni. L’acquisto di un’area ben più ampia di quanto servisse all’impianto termale rispondeva all’esigenza di lasciare questa vasta zona inedificata, in coerenza con la necessità di insolazione più lunga possibile nell’arco della giornata per le sale riscaldate. Lo sventramento era dunque essenziale. Guardando la posizione di tutti i grandi impianti termali, non si può che pensare ad una scelta strategica da un punto di vista distributivo e funzionale-impiantistico, dislocata nel tempo: orientamento a sud-ovest, distanza “di rispetto” da costruzioni limitanee per non ostacolare l’insolazione, collocazione ottimale (sempre in riferimento all’esposizione) su una sommità collinare.   CIL, VI, 1130 (…coemptis aedificiis…).   L’azzeramento sembra coinvolgere edifici a diversa destinazione d’uso, da più semplici abitazioni ad un edificio di grande impegno strutturale come mostrano i forti spessori murari (120-180 cm); l’identificazione proposta per quest’ultimo con il Templum Gentis Flaviae (Candilio 1995) è inficiata dall’esiguità dei dati disponibili. 52 53

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Acquisto di edifici privati e successive demolizioni sono anche testimoniati per l’attività edilizia di Severo Alessandro. L’attenzione dell’imperatore per le terme si concretizza in vari modi54; iniziando dall’aggiunta di portici alle terme di Caracalla, continua con: 1. Il divieto di fruizione mista dei bagni; 2. La destinazione dei proventi di tasse, imposte su particolari categorie di artigiani, alla manutenzione degli impianti; 3. L’assegnazione di boschi per il rifornimento di legna delle terme pubbliche; 4. La donazione di olio per l’illuminazione delle stesse terme da prevedersi per l’aumento dei tempi di apertura oltre le ore di luce naturale; 5. La giustapposizione di un nuovo impianto a quello delle terme neroniane (ampliamento?) con l’approvvigionamento idrico specifico; 6. La costruzione di impianti termali in regioni che ne erano, semmai, prive55. Il testo di Elio Lampridio riferisce che aggiunse alle sue terme un bosco, demolendo edifici di cui aveva acquisito la proprietà56. Considerando la saturazione edilizia del Campo Marzio, tra edifici a fruizione collettiva e aree abitative (quasi di riempimento rispetto alla dilatazione delle zone a destinazione pubblica), era effettivamente impensabile che nel III sec. d.C. vi si potesse trovare un’area inedificata! Come ho spesso sottolineato, gli interventi urbanistici di grande portata in città che hanno alle spalle secoli di vita (mi riferisco ora solo alla storia antica) si scontrano ovviamente con la saturazione degli spazi e l’attuazione di nuovi piani settoriali non offre altre soluzioni se non lo sventramento, inteso sia come creazioni di vuoti (strade, piazze) sia come sostituzione del costruito. Esiste, naturalmente, l’opzione della dislocazione esterna al centro che si è andato formando, valida più per oggi che per ieri. Il riferimento è alla sfera dell’organizzazione funzionale urbana, con la quale Roma si sta ancora scontrando. Aggiungo una postilla al tema presentato: ho trattato solo del caso di Roma, ma la questione riguarda, come è ovvio, qualsiasi città sia nelle fasi di vita antiche ( e mi riferisco, per esempio, agli episodi di azzeramento di strutture preesistenti per la costruzione degli anfiteatri di Alba Fucens, Luceria di Puglia, Pompei, Roselle, Tivoli, Venosa57), sia nelle fasi di vita più recenti (a solo titolo esemplificativo cito i casi di Brescia, Firenze, Milano, Napoli, per motivi che vanno dal risanamento ottocentesco alla volontà di isolamento di un edificio storico58) ed è molto ampia e sfaccettata; non ho dunque nessuna pretesa di aver esaurito l’argomento. Bibliografia Amici 1982 = C.M. Amici, Foro di Traiano: Basilica Ulpia e Biblioteche, Roma 1982. Amici 1991 = C.M. Amici, Il foro di Cesare, Firenze 1991. Amici 1999 = C.M. Amici, Atrium Libertatis, in «RendPontAcc» LXVIII (1995-1996), 1999, pp. 295-321. Amici 2005 = C.M. Amici, Dal progetto al monumento, in C. Giavarini (a c.), La basilica di Massenzio, Roma 2005, pp. 21-91. Amici 2007 = C.M. Amici, Problemi topografici dell’area retrostante la Curia dall’età arcaica all’epoca tardoantica, in C.M. Amici, P. dell’Amico, M.C. Leotta, F. Pallarés, M. Ricci, I. Sciortino, Lo scavo didattico della zona retrostante la Curia (Foro di Cesare). Campagne di scavo 1961-1970, Roma 2007, pp. 161-168. Baratta 2009 = G. Baratta, “La bonne adresse”: trovare un’attività artigianale o commerciale in città, in M.G. Angeli Bertinelli, A. Donati (a c.), Opinione pubblica e forme di comunicazione a Roma: il linguaggio dell’epigrafia, Atti del colloquio Borghesi 2007, (Epigrafia e Antichità 27), Faenza 2009, pp. 257-276.

  Ael. Lampr., Hist. Aug., Vita Severi XXIV, 2 e 5-6; XXV, 3-7; XXXIX, 3-4.   Il riferimento alle regioni di Roma sembra ovvio nel contesto del capitolo. 56   Il passo specifico (XXV, 3-4) sembra suggerire che l’intervento coinvolgente l’impianto neroniano («iuxta eas quae Neronianae fuerunt») sia stato fatto senza impegnare aree che non fossero già di pertinenza delle vecchie terme. 57   Dati riportati in Sommella, Migliorati 1988. 58   Sulle vicende di questi ed altri centri storici italiani tra l’Ottocento e il Novecento, v. Fazio 1976, pp. 144-164. 54 55

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EDIFICI PER SPETTACOLI IN ETÀ ROMANA: ASIA MINORE E NORD AFRICA A CONFRONTO*

Jesper Carlsen

Come noto, gli edifici per spettacoli presenti nelle città del mondo romano erano teatri, anfiteatri, circhi e stadi. A partire dalla tarda età repubblicana e fino all’inizio del IV secolo d.C. assistiamo al frequente stanziamento di somme, sia da parte del comparto pubblico che da parte di evergeti privati, dedicate precipuamente alla costruzione di queste tipologie di edifici. È sempre necessario, tuttavia, considerare come la distribuzione di tali strutture ludiche risulti estremamente diversificata all’interno dell’Impero e come alcune tipologie di edifici potessero essere sfruttate per l’allestimento di vari tipi di spettacoli1. Colgo l’occasione dell’incontro Spazi pubblici e dimensione politica nella città romana: funzioni, strutture, utilizzazione, per esaminare la particolare situazione concernente gli edifici per spettacoli che si riscontra in due differenti aree dell’Impero Romano: l’Asia Minore, comprendendo in questa definizione anche la Caria, e le province romane dell’Africa settentrionale. Lo studio che presenterò si focalizzerà in particolare sui giochi gladiatori e sugli anfiteatri. Tertulliano, padre della Chiesa di origini africane, affermava che i giochi gladiatori «erano, fra tutti, gli spettacoli più famosi e i più popolari. Erano definiti munus perché ritenuti un servizio dovuto»2. Questi descriveva l’anfiteatro come «il tempio di tutti i demoni»3 e, più recentemente, gli anfiteatri sono stati definiti da Keith Hopkins come «campi di battaglia artificiali» posti in città, dove i Romani «ricreavano le condizioni di un campo di battaglia solo per divertire il pubblico»4. Gli anfiteatri in Asia minore e nell’Africa romana Il catalogo più aggiornato degli anfiteatri dell’Impero romano è ancora quello redatto da Jean-Claude Golvin, il quale, nel suo L’amphithéâtre romain. Essai sur la théorisation de sa forme et de ses fonctions *  Traduzione di Paolo Storchi.

  Riguardo le tipologie di edifici per spettacoli, si vedano: Frézouls 1990; Dodge 1999 e 2014.  Tert., Spec. 12: «Superest illius insignissimi spectaculi ac receptissimi recognitio. Munus dictum est ab officio, quoniam officium muneris nomen est». 3  Tert., Spec. 12: «Omnium daemonum templum est». 4   Hopkins 1983, p. 2. 1 2

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(1988), elenca un totale di 190 anfiteatri5. Di questi, solamente due sono localizzati in Asia Minore: quelli di Cizico e di Pergamo. Tuttavia Strabone riferisce della presenza di un anfiteatro anche a Nysa6. Recentemente, Hazel Dodge ha focalizzato l’attenzione su quanto impreciso sia l’utilizzo del termine “anfiteatro” nelle fonti antiche (imprecisione, peraltro, che si riscontra ancora oggi presso i non specialisti); tale vocabolo, infatti, sembrerebbe essere stato talora utilizzato per definire genericamente un “edificio per spettacoli”. Dodge, tuttavia, aggiunge alla lista di Golvin altri due anfiteatri in Asia Minore, attestati solo dalle fonti scritte: quello di Nicomedia/Nicea e quello di Smirne. Anche Golvin, per la verità, accenna a queste due strutture, ma non le inserisce nel suo catalogo7. È certamente vero che altri anfiteatri potranno essere scoperti in futuro in Asia Minore e Caria, ma, a oggi, si deve affermare che il loro numero in una regione tanto vasta è davvero esiguo. Per comprendere le ragioni di questo dato, bisogna pensare anche al fatto che in quest’area un ingente numero di teatri e stadi furono modificati strutturalmente e adattati al fine di ospitare giochi gladiatori e cacce con animali feroci nel primo Impero. Per ottenere questo effetto, bastava innalzare un muro attorno all’orchestra o applicare altri accorgimenti atti a costituire una sorta di arena. Golvin conta in questa regione undici strutture di questo tipo, definendole “strutture miste o multifunzionali”: Aezani, Alinda, Aphrodisias, Axus, Cibyra, Ephesos, Hierapolis, Iasos, Magnesia ad Meandrum, Miletus e Priene; ulteriori esempi si incontrano nelle vicine Lycia, Pamphylia e Pisidia8. Se invece ci focalizziamo sull’Africa romana, seguendo il catalogo presentato recentemente da Gilberto Montali ne L’anfiteatro di Sabratha e gli anfiteatri dell’Africa proconsolare (2015), si osserverà come, in questa regione, siano ben quaranta gli anfiteatri noti archeologicamente o di cui si fa esplicita menzione in epigrafi. Montali include inoltre nel catalogo diciotto strutture di cui fanno menzione i viaggiatori del XVIII secolo, oppure la cui esistenza è proposta sulla base di anomalie nell’andamento altimentrico del piano topografico, o ancora che sono ipotizzate da alcuni studiosi su base indiziaria9. Questo nuovo catalogo permette di superare i due studi cui si è sempre fatto riferimento fino ad oggi: i comunque ancora utili lavori di Jean-Claude Lachaux, Théâtres et amphithéâtres d’Afrique proconsulaire (1978), con il relativo catalogo di quarantasette strutture, e il lungo capitolo dedicato agli anfiteatri del Nord Africa all’interno del lavoro di David Bomgardner The Story of the Roman Amphitheatre (2000), basato sul dottorato dell’autore e corredato da un breve catalogo degli anfiteatri più importanti delle province romane africane10. Secondo Bomgardner, il primo anfiteatro costruito nell’Africa romana fu forse quello di Utica, la capitale della provincia repubblicana di Africa11. La prima fase dell’anfiteatro di Cartagine si data al tardo I sec. a.C. e la struttura viene definita come «un anfiteatro non di grande monumentalità, ma un’arena provinciale di media grandezza» che nelle caratteristiche della struttura e nella tipologia costruttiva riflette le tendenze dominanti ed i principi correnti della romanità12. Fu ricostruito nel II sec. d.C. nelle forme del più grande anfiteatro dell’Africa romana. Il più famoso resta comunque l’anfiteatro di Thysdrus, la moderna El Djem, da alcuni chiamato il “Colosseo d’Africa” oppure noto anche come amphitheatrum Gordianum, focalizzando in questo caso l’attenzione sul suo ruolo di “monumento dinastico” della famiglia dei Gordiani. Nonostante il fatto che il monumento possa datarsi   Golvin 1988.   Golvin 1988: Cyzicus (n. 176) e Pergamon (n. 177). Strab., VI, 4, 649. 7   Golvin 1988, p. 263; Dodge 2009, pp. 30-31 e 35. Smyrna: Euseb., IV, 15, 16; Robert 1940, nn. 225-250. Nicomedia/Nicaea: CIG, 3665; 3764; Plin., Ep. X, 3. 8   Golvin 1988, pp. 239-241. 9   Montali 2015, pp. 323-535. 10   Lachaux 1978, p. 16; Bomgardner 2000, pp. 121-196. Per le arene della Mauretania si veda anche Pichot 2012. 11   Bomgardner 2000, p. 121; Montali 2015, p. 534 (n. 56). Per i successivi edifici per spettacoli a Utica, oggi Utique, si veda Kolendo 1989. 12   Bomgardner 1983 e 2000, p. 135. Si veda anche Montali 2015, pp. 356-365 (n. 9). 5 6

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effettivamente alla prima metà del III d.C., un collegamento con il giovane Gordiano III rimane del tutto ipotetico13. La maggioranza degli anfiteatri dell’Africa romana si data al II secolo d.C. e alcuni di essi, come quelli di Gemellae, Lambaesis, Mesarfelta e forse anche quello di Theveste, furono costruiti dai soldati nei pressi degli accampamenti militari14. Similmente un amphitheatrum castrense è attestato nella stessa Cartagine ed è in questa struttura che avvenne il martirio delle sante Perpetua e Felicita all’inizio del III d.C15. La precisa scelta dell’area dove costruire l’anfiteatro dipendeva soprattutto da due fattori, in primo luogo dai condizionamenti imposti dalla geografia fisica locale e, in secondo luogo, dall’epoca in cui questi edifici furono costruiti. L’ubicazione più frequente era ai limiti oppure all’esterno dell’area urbana, difatti l’area cittadina, molto spesso, era già satura di edifici quando s’iniziarono a costruire gli anfiteatri e, a volte, la città si era già ampiamente espansa al di fuori dei primitivi limiti, come si può verificare a Lambaesis16. Cartagine, Thysdrus, Utica e Caesarea Mauretania17 erano addirittura dotate di due anfiteatri ciascuna e non meno di quattordici città nelle province romane dell’Africa settentrionale erano dotate sia di anfiteatro che di teatro18, mentre molte città dell’Asia Minore possedevano un teatro ed uno stadio. Se ci limitassimo a comparare solamente la quantità delle strutture note, cinque anfiteatri e undici “strutture miste” (teatri convertiti per ospitare giochi anfiteatrali, soprattutto) in tutta l’Asia Minore, contro più di cinquanta anfiteatri nell’Africa romana, si giungerebbe alla conclusione che, semplicemente, nella porzione orientale dell’impero romano di lingua greca, i ludi scenici e gli agoni atletici dovevano essere nettamente preferiti dal pubblico rispetto ai sanguinosi spettacoli anfiteatrali. Tuttavia, questa è una conclusione che non si fonda su solide basi, come sottolineato dalla critica moderna a partire dal lavoro pioneristico di Louis Robert Les gladiateurs dans l’Orient grec (1940). Difatti, se ampliamo il nostro ragionamento accogliendo altre fonti oltre ai soli resti di edifici per spettacoli rinvenuti nelle due aree, si presenterà davanti ai nostri occhi un panorama molto più chiaro. Munera gladiatorum in Asia minore e nell’Africa romana Gli ultimi decenni hanno visto un rinnovato generale interesse degli studiosi sul tema dei giochi gladiatori; in particolare, riguardo a quelli in Asia Minore ed in Caria. Le nuove ricerche sui materiali già rinvenuti ad Aphrodisias19, Ephesos20, Hierapolis21, Mylasa22, e Stratonikeia23, cui si sono aggiunti alcuni nuovi rinvenimenti archeologici ed epigrafici, rendono ora possibile comprendere in modo completo il complesso contesto della regione in cui avvenivano tali giochi gladiatori e ci danno importanti informazioni riguardo agli stessi protagonisti nelle “arene” in Caria e Asia Minore. Il numero relativamente alto di monumenti inerenti ai giochi gladiatori ritrovati in varie città di quest’area suggerisce che le lotte fra gladiatori e le cacce giocavano in esse un ruolo importante e   Kolendo 1973; Bomgardner 1981; Slim 1984 e 1986; Montali 2015, pp. 485-401 (n. 47).   Carlsen 1993, p. 146, con bibliografia precedente; Theveste (Tebessa): Montali 2015, pp. 446-451 (n. 37). Riguardo gli anfiteatri a Gemellae e Mesarfelta si veda Baradaz 1966. 15   Passio SS. P et F., 7, 9; Montali 2015, p. 366 (n. 10), con riferimenti bibliografici, si rimane comunque incerti su tale identificazione. 16   Golvin, Janon 1976-1978. 17   Golvin, Leveau 1979. 18   Lachaux 1978, p. 16: Bulla Regia, Carthage, Hadrumetum, Leptis Magna, Leptis Minor, Pupput, Sabratha, Seressi, Sicca Veneria, Smitthu, Sufetula, Theveste, Utica e Utina. Sui circhi nell’Africa romana, si veda Di Vita-Évrard 1965; Floriani Squarciapino 1979 e Humprhey 1986. 19   Roueché 1993, pp. 61-64; Hrychuk Kontokosta 2008. 20   Grossschmidt 2000. 21   Ritti, Yilmaz 1998; Ritti 2011. 22   Rumscheid 2001. 23   Aydaş 2006; Staab 2007. 13 14

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Fig. 1. Rilievo dal British Museum (Inv. GR 1847, 0424, 19).

che, generalmente, tali giochi erano rappresentati in connessione con il culto imperiale, assieme alla pubblica esecuzione dei condannati a morte24. Mi preme sottolineare questo aspetto presentando una breve discussione riguardo ai rilievi e alle iscrizioni a tema gladiatorio rinvenute nell’antica Alicarnasso, oggi Bodrum, in Caria, dove archeologi e storici danesi compiono ricerche da cinquanta anni (nel 2016 si è celebrato proprio il cinquantesimo anniversario di tali ricerche). Il fondamentale e per certi versi rivoluzionario studio e catalogo di Robert include quattro iscrizioni frammentarie e due rilievi figurati provenienti da questo centro25. Una delle iscrizioni fa menzione di un retiarius, tuttavia ancora più significativa è un’altra epigrafe oggi, purtroppo, perduta. Essa fu incisa sull’architrave di un edificio e menziona non solamente un tempio dedicato alla dea Nemesis, inaugurato da un certo Iason, figlio di Nikanor, ma anche un vero e proprio programma di spettacoli. Nella porzione conservata si poteva leggere solamente di un combattimento fra due gladiatori, di proprietà di un certo Asiaticos. Il murmillio Smaragdos, che aveva vinto cinque incontri e aveva ricevuto, sempre per cinque volte, l’onore della corona, si era battuto contro il thraex Strenos. Quest’ultimo aveva combattuto soltanto una volta, ma aveva vinto e aveva ricevuto anch’egli la corona d’alloro; ad ogni modo, la sconfitta in questo secondo incontro gli fu fatale26. Fortunatamente, l’esiguo numero di evidenze epigrafiche di giochi gladiatori ad Alicarnasso in età imperiale può essere completato con le testimonianze di alcuni rilievi figurati, due dei quali, conosciuti da Robert, si trovano oggi al British Museum. Il primo ritrae il secutor Hilaros27, il secondo è invece quello che contiene la famosa rappresentazione dell’unico esempio di gladiatori di sesso femminile giuntaci dal mondo antico (Fig. 1). Focalizzandoci sul secondo, possiamo notare come le due gladiatrici si affrontino frontalmente, equipaggiate allo stesso modo, e siano state identificate come provocatores. Esse combattono a capo scoperto, ma i loro elmi vengono rappresentati dall’artista ai limiti dell’area di combattimento, in corrispondenza dell’incisione dei loro nomi, Amazon e Achillia. L’iscrizione al di sopra delle loro teste indica che furono liberate in quell’occasione e che il loro scontro fu   Robert 1940, pp. 267-275; Hrychuk Kontokosta 2008, p. 192; Marek 2010, pp. 622-624.   Robert 1940, pp. 182-189, nn. 179-188; Carlsen 2014, pp. 441-446. Si veda Poulsen 2011 per una sintesi delle fonti antiche relative alla storia di Alicarnasso durante la prima età imperiale e la tarda antichità. 26   CIG, 2662; Robert 1940, pp. 183-187 (n. 180); Ville 1981, pp. 363-246; Carlsen 2014, p. 442. 27   CIG, 6855e; Robert 1940, p. 188 (n. 183); Carlsen 2014, pp. 442-443. 24 25

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dunque immortalato nella pietra. I nomi Amazon e Achillia sono certamente “nomi d’arte”, con chiara allusione alla mitologia greca28. Sorgono dunque immediatamente due problemi: il primo è se il rilievo di Alicarnasso commemorasse un particolare tipo di spettacolo; il secondo riguarda il luogo in avvenivano questi spettacoli gladiatori. Non sembra trattarsi di un rilievo funerario e Kathleen Coleman ha giustamente osservato che «raffigura un combattimento che è degno di essere commemorato sia per la rarità del suo esito finale e sia per il fatto sia le sue protagoniste erano donne»29. Donne che si esibirono in spettacoli gladiatori e in cacce di animali esotici si riscontrano nelle fonti letterarie durante i periodi di reggenza di Nerone, Tito e Domiziano, ma sembrano spettacoli estremamente rari e di gusto “esotico”30. La Coleman ha proposto che tale rilievo gladiatorio potesse essere collocato presso la scuola gladiatoria di cui Amazon e Achillia facevano parte, dato che non si fa menzione del finanziatore dello spettacolo. In ogni caso, il rilievo poteva anche costituire solo una parte di un monumento pubblico di dimensioni importanti, che presentava vari rilievi con scene di questo tipo di combattimenti. Non si può dunque escludere che il nome del finanziatore non apparisse altrove nel monumento, in una delle porzioni non conservate, similmente a quanto accade, ad esempio, in Italia a Teate Marrucinorum31, ma anche ad Aphrosidias32, Ephesos33 e Hierapolis34 in Asia Minore e Caria. Perciò si avanza, come proposta di lavoro da verificare in futuro, che questo rilievo sia parte di un monumento pubblico, oppure funerario, di cui, allo stato attuale delle ricerche, non conosciamo altro. Il secondo aspetto da affrontare è cercare di comprendere dove possa essere avvenuto l’insolito scontro fra Amazon e Achillia. Ci sono almeno due luoghi che possono ritenersi buoni candidati per avere ospitato tale spettacolo ad Alicarnasso: la città era dotata sia di un teatro sia di uno stadio. Il secondo edificio era collocato nella parte nord-occidentale della città e le iscrizioni rinvenute sui sedili per gli spettatori sembrano datare la struttura alla fine del I d.C. oppure all’inizio del secolo successivo35. Sfortunatamente, lo stadio non può essere scavato estensivamente e dunque non siamo in grado di costatare se la struttura sia mai stata modificata al fine di rendere possibili in quella sede gli spettacoli tipici dell’anfiteatro. Probabilmente, i migliori esempi di questo tipo di modifiche strutturali sono testimoniati nello stadio di Aphrodisias dove, nella porzione orientale della struttura, alla fine del IV o all’inizio del V sec. d.C. fu creata una vera e propria arena36. Il teatro della stessa Aphrodisias, invece, era stato adattato ad ospitare tali spettacoli già dal II d.C.: allo stesso modo, il grande teatro di Alicarnasso, costruito in età classica e modificato e riorganizzato in forme monumentali in età ellenistica, fu convertito strutturalmente ad ospitare i giochi gladiatori e le venationes, in un momento non precisabile della prima età imperiale37. A questi dati, negli ultimi anni, si sono aggiunte alcune nuove prove di questo tipo di attività ad Alicarnasso. Si tratta di tre rilievi conservati al museo di Archeologia Subacquea di Bodrum, due dei quali sono stati recentemente editi da chi scrive38. Uno è un piccolo frammento di marmo bianco che fu riutilizzato come elemento da costruzione nelle murature della cosiddetta “torre della scure” (Fig. 2). Essa conserva i fianchi e le gambe di un gladiatore che reggeva uno scudo di forma oblunga sul suo braccio sinistro e nella mano destra brandiva una spada. Il secondo rilievo è stato rinvenuto più recentemente all’interno     30   31   32   33   34   35   36   37   38   28 29

CIG, 6855f; Robert 1940, pp. 188-189 (n. 184); Carlsen 2014, pp. 442-445. Coleman 2000, p. 495. Riguardo le donnne gladiatrici si veda Coleman 2006, pp. 69-87. Clarke 2003, pp. 145-152; Carlsen 2014, p. 445; Flecker 2015, pp. 205-209. Hrychuk Kontokosta 2008, pp. 219-227. Grossschmidt 2000, pp. 83-88. Ritti, Yilmaz 1998 pp. 445-486; Ritti 2011, p. 180. Berkaya, Isager, Pedersen 2008. Welch 1998. Carlsen 2014, p. 445, con bibliografia precedente. Carlsen 2014, pp. 446-448, figs. 3-5.

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Fig. 2. Rilievo attualmente conservato al Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum (fotografia di B. Poulsen).

di una delle necropoli orientali fuori Porta Mylasa (Fig. 3). Tale rilievo è inciso in un marmo bluastro e nella porzione superiore presenta una cavità per il fissaggio di altre parti del monumento, mentre la parte posteriore è solo rozzamente sbozzata a scalpello. Vi si notano, a sinistra, la porzione destra di uno scudo tondeggiante, a destra, un elmo chiuso con solo i fori per gli occhi, mentre nella porzione superiore, una spada e una lancia. A destra, si nota anche la parte iniziale di altri elementi a rilievo, che attestano che la sequenza di armi era più lunga, almeno su questo lato. Lo scudo tondo, la lancia e l’elmo di forma chiusa indicano il tipico armamentario dell’hoplomachus; il luogo di rinvenimento fa fortemente pensare che questo rilievo facesse parte di un monumento funerario. Il terzo recente rinvenimento è anch’esso di origine funeraria e illustra un retiarius di nome Kallimoros, che si può tradurre come “il bellissimo”39 (Fig. 4). Il patrimonio epigrafico ed archeologico che è giunto sino a noi dall’antica Alicarnasso dimostra dunque la popolarità degli spettacoli gladiatori in città, nonché la loro grande importanza; probabilmente essi potevano avere luogo sia nel teatro che nello stadio cittadini. Abbiamo infatti menzione delle più diffuse categorie di combattenti in età imperiale: hoplomachus, murmillio, provocator, retiarius, secutor e thraex. Sfortunatamente le iscrizioni non contengono informazioni sulle familiae gladiatoriae o su chi possedesse tali atleti di condizione servile e dirigesse le relative scuole, con l’eccezione dell’altrimenti ignoto Asiaticos. Tuttavia, il materiale epigrafico restituitoci dai centri di Aphrodisias e Hierapolis conferma che tali familiae vantavano gladiatori, uomini specializzati nelle cacce alle bestie   Bru, Lafli 2014, p. 273, n. 7. Sono grato a Signe Isager per la fotografia e il suggerimento bibliografico all’articolo di Bru e Lafli. 39

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Fig. 3. Rilievo attualmente conservato al Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum (fotografia di B. Poulsen).

feroci e criminali condannati alla pena capitale; il tutto, con la diretta partecipazione dei sacerdoti più importanti legati al culto imperiale40. È possibile che lo stesso avvenisse ad Alicarnasso, nonostante la scarsezza di prove relative al culto dell’imperatore e a grandi feste comunitarie in questa località, nel primo impero. Non è da escludere che la ben attestata corsa all’emulazione e l’orgoglio nel primeggiare – anche in quanto a magnificenza degli spettacoli – fra le varie città della provincia siano la causa del ritrovamento di un relativamente alto e diffuso numero di monumenti concernenti gladiatori in quest’area. Il quadro si presenta invece profondamente diverso nelle province romane dell’Africa settentrionale, dove sono molti i mosaici, i rilievi e le sculture che fanno esplicito riferimento agli spettacoli del teatro, del circo e dell’anfiteatro41. Renate Lafer ha recentemente analizzato in un breve articolo 192 iscrizioni dall’Africa Proconsularis e dalla Numidia, confrontando la distribuzione dei vari spettacoli. I ludi scaenici sono quelli più frequentemente menzionati nelle iscrizioni e gli spettacoli teatrali erano frequentemente connessi con feste pubbliche. Essi appaiono in quasi la metà delle iscrizioni considerate, mente i giochi atletici occupano un altro quarto del totale. I giochi gladiatori, assieme alle venationes, sono citati solamente nel 15% delle epigrafi, alcune derivanti dagli anfiteatri stessi, e la grande maggioranza fa riferimento alle cacce42. Questi spettacoli erano promossi soprattutto da sacerdoti, flamines perpetui, e magistrati cui, frequentemente, veniva conseguentemente conferito   Rouché 1993, pp. 61-64; Hrychuk Kontokosta 2008, pp. 219-227.   Per i mosaici con scene anfiteatrali e circersi, si veda: Dunbabin 1978, pp. 65-108. 42   Lafer 2009. 40 41

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Fig. 4. Rilievo attualmente conservato al Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum (fotografia di B. Poulsen).

il titolo di munerarius43. La maggioranza delle iscrizioni, così come molti mosaici, commemora e fa esplicito riferimento ad un evento preciso e Tertulliano, nella sua critica cristiana agli spettacoli, sottolinea fortemente le motivazioni personalistiche di colui che decideva di organizzare uno spettacolo, l’ambizione politica in primo luogo44. La distribuzione delle varie menzioni di spettacoli nelle epigrafi suggerisce che, nonostante molte città dell’Africa romana fossero dotate di anfiteatri, in ogni caso, l’élite locale preferiva finanziare i ludi scaenici e le competizioni atletiche, decisamente meno costose, al contrario di quanto invece non avvenisse in Asia Minore e Caria. Conclusioni Questo breve articolo ha dimostrato che non si possono trarre semplicistiche conclusioni per quel che riguarda non solo la distribuzione delle varie tipologie di edifici per spettacoli fra Asia Minore/ Caria e Africa romana, ma anche per quel che riguarda l’attitudine verso tali spettacoli dimostrata dal patrimonio epigrafico. È dunque necessario fare tesoro di tutte le possibili fonti – sia archeologiche che letterarie – se vogliamo cercare di affrontare un tema complesso come l’importanza che i combattimenti gladiatori assunsero nelle varie regioni dell’Impero Romano. Il rischio, difatti, considerando solo parzialmente tali risorse, è quello di giungere a conclusioni che si fondano su basi poco solide, arrivando in questo modo a sottostimare la popolarità dei combattimenti gladiatori e delle cacce agli animali esotici nella porzione orientale dell’Impero e, al contrario, di sovrastimarla per l’Africa romana.   Ville 1981, pp. 186-187; Carlsen 1993, p. 149.  Tert., Spec. 12, 5.

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LA “CRISI” TARDOANTICA NELLE CITTÀ ROMANE DELLA VIII REGIO *

Pier Luigi Dall’Aglio Paolo Storchi

1.  Le fonti letterarie Il vescovo milanese Ambrogio, in una lettera scritta a Faustino per consolarlo per la morte della sorella, dice: Verum hoc [la morte] nobis commune non solum cum hominibus, sed etiam cum civitatibus, terrisque ipsis est. Nempe de Bononiensis veniens urbe a tergo Claternam, ipsam Bononiam, Mutinam, Rhegium derelinquebas, in dextera erat Brixillum, a fronte occurebat Placentia, veterem nobilitatem ipso adhuc nomine sonans, ad laevam Apennini inculta miseratus, et florentissimorum quondam populorum castella considerabas, atque affectu relegabas dolenti. Tot igitur semirutarum urbium cadavera, terrarumque sub eodem conspectu exposita funera non te admonet unius sanctae licet et admirabilis feminae decessionem consolabiliorem habendam1.

Abbiamo voluto riportare per intero il brano di Ambrogio, perché esso è stato assunto fino a qualche tempo fa come elemento base per ricostruire la situazione ambientale della nostra regione, e, più in generale, di tutta la Padania, in età tardoantica. Il quadro delineato sulla base delle parole di Ambrogio era un quadro di desolazione, fatto di città divenute pallide ombre di se stesse, ridotte com’erano a cumuli di rovine, e circondate da un territorio che, un tempo densamente popolato, era ora abbandonato e preda dell’incolto. Si tratta di una visione negativa, che presuppone una contrapposizione tra un paesaggio dominato da un degrado che è sia “politico” che ambientale e un paesaggio formato da città fiorenti e da un territorio intensamente coltivato quale doveva essere quello della prima età imperiale. È un’interpretazione, questa, perfettamente in linea con la visione del Medioevo come un periodo buio, di ritorno alla barbarie, che ha per lungo tempo dominato nella nostra cultura. Questa visione *  Pur nella sua unitarietà, i paragrafi 1, 4 e 5 si devono a Pier Luigi Dall’Aglio, i paragrafi 2 e 3 a Paolo Storchi. Le Conclusioni (par. 6) sono comuni.

 Ambr., Ep. I, 39.

1

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negativa dell’età tardoantica e altomedioevale ha resistito, d’altra parte, anche alla rilettura del Medioevo e al recupero della cultura medievale, per cui i secoli che grosso modo vanno dal IV al IX hanno continuato ad essere considerati come una fase di passaggio, in cui i valori culturali di età romana erano stati come annullati dalle ondate di popolazioni barbariche scese in Italia. Tale lettura è stata ormai da diverso tempo rimessa in discussione, arrivando addirittura a negare che ci sia stata una crisi, preferendo insistere su di un’idea di trasformazione, di continuità pur nel cambiamento e a vedere le c.d. “invasioni barbariche” non come un qualcosa di traumatico e violento, ma come un inserimento sostanzialmente pacifico di queste nuove genti nel mondo romano2. La lettera di Ambrogio è stata quindi ripresa in esame, prescindendo da più o meno aprioristiche ricostruzioni e da preconcetti storiografici, giungendo a mettere in evidenza diversi elementi che effettivamente molto tolgono alla sua carica drammatica e alla sua attendibilità. Innanzi tutto è stato evidenziato3 come il brano di Ambrogio sia inserito in una lettera consolatoria destinata a confortare Faustino per la morte della sorella. La drammaticità delle immagini e le tinte cupe sono perciò funzionali a tale scopo e rientrano negli stilemi propri delle consolationes. L’immagine centrale attorno a cui ruota l’intera lettera e sulla quale si basa la ricostruzione del tardoantico come un periodo di degrado e rovina – il semirutarum urbium cadavera – serve dunque a meglio raggiungere lo scopo che Ambrogio si prefigge, vale a dire presentare la morte come un evento naturale e inevitabile, al quale neppure le città, che di per sé sembrano essere immortali, possono sfuggire. A questa prima osservazione, va poi aggiunto che il brano ambrosiano non è un qualcosa di originale, bensì un calco letterario che si ispira al testo della lettera scritta a Cicerone da Servius Sulpicius Rufus per consolarlo per la morte della figlia Tullia: «Ex Asia rediens cum ab Aeginam Megaram versus navigarem, coepi regiones circumcirca prospicere: post me erat Aegina, ante me Megara, dextra Piraeeus, sinistra Corinthus, quae oppida quodam tempore fiorentissima fuerunt, nine prostrata et diruta ante oculos icacent»4. Come si vede il contesto e l’immagine sono i medesimi: in entrambi i casi abbiamo un viaggio – Sulpicio Rufo sta tornando dall’Asia Minore a Roma per mare, mentre Ambrogio sta rientrando a Milano lungo la via Emilia – e delle città – quelle della Grecia in Sulpicio Rufo, quelle emiliane in Ambrogio – un tempo fiorenti, ma ora in abbandono. Il concetto e la struttura del brano sono dunque i medesimi, così come identica è la finalità: dimostrare l’ineluttabilità della morte e quindi spingere verso la rassegnazione e l’accettazione, sentimenti questi che in Ambrogio si arricchiscono della concezione cristiana della morte come il passaggio ad un’altra e più perfetta vita in attesa della resurrezione. È a questo punto evidente come il brano ambrosiano perda buona parte del suo valore documentario e non possa essere preso come una sorta di fotografia della situazione di abbandono e degrado in cui versavano le città della nostra regione e, più in generale, dell’Italia. Se questo è vero, è altrettanto vero che non possiamo neppure non tenerne assolutamente conto, considerandolo come una mera invenzione o un semplice esercizio letterario. Ambrogio e, prima di lui, Sulpicio Rufo, avevano un obiettivo concreto: consolare una persona amica per la morte di un congiunto. L’immagine a cui essi ricorrono, vale a dire che anche le città come tutte le cose terrene sono destinate a morire, per ottenere l’effetto desiderato, deve in qualche modo essere credibile e condivisibile e questo ancor di più nel caso di Ambrogio, la cui lettera non è in realtà diretta al solo Faustino, ma a tutta la comunità cristiana. Ciò, in definitiva, significa che l’immagine che viene proposta deve essere un’immagine diffusa all’interno della cultura del tempo. In altri termini, l’idea che le città della Grecia non fossero più così fiorenti come un tempo doveva essere ben presente nella cultura della seconda metà del I sec. a.C. e quindi si trattava di un messaggio che Cicerone poteva comprendere e fare proprio. Altrettanto, però, doveva avvenire tra Ambrogio e Faustino: il semirutarum urbium cadavera enfatizzava e drammatizzava quella che comun  Per un quadro critico complessivo sulle nuove letture che sono state date a questo periodo si veda Ward-Perkins 2010. 3   Février 1986. 4  Cic., Ad Fam. IV, 5. 2

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que da Ambrogio e dalle persone colte del tempo veniva avvertita come una situazione qualitativamente peggiore rispetto ai secoli precedenti5. Ambrogio, come ha puntualizzato Domenico Vera, esprime qui «il rimpianto per un modello classico di città, ai suoi tempi modificato urbanisticamente e ancor più decaduto nella quotidianità per la presenza di truppe (spesso ariane) e per il peso delle imposizioni statali»6, un’idea diffusa e che non aveva bisogno di una testimonianza oculare, come dimostra la citazione di Brescello, che Ambrogio non poteva toccare nel suo viaggio verso Milano7. Che in effetti in età tardoantica il concetto espresso da Ambrogio fosse diffuso e accettato è in una certa misura dimostrato dai versi che all’inizio del V secolo Rutilio Namaziano, nel suo poemetto odeporico, dedica a Populonia, «Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris: / grandia consumpsit moenia tempus edax; / sola manent interceptis vestigia muris, / ruderibus latis tecta sepulta iacent», versi che si chiudono con un distico che riprende e riassume il concetto centrale espresso da Sulpicio Rufo e Ambrogio, e cioè che anche le città sono destinate a morire: «Non indignemur mortalia corpora solvi: / cernimus exemplis oppida posse mori»8. Se Rutilio Namaziano riprende in modo esplicito l’affermazione che Ambrogio aveva a sua volta preso da Sulpicio Rufo, vi sono altri autori che ci consentono di vedere come comunque l’idea di un generale peggioramento delle condizioni delle città dell’Italia settentrionale permeasse la cultura del tempo e dovesse quindi corrispondere, almeno in parte, ad un’effettiva realtà. Ad esempio Ennodio nel Dictio in natali Laurenti Mediolanensis episcopi così descrive Milano: Cum ex alto benignis oculis caelestis dominator aspexit, Mediolanensium urbi lux est proprii reddita sacerdotis. Tunc cum rarus habitator, tunc cum error in domibus et per dulcia cubiculorum limina confusa discursio, tunc cum ubique pavor et luctus et dei templa in ferarum habitatione deputata sordebant, cum marcens incuria splendidissima dudum atria situ vetusti umoris obnueberat. … brevi post in antiquum statum, qui tibi [= Lorenzo] post deum debetur, urbs iam sepulta revelavit et quae non credebat in se reparari posse quod fuerat coepit ima meliora aemulari.

Sempre Ennodio nel panegirico di Teodorico dice che il re ha restituito alle città, ormai ridotte in cenere, il loro originario splendore9. Ancora più importanti perché non influenzate da stilemi letterari che impongono esagerazioni ed enfatizzazioni, come avviene nel caso di Ennodio, sono altri passi, come, ad esempio, la lettera scritta da Girolamo attorno al 370, dove Vercelli viene definita «olim potens, nunc raro est habitatore semiruta»10, o i numerosi riferimenti alle condizioni delle città italiane presenti nelle Variae di Cassiodoro, testo che, raccogliendo provvedimenti presi da Teodorico e dai suoi successori, riflette più direttamente la realtà rispetto ad altri componimenti11. In questa raccolta troviamo tutta una serie di disposizioni, soprattutto di Teodorico, volte a ripristinare l’antico splendore delle città italiane mediante interventi di restauro di edifici pubblici caduti in rovina o di risistemazione delle infrastrutture, con spesso l’ordine di utilizzare i materiali da costruzione che giacevano nei campi o, addirittura, all’interno delle città stesse. Tali interventi riguardano sostanzialmente tutta l’Italia12, a testimonianza di un degrado generalizzato e non limitato solo ad alcune aree. Neppure Roma doveva   Ciò anche se il concetto di “inclinatio”, cioè di declino, accompagna tutta la cultura tardoantica: Mazzarino 1995, pp. 33-44. 6   Vera 2009, p. 295. 7   Neri 2005, p. 689. 8   Rut. Nam., I, 409-414. 9  «Video insperatum decorem urbium cineribus evenisse, et sub civilitatis plenitudine palatina ubique tecta rutilare»: Ennod., Pan. Theod. Regis XI. 10   Epistulae secundum ordinem temporum distributae I. 11   La Rocca 2010. 12   Ci si limita qui a richiamare, a mo’ d’esempio, la concessione fatta ai Catanesi di restaurare le mura riutilizzando i blocchi caduti dall’anfiteatro (Cassiod., Var. III, 49) o, per tornare nella nostra regione, il ripristino della rete fognaria a Parma (Cassiod., Var. VIII, 29 e 30). 5

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sottrarsi a tale situazione: lo attestano le diverse Variae relative a interventi di restauro e risistemazione condotti direttamente dal re o lasciati a dei privati13, così come quella che impone di trasportare a Ravenna i marmi abbandonati della Domus Pinciana14. Non è questa la sola rubrica relativa al trasporto di marmi provenienti da edifici abbandonati a Ravenna: una richiesta analoga viene rivolta anche alle comunità di Aestunae (III, 9) e a quella di Faventia (V, 8). Ovviamente queste rubriche, così come quella relativa all’invio di marmorari da Roma a Ravenna (I, 6), sono tutte legate alla monumentalizzazione di questa città in età teodoriciana, dovuta alla sua funzione di capitale del regno goto, funzione che fa di Ravenna un’eccezione all’interno del quadro che abbiamo sin qui delineato e che evidentemente interessa le città da cui provengono i materiali reimpiegati nella nuova capitale, compreso, come si è detto, la stessa Roma. 2.  L’archeologia Se dunque si eccettua Ravenna, le fonti letterarie ci mostrano una situazione delle città che corrisponde nella sostanza, se non nella lettera, a quella tramandataci dal brano ambrosiano da cui siamo partiti. L’archeologia conferma a sua volta come non sia possibile non parlare di un profondo cambiamento nella struttura e nella forma delle città. Se prendiamo le città emiliane, vale a dire quelle citate nella lettera di Ambrogio, e, più genericamente, i centri urbani della VIII regione augustea, l’archeologia ci restituisce alcuni marker particolarmente significativi che non possono essere ignorati. Innanzi tutto abbiamo una generale contrazione dell’area della città, che va necessariamente legata a quel calo demografico che le fonti letterarie ci fanno intravvedere e che è verosimilmente provocato dalle mutate condizioni economiche. A Parma, ad esempio, la città tardoantica corrisponde all’area della città di età repubblicana, mentre tutta l’area suburbana viene abbandonata e utilizzata come cava di prestito o come area cimiteriale. Tale differente “destinazione d’uso” è dimostrata dai frequenti ritrovamenti di fosse di spoliazione e di sepolture tardoantiche che insistono sopra livelli di abitazioni di I-II sec. d.C.15. Un forte restringimento è attestato anche a Bologna, dove la cinta in selenite, più volte rinvenuta archeologicamente e che, pur con qualche discussione16, sembra essere già eretta nel 410 d.C., quando Alarico assediò la città, lascia indifesi quasi due terzi della Bononia di età imperiale (Fig. 1), la cosiddetta civitas antiqua rupta delle fonti medievali17. A Reggio Emilia abbiamo, oltre all’archeologia, i documenti medievali ad attestarci la contrazione dell’area urbana. Nel IX secolo, il monastero di San Tommaso, situato immediatamente ad est di quello che era il cardine massimo della città romana, viene detto essere collocato «foris muros civitatis Regio, non longe ab ipsa civitate»18. Questa citazione, unita ai ritrovamenti archeologici, mostra dunque come in età tardoantica fosse rimasto vitale solo il settore occidentale della città, non a caso quello direttamente legato, attraverso un asse che tagliava obliquamente le maglie centuriali, al porto di Brixellum, che occupava un ruolo chiave all’interno del nuovo sistema itinerario incentrato sul Po19. Il restringimento delle città è dimostrato anche dall’andamento delle cinte murarie ricostruite o costruite ex-novo alla fine del III secolo quando, nel 270, si ha quella che può essere considerata la prima invasione “barbarica” in Italia, vale a dire la discesa di Iutungi e Alamanni. Queste popolazioni in un primo tempo infliggono una dura sconfitta all’imperatore Aureliano a Piacenza20, ma sono poi   Cfr., ad esempio, Var. III, 29 e 30; IV, 30.   Var. III, 10. 15   Catarsi 2009. 16   Gelichi 2005 e Neri 2005, pp. 698-699 con bibliografia precedente. Le datazioni proposte vanno dal IV fino al VII sec. d.C. 17  Cfr. Neri 2005, pp. 697 ss. 18  Cfr. Catarsi 1993, p. 29. 19   Franceschelli, Dall’Aglio 2014. 20   Flav. Vop., Vita Divi Aureliani XXI. 13 14

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Fig. 1. Bologna romana con l’indicazione della cinta di selenite.

definitivamente vinte dallo stesso Aureliano prima sul Metauro, presso Fano, e successivamente a Pavia21. Questi avvenimenti hanno come conseguenza diretta che le città si cingono di mura che hanno una funzione esclusivamente ed essenzialmente difensiva22. Proprio tale esigenza fa sì che, a volte, il circuito murario venga modificato, in modo da inglobare edifici preesistenti a scopo di difesa. È quello che avviene, ad esempio, a Rimini, dove l’andamento delle mura viene modificato in modo da integrare l’anfiteatro nel nuovo sistema difensivo23 (Fig. 2), in modo del tutto analogo a quanto avviene a Roma per l’anfiteatro castrense24. A Parma, invece, le mura tardoantiche riprendono puntualmente l’andamento delle mura repubblicane e il teatro, che sorgeva nel settore meridionale, a non molta distanza dalla cortina muraria, viene demolito, in modo da evitare che potesse servire come fortezza per eventuali attaccanti, e i materiali sono riutilizzati per costruire appunto le nuove mura. La contrazione della città, a cui si è già accennato, lascia invece fuori e lontano dal nuovo perimetro murario l’anfiteatro, posto all’estremità orientale dell’area suburbana ormai abbandonata (Fig. 3). Esso resta quindi isolato e il settore compreso tra questo e le mura finisce per trasformarsi in un’area cimiteriale25, così come si ricava non solo dall’archeologia, ma anche da Agazia. Lo storico bizantino26 narra che Narsete, alla   Aur. Vict., Epit. XXXV, 2.   Il legame tra costruzione o risistemazione delle mura è particolarmente evidente a Pesaro, dove abbiamo due epigrafi onorarie dedicate ad Aureliano, dove si ricorda un certo Caius Iulius Priscianus che fu curator di Pesaro e Fano e praepositus muris delle due città (CIL, XI, 6308, 6309) e questa è l’unica citazione di una tale carica. 23   Mansuelli 1941. 24   Iacobone 2016, p. 19. 25   Catarsi 2009. 26   Agath., I, 14-15. 21 22

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Fig. 2. Pianta schematica di Ariminum (da Curina 2016).

Fig. 3. Il “centro storico” di Parma romana con l’ubicazione di teatro e anfiteatro.

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Fig. 4. Pianta di Regium Lepidi con l’indicazione della cinta muraria tardoantica.

notizia che Leutari, sceso in Italia su invito dei Goti dopo la loro sconfitta ad opera dei Bizantini, aveva occupato Parma, gli inviò contro un contingente di Eruli guidati da Fulcari. Leutari, appena seppe dell’avanzata di Fulcari, fece nascondere, sempre secondo quanto riferisce Agazia, parte dei suoi soldati nell’anfiteatro. Gli Eruli non si accorsero dell’imboscata e marciarono direttamente contro la città. Giunti sotto le mura, i soldati di Leutari nascosti nell’anfiteatro uscirono allo scoperto attaccando gli Eruli alle spalle. Fulcari combattè valorosamente e, dopo aver perso tutta la sua guardia del corpo, morì, narra Agazia, con le spalle appoggiate ad una tomba. L’utilizzo dell’anfiteatro per tendere l’imboscata agli Eruli, il fatto che la battaglia avvenga nello spazio compreso tra l’anfiteatro e le mura e la morte di Fulcari appoggiato ad una tomba confermano chiaramente le indicazioni dell’archeologia e cioè che come tutto questo settore che nei primi secoli dell’impero era intensamente insediato sia, all’epoca delle vicende narrate da Agazia, il 552, del tutto abbandonato e trasformato in area cimiteriale27. La ricerca di sicurezza porta poi a cercare di sfruttare il più possibile anche la geografia fisica. Così, ad esempio, a Bologna il lato orientale delle mura si appoggia al torrente Aposa, mentre lungo il lato occidentale doveva probabilmente scorrere o un ramo secondario o un canale tratto da questo fiume28. A Reggio (Fig. 4), invece, il lato occidentale e parte di quello meridionale della città erano difesi da un’ampia ansa del torrente Crostolo, il cui paleoalveo tardoantico e medievale corrisponde all’attuale Corso Garibaldi29, mentre quello orientale da un canale che probabilmente si diramava dal Crostolo e correva, già in età imperiale, parallelo al cardine massimo, poche decine di metri ad est, come di  Sul brano di Agazia e sulla sua interpretazione storico-topografica si rimanda a Dall’Aglio 1989.   Si vedano Dall’Aglio 1996; Bracci, Cremonini 2010 e Negrelli 2013, con bibliografia precedente. 29   Storchi 2015, p. 206; Cremaschi, Storchi, Perego c.s. 27 28

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Fig. 5. Pianta di Piacenza in età romana.

mostrato dal rinvenimento di un ponte in opus caementicium nel punto in cui esso incontrava la via Aemilia30. Non si può poi escludere che anche sul lato settentrionale le mura si appoggiassero al Crostolo31, dato che alcune considerazioni di carattere geomorfologico sembrano suggerire che il fiume subisse qui una brusca deviazione verso est, in un’area tutt’oggi caratterizzata da un disegno irregolare e da un deflusso delle acque che sembra convergere verso questo supposto alveo32. Qui negli anni ’60 del Novecento si rinvenne un muro in sesquipedali della consistente larghezza di 2,70 m, che mostra stretti confronti con le mura repubblicane di Ravenna e Piacenza33. Potremmo quindi essere di fronte ad un tratto della mura repubblicane di Regium Lepidi34, che, come avviene a Parma, potrebbero essere state riprese in età tardoantica, in modo da sfruttare l’incisone del fiume a mo’ di vallum. L’esigenza di sfruttare la geografia fisica per aumentare il grado di sicurezza della città, è alla base di quanto avviene a Piacenza (Fig. 5), dove le mura repubblicane vengono risistemate e riattate per tutto il tardoantico e l’altomedioevo35, senza però che via sia alcuna modificazione per quanto riguarda il loro tracciato, che dunque continua ad inglobare un’area decisamente ampia36. Apparentemente, quindi, Piacenza non avrebbe subito alcuna riduzione e costituirebbe un’evidente eccezione all’interno del panorama che   Pellegrini 1995, p. 156.   Lippolis 2000, p. 415. 32   Lippolis 2000 e Storchi 2015. 33   Lippolis 2000, p. 415. 34   Queste mura sarebbero in buona parte crollate in seguito ad un terremoto: Iul. Obs., 54: «Circa Regium terrae motu pars urbis murique diruta». Su questa fonte si veda anche Cassone 1998. 35   Marini Calvani 1992, pp. 324-325. 36   Sulla situazione piacentina si veda: Dall’Aglio et alii 2012, pp. 80-86. 30 31

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Fig. 6. Immagine della Muntà di Rat che ben evidenzia il dislivello tra il ripiano su cui sorse la città romana e la pianura circostante (da Pagliani 1991).

abbiamo fin qui presentato. In realtà, tutte le chiese più antiche di Piacenza si distribuiscono nel settore orientale della città, da dove per altro provengono la maggior parte delle testimonianze di capanne altomedievali, mentre in quello occidentale si concentrano i grandi monasteri del primo medioevo. È dunque evidente che mentre il settore orientale continua a vivere in età tardoantica, quello occidentale viene abbandonato. Anche a Piacenza vi è quindi un restringimento della città, ma, a differenza degli altri centri urbani emiliani, il perimetro della cinta muraria non subisce alcuna riduzione37. Ciò avviene perché Placentia venne fondata su di un ripiano corrispondente ad un antico lobo di meandro, che si eleva di una decina di metri sulla pianura circostante (Fig. 6) e le mura, fin dalla nascita della città, vennero impostate sul bordo della scarpata che delimita questo pianoro38. Andare a restringere il circuito murario avrebbe da un lato consentito ad una popolazione che in età tardoantica non doveva essere particolarmente numerosa di meglio difendere la città, ma dall’altro avrebbe significato perdere il non piccolo vantaggio dato dall’altezza della scarpata39. Anche la vita all’interno delle città cambia in modo decisivo. Durante l’età imperiale anche nella Regio VIII il modello abitativo era imperniato sulla domus monofamiliare a sviluppo generalmente estensivo40. In tutta la regione si registra al proposito una situazione piuttosto omogenea e livellata su standard qualitativi elevati, testimoniati in particolare dalla grande quantità e qualità dei pavimenti musivi rinvenuti41. Nel complesso si ha un’edilizia dinamica e vivace, che dal I sec. a.C. arriva fino all’età degli     39   40   41   1999. 37 38

Dall’Aglio 1996. Dall’Aglio et alii 2009. Dall’Aglio 1996. Mansuelli 1971 ripreso da Ortalli 2003, p. 96. Straordinario per qualità e quantità dei rinvenimenti è ad esempio il caso di Regium Lepidi, Scagliarini, Venturi

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Antonini e dei Severi42, con un’espansione dell’area urbana che va al di là di quelli che erano i suoi limiti originari. A partire dalla metà del III secolo la situazione comincia però a modificarsi43. Così, ad esempio, le antiche ricche domus vengono sempre più spesso restaurate con materiali poveri: emblematico il caso della domus rinvenuta presso il Teatro Galli, a Rimini, dove le lacune di un mosaico furono colmate con un sottile strato di argilla battuta44. Più in generale, è sufficiente considerare come in tutta la regione la grande maggioranza dei tessellati siano databili fra il I a.C. ed il II d.C., un numero molto limitato di pavimentazioni si datino al III secolo e, almeno in Emilia, solo Mutina e Regium restituiscono considerevoli esempi di mosaici e sectilia di IV sec. d.C.45. In effetti questo secolo presenta segni di rinnovata vitalità, testimoniata anche da alcuni restauri del manto stradale della via Emilia e di arterie ad essa collegate, ma si tratta di una ripresa in toni minori rispetto a quanto avviene in altre aree dell’Italia settentrionale, come a Milano, Brescia o Aquileia, che vedono la costruzione di grandi granai pubblici e impianti termali46. Si può pertanto continuare a parlare di una generalizzata fase di inerzia edificatoria, riflesso delle difficoltà economiche e politiche. Sono tuttavia anche altri i sintomi delle mutate condizioni e di un differente modo di concepire la città. Segni di incendio, forse alcuni riconducibili proprio all’invasione di Alamanni e Iutungi47, sono stati riscontrati archeologicamente a più riprese in varie città emiliane48, ma a queste devastazioni e ai relativi crolli e demolizioni non segue alcuna ricostruzione e ampie aree, un tempo anche di pregio, rimasero inedificate49. I raffinati spazi abitativi e di rappresentanza vengono frequentemente riconvertiti in forma utilitaristica: nella pur fiorente Ravenna, un cambiamento di mentalità generale si percepisce, per esempio, nella domus di via d’Azeglio, dove fauces e vestibolo mosaicati vengono utilizzati per il ricovero dei carri, come testimoniato dai profondi solchi lasciati dalle loro ruote sui mosaici. A Parma, a palazzo Sanvitale50, in pieno centro città, una fornace si impianta su pavimenti mosaicati, così come per altro accade in alcuni casi faentini51. A Bologna, presso via Testoni, nel IV secolo, una raffinata stanza decorata viene rifoderata con assi di legno ed utilizzata come granaio. Perfino i grandi ambienti di rappresentanza vengono divisi con tramezzi in materiali deperibili e subiscono superfetazioni. Focolari a fiamma libera, accesi anche su pavimentazioni di pregio, sono nella norma52. I grandi peristili, invece, perdono spesso la loro funzione di giardino, di luoghi di piacere e si trasformano in spazi coltivati: presso Palazzo Massani, a Rimini, si giunse addirittura al punto di demolire un’intera domus e a ricoprirla con un riporto di terreno proprio al fine di rendere il suolo coltivabile53. Inizia così quel processo di penetrazione della campagna in città che cesserà solo in età comunale, quando la città tornerà progressivamente a riappropriarsi dei propri spazi. Poco alla volta, poi, l’edilizia in pietra e mattoni lascia il posto a quella basata sul legno. Si tratta di un modo di costruzione legato certamente alle tradizioni dei popoli germanici appena stabilitisi nei nostri territori e favorito dall’essere il legno una materia prima più economica, dato che l’abbandono delle campagne determina il ricostituirsi di ampie zone boscate, che arrivano fin nei pressi delle città,   Ortalli 2003, p. 97.   Riguardo la situazione dell’edilizia abitativa in regione in questo periodo si rimanda a Ortalli 2003. 44   Ortalli 2003, p. 98 e fig. 3. 45   Ortalli 2003, p. 98. 46   Su questi esempi si veda Cantino Wataghin 1996, pp. 243-244, con bibliografia precedente. 47   Ortalli 1992, in partic. pp. 569 e ss. 48   Casi particolarmente significativi sono quelli riscontrati a Parma, Claterna, Forlimpopoli, Sarsina, Ravenna e Rimini, vedi: Marini Calvani 1992, p. 321; Ortalli 1992, pp. 557-605; Cantino Wataghin 1996, p. 241; Ortalli 2003, p. 99. 49   Si pensi alle domus di Palazzo Diotallevi e di Piazza Ferrari: vedi Maioli 2000, p. 509. 50   Marini Calvani 1992, p. 322. 51   Guarnieri 2000, p. 474. 52   Su tutti questi e altri esempi si vedano Ortalli 1992 e 2003. 53   Ortalli 2001, p. 28. 42 43

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ma, allo stesso tempo, è anche una scelta di tipo culturale, che dimostra il radicale cambiamento di mentalità di una società non più interessata a costruire aere perennius o alla ricerca della venustas in ogni singolo dettaglio architettonico e che accetta un radicale cambiamento nel concetto stesso e nella struttura della propria abitazione. Alla “domus” si preferisce ora la “casa”, termine che in latino indicava la “capanna”, la “piccola fattoria”54, e che si tratti di un cambiamento radicale lo dimostra il fatto che è questo il termine che passa non solo nell’Italiano, ma anche nelle altre lingue neolatine, ad eccezione del Francese55, ad indicare le nostre abitazioni. Al di là di questi specifici fenomeni, l’archeologia ci mostra un altro forte elemento di cambiamento ben più importante, in un certo senso, di quelli di cui ci siamo fin qui occupati, perché legato al venir meno di un rigoroso governo della città. Ci riferiamo all’occupazione e alle trasformazioni d’uso degli spazi pubblici, in primo luogo della piazza forense e delle strade, che il sempre meno forte potere politico locale non riesce ad impedire. Tralasciando per il momento il foro che, come vedremo, avendo perso la sua funzione di centro politico della comunità, si trasformerà spesso in una più o meno ampia area cimiteriale, sono numerosi i casi in cui le strade sono in parte occupate da nuove strutture o non ne vengano del tutto cancellate. Così, ad esempio, a Regium Lepidi la strada oggi ripresa da via Sessi è in parte occupata da strutture realizzate in materiali deperibili56. A volte sono invece le grandi domus, che ancora in qualche caso vengono realizzate, che occupano questi spazi pubblici, come avviene a Rimini, dove la domus di via San Sigismondo cancellò il precedente ambitus che correva a metà isolato, oppure a Ravenna, dove la già ricordata domus di via d’Azeglio occupò una strada basolata che divideva due isolati cittadini57. Il fatto che siano delle grandi domus che vengono a cancellare, impossessandosene, degli spazi pubblici per eccellenza come sono le strade, andando così a modificare anche il sistema di circolazione all’interno del centro urbano, è particolarmente interessante perché rispecchia un profondo cambiamento all’interno degli equilibri sociali e politici della città. La diversa distribuzione della ricchezza, che tende a concentrarsi sempre di più in poche mani, il progressivo venir meno di un potere centrale forte sono tutti elementi che modificano la composizione delle stesse élite di governo con la preminenza di alcune famiglie o di alcuni personaggi, che, grazie a questo loro ruolo, possono andare impunemente ad appropriarsi di spazi pubblici e a modificare il disegno della città. A Ravenna questa situazione è ulteriormente incentivata dal suo essere capitale, con la conseguente presenza in città di un’aristocrazia direttamente legata al centro del potere. 3.  La cristianizzazione delle città Come si vede, molteplici sono i cambiamenti che le mutate condizioni economiche e politiche determinano nel tessuto urbano. A questi vanno aggiunti quelli indotti dalla cristianizzazione, che porta alla nascita e al consolidarsi di nuovi poli, che talora si inseriscono in modo organico nel disegno urbano precedente, ma a volte contribuiscono a modificarlo e a determinare un nuovo assetto, quando addirittura non arrivano a spostare la città. È questo, ad esempio, quello che avviene per Modena, dove il nuovo polo religioso nato extra-moenia fa scivolare la città romana verso ovest58, complice anche il generale indebolimento della struttura politica dell’antico centro urbano e il degrado ambientale causato dal venir meno delle opere di controllo territoriale59. Altrove, invece, l’inserimento della mater ecclesia non modifica disegno e viabilità interni, come a Parma, dove la cattedrale viene costruita alla periferia settentrionale, nei pressi della porta da cui esce la strada per Brixellum, in un settore precedentemente   Cfr., ad esempio, le «casae, quae more Gallico stramentis erant tectae» di Cesare (B.G. V, 43, 1) o l’«humilis habitare casas» della seconda egloga virgiliana (Buc. 2, 29). 55   Come noto, in francese il termine è “maison”, che deriva da “mansio”, e dunque, anche in questo caso, non da “domus”. 56   Cantino Wataghin 2014, p. 135. 57   Maioli 2000. 58   Giordani 2000. 59   Dall’Aglio 1996. 54

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Fig. 7. Parma: la zona di Piazza Duomo con l’ubicazione dell’antica cattedrale e l’andamento delle mura tardoantiche (da Catarsi 2009).

insediato, ma evidentemente ora libero da abitazioni60. A Parma, infatti, la primitiva cattedrale venne costruita nell’attuale Piazza del Duomo (Fig. 7), come indica il lacerto di un mosaico scoperto nel 1955, che riporta all’interno di un clipeo l’iscrizione Clarus et / Decentius / fec(erunt) ped(es) CC. Al di sotto di questo mosaico, datato al VI secolo, ne venne trovato un altro, databile al IV secolo, associato a lacerti di altre strutture e coperto da livelli di incendio61. Tracce di incendio coprono poi altri resti di una domus scoperti più di recente sotto al pavimento del Duomo attuale. Tali rinvenimenti mostrano chiaramente come questa zona fosse ancora insediata nel IV secolo, per poi rimanere libera fino alla realizzazione della primitiva cattedrale e dei suoi annessi nel VI secolo. Di norma, comunque, l’inserimento all’interno delle città dei nuovi edifici di culto, non solo la mater ecclesia, ma le chiese in genere, non determinò stravolgimenti o forti modificazioni in ciò che rimaneva dell’originario disegno della città, anche perché in alcuni casi le chiese presero materialmente il posto degli antichi templi. Per rimanere nella VIII Regio, è questo, ad esempio, il caso della chiesa di San Pietro a Parma, costruita sopra quello che era il tempio principale della città romana62, ma il fenomeno dovette essere più frequente di quanto l’archeologia è oggi in grado di dimostrare. Il cambiamento più importante introdotto dal cristianesimo non è dunque legato al rapporto tra disegno urbano e i nuovi edifici di culto, ma ad un altro fenomeno, vale a dire il diffondersi delle aree cimiteriali all’interno della città. Già le Leggi delle XII Tavole vietavano sia la sepoltura che la cremazione dei morti in città63 e tale divieto venne ribadito in età imperiale da Adriano64. A partire dalla fine del IV secolo il diffondersi del culto delle reliquie portò alla pratica della sepoltura ad sanctos, attestata soprattutto in ambito orientale, dove compare molto precocemente, come confermano due leggi del codice giustinianeo del 381 e 38665 che cercano di frenare il fenomeno, ma   Dall’Aglio 1999b; Catarsi 2009.   Su questi rinvenimenti e sulla loro interpretazione si rimanda a Dall’Aglio 1999b. 62   Dall’Aglio 1990. 63   Tab. X, 1. Le leggi delle XII Tavole, come è noto, non solo stabilivano il divieto di seppellire o cremare i defunti in area urbana (Cic., De leg. II, 23, 58), ma indicavano anche la distanza tra le mura della città e le tombe (Cic., De leg. II, 24, 61). 64   D. 47.12.3: «Divus Hadrianus, rescripto poenam statuit in eos qui in civitate sepeliunt». 65  Rispettivamente, C. Th. IX, 18, 6 e 7. 60 61

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comunque sempre più diffusa e presente anche in Occidente66. Questa pratica porta a disattendere un divieto che durava da almeno nove secoli e mostra come sia cambiata l’idea di città e sia venuto meno il concetto di separazione tra lo spazio dei vivi e lo spazio dei morti, che nell’Italia padana l’archeologia mostra essere già ben definito quanto meno con l’età del Bronzo. Per quanto riguarda la Regio VIII, tombe di IV secolo all’interno della cinta muraria sono state, ad esempio, trovate a Rimini, dove, è attestato un sepolcreto presso il teatro Galli67, a Reggio presso l’isolato San Raffaele68 e a Parma69, dove, al di sotto del palcoscenico del Teatro Regio, si è scoperta una sepoltura contenente un antoniniano di Numeriano. La grande espansione del fenomeno, però, la si ha, qui come altrove, con il VI secolo70. Lambert ha calcolato che nell’Italia Annonaria il 55% delle sepolture sono tutte in ambito urbano, a cui va aggiunto un 15% di tombe, per le quali la non perfetta conoscenza del circuito murario rende solo probabile il loro inserimento all’interno della città71. Per quanto riguarda l’ubicazione delle sepolture, esse si trovano per lo più nei pressi degli edifici di culto, ma la tendenza è quella di occupare gli spazi che si sono resi liberi o hanno cambiato di destinazione d’uso, in primo luogo il forum. 4.  Città che scompaiono e città a continuità di vita In conclusione, se è giusto non prendere alla lettera il semirutarum urbium cadavera di Ambrogio, è altrettanto giusto ritenere che la città tardoantica sia effettivamente qualcosa di diverso rispetto alla città dei primi secoli dell’impero. Si tratta di una diversità che è forse più ideologica e concettuale che non materiale, anche se, comunque, pure a livello di struttura e di forma i cambiamenti sono innegabili e vanno nella direzione di quella crisi che esce sia dalle fonti letterarie che dall’archeologia. D’altro canto, che in età tardoantica ci sia una diminuita capacità di controllo del territorio dovuta ad un effettivo calo demografico e a una mutata situazione economica e politica è ampiamente dimostrato dagli studi sulle variazioni del paesaggio e dell’assetto territoriale, che hanno evidenziato come dal III secolo l’organizzazione territoriale entri in crisi e si abbiano diffusi fenomeni di degrado ambientale, con radicali mutamenti anche nell’andamento dei corsi d’acqua72. Questo quadro complessivo è confermato, sia pure indirettamente, da un altro dato che emerge dal confronto tra la poleografia romana e quella altomedievale. Se prendiamo la descrizione dell’Italia fatta da Plinio, nell’VIII regione augustea abbiamo 26 città, di cui 19 sono indicate come municipia, mentre le altre 7 (Ariminum, Ravenna, Bononia, Brixellum, Mutina, Parma e Placentia) sono coloniae, di cui 5 (Ariminum, Bononia, Mutina, Parma e Placentia) di età repubblicana. Di queste 26 città, in età altomedievale 9 sono completamente scomparse73, tanto da non riuscire oggi ad ubicarle sul terreno, 4 sono ridotte a semplici villaggi74 e solo 13, cioè la metà, hanno continuato a mantenere il loro status di città e sono divenute sede di diocesi. Tra le città che perdono il loro status e diventano dei villaggi, particolarmente interessante è il caso di Fidentia, centro per il quale abbiamo tutta una serie di fonti che ci consentono di seguire in modo puntuale questa sua trasformazione75. In un’epigrafe su bronzo trovata nei pressi di Salsomaggiore, si legge che il collegium dei fabri del municipium di Flavia Fidentia, riunitosi nel tempio   Nel VI secolo tale pratica diventa comune, anche se solo nel IX secolo essa sarà in certo modo sancita per legge: Novellae ad calcem cod. iustinianus, LIII. Cfr. Lambert 1997, p. 286, tab. 1.8. 67   Ortalli 2003, pp. 113-114. 68   Scagliarini, Venturi 1999, p. 89. 69   Marini Calvani 1992, p. 324. 70   Lambert 2003, p. 229. 71   Lambert 1997, p. 289. 72   Su questi problemi si vedano Dall’Aglio 2010 e Dall’Aglio, Franceschelli 2012. 73   Butrium, Forum Clodi, Forum Druentinorum, Forum Licini, Otesini, Padinates, Solonates, Saltus Galliani, Urbanates. 74   Claterna, Fidentia, Tannetum, Veleia. 75   Per queste vicende si rimanda a Dall’Aglio 1999a. 66

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di Minerva, decreta all’unanimità di dedicare una tabula patronatus al proprio patrono, Virius Valens, decurione di Fidentia76. La citazione della coppia consolare nella prima linea dell’iscrizione consente di datare con sicurezza l’iscrizione al 206 d.C.77. Agli inizi del III secolo, dunque, Fidentia è ancora municipium. Nell’Itinerarium Antonini78, il cui nucleo originario è appunto della prima metà del III sec. d.C., Fidentia compare con l’appellativo di «vicus» e con il toponimo al diminutivo («Fidentiola»), mentre nell’Itinerarium Burdigalense, di un secolo posteriore79, Fidentia è registrata come «mansio»80 e non come «civitas», come invece accade per Parma e Placentia. Se la testimonianza dell’Itinerarium Antonini da un punto di vista cronologico va presa con una certa prudenza per le inevitabili interpolazioni successive alla data della prima composizione, prudenza che nel caso specifico è suggerita dal fatto che nell’itinerario da Ariminum a Derthona compare la forma «Fidentia»81, quella del Burdigalense costituisce una prova sicura dell’avvenuta riduzione di Fidentia da città a villaggio82. L’indicazione di «civitas», «mansio» e «mutatio» che compaiono nell’Itinerarium Burdigalense, infatti, non sono la trasposizione del tipo di ospitalità goduta dal compilatore dell’itinerario come qualcuno ha supposto83, bensì lo specchio fedele delle diversa situazione amministrativa dei centri da lui incontrati84. D’altro canto, la condizione di centro minore, non più autonomo, di Fidentia tra tardoantico e altomedioevo e il suo inserimento nella diocesi di Parma è desumibile, sia pure indirettamente, dalla lettura della Passio Sancti Domnini85. Secondo il racconto agiografico, Donnino, fuggito da Treviri per sottrarsi alla persecuzione dell’imperatore Massimiano del 303, viene raggiunto lungo la via Emilia tra Piacenza e Parma e decapitato sulla riva sinistra dello Stirone. Il martire, però, raccolta la propria testa attraversò il fiume, andando a morire sulla riva opposta, ad «un tiro di sasso» («quantum est iactus lapidis») da dove era stato decapitato. Gli abitanti del luogo («incolae illius loci»), allora, seppelliscono il martire là dove era caduto. Attorno alla tomba crebbe ben presto un bosco e la sepoltura di Donnino venne dimenticata. Improvvisamente, però, si cominciò a vedere una luce nel bosco e questo spinse gli «incolae illius loci» a rivolgersi al vescovo di Parma. Il vescovo fece tagliare il bosco e in questo modo venne ritrovata la tomba del santo martire, tomba sulla quale venne costruita una chiesa a lui dedicata, l’attuale cattedrale. Come si vede, nonostante le vicende del martirio riguardino direttamente Fidentia, nella Passio questa città non viene mai citata: del luogo del supplizio si dice che era «in strata Claudia» a 15 miglia da Chrysopolis, cioè Parma, e quelli che seppelliscono il corpo di Donnino e si rivolgono poi al vescovo di Parma spinti dalla luce che si vedeva nel bosco cresciuto sulla riva del fiume sono semplicemente gli «incolae illius loci». È dunque evidente che all’epoca della redazione della Passio, Fidentia non è più città, ma un sempre villaggio che faceva parte della diocesi di Parma, visto che è il vescovo di Parma a cui ci si rivolge e che interviene.   L’epigrafe è stata pubblicata per la prima volta negli anni Ottanta del secolo scorso da Mirella Marini Calvani (Marini Calvani s.d.). 77   Marini Calvani data invece l’iscrizione al IV secolo sulla base dell’appellativo «Flavia», che sarebbe collegato a Costantino, e del fastigio, che lei stessa, però, dice essere stato fuso a parte e aggiunto in un secondo tempo: Marini Calvani s.d., pp. 322-323. La citazione della coppia consolare, però, non lascia dubbi sulla datazione al 206, che è quella normalmente accettata: cfr., ad esempio, Donati 1991, pp. 127-128. L’appellativo Flavia va quindi messo piuttosto in relazione con i Flavi: Dall’Aglio 1999a. 78   It. Ant. 99, 1; 127, 6. 79   Come noto, il viaggio riportato dall’itinerario venne compiuto nel 333-334. 80   It. Hieros. 616, 15. 81   It. Ant. 288, 1. 82   Priva di qualsiasi validità e metodologicamente non proponibile è l’ipotesi, formulata da studiosi locali, che nel «Fidentiola vicus» della fonte debba essere vista una borgata sorta nei pressi della città. 83   Andreotti 1965, p. 75. 84   Dall’Aglio 1999a. 85   Il nucleo centrale della composizione di quest’opera viene di norma collocato nel VI secolo: cfr. Costa, Ponzi, Galli 1983. 76

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Fig. 8. Carta dell’attuale centro storico di Fidenza con l’ubicazione dei ritrovamenti archeologici e dell’antico tracciato della via Aemilia.

La perdita dell’originario status di città e l’affermarsi del culto di Donnino sono alla base della scomparsa del toponimo Fidentia. Dall’età medievale in poi Fidenza è menzionata come Castrum Burgi Sancti Domnini, toponimo questo, Borgo San Donnino, che resterà in uso fino al periodo fascista, quando sarà sostituito dal più “romano” Fidenza. Nel XIV secolo con Castrum Burgi Sancti Domnini si indicherà più propriamente il settore occidentale della città, quello nato attorno alla chiesa dedicata al santo e caratterizzato da una pianta grosso modo circolare (Fig. 8). La parte orientale, di forma stretta e allungata, disposta lungo la via Emilia, verrà invece indicata come «Burgus Novus posito extra Castrum Burgi Sancti Domnini». Se prendiamo in considerazione l’archeologia, i resti più antichi, pertinenti alla città romana, vengono tutti dal Burgus Novus, mentre nella zona del Castrum Vetus sono state trovate diverse tombe appartenenti alla necropoli romana e alcune capanne in legno altomedievali. La città romana era dunque ubicata nella zona di espansione del centro successivo, mentre nel castrum sorto attorno alla chiesa c’era la necropoli allineata lungo l’antico tracciato della via Aemilia. Donnino quindi, vista l’ubicazione della chiesa sorta sulla sua tomba, era stato sepolto all’interno della necropoli romana, tra la città e lo Stirone. Il fatto però che la sua tomba venga ad un certo punto nascosta da un bosco, significa, al di là del valore simbolico che quest’immagine può avere, che la città ad un certo punto si indebolisce in modo tale da non garantire più alcun rispetto per le aree sepolcrali, che vengono come dimenticate. Attraverso le fonti scritte noi siamo dunque in grado di documentare non solo il passaggio di Fidentia da civitas a vicus, ma anche di collocarlo nel tempo, vale a dire tra il 206, data della Tabula

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patronatus di Virius Valens, o, più precisamente, tra il 303, data della persecuzione di Massimiano, e il 334, anno in cui la «mansio Fidentiae» ospita l’anonimo pellegrino di Bordeaux. Nello stesso tempo l’archeologia ci attesta come il venir meno della città e la nascita di un nuovo polo porti ad uno spostamento della zona insediata, così come accade, ad esempio, anche per Mutina86. 5.  Continuità e discontinuità del foro come spazio centrale della città Un ultimo accenno, parlando della trasformazione degli spazi pubblici della città, merita il problema della continuità della piazza forense come spazio aperto e cuore della città. Ovviamente è questa un’analisi che può essere portata solo su quei 13 centri che hanno mantenuto il loro status di città e quindi hanno conosciuto una forma e una struttura urbana anche nei secoli successivi. Il fatto che di norma il foro si trovi all’incrocio tra cardine e decumano massimo dovrebbe rendere relativamente facile riconoscere l’ubicazione della piazza forense, soprattutto per quelle città che si trovano lungo la via Emilia e dunque hanno nella strada consolare il loro asse generatore. In realtà i cambiamenti intervenuti nel disegno della città sono in molti casi tali da impedire di ricostruire il disegno urbano originario. È questo il caso, ad esempio, di Forum Livi (Forlì), dove i mutamenti intervenuti in età tardoantica nella rete idrografica hanno profondamente cambiato l’assetto della città87. Un’analoga difficoltà la incontriamo per altri due centri della Romagna, Forlimpoli e Cesena, dove l’indebolimento della realtà urbana in età tardoantica ha di fatto portato ad una sostanziale cancellazione dell’impianto romano. In Emilia le vicende storiche legate in particolare ai conflitti tra Longobardi e Bizantini e una documentazione archeologica limitata e non sempre del tutto attendibile impediscono una ricostruzione sicura del disegno urbano di Brixellum. In altri casi, dove comunque l’originaria struttura della città romana è meglio riconoscibile ed è possibile ubicare il foro con una certa sicurezza, non sempre questo coincide con una piazza e, più precisamente, con la piazza principale della città medievale e di quella attuale. Ad esempio a Bologna il foro doveva trovarsi a nord della via Emilia, nella zona di via Porta Castello. Oggi questo settore è tutto insediato, mentre il sistema di piazze attorno a cui ruotava la città medievale e ruota la città attuale si trova a sud della strada consolare, là dove si alzano il palazzo del Comune e la basilica di San Petronio. La medesima cosa vale per Piacenza, dove il foro è stato collocato nella zona compresa tra via Roma, via Cavour, via Romagnosi e via Carducci per la presenza qui di due chiese altomedievali, San Martino in Foro, tutt’ora esistente, e San Pietro in Foro88. Così come a Bologna, anche qui la zona è attualmente insediata, mentre la piazza centrale della città medievale e attuale, piazza Cavalli, si trova più a sudovest, ad un paio di isolati dall’antica area forense. Va tuttavia precisato che in una mappa del XVI secolo in corrispondenza del foro sembrerebbe ancora esserci una piazza, che sarebbe stata la piazza principale della città altomedievale. Al di là di questa ricostruzione, lo scivolamento del baricentro verso sud-ovest va comunque collocato in età comunale, quando l’ampliamento verso sud della città, con l’inclusione nel perimetro urbano della chiesa di San Savino, avrebbe modificato le percorrenze urbane, assegnando allo snodo di Piazza Borgo un ruolo di primaria importanza89. Anche a Rimini il foro romano, ubicabile in corrispondenza della centrale piazza Tre Martiri90, non corrisponde alla piazza principale della città post-romana, vale a dire l’attuale Piazza Cavour, posta sempre lungo l’asse stradale principale della città, ma più a nord, nei pressi della Cattedrale. È probabilmente proprio la nascita qui dell’edificio di culto cristiano e quindi la formazione del nuovo polo religioso ad aver determinato questo spostamento91. A Reggio Emilia, la piazza forense continua ad essere anche  Cfr. supra.   Prati 2000. 88   Per i problemi legati al foro di Piacenza e all’ampliamento della città di età comunale cfr. Pagliani 1991. 89   Pagliani 1991. 90   Ortalli 2011. 91   Negrelli 2013. 86 87

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oggi un’area aperta, dato che essa sembra corrispondere all’attuale Piazza San Prospero92. Anche in questi caso, però, non si ha una corrispondenza tra la piazza principale di età romana e quella di età successiva, dato che quest’ultima va vista nell’attuale Piazza Prampolini, che è molto vicina a Piazza San Prospero, ma è comunque separata da essa. A questo punto, per rimanere in città per le quali l’ubicazione del foro è certa, l’unico centro che presenta una perfetta corrispondenza tra la piazza forense e la piazza principale post-romana è Parma93. Qui, infatti, all’incrocio tra l’antico cardine massimo, l’odierne via Farini-via Cavour, e il tratto urbano della via Emilia che fungeva da decumano massimo ed è ripercorso oggi da Strada Repubblica e via Mazzini, si apre Piazza Garibaldi, che è stata sempre il cuore della città e la sede del potere civile. Il foro romano, che corrispondeva a due isolati della città, occupava il settore occidentale di questa piazza, tra il cardine massimo e il primo cardine ad ovest, ed era attraversato dalla via Aemilia. Sul lato settentrionale si trovava la basilica, che dunque si apriva verso sud, così da ricevere il più possibile il calore del sole, e sul lato occidentale, subito a sud della via Emilia, vi era il capitolium, sul quale venne poi edificata, come già si è detto, la chiesa di San Pietro. Parma è dunque la sola città dove lo spazio forense continua a vivere mantenendo la sua funzione originaria di centro della vita civile e politica della città. Il fatto che ciò si verifichi solo in una delle 13 città a continuità di vita è un ulteriore prova di come ci sia una trasformazione profonda nelle città e nella determinazione dei suoi spazi tra età romana e i secoli successivi. 6. Conclusioni In conclusione, come si vede da questa rassegna tutt’altro che completa, è innegabile il cambiamento che si viene a determinare all’interno delle città a partire dal IV secolo. Le cause, come si è detto, sono molteplici e vanno ricercate sia all’interno che all’esterno dell’impero. Senz’altro un grande cambiamento lo si ha a livello economico. L’impero romano si reggeva sull’esercito, il cui mantenimento era però decisamente costoso. A queste spese si devono aggiungere poi quelle per tutta la macchina burocratica statale, divenuta sempre più complessa e articolata, e infine i donativi necessari per tenere sotto controllo le popolazioni barbariche che premevano sui confini. Il mezzo principale per far fronte a tutti questi costi erano le tasse, che dunque finiscono per giungere a livelli insostenibili per i medi e piccoli proprietari, che sono così costretti a vendere i propri terreni. Cambia quindi la struttura della proprietà e con essa cambia la società. La diffusa povertà, le continue guerre, sia interne che esterne, le periodiche e cicliche epidemie provocano una riduzione della popolazione e tutto questo si traduce in quell’abbandono delle città e delle campagne denunciato dalle fonti letterarie e attestato dall’archeologia. Se dunque è vero che parlando di “crisi” si introduce un concetto di carattere etico, un confronto tra due periodi di cui uno è sentito come peggiore e quindi si usano categorie che non sono propriamente storiche, è altrettanto vero che, dovendo comunque descrivere quello che vediamo succedere, quello che vediamo cambiare e soprattutto se osserviamo gli esiti di queste trasformazioni, è difficile astenersi dall’usare la parola “crisi” e pensare solo in termini di trasformazione. Quando vediamo che in quella che era l’ottava regione augustea solo la metà delle città citate da Plinio mantengono il loro status, quando, analizzando questi centri che continuano comunque a vivere anche dopo la fine dell’età romana, vediamo che la struttura, il disegno delle città non solo sono cambiati, ma spesso non sono più riconoscibili o sono riconoscibili solo in parte, parlare solamente di trasformazione non sembra sufficiente. Il brano di Ambrogio non va preso alla lettera, ma riflette comunque una situazione che non è solo un modello letterario, un’idea astratta, ma è un qualcosa di reale.

  Storchi 2015.   Dall’Aglio 1990.

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Spazi urbani e istituzioni cittadine

LA GESTIONE POLITICA DELLE OPERE NELLA CITTÀ ROMANA: I CURATORES OPERUM PUBLICORUM

Alessandro Cristofori

In età imperiale nella città romana, come organo esecutivo per la costruzione o il rifacimento di edifici pubblici, alle normali magistrature municipali (in particolare ai IIviri, ai IIIIviri e agli aediles)1, si affianca talvolta una nuova funzione, quella designata in latino dall’espressione curator operum publicorum (con le sue varianti)2 e in greco ἐπιμελητὴς τῶν δημοσίων ἔργων (con le sue numerose varianti)3. Questa curatela a livello municipale non ha finora ricevuto grande attenzione nella dottrina scientifica: la trattazione recente più approfondita si ritrova in poco più di una decina di pagine di una dissertazione dell’Università di Gent di Véronique Bonkoffsky, dell’a.a. 2001-20024. Il dossier delle fonti sulla funzione peraltro non è irrilevante, potendo contare, oltre che su qualche sparso brano letterario, su diversi passaggi della giurisprudenza romana rifluiti nel Digesto e alcune costituzioni imperiali ricomprese nel Codice Teodosiano e nel Codice di Giustiniano, ma soprattutto su almeno una cinquantina   Per le competenze delle consuete magistrature cittadine in materia di opere pubbliche fonti essenziali sono gli stututi municipali: cfr. in particolare la lex Tarentina, 5 (che si consulterà nell’edizione Crawford 1996, I, pp. 304-306), la lex coloniae Genetivae Iuliae di Urso, 77 (nell’edizione Crawford 1996, II, pp. 400-417) e la lex Irnitana, 82-83 (nell’edizione Lamberti 1993); per un breve commento di questi passaggi paralleli si veda Lamberti 1993, pp. 93-95; Laffi 2007, pp. 222-223. Porta ovviamente numerose conferme puntuali al dato degli statuti municipali la documentazione epigrafica, che è stata studiata soprattutto in una prospettiva locale, cfr. per esempio Cébeillac-Gervasoni 1991, partic. pp. 200-201, per il Lazio e la Campania; Pobjoy 2000 per l’Italia in età repubblicana. In generale sul problema si veda anche Liebenam 1900, pp. 382-384 e 387-388 e ora soprattutto l’utile sintesi di Horster 2015, pp. 521-526. 2   Per la diversa terminologia della funzione nella documentazione epigrafica latina vedi in particolare Bonkoffsky 2001-2002, pp. 43-45; rispetto alla studiosa (che ritorna sul documento anche a pp. 49-50) tenderei tuttavia a tenere distinti gli agentes cura macelli di AE 1891, 4 = CIL, VIII, 18224 = ILS, 2415 = CCID 623 da Lambaesis, un’epigrafe che ha come terminus post quem 253 d.C., sia per la particolare titolatura della funzione, sia perché ci troviamo in un contesto prettamente militare: i due agentes in effetti sono signiferi della III legione Augusta. 3   Per la terminologia greca si veda in particolare l’elencazione in Barresi 2003, p. 68. Per il lessico dei curatori delle opere pubbliche nella documentazione papiracea Lukaszewicz 1986, pp. 104-105. 4   Bonkoffsky 2001-2002, pp. 42-56. Tra l’altra bibliografia di rilievo segnalo Liebenam 1900, pp. 385-386; Kornemann 1901, coll. 1802-1803; Comparette 1906, pp. 176-180; Mancini 1910, p. 1340; Jaschke 2006 (nell’ambito di un contributo dedicato in genere ai curatores municipali, che a mio parere in qualche caso necessita di alcune precisazioni). 1

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di iscrizioni5 (per lo più in lingua latina e provenienti dall’Italia, ma anche con un buon numero di testi greci, prevalentemente dalle province dell’Asia minore) e, infine, su una discreta messe di documenti su papiro dalla provincia romana d’Egitto, in particolare da Hermopolis e da Ossirinco6. La ricchezza e la varietà della documentazione disponibile, come anche la stessa complessità della tematica, non possono ovviamente consentire un’analisi serrata delle fonti e una trattazione esaustiva del problema in questa sede, anche per il fatto che questa mia indagine è ancora nella sua fase iniziale. L’obiettivo di questo contributo sarà dunque semplicemente quello di mettere in luce i problemi principali di una ricerca sui curatores operum publicorum municipali, indicando alcune linee interpretative e le direzioni da perseguire in futuro. In primo luogo appare opportuno soffermarsi sul modello di questo nuovo ufficio che, per quanto concerne le attestazioni dall’Italia, va ovviamente ricercato nell’omonima curatela della città di Roma, straordinaria in età repubblicana, regolare e formalizzata nel cursus honorum senatorio a partire dall’età augustea7. Diversa tuttavia appare l’origine di tale curatela nelle città delle province ellenofone dell’Impero, anche ad una mera considerazione di ordine cronologico: la prima attestazione in ordine di tempo pare in effetti essere quella relativa all’ἐπιστάτης τῶν ἱερῶν καὶ δημοσίων ἔργων di nome Ἀντίοχος Θαργηλίου τοῦ Λέοντος, da Mylasa, datata tra la seconda metà del II sec. a.C. e il I sec. a.C., ovvero in un momento in cui assai difficilmente il modello istituzionale romano poteva esercitare una qualche decisiva influenza sulle consolidate strutture delle poleis greche8. Non si può peraltro escludere un qualche influsso anche dello schema istituzionale romano e occidentale, oltre che delle tradizioni amministrative locali, nel pieno affermarsi della curatela delle opere pubbliche nelle comunità delle province orientali, che si verifica nell’età degli Antonini. Per quanto concerne la natura della funzione, si ritiene in genere che quello di curator operum publicorum fosse un incarico straordinario, che non doveva apparire regolarmente nei quadri dell’ammini  Ciò escludendo le numerose attestazioni delle forme participiali, come per esempio curans nella documentazione epigrafica latina e l’ancora più preciso ἐργεπιστάτησας delle iscrizioni greche, espressioni che almeno in qualche caso possono alludere ad un’attività di supervisione in materia edilizia da parte di un magistrato o di un funzionario cittadino la cui sfera di azione prevalente era diversa o ricopriva una pluralità di ambiti, o l’occasionale impegno di un semplice privato cittadino; basti qui, per la documentazione latina, l’esempio di CIL, V, 8807 = EDR 097534 da Asolo, in cui il participio, nella forma ablativa curante, è riferito al curator rei publicae P. Acilius P. f. [---], in rapporto al restauro di un impianto termale danneggiato da un incendio: [--- b]alineum vi ignis conla[psum ---],  / curan[te]  / P(ublio) Acilio P(ubli) fil(io) domo Ro[ma ---], / curatore rei publicae [---]; non sembrano giustificati i sospetti di falsità di questo documento avenzati da Jacques 1983, p. 400; cfr. già T. Mommsen in CIL, V, p. 95* e nel lemma a CIL, V, 8807, nonostante l’illustre studioso avesse dapprima collocato l’epigrafe tra le falsae, cfr. CIL, V, 122*. Per la documentazione greca mi limito a richiamare il caso di CIG, 2925 = Le Bas, Waddington 1870, n° 146 = IK 12, n° 279 da Efeso, in cui il participio ἐργεπιστάτησας, a proposito dell’erezione di un monumento onorario per Sabina, moglie di Adriano nel 134-135 d.C., è riferito a un ἀρχιερεὺς τῆς Ἀσίας, che era al contempo anche γραμματεὺς τοῦ δήμου, di nome Tiberio Claudio Tuendiano Magno Caridemo: [θεὰν Σαβεῖναν Σεβαστὴν] / [γυναῖκα μὲν] Αὐτοκράτ[ορος Καί]/[σαρος, θεοῦ Τρ]αιανοῦ Παρθικ[οῦ] / [υἱοῦ, θ]εοῦ [Νέ]ρουα υἱων[οῦ] / [Τραι]ανοῦ Ἁδριανοῦ Σεβ[αστοῦ,] / θυγατέρα δὲ Ματιδίας / [Σεβ]αστῆς ἡ φιλοσέβαστος / [Ἐφ]εσίων βουλὴ καὶ ὁ νεω/[κ]όρος δὶς δῆμος καθιέρω/σαν ἐπὶ ἀνθυπάτου Τ(ίτου) / Αὐρηλίου Φούλβου Ἀντωνείνου, / [ψ]ηφισαμένου Τιβερίου Κλαυ/ δίου Τουενδιανοῦ Μάγνου Χα/ριδήμου τοῦ γραμματέως τοῦ δήμου, ἐργεπιστατήσαν/τος Τιβερίου Κλαυδίου  / Τουενδιανοῦ Μάγνου Χαριδή/μου φιλοσεβάστου καὶ / ἀρχιερέως τῆς Ἀσίας / ναοῦ τοῦ ἐν Ἐφέσῳ. 6   Oggetto di esame di Lukaszewicz 1986, pp. 104-106. 7  Sulla cura operum publicorum nella città di Roma il lavoro di riferimento rimane Kolb 1993; cfr. inoltre Palma 1980, pp. 220-231; Daguet-Gagey 1997 per il periodo 180-305 d.C.; Daguet-Gagey 2004, particolarmente sul momento di creazione della cura. Per la relazione tra curatores dell’Urbe e quelli dei municipi dell’Italia romana cfr. Mancini 1910, p. 1340. 8   L’iscrizione in questione è CIG, 2693 c = Le Bas, Waddington 1870, 403 = IK 34, n° 106 = Meier 2012, pp. 414-416, n° 66, anche con il commento di Wörrle 1988, p. 118 e di Quass 1993, p. 197; si tratta di un decreto della tribù degli Otorkondeis, una delle suddivisioni del corpo civico di Mylasa, in onore dello stesso Antioco; un secondo decreto gemello, Le Bas, Waddington 1870, 406 = IK 34, n° 107, menzionerebbe la carica di Antioco come ἐπιστάτης τῶν ἱερῶν καὶ δημοσίων καὶ τε[ιχῶν ---], ma a ragione Wörrle 1988, p. 118 esprime qualche dubbio su questa restituzione, alla luce del titolo della carica nell’epigrafe ricordata in precedenza. 5

La gestione politica delle opere nella città romana: i curatores operum publicorum

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strazione cittadina romana9. Per la verità tale impressione mi pare derivare almeno in parte dalla natura frammentaria delle informazioni in nostro possesso e non escluderei che, almeno in alcune realtà cittadine e in alcuni momenti, tale incarico venisse creato con una certa regolarità: un indizio in questo senso potrebbe essere costituito dal fatto che nel celebre dossier epigrafico di C. Giulio Demostene, di età adrianea, l’ἐπιμελετὴς δημοσίων ἔργων chιude la lista di coloro che, detentori di cariche pubbliche nella città licia di Oinoanda, avrebbero dovuto prendere parte alla processione e ai sacrifici legati alle feste istituite da Demostene; il nostro curatore appare fianco a fianco delle normali e annuali funzioni politiche, amministrative e religiose della città, come quelle del sacerdote di Zeus, del segretario del consiglio, dei pritani, degli agoranomi, dei ginnasiarchi, dei tesorieri, senza che in alcun modo sia notata l’eccezionalità del suo incarico10. Di certo possiamo dire che non si trattava di una funzione di tipo magistratuale, ma piuttosto di un munus, che è qualificato formalmente come personale in un passaggio del giurista Arcadio Carisio (fine III – inizi IV sec. d.C.) poi rifluito nel Digesto11: Arcadius Charisius libro singulari de muneribus civilibus. Hi quoque, qui custodes aedium vel archeotae vel logographi vel tabularii vel xenoparochi (ut in quibusdam civitatibus) vel limenarchae vel curatores ad extruenda vel reficienda aedificia publica sive palatia sive navalia vel mansiones destinantur, si tamen pecuniam publicam in operis fabricam erogent, et qui faciendis vel reficiendis navibus, ubi usus exigit, praeponuntur, muneribus personalibus adstringuntur.

Di fatto tuttavia la cura operum implicava anche responsabilità finanziarie, caratteristiche piuttosto dei munera patrimonii, anche se al momento mancano prove certe che ai curatores fosse chiesto di regola di contribuire alle spese di costruzione degli edifici che erano chiamati a sovrintendere12. Il dato è chiarito da un passaggio di Papirio Giusto (giurista dell’età di Marco Aurelio), che pur riferendosi genericamente a curatores, e non specificamente ai curatores operum publicorum, certamente concerneva anche la funzione che qui interessa, in considerazione del richiamo alla somme la cui restituzione doveva essere in prima istanza chiesta ai redemptores operum, ovvero agli appaltatori che avevano assunto l’incarico della costruzione di una qualche opera di interesse pubblico, in seconda istanza ai curatores stessi; oltre a ciò, il rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero citato da Papirio Giusto imponeva agli stessi funzionari il pagamento degli interessi sul denaro che era stato versato loro per il pagamento delle spese di costruzione, ma che era rimasto inutilizzato nelle loro casse, con tutta evidenza per impedire ogni genere di speculazioni con queste somme13:   Cfr. per esempio Wörrle 1988, p. 117, che nota l’eccezionalità in questo senso della situazione di Oinoanda, sulla quale vedi poco oltre, nel testo principale. 10   Per l’iscrizione di Oinoanda vedi l’edizione, con traduzione tedesca a fronte, di Wörrle 1988, pp. 4-17 (= SEG XXXVIII, 1462), con il commento alle pp. 117-118; alcune correzioni alla lettura del testo in Smith 1994 (= SEG XLIV, 1164); l’ἐπιμελετὴς δημοσίων ἒργων è ricordato a l. 72. 11   D. 50.4.18.10. Più in generale Ulpiano in D. 50.4.4 pr. definiva la cura extruendi vel reficiendi operis un munus publicum, l’ampia categoria che in Arcadio Carisio (D. 50.4.18 pr.) comprendeva tre tipologie specifiche di oneri: Munerum civilium triplex divisio est: nam quaedam munera personalia sunt, quaedam patrimoniorum dicuntur, alia mixta. Per la natura di munus personale della cura operum publicorum vedi Mancini 1910, p. 1337; Langhammer 1973, pp. 163-164; Bonkoffsky 2001-2002, p. 46. 12   Jouguet 1911, pp. 447-448 (cfr. anche pp. 413-414) avanzò l’ipotesi che, almeno nella provincia romana d’Egitto, gli epimeleti dei lavori pubblici fossero normalmente responsabili per un terzo della somma necessaria alla costruzione; ma per una discussione di tale ipotesi, che non ha generalmente trovato consenso, vedi Lukaszewicz 1986, p. 113. 13   D. 50.8.11 (9). Un preciso parallelo di questo passo si trova in un frammento del Liber singularis de usuris di Paolo, in D. 22.1.17.7: Eos qui ex administratione rerum civitatium conveniuntur usuris obnoxios esse satis notum est. idem observatur in operum curatoribus, si pecunia apud eos remansit. sed in ea quam redemptoribus commiserunt, etiamsi neglegenter dederint, usura eis remittitur: haec autem ita sunt, si nulla fraus arguitur: alioquin etiam usurae applicabuntur. La responsabilità degli eredi del curator operum publicorum si estendeva anche al caso in cui colui che era stato nominato all’ufficio avesse cercato di sfuggirvi presentando una domanda di esenzione priva di fondamento; tale responsabilità 9

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Papirius Iustus libro secundo de constitutionibus: [pr.] Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt pecuniae, quae apud curatores remansit, usuras exigendas: eius vero, quae a redemptoribus operum exigi non potest, sortis dumtaxat periculum ad curatores pertinere. [1] Item rescripserunt operum periculum etiam ad heredes curatorum pertinere.

È di molto posteriore l’esplicita attestazione di una precisa responsabilità finanziaria di coloro che avevano la cura operum publicorum (e dei loro eredi) sulla riparazione di edifici che, a causa della loro negligenza, avessero presentato difetti costruttivi entro 15 anni dal loro completamento; la prescrizione appare infatti in una costituzione imperiale inviata al prefetto del pretorio Cinegio da Graziano, Valentiniano II e Teodosio nel 385 d.C.14: Idem AAA. Cynegio praefecto praetorio. Omnes, quibus vel cura mandata fuerit operum publicorum vel pecunia ad extructionem solito more decreta, usque ad annos quindecim ab opere perfecto cum suis heredibus teneantur obnoxii, ita ut, si quid vitii in aedificatione intra praestitutum tempus provenerit, de eorum patrimonio, exceptis tamen his casibus qui sunt fortuiti, reformetur. Dat. III non. Feb. Constantinopoli Arcadio A. I et Bautone conss.

In considerazione di queste testimonianze giuridiche, ma anche del fatto che in almeno alcune circostanze i funzionari addetti alla supervisione delle attività edilizie erano chiamati ad anticipare dal proprio patrimonio le spese necessarie per la costruzione15, dovremmo dunque definire più propriamente la cura operum publicorum come un munus mixtum, in cui era certo prevalente l’impegno di tempo e intelligenza, ma in cui poteva presentarsi anche un impegno di tipo finanziario16. Davanti a questa constatazione la netta definizione di Arcadio Carisio della cura operum publicorum come munus personale ha destato alcune perplessità. Per spiegare il dato apparentemente contradditorio delle fonti in primo luogo si potrebbe pensare a un mutamento della natura del munus dal tempo di Marco Aurelio, in cui scriveva Papirio Giusto, a quello di Diocleziano o Costantino, in cui fu attivo Arcadio Carisio, con un passaggio da mixtum a personale, un passaggio che tuttavia è apertamente contraddetto dalla responsabilità patrimoniale dei curatores sui difetti di costruzione attestata dalla costituvaleva fino alla morte di colui che aveva cercato di sottrarsi al munus, cfr. D. 50.10.1 pr. Ulpianus libro secundo opinionum. Curator operum creatus praescriptione motus ab excusatione perferenda sicuti cessationis nomine, in qua quoad vivit moratus est, heredes suos obligatos reliquit, ita temporis, quod post mortem eius cessit, nullo onere eos obstrinxit. Su questi passi vedi anche le osservazioni di Liebenam 1900, p. 386; Kornemann 1901, col. 1802; Comparette 1906, p. 174; Langhammer 1973, pp. 179-180; Bonkoffsky 2001-2002, p. 55; Malavé Osuna 2007, p. 113. Travisa il senso di D. 50.8.11 (9) Jaschke 2006, p. 186. 14   C. Th. XV, 1, 24 = C. Iust. VIII, 11, 8; sulla testimonianza cfr. Barresi 2003, p. 77; Malavé Osuna 2007, p. 113. 15   Questa circostanza emerge in modo assai chiaro dalla documentazione papiracea egiziana, che ci ha lasciato non pochi esempi di domande di rimborso delle spese sostenute in anticipo dagli epimeleti delle opere pubbliche, cfr. per esempio P. Oxy. I, 54 = W. Chr. 34 = Trismegistos 20716 da Ossirinco, del 201 d.C., il cui testo è riportato infra, nota 91; cfr. Lukaszewicz 1986, pp. 115-116, con rimandi agli altri documenti rilevanti e loro breve discussione, in particolare sui dettagli della procedura di rimborso. Una conferma dalle fonti epigrafiche potrebbe venire da un documento di Iasos, IK 28, 2, n° 253, solo genericamente datato all’età romana, che appare su un architrave di marmo della lunghezza di circa 3 m e che dunque pare legittimo connettere a qualche opera di notevoli dimensioni e, presumibilmente, di interesse pubblico; nello stesso senso depone il fatto che il curatore sia assistito nel suo compito da due collaboratori: ἐργεπιστατήσαντος Πότεντος τοῦ εὐεργέτου τῆς πόλεως / καὶ προδαπανήσαντος ἐκ τῶν ἰδίων, συνεργεπιστατησάντων Ἑστιαίου τοῦ / Πανταίνου Ἀμύντου καὶ Διοφάντου τοῦ δ’ Διοφάντου. Il verbo προδαπανάω, nel senso di “verso in anticipo”, appare anche nella lacunosa IK 17, 2, n° 3853, da un villaggio del territorio di Efeso, nella quale peraltro non è del tutto chiara la natura dell’edificio cui si accenna, né a quale titolo il personaggio qui onorato, il cui nome è andato perduto nella lacuna iniziale dell’iscrizione, abbia versato in anticipo una considerevole somma per la sua costruzione; i due documenti citati sono ricordati, in relazione al problema degli anticipi di spesa a carico dei curatores, da Barresi 2003, p. 76; aggiungo che il raro verbo προδαπανάω appare, ma in un contesto di edilizia privata, anche nel papiro SB I, 5232 = Trismegistos 13980 da Soknopaiou Nesos, datato al 15 d.C. 16  Cfr. Langhammer 1973, pp. 178-179; Jaschke 2006, pp. 184-185.

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zione imperiale del 385 d.C. Credo dunque che una soluzione più convincente sia di assegnare alla frase si tamen pecuniam publicam in operis fabricam erogent di Arcadio Carisio un valore strettamente condizionale: in altre parole solo se il denaro impegnato nella costruzione fosse stato esclusivamente pubblico il munus operum publicorum sarebbe stato personale, ma, implicitamente, se il curator stesso avesse impegnato le sue proprie sostanze, il munus doveva essere considerato mixtum. Quanto si può dedurre da questo primo passaggio di Arcadio Carisio è del resto affermato in modo esplicito da un brano successivo dell’estratto dal Liber singularis de muneribus civilis del giurista, anche se manca un riferimento specifico alla cura operum publicorum, laddove egli ricorda la possibilità che i munera in precedenza fatti ricadere nella categoria dei personalia, qualora comportassero una qualche spesa dal patrimonio dell’incaricato, sulla base degli statuti locali o di una semplice consuetudine, dovevano piuttosto ricadere nella classe dei munera mixta: Sed ea quae supra personalia esse diximus, si hi qui funguntur ex lege civitatis suae vel more etiam de propriis facultatibus impensas faciant … mixtorum definitione continebuntur17. Per quanto concerne le modalità di nomina, è esplicitamente attestata nella nostra documentazione l’indicazione diretta da parte dell’imperatore18. Così per esempio in un’iscrizione dell’età di Antonino Pio proveniente da Aeclanum, nella regio II Apulia et Calabria, che ricorda esplicitamente la nomina di un tale C. Neratius Proculus Betitius Pius Maximilianus a curator operum publicorum da parte di Adriano19: C(aio) Neratio C(ai) fil(io), / C(ai) n(epoti), C(ai) pron(epoti), C(ai) abn(epoti), Cor(nelia tribu) / Proculo Betitio Pio  / Maximilliano,  / quaest(ori), IIvir(o) quinq(uennali), p(atrono) c(oloniae),  / flamini divi Hadriani,  / curatori operum publ(icorum)  / Venusiae dato ab divo  / Hadriano, curat(ori) kal(endari)/ Nolanorum dato ab Imp(eratore) / Antonino Aug(usto) Pio, / Epaphroditus et / Conventa lib(erti). / L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum).

È supposizione plausibile, anche se non esplicitamente attestata, che l’imperatore procedesse alla nomina di un curator nel caso il finanziamento dell’opera in questione venisse dal fiscus imperiale20. Nelle città delle province è altresì esplicitamente attestata una nomina da parte del governatore, secondo quanto afferma Ulpiano in età severiana21:   D. 50.4.18.27. La soluzione che qui si prospetta è avanzata anche da Barresi 2003, p. 77, in una trattazione tuttavia segnata tuttavia da qualche errore nei riferimenti alle fonti giuridiche. 18   Oltre al caso ricordato qui di seguito, nel testo principale, cfr. anche CIL, X, 1266 = EDR 130506 da Nola, nella quale il curator operorum publicorum Q. Caesius Q. f. Fal. Fistulanus è datus a divo Aug(usto) Vespasian(o); CIL, IX, 1419 = ILS, 6489 = EDR 134102 da Aequum Tuticum nella quale il curator operis thermarum C. Ennius Firmus è datus ab Imp(eratore) Caesare Hadriano Aug(usto); per il testo completo dell’iscrizione vedi infra, nota 60; l’anonimo personaggio attestato in un’epigrafe di Mediolanum, AE 1974, 347 = Abramenko 1992, pp. 151-155 = AE 1992, 768 = Sartori 1994, p. 45, n° P15 = EDR 075855, dat(us) ab Imperatore Commodo Antonino, se effettivamente costui può essere identificato come un curator di opera pubblica, come potrebbe lasciar supporre il ricordo di thermae in questa lacunosa iscrizione; ma non si può affatto escludere che il personaggio sia da indentificare piuttosto con un curator rei publicae o con altro curator municipale, cfr. per le diverse ipotesi Jacques 1983, pp. 282-283; Lupa 23283 (http://db.edcs.eu/epigr/bilder.php?bild=lu_23283) da Iader, in Dalmazia, nella quale il curator operum publicorum Cn. Cornelius Cn. f. Pap. Sabinus è datus ab Imperatore Antonino Augusto Pio; Πατροκλῆς, [ἐπιμελητὴς δημοσ]ίων ἔργων κατὰ τὸ κυρίου Αὐτοκράτορος ἀπόκριμα, con riferimento ad Adriano, a Nicea di ILS, 8867 = IGR III, 1545 = IK 9, n° 56 = Corsten 1987, pp. 110-114 (= SEG XXXVI, 1071); sul personaggio e il documento, che è citato integralmente infra, nota 117, cfr. anche Boatwright 2000, p. 73; Barresi 2003, pp. 79 e 552. 19   CIL, IX, 1160 = ILS, 6485 = EDR 133753. 20   Langhammer 1973, p. 179; Kolb 1993, p. 58; Bonkoffsky 2001-2002, pp. 48-49 e 52; Jaschke 2006, p. 193. Particolarmente attivo nella nomina di curatores operum publicorum sembra essere stato Adriano, cfr. MacMullen 1959, p. 211; Boatwright 2000, pp. 73-78, con considerazioni generali su tutte le tipologie di curatores, e partic. p. 73 sui curatores operum publicorum. 21   D. 1.16.7.1; cfr. MacMullen 1959, p. 209; Jacques 1984, p. 347. Sulla generale supervisione che Plinio il Giovane aveva sulle opere pubbliche della sua provincia di Bitinia e Ponto, che includeva anche la nomina di responsabili locali, vedi Jacques 1984, pp. 288 e 346. 17

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Ulpianus libro secundo de officio proconsulis. Aedes sacras et opera publica circumire inspiciendi gratia, an sarta tectaque sint vel an aliqua refectione indigeant, et si qua coepta sunt ut consummentur, prout vires eius rei publicae permittunt, curare debet curatoresque operum diligentes sollemniter praeponere, ministeria quoque militaria, si opus fuerit, ad curatores adiuvandos dare.

La norma ulpianea trova a mio parere interessante e concreta conferma documentaria nel dossier epigrafico relativo all’intensa attività edilizia intrapresa dal proconsole di Acaia P. Ampelio durante il governo della sua provincia negli anni 359-360 d.C.22. Di singolare rilievo, a questo proposito, un editto rinvenuto a Calcide23, nel quale Ampelio nominava alcuni ἐπιμεληταί per la costruzione di una στοὰ πομπική e di un’esedra, destinando allo scopo le πολιτικαὶ πρόσοδοι, ovvero le rendite che provenivano dalle proprietà della comunità24, nella forma di materiali da costruzione, in particolare legname e tegole. Rilevante anche l’epigrafe relativa ai rifacimenti del teatro di Sparta, anche in questo caso eseguiti grazie all’assegnazione di materiali edilizi a titolo di πολιτικαὶ πρόσοδοι, rifacimenti che vennero curati da un gruppo di quattro ἐπιμεληταί nominati per decreto (κατὰ πρόσταγμα) del proconsole Ampelio e assistiti da quattro aiutanti25. Da richiamare infine una Bauinschrift di Megara, posta da Nicocrate, figlio di Callitico, e da Epitteto e Teodulo, figli di Epitteto, che ricordano la   Su questo personaggio vedi PLRE I, Ampelius 3. Per un commento complessivo al dossier epigrafico di Ampelio si veda in particolare Lewin 2001a e, più brevemente Lewin 2001b, pp. 34-35; cfr. inoltre la bibliografia più specificamente incentrata sui singoli documenti del dossier ricordata alle note seguenti. 23   IG XII, 9, 907 = Syll.3 905 = SEG XXXII, 849: Πούβλ(ιος) Ἀμπέλιος ὁ λαμ(πρότατος) ἀνθ(ύπατος) / λέγει· / τίνες καὶ ποίων ἔργων ἐπιμεληταὶ κατέστησαν / καὶ ὅσα εἴδη καθ’ ἕτος ἕκαστον ἐκ τῆς τρίτης ἐ/πιν(εμήσεως) ἐκ τῶν πολειτικῶν προσόδων εἰς λόγον / τῆς ἐπισκευῆς τῶν αὐτοῖς ἐγχειρισθέν/των ἔργων κομίζεσθαι ὡρίσθησαν, ἔγνωτε / μὲν καὶ ἐκ τῆς ὑπὸ παρουσίᾳ τῇ πάντων γενο/μένης διατυπώσεως καὶ τῶν ἐπὶ τούτοις πρα/χθέντων ὑπομνημάτων· πλὴν ἐπεὶ καὶ δι/ατάγματι τῆς ἐμῆς καθοσιώσεως τοῖς πᾶσιν / ὑμῖν τοῦτο φανερὸν καταστῆσαι ὑπῆρχεν / ἀκόλουθον, ὑπὲρ τοῦ μηδεμίαν ὑμᾶς / τῶν ὁρισθέντων ἄγνοιαν προβάλλεσθαι, / βρέβιον τῶν εἰρημένων ἁπάντων ἀκρει/βῆ διδασκαλίαν ἐπέχον τῷ παρόντι δι/ατάγματι ὑποταγῆναι πεποίηκα. ὅσων ἔργων ἐπιμεληταὶ κατέστησαν καὶ ὅσον / ἕκαστος διετυπώθη λαμβάνειν ἀπὸ τῶν πο/λιτικῶν προσόδων καθ’ ἕκαστον ἐνιαυτὸν ὑποτέ/τακται. / εἰς τὴν ἐξέδραν τὴν καινὴν τὴν παρακειμένην τῇ / πομπικῇ στοᾷ Μάρκελλος πρῶτ(ος) καὶ / Θεόδωρος βουλ(ευτὴς) λαμβάν(ειν) / ξύλ(α) τετρ(άγωνα) γʹ, ξύλ(α) μονόζ(υγα) ηʹ, κεραμ(ίδια) / νν ε. / [εἰς] τὴν στοὰν τὴν πομπικ(ὴν) ἅμα τῷ ἐξεδρίῳ / Ἀριστότειμον πρῶτ(ον) καὶ Κατύλλου κλ(ηρονόμους) / ξύλ(α) μον̣(όζυγα) ζʹ, ξύλ(α) δίζ(υγα) ηʹ, ξύλ(α) ποδ(ιαῖα) [---] / ξύλ(α) καιν(ὰ) ζʹ / [------]. 24   Heil 1995, pp. 163-164, principalmente sulla scorta di Jones 1964, II, p. 732; III, p. 231, nota 44 richiamava il fatto che, in base a un provvedimento attribuibile a Costantino o a Costanzo II, le πολιτικαὶ πρόσοδοι (o redita fundorum iuris reipublicae, per usare l’espressione latina) erano state stornate a favore del fisco imperiale, privando le comunità cittadine di una delle loro principali fonti di entrata e costringendole dunque a una situazione di grave difficoltà, in particolare per quanto concerne i dispendiosi lavori di manutenzione, o addirittura di costruzione ex novo, delle opere di interesse pubblico; a parere dello studioso gli interventi di P. Ampelio nella provincia di Acaia, con la parziale restituzione di queste rendite, sebbene solo nella forma di materiali edilizi, sarebbero stati dunque intesi a porre rimedio a questa grave situazione. Tuttavia contro una generalizzata requisizione delle rendite cittadine da parte di Costantino o di Costanzo II vedi ora Biundo 2006 (anche con un cenno all’iscrizione di Calcide a p. 40) e, più sinteticamente, Biundo 2011, pp. 216-218. 25   Woodward, Hobling 1923-1925, pp. 225-229, n° 20 a = SEG XI, 464 = Feissel 1985, pp. 285-287, n° 24, con utile commento: Κατὰ πρόσταγμα  / [τ]ο̣ῦ λαμ(προτάτου) ἀνθ(υπάτου) Πουβλ(ίου) Ἀμπελίου  / [δι]ετυπώθησαν ἐπιμελεῖσθ(αι)  / [.]ω̣ν, Πανθάλης̣, [......]ος, Ἀρχιάδας,  / [.] Θ̣εα̣γένης, λαμβάνοντες πρός βοήθεια(ν)  / [σφῶν] αὐτῶν ζημιουμένων Νείκωνα, / [.....]ο[....], Ε[ὐ]φρόνιον, Εὔτυχον, εἰς / [.........]ον̣ τοῦ θεάτρου, λαμβάνον/[τ]ε̣ς̣ [καθ’ ἕκαστ]ον ἔτο̣ς ἀπὸ τῶν πολει/[τικ]ῶ̣[ν] προ̣[σόδ]ων δι̣ὰ τοῦ λογ[ι]στοῦ· / ξύ[λα ....]ν [....] α· / ξύ[λα ....] μ [....] η̣ [.] (?) / ξύ[λα .....]θ̣ρ̣ [.] (?)  / ------/ ξ̣[ύλα ---]  / κερ[αμίδια ---]. Un documento di natura assai simile sembra essere Woodward, Hobling 1923-1925, pp. 230-231, n° 21 = SEG XI, 465, ove si trova menzione dei lavori a un portico, anche in questo caso grazie ai materiali messi a disposizione a titolo di πολιτικαὶ πρόσοδοι, cfr. Feissel 1985, pp. 286-287; nella parte superstite di questo lacunoso testo tuttavia non si conserva menzione esplicita delle funzione di curatores dell’opera; l’unico nome superstite, quello di un Nicocrate, non appare nell’epigrafe relativa al teatro, lasciando pensare che le due opere vennero curate da commissioni distinte; in considerazione dei notevoli danni che hanno interessato il testo relativo al portico tale conclusione resta a livello ipotetico. 22

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loro funzione di curatori della costruzione del complesso di un portico nuovo (ἐπιμεληταὶ ὅλης τῆς κενῆς στοᾶς), in base a un ordine (κατὰ κέλευσιν) dello stesso governatore26. In altri casi, in particolare nelle città dell’Italia, si è supposta una nomina da parte del locale ordo decurionum, con ipotesi del tutto ragionevole, anche se gli studiosi che l’hanno avanzata non non hanno potuto richiamare fonti giuridiche o epigrafiche che la sostenessero27. Credo allora opportuno fare appello alla documentazione papiracea egiziana che, negli anni immediatamente precedenti alla concessione dei consigli alle poleis greche e alle metropoli da parte di Settimio Severo, attesta, in almeno un caso relativo a Ossirinco, una nomina dei curatori delle opere pubbliche da parte del segretario (γραμμάτευς), su decisione del collegio dei magistrati (κοίνον τῶν ἀρχόντων)28. Dopo la riforma severiana, che diede un impulso decisivo ad un processo che possiamo definire di “municipalizzazione” delle comunità dell’Egitto, rendendole più simili alle autonomie locali delle altre province dell’Impero, il processo di scelta degli ἐπιμεληταί era nelle mani della βουλή: il documento di portata generale più eloquente in questo senso è un testo di Ossirinco, datato al 280 d.C., che testimonia un’ordinanza del prefetto d’Egitto secondo la quale nella scelta (χειροτονία) dei curatori, ogni decisione del consiglio doveva essere sottoscritta anche da un segretario, qui chiamato, con calco dal latino, σκρείβας29; vero che il testo non fa riferimento esplicito ai curatori di opere pubbliche: ma non vi è ragione di credere che i funzionari di nostro speciale interesse fossero nominati con procedura diversa da quella valida in genere per gli ἐπιμεληταί: in effetti sempre a Ossirinco in un documento datato al 338 d.C. il logistes dell’Ossirinchite Flauios Eusebios informa un membro del consiglio cittadino, Aurelios Pasion, che era stato nominato curatore per la fornitura del legname da costruzione per un impianto termale e una porta settentrionale (delle stesse terme?), su ordine scritto emanato dal consiglio, attraverso il pritane Aurelios Nepotianos30. Nella documentazione di Hermopolis, relativa a richieste di fondi per i pagamenti di lavori pubblici, il curatore si definisce e viene definito con la formula αἰρεθέντος ὑπὸ τῆς κρατίστης βουλῆς (o simili)31.   SEG XLI, 412 = Habicht 1994-1995, pp. 128-132 = Heil 1995, pp. 162-165 (= SEG XLV, 422): Kατὰ κέλευσιν / τοῦ κυρίου ἡμῶν / τοῦ λαμ(προτάτου) ἀνθ(υπάτου) / Πουβλ(ίου) Ἀνπελίου / ἐπιμεληταὶ ὅλης / τῆς κενῆς στοᾶς / Νικοκράτης Καλλιτύχου / Ἐπίκτητος κ[α]ὶ Θεόδουλος / οἱ Ἐπικτή̣τ̣[ο]υ. Cfr. anche le osservazioni di D. Feissel a Bull. Ép. 1994, 738. 27  Cfr. Mancini 1910, pp. 1337-1338; Langhammer 1973, p. 164; Jaschke 2006, p. 188. Vedi inoltre Langhammer 1973, p. 178 e Kolb 1993, p. 58, con riferimento a D. 50.10.1 pr. (citato supra, nota 13), che tuttavia non mi pare attestare in termini espliciti la nomina del curator da parte del consiglio municipale. 28   Cfr. P. Oxy. I, 54 = W. Chr. 34 = Trismegistos 20716, ll. 10-14: εἰσδοθέντων ὑ /πὸ τοῦ τῆς πόλεως γραμματέως / γνώμῃ τοῦ κοινοῦ τῶν ἀρχόντων / εἰς ἐπιμέλειαν ἐπισκευῆς καὶ κα/τασκευῆς Ἁδριανῶν θερμῶν; cfr. Lukaszewicz 1986, p. 109, con discussione dei rispettivi possibili ruoli del segretario e del collegio dei magistrati e riferimenti alla bibliografia anteriore. 29   P. Oxy. IX, 1191 = Trismegistos 21578, partic. ll. 11-23: Αὐρήλιος Ὀλύμπιος γενόμενος ὑπομνημα  / τ[ογρά]φ̣ο̣ς̣ σ̣[τρατηγὸ]ς̣.[Ὀ]ξυρυγχίτου [--- σκρείβᾳ χαίρειν.] / [ἧς ἐλάβομεν ἐπ]ι̣[στο]λ̣ῆ̣ς̣ [παρὰ Αὐρηλίου Ἀμμω]/νί[ο]υ̣ τοῦ κρατίστου περὶ τῆς τῶν ἐπιμελη  / τῶν χειροτονίας κατὰ κέλευσιν τοῦ μεγέ  / θους τοῦ κυρίου τ̣ο̣ῦ διασημοτάτου ἡγεμόνος  / Ἁδριανίου Σαλλουστίο[υ] ἐφ’ ἑκάστου τῶν πε/ρὶ αὐτῶν / ἐπιστελλομένων ὑπὸ τῆς κρα(τίστης) βουλ(ῆς) / [ὑ]πογραφὴν εὐδοκήσεώς σου λαμβάνειν μὴ πα/[ρ]αλιμπάνιν τὴ[ν] στρατηγίαν, ὡς ἐκελεύσθη, / [ἀ]ντίγραφον ἐπιστέλλεταί σοι, ἵν’ εἰδῇς καὶ τὸ / [κ]ελευσθὲν ἐν φροντίδι ἔχῃς. Sul testo vedi le osservazioni di Lukaszewicz 1986, p. 110 e, in generale, anche Drecoll 1997, pp. 13-15; in particolare per l’interpretazione dell’ufficio di σκρείβας vedi Strassi 1991, pp. 109-117. 30   P. Oxy. VI, 892 = W. Chr. 49 = Trismegistos 20355, partic. ll. 4-9: ἴσθι ἐκ τῶν ἐπισταλέντων ὑπὸ τῆ[ς  ̣  ̣  ̣  ̣  ̣  ̣  ̣] / κρατίστης βουλῆς διὰ τοῦ ἐνάρχου π[ρυτάνεως] / Αὐρηλίου Νε̣π̣ωτιανοῦ ᾑρῆσθαί σ̣ε̣ [εἰς  ̣    ̣    ̣    ̣    ̣    ̣] / τῶν ἐνχρῃ̣ζ̣ό̣ντων ξύλων εἰς  ̣   ̣   ̣ος̣[  ̣   ̣   ̣   ̣   ̣   ̣   ̣] / βαλανῖον \ἔτι δὲ/ καὶ \εἰς/ [τ]ὴν κατασκευαζ[ο]μένην βορρινὴν / πύλην \τῆς πόλεως /. Cfr. Lukaszewicz 1986, p. 111. 31  Cfr. Drecoll 1997, p. 144, con riferimenti alla documentazione; cfr. anche Lukaszewicz 1986, p. 111. L’ipotesi di Lukaszewicz 1986, p. 110 secondo la quale anche i curatori delle opere pubbliche venivano scelti in una riunione della βουλή appostamente convocata mi pare fondarsi essenzialmente su P. Oxy. XII, 1412 = Trismegistos 21822, da Ossirinco, degli anni 279-281 d.C. (con le correzioni di lettura apportate nel commento a P. Oxy. XIX, 2228, p. 89): ma in questo documento, che è una convocazione del consiglio cittadino da parte del pritane Aurelios Eudaimon, la questione è quella di una nomina d’urgenza dei liturgi che dovevano assumersi la curatela del trasporto di grano per le truppe, secondo quanto sollecitato dalle autorità provinciali, cfr. Drecoll 1997, p. 87; la situazione, in qualche misura di emergenza, mi pare 26

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Per quanto concerne il profilo dei curatores operum publicorum, anche per essi doveva valere la regola generale di un’età maggiore di 25 anni che vigeva per i munera personalia, regola nota da alcuni passaggi del Digesto32. I dati prosopografici ricavabili dalla documentazione epigrafica non consentono di escludere recisamente che tale regola generale potesse conoscere qualche eccezione, dal momento che essi non riportano mai l’età esatta in cui venne gestita la cura operum publicorum, anche se l’epigrafe sepolcrale di Titius Felicianus da Alba Fucens attesta che il personaggio, al momento della morte, avvenuta a poco più di 29 anni di età, era già stato, oltre che curator operum publicorum e curator annonae, anche edile e quattuorviro in questa cittadina della regio IV33. A parte il caso di Titius Felicianus, di fatto dai cursus honorum epigrafici i nostri funzionari appaiono di regola persone di notevole esperienza e soprattutto di prestigio, appartenenti per lo più all’ordine dei decurioni, come per esempio C. Neratius Proculus Betitius Pius Maximilianus dell’iscrizione di Aeclanum sopra ricordata34. Non difforme il dato che emerge dalla documentazione papiracea della provincia romana d’Egitto, nella quale di regola gli epimeleti nel III e IV sec. d.C. sono scelti nel gruppo dei buleuti35. Abbiamo tuttavia anche alcune attestazioni di personaggi investiti di tale cura appartenenti all’ordine equestre: così per esempio nel caso di un tal Tiberio Claudio Polemone, ἱππικός, onorato nella sua patria di Kibyra, in Licia, intorno alla metà del II sec. d.C. per la sollecita cura τῶν δημοσίων ἔργων36: [ἀγαθῇ] τύχῃ· // κατὰ τὰ δόξαντα τῇ βουλῇ / καὶ τῷ δήμῳ τῆς λαμπρο/τάτης Καισαρέων Κιβυρα/τῶν πόλεως ἡ σεμνοτάτη / συνεργασία τῶν σκυτοβυρσέ/ων Τιβέριον Κλαύδιον / Πολέμωνα, ἀσιάρχην, ἱπ/πικόν, Τιβερίου Κλαυδίου / Ἱέρωνος, ἀσιάρχου δὶς καὶ ἀρ/χιερέως δὶς ὑόν, Τιβερίου / Κλαυδίου Δηιοτηριανοῦ / ἀσιάρχου ἀδελφόν, Μαρκί/ου Δηιοτηριανοῦ λυκιάρ/χου καὶ Φλαβίου Κρατέρου / ἀσιάρχου δὶς καὶ ἀρχιερέ/ ως ἔκγονον, ἀνθ’ ὧν / τῶν δημοσίων ἔργων / μετὰ ἐπιμελείας / προενοήσατο.

All’estremità inferiore della scala sociale rispetto al caso dei curatores appartenenti all’ordine dei cavalieri sembra collocarsi il caso, per la verità isolato, di due curatores thermarum noti a Carnuntum, nella Pannonia superior da una dedica a Vulcano che probabilmente si data al III sec. d.C.37: diversa da quella, più propria della routine amministrativa, della scelta degli epimeleti dei lavori pubblici, che più probabilmente dobbiamo pensare fosse inserita tra i punti dell’ordine del giorno di un’assemblea ordinaria. 32   Vedi in particolare D. 50.4.8: Ulpianus libro undecimo ad edictum. Ad rem publicam administrandam ante vicensimum quintum annum, vel ad munera quae non patrimonii sunt vel honores, admitti minores non oportet; vedi inoltre D. 50.5.2: Ulpianus libro tertio opinionum. Sextum decimum aetatis annum agentem ad munus sitoniae vocari non oportet: sed si nihil proprie in patria servatur de minoribus quoque annis viginti quinque ad munera sive honores creandi, iusta aetas servanda est. Cfr. Bonkoffsky 2001-2002, p. 55; su queste due testimonianze vedi anche Mentxaka 2011, pp. 27-28, anche se nel contesto di un’analisi interessata soprattutto all’età minima per accedere agli honores piuttosto che a quella per farsi carico dei munera. 33   Buonocore 1982, pp. 367-369 = AE 1984, 360 = Catalli 1998, p. 87, n° 76 = EDR 079431, citata infra, nota 57. 34  Cfr. Kornemann 1901, col. 1802. La prevalenza del ceto decurionale tra coloro che ricoprirono la cura operum publicorum trova del resto riscontro nel quadro relativo in genere alle curae municipali, cfr. per un’esaustiva analisi dei dati Bonkoffsky 2001-2002, pp. 153-167; più sinteticamente Langhammer 1973, p. 164; Jaschke 2006, p. 200. 35  Cfr. Lukaszewicz 1986, p. 108, con rimandi alla documentazione; vedi, a titolo d’esempio, P. Oxy. III, 473 = W. Chr. 33 = Trismegistos 20608, da Ossirinco, ma relativo a Naucrati, dal quale risulta che l’ἐπιμέλεια dei lavori a un impianto termale era stata affidata a un ex ginnasiarca. 36   IK 60, n° 63 = OGIS II, 495 = IGR IV, 907 = Collignon 1878, pp. 593-596, n°  1; riprendo nel testo la datazione proposta nel 2002 da Thomas Corsten, editore di IK 60, n°  63; Kearsley 1988, p. 50 aveva collocato piuttosto l’asiarchia di Ti. Claudio Polemone verso l’85 d.C., ma per una fondata critica a questa datazione si veda Herz 1992, pp. 95-100; Friesen 1993, pp. 215-217; sulla figura di Ti. Claudio Polemone e la sua famiglia, una delle più illustri di Kibyra, si veda PIR2 C 963; Kearsley 1988, pp. 47-50; Herz 1992, pp. 95-100; Friesen 1993, pp. 215217. Apparteneva all’ordine equestre anche Patrokles di ILS, 8867 = IGR III, 1545 = IK 9, n° 56 = Corsten 1987, pp. 110-114 (= SEG XXXVI, 1071). 37   CIL, III, 4447 = ILS, 3300 = Vorbeck 1980, n° 125 = Kremer 2012, n° 531. Per la datazione del documento vedi Pavan 1955, p. 518, seguito da Alföldy 1958, p. 445.

La gestione politica delle opere nella città romana: i curatores operum publicorum

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Volcano / Aug(usto) / M(arcus) Mucius / Frontinu{a}s / et L(ucius) Valer(ius) / Cyrillus, / Augustal(es), / curator(es) / thermar(um).

La combinazione tra la funzione di Augustalis, non di rado associata allo status di liberto, e, per il secondo dei personaggi ricordati, il cognomen grecanico Cyrillus inducono quantomeno a ipotizzare che i due curatores fossero di modesta origine, sebbene questo stesso documento ne attesti la significativa ascesa sociale38. Tra gli esponenti della classe dirigente locale, che, come ho già rilevato, è il ceto sociale prevalente tra i nostri curatores, la supervisione delle opere pubbliche pare comparire di regola in uno stadio avanzato del cursus honorum, dopo una carriera importante alle spalle nell’amministrazione municipale e talvolta addirittura nell’esercito. Esemplare in questo senso il caso di C. Nasennius Marcellus senior noto da un’iscrizione ostiense, forse da datare all’età di Traiano, che, se l’epigrafe, come mi pare, riporta il cursus honorum in ordine ascendente, pervenne alla cura operum publicorum dopo una carriera piuttosto brillante nell’esercito, con il comando di tre reparti ausiliari, e notevoli successi nella politica di Ostia, nella quale il nostro rivestì in successione l’edilità, la questura e il duovirato per ben tre volte, anche con i compiti inerenti il censimento locale39: C(aio) Nasennio C(ai) f(ilio) Marcello seniori, / praef(ecto) coh(ortis) I Apamenae, trib(uno) coh(ortis) I Italicae civium Romanorum volun/tariorum, praef(ecto) alae Phrygum, praef(ecto) fabrum, aedili, quaestori, duumvi/ro quinquennali III, curatori operum publicorum et aquarum / perpetuo, praetori et pontifici Laurentium Lavinatium, p(atrono) c(oloniae) Ost(i)ensium.  / Nasennia Helpis fecit patrono indulgentissimo et C(aio) Nasennio Sa/turnino, coniugi carissimo, sibi liberis libertis libertabus(que) posteris/que eorum.

In ragione di questa notevole esperienza, oltre che del rilievo politico, sociale ed economico di Nasennio Marcello, testimoniato anche dall’incarico di natura religiosa di praetor et pontifex Laurentium Lavinatium40 e dal patronato su Ostia, si può spiegare il cumulo della cura operum publicorum e della cura aquarum, così come il fatto che queste diverse curae gli fossero state affidate in perpetuo41. La durata dell’incarico di norma non sembra essere prefissata, ma era legata ai tempi di esecuzione di una precisa opera pubblica (o di più opere pubbliche), il cui nome entra talvolta nella titolatura stessa della cura, come vedremo in seguito42. Tali tempi, ovviamente, potevano essere superiori ad un anno, il termine più frequente delle funzioni municipali nel mondo antico, come mi pare dimostrare il già menzionato editto di Calcide di P. Ampelio, nel quale si specifica che i materiali necessari per la costruzione di un’esedra e di un portico dovevano essere assegnati ai curatori delle opere non in un unica soluzione, ma più volte, a cadenza annuale43. Tuttavia un’epigrafe da Leptis   Per l’ipotesi di uno status libertino quantomeno di L. Valerius Cyrillus vedi Alföldy 1958, p. 445; MihailescuBîrliba 2007, p. 64, n°15, sulla base della sua onomastica. Per la verità la documentazione urbana conosce un solo caso di un Cyrillus di origine servile, uno di un membro dell’ordine senatorio e ben 18 incerti, cfr. Solin 1996, II, p. 311 e 2003, I, pp. 443-444. 39   CIL, XIV, 171 = ILS, 2741 = EDR 143610; la curatela di Nasennio Marcello è attestata anche da CIL, XIV, 446 = CIL, XIV, 4457 = EDR 106560; sul personaggio cfr. Corbier 1984, pp. 255, 260-261, 263; Holder 2002, pp. 287-289. 40  Su questa funzione si veda Saulnier 1984 e, più recentemente, Granino Cecere 2008, incentrato sulla documentazione epigrafica dell’Italia settentrionale. 41  Cfr. Corbier 1984, p. 263, che dalla perpetuitas delle curae operum publicorum et aquarum di Nasennio Marcello desume la natura di funzione municipale ufficiale degli incarichi, in opposizione ai casi in cui il titolo di curator definiva semplicemente, anche a posteriori, colui che aveva compiuto un singolo e isolato atto di evergesia. Il cumulo di curatele differenti nello stesso momento è altrimenti attestato, vedi infra, pp. 79-80; sulla cura operum publicorum di Nasennio Marcello vedi anche le rapide considerazioni di Meiggs 1973, p. 185. 42  Cfr. Lukaszewicz 1986, p. 112; Bonkoffsky 2001-2002, p. 49; Jaschke 2006, pp. 194-195. 43   Cfr. IG XII, 9, 907 = Syll.3 905 = SEG XXXII, 849, citata supra, nota 23. Per questo aspetto Heil 1995, p. 164. 38

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Magna, risalente al III sec. d.C. attesta che l’incarico poteva essere iterato (in questo caso con preciso riferimento all’opera di restauro delle terme cittadine), dunque, che almeno in qualche contesto, una scadenza definita doveva esistere44: P(ublius) Cornelius Attax / Marcianus, / L(ucius) Appius Amicus / Rufinianus, / curr(atores) refectionis / thermarum tert(ium), / deo Aesculapio / v(otum) s(olverunt).

Va precisato che l’iterazione della cura operum publicorum in linea di principio doveva avvenire solamente in condizioni straordinarie: già un rescritto di Adriano, ripreso poi dal giurista di età severiana Callistrato, puntualizzava che solo nel caso non si trovasse un candidato idoneo ad assolvere un munus l’incarico poteva essere affidato ad una persona che già lo aveva assolto45. Peraltro la tematica, anche per il fatto che la documentazione di natura giuridica in nostro possesso non conserva informazioni puntuali sulla cura operum publicorum, ma solo notazioni che riguardano in genere i munera o i munera personalia, presenta una notevole complessità, che non può essere esplorata a fondo in questa sede46. Tuttavia, da un rescritto di Settimio Severo che ammetteva la gestione continuativa dell’onere di una cura per coloro che volontariamente rinunciavano all’intervallo di esenzione previsto47 e dal ripetersi dei provvedimenti imperiali a tutela di coloro che intendevano avvalersi delle esenzioni, ma che comunque, contro la loro volontà, erano stati chiamati ad assolvere questi onerosi carichi48, la mia impressione è che nella prassi l’iterazione della cura operum publicorum non fosse fenomeno rarissimo.   AE 1925, 105 = IRT 263 = Benseddik 2010, p. 59.   D. 50.4.14.6: Callistratus libro primo de cognitionibus. Si alii non sint qui honores gerant, eosdem compellendos, qui gesserint, complurimis constitutionibus cavetur. Divus etiam Hadrianus de iterandis muneribus rescripsit in haec verba: “Illud consentio, ut, si alii non erunt idonei qui hoc munere fungantur, ex his, qui iam functi sunt, creentur”. Cfr. Jaschke 2006, p. 195. 46   Sarà per esempio da inquadrare con maggior attenzione nei problemi complessivi riguardanti l’iterazione dei munera come la cura operum publicorum, ma anche la gestione contemporanea di più di una di tali funzioni e l’eventuale intervallo che si poteva invocare tra la gestione di queste stesse funzioni, un documento che Jaschke 2006, p. 196, nota 66 richiama, senza ulteriori commenti, come Pap. Vindob. Gr. XIII 524 a, datato al 310 d.C. circa. L’allusione, che la studiosa trae evidentemente in ultima analisi da Langhammer 1973, p. 243, nota 251, il quale sua volta dipendeva da Gerstiger 1951, p. 417 e da Karayannopulos 1958, p. 181, nota 32, va letta piuttosto al papiro greco della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna che reca il numero di inventario 15324 a, ora edito, insieme ad altri frammenti della medesima collezione riconosciuti come pertinenti allo stesso documento, da J. Frösen come P. Harrauer 35 (= Palme 2001, pp. 100-107); rimandando a tale edizione anche per un commento al testo, per i riferimenti alle precedenti pubblicazioni e alla bibliografia moderna rilevante, mi limito qui a segnalare che il papiro contiene, tra l’altro, anche copia di una lettera indirizzata da Aurelios Nikon, un notabile originario di Hermopolis ma che aveva rivestito alcune funzioni ad Alessandria, al prefetto d’Egitto L. Titinnio Clodiano (il cui governo provinciale è ora collocato verso il 250-255 d.C., cfr. da ultimo T. Gerhardt e U. Hartmann in Johne 2008, p. 1088, Aeg. 26 e ivi bibliografia anteriore; cfr. anche Jördens 2009, p. 530, che suggerisce una datazione tra il 247 e il 257). In tale lettera (vedi col. IV, ll. 37-50) Nikon puntualizzava che il fratello Olimpiodoro, convocato ad Alessandria dal prefetto Titinnio Clodiano per assolvere una qualche liturgia (copia della convocazione del prefetto a col. V, ll. 51-64), doveva ritenersi esentato da questo ulteriore servizio, poiché ancora soggetto all’onere del pagamento delle spese inerenti la carica di exegetes, invocando anche l’intervallo a norma di legge di tre anni tra l’assolvimento di due liturgie. 47   D. 50.1.18: Paulus libro primo quaestionum. Divus Severus rescripsit intervalla temporum in continuandis oneribus invitis, non etiam volentibus concessa, dum ne quis continuet honorem. 48   Cfr. per esempio C. Iust. X 41, 3, 1 di età dioclezianea: Imperatores Diocletianus, Maximianus. Sane his missis, qui necdum functi muneribus ad haec idonei constituti vocari debent, vos, si ad obsequium civilium munerum reppererit paruisse, ne iterum interpellemini, praeses provinciae providebit; C. Th. XII, 5, 3 = C. Iust. X, 32, 52 del 397 d.C.: Impp. Arcadius et Honorius AA. Probino proconsuli Africae. quis tam inveniri iniquus arbiter rerum potest, qui in urbibus magnifico statu praeditis ac votiva curialium numerositate locupletibus ad iterationem quempiam transacti oneris impellat, ut, cum alii necdum paene initiati curiae sacris fuerint, alios continuatio et repetitae saepe functiones adficiant? Dat. XVI kal. April. Mediolano Caesario et Attico conss. Non sono certo, a differenza di Langhammer 1973, p. 243, seguito da Jaschke 2006, p. 195, che sia qui rilevante la costituzione C. Iust. X, 41, 2 di Gordiano III che si riferisce eplicitamente agli honores, ovvero alle 44

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In circostanze che invece dobbiamo presumere del tutto eccezionali, e per personalità che possiamo supporre altrettanto eccezionali, la cura poteva essere resa perpetua: gli unici casi noti, allo stato attuale della nostra documentazione, sono relativi a Ostia per C. Nasennio Marcello senior e un suo omonimo discendente49. Per quanto concerne la tipologia di opere pubbliche oggetto della cura, essa riguardava costruzioni di natura “profana”, come per esempio le basiliche o le terme, con l’esclusione degli edifici religiosi, di cui si occupavano funzionari che in genere, nella documentazione latina, prendevano il nome di curatores aedium sacrarum, ma anche delle opere di carattere infrastrutturale come acquedotti e strade, oggetto in genere di curae specifiche e distinte, come la cura aquarum e la cura viarum, per restare sempre alla titolatura più diffusa nel mondo romano50. In circostanze particolari era tuttavia possibile il cumulo di competenze su diversi settori edilizi; oltre all’associazione di cura aquarum e operum publicorum in perpetuo nella già citata iscrizione ostiense relativa a Nasennio Marcello senior, significativa in questo senso un’epigrafe da Luna, forse databile intorno alla metà del I sec. d.C., assai lacunosa, dalle quale comunque possiamo ricavare che un tal Scribonius Proculus fu al contempo curator aedium sacrarum e curator operum publicorum51. Una simile associazione si ritrova anche per T. Flavius T. f. Germanus, che ai tempi di Commodo fu al tempo stesso curator sartorum tectorum operum publicorum e curator aedium sacrarum a Praeneste52, e forse per un anonimo personaggio di un’epigrafe da Tergeste che pare unire una competenza sia sugli edifici civili che su quelli religiosi53. Il cumulo di tali curatele del resto non deve stupire troppo, in considerazione del fatto che questi incarichi erano comunque attinenti alla sfera dell’edilizia pubblica54. magistrature, anche se attesta un intervallo di durata triennale tra la gestione della stessa funzione che è previsto anche per le liturgie secondo P. Harrauer 35, col. IV, l; la costituzione recita in effetti come segue: Imp. Gordianus A. Cyrillo. Ab honoribus ad eosdem honores quinquennii datur vacatio, triennii vero ad alios. legatione autem perfunctis biennii vacatio concessa est. 49  Cfr. Jaschke 2006, p. 196. La perpetuitas della cura di Nasennio Marcello senior è attestata da CIL, XIV, 171 = ILS, 2741 = EDR 143610 (citata supra, p. 11), quella di Nasennio Marcello iunior da CIL, XIV, 172 = ILS, 1429 = EDR 146349 (citata infra, nota 65). 50  Cfr. Bonkoffsky 2001-2002, p. 42. 51   CIL, XI, 1340 = AE 1994, 602 = Frasson 2013, pp. 70-73 = EDR 108374: [--- Scr]ibonio Proculo, / [--- cur(atori) aedium sac]rarum et operum / [publicor(um)]; da rilevare tuttavia che il personaggio potrebbe anche essere identificato con il senatore dell’età di Claudio e di Nerone P. Sulpicius Scribonius Proculus o con il padre di questi, Scribonius Proculus; in tal caso ovviamente saremmo di fronte a un curator dell’Urbe, non a un funzionario municipale; propende decisamente per questa ipotesi Speidel 1994, ma discussione del problema, con riferimenti alla bibliografia anteriore, in Frasson 2013, pp. 72-73. Qualche incertezza anche a proposito della testimonianza di CIL, X, 3910 = EDR 005743, che fu vista a Capua, ma che probabilmente proveniva da Cales (ultimi decenni del II sec. d.C. sulla base dell’identificazione del Ti. Statilius Severus menzionato dal testo con il console del 171 d.C. T. Statilius Severus, cfr. Liu 2009, p. 343, n° 46; Camodeca 2014, pp. 287-288): D(is) M(anibus) s(acrum). / M(arco) Cornelio / M(arci) fil(io) M(arci) nep(oti) Publ(ilia) / Iusto Acutiano, / IIIIvir(o) q(uin)q(uennali) i(ure) d(icundo), quaes(tori) rei p(ublicae),  / q(uaestori) alim(entorum), cur(atori) op(erum) p(ublicorum), / cur(atori) viae / Faler(nae), augur(i), praefec(to) Ti(beri) / Statili Severi, quaglator(i) / et patro[n(o)] colleg(ii) cento(nariorum), / MM(arci) Cornelii Acutianus / et Chrysippus et Iusta / patri optimo / fecerunt; il dettato del testo mi pare indicare che la curatela operum publicorum e quella viae Falernae fossero distinte e rivestite in successione, piuttosto che contemporaneamente. 52   CIL, XIV, 2922 = ILS, 1420 = EAOR IV, 3; il testo dell’epigrafe è citato infra, nota 86. 53   CIL, V, 537 = InscrIt. X, 4, 43 = EDR 007019: ------ / [--- curator a]edium sa[crar(um) et] / [o]perum [locorumque ? publicorum ---] / [--- fa]cien[dum ---] / [--- r]esti[tuit ---]; resta tuttavia aperta la possibilità che il frammento registri il cursus honorum di un membro dell’ordine senatorio (come ritenevano Zaccaria 1992 p. 218, con probabile datazione al II sec. d.C., e, in forma dubitativa Alföldy 1999, p. 285), nel qual caso dunque dovremmo vedere nell’anonimo personaggio un curator della città di Roma; per la discussione del problema vedi Kolb 1993, p. 275, n° 4, che data l’iscrizione tra il I sec. d.C. e gli inizi II sec. d.C. 54  Cfr. Jaschke 2006, p. 197. Non mi sembrano tuttavia rilevanti altri casi ricordati dalla stessa studiosa a proposito della gestione contemporanea di due diverse curae: in CIL, X, 3910 = EDR 005743 da Cales (citata supra, nota 51) dalla formulazione mi pare in effetti che la cura operum publicorum e la cura viae Falernae siano state gestite in successione

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Nel considerare questo problema va peraltro precisato che la possibilità di gestire più curatele municipali contemporaneamente non era limitato al caso delle funzioni affini, inerenti la sfera dell’edilizia pubblica. Il dato emerge chiaramente da un buon numero di documenti epigrafici, tra i quali un’iscrizione di Sutrium, posta sulla base di un monumento onorario di un locale curator pecuniae publicae et operum publicorum55. A Falerii Novi al tempo di Gallieno la singolare figura di Tyrius Septimius Azizus somma la curatela delle opere pubbliche a una più complessiva cura rei publicae56. Una situazione particolare ci presenta anche un documento rinvenuto a Phaselis in Lycia che attesta come un tal Κολάλημις avesse, apparentemente nello stesso anno, la curatela delle opere pubbliche e del ginnasio57. Del resto un passaggio di Ulpiano, rifluito nel Digesto, attesta, almeno implicitamente, che il cumulo delle curae (il giurista riporta l’esempio della cura aquae, che veniva ad aggiungersi ad un precedente e non meglio specificato munus) era previsto dalla legislazione imperiale, almeno per coloro che non avessero formalmente richiesto un’esenzione nel momento in cui veniva imposto loro un secondo onere, dopo quello che già assolvevano58. La documentazione epigrafica, come sopra ricordato, menziona talvolta esplicitamente nella titolatura del curator la natura specifica dell’opera di cui egli era chiamato a occuparsi. Tali indicazioni della titolatura rimandano non di rado a impianti termali59: oltre ai già citati curatores refectionis thermarum di Leptis Magna, posso ricordare il curator operis thermarum attivo ad Aequum Tuticum in età adrianea60, il curator balinei novi di Baetulo, nella Spagna Tarraconense61, infine i due curatores thermarum piuttosto che in contemporanea; in AE 1974, 266 = AE 1980, 236 = AE 1983, 193 = EAOR VIII, 9 = EDR 078903 da Puteoli (citata infra, nota 81) la definizione di curator operum publicorum et locorum mi pare essere denominazione locale di una sola e medesima curatela. Lukaszewicz 1986, p. 111, con rimandi alla documentazione rilevante, nota che nell’Egitto nella medesima ἐπιμέλεια sui lavori edilizi si potevano cumulare funzioni diverse, ma collegate tra di loro. 55   CIL, XI, 3258 = EDR 132703; il documento è citato infra, p. 87. 56   Il dato emerge in una serie di dediche a Gallieno e alla moglie Cornelia Salonina, tutte più o meno danneggiate; la formulazione più completa in CIL, XI, 3091 = EDR 094003 : [[[Corneliae Saloni]]]/[nae], san[c]tissimae / Aug(ustae), matri castro/rum, coniugi d(omini) n(ostri) [[G[a]l]]/[[[lieni]] In]victi Aug(usti) ac  / [super omn]es retro/ [principes] fortiss(i)mi, / [senatus c]ol(oniae) Falis/[corum de]votus / [numini] maiesta/[tique eiu]s, curan/[te Tyrio] Septi[mio Azi]zo, v(iro) p(erfectissimo), / [curator]e ope/rum [e]t rei publ(icae) / [e]orum; ma cfr. anche AE 1982, 272 = Suppl.It, n.s. 1, pp. 135-136, n° 12 = EDR 078580; CIL, XI, 3090a = CIL, VI, 1108 = Suppl.It, n.s. 1, pp. 134-135, n° 11 = AE 1979, 218 = EDR 076273 = EDR 077372; in questi documenti sostanzialmente la menzione della curatela è integrata sulla base di CIL, XI, 3091. Da notare che le edizioni di un testo del tutto analogo ai precedenti, CIL, XI, 3089 = CIL, VI, 1109 = AE 1979, 217 = EDR 077371, integrano la carica di Septimius Azizus solamente con cur(ator) r(ei) p(ublicae); sarà da valutare la possibilità che anche in quest’ultimo documento trovasse parimenti menzione la cura delle opere pubbliche; certa pare invece la menzione della sola cura rei publicae nella più integra CIL, XI, 3092 = EDR 094004. Sulla figura di Septimius Azizus si vedrà principalmente Jacques 1983, pp. 237-238; Jacques 1984, p. 296; Horster 2001, pp. 319-320; PIR2 S 445, ove ulteriore bibliografia. 57  TAM II, 1202: [ἐ]πιμελητὴς γυμνασιαρ[χίας] καὶ [δη]/μ̣οσων ἔργων. Il documento è stato datato solo genericamente all’età imperiale romana. Non sono certo che si possa considerare nella discussione di questo problema anche l’epigrafe Buonocore 1982, pp. 367-369 = AE 1984, 360 = Catalli 1998, p. 87, n° 76 = EDR 079431, nella quale, a differenza dei documenti ricordati in precedenza, le due sfere d’azione non sono collegate da congiunzione, ma solo in forma di asindeto, non consentendo di escludere che siamo davanti a due curatele distinte, rivestite in successione e non contemporaneamente: D(is) M(anibus) s(acrum). / [.] Titio Felicia/[n]o, IIIIvir(o) aed(ili), qui / [vi]x(it) ann(os) XXIX, m(enses) [---] / [di]es XXII, / [cur]atori anno/[nae], operum / [publi]cum (!), / [uxo]r fec[it] / [------]. 58   D. 50.10.1.1: Ulpianus libro secundo opinionum. Curam operis aquae ductus in alio iam munere constitutus postea susceperat. praepostere visus est petere exonerari priore utrisque iam implicitus, quando, si alterum tantum sustinere eum oportuisse, ante probabilius impetrasset propter prius munus a sequenti excusationem. Sul problema del cumulo di curae diverse vedi anche Liebenam 1900, p. 386; Kornemann 1901, col. 1802; Langhammer 1973, p. 178. 59  Cfr. Bonkoffsky 2001-2002, pp. 50-51. 60   CIL, IX, 1419 = ILS, 6489 = EDR 134102: I(ovi) O(ptimo) M(aximo) / C(aius) Ennius C(ai) f(ilius) Firmus, / permissu decurion(um) c(oloniae) B(eneventanorum), / Benevento aedilis, / IIvir i(ure) d(icundo), quaestor, / curator operis thermarum / datus ab / Imp(eratore) Caesare Hadriano Aug(usto). 61   CIL, II, 4610 = IRC I, 141: M(arco) Fab(io) Gal(eria) Nepot[i] / Iessonensi, aed(ili), IIvir(o) II, / fla[m(ini)] Romae et Augustorum, / curatori balinei novi, ob / curam et innocentiam / ex d(ecreto) d(ecurionum).

La gestione politica delle opere nella città romana: i curatores operum publicorum

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di un già menzionato documento da Carnuntum62. In modo ancor più dettagliato, in un piccolo dossier su papiro da Hermopolis, datato al 267 d.C., che contiene una richiesta di fondi al tesoro cittadino, un tale Aurelios Hermaios, detto Demetrios, è definito ἐπιμελητὴς πλακώσεως στοῶν γυμνασίου καὶ τιμ̣ῆς λίθων, curatore incaricato della lastricatura del portico del ginnasio e dell’acquisto delle lastre di pietra63. In questa tipologia di testi papiracei si ritrovano altri esempi di curatori definiti attraverso i materiali che dovevano procurarsi per portare a termine determinati lavori edilizi: così per esempio in un documento grosso modo coevo al precedente e sempre proveniente da Hermopolis, in cui l’epimelete Aurelios Origenes si caratterizza per il compito di assicurarsi intonaco e calce per i lavori alle terme Adrianee che si trovavano nel complesso del ginnasio64. Al di là dei dati ricavibili dalla loro titolatura, i riferimenti all’azione concreta dei curatores in iscrizioni relative a edifici pubblici sono singolarmente poco numerosi: a questo proposito si può richiamare soprattutto una base onoraria da Ostia del 184 d.C., che attesta che l’area in cui venne eretto un monumento onorario per il procurator annonae Q. Petronius Melior fu locus atsignatus (sic!) per C. Nasennium Marcellum, curatorem perpetuum operum publicorum65. Va tenuto in considerazione per il problema anche un documento da Catana dell’età di Marco Aurelio e Lucio Vero, peraltro di assai dubbia natura e nel quale il riferimento all’opera di un curator operum publicorum è oggetto di discussione nella dottrina scientifica: vi si parla di una por[ticus] o forse di un por[tus], come potrebbe far ipotizzare la comparsa dell’insolito termine ulvae, “alghe”66. Accanto alle opere esplicitamente men Vedi supra, nota 37.   SPP V, 94 = W. Chr. 194 = Trismegistos 22987; cfr. Lukaszewicz 1986, pp. 106-107. 64   SPP V, 82 = Trismegistos 22972, ll. 5-8: αἱρεθέντος ὑ[π]ὸ τ̣ῆς κ[ρ]ατίσ[της βουλῆς] εἰς ἐπιμέλε[ιαν] / καὶ συνωνὴν γύψου καὶ [χ]άλικ[ος τῶν ἐν τῷ ἐνταῦθ]α γυμνασίῳ / τῆς αὐτῆς πόλεως Ἁδρι[ανῶν θερμῶν βαλανείων τ]οῦ αὐτοῦ / γυμνασίου; per altri casi vedi Lukaszewicz 1986, p. 106. 65   CIL, XIV, 172 = ILS, 1429 = EDR 146349: Q(uinto) Petronio Q(uinti) f(ilio)  / Meliori,  / proc(uratori) annon(ae), adiutori curatoris  / alvei Tiberis et cloacarum,  / curatori rei publ(icae) Saenesium,  / praetori Etrur(iae) XV populorum  / bis, trib(uno) mil(itum) leg(ionis) III Gallicae, sc[r(ibae)]  / q(uaestorio) VI primo principi, praet(ori) Laur(entium) / Lavin(atium), IIIIviro q(uin)q(uennali) Faesulis, / pontif(ici) Faesulis et Florentiae, / corpus me(n)sor(um) frum(entariorum) Ost(iensium). / L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum) p(ublice). // Ded(icata) III Non(as) Feb(ruarias) / L(ucio) Eggio Marullo, Cn(aeo) Papirio  / Aeliano co(n)s(ulibus).  / Locus atsign(atus!) per C(aium) Nasenn(ium)  / Marcellum, cur(atorem) p(er)p(etuum) oper(um) pub(licorum). Sull’identità del corpus mensorum frumentariorum di Ostia, di cui in questo documento abbiamo la prima attestazione datata con sicurezza, vedi ora Ciambelli 2014-2015, pp. 50-52, con la biblbiografia precedente ivi citata. 66   CIL, X, 7024 = Manganaro 1959, pp. 145-156 = AE 1960, 202 = Manganaro 1989, pp. 169-170, n° 34 e fig. 36 = AE 1989, 341 d = Korhonen 2004, pp. 165-168, nn. 22-23 = EDR 139966: [Impp(eratoribus) Caess(aribus) M(arco) Aurelio Antonino et L(ucio) Aurelio] / [Vero Augustis Arme]niacis suis Iulius Paternus sal(utem). / [Scripsi quos labor]es pertulissem ut se haberet opus por[ticus] oppure port[us]  / [conlapsae id aut]em propitii velitis admittere ita me cu[riae] / [subvenisse cum praecept]o vestro in eadem cura remanere deberem qua [re] / [porticum oppure molem oppure pilam ---] reficiendam curavi cum deinde Catinenses m[unus]  / [omne recusarent ego] quam pecuniam dari iuberetis rescripsi set Sili[us(?)] / [---] nummos subministraturum idq(ue) ipsum etiam [so]/[luturum statim atq(ue) cum die]m dari ipsis iussisset ut ordine suo scribtura (!) fieret  / [qua ager publ(icus) in suam cu]ram transiret IIviri consensu paucorum decurionum / [censuere agri facere man]cipium cum erga procuratorem vestrum inreverens v[i]/[deretur quod ita proban]te curia ageretur ingressus petii ut quatenus neque / [vellet interdicere magis]tratibus neq(ue) magistratus vellent in[termitte] re ordo / [declararet ---] / [--- Catinenses] mihi concesserunt ut praedia recip]erata uluis c[ongesta et saxis] / [in territorio --- mancipi]o darem et decrever[unt de melioribus] agris in territorio Aetnense ut] inarentur utq(ue) ev[eherentur ---] / [---] nec sola haec erogata s[unt ---] / [---]E HS CCL m(ilia) n(ummum) summi[nistrata sunt] / [--- i]mpedirentur ego de m[eo supplevi] / [--- quantu]m trecentoru[m ---] / [--- Aug]usteum opus [defueret] / [--- consensum decurionu]m expugn[avi et // ] HS c(entum) m(ilia) quae[rerem ---] / ------. A favore dell’identificazione del Giulio Paterno qui nominato con un curator operum publicorum Jacques 1984, pp. 675-677; Manganaro 1989, p. 169; Eck 1999, p. 220; Korhonen 2004, p. 167; Privitera 2009, p. 53; proponeva piuttosto l’identificazione con un curator rei publicae Manganaro 1959, pp. 147-148; sembra preferire questa soluzione anche Cecconi 2006, p. 293, nota 25. L’ipotesi che l’opera in oggetto fosse una porticus era stata avanzata da Manganaro 1959, p. 149; la possibilità che i lavori interessassero piuttosto impianti portuali è di Korhonen 2004, pp. 167-168; discute le due teorie Privitera 2009, pp. 53-56, con ulteriore bibliografia. 62 63

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zionate nella documentazione epigrafica, possiamo certamente ipotizzare una competenza dei nostri curatores su altri edifici di natura civile, come per esempio basilicae, curiae o macella. Dalla natura dell’opera pubblica oggetto della curatela e specificamente dalla gravosità dell’impegno che comportava pare dipendere il numero, variabile nelle fonti a nostra disposizione, dei funzionari che venivano nominati67: nell’assegnazione del terreno sul quale erigere il monumento onorario di Petronius Melior a Ostia vediamo dunque agire il solo C. Nasennio Marcello68; lo stesso personaggio appare responsabile dell’adsignatio del luogo destinato a una base in onore di un personaggio di cui non conosciamo l’identità, anche se ad occuparsi dell’effettiva erezione del monumento furono dei curatores nude dicti, di nome Valerius Felix e Avillius Pudens69; così fu il solo Tyrius Septimius Azizus a occuparsi a Falerii Novi delle opere che commemoravano, in un caso, Gallieno e la moglie Salonina, in altri due la sola imperatrice70, come a Tusculum il locus per un monumento non meglio precisabile venne dato nel 186 d.C. dal curator operis o operum Cestius Rufus71. Due curatores sono invece attestati per il rifacimento delle terme di Leptis Magna72, così come una coppia di curatores thermarum è ricordata a Carnuntum73. Numeri superiori sono testimoniati a proposito degli importanti progetti edilizi promossi dal governatore della provincia di Acaia P. Ampelio nel 359-360 d.C.: a Megara tre ἐπιμεληταί agiscono per ordine del proconsole nella curatela della costruzione di un nuovo porticato74; a Calcide sono almeno quattro i curatori incaricati della supervisione dei lavori a un portico e un’esedra75 e quattro sembrano essere anche gli ἐπιμεληταί, assistiti da altrettanti aiutanti nel documento, peraltro assai lacunoso, che attesta gli interventi nel teatro di Sparta76. L’esistenza di un collegio di curatori è implicata dalla petizione che uno di loro, Erode figlio di Dioniso, presentò al prefetto d’Egitto Sulpicio Simile nel 107 d.C., lamentando che i suoi colleghi si erano rivelati inadeguati al compito di sovrintendere alla costruzione di un apparato termale di Hermopolis77. Il medesimo dato emerge da una ricevuta di Antinoopolis, datata al 138 d.C., emessa da Nemesion, figlio di Apollonios, Anthestios figlio di   In questo senso già Bonkoffsky 2001-2002, p. 54.   CIL, XIV, 172 = ILS, 1429 = EDR 146349, citata supra, nota 65. 69   CIL, X, 1791 = CIL, VI, 861 = Raoss 1968, pp. 96-102 = AE 1968, 84 = ILMN I, 563 = EDR 114969 = EDR 114970: [Ded]ic(atum) XI K(alendas) Iul(ias), Imp(eratore) Com/[mo]do Aug(usto) III et Antistio / [Bur]ro co(n)s(ulibus). Loc(us) adsig(natus) per / [Na]sennium Marcellum, cur(atorem) / [ope]r(um) pub(licorum), cur(atoribus) Valerio / [Fel]ice et Avillio Pu/[de]nte; dapprima attribuita a Puteoli (così per esempio in Comparette 1906, pp. 178-179, che peraltro fornisce un interessante commento all’iscrizione), l’epigrafe in oggetto è quasi certamente da riferire ad Ostia, cfr. in particolare Raoss 1968, pp. 98-102; Kolb 1993, pp. 276-277, n° 5. 70   Per i riferimenti alla documentazione e alla bibliografia vedi supra, nota 56. 71   CIL, XIV, 2590: ------  / [--- d]edicat(a) [---] VIII K(alendas) Iul(ias)  / [---] [[[Commodo Aug(usto) V]]] et  / [Gla]brione II co(n)s(ulibus), locus datu[s] / [a] Cestio Rufo, curat(ori) operi[s] vel oper[um], / [ae]dil(itate?) L(uci) Avilli Metiliani et / [---] Vibi Rufi. A favore dell’integrazione oper[um], sulla base della documentazione parallela, Bonkoffsky 2001-2002, p. 2590. Per l’ipotesi che qui la menzione degli edili abbia funzione eponima, con la formula aedilitate seguita dal nome dei magistrati in caso genitivo, vedi le considerazioni di Cesare Letta in Letta, Campanile 1979, p. 53, nota 95 e p. 54, nota 100. Se accogliamo questa ipotesi, come credo si debba fare, non terranno le osservazioni di Comparette 1906, p. 179 e di Bonkoffsky 2001-2002, p. 46, la quale si fondava precisamente su questa epigrafe per sostenere che i curatores operum publicorum non avevano propriamente la responsabilità della costruzione dell’opera, che sarebbe toccata piuttosto, a Tusculum, agli edili. 72   AE 1925, 105 = IRT 263 = Benseddik 2010, p. 59, citata supra, p. 78. 73   CIL, III, 4447 = ILS, 3300 = Vorbeck 1980, n° 125 = Kremer 2012, n° 531, citata supra, p. 77. 74   SEG XLI, 412 = Habicht 1994-1995, pp. 128-132 = Heil 1995, pp. 162-165, citata supra, nota 26. 75   IG XII, 9, 907 = Syll.3 905 = SEG XXXII, 849 citata supra, nota 23. 76   Woodward – Hobling 1923-1925, pp. 225-229, n° 20 a = SEG XI, 464 = Feissel 1985, pp. 285-287, n° 24, citata supra, nota 25. 77   P. Amh. II, 64 = Trismegistos 21671, ll. 11-13: Ἡρώδης Διονυσίου ἐνέτυχέ μοι / λέγων τοὺς σὺν αὐτῶι κατασταθέντας ἐ[π]ιμε̣λ̣η̣τ̣ὰς βαλανείου [ἀ]θέτους / εἶ[ν]αι κ[αὶ] μὴ ἀ̣ναλογο̣ῦντας τὴν ἐ[π]ιμέλειαν; cfr. Lukaszewicz 1986, p. 108, che suppone, ragionevolmente, che l’inadeguatezza dei colleghi di Erode riguardasse le loro rendite, insufficienti a garantire gli eventuali danni finanziari che potevano derivare dalla loro attività. 67 68

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Demetrio “e gli altri epimeleti del teatro di Antinoopolis” a favore di un trasportatore di nome Pausiris, per la fornitura di un carico di paglia78. Per quanto concerne le fasi della gestione delle opere pubbliche sotto il controllo dei curatores, tra di esse va ricordata in primo luogo l’adsignatio, ovvero l’individuazione del luogo specifico destinato all’edificazione, come attesta la già citata iscrizione CIL, XIV, 172 da Ostia, che specifica che il luogo pubblico destinato all’erezione di un monumento in onore del procuratore dell’annona Q. Petronius Melior fu atsignatus (sic!) dal curatore delle opere pubbliche Nasennio Marcello79. Tale potere di disposizione sui loca publica è talvolta esplicitato nella titolatura stessa della funzione, che può assumere la forma di curator operum locorumque publicorum80 o di curator operum publicorum et locorum81. Rientrava poi tra le competenze dei curatores operum publicorum la locatio, la cura delle procedure di appalto per la costruzione dell’opera pubblica82. Lo dimostra in particolare un passo di Ulpiano, che precisava che i curatori delle opere trattano con tutti gli appaltatori (redemptores), mentre la comunità nel suo complesso aveva a che fare unicamente con i curatores stessi, precisando che le eventuali controversie sarebbero state giudicate dal governatore provinciale e non dai magistrati cittadini iure dicundo83: Ulpianus libro tertio opinionum. Curatores operum cum redemptoribus negotium habent, res publica autem cum his, quos efficiendo operi praestituit. Quatenus ergo et quis et cui obstrictus est, aestimatio praesidis provinciae est.

La competenza sulla tuitio, ovvero sulla tutela delle aree di proprietà pubblica è dimostrata da un altro passaggio dello stesso Ulpiano, il quale nota che se un qualche edificio nuoce all’uso pubblico, esso deve, su richiesta di chi ha la curatela delle opere pubbliche, essere abbattuto84: Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum. Si tamen obstet id aedificium publico usui, utique is, qui operibus publicis procurat, debebit id deponere, aut si non obstet, solarium ei imponere.   P. Bad. IV, 74 = P. Choix 8 = Seider 1967, n° 34 = Trismegistos 19333, partic. ll. 1-8: Νεμ̣ε̣σίω̣ν Ἀπο̣λ̣λωνίου καὶ / Ἀνθέ̣σ τιος Δημητρίου καὶ οἱ / λ̣ο̣ι̣π̣ο̣ὶ̣ ἐ̣π̣ιμεληταὶ τοῦ ἐν / τῆι Ἀντινόου πόλει γινομέ̣/νου [θ]εάτρου Παυσεῖρι Ἁτρή/ους ναυτικῶι ἀπὸ κώμη̣ς̣  / Ἀγκυρῶν τοῦ Ἡρακλεοπολ(ίτου) / νομ̣οῦ χαίρειν. Il documento viene dalla località di Hibeh, dove risiedeva il nautikos Pausiris; cfr. Youtie 1968, p. 163; Lukaszewicz 1986, p. 112 e 134, nota 244 per i rimandi ad altri documenti che attestano commissioni di epimeleti. 79   Sui compiti di adsignatio dei curatores operum publicorum cfr. anche Comparette 1906, p. 177; Bonkoffsky 2001-2002, p. 46. 80   Così in AE 1934, 27 = Saastamoinen 2010, 991 da Diana Veteranorum (Numidia): [---]INV[---] / [--- cur]ator operum loc(orum)q(ue) [publicorum ---], / [--- sac(erdos)] Lavinatium Laure[ntium ---], / [---]ulium aedem cum [---] / [---] a municipibus su[is ---]; su questo documento vedi anche Kolb 1993, p. 282, n° 10. 81   Così in AE 1974, 266 = AE 1980, 236 = AE 1983, 193 = EAOR VIII, 9 = EDR 078903 da Puteoli, di età neroniana: [L(ucio) C]assio L(uci) f(ilio) Pal(atina tribu) Cerea[li, praef(ecto)]  / fabrum, aug(uri), q(uaestori) curatori o[perum]  / publicor(um) et locorum prim[o facto], / IIvir(o) q(---?), quinq(uennali), curatori aq[uae Aug(ustae)], / [[[hui[c]]] universa pleps cum [[gladiat(orium) munus]] / [[Neroni]] Caesari Aug(usto) in amphithea[tro ediderit]. / Cassia Cale Cer[e]ali f(ilio) piissimo [l(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum)]. 82  Cfr. Kornemann 1901, col. 1802; Langhammer 1973, p. 179; Bonkoffsky 2001-2002, p. 46. Ordinariamente la locatio era affidata ai massimi magistrati cittadini, cfr. Trisciuoglio 1998, p. 108. 83   D. 50.10.2.1. Sul passo vedi anche le osservazioni di Comparette 1906, p. 177; Langhammer 1973, p. 179; Bonkoffsky 2001-2002, p. 55; Malavé Osuna 2007, pp. 110-111 e 113, nota 162; l’ambigua espressione quos efficiendo operi praestituit non individua con certezza, a mio avviso, il curator operum publicorum incaricato della supervisione della costruzione, ma certamente questa sembra essere la soluzione più logica ed è data per scontata dalla dottrina scientifica sopra ricordata. In ogni caso il fatto che la documentazione papiracea ci abbia lasciato testimonianze di contratti conclusi tra gli appaltatori e la comunità nel suo complesso non mi pare in contraddizione con il passaggio di Ulpiano, come parrebbe invece pensare Lukaszewicz 1986, p. 107. 84   D. 43.8.2.17. Cfr. Comparette 1906, pp. 177 e 179-180; Jacques 1984, pp. 312-313; Bonkoffsky 2001-2002, p. 46. 78

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Degno di nota il fatto che il potere di tutelare i loca publica ed eventualmente di rivendicarne la proprietà alla comunità contro le pretese dei privati, un potere che mi pare essere reso evidente dalla denominazione curator operum locorumque publicorum e simili, in almeno un contesto locale, quello di Vienna, nella Gallia Narbonense, era nelle mani di una specifica magistratura annuale, quella di IIIvir locorum publicorum persequendorum, che pare tra l’altro costituire il vertice del cursus honorum municipale della città85. Tra le competenze dei nostri funzionari ricadeva certamente la manutenzione degli edifici pubblici e la cura dei restauri che si rendevano periodicamente necessari. Ancora una volta è in primo luogo la stessa titolatura che ci consente di avanzare questa ipotesi, con la variante di curator sartorum tectorum operum publicorum, che appare in un documento da Praeneste di età commodiana86, ponendo attenzione al fatto che sarcire ha anche il senso di “ripristinare” e che tectum, sebbene il suo significato più specifico sia quello di “tetto”, può designare più latamente una qualsiasi costruzione87. La refectio di non meglio specificati edifici pubblici, condotta con scrupolosa onestà, è del resto una delle motivazioni della dedica di un monumento onorario a C. Lepidius Victor a Sutrium88. Le testimonianze letterarie di Dione di Prusa e di Plinio il Giovane suggeriscono poi che, come era perfettamente logico attendersi, il curatore di un’opera era tenuto a fornire un preciso rendiconto che giustificasse le spese sostenute. Dione, in un’orazione che tenne nella sua città natale riguardo i progetti edilizi che egli aveva intrapreso, ricorda polemicamente che non tutti i curatori erano pronti a rendere conto delle spese che avevano sostenuto, così come rimproverava loro le continue richieste di fondi aggiuntivi, “come la giara che non ha fondo”89. Qualche anno più tardi, ai tempi del governatorato di Plinio il Giovane sulla provincia di Bitinia e Ponto, toccò allo stesso Dione essere accusato per non aver presentato il rendiconto: i suoi avversari personali Claudio Eumolpo e Flavio Archippo pretendevano infatti che Dione presentasse la ratio operis di un edificio (sulla cui esatta natura, pubblica o almeno parzialmente privata, eseguita dunque in parte con il contributo del patrimonio personale del retore, tuttora si dibatte: nel complesso, che comprendeva anche una biblioteca, Dione aveva fatto collocare il monumento funebre della moglie e del figlio, circostanza 85   Su questa magistratura, ancora poco studiata, qualche indicazione da parte Raoss 1964-1967, p. 1733 e di J. Gascou, in ILN, V, 1, p. 44, nota 51 (riferimenti alla documentazione) e pp. 46-49. Concordo con B. Rémy e B. Dangréux, in ILN, V, 2, p. 92 sul fatto che la comune traduzione della carica con triumvir chargé de dresser l’état des lieux publics risulti piuttosto generica e forse imprecisa, in considerazione dell’accezione più pregnante di persequor nel senso di “rivendicare (una proprietà)”. 86   CIL, XIV, 2922 = ILS, 1420 = EAOR IV, 3: T(ito) Flavio T(iti) f(ilio) Germano, / curatori triumphi felicissimi / Germanici secundi, [[---]] / [[------]] / [[---]] exornato, / sacerdot(i), splendidissimo pontif(ici) minor(i), / proc(uratori) XX her(editatium), proc(uratori) patrimoni(i), proc(uratori) Ludi / Magni, proc(uratori) Ludi Matutini, proc(uratori) reg(ionum) urbi(s),  / [a]diuncto sibi officio viarum  / [ster]nendarum urbis partibus duabus,  / [proc(uratori)] XX her(editatium) Umbriae Tusciae Piceni / [region]is Campaniae, proc(uratori) ad alimenta / [Lucan(iae)] Brutt(iorum) Calabr(iae) et Apuliae, / cur(atori) [sartor]um tectorum operum publ(icorum) / et aed(ium) [sacrar(um)], aed(ili) IIvir(o), flam(ini) divi Aug(usti), / IIvir(o) q(uin)q(uennali), patrono coloniae, / Cerdo, lib(ertus), patrono incomparabili / cum Flavis Maximino et Germano / et Rufino, filis, equo publ(ico) ornatis. 87   Bonkoffsky 2001-2002, p. 47. La connessione tra cura dei loca publica e dei sarta tecta è evidente anche in Fest., De verb. sign., s.v. Sarte, pp. 428-429 Lindsay che trascrivo nella versione degli Excerpta di Pompeo Festo redattti da Paolo Diacono: Sarte ponebant pro integre. Ob quam causam opera publicam, quae locantur, ut integra preastentur, sarcta tecta vocantur. Etenim sarcire est integrum facere; cfr. Comparette 1906, p. 179. 88   CIL, XI, 3258 = EDR 132703, citata infra, p. 87; cfr. Comparette 1906, p. 179. Per la competenza dei curatores operum publicorum sul restauro degli edifici pubblici, in analogia con gli omonimi funzionari dell’Urbe, vedi anche Mancini 1910, p. 1340; Kolb 1993, p. 58. 89   Dio Chyr., Or. 47, 19: ὃ γὰρ ἂν εἴπητε, τοῦτο ποιήσω καὶ περὶ τῶν ἄλλων ἁπάντων οὐδὲν ἀντἐρῶ, οὐδὲ ἂν ᾖ τις ἔργον πεποιηκὼς ὑπὲρ οὗ λόγον μὴ δέδωκεν, οὐδ’ ἂν ἔτι ποιῶν καὶ χρήματα λαμβάνων ἀεὶ παρὰ τῶν κατ’ ἔτος ἀρχόντων, ὥσπερ εἰς τὸν ἄπληστον πίθον τάδε ληψόμενος, οὐδὲ ἂν ἄλλο τι γίγνηται· τί γὰρ ἐμοὶ τούτων. Qualche considerazione sul brano e su alcuni possibili passi paralleli in Barresi 2003, p. 74.

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che parimenti i suoi nemici gli contestavano) della cui costruzione aveva assunto la supervisione, accusandolo di un’esecuzione non conforme a quanto previsto90. Questi cenni delle fonti letterarie trovano decisiva precisazione nella documentazione papiracea dell’Egitto romano, in non pochi testi nei quali gli ἐπιμεληταί nominati per sovrintendere all’esecuzione di una qualche opera di interesse pubblico, nel richiedere le somme necessarie per l’acquisto dei materiali edilizi, dichiarano che a tale riguardo presenteranno debito rendiconto. Così, per esempio, a Ossirinco, in un testo che si data al 201 d.C., i curatori Diogene, figlio di Serapione, e Lucio, figlio di Ermia, incaricati della supervisione dei restauri e degli arredi delle locali terme di Adriano (ἐπιμέλειαν ἐπισκευῆς καὶ κατασκευῆς Ἁδριανῶν θερμῶν), richiedono al ginnasiarca e all’esegeta 3 talenti per il pagamento dei materiali, una somma della quale daranno il dovuto rendiconto (ὧν λόγον τάξομεν ὡς δέον ἐστίν)91. Ragionevole ipotizzare, sebbene ciò non sia esplicitamente attestato, a differenza delle competenze sopra ricordate, anche un intervento sulle fasi di exactio, ispezione periodica sullo stato di avanzamento dei lavori e sulla conformità dei lavori stessi92, e di probatio, collaudo dell’edificio al termine della sua costruzione93. In effetti queste due fasi ricadevano di norma nelle competenze dei magistrati municipali: logico pensare che siano state assunte dai curatores operum publicorum nei casi in cui essi si affiancarono o sostituirono quei magistrati nelle loro competenze edilizie. Indicativo in questo senso potrebbe essere il fatto che anche l’adsignatio, compito che abbiamo visto essere ben attestato per i curatores operum publicorum, in normali condizioni ricadeva sotto le competenze dei massimi magistrati della comunità cittadina, come dimostrato da un’iscrizione da Puteoli datata al 161 d.C94. Peraltro da  Plin., Ep. X, 81, partic. 1-2: Cum Cocceianus Dion in bule assignari civitati opus cuius curam egerat vellet, tum Eumolpus assistens Flavio Archippo dixit exigendam esse a Dione rationem operis, ante quam rei publicae traderetur, quod aliter fecisset ac debuisset. 2 Adiecit etiam esse in eodem positam tuam statuam et corpora sepultorum, uxoris Dionis et filii, postulavitque ut cognoscerem pro tribunali. Da notare che nella sua risposta Traiano, mentre esclude di voler procedere contro Dione per il reato di lesa maestà, ordina un attento esame della ratio che il curatore non poteva rifiutarsi di fornire (né del resto pare che Dione si opponesse a ciò), perché corrispondeva all’interesse della comunità, cfr. Plin., Ep. X, 82, partic. 2: ratio totius operis effecti sub cura Cocceiani Dionis excutiatur, cum et utilitas civitatis exigat nec aut recuset Dion aut debeat recusare. Sulla questione si veda Sautel 1956, che interpreta il ruolo di Dione non solo e non tanto come funzionario pubblico incaricato della supervisione dei lavori, quanto piuttosto come finanziatore ed esecutore dell’opera pubblica, intrapresa a seguito di una pollicitatio; Sherwin-White 1966, pp. 675-679 (sostanzialmente contro l’ipotesi di Sautel); Desideri 1978, pp. 401-406 (su una posizione vicina a quella di Sautel); Bekker-Nielsen 2008, pp. 133-136; in particolare sul problema del rendiconto qualche parola in Barresi 2003, pp. 74-75. 91   P. Oxy. I, 54 = W. Chr. 34 = Trismegistos 20716: Σαραπίωνι τῷ καὶ Ὡρίωνι ἐν[άρ]χῳ / γυμνασιάρχῳ καταδεοῦς τὴν ἡλι/κίαν διὰ τοῦ κατὰ πατέρα πάππου / Ἀπίωνος γυμνασιαρχήσαντος, / καὶ Ἀχιλλίωνι ἐνάρχῳ ἐξηγητῇ / διὰ / Ἀχιλλίωνος τοῦ καὶ Σαραπάμ/μωνος υἱοῦ καὶ διαδόχου,  / παρὰ Διογένους Σαραπίωνος καὶ Λου/κίου Ἑρμίου, ἀμφοτέρων ἀπ’ Ὀξυ/ρύγχων πόλεως, εἰσδοθέντων ὑ/πὸ τοῦ τῆς πόλεως γραμματέως / γνώμῃ τοῦ κοινοῦ τῶν ἀρχόντων / εἰς ἐπιμέλειαν ἐπισκευῆς καὶ κα/τασκευῆς Ἁδριανῶν θερμῶν. / αἰτούμεθα ἐπισταλῆναι ἐκ τοῦ / τῆς πόλεως λόγου εἰς τειμὴν γε/νῶν ἐπὶ λόγου ἀργυρίου τάλαντα / τρία, γί(νεται) (τάλαντα) γ, ὧν λόγον τάξομεν / [ὡς] δέον ἐστίν. (ἔτους) θ / Α[ὐ]τοκρατόρων Καισάρων / Λουκίου Σεπτιμίου Σεουήρου  / Εὐσεβοῦς Περτίνακος Ἀραβικοῦ  / Ἀδιαβηνικοῦ Παρθικοῦ Μεγίστου  / καὶ Μάρκου Αὐρηλίου Ἀντωνίνου  / Εὐσεβοῦς Σεβαστῶν [[καὶ]]  / [[Πουβλίου Σεπτιμίου Γέτα]]  / Καίσαρος Σεβαστοῦ, Φαρμοῦθι.  / (mano 2) Διογένης Σαραπ[ί]ωνος αἰτοῦ/μαι τὰ τ[ο]ῦ ἀργυρίου τάλαν/τα τρία ὡς πρόκιται. / (mano 3?) Λ[ού]/κιος Ἑρμίου συναιτοῦμαι / τὰ τοῦ ἀργυρίου τάλαντα τρία / ὡ[ς πρό]κιται. Cfr. anche Barresi 2003, pp. 69-70 e nota 219. 92   Sulla fase dell’exactio vedi Trisciuoglio 1998, p. 113. 93   Per l’intervento dei curatori nel collaudo dell’opera nella documentazione ellenistica cfr. Barresi 2003, p. 74. 94   CIL, X, 1814: Locus datus ex auctoritate Flavi / Longini, cl(arissimi) v(iri), cur(atoris) r(ei) p(ublicae), adsignat(us) a / M(arco) Valerio Pudente, IIvir(o), curat(ore), / X Kal(endas) April(es) / Imp(eratore) Caesare M(arco) Aurelio Antonino Aug(usto) III / et Imp(eratore) Caesare L(ucio) Aurelio Vero Aug(usto) II co(n)s(ulibus); sul documento vedi Mancini 1910, p. 1340; Raoss 1968 p. 97; Camodeca 2003, p. 177, nota 9 e 2008, p. 517. Da notare che Bonkoffsky 2001-2002, pp. 44 e 47-48 ritiene chiaro che M. Valerius Pudens fosse un curator operum publicorum e che la menzione incompleta della funzione sia da imputare, con probabilità, alla mancanza di spazio sulla pietra o a un errato calcolo degli spazi stessi da parte del lapicida; mi pare puttosto che in questo caso Valerio Pudente eserciti la sua cura sull’adsignatio del terreno come parte dei suoi regolari poteri di duoviro (per altri casi di questo tipo vedi Solin 1989, p. 51 e nota 22); 90

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rilevare la possibilità che, in talune circostanze e in talune realtà locali, il compito dell’exactio fosse distaccato da quello della cura e affidato a speciali funzionari, gli exactores attestati in qualche documento della parte occidentale dell’Impero, o i meglio noti ἐργεπιστάται delle province ellefone95. In ogni caso tutte le fasi appena ricordate ricadono nel momento esecutivo della costruzione o del rifacimento dell’opera pubblica: il momento decisionale resta nelle mani dell’ordo decurionum96, cui spetta anche la datio, ovvero la formale concessione del terreno sul quale erigere l’opera in questione. In considerazione dei poteri che i curatores operum publicorum possedevano in un ambito economico di grande rilevanza come quello dell’attività edilizia, possiamo suppore l’esistenza di connessioni piuttosto strette tra questi funzionari e le associazioni professionali che riunivano i lavoratori di questo settore economico. Un’interessantissima epigrafe da Alba Fucens, datata alla metà del II sec. d.C., suggerisce alcuni spunti in questo senso97: D(is) M(anibus) s(acrum). / L(ucio) Marculeio Saturnino, / veterano Augusti c(o)ho(rtis) VII / pr(aetoriae), IIIIviro i(ure) d(icundo), quaestori rei p/ublice (!), curatori pecunia/e alument[a]r(iae) (!), curatori an/ non(a)e plebis, curatori oper/um publicor(um), curatori apu/t (!) Iovem statorem, q(uin)q(uennali) cole/gi (!) fabr(um) tignuariorum. L(ucius) M/arculeius Faustus Iunior, / IIIIvir iure dic(undo), curator{i} ann/ one (!), patri optimo et sibi fecit.

Da questa epigrafe sepolcrale apprendiamo che il defunto, L. Marculeius Saturninus, veterano delle coorti pretorie, dopo il congedo ebbe un importante carriera a livello locale, sia rivestendo le magistrature ordinarie di Alba Fucens, il quattuorvirato iure dicundo e la questura, ma accumulando anche un’impressionante serie di curatele straordinarie: la cura pecuniae alimentariae, la cura annonae, la cura apud Iovem Statorem, oltre ovviamente alla cura operum publicorum. A proposito di quest’ultima carica, colpisce che al contempo Merculeio Saturnino abbia avuto anche la presidenza della locale associazione di mestiere che riuniva i fabri tignuarii. Costoro prendevano il loro nome dal sostantivo tignum, che indicava il legname nella sua accezione di materiale da costruzione, e possono dunque identificarsi precisamente con dei carpentieri98. Tuttavia con l’andar del tempo e il crescente uso della pietra come materiale da costruzione, i fabri tignuarii allargarono il loro campo di attività: in età imperiale i fabri tignuarii sono in genere coloro che si occupano dell’at­tività edilizia, qualunque fosse la materia impiegata per la costruzione: lo testimonia un passo del Digesto estratto dal commento di Gaio alle leggi delle XII Tavole, dell’età degli Antonini: fabros tignarios dicimus non eos dumtaxat, qui tigna dolarent, sed preferisco dunque escluderlo dal novero di coloro che possiamo definire curatores operum publicorum in senso stretto, anche se non disconosco l’interesse generale che questo documento ha per la tematica. 95  Cfr. infra, nota 125. 96  Cfr. Trisciuoglio 1998, p. 140. 97   CIL, IX, 3923 = ILS, 6536; il testo è ripreso, con brevi considerazioni, anche da Ricci 1994, p. 39; cfr. inoltre Corbier 1984, p. 263; Jacques 1984, p. 503. 98   Si veda per esempio Cic., Brut. 257, un passo dal quale emerge che il mestiere di faber tignuarius (che qui appare nella comune variante di faber tignarius) era soprattutto connesso alla costruzione dei tetti delle case, per i quali in effetti si fece sempre grande uso di legname: in un dibattito sulla preminenza dell’attività oratoria su quella militare Cicerone afferma che avrebbe preferito pronunciare un’orazione come quella di L. Licinio Crasso in difesa di M’. Curio piuttosto che conquistare due trionfi; all’obiezione del suo interlocutore Bruto, secondo il quale per lo stato era più importante conquistare qualche villaggio ligure piuttosto che di­fendere nel migliore dei modi Curio, Cicerone replicò: credo; sed Atheniensium quoque plus in­terfuit firma tecta in domiciliis habere quam Minervam signum ex ebore pulcherrimum; tamen ego me Phidiam esse mallem quam vel optimum fabrum tignarium. Questa etimologia specifica si ritrova ancora nel capitolo De lignariis delle Ori­gines nel quale Isidoro di Siviglia spiega le differenze tra i diversi artigiani che lavoravano il legno (XIX, 19, 1-2), con un richiamo a significati ormai anacronistici per il periodo in cui visse il vescovo di Hispalis, tra la fine del VI e gli inizi del VII sec. d.C., anacronismi che del resto sono caratteristici della sua opera: lignarius generaliter li­gni opifex appellatur. Carpentarius speciale nomen est; carpentum enim solum facit quia tantum navium est fabri­cator et artifex. Sarci­tector dictus quod ex multis hinc et inde coniunctis tabulis unum tecti sarciat corpus. Idem et tignarius, quia tectoria lignis inducit.

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omnes qui aedificarent99. In altre parole, Merculeio Saturnino appare avere un duplice e potenzialmente conflittuale interesse a proposito delle opere pubbliche di Alba Fucens: come sovrintendente che doveva sorvegliare la corretta esecuzione di quei lavori pubblici, ma al contempo anche come presidente dell’associazione dei costruttori della cittadina della Marsica e con ogni verismiglianza costruttore egli stesso. Il testo di Alba Fucens lascia intuire l’esistenza, anche in altri casi, di un intreccio di interessi tra curatores operum publicorum e i lavoratori del settore edilizio, sul quale vorremmo indubbiamente sapere di più. In effetti anche altri documenti illustrano rapporti tra i nostri funzionari e le associazioni di mestiere, rapporti che tuttavia risultano di meno immediata comprensione rispetto alla situazione testimoniata dall’epigrafe di Alba Fucens: in una già citata iscrizione da Kibyra è la locale συνεργασία τῶν σκυτοβυρσέων (l’associazione lavoratori del cuoio) a farsi dedicante di un monumento onorario al curatore Ti. Claudio Polemone100. In un documento da Cales, che dovrebbe risalire alla seconda metà del II sec. d.C., il curatore Marco Cornelio Giusto Acutiano è invece segnalato anche come patrono dell’associazione dei centonarii, che riuniva i lavoratori del settore tessile101. L’esistenza di intrecci tra curatores operum publicorum e mondo del lavoro lascia sospettare l’esistenza di relazioni che, almeno a un osservatore moderno, appaiono non sempre di cristallina limpidezza. Si intravede in particolare la possibilità che la cura operum publicorum, oltre che un onere, potesse dare anche occasione di concreti vantaggi, sul piano politico, sociale ed economico. Rafforzano il sospetto alcune espressioni che qualificano la gestione di questa cura nelle epigrafi di natura onoraria. Significativo in questo senso mi pare un testo di Sutrium in onore di un tale C. Lepidius Victor, ringraziato dai decurioni, dagli Augustali e dal populus tutto con il voto di una statua per la fides messa in mostra in occasione dei restauri cui sovrintese nella sua funzione di curator operum publicorum102: C(aio) Lepidio C(ai) f(ilio) Pap(iria) / Victori, / IIviro iure dic(undo), cur(atori) / pec(uniae) publ(icae) et operum pu/blicorum, quibus ex fide / refectis ob merita eius / decuriones et August(ales) / et populus / statuam ponendam / ex aere conlato decre/verunt, qui honore / contentus ex suo posuit / et conlationem reddidit.

L’espressione ex fide per la verità si può prestare a diverse interpretazioni: Véronique Bonkoffsky ha ipotizzato che il testo intendesse mettere in luce come Lepidius Victor avesse assolto il suo compito secondo quanto egli aveva promesso nell’assumere la funzione, o in conformità con le aspettative che la sua nomina aveva suscitato nella cittadinanza103. Tuttavia non escluderei affatto una traduzione con l’espressione “con probità”, alludendo al fatto che il personaggio non si era arricchito in modo illecito durante l’esercizio della sua funzione, come invece poteva accadere; la valenza di questa notazione, anche in considerazione del fatto che i paralleli epigrafici della formula ex fide non sono affatto numerosi104, meriterebbe dunque un’analisi specifica, anche se mi pare indubbio che l’espressione segnali con esplicita evidenza un comportamento virtuoso di Lepidius Victor.   D. 50.16.235.1. Cfr. Meiggs 1982, p. 360; Gimeno Pascual 1988, p. 31. In generale sul senso dell’espressione faber tignuarius con altri riferimenti alle fonti e alla bibliografia moderna rimando a Cristofori 2004, pp. 198-199. 100   Il testo di questa iscrizione è citato supra, p. 76. Un cenno al documento, in relazione all’altrimenti sconosciuta associazione dei lavoratori del cuoio, in Ruffing 2008, II, p. 755. 101   CIL, X, 3910 = EDR 005743, citata supra, nota 51. Brevi note sulle funzioni rivestite da Giusto Acutiano nell’associazione in Castagnetti 2007, pp. 240-241; anche nel lavoro ora di riferimento per i collegia centonariorum, Liu 2009, solo rapide considerazioni su questo testo alle pp. 49 e 222, che non riguardano tuttavia il rapporto tra il patronato dell’associazione e la funzione di curator operum publicorum. 102   CIL, XI, 3258 = EDR 132703; Petraccia 1988, p. 231, n°  252 suggerisce per questo testo, sulla base del contenuto e della formula onomastica, una datazione tra il II sec. e la metà del III sec. d.C.; Bonkoffsky 2001-2002, p. 53 lo pone genericamente al II-III sec. d.C. 103   Bonkoffsky 2001-2002, p. 53. 104  Cfr. CIL, VIII, 18227; IGLS IV, 1375. 99

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Meno ambigui i dati che emergono da altre due testimonianze epigrafiche. In un primo documento da Baetulo, nella Tarraconense, che abbiamo già ricordato, il curator balinei novi M. Fabio Nepote viene elogiato per la cura et innocentia messa in luce nella sua opera105. Interessante in questo contesto anche una base onoraria da Pessinunte, nella provincia di Galazia, sulla base del formulario datata ipoteticamente alla seconda metà del II sec. d.C., in cui un notabile, il cui nome è andato perduto nella lacuna iniziale del testo, è lodato, tra il resto, per aver gestito l’ἐπιμέλεια τῶν δημοσίων ἔργων ἁπάντων con scrupoloso zelo e magnanimità (προνοητικῶς καὶ μεγαλοφρόνως)106: [․․]δ̣ια[---]/α̣ς μέχρι παίδων̣ ἡλικίας τ[ῇ] / πόλει παρασχό[ν]τ̣α, τῶν δημο/σίων ἔργων [ἁ]πάντων προν̣[ο]/ ητικῶς καὶ με[γα]λο[φ]ρόνως  / ἐπιμεληθέντα, ἱερ̣[έ]α καὶ ἄρ/χοντα, ἀγορανομήσαντα  / τῷ αὐτῷ ἔτει λαμπρῶ̣[ς μ]η/σὶν τρισίν, [υ]ἱὸν πόλεως̣, [π]ρ̣[ο]/στάτην, ἡ βουλὴ καὶ ὁ δῆμος̣  / Σεβαστηνῶν Τολιστοβω/ γίων ἐκ τῶν ἰδίων προσό/δ̣ων vacat ἐτείμησεν.

Eloquente, a mio avviso, anche un decreto onorario su papiro, rinvenuto a Ossirinco, ma pertinente a Naucrati, datato al regno di Antonino Pio. Il testo, sebbene assai lacunoso, lascia intendere che l’anonimo personaggio onorato, tra i diversi motivi di merito, poteva vantare anche quello di un restauro di un impianto termale condotto μεγαλοφρόνως durante la sua ἐπιμέλεια dell’edificio107. Il sospetto è che non tutti i curatori delle opere pubbliche abbiano mostrato la stessa fides, innocentia e μεγαλοφροσύνη degli onorati in questione, il cui comportamento integerrimo trova ragione di essere notato proprio per il fatto che non poteva essere dato per scontato. Un indizio importante in questo senso ci viene da una lettera di Plinio il Giovane che, giunto da poco nella sua provincia di Bitinia e Ponto, dopo aver esaminato la situazione finanziaria della città di Prusa108, chiese a Traiano che gli inviasse un mensor, che lo assistesse nel compiere i necessari rilievi sugli edifici pubblici della città; tali rilievi Plinio prevedeva potessero portare al recupero di notevoli somme illegalmente detenute da curatores operum, un illecito guadagno che evidentemente doveva derivare principalmente dall’uso di materiali edilizi in quantità minore o di qualità inferiore rispetto a quella prevista e pagata dalla comunità109. Alla luce di ciò si può interpretare anche un passaggio dei Praecepta gerendae rei publicae nel quale Plutarco, a chi gli rimproverava la pignoleria con la quale controllava tegole e impasti, ribatteva che gli scrupoli non sono mai eccessivi se si tratta di una costruzione pubblica, diretta a vantaggio della patria110.   CIL, II, 4610 = IRC I, 141, citata supra, nota 61.   Devreker 1988, pp. 39-40, n° 6 (= SEG XXXVIII, 1288 e Bull. Ép. 1990, 772) = IK 66, n° 170. 107   P. Oxy. III, 473 = W. Chr. 33 = Trismegistos 20608, ll. 4-5: καὶ τὴν τῶν βαλα/[νείων --- ] μ̣έ̣ρος καίτοι τῆ[ς] τῶν μειζόνων θερμῶν ἐπιμελείας εἰς αὐτὸν ἐλθούσης μεγαλοφρόνως. Dall’avverbio μεγαλοφρόνως Lukaszewicz 1986, p. 105 deduce che l’onorato, nominato a una generica funzione di supervisione delle terme, avesse intrapreso di propria volontà (e, dobbiamo supporre, a proprie spese) il restauro dell’impianto, un compito che non sarebbe rientrato tra quelli propri della sua ἐπιμέλεια; l’ipotesi, soprattutto alla luce della documentazione epigrafica sopra richiamata, non mi pare necessaria: anche l’espletamento dei compiti effettivamente inerenti una cura poteva essere motivo di distinzione, se eseguito in modo integerrimo. 108   Cfr. Plin., Ep. X, 17 A, 3: Nunc rei publicae Prusensium impendia, reditus, debitores excutio; quod ex ipso tractatu magis ac magis necessarium intellego. Multae enim pecuniae variis ex causis a privatis detinentur; praeterea quaedam minime legitimis sumptibus erogantur. Il passo è opportunamente richiamato da Barresi 2003, p. 69. 109  Plin., Ep. X, 17 B, 2: Dispice, domine, an necessarium putes mittere huc mensorem. Videntur enim non mediocres pecuniae posse revocari a curatoribus operum, si mensurae fideliter agantur. Ita certe prospicio ex ratione Prusensium, quam cum maxime tracto. Su questa testimonianza qualche considerazione in Barresi 2003, p. 76. 110  Plut., Praec. ger. r. p. 15, 811 C: ἐγὼ δ᾽ ἀνάπαλιν πρὸς τοὺς ἐγκαλοῦντας, εἰ κεράμῳ παρέστηκα διαμετρουμένῳ καὶ φυράμασι καὶ λίθοις παρακομιζομένοις, οὐκ ἐμαυτῷ γέ φημι ταῦτ᾽ οἰκοδομῶν ἀλλὰ τῇ πατρίδι. καὶ γὰρ εἰς ἄλλα πολλὰ μικρὸς ἄν τις εἴη καὶ γλίσχρος αὑτῷ διοικῶν καὶ δι᾽ αὑτὸν πραγματευόμενος: εἰ δὲ δημοσίᾳ καὶ διὰ τὴν πόλιν, οὐκ ἀγεννής, ἀλλὰ μεῖζον τὸ μέχρι μικρῶν ἐπιμελὲς καὶ πρόθυμον. Accolgo la lezione οἰκοδομῶν, che del resto prevale nella tradizione manoscritta, al posto di οἰκονομεῖν, congetturato da alcuni editori: il riferimento generico all’azione di “amministrare” sarebbe in sé plausibile, 105 106

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Una preziosa conferma documentaria degli illeciti comportamenti di cui si potevano macchiare i curatori delle opere pubbliche nell’esercizio delle loro funzioni ci viene da un documento papiraceo da Ossirinco, databile probabilmente al 178 d.C.111: si tratta di una petizione rivolta da sei epimeleti che erano stati incaricati della cura di una statua aurea della dea Atena Thoeris, caratteristica figura del sincretismo religioso greco-egizio di Ossirinco112; nel corso dei lavori era risultato un ammanco d’oro, quantificabile nel valore di 18 talenti d’argento, che il prefetto d’Egitto Pactumeio Magno aveva chiesto di rifondere agli artigiani che avevano materialmente eseguito l’opera, ai magistrati in carica in quell’anno e, ovviamente agli epimeleti. Ora questi ultimi si rivolgevano a un anonimo prefetto d’Egitto, probabilmente l’immediato successore di Pactumeio Magno, apparentemente non contestando affatto l’accusa – il dato è per noi di estremo interesse – ma chiedendo in particolare una dilazione del pagamento, poiché le attuali condizioni li avrebbero condotti alla rovina – loro che si definivano μέτριοι, uomini di modesta condizione economica. Per una compiuta valutazione storica della cura operum publicorum sarà necessario tenere in primo luogo conto della distribuzione cronologica delle testimonianze, che si collocano in un arco cronologico piuttosto ampio: nelle province orientali, a prescindere dalle funzioni relative agli edifici pubblici testimoniate per il periodo precedente, la prima testimonianza pare essere quella dell’ἐπιστάτης τῶν ἱερῶν καὶ δημοσίων ἔργων Antiochos figlio di Thargelios da Mylasa, risalente alla seconda metà del II sec. a.C. o ai decenni seguenti. Le ultime attestazioni sono invece, al momento, quelle legate ai programmi edilizi del governatore d’Acaia P. Ampelio, poco dopo la metà del IV sec. d.C. Più tarda la collocazione cronologica delle testimonianze latine per le province occidentali, che si distribuiscono nel periodo che va dall’età di Nerone113 all’età di Diocleziano e Costantino114, ma con un significativo addensarsi della documentazione nel periodo degli Antonini. Altrettanto indicativa è la distribuzione geografica della documentazione epigrafica sui curatores operum publicorum, in particolare nella pars occidentalis dell’Impero, con un’evidente concentrazione delle testimonianze nelle regioni dell’Italia centrale. Non si può mancare di riconoscere che il quadro a noi noto può dipendere dall’esiguità del campione a noi giunto e dalla casualità dei rinvenimenti: ma si tratta di un quadro dai contorni abbastanza netti ma non vi è ragione di sostituirlo al concreto “costruire”, cfr. Caiazza 1993, pp. 238-239, nota 217. Rapidi riferimenti a questo brano in Lukaszewicz 1986, p. 104; Barresi 2003, p. 69. 111   P. Oxy. VIII, 1117 = Trismegistos 21739; il lungo documento è piuttosto lacunoso, ma il suo senso generale pare chiaro, cfr. Lukaszewicz 1986, p. 116, ove anche considerazioni sulle autorità cui era preposta la sorveglianza sull’operato dei curatori e rimandi ad altri documenti rilevanti a questo proposito; un breve commento al testo di Ossirinco anche in Papathomas 2009, pp. 488-489. 112   Sul culto di Thoeris a Ossirinco vedi da ultimo Concannon 2010, pp. 79-80, con rimandi alla bibliografia precedente. 113   Con la testimonianza epigrafica di AE 1974, 266 = AE 1980, 236 = AE 1983, 193 = EAOR VIII, 9 = EDR 078903 da Puteoli, sulla quale si veda supra, nota 81, con la significativa notazione che il curator operum publicorum et locorum fu primus factus in questa comunità, cfr. Demougin 1992, pp. 503-506, n° 605 (con alcune interpretazioni del testo divergenti da quelle comunemente accettate); Kolb 1993, p. 145, nota 11 (anche se non credo che la funzione possa essere datata esattamente al 58 d.C., come suggerisce la studiosa); Camodeca 1996, pp. 99-100, con interessanti considerazioni sul rapporto che la funzione ebbe nel fervore edilizio della Pozzuoli neroniana; Fora 1996, pp. 29-30, che connette l’incarico operum publicorum con la costruzione dell’anfiteatro puteolano; Bonkoffsky 2001-2002, p. 53. Questo limite cronologico andrebbe considerevolmente rialzato se fosse confermata la datazione all’età augustea proposta dall’editore per un documento di recente pubblicazione da Vettona, in Umbria, vedi Sensi 2011, pp. 362-364 = AE 2011, 350 = EDR 127836: [---]pi+[---] / [--- prae]f(ecto) fabr[um, ---] / [--- h]aruspic[i ---], / [--- q]uinque[nnali ---], / [--- curat] ori ope[rum public(orum) ---], / [--- Aug]usti Ca[esaris ---] / ------; proprio in relazione alla distribuzione cronologica delle altre testimonianze relative alla curatela operum publicorum in Italia, questa datazione desta qualche perplessità; anche in considerazione della lacunosità del documento e del fatto che la formula dell’onomastica imperiale, l’elemento che ha indotto Luigi Sensi a proporre una datazione dell’epigrafe all’età augustea, potrebbe forse rimandare a un imperatore diverso dal primo princeps, preferisco per il momento lasciare da parte l’interessante iscrizione di Vettona, riservandomi di tornarvi in una prossima occasione. 114   Con il passaggio di Arcadio Carisio rifluito in D. 50.4.18.10.

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da rendere lecito l’avanzare qualche ipotesi interpretativa, pur nella consapevolezza che nuovi rinvenimenti potranno mutare la situazione documentaria di partenza. A proposito della distribuzione cronologica delle testimonianze relativa all’azione dei curatores operum publicorum, la dottrina ha già richiamato la possibile connessione con la crisi finanziaria che colpì le comunità dell’Italia nel secolo degli Antonini, spiegando che in questo periodo le comunità locali (ma anche lo stesso imperatore) furono costrette ad affidare sempre più spesso l’onerosa cura operum publicorum a persone ad hoc, di solida esperienza, ampie relazioni, buone possibilità economiche. Pur concordando in linea di massima con questa osservazione, vorrei sottolineare come si debba tenere in debito conto anche il peso di fattori contingenti e temporanei nelle singole realtà locali in cui i curatores operum publicorum si trovarono ad agire. In questo senso credo si possa interpretare il dato reso noto da un’epigrafe onoraria di età flavia da Nola115: Q(uinto) Caesio Q(uinti) f(ilio) / Fal(erna tribu) Fistulano, / curatori oper(orum) / publicor(um) dato / a divo Aug(usto) Vespasian(o),  / aed(ili), q(uaestori), IIvir(o), praef(ecto) fabr(um),  / Cisionia L(uci) f(ilia) Firmilla, / uxor, pecun(ia) sua, / et Q(uinti) Caesi Optandi, f(ili) sui. / Cisioniae Firmill(ae) / L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum).

Credo che la situazione determinatasi a Nola e che richiese la nomina da parte di Vespasiano di un curator ad hoc sull’edilizia pubblica possa essere stata originata dalle stesse cause e abbia mirato a risolvere problemi simili a quelli verificatisi, sempre nell’età di Vespasiano, a Pompei, con l’usurpazione di terreni demaniali da parte di privati, anche a causa del terremoto del 62 d.C, situazione che determinò il noto intervento ispettivo di T. Suedio Clemente, volto al recupero alla comunità dei loca publica a privatis possessa116. Una spiegazione simile potrebbe essere avanzata per la nomina da parte di Adriano di un tale Patrokles quale incaricato dei lavori pubblici a Nicea, in Bitinia, forse da mettere in connessione con la ricostruzione della città dopo il terremoto che l’aveva colpita nel 120 d.C.117. A proposito della concentrazione geografica delle testimonianze sui curatores operum publicorum nell’Italia centrale, la dottrina ha richiamato l’intensa urbanizzazione di questa area della penisola118. Tuttavia è stata anche ricordata la maggiore solidità, rispetto alle città dell’Italia peninsulare, delle strutture municipali delle comunità dell’Italia settentrionale, dove resiste più a lungo una tradizione di evergetismo e dove le normali magistrature cittadine potevano meglio farsi carico della curatela relativa alle opere pubbliche119. Da parte mia osserverei che forse è da tenere in considerazione anche la più   CIL, X, 1266 = EDR 130506.   Il notissimo intervento è testimoniato da quattro documenti epigrafici che riportano il medesimo testo; cito da CIL, X, 1018 = ILS, 5942 = EDR 143573: Ex auctoritate / Imp(eratoris) Caesaris / Vespasiani Aug(usti) / loca publica a privatis / possessa T(itus) Suedius Clemens, / tribunus, causis cognitis et / mensuris factis, rei / publicae Pompeianorum / restituit. Le possibili analogie tra le situazioni di Nola e di Pompei erano già state notate da Conti 2008, p. 379 (ove anche bibliografia di riferimento sull’intervento di Suedio Clemente) e prima di lui da Comparette 1906, p. 180, che tuttavia si diceva perplesso davanti all’ipotesi che l’intervento di Suedio Clemente a Pompei si fosse reso necessario in ragione del terremoto del 62 d.C., poiché i cippi confinari difficilmente potevano essere stati danneggiati dal sisma; l’osservazione, a mio parere, non consente comunque di escludere che si siano verificati soprusi a seguito della distruzione di edifici a causa dell’evento naturale. 117   ILS, 8867 = IGR III, 1545 = IK 9, n°  56 = Corsten 1987, pp. 110-114 (= SEG XXXVI, 1071), con le correzioni proposte da Mitchell 1993, p. 213, nota 87 (= SEG XLIII, 896) e da Dmitriev 1996, pp. 105-106 (= SEG XLVI, 1604): --- / [--- τ]ο[ῦ] δήμου / [---] Πατροκλέα τὸν ἐκ προγόνων / [--- ἔπαρχο]ν σπείρης β’ Σπανῶν εὐσεβοῦς πιστῆς, / [--- ἔπαρχον σ]πεί[ρ]ης πρώτης Οὐλπίας Ἀφρῶν ἱππικῆς ἐν Ἀλεξανδρείᾳ, / [--- Τρ]αιανοῦ Ἁδριανοῦ Σεβαστοῦ καὶ πρῶτον ἄρχοντα καὶ κοσ/[---]ν καὶ πανηγυριάρχην καὶ ἀργυροταμίαν ἔνδικον / [--- δημοσ(?)] ί̣ων ἔργων κατὰ τὸ τοῦ κυρίου / αὐτοκράτορος ἀπόκριμα / [καὶ ἀγωνοθέτην τῆς ---] Διονυσιάδος [---]. Per l’ipotesi di una connessione tra la nomina di questo curatore e il sisma del 120 d.C. vedi Boatwright 2000, p. 73. 118   Cfr., con considerazioni riferite in genere all curae municipali, ma che valgono anche per il caso particolare della cura operum publicorum, Bonkoffsky 2001-2002, pp. 144-148; Jaschke 2006, pp. 198-200. 119   Jaschke 2006, pp. 199-200, sulla scorta delle indagini di Goffin 2002. 115 116

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forte influenza che il modello dei curatores operum publicorum della città di Roma può aver esercitato sulle vicine comunità dell’Italia centrale. Il problema della collocazione cronologica e geografica delle attestazioni ha un evidente rilievo nella valutazione dei motivi che portarono alla creazione di questo ufficio, in relazione al più ampio problema degli interventi delle autorità centrali finalizzati al controllo sulle autonomie municipali, in particolare in materia di finanze. In tal senso il problema dell’origine della cura operum publicorum si accosta ovviamente a quello della valutazione storica dell’ufficio di curator rei publicae, che è stato oggetto di intenso dibattito120. È indubbio in effetti che in potenza attraverso la funzione di curator operum publicorum il governo centrale poteva in qualche misura limitare le libertà civiche: tale finalità può essere quanto meno supposta a proposito dei curatores di nomina imperiale121, in particolare nei casi in cui il funzionario era originario di una città diversa da quella in cui venne chiamato a esercitare il suo ufficio, con una scelta che denuncia la possibile intenzione di evitare commistioni tra gestione dell’amministrazione e poteri politici e sociali locali122. Al di là di queste poche notazioni preliminari, in conclusione merita soprattutto indicare alcune possibili direzioni future della ricerca. In primo luogo credo che sia assolutamente necessaria una più attenta analisi dei singoli documenti, anche in lingua greca, attestanti l’ufficio di curator operum publicorum, un’analisi che dovrà essere calata nei contesti istituzionali, sociali ed economici delle singole località, e che pare specialmente opportuna per una funzione che pare presentare più eccezioni che regole. Auspicabile in particolare una ripresa della problematica CIL, X, 7024 da Catana, cui si è fatto cenno nelle pagine precedenti, lettera di un possibile curator operum publicorum a Marco Aurelio e Lucio Vero, potenzialmente molto informativa, ma che purtroppo finora non ha potuto essere adeguatamente impiegata nella discussione sulla tematica a causa della sua lacunosità. Da rilevare inoltre l’opportunità di considerare anche le iscrizioni relative a edifici di natura pubblica in cui appaiono espressioni, in latino, come curante o curatore, in greco, come ἐργεπιστατήσαντος, senza ulteriori specificazioni, anche in rapporto alle evidenze archeologiche cui tali documenti fanno riferimento123. Un ulteriore chiarimento delle competenze dei curatores operum publicorum potrà inoltre venire da un’analisi del rapporto con altre funzioni legate alla curatela delle opere pubbliche, come quelle del praefectus operum124, dell’exactor operum publicorum125 o del praefectus operum   Utile e aggiornata sintesi in Camodeca 2008.   La documentazione rilevante è citata supra, nota 18. 122   Vedi a questo proposito C. Neratius C. f. C. n. C. pron. C. abn. Cor. Proculus Betitius Pius Maximillianus, originario di Aeclanum, ma curator operum publ(icorum) Venusiae dato ab divo Hadriano come attesta CIL, IX, 1160 = ILS, 6485 = EDR 133753 dalla stessa Aeclanum (sul personaggio si vedano Boatwright 1989, pp. 240 e 263; Boatwright 2000, p. 73 e soprattutto Evangelisti 2014, p. 642, con la bibliografia precedente alla nota 10); incerto il caso attestato da CIL, IX, 1419 = ILS, 6489 = EDR 134102, citata supra, nota 60: non è infatti chiaro se la curatela si riferisca alla patria di Ennius Firmus, Beneventum, come le altre cariche detenute dal personaggio, o piuttosto al luogo in cui il nostro personaggio eresse una dedica a Iuppiter Optimus Maximus, ovvero Aequum Tuticum, cfr. Torelli 2002, p. 215, seguita da Fusco 2013, pp. 244-245; sul documento vedi anche Boatwright 1989, pp. 263-264 e 2000, p. 73, che ascrive a Beneventum l’attività di Ennio Firmo. 123   Per alcuni rilievi riguardo alle forme participiali che possono esprimere una curatela di opera pubblica, vedi supra, nota 5. Alcuni documenti epigrafici africani relativi alla curatela di monumenti pubblici in cui l’intervento di un supervisore è espresso semplicemente dalla forma ablativa curatore o curatoribus, documenti che mi sembrano essere di un certo interesse per la cura operum publicorum, sono rapidamente presi in esame da Jacques 1984, p. 540. 124   La funzione è attestata nella forma di praefectus operum quae in colonia iussu Augusti facta sunt ad Alessandria della Troade dall’iscrizione IK 53, n° 34 (ove anche rimandi alle edizioni precedenti) = AE 1973, 501 = AE 1975, 806 = AE 1978, 790 per il magistrato municipale e ufficiale dell’esercito C. Fabricius C. f. Ani. Tuscus. Sul documento e il personaggio si veda Brunt 1974, partic. pp. 182-183 per la praefectura operum; Orth 1978; Winter 1996, pp. 76 e 124 (con ripresa del testo a p. 323, n° 38). 125   Ufficio attestato da CIL, X, 3907 = EDR 005471 da Capua, datata al II sec. d.C.; cfr. anche CIL, XII, 3070 da Nemausus, con un exactor operis basilicae; qualche considerazione sull’ufficio degli exactores, definiti Baukontrolleure, in 120 121

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publicorum126 e da un confronto più serrato con altre curae municipali127, in specifico con la cura viarum128, la cura aquarum129 e la cura kalendarii130. Bibliografia Abramenko 1992 = A. Abramenko, Ein Sevir Iunior aus Mediolanum als curator rei publicae?, in «ZPE» 91, 1992, pp. 151-155. Alföldy 1958 = G. Alföldy, Augustalen- und Sevirkörperschaften in Pannonien, in «AantHung» 6, 1958, pp. 433-459. Barresi 2003 = P. Barresi, Province dell’Asia Minore. Costo dei marmi, architettura pubblica e committenza, Roma 2003. Bekker-Nielsen 2008 = T. Bekker-Nielsen, Urban Life and Local Politics in Roman Bithynia. The Small World of Dion Chrysostomos, Aarhus 2008. Benseddik 2010 = N. Benseddik, Esculape et Hygie en Afrique, Paris 2010. Biundo 2006 = R. Biundo, Le vicende delle proprietà municipali tra IV e V secolo d.C., in N. Ghilardi, Ch.J. Goddard, P. Porena (dir.), Les cités de l’Italie tardo-antique (IVe – VIe siècle). Institutions, économie, société, culture et religion, Roma 2006, pp. 37-51. Biundo 2011 = R. Biundo, Financial Situation and Local Autonomy of the Cities in the Later Roman Empire, in P. Eich, S. Schmidt-Hofner, Ch. Wieland (hrsgg.), Die wiederkehrende Leviathan. Staatlichkeit und Staatswerdung in Spätantike und Früher Neuzeit, Heidelberg 2011, pp. 205-225. Boatwright 1989 = M.T. Boatwright, Hadrian and Italian Cities, in «Chiron» 19, 1989, pp. 235277. Boatwright 2000 = M.T. Boatwright, Hadrian and the Cities of the Roman Empire, Princeton-Oxford 2000. Bonkoffsky 2001-2002 = V. Bonkoffsky, Municipale curatores in Italie en de westelijke provincies tijdens het Principat, Diss. Gent 2001-2002 [disponibile all’indirizzo http://lib.ugent.be/en/catalog/ rug01:000788952]. Brunt 1974 = P.A. Brunt, C. Fabricius Tuscus and an Augustan dilectus, in «ZPE» 13, 1974, pp. 161-185. Buonocore 1982 = M. Buonocore, Nuovi documenti epigrafici abruzzesi, in «StudRom» 30, 1982, 3, pp. 366-372. Caiazza 1993 = A. Caiazza (a c.), Plutarco, Precetti politici, Napoli 1993. Camodeca 1996 = G. Camodeca, L’èlite municipale di Puteoli fra la tarda repubblica e Nerone, in M. Cébeillaic-Gervasoni (dir.), Les Élites municipales de l’Italie péninsulaire des Gracques à Néron. Actes de la table ronde de Clermont-Ferrand (28-30 novembre 1991), Napoli-Roma 1996, pp. 91-100. Camodeca 2003 = G. Camodeca, L’attività dell’ordo decurionum nelle città della Campania dalla documentazione epigrafica, in «Cahiers du Centre Gustave Glotz» 14, 2003, pp. 173-186. Camodeca 2008 = G. Camodeca, I curatores rei publicae in Italia: note di aggiornamento, in C. Berrendonner, M. Cébeillac-Gervasoni, L. Lamoine (dir.), Le quotidien municipal dans l’Occident romain, Clermont-Ferrand 2008, pp. 507-521. Liebenam 1900, p. 384, nota 2; da indagare la possibilità che questi exactores trovino preciso confronto con i funzionari che nella documentazione greca sono definiti come ἐργεπιστάται. Questi ultimi sono in genere ritenuti, senza molte discussioni, come sostanzialmente identici agli ἐπιμεληταί τῶν δημοσίων ἔργων, come del resto io stesso ho proposto in questo contributo; ma un documento dall’Asklepieion di Pergamo, edito da Habicht 1969, n°  55, nominando separatamente i tre personaggi che ebbero l’ἐπιμέλεια dell’erezione di una statua dell’onorato e colui che fu ἐργεπιστάτης della stessa opera pubblica invita a considerare con maggior attenzione la questione, distinguendo forse i compiti di una generica curatela da quelli, più specifici, di natura ispettiva. 126   Un funzionario al momento attestato solo in diversi documenti di Aventicum, nella Germania superior, CIL, XIII, 5102-5104 = AE 1967, 328-330 = Oelschig 2009, pp. 202-207. 127   In generale preziossimi per un confronto e per un inquadramento generale saranno gli atti del convegno su ”Le curae cittadine nell’Italia romana”, tenutosi a Siena il 18-19 aprile 2016. 128   Per la cura viarum abbiamo ora un prezioso strumento di riferimento nella monografia di Campedelli 2014. 129   Sulla quale si vedrà Corbier 1984; Fusco 2014. 130   Sulla quale si vedrà Japella Contardi 1977; Mennella 1981.

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Alessandro Cristofori

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À LA RECHERCHE DES LIEUX DE L’ADMINISTRATION MUNICIPALE À TRAVERS LA DOCUMENTATION ÉPIGRAPHIQUE

Laurent Lamoine Françoise Sudi-Guiral

Lucius, le héros d’Apulée de Madaure, au tout début de ses aventures et alors qu’il jouit encore de l’apparence humaine, vient acheter des poissons sur le marché d’Hypata en Thessalie avant de se rendre aux bains de la ville. L’achat fait, il rencontre sur le chemin des bains un vieux camarade d’études, Pythias, « édile » de la cité. Ce dernier, estimant que son ami a été escroqué par le poissonnier, le traîne à nouveau sur le marché afin qu’il réclame et obtienne réparation, et assiste à la punition du commerçant indélicat. La rue et le marché sont les lieux d’exercice de la charge de Pythias et de celles de ses collaborateurs, ses appariteurs qui portent les faisceaux et son huissier qui piétine les poissons incriminés1. Il est difficile dans la documentation (ici littéraire) de trouver les magistrats et leurs agents ailleurs que dans la rue et sur les places publiques qui sont autant de scènes de théâtre commodes pour les mettre en scène, prisées par les dramaturges et les romanciers grecs et latins2. Cela fait échos aux nombreux slogans électoraux retrouvés peints sur les murs de Pompéi qui témoignent de la « fièvre électorale » qui tenait la rue de la cité vésuvienne3. Dans la rue, les magistrats et leurs concitoyens exerçaient leurs métiers, se côtoyaient et interagissaient : « M. Cerrinius Vatia édile ! Tous les soûlards du soir recommandent sa candidature. C’est Florus qui l’a écrit, en accord avec Fructus »4. Le travail à l’intérieur des bâtiments publics est occulté et la connaissance de ces édifices en souffre donc. C’est pourquoi il est tentant de se tourner vers la documentation épigraphique en relation ou non avec les découvertes de l’archéologie pour trouver des informations concernant les conditions d’exercice du métier de magistrat et de celui des fonctionnaires. La catégorie des gardiens (aeditui)5 et des porte-clefs (clavicularii)6 prouvent qu’il y avait bien des bâtiments à surveiller et des serrures à ouvrir et fermer.

 Apul., Met. I, 24-25.   Roubineau 2012, p. 56. 3   Moreau 1993 et Weeber 2011. 4   CIL, XIV, 581 (trad. Weeber 2011). 5   Sudi-Guiral 2010. 6   CIL, XIII, 1780 : Tib. Claudius Chrestus est porte-clefs de la prison publique de Lyon. 1

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1.  Préalable historiographique La topographie du « quotidien municipal » peut s’inspirer des travaux qui ont été menés pour la ville de Rome depuis la fin des années 19807. Bon nombre d’hypothèses concernant les bureaux romains ont été exposées dans le Lexicon Topographicum Urbis Romae publié entre 1993 et 2000 sous la direction d’Eva Margareta Steinby par les Edizioni Quasar (Rome). La réédition en 2015 du colloque L’Urbs. Espace urbain et histoire de 1985 montre à quel point la recherche sur la topographie de la Ville, dont la topographie politique et administrative est une branche privilégiée, a atteint non seulement sa maturité mais reste aussi prometteuse8. Il est tentant de transposer la problématique aux cas des cités locales. Concomitamment à la redécouverte de la vitalité de la vie politique dans les cités locales dans les années 1980 dans le sillage des thèses de Claude Lepelley et de François Jacques9, les historiens se sont ainsi intéressés aux bâtiments publics des petites patries. Reprenant des travaux antérieurs10, JeanCharles Balty s’est consacré à la Curia ordinis, la curie sénatoriale et ses versions municipales, lieux de réunion et de travail par excellence des sénateurs, des décurions en Occident et des bouleutes en Orient11. Le problème essentiel auquel s’est attelé Jean-Charles Balty est celui de l’identification archéologique afin de dresser un inventaire le plus exhaustif possible. Même si l’ouvrage vise une approche historique globale, il consacre cependant la majeure partie de ses pages à exposer les tenants et les aboutissants des implications architecturales et urbanistiques de l’insertion de la curie dans la place publique. La dimension pratique n’est envisagée qu’à travers ce prisme et de nombreuses publications postérieures à celle de Balty en restent là, où alors envisagent uniquement le rapport entre l’édifice et l’usage épigraphique comme le Navarrais Ángel A. Jordán en 2004-200512. Bien entendu, l’un des apports fondamentaux du livre de Balty est d’avoir insisté sur les connexions d’une part entre la fonction curiale et la basilique en Occident et, d’autre part, entre la curie, le tabularium (les archives), l’aerarium (le trésor) et des bureaux administratifs. Ce ne sont pas des bâtiments isolés que recherchent les archéologues et les historiens, mais de véritables pôles – l’identification de l’une des fonctions dans un espace pouvant aider à trouver les autres. Les chercheurs du programme «  Le quotidien institutionnel des cités de l’Occident romain  » dirigé par Mireille Cébeillac-Gervasoni (directeur de recherche émérite au CNRS, UMR 8210 ANHIMA) entre 2002 et 2011 se sont intéressés au problème, même si les différents dépouillements se sont d’abord consacrés à repérer les institutions13. L’intérêt pour les procédures institutionnelles que la documentation épigraphique voire littéraire met en exergue a conduit les membres de l’équipe à se poser la question du rapport à l’espace. Clara Berrendonner, confrontée à l’invisibilité de l’aerarium des cités d’Italie sous la République et l’Empire, en vient à souligner certes non seulement la distorsion entre la documentation et le projet de l’historien, mais aussi à admettre que les pratiques de la gestion des finances municipales n’impliquaient pas nécessairement un lieu spécifique ou autonome des autres lieux de l’administration de la cité14. Si le constat de Clara Berrendonner est marqué par une certaine désillusion quant à l’objectif initial, il est cependant fondateur, dans le sens qu’il incite à tenir compte du détail des procédures politiques et administratives pour produire le bon questionnement à propos des espaces utiles à celles-ci15.   Gros 2001.   L’Urbs 2015. 9   Lepelley 1979-1981 et Jacques 1984. 10   Un mémoire de licence dès 1956 et une thèse de 1967, Balty 1991, pp. IX-XII. 11   Balty 1991. 12   Jordan 2004-2005. 13   Lamoine, Berrendonner, Cébeillac-Gervasoni 2012. 14   Berrendonner 2012a. 15   C. Berrendonner a en quelque sorte récidivé avec l’administration des marchés et les édiles en Italie, Berrendonner 2012b. 7 8

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Non sans rapport avec le programme précédent, des enquêtes s’intéressant aux marchés dans les mondes grec et romain ont pu connaître des inflexions en direction des institutions, des magistrats et de leurs conditions d’exercice. Souvent en prenant exemple sur les cas athénien et romain (de l’Urbs)16, les historiens ont tenté de dresser des bilans concernant d’autres cités grecques et les cités d’Italie et des provinces de l’empire qui associaient l’espace, la place publique, et les activités qui s’y déroulaient dont celle des agoranomes et des édiles17. Malgré ces tentatives, les monographies sur les magistratures des cités locales ont bien des difficultés à quitter le champ de l’histoire institutionnelle et sociale. Antonio David Pérez Zurita a consacré en 2011 un livre remarquable à l’acclimatation de l’édilité dans la péninsule Ibérique, mais plus qu’au métier d’édile et aux conditions de son exécution, c’est à l’inscription des édiles de l’Hispanie au sein des élites locales et à leur cursus honorum que l’auteur a consacré la majorité de ses six cents pages18. La même année, dans une étude sur le contrôle et l’administration des poids et des mesures dans l’Occident romain, A.D. Pérez Zurita aborda la question de la localisation des balances et des tables de mesures officielles sur le forum et le macellum19. Il évoque l’intérêt de l’iconographie du cippe de l’édile nîmois L. Severius Severinus20 qui donne une définition par l’image de sa potestas21. On y voit en particulier une balance et ses poids représentés. Il est regrettable que le monument de Severinus ne permette pas de se faire une idée des lieux où les faisceaux, la balance, ses poids, la hache et les bonnets d’affranchis conduisaient l’édile nîmois à exercer sa charge. Les inscriptions qui évoquent les constructions publiques et les évergésies monumentales attestent de l’existence de lieux et de bâtiments publics dans les cités locales. Dans le sillage d’Hélène Jouffroy, des inventaires ont pu être dressés avec de grandes disparités entre les provinces22. De même, les mentions des différents personnels affectés aux services municipaux émaillent régulièrement la documentation qu’il s’agisse des scribae, des librarii et des autres subalternes notamment ceux chargés de la gestion des finances et des archives publiques23. Cependant, comme le regrettait déjà J.-C. Balty en 199124, il est souvent difficile de faire le lien entre ces mentions et le terrain. Le tabularium et son personnel constitue le champ d’expérimentation que nous avons choisi. 2. Les Tabularia Dans le cas des services d’archives, les sources épigraphiques livrent en effet un certain nombre de mentions qui renvoient à des tabularia attestés dans différentes cités du monde romain25. De la même façon, on identifie également à travers les inscriptions des agents tabularii, qui sont souvent des esclaves ou des affranchis publics, préposés à cette administration et placés sous le contrôle des magistrats26. Ces références constituent autant d’indicateurs de la réalisation de tâches administratives liées au fonctionnement municipal ordinaire, telles que l’enregistrement et mise en forme des décrets décurionaux, la rédaction d’actes administratifs ou encore la tenue des rationes communes. Ainsi, à l’image   Daguet-Gagey 2015.   Capdetrey, Hasenohr 2015. 18   Pérez Zurita 2011a. 19   Pérez Zurita 2011b. 20   CIL, XII, 3273. 21   Lamoine 2003-2006 et 2009, pp. 276-280. 22   Jouffroy 1986 ; Mansouri 2004, en particulier p. 1389. 23   Sudi-Guiral 2013, pp. 44-84. 24   Balty 1991, p. 4. 25   CIL, XII, 1283 (Vaison) ; AE 1952, 73 (Vienne) ; CIL, XI, 1421 (Pise) ; CIL, XI, 3614 (Caere) ; CIL, III, 1315 (Ampelum) et CIL, X, 3876 (Capoue) ; CIL, VIII, 25521 (Bulla Regia) ; AE 1959, 310 (Drobeta) ; AE 1966, 67 (Formies) ; AE 1971, 369 (Apulum) ; AE 1972, 268-269 (Munigua). 26   CIL, X, 3839 (Capoue) ; AE 2001, 854, l. 20 (Pouzzoles) ; CIL, V, 8850 (Vérone) ; CIL, II2/5, 1176 (Astigi) ; CIL, XII, 1283 (Vaison) ; ILN, V, 104, (Vienne) ; CIL, IX, 1664 (Beneventum) ; CIL, XIII, 1725 (Lyon) ; AE 2003, 1582a (Dion) ; CIL, XIV, 255, l. 1 (Ostie) ; AE 1911, 205 (Interamna Lirenas) ; CIL, XI, 2710a (Volsinii) ; CIL, III, 3851 (Emona) ; CIL, VIII, 7077 (Cirta). 16 17

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de ce que l’on connaît à Rome, l’activité des instances civiques générait, à leur échelle, la production d’une documentation législative, administrative, juridique et comptable dont il fallait assurer à la fois la conservation, le classement et aussi permettre, le cas échéant, la consultation. L’objet n’est pas de revenir ici plus en détails sur le fonctionnement même de ces services d’archives déjà largement décrits par ailleurs27 mais seulement de poser la question de leur présence et de leur localisation dans l’espace civique. En effet, on est en droit de penser que la conservation des écrits officiels produits dans chaque cité exigeait des locaux ad hoc, en mesure de recevoir cette documentation qui, s’il est difficile d’en apprécier véritablement le volume, n’était sans doute pas négligeable. Le dépôt matériel des codices, des volumina et autres tabellae nécessitait des espaces spécifiques aménagés précisément à cette fin, que ce soit au moyen de niches plus ou moins profondes installées dans les murs et munies d’étagères ou bien grâce à des armaria et des scrinia, c’est-à-dire un mobilier qui convenait au rangement et au classement des documents et des registres. Le personnel administratif chargé au quotidien de copier, de manipuler les instrumenta pouvait avoir besoin aussi d’un endroit adapté à son travail. Les différentes tâches qu’effectuaient ces agents nécessitaient probablement un espace fonctionnel. Enfin, on sait aussi que ces lieux pouvaient être fréquentés par les magistrats ou par les citoyens qui venaient consulter des actes officiels ou en obtenir une copie. Rendus accessibles, ces locaux devaient, par conséquent, être également surveillés et sécurisés afin d’éviter les éventuelles falsifications voire destructions des documents entreposés – exactions dont Cicéron s’est fait à plusieurs reprises le rapporteur que ce soit notamment à propos des archives de Larinum28 ou bien encore lorsqu’il évoque, dans le Pro Archia, les tabulae publicae d’Héraclée disparues dans un incendie lors de la guerre sociale29. En tout état de cause, l’ensemble de l’organisation matérielle inhérente à l’archivage nous pousse à croire qu’il devait exister dans les cités des locaux spécialement conditionnés pour cela et véritablement dédiés à cette fonction. Pourtant, le repérage de ces bureaux dans l’espace civique reste malaisé. Dans certains cas, il faut envisager que la conservation des documents municipaux pouvait se faire à l’intérieur de bâtiments dont ce n’était pas la fonction première, à savoir les temples ou les basiliques30. On rappellera, en l’occurrence, un texte bien connu provenant de Caere, daté de l’année 114 et mentionné en CIL, XI, 3614. Le document évoque une affaire assez classique : l’attribution d’un terrain public à un affranchi de Trajan, Ulpius Vesbinus, qui souhaite y installer un édifice pour les Augustales. La procédure, qui impliquait non seulement l’avis des décurions mais aussi celui du curateur du municipe, a donné lieu à des procès-verbaux lors des séances de l’ordo ainsi qu’à des courriers administratifs dont l’inscription témoigne. En effet, le texte présente la copie conforme du registre municipal et précise dans quelles circonstances elle a été établie. Il s’agit « d’une copie conforme, faite dans le pronaos du temple de Mars, d’après le registre que Cupienus Hostilianus a ordonné à Titus Rustius Lysiponus, un scribe, de produire »31. Ces indications très précises donnent par conséquent à penser que, dans le cas présent, l’aedes Martis abritait tout ou partie du tabularium local et qu’elle servait aussi d’officine aux scribes. Cette localisation peut du reste être mise en relation avec les observations de Pierre Gros qui a montré qu’à Rome les archives se voyaient réparties entre différents édifices publics temples, forums, ou portiques32. L’exemple de Caere pourrait donc signifier qu’à l’échelle civique également, la solution architecturale d’un bâtiment spécifiquement réservé aux archives ne s’imposait pas toujours. Dans le même ordre d’idée, les travaux de J. Ruiz de Arbulo concernant   Sachers 1932 ; Lafaye 1919 ; Cencetti 1940 ; Posner 1972 ; Culham 1989 ; RodrÍguez Neila 19911992 et 2005 ; Moatti 1993. 28  Cic., Clu. 14, 41 et 44, 125. 29  Cic., Arch. 4, 8. 30   Posner 1972, p. 184. 31   CIL, XI, 3614 (Sherk 1970, 46, n.51) :« Descriptum et recognitum factum in pronao aedis Martis ex commentario, quem iussit proferri Cuperius Hostilianus per T. Rusticum Lysiponum scriba, in quo scriptum erat it quod infra scriptum est ». 32   Gros 2001. 27

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Tarraco signalent que, dans cette ville, ce sont des petits locaux, alignés sur les côtés de la basilique, qui pourraient avoir servi de tabularia à la colonie et au conventus33. Le plus souvent, les archives municipales semblent avoir été installées dans une dépendance annexe à la curie ou, du moins, à proximité de celle-ci. Cette implantation paraît évidemment très logique, le tabularium se tenant au plus près du sénat local dont il a vocation à enregistrer les actes. Cette configuration a été proposée par J.-C. Balty qui évoque l’ensemble que peuvent former la curie, le tabularium et les bureaux de l’administration municipale dans différents sites qu’il a étudiés : Pompéi, Saint-Albans, Tiddis, Carsulae, Magdalensberg dans le Norique34 ou encore Sabratha en Libye où le tabularium « jouxte la basilique », comme à Segesmes en Proconsulaire35. Ce schéma semble pouvoir s’appliquer à d’autres cités, comme à Sarmizegetusa en Dacie où une salle aménagée près de la curia pourrait avoir fait fonction de tabularium36. Les sources épigraphiques tendent peut-être d’ailleurs à corroborer ce lien topographique. À trois reprises, on dispose de textes qui commémorent l’édification de tabularia lors d’interventions évergétiques. C’est le cas tout d’abord à Castrum Novum où une inscription37 rapporte qu’un duumvir, L. Ateius Capito a fait réaliser à ses frais la curie et le tabularium. Un autre document provenant de Formies rend compte lui aussi de l’action d’un édile, L. Paccius, qui offre conjointement à la cité une curie, un tabularium, un armamentarium et une porticus38. Enfin, à Munigua, en Bétique, deux autres textes épigraphiques, bien que lacunaires, évoquent de leur côté les bienfaits d’un duumvir de l’époque flavienne, dénommé L. Valerius Firmus, qui érigea à ses frais un tabularium ainsi qu’un forum, un temple, un portique et une salle de réunion39. Ces situations, à condition qu’elles concernent des bâtiments connexes, ce que rien ne garantit tout à fait, semblent suggérer que dans ces différentes localités le tabularium trouvait peut-être à s’insérer dans un ensemble administratif plus large, qui pourrait s’apparenter au modèle décrit par J.-C. Balty pour Pompéi entre autre, modèle associant la curie, le tabularium et les officina des magistrats40. Ce schéma souvent retenu, qui place le tabularium à proximité des lieux civiques décisionnels, reste évidemment très cohérent. Néanmoins, l’exemple de Caere nous oblige à la prudence car s’il atteste que les pratiques ont pu varier d’une cité à l’autre, il pose aussi la question de savoir si les archives municipales étaient toujours conservées de manière centralisée, rassemblées dans un même local, ou bien de façon plus éclatée entre différents lieux. Une partie de cette documentation ne pouvait-elle même rester en possession des familles dirigeantes de la cité comme l’a suggéré P. Culham41 à propos de Rome ? Si l’hypothèse reste débattue42, elle conduit, plus globalement, à s’interroger sur la notion même de tabularium et sa réalité matérielle. En effet, comme pour le terme « archives » qui aujourd’hui encore désigne tout à la fois le bâtiment de conservation et les documents conservés, il est possible que les expressions « tabularium » et « tabulae communes », employées parfois de façon synonyme, désignent tout autant les textes eux-mêmes que les lieux qui les abritaient.   Ruiz De Arbulo 1998, pp. 39-40.   Balty 1991, pp. 151-158. 35   Balty 1991, pp. 158-161. 36   Rossignol 2008, p. 93. Balty 1991, p. 353 envisage plutôt pour sa part l’aeararium avec « sa porte blindée » dont on aurait retrouvé les clous et les appliques en fer. 37   CIL, XI, 3583. 38   AE 1966, 67 : L(ucius) Paccius C(ai) f(ilius) aed(ilis) / cuuriam (sic) tabul(arium) / armamentar(ium) / portic(um) muincip(ibus) (sic) d(edit). 39   AE 1972, 268 : --- V]alerius [Q]uir(ina) Firmu[s] / [---] M forum [---] / [---]RA[---] / [---tab]ula[rium ---] / [---] d[edic]avit [--- et 269 : --- Vale]rius Qu[ir(ina) Firmus] / [---] bis templ[um ---] / [--- p]orticus ex[edram ---] / [tabu]larium s(ua) p(ecunia)/ [---] dedicav[it]. 40   Balty 1991, pp. 151-153. 41   Culham 1989, p. 104-105. 42   RodrÍguez Neila 1991-1992, p. 147. 33 34

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3.  L’inscription de Sarmizegetusa Une étude de Benoît Rossignol sur le «  quotidien institutionnel  » de Sarmizegetusa en Dacie permet d’isoler un document intéressant qui va dans le sens de l’interrogation à laquelle l’étude des tabularia a abouti43. Il s’agit d’une plaque découverte sur l’ancien forum de la colonie qui n’a jamais été déserté même après l’aménagement du nouveau forum. Le forum vetus était le siège de la curie et abritait la balance publique44 (Fig. 1).

Fig. 1. L’inscription de Sarmizegetusa (© Ioan Piso).

Le texte : Libero Patri Aug(usto) sac(rum) / L(ucius) Apul(eius) Marcus dec(urio) col(oniae) quaes(tor) / porticus cum cubiculis a ui / hostium exustos pecunia / sua ob scribatum restituit / permittente ordine45. « Consacré à Liber Pater Auguste, Lucius Apuleius Marcus, décurion de la colonie, questeur, avec l’accord de l’ordre, a restauré à ses frais les portiques avec les chambres, détruits par l’attaque des ennemis, au profit du secrétariat ».

L’attaque en question pourrait être celle des Marcomans et des Iazyges en 17046. L. Ap(p)uleius Marcus possède une onomastique italienne, même si le choix du prénom Marcus comme cognomen peut trahir un usage local. Il appartient à l’ordo decurionum et exerce (ou a exercé) la questure au moment de son évergésie qui aurait consisté à reconstruire la chancellerie municipale détruite par les barbares. Le scribatum L’évergésie de L. Apuleius Marcus et le but de cette dernière ont retenu l’attention des historiens depuis la découverte de la plaque dans les années 1980. Scribatus, qui renvoie à l’emploi de scribe, a été commenté de deux façons différentes. L’expression ob scribatum a été interprétée comme l’attestation de l’un des champs d’exercice du questeur qui, à côté de l’aerarium, se serait occupé de diriger la chancellerie de la cité, c’est-à-dire les scribes publics. On peut aussi considérer que l’expression renvoie     45   46   43 44

Rossignol 2008. AE 1999, 1289. AE 1976, 561. Proposition reprise par l’AE 1976, 561.

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directement aux scribes et à leur charge47. Quelle que soit l’interprétation choisie, les scribes de Sarmizegetusa disposent à nouveau de pièces pour assurer leur travail de rédaction. Ce témoignage et ceux traités dans la partie sur les tabularia montrent que les difficultés ne manquent pas dans la tentative de compréhension des mots même employés dans les inscriptions. Cette complication s’ajoute à celle de comprendre aussi les énumérations de lieux aménagés dans les textes. À la fin de la République, dans la colonie de Castrum Novum en Italie (regio VII), L. Ateius Capito, fils de M., a fait réaliser à ses frais, sur un terrain privé qui devait lui appartenir, la curie, le tabularium (les archives), le scaenarium subseliarium (les sièges des magistrats), un portique et des cenacula (des pièces)48. Il est également duomvir quinq(uennalis) et a pu superviser les travaux et les réceptionner. Certes, ce témoignage est intéressant à plusieurs titres car il informe non seulement de l’existence de lieux et d’éléments indispensables au bon déroulement de la vie publique dans la colonie, mais il insiste aussi sur les conditions d’exécution du travail des « sénateurs » et des magistrats de Castrum Novum. Sans tomber dans l’anecdotique, la précision du texte concernant les cenacula et le scaenarium subseliarium rend évident que le labeur municipal réclame des lieux où le confort du personnel politique n’est pas négligé49. Cependant, il est bien difficile de se rendre compte de la cohérence de l’organisation des lieux et des éléments cités. Conclusion Force est donc de constater que l’identification précise des lieux où l’administration municipale trouvait à s’exercer se heurte à difficultés réelles rencontrées tant par les archéologues que par les épigraphistes. En effet, les premiers, tout en s’attachant aux caractères structurels des bâtiments et à leur emplacement, hésitent parfois à en établir précisément la fonction. Ainsi, par exemple, à Baelo Claudia, en Bétique, Pierre Sillières50 pense pouvoir localiser le tabularium de la cité sur le côté ouest du forum : il y a là une salle spacieuse, couvrant plus de 60 mètres carrés, de plan presque carré, qui ouvre sur un portique par trois portes à panneaux coulissants. En s’appuyant sur les observations de J.-Louis Paillet qui a constaté dans le sol et sur les murs des trous permettant la fixation d’étagères tout autour de la salle, P. Sillières a avancé l’idée que ce local pouvait abriter les archives civiques mais il reconnait également le caractère très hypothétique de cette identification qui repose sur des critères aussi ténus. Sur ce sujet, les épigraphistes, quant à eux, ont à leur disposition une documentation non seulement relativement parcimonieuse mais, de surcroît, souvent malaisée à interpréter. En fait, lorsque les inscriptions évoquent des éléments constitutifs du quotidien municipal, elles ne font en général que citer des lieux ou des bâtiments, sans véritablement les décrire ou permettre d’en percevoir clairement le fonctionnement et l’organisation. Elles s’avèrent donc rarement informatives. En l’état, la recherche sur la topographie administrative des cités du monde romain représente donc un domaine ardu mais aussi largement ouvert.

  Cîrjan 2010, en particulier p. 185.   CIL, XI, 3583. Jouffroy 1986, p. 49, propose la 2e moitié du Ier av. J.-C. comme datation. 49   À Rodez, sous Auguste, un notable dont le nom n’a pas été conservé dans son intégralité ([. --- ---]ccus, fils de [---] rix, de la tribu Vol[t(inia)]), prêtre de Rome et d’Auguste César chez les Ruthènes, donne aussi sur ses propres deniers au sénat ruthène les sièges nécessaire au bon déroulement des séances et au décorum romain. AE 1994, 1215 a-b : ---] [---] rigis / f(ilius) Vol[t(inia)] [Fla]ccus ( ?) / sacer[do]s Romae / et Au[g]usti / Caesaris / senatui sedilia / de suo dedit (à partir des deux textes). 50   Sillières 1995, pp. 60-61. 47 48

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Spazi urbani e dinamiche del potere

LA MEMORIA PUBLICA DELLA CIVITAS ESPOSTA NEGLI ARCHIVI CITTADINI: IL CAPITOLIUM DI VERONA ROMANA

Lauretta Maganzani

Nell’opera dal titolo Constitutio limitum, attribuita all’agrimensore romano Hyginus Gromaticus, si sottolinea come, agli occhi dei mensores incaricati di tracciare i limites di un nuovo insediamento cittadino, la soluzione urbanistica da preferire – la ratio pulcherrima – era quella per cui le due strade principali, il cardo e il decumanus, si incontravano proprio nel centro della città, cioè nel luogo ove sorgevano il foro, il capitolium, la basilica, segni primi della sua dignitas e della sua assimilazione al centro dell’impero: Hyg. Grom., p. 144, 9 ss. Th. = p. 180, 1 ss. Lach.: Quibusdam coloniis postea constitutis, sicut in Africa Admederae, decimanus maximus et kardo a civitate oriuntur et per quattuor portas in morem castrorum ut viae amplissimae limitibus diriguntur. Haec est constituendorum limitum ratio pulcherrima. Nam colonia omnes quattuor perticae regiones continet et est colentibus vicina undique, incolis quoque iter ad forum ex omni parte aequale […]. In certe colonie dedotte posteriormente, come Ammaedara in Africa, il decumanus maximus e il cardo maximus partono dalla città e, passando per le quattro porte urbiche secondo l’uso dei campi militari, sono allineate sui limites come vie più larghe. Questo è il sistema migliore per fissare i limites. Infatti la colonia contiene le quattro regiones [parti] della pertica [centuriazione] ed è vicina da ogni parte ai coltivatori, e il tragitto per recarsi al foro è il medesimo da ogni parte […]

Tuttavia questo ideale urbanistico non era sempre raggiungibile e allora il mensor avveduto avrebbe dovuto realizzare un impianto urbano il più possibile vicino a quel modello, tenendo conto delle esigenze specifiche e delle peculiarità del luogo: Hyg. Grom., p. 145,10 Th. = pp. 181, 5-6 Lach.: Itaque si loci natura permittit, rationem servare debemus: sin autem, proximum rationi. Pertanto se la natura del luogo lo permette, questo è il sistema che si deve osservare; altrimenti, quello che vi si avvicina maggiormente.

Ma, certo, quando la prima soluzione fosse stata possibile, l’occhio del visitatore che giungesse in città dalla sua via principale e ne attraversasse le porte, sarebbe stato colpito dalla meravigliosa visione del

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centro monumentale che gli si parava dinnanzi in tutta la sua grandezza. E, insieme, sarebbe stato colpito dalle sue decorazioni, dalle sue statue e dalle sue iscrizioni in bronzo o marmo esposte al pubblico come in un sacrario di memorie cittadine. Ed era proprio lì, nel centro monumentale della città, che l’universitas dei cives comunicava all’esterno la sua storia, i suoi ideali e la fedeltà a Roma, sia nella strutturazione architettonica del tempio e degli altri monumenti, sia nelle statue e nelle iscrizioni. Si pensi a Veleia dove, oltre alle statue degli imperatori, nei portici della basilica erano affisse la Lex de Gallia Cisalpina e la Tabula alimentaria, documenti imponenti che comunicavano e propagandavano la storia della città1. Si pensi a Luni dove, ugualmente, comparivano nel foro statue dei benemeriti della colonia (il fondatore, alcuni imperatori etc.) con le relative iscrizioni, ed erano anche affissi alle pareti – così come a Brescia – lastre di fasti imperiali2. Si pensi, soprattutto, a Verona: qui, infatti, la pubblicazione nel 2008 dei risultati degli scavi del Capitolium da parte dell’archeologa Giuliana Cavalieri Manasse3 ha consentito di avere una percezione abbastanza precisa sia del messaggio che la città intendeva comunicare all’esterno attraverso la sua area monumentale, sia dell’impatto emotivo che la vista dell’intero impianto doveva esercitare sul visitatore, cittadino o forestiero (Fig. 1). Su questo “messaggio” ideologico della città verso l’esterno, rappresentato dai cd. ornamenta civitatis, cioè quell’insieme di beni appartenenti all’universitas dei cives posti normalmente nei fora delle città4 e sentiti come rappresentativi della loro identità5, vorrei soffermarmi nel presente contributo, facendo tesoro delle circostanziate notizie fornite dalla pubblicazione sopra richiamata, ma anche di alcune riflessioni degli autori latini, e in particolare dei giuristi. Il caso veronese è, fra l’altro, particolarmente interessante perché, com’è noto, fra la documentazione epigrafica ritrovata negli scavi del complesso capitolino, compaiono anche due importantissimi frammenti di forme catastali bronzee, presumibilmente risalenti al I secolo a.C.6. Esse sono già state oggetto di approfondito esame, quella cd. A in un saggio pubblicato nel 2000 da Giuliana Cavalieri Manasse7, quella cd. B nel corso di un convegno interdisciplinare organizzato a Venezia nel maggio 2014 da Giovannella Cresci Marrone8: in quella sede io stessa ho formulato alcune ipotesi sulla loro presumibile natura giuridica, i reciproci rapporti e la rispettiva datazione9. Ma la prospettiva da cui oggi intendo guardare le due testimonianze non è più soltanto quella del loro contenuto, ma anche quella del contesto del loro ri  Kreuz 2012; De Maria 2008, pp. 104-105; Marini Calvani 2000; Ortalli 1995; De Maria 1988, pp. 4857; Saletti, 1968. Fra l’altro l’intestazione dei testi epigrafici, scritta in caratteri più grandi rispetto al resto dell’incisione, era funzionale proprio ad un’agevole comunicazione anche al visitatore di passaggio. 2  Brescia: CIL, V, 4315-4318 = SupplIt 8, 191, pp. 164-166, Tavv. I-VII. Cfr. Rossi 1995; Valvo 1998, pp. 83-85; Di Vita-Évrard 1991; De Maria 1988, pp. 34-41; Degrassi 1975. Luni: Angeli Bertinelli 2012 e 1988, pp. 103116 = AE 1988, 564; Rossignani 1995. Cfr. Legrottaglie 2008. 3   Cavalieri Manasse 2008a. 4   Sugli spazi forensi delle città, soprattutto in Cisalpina, fra gli altri, Maggi 2011; Villicich 2007. 5  Cic., Verr. 2, IV, 30, 68: Multi reges, multae liberae civitates, multi privati opulenti ac potentes habent profecto in animo Capitolium sic ornare ut templi dignitas imperiique nostri nomen desiderat: altre fonti in Legrottaglie 2008, pp. 255-256. Cfr. De Maria 2010; 2008; 2005 e 1988, pp. 34-41; Zaccaria 1995. 6   La straordinarietà di questi ritrovamenti dipende dalla rarità dei documenti epigrafici di formae agrorum, nonostante i numerosi riferimenti, peraltro di difficile interpretazione, dei trattati del Corpus Agrimensorum Romanorum. I documenti attualmente disponibili sono, infatti, soltanto i cd. Catasti di Orange (su cui rinvio soltanto a Piganiol 1962 e poi, per ulteriore letteratura, a Chouquer 2010, p. 246 ss.), la cd. forma di Lacimurga (Sáez Fernández 1990, pp. 205 ss.; Clavel-Lévêque 1993, pp. 175 ss.; Chouquer, Favory 2001, pp. 56-57; Chouquer 2010, p. 261). Un altro frammento epigrafico in bronzo trovato a Ilici in Spagna e risalente alla seconda metà del I sec. a.C. riporta i nomi degli assegnatari di un lotto nella colonia e le relative misure, che appaiono regolari: esso documenta il processo di sortitio dei lotti nella colonia. Si discute se si tratti di una forma: cfr. Olesti Vila 2005, pp. 47 ss. con altra lettura. 7   Cavalieri Manasse 2000. 8   Cresci Marrone 2015. 9   Maganzani 2015. 1

La memoria publica della civitas esposta negli archivi cittadini

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Fig. 1. Abitato indigeno e poi coloniale (estensione approssimativa): 1) via Postumia; 2) via della Val d’Adige; 3) Ponte Pietra; 4) Tratto di cinta muraria; 5) Presumibile tempio poliadico; 6) Tempio suburbano; 7) Necropoli (da Cresci Marrone 2015, Tav. VIII).

trovamento: infatti, come si vedrà, uno sguardo attento alla localizzazione originaria dei documenti e alle ragioni della loro affissione nel triportico capitolino fino almeno al III secolo inoltrato, può svelare indizi inattesi e forse decisivi sulle loro finalità, natura e datazione. In ciò seguo un indirizzo già abbastanza consolidato nella ricerca archeologica e antichistica in genere, volto a intendere i singoli monumenti, anche iscritti, non come «episodi singoli da apprezzare in quanto tali», ma come elementi di «contesti nei quali i diversi episodi … trovavano la loro collocazione fisica, spaziale e relazionale»10. Infatti «il monumentum – scrive l’archeologo Sandro De Maria – vive in quanto comunica, e anche ammaestra, se consideriamo il senso etimologico originario della parola11, e questo lo si ottiene in maniere differenti, tra le quali un ruolo non secondario gioca la loro collocazione e la rete di relazioni visive e concettuali, che si instaura con il contesto e le costruzioni vicine»12. Ecco perché un approfondimento sulla collocazione originaria di un testo epigrafico affisso in un luogo pubblico può essere di grande aiuto all’interprete anche alla comprensione del suo contenuto. Questo tipo di approccio trova evidentemente due limiti di fondo: il primo connesso alla difficoltà di   De Maria 2008, p. 101. Si tratta di una prospettiva nata in particolare dalle riflessioni di Zanker 1989 e 2002; Hölscher 1994, pp. 137-173. Cfr. anche Sears, Keegan, Laurence 2013, in particolare Corbier 2013; 2006 e 1987; Williamson 1995 e 1987, spec. pp. 162-166. Sulla funzione anche “comunicativa” e “propagandistica” dell’affissione a grandi lettere dei catasti d’Orange, Christol 2012, pp. 65-67; Arnaud 2003, spec. p. 25: fu Vespasiano a imporre la loro affissione pubblica (AE 1999, 1023: [ formam agrorum pro]poni iussit); lo stesso vale per l’affissione a Roma della forma urbis: RodrÍguez Almeida 2002 e 1988. 11   Mansuelli 1958. 12   De Maria 2010, p. 111. 10

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ricostruire i contesti originari dei monumenta nonché i «rimandi specifici fra le varie costruzioni» di un complesso13; il secondo dovuto all’impossibilità di restituire, allo stato attuale delle nostre conoscenze di antropologia storica e sociologia culturale, «le modalità personali (di gruppo, di classe, di livello culturale) secondo le quali quei monumenti […] venivano effettivamente percepiti» all’epoca della loro fruizione14. E tuttavia ove il contesto del monumentum sia stato almeno parzialmente ricostruito dagli archeologi, come nel caso dei catasti del Capitolium di Verona, credo che un tentativo in questo senso meriti di essere fatto15. 1. A Verona, dopo la monumentale edificazione del centro cittadino a partire dal 49 a.C., cioè a seguito della concessione cesariana della civitas romana alla Gallia Cisalpina, era innanzitutto la struttura stessa del grande tempio capitolino a comunicare al visitatore, oltre a un’impressione di magnificenza, un forte messaggio ideologico16 (Fig. 2): l’accesso al tempio avveniva, infatti, da sud, dal cardo massimo, e da qui un’alta scalinata doveva condurre al cortile di accesso, caratterizzato certamente da un ricco apparato decorativo, anche se ridotte sono le testimonianze pervenute17. Sulla terrazza antistante al tempio, sui lati occidentale e orientale della scalinata d’accesso, dovevano poi essere collocati due gruppi statuari di grandi dimensioni a cui è probabilmente attribuibile un enorme dito in bronzo dorato (VR 60328) forse appartenente a un simulacro colossale di divinità o di imperatore18. Il pronao, dotato di 18 colonne disposte su tre ranghi, era profondo circa 15,40 m a partire dalla fila anteriore e, dietro questa, si aprivano le porte delle tre celle (che dimostrano che il tempio era dedicato alla Triade capitolina), maggiore quella centrale, minori quelle laterali. Di lato alle celle vi erano 4 colonne e dietro, forse, dei vestiboli. Il coperto dell’edificio era in materiale laterizio e doveva avere una discreta pendenza19. Il complesso poggiava su un terrapieno artificiale di circa 80 m per lato, contenuto da un criptoportico, ed era contornato da un triportico che circondava la terrazza e inquadrava il tempio. Tale insieme si conformava ad un modello di stampo ellenistico caratteristico delle piazze forensi dei municipia romani e molto diffuso a partire dal II secolo a.C. Ma gli archeologi hanno sottolineato come il tempio veronese fosse del tutto peculiare nel quadro delle strutture templari dell’epoca, sia per il suo schema planimetrico, che per i suoi elementi decorativi fittili o lignei. Infatti la sua struttura, con pronao di tre file di sei colonne e portici laterali, richiamava apertamente quella di un tempio tuscanico secondo una formula architettonica che, all’epoca dell’edificazione del complesso, cioè dopo il 40 a.C., era da tempo superata20. Inoltre il tempio era caratterizzato da trabeazioni lignee e rivestimenti in terracotta – di cui sono rimasti molti frammenti dalla forma di tralci vegetali, spirali, palmette, ali e festoni etc.21 – che erano all’epoca ampiamente fuori moda, essendo ormai usati soltanto per ammodernamento di edifici già esistenti da lunga data, mentre nei templi di nuova edificazione si erano affermati da tempo alzati e trabeazioni lapidei e l’elemento fittile era usato solo a copertura del tetto con apparato decorativo ridotto. Parrebbe dunque trattarsi di una vera ostentazione di “conservatorismo” rispondente, però, alla più autentica tradizione latina e romana: il che fa pensare ad un complesso ideato e realizzato in questo modo per la precisa volontà di riprodurre l’esempio del Capitolium urbano in modo da mostrare al pubblico il forte legame politico, religioso, istituzionale, ideologico con Roma attraverso la riproposizione “fuori tempo” del suo edificio più rappresentativo.     15   16   17   18   19   20   21   13 14

De Maria 2010, p. 111. De Maria 2010, p. 111. Analoghe osservazioni in Coarelli 1994, pp. 111 ss. a proposito della Tavola di Eraclea. Cavalieri Manasse 2008b, pp. 76-105 e 2008c. Cavalieri Manasse 2008b, pp. 86-87. Cavalieri Manasse 2008a, Tav. CXXXIV.4; cfr. Legrottaglie 2008. Cavalieri Manasse 2008b, pp. 83-84. Cavalieri Manasse 2008b, pp. 102-105 e 2008d. Strazzulla 2008.

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Fig. 2. Gli scavi del complesso capitolino. Assonometria ricostruttiva del complesso alla fine del I sec. a.C. (da Cavalieri Manasse 2008a, Tav. 13).

Tutto questo è ancor più significativo se si pensa che la nuova città in destra d’Adige fu costruita ex novo dopo il 49 a.C., mentre sulla riva sinistra, dove aveva sede lo stanziamento indigeno originario, fu creato un apparato monumentale confiscando le proprietà esistenti. Si trattò quindi di una vera “rivoluzione” per la popolazione della zona, pianificata e realizzata di concerto con la pianificazione e realizzazione del nuovo centro cittadino in destra d’Adige: a ciò si riferisce la famosa iscrizione murata nella facciata settentrionale più antica della porta Leoni (CIL V, 3434) che attribuisce ai quattuorviri cittadini il merito dell’edificazione delle mura, delle porte, delle cloache. 2. A questo primo segno evidente ed immediatamente percepibile dai contemporanei della fedeltà della città, appena beneficiata dell’ambita civitas romana, agli ideali di Roma antica rappresentati dai suoi edifici simbolo, si doveva affiancare all’interno della struttura (come accadeva nel Capitolium della Capitale e, in genere, in tutti quelli delle varie realtà cittadine sparse nell’impero), un ricco arredo scultoreo, costituito soprattutto da statue di divinità, ma anche di viri inlustres o imperatori22. Di tale arredo a Verona non sono rimasti molti esempi a causa della sistematica spogliazione dell’area avvenuta in età tardo-antica. È tuttavia significativa la scoperta, nelle trincee di spoglio all’altezza del pronao, di una base quadrangolare in marmo proconnesio che presenta, su due facce diverse, due iscrizioni, la prima delle quali è stata erasa in età antica (VR 4823)23. Quest’ultima ricorda l’erezione di una statua, decretata dall’ordo decurionum, per una matrona di rango residente in città, Curtia Procilla, sacerdotessa della diva Plotina Augusta (la moglie di Traiano divinizzata dopo la morte, nel 123 d.C.); dall’altro lato, invece, compare la dedica sottostante ad una statua eretta a Giove Ottimo Massimo su decreto dell’ordo decurionum Veronensium. Il riutilizzo del marmo, che dovette avvenire fra la fine del II secolo e gli inizi del III, non desta stupore se è vero, come sostenuto da Lahusen24, che in età imperiale, anche a Roma, si tese a eliminare gradualmente dal Capitolium le effigi private per dare spazio alle sole statue degli imperatori. Ma fra i resti degli arredi scultorei compaiono anche segni della devozione dei cives nei confronti di Augusto: penso in particolare a due frammenti di un capitello di grandi dimensioni in marmo bianco lunense che, nella metà inferiore, raffigurava due corone di foglie d’acanto con fogliette ed   Legrottaglie 2008.   Legrottaglie 2008, p. 257. 24   Lahusen 1983, p. 11. Cfr. Legrottaglie 2008, p. 257 nt. 22; Zanker 1989, pp. 89 ss. 22 23

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occhielli ovali, nella parte superiore, due capricorni affrontati, ritratti col muso di fronte e le zampe di profilo, squamati, pelosi e dotati di corna ricurve25. Fra di essi, sull’asse del capitello, si trovava anche un globo, sopra il quale pare vi fosse una corona. I frammenti ricordano un altro capitello di lesena proveniente da Pozzuoli e ora al Museo Archeologico di Napoli. Sono, infatti, speculari sia la composizione generale della decorazione che i singoli elementi. Questi pezzi celebravano direttamente il potere di Augusto secondo un tipo di decorazione simbolica tipica dell’epoca (cfr. Suet., Aug. XCIV, 12). Il capricorno, infatti, era un simbolo diretto del principe, in quanto segno della rinascita del sole (Apollo) nel solstizio d’inverno, della regalità di Giove, della forza militare di Marte, della sacralità di Vesta, della prosperità di Saturno. Per la retorica imperiale esso era simbolo di benessere, fortuna, immortalità, divinità. Analogamente la corona, perduta nel capitello veronese ma presente in quello analogo puteolano, potrebbe essere un richiamo al potere augusteo, alludendo forse alla corona affissa per delibera del senato del 27 a.C. sopra la porta di casa di Augusto sul Palatino. Anche la sfera, simbolo del globo terrestre, della volta celeste e dell’ordine cosmico, rappresentava agli occhi dei contemporanei un richiamo diretto ad Augusto: si pensi soltanto che, secondo Cassio Dione 43, 14, 6, una statua bronzea sul Campidoglio raffigurava l’imperatore con una sfera sotto il piede, simbolo dell’ecumene26. Questo capitello, pur di incerta collocazione, doveva qualificare, probabilmente insieme ad altri, una sezione apposita del complesso capitolino dedicata al culto imperiale, forse un’edicola all’interno dell’aedes capitolina larga circa 9 m. Non sono, infatti, rari i casi di celebrazione imperiale all’interno di altri edifici, anche capitolia dove magari comparivano pure cicli statuari o statue isolate. Si sa che Augusto non permise il culto della sua persona in vita, se non nelle province orientali e associato alla dea Roma. In realtà alcune ricerche recenti hanno mostrato che in più di trenta città – compresa Verona (CIL, V, 3341, culto di Augusto ancora vivente da parte di un flamen Augusti primus Veronae creatus) – il culto di Augusto fu tributato prima della sua morte. Anche il capitello qui presentato può essere illuminante in questo senso, attestando che il culto dell’imperatore fu ampiamente tollerato. L’identità fra questo capitello e quello di Pozzuoli fa pensare che vi fosse un cartone modello fatto appositamente circolare per decorare questi primi luoghi della celebrazione o culto imperiale. 3. Ma il luogo principe dove la civitas veronese si presentava all’esterno comunicando sé stessa e la sua storia, sia per iscritto che per immagini, era il triportico racchiudente il tempio: esso, infatti, oltre ad essere adornato di statue (come accadeva anche a Luni e probabilmente a Brescia), presentava molte iscrizioni affisse alle pareti, appositamente scelte dall’ordo decurionum per rappresentare all’esterno gli ideali della propria civitas. Si trattava dunque di un luogo deputato alla conservazione e presentazione pubblica delle “memorie civili”27, anche se non direi che lo si possa identificare, come di recente è stato sostenuto, con un vero e proprio tabularium28: infatti una cosa è l’esposizione di alcuni pezzi significativi, riprodotti su bronzo o marmo, allo scopo di comunicare al pubblico un certo messaggio ideologico da parte della civitas; un’altra è la conservazione, verosimilmente in luogo chiuso, dei documenti di pubblico interesse interessanti la città nonché la registrazione e catalogazione dei bona civitatis, fra cui le aree e gli edifici di uso pubblico, le terre pubbliche locate a privati dietro il pagamento di un vectigal e gli ornamenta della civitas (come le statue). Un vero e proprio tabularium, ad esempio, è quello di cui si parla in un’iscrizione su marmo proveniente da Caere e conservata nel Museo Archeologico di Napoli, relativa alla concessione di un locus publicus da parte dell’ordo decurionum cittadino ad un privato, perché questi realizzasse a sue spese una sorta di schola per gli Augustales (CIL, XI, 3614): qui, infatti, si specifica che il testo iscritto riproduce     27   28   25 26

Bianco 2008, pp. 199-203. Bianco 2008, p. 202. Legrottaglie 2008, p. 258. Cavalieri Manasse, Cresci Marrone 2015, pp. 30-41; Legrottaglie 2008, p. 258.

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quanto avvenuto il 13 aprile del 113 nel pronao del tempio di Marte – probabile sede del tabularium – indicando esattamente la pagina e il caput da cui il testo iscritto era stato tratto29. I resti delle epigrafi affisse nel triportico veronese forniscono un’idea piuttosto precisa del messaggio che la città voleva comunicare all’esterno, riguardante sia la sua propria storia che il suo rapporto speciale con l’Urbs e con l’imperatore. In primo luogo vi comparivano i nomi dei personaggi illustri della città e in particolare degli evergeti del complesso capitolino: ad esempio, lungo il muro del triportico era murata un’iscrizione di cui, al momento della pubblicazione dei risultati degli scavi nel 2008, rimanevano cinque pezzi. Il testo ricostruito, sulla cui lacuna finale sono state proposte varie ipotesi, era il seguente: M. Magius L(uci) f(ilius) cryptam fecit et porticus r. Ma nel 2011, durante le indagini nella cripta della Chiesa di San Benedetto al Monte sono stati trovati altri due pezzi dell’epigrafe, che colmano un’importante lacuna del testo, col seguente risultato finale: M. Magius L(uci) f(ilius) cryptam fecit et porticus reposu[i]t d(e) p(ecunia) s(ua)30. Si tratta di un’epigrafe incisa a grandi lettere (h. 11,5 cm) su un monolite di quasi quattro metri ammorsato alla muratura laterizia. Si trovava probabilmente sul lato ovest del triportico, mentre negli altri lati dovevano esserci iscrizioni relative ad altri evergeti cittadini. L’iscrizione è stata datata al 40-20 a.C. sia perché l’onorato è privo di cognomen, sia soprattutto per i caratteri paleografici del testo. L’evergete apparteneva a una famiglia veronese già nota: infatti sono attestati anche un L. Magius M. f. in un’iscrizione sepolcrale di Colognola e, nella forma catastale già pubblicata nel 2000 da Giuliana Cavalieri Manasse (una delle due presenti nel complesso capitolino)31, un M. Magius M. f. Il nostro evergete potrebbe essere il figlio del primo e quello della forma potrebbe essere suo zio. La famiglia dovette godere di una lunga fortuna se è rimasta anche una statua di età giulio-claudia dedicata a un M. Magius L. f. Urbanus. Il M. Magius L. f. dell’iscrizione del triportico viene dunque onorato per aver edificato a sue spese il criptoportico che sosteneva l’intero complesso e per aver ricollocato il triportico: cioè, come è stato ipotizzato, per aver trasferito nel triportico del tempio in destra d’Adige colonne e iscrizioni già presenti nel tempio preesistente situato dall’altro lato del fiume e poi forse distrutto in occasione della edificazione della città entro l’ansa e della monumentalizzazione della zona collinare di sinistra a partire dal 49 a.C32. Infatti, come già ricordato sopra, la città cenomana preromana era situata sulla riva sinistra dell’Adige (sull’altura di Castel San Pietro) e tale rimase dopo l’89 a.C. quando, con altre città transpadane, Verona assunse il titolo di colonia ad opera di Pompeo Strabone, padre del Magno. All’epoca la città dovette subire cambiamenti non particolarmente rilevanti, a parte l’edificazione delle mura di cui rimangono tracce nei pressi del fiume e forse di un santuario posto sul colle. Al contrario, entro l’ansa, non dovevano esistere stanziamenti stabili, «verosimilmente sconsigliati – scrive l’archeologa Cavalieri Manasse – dalle condizioni idrogeologiche della zona, spazzata da forti alluvioni sino alla costruzione degli argini municipali»33. Infatti non sono stati qui rinvenuti depositi pre- e protostorici e i «rari e assai poco consistenti contesti con ceramica generalmente attribuibile al III-I sec. a.C.» che sono stati individuati in zona «testimoniano non di un nucleo abitativo organizzato e di qualche importanza, ma solo di qualche forma di occupazione lungo i margini della via Postumia». Inoltre, benché nell’area fra il decumano massimo e il cardine secondo, nel 2005, si siano rinvenuti i resti di un probabile santuario extraurbano di tipo ellenisticoitalico, collocabile nel primi decenni del I sec. a.C., non esiste alcun indizio di un processo di urba    31   32   33  

29 30

Parma 2012, pp. 230-236. Cavalieri Manasse, Cresci Marrone 2015, pp. 30 ss. Cavalieri Manasse 2000. Cavalieri Manasse, Cresci Marrone 2015, pp. 30 ss. Cavalieri Manasse 2008b, p. 75.

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nizzazione iniziato in questa zona prima della metà del I sec. a.C. Comunque la fase di occupazione pretemplare in destra d’Adige sembra esaurirsi entro la metà del I sec. a.C34. Non è possibile sapere il tempo intercorso fra la fine dell’occupazione pretemplare nella grande ansa dell’Adige e l’edificazione del tempio capitolino, anche perché verosimilmente fu necessaria una preliminare bonifica del terreno. Ma è probabile che l’edificazione sia stata contestuale o di poco successiva alla realizzazione dell’impianto cittadino (murum, portas, cloacas) a cui ci si riferisce nell’iscrizione murata nella facciata settentrionale più antica della porta Leoni (CIL, V, 3434), indicandola come opera di quattuorviri (che di certo furono fra i primi magistrati della nuova città avendo la responsabilità dell’appalto e collaudo dell’intero suo impianto o della sua parte più rilevante). L’edificazione del tempio ricordata dall’iscrizione di Magius doveva dunque rientrare in un progetto unitario dell’intera città, come si ricava «dall’omogeneità sia dei caratteri organizzativi e distributivi della planimetria che degli aspetti tecnici e materici delle strutture»35, ed è quindi ipotizzabile, come data di inizio lavori, la decade 50-40 a.C., e come data di fine, la decade 30-20 a.C. Dagli scavi del triportico sono emersi anche alcuni frammenti lapidei36. Secondo la ricostruzione fatta da Buonopane, si doveva trattare di prodotti di notevole pregio, sia per i materiali utilizzati (quasi sempre marmi di importazione, ad es. il giallo antico, il proconnesio, il lunense), sia per la lavorazione, il che dimostra che erano opere di maestranze altamente specializzate. Le lettere, a volte di grandi dimensioni, sono incise con regolarità e spesso con accuratezza (talvolta si possono notare i disegni preparatori). Alcune lapidi presentano una cornice, di solito piuttosto semplice, a delimitare lo specchio epigrafico. In qualche caso le lettere presentano apicature fatte per generare un effetto esteticamente piacevole. In molte lapidi si vede la colorazione rossa del solco delle lettere, singolarità ricordata da Plinio (Nat. hist. XXXIII, 122), che veniva eseguita con pigmenti a base di minio per dare risalto allo scritto. Nel complesso si doveva trattare di un grande numero di lastre che rivestivano le pareti del triportico e che rappresentavano la memoria publica cittadina (secondo l’espressione di Cicerone, in Pro Mil. 73) sotto forma di leggi, decreti, fasti, deliberazioni degli organi rappresentativi della civitas etc. Che si trattasse di documenti affissi è provato dai fori o dalle grappe in ferro, bronzo o simili, presenti sui frammenti ritrovati. Questi sono tutti di piccole dimensioni e appaiono rotti, con una mazza o altro, già in età antica, in occasione dello spoglio del monumento, forse per recuperare materiale. La maggior parte risalgono al I, II, III sec. d.C. Fra di essi, di particolare interesse è un frammento (n. 2, VR 4822, Tavv. CXXXV, 2; 32, 7)37 che, secondo l’editore Buonopane, potrebbe aver fatto parte di una tavola marmorea riproducente “fasti imperiali”, documenti attestati anche nel Capitolium di Brescia e a Luni38. Si tratta di un frammento marginale destro di lastra in giallo antico. Lungo il bordo inferiore a destra ci sono tracce di un foro cieco per un perno metallico che serviva ad unire questa lastra con un’altra. Secondo l’editore potrebbe trattarsi di due o più lastre unite dove erano stati iscritti in momenti differenti i nomi di alcuni imperatori. Fra i frammenti superstiti ci sono altri documenti con titolature imperiali (nn. 3, 14, 15, 16) nei quali forse si ricordava qualche atto ufficiale dell’imperatore o si manifestava la lealtà della comunità verso i regnanti39. Compaiono, inoltre, esemplari di atti ufficiali di organi deliberanti cittadini nonché di associazioni locali risalenti al II-III secolo d.C.: ad esempio il documento n. 17 presenta la praescriptio dell’atto ufficiale di un organo deliberante40, mentre il n. 18 riporta verosimilmente   Cavalieri Manasse 2008b, pp. 73-76 e 102.   Cavalieri Manasse 2008b, p. 103. 36   Buonopane 2008, pp. 269 ss. 37   Buonopane 2008, p. 273. 38  Brescia: CIL, V, 4315-4318 = SupplIt 8, 191, pp. 164-166, Tavv. I-VII: Valvo 1998, pp. 83-85. Luni: Angeli Bertinelli 1988 = AE 1988, 564; Angeli Bertinelli 2012. 39   Buonopane 2008, pp. 273-278. 40   [---] in tem[plo---]/[---scribundo] adfue[runt----]/[---] ANNO ---[]: Buonopane 2008, pp. 278-279. 34 35

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Fig. 3. Catasto A e apografo (da Cresci Marrone 2015, Tavv. VII a e b).

la dedica al Genius collegii da parte dei fabri e centonarii, associazioni che intervenivano in ambito cittadino per lo spegnimento degli incendi41. 4. A tutto questo si aggiungono i due frammenti di catasti di bronzo che, dal triportico dove erano affissi in età antica, scivolarono nella crypta, dove sono stati ritrovati (Figg. 3, 4, 5). L’irregolarità dei bordi dei due frammenti, che appaiono frastagliati e leggermente rialzati, dimostra che le due tavole, in età tardoantica, furono tagliate o piegate ripetutamente in modo da essere frantumate. Il primo frammento (cd. catasto A), pubblicato nel 2000 da Giuliana Cavalieri Manasse42, è alto 16 cm e largo 21 ed è l’angolo superiore sinistro di una tavola destinata ad essere appesa (come dimostra il grosso foro posto in alto a sinistra). Vi è disegnata la regione dextrata ultrata di un reticolo centuriale, al cui interno sono indicate le coordinate della limitatio, i nomi dei titolari di una serie di terreni (che sono espressi in genitivo ad indicare la proprietà) e il numero di iugeri appartenenti a ciascuno. Dai nomi si capisce che si tratta di cives romani, anche se soltanto due di essi presentano i tria nomina, mentre gli altri hanno prenome, nome e patronimico: il che prova che la redazione del documento risale ad età tardo-repubblicana visto che l’uso del cognomen per gli ingenui sembra generalizzarsi soltanto in età imperiale. Importante sottolineare che le misure dei fondi attestate sulla tavola sono tutte irregolari: questo, infatti, dimostra che non si trattò di una vera e propria assegnazione, ma della riproduzione grafica su bronzo dei possedimenti propri di ciascuno dei titolari.   Buonopane 2008, p. 279: [---Ge]nio collegi[---] / [ fabr(orum) ? et cento]nari(orum)/ -------.   Cavalieri Manasse 2000.

41 42

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Fig. 4. Catasto B, diritto (da Cresci Marrone 2015, Tav. I).

Fig. 5. Catasto B, apografo (da Cresci Marrone 2015, Tav. III).

Il secondo frammento (cd. catasto B), pubblicato solo di recente43, è alto 17,7 cm e largo 12. Ha uno spessore diverso dal precedente, il che dimostra che si tratta di due lastre differenti. Sul lato destro compare una linea che potrebbe essere una strada. I nomi dei titolari, egualmente in genitivo, sono vergati in caratteri latini e la quantità di terreno di cui dispongono è indicata con numeri latini, ma i loro nomi sono tutti celti e appartengono a soggetti ancora privi della civitas romana. Probabilmente la sequenza dei nomi è locazionale, cioè topografica. Mancano indicazioni di riferimento alla maglia centuriata, cioè coordinate della catastazione – come invece appare nel documento precedente – il che indica che probabilmente i terreni segnalati non rientravano in un’area centuriata. Si tratta, invece, presumibilmente, di una descrizione grafica del territorio effettuata forse a scopo censitario attraverso l’uso di quadrature fittizie. Quanto alla datazione del catasto A, rinvio alle osservazioni di Giuliana Cavalieri Manasse che, nell’editio princeps del 2000, proponeva di collocarlo cronologicamente nella seconda metà del I secolo a.C. dopo la concessione cesariana nel 49 a.C. della civitas ai Transpadani44. Le ipotesi sulla datazione del catasto B, che non si può ricavare dai dati paleografici, oscillano, invece, fra due estremi: si potrebbe trattare di un catasto eseguito a seguito della cd. deduzione coloniale “fittizia” ex lege Pompeia, cioè dell’attribuzione della latinitas alla Transpadana nell’89 a.C., allo scopo di censire i possedimenti dei nuovi “cives latini” e così definire le loro posizioni, anche politiche,   Cavalieri Manasse, Cresci Marrone 2015, pp. 23-54 e tutti gli altri contributi di Cresci Marrone 2015, fra cui Maganzani 2015. 44   Cavalieri Manasse 2000, pp. 5 ss. 43

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e le loro relazioni reciproche all’interno della colonia45; oppure si potrebbe trattare di un enclave di peregrini ancora presente sul territorio in età imperiale: ricerche recenti hanno, infatti, dimostrato la durevole e ampia persistenza di elementi locali in Transpadana anche dopo l’attribuzione della civitas romana nel 49 a.C46. In un saggio recente pubblicato negli atti del convegno di Venezia sul cd. Catasto B (quello, cioè, di ultima pubblicazione) io dichiaravo di propendere per la prima ipotesi e portavo a suffragio di questa tesi una serie di indizi storici, a cui in questa sede non posso che rinviare47. Alla stessa conclusione erano autonomamente giunte anche Giuliana Cavalieri Manasse, l’archeologa scopritrice del documento, e Giovannella Cresci, l’organizzatrice del convegno e curatrice della pubblicazione48. Ma la riflessione appena condotta sulla collocazione dei due documenti nel triportico capitolino e sulla loro permanenza in quella sede fino ad età tardoantica, mi convince ulteriormente della bontà di questa ipotesi cronologica. Infatti, la circostanza che essi siano rimasti affissi ai muri del triportico capitolino per tanti secoli, significa che essi erano ritenuti coerenti con il “messaggio pubblico” che l’intero complesso monumentale voleva comunicare all’esterno, vale a dire l’orgoglio della città per essere entrata definitivamente nell’orbita romana dopo l’attribuzione della civitas nel 49 a.C. E parrebbe del tutto fuor di luogo che in questo contesto si fosse ritenuto di affiggere e redigere con tanta cura (una cura ancora maggiore – scrivono le due curatrici dell’edizione critica – di quella usata per la lastra più recente) un catasto con i nomi dei peregrini di eventuali enclaves presenti sul territorio. Più coerente al contesto è che i due catasti volessero rappresentare plasticamente il passaggio dal primo momento in cui la città, ancora abitata da celti, era entrata nell’orbita romana con la concessione della latinitas nell’89 a.C., e quello successivo di non più di 40 anni in cui la popolazione aveva ormai ottenuto l’ambita civitas romana. Tutto ciò in coerenza con la definizione di territorium civitatis fornita dal giurista Pomponio in un passo del Digesto giustinianeo tratto dal Liber singularis Encheiridii (D. 50.16.239.8) come l’universitas agrorum di una città («“Territorium” est universitas agrorum intra fines cuiusque civitatis: quod ab eo dictum quidam aiunt, quod magistratus eius loci intra eos fines terrendi, id est summovendi, ius habent»): le due tavole, cioè, dovevano servire a ritrarre sul bronzo la distribuzione dei terreni del suburbio in due momenti di svolta per la cittadinanza, quello dell’acquisto della latinitas prima e della civitas romana poi. Del resto tale uso non manca di conferme: si pensi ai catasti di Orange affissi nel 77 d.C. per iniziativa di Vespasiano nel tabularium e che riportano tre rappresentazioni grafiche del territorio (A, B,   Com’è noto, la fonte più importante sulla concessione della latinitas alla Transpadana è Asc., In Pis. 3 Clark: Neque illud dici potest, sic eam coloniam (sc. Placentiam) esse deductam quemadmodum post plures aetates Cn. Pompeius Strabo, pater Cn. Pompei Magni, Transpadanas colonias deduxerit. Pompeius enim non novis colonis eas constituit sed veteribus incolis manentibus ius dedit Latii, ut possent habere ius quod ceterae Latinae coloniae, id est ut petendi magistratus civitatem Romanam adipiscerentur. Accurata esegesi del testo in Barbati 2012a, pp. 1 ss.; 2012b, pp. 1 ss. e 2013, pp. 59 ss. Cfr. anche Grelle 2011. 46   Mainardis 1997; 2000; 2001; 2002 e 2003. Sembra, al contrario, da escludere una datazione anteriore all’89 a.C.: è vero, infatti, che è attestata per il II secolo a.C. la soluzione nella zona, da parte di arbitri romani, di controversie di confine fra comunità (Bandelli 2007, pp. 15 ss.; Cairo 2012, pp. 33 ss.). Ma una cosa è che un arbitro romano sia stato chiamato dalle popolazioni locali a risolvere una controversia di confini fra comunità federate, sia in ragione del foedus esistente e della posizione di preminenza politica di Roma sui popoli della Transpadana, sia in ragione della già avanzata romanizzazione della zona per la presenza di grandi strade romane, soprattutto la Postumia tracciata nel 148 a.C., e le già corpose immigrazioni dalla capitale. Diverso è che in una civitas specifica ci si prenda la cura di accatastare tutte le proprietà fondiarie dell’area rurale con i nomi dei titolari e il relativo modus dei terreni secondo modalità tipicamente romane. Come si vedrà oltre, nel testo, il termine territorium è definito dal giurista Pomponio in D. 50.16.239.8 come «universitas agrorum intra fines cuiusque civitatis»: il che significa che, per i Romani, la definizione del territorio cittadino equivaleva alla ricognizione delle singole proprietà. In presenza di un semplice foedus coi Cenomani – che fra l’altro, com’è noto, prevedeva a detta di Cicerone (Balb. 14, 32), il divieto di dare la civitas romana a membri di quella popolazione – non vi sarebbe stata ragione di questa intromissione di Roma nella realtà locale. 47   Maganzani 2015. 48   Cavalieri Manasse, Cresci Marrone 2015, pp. 23-54. 45

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C) appartenenti ad epoche diverse49. Si pensi ad alcune iscrizioni di centri veneti caratterizzate dalla sigla N anteposta ad un numero: il caso più appariscente è quello di Patavium, dove il numero potrebbe indicare «i n(umeri) della città di pertinenza, intesi come gli anni trascorsi dalla data d’inizio di un’era locale»50, nel caso di Padova l’89 a.C. Si pensi, infine, questa volta dal punto di vista degli indigeni, alla Stele bilingue di Vercelli51 in cui, probabilmente dopo l’89, un notabile locale di nome Acisius Argantocomaterecus, forse investito di una carica magistratuale preromana (Argantocomaterecus come misuratore dell’argento?) ma ancora privo della civitas, avendo compiuto un atto di evergetismo a favore della comunità mista libico-romana di Vercelli, si cura di comunicarlo in prima istanza alla componente latina del gruppo e, nel farlo, mostra anche di adeguarsi alle aspettative di questa quando, secondo l’uso romano, definisce il campo oggetto di donazione indicandone i confini (uti lapides quattuor statuti sunt). Non a caso tali indicazioni topografiche, estranee agli usi celtici, mancano nel successivo e più succinto testo leponzio. Ed ecco, in definitiva, la ragione di scegliere due momenti importanti (post 89 e post 49) per redigere questi due catasti. Il primo, quello in cui Verona – con altre città transpadane – diviene colonia latina, dedotta tuttavia – come scrive Asconio, In Pis. 3 C – incolis manentibus, cioè mantenendo le titolarità dei terreni preesistenti e al solo scopo di concedere la civitas romana ai magistrati usciti di carica (in base allo ius adipiscendae civitatis per magistratum): il tutto in assenza di una centuriazione che, infatti, non è attestata per l’epoca né dall’indagine topografica sul territorio veronese, né nella forma catastale B. Il catasto costituiva allora la rappresentazione grafica della esistente ripartizione del suolo rurale fra gli incolae e fu verosimilmente realizzato a seguito delle loro professiones dei terreni posseduti, secondo una modalità che è frequentemente attestata sia dai testi agrimensori che dal Liber coloniarum e dalle fonti letterarie. In questo modo gli incolae erano conosciuti, ne era stimata la ricchezza anche ai fini dell’eventuale eleggibilità alle nuove magistrature coloniali e della conseguente attribuzione della civitas agli ex magistrati cittadini ed inoltre si definiva il territorium civitatis, vale a dire l’universitas agrorum secondo le già citate parole di Pomponio. Verona all’epoca doveva avere già l’aspetto di una città, anche se era collocata sulla collina in sinistra d’Adige e delle strutture originarie non è rimasto molto, ma naturalmente nulla in essa era paragonabile alle città romane monumentali come, ad esempio, Aquileia, anche perché verosimilmente gli edifici ivi esistenti erano in materiale deperibile. Per questo la definizione del territorio coloniale doveva essere un passo importante verso l’acquisizione del titolo di città, accanto all’edificazione delle mura – che avvenne appunto in quest’epoca – e di luoghi di culto, santuari, uno dei quali si trovava sul colle, l’altro sulla via Postumia in sinistra d’Adige e fu poi inglobato nella città nuovamente edificata post 49. L’edificazione delle mura, dei santuari e la registrazione catastale delle proprietà devono quindi, a mio avviso, essere lette unitariamente come parti della realizzazione di un medesimo progetto, lo stesso progetto per cui Strabone, a proposito dell’abitato indigeno di Como (prima della fondazione cesariana di Novum Comum), scrive che Pompeo Strabone «riunì i Comensi dispersi da una precedente invasione dei Reti sotto un unico centro» (Strab., 5, 1, 6). La colonizzazione cd. “fittizia” di Pompeo Strabone fu dunque definizione del centro cittadino attraverso le mura, inizio di monumentalizzazione della città, descrizione del territorium civitatis con individuazione dei coloni e dei loro terreni, definizione delle classi di censo e delle magistrature a cui collegare il beneficio della civitas romana e, stando a un passo di Plinio il vecchio (Nat. hist. III, 20, 138), anche definizione di aree territoriali popolate da indigeni ma ancora lontanissime da un’idea di urbanizzazione.  Cfr. Christol 2012, pp. 65-67; Arnaud 2003, spec. p. 25.   Liu 2007; Ghiotto 2005, p. 177; Panciera 2003; Harris 1977. 51   CIL, I2, 3403a2; RIG II/1, pp. 25-37; Giorcelli Bersani 2002, pp. 297-300 e 2009. Cfr., con altra letteratura, Maganzani 2011 e 2012. Per l’ipotesi di una datazione più antica, protostorica, Gambari 2011; De Bernardo Stempel 2011; Borlenghi 2011a e 2011b, p. 281. Da ultimo Knobloch 2010-2012. 49 50

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Nel 49, poi, quando Cesare donò la civitas romana, questa volta sì a tutti i Galli cisalpini, allora iniziarono i grandi lavori di ristrutturazione della città di Verona e del territorio circostante secondo gli ideali romani, anche perché, con questo provvedimento, la classe dirigente resa romana per aver assunto una magistratura cittadina aumentò progressivamente, cosicché la Transpadana avrebbe presto contato personaggi e famiglie di altissimo livello, anche culturale (si pensi a Catullo) che si sentivano pienamente romani. Da qui la realizzazione a Verona della nuova città monumentale e dello stesso Capitolium e, nel contempo, la redazione di un nuovo catasto rurale deputato a rappresentare plasticamente questa nuova fase. 5. Filippo Coarelli, come già ricordato, a proposito della Tabula Heracleensis, ha notato come storici e giuristi siano soliti formulare ipotesi sul contenuto e la datazione di testi epigrafici senza tenere in adeguato conto il contesto di ritrovamento52. Nel presente contributo ho cercato di ovviare a questa mancanza, da una parte distinguendo fra il momento della redazione dei due documenti catastali e quello della loro prolungata affissione nel triportico capitolino, dall’altra tentando di trarre da quest’ultima circostanza indizi sulla datazione e finalità originaria dei due documenti. Si è così visto che, ben al di là della loro finalità originaria, i due catasti, da vetera monumenta con funzioni probatorie quali dovevano essere all’epoca della loro redazione e poco dopo53, devono aver assunto col tempo una funzione celebrativa divenendo parte degli ornamenta publica54 di Verona, cioè di quell’insieme di beni destinato a rappresentare la memoria della città, appartenente all’universitas dei cives: intendendo per universitas un gruppo di individui che – pur mutevole nel numero e nelle singole individualità (per le nascite, le morti, i trasferimenti etc.: cfr. D. 5.1.76 Alf. VI dig.) – aveva una sua unità spirituale negli intenti, nella storia, nella comunanza di vita, nella comune partecipazione alla vita cittadina, negli organi rappresentativi (magistrati e senato)55. Questo ornatum era composto da statue onorarie (di notabili locali o imperatori), archi, fasti imperiali, scudi o altri trofei di guerra, ma anche da lapidi o bronzi iscritti, i quali venivano posti in loci celebres, celeberrimi o quam oculatissimi al fine specifico di ottenere massima visibilità da parte del pubblico: lo attestano testi letterari ed epigrafici, come Plin., Nat. hist. XXXIV, 24, 26 e CIL, XI,1421, il primo dei quali parla della statua di Gneo Ottavio, eretta per ordine del senato «quam oculatissimo loco», cioè sui rostri; il secondo di statue a Pitagora e Alcibiade erette durante la guerra sannitica per ordine del senato «celebri loco»; il terzo di un arco adorno delle spoglie delle popolazioni sconfitte da Gaio Cesare, fatto erigere a Pisa nel 4 d.C. «celeberrimo coloniae nostrae loco»56. Peraltro le comunità cittadine, pur mantenendo sempre la loro valenza privatistica («civitates privatorum loco habentur» scrive Gaio in D. 50.16.16 III ad ed. prov.; cfr. D. 50.16.15 Ulp. X ad ed.), divennero via via, anche per il contributo della riflessione dei giuristi sul punto, suscettibili di essere titolari di diritti e obblighi, possibili beneficiarie di atti di liberalità, come legati, nonché soggetti capaci di acquisire un proprio patrimonio e propri bona57: bona che non erano né publica né privata ma, appunto, universitatis (I. 1.2.6; D. 1.8.6.1 Marcian. III inst.; D. 3.4.2 Ulp., VIII ad ed.; D. 3.4.7.1, 2 Ulp., X ad ed.)58. Fra questi c’erano certamente anche i publica ornamenta di cui si è parlato e dunque, nel caso veronese, le stesse forme catastali del triportico capitolino. I giuristi attestano del resto la dif  Coarelli 1994.   Così le formae agrorum sono definite nelle fonti giuridiche: es. D. 10.1.11 Pap. II resp.; D. 22.3.10 Marcel. III dig.; D. 22.5.3.2 Callistr. IV de cogn. 54   Sul concetto di ornamentum, cfr. Gros 2006; Moussy 1996. 55   Sul tema, ampiamente, Thomas 1998, a cui rinvio. Cfr. Eck 1996; Zaccaria 1995. Sulla nozione di universitas e le comunità cittadine come universitates, cfr. (con altra letteratura citata) Corbo 2012, p. 62 e nt. 67; Peppe 2009, spec. pp. 75 ss.; Siracusa 2000, p. 120 nt. 7. 56   De Maria 2010, p. 112; Corbier 2013, p. 25. 57   Cfr. da ultimi Corbo 2012, pp. 60-64, 77-93; Peppe 2009, spec. p. 77; Cascione 2007con altra letteratura, in particolare Orestano 1968. 58   Dubouloz 2003. 52 53

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fusione di una categoria di legati alle civitates fatti ad honorem ornatumque, intendendo con il primo i legati di alimenti o quelli destinati alla produzione di ludi circensi, scenici, venationes etc., e con il secondo quelli aventi ad oggetto ciò che «ad instruendum forum theatrum stadium legatum fuerit» (D. 30.122 pr. Paul. III reg.; D. 30.32.2 Ulp. XX ad Sab.). Questi beni godevano di una speciale tutela processuale: infatti, non appartenendo di per sé alla civitas in quanto tale (perché priva di “capacità giuridica” nel senso attuale del termine)59 ma all’universitas dei cives, era attribuito a ciascun cittadino il diritto di agire con l’actio furti (D. 43.24.11.1 Ulp. LXXI ad ed.) o di rivendicare i beni nel caso fossero stati sottratti da terzi. Interessante sul punto un’osservazione di Ulpiano – che richiama Trebazio e Pegaso – per cui, anche se le statue poste in civitate non sono dei cives – il che significa che essi, come comunità, non possono esercitare la reivindicatio – tuttavia i singoli cittadini saranno tutelati dal pretore come se ne fossero proprietari se le hanno poste in publico con l’intenzione (‘ea mente’) che non vengano asportate da nessuno, neanche da colui che le ha collocate (D. 41.1.41 IX ad ed.): «Statuas in civitate positas civium non esse, idque Trebatius et Pegasus: dare tamen operam praetorem oportere, ut, quod ea mente in publico positum est, ne liceret privato auferre nec ei qui posuerit. Tuendi ergo cives erunt et adversus petentem exceptione et actione adversus possidentem iuvandi»60. E di tale universitas, che sono i bona civitatis, e in particolare dell’ornatum della civitas, i Romani diventano ancora più consapevoli al momento della crisi della città, quando ormai quell’evergetismo che aveva caratterizzato l’età alto imperiale è rimasto solo un ricordo. Ed è qui che degli ornamenta publica, quasi visti come la manifestazione esterna della passata dignitas cittadina e del passato fulgore dell’impero, gli imperatori tendono a diventare i tutori e i protettori. Questo spiega quella apparente contraddizione fra alcune costituzioni tardo imperiali dettate contro il paganesimo e i suoi monumenti ed altre tese a impedire la distruzione dei templi pagani e, in generale, delle memorie cittadine (cfr. C. Th. 15.1.1, 3, 21, di Costantino; 25 di Valentiniano, Teodosio, Arcadio): è l’ideale stesso di città ad essere protetto e tutelato61. Bibliografia Angeli Bertinelli 1988 = M.G. Angeli Bertinelli, Frammenti di fasti imperiali inediti da Luna, in «MEFRA» 100, 1988, pp. 103-116. Angeli Bertinelli 2012 = M.G. Angeli Bertinelli, Lunensia antiqua, Roma 2012. Arnaud 2003 = P. Arnaud, De Turris à Arausio: les tabularia perticarum, des archives entre colonie et pouvoir central, in P. Defosse (dir.), Hommages à Carl Deroux. III – Histoire et épigraphie, Droit, Bruxelles 2003, pp. 11-26. Bandelli 2007 = G. Bandelli, Considerazioni storiche sull’urbanizzazione cisalpina di età repubblicana (28389 a.C.), in L. Brecciaroli Taborelli (a c.), Forme e tempi dell’urbanizzazione nella Cisalpina (II secolo a.C. - I secolo d.C.), Atti delle giornate di studio, (Torino, 4-6 maggio 2006), Firenze 2007, pp. 13-28. Barbati 2012a = S. Barbati, Gli studi sulla cittadinanza romana prima e dopo le ricerche di Giorgio Luraschi, in «Rivista di Diritto romano» XII, 2012, pp. 1-46. Barbati 2012b = S. Barbati, Asc. in Pis. 3 Clark: sulle cosiddette ‘colonie latine fittizie’ transpadane, in «Iustel. Revista General de Derecho Romano» 18, 2012, pp. 1-44.

 La civitas non poteva essere considerata come un ente a sé stante capace di scelte perché – scrive il giurista severiano Paolo – «universi consentire non possunt»: D. 41.2.1.22 LIV ad ed. Tuttavia, nell’esperienza giuridica romana, le civitates divengono in qualche modo “centro di imputazione di relazioni giuridiche” anche se «i Romani non hanno elaborato una teorizzazione generale circa questi centri di imputazione, cosicché qualsiasi discorso in materia non può che procedere situazione per situazione, citazione per citazione, contesto per contesto»: Peppe 2009, p. 71. Significativa, fra le altre, questa affermazione di Ulpiano: D. 3.4.7.1 Ulp. X ad ed.: Si quid universitati debetur, singulis non debetur; nec quod debet universitas singuli debent. Per altri esempi tratti dalle fonti, da ultima, Corbo 2012, pp. 60-64, 77-93. 60   Sul passo e in generale sulla condizione giuridica delle «statuae in publico positae» secondo le fonti giustinianee, cfr. Musumeci 1978, spec. p. 197. 61   Thomas 1998; Roda 1995. 59

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Lauretta Maganzani

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SUR UN JEU DE MOTS BILINGUE D’UN CITADIN FACÉTIEUX : ARCS HONORIFIQUES ET PROPAGANDE POLITIQUE À LA FIN DE L’ÉPOQUE FLAVIENNE

Cyril Courrier

1.  Introduction : Suétone et le mauvais prince À la fin d’un chapitre tout entier consacré à la mégalomanie de Domitien, Suétone évoque un trait particulier de la politique édilitaire qui fut celle du dernier des Flaviens. Bien que fréquemment cité, le passage mérite d’être rapporté : Il fit construire, à travers les différentes régions de la Ville, des portes et des arcs en si grand nombre et de si grande taille, surmontés de quadriges et d’insignes triomphaux, que sur l’un d’entre eux on inscrivit en grec : « Ça suffit »1.

Fidèle à sa “méthode” consistant à rassembler des informations rares et inhabituelles, à consulter des documents de première main, y compris épigraphiques et matériels, à citer, souvent littéralement, des passages de discours, de documents officiels (édits, textes de lois), de testaments, de lettres, de mémoires, d’ouvrages littéraires, mais aussi des vers et des graffitis2, Suétone rapporte ici, dans la   Je remercie J.-P. Guilhembet pour sa bienveillante relecture et ses conseils éclairés, ainsi qu’E. Botte pour son aide décisive dans la réalisation des cartes. Le titre est un double clin d’œil à Guilhembet 1992 et Gros 1996, p. 70. Cette recherche a été financée par le programme « Opinión pública y comunicación política en la República Romana (siglos II-I a de C.)  » (2013-43496-P), Ministerio de Economía y Competitividad, Espagne. NB  : sauf indication contraire, nous avons eu recours, pour les textes littéraires latins et grecs, aux éditions parues dans les trois grandes collections  : Bibliotheca Teubneriana, Collection des Universités de France, The Loeb Classical Library. Les traductions de textes sont, sauf indication contraire, celles de la CUF. Suet., Dom. XIII (trad. personnelle) : Ianos arcusque cum quadrigis et insignibus triumphorum per regiones urbis tantos ac tot extruxit, ut cuidam Graece inscriptum sit : « arci ». Le doublon arcus/ianus n’aurait ici qu’une valeur pléonastique (Wallace-Hadrill 2001 (= 1990), p. 53, n. 6). Toutefois, comme nous le verrons plus avant, les arcs relatifs à Domitien conservent le souvenir de tétrapyles et d’arcs à une ou trois baies, selon une typologie qui pourrait rendre compte de la “duplication” de Suétone. 2   Sur la méthode de Suétone devant ses sources et, notamment, son rapport original (car fidèle) à la citation, qu’il suffise de renvoyer à l’ouvrage classique de Gascou 1984, pp. 457-567. En effet, dans l’Antiquité, la norme était plutôt à la recomposition (Gascou 1984, pp. 545-548). 1

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Cyril Courrier

partie totalement négative du règne de Domitien3, une inscription pariétale devenue extrêmement célèbre4, en raison du jeu de mots qu’elle met en œuvre : jouant sur la correspondance homophonique entre le grec et le latin, quelqu’un avait, pour railler la multiplication des arcs construits par ce dernier, inscrit sur l’un d’eux le mot arci en lettres grecques, assimilant une forme plutôt rare du nominatif pluriel de arcus (attesté chez Varron)5 à la transcription du verbe grec arkei (à la troisième personne du singulier), « ça suffit », qui se prononçaient tous deux « arki »6. L’authenticité du graffiti n’est pas démontrable, mais J. Gascou considère qu’il a pu être lu directement par le biographe dans sa jeunesse7. De manière générale, le même J. Gascou a montré de longue date que Suétone citait fidèlement et sans erreur les textes qu’il rapportait et qu’il ne sacrifiait jamais l’exactitude à la recherche d’un effet artistique8. Ses citations avaient une valeur documentaire, « fonctionnelle [et] démonstrative »9. En revanche, en raison de la rédaction par species des Vies des douze Césars, l’anecdote n’est pas datable et s’insère, de manière topique, dans la caractérisation du comportement tyrannique et mégalomane généralement attribué aux “mauvais empereurs”, “dévoreurs” d’espace public pour leur seule gloire10. À ce titre, la réaction, interprétée de manière large comme une forme d’expression de l’opinion publique face à un « matraquage idéologique »11, peut être rapprochée de vers, également rapportés par Suétone, où se lit en des termes comparables (quoique d’une nature légèrement différente) une protestation contre l’annexion, considérée comme inique, de la Ville par la Domus Aurea au profit du seul Néron12. De ce point de vue, les fondements du graffiti d’époque domitienne n’ont jamais fait l’objet de réflexions approfondies. Alors que, paradoxalement, l’anecdote est, depuis le travail pionnier de H. Kähler13, convoquée dans presque toute étude portant sur les arcs et leur multiplication à Rome (et donc tout particulièrement à l’époque domitienne) et dans le monde romain, rares sont les historiens modernes à avoir tenté de reconstituer l’éventuelle logique qui aurait présidé à la multiplication des arches sous le dernier des Flaviens14. Il convient inversement de concéder que, pour ce faire, les sources littéraires à notre disposition sont pour le moins peu nombreuses, erratiques et difficiles d’interprétation. On constate certes que la réputation de Domitien comme constructeur d’arcs à sa gloire est relayée, de manière générale, à propos des mauvais princes, par Pline le Jeune dans le Panégyrique de Trajan :   Il n’y a pas de partie réellement “positive” dans la biographie de Domitien car, selon Suétone, il y « mêla à proportions égales vices et vertus » (Suet., Dom. III). 4   Peut-être l’était-elle déjà dans l’Antiquité, même si elle n’apparaît que chez Suétone. 5   Varro, frg. Non. I p. 108 (77 M. 10). Cfr. Nonii Marcelli De conpendiosa doctrina, éd. W. M. Lindsay, Leipzig, 1903, I, p. 108. 6   Gascou 1984, pp. 518 et 565 ; Corbier 2006 (= 1987), p. 71. 7   Gascou 1984, p. 565 (voir aussi pp. 515-541, à propos de son rapport aux inscriptions). Dans l’œuvre de Suétone, les graffitis avaient pour fonction essentielle de montrer les progrès de l’opposition aux Césars (Gascou 1984, p. 565). 8   Gascou 1984, p. 566. 9   Il ne semble pas illégitime d’étendre cette assertion de Gascou 1984, p. 548, relative aux citations de discours par Suétone, à l’ensemble des citations opérées par le biographe (voir p. 552). 10   Rosso 2008 ; Courrier 2017. 11   Gascou 1984, p. 565 (« la majorité silencieuse de Rome ») ; Corbier 2006 (= 1987), pp. 71-73 (« l’expression de l’opinion publique »). La formule « matraquage idéologique » est celle de Sablayrolles 1994, p. 131. Il voit dans ce jeu de mots la trace d’une guerre entre l’empereur et l’aristocratie sénatoriale. Voir infra. Wallace-Hadrill 2001, p. 52, s’en tient à une lecture plus littérale, moins politique : « ce langage de mots et de gestes paraît fastidieux et prévisible à notre goût ; de toute évidence, nombre de Romains de cette époque s’en lassèrent vite également ». En ce sens, voir aussi Gros 1996, p. 70 et Darwall-Smith 1996, pp. 238-239. De Maria 1988, pp. 118-119 et 289, la cite sans la commenter, comme la plupart des études sur les arcs. 12  Suet., Nero XXXIX. Sur ce libelle, voir Courrier 2017, p. 422. 13   Kähler 1939, col. 388, n° 24. 14   Sur ces études, voir infra. 3

Sur un jeu de mots bilingue d’un citadin facétieux

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On nous consultait sur l’augmentation du nombre des gladiateurs ou sur l’institution d’un collège de fabri, et comme si les frontières de l’empire avaient été reculées, c’étaient tantôt des arcs colossaux et des inscriptions auxquelles ne suffirait pas le frontispice des temples, tantôt encore des mois et plusieurs à la fois que nous dédiions aux Césars15.

Dans un passage relatif à la mort de Domitien et à la condamnation de sa mémoire, Cassius Dion confirme résolument la politique attribuée par Suétone au fils de Vespasien : Après la mort de Domitien, les Romains proclamèrent empereur Coccéius Nerva. À cause de la haine éprouvée envers le tyran, ses nombreuses statues d’argent et même d’or furent fondues, et l’on en retira des sommes importantes ; on renversa aussi les arcs, élevés en trop grand nombre pour un seul homme16.

Toutefois, avouons que ces notices ne permettent (a priori) guère de s’interroger sur l’éventuelle cohérence d’une politique édilitaire lue par ces auteurs à l’aune du stéréotype du mauvais prince. Pourtant, dans le cadre d’une rencontre visant à une compréhension plus fine des espaces publics urbains d’époque romaine, de leurs usages réels et multiples, mais aussi de leur devenir au moment où les pratiques auxquelles ils étaient associés avaient perdu leur efficacité initiale17, il vaut peut-être la peine d’essayer de rendre compte de cette politique d’aménagement urbain prêtée à Domitien. Une telle analyse éclairera peut-être d’un jour, sinon nouveau, du moins intéressant, la question de l’évolution et de la spécialisation de certains espaces de la Ville (les entrées dans le cas présent) à l’époque flavienne et, au-delà, les fondements de la réaction scripturaire. À ma connaissance, trois historiens modernes se sont réellement interrogés sur le sens de la multiplication des arcs à la fin de l’époque flavienne. En 1985, à l’occasion du colloque L’Urbs. Espace urbain et histoire tenu à l’École française de Rome, E. Rodríguez Almeida avait (oralement) émis l’hypothèse que les arcus de Domitien aient en fait pu être des portes pomériales18. Par la suite, il n’a, sauf erreur, jamais creusé (à tout le moins de manière systématique) la piste ainsi ouverte, dont on repère toutefois les premiers linéaments dans une étude légèrement antérieure, à propos de « l’Arco di Portogallo » analysé comme une « porte pomériale » construite par Domitien. Il avait alors avancé l’hypothèse que cela pût être le cas d’autres arcs19. En 2001, Y. Perrin a envisagé une autre possibilité : les multiples arcs prêtés à l’empereur ne seraient que « la monumentalisation des portes de la ligne d’octroi créée par Vespasien »20. Sans que les  Plin., Paneg. LIV, 4 : De ampliando numero gladiatorum aut de instituendo collegio fabrorum consulebamur et quasi prolatis imperii finibus nunc ingentes arcus excessurosque templorum fastigium titulos, nunc menses etiam nec hos singulos nomini Caesarum dicabamus. Sur ce texte, voir Guilhembet 2006, p. 102. Sur le lien entre expansion de l’Empire et amplification du pomerium, voir ci-dessous. 16   D.C., LXVIII, 1 (trad.  É. Gros, revue, Paris 1867)  : Μετὰ δὲ Δομιτιανὸν Νέρουαν Κοκκήιον οἱ Ῥωμαῖοι ἀπέδειξαν αὐτοκράτορα. Μίσει δὲ τοῦ Δομιτιανοῦ αἱ εἰκόνες αὺτοῦ, πολλαὶ μὲν ἀργυραῖ πολλαὶ δὲ καὶ χρυσαῖ οὖσαι, συνεχωνεύθησαν, καὶ ἐξ αὺτῶν μεγάλα χρήματα συνελέγη· καὶ αἱ ἁψῖδες πλεῖσται δὴ ἑνὶ ἀνδρὶ ποιούμεναι καθῃρέθησαν. Le passage a été rapidement commenté par De Maria  1988, pp.  118-119 et 289 et Kleiner  1990, p.  127. La destruction posthume des arcs de Domitien est également évoquée par Darwall-Smith  1996, pp.  238-239 (sans citation du texte de Dion). Sur la condamnation de mémoire de Domitien, voir en dernier lieu Coarelli 2009, p. 75. 17  Voir supra l’introduction au volume de C. Franceschelli. 18   Corbier 2006 (= 1987), p. 71, n. 150. 19   RodrÍguez Almeida 1978-1980, pp. 202-205, à partir de l’exemple de l’arcus Claudii (voir infra). Liverani 2005, p. 57, n. 29 et 2007, p. 388, rappelle que l’hypothèse d’une porte pomériale à propos de l’« Arco di Portogallo » est courante depuis G.  Lugli. Dans une étude récente, Rodríguez Almeida 2014, p.  118, a repris sa supposition, sans la détailler davantage, si ce n’est pour affirmer que l’arc situé près d’un temple de la Fortuna Redux par Martial (voir infra) devait obéir au même schéma et que « i tanti archi domizianei di cui parla Svetonio si spiegano proprio nel contesto del pomerio, essendo stato suo padre il primo imperatore dopo Claudio a realizzare un ampliamento della linea dopo il trionfo giudaico ». 20   Perrin 2001, pp. 178 et 185. Sur la ligne de perception de l’octroi, les études classiques ont été rassemblées par Guilhembet 2006, p. 110, n. 90. 15

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contours historiographiques en soient explicitement formulés, le socle de l’hypothèse repose vraisemblablement sur les propositions élaborées à la fin du XIXe s. par R. Lanciani21. Celui-ci avait en effet postulé une certaine coïncidence entre, d’une part, cette ligne d’octroi, connue par cinq inscriptions parallèles (dont trois semblent avoir été retrouvées in situ) 22, datées entre l’été 177 et mars 180, sous le principat de Marc Aurèle et Commode23, et, d’autre part, une “limite” évoquée dans une fameuse notice consacrée à Rome par Pline l’Ancien au livre III de l’Histoire Naturelle, lequel matérialise une définition de la Ville repérable à 37 « portes » (portae) qui constituaient autant de points d’entrée dans la mégapole à son époque (hodie) : Le pourtour des murs, sous la censure des empereurs Vespasiens, l’année 826 de la fondation, a atteint le chiffre de 13200 pas, embrassant sept collines. La Ville elle-même est divisée en 14 régions, avec 265 carrefours des Lares. Si l’on fait courir la mesure à partir du milliaire érigé à l’extrémité du Forum romain jusqu’à chacune des portes, qui sont actuellement au nombre de 37, – nous ne comptons qu’une fois (chacune) des 12 portes (doubles) et nous excluons 7 des anciennes portes qui ont cessé d’exister – les dimensions de la Ville font en ligne droite un total de 20765 pas. Mais jusqu’aux derniers immeubles, y compris le camp des prétoriens, en partant du même milliaire et en traversant les uici, la mesure de l’ensemble des rues atteint un peu plus de 60 (?) milles. […] Elle est fermée à l’est par la Chaussée de Tarquin le Superbe, un ouvrage des plus admirables, car celui-ci l’éleva à la hauteur des murailles, là où la Ville était la plus exposée, ses abords étant en plaine24.

D’après R. Lanciani, la mise en place des pierres (lapides) que Marc Aurèle et Commode avaient ordonnée « en raison des controverses qui avaient surgi entre les marchands et les fermiers, afin qu’elles indiquent la ligne du vectigal foricul(i)arium et ansarium des marchandises à vendre conformément à l’ancien règlement »25 n’aurait fait que préciser ou pallier l’ambiguïté d’anciens repères, le temps des Flaviens étant justement celui de « l’ancien règlement »26 et les 37 portes de Pline la matérialisation de celui-ci. Là encore, il ne me semble pas que Y. Perrin ait jamais poursuivi l’enquête en ce sens. L’hypothèse pose toutefois de délicats problèmes interprétatifs, à commencer par l’aspect matériel des “barrières” d’octroi. Il a été fort justement remarqué que tant l’étymologie (foricul(i)arium pourrait  Voir Lanciani 1892, pp. 95-98.  Voir infra la carte extraite de Coarelli 2009. 23   Le texte de CIL, VI, 1016, a-c et 31227 est identique (sauf une erreur du lapicide l. 12 sur 1016a : te pour et et l’apparition du mot maxime sur 1016c, l. 7) : Imp(erator) Caesar M(arcus) Aurelius | Antoninus Aug(ustus) | Germanicus, Sarmat(icus) et | Imp(erator) Caesar L(ucius) Aurelius |5 Commodus Aug(ustus) | Germanicus, Sarmat(icus) | hos lapides constitui iusserunt | propter controuersias quae | inter mercatores et mancipes |10 ortae erant, uti finem | demonstrarent uectigali | foriculiari et ansarii | promercalium secundum | ueterem legem semel dum |15 taxat exigundo. La titulature de Commode a été effacée sur 1016b et 31227. Sur 1016c, elle a été remplacée par celle d’Alexandre Sévère, ce qui garantit l’efficience du règlement au moins jusqu’au début de ce règne. Deux fragments supplémentaires (1016d), dont le lieu de découverte n’est pas connu, sont signalés au CIL, VI, 8, 2, p. 4316. Un dernier document, retrouvé sur les bords du Tibre, au pied de l’Aventin, concerne l’ansarium : CIL, VI, 8594 : Quidquid usuarium inuehitur ansarium non debet (« tout ce qui entre et qui est d’usage personnel, ne doit pas (payer) l’ansarium » ; trad. Le Gall 2001 (= 1979), pp. 368-373). Voir aussi Gell., IV, 1, 23. 24  Plin., Nat. hist. III, 66-67  : Moenia eius collegere ambitu imperatoribus censoribusque Vespasianis anno conditae DCCCXXVI m. p. XIII CC, conplexa montes septem. Ipsa diuiditur in regiones XIIII, compita Larum CCLXV. Eiusdem spatium mensura currente a miliario in capite Romani fori statuto ad singulas portas, quae sunt hodie numero XXXVII, ita ut XII portae semel numerentur praeteranturque ex ueteribus VII quae esse disierunt, efficit passuum per directum XX M DCCLXV. Ad extrema uero tectorum cum castris praetoriis ab eodem miliario per uicos omnium uiarum mensura colligit paulo amplius LX (M) p. […] Clauditur ab oriente aggere Tarquini Superbi, inter prima opere mirabili; namque eum muris aequauit qua maxime patebat aditu plano. La traduction est celle de Guilhembet  2006, p.  99, à partir de l’édition d’H. Zehnacker dans la CUF. Sur ce passage, voir Zehnacker 1987 et surtout Guilhembet 2006, pp. 99-105 (avec références bibliographiques antérieures p. 99, n. 62). 25  Trad. Le Gall 2001 (= 1979), p. 367. 26   Lanciani 1892, pp. 94-97. 21 22

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procéder d’un diminutif qui désignerait des portes sommaires : des foriculae) que le sens même de la mesure de Marc Aurèle et Commode (il s’agissait bien de pallier la disparition de certains repères) ramènent à des installations relativement modestes27 (sauf à imaginer une condamnation de mémoire particulièrement efficace, ce qui demeure certes envisageable)28. Enfin, plus récemment (2006), J.-P. Guilhembet est revenu, dans ce qui constitue la première démonstration argumentée sur le sujet, sur l’hypothèse d’E. Rodríguez Almeida29. Rapprochant la notice de Suétone de celle de Pline le Jeune précédemment citée d’une part30, notant le lien explicitement établi par ce dernier entre expansion de l’empire et construction d’arcs d’autre part, il a supposé que le programme de Domitien pourrait effectivement avoir fonctionné comme l’achèvement ou la mise en valeur tardive des entrées de la Ville dans le contexte de l’amplification pomériale réalisée par Vespasien et Titus en 75, à l’issue de leur censure conjointe de 73-74. Comme on le sait en effet, selon une tradition peu évidente à dater mais possiblement née à Rome en même temps que le concept d’Italie puis réinterprétée et élargie à partir du principat de Claude (peut-être par le prince lui-même), la dilatation du pomerium n’était plus liée à la croissance urbaine mais à une amplification de l’emprise sur l’Italie, puis, de manière générale, à une extension (quelle que fût la forme prise par celle-ci) de l’empire du peuple romain31. De fait, comme le note le même J.-P. Guilhembet, l’achèvement d’un tel programme s’accorderait particulièrement bien, non seulement avec la dispersion des constructions dans l’espace urbain (telle qu’elle est décrite par Suétone : per regiones Vrbis), les décors et les formulations en relation avec l’extension de l’imperium, mais aussi avec la multiplication des points d’entrée officiellement enregistrés par Vespasien et Titus en 73-74, évoquée par Pline l’Ancien (les 37 « portes »), peut-être, au moins pour une partie d’entre eux, lieux de franchissement de la ligne pomériale32. De ce point de vue, l’objectif du présent article est à la fois extrêmement modeste (voire descriptif ) et, pourtant, considérablement difficile à mettre en œuvre : est-il possible sinon de prouver, du moins d’étayer ou, inversement, d’infirmer l’une ou l’autre de ces hypothèses ? Il m’a semblé qu’une première étape devait consister à dresser, de manière aussi précise que possible, un état des connaissances disponibles sur les arcs d’époque domitienne. Il ne s’agira pas toutefois de trancher des lectures souvent irréconciliables, ni même (ou encore moins) d’en proposer un improbable et inaccessible tableau exhaustif. Plus modestement, l’objectif sera de réfléchir aux différentes hypothèses de localisation avancées jusque tout récemment et à l’éventuel sens qu’elles pourraient revêtir dans le cadre de l’amplification pomériale ou de la monumentalisation d’une barrière d’octroi. À ma connaissance, le dossier n’a jamais été abordé dans cette perspective topographique, à la frontière de l’histoire politique et de l’histoire urbaine. 2.  Les arcs de Domitien : synthétique bilan archéologique Si Vespasien et Titus passent pour avoir posé les bases politiques, institutionnelles ou économiques du nouveau régime, donnant ainsi une inflexion encore plus autocratique au Principat, l’“architecte” effectif de la noua Vrbs, au fondement de cette nouvelle hypostase du pouvoir, fut assurément Domitien33. Il est à cet égard remarquable que, tant le chronographe anonyme de 354 qu’Eusèbe de Césarée   Le Gall 2001 (= 1979), pp. 369-370 et 372-373 ; Guilhembet 2006, p. 111.  Voir infra. 29   Guilhembet 2006, pp. 102-103. 30  Suet., Dom. XIII ; Plin., Paneg. LIV, 4. 31   Guilhembet 2006, p. 89, dont je résume ici les conclusions. Sur le pomerium et son évolution, voir en dernier lieu CarlÀ 2015, part. pp. 607-614 (sur les conditions ambiguës de son amplification à l’époque impériale) et 614-628 (discussion sur le lien “originel” entre extension du pomerium et concept d’Italie). 32   Guilhembet 2006, p. 102. 33   Aussi, parce que, comme le rappelle Coarelli 2009, p. 75, « un evento disastroso si colloca all’origine di un esteso intervento di ricostruzione, il gravissimo incendio [del] 80 ». Sur la Rome de Domitien et l’ampleur de ses constructions, voir plus largement Sablayrolles 1994 ; Darwall-Smith 1996, pp. 101-252 et, de manière générale, les contributions relatives à Rome dans le volume Divus Vespasianus. 27 28

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dans sa Chronique traduite en latin par Jérôme, qui étendit d’ailleurs la chronologie jusqu’à l’avènement de Théodose, fassent tout simplement du dernier Flavien le plus grand bâtisseur de l’histoire de Rome34. Pour reprendre une analyse récente de F. Coarelli, la conscience de cet état de fait n’émerge pas plus clairement dans les études modernes en raison du vide documentaire qui caractérise la période tardo-flavienne. Celui-ci s’explique d’abord par des motifs accidentels (à l’image de la perte partielle des Historiae de Tacite), ensuite et surtout par la condamnation de mémoire qui frappa l’empereur à sa mort et qui a déterminé non seulement l’image négative de son principat, mais aussi « il naufragio quasi totale delle testimonianze relative alla sua opera »35. Il n’en est alors que plus révélateur de constater qu’une petite dizaine d’arcs “localisables” est aujourd’hui attribuée au seul Domitien36. Dans le détail, on connaît (par ordre d’informations disponibles et regroupement topographique supposé) : a) L’arc de Titus situé à l’extrémité orientale du Forum, dans l’ensellement qui unissait Vélia et Palatin (regio X)37. Dédié au second Flavien qualifié de diuus sur la dédicace, l’arc, à une baie, fut érigé par Domitien, sans doute peu de temps après son avènement38. Sous l’attique qui accueille la dédicace39, l’entablement porte du côté oriental une frise sculptée représentant une partie de la pompa triumphalis, tandis que les deux clefs d’arc sur l’archivolte sont décorées à l’est par une image de Virtus, à l’ouest par une effigie d’Honos (ou Roma et le Genius Populi Romani)40. Des Victoires ailées les accompagnent dans les écoinçons. Le décor sculpté, qui contraste avec de vastes parois lisses, se concentre à l’intérieur de l’arc, entre les piliers dotés, pour la première fois sur un arc honorifique, de deux colonnes engagées, d’ordre composite. Deux panneaux en bas-relief en couvrent la profondeur interne : au sud, le cortège, qui transporte les objets sacrés pris dans le temple de Jérusalem, passe sous une porte ou un arc (la porta Triumphalis ?)41 ; au nord, Titus est représenté en triomphateur sur son char, couronné par une Victoire,   Mommsen 1892, p. 146. Anderson 1983 a tenté d’éprouver le bien-fondé de l’assertion en vérifiant l’identité des constructions attribuées dans ces deux textes à Domitien. Il en conclut à une « overwhelming majority [of ] legitimate and acceptable [Domitianic attributions] ». Voir aussi Sablayrolles 1994, p. 113. 35   Coarelli 2009, p. 75. 36   Pour un recensement général, voir De Maria 1988, pp. 284-295 et Darwall-Smith 1996, pp. 238-239. À corriger, pour le Champ de Mars central, par Ten 2015. Pour des raisons d’économie, je ne mentionnerai pas, sauf exception, la littérature scientifique antérieure à De Maria 1988 et au LTUR et ne retiendrai, dans la description donnée infra, que les informations susceptibles d’être reprises dans la discussion qui suit (point 3 de l’article). Les “notices” qui suivent n’ont donc aucunement vocation à être exhaustives. Par ailleurs, la prudence a recommandé de ne pas retenir dans cette étude l’arc triomphal imaginé par Th. Mommsen à partir d’une inscription fragmentaire aujourd’hui perdue (elle l’était déjà au temps du CIL : CIL, VI, 1207 = 31263), mais connue et signalée par la tradition humaniste depuis Pétrarque comme en remploi dans un mur prope ou post S. Iohannem Lateranum. Selon le savant allemand, il s’agissait de la dédicace de l’un des arcs prêtés à Domitien par Suétone et Cassius Dion, érigé, dans le cas présent, à l’issue de sa campagne contre les Chattes et les Daces achevée par le triomphe de 89. Néanmoins, Coarelli 2009, pp. 80-82 a tout récemment affirmé, semblet-il à fort juste titre, que la forme de cette inscription rédigée au présent (excluant par conséquent un carmen funéraire), en distiques élégiaques et à la première personne se prêtait mal à un tel emplacement. Il conviendrait plutôt, selon lui, de l’imaginer sur une statue qui pourrait être l’equus Domitiani. Pour la même raison, je n’ai pas repris l’hypothèse de Torelli 1987, pp. 564-567, fermement critiquée par Darwall-Smith 1996, pp. 102-104 et 160-161 ; Coarelli 2009, pp. 93-94 et La Rocca 2009, pp. 228-229 (voir n. 64 pour les références bibliographiques antérieures), selon laquelle les reliefs « Hartwig » proviendraient d’un arc situé à l’entrée du templum Gentis Flauiae, qui seraient l’un et l’autre visibles sur un sesterce de 95-96 (BMC, p. 406, n. 12). Selon La Rocca 2009, p. 229, ils proviendraient plutôt d’un autel. Des doutes pèsent par ailleurs sur l’authenticité de la monnaie, ainsi que sur son rapport au templum Gentis Flauiae. 37   Si l’on admet que la uia Sacra marquait bien la frontière entre les regiones IV et X. Arce 1993, p. 110 ; Palombi 1999, p. 201 ; Zevi 2014, p. 58. 38   De Maria 1988, pp. 287-289 ; Arce 1993, pp. 109-111 ; Darwall-Smith 1996, pp. 166-172 et Gros 1996, pp. 70-72. 39   CIL, VI, 945. 40   Sur la représentation de Roma, voir Géroudet 2013. 41   Arce  1993, p.  111  ; Darwall-Smith  1996, pp.  170-171  ; Coarelli  2009, p.  88 et 2012, pp.  481-482  ; Hölscher 2009, p. 52. Pour Kleiner 1990, pp. 128-131, il s’agit d’un arc construit par Vespasien, après le triomphe de 71 mais avant l’arc de Titus au cirque Maxime. 34

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accompagnée d’Honos et Virtus (ou Roma et le Genius Populi Romani) ; au centre du passage voûté, l’apothéose du même Titus. Récemment, F. Coarelli a rapproché cet arc de l’un de ceux qui apparaissent sur le relief des Haterii, en plus de l’arcus ad Isis et de l’arcus in Sacra uia summa42. Une seule baie, encadrée de deux couples de colonnes engagées à chapiteaux composites, l’entablement et l’attique sont visibles sur le relief. L’apparat figuratif se compose d’une série de couronnes au-dessus de l’architrave et d’un quadrige conduit par l’empereur et figuré de profil sur l’attique. Derrière le prince, se tient une Victoire, en train de le couronner et devant le quadrige, un trophée. Au-delà de la parenté architectonique, on remarque, sous la voûte, un autel qui précède un escalier au sommet duquel S. De Maria, et F. Coarelli après lui, ont vu une représentation de la Magna Mater. Sur cette base, ils ont affirmé que l’arc se trouvait à proximité d’un temple de Cybèle qui pourrait effectivement être celui du Palatin43. En revanche, selon le même De Maria, l’arc serait un quadrifons (en raison de la figuration de profil du quadrige), ce qui ne permettrait pas de l’assimiler à l’arc de Titus. Pour F. Coarelli, il s’agit d’un fornix à une seule baie qui venait doubler celui de Domitien (voir b) qui était peut-être dédié à Vespasien, dans ce qui aurait constitué une « sacralisation » de l’entrée du Palatin. Pourtant, F. Zevi a récemment remis en cause cette apparente ressemblance et ajouté que, ayant été dédié par le Sénat et le peuple, l’arc de Titus ne pourrait être assimilé à une entrée monumentale du palais44. Il marquerait au contraire la reprise de la viabilité publique, interrompue par la Domus Aurea, en direction du Forum. Toutefois, les connotations triomphales et dynastiques de l’arc ne sont pas sans étayer la reconstruction coarellienne. b) Un arc qui enjambe le cliuus Palatinus dans sa partie sommitale (regio X) : en 1918, ont été repérées, à l’occasion de fouilles conduites par G. Boni, les fondations d’un arc à un seul fornix qui enjambait le cliuus. La chronologie, un temps donnée comme augustéenne (certains y ont vu l’arc dédié par Auguste à son père45 ou l’area palatina décrite par Ovide46), est aujourd’hui considérée, tant par l’étude stylistique des fragments que par la fouille des fondations et de leurs abords, comme tardo-flavienne47. À mi-pente du cliuus Palatinus, cet “arcus Domitiani” matérialisait l’accès au palais impérial. En raison de sa datation, de ses dimensions et de sa vraisemblable ornementation, F. Coarelli a supposé qu’il constituait le pendant, dédié à Vespasien, de l’arc de Titus, lequel présente en effet, quant au triomphe de 71, une simple sélection concentrée sur le second, alors que la cérémonie avait été célébrée collectivement48. c) L’arcus in Sacra uia summa (regio IV ?), connu par un relief des Haterii49. Il s’agit d’un arc à une seule baie, dont l’entablement et l’attique s’avançaient en ressaut au-dessus de la voûte et des colonnes à l’angle du monument, également enrichi de statues, de couronnes et d’une frise50. S’il est aujourd’hui fréquemment, quoique non universellement, admis qu’il ne s’agissait pas de l’arc de Titus (qui n’était vraisemblablement pas sur la uia Sacra51 et qui, surtout, n’a pas de fronton au-dessus de la corniche de   Coarelli 2009, pp. 87-88 et 429 ; 2012, pp. 480-481.   De Maria 1988, p. 294, n° 78. 44   Zevi 2014, p. 59. 45  Plin., Nat. hist. XXXVI, 36. 46  Ov., Trist. III, 1, 33-48. 47   De Maria, 1988, p. 292, n° 76 ; Cassatella 1993, p. 92 ; Kleiner 1993, p. 102 ; Darwall-Smith 1996, pp. 202-203 ; Royo 1999, pp. 137-139, 142 et 299 (commode bilan des hypothèses et controverses) ; Coarelli 2009, p. 88 et 2012, pp. 41 et 481-486 ; Villedieu 2009. 48  J., BJ VII, 5, 3. 49   Il paraît inutile de revenir sur la datation domitienne de ces reliefs, ni sur les questions (qui tournent essentiellement autour du lien qui unirait les différents édifices représentés) qui continuent de se poser à leur sujet. En dernier lieu, voir Coarelli 2009, pp. 88 et 428-429. 50   Gros 1996, p. 72. 51   À tout le moins selon Coarelli 2009, p. 87 et 2012, pp. 480-481. Selon les hypothèses de restitution retenues pour la uia Sacra (et son éventuel parcours en direction du Palatin), la situation peut évidemment être envisagée sous un autre angle. Voir Coarelli 2012, pp. 29-35, part. le plan réalisé par Ziolkowski 2004, cité par Coarelli 2012, p. 33, fig. 10 ; voir aussi Zevi 2014, pp. 54-59. Selon le même Zevi 2014, p. 57 (reprenant une interprétation de A. La Regina), 42 43

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la voûte)52, les travaux et découvertes récents, à commencer par le fragment des Fastes de Privernum53, ont confirmé la “lecture traditionnelle” (défendue, en réaction à la thèse de F. Coarelli, d’abord par F. Castagnoli, puis surtout par D. Palombi et A. Ziolkowski)54, selon laquelle la summa Sacra uia ne se limitait pas à la domus Regis sacrorum mais désignait plutôt la fin du parcours (la partie “haute”), à hauteur de la porta Mugonia (dont l’arcus in Sacra uia summa pourrait dès lors être la représentation d’une reconstruction d’époque flavienne)55, de la Statua Cloeliae, de l’aedes Larum et du temple de Jupiter Stator, sous ou non loin de l’actuel temple de Vénus et de Rome. d) « L’Arco di Camigliano » (regio IX)56, qui monumentalisait l’entrée de l’Iseum Campense reconstruit par Domitien après l’incendie de 8057. Les vestiges de cet arc à trois baies, connus par tradition philologique mais aussi partiellement mis au jour à la fin des années 1960 dans un immeuble moderne situé à l’angle des rues Pie’ del Marmo et Sant’Ignazio, ont très récemment fait l’objet d’une relecture radicale58. D’après A. Ten, la reconstitution de l’édifice interdirait, en raison d’une significative différence de taille, de l’assimiler, comme on le faisait jusqu’à présent, à la structure “quadrifons” qui apparaît sur un fragment de la Forma Vrbis Romae (fr. 35s). Surtout, ce qui a longtemps été présenté comme son pendant, à l’autre extrémité du Serapeum, à la jonction avec le supposé portique de Méléagre (le cosidetto « Giano accanto alla Minerva »), ne serait tout simplement pas assimilable à un arc59. En revanche, ce que l’on perçoit, à partir des vestiges et des sources d’époque Renaissance, de l’apparat décoratif (à la forte dimension triomphale et d’époque domitienne)60, n’est pas sans confirmer l’identification, initialement proposée par F. Castagnoli, à l’arcus ad Isis représenté sur le relief des Haterii qui mêle lui-même références triomphales et égyptianisantes61. Chaque ouverture, entre des colonnes engagées d’ordre composite, y est en effet ornée d’une statue dont les attributs sont également développés dans les écoinçons : à droite, Isis, tenant un sistre, surmontée de deux aigles placés de part et d’autre d’un bétyle ; à gauche, Anubis (ou Serapis ?), surmonté d’une ciste mystique ; au centre, Minerve (ou Mars ?), casquée et armée, associée à deux chouettes62. Au-dessus, l’entablement porte une frise d’armes qui, comme sur l’arcus in Sacra uia summa, s’avance en ressaut63. On remarque aussi, le désormais célèbre passage de Galien (Gal., De methodo medendi 13, 22, X, p. 942 Kuehn) prouverait que la uia Sacra se terminait devant l’arc de Titus, qui pourrait donc bien correspondre à l’arcus in Sacra uia summa. Contra Coarelli 2009, p. 87 : la uia Sacra se terminait au niveau du temple de Vénus et de Roma. Ni le pavement, ni la stratigraphie ne permettraient de relier l’arc de Titus à la uia sacra. Sur le texte de Galien, voir surtout Palombi 1997-1998, p. 129. 52   Comme le fait fort justement remarquer Gros 1996, p. 72. Voir aussi Hölscher 2009, p. 51. Moins affirmatif, tout en relevant les fortes différences, Darwall-Smith 1996, p. 168.  53   Zevi 2014. 54   Voir le très commode appendice des sources et thèses en présence dressé par Cecamore 2002, pp. 92-98. 55   Comme l’affirme Denys d’Halicarnasse (II, 50, 3), la porta Mugonia reliait le Palatin à la uia Sacra. Voir aussi Plut., Cic. XVI, 3. Sur ces deux textes, voir en dernier lieu Zevi 2014, pp. 53-54. Sur l’identification, Wiseman 1994 (= 1987), pp. 112-114, d’après une hypothèse de F. Coarelli ; De Maria 1988, p. 294 ; Gros 1996, p. 72. Contra, DarwallSmith 1996, p. 168, part. n. 192-193. 56   Sur l’origine médiévale de l’appellation, voir Ten 2015, p. 43. 57   Sur ce temple, voir Coarelli 1993, p. 97 et 1996a, pp. 107-109 ; Darwall-Smith 1996, pp. 139-153. 58   Ten 2015. 59   Si elle est confirmée (quoiqu’elle soulève de nombreuses questions), cette relecture constituera assurément une rupture considérable pour nos connaissances de cette zone centrale du Champ de Mars, notamment pour le positionnement des Saepta Iulia (qu’il conviendrait de « renvoyer » le long de la via Flaminia, ce qui paraît moins bien s’accorder avec Iuv., VI, 528 et la succession des édifices telle qu’elle apparaît dans les Régionnaires), mais aussi l’extension supposée des thermes d’Agrippa à l’ouest ou encore l’emplacement du temple de Minerua Chalcidica, au nord-ouest plutôt qu’au sud-est du Serapeum. 60   Si l’on en juge par les éléments de la corniche d’entablement visibles sur les reproductions d’artistes. Les vestiges, eux, ne sont pas datables. 61   En dernier lieu, voir Ten 2015, p. 50, n. 26 (avec bibliographie antérieure). 62   De Maria 1988, pp. 292-294 ; Kleiner 1990, p. 132 ; Darwall-Smith 1996, p. 143. 63   Gros 1996, p. 72.

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sur l’attique, de part et d’autre de la dédicace, trois couronnes (une grande ; deux petites). Enfin, l’arc est surmonté d’un groupe statuaire constitué d’un quadrige, flanqué de captifs ligotés à des palmiers, et d’un trophée. Si l’identification entre l’arc du Serapeum et l’arcus ad Isis des Haterii a été discutée par A. Roullet (qui voit dans ce dernier l’entrée d’un sanctuaire de Minerve situé près de l’Iseum) et Fr. Kleiner (un arc érigé par Vespasien sur la uia Labicana)64, l’hypothèse de F. Castagnoli, reprise par R.H. Darwall-Smith, se trouve désormais solidement étayée par A. Ten65. e) L’arc situé à l’entrée de la porticus Diuorum (regio IX)66. La FUR (fr.  35g) permet de le décrire comme un arc à trois baies qui faisait peut-être face au temple de Minerua Chalcidica67. Les deux temples qui bordent l’entrée de la porticus ont été identifiés sur la base d’une inscription de 153 (la lex collegi Aesculapi et Hygiae)68. Ils étaient dédiés aux divins Vespasien et Titus69. Les reliefs dits de la Chancellerie ornaient peut-être cet arc70. f ) Un arc situé à proximité d’un temple dédié à Fortuna Redux (regio I ? VII ? IX ?) : son existence est attestée par Martial, dans une épigramme publiée en 93-9471. Le poète y décrit une area jadis fortunée, où furent aménagés un temple élevé à cette divinité et un arc triomphal surmonté de deux chars attelés à des éléphants et conduits par le prince. Il apparaîtrait également sur des monnaies, des reliefs et un médaillon72. F. Coarelli y a vu une reconstruction, par Domitien, de la porta Triumphalis, qu’il situe dans l’area sacra de Sant’Omobono, où les vestiges d’un « duplice giano » (d’époque   Kleiner 1990, pp. 131-134 ; 1991, p. 208, n. 23.   Castagnoli 1941, p. 59 et 65 ; Roullet 1972, p. 25 ; Kleiner 1990, pp. 131-133 ; Darwall-Smith 1996, pp. 69-70 et 143-145 ; Ten 2015, pp. 48-51. Il reste que si l’on doit revenir à l’ancien positionnement du temple de Minerve, à l’emplacement de l’église Santa Maria sopra Minerva, la vieille hypothèse de A. Roullet ne paraît plus si invraisemblable, dans la mesure où sa réfutation reposait aussi sur la petite taille de la structure circulaire représentée sur la FUR et située entre l’Iseum et la porticus Diuorum, où l’on avait, après G. Gatti, « transféré » le temple de Minerve. 66   Coarelli 1995a, pp. 19-20. Sur la discordance entre la restitution de la porticus Diuorum proposée par G. Gatti d’après la FUR et les vestiges archéologiques à l’emplacement supposé de l’édifice, voir Ten 2015, pp. 70-71. Voir aussi Darwall-Smith 1996, p. 157. Toutefois, ceux-ci ne concernent pas l’arc situé à l’entrée. 67   Sur le temple de Minerua Chalcidica et non le Lauacrum Agrippae (à partir du fragment 35m, perdu), voir De Caprariis 1996, p. 255. Mais voir Ten 2015. Les reliefs dits de la Chancellerie pourraient provenir de cet arc : DarwallSmith 1996, p. 159 (et infra). Sur ces reliefs, voir Hölscher 2009, pp. 54-58. 68   CIL, VI, 10234, l. 8-9 : quod gestum est in templo Diuorum in aede diui Titi conuento pleno. Voir aussi l. 9-10 et 23. Il est généralement admis que le templum Diuorum dont il est question dans ce document est la “porticus Diuorum”. Et si l’un des temples était dédié à Titus, il est fort probable que l’autre l’était à Vespasien. 69   Darwall-Smith 1996, pp. 156-159. 70   Darwall-Smith  1996, pp.  176-177 et 239, n. 414, d’après une hypothèse de H.  Last. Sablayrolles  1994, p. 131. 71   Mart., VIII, 65 : « Au même lieu où brille aujourd’hui avec tant d’éclat un temple élevé au Retour de la Fortune, était jadis une place fortunée : c’est là que s’arrêta César quand il revint du Nord, beau de la poussière du champ de bataille, et le visage rayonnant de gloire ; c’est là que, vêtue de blanc et le front ceint de lauriers, Rome salua son maître de la main et de la voix. La haute importance de ce lieu est attestée par d’autres hommages encore. Voyez cet arc consacré aux victoires remportées sur nos ennemis ; voyez ces deux chars auxquels sont attelés plusieurs éléphants ; la statue d’or du prince guide cet immense attelage. Cette porte, ô Germanicus, est digne de tes triomphes. C’est une entrée comme il en fallait une à la ville de Mars. » Hic ubi Fortunae Reducis fulgentia late / templa nitent, felix area nuper erat : / hic stetit Arctoi formosus puluere belli / purpureum fundens Caesar ab ore iubar : / hic lauru redimita comas et candida cultu / Roma salutauit uoce manuque ducem. / Grande loci meritum testantur et altera dona : / stat sacer et domitis gentibus arcus ouat. / Hic gemini currus numerant elephanta frequentem, / sufficit immensis aureus ipse iugis. / Haec est digna tuis, Germanice, porta triumphis ; / hos aditus urbem Martis habere decet. Voir aussi XIV, 4, 1, datée de 84-85 (RodrÍguez Almeida 1993c, p. 118 et 2014, pp. 123-125). 72   Carradice 1982, pp. 373-375 ; Coarelli 1988, pp. 372-381 et 1996b, pp. 333-334 ; De Maria 1988, pp. 289291 ; Kleiner 1989, pp. 197 et 202 ; Darwall-Smith 1996, pp. 102-103 et 133 ; Gros 1996, p. 72 : l’identification repose sur la ressemblance possible entre la description de Martial et la structure a priori quadrifons qui apparaît sur ces sesterces (95-96), reliefs et médaillon (époques de Marc Aurèle et Constantin). D’autres figurations monétaires de structures assimilables à un arc et d’époque domitienne sont connues et datées de 85 et 90, mais leur authenticité a été remise en question (Carradice 1982, p. 374). 64 65

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hadrienne) ont effectivement été retrouvés73. D’autres ont cependant objecté que l’hypothèse de localisation du temple de Fortuna Redux n’était en rien prouvée74, que les vestiges du Forum Boarium n’étaient pas assimilables à ceux d’une porte double, pas plus que l’édifice, plutôt quadrifons, qui apparaît sur les monnaies, les reliefs et le médaillon75, ou encore que la notice de Martial semblait a priori impliquer une construction nouvelle76. Sur cette base, diverses localisations ont été proposées : sur la uia Lata, à hauteur de l’église S. Lorenzo in Lucina (S. De Maria)77 ; à proximité de la Porte Capène, à l’intérieur de la muraille servienne (E. Rodríguez Almeida)78. Plus récemment, P. Liverani, tout en acceptant la reconstruction de F. Coarelli pour l’époque républicaine et le début de l’Empire, a proposé d’identifier, à partir du règne de Vespasien, la porta Triumphalis et l’arc du texte de Martial à « l’Arco di Portogallo » (voir g)79. Mais l’hypothèse a été rejetée, avec des arguments convaincants, par F. Coarelli80. Pour citer R. H. Darwall-Smith, « almost every area of the pomerium has been offered »81. Le débat ne saurait être clos ici. Pour cette raison, les différentes hypothèses sont reportées sur la carte infra, même si la lecture coarellienne paraît, en l’état actuel des connaissances, la moins insatisfaisante. g) « L’Arco di Portogallo » (regio VII/IX). Le monument est parfaitement situé, sur la uia Lata, à hauteur de l’actuelle Via della Vite, près du Palazzo Fiano, où résidait l’ambassadeur du Portugal82. Démonté en 1662, il comportait une seule baie, encadrée, d’après les descriptions humanistes et les dessins des XVIe-XVIIe s., uniquement du côté nord, de deux couples de colonnes d’ordre composite, et d’une frise richement ornée au-dessus de l’architrave. Deux reliefs, vraisemblablement d’époque hadrienne, occupaient l’espace entre les colonnes. Le problème est celui de la datation. Selon E. Rodríguez Almeida, qui a avancé des éléments probants en se fondant sur la structure des fondations, la technique de construction des piliers (noyau en travertin, parement de pépérin) et l’application a priori postérieure des panneaux, l’arc aurait été élevé par Domitien et non au milieu du IIe s.83. Toutefois, selon S. Stucchi et S. De Maria (Ve s.), E. La Rocca (Gallien), M. Torelli (Aurélien) ou, plus récemment, P. Liverani (Honorius), il serait bien plus tardif84. Mais, à la suite de E. Rodríguez Almeida, le même P. Liverani a aussi remarqué que la composition des piliers était inhabituelle et plaiderait, selon lui, pour le remploi tardo-antique (en pépérin) d’un arc antérieur (en travertin). En outre, un texte peu connu du poète   Coarelli 1996b, pp. 333-334 et encore 2009, p. 68 (avec de nouveaux arguments).   De Maria 1988, p. 290. 75   Kleiner 1989, p. 202 ; Liverani 2005, p. 54, rappelle l’ambiguïté de l’hypothèse de F. Coarelli, en raison de la nature des vestiges de Sant’Omobono  : un «  arco quadrifronte a due fornici di età adrianea. Da un punto di vista architettonico una simile soluzione presenta qualche problema : si stenta infatti a trovare confronti tipologici ». Voir aussi Darwall-Smith 1996, p. 133. 76   Rodríguez Almeida  1993b, p.  92  ; 1993c, p.  118 et 2014, p.  117  ; Darwall-Smith  1996, p.  131  ; Liverani 2005, pp. 56 et 62 ; 2006-2007, p. 295, n. 15 ; Guilhembet 2006, p. 103, n. 71 ; Beard 2007, p. 99. 77   De Maria 1988, pp. 289-290. 78   RodrÍguez Almeida 1993b, p. 92 ; 1993c, p. 118 et 2014, pp. 112-134, part. p. 122, selon qui Domitien se serait ainsi inscrit dans les pas du fondateur (voir infra), en raison de la proximité de l’ara Fortunae Reducis augustéenne. 79   Liverani 2005 ; 2006-2007 et 2007. 80   Coarelli 2009, pp. 70-71, pointe le conservatisme religieux des Romains en la matière et démontre surtout que la zone du circus Flaminius est très vraisemblablement demeurée en dehors du pomerium à la suite de l’amplification flavienne. 81   Darwall-Smith 1996, p. 130. Pour autant, comme l’a rappelé Coarelli 2009, p. 68, J., BJ VII, 5, 4, ne permet pas de douter de l’existence d’une réelle et unique porta Triumphalis. Bien que proposant parfois des relectures salutaires et pointant fort justement du doigt certaines reconstructions modernes par trop hasardeuses, les tentatives récentes (entre autres) de Beard 2007, pp. 96-101 ; Wiseman 2008, pp. 390-391 et Östenberg 2010, pp. 305-306 de totalement remettre en cause l’idée qu’il existait des segments triomphaux “fixes”, et pour ce nous concerne ici la porta Triumphalis, ne semblent guère convaincantes, en raison de leur positionnement hypercritique quelque peu injustifié à l’égard des bribes de textes conservées et de leur trop fréquent recours à l’argument a silentio. Voir Guilhembet 2016. 82   L’appellation est celle du XVIe s. 83   RodrÍguez Almeida 1978-1980, p. 203, n. 23 et 1993a, p. 85. 84   Torelli 1993 (avec la bibliographie antérieure) ; Liverani 2005, pp. 60-61. 73 74

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Claudien irait également dans le sens d’une phase plus ancienne, peut-être domitienne85. Il reste intéressant de relever que, comme dans le cas de la porta Triumphalis, le lien avec le pomerium est prégnant. Le monument se trouve à proximité immédiate des cippes CLVIII de Vespasien et Hadrien86. h) Un Ianus, sans doute quadrifons, érigé sur ou à l’entrée sud du forum Transitorium, face au (premier) temple de Minerve (regio IV)87. i) Une reconstruction domitienne de la Porte Capène  ? Selon le Chronographe de 354, cette porte figure au compte des restaurations réalisées par Domitien88. Cependant, aucune autre source ne l’évoque, si bien qu’E. Rodríguez Almeida a récemment supposé qu’il fallait comprendre « tutti i complessi monumentali vicini a essa » (temenos d’Honos et Virtus, ara de Fortuna Redux). Cependant, selon le savant espagnol, sans penser à une restauration de la porte elle-même (« neanche esistente in realtà »), « non si può escludere che, alla parte esterna dell’area felix, opposto al tetrapylon degli elefanti, Domiziano abbia fatto un arco più semplice come porta simbolica del vecchio recinto murario e del suo pomerio esterno »89. L’argument a silentio est-il toutefois suffisant pour exclure toute réalisation de la part du dernier des Flaviens, alors que la source a été considérée comme digne de confiance90 et, surtout, que ladite porte constituait encore à l’époque impériale un accès privilégié de l’Vrbs (nom de la Regio I augustéenne, présence du mutatorium Caesaris…)91 ? De ce trop rapide tableau, émerge-t-il quelques constantes qui permettraient de donner un sens à la multiplication des arcs sous Domitien et, au-delà, à celui de la raillerie rapportée par Suétone ? 3. Domitien et l’extension du pomerium 3.1. Un premier point, qui ne saurait surprendre92, a trait à la connotation éminemment triomphale de ces arcs, même lorsqu’ils ne constituaient pas des arcs triomphaux à proprement parler : qu’il suffise de rappeler, sans souci d’exhaustivité, la frise, les Victoires des écoinçons, l’ordre composite93 et, surtout, les panneaux internes sur l’arc de Titus au Forum (a) ; les couronnes, le quadrige, la Victoire et le trophée dans son éventuelle transposition sur le relief des Haterii ; la possible statue de Mars sous la voûte

 Claud., VI Cons. 369-373. Selon Liverani 2005, pp. 60-62, le texte de Claudien serait une reprise de Mart., VIII, 65. Il faudrait en déduire que la première phase de « l’Arco di Portogallo » serait à situer sous Domitien. Toutefois, cette datation d’une phase antérieure (dont l’existence est relativement assurée en tant que telle) implique d’assimiler ce dernier à la porta Triumphalis, ce qui pose de sérieux problèmes soulevés par F. Coarelli (voir supra). Sur l’hypothèse de l’existence d’un arc antérieur, voir aussi De Maria 1988, pp. 221-222 et 324-325, n° 104. 86   CIL, VI, 40854-40855. 87  Voir Sablayrolles 1994, pp. 127-130 ; Darwall-Smith 1996, pp. 120-124 (au centre du forum, en se fondant surtout sur les sources littéraires : Stat., Silv. IV, 1 ; Mart., X, 28) ; Viscogliosi 2009, pp. 202-203 évoque, pour sa part, à l’entrée sud de l’édifice, « un’apertura [che] immetteva in un vestibolo che prospettava sulla piazza in forma di arco trionfale […]. È plausibile che questo ambiente si aprisse lateralmente in corrispondenza del già citato tratto ad arco di cerchio […], assumendo quasi l’aspetto di un giano, il che pone molti interrogativi in rapporto al più famoso giano che è stato ipotizzato, nella redazione definitiva del Foro Transitorio, in un punto ancora non indagato sotto l’attuale via dei Fori Imperiali. […] Questo vestibolo […] riusciva a essere in asse con una struttura […] ricostruibile come un tempio octastilo, periptero sine postico, quasi certamente una prima fase del tempio di Minerva che sappiamo poi costruito sul lato orientale ». Meneghini 2009, pp. 107-109, ne reprend pas l’hypothèse d’un arc. 88   Mommsen 1892, p. 146 ; Anderson 1983, p. 101 ; Sablayrolles 1994, p. 113. 89   RodrÍguez Almeida 2014, pp. 126-127. Il exclut également toute entreprise en relation avec les aquae Appia et Marcia, qui aurait sans doute été évoquée par Frontin. Sur son hypothèse de localisation du quadrifons situé près du temple de Fortuna Redux, voir supra. 90   Anderson 1983. Voir supra. 91   Guilhembet 2006, p. 87. 92   Gros  1996, p.  59  : «  Il était inévitable que l’arc honorifique, avec ses connotations triomphales, passât sous le contrôle du pouvoir central dès le début du Principat. […] C’est une véritable “théologie de la victoire” […] qui se trouve ainsi mise en place ». 93  Voir Gros 1996, p. 71 : « Le composite apparaît dès lors comme l’ordre de la victoire ». 85

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centrale de l’arcus in Sacra uia summa (c)94 ; l’apparat décoratif de l’« Arco di Camigliano », l’ordre composite, la frise d’armes, les trois couronnes sur l’attique et le groupe statuaire (avec prisonniers et trophée) au sommet de l’arcus ad Isis (d), par ailleurs élevé à proximité immédiate de l’endroit où Vespasien et Titus avaient passé la nuit, la veille de leur triomphe95 ; l’arc monumentalisant l’entrée de la porticus Diuorum, à l’emplacement possible de l’ancienne Villa Publica, où l’on rassemblait les troupes en vue de cette même cérémonie (e)96 ; la description que donne Martial, éventuellement confirmée par les figurations monétaires, de l’arc élevé près du temple de la Fortuna Redux (f )97 ; l’ordre composite de l’« Arco di Portogallo » (g). 3.2. Un second tient à la portée dynastique de ces édifices. L’entrée du Palatin (a-b) ; la dédicace et le relief sud de l’arc de Titus qui, plus largement, faisait vraisemblablement partie d’un vaste programme urbanistique dédié à Vespasien et Titus divinisés (a)98 ; les couronnes (une grande, deux petites) sur l’attique de l’arcus ad Isis (d)99 ; la porticus Diuorum, qui fit peut-être de la Villa Publica un monument dédié aux triumphatores et censeurs flaviens (e) ; la monumentalisation d’un cippe de Vespasien (g) constituent autant de témoignages d’une volonté qui trouve par ailleurs de nombreux autres éléments de comparaison100. 3.3. Une troisième et dernière clé de lecture peut enfin être identifiée à l’aune du rôle de “porte” joué par plusieurs de ces arcs. Compte tenu de la nature même de l’édifice, la remarque tient quelque peu de l’évidence, à ceci près qu’il ne s’agit pas uniquement de passages symboliquement matérialisés, mais aussi d’espaces de franchissement jouant un rôle dans la définition des circuits : entrée d’un complexe, notamment religieux101 (des arcs que nous dirons d’“accès” : b, d, e, h ?) et monumentalisation d’anciennes portes (dans ce qu’il serait possible de qualifier d’“arcs de passage” : c ?, f ?, g, i), en lien, notamment, avec le pomerium ou, plutôt, avec les différentes enceintes sacrées que Rome avait connues jusqu’alors (romuléenne : c plutôt que b ; servienne : f ?, i ; flavienne : g). Le phénomène est d’autant plus intéressant que, comme l’a montré P. Gros, l’avènement du Principat avait au contraire vu, pour ce qui concerne les arcs, les signes marquant le franchissement (tigillum, iugum) se dissiper progressivement au profit de fonctions presque exclusivement honorifiques, « l’accent se déplaçant de la baie proprement dite vers les panneaux d’encadrement […], vecteurs d’une iconographie de plus en plus explicite »102. Ce dernier point, notamment pour ce qui concerne le pomerium, mérite donc une attention particulière. On sait que Vespasien et Titus modifièrent le pomerium dans le cadre de la censure qu’ils exercèrent de concert en 73-74 et que l’opération fut achevée dans les premiers mois de l’année 75103. Récemment, F. Coarelli a repris la question de son tracé et proposé une nouvelle lecture que nous pouvons résumer ainsi, à partir de la carte qu’il a, à cette occasion, réalisée (Fig. 1)104 : les deux lignes pomériales de Claude et Vespasien suivent un parcours similaire (avec une même volonté d’intégrer de larges por D’après Moormann 2015, p. 646, quoique l’identification soit tout sauf certaine. Stewart 2003, p. 122 pense à Roma. 95  J., BJ VII, 5, 4. 96   Darwall-Smith 1996, p. 158 ; Agache 1999 ; Coarelli 2009, p. 68, d’après une hypothèse de L. Richardson. 97   Darwall-Smith 1996, p. 133. 98   Torelli 1987. Cassius Dion (D.C., LXVII, 2, 6) rappelle que ce fut Domitien qui obtint la consecratio de Titus. L’attique de l’arc représenté sur le relief sud est couronné de deux quadriges, de part et d’autre d’une statue équestre. Les chars étaient sans doute conduits par Vespasien et Titus, et le cavalier une représentation de Domitien, puisqu’il s’agit de la configuration décrite par Flavius Josèphe (BJ VII, 5, 5). Voir Hölscher 2009, pp. 51-52. 99   Coarelli 2009, p. 429. 100   Torelli 1987 ; Darwall-Smith 1996, pp. 153-178. Voir aussi Sablayrolles 1994, pp. 133-134. 101   Gros 1996, p. 60 : la tradition avait été initiée par Auguste. 102   Gros 1996, p. 56. 103   Coarelli 2009, p. 69. 104   Coarelli 2009, pp. 69-71. Voir déjà RodrÍguez Almeida 1978-1980, p. 200 ; Liverani 2005 et 2006-2007 pour un état récent des discussions antérieures et Guilhembet 2006, pp. 100-101 et 114. 94

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Fig. 1. Le pomerium sous Claude et Vespasien (source : Coarelli 2009, p. 70, fig. 5).

tions du Champ de Mars), la principale nouveauté du pomerium flavien résidant dans l’incorporation d’une zone du Trastevere, à hauteur de Santa Cecilia (même si le cippe ici mis au jour n’a pas été retrouvé in situ), mais aussi d’une partie du Champ de Mars central sise à l’ouest de la Via Flaminia (dans le quartier de Montecitorio). La concomitance entre le tracé étendu par les deux premiers Flaviens et la localisation supposée des arcs de Domitien a quelque chose de frappant. L’« Arco di Portogallo » (g) s’élevait à 150 m à l’est du cippe CLVIII (retrouvé in situ à l’angle des rues Torretta/campo Marzio) de Vespasien et Titus, si bien que l’on considère généralement que la ligne pomériale se détachait de la uia Lata à la hauteur de l’arc105, peut-être pour intégrer la zone des ustrina106. L’arc attenant au temple de Fortuna Redux (f ), situé par Martial sur un point d’accès de la cité, est mis en relation par le poète avec la cérémonie du triomphe et, selon toute vraisemblance, avec la porta Triumphalis (haec est digna tuis, Germanice, porta triumphis), autrement dit sur le pomerium107 et ce, quelle que fût sa localisation exacte108. En outre, l’expression qu’il utilise pour l’évoquer (stat sacer arcus) va clairement dans le même sens109. On remarquera encore que deux   Rodríguez Almeida 1978-1980, pp. 197-205 ; Liverani 2005, p. 57.   Coarelli 2009, p. 71. 107   Coarelli 1996b, p. 334. 108   Coarelli 1995b, pp. 275-276 ; Guilhembet 2006, pp. 100-101. 109   Rodríguez Almeida 2014, p.  117  : «  La parola sacer fa pensare che la funzione dell’arco nel contesto monumentale sia quella di una porta pomeriale e, in concreto (vista la posizione di tutta l’area), di quella linea interna alle mura che costituiva la seconda realtà del concetto (doppia linea sacra e di rispetto parallela al muro, entro e fuori di esso) ». 105 106

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des voûtes aménagées par le dernier Flavien au Champ de Mars (d et e) se trouvent à proximité immédiate de l’endroit où a été mis au jour le cippe de S. Stefano del Cacco (malheureusement pas in situ)110 d’Hadrien dont on sait que l’œuvre pomériale n’était qu’une restauration de l’opération précédente111 : la via S. Stefano del Cacco croise la via Pie’ di Marmo (d) et rejoint, à l’emplacement supposé de la porticus Diuorum, la via degli Astalli et celle del Plebiscito (e). Ajoutons à cet argument topographique que la porticus Diuorum fut vraisemblablement construite par Domitien en lieu et place de la Villa Publica détruite en 80, alors que le lieu accueillait autrefois le census, que Vespasien et Titus avaient eux-mêmes été censeurs et que c’est à ce titre qu’ils avaient modifié le pomerium. À cet égard, la monumentalisation de la Villa Publica apparaît comme une célébration de l’entrée et de la sortie de la ville, à l’image des reliefs de la Chancellerie (qui provenaient peut-être de la porticus Diuorum) qui commémorent une profectio (ou un aduentus) de Domitien et une rencontre entre Vespasien et Domitien112. Certes, il apparaît sur la carte réalisée par F. Coarelli que le pomerium flavien passait au sud des Saepta. On peut toutefois se demander, avec P. Liverani, s’il ne conviendrait pas d’exclure, au moins pour ce qui a trait à la limite claudienne, la zone de l’Iseum et de la Villa Publica, puisque Titus et Vespasien s’y arrêtèrent la nuit précédant leur triomphe, mais aussi, pour ce qui concerne également l’amplification flavienne, de tenir hors de l’enceinte sacrée Saepta et Diribitorium (où se déroulaient toujours les comices centuriates), ainsi que l’Iseum, en raison de l’origine étrangère du culte113, et la porticus Diuorum, si l’on retient l’hypothèse de M. Torelli, selon qui l’édifice accueillait les réunions extra-pomériales du Sénat pour l’octroi du triomphe à l’empereur114. Dans cette hypothèse, il est aisé de constater combien la correspondance entre le cippe d’Hadrien, l’« Arco di Camigliano » et l’arc de la porticus Diuorum prendrait tout son sens, y compris du point de vue de l’orientation de ces voûtes, scandant littéralement les étapes de l’amplification flavienne au Champ de Mars. Le pomerium aurait ensuite rejoint le Capitole, à partir de la limite sud de la porticus, tenant à l’extérieur de l’Vrbs la zone du circus Flaminius115. Évidemment, il demeure difficile d’affirmer sans nuance que l’« Arco di Portogallo », celui situé par Martial près du Temple de la Fortuna Redux, l’arcus ad Isis ou encore l’entrée de la porticus Diuorum ont constitué autant de portes pomériales. D’une part, tous les arcs (localisables) de Domitien ne sont à l’évidence pas liés au pomerium (a-b). D’autre part, les incertitudes (et même les raisonnements circulaires) qui pèsent sur les uns et les autres demeurent problématiques. Malgré tout, il semble que, quelles que soient les hypothèses retenues, la documentation disponible n’est pas non plus sans étayer l’idée d’un lien entre certains arcs de Domitien d’un côté et le pomerium de l’autre116. Il est vrai que la dispersion des constructions dans l’espace urbain concorde parfaitement avec les décors et les formulations triomphaux en relation avec l’extension de l’imperium d’une part (voir supra 3.1), avec le dessein dynastique d’un empereur qui a lui-même assumé la charge de censeur unique en 85, avant de s’attribuer le titre de censor perpetuus, d’autre part (3.2).   CIL, VI, 31539b.   Coarelli 2009, p. 69. 112   Darwall-Smith 1996, pp. 159 et 177. 113   Liverani 2005, p. 58. Toutefois, sur le lien, critiqué, entre origine étrangère d’un culte et exclusion du pomerium, voir CarlÀ 2015, pp. 606-607. 114   Torelli 1987, pp. 571-572. 115   Sur ce point extrêmement discuté, voir Coarelli 2009, pp. 70-71. 116   Hors de Rome, le lien entre arcs et pomerium (ou frontière de l’extension urbaine) a été maintes fois souligné depuis Frothingham 1905 et 1915, à propos des arcs situés à l’extérieur ou à la limite des villes. Toutefois, comme l’a rappelé Kähler 1939, col. 473-474, A. L. Frothingham avait tendance à raisonner de manière quelque peu systématique. Il n’en demeure pas moins que les possibles attestations ne manquent pas : Aoste, Bénévent, Pola, Rimini, Suse (Italie) ; Glanum, Saintes (Gaules) ; Timgad (Numidie) ; Hierapolis (Asie Mineure) ; Gerasa ( Jordanie). Sur la fusion, hors de Rome, entre portes urbaines et arcus triumphalis à partir de l’époque augustéenne, voir Gros 1996, pp. 39-45. 110 111

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En outre, à accepter l’hypothèse d’une identification de l’arcus in Sacra uia summa à une représentation de la réfection de la porta Mugonia (c) d’une part, celle d’une restauration de la porta Capena par Domitien (i) d’autre part, peut-être conviendrait-il d’admettre que l’œuvre de monumentalisation de l’enceinte sacrée ne concernait pas que le pomerium flavien. L’hypothèse pourrait trouver une forme de confirmation dans la notice de Pline l’Ancien mentionnée en introduction : s’il peut en effet être retenu comme certain que 37 points d’entrée ont été enregistrés par les Flaviens et que cet enregistrement, de concert avec l’estimation du périmètre et l’extension pomériale, relèvent d’un même moment117, on rappellera également que la fin du texte de Pline évoque l’agger, ce qui pourrait inciter à penser qu’une partie au moins des 25 portes « simples » et des 12 « doubles » concernait l’enceinte servienne, voire romuléenne. En ce domaine, comme en bien d’autres, Domitien se serait alors inscrit dans le sillon du fondateur du régime118, auquel on prête une restauration complète de toutes les portes de la muraille servienne119. Par ce biais, ce sont aussi les extensions successives de Rome qu’il aurait réactualisées, extensions dont les limites, « conçues comme un contour homothétique de celui de la zone de puissance romaine »120, auraient matérialisé, dans une mise en scène de la centralité de la Ville dans l’Empire, les conquêtes flaviennes. Pourtant, pour séduisante qu’elle soit, l’hypothèse est loin de résoudre toutes les difficultés que pose cette même notice pour notre proposition. En effet, comme l’a récemment montré J.‑P. Guilhembet qui a mené l’exégèse la plus systématique du passage121, deux définitions de la Ville s’y trouvent clairement distinguées, l’une plus réduite et repérable à ses 37 « portes » et l’autre plus lointaine ad extrema […] tectorum. Or, la projection des données chiffrées sur le terrain (Fig. 2), pour incertaine qu’elle soit122, suggère une correspondance intéressante, quoique problématique, entre l’amplification/ monumentalisation du pomerium par les Flaviens (Fig. 1) et les confins de la zone urbanisée (surtout si l’on rappelle que l’un des cippes pomériaux d’Hadrien semble avoir été repéré par Pirro Ligorio non loin du camp des prétoriens, positionné par Pline à l’extrémité de la zone construite)123, voire avec le périmètre des 13200 pas (même si rien n’indique que ledit périmètre renvoie, dans la notice, à la seconde mensuration, la longueur ainsi donnée, 19,5 km, s’intègre bien à la restitution de l’amplification flavienne)124, plutôt qu’avec la limite des 37 portes. On en est alors réduits, avec J.-P. Guilhembet, à supposer que, dans son calcul de la somme cumulée des distances, Pline a évité les doublons, en ne comptant qu’une seule fois le tronçon en partie commun conduisant à plusieurs portes proches. Ajoutons par ailleurs que ce passage n’est pas sous-tendu par une conception circulaire de l’espace urbain125. De ce point de vue, il demeure tout à fait possible d’envisager qu’une partie au moins de ces 37 portes a fonctionné comme lieu de franchissement pomérial, qu’il fût romuléen, servien ou flavien, même s’il resterait à comprendre comment compenser le différentiel calculable entre les deux circonférences. Si l’on s’en tient à cette lecture, il resterait toutefois une question : le pomerium avait-il réellement des “portes” ? Si Tacite évoque simplement, à propos du pomerium de Romulus, « des pierres placées de loin en loin »126, il n’est pas à exclure, à tout le moins à compter du principat de Claude, que certains arcs aient revêtu cette fonction. C’est en tout cas l’hypothèse qui a été avancée par E. Rodríguez Almeida à propos de l’arc de Claude situé le long de la uia Lata, à hauteur de la Piazza Sciarra et de la   Guilhembet 2006, p. 102.   Sur Domitien et Auguste, voir Sablayrolles 1994, pp. 116, 123-130, 134. 119   Guilhembet 2006, p. 84. 120   Guilhembet 2006, p. 89. 121   Guilhembet 2006, pp. 99-105. 122   Qu’il s’agisse de la logique paratactique du texte, des modes de calcul de Pline ou des incertitudes qui pèsent sur la transmission des chiffres. 123   Près de la « porta chiusa », au sud du camp des prétoriens. Voir Guilhembet 2006, p. 121. 124   Coarelli 2009, p. 71. 125   Guilhembet 2006, p. 103, part. n. 72. 126  Tac., Ann. XII, 24, 1. Sans parler de leur taille modeste : Guilhembet 2006, pp. 84-85. 117 118

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Fig.  2. L’extension de Rome, d’après Pline l’Ancien (source  : Guilhembet  2006, carte hors texte 4, p. VIII).

via del Caravita. La dédicace, qui mentionne la censure et la victoire britannique, s’inspire des cippes pomériaux et a vraisemblablement fonctionné comme porte de la nouvelle limite sacrée voulue par l’empereur127. D’ailleurs, il est peut-être qualifié de « porte » par Martial (comme, faut-il le rappeler, l’arc du temple de Fortuna Redux)128. À ce stade de la réflexion, les hypothèses ainsi étayées éclairent-elles d’un jour nouveau la raillerie politique dont Domitien fut la victime ? 4. Conclusion : les fondements et auteurs d’une raillerie politique Une clé de lecture pourrait se situer, non pas tant (ou pas seulement) dans la mégalomanie de ce dernier, mais (aussi et surtout) dans le lien, tissé au moins depuis Claude, entre amplification du pomerium et extension de l’imperium (hors d’Italie) et donc dans la recherche de gloire militaire par un empereur dont les campagnes ont été vite dénigrées129. Au-delà du matraquage idéologique, visible également sur les monnaies, les intailles et camées130… qui doit aussi expliquer l’exaspération dont témoigne ce graffiti, était peut-être ainsi dénoncée la volonté d’un empereur de se présenter comme le successeur de son père et son frère et de récupérer à son propre profit le prestige (militaire : les conquêtes ; et civique : l’exercice de la censure) attaché à l’extension du pomerium. Pour R. Sablayrolles, le jeu de mots serait   CIL, VI, 920 = 31203 = 40416 = AE 2004, 38. Rodríguez Almeida 1977, p. 246 ; 1978-1980, pp. 200-202 ; 1993a, p. 85 et 2001, pp. 13-16. Voir aussi CarlÀ 2015, p. 610. Contra Liverani 2005, pp. 57-58 et 62. 128   Mart., IV, 18, 1-2. RodrÍguez Almeida 2014, pp. 118-119. 129   Bérard 1994, p. 221 ; Guilhembet 2006, pp. 102-103. 130   Et l’on ne peut à cet égard écarter totalement l’idée que le graffiti ne soit pas uniquement lié aux arcs et renvoie à l’ensemble du quadrillage idéologique urbain voulu par Domitien en réutilisant comme support un monument qui permettait de jouer sur le sens du mot grec « Suffit ». 127

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à situer dans le cadre d’une guerre idéologique entre l’empereur et l’aristocratie sénatoriale131. Il est vrai, de ce point de vue, que la critique, plutôt élaborée d’un point de vue formel (cf., par exemple, la forme rare du nominatif pluriel du mot arcus, sauf à imaginer une “faute” de déclinaison) s’intégrerait alors bien dans le portrait militaire, extrêmement conventionnel, de Domitien tel qu’il ressort de nos sources littéraires : l’ambition et la jalousie du dernier Flavien (notamment à l’égard de son frère, avant même son accès au pouvoir)132 à l’origine de la guerre de Germanie, la même jalousie qui expliquerait aussi le rappel d’Agricola, sa couardise les défaites sur le Danube. Il semble de ce point de vue envisageable d’écarter une origine plus “plébéienne” (entendons, non liée d’intérêt à l’aristocratie sénatoriale) à ce bon mot, origine à laquelle on a peut-être trop rapidement lié la notion vague d’“opinion publique”, sans interroger les fondements de la raillerie. En effet, ne serait-il pas contradictoire qu’un individu appartenant à ces strates “professionnelles” de la Ville s’insurge contre ce genre de chantiers de construction a priori porteurs d’emplois et de salaires potentiels ? Indépendamment des problèmes qu’elle peut soulever, qu’il suffise ici de rappeler l’anecdote de la plebicula de Vespasien133. Si des difficultés de circulation, à l’entrée et à la sortie de Rome, voire à l’intérieur de la Ville (notamment si l’on rappelle que plusieurs de ces arcs se trouvaient à la frontière entre deux ou plusieurs regiones et aux carrefours de voies majeures) sont peut-être apparues à cause des travaux ainsi engendrés, remarquons aussi que certaines de ces voûtes apparaissent sur le relief funéraire d’une famille d’entrepreneurs de travaux publics (redemptores)134. En tant que telle, cette famille n’appartenait pas aux ordres supérieurs de la société romaine, mais plus probablement à cette élite de la plèbe, sise à la frontière de l’ordre équestre, que les sources nomment plebs media et qui, malgré une position sociale particulière, à la charnière des grands et de la plèbe, n’en partageait pas moins, avec cette dernière, l’exercice d’une activité professionnelle, qui plus est vraisemblablement dépendante, dans le cas présent, des projets édilitaires de Domitien135. À cet égard, un point paraît certain : ce n’est pas un Haterius qui a fait le coup ! Bibliographie Les abréviations de revues sont celles de l’Année Philologique. LTUR = E.M. Steinby (a c.), Lexicon topographicum Urbis Romae, VI vol., Roma 1993-1999. RE = A. Pauly, G. Wissowa et al., Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-… Agache 1999 = S. Agache, Villa Publica, in LTUR V, Roma 1999, pp. 202-205. Anderson  1983 = J.C. Anderson, A Topographical Tradition in Fourth Century Chronicles  : Domitian’s Building Program, in « Historia » 32, 1983, pp. 93-105. Arce 1993 = J. Arce, Arcus Titi (Via Sacra), in LTUR I, Roma 1993, pp. 109-111. Beard 2007 = M. Beard, The Roman triumph, Cambridge (Mass.) 2007. Bérard 1994 = Fr. Bérard, Bretagne, Germanie, Danube : mouvements de troupes et priorités stratégiques sous le règne de Domitien, in « Pallas » 40, 1994, pp. 221-240. CarlÀ 2015 = F. CarlÀ Pomerium, fines and ager Romanus. Understanding Roma’s “First Boundary”, in « Latomus » 74, 2015, pp. 599-630. Carradice 1982 = I. Carradice, Coins, Monuments, and Literature : Some Important Sestertii of Domitian, in T. Hackens, R. Weiller (dir.), Actes du IXe congrès international de numismatique (Berne, septembre 1979), Louvain 1982, pp. 371-383.   Sablayrolles 1994, p. 131 (p. 138 : une « population plus large » est envisageable selon l’auteur ; des individus liés d’intérêt, comme des clients ?). 132  Suet., Dom. II. Voir aussi Dom. VI. 133  Suet., Vesp. XVIII. 134   CIL, VI, 607. Voir Coarelli 1979. 135   Courrier  2014, pp.  295-421, si l’on accepte le récent réexamen que j’ai proposé de l’expression contre l’interprétation devenue traditionnelle de Veyne 2005 (= 2000). 131

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Sur un jeu de mots bilingue d’un citadin facétieux

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LES LIEUX DE VOTE À ROME ET L’ÉVOLUTION DU RÔLE POLITIQUE DU PEUPLE ENTRE LA RÉPUBLIQUE ET LE PRINCIPAT

Virginie Hollard

Les questions touchant au vote et plus généralement au rôle politique du peuple font l’objet depuis quelque temps d’un véritable renouvellement historiographique. Claude Nicolet a été le premier à s’intéresser en détail aux questions des procédures institutionnelles et des liens que ces dernières entretenaient avec le principe même de vote à Rome. Mais son travail était résolument républicain et, depuis la parution du Métier de citoyen dans la Rome républicaine en 1976, des découvertes épigraphiques centrales (Tabula Siarensis, Senatus Consulte de Pisone Patre, chartes municipales) ont amené les historiens à vouloir étudier le vote du peuple romain également pour la période impériale, période pour laquelle on pensait, dans l’héritage encore de la théorie de la dyarchie élaborée à la fin du XIXe siècle par Th. Mommsen1, qu’une telle activité était devenue, depuis la « crise » de la République, caduque2. De telles découvertes ont permis à la fois de penser différemment l’évolution du rôle politique du peuple romain pour la période démarrant avec le Principat d’Auguste et d’apporter un éclairage nouveau sur ce rôle pour la période républicaine. Cette reconsidération globale de la place qu’occupe le peuple romain dans la vie politique de la cité a conduit à une remise en question générale de l’idée même de rupture politique entre la République et le Principat. Un autre renouvellement historiographique, conséquence directe du précédent, a répondu au souci de ne plus appréhender la société romaine uniquement par le biais de ses élites mais aussi par les composantes du peuple et de la plèbe3. De tels renouvellements ont enfin conduit les historiens spécialisés dans l’étude des systèmes politiques de la Rome antique à revenir sur les liens entre le système politique romain et la notion de démocratie4. En envisageant l’évolution du vote romain telle qu’elle se manifeste dans l’occupation politique du territoire de la cité, nous nous inscrivons dans cette reconsidération générale de la manière dont cette     3   4   1 2

Mommsen 1892. Millar 1988. Courrier 2014. Hurlet 2012.

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activité primordiale dans l’exercice du métier du citoyen romain doit être appréhendée en lien avec l’évolution politique entre la République et le Principat. La question au centre de cette étude est, en effet, celle du lien entre l’utilisation des lieux politiques de la cité et la manière dont le régime politique de cette même cité évolue. Plus précisément il s’agit d’englober la question des lieux politiques dans une réflexion sur le vote et ses pratiques entre la République et le Principat. C’est une évidence de dire que le politique se donne à voir dans le territoire d’une cité elle-même définie avant tout comme un espace politique. La définition d’un régime politique est donc indissociable de la question du lieu. Le pouvoir politique marque de son empreinte le territoire de la cité. C’est donc une autre évidence de dire que l’appréhension de la fonction politique de la ville romaine ne peut se faire que par une convergence des sources et des méthodes de plusieurs disciplines, notamment l’histoire, la littérature, l’épigraphie, l’étude des sources juridiques et l’archéologie. Ce double constat explique la convergence entre le programme de recherche mené par les universités de Clermont-Ferrand et de Bologne, dans le cadre duquel cette étude est proposée, et le programme de recherche mené à Lyon 2 et à la Maison de l’Orient et de la Méditerranée, davantage centré sur la question du vote mais débouchant lui aussi sur cette approche pluridisciplinaire de l’espace politique de la cité romaine5. Un exemple parmi d’autres vient illustrer cette évidence du lien entre politique et territoire de la cité : la manière dont César, Auguste puis les empereurs suivants conçoivent l’architecture, la monumentalisation et l’emplacement de leurs fora respectifs marque dans le territoire politique de la cité la mutation entre la République et le nouveau régime qui se prépare puis se stabilise. César inscrit son forum dans une continuité urbanistique avec la Curie, devenue Curia Iulia, et le Comitium tandis qu’Auguste place le sien dans la filiation directe avec celui de César. Les fora de ces deux gouvernants traduisent leur relation politique et la relation entre leur pouvoir et la République finissante. Les monuments présents sur ces nouveaux espaces politiques définissent eux aussi la nature du nouveau régime et ses liens avec l’ancienne République. Le temple dédié à Vénus Genitrix sur le forum de César voué par ce dernier peu avant la bataille de Pharsale rappelle les liens entre la gens des Iulii et Vénus, en même temps qu’il répond à l’édification d’un temple dédié à Vénus Victrix que Pompée fait construire sur son théâtre. Les statues figurant sur les deux côtés du forum d’Auguste rappellent, quant à elles, à la fois la filiation entre César et Auguste, l’appartenance d’Auguste à cette même gens Iulia et réaffirment les principes d’une res publica restituta qui inscrit Auguste dans une continuité républicaine niée par César. Vespasien, initiateur de la dynastie flavienne, obtient sa légitimité politique dans la référence à Auguste. La construction de son temple de la Paix, reconnu plus tardivement comme un des fora impériaux, est à interpréter dans un lien avec l’héritage augustéen (en écho à l’Ara Pacis), Vespasien instaurant lui aussi une dynastie impériale après une période de guerre civile et participant à la stabilisation du régime fondé par le premier Princeps. Les fora impériaux traduisent donc dans leur architecture et leur urbanisme les grandes mutations politiques que Rome connaît entre la fin du Ier s. av. J.-C. et la fin du Ier s. ap. J.-C. Ils font partie du discours politique de légitimation et de définition de leur pouvoir par les gouvernants. Un autre exemple, datant de la même période de passage d’un régime à un autre, pourrait être pris dans l’évolution urbanistique du Champ de Mars. Alors que César avait fait réhabiliter les Saepta devenus Saepta Iulia, donnant ainsi à son régime une connotation républicaine, Auguste inscrit dans le Nord du Champ de Mars l’affirmation de la réalité dynastique de son Principat (construction du Mausolée d’Auguste). Cette réalité est contrebalancée par le système de la co-régence qui permet de concilier réalité dynastique et dimension à la fois collégiale et « élective » du Principat, dans un souci de continuité républicaine. Cette complexité dans la définition du Principat figure quant à elle sur l’ornementation de l’Ara Pacis. Le Champ de Mars, comme l’espace des fora, permettent donc de traduire   Cf. l’ouvrage de synthèse des travaux menés dans le cadre d’un programme de recherche conduit entre 2012 et 2014 à la Maison de l’Orient et de la Méditerranée et à paraître en 2017 : Pratiques, lieux et finalités du vote en Grèce, à Rome et en Gaule. 5

Les lieux de vote à Rome et l’évolution du rôle politique du peuple

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toutes les ambiguïtés aussi bien de la dictature césarienne que du régime mis en place par Auguste, mais aussi des liens entre l’imperator et le Princeps, des liens, enfin, entre ces mutations et l’ancienne République. Cette corrélation entre nature et évolution d’un régime et inscription d’une telle définition dans l’évolution des lieux politiques de la cité sera donc envisagée ici du point de vue de la pratique du vote à Rome et de son évolution. Comment l’évolution du vote dans l’histoire de Rome se vérifie-t-elle dans l’évolution de la manière dont ce vote s’est inscrit dans le territoire politique de la cité ? 1.  Le passage du vote oral au vote écrit Un premier temps fort de l’histoire du vote romain peut se situer au moment charnière de la seconde moitié du IIe s. av. J.-C. où les Romains passent du vote oral, fait auprès du rogator, au vote écrit inscrit sur une tabella. Quatre lois tabellaires furent votées entre 139 et 107 av. J.-C. pour finaliser une telle mutation dans la procédure de vote. En 139, une lex Gabinia introduit le vote par bulletin pour les élections de magistrats. En 137 la lex Cassia introduit la même réforme dans les procès se tenant devant le peuple, excepté les procès de haute-trahison (perduellio) pour lesquels il faudra attendre la lex Coelia de 107. En 131-130, la lex Papiria avait opéré cette mutation pour le vote de la législation6. Or, dans cette même seconde moitié du IIe s. av. J.-C., les sources indiquent des changements de lieux pour le déroulement des opérations de vote. Jusqu’en 145 av. J.-C., les comices tributes pouvaient se tenir dans le Comitium. Depuis longtemps en effet, un lieu de réunion avait été prévu au cœur de la Ville, situé tout près de la Curie dans l’angle nord-ouest du forum. Les fouilles de cette région attestent l’existence, à l’époque républicaine, de gradins circulaires autour d’une place centrale, en contre-bas du niveau de la Curie. Au dessus de ces gradins peut-être entre le Comitium et le Forum fut construite la première tribune aux harangues, appelée Rostra. Mais en 145, pour la première fois, un tribun de la plèbe, Caius Licinius Crassus, fit voter une loi sur le Forum, dont la surface était beaucoup plus grande7. En fait, à partir de 117 av. J.-C., les magistrats utilisèrent comme tribune les gradins du temple de Castor. On connaît d’autres lieux de réunion des comices tributes : le cirque de Flaminius, sur la rive du Tibre, et le Capitole. Concernant les comices tributes électoraux, ils se déroulèrent sur le Champ de Mars, dès 124 av. J.-C. Ce changement de lieu a été mis en relation déjà par C. Nicolet8 avec l’introduction du vote secret qui permettait aux tribus de voter uno uocatu. Auparavant, lorsque le vote était oral, les tribus votaient successivement. Le passage au vote écrit uno uocatu a nécessité l’utilisation d’espaces de vote plus vastes. Ceci correspond également au poids de plus en plus important de l’assemblée tribute à la fin de la République. Ce passage des comices électoraux tributes sur le Champ de Mars a entraîné une nouvelle organisation de l’espace de vote avec des installations provisoires comprenant des barrières pour séparer les unités de vote (les espaces ainsi délimités prirent le nom de Saepta). César entreprit une construction en dur sur le Champ de Mars. C’était une vaste enceinte rectangulaire comprenant un lieu religieusement consacré (templum), un lieu de dépouillement (diribitorium), un tribunal où se tenaient les candidats et magistrat et où étaient déposées les urnes (lieu vers lequel se dirigeaient les électeurs). Trois lieux donc de réunion des comices sont attestés au cours de l’histoire du vote républicain à Rome : le Comitium, où se réunissaient les comices curiates et, jusqu’en 145 av. J.-C., les comices tributes ; le Forum romain, où se rassemblaient les comices tributes depuis 145 av. J.-C. puis, sans doute   Feig Vishnia 2012, p. 129.  Cic., Amic. 96 ; Varro, Rust. 1, 2, 9. Cf. Feig Vishnia 2012, p. 133 et n. 70, p. 167 pour la bibliographie antérieure à laquelle se réfère l’auteur. Cette dernière exprime notamment son désaccord avec H. Mouritsen (2001, p. 20), qui ne voit pas dans ce changement de lieu de tenue de l’assemblée législative une raison pratique liée à des considérations spatiales mais le relie plutôt à une défiance vis-à-vis du Sénat. 8   Nicolet 1976, p. 337. 6

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peu après la loi tabellaire électorale de 139 av. J.-C. les seuls comices tributes législatifs et judiciaires ; les Saepta du Champs de Mars, enfin, où étaient convoqués les comices centuriates et, probablement après 139 av. J.-C., les comices tributes électoraux. 2.  Les lieux de vote et l’inauguration des espaces politiques Une majorité de savants considère que le Comitium, le Forum romain et les Saepta constituaient des templa dans leur ensemble. Y. Berthelet revient, dans ses récents travaux, sur cette affirmation considérant que l’enjeu de la discussion est de taille, bien au-delà de la seule exactitude des reconstitutions archéologiques : selon que l’on englobe ou non dans un templum le peuple réuni au Comitium, au Forum ou dans les Saepta, on sera en effet amené à envisager très différemment sa position au sein des institutions républicaines. Là encore, en effet, le fait de considérer ces lieux comme des lieux inaugurés ou pas, a une incidence importante sur l’interprétation qui en découle quant à la place qu’occupe le peuple dans la procédure de vote. Y. Berthelet niant cette dimension inaugurée des espaces de vote rappelle la dimension fondamentalement aristocratique de la République romaine9. La manière dont la République romaine considère le rôle du peuple dans son système politique et plus précisément le rôle reconnu au vote de ce peuple est donc directement inscrite dans la définition des lieux où se déroule cette intervention politique du peuple. 3.  La « révolution augustéenne », l’évolution du vote et l’empreinte sur les lieux politiques Un autre moment clé dans l’histoire du vote à Rome est évidemment à situer au moment de la « révolution augustéenne ». Toute la question est de savoir si à ce moment précis de l’histoire politique de Rome, le rôle reconnu au peuple a nettement changé. Je ne reviendrai pas sur cette question que j’ai déjà traitée dans des travaux antérieurs10, si ce n’est pour la reprendre sous le seul angle de la question des lieux de vote en lien avec cette évolution majeure des institutions romaines. Auguste en entreprenant dès 29 av. J.-C. une restitutio rei publicae, redonne aux comices leur place dans l’exercice du vote par le peuple romain. Il n’empêche que le contrôle politique d’un Princeps désormais détenteur de l’Auctoritas va considérablement modifier le déroulement de ce vote sans pour autant revenir sur le sens profond d’une telle opération politique qui est d’être avant tout un temps de légitimation politique par la dimension quasiment sacrée du iussum populi. La complexité de ce qu’entreprend Auguste en matière à la fois de restauration mais aussi de renforcement du contrôle du vote se vérifie dans une réforme bien connue touchant à l’élection des magistrats supérieurs : la destinatio. La Lex Valeria Cornelia, votée en 5 ap. J.-C. sur proposition des deux consuls de l’année, apporte, en effet, une modification à la procédure d’élection des préteurs et des consuls ordinaires. Elle a été identifiée dans le cadre de la découverte, en 1947 en Italie, de la Tabula Hebana11 Cette dernière concerne les honneurs funéraires votés à Germanicus en 19 ap. J.-C. Parmi ceux-ci figure l’augmentation du nombre de centuries destinatrices de dix à quinze. Ces cinq centuries supplémentaires porteront le nom de Germanicus, de la même manière que cela avait été fait dans le cadre de la Lex Valeria Cornelia en l’honneur des deux petits-fils d’Auguste, Caius et Lucius César qui avaient reçu chacun cinq centuries destinatrices. C’est donc grâce à elle que l’on apprend la création, en 5 ap. J.-C., dans un contexte d’honneurs funéraires au sein de la Domus Augusta, et par l’intermédiaire d’une loi consulaire, d’une assemblée restreinte composée de sénateurs et de chevaliers appartenant aux décuries judiciaires devant destinare les candidats à la préture et au consulat. Le texte de la Tabula Hebana a été complété par la découverte en Espagne, en 1981, de la Tabula Siarensis éditée par J. Gonzalez   Berthelet à paraître synthétise, selon les mots même de son auteur, pour l’essentiel son ouvrage de 2015 (Berthelet 2015, pp. 234-258), mais en prenant en considération les principales objections formulées dans Humm 2014. 10   Hollard 2010. 11   La première publication du texte de la Tabula Hebana est à consulter dans Raveggi, Minto, Coli 1947. 9

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et F. Fernandez. Ce second texte complète les lacunes du premier mais on n’y trouve que le début de la proposition d’augmentation du nombre de centuries destinatrices (fr. II col c, l. 20-21). Seule donc la Tabula Hebana mentionne les détails de la Lex Valeria Cornelia. Deux précisions doivent être tout de suite apportées concernant cette loi. Il s’agit, tout d’abord, d’une loi votée dans un contexte d’honneurs funéraires aux jeunes princes de la famille impériale12. La même procédure se retrouve, par la suite, en 23, à l’occasion de la mort de Drusus le Jeune. C’est ensuite une loi qui aboutit à une réforme profonde dans la procédure d’élection des préteurs et des consuls. Elle introduit une nouvelle phase dans le processus électoral : la destinatio accomplie par les centuries destinatrices qui portent les noms des jeunes princes défunts. L’élection des préteurs et des consuls se déroulent, désormais, en trois phases : la nominatio (réception des candidatures), la destinatio par les centuries destinatrices et la designatio par les comices centuriates. Cette réforme électorale pose une question principale sur l’évolution de la place du peuple au sein du processus électoral : comment ce vote préliminaire oriente-t-il et conditionne-t-il le vote de l’assemblée du peuple  ? Cette question soulève dans un premier temps les problèmes très techniques de l’intégration de ces votes dans le résultat final (et par conséquent du rapprochement que l’on peut faire entre cette assemblée et la centurie prérogative) et de celui du nombre de candidats présentés aux comices après cette première sélection. Elle soulève ensuite le problème beaucoup plus idéologique de l’aspect contraignant que prend un vote fait au nom de princes défunts de la famille impériale. Le sens politique d’une telle réforme dans la procédure électorale concernant la désignation des magistrats supérieurs se vérifie également dans la manière dont une telle innovation institutionnelle « investit » le territoire de la cité. Cette nouvelle étape dans la procédure de désignation des préteurs et des consuls sous Auguste devait se dérouler, selon S. Demougin13, sur le Palatin. L’espace de réunion devait, en effet, être un lieu consacré et l’auteur rappelle que la vocation de cette assemblée destinatrice était d’exprimer la volonté des princes défunts. Elle devait donc, à ce titre, se réunir dans un lieu où s’exerçait la prééminence de la famille impériale. Or celle-ci est installée sur le Palatin où écrit-elle « la zone augustéenne du mont constitue tout un complexe monumental » qui « ne comprend pas seulement la résidence du Prince mais aussi le temple d’Apollon situé au centre d’une grande place et flanqué du portique des Danaïdes sur lequel s’ouvrent les deux bibliothèques, grecque et latine sises sur le côté Sud »14. Cet ensemble devient le centre de la vie politique impériale. La bibliothèque du temple d’Apollon était le lieu de réunion du Sénat. C’était aussi le lieu de révision de la liste officielle des juges. Ce devait donc être le lieu très probable de réunion de l’assemblée destinatrice. La localisation d’une étape du vote sur le Palatin, et plus précisément dans un lieu de réunion du Sénat sur cette colline incarnant le pouvoir impérial est très signifiante quant à la place désormais prépondérante du Sénat dans la procédure électorale et aux liens politiques complexes entre Auguste et le Sénat. Cet investissement du Palatin comme nouveau lieu de vote à Rome est à mettre en relation, en toute logique, avec l’ensemble du projet politique augustéen, et donc avec le maintien de l’affichage de la liste complète des candidats affichée à l’endroit où se déroule la designatio finale par les comices. Celle liste devait comprendre la liste de tous les candidats, même de ceux qui n’avaient pas été destinati par l’assemblée préliminaire, même si leur élection était dans les faits impossible. Sans cette ultime formalité, l’édifice de la restitutio rei publicae ne tient plus. La mise en place de la destinatio des consuls et des préteurs, par les sénateurs et les chevaliers membres des décuries judiciaires introduit un dialogue spatial entre le Palatin et les Saepta donnant ainsi à voir dans le territoire la complexité de l’édifice politique augustéen.   Seston 1950 ; De Visscher 1951 : loi de circonstances ; Seston 1954 : l’attribution des centuries à un héros est un phénomène insolite à Rome. Il s’agit d’une idée grecque adaptée au monde romain. 13   Demougin 1987. 14   Demougin 1987, p. 312. 12

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J’ai cependant tenté de montrer que ce nouveau rôle électoral dévolu, dès Auguste, au Sénat ne doit pas conduire à sur-interpréter la célèbre phrase du livre I des Annales de Tacite où il est écrit que, dès le tout début du règne de Tibère, les comices passèrent au Sénat15. Nous ne nous arrêterons donc pas sur cette phrase comme preuve d’un changement de lieu du vote, si ce n’est pour rappeler une réalité dont nous avons la preuve dans plusieurs passages du Panégyrique de Trajan de Pline16, à savoir qu’à la fin du Ier s. et peut-être dès la fin du règne de Tibère lui-même, le Sénat remplacera très probablement l’assemblée destinatrice dont il n’est plus question dans les sources après la dernière création de nouvelles centuries comme honneur funéraire décerné à Drusus en 23 ap. J.-C. Il est également possible d’envisager, en lien avec l’emprise sur le territoire politique de la cité, la place que le régime augustéen octroie au vote du peuple romain en observant cette fois le vote législatif. Il est couramment reconnu, bien que là encore cela soit de plus en plus remis en question pour les raisons évoquées plus haut, que les comices législatifs déclinent dès le début du Principat se voyant de plus en plus concurrencés par de nouvelles formes de productions du droit (équivalence progressive entre les lois et les Sénatus-Consultes, apparition des constitutions impériales) pour disparaître définitivement sous le règne de l’empereur Nerva. Or, il semble qu’il faille sur ce point être peut-être plus nuancé et différencier les lois produisant du droit et les lois octroyant des pouvoirs et des honneurs, notamment aux membres de la Domus Augusta. Une illustration de ce point peut être trouvée dans l’étude de la dédicace SPQR figurant dès l’époque augustéenne sur les frontons des arcs de triomphe. Cette étude des arcs de triomphe a été entièrement renouvelée par les travaux d’A. Wallace-Hadrill17 qui considère qu’en ce qui concerne ce type d’honneurs, le changement entre la République et l’Empire ne réside pas dans le contenu de l’honneur mais dans l’installation d’un processus honorifique. En imposant une tradition honorifique, Auguste ébranle d’ailleurs la tradition républicaine d’affirmation de soi. C’est cette même raison qui explique la confiscation du triomphe par la famille impériale. Ce processus honorifique fait intervenir le sénat et le peuple, comme en témoigne l’apparition à l’époque impériale de la mention SPQR absente des arcs républicains, l’objectif étant là encore d’assurer le consensus de la société romaine autour du Princeps. Les arcs de triomphe sont donc, à l’époque impériale, des monuments honorifiques érigés à la suite d’une décision officielle du sénat et du peuple romain. Sous la République, ils correspondaient à une entreprise individuelle pas même soumise à l’approbation du sénat. A. Wallace-Hadrill remarque que nombre de chercheurs laissent entendre que ces arcs étaient dressés sur l’ordre des empereurs eux-mêmes et lorsqu’ils admettent qu’il s’agissait d’une décision SPQR, ils ramènent cette réalité à un pur détail technique. En réalité, c’est bien à une réalité institutionnelle qu’il est fait référence. Le fait que cet honneur devienne un élément caractéristique de l’ensemble du système honorifique mis en place autour de la personne du prince et des membres de sa famille donne à la participation populaire, dans l’octroi de cet honneur, toute son importance. Cependant, la plupart du temps, quand des sources littéraires mentionnent des arcs triomphaux, dont nous avons encore la trace archéologique et sur lesquels nous voyons l’expression SPQR, elles omettent l’élément populaire dans la décision d’attribution. C’est bien la preuve que la participation du peuple est régulièrement négligée dans les sources littéraires en raison de sa qualité de sanction formelle. Cela ne signifie pas pour autant qu’elle n’a pas lieu18. Les conclusions tirées de cette étude pour la période   Hollard 2010, chap. III.  Plin., Paneg. LXX, 71 et 92; Plin., Ep. II, 9, 2 ; VI, 6 ; VII, 23. 17   Wallace-Hadrill 2001. 18   Arc d’Auguste en 30 av. J.-C. : CIL, VI, 873 ; D.C., LI, 19 ; cf. Holland 1946 ; Arc parthique d’Auguste en 20 av. J.-C. ; Arcs décernés à Auguste et Tibère : D.C., LV, 17,1-2 ; Arc de Germanicus en 16 ap. J.-C. : Tac., Ann. II, 41,1 contra CIL, VI, 1269 (sur cet arc de Germanicus, cf. Castagnoli 1984) ; Arcs décernés à Drusus et Germanicus en 18 ap. J.-C. : Tac., Ann. II, 64,1 contra inscription (cf. Alföldy 1992) ; Arcs décernés à Tibère et Drusus en 22 ap. J.-C. : Tac., Ann. III, 57. 15 16

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augusto-tibérienne peuvent être reconduites pour des arcs postérieurs. Nous aurions ainsi la preuve, inscrite sur le territoire même de la cité, du maintien de cette activité législative du peuple bien après 96 ap. J.-C.19, même s’il est évident que, pour les arcs tardifs, la mention SPQR n’a certainement plus qu’une valeur symbolique. 4.  Le vote dans les cités du monde romain Le constat que l’observation de l’inscription de l’activité de vote sur le territoire de la cité de Rome permet de dresser un tableau de la manière dont ce vote évolue au fil de l’histoire politique de l’Urbs se vérifie aussi dans les cités du monde romain. Ainsi, la destruction brutale de Pompéi en 79 ap. J.-C. a permis de retrouver de nombreuses inscriptions peintes datant des premières années de la ville. Parmi elles, des graffitis électoraux témoignant d’une activité politique dense et intense dans la seconde moitié du Ier s. ap. J.-C., et d’un investissement important du peuple dans la vie politique de la cité, et ce même à l’époque impériale. En voici quelques exemples20 : - ILS, 6412 a : Les muletiers demandent Caius Iulius Polybius comme édile. - ILS, 6438 d : Je vous prie d’élire duumvir pour dire le droit Marcus Epidius Sabinus, il en est digne. C’est un défenseur de la colonie. Il est soutenu par Suedius Clemens, juge respecté, et a l’assentiment de l’ordre, à cause de ses mérites et de sa probité. Sabinus, ordonnateur, vote en applaudissant. - ILS, 6420 b : Tous les Isiaques demandent Cnaeus Helvius Sabinus comme édile. Outre ces trois citations, l’ensemble des inscriptions électorales retrouvées ne mentionnent que des élections d’édiles et de duumvirs. La questure n’est donc pas attestée dans cette cité. Certains graffitis associent deux candidats qui semblent former une sorte de « ticket » : Statia et Petronia vous prient d’élire édiles Marcus Casellius et Lucius Albucius. Avoir toujours de tels concitoyens dans la colonie ! (ILS, 6414). Même si, comme le rappelle F. Jacques prudemment, rien ne nous permet d’affirmer qu’une aussi grande activité était attestée dans d’autres cités de l’Empire, notamment de l’Occident romain, il est évident en tout cas que, dans cette cité campanienne, le passage au régime impérial, à Rome, n’a pas coïncidé avec une perte d’activité politique à l’échelle locale21. Certaines réserves ont cependant pu être émises quant au lien absolu entre ce type de témoignages épigraphiques et l’affirmation d’un rôle politique important du peuple des cités à l’époque impériale22. Nous avons ainsi la preuve, là encore par une figuration sur le territoire de la cité, que l’activité institutionnelle des cités du monde romain, ou en tout cas d’une partie d’entre elles, reste importante au début de l’époque impériale. Nous avons vu précédemment que la capitale de l’Empire faisait l’objet d’un débat historiographique similaire à celui identifié pour les cités : le passage au régime impérial avait-il définitivement ruiné toute activité institutionnelle extérieure à l’arbitraire du Prince (comices formalisés à l’extrême par les choix électoraux du Prince, magistratures en doublon avec les pouvoirs du Prince, débats au Sénat verrouillés par le Prince) ? L’activité institutionnelle qui semble se maintenir dans   Nous renvoyons sur ce point à un article en préparation sur l’évolution du sens de la formule SPQR, au début du principat. Cette étude nous permet de tirer, pour les arcs de triomphe des années suivant le règne de Tibère, les mêmes conclusions que celles concernant les arcs érigés sous les deux premiers princes. Nous retrouvons ainsi, bien après le Ier s. ap. J.-C., des arcs portant la dédicace SPQR. Nous ne pensons pas impossible de restituer systématiquement le vote d’une loi pour chacune de ces dédicaces. L’absence de mention du peuple dans les sources littéraires reste tout aussi systématique pour ces périodes. 20   Jacques 1992, p. 88. 21   Jacques 1992, p. 90. 22   H. Mouritsen (2001) considère cette forme d’action politique du peuple comme un simple rituel social. Contra R. Biundo qui y décèle au contraire une vraie signification politique (Biundo 2003). 19

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certaines cités de l’Empire23 dans le courant du Ier s. de notre ère est-elle la preuve d’une spécificité de la vie municipale ou bien est-elle une invitation à réinterpréter la vie institutionnelle de la capitale de l’Empire au moment où un régime laisse la place à un autre ? Cette question en soulève une dernière, encore plus délicate à traiter : ne peut-on pas, alors, au regard de ce que quelques sources nous disent de cette vie institutionnelle des cités, relativiser l’idée même, à Rome, d’un changement radical de régime politique ? Envisager la manière dont la République puis le Principat ont considéré le vote du peuple romain conduit nécessairement à une étude des différents lieux où se déroulait cette activité. L’emprise du vote sur le territoire de la cité permet de définir le vote lui-même, sa place dans la vie politique de la cité, l’importance qui lui était reconnue et ses liens avec les autres organes politiques et institutionnels qu’étaient le Sénat, les magistrats, le Prince et sa famille. Ceci dans le contexte général d’une histoire politique romaine marquée par une rupture entre deux régimes politiques qui ne cesse d’être interrogée. Bibliographie Alföldy 1992 = G. Alföldy, L’iscrizione dell’arco di Druso nel Forum Augustum, in Studi sull’epigrafia augustea e tiberiana di Roma, Roma 1992, pp. 101-110. Berthelet 2015 = Y. Berthelet, Gouverner avec les Dieux : autorité, auspices et pouvoir, sous la République romaine et sous Auguste, Paris 2015. Berthelet à paraître = Y. Berthelet, Templa de majesté et conception du vote à Rome, in Pratiques, lieux et finalités du vote à Rome, en Grèce et en Gaule, à paraître en 2017. Biundo 2003 = R. Biundo, La propaganda elettorale a Pompei : la funzione e il valore dei programmata nell’organizzazione della campagna, in « Athenaeum » 91, 2003, pp. 53-116. Castagnoli 1984 = F. Castagnoli, L’arco di Germanico in Circo Flaminio, in « AClass » 36, 1984, pp. 329-332. Courrier 2014 = C. Courrier, La plèbe de Rome et sa culture ( fin du IIe siècle av. J.-C. - fin du Ier siècle ap. J.-C.), Rome 2014. De Visscher 1951 = F. De Visscher, La Table de Heba et la décadence des comices centuriates, in « RD » 29, 1951, pp. 1-38. Demougin 1987 = S. Demougin, Quo descendat in campo petitor. Elections et électeurs à la fin de la République et au début de l’Empire, in L’Vrbs. Espace urbain et histoire (I er s. av. J.-C.-III è s. ap. J.-C.), Actes du colloque international (Rome, 8-12 mai 1985), Paris 1987, pp. 305-317. Feig Vishnia 2012 = R. Feig Vishnia, Roman elections in the age of Cicero. Society, Government, and Voting, London-New York 2012. Holland 1946 = L.B. Holland, The triple arch of Augustus, in « AJA » 50, 1946, pp. 52-59. Hollard 2010 = V. Hollard, Le rituel du vote. Les assemblées du peuple à Rome, Paris 2010. Humm 2014 = M. Humm, Espaces comitiaux et contraintes augurales à Rome pendant la période républicaine, in « Ktèma » 39, 2014, pp. 315-345. Hurlet 2012 = F. Hurlet, Démocratie à Rome ? Quelle démocratie ? En relisant Millar (et Hölkeskamp), in St. Benoist (ed.), Rome, a City and its Empire in Perspective : The Impact of the Roman World through Fergus Millar’s Research, Leyden 2012, pp. 19-43. Jacques 1992 = F. Jacques, Les cités de l’Occident romain, Paris 1992.   Prouvé par les chartes municipales comme le fragment d’Irni, qui permet de vérifier l’activité institutionnelle encore forte de ces cités dans la dernière partie du Ier s. ap. J.-C. Les rubriques 50 à 59 nous renseignent notamment sur le fonctionnement précis des élections de magistrats par les curies électorales de la cité. Nous apprenons que les curies ne doivent pas être plus de onze (50), nous sommes informés des modalités de nomination des candidats (51), des modalités de tenue des comices (52), des conditions de vote des incolae (53), de l’organisation concrète du déroulement du vote (55), des occasions nécessitant le recours au tirage au sort (57), de la prestation de serment des élus (59). Le fragment d’Irni renseigne également dans la rubrique 31 sur le fonctionnement de l’ordre des décurions et de la rubrique 19 à la rubrique 27 sur les responsabilités des magistrats de la cité. 23

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Millar 1988 = F. Millar, Imperial ideology in the Tabula Siarensis, in J. González, J. Arce (eds), Estudios sobre la Tabula Siarensis, « Anejos de archivo español de Arqueologia » IX, 1988, pp. 11-19. Mommsen 1892 = Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, [3è éd.], Leipzig, [trad. P.F. Girard], vol. 7, Paris 1892. Mouritsen 2001= H. Mouritsen, Plebs and Politics, Cambridge 2001. Nicolet 1976 = C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976. Pratiques, lieux et finalités du vote en Grèce, à Rome et en Gaule, Lyon, à paraître en 2017. Raveggi, Minto, Coli 1947 = P. Raveggi, A. Minto, U. Coli, Scoperta di una tabula aenea iscritta nella località ‘Le Sassaie’ nel territorio dell’antica Heba, in « NS » LXXII, 1947, pp. 49-68. Seston 1950 = W. Seston, La Table de bronze de Magliano et la réforme électorale d’Auguste, in « CRAI », 1950, pp. 105-111. Seston 1954 = W. Seston, Remarques sur la genèse et les effets de la réforme électorale d’Auguste, in « RD » 32, 1954, pp. 303-304. Wallace-Hadrill 2001 = A. Wallace-Hadrill, Arcs de triomphe romains et honneurs grecs : le langage du pouvoir à Rome, in N. Belayche (dir.), Rome, les Césars et la Ville aux deux premiers siècles de notre ère, Rennes 2001, pp. 51-84.

La piazza forense tra l’applicazione di modelli e l’adattamento alle realtà locali

FORI CISALPINI, FORI TRANSALPINI: VARIAZIONI SUL TEMA

Stefano Maggi

La discussione – innescata da un celebre articolo di J.B. Ward Perkins1 – sul significato che le esperienze relative all’organizzazione del comparto forense maturate in Cisalpina hanno avuto (o meno) sulle realizzazioni delle province occidentali è stata lunga, accesa, forse non del tutto conclusa in Italia2. Così ancora nel 2011 De Maria3 metteva in guardia dal cedere «a una sorta di logica diffusionistica […] che vedrebbe lo schema del foro bi/tri-partito applicato prima in Cisalpina e poi recepito nel mondo provinciale», una logica meccanicistica, rispetto a una realtà «più complessa di quanto non la vogliano imbrigliare schematismi frettolosi»; ciononostante osservava come si possano in effetti rilevare nell’età augustea e più generalmente nella prima metà del I secolo d.C. «alcune costanze e ricorrenze» di grande coerenza cronologica. Qualche anno prima Santoro4 rifiutava decisamente la mediazione cisalpina nei confronti della Narbonese a proposito di una possibile codificazione della parure monumentale del centro urbano delle città romane e della tipologia degli schemi architettonici principali, basilica in testa; invocava invece un accesso diretto al modello del centro del potere (nel caso del forum adiectum di Arelate, ad esempio) e, nel complesso, una “empiria architettonica” con la quale, nella diversità dei singoli casi, si potevano risolvere problemi analoghi di funzionamento urbanistico con analoghe soluzioni, «generate da una cultura urbanistica teorica di base, questa sì comune, e che va ricondotta alla formazione dei politici committenti e dei progettisti». Si deve intendere che siano i politici del centro (e progettisti del centro), altrimenti non si capisce da dove venga questa cultura comune a Glanum come a Segusium, a Alba Pompeia come a Emporiae, a Aquae Statiellae come a Forum Segusiavorum, ma anche a Nemausus, Arelate, Tarraco, Verona, Tergeste… E allora mi sembra di essere davanti a un falso problema! Si potrà negare un modello di base, una formula, uno schema, una “norma”; o dire che, se esiste, essa sembra riassumersi nella giustapposizione – più spesso assiale – di un’area sacra, una piazza, una     3   4   1 2

Ward Perkins 1970. Gros 1985-1987. De Maria 2011. Santoro 2002.

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basilica (completata o meno da una curia): così Sablayrolles5. Ma, se si va a guardare le «costanze e ricorrenze» di grande «coerenza cronologica» (sostanzialmente augustee o più spesso tiberiane) si noterà come si tratti nella quasi totalità dei casi di coloniae6, dietro alle quali c’è sempre un forte ed attento controllo del potere centrale, o – se non colonie – comunque di città nelle quali lo stesso potere centrale è direttamente presente (Agrippa è patrono di Emporiae, è presente a Segusium e a Glanum: su questi casi si tornerà)7. E comunque i dati cronologici, ancorché non abbondanti, dichiarano che alcune – certo non tutte – tra le colonie cisalpine ricevono sistemazioni forensi coerenti già in età tardo-repubblicana. L’allestimento dei fori nelle colonie romane – e prima ancora l’allestimento delle colonie nella loro interezza (fisica, di immagine anche) – procede da esigenze politiche, che tendono a uniformare una realtà composita come il sistema provinciale nuovo, inaugurato da Augusto: penso dunque che non si possa negare il fatto che a un modello politico-culturale corrisponda un modello urbanistico e architettonico, un modello certo suscettibile di variazioni sul tema, che miri a realizzare l’unità politica, istituzionale, sociale, etc. La celebre affermazione di Adriano, relativa a colonie e municipi dell’impero intesi come effigies parvae simulacraque [Romae] (discorso de Italicensibus, apud Gell., N.A. XVI, 13, 8) è in questo senso assai significativa8. Lo stesso processo di allestimento di programmi figurativi all’interno dei complessi forensi mostra un attento controllo da parte del centro del potere9. Ora, mi sembra innegabile che la Cisalpina abbia costituito un terreno fertilissimo di sperimentazione in tema di città e di soluzioni architettoniche. Le cronologie di esperienze come Luni, Bologna, Verona, Brescia, Bene Vagienna (cui oggi possiamo aggiungere Alba, Acqui, Susa, solo per restare nella Cisalpina occidentale)10, centri nei quali grandi personaggi del potere erano assolutamente presenti (si ricordi per tutti M. Emilio Lepido, principe del senato, pontefice massimo, censore, capo delle commissioni triumvirali di Mutina e Parma, oltre che di Luni), se non fanno fede di una assoluta priorità cisalpina, garantiscono un’ampia circolazione di concetti e di forme nell’ambito della precisazione funzionale e rappresentativa del foro (attraverso l’elemento militare, come suggeriscono Santoro11 e Scagliarini?12). E questi concetti con Augusto (e intendo Augusto in persona e il suo braccio destro Agrippa) possono arrivare a informare il nuovo “paesaggio ideologico” delle città provinciali dell’Occidente, per le quali – come più volte sottolineato da Pierre Gros13 – il periodo augusteo segna il vero discrimine per l’urbanizzazione piena ed effettiva. E allora quello della priorità o meno dei fori cisalpini in fondo è un falso problema, soprattutto in colonie e città che sono emanazioni dirette di Roma e quindi possono del tutto logicamente assumere, variandole, soluzioni che Roma ha già sperimentate (in Italia del Nord, ad esempio); soprattutto poi se queste soluzioni partono proprio dal centro: si veda il complesso realizzato da Agrippa nel Campo Marzio con la disposizione della basilica Neptuni e del Pantheon sui lati opposti di una corte porticata14. Un altro punto su cui vorrei tornare è questo: secondo Gros15, molti critici moderni pensano a una vera e propria “ortodossia” di schema, una formula messa a punto in età augustea (egli stesso dunque   Sablayrolles 1997.   Torelli 2008. 7   In generale si veda Maggi 2004. Per Emporiae Mar, Ruiz de Arbulo s.d. Per Segusium Brecciaroli Taborelli 1994. Per Glanum Roth Congès 1987. 8   Scagliarini CorlÀita 1991, p. 160. 9   Saletti 2004; Balty 2007; Maggi 2013; 2014 e 2015. 10   Maggi 1999 e 2011. 11   Santoro 1985. 12   Scagliarini CorlÀita 1991. 13  Gros, Torelli 20073, pp. 243-270. 14   Gros, Torelli 2007, p. 250; Gros 2006, pp. 118-119. 15   Gros 2007, p. 179. 5 6

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ammetteva alla fine l’esistenza di una formula, quali ne siano le varianti) che presenta un aspetto così soddisfacente per semplicità e rigorosa unità che ha finito per esercitare «una sorta di pressione sullo spirito di molti archeologi, pressione che fa giudicare eterodossi i casi che non rientrino in quello schema, senza che si sia disposti ad ammettere che un’altra concezione abbia potuto presiedere all’elaborazione di un complesso» (a parte i casi in cui – precisa Gros – la divergenza è giustificata con problemi di morfologia del terreno o di cronologia). Non mi è mai piaciuta l’idea di una “ortodossia”, che presupponga dunque qualcosa di “eterodosso”. Grazie alla lezione di Mansuelli (quando l’Istituto era ancora in via IV Novembre) non ho mai pensato che ci sia ortodossia là dove c’è eclettismo. Roma è stata (da sempre) un catalizzatore di energie ed esperienze. Per questo le arti di ambiente e recezione romani sono state sempre scopertamente eclettiche (aggettivo che per Mansuelli16 precisa una genesi storica, non implica una qualsivoglia gerarchia qualitativa), anche nello specifico campo dell’urbanistica e dell’architettura. L’idea stessa di Gros17 del passaggio in epoca augustea da una fase “aperta”, discontinua, agglutinante del foro al suo chiudersi, al condensarsi di tutti gli elementi inderogabili in un sistema “chiuso”, a una visione chiusa e selettiva delle componenti nello spazio di rappresentanza, costituisce un buon punto di osservazione per prendere atto di soluzioni che variano lo schema per ragioni generalmente esterne all’ideologia, legate piuttosto a geomorfologia, disegno viabilistico, tradizioni storiche, etc., che non è il caso di marchiare con il bollo di “eterodossia”. Si veda ora qualche caso. A Segusium lo spazio pubblico monumentale – lungo la via per i valichi alpini – si articola in foro (parte religiosa, per ora… forse tabernae – ma esse risulterebbero un po’ esterne rispetto ai limiti della piazza), heroon di Cozio (con nuovi indizi di monumentalizzazione “integrata” nel paesaggio naturale verso ovest), arco, praetorium, tutto in relazione alla strada da e per il Monginevro e il Moncenisio18 (Figg. 1, 2, 3). La documentazione materiale si completa con due epigrafi (una con dedica ad Agrippa, 13-12 a.C., l’altra con dedica ad Augusto da parte di una serie di esponenti della élite locale, 8 a.C. - 2 d.C.)19 e i celebri torsi loricati (uno prototiberiano, l’altro claudio; ve ne è un terzo, giudicato dalla critica più tardo, con testa di Claudio non pertinente), cui si aggiungono un frammento bronzeo di loricato e il celeberrimo ritratto bronzeo conservato a New York (nel quale oggi non si riconosce più Agrippa)20. Pare strano che nel III secolo, epoca probabile della chiusura entro mura di una porzione della città per scopi difensivi, si decida di escludere completamente il foro (anche a voler considerare una sua decisa perdita di importanza sul piano politico-rappresentativo, resta un’esigenza di incontro-scambio direi insopprimibile per una comunità ancorché ridotta). A ben vedere, l’area dall’XI secolo occupata dalla cattedrale e i suoi annessi sembra offrire indizi di un suo antico carattere “aperto”, pubblico. A parte le indicazioni in documenti medievali relative all’area di San Giusto21, mi riferisco ai dati recentemente ricordati da Pejrani in un lavoro del 200222: un muro a semicerchio nel cortile del Vescovato, riferibile a una costruzione pubblica romana, databile tra fine I secolo a.C. e principato augusteo; la presenza di anfore romane tra le mura e la facciata della cattedrale (e altro materiale datato al I sec. d.C.); un condotto fognario orientato est-ovest; soprattutto due basi semicircolari di marmo per colonne romane (sic) poggiate su una pietra squadrata lunga 140 cm,   Mansuelli 1984, pp. 5-6.   Gros 2007, p. 179. 18   Barello 2009; 2011 e 2015. 19   Barello 2011, pp. 27-28. 20   Status quaestionis in Barello 2011. Si veda anche Riccomini 2015, pp. 112-113. 21   Patria 1987, pp. 26-27, secondo cui sarebbe ipotizzabile una continuità di uso pubblico dell’area intramuraria occidentale anche (soprattutto) per la presenza della platea fori o platea mercati; si veda anche la citazione di un pomerium, sive viridarium per l’area di San Giusto in Bosco s.d., doc. 3, p. 31, 7 agosto 1191. 22   Pejrani Baricco 2002, pp. 27-31, 35, 40-42. 16 17

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Fig. 1. Pianta di Susa romana (da Barello 2007, p. 261, fig. 1).

Fig. 2. Il foro di Susa. 1. Foro, 2. Domus, 3. Strada, 4. Heroon, 5. Cattedrale, 6. 7. e 8. condotti fognari (da Barello 2015, p. 167, fig. 4).

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Fig. 3. Lo scavo del foro di Susa (da Barello 2007, p. 264, fig. 5).

sotto l’abside di una delle cappelle del lato nord della cattedrale, riferibili a un porticato o a un edificio pubblico dell’area forense23. Certamente si devono considerare altri dati relativi al sottosuolo di questo settore urbano, riferiti nel tempo (a partire da Bertea)24 a case d’abitazione, di varie fasi insediative (almeno due) indicate come di epoca romana (anche se non è chiaro in base a quali elementi siano proposte le cronologie; si ricordi d’altra parte l’intasamento della piazza del foro “esterno” da parte di casette medievali) (Fig. 4). In ogni caso, come la stessa Pejrani scrive25, si può dedurre che l’area della chiesa nei primi secoli dell’impero fosse interessata almeno in parte da edilizia pubblica. Di qui l’ipotesi – che avanzerei con molta circospezione – di un’organizzazione del comparto forense con una bipartizione e rotazione di 90 gradi del settore civile, ad occupare appunto l’area successivamente destinata alla cattedrale (Fig. 5). Una sistemazione siffatta avrebbe un suggestivo parallelo a Glanum26, l’oppidum dei Salii profondamente ellenizzato, organizzato lungo una importante via territoriale, che in epoca augustea, per iniziativa di Agrippa, riceve una importante monumentalizzazione in senso urbano. Sottolineo la paternità dell’iniziativa: quello stesso Agrippa che a Segusium quasi negli stessi anni riceve una dedica dai figli di Cozio. E, come a Glanum, a Segusium, lungo la via di riferimento dell’intero impianto urbano, trova   Crosetto, Donzelli, Wataghin 1981, pp. 397 e 405.   Rilievo di Cesare Bertea del 1900, ASAP, Disegni, inv. 13248; cfr. Mercando 1993, pp. 45-47. Dagli appunti in margine al disegno non si ricavano elementi utili a datare le fasi costruttive. 25   Pejrani Baricco 2002, p. 40. 26   Roth Congès 1992; Agusta-Boularot et alii 2004; Heyn 2006; Gros 2008, pp. 33-35. 23 24

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Fig. 4. Il rilievo del 1900 del Bertea relativo alla piazza della Cattedrale (da Barello 2015, p. 168, fig. 5).

posto un edificio celebrativo di un personaggio di spicco dell’élite urbana (qui l’heroon di Cozio27, là il mausoleo dei Giulii)28; un arco, inoltre, nei due centri29 segna il discrimine tra la sfera dell’urbanitas e quella della feritas (là più che qui carico di immagini propagandistiche della nuova civiltà; si può forse interpretare il monumento segusino quasi come un elemento di mediazione tra la concezione cisalpina di questo tipo onorario, “tettonica” si potrebbe definire con Saletti, e quella narbonese, “di supporto” per un discorso per immagini)30 e offre un contributo decisivo alla chiara percezione dell’ambiente costruito rispetto a quello naturale (come è stato autorevolmente scritto da Sandro De Maria, al pari di altri monumenti della Narbonensis, l’arco di Susa è «suggello di assoggettamento tanto quanto sanzione o auspicio di un’integrazione a più direzioni, politica, amministrativa, religiosa, culturale»)31. Se ci si sposta a Emporiae, in Hispania Tarraconensis, il foro riceve un’organica sistemazione bipartita in età augustea (Agrippa patrono), quando perde le sue funzioni di centro di stoccaggio del grano prodotto nel territorio per divenire il vero centro politico monumentale della città32. La piazza risulta bordata a sud e ovest da una serie di tabernae con portico, basilica e curia a est; un’area sacra con tempio centrale è inquadrata scenograficamente da un portico a U con sottostante criptoportico.   Brecciaroli Taborelli 1994.   Rolland 1969. 29   In generale si veda Scagliarini Corlàita 1979, pp. 64-65. Per l’arco di Susa: De Maria 1988, pp. 100-101, 329-330. Per l’arco di Glanum: Rolland 1977. 30   Saletti 1974 e 1980. In generale, si veda Mansuelli 1979. 31   De Maria 1988, p. 101. 32   Gros, Torelli 20073, pp. 299-303; Mar, Ruiz de Arbulo s.d., pp. 208-212. 27 28

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Fig. 5. Il foro di Susa, ipotesi Maggi.

Si tratta in fondo della formula (ortodossa?) che si trova in molti centri cisalpini, dove semplicemente si applica prima. E con Augusto essa si diffonde capillarmente, come attestano i nuovi dati per Aquae Statiellae, Alba Pompeia33 e la già citata Segusium. Lo stesso discorso si può proporre per un’altra soluzione architettonico-urbanistica applicata in alcuni centri della Cisalpina e dell’Occidente provinciale. Penso all’uso del teatro come elemento connettivo delle parti di una città e della città tutta con il paesaggio naturale, recupero della pratica ellenistica d’impiego di questa tipologia come “cerniera dinamica” – secondo la felice espressione di Guido A. Mansuelli – a Pergamo, Assos, etc., e poi nei grandi santuari del Lazio e dell’Italia centrale della tarda repubblica. Penso a Verona, a Brescia, ma anche a Trieste; penso a centri “minori” come Civitas Camunnorum, o a casi ancora poco noti e documentati, come Ivrea, cui si possono accostare gli esempi di Arausio e Tarraco (per certi versi anche quello di Arelate). E ancora una volta si deve rilevare come si tratti di casi (anche quelli “minori”) nei quali l’interesse del potere centrale fosse assai vivo, per cui si può pensare a interventi diretti nelle linee di impostazione generale (se non nell’esecuzione), pur nella logica attenzione ai fattori geomorfologici, a quelli itinerari, etc.; sicché le soluzioni finali non sono mai uguali le une alle altre, ma risultano appunto “variazioni sul tema”.   Alla luce della nuova ipotesi che vedrebbe la basilica sotto l’attuale duomo, il foro sarebbe confrontabile con quello di Augusta Bagiennorum. Per Alba si veda Preacco 2013; per Bene Vagienna Maggi 2014. 33

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SPAZI PUBBLICI A ERCOLANO: IL PROBLEMA DEL FORO

Mario Pagano

Nonostante i numerosi studi recenti, le lunghe e tormentate esplorazioni per cunicoli di epoca borbonica e lo scavo a cielo aperto di vasti settori delle aree pubbliche ad Ercolano, il problema dell’articolazione del foro della città vesuviana è ancora oggetto di discussione, e di importanti riflessioni. Il presente intervento intende non solo illustrare i dati finora a disposizione, alcuni di recente acquisizione, ma anche proporre una nuova, ragionevole ricostruzione dell’ubicazione della piazza pubblica della città, ancora non scavata a cielo aperto, delle sue dimensioni e della sua articolazione. Gli scavi condotti in più punti dell’area finora scavata a cielo aperto di Ercolano (che rappresenta circa 1/3 di quella racchiusa dalle mura dell’antica città, quest’ultima calcolabile in 24 ettari) hanno permesso di dimostrare che, se anche un nucleo più antico dovette esistere, l’impianto urbano della città e l’asse mediano (decumano massimo) della stessa fu pianificato solo nel corso del IV secolo a.C.1. Alla stessa epoca risale l’originario circuito murario in opera quadrata di tufo locale, del quale conosciamo solo un piccolo tratto presso la scaletta di discesa al sacello della casa di Aristide, e inoltre i blocchi in crollo affiorati in occasione del distacco del mosaico del grande triclinio della casa dell’Albergo. Dell’esistenza del foro della città parla il decreto in onore di M. Nonio Balbo inciso sull’ara marmorea al centro della palestra che precede l’ingresso delle Terme suburbane, dove è votata, tra gli altri onori, una statua equestre in onore del senatore di età augustea, di origine nucerina ma residente ad Ercolano, pretore e governatore e riordinatore delle province di Creta e Cirene, da porre nel celeber locus. Inoltre, l’iscrizione, da me e dall’arch. Alfredo Balasco recentemente ricomposta, e studiata da ultimo da G. Camodeca2, databile ai primi anni 70 d.C., dell’architrave del tempio accostato a quello forse di Venere Ericina, poi dedicato anch’esso a Venere, come testimonia la stessa epigrafe, parla dell’erogazione di una somma cospicua per il rifacimento del Capitolium, qui documentato per la prima volta, evidentemente fortemente danneggiato dal terremoto del 62 d.C., e per di più del dono alla città di 54.000 sesterzi, ad opera degli stessi finanziatori della ricostruzione del pronao del tem  Pagano 1990 e 1992b; Formola 2013.   Guidobaldi 2008, pp. 58-61.

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Mario Pagano

Fig. 1. Pianta della città antica di Ercolano (M. Pagano, U. Pastore).

pio di Venere, Vibidia Saturnina e A. Furius Saturninus, i quali ricevettero come onore dai decurioni cittadini il flaminato e gli ornamenti decurionali per quest’ultimo. Durante gli scavi settecenteschi, condotti per cunicoli, il foro fu identificato con la monumentale piazza porticata della “basilica”3 (Figg. 1, 2, 3), racchiusa da un porticato e conclusa sul fondo da un piccolo sacello, un Augusteum assai simile a quello così identificato a lato del macellum di Saepinum4, sulla cui banchina di fondo erano collocate al centro la statua loricata dell’imperatore regnante al momento dell’eruzione, Tito, e ai lati le due statue sedute, purtroppo acefale, di Augusto e Claudio o Vespasiano. Nelle nicchie laterali a lato del sacello, si trovarono le statue di bronzo di Augusto e di Claudio. Sul lato opposto, mascherati anche qui da un portico che si accostava, correggendone l’orientamento, a un più antico porticato, si trovavano un altro piccolo ma elegante sacello e la sede degli Augustali. Nelle nicchie laterali era collocato l’intero ciclo di statue della famiglia imperiale di età claudia, successivamente aggiornato con la dinastia flavia. Possiamo stabilire con precisione la data della realizzazione del primo ciclo di statue della famiglia imperiale voluto e innalzato dal liberto L. Mammius Maximus, evidentemente da correlare al console suffetto dello stesso 49 d.C. L. Mammius Pollio. Agrippina, infatti, sposata da Claudio all’inizio del 49   Pagano 1996 e 2000.   De Maria 2015, pp. 98-101.

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Fig. 2. Pianta del settore scavato a cielo aperto della piazza porticata detta “basilica”.

d.C. ricevette l’appellativo di Augusta, qui mancante, nel 50 d.C.5. La statua di Nerone fu eretta dopo la sia adozione da parte di Claudio, avvenuta il 25 febbraio dello stesso anno 50. Il ciclo fu poi, come si è detto, aggiornato con le statue della famiglia imperiale flavia. Oltre a quella, loricata, di Tito, posta al centro del sacello di fondo poco prima dell’eruzione (Tito divenne imperatore il 24 giugno del 79, mentre l’eruzione va definitivamente datata al 24 settembre o ottobre dello stesso anno), non doveva mancare l’immagine di Vespasiano (forse la testa bronzea rinvenuta lungo il III cardine e pubblicata da de Franciscis) e quella di Domiziano. Sono documentate sicuramente dalle iscrizioni quelle di Flavia Domitilla, di Giulia, figlia di Tito, e di Domizia, moglie di Domiziano. Acquisita dunque la datazione della piazza, che certamente, come ha sottolineato da ultimo di recente Mario Torelli, si ispirava al modello dei fori imperiali, in particolare a quello di Augusto, va detto che essa costituiva un ampliamento monumentale, vista la profusione dei marmi pregiati, di uno spiazzo pubblico originario, certo complementare al contiguo foro, e situato lungo il già ampio decumano massimo, che qui già in età augustea era stato allargato per collocare le tre statue equestri di M. Nonius 5

  Pagano 1996; Camodeca 2008, pp. 167-181.

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Mario Pagano

Fig. 3. Assonometria del settore scavato a cielo aperto della piazza porticata detta “basilica”.

Balbus (due di marmo, conservate, e una di bronzo frammentaria), che infatti seguono l’andamento del portico meridionale e non delle nuova, estesa piazza di età claudia (Fig. 2). Occorre sottolineare che la realizzazione di quest’ultima appare strettamente collegata al matrimonio fra Agrippina Minore, della cui cerchia L. Mammius Maximus evidentemente faceva parte, e Claudio, avvenuto proprio nel 49 d.C. Possiamo dunque concludere, sulla base della preesistenza delle tre basi di statue equestri dedicate a M. Nonius Balbus, che l’area dell’Augusteum, realizzata fra la basilica e la parte del decumano massimo, probabilmente originariamente riservata a foro commerciale, e non a caso realizzata di fronte alla sede degli Augustali, chiusa a sud-ovest dall’ingresso della basilica civile noniana, fu costruita, sul modello del foro di Augusto, in età claudia, ritagliando un ampio settore dell’antica agorà, che probabilmente doveva essere assai estesa, sul modello delle grandi agorai magno-greche delle vicine Napoli, Cuma e Paestum (quest’ultima era talmente estesa che vi fu innalzato anche l’anfiteatro di età augustea). A questo punto dobbiamo affrontare il problema della localizzazione e dell’estensione della vera e propria piazza forense che, per la mancanza del capitolium e del macellum, costruito in età augustea ma rifatto dallo stesso L. Mammius Maximus in età claudia come testimoniano due iscrizioni6, non può essere quella ora esaminata. Risulta ormai acquisito che l’edificio di età augustea posto dall’altro lato dell’estremità nord del III cardine è la basilica civile (Figg. 4, 5) che, in una tavoletta cerata del 15 luglio del 61 d.C. viene definita come Noniana e dalla quale proviene il ciclo dei ritratti togati di M. Nonius Balbus e della sua famiglia.   Pagano 1984.

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Spazi pubblici a Ercolano: il problema del foro

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Fig. 4. Pianta della basilica Noniana di Ercolano, di età augustea.

L’identificazione, già certa sulla base dei dati dei documenti di scavo settecenteschi, è stata di recente ulteriormente confermata dalla scoperta, all’interno di essa, di un nuovo frammento epigrafico relativo alla serie dei personaggi della famiglia di M. Nonius Balbus7. Non sappiamo se nel vasto ambiente absidato di fondo, munito di tre basi per statue, possa essere identificata la curia, trovandosi dal lato opposto un grande podio all’interno tra le due porte frontali d’ingresso (altri tre minori accessi sono dal lato lungo, sul III cardine). Nel calcidico d’ingresso erano esposti gli albi marmorei con elenchi di nomi, successivamente aggiornati, forse quelli di tutti i cittadini di Ercolano8. Lo spazio disponibile per la piazza del foro, se poniamo, come credo certo, il suo ingresso all’altezza della basilica e del suo arco quadrifronte d’accesso (Figg. 1, 2), è di circa 450 x 200 m, ma, se sottraiamo da queste misure quelle degli edifici che vi dovevano prospettare, e in particolare il capitolium, ora documentato dall’iscrizione del tempio di Venere, possiamo pensare ragionevolmente ad uno spazio della piazza di 360 x 180 m (circa 1200 x 600 piedi oschi o romani): circa il doppio, dunque, di quella del foro di Pompei, e che avvicina per dimensioni il foro di Ercolano (circa 7,5 ettari) alle grandi agorai magno-greche (Poseidonia, circa 10 ettari, Napoli, Heraclea). Il limite massimo ad ovest è costituito da un grande ambiente voltato in reticolato, largo 7 m, da me rilevato e accessibile dai cunicoli del teatro, posto sull’asse del decumano massimo, e che potrebbe ben essere la sostruzione di un tempio, forse lo stesso capitolium, anche per le monumentali dimensioni e per la datazione delle strutture, in opera reticolata regolare di tufo, ad età augustea9 (Fig. 6, P-Q). A nord di esso corre una strada, larga ben 10 m, colonnata dal lato del teatro, come mostrano le basi di colonna ancora in sito e alcuni tronchi caduti.   Guidobaldi 2008, pp. 46-53.   Pagano 1992a; Guidobaldi 2008, pp. 86-98. 9   Pagano 1993. 7 8

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Fig. 5. Alzato della basilica Noniana di Ercolano, di età augustea.

La posizione fortemente decentrata verso ovest, al margine del pianoro, fa ritenere che il principale approdo della città fosse posto alla base del promontorio, dal lato della villa dei Papiri, e che si fosse tenuto conto del maggior traffico commerciale che proveniva evidentemente da Neapolis e Nola piuttosto che da Pompei (le due importanti strade dirette verso queste due città entravano a Ercolano proprio in questo punto), confermando il ruolo di Ercolano come porto integrato nel sistema portuale del golfo di Napoli, e che si tratta di una visione urbanistica fortemente pragmatica. Il foro era dunque direttamente accessibile dal vallone che conduceva al porto e che, da nord, si raccordava all’importante asse viario che da Napoli si dirigeva verso Pompei, finora documentato solo dagli scavi settecenteschi e dal ritrovamento, a est della città, di un mausoleo. Una situazione topografica molto simile a quella della vicina Surrentum. Degli altri edifici che dovevano affacciarsi sul foro conosciamo dalle iscrizioni l’esistenza di un macellum, realizzato in età augustea dal duoviro M. Spurius Rufus e rifatto in età claudia da L. Mammius Maximus e una mensa ponderaria, una schola e un horologium realizzati, sempre in età augustea, dal duoviro quinquennale M. Remmius Rufus. In quest’area fu rinvenuta nel Seicento, ancora affissa ad una parete, la tavola di bronzo contenente il testo del senato-consulto Hosidiano, riguardante, potremmo dire, la speculazione edilizia. Dunque, il foro di Ercolano conobbe certamente una notevole monumentalizzazione in età augustea e, forse, in una certa misura, anche a partire dall’età sillana e cesariana, cui non furono certo estranei, a mio parere, oltre a personaggi del calibro di M. Nonius Balbus, Ap. Claudius Pulcher, console nel 38 a.C. e che realizzò la decorazione della scena del teatro di Ercolano, dove era onorato con un bisellio, e M. Aemilius Lepidus, console nell’11 d.C., Q. Iunius Blaesus, console nel 10 d.C., del quale si conoscono molti liberti (tutti proprietari di importanti ville nel territorio ercolanese) e il ricchissimo costruttore e proprietario della villa dei Papiri.

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Fig. 6. Pianta delle grandi costruzioni voltate in reticolato accessibili attraverso cunicoli dal teatro di Ercolano (P, Q).

Quest’ultimo propongo di identificare10 con C. Memmius L. f., ricchissimo marito della figlia di Silla Cornelia Fausta, propretore in Bitinia e candidato al consolato del 54 a.C. e condannato all’esilio in Oriente, a Mitilene, Atene ed Efeso, morto nel 49 a.C., autore di poemi erotici e patrono e dedicatario del poema di Lucrezio e di Catullo. Fu così fervente epicureo da farsi assegnare con un decreto dell’Areopago, per farla restaurare sontuosamente, la casa di Epicuro ad Atene, dove lavoravano a tempo pieno bravissimi scultori, dei quali uno richiesto da Cicerone. Così trovano spiegazione non solo il ricchissimo corredo scultoreo perfettamente databile all’epoca in cui visse la famiglia dei Memmii, ma anche la presenza di una vera galleria di ritratti di sovrani ellenistici ben giustificabile con un personaggio imparentato con Silla e così influente e presente a lungo in Oriente. Inoltre si giustifica così la presenza di papiri epicurei molto antichi. Il raro gentilizio Memmius è attestato ad Ercolano da due iscrizioni, mentre diffusissimi, come si è visto, sono i L. Mammii ercolanesi. L’ipotesi, oltre che dalla presenza della biblioteca epicurea con testi anche antichi, è rafforzata dal fatto che, in uno degli ambienti oltre il peristilio rettangolare campeggiava la statua di un fanciullo nudo in atto di declamare (Fig. 7), evidentemente il ritratto dell’unico figlio   Pagano 2007.

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Mario Pagano

Fig. 7. Statua marmorea di fanciullo in atto di declamare, il figlio di C. Memmius morto giovinetto e del quale conosciamo il sepolcro sulla via dei Cureti ad Efeso, dalla villa dei Papiri di Ercolano.

di C. Memmius, morto in assai giovane età ma che adulescentulus comparve al processo del fratellastro della madre M. Aemilius Scaurus nel 54 a.C., come ci informa Asconio Pediano, e in onore del quale fu realizzato ad Efeso un grandioso monumento sulla via dei Cureti. Il territorio di Ercolano, infatti, fu certamente oggetto, dopo la guerra sociale che comportò la presa della città da parte di Silla, di estese confische, il che spiega la possibilità di edificare una lussuosissima villa suburbana da parte di un personaggio strettamente legato al dittatore. La lunga presenza di C. Memmius in Grecia e in Oriente e il suo amore per l’arte e la scultura greca giustificano la presenza di un’estesa galleria di ritratti di dinasti ellenistici e di filosofi greci. Filodemo, prima di entrare nella clientela di L. Calpurnius Piso Caesoninus, poté far parte, prima del 54 a.C., della cerchia del ricco e potente filelleno C. Memmius. Un erede del genero di Silla dovette essere l’omonimo console suffetto del 34 a.C., mentre non conosciamo il nome del padrone della villa al momento dell’eruzione. Non possiamo non concludere queste note, che restituiscono l’aspetto generale e una prima ricostruzione dell’area forense di Ercolano, con la speranza che almeno la parte più cospicua del foro di Ercolano possa essere, magari nell’ambito dello stesso Herculaneum Conservation Project finanziato dalla Fondazione Packard, presto messo alla luce ed esplorato. A differenza di quello di Pompei, rimasto affiorante subito dopo l’eruzione e, come il teatro, sistematicamente spogliato, esso fu solo in parte raggiunto dalle esplorazioni settecentesche, e da esso sono da aspettarsi sorprendenti ritrovamenti, come il tabularium della città. Già si è ottenuto, grazie alla tenacia dello scrivente, di poter acquisire la vasta area sovrastante alla basilica, demolendo i residui ruderi dei fabbricati che vi insistevano, fino a via Mare. Potrebbe essere anche tecnicamente possibile e attuabile uno scavo in sotterraneo, senza ulteriori demolizioni o espropri, vista la notevole profondità delle strutture romane.

Spazi pubblici a Ercolano: il problema del foro

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Bibliografia Camodeca 2008 = G. Camodeca, I ceti dirigenti di rango senatorio, equestre e decurionale della Campania romana, I, Napoli 2008. De Maria 2015 = S. De Maria (a c.), L’Augusteum di Fanum Fortunae. Un edificio del culto imperiale nella Fano d’età romana, Cinisello Balsamo 2015. Formola 2013 = S. Formola, Ercolano prima della municipalizzazione. Geomorfologia, urbanistica e scavi stratigrafici, in «Vesuviana. An International Journal of Studies on Pompeii and Herculaneum» 5, 2013, pp. 29-90. Guidobaldi 2008 = M.P. Guidobaldi (a c.), Ercolano. Tre secoli di scoperte, Milano 2008. Pagano 1984 = M. Pagano, Note sui macella del mondo romano, in «Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli» n.s. 59, 1984, pp. 111-121. Pagano 1990 = M. Pagano, Ercolano. Saggi all’interno dell’area urbana, in «Bollettino di Archeologia» I, 3, 1990, pp. 125-128. Pagano 1992a = M. Pagano, Nuovi frammenti di albi da Ercolano, in «Cronache Ercolanesi» 22, 1992, pp. 189-195. Pagano 1992b = M. Pagano, Ricerche sull’impianto urbano di Ercolano, in L. Franchi Dell’Orto (a c.), Ercolano 1738-1988. 250 anni di ricerca archeologica, Atti del Convegno Internazionale 1988, Roma 1992, pp. 595-608. Pagano 1993 = M. Pagano, Il teatro di Ercolano, in «Cronache Ercolanesi» 23, 1993, pp. 121-156. Pagano 1996 = M. Pagano, La nuova pianta della città e di alcuni edifici pubblici di Ercolano, in «Cronache Ercolanesi» 26, 1996, pp. 229-262. Pagano 2000 = M. Pagano, Il teatro di Ercolano, Napoli 2000. Pagano 2007 = M. Pagano, Le ville marittime romane e il castello di Torre del Greco, in G. Troina (a c.), Torre del Greco. Il porto del Corallo, Torre del Greco 2007, pp. 68-99.

LES FORA EN GAULE DU NORD ENTRE LE MILIEU DU IIIe SIÈCLE ET LE Ve SIÈCLE : UN ÉTAT DES LIEUX

Blaise Pichon

Introduction Emblématiques de la vie civique qui se développe en Gaule du Nord, les fora appartiennent à la panoplie monumentale classique des chefs-lieux de cité du monde romain. Or, lorsqu’ils sont archéologiquement connus, ces complexes monumentaux font bien triste figure dans le dernier siècle de l’Empire, même si le Panégyriste de Constantin s’écrie, en 310, à propos de Trèves : « j’y vois un grand cirque qui me paraît rivaliser avec celui de Rome, j’y vois des basiliques, un forum, œuvres vraiment royales »1. La période qui s’étend de la fin du IIIe siècle au début du Ve siècle est également marquée, comme dans le reste de l’Empire, par une réorganisation des provinces, qui s’accompagne d’une redéfinition des cités et de leurs chefs-lieux dans certains cas2. Dans les quatre provinces de l’Antiquité tardive de Belgique Première, Belgique Seconde, Lyonnaise Seconde et Sénonaise que je vais étudier ici, on compte 25 cités au Haut Empire et 28 au début du Ve siècle, du fait de la partition de 5 cités3 et de la fusion de 2 cités avec une autre cité4 (Carte 1). Par ailleurs, trois cités, toutes en Belgique Seconde, ont connu un changement de chef-lieu5. Même pour le Haut Empire, nous ne disposons pas d’une bonne connaissance des centres civiques de ces cités : un forum connu pour 3 cités en Belgique Première6, 3 pour 10 cités en Belgique Seconde7, 3 pour 9 cités en Lyonnaise Seconde8, 3 pour 5 cités en Sénonaise9 (Carte 2). Dans certains cas, comme   Pan. Lat. VII, 22, 5 : « Video circum maximum aemulum credo Romano video basilicas et forum opera regia ».   Sur cette question : Beaujard, Prévot 2004. 3   Cités des Sénons, des Carnutes, des Médiomatriques, des Rèmes et des Morins. 4   Fusion de la cité des Calètes avec celle des Véliocasses et de la cité des Viducasses avec celle des Baiocasses. 5   Cités des Ménapiens, des Nerviens et des Viromanduens. 6  Trèves. 7   Amiens, Bavay et Reims. 8   Avranches, Bayeux et Vieux. 9   Chartres, Paris et Sens. 1 2

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Blaise Pichon

Carte 1. Les chefs-lieux de cité de Gaule du Nord (IIIe - Ve s.).

à Chartres, seule une petite partie du complexe monumental a fait l’objet de fouilles ; dans d’autres cas,  les données archéologiques ont été collectées anciennement. Seuls les fora de Bavay, Bayeux et Vieux ont fait l’objet de fouilles programmées récentes. Les sources épigraphiques et littéraires sont pauvres  : le forum de Trèves est brièvement mentionné par l’auteur du Panégyrique de Constantin de 31010  ; les centres civiques d’Amiens11, Bavay12, Lillebonne13, Reims14, Senlis15, Vieux16 ont livré quelques inscriptions publiques. Les sources disponibles pour l’Antiquité tardive sont encore plus ténues. Seules les fouilles récentes permettent de bien appréhender les phases d’abandon des fora, lorsque les niveaux correspondants n’ont pas été détruits. Certains éléments peuvent cependant éclairer le destin de fora archéologiquement mal documentés, en particulier les spolia qui en proviennent. Etant donné l’état des sources disponibles, mon propos s’appuiera essentiellement sur 3 fora de Belgique Seconde (Amiens, Bavay et Reims), un forum de Lyonnaise Seconde (Vieux) et un forum de Sénonaise (Paris).   Pan. Lat. VII, 22, 5.   Un fragment d’inscription sur plaque de bronze, découvert en 1884 et détruit avant d’avoir été lu : Pichon 2009, p. 94. 12   CIL, XIII, 3570-3571. 13   AE 2011, 765. 14   CIL, XIII, 3254 + AE 1979, 411 = AE 1982, 715. 15   ILTG, 357. 16   CIL, XIII, 3162. 10 11

Les fora en Gaule du nord entre le milieu du III e siècle et le V e siècle

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Carte 2. Etat des connaissances sur les fora des chefs-lieux de cité de Gaule du Nord (IIIe - Ve s.).

J’orienterai ma réflexion vers l’étude des fonctions présentes sur les fora après le milieu du IIIe siècle et la question du maintien ou non d’activités civiques ou publiques dans l’espace des fora. 1. Des fora à leur apogée monumental au début du IIIe siècle Au cours du Haut Empire, la parure monumentale des fora est mise en place, puis progressivement complétée, selon des temporalités différentes dans les différents chefs-lieux de cité. Les grands chefs-lieux de cité, et a fortiori les capitales de province, se dotent plus tôt d’un forum que certains chefs-lieux plus modestes. Malheureusement, le forum de Reims, seule capitale de province du Haut Empire se trouvant dans l’espace étudié, a uniquement fait l’objet de fouilles anciennes et partielles qui concernent les états postérieurs au début du IIe siècle. Amiens fait partie des grands chefs-lieux, avec une urbanisation qui atteint 200 ha au début du IIIe siècle. Bavay et Vieux entrent dans la catégorie des petits chefs-lieux de cité. Partout, la mise en place du complexe du forum intervient vraisemblablement entre le milieu du Ier siècle et le début du IIe siècle, et le complexe subit, probablement dans chaque cas, au moins une reconstruction avant le début du IIIe siècle (Tab. 1). L’emprise au sol des fora est importante à Amiens, à Bavay et à Reims, alors que ces trois villes sont de taille très différente (Tab. 2). La taille des fora n’est donc pas forcément proportionnelle à celle des villes à la fin du IIe siècle, et ne reflète sans doute pas l’importance desdites villes au moment de la définition de l’emprise des complexes, comme le montre aisément la comparaison de Reims, capitale et ville majeure de la pro-

188

forum

Blaise Pichon

phase

nature des travaux

chronologie de la mise en place

Création du forum dans la totalité de son emprise

Fin du règne de Claude / début de celui de Néron

II

Démolition de l’état I, puis reconstruction : - monumentalisation de l’entrée sur le cardo 5 - portique dallé orné de marbre et de décors sculptés - création du macellum

Néron ou Vespasien

III

Après l’incendie de l’état II, reconstruction : Entre 80 et le début du IIe siècle - renforcement de la monumentalité de l’entrée sur le cardo 5 - agrandissement du portique Est - pas de reconstruction du macellum

IV

Après l’incendie de l’état III, reconstruction à l’iden- Milieu du IIe siècle tique

I

Création du forum dans la totalité de son emprise

II

Destruction de la basilique par un incendie, puis re- Milieu du IIe siècle ? construction avortée de la basilique

III

Destruction par incendie des structures subsistantes Fin IIe siècle – début IIIe siècle de l’état I, puis reconstruction : - reconstruction de la basilique, inachevée - démolition du temple de l’esplanade, remplacé par un dallage

I

Création du forum

Fin du 2e tiers du Ier siècle

II ?

Embellissement du complexe ?

IIe siècle ?

I

Création du forum

Début du IIe siècle

II

Reconstruction de la curie Démantèlement du temple de l’esplanade

Fin du IIe siècle – Début du IIIe siècle

Amiens1 I

Bavay

Paris2 Vieux3

Du milieu à la fin du Ier siècle

  Seule l’évolution de l’extrémité est du forum est connue avec précision.   Les états ultérieurs, hypothétiques, ne sont pas caractérisés : Busson 1998, p. 112. 3   Seule l’évolution de la partie centrale du forum est connue avec précision : Jardel, Lelièvre, Mazure 2014. 1 2

Tableau 1. Les fora d’Amiens, Bavay, Paris et Vieux jusqu’au début du IIIe siècle.

vince, et d’Amiens. Quant au forum de Bavay, que sa taille classe parmi les petits chefs-lieux de cité, il est disproportionné17. Les choix qui ont présidé à la définition du cœur monumental de la cité nous échappent. Ces quatre fora appartiennent au type du forum tripartite, mais ne s’organisent pas de manière identique : si la basilique se trouve à une extrémité à Bavay et Reims, elle devait se trouver en position centrale à Amiens18 et peut-être à Vieux19. À Amiens, Bavay, Paris et Vieux, l’ensemble des composants monumentaux du forum est en place au plus tard au début du IIe siècle, puis fait l’objet d’au moins un programme de reconstruction.   De manière générale, la taille des fora de Gaule du Nord est très importante par rapport à celle des fora du reste des Gaules. L’explication avancée par C. Coquelet à propos de l’étendue du forum d’Amiens (son association avec l’amphithéâtre) est peu probable, l’amphithéâtre étant très probablement postérieur au forum (Coquelet 2011, p. 142). 18   La partie centrale du forum demeure très mal connue. 19   Jardel, Lelièvre, Mazure 2014. 17

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Les fora en Gaule du nord entre le milieu du III e siècle et le V e siècle

taille de la ville à son apogée

taille du forum

ratio

Amiens

200 ha

3,75 ha1

0,018

Bavay

40 ha

2,5 ha

0,062

Paris

100 ha

1 ha

0,010

Reims3

400 ha

3 ha4

0,007

Vieux

35 ha

0,5 ha

0,014

2

  300 m sur 125 m.   232 m sur 110 m. Pour ce qui concerne le forum de Bavay : Delmaire 2011, pp. 97-149. 3  L’ensemble de la surface comprise dans l’enceinte du Haut Empire n’était probablement pas bâtie, mais les opérations archéologiques menées ces dernières années ont montré la présence fréquente de quartiers bâtis à proximité de l’enceinte, ce qui permet de mettre en évidence des espaces bâtis se développant sur au moins 400 ha : Rollet et alii 2011. 4   250 m sur 125 m. Pour ce qui concerne le forum de Reims : Chossenot, Estéban, Neiss 2010, pp. 152-163. 1 2

Tableau 2. Superficie des villes et des fora à Amiens, Bavay, Paris, Reims et Vieux au IIe siècle.

Cependant, à Bavay, les reconstructions paraissent marquer le pas dans le courant du IIe siècle : la reconstruction de la basilique détruite par un incendie n’est pas terminée lorsqu’est lancé un programme de reconstruction intégrale du forum à la fin du IIe siècle20. A Amiens, nous connaissons la majeure partie du forum à travers le prisme de fouilles anciennes mais les fouilles de sauvetage menées entre 1973 et 1980 dans l’angle nord-est du forum ont fourni de précieuses informations sur la chronologie des portiques périphériques et de l’esplanade orientale21 (Fig. 1). Lors des reconstructions successives intervenues aux Ier et IIe siècles, la qualité des constructions a été progressivement enrichie, sans que l’on dispose d’informations à propos du financement de ces travaux22. Sur les fora de Bavay, Amiens, Paris et Vieux, les vestiges d’un temple ont été mis au jour. Dans tous les cas, l’arasement des structures et l’absence d’inscriptions ne permettent pas de préciser le ou les titulaires du culte, mais il est évident qu’il s’agit là de temples poliades et liés au culte impérial. Toutefois, à Bavay, et probablement à Vieux23, le temple poliade est intégralement démonté à la fin du IIe siècle ou au début du IIIe siècle. Cela signifie-t-il simplement un déplacement de ce sanctuaire, qui migrerait vers l’extrémité ouest du forum à Bavay et vers le probable sanctuaire mis en évidence au sud du forum à Vieux, ou un démantèlement du principal sanctuaire civique du chef-lieu  ? En l’état actuel des données archéologiques, seules des hypothèses sont possibles, et les données disponibles pour Amiens ou Paris sont malheureusement lacunaires sur ce point. S’il s’agissait bien d’un démantèlement sans transfert, cela serait un signe encore plus manifeste de la remise en question de la religion civique observée récemment par William Van Andringa, qui a mis en évidence le démantèlement de nombreux sanctuaires civiques « de périphérie » au cours du IIIe siècle24. L’étude des temples poliades des fora à partir du IIIe siècle méritera d’être reprise à plus large échelle.  Le terminus post quem de cette reconstruction est donné par une monnaie de Commode frappée en 192 : Delmaire 2011, pp. 136-138. 21   Pichon 2009, pp. 111-121. 22   Les seules inscriptions en lien avec la vie civique de la cité des Ambiens proviennent de grands sanctuaires publics situés dans des agglomérations secondaires, à Ribemont-sur-Ancre et Eu « Bois-l’Abbé ». L’absence d’indication sur le financement de la construction et des réfections des fora n’est pas étonnante, puisque nous n’avons jamais ce type d’information pour les cités du nord-ouest de l’Empire. 23   Le probable temple de l’esplanade ouest du forum a fait l’objet de sondages limités : Jardel, Lelièvre, Mazure 2014. 24   Van Andringa 2014. 20

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Fig. 1. Evolution du forum d’Amiens au Haut Empire.

Les fora en Gaule du nord entre le milieu du III e siècle et le V e siècle

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Nous ignorons à peu près tout des bases, statues et inscriptions qui devaient se trouver sur ces fora. Reims, comme Sens et Trèves, possédait un cénotaphe dédié aux Princes de la Jeunesse25, édifié peu après 4 ap. J.-C., dont les fragments n’ont pas été trouvés en place. Bavay a livré davantage d’inscriptions, dont quatre peuvent être rattachées au forum 26: une inscription commémorant le passage de Tibère en 4 ap. J.-C.27, une dédicace à Sévère Alexandre28, un autel dédié au génie de la cité des Nerviens29 et une inscription commémorant une évergésie30. Les fouilles ont aussi livré deux bases qui auraient pu supporter des statues. Quant aux lieux de réunion des curies et aux bureaux liés à l’administration de la cité, nous pouvons les appréhender à Vieux et dans une moindre mesure à Bavay, mais pas sur les autres fora. A Vieux, la curie a été clairement identifiée et la salle SII lui est étroitement associée (Fig. 2). A Bavay, la basilique de l’état I possède deux salles s’ouvrant vers l’intérieur du bâtiment, de part et d’autre d’une exèdre, dont la fonction est probablement liée aux institutions civiques (Fig. 3). Au début du IIIe siècle, les fora archéologiquement connus apparaissent donc comme les lieux où s’exprime la munificence de la cité ; dans les cas de Bavay et Vieux, le forum concentre la majeure partie des documents épigraphiques connus liés à la vie de la cité. 2.  Des centres civiques progressivement abandonnés ou transformés à partir du IIIe siècle Il faut différencier ici les cas des chefs-lieux maintenus, des chefs-lieux déclassés et des chefs-lieux promus lors des réorganisations des provinces de l’Empire31, à la fin du IIIe siècle et au IVe siècle (Carte 1). Aucun forum n’est connu dans les chefs-lieux promus32 (Boulogne-sur-Mer, Tournai, Cambrai, Vermand, Châlons-en-Champagne, Verdun, Auxerre, Orléans, Coutances). Il est vrai que les données archéologiques demeurent lacunaires pour tous ces sites. Cela dit, il semble que la vie civique n’impose plus alors la présence d’un forum, au moins au IVe siècle. À Bavay et Vieux, la perte du rang de chef-lieu de cité a des incidences importantes sur le complexe monumental du forum (Tab. 3). À Bavay, le forum est en cours de reconstruction depuis plusieurs décennies lorsqu’il est désaffecté, autour de 260/270. La basilique, inachevée, n’était plus fonctionnelle depuis le milieu du IIe siècle. Cette désaffection est liée à la déchéance de Bavay, qui perd sa fonction de chef-lieu de la cité des Nerviens33. Dès lors, le forum de Bavay ne répond plus à sa nécessité première. Cette désaffection se traduit   CIL, XIII, 3254 + AE 1979, 411 = AE 1982, 715 : Dis Manibus Sac[rum] | [C(ai) Cesaris Augusti fil(ius) diui] nepotis pontificis consuli[s im]peratoris | [L(uci) Caesaris Augusti fil(ius) diui nepo]tis principis iuuentutis co(n)s(ulis) design(ati) auguris | ciuitas [Remorum] : « Consacré aux dieux mânes de Caius César, fils d’Auguste, petit-fils du divin ( Jules), pontife, consul, imperator (et) de Lucius César, fils d’Auguste, petit-fils du divin ( Jules), prince de la jeunesse, consul désigné, augure. La cité des Rèmes ». 26   Aucune d’entre elles n’a été retrouvée en place. 27   CIL, XIII, 3570 : Ti(berio) Caesari Augusti f(ilio) | diui nepoti adventu(i) | eius sacrum | Cn(aeus) Licinius C(ai) f(ilius) Vol(tinia) Navos : « Consacré pour son arrivée à Tibère César, fils d’Auguste, petit-fils du divin ( Jules). Cnaeus Licinius Navos, fils de Caius, de la tribu Voltinia ». 28   CIL, XIII, 3571 : [Imp(eratori)] Caes(ari) | [M(arco) Aur(elio) Seve]ro Alexan|[dro Pio Fel]ici Aug(usto) | [civitas] Nervior(um) : « A l’empereur César Marc Aurèle Sévère Alexandre, pieux, heureux, auguste, la cité des Nerviens ». 29   AE 1969-1970, 410 : Genio civit|atis Nervi|orum A[… : « Au Génie de la cité des Nerviens, A(…) ». 30   ILTG, 362 : …]ni[…| … ho]norib(us) a[pud suos functus | exa]gium et pon[derarium | vi ignis] absumptum […] re[stituit] : « (…)ni(…) ayant exercé chez les siens tous les honneurs, a restauré (…) le poids étalon et le local des poids détruits par la violence de l’incendie ». 31   Comme l’a souligné Roland Delmaire, le transfert du chef-lieu est du ressort de la curie, et non du pouvoir impérial : Delmaire 2004. 32   On constate la même chose dans les autres chefs-lieux promus des Trois Gaules : Albi, Angoulême, Le Puy, Lescar, Oloron-Sainte-Marie en Aquitaine ; Alet en Lyonnaise. 33   La dernière attestation de Bavay en tant que chef-lieu de la cité des Nerviens est l’inscription en l’honneur d’Alexandre Sévère (CIL, XIII, 3571) ; la première attestation de Cambrai comme chef-lieu de la cité est la Notitia Galliarum (fin IVe / début Ve siècle). 25

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Blaise Pichon

Fig. 2. Etat B du forum de Vieux (d’après Jardel, Lelièvre, Mazure 2014).

Les fora en Gaule du nord entre le milieu du III e siècle et le V e siècle

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Fig. 3. Plan du forum de Bavay (état I, d’après Delmaire 2011).

par une privatisation, au moins partielle, du forum, qui est marquée par la mise en place de structures d’habitat dans certaines parties du complexe (Fig. 4). Elles sont matérialisées dans un premier temps par des fosses-silos implantées dans l’ancien cryptoportique34, puis par des habitats dans l’ancienne basilique et dans les anciennes boutiques. Les parties couvertes sont prioritairement investies par les nouvelles structures privées. Celles-ci présentent des caractéristiques communes : absence de fondation, réutilisation de murs ou sols antérieurs, utilisation fréquente de matériaux de remploi, plans irréguliers. Cependant, ce ne sont pas des structures dépourvues de confort, comme le montrent les 6 hypocaustes mis au jour dans ces habitats. Ce sont surtout les fouilles récentes qui ont permis d’étudier ces structures, souvent détruites sans relevé lors des fouilles antérieures aux années 1970. La place publique demeure libre de constructions durant cette phase et jusqu’à la fin du IVe siècle. C’est seulement durant l’ultime phase d’occupation du forum que des habitats sont installés dans cette zone. À la fin du IIIe ou au début du IVe siècle, le forum est transformé en castellum par l’édification d’une enceinte défensive réutilisant largement les murs extérieurs du complexe. Cette fortification est remaniée et doublée au milieu du IVe siècle. Une militarisation du site, à la fin du IVe siècle ou au début du Ve siècle, pourrait être matérialisée par un bâtiment sur sablières basses fouillé sur l’ancien tracé du cardo bordant le forum au sud, dont l’organisation d’ensemble rappelle les casernes fouillées à Arras et Boulogne-sur-Mer35. À Vieux, à partir du dernier tiers du IIIe siècle, les salles situées au nord de la curie, les seules pour lesquelles les niveaux de l’Antiquité tardive sont demeurés en place, abritent une importante activité de boucherie en gros. Celle ci est matérialisée par des dépotoirs d’ossements animaux (surtout des côtes et des vertèbres de bovins) et une vingtaine de crochets de bouchers. Aucun indice d’activité postérieur n’a été mis en évidence, hormis une fosse, située à l’est du bâtiment à abside, qui a livré des éléments lapidaires issus du débitage de fûts et de bases de colonnes, témoignant du démantèlement du complexe monumental, à une date indéterminée. Le destin de la curie durant cette phase n’est malheureusement pas connu du fait de la destruction des niveaux tardifs dans cette zone. Même à Amiens et Paris, chefs-lieux qui conservent leur rang, le forum subit des transformations profondes. À Amiens, le forum fonctionne en tant que tel au moins jusqu’à la fin du IIIe siècle. Les   Thollard, Denimal 1998.   Hanoune et alii 2000.

34 35

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Blaise Pichon

forum

phase

nature des travaux

Amiens

V

Après l’incendie de l’état IV, restauration à l’iden- Début du IIIe siècle tique

VI

Après l’incendie de l’état V, reconstruction : - ajout de bâtiments dans la cour orientale

2e moitié du IIIe siècle

VII

Réorganisation du forum : - démolition des portiques - édification d’un entrepôt - réfection des bâtiments dans la cour - fortification du front sud

1e moitié du IVe siècle

VIII

- destruction de l’entrepôt - présence de nombreux ateliers métallurgiques

Milieu du IVe siècle

IX

Abandon du site ?

1e moitié du Ve siècle

IV

Désaffection du forum Installation de constructions privées

260/270

V

Construction de la 1e fortification

Fin IIIe siècle – début IVe siècle

VI

Construction de la 2e fortification

Milieu du IVe siècle

VII

Fin de l’occupation

1e moitié du Ve siècle

Paris

III

Désaffection du forum

Fin du IIIe siècle ?

Vieux

III

Embellissement de la curie et des salles voisines Mise en place du bâtiment à abside

Début du IIIe siècle

IV

Désaffection du forum Installation d’une activité de boucherie

2e moitié du IIIe siècle

V

Fin de l’occupation

IVe siècle ?

Bavay

chronologie de la mise en place

Tableau 3. Les fora d’Amiens, Bavay et Vieux du début du IIIe siècle au Ve siècle.

transformations qui y sont opérées à partir de la première moitié du IVe siècle sont liées au passage de la ville ouverte à la ville réduite fortifiée. Le rempart du castrum s’appuie sur la limite sud du forum. Dans la zone archéologiquement la mieux connue, le nord-est du forum, la galerie portique existant depuis le IIe siècle est rasée. L’angle du complexe est désormais occupé par un bâtiment dont le soussol comporte des conduits, que l’on peut interpréter comme un système de vide sanitaire. La structure de ce bâtiment se rapproche de celle de bâtiments similaires mis au jour au nord du castrum, et qui correspondent à de vastes entrepôts. Sa construction est très soignée et son caractère public ne fait pas de doute. Son édification répond probablement à la nécessité de disposer de réserves protégées. Dans la seconde moitié du IVe siècle, ce bâtiment est intégralement nivelé et cède la place à une zone de dépotoir liée à une importante activité de production métallurgique. Les fouilles ont mis en évidence une couche de cendres et de scories d’une vingtaine de centimètres d’épaisseur dans l’intégralité de l’emprise de l’ancien entrepôt, correspondant à un volume de 120 m3 environ. Des fosses liées à cette production ont aussi été implantées dans les anciens conduits de ventilation, en plein air, tandis que d’autres structures de production prenaient place dans des espaces couverts, sous la galerie portique nord et dans un bâtiment implanté dans la cour dans la seconde moitié du IIIe siècle. La cour demeure en revanche vierge de tout épandage et de toute structure de production. La localisation de ces ateliers et l’importance des rejets qui leurs sont liés pourraient les rattacher à la fabrica d’épées et de boucliers

Les fora en Gaule du nord entre le milieu du III e siècle et le V e siècle

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Fig. 4. Plan du forum de Bavay aux IVe et Ve s. (d’après Delmaire 2011).

mentionnée dans la Notitia Dignitatum36. La zone nord-est du forum semble donc accueillir des structures dépendant du pouvoir impérial plutôt que des autorités de la cité. A Paris, le forum se trouve hors du castrum, dont l’enceinte est édifiée entre 30837 et 36038. Cette situation hors les murs implique son abandon, au plus tard lors de l’édification de l’enceinte et de la transformation du forum en carrière.   Not. Dign. IX, 39 : « Ambianensis spatharia et scutaria ».   Datation dendrochronologique d’un élément de bois antérieur ou contemporain de sa construction : Busson 1998, p. 385. 38  Jul., Misopogon 340d : « C’est une île de faible étendue au milieu du fleuve, et le rempart l’entoure en cercle de toute part ; des ponts de bois, partis de chaque rive, y donnent accès ». 36 37

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Blaise Pichon

À Amiens comme à Bavay, les espaces ouverts semblent remplir une fonction publique plus longtemps que les espaces couverts. Cela pourrait s’expliquer par la nécessité de disposer d’espaces assez vastes pour tenir des marchés dans la zone protégée par le rempart, plutôt que par le maintien de ces places en tant qu’espaces civiques. L’absence de données relatives aux monuments publics honorifiques qui se trouvaient sans doute sur ces places ne permet pas d’aller plus loin dans l’interprétation à Amiens. À Bavay, en revanche, l’étude des éléments en remploi dans la première enceinte vient confirmer le changement de destination du complexe du forum, puisque les monuments démantelés se trouvaient sans doute sur la place ou sous les portiques qui l’entouraient. À Bavay, Paris, Reims ou Senlis, l’étude des spolia permet d’aller plus loin dans l’analyse de l’évolution des espaces civiques. À Bavay, si l’inscription en l’honneur d’Alexandre Sévère a été trouvée hors contexte, deux autres inscriptions liées à la vie civique ont été découvertes en remploi dans la première enceinte, édifiée dans les dernières décennies du IIIe siècle. Il s’agit d’une dédicace au Génie de la cité des Nerviens39 et d’une inscription commémorant une évergésie40. Si l’inscription au Génie de la cité, provenant très probablement du sanctuaire civique du forum, est trop lacunaire pour fournir des informations utiles, il n’en est pas de même pour l’inscription ILTG, 362. Cette dernière commémore la restauration par un notable local du bâtiment, probablement situé sur le forum, abritant les poids étalons de la cité qui avait été détruit par un incendie. À Reims, ce sont les blocs monumentaux qui constituaient le cénotaphe dédié par la cité des Rèmes à la mémoire des Princes de la Jeunesse, Caius et Lucius César41 qui sont utilisés dans le soubassement du rempart, mis en place entre 330 et 370. On ignore l’emplacement primitif de ce monument, mais il est fort probable qu’il se soit dressé sur le forum de Reims. À Senlis42, ce sont les fragments d’une base de statue en bronze dédiée à Claude par la cité des Sulbanectes43, méthodiquement brisée, qui ont été retrouvés enfouis dans un fossé daté du IIIe siècle. Il ne fait aucun doute que cette statue se trouvait sur le forum de Senlis. À Paris, des blocs d’architecture à architrave provenant du forum ont été identifiés dans les fondations d’un édifice comportant un hypocauste (« édifice Régnard ») édifié au plus tôt à la fin du IIIe siècle dans l’île de la Cité44. Si la destruction des inscriptions dédiées par des particuliers peut se comprendre, éventuellement dans un contexte de renouvellement brutal des élites locales, la démolition du cénotaphe de Reims doit être interprétée comme l’abolition d’un lieu de mémoire important de la cité des Rèmes. La destruction de la statue de Claude à Senlis peut être interprétée dans le même sens. À Bavay, si l’on peut interpréter la destruction des inscriptions en l’honneur de Sévère Alexandre et du notable anonyme de l’inscription ILTG, 362 comme d’éventuelles conséquences du contexte politique, il n’en est pas de même de l’inscription au Génie des Nerviens, qui s’inscrit dans un contexte de culte public de la cité, et dont le remploi atteste sans doute la désaffection du sanctuaire civique du forum de Bavay dès la fin du IIIe siècle. Le démantèlement des ornamenta qui ont incarné la vitalité de la vie civique au Haut Empire est révélatrice d’une nouvelle manière de gouverner la cité. Conclusion La mutation des fora, puis le changement de leur fonction, leur privatisation partielle ou leur transformation en carrière de matériaux, est sans doute due aux changements d’expression de la vie civique (Tab. 4). Les cas de Bavay, Vieux, Paris et Amiens révèlent des mutations importantes du cœur civique   AE 1969-1970, 410.   ILTG, 362. 41   CIL, XIII, 3254 + AE 1979, 411 = AE 1982, 715. 42   Woimant 1995, pp. 441-444. 43   ILTG, 357 : Ti(berio) Claudio | Caesari | Aug(usto) Germanic(o) | pontif(ici) max(imo) |5 trib(unicia) pot(estate) VIII co(n)s(uli) IIII | imp(eratori) XVI p(atri) p(atriae) censori | ciuitas Sulbanectium | publice. 44   Busson 1998, p. 437. 39 40

Les fora en Gaule du nord entre le milieu du III e siècle et le V e siècle

abandon définitif du forum

réutilisation postérieure

197

dédicace connue la plus récente

processus d’abandon du forum

nouveaux lieux de pouvoir attestés archéologiquement

Amiens



- édification d’un 1e moitié entrepôt dans la du Ve siècle 1e moitié du IVe probablement siècle - installation de nombreux ateliers métallurgiques dans la 2e moitié du IVe siècle

Bavay

Alexandre Sévère

260/270

- installation de constructions privées et démantèlement partiel - Fortification



Paris



Fin du IIIe siècle ?

- carrière dès la fin du IIIe siècle ? - Des murs sont encore en élévation lors de la construction de l’église des Jacobins en 1218

- Palais de la Cité (à partir de 360 au plus tard) - Basilique du Marché aux Fleurs (IVe ou Ve siècle)

Vieux

238

2e moitié du IIIe siècle

- installation – d’activités de boucherie jusqu’à la fin du IVe siècle - carrière dès le IVe siècle ?



Tableau 4. Processus de désaffection des fora du IIIe au Ve s.

du chef-lieu, selon des modalités nettement différentes. Dans le cas de Bavay, chef-lieu déchu, l’espace du forum est progressivement privatisé à partir de la seconde moitié du IIIe siècle, à l’exception de la place publique, et peut-être de l’édifice occidental, généralement identifié à un espace cultuel45. Cette privatisation précède la fortification, et s’inscrit dans un contexte civil. À Vieux, les fouilles partielles du forum ne permettent pas d’être aussi précis ; cependant, la perte du rang de chef-lieu avant la fin du IVe siècle s’est accompagnée d’une privatisation d’une partie au moins des espaces civiques. À Paris, le choix de ne pas inclure le forum dans le castrum, dans la première moitié du IVe siècle, est révélateur de la place réduite du complexe dans la ville et dans la vie civique d’alors.   Dans d’autres chefs-lieux déchus, le déclassement se traduit par une démolition des éléments constitutifs du forum, comme à Lillebonne : Fichet de Clairfontaine et alii 2004. 45

198

Blaise Pichon

À Amiens, en revanche, il semble que l’ensemble du forum demeure un espace public, dont les fonctions changent à partir du début du IVe siècle. Cette mutation s’inscrit plutôt dans le contexte de la militarisation des villes du nord de la Gaule, et d’une présence de plus en plus marquée du pouvoir central dans les chefs-lieux de cité. Si les structures mises au jour à l’est du forum correspondent bien à la fabrica, cela signifie que cette partie du forum au moins n’appartient plus à l’espace civique à la fin du IVe siècle. Dans les chefs-lieux promus, on ne connaît aucun forum. Cela peut s’expliquer par l’inutilité d’un tel complexe monumental, mais aussi par le coût financier que dût représenter pour les cités l’érection des enceintes urbaines, à partir de la seconde moitié du IIIe siècle. D’ailleurs, dans les chefs-lieux du Haut Empire qui perdurent au-delà du IIIe siècle, les soubassements de ces enceintes réutilisent fréquemment ce qui faisait l’ornement et la mémoire des centres civiques. La question des nouveaux lieux de pouvoir, publics ou privés, qui durent se mettre en place à partir du IIIe siècle demeure, en l’état actuel des connaissances, difficile à aborder. Bibliographie Beaujard, Prévot 2004 = B. Beaujard, F. Prévot, Introduction à l’étude des capitales ‘éphémères’ de la Gaule (Ier s. - début VIIe s.), in A. Ferdière (dir.), Capitales éphémères. Des capitales de cité perdent leur statut dans l’Antiquité tardive, Tours 2004, pp. 17-37. Busson 1998 = D. Busson, Carte archéologique de la Gaule – Paris, Paris 1998. Chossenot, Estéban, Neiss 2010 = R. Chossenot, A. Estéban, R. Neiss, Carte archéologique de la Gaule – Reims, Paris 2010. Coquelet 2011 = C. Coquelet, Les capitales de cité des provinces de Belgique et de Germanie, Louvain 2011. Delmaire 2004 = R. Delmaire, Permanences et changements des chefs-lieux de cité au Bas-Empire : l’exemple du nord-ouest de la Gaule Belgique, in A. Ferdière (dir.), Capitales éphémères. Des capitales de cité perdent leur statut dans l’Antiquité tardive, Tours 2004, pp. 39-50. Delmaire 2011 = R. Delmaire, Carte archéologique de la Gaule – Bavay, Paris 2011. Fichet de Clairfontaine et alii 2004 = F. Fichet de Clairfontaine, E. Delaval, V. Hincker, J. Le Maho, Capitales déchues de la Normandie antique. Etat de la question, in A. Ferdière (dir.), Capitales éphémères. Des capitales de cité perdent leur statut dans l’Antiquité tardive, Tours 2004, pp. 141-155. Hanoune et alii 2000 = R. Hanoune, M.-Th. Raepsaet-Charlier, F. Loridant, Ch. Louvion, A. Muller, R. Delmaire, Recherches archéologiques à Bavay, XXIV-XXVII (basilique du forum et kardo oriental), in « Revue du Nord » 338, 2000, pp. 115-154. Jardel, Lelièvre, Mazure 2014 = K. Jardel J.-Y. Lelièvre, P. Mazure, Le forum et la curie d’Aregenua (Vieux, Calvados), in « Gallia » 71/2, 2014, pp. 163-188. Pichon 2009 = B. Pichon, Carte archéologique de la Gaule – Amiens, Paris 2009. Rollet et alii 2011 = P. Rollet, F. Berthelot, G. Florent, E. Jouhet, Durocortorum. Rue Maucroix. Un quartier excentré d’une capitale de province romaine, Reims 2011. Thollard, Denimal 1998 = P. Thollard, C. Denimal, Fouilles sur le forum de Bavay (1993-1998), II. Le bas-empire, in « Revue du Nord » 328, 1998, pp. 153-221. Van Andringa 2014 = W. Van Andringa (dir.), La fin des dieux, « Gallia » 71/1, 2014. Woimant 1995 = G.-P. Woimant, Carte archéologique de la Gaule – l’Oise, Paris 1995.

Strade e morfologia urbana: sintassi spaziale e funzioni politiche, religiose, sociali

LA DÉFINITION DE PARCOURS SYMBOLIQUES DANS LA VILLE ROMAINE : LE CAS DE L’ALLÉE MONUMENTALE DU PÉCHIN (NÉRIS-LES-BAINS, ALLIER)

Carlotta Franceschelli

Dans le cadre d’une réflexion sur les espaces publics dans la ville romaine, sur leur forme et leur utilisation, la rue occupe une place importante1. Sur le plan juridique, son caractère public – bien que non exclusif – fait en effet peu de doute (notamment en milieu urbain) et sa complexité, autant sur le plan urbanistique que fonctionnel, ne paraît pas moins significative. C’est l’importance jouée par la rue dans la structure urbaine qui fait d’elle l’objet d’une véritable appropriation de la part de la collectivité citoyenne dans son ensemble, ou d’un groupe spécifique d’individus, par le biais d’interventions de monumentalisation et de marquage symbolique, plus ou moins durables2. La rue exerce en premier lieu un rôle fondamental dans la définition de la structure urbaine et de son dessin, en lui conférant une trame plus ou moins régulière. Inscrite dans un réseau, elle devient ainsi un objet morphologique qui, dans son expression géométrique la plus simple, présente l’aspect d’une ligne et acquiert tout son sens en tant que partie d’un système complexe3. Dans cette perspective, la matérialité de la rue tend souvent à être définie par la négative, en tant que “creux” façonné par des “pleins”, tels les îlots et les bâtiments, publics et privés4. Sur le plan fonctionnel, c’est sa fonction de passage, de lieu par lequel transitent des personnes et des biens qui est d’ordinaire mise en avant, et plus largement son rôle-clé dans la vie des communautés. Force est néanmoins d’observer qu’en plus de cette fonction générale de passage, certains axes viaires se chargent d’une valeur spécifique, en tant qu’éléments de connexion entre espaces ou bâtiments à fonction civique ou religieuse significative, et vont ainsi définir des parcours privilégiés au sein de la trame urbaine. Dans ce cas, la rue peut devenir le cadre d’activités et pratiques collectives spécifiques, connotées sur le plan politique et/ou religieux, au-delà de la simple fonction de passage. C’est vraisemblablement le cas du contexte récemment découvert à Néris-les-Bains, au sud-est de la cité des Bituriges, dans le département de l’Allier, qui semble assumer cette double fonction de   Sur le sujet, voir Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008.   Sur le processus de marquage, comme matérialisation de l’appropriation symbolique d’un espace, voir Ripoll, Veschambre 2004 et Veschambre 2004. 3   Levy 2015. 4   Sur la difficulté de concevoir l’espace vide de bâtiments comme « an objective, independent ‘thing in itself ’ », voir Hillier 20072, p. 18. 1 2

202

Carlotta Franceschelli

connexion entre espaces urbains et de parcours monumentalisé. Celui-ci fait partie d’une typologie de voies urbaines qui, à la lumière des découvertes archéologique récentes et, dans une moindre mesure, des données épigraphiques, nous paraît bien attestée dans l’urbanisme de Gaule romaine et à laquelle nous souhaitons consacrer les quelques réflexions qui suivent. 1.  La rue comme espace public 1.1.  Une réalité complexe, entre réflexion jurisprudentielle et critères d’usage Comme évoqué précédemment, la rue constitue une typologie particulière d’espace public. Néanmoins, une ligne interprétative proposée par de nombreux spécialistes du droit romain montre que la notion de via publica échappe à une définition univoque et stable pendant une grande partie de la période romaine5. Les sources jurisprudentielles, qui posent la question de manière explicite, semblent en effet osciller entre une classification fondée sur le critère de la propriété du sol et une autre qui privilégie en revanche celui de l’usage (usus). Cette ambiguïté ressort par exemple chez le juriste Ulpien qui, au début du IIIe s. ap. J.-C., s’intéresse particulièrement à la question et essaye de formaliser des critères clairs et partagés pour la détermination de ce qu’était une voie publique. Dans son commentaire à l’édit du préteur, lorsqu’il traite de l’interdit « ne quid in loco publico vel itinere fiat », en D. 43.8 pr. (Ulp. 68 ad ed.), Ulpien développe sa réflexion sur la notion de lieu public, dans laquelle il inclut les viae publicae (D. 43.8.2.3). C’est précisément dans le but de définir le domaine d’application de l’interdit prétorien sur le voies qu’Ulpien en propose une distinction sur la base de la dichotomie public-privé : D. 43.8.2.21. Viam publicam eam dicimus, cuius etiam solum publicum est: non enim sicuti in privata via, ita et in publica accipimus: viae privatae solum alienum est, ius tantum eundi et agendi nobis competit: viae autem publicae solum publicum est, relictum ad directum certis finibus latitudinis ab eo, qui ius publicandi habuit, ut ea publice iretur commearetur.

L’auteur met ici en avant le critère formel de la titularité du sol : la voie publique est liée à la nature publique de la terre, alors que la voie privée est réalisée sur solum alienum. En même temps, Ulpien est contraint d’observer que cette dichotomie, quelque peu rigide, ne permet pas d’inclure les nombreuses facettes d’un phénomène beaucoup plus complexe, comme l’atteste le fait que la voie publique est “aussi” réalisée sur le sol public (« etiam solum publicum est »), ce qui sous-entend que cet aspect n’est pas suffisant pour la définition de son statut, et qu’une voie privée peut être ouverte à un usage collectif (« tantum eundi et agendi nobis competit »). C’est ainsi que, dans les paragraphes suivants, Ulpien propose sa célèbre classification des voies, dans laquelle, à côté des voies publiques et privées, il introduit la catégorie des voies vicinales (D. 43.8.2.22). Il s’agit de voies d’ordinaire considérées comme publiques, ce dont Ulpien convient (« has quoque publicas esse quidam dicunt: quod ita verum est »), à l’exception de celles réalisées aux frais des privés (« ex collatione privatorum hoc iter constitutum est »). En revanche, si l’intervention des privés concerne seulement leur réfection, elles rentrent à son avis dans la catégorie des voies publiques, car c’est toute la communauté qui profite de l’intervention (« quia usum utilitatemque communem habet »). Ulpien introduit donc ici le concept d’usage et d’utilité collective, qui sera repris dans le paragraphe suivant, lorsqu’il développe le thème des voies privées : D. 43.8.2.23. Privatae viae dupliciter accipi possunt, vel hae, quae sunt in agris, quibus imposita est servitus, ut ad agrum alterius ducant, vel hae, quae ad agros ducunt, per quas omnibus commeare liceat, in quas exitur de via consulari et sic post illam excipit via vel iter vel actus ad villam ducens. Has ergo, quae post consularem excipiunt in villas vel in alias colonias ducentes, putem etiam ipsas publicas esse.   Sur la question du statut juridique des voies romaines, voir principalement, Capogrossi Colognesi 1976  ; Palma 1982 et, plus récemment, De Marco 2004. Pour un focus sur les voies privées, voir Pavese 2013. 5

La définition de parcours symboliques dans la ville romaine

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Dans ce passage, il nous apprend que les voies privées, qu’il identifie avec les voies agraires (« quae sunt in agris » ou « quae ad agros ducunt »), pourraient dans certains cas être considérées comme publiques (« putem etiam ipsas publicas esse »), lorsqu’elles sont destinées à la circulation collective (« per quas omnibus commeare liceat »). Le statut des voies peut donc varier en fonction de l’usage (usus)6. Il en découle un élargissement de la notion de public qui va au-delà du seul critère formel de la propriété du sol, puisque l’utilité publique et la jouissance collective de certaines voies pouvaient porter à les considérer comme publiques, même si elles étaient construites sur sol privé. Les incertitudes d’Ulpien qui, dans son essai de définition de la nature publique de la voie, oscille entre ces deux critères, semblent d’ailleurs révélatrices d’un débat culturel déjà présent dans la jurisprudence depuis la première époque impériale7 et qui n’avait pas encore trouvé une solution définitive à son époque8. Néanmoins, malgré ces oscillations, face à la difficulté de rendre compte de tous les cas de figure possibles liés à la dichotomie public-privé sur la base du seul critère de la propriété du sol et de l’existence de voies construites sur sol privé mais ouvertes à un usage non exclusivement individuel, le critère de l’usus aura tendance à s’imposer. La complexité du système des voies romaines ressort également des écrits des auteurs gromatiques, qui s’intéressent de près à la question. Siculus Flaccus identifie par exemple quatre catégories de voies (viae publicae, vicinales, communes et privatae)9, qui correspondent seulement en partie à celles proposées par Ulpien (voir supra). Il a été souligné à juste titre que ces discordances sont essentiellement dues aux intérêts et aux finalités spécifiques des spécialistes de l’arpentage, principalement concernés par des questions pratiques telles que la construction, la gestion et l’entretien des voies10. Ces auteurs se seraient donc attachés à définir les détails d’une réalité complexe que les juristes, dans leur effort de classification, avaient au contraire essayé de schématiser autour de concepts clairs et univoques. Malgré ces différences, l’idée générale qui en ressort est, même dans ce cas, celle d’un système qui, à l’exception des voies privées (Sic. Flacc., de cond. agr., p. 110, 23 ss. Th., « quae non universo populo itinera praestari videntur, sed eis ad quorum agros per eas vias pervenire necesse est »), était principalement destiné à des usages collectifs11. 1.2.  Un espace qui fait l’objet d’appropriations symboliques Le caractère public de bon nombre de voies, notamment en milieu urbain, semble par ailleurs justifier les formes d’appropriation symbolique dont ces espaces ont souvent fait l’objet dans l’Antiquité. Il s’agit en effet d’un phénomène qui, à l’époque romaine comme de nos jours, trouve son milieu de prédilection dans les lieux publics et destinés à une utilisation collective, capables de ce fait d’assurer une bonne visibilité à toute forme de marquage. Dans la ville romaine, ces phénomènes d’appropriation étaient principalement le fait d’élites soucieuses d’inscrire leur pouvoir dans la dimension spatiale et se concrétisaient par des actes d’évergétisme privé ou des dépenses effectuées dans le cadre de l’activité ordinaire des magistrats. Ces dons   Le critère de l’usage avait déjà été introduit par Ulpien en D. 43.8.2.5. « Ad ea igitur loca hoc interdictum pertinet, quae publico usui destinata sunt ». 7   Le double critère du dominium et de l’usus, dans la définition des espaces publics, est aussi évoqué en littérature (cf. par exemple Vitr., I, 3, 1). Sur la question, voir Dubouloz 2003, spéc. pp. 922-924. 8   Palma 1982, pp. 857-866 ; De Marco 2004, pp. 154-156. 9   Sic. Flacc., de cond. agr., p. 110, 2 – 111, 11 Th. 10   Capogrossi Colognesi 1976, p. 43 ; Palma 1982, pp. 866-876 ; De Marco 2004, pp. 163-169. 11   Voir à ce sujet Palma 1982, pp. 875-876, selon lequel, dans la classification de Siculus Flaccus, les voies privées auraient un «  carattere residuale  », par le fait d’être les seules à ne pas être destinées à un usage collectif. Contra De Marco 2004, pp. 167-169, qui estime que l’usage interpersonnel des viae communes ne suffisait pas à les assimiler à celles qui faisaient l’objet d’un véritable usage collectif. 6

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étaient souvent accompagnés d’une inscription commémorative, qui devait assurer la pérennisation du souvenir du geste du bâtisseur ou du restaurateur12. Les rues en constituaient des contextes privilégiés, puisqu’elles offraient un emplacement idéal aux soucis d’autocélébration du dédiant. Comme le montre le bel article de Mireille Cébeillac-Gervasoni sur les évergésies privées de la rue13, elles consistaient souvent en la construction, la restauration (dare, ducere, fare, restituere) et/ou le pavement (sternere souvent accompagné de l’indication silice ou saxo) d’axes urbains, mais pouvaient aussi comporter la réalisation d’éléments accessoires, tels des gradins/ rampes (gradus) et des trottoirs (crepidines), ou d’agrément, tels notamment des portiques (porticus ou maeniana) ou des statues (statuae). L’épigraphie atteste que ces interventions faisaient souvent partie de dons d’une certaine envergure, pouvant concerner plusieurs rues, sinon l’ensemble du réseau urbain, mais aussi inclure des mesures complémentaires, telles la réalisation/réfection d’édifices ou espaces publics de nature différente et d’infrastructures hydrauliques (thermes, fontaines, systèmes d’adduction et/ou évacuation de l’eau). Parmi ces interventions, nous souhaitons porter ici notre attention sur celles qui ont conduit à la réalisation, l’embellissement ou la réfection de portiques, dont pourrait relever le contexte archéologique fouillé à Néris-les-Bains et qui sera présenté par la suite. Les interventions sur les portiques constituent un cas particulièrement délicat puisqu’en l’absence d’éléments spécifiques dans le texte de l’inscription ou de données archéologiques claires, la polysémie du terme porticus rend parfois difficile la définition du contexte précis de l’intervention14. Un portique pouvait en effet côtoyer une rue, mais aussi être une structure indépendante, ou être associé à des espaces ou structures différentes, tels le forum, les temples, les thermes, les marchés… Néanmoins, comme l’a montré Mireille Cébeillac, nombreuses sont les inscriptions dans lesquelles nous pouvons raisonnablement attribuer les portiques au contexte spécifique de la rue. Parmi les exemples les plus clairs et spectaculaires il y a sans doute la célèbre intervention de L. Betilienus Varus à Aletrium (Alatri), vers la fin du IIe s. av. J.-C., qui comporta la réalisation d’un portique qua in arcem itur, en plus de l’ensemble des rues de l’agglomération (semitas in oppido omnis) et d’autres structures et infrastructures urbaines, dont notamment celles liées à l’adduction et à la distribution de l’eau15. Bien que moins explicites, sont également attribuables au domaine de la viabilité les portiques érigés à Grumentum (Grumento Nova)16 et Thermae Himerae (Termini Imerese)17, ainsi que le décor d’un portique de Praeneste (Palestrina), réalisé avec des marbres (marmoribus) et de l’enduit (albario)18. C’est aussi le cas des inscriptions de Dertona (Tortona), qui évoquent la reconstitution d’une porticum vet[ustate corruptam…]19 ou la construction, par testament, de trois porticus20 dans la même ville. On peut ajouter à cette liste la porticus sur laquelle un évergète intervient sua impensa à Aquileia (Aquilée)21 et la réalisation de boutiques et portiques effectuée par un évergète, de sua pecunia, attestée par une inscription trouvée à Ascoli Satriano, dans les Pouilles22. C’est probablement au même type d’intervention que renvoye l’expression viam et cre[pidinem ?...] porticu[…], qui évoque la construction, par un magistrat local, d’une rue avec son trottoir et, peut-être, ses por  Sur la présence de l’écriture dans la ville romaine et sur son rôle de marquage de l’espace, voir Corbier 1987, pp. 46-48. 13   Cébeillac-Gervasoni 2004. 14   Cébeillac-Gervasoni 2004, pp. 158-159, avec bibliographie précédente. 15   CIL, I2, 1529 = X, 5807 = SupplIt 16, 1998, pp. 36 ss. (G.L. Gregori). 16   CIL, X, 8093 = AE 2006, 356. 17   CIL, X, 7353. 18   CIL, XIV, 2995. 19   CIL, V, 7376. 20   CIL, V, 7370. 21   CIL, I2, 3419. 22   CIL, I2, 3186 = AE 1961, 310. 12

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tiques, dans une inscription de Clusium (Chiusi), en Étrurie23. À Forum Sempronii (Fossombrone), dans les Marches, c’est en revanche l’empereur Hadrien qui finance pecunia sua la restauration d’un portique, endommagé par le temps24. Parmi ces interventions, revêt un intérêt particulier le don de trois arcades (columnas IIII cum superficio) du portique qui conduit au ludus publicus, ainsi que de leur dallage et de leur décor peint (stratura pictura), attestés par une inscription de Verona (Vérone)25. Si la plupart de ces interventions concernent des secteurs de la péninsule italienne26, les attestations d’évergésies sur des rues à portiques ne sont pas absentes dans les provinces. Pour ce qui est des Gaules, il pourrait s’agir notamment des portiques cités par les deux inscriptions, identiques, de Marigny-Saint-Marcel27, offerts vicanis Albinnensibus avec toute une série d’autres structures, principalement liées à l’eau, ainsi que de la porticus citée par une inscription d’Apta (Apt), faite construire avec un arc, ses portes et ses systèmes de fermeture, arcum cum ostiis et clu[suris]28. On peut peut-être verser au même dossier aussi l’inscription trouvée à Vendœuvres-en-Brenne29, récemment étudiée par Monique Dondin-Payre30, qui cite un portique reliant une place (forum) à un endroit non identifié et sur laquelle nous reviendrons par la suite, pour les affinités qu’elle présente avec des inscriptions de Néris-les-Bains. Toujours en milieu provincial, on pourrait citer la construction, ob honorem aedilitatis, d’un portique de 100 pieds de long et 20 pieds de large à Nedinum (Nadin) en Dalmatie31. Pour conclure, pourraient également se référer à des interventions de construction ou d’embellissement effectuées sur une rue les trois inscriptions provenant d’Apulum (Alba Iulia), en Dacie, qui évoquent la réalisation de trois secteurs d’un portique, respectivement longs de 40, 30 et 36 pieds, promus et financés par trois évergètes différents, dans le cadre du culte d’Esculape32. 2.  Des dispositifs de raccordement topographique 2.1.  La création de parcours fonctionnels et symboliques Le panorama de l’évergétisme des rues à portiques dans l’Occident romain esquissé à partir des données épigraphiques dans le paragraphe précédent, sans aucune prétention d’exhaustivité, met en lumière l’existence d’une catégorie particulière de rues, qui jouent un rôle précis au sein de la grille urbaine puisqu’elles relient deux pôles de première importance, notamment sur le plan religieux ou économique. Semblent par exemple entrer dans cette catégorie la rue à portiques d’Aletrium qui menait à l’arx et, peut-être, le portique qui pouvait conduire au temple d’Esculape, à Apulum (Alba Iulia), en Dacie, auxquels nous avons fait référence dans le paragraphe 1.2. On peut y ajouter la platea (rue) qui à Ségeste, en Sicile, allait d’un point de la ville dit Sosia, jusqu’à un temple (fanum)33, ou encore le portique qui, à Brigetio (Komárom), dans l’actuelle Hongrie, allait a portis II ad fontem Salutis34, ainsi que la via,   CIL, XI, 7123 = AE 1908, 203.   CIL, XI, 6115. 25   CIL, V, 3408. 26   Cébeillac-Gervasoni 2004, p. 167. 27   CIL, XII, 2493-2494 = ILHaute-Savoie, 69-70 = ILN, V, 3, 721-722. 28   CIL, XII, 1121 = ILN, IV, 24. 29   CIL, XIII, 11151 = AE 1909, 116. 30   Dondin-Payre 2011 et 2012. 31   CIL, III, 2871. 32   CIL, III, 975-976 et AE 1993, 1337. La nature rituelle de ces interventions, clairement exprimée par les trois inscriptions : ex iusso (!) dans CIL, III, 975, ex voto dans CIL, III, 976 et somno monitus (AE 1993, 1337) a porté certains interprètes à les attribuer aux portiques du sanctuaire d’Esculape (voir Ciobanu 1998, p. 84). Néanmoins, l’absence dans l’inscription d’une quelconque référence au sanctuaire semble laisser ouverte la possibilité que les portiques en question soient plutôt liés à la voie qui conduisait au temple. 33   AE 1997, 740. 34   AE 1944, 110. 23 24

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large de 4 pieds, commanditée à Carpentras, en Gaule Narbonnaise, par un évergète, afin d’atteindre la fontaine qu’il avait également financée35. Partagent cette même fonction de raccordement, mais avec une accentuation de la dimension sociale et/ou commerciale, l’axe qui conduisait au ludum publicum à Vérone36 et, à Puteoli (Pouzzoles), la via qui allait a foro usque ad feines ainsi que le clivus qui allait a summo ad emporium37. L’existence de liens directs et privilégiés entre le forum et le port dans certaines villes romaines semble par ailleurs attestée par l’archéologie, comme c’est par exemple le cas à Luna (Luni)38. Afin de mieux saisir la fonction de ces axes à l’intérieur de la trame urbaine et les dynamiques particulières qu’ils ont stimulées sur le plan de la mobilité des personnes qui fréquentaient la ville, il paraît ici pertinent de faire référence au concept de syntaxe spatiale39. Centré sur la compréhension de la sémantique de l’espace urbain, celui-ci attribue un poids majeur à la question de la distribution des espaces et des édifices au sein de la ville (« space pattern »), en vertu de laquelle chaque élément du système urbain acquiert une signification spécifique, une sorte de valeur ajoutée en plus de sa valeur propre et autonome40. En archéologie, cette approche a été appliquée aux thermes, à l’habitat résidentiel et au forum, avec des résultats très intéressants41, mais elle semble avoir été peu mobilisée pour l’étude de la forme urbaine dans son ensemble. Formée d’édifices et d’espaces vides, qui se disposent selon des alignements plus ou moins réguliers, celle-ci est le contexte qui, par lui-même, génère le « mouvement naturel » des habitants et utilisateurs d’une ville42. Comme tout mouvement, celui-ci se caractérise par une origine et une destination, auxquelles s’ajoutent néanmoins ceux que Bill Hillier appelle des « produits dérivés » (« by-products »), c’est-à-dire des étapes intermédiaires qui se définissent en fonction des espaces traversés le long du trajet43. Au contraire, la présence d’une logique exclusive, visant à relier de manière directe et sans interférences deux pôles majeurs, selon une « two-step axial logic », crée, à l’intérieur du maillage urbain, des parcours préférentiels qui acquièrent une valeur sémantique spécifique, économique et/ou symbolique, en fonction des espaces reliés. Lorsque ces axes assurent la connexion entre lieux cultuels, leur fonction symbolique paraît prédominante et peut même être accentuée par la recherche de relais visuels particuliers, susceptibles de mettre en contact par la vue ce qui se trouve éloigné sur le plan topographique44. 2.2.  Un lien avec la géographie du sacré : quelques exemples en Gaule romaine Parmi ces axes de raccordement, capables de créer des parcours préférentiels à l’intérieur du dessin urbain, une place particulière est occupée par ceux qui entretenaient des liens avec les lieux de culte. Il s’agit d’une typologie de rues récemment abordée par Audrey Bertrand, qui a mis en avant leur rôle d’« antichambre et annexe » du véritable temple45. Attestées dans l’ensemble du monde romain, ces rues sont illustrées par de multiples exemples tant épigraphiques qu’archéologiques dans les Gaules, bien qu’aucune étude de synthèse n’ait jamais été proposée.   CIL, XII, 1188.   CIL, V, 3408 = ILS, 5551. 37   CIL, X, 1698 = ILS, 5383. 38   Grassigli 1994, pp. 81-82. 39   La théorisation de la spatial syntaxis se doit à Bill Hillier, fondateur du laboratoire Space syntax à la Bartlett School of Architecture. Voir Hillier, Hanson 1984 et Hillier 20072. 40   Hillier 20072, pp. 16-18, 112-114 et 185-189. 41   L’école d’archéologie de Bologne s’est montrée particulièrement sensible à cette thématique, grâce aux travaux de Guido Achille Mansuelli. Voir notamment, sur les thermes et la domus, Mansuelli 1982 et Scagliarini CorlÀita 1983. Plus récemment, sur la question du forum, voir Grassigli 1994. Voir aussi supra l’introduction à ce volume. 42   Hillier 20072, pp. 120-125. 43   Hillier 20072, pp. 120-127.  44   Hillier 20072, pp. 171-184. 45   Bertrand 2008, pp. 79-81. 35 36

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Fig. 1. Barzan. La “Grande Avenue” (D1). D’après Tranoy et alii 2008, p. 90, fig. 1.

Le cas le mieux documenté est sans doute celui de la “Grande Avenue” de Barzan (Charente-Maritime), qui a fait l’objet de plusieurs campagnes de fouille sous la responsabilité de Laurence Tranoy (Fig. 1)46. Repéré sur une longueur d’environ 500 m, cet axe reliait deux pôles religieux majeurs de la ville antique : le sanctuaire du Fâ et un ou plusieurs temples dont la présence a été révélée par des prospections géophysiques. Dans la phase de son plus grand essor monumental, à partir du milieu du IIe s. ap. J.-C., cet axe, qui reprend une structure antérieure attestée depuis plus d’un siècle, se présente sous la forme d’un portique monumental large d’environ 10 m, rythmé par une série d’exèdres. Par ce biais, il contribuait à la mise en scène du sanctuaire et s’inscrivait pleinement dans une série d’interventions qui visaient à enrichir de manière considérable la panoplie monumentale de la ville. Semble entrer dans la même typologie, cette fois-ci dans un chef-lieu de cité, la rue qui, dans la première moitié du IIe s. ap. J.-C., reliait le sanctuaire de Bagnols au sanctuaire du Palais (aire B) à Alba-la-Romaine (Ardèche), et pour laquelle les fouilleurs évoquent une fonction de « voie sacrée » (Fig. 2)47. Large d’environ 6,20 m, elle traversait un quartier peu occupé48 et était bordée par des socles disposés à intervalles réguliers, qui pourraient suggérer la présence de portiques. Méritent aussi d’être cités le chemin empierré, long d’environ 540 m qui, dans l’agglomération antique de Châteaubleau (Seine-et-Marne), reliait le sanctuaire nord, interprété comme un sanctuaire de source, au sanctuaire central (Fig. 3)49 et, à Augst (Suisse), la rue, prolongée par des rampes et escaliers, qui devait faire office de « via sacra » et assurer la liaison entre le temple du Grienmatt et le « circuit liturgique » lié au culte impérial50.   Pour une présentation de détail, voir Tranoy et alii 2008 ; pour une synthèse sur les dernières campagnes, voir Tranoy, Moizan, Batigne 2009. 47   Dupraz 2000, notamment aux pp. 58-59, 64, 66. 48   Les archéologues parlent à cet égard de « vide urbain », Dupraz 2000, p. 64. 49   Pilon, Van Ossel 2013, pp. 138, 140. 50   Van Andringa 2002, pp. 73-75. 46

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Fig. 2. Alba-la-Romaine. La voie qui relie le sanctuaire de Bagnols (1) au sanctuaire du Palais (3). D’après Dupraz 2000, p. 48, fig. 1.

Bien que moins bien connu sur le plan archéologique, on pourrait évoquer également le sanctuaire des Trois Gaules à Lyon (Rhône), qui a fait l’objet d’une proposition de reconstitution récente51. Situé sur les hauteurs de la colline de la Croix-Rousse, il intégrait l’autel du culte impérial provincial dans son point culminant, à l’arrivée d’un parcours ascensionnel défini par trois rues convergentes, dont celle du milieu pouvait se présenter sous la forme d’une alternance de rampes et esplanades. Le contexte qui présente le plus d’affinités avec celui que nous avons récemment découvert à Nérisles-Bains et dont il sera question dans le paragraphe suivant, est néanmoins celui attesté à Évaux-lesBains (Creuse), dans la cité des Lemovices. Ici, les fouilles de ces dernières années ont permis de suivre, sur toute sa longueur, une grande galerie datée, sans plus de précisions, de l’époque romaine (Fig. 4)52.   Frascone 2011.   Ces structures, connues depuis les années 1970, ont fait l’objet de plusieurs sondages dans les années 2000 : Roger 2008  ; Maniquet 2011 et 2014. En l’absence de mobilier qui puisse permettre une datation précise, les fouilleurs proposent une fourchette chronologique assez large, comprise entre le Ier et le Ve s. ap. J.-C. 51 52

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Fig. 3. Châteaubleau. La voie qui relie le sanctuaire nord au sanctuaire central. D’après Pilon, Van Ossel 2013, p. 138.

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Fig. 4. Évaux-les-Bains. En haut, le tracé reconstitué de la galerie d’accès aux thermes. D’après Maniquet 2014, p. 34, fig. 10. En bas, détail du parement interne du mur bordier de la galerie. Cliché C. Franceschelli.

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Définie par deux murs bordiers, large de 6,70 m et longue de plus de 700 m, celle-ci était probablement couverte53 et reliait le bâtiment thermal, implanté dans le fond du vallon, à un édifice, non déterminable, situé au sommet du plateau, sous l’église actuelle. Les murs de la galerie, dont celui situé à l’ouest est encore aujourd’hui partiellement visible depuis la rue des Thermes, présentaient une élévation en moellons de petit appareil avec joints beurrés et traces d’enduit peint sur le parement interne54. Son sol, caractérisé par une pente comprise entre 6 et 9%, se présentait sous la forme d’une couche épaisse de 0,05 à 0,12 m « d’arène remaniée jaune-beige, incluant de petits blocs de roche en décomposition », en partie destinée aux piétons et en partie carrossable55. Même si seules des fouilles systématiques effectuées sous l’église pourraient permettre de trancher et même si la prétendue “continuité” entre lieux de culte païens et lieux de culte chrétiens est loin d’être la règle, notamment en Gaule56, l’hypothèse ne peut pas être écartée a priori et est plus ou moins ouvertement évoquée par les archéologues qui ont conduit la fouille57. En revanche, l’hypothèse de la présence d’un lieu de culte monumental, véritable sanctuaire « du territoire », dans le vicus attesté sous le centre actuel de Vendœuvres-en-Brenne (Indre), dans la cité des Bituriges Cubi, repose sur un dossier exclusivement épigraphique qui, pour l’heure, n’a pas été confirmé par l’archéologie58. Fait partie de ce corpus épigraphique, que nous avons évoqué précédemment, la célèbre inscription dite “des vicani”, qui atteste la réalisation de toute une série d’équipements urbains (notamment des basiliques et des portiques) à l’initiative d’un ou plusieurs magistrats et prêtres municipaux, dans le but de renforcer la monumentalité du vicus. Pour ce qui est des portiques, cités aux lignes 7 et 8, leur association à un contexte urbanistique ou architectural précis demeure incertaine59 ; l’emploi du verbe adeuntur nous paraît néanmoins compatible avec une rue à portiques, qui devait relier une place (forum) à un autre contexte, dont l’identité reste inconnue du fait d’une lacune dans l’inscription60. Au terme de ce panorama, qui ne se veut pas exhaustif, mais montre néanmoins la relative diffusion de cette catégorie d’axes urbains en Gaule, nous pouvons souligner quelques points importants. Nous sommes avant tout en présence de rues qui reliaient deux pôles monumentaux, dont au moins un avait une destination sacrée, et allaient ainsi définir des parcours significatifs à l’intérieur de la ville. Pour cette raison, ces rues ont fait l’objet d’une monumentalisation ad hoc, notamment par le biais de portiques, grâce aux évergésies de personnes privées ou d’hommes politiques. Dans la plupart des cas, ces   Les comptes rendus des fouilles évoquent une galerie entièrement couverte, avec une toiture à double pente et deux fossés d’évacuation sur ses deux côtés externes (voir notamment Maniquet 2011, pp. 44 et 77-79 et 2014, pp. 32-37). Il est néanmoins intéressant de signaler que les fouilles des années 1970 avaient révélé une concentration particulière de tuiles en position d’effondrement le long des deux murs bordiers avec une partie centrale libre d’encombrement, même si la présence de « deux bandes couvertes laissant l’axe central de la galerie à ciel ouvert » avait été exclue, à cause de l’absence de « traces de poteaux ou de support quelconque » (Maniquet 2011, pp. 43-44). 54   Ces murs bordiers avaient une largeur comprise entre 0,73 et 0,84 m, pour ce qui était de leur élévation, et entre 0,78 et 0,89 m, pour ce qui était de leurs fondations : voir Maniquet 2011, pp. 44, 67-73 et 76. 55  Voir Roger 2008, p. 173, repris par Maniquet 2011, pp. 77, 79-80 et 2014, pp. 37-38, qui évoque une véritable « voie couverte ». 56   Voir par exemple Aubin et alii 2014, pp. 235-239. 57  L’hypothèse est émise de manière dubitative dans Roger 2008, p. 178, qui énumère plusieurs possibilités  : « bâtiment d’accueil monumental, sanctuaire, forum », et de manière plus explicite par Maniquet 2011, pp. 79-81 et 2014, pp. 39-41. 58   Dondin-Payre 2011 et 2012, avec référence à CIL, XIII, 11151. Pour la définition de sanctuaire « du territoire », voir Dondin-Payre 2011, p. 307. 59   Dondin-Payre 2011 p. 297 et 2012 p. 59. 60   Sur l’interprétation du terme forum dans ce contexte, nous rejoignons Dondin-Payre 2011, p. 298 et 2012, pp. 57, 59-60, qui évoque un « espace libre », lieu de rencontres et échanges dont la destination précise serait inconnue. Va dans le même sens, avec une préférence pour une destination sacrée, Van Andringa 2002, p. 109, qui suggère une possible assimilation du temenos des sanctuaires à un forum. Voir aussi Cavalieri 2001, p. 41, qui le définit une « piazza pubblica assimilata a un foro ». 53

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aménagements ont fait un usage savant de la topographie des lieux, avec le choix d’un emplacement surélevé pour le pôle principal, d’ordinaire un temple, dont la visibilité était ainsi accentuée, avec un renforcement de sa valeur symbolique au sein du maillage urbain. 3.  La fouille de la rue Kléber au Péchin à Néris-les-Bains (Allier) Comme anticipé en introduction, les découvertes récentes effectuées à Néris-les-Bains, dans le secteur du Péchin61, semblent pouvoir contribuer à cette réflexion sur la présence de parcours symboliques dans la topographie des centres urbains des Gaules romaines. Actuellement située dans le département de l’Allier, Néris-les-Bains, connue à l’époque romaine sous la double dénomination de Neriomagus et Aquae Nerii62, était un vicus de la cité des Bituriges Cubi, proche de ses limites méridionales et dominant un carrefour de voies qui le connectaient aux cités arverne, lémovice et éduenne. L’agglomération occupait la partie terminale d’un vaste plateau granitique délimité par deux affluents du Cher et creusé en son milieu par le ruisseau des Eaux Chaudes, encaissé dans un sillon longitudinal d’origine tectonique, profond d’environ 30 m (Fig. 5). La présence, à cet endroit, d’une source jaillissant à 53°C, lui a conféré, depuis l’Antiquité, la connotation de ville thermale, avec deux complexes de bains publics connus par l’archéologie63. Si ses premières attestations remontent en l’état actuel des connaissances à l’époque augustéenne, l’agglomération de Néris-les-Bains connaît son floruit monumental vers le milieu du IIe s. ap. J.-C. 3.1.  Les découvertes anciennes Parmi les secteurs de la ville qui ont restitué, depuis toujours, les traces les plus significatives d’une occupation ancienne, il faut sans doute compter le quartier du Péchin. Situé sur le sommet du plateau granitique qui abritait le vicus romain, celui-ci correspond au secteur le plus élevé de l’habitat, qui s’étendait aussi sur ses flancs et dans le fond du vallon thermal64. La richesse archéologique de ce quartier était déjà appréciée par les érudits locaux du XIXe siècle, tels par exemple Edmond Tudot qui, en 1861, évoque un « lieu où se rencontrent souvent des antiquités », comme des inscriptions et « plusieurs fragments de statues avec des fûts et des bases de colonnes », et arrive à supposer « l’existence d’un temple dans ce lieu »65. C’est néanmoins à l’activité de Camille De Laurès, médecin inspecteur des eaux de Néris, et surtout de Louis Esmonnot, architecte du Département de l’Allier et de l’établissement thermal de Néris, que nous devons, toujours dans la deuxième moitié du XIXe siècle, les découvertes les plus importantes effectuées dans ce secteur. Il s’agit d’abord d’une grande structure, de forme approximativement   Ces fouilles s’inscrivent dans le Programme Collectif de Recherche (PCR) Neriomagus/Aquae Nerii (voir Girardy et alii 2016) et sont conduites, depuis 2013, par une équipe franco-italienne (Université de ClermontAuvergne et Università di Bologna) sous la responsabilité de Carlotta Franceschelli. Un remerciement particulier doit être adressé à Pier Luigi Dall’Aglio, qui a coordonné l’équipe de Bologne, ainsi qu’à Gaia Roversi, Nicolas Farigoule, Kevin Ferrari, Paolo Storchi, Marco Licata et Francesco Tarlano, qui ont participé à toutes les campagnes et ont apporté une précieuse contribution. Merci aussi aux étudiants des Universités de Clermont-Ferrand et Bologne, qui ont pris part à cette fouille dans le cadre de leurs stages de formation. Voir Franceschelli 2013 ; 2014 et 2015. 62   Le premier nom est attesté, de manière indirecte, par une inscription qui cite les vicani Neriomagienes (CIL, XIII, 1374), pour laquelle a été proposée une chronologie postérieure au milieu du IIe s. ap. J.-C. (Girardy et alii 2016, p. 579, avec bibliographie de référence), ainsi que par la borne milliaire de Bruère-Allichamps (CIL, XIII, 8922 et XVII, 2, 489), datée de l’année 230 ap. J.-C. Quant au deuxième nom, sa première attestation connue se trouve dans la Tabula Peutingeriana, datée entre la fin du IIIe et le début du IVe s. ap. J.-C. 63   Il s’agit des deux complexes dits des thermes nord et des thermes sud, dont les premières découvertes remontent au XIXe siècle et qui, dans le cas des thermes sud, ont fait l’objet de fouilles récentes (Liegard, Fourvel 1999). Une synthèse des connaissances à ce sujet est proposée dans Girardy et alii 2016, pp. 573-576. 64   Girardy et alii 2016, p. 567. 65   Tudot 1861, p. 52. 61

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Fig. 5. Carte archéologique de Néris-les-Bains (PCR Neriomagus/Aquae Nerii), avec l’emplacement du complexe de la rue Kléber, sur le plateau du Péchin. D’après Girardy et alii 2016, p. 572, fig. 3.

demi-elliptique, découverte en 1859 dans la propriété de M. Du Creuzet66. Son plan est restitué par Esmonnot qui, dans son ouvrage de synthèse sur les antiquités de Néris publié en 1885, signale un « grand réservoir ayant la forme d’un trapèze de 15-20 m de base, terminé par une partie demi-circulaire de 13.00 de rayon »67 (Fig. 6). Sur le plan d’Esmonnot, cette structure est liée à deux murs parallèles, de direction approximativement est-ouest, longs de 15 m, espacés d’environ 7 m, qui forment une sorte de pièce quadrangulaire, dont les limites sud-occidentales ne sont néanmoins pas précisées. Après la fin du XIXe siècle, cette structure ne semble plus faire l’objet de recherches approfondies et les descriptions dont nous disposons par la suite n’ajoutent pas d’informations utiles à celles présentées dans les travaux d’Esmonnot. Fait exception Louis Laville qui, dans son article sur les aqueducs de Néris paru en 1964, tout en reprenant les données de la bibliographie précédente, ajoute une information utile sur l’épaisseur de ses murs, qui mesuraient, selon lui, 1,70 m68. Le plan réalisé par Esmonnot reproduit aussi une deuxième structure de forme quadrangulaire, qui n’affiche aucun lien avec le supposé réservoir, étant située quelques mètres au nord-est, de l’autre côté de la rue correspondant à l’actuelle rue Kléber. Dans le titre du plan et dans le texte associé, l’auteur propose d’interpréter cet édifice, qu’il avait fouillé en 1867, comme un temple. Plus particulièrement,   La découverte d’un castellum au Péchin, d’où devaient partir les conduits de distribution, en direction du théâtre et des sources chaudes, est relatée par De Laurès 1869, p. 16. Celui-ci y consacre ensuite une courte notice (p. 22, n° 12), dans laquelle il parle de la présence de « substructions antiques et citerne », dans un secteur, celui du Péchin, qui « a fourni, à différentes reprises, une grande quantité de débris curieux ». 67   Esmonnot 1885, p. 10 et planche VII. 68   Laville 1964, pp. 326, 333-334, fig. 7. 66

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Fig. 6. Plan des découvertes effectuées au Péchin au XIXe siècle, dans le plan de L. Esmonnot. D’après Esmonnot 1885, pl. VII.

il s’agissait des fondations d’un mur qui, à son avis, devait soutenir une « enceinte de colonnes », dont il aurait trouvé plusieurs éléments tout autour69. La présence de bâtiments à destination religieuse dans ce secteur est par ailleurs suggérée par la découverte d’une inscription aux numines Augustorum et aux Iunones, effectuée par le curé Pierre Renault en 1776, à un endroit non précisé du plateau du Péchin70. Le curé propose de l’attribuer à un édifice qu’il interprète comme un temple, qu’il avait eu l’occasion d’observer en 1784 « en nettoyant les fossés de la grande route qui va à Montaigut »71. L’existence d’un temple de plan carré de 5 m de côté, avec des murs de fondation en pierre d’environ 0,80 m d’épaisseur « sur le chemin de Commentry » est ensuite évoquée par L. Forichon, qui affirme l’avoir vu en 1853, en association avec un autel de forme légèrement trapézoïdale, haut de 1,04 m et large de 0,32 m72. Sur la base de ces notices, il demeure néanmoins difficile de préciser la nature réelle de ces vestiges – pour lesquels une destination funéraire ne peut pas être exclue – ainsi que leurs relations éventuelles avec la structure (temple ?) fouillée par Esmonnot. 3.2.  Un complexe structuré en terrasses Dans l’été 2013, les recherches que nous conduisions depuis 2011 sur l’alimentation en eau de Néris-les-Bains à l’époque romaine nous ont portés à nous intéresser à la question de l’arrivée des aqueducs en ville. C’est ainsi que le tracé de l’aqueduc principal, celui des Villattes, a été reconstitué jusqu’au quartier portant ce même nom (Fig. 5). D’ici, par méthodes géophysiques, le conduit a été   Esmonnot 1885, p. 11 et planche VII. Il est difficile pour nous de proposer une reconstitution fiable du plan de cet édifice, d’autant plus qu’Esmonnot précise ne pas avoir trouvé de traces de sa cella. 70   CIL, XIII, 1374. 71   Boirot-Desserviers 1822, p.  13, qui propose la graphie Renaud  ; Tudot 1861, p.  52  ; Forichon 18662, pp. 19-20. 72   Forichon 18662, pp. 20-21. 69

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Fig. 7. Vue du complexe monumental de la rue Kléber au Péchin, lors de la campagne de fouille de 2015. Cliché C. Franceschelli.

suivi tout au long du plateau du Péchin qui, du fait de son élévation, offrait un emplacement idéal pour organiser la distribution de l’eau en ville73. C’est ainsi que nous nous sommes interrogés sur la structure interprétée au XIXe siècle comme le castellum principal de l’aqueduc et, notamment, sur son rapport avec ce dernier. Des prospections géoradar conduites au numéro 2bis de la rue Kléber ont montré que cette parcelle abritait une partie de la structure, de plan approximativement demi-elliptique, observée au XIXe siècle74. Nous avons alors entrepris la fouille de cette parcelle, dans un premier temps par le biais de quelques sondages de vérification et, ensuite, à travers deux campagnes de fouille programmée, en 2014 et 201575. La recherche est encore en cours et de nouvelles fouilles ont été conduites en 2017. Les structures que nous avons mises au jour se caractérisent par un aspect monumental assez remarquable, bien que leur état de conservation soit presque exclusivement limité à leurs fondations : leurs murs ont subi en effet un arasement systématique à un moment non précisé de l’Antiquité tardive, pour récupération de matériaux de construction (Fig. 7)76. Ils se caractérisent par un usage systématique de   Pour les analyses géophysiques, voir la relation de F. Boschi dans Franceschelli 2013, aux pp. 88-110 (annexe 1) et, pour une synthèse des résultats, Franceschelli 2013, pp. 17-23. 74  Voir Franceschelli 2013, p. 22. 75   Franceschelli 2013 ; 2014 et 2015. 76   Il faut aussi considérer le décapage systématique de la parcelle, suivi par le remblai de matériel hétérogène, effectué, il y a une quinzaine d’années, en vue de la réalisation d’un parking. Même si le projet n’a pas abouti, l’évacuation intégrale de la terre de décapage a néanmoins comporté la perte des couches de fréquentation du complexe. 73

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Fig. 8. Plan du complexe de la rue Kléber, sur base cadastrale, orienté au nord (DAO C. Franceschelli).

l’opus caementicium, associé à des parements en petit appareil de granit : les moellons sont disposés en assises assez régulières, avec joints beurrés et tirés au fer dans les rares parties conservées en élévation. Leur épaisseur est comprise entre 1 et 2 m et leurs fondations descendent jusqu’à une profondeur de 2,40 m par rapport au niveau du sol de l’époque, ce qui leur conférait une grande solidité. Il est donc pertinent de supposer qu’en plus d’une fonction de terrassement sur les flancs du plateau, ils devaient soutenir un édifice doté d’une certaine élévation. Le grand espace avec plan en U légèrement outrepassé que nous avons désigné avec la lettre 1A est celui autrefois interprété comme un château d’eau, sans doute à cause de sa forme arrondie et de sa position surélevée par rapport au reste de la ville antique (Fig. 8). Il s’agit en réalité d’un espace vraisemblablement ouvert, que nous avons fouillé sur une surface d’environ 60 m2 – correspondant à peu près à sa moitié – et qui devait continuer dans la parcelle située immédiatement au sud, soit une largeur maximale de presque 15 m et une longueur d’un peu moins de 10 m. Les tranchées de fondation de ses murs bordiers ont été creusées dans une stratigraphie qui n’est pas compatible avec les dynamiques d’abandon et de remplissage d’un bassin, mais qui est plutôt le résultat d’une phase d’occupation antérieure77. Pèse également contre son interprétation traditionnelle le fait que ses murs ne présentent aucune ouverture pour l’entrée ou la sortie de l’eau et qu’aucune trace de fond n’a été trouvée, bien que la fouille ait été conduite jusqu’au sol naturel (en ce point, à 378 m NGF). Le niveau de circulation en   Cette phase d’occupation, dont la chronologie a pu être fixée entre le milieu du Ier s. et le début du IIe s. ap. J.-C., se caractérise par des niveaux de sol en mortier de chaux et des élévations en matériaux périssables (bois et argile). Il est difficile pour le moment d’en proposer une fonction précise, car les approfondissements que nous avons pu effectuer nous donnent une vision très morcelée de l’ensemble. Néanmoins, sur la base du mobilier collecté (dont plusieurs exemplaires de statuettes en terre blanche de l’Allier), une fonction cultuelle ne peut pas être exclue. 77

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phase avec cette structure doit en revanche être identifié dans la couche de mortier de chaux de 2 à 4 cm d’épaisseur (à 379,40 m NGF) qui, à proximité des murs, scelle le remplissage de leurs tranchées de fondation, ce qui atteste sa postériorité. À l’extrémité orientale de la parcelle, le mur de la structure 1A (US 3005) se prolongeait sous la rue Kléber (US 3220), où il allait définir l’espace 1D (Fig. 8), que nous avons pu fouiller seulement pour une petite partie, à cause de la présence de la voie et de l’habitat moderne. De forme vraisemblablement quadrangulaire, cet espace semble entretenir une relation avec la structure interprétée au XIXe siècle comme un temple. À la lumière de ces dernières découvertes, il nous paraît raisonnable d’affirmer que ce qui autrefois avait été considéré comme deux bâtiments autonomes – un temple et un château d’eau – faisait en réalité partie d’un seul et même ensemble monumental, articulé en terrasses sur les flancs du plateau du Péchin. Le niveau de circulation de cette partie 1D se trouvait en effet à une hauteur supérieure à celle du niveau de circulation du secteur 1A, comme l’atteste le fait que la tranchée de fondation de son mur périphérique (US 3220), qui devait se prolonger sous la rue Kléber, s’ouvrait à 1 m au moins au-dessus du niveau de sol du secteur 1A. Ceci créait, entre ces deux parties du complexe, un dénivelé qui devait être franchi par le biais de quelques marches. Sur son côté opposé, en direction de l’ouest, le mur de la structure 1A était relié à deux murs parallèles d’1 m environ d’épaisseur (US 3006 et 3044), déjà partiellement observés par Esmonnot : nous les avons suivis jusqu’à la fin de la parcelle, sur une longueur d’à peu près 36 m, mais ils semblent continuer plus loin. Ils définissaient une sorte de long “couloir”, large d’environ 7 m (secteur 1B/C), qui ne s’alignait pas sur l’axe principal du complexe, probablement pour assurer une connexion entre le fond du vallon thermal et le sommet du plateau, à travers un parcours en pente douce (Fig. 8). Le niveau de sol de ce secteur 1B/C, constitué d’une chape de mortier de chaux épaisse de 4 à 5 cm posée sur un hérisson de pierres de petites et moyennes dimensions, formait un plan horizontal plus bas d’environ 40/50 cm par rapport au sol du secteur 1A, pour une dizaine de mètres en direction ouest (US 3079 et 3126), et ensuite descendait vers le vallon thermal selon une pente d’environ 5% (US 3282). Dans le secteur fouillé, ses murs bordiers sont actuellement longés par deux tranchées de spoliation parallèles (US 3188 et 3250), larges et peu profondes (environ 2,30 m de large pour 0,30/0,40 m de profondeur), qui présentent, vers la partie centrale de l’allée, un approfondissement d’environ 0,60 m, large de 60/70 cm, bien visible surtout sur son côté nord, rempli de moellons irréguliers et de mortier de chaux (Fig. 9). Il s’agit très probablement des tranchées de spoliation de structures peu développées en profondeur, tels des trottoirs (ou tout au moins des cheminements latéraux), dotés peut-être d’un dallage et délimités, sur leur côté interne, par des murets de rive, pouvant faire fonction de mur bahut ou stylobate pour soutenir une colonnade78. La présence de concentrations de tuiles en position d’effondrement dans les deux bandes latérales de cette allée pourrait par ailleurs être compatible avec l’hypothèse d’une galerie à portiques, au moins partiellement couverte. Près de l’endroit où le sol de cette allée 1B/C arrivait presque au même niveau d’altitude que celui de l’espace avec plan en U (1A) et se raccordait avec lui, en position centrale par rapport à ses murs périphériques, s’ouvre actuellement une fosse de forme approximativement carrée (US 3286), d’environ 1,30 m de côté, remplie de moellons irréguliers et de mortier de chaux (Fig. 9). Eu égard à sa forme et à sa position, il pourrait s’agir de la spoliation d’un soubassement maçonné de forme quadrangulaire, pouvant soutenir une statue ou un petit autel, à un endroit qui marquait peut-être la véritable entrée du complexe. La question, très importante pour préciser l’interprétation de cet ensemble monumental, fera l’objet d’approfondissements ultérieurs lors de la prochaine campagne de fouille. La construction de ce complexe monumental a pu être datée du milieu du IIe s. apr. J.-C.79, une période au cours de laquelle le vicus de Néris semble connaître son plus grand développement urbain   Pour une réflexion sur la terminologie des voies à portiques, voir Byhet 2002 et 2007.  L’étude du mobilier est conduite par Gaia Roversi, céramologue titulaire d’un diplôme de Spécialisation en archéologie classique à l’Université de Bologne. 78 79

Fig. 9. Plan de l’allée monumentale du Péchin (secteur 1B/C), avec détail des tranchées de spoliation. DAO C. Franceschelli.

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Fig. 10. Tracé possible de l’allée de la rue Kléber, entre le Péchin et les thermes sud, sur base cadastrale. DAO C. Franceschelli.

et un véritable essor monumental, avec de nombreuses interventions sur les principaux monuments publics, tels par exemple les thermes sud80. Pour ce qui est de la fonction du complexe du Péchin, comme cela a été évoqué précédemment, son identification est sans doute compliquée par la perte, presque totale, de ses niveaux de circulation. Cependant, du fait de sa position topographique, sur une hauteur à l’entrée de la ville, de sa planimétrie complexe, articulée en plusieurs parties sur différents niveaux altimétriques, du gabarit important de ses fondations, ainsi que de sa continuité avec la structure quadrangulaire interprétée par Esmonnot comme un temple (voir supra), l’hypothèse d’un ensemble à destination cultuelle, probablement en lien avec un culte public81, nous paraît pouvoir être retenue. La longue allée 1B/C, probablement partiellement couverte par deux portiques latéraux, devait ainsi relier le vallon thermal au sommet du plateau, donnant d’abord accès à une première esplanade – l’espace 1A – et de là au temple (dans l’espace 1D ?), qui prenait vraisemblablement place au point d’aboutissement d’un parcours ascensionnel à la monumentalisation particulièrement suggestive. 4.  Une allée monumentale en connexion avec le sacré 4.1.  Un retour au dossier épigraphique Le vicus de Neriomagus/Aquae Nerii a livré un corpus d’une vingtaine d’inscriptions, qui font actuellement l’objet d’une étude spécifique dans le cadre du PCR, sous la responsabilité de Laurent   Girardy et alii 2016, pp. 573-575.   Sur la signification de “public”, en rapport à un sanctuaire, voir, pour sa clarté, Van Andringa 2006, p. 121.

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Lamoine82. Dans le cadre de ce corpus, il paraît utile ici de revenir sur l’inscription, attestée en deux exemplaires, qui documente l’activité évergétique promue dans ce vicus par une gens Iulia, investie d’un rôle de premier plan au sein de la civitas des Bituriges Cubi dans la première moitié du IIe s. ap. J.-C.83. Les deux inscriptions ont été découvertes, à partir de 1853, dans un état très fragmentaire, plus de 150 m au nord-est de l’établissement thermal, vers le milieu de l’actuelle rue du Capitaine Migat, qui permet de franchir le dénivelé entre le fond du vallon thermal et la route nationale (rue du Commandant Goetschy) (Fig. 10). La combinaison de ces fragments permet de restituer le texte de l’inscription de la manière suivante : [Nu]minib(us) Aug(ustorum) et Nerio deo usibusq(ue) r(ei) p(ublicae) B[it(urigum) Cub(orum) et vic(anorum) Ner(iomagensium)] / L(ucius) Iul(ius) Iulii Eq[uestr]is fil(ius) Equester IIvir II flamen Rom(ae) et Aug(usti) itemque flamen p[…] / ex decreto [ord(inis)?] Lucii Iulii Equestris filii Cimber et Equester flamin[es Rom(ae) et Aug(usti) diri]/bitoria tabernas porticus quibus fontes Nerii [et] thermae p[ublicae… / cu]m omnibus suis ornamentis ob hono[r(em)] flam[o]ni o[…] 84.

L’inscription évoque les évergésies réalisées par les membres d’une même famille, les Iulii Equestres, dans le but de rehausser le décor urbain de Néris-les-Bains. Parmi ces interventions, il est question notamment de portiques, dont l’identification dans la topographie urbaine demeure, à notre avis, encore sujette à discussion. Selon la lecture traditionnellement acceptée, ces portiques devaient en effet entourer les thermes et les sources d’eau chaude de Nerius : porticus quibus fontes Nerii et thermae p[ublicae ? cinguntur…]85. En réalité, l’intégration cinguntur, proposée par O. Hirschfield dans le CIL, est la lectio facilior, mais elle ne constitue pas la seule lecture possible. Une autre hypothèse d’intégration pourrait par exemple être suggérée par l’inscription découverte à Vendœuvres-en-Brenne en 1892, dont il a été question au paragraphe 2.2 et qui présente un formulaire très proche de celles de Néris-les-Bains86. Cette inscription, dont il manque plus de la moitié du champ épigraphique87, rappelle des actes évergétiques visant à renforcer la panoplie monumentale du centre, entre autre à travers la réalisation de portiques. Dans la partie du texte conservée, l’emploi du verbe adeuntur pourrait faire allusion à des portiques allant du forum jusqu’à un deuxième bâtiment/espace inconnu à cause d’une lacune dans l’inscription : « por/[…] et a foro adeuntur / […]m posuerunt »88.   Une étude préliminaire a été faite par Blanc 2011.   Les fragments de ces inscriptions sont édités dans CIL, XIII, 1376-1378. Pour la proposition de considérer aussi CIL, XIII, 1378, cf. Blanc 2011, pp. 113-114. 84  Cf. Blanc 2011, p.  116, qui propose l’intégration ex decreto [ordinis] sur la base de CIL, XIII, 11155, dont le formulaire est très proche. 85   CIL, XIII, 1376-1377. Depuis sa découverte, en 1819, l’établissement des thermes sud a effectivement livré des structures à portiques. Leur nature demeure néanmoins difficile à préciser. L. Forichon (18662), dont la description repose principalement sur les observations de Boirot-Desserviers (1822), qui avait assisté aux fouilles de 1819-1821, évoque la présence d’une galerie couverte, de plus de 70 m de long, sur le côté ouest de l’établissement (Forichon 18662, p. 35) et, perpendiculairement, sur le côté nord, d’une deuxième galerie, selon lui « de portique de péristyle à un temple » (Forichon 18662, p.  36), dont l’existence à cet endroit est néanmoins complètement spéculative. Aux pp.  40-41 de son ouvrage, Forichon donne plus de précisions sur cette galerie nord : « […] on découvrit une galerie, c’est-à-dire, plus exactement, un certain nombre de colonnes couchées, comme des sacs de farine les uns sur les autres avec leurs chapiteaux […]  ». L’existence d’une galerie au nord de l’édifice thermal a été confirmée par les fouilles préventives conduites en 1998, qui l’ont suivie sur une longueur d’environ 20 m (Liegard, Fourvel 1999, pp. 105, 109-113) et pour laquelle les archéologues ont émis l’hypothèse d’une association à une palestre. 86   CIL, XIII, 11155. 87   Sur l’importance de cette lacune, voir Dondin-Peyre 2011, p. 294. 88   La restitution communément admise pour ces lignes 7-8 est la suivante : « por/[ticus quibus thermae cinguntur ?] et a foro adeuntur / [usque ad ?...]m posuerunt » (Dondin-Peyre 2011, p. 294 et 2012, p. 58). La référence aux thermes et, 82 83

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Sur cette base, si nous proposons pour les inscriptions de Néris l’intégration adeuntur à la place de cinguntur, il semble pertinent de la compléter avec (adeuntur) templum ou ad aedem. Il en découlerait que les portiques ici mentionnés n’entouraient pas les thermes mais les reliaient à un autre espace ou édifice. Le lieu de découverte de ces inscriptions, dans le prolongement théorique de l’allée que nous avons mise au jour (secteur 1B/C), semble par ailleurs compatible avec une identification de ce deuxième pôle avec l’édifice qui surgissait sur le plateau du Péchin (sanctuaire ?) et du portique évoqué par l’inscription avec notre allée monumentale89. A cet égard, il serait tentant de supposer que les deux inscriptions étaient affichées sur les deux côtés de cette allée à portiques, ou en correspondance avec un dispositif de passage – tel un arc ou un édicule90 – qui pouvait rythmer son tracé. Les détails de la découverte des fragments de ces inscriptions, tels qu’ils sont relatés par L. Forichon dans son ouvrage sur les antiquités de Néris pourraient étayer cette lecture. L’auteur évoque en effet la présence d’un mur dont la description, certes assez sommaire, suggère néanmoins l’aspect des murs bordiers de l’allée fouillée au Péchin (US 3006 et 3044), caractérisés par la présence de joints beurrés très résistants et, par endroit, tirés au fer : « [...] il est en petites pierres liées par un mortier très dur et revêtu, sur ses deux parois, d’un enduit fin et poli sur lequel des assises sont figurées par des raies d’une couleur rouge bien conservée »91. 4.2.  Une “voie processionnelle” ? Si nous reprenons les exemples de voies qui connectent des “points forts” au sein de la topographie religieuse urbaine des Gaules, cités précédemment (voir par. 2.2.), nous pouvons constater que les chercheurs qui en ont conduit l’étude évoquent souvent pour elles une fonction de “voie processionnelle”. Les processions jouent en effet un rôle important dans le rituel religieux romain, principalement attesté par les inscriptions, les sources littéraires et l’iconographie92. Ces pratiques sont particulièrement documentées en lien avec le culte impérial et, plus en général, les sacra publica, célébrations cultuelles réalisées au bénéfice de la collectivité et financées avec des fonds publics, dont la fonction d’intégration et de cohésion sociale s’avérait cruciale, notamment en milieu provincial93. Comme le montre clairement Duncan Fishwick dans son étude sur le culte impérial, la documentation dont nous disposons, à cet égard, concerne essentiellement la partie orientale de l’Empire94. C’est par exemple le cas de la très célèbre inscription de Gytheum, dans le Péloponnèse oriental, qui nous renseigne, pour l’époque de Tibère, sur le déroulement de festivités en l’honneur de la maison impériale, comportant, entre autre, une procession à laquelle participait l’ensemble de la commupar conséquent, l’intégration avec le verbe cinguntur, sont proposées sur la base des inscriptions de Néris dans lesquelles, il ne faut pas l’oublier, le verbe est le résultat d’une intégration. 89   Les deux intégrations que nous proposons pour cette lacune (porticus quibus fontes Nerii et thermae publicae adeuntur templum ou adeuntur ad aedem) s’adaptent bien au champ épigraphique et à la disposition du texte dans les différentes lignes de l’inscription. Un grand merci à Simona Antolini, Giovanni Mennella et Laurent Lamoine pour leurs conseils amicaux. L’intégration adeuntur avait déjà été proposée par Blanc 2011, p. 120, qui toutefois la complète avec et a foro adeuntur basilicam, en identifiant donc ce deuxième édifice avec une basilique, pour le moment non attestée par l’archéologie. 90   À titre d’exemple, voir le cas d’Évaux-les-Bains, où les fouilleurs ont reconnu une série d’édicules le long de la voie couverte : Maniquet 2014, pp. 32 et 34. 91   Forichon 19662, p.  84. L’auteur s’interroge par ailleurs sur l’emplacement d’origine de ces inscriptions et, en considération de la distance non négligeable qui les sépare des thermes, il émet l’hypothèse qu’elles se trouvaient «  à l’entrée d’une avenue pour y être lues des arrivants ». 92   Van Andringa 2002, pp. 177-181. 93   Sur le rôle des sacra publica à l’échelle municipale et sur leur fonction de cohésion sociale, voir RodrÍguez Neila 2010. Sur la diffusion du culte impérial en Gaule, aussi dans les sanctuaires de vici et pagi, voir Fincker, Tassaux 1992 et Van Andringa 2002, p. 177. 94   Fishwick 1991, pp. 550-566. Néanmoins, à plusieurs reprises, l’auteur suppose que les mêmes pratiques soient pratiquées en Occident.

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nauté citoyenne, répartie en fonction de sa hiérarchie sociale et politique. Cette procession, qui partait du sanctuaire d’Esculape et Hygie, arrivait au théâtre après avoir fait étape au sanctuaire du culte impérial et à l’agora95. De ce fait, les pôles politiques et religieux majeurs étaient symboliquement connectés par ce passage, avec la création d’un véritable lien idéologique entre eux. Si le lien cultuel entre le temple et les édifices de spectacle, dont le théâtre notamment, paraît bien attesté dans le monde romain, avec plusieurs exemples aussi en Gaule, notamment en association avec le culte impérial96, une possible association entre les temples et les thermes, qui semble en revanche se dégager de l’exemple de Néris-les-Bains, paraît plus délicate à définir. Certes, le caractère sacré des bâtiments thermaux est parfois avéré, notamment dans le cas de thermes de cure, dotés d’une source d’eau thérapeutique97. Néanmoins, ceci ne peut pas être postulé de manière systématique, puisque la présence de l’eau en association avec un sanctuaire ou à proximité pouvait être également requise par les exigences rituelles de purification des officiants et du public qui assistait au service98. Il importe néanmoins de remarquer que, dans un cas comme dans l’autre, un lien architectural et topographique entre les temples et les thermes est souvent attesté dans le monde romain99. C’est ainsi qu’une connexion entre les thermes sud de Néris et le grand complexe fouillé au Péchin, par le biais d’une allée monumentale longue plusieurs centaines de mètres (secteur 1B/C), peut être raisonnablement envisagée, qu’elle soit simplement justifiée par des besoins pratiques ou qu’elle soit chargée d’une connotation sacrée spécifique. La monumentalité du dispositif, ainsi que le parallèle d’Évaux-les-Bains, semblent appuyer cette hypothèse, qui devra être approfondie lors de prochaines campagnes de fouille. Bibliographie Aubin et alii 2014 = G. Aubin, M. Monteil, L. Eloy-Epailly, L. Le Gaillard, Sanctuaires et pratiques religieuses du IIIe au Ve s. apr. J.-C. dans l’ouest de la province de Lyonnaise et de ses marges, in W. Van Andringa (dir.), La fin des dieux. Les lieux de culte du polythéisme dans la pratique religieuse du IIIe au Ve s. apr. J.-C. (Gaules et provinces occidentales), in « Gallia » 71/1, 2014, pp. 219-248. Aupert 1991 = P. Aupert, Les thermes comme lieux de culte, in Les thermes romains, Actes de la table ronde organisée par l’École française de Rome (Rome, 11-12 novembre 1988), Rome 1991, pp. 185-192. Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008 = P. Ballet, N. Dieudonné-Glad, C. Saliou (dir.), La rue dans l’Antiquité. Définition, aménagement et devenir de l’Orient méditerranéen à la Gaule, Rennes 2008. Bertrand 2008 = A. Bertrand, De la rue aux lieux de culte : réflexions sur les modalités d’une interface urbanistique dans les villes romaines, in Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008, pp. 77-81. Blanc 2011 = A. Blanc, Étude du corpus des inscriptions latines d’Aquae Nerii. Examen préliminaire, in C. Girardy-Caillat (dir.), PCR Neriomagus/Aquae Nerii, Rapport d’opération, Clermont-Ferrand 2011, pp. 111-125. Boirot-Desserviers 1822 = P. Boirot-Desserviers, Recherches historiques et observations médicales sur les eaux thermales et minérales de Néris en Bourbonnais, Paris 1822. Byhet 2002 = Th. Byhet, Les portiques de rue dans les agglomérations de la Gaule romaine. Un élément de l’amoenitas urbium ?, in R. Bedon (dir.), Amoenitas Urbium. Les agréments de la vie urbaine en Gaule romaine et dans les régions voisines, « Caesarodunum » XXXV-XXXVI, Limoges 2002, pp. 15-38. Byhet 2007 = Th. Byhet, Contribution à l’étude des portiques de rue dans les villes du Nord de la Gaule, in R. Hanoune (dir.), Les villes romaines du Nord de la Gaule. Vingt ans de recherches nouvelles, in « Revue du Nord », Hors-série. Collection Art et Archéologie n° 10, Lille 2007, pp. 421-446.     97   98   99   95 96

SEG XI, 923 ; voir par exemple Calandra, Gorrini 2008. Fishwick 1991, pp. 550-560 et, pour les Gaules, Fincker, Tassaux 1992, pp. 54-62 et 66-70. Aupert 1991 ; Fincker, Tassaux 1992, pp. 50-52. Schied 1991. Pour les Gaules, voir Aupert 1991, pp. 186-188 ; Schied 1991.

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HOSPITALITÉ PUBLIQUE, HOSPITALITÉ PRIVÉE DANS LA VILLE

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Parmi les manières possibles d’aborder la gestion des espaces urbains dans leur dimension politique, j’ai choisi le thème de l’accueil de l’étranger en entendant par « étranger », celui qui n’appartient pas au corps civique et passe dans la ville sans y demeurer. Des études de cas portant sur le thème de l’accueil, regroupées dans trois dossiers principalement archéologiques, me serviront à éclairer la complexité de la relation qu’entretiennent les termes « public » et « privé » dans l’usage de l’espace urbain. Les intérêts de la collectivité s’y opposent à ceux de ses membres pris comme des individus selon deux logiques. La notion de public est associée à une logique d’ouverture et celle de privé à une logique de fermeture. À la clôture du centre urbain où s’exerce la vie civique s’oppose la nécessité économique d’ouvrir la ville aux échanges. Le premier dossier porte sur la manière dont les villes ont adapté l’usages de leurs rues à l’augmentation du trafic qu’entraîna l’essor des échanges et de la vie de relation, en en régulant la traversée et en aménageant des espaces d’accueil à leurs portes. La préservation de l’intérêt commun nécessite une réglementation limitant les usages de la voierie, qui, dans le droit romain, figure parmi les loca publica1. Le second traite de l’accueil de personnalités qui peuvent être des représentants de l’État romain ou des membres des élites dirigeantes. Les premières sont reçues dans un bâtiment public dont l’accès leur est réservé. Les autres entretiennent avec leurs hôtes des relations qui relèvent de l’amicitia, ce qui leur donne accès à la partie privée de la domus aristocratique. Dans la ville romaine, l’accueil public est devenu un munus. Un troisième dossier, celui des stations routières implantées en périphérie des villes, offre la possibilité d’aborder la collaboration entre l’État et les gestionnaires urbains dans le financement de ces structures d’accueil. Il illustre l’interpénétration des deux sphères du public et du privé dans la pratique évergétique. 1.  Contraintes publiques et circulation dans la ville 1.1.  Entrer dans la ville ou la contourner En 2004, l’institut archéologique allemand a réuni un colloque sur la question de la circulation dans la ville. Pour son apport à la question abordée ici, on retiendra particulièrement la communication de   Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008, p. 11. Sur une question où le vocabulaire est un révélateur de complexité, on lira les remarques de C. Saliou sur les notions de loca communia et de loca publica (Saliou 2001). 1

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P. Gros dont le titre énonce une alternative : « Entrer dans la ville ou la contourner ? ». Une contradiction oppose en effet la représentation des villes dans un territoire et la conception romaine de la vie urbaine. Les traités gromatiques nous ont transmis l’image d’une ville située au carrefour des axes qui en organisent le territoire. Cela commence par Rome. Ainsi Dion Cassius explique que, « nommé curateur des voies à l’entour de Rome, [Auguste] éleva ce qu’on appelle le ‘Milliaire d’Or’ »2 : situé sur le forum, il est considéré comme le point d’où toutes les distances étaient décomptées. C’est aussi au centre des villes chefs-lieux, sur le forum, que se situe le point de départ du décompte des distances routières dont on use pour en définir l’extension territoriale. Mais ce forum, lieu par excellence de l’exercice des activités civiques, n’était pas accessible aux véhicules. Privilégiant « les valeurs de représentation », l’urbanitas entrait en contradiction avec les « exigences immédiates du transport et des échanges »3. Parmi des règlements divers, rappelle-t-il, Claude aurait enjoint « par une ordonnance aux voyageurs de ne traverser les villes d’Italie qu’à pied, en chaise à porteurs, ou en litière »4. Deux types de cas peuvent être distingués dans la série des exemples qui illustrent cette alternative. Dans l’un, les autorités municipales ont tenté de concilier trafic local et trafic de transit par un contournement du secteur du forum. À Volsinies où les contraintes de la topographie imposaient de traverser la ville, le tronçon urbain de la via Cassia est dédoublé pour détourner les convois en transit. À Herdonia dans les Pouilles, la via Traiana fait un coude à angle droit au niveau du forum. Dans l’autre, un itinéraire de contournement exonère totalement la ville du passage des convois en transit. En Gaule Narbonnaise, M. Monteil l’avait montré pour Nîmes5. Les points de franchissement du Rhône par les axes routiers se trouvaient en périphérie des villes fluviales d’Arles et de Vienne6. Dans le même colloque, un article de R. Laurence portait sur le cas de Pompéi dont le trafic a fait l’objet d’une série de recherches topographiques initiées sur ce site dans les années 1990 par des archéologues japonais7 et développés par leurs successeurs dans les années suivantes8. Elles restituent une image dynamique de la circulation dans une ville où la régularité planimétrique du centre contrastait avec la sinuosité des rues comme dans la Regio VII, à l’est du forum. Il fallait concilier la protection de la vie civique avec les exigences de la vie économique. L’observation de dispositifs et d’aménagements destinés à réguler la circulation urbaine restitue une organisation du trafic roulant permettant de traiter le conflit d’intérêts entre le respect de la tranquillité et la desserte des bâtiments privés et publics. Des obstacles mobiles permettaient aux autorités de modifier à volonté le parcours des véhicules dans la ville tandis que des bornes fixes ou des escaliers interdisaient certains secteurs de manière permanente, réservant ainsi l’accessibilité au centre monumental aux piétons. Inversement, des plans inclinés, des chasse-roues ou de profondes ornières de roulage creusées dans le dallage pour en guider les roues et les empêcher de déraper facilitaient le passage de véhicules lourdement chargés. Il a été ainsi possible de dresser une carte des itinéraires d’accès à des ateliers et de restituer le parcours des véhicules d’approvisionnement de grands édifices publics, ainsi que celui des chariots approvisionnant les chantiers d’une ville en reconstruction à la veille de l’éruption. 1.2.  Timgad : l’adaptation d’un réseau urbain géométrique à la circulation régionale Pompéi a ainsi servi de laboratoire pour l’élaboration de modèles de circulation dans la ville romaine qui ont été ensuite appliqués à des villes de fondation. C. van Tilburg cite le cas de Cologne dont le forum est situé au carrefour d’une voie nord-sud empruntant le cardo selon un tracé direct d’une porte   D.C., LIV, 8, 4 ; Plin., Nat. hist. III, 66 ; Tac., Hist. I, 27 ; Plut., Galba 24, 4.   Gros 2008, p. 161. 4  Suet., Claud. 25, 5. 5   Monteil 2003. 6   Leveau 2011, pp. 448 et 462-466. 7   Laurence 2008 ; Tsujimura1991. 8   Tilburg 2011 ; Kaiser 2011; Poehler 2011. 2 3

Hospitalité publique, hospitalité privée dans la ville

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Fig. 1. Les itinéraires de traversée de Timgad. En trait épais, les rues empruntées par le trafic dans la ville ancienne. En trait épais discontinu, le contournement par le sud-ouest. 1. Nouvelle porte de Mascula ; 2. Porte de Mascula ; 3. Forum ; 4. Thermes du Sud ; 5. Maison de l’Hermaphrodite ; 6. Maison de Sertius ; 7. Quartier industriel ; 8. Capitole; 9. Cathédrale donatiste ; 10. Marché de Sertius ; 11. Arc de Lambèse ; 12. Auberge ; 13. Porte de Lambèse ; 14. Porte du Nord.

de la ville à l’autre et un decumanus prolongeant la route menant de Bavay en Germanie. Alors que le cardo suit un tracé direct, le decumanus contourne le forum en faisant un zigzag9. Je présente ici le cas de la ville africaine de Timgad qui a fait l’objet de fouilles extensives à la fin du XIXe s. et au début du XXe. C’est comme Cologne, une ville de fondation traversée par l’axe majeur qui suivait d’est en ouest le versant nord de l’Aurès et reliait Carthage à Lambèse où résidait le gouverneur de la province de Numidie10. L’orientation du plan orthogonal de la colonie est donnée par celle du soleil à son lever lors de la prise des auspices le jour de sa fondation en 100 par L. Munatius Gallus, le légat de la IIIe légion Auguste. La grande route dont le tronçon urbain empruntait le decumanus maximus selon un tracé direct entre les deux grandes portes de la ville primitive, la porte de Lambèse et la porte de Mascula (Khenchela), formait avec lui un angle accusé (Fig. 1). Le cardo dont le point de départ était une porte monumentale s’interrompait au point où il croisait le decumanus au niveau du forum, ce qui contraignait la circulation vers le sud à utiliser des cardines secondaires. Celui qui fut utilisé comme artère principale se trouve à l’ouest du forum. Ainsi, respectant les contraintes de la vie civique, la circulation nord-sud venant de Cirta adoptait un tracé en zigzag dans la traversée de la ville pour rejoindre la route qui conduisait vers le piémont saharien.   Tilburg 2011, fig. 11, p. 165.   On trouvera une description des routes partant de Timgad dans la notice consacrée à ce site par Gsell 1911, p. 29. C’est ici l’occasion de relever que cette notice n’a pas été remplacée ; sa consultation demeure indispensable. 9

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Lorsque l’essor de la ville en fit passer la superficie de 12 ha à près de 60 ha, son développement s’accompagna de l’abandon de la planification orthonormée qui avait régi la ville lors de sa fondation. En 167, l’oblicité de l’arc monumental (dit « de Trajan ») qui fut élevé sous les Sévères à sa sortie ouest vers Lambèse ménagea la transition entre le decumanus maximus et la grande rue qui conduisait 350 m plus loin à la nouvelle porte occidentale de la ville. En 171, l’entrée orientale de la ville fut reportée de 200 m, de l’ancienne porte de Mascula à la nouvelle11. Dans les nouveaux quartiers, l’orientation des rues se conforma à celle des axes de circulation régionale. L’oblique l’emporta sur l’orthogonalité. De nouvelles règles s’imposèrent. Des observations précises portant sur les ornières destinées au guidage des chariots au niveau de l’arc de Trajan ont permis à P. Salama de montrer que le decumanus maximus resta utilisé par la circulation charretière12. Mais l’adaptation aux contraintes du terrain conduisit à une réduction du nombre des voies secondaires au profit de grands axes et l’inventivité des architectes s’exprima dans l’aménagement des vides13. J. Lassus a décrit une opération immobilière qui suivit la destruction de la muraille de la ville de Trajan, qui en matérialisait les limites. Deux vastes maisons furent construites dans une bande de terrain de 500 m sur 26 m à l’ouest et 41 m au nord, ainsi libérée à la sortie sud de la ville. L’une d’elles a appartenu à un Faustus et une Valentina qui sont sans aucun doute Marcus Plotius Faustus Sertius et Cornelia Valentina Tucciana, son épouse, qui appartenaient à des familles de rang équestre14. Leur vaste maison à laquelle 16 boutiques sont adossées mesure de 75 m sur 36 m et couvre une superficie de 2600 m2 15. L’orientation de ce lotissement est conforme aux axes directeurs de la ville ancienne. Mais, dans le terrain à construire, aucune place ne fut prévue pour des rues qui auraient assuré la jonction entre le réseau viaire de la ville ancienne et les nouveaux quartiers. Faisant ce constat, J. Lassus a proposé de reconnaître là une opération spéculative sur un terrain à construire : « on accroissait les surfaces à vendre et les bénéfices »16. Elle se serait exercée au bénéfice des Sertii qui ont financé le marché qui porte leur nom dans la littérature, en face du temple du Génie de la colonie et à proximité de leur maison17. On y verra plutôt un témoignage de la confusion normale à cette époque entre les intérêts privés et publics dans la gestion des villes par leurs élites18 et l’effet d’un nouvel urbanisme conciliant la fermeture de la partie ancienne de la ville à la circulation charretière avec une nécessaire ouverture des nouveaux quartiers de la ville. Cette opération invite à prendre des distances par rapport à une lecture de l’espace en termes sociaux qui établit un lien symbolique entre la dignitas du propriétaire d’une maison et la centralité urbaine. Si, comme l’a montré P. Vipart à propos de la maison des élites, une lecture spatiale de la ville reliant marginalité spatiale et sociale est possible dans certains cas19, la position des deux plus grandes maisons de Timgad est liée à la disponibilité des surfaces et à l’accessibilité du site. La fermeture de l’accès sud de la ville ancienne fut associée à la mise en place de son contournement à l’angle sud-ouest par une rue qui rejoignait la route de Lambèse en passant devant le Capitole. Les fouilles pratiquées par A. Ballu dans ce triangle dégagèrent 70 pièces occupant une superficie de 2000 m2 qu’il supposait être « un quartier industriel » en se fondant sur la présence d’un atelier de bronzier et d’une « fabrique de céramique ». Le réexamen de la documentation a conduit T. Amraoui à remettre en question cette hypothèse20. Si l’existence d’un atelier de bronzier est assurée, celle d’un   Lassus 1969, p. 14.   Salama 1994, pp. 353-355. 13   Lassus 1965, p. 249. 14   Pavis d’Escurac Doisy 1980. Les Sertii de rang équestre sont apparentés aux Flavii dont plusieurs membres sont clarissimes. 15   CIL, VIII, 2399 (p. 1693). 16   Lassus 1966, p. 1230. 17   ILS, 5579 : Sertii macellum et aream eius patriae suae fecerunt. L’area est la place située entre le marché et le decumanus. 18  Cf. infra ; Goodman 2016, pp. 317 et 326. 19   Vipard 2007, p. 264. 20   Sur ces fouilles, cf. Ballu 1903 et 1911 ; Lassus 1965 et 1966 ; Wilson 2001, p. 279, bas de la fig. 12.08. 11 12

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atelier de potier doit être rejetée. L’insula triangulaire est occupée par une domus, des habitations modestes et des locaux donnant sur les rues, qu’elle interprète comme les boutiques de commerçants plutôt que comme les ateliers d’artisans21. La position de ce quartier par rapport au contournement sud-ouest de la ville invite à y rechercher également des auberges22. J. Lassus a en effet identifié comme étant l’une d’elles la grande « maison à la mosaïque du flumen Vamaccura » au nord du Capitole, sur un probable contournement sud-ouest de la ville. Elle borde sur une centaine de mètres une rue courbe partant de l’avenue de Lambèse23. 1.3.  Les entrées de ville : stationnement des véhicules et hébergement des voyageurs Les voyageurs étaient incités à stationner à l’extérieur des villes, à leur entrée ou à leur sortie comme dans les villes modernes. On sait qu’en périphérie de Rome, un espace était dévolu au stationnement des équipages et des véhicules, l’area Carruces, située probablement entre la porta Appia et le temple de Mars dans la Regio I24. C’était une zone de service, une sorte de gare routière périphérique dont le nom est certainement lié au métier de carrucarius (cocher)25. Elle était reliée à la carrucarum (ou carrucariorum) schola, siège de ceux qui sont engagés dans les entreprises de transport. On soupçonne que des espaces de ce type existaient à l’entrée des villes. Mais l’unique exemple de stationnement à l’extérieur d’une ville attesté dans l’épigraphie gauloise est le règlement du campus pecuarius de l’agglomération thermale d’Aquae, Aix-les-Bains, un vicus de la Cité de Vienne en Gaule Narbonnaise26. Le texte vient d’un espace proche de l’ensemble thermal auquel il doit son nom. Ce campus dont l’usage ordinaire était le parcage du bétail, servait de parking à l’occasion de nundinae, pour les pensionnaires de diaetae, probablement des curistes27, et pour les pèlerins qui se rendaient dans un lucus. Le règlement stipulait qu’en dehors de ces cas, ceux qui introduisaient des véhicules seraient frappés d’une amende28. À Timgad, dans le secteur de la porte de Lambèse, on a reconnu avec la plus forte probabilité sinon l’existence de bâtiments d’accueil –elle est certaine– du moins leur emplacement. A. Ballu avait publié deux inscriptions qui en provenaient. Elles ont été trouvées à l’est du “Monastère de l’ouest”, plus tard considéré comme une “cathédrale donatiste”, dans un secteur occupé par des maisons, à proximité du lieu de découverte de l’inscription mentionnant un forum vestiarum adjutricianum. Elles mentionnent des meritoria situés pour les uns dans le praedium de Marcus Rutilius Castrensis, pour l’autre dans celui de Quintus Antonius Acutianus. Cette dernière a été complétée par l’heureuse découverte d’un bloc qui la complétait, environ à 200 m de là, dans le trottoir de gauche du decumanus allant vers la porte de Lambèse, à peu de distance de celle-ci29. Ces meritoria sont des chambres proposées à la location à des   Amraoui 2011.   À Pompéi, le tronçon oriental de la via Stabiana qui venait de la porta del Sarno comptait une vingtaine de stabula et de cauponae. 23   Germain 1969, pp. 106-118 ; Lassus 1969, n° 26 du plan en dépliant. Toutefois P. Salama observe qu’elle ne semble comporter ni écurie ni remise (Salama 1994, p. 356 et n. 39). 24   Richardson 1992, p. 32 25   Guilhambet 2006, p. 107. 26   Leveau 2007 = Rémy 2005, 667, trad. Ph. Leveau, modifiée: In campum hunc pecuarium uehi / [culum] ne quis induxisse uelit nisi aut / [nun]dinarum caussa aut hospes qui / [in] diaeta Asiciana aut [P?]aconiana / [hospi]tabitur uel in luc[u]m ire uolet. / [Qui ali]ter intrauerit in singula ueh[icula] / [/d(are) d(amnas) e(sto)] IIII ? stercus [st]ercul[ino des] / [tinatum] debeb[it ---]. (Que personne ne veuille introduire de véhicule dans ce parc, sauf à l’occasion du marché ou si, en tant que visiteur, on doit être hébergé dans le pavillon Asiciana ou Paconiana (?), ou on a l’intention d’aller dans le bois sacré. Quiconque sera entré pour une autre raison, qu’il soit tenu de payer quatre (deniers ou as ?) pour chacun véhicule… de fumier destiné au tas de fumier…). 27   Pour E. De Ruggiero qui cite ce texte (De Ruggiero 1961), c’est une auberge (osteria). Diaeta désigne un pavillon plus confortable qu’une simple taberna (Dubouloz 2011, pp. 277-281). 28   Chioffi 1999, p. 110. 29   Leschi, 1943-1944-1945, p. 342. In his praedi(is) M(arci) Rutil[i] Castrensis [meritoria] [prae]stan[tur] (AE 1909, 5, complété par AE 1946, 41) ; In his praed(iis) Q(uinti) Antoni Maximi Acutiani meritoria praestantur (AE 1946, 41). 21 22

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hôtes de passage30. Ainsi à Lyon, l’expression in his praediis introduit une invitation adressée à un client pour l’usage des thermulae salutares de C. Ulattius Aper, prêtre provincial31. L. Leschi, qui avait signalé ces meritoria, y voyait « des logements pour des hôtes de passage, sortes de fondouks »32. P. Salama situait une « zone d’attente » pour les véhicules lourds dans le secteur où A. Ballu avait observé des ornières larges de 0,25 m de guidage. À proximité se trouve un vaste édifice de 25 m sur 69 m dont les identifications ont varié. Il hésitait entre un entrepôt ou une salle des ventes33. M. Christofle, son successeur, y voyait une domus34. A. Wilson a plus tard suggéré qu’il s’agisse d’un marché au tissu35. Une autre hypothèse, celle d’un vaste bâtiment d’hébergement mérite d’être prise en compte. En Gaule, l’existence d’auberges à l’entrée des villes a été vérifiée par plusieurs opérations d’archéologie préventive. L’une d’elles apporte un précieux témoignage sur la participation des autorités publiques d’une cité à l’accueil des voyageurs aux abords de la ville. Elle a été conduite en périphérie de Bordeaux (Burdigala), la ville qui succéda à Saintes comme capitale de la province d’Aquitaine. Dans les années 100, on procéda au réaménagement d’un quartier périphérique, situé au sud de la ville du Haut Empire, au bord du Peugue, un petit affluent de la Garonne. L’installation de métallurgistes y avait précédé le développement d’un quartier d’artisans. Une auberge fut construite en bordure d’un cardo à 200  m du rempart de la ville de l’Antiquité tardive36. L’établissement bénéficiait d’une alimentation en eau assurée par des canalisations de bois implantées par la r(es) p(ublica) B(iturigum) V(iviscorum), dont témoignent les marques gravées sur les tuyaux de l’adduction. Cette découverte exceptionnelle permise par la conservation des bois en milieu humide illustre la mise en place d’un réseau de distribution de l’eau publique par la ville durant sa phase de développement au second siècle37. La viabilisation de cet espace, une pratique par ailleurs bien documentée, témoigne du contrôle exercé par l’autorité municipale sur la périphérie de l’espace urbain (Fig. 2). Le cas n’est pas isolé. Déjà, à l’entrée de Narbonne, dans les couches inférieures d’un site fouillé en urgence au sud de l’église et du cimetière Saint-Félix, R. et M. Sabrié avaient signalé des graffiti sur des fragments de peintures murales datables du Ier s. qui suggèrent la présence d’une auberge au bord de la voie Domitienne38. Mais l’exemple le mieux assuré vient d’Augustonemetum (Clermont-Ferrand) où une opération conduite à l’emplacement de l’ancienne gare routière a identifié un bâtiment de 269 m2 à proximité immédiate d’une voie contournant probablement la butte de Clermont sur le principal axe de pénétration. Julien Ollivier y a reconnu de petites cellules de 15 m environ dans lesquelles on pénétrait par l’intermédiaire de corridors ouvrant directement sur l’extérieur. Ces pièces au sol de béton étaient chauffées et leurs parois étaient « recouverts de peintures murales, particulièrement bien conservées dans les cellules méridionales ». Cet édifice occupe un angle d’une vaste cour qui se développe sur une surface incomplètement appréhendée. L’identification du bâtiment comme une auberge est assurée par une inscription sur une plaque de bois dont la conservation a été permise par l’humidité apportée par la proximité d’un cours d’eau. Datée du IIe s. par dendrochronologie, on y lit le mot viator39. Nous avons tenté d’identifier des zones d’accueil aux entrées et sorties d’Oudhna (Colonia Iulia Pietas Tertiadecimanorum Uthina), une fondation coloniale augustéenne d’Afrique proconsulaire   Le Guennec 2014, pp. 124-130. Meritorium s’applique à des biens de rapport.   CIL, XIII, 1926 = ILS, 5722. Lengrand 1996, p. 126. 32   Leschi 1943-1944-1945, pp. 337-346. 33   Ballu 1911, pp. 44-53. 34   Christofle 1930, pp. 59-62. 35   Wilson 2001, p. 282, fig. 12.09. 36   Sireix 2014. 37   Maurin 2008. 38   AE 1997, 259-266 ; Sabrié, Sabrié 1997 ; Dellong, Moulis, Farré 2003, pp. 320-322 ; Sanchez 2009, pp. 202-205. 39   Ollivier et alii 2016 et Ollivier à paraître. 30 31

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Fig. 2. Phases du développement urbain de Burdigala et localisation de la fouille de la Cité Judiciaire dans le centre de Bordeaux (d’après Sireix 2014, fig. 1, p. 76).

qui a fait l’objet d’un relevé topographique dotant ce site d’un apparat cartographique dont il existe peu d’équivalents dans le monde méditerranéen40. La ville était construite sur une terrasse dominant d’une trentaine de mètres de l’oued Miliane dont la voie de Carthage à Zaghouan emprunte la vallée un kilomètre à l’ouest. Elle s’ouvrait sur les nécropoles et les constructions périphériques déconnectées de l’urbanisme dense. Venant de Carthage, le voyageur qui choisissait de s’y rendre arrivait par le nord en empruntant à proximité de l’amphithéâtre l’une des huit entrées et sorties qui ont été reconnues (entrée/sortie B) et ressortait par l’un des deux ponts franchissant l’oued Oudhna, affluent de l’oued Miliane (sorties A ou H). Si c’était un commerçant, il pouvait abriter ses marchandises dans un des établissements construits à cet effet près d’une entrée et y séjourner. Deux ensembles se distinguent parmi les sites situés aux entrées de la ville qui peuvent avoir eu la fonction d’accueil des voyageurs et des commerçants. L’un se trouve sur une butte en faible relief, à 200 m du pont à trois arches qui franchissait l’oued dans le prolongement d’une des rues importantes de la ville. J.-P. Jacob et J.-L. Massy avaient envisagé qu’il puisse s’agir d’un « point de stationnement extérieur du type fondouk pour montures, troupeaux et voyageurs en transit »41. L’autre est un grand monument considéré comme un temple au lieu dit Fars al Innabi, 300 m à l’extérieur des limites de l’agglomé  Gros 2006.  Cf. Jacob, Lemaire, Massy 1998 et Ben Hassen, Golvin, Maurin 1998, pp. 21-29.

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Fig. 3. Oudhna. Proposition d’identification des entrées et sorties de la ville et localisation des principaux monuments et sites de sa périphérie (DAO G. Lemaire). N° 5 : Fars al Innabi.

ration et 500 m au nord-est de l’amphithéâtre. Le dégagement sur 52 m de la partie occidentale de la levée de terre sud a fait apparaître une galerie donnant accès, par de petites portes, à sept cellules larges d’environ 6,20/5,80 m chacune. Ces cellules constituées de deux pièces ont été interprétées comme les logements des pèlerins d’un sanctuaire. Il pourrait s’agir d’une station routière (Fig. 3)42. 2.  Hospitalité publique, hospitalité privée 2.1.  L’accueil de l’hôte : de l’hospitium au munus Les relations que Rome entretenait avec certaines cités et nations étrangères étaient régies par l’hospitium, une notion proche de l’amicitia, mais ayant une dimension juridique dont celle-ci est dépourvue. L’hospitalité était publique lorsqu’elle concernait des cités ou nations, ou privée lorsqu’elle concernait des individus appartenant à ces mêmes nations43. L’accueil réservé à l’étranger variait selon la qualité de la relation que Rome entretenait avec sa cité d’origine et les circonstances de sa venue. Ainsi, en 390 avant J.-C., la ville accorde un droit d’hospitalité à Caere « en reconnaissance de ce qu’ils ont recueilli les objets du culte et les prêtres du peuple romain »44. Selon la qualité des hôtes et les circonstances de leur visite, des bâtiments étaient affectés à leur accueil. Lorsqu’ils étaient venus féliciter Rome au lendemain de la défaite de Philippe et d’Antiochos, les ambassadeurs de Rhodes avaient bénéficié du publicum hospitium. Les ambassades étrangères étaient reçues dans la villa publica qui se trouvait dans le Champ-de-Mars, à l’extérieur du pomerium comme les temples des dieux étrangers et tout ce qui   Leveau et alii à paraître.   Lécrivain 1900 ; Hellgouarc’h 1963, p. 50. 44   Liv., V, 50, 3. 42 43

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concernait les activités relevant de la guerre dont Mars était le dieu. Elle avait été construite au début de la République pour assurer le premier recensement et la conservation des listes45. Les généraux vainqueurs y séjournaient. C’est là qu’en 197, « les ambassadeurs macédoniens furent conduits… [et] logés et défrayés aux dépens du trésor »46. Quand, en 203, un lieutenant de Scipion amena des envoyés carthaginois à Rome pour négocier, «  on leur défendit d’entrer dans la ville et on leur assigna un logement dans la villa publica »47. Inversement, quand, au printemps 167, trente ans plus tard, ils se présentèrent à Rome dans l’année qui suivit la défaite de Persée à Pydna, la trop prudente neutralité de leur cité leur fut reprochée et ils se virent contraints de payer leur hébergement. Ils logèrent dans un sordidum deversorium, marque d’un traitement ignominieux48. Agrandie en 194 avant J.-C. et encore mentionnée par Flavius Joseph en 71, la villa publica comprenait un bâtiment qui servait de bureaux pour les magistrats et une grande place49. Lorsque Rome étend son empire, ses ambassadeurs et ses dignitaires bénéficient de l’hospitalité publique auprès des rois et dans les cités amies. Ceux-ci disposaient de locaux prévus à cet effet. Ainsi en 112 av. J.-C., sous le règne de Ptolémée IX Lathyre, Lucius Memmius, membre d’une grande famille sénatoriale plébéienne, entreprend un voyage en Égypte lagide. Hermias, probablement le diocète, envoie une circulaire aux autorités du nôme Arsinoïte dans le Fayoum, pour qu’il soit reçu dans des locaux dignes de son rang50. Réciproquement, ces mêmes dignitaires reçoivent à Rome leurs équivalents des cités étrangères ou des rois. Cicéron explique que les sénateurs de Syracuse avaient accordé les honneurs de l’hospitalité publique à son cousin, « parce qu’il a montré aux Syracusains la même bienveillance dont j’ai toujours été animé pour eux. Non seulement cet arrêté fut transcrit dans leurs registres, mais on nous en remit une copie gravée sur l’airain »51. Dans ce cas, le décret du sénat local donne un caractère public à l’hospitalité. S’il y a simplement une offre d’hébergement, l’hospitalité est privée52. Mais rapidement, le devoir de protection accordé à l’hôte transforme une relation d’égalité en relation de clientèle53. À l’époque impériale, la nature des relations a changé. La forme ancienne de l’hospitalité publique qui liait des villes les unes aux autres a fait place à des relations dissymétriques entre Rome et les cités de l’Empire. Celles-ci ont des patrons appartenant à la haute aristocratie romaine. L’hospitium évolue alors vers le patrocinium. Ainsi, devenu forcé, l’accueil des magistrats romains est désormais un munus. C’est dans ce contexte, qu’il faut envisager l’accueil dans les villes des personnages publics, à commencer par celui de l’Empereur lui-même quand il visitait les provinces et en suivant celui du gouverneur qui se déplaçait avec son officium dans les villes de sa province pour rendre la justice. H.-G. Pflaum, qui s’était préoccupé de cette question, citait comme preuve de la prise en charge de l’entretien et de l’administration de ces bâtiments par les cités une inscription du municipium Flavium de Scardona en Dalmatie (Skradine) qui témoignait de la restauration au frais public (ex pec(unia) [publ(ica)]) d’un praetorium par les soins de P. Iulius Scapul[a Tertullus], légat de la province de Dalmatie sous le règne conjoint de Marc Aurèle et de Lucius Verus54.   Richardson 1992, pp. 430-431.   Liv., XXX, 24, 5. 47   Liv., XXX, 21, 12. 48   Liv., XL, 22, 1-5. Le Guennec 2014, pp. 92 et 287-288. 49   Agache 1999. En dehors de Rome, on ne connaît pas de villa publica affectée à l’accueil des hôtes de la cité. Dans l’inventaire du vocabulaire de l’hébergement qu’elle a dressé, C. Corsi mentionne seulement un passage d’Ammien Marcellin qui rapporte qu’en 373-374, « la fille de l’empereur Constance, fiancée à Gratien, et que l’on conduisait à son époux, faillit être enlevée dans la villa publica de Pistrense, où elle prenait son repas ». 50   Canonical URI: http://papyri.info/ddbdp/p.tebt;1;33 P. Tebt., I, 33, l. 3 (= W. Chr. 3). 51  Cic., Verr. II, 4, 65. 52   Nicols 2001, p. 102. 53   Badian 1958, p. 11. 54  Pflaum, 1940, 35 (= 223). CIL, III, 2809 : Praetoriu[m vetustate] conlapsum / Burnistae / ses ex pec(unia) [publ(ica) refecer(unt)] / Scapul[a] Tertullus / leg(atus) Aug(ustorum duorum) p[rov(inciae) Dalmatiae] / restituit. 45 46

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2.2.  Praetoria urbains Le lieu où réside le gouverneur d’une province romaine est un praetorium. Pour des raisons historiographiques, le mot s’est trouvé associé à l’armée ce qui a eu pour effet d’occulter la dimension urbaine de ces édifices. Sans doute ce terme qui désigne à l’origine la tente du général évoque-t-il un bâtiment militaire plus que civil. Mais, il a pâti d’une confusion avec les principia des camps militaires qui en sont le bâtiment central. Cette confusion explique l’objection opposée par Noël Duval à la théorie de C. Brühl qui « supposait l’existence d’un praetorium dans chaque ville, qui serait en principe chez nous à l’origine du palais du comte carolingien »55. Il montrait que des bâtiments que l’on interprétait comme des palais étaient en réalité de vastes demeures aristocratiques et objectait que le praetorium est nécessairement un bâtiment militaire. Depuis, R. Fellmann a fait observer que les praetoria des camps militaires sont « des bâtiments conçus autour d’une cour intérieure, mais qui disposent de certaines libertés d’aménagements, comme il convient du reste pour un bâtiment destiné à l’usage privé. Leur organisation est celle des maisons nobles des centres urbains »56. Le caractère luxueux de ce bâtiment en fait un équivalent de palatium dans la mesure où c’est la résidence temporaire de l’Empereur quand il voyage57. Mais praetorium dans une acception générale est aussi l’un des 27 noms portés par des lieux qui offrent des services aux voyageurs, personnes privées, officiels et commerçants confondus, à la ville comme à la campagne58. En Occident, le praetorium le mieux connu est celui de Cologne, Colonia Claudia Ara Agrippinensium, qui fut choisie comme capitale de la province de Germanie supérieure lors de sa création par Domitien en 84. Ce bâtiment, dont une inscription faisait état de la restauration59, avait été reconnu à la suite des destructions de la Seconde Guerre mondiale et son dégagement s’est poursuivi au cours des années ultérieures. Il avait été édifié dans un îlot du quadrillage urbain au nord de l’ara Ubiorum sur la levée de berge du fleuve. Une galerie de façade qui fut portée à 93 m à la fin du IIe s. dominait à l’est le Rhin. En arrière, du côté de la ville, des bâtiments administratifs disposés autour de cours se développaient sur une profondeur de 75 m. Le praetorium couvrit plus d’un hectare dans son extension maximale. Incendié à la fin du Haut Empire, il connut d’importantes transformations dans la seconde moitié du IIIe s. et un nouveau complexe fut bâti au siècle suivant60. Dans la publication de ce monument, F. Schäfer a dressé la liste des sources écrites – littéraires, épigraphiques, papyrologiques et juridiques – qui en établissent la double fonction de résidence privée du gouverneur et de centre politico-administratif61. La possession d’un praetorium n’est pas non plus une exclusivité des capitales de province. Il en existait dans les cités où le gouverneur venait rendre la justice et le long des routes qu’il empruntait lors de ces tournées. Leur accès lui était réservé ainsi qu’à sa famille – quand elle l’accompagnait – et à ses collaborateurs. Le bâtiment pouvait également accueillir des juristes (ordinarii iudices) et les officiales62. 2.3.  Praetoria de Gaule À Lyon, qui était comme Cologne une ville capitale, A. Desbat a identifié comme un praetorium le bâtiment de la colline de Fourvière qui était interprété comme le « sanctuaire de Cybèle ». Là où A.   Duval 1984.   Fellmann 2006, p. 101. 57   Alessio 2006. 58   Pour le latin, ce sont les cinq termes considérés comme « officiels » (palatium, praetorium, mansio, mutatio, statio) et douze autres (balnea, burgus, catabulum, caupona, diversorium, hospitium, locus, popina, taberna, stabulum, stativa, villa) et dix pour le grec (allagé, apantétérion, basileion, katalogia, katalutérion, moné, oikia, pantodokeion, paroikodoméma, statmos), cf. Corsi 2000, pp. 20-77. 59   CIL, XIII, 8170 = ILS, 2298 : praeto[r]ium in ruina[m co]nlapsum. 60   Haensch 2004. 61   Schäfer 2014, pp. 18-33. 62   Zucca 1992 ; Sanna, Zucca 2010, p. 101. 55 56

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Fig. 4. Les bâtiments de La Plateforme et de la Butte Saint Antoine à Fréjus (d’après Rivet et alii 2000, p. 391, fig. 617).

Audin plaçait une insula, il reconnaît désormais un vaste édifice de 37 m sur 60 m élevé à l’emplacement d’habitations de la fondation coloniale des années 40 avant J.-C. Son plan évoque une maison à péristyle de type italique. Implanté sur le versant en forte pente de la colline de Fourvière, il comportait deux parties : sur une terrasse supérieure, des pièces disposées autour d’un grand atrium, autour duquel s’organisaient deux ailes ; 12 m en contrebas, un péristyle. Ses dimensions, l’axialité de son plan et le souci de symétrie qui caractérise ce bâtiment le conduisent à y voir le palais d’un dignitaire. L’étude des stratigraphies et du mobilier en date la construction des années 20 avant J.-C., ce qui amène à en rapporter la construction à Agrippa dont le passage en Gaule est attesté. Une trentaine d’années plus tard, un vaste édifice public, peut-être un nouveau praetorium, fut construit à son emplacement63. Le nombre des chefs-lieux de cités que le gouverner visitait était limité, comme en témoigne une lettre d’Antonin aux habitants de Bérénice  : l’Empereur refuse d’ajouter une nouvelle session en Crète-Cyrénaïque, parce qu’il considère qu’il ne faut pas surcharger le gouverneur et qu’il y en a déjà assez64. Fréjus (Forum Iulii), devenue colonie romaine, fournit le plus bel exemple connu de praeoria dans un chef-lieu de cité de Gaule Narbonnaise65. En 1977, P.-A. Février avait proposé de reconnaître des bâtiments publics destinés à l’accueil de hauts dignitaires aux deux angles sud-ouest et sud-est de la ville, l’un à la Plate-Forme, l’autre sur la butte Saint-Antoine (Fig. 4). C’est dans l’un d’eux qu’entre 30 et 34 serait décédé Torquatus Novellius Atticus, un proconsul de Narbonnaise mort dans la ville durant sa charge66. A. Donnadieu, qui avait conduit dans le bâtiment de la Plateforme les fouilles qui permettent d’en connaître le plan, y voyait déjà un praetorium67. Il est établi sur une esplanade dont le mur périmétral ouest présentait une élévation de parement en opus reticulatum. Elle était partiellement artificielle : 6 – et peut-être 7 – salles quadrangulaires voûtées, peut-être des magasins, ont été reconnues     65   66   67   63 64

Desbat 1998. Oliver 1989, pp. 281-282, no 123. Rivet et alii 2000, p. 251 et fig. 450. CIL, XIII, 3602 ; Février 1977, pp. 96-97. Donnadieu 1932.

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sous son angle méridional. Le praetorium occupe une aire trapézoïdale de 66,5 m sur 89/98 m, soit 6500 m2, auxquels on ajoutera des jardins pour une superficie totale de 8100 m2. Il s’organise autour d’une vaste cour centrale bordée d’une galerie sur laquelle donnaient au nord-est et au sud-ouest deux corps de bâtiments comportant des cours secondaires et sur les deux autres côtés des salles en enfilade. L’entrée était au nord-ouest sur un decumanus. De petits thermes en occupaient l’angle nord-est. Le faciès céramique est caractéristique de l’époque augustéenne68. Le bâtiment de la Butte Saint-Antoine qu’une enceinte protégeait est situé à l’angle sud-ouest de la ville sur une butte qui forme l’extrémité méridionale du promontoire rocheux sur lequel elle a été établie69. De là, on embrasse le golfe de Fréjus, l’embouchure de l’Argens et le Camp de la Flotte, 800 m au sud-ouest. Ce vaste bâtiment qui couvre plus de 8000 m2 a été construit dans les années 15-12 av. J.-C. à l’emplacement d’un premier habitat de datation incertaine. Il occupe la moitié d’une terrasse aménagée grâce à l’apport d’un volume considérable de remblais maintenus par des voûtes verticales que masque un mur-rideau. Son plan quadrangulaire et homogène s’organise autour d’une grande cour centrale (24 m sur 19 m). Celle-ci est elle-même axée au nord sur une salle à plan basilical que jouxtent deux cours secondaires de dimensions inégales bordées de portiques. Le bâtiment juxtaposait un ensemble résidentiel et des locaux administratifs, probablement répartis sur au moins deux niveaux. Selon L. Rivet, il était occupé par le préfet de la flotte qui protégeait le rivage de la Gaule proche de l’Italie. Tacite à qui l’on doit cette information rapporte que c’est là qu’Auguste avait envoyé les navires pris lors de sa victoire à Actium70. Le terme latin praefectura n’étant pas usité pour désigner le bâtiment où loge le préfet de la flotte, praetorium s’impose pour désigner un bâtiment qui est l’équivalent de la résidence du légat de légion dans un camp militaire71. 2.4. Le praetorium de Dion de Piérie en Macédoine Dans les cas qui viennent d’être énumérés, y compris dans celui de Cologne, aucune inscription n’atteste formellement l’identification d’un bâtiment comme un praetorium ni n’en donne de description. Cette lacune a été comblée par la découverte d’une inscription mentionnant un praetorium cum duabus tabernis à Dion de Piérie (colonia Augusta Diensis), en Macédoine72. La description que ce texte en donne a permis d’identifier le prétoire avec un bâtiment mesurant 38 m sur 22 m situé dans un quartier proche de l’agora et de la plus importante maison – la “villa de Dionysos”. Sa construction et son équipement sont dus à la contribution évergétique d’une famille notable. Ce praetorium occupe une surface de 836 m2 inégalement répartis entre deux bâtiments séparés par un long et étroit couloir qui, selon D. Pantermalis, pourrait avoir servi d’écuries aux animaux de trait. Le plus important s’organise à l’est, autour d’une cour de 256 m2 à laquelle on accède au sud par une entrée large de 3 m depuis une des voies principales de la ville. Au centre de la cour, se trouve une base   Rivet et alii 2000, pp. 251-255 et 389.   Il a été fouillé à partir de 1955 par P.-A. Février, puis en 1974-1976. L. Rivet, qui a repris le dossier en 2008, y a réalisé des fouilles qui en ont précisé le plan. 70  Tac., Ann. IV, 5. 71   Rivet 2011. 72  AE 2000, 1295  : Mandatis  /  P(ublii) Mestri C(ai) f(ili) Pomponiani Capitonis  /  Mestriae C(ai) f(iliae) Aquilinae sacerdotis Minervae, / C(aius) Mestrius C(ai) f(iliae) Pal(atina) Priscus Maianus, N(umerius) Mestrius C(ai) f(ilius) / Pal(atina) Priscus, praetorium cum tabernis duabus / et apparatura ea quae infra scripta est: / lectis cubicularibus V, culcitis V, pulvinis V, / subselis X, cathedris II, triclinio aerato culci / tis III, emitulis III, pulvinis longis III, foco ferreo / mensis XX, grabattis XX, emitulis XX, haec omnia / colonis de sua pecunia faciendum curraverunt / idemque dedic(averunt). (Sur les instructions de Publius Mestrius Pomponianus Capito, fils de Caius, de la tribu Palatina, et de Mestria Aquilina, fille de Caius, prêtresse de Minerve, Numerius Mestrius Priscus, fils de Caius, de la tribu Palatina, Numerius Mestrius Priscus, fils de Caius, de la tribu Palatina, ont fait faire pour les colons et dédié le praetorium avec les deux tabernae et l’équipement décrit ci-dessous : lits de chambre à coucher, 5, matelas, 5, oreillers, 5, tabourets, 10, chaises, 2 ; pour le triclinium d’airain, matelas, 3, (h)emitulia, 3, oreillers longs, 3, brasero de fer ; tables, 20, lits ordinaires 20, (h)emitulia, 20, tout cela à leurs frais). 68 69

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Fig. 5. Restitution du praetorium de Dion de Piérie (d’après Pantermalis 2002).

qui peut avoir porté un autel ou une statue. L’aile orientale compte cinq pièces de même taille et l’aile occidentale trois dont celle du milieu ouvre sur la cour. L’aile sud se compose de trois boutiques qui donnent sur la rue. Le mur nord est bordé sur toute sa longueur par une sorte de banc. La présence d’une cheminée permet d’y placer une cuisine. À l’ouest, un second bâtiment de plus petites dimensions, physiquement séparé du premier, compte trois pièces. La première, qui donne sur la rue, contenait de grands récipients de stockage et une quantité de vases à boire comparables à ceux que tiennent les voyageurs dans les tavernes représentées sur les murs de Pompéi. Selon D. Pantermalis, les deux pièces suivantes seraient les deux tabernae de l’inscription (Fig. 5)73. Dans son interprétation, l’expression cum duabus tabernis, qui suit praetorium, désignerait donc les deux pièces du plus petit bâtiment, celui qui est représenté à gauche sur la figure. Mais on hésite à le suivre dans cette interprétation. En effet, le petit bâtiment formant un ensemble unique qui peut être rapproché des tabernae urbaines, ne faut-il pas reconnaître dans les deux bâtiments, les deux parties du praetorium, indépendantes l’une de l’autre, qui ici seraient désignées comme des tabernae  ? Les deux tabernae seraient done l’une le petit bâtiment et l’autre le bâtiment principal d’un ensemble qui est le praetorium. Consacré uniquement à l’hébergement, ce praetorium déroge à l’image que l’on se fait d’un bâtiment qui aurait accueilli le gouverneur en tournée et les officiales qui l’accompagnaient. Il occupe une surface sans rapport avec les 3,5 ha du praetorium de Cologne et les 8100 m2 de ceux de Fréjus et même avec les 2257 m2 de Lyon. Ses occupants devaient se rendre dans des thermes publics proches. Dans ces conditions, il faut probablement y reconnaître un édifice public destiné à l’accueil d’officiales et aussi de dignitaires de cités avec lesquelles Dion entretenait des relations d’hospitalité. Des parallèles devraient en être recherchés dans des bâtiments considérés comme des maisons privées   Pantermalis 2002.

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situées dans des centres urbains. Dans son étude sur le cursus publicus, H.-G. Pflaum voyait dans les praetoria des « doublets des mansiones […] destinées aux voyageurs de marque »74. 2.5.  Hospitalité et demeures aristocratiques La question de l’accueil de l’hôte dans une demeure privée constitue une seconde entrée éclairant la relation entre privé et public dans la ville. En effet la maison des élites romaines comporte une partie publique, là où le dominus exerce les officia publica qui en justifient la position sociale, sa dignitas75. De fait, le modèle interprétatif du fonctionnement biparti de la maison romaine à Pompéi distingue dans les espaces de réception ce qui est destiné aux clients et correspond à une relation inégalitaire76. Le patronus reçoit ses clients dans une partie publique organisée autour de l’atrium et vit avec sa famille et sa domesticité dans une partie privée disposée autour du péristyle. Les rituels associés de la salutatio par les clients et de la distribution de sportules et de cadeaux par le maître à ces mêmes clients expliquent la diffusion de ce modèle architectural et en assurent la persistance dans les provinces durant la période impériale77. Les sources écrites en témoignent. Ainsi Sénèque évoque de manière récurrente la dépendance réciproque du patron et de ses clients. Le premier est « honorablement étouffé par la multitude de ses courtisans ou foulé avec mépris par les clients des autres » tandis que « d’obséquieux devoirs arrachent [les seconds] de leurs maisons pour aller se presser à la porte des grands »78. À l’époque flavienne, Martial évoque avec humour dans ses épigrammes sa situation de client qui le contraint à partir chaque matin pour offrir à Gallus « un salut consacré par l’usage » dans sa maison « vaste et magnifique, mais située en de lointains quartiers »79. Mais cette dimension publique de la maison des primores civitatis ne doit pas être confondue avec l’hospitalité privée dans des pièces conçues spécialement pour recevoir des amis avec lesquels le maître entretient ce type de relation. Elle relève de ses officia privata80. Comme l’observe E. Morvillez, « les échanges d’hospitalité sont à la base de la sociabilité des élites de l’Antiquité tardive, comme ils l’étaient pour celles de la République et du Haut Empire » et « on ne saurait loger plus mal que soi des invités sous son toit »81. Venir séjourner chez un ami en répondant à une invitation relève des charmes de la vie aristocratique que Sidoine Apollinaire vante à Domitius dans la description de ce qu’il appelle l’ordo hospitalitatis. Au cours d’un voyage, dans sa vie officielle, il préfère descendre chez des amis plutôt que dans les locaux du cursus publicus, comme il en avait le droit. « Étant mandé par lettre impériale, j’utilisais la poste officielle qui me fit passer d’ailleurs par les demeures de mes camarades et de mes proches. Ce qui causait les retards de ma route, ce n’était pas le manque de chevaux de poste, mais le grand nombre de mes amis »82. Mais les mêmes ont le scrupule de ne pas déranger leurs amis comme le dit Cicéron dans la lettre où il explique qu’il achètera un appartement à Terracine pour ne pas déranger ses hôtes83. Hospitalis qualifie le cubiculum que l’on offre à l’hôte84 et hospitalium est un adjectif neutre substantivé utilisé pour désigner les appartements des hôtes d’une demeure de type grec85. Ces cubicula   Pflaum 1940, pp. 24-25 et p. 35. A. Kolb semble adopter la même position (Kolb 2000, p. 210 n. 5).   Zaccaria-Ruggiu 1995, pp. 319-338. 76   Wallace-Hadrill 1988. 77   Gros 2001, p. 149. 78  Sen., De brevitate vitae XII, 1. 79   Mart., I, 108. 80   Dubouloz 2011, pp. 508-511. 81   Morvillez 2002, p. 231. 82  Sidon., Epist. I, 5 (trad. A. Loyen 1970). 83  Cic., Ad familiares 7, 23, 3 : « Ista quidem summa ego libentius emerim deversorium Terracinae, ne semper hospiti molestus sim ». (En somme, je préférerais m’acheter un appartement à Terracine, pour ne pas avoir toujours à gêner un hôte). M.-A. Le Guennec (2014, p. 11-12 n.16) énumère les 9 deversoria dont Cicéron dispose pour aller dans ses 8 villae. 84   Après le dîner qui précède le viol de Lucrèce, Sextus Tarquin est conduit dans un hospitale cubiculum (Liv., I, 58, 2). 85   Saliou 2009, p. 239 (commentaire de Vitr., VI, 7, 4-5). 74 75

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Fig. 6. Plan de masse de la villa du «  Moulin de chez Bret  » à Jonzac (d’après Robin 2010).

ont été reconnus dans les grandes domus. Comme l’écrit Y. Thébert « la juxtaposition de chambres à coucher et de pièces de réception » est une disposition fréquente dans la maison des élites africaines. Elle est repérable « grâce à l’usage fréquent d’une estrade légèrement surélevée par rapport au reste de la pièce, sur laquelle était installé le lit » ou à un pavement bipartite. Il en citait trois exemples, la Sollertina domus d’Hadrumetum, la maison de Neptune à Acholla et la maison de la chasse à Bulla Regia86. Samir Guizani a proposé la même interprétation pour les cubicula de la maison du Paon à Thysdrus87. Pour l’Orient, il en signale une illustration dans la fouille de la ‘Maison du Cerf ’ à Apamée de Syrie, où la mosaïque de seuil d’une salle à abside porte l’inscription suivante : « Salut, étranger, chez nous tu seras traité en ami. Ensuite lorsque tu auras pris ton repas, tu nous diras ce qu’il te faut »88. Il est également possible de reconnaître dans les parties résidentielles des villas des appartements conçus pour la réception d’hôtes de passage et dans les villas des bâtiments ayant cet usage occasionnel. À titre d’exemple, citons la luxueuse villa du ‘Moulin de chez Bret’ à Jonzac qui offre un parallèle avec les grandes demeures aristocratiques de Plassac, de La Lonquette et de Montmaurin. K. Robin a reconnu dans sa partie résidentielle un bâtiment d’apparat qui « constitue un espace de réception au plan particulièrement explicite : une salle centrale interprétée comme un triclinium, associé à deux salles latérales qui pourraient occuper la fonction de cubiculum » (Fig. 6)89. Dans les descriptions précises et détaillées qu’il donne de ses deux villas des Laurentes et de Toscane, Pline en qualifie une annexe de diaeta, un terme qui désigne en grec un espace de séjour et ici un bâtiment indépendant90. Dans les sources écrites, le traitement de la question par Apulée constitue une aussi bonne illustration de ce qu’est un cubiculum que l’est sa description de la maison de Byrrhène pour les salles de réception. Lucius est issu d’une des grandes familles de Thessalie. À Hypata, il est hébergé par Milon qui appartient à la catégorie des primores civitatis. Il n’avait pas de relation particulière avec lui et il lui présente une lettre de recommandation que lui a remise Demea de Corinthe. Milon, dont l’extrême     88   89   90   86 87

Thébert 1985, pp. 345-346. Guizani 2013, p. 186. Morvillez 2002. Robin 2010, p. 102. Dubouloz 2011, pp. 277-281.

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avarice déroge par rapport aux comportements ostentatoires des élites urbaines91, présente sa maison comme un gurgustiolum, c’est-à-dire une mauvaise auberge, dont il le prie de se satisfaire de l’étroitesse92. Mais il l’installe dans un cubiculum situé à côté (adiacens) de son appartement. On suppose donc que c’est une pièce modeste, où Lucius loge seul. En effet l’esclave qui l’accompagne est installé avec son cheval dans l’écurie, où il les retrouvera après sa métamorphose en âne. Durant son séjour, il séduit Photis, la servante de la maison qui viendra le retrouver après avoir couché avec sa maîtresse. Mais quand Apulée décrit l’appartement où ils passent leur première nuit, il a oublié ce qu’il a écrit plus haut. Le cubiculum où Photis retrouve Lucius est devenu un véritable appartement où il trouve « les apprêts fort bien dressés d’un festin. On avait fait le lit des esclaves par terre, hors de la pièce, et aussi loin que possible, apparemment pour que notre conversation nocturne eût lieu sans témoins, et, près de mon lit, était placé une table chargée [… d’] une collation fort propre à précéder les jeux de Vénus »93. Cette contradiction due au caractère composite du roman illustre la juxtaposition que l’on observe dans les maisons aristocratiques entre les salles à manger et les chambres où les invités pouvaient se retirer. Dans l’ordo hospitalitatis de Sidoine Apollinaire, c’est le deversorium où Domitius pourra se reposer le repas terminé94. On ne doute pas que ces aristocrates chrétiens se soient retirés dans ces salles pour une sage sieste ou pour le repos nocturne. Mais, pour les siècles précédents, A. Zaccaria Ruggiu a réuni une série de témoignages dans les sources écrites qui ne laissent pas de doute sur une utilisation du cubiculum comme « luogo privilegiato di avventure amorose e di adulteri »95. Transformé en âne, Lucius n’a pas eu la possibilité de graver sur les murs de sa chambre le souvenir de ses exploits amoureux, comme on a pu le lire sur les parois de chambre d’auberge à Pompéi, mais aussi de manière plus surprenante sur celle d’une pièce de la Maison des Nones de Mars à Limoges96. 3.  Station routière et dignitas civitatis : des stations routières aux entrées et sorties des villes 3.1.  Le financement des édifices publics d’hébergement Les mansiones et mutationes des Itineraria picta étaient installées en périphérie des villes pour accueillir ceux qui ne pouvaient pas y stationner, les commerçants et leurs marchandises, les courriers du cursus publicus et les employés de la vehiculatio. Ils trouvaient les surfaces et la protection dont ils avaient besoin. La question du financement de ces installations est un moyen d’aborder celle de la part du public et du privé dans la construction et l’entretien de ces établissements. Sous Néron, une série de trois inscriptions des praetoria routiers fait connaître la construction de praetoria et de tabernae par le gouverneur de la province de Thrace, Titus Iulius Ustus, en 61. Ils sont financés par le pouvoir romain dans le cadre de l’équipement des routes thraces97. Mais, dans la grande majorité des cas connus, le financement est assuré par les collectivités riveraines des voies. Dans le chapitre qu’elle a consacré au financement du cursus publicus, A. Kolb a cité les quelques documents dont on dispose pour le IVe s.98. Les sources épigraphiques et juridiques établissent que, si dans ce domaine l’initiative vient de l’État, sa participation au financement était partielle99. Les riverains devaient assurer l’entretien des voies et fournir les équipages dans le cadre de l’angareia100. Les villes situées sur le parcours des courriers et des convois officiels étaient tenues de construire des locaux adaptés, qu’elles pouvaient  « Extra pomerium et urbem totam colit » (Apul., Met., I, 21, 3).  « Breuitatem gurgustioli nostri ne spernas peto » (Apul. Met., I, 23, 5). 93  Apul., Met. II, 15. À comparer avec le banquet donné par Byrrhène, cf. Apul., Met. II, 19. Gros 2001, p. 168. 94  Sidon., Epist. II, 2, 9. 95   Zaccaria Ruggiu 1995, p. 405. 96   Bost 1993. 97   CIL, III, 6123 = 14207 = ILS, 231 = AE 1900, 18 ; AE 1912, 193 ; IGBulg., V, 5691 = Ivanov 1973, pp. 209-213. Historique dans Christol 1998, pp. 793-795. 98   Comme l’inscription de Concordia (CIL, V, 8987 = ILS, 755) datée de 362/363. 99   Kolb 2000, pp. 123-154 et plus spécialement pp. 136-138. 100   Frend 1956. 91 92

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Fig. 7. L’inscription du locus de Guelma (CIL, VIII, 5341 = ILAlg, I, 263 ) (© Musée du Louvre ; P. et M. Chuzeville, Documentation Antiquités Grecques Etrusques Romaines).

gérer directement ou affermer. Observant que « le dossier épigraphique ne contient qu’un seul témoignage explicite en relation avec une statio du cursus publicus », J. Nelis-Clément arrive à la même conclusion pour la vehiculatio101. En Sardaigne, la dédicace du praetorium routier de Muru di Bangius102 fait état de la participation de la caisse publique (pecunia publica) de Forum Traiani à la constitution d’un bâtiment utilisé par le gouverneur lors de ses tournées dans la province, par les officiales et également par les commeuntes. Cette participation est également attestée pour le praetorium africain de Bou Arada103. De même, la dédicace du praetorium urbain de Dion témoigne d’un financement par une famille notable. On ajoutera à cette liste une inscription de Calama en Proconsulaire, datée de 408, qui en apporte un autre témoignage. Elle mentionne qu’un curateur de la cité (curator rei publicae), dont seul subsiste le cognomen de Valentinus, a restauré « un lieu couvert de ruines qui auparavant était défiguré par la saleté et les ordures » ; il l’a rendu à l’usage pour tout ce qui est nécessaire et pour l’accueil des voyageurs » et lui a donné « une meilleur apparence […] jusqu’en haut du toit »104. La restitution ad ne[cessa]rium usum correspond à une formule usuelle. Toutefois on peut aussi proposer ad ne[gotiato]rium usum. Le texte précise que la restauration de ce locus a été réalisée propria pecunia par ce notable. Elle entre dans la liste des évergésies qui continuent à justifier la position des élites dans la cité au même titre que celle de n’importe quel autre bâtiment urbain (Fig. 7). Outre la conformité à la dignitas, les évergètes qui se substituaient à la caisse publique dans le financement de ces bâtiments y trouvaient leur intérêt. Un témoignage indirect, mais très explicite, en est donné par Procope de Césarée au VIe s. Dans un passage à charge contre Justinien, Procope accuse cet empereur réformateur d’avoir ruiné l’économie domaniale en supprimant la plupart des sections du cursus publicus, à l’exception de la route menant à la frontière perse. Il explique que « des chevaux se trouvaient dans chaque station au nombre de quarante et des écuyers étaient assignés à toutes les stations, à proportion du nombre des chevaux. Les propriétaires de domaines en tous lieux, en particulier lorsque ces domaines étaient à l’intérieur des terres, étaient extrêmement prospères grâce à cela. En vendant chaque année au trésor le surplus de leurs récoltes pour nourrir les chevaux et les écuyers, ils   Nelis-Clément 2006, p. 279.   AE 1992, 892 : [--- d]omini n(ostri) [M. Au]reli [Antonini---] propter compendium itiner [is ---] commeantiu[m -] Aurelius [---proc(urator) Au]g(usti) pra[?ef(ectus) p]rov(inciae) Sard(iniae) praetorium [--- ]so, pecunia publica [---]e civitatis Foro Traianensum [re?]stituit dedicavitque. 103  AE 1955, 52 (368-370). 104   CIL, VIII, 5341 = ILAlg., I, 263. …locum rui[nis obsi]tum qui antea squalore et sordibus foedabatur ad ne[cessa]rium usum et ad peregrinorum hospitalitatem in meliorem [ faciem ou statum]…/ad tecti fastigium. 101 102

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gagnaient beaucoup d’argent »105. Cette association entre les intérêts privés de grands propriétaires et l’intérêt général, celui de l’État, s’oppose à une vision actuelle de la relation privé public. En justifiant le profit que ces élites tirent de charges qui accablent les collectivités locales, Procope considère comme normale ce qui est pour nous une forme de corruption punie par la loi. Pourtant, pour donner une légitimité historique aux contrats de partenariat public/privé (PPP) promus par l’actuelle construction européenne et répondre à ceux qui les accusent d’être ruineux pour les finances publiques, des juristes du Comité économique et social européen n’ont pas hésité à invoquer comme précédent « le contrat passé après adjudication par les municipalités avec des gestionnaires » des stations du cursus publicus106. 3.2.  La station routière de Martigny La station routière dont fut dotée la petite ville d’Octodurus - Forum Claudii Vallensium (Martigny en Valais, Suisse) offre un exemple de l’apport à la contextualisation d’un ensemble reconnu par l’archéologie dont en l’absence de sources écrites l’identification était incertaine. Cette ville a été fondée entre 41 et 47 au pied du Col du Grand-Saint-Bernard qu’empruntait la voie assurant la liaison la plus directe entre Rome et les provinces du Nord-Ouest de l’Europe à son débouché dans la plaine du Rhône107. La route traversait la vaste zone suburbaine qui entourait le noyau urbain géométrique du centre monumental et le contournait. À son angle sud-est, elle infléchissait son tracé afin d’éviter un obstacle inconnu et rejoignait le cardo qui délimitait au sud-ouest le quadrillage urbain. Elle le suivait sur 290 m en bordure des trois insulae jusqu’à son extrémité nord-est, puis tournait de 90° à l’angle de l’insula 11 dont un chasse-roues en pierre protégeait le pan coupé et suivait sur 400 m le decumanus qui bordait les façades nord-ouest de quatre insulae pour rejoindre le prolongement d’un cardo perpendiculaire qui sortait de la ville. Au-delà, la route faisait un nouveau coude vers l’ouest et traversait une zone dont le plan échappe au quadrillage géométrique du centre de la ville. Elle passait près de l’enceinte d’un petit fanum, puis longeait vers le nord la façade oblique d’un habitat situé sous un complexe ecclésial identifié comme une villa suburbaine en se dirigeant vers la Dranse, qu’elle franchissait sur un pont (Fig. 8)108. La station routière dont la route longeait la façade sud-est se trouve dans la zone périurbaine, 400 m au SSO du forum. Dans les années 1980, son identification a conclu une série de découvertes qui ont débuté en 1908 avec celle d’une double colonnade de plus de 56 m de long. L’année 1973 avait vu la mise au jour d’un bâtiment que son plan identifie comme un entrepôt. En 1976, ce fut le tour d’un temple, puis dans les années 1983-1984 celui du bâtiment thermal et d’un corps de logis, portant la superficie explorée de la station au quart de la superficie totale. Il ne manque à découvrir que les deux murs qui en délimitaient l’extension du côté de la ville. Elle se présente comme une aire bipartite enclose dans une enceinte d’une largeur de 85 m pour une longueur minimale de 136,24 m. Son orientation à 49° par rapport au nord géographique diffère légèrement de celle du quadrillage urbain qui est d’environ 52°. Cette enceinte réunit les bâtiments dévolus à l’accueil des voyageurs et un temple de tradition indigène dont le podium est orienté à 54° est. L’association d’un sanctuaire à un établissement socio-professionnel fait bénéficier l’hôte de la double protection des dieux et d’une enceinte assurant la sécurité des marchandises (Fig. 9)109.  Procop., Hist. Arc. XXX, 4-5.   Avis du Comité économique et social européen (2005/C 234/12) intitulé Le rôle de la BEI dans les partenariats publics/privés (PPP) et l’impact sur la problématique de la croissance ; Bezançon 2007. 107   Des décennies de fouilles d’urgence et un suivi archéologique exemplaire ont permis à F. Wiblé d’en reconstituer l’organisation (Wiblé 2008). 108   Wiblé 2008, pp. 83-92. 109   Leveau, Wiblé 2014. Ce sanctuaire a été inclus par L. Péchoux dans une liste de «  sanctuaires de périphérie urbaine  » où l’on retrouve ceux de Vaugrenier, Langres, Poitiers et Beauvais ainsi que, hors de Gaule, les installations d’Augst (Péchoux 2010, p. 93). On y ajoutera le sanctuaire de La Roche, 500 m à l’ouest de la sortie de Poitiers, où des dédicaces et reliefs témoignent d’un culte à Mercure et Epona (Péchoux 2016, pp. 472-474). 105

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Fig. 8. La circulation à Martigny. Plan de masse (d’après Wiblé 2008, fig. 90, p. 85).

En l’absence de données épigraphiques permettant de donner un nom à cet ensemble, les données archéologiques conduisaient à s’interroger sur son statut. Constatant « la présence, autour d’une cour à laquelle on accédait par une entrée monumentale, d’entrepôts, de logements (?) et, dans une moindre mesure, de thermes », F. Wiblé y reconnaissait un de ces complexes « qui sont généralement identifiés comme des “mansiones” »110. Ses dimensions et la présence du sanctuaire invitaient à y reconnaître un établissement public. Mais si sa taille et sa position sur un axe majeur le désignent comme une probable station du cursus publicus, créé à son usage par le pouvoir romain, l’inclusion d’un sanctuaire de tradition indigène dans l’enceinte lui conférait un caractère local. La contextualisation du dossier qui a été présentée permet de surmonter la contradiction qui pouvait apparaître entre un financement par les « autorités, d’origine locale, de la ville nouvellement fondée de Forum Claudii Vallensium » et le pouvoir romain111. Conclusion Les trois dossiers présentés confirment la conclusion des travaux récents qu’a inspirés le syntagme privé/public  112: publice et privatim témoignent de la dimension essentiellement politique et civique de la sociabilité aristocratique romaine. Ces deux termes ne qualifient pas deux modes de réception opposés, mais se distinguent seulement par le mandat de la cité. Privé ou public, l’accueil s’inscrit dans l’affirmation de la dignitas. Dans la mentalité aristocratique, la distinction, vie privée et vie publique, s’efface dans cette affirmation. Ce concept politique de dignitas, dans lequel des historiens voient un équivalent de la notion moderne de l’honneur, concerne aussi bien les individus que les groupes. Liée   Wiblé 1984, p. 183, n. 63.   Wiblé 1984, p. 183. 112   Dardenay, Rosso 2013. 110 111

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Fig. 9. La station routière (d’après F. Wiblé in Leveau, Wiblé 2014).

à la virtus, elle conditionne la position de l’homme politique dans l’échelle sociale et le guide dans le comportement qu’il lui convient d’adopter pour lui-même et dans ses rapports avec les autres. Elle s’étend de l’homme célèbre aux lieux où il vit113. C’est à la dignitas urbis que concourent les édifices publics énumérés par Sénèque dans un passage célèbre de son De vita beata, où il oppose les temples, le forum et la curie, où la vertu s’exprime, à ceux qui sont associés au plaisir de la bouche et du sexe114. Sans doute, l’accueil ne figure-t-il pas parmi eux. Mais, à l’époque constantinienne, l’argumentation que la ville d’Orcistus emploie pour récupérer le nomen civitatis dont elle avait été privée depuis son rattachement à sa voisine Nikoleia offre un témoignage explicite sur la dignitas urbium115. Il n’est pas sûr que le carrefour de voies qui y convergent ait eu l’importance que les gens prétendaient ni que le cursus publicus y ait disposé qu’un établissement : la ville n’est mentionnée dans aucune source géographique ni aucun document routier. Mais, l’argumentaire invoque la possession d’une mansio comme un élément de sa dignitas au même titre que celle d’un « forum orné de statues et agrémenté de bancs, de bains publics et privés (labacra quoque publica priuataque), de sources abondantes et de moulins »116.   Hellgouarc’h 1963, pp. 388-415.  Sen., De vita beata VII, 3 ; Wallace-Hadrill1995. 115   CIL, III, 352 = CIL, III, 7000 = ILS, 6091 = MAMA, III, 352-7000 = ILS, 6091 = MAMA, VII, 305 = AE 1981, 779. 116   Lignes 20-24 : Ita enim ei situ adque ingenio locus opportunus esse perhibetur ut ex quattuor partibus eo totidem in sese confluant uiae, quibus omnibus publicis mansio tamen utilis adque accomoda]esse dicatur. (De plus, grâce à sa situation et à sa nature, ce lieu se montre avantageux, car, venant de quatre côtés, s’y rejoignent quatre routes pour lesquelles une mansio est, à ce qu’on dit, utile et appropriée à tous les besoins publics), traduction Chastagnol 1981. 113

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L’affirmation de la dignitas unit les deux facettes de la vie civique que sont l’hospitium publicum et l’hospitium privatum. Telle qu’elle s’exprime dans la pratique des élites et dans la réglementation, la mentalité romaine ne distingue pas en effet dans le privé la dimension d’intimité que contient la revendication du respect de leur vie privée par les ‘people’, actuelles personnes publiques. Sous sa forme actuelle, « le contraste, clairement perçu par le sens commun, qui  », selon G. Duby, «  oppose au public, ouvert à la communauté du peuple et soumis à l’autorité de ses magistrats, le privé »117 est une construction sociale apparue durant les temps modernes. Aucun terme latin, sauf peut-être otium, n’y exprime l’intime. La première mention du terme français ‘intimité’ qui caractérise cette notion se rencontre dans la correspondance de Mme de Sévigné au XVIIe s. Il dérive de l’adjectif intimus, superlatif d’interior, qui apparaît seulement à la fin de l’Antiquité dans le vocabulaire chrétien. Pour reprendre l’expression de P. Veyne introduisant la contribution de P. Brown dans son Histoire de la vie privée, il accompagne un passage de l’« homme civique » à l’« homme intérieur »118. Bibliographie Agache 1999 = S. Agache, s. v. « Villa Publica », in E. M. Steinby (a c.), Lexicon topographicum urbis Romae (= LTUR) V, Roma 1999, pp. 202-205. Alessio 2006 = S. Alessio, Praetorium e palatium come residenze di imperatori e governatori, in « Latomus » 65, 2006, pp. 679-689. Amraoui 2011 = T. Amraoui, Le « quartier industriel » de Timgad. Un état de la question, in S. Fontaine, S. Satre, A. Tekki (dir.), La ville au quotidien. Regards croisés sur l’habitat et l’artisanat antiques (Afrique du Nord, Gaule et Italie), Aix-en-Provence 2011, pp. 223-232. Badian 1958 = E. Badian, Foreign Clientelae (264-70 B.C.), Oxford 1958. Ballet, Dieudonné-Glad, Saliou 2008 = P. Ballet, N. Dieudonné-Glad, C. Saliou, Introduction, in P. Ballet, N. Dieudonné-Glad, C. Saliou (dir.), La rue dans l’Antiquité. Définition, aménagement et devenir de l’Orient méditerranéen à la Gaule, Rennes 2008, pp. 9-13. Ballu 1903 = A. Ballu, Les ruines de Timgad (antique Thamugadi), Paris 1903. Ballu 1911 = A. Ballu, Les ruines de Timgad, antique Thamugadi : sept années de découvertes (1903-1910), Paris 1911. Ben Hassen, Golvin, Maurin 1998 = H. Ben Hassen, J.-Cl. Golvin, L. Maurin, La ville. Recherches anciennes et présentation d’ensemble, in H. Ben Hassen, L. Maurin (dir.), Oudhna (Uthina). La redécouverte d’une ville antique de Tunisie, Bordeaux 1998, pp. 21-37. Bezançon 2007 = X. Bezançon, Les contrats de partenariat, est-ce vraiment nouveau ?, in « Revue du Trésor », 30/03/2007, pp. 196-198. Bost 1993 = J.-P. Bost, Exploits amoureux à Limoges au IIIe s. après J.-C. : trois graffiti de la Maison des Nones de Mars, in « Travaux d’Archéologie limousines » 13, 1993, pp. 53-57. Chastagnol 1981 = A. Chastagnol, L’inscription constantinienne d’Orcistus, in « MEFRA » 93/1, 1981, pp. 381-416. Chioffi 1999 = L. Chioffi, Il mercato della carne nell’occidente romano. Riflessi epigrafici ed iconografici, Roma 1999. Christofle 1930 = M. Christofle, Rapport sur les travaux de fouille et consolidations effectuées en 19271929, Alger 1930. Christol 1998 = M. Christol, De la Thrace et de la Sardaigne au territoire de la cité de Vienne, deux chevaliers romains au service de Rome : Titus Iulius Iustus et Titus Iulius Pollio, in « Latomus » 57, 1998, pp. 792-815. Corsi 2000 = C. Corsi, Le strutture di servizio del cursus publicus in Italia: ricerche topografiche ed evidenze archeologiche, Oxford 2000.

  Dans sa préface à l’Histoire de la vie privée, G. Duby en fait à tort une évidence (Duby 1985, p. 10).   Veyne 1985, p. 13.

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Hospitalité publique, hospitalité privée dans la ville

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CONCLUSIONI CONCLUSIONS

Laurent Lamoine

Commençons par saluer les mérites des contributeurs et des éditeurs scientifiques qui ont réussi à élaborer un livre harmonieux et novateur à partir des travaux de deux journées d’étude qui s’étaient tenues en 2015 à Clermont-Ferrand au printemps et à Bologne à l’automne. Les Romains y auraient vu sans aucun doute une saison guerrière entre les courses et les lustrations du mois de mars et le célèbre rituel sacrificiel du Cheval d’Octobre aux ides, consacrée à des campagnes militaires victorieuses auxquelles les avancées scientifiques de ces rencontres peuvent être assimilées. Permettez-moi, avant d’entrer dans le vif du sujet, d’avoir une pensée pour Mireille Cébeillac-Gervasoni, disparue le 29 mars 2017 terrassée par une longue maladie, qui n’avait pas hésité à faire le voyage de Rome à Bologne pour assister à nos travaux et présider la matinée alors qu’elle était engagée dans la préparation de son séminaire d’Ostie annuel. Elle était déjà présente à Clermont au printemps car il était évident pour elle que les recherches menées sous la conduite de Carlotta Franceschelli, secondée par Pier Luigi Dall’Aglio et moi-même, étaient dans la continuité de son programme sur le « Quotidien municipal » qu’elle avait dirigé de 2002 à 2009 comme directrice de recherche au CNRS (UMR 8210 ANHIMA) puis du programme « Les pouvoirs locaux depuis l’Antiquité romaine » du CHEC de l’Université Clermont-Auvergne que nous avions coordonné entre 2008 et 2011. Elle me disait encore il y a quelques mois combien l’ouvrage Spazi pubblici, annoncé, prenait la suite de nos Quotidien municipal (2008 et 2012) et de notre Praxis municipale (2010). Sa disparition ne peut que nous laisser des « regrets éternels » auxquels j’associe tous les membres de l’équipe, les nombreux étudiants présents à Clermont comme à Bologne, et, plus particulièrement Françoise Sudi-Guiral, qui a eu, comme moi, la chance d’avoir été son élève. Le livre comprend six parties qui ont organisé la réflexion sur les espaces publics en accommodant trois lignes forces des recherches du groupe : la référence fondamentale à Rome dont les études sur la topographie politique sont à la fois anciennes et comme des fers de lance, les avancées provinciales, régionales ou locales qui irriguent, au sens littéral, ce livre, et les questions heuristiques, méthodologiques et historiographiques qui inscrivent Spazi pubblici dans l’épaisseur de la science historique. Bien que cette dernière ligne corresponde à l’intégralité de la première partie, force est de reconnaître que les trois lignes forces se retrouvent mêlées dans les cinq autres parties, attestant de la solidité des démarches d’investigation et suscitant un faisceau de questions, non pas annexes, mais consubstantielles comme celles

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sur l’urbanisme des Anciens, sur les rapports entre le modèle de la ville de Rome et les réalités locales, sur ceux entre les champs publics et privés, sur l’opérabilité et l’adaptabilité réelles des pouvoirs et des lieux publics, sur l’implication du pouvoir impérial ou sur le lien entre continuité et rupture sur le temps long de l’Antiquité romaine de l’époque républicaine à l’Antiquité tardive. Bien entendu, le livre ne cherche pas à atteindre l’exhaustivité, les quinze contributions, si riches soient-elles, répondent inégalement à l’ensemble de ces questions. Ce champ d’investigations, qui ne ressemble donc en rien à un champ clos, laisse du travail pour les années à venir et me permet de réunir sous trois rubriques les résultats obtenus par les chercheurs réunis pour l’édition de ce livre. L’espace public était la notion fondatrice des rencontres de Clermont et de Bologne, il est donc logique de commencer par elle et de s’intéresser à sa définition, ses vestiges, ses usages et ses transformations. Les deux dernières catégories citées constituent les deux autres thèmes. Les utilisations conditionnent les aménagements et permettent d’envisager les métiers des professionnels des lieux publics et les captations par leurs utilisateurs occasionnels. La succession des aménagements, des abandons et des réinvestissements permettent d’interroger ces faits à l’aune des grandes scansions historiques et chronologiques de la ville romaine. Les espaces publics La première question posée était celle de la reconnaissance des espaces qui voyaient s’exercer des activités relevant de l’État. La distance chronologique entre l’Antiquité romaine et le XXIe siècle et la matérialité, choisie à l’époque, plus ou moins grande ou faible, des lieux comme des activités, font qu’il est souvent difficile de retrouver l’espace public malgré les efforts des archéologues. L’étude que Mario Pagano consacre au forum d’Herculanum témoigne des difficultés à faire coïncider les indications de la documentation épigraphique avec le terrain encore en partie dissimulé par les comblements du Vésuve, perturbé par les usages archéologiques des temps bourboniens et obscurci par les nombreuses théories énoncées depuis. Les campagnes de fouilles récentes et surtout l’Herculanum Conservation Projet permettent de rediscuter les contours de la piazza portica della « basilica » identifiée avec le forum depuis le XVIIIe siècle. Le forum reste en effet l’espace public par excellence que les historiens et les archéologues cherchent à découvrir et à caractériser, comme le propose pour les Gaules Cisalpine et Transalpine Stefano Maggi, qui s’intéresse à la notion de transfert en direction des provinces du modèle du Forum romain, des fora impériaux et des fora coloniaux. Il envisage aussi les concepts de codification et de programmation dont les statues exhumées des divinités et des empereurs sont souvent les vestiges. La continuité d’occupation d’un site urbain qui implique que les générations qui s’y sont succédé et s’y sont constamment manifestées par des démolitions et des constructions nouvelles est un sérieux frein à la reconnaissance individualisée des espaces publics. Luisa Migliorati présente le cas d’école de Rome profondément métamorphosée non seulement par les papes et leurs successeurs du Risorgimento, du fascisme et de l’après-guerre Seconde Guerre mondiale, mais aussi par César et les empereurs. La capitale de l’empire romain, puis de la chrétienté et enfin de l’État italien, a été un chantier permanent. Depuis les Lumières, les théories élaborées par les sciences humaines naissantes, confortées par les environnements intellectuels et artistiques des XIXe et XXe siècles, qui ont apporté certes une conceptualisation de la recherche, ont pu également constituer des écrans à la connaissance. Cairoli Fulvio Giuliani, pour Rome, et moi-même, pour le monde gaulois, ont établi un bilan de ces reconstructions qui dressaient l’idéal architectural ou celui de l’état de la nature sauvage comme autant d’écueils. Philippe Leveau revient sur la complexité de la notion même d’espace public par le biais de l’accueil et de l’hospitalité dans la ville. En s’appuyant principalement sur des exemples africains (Timgad, Oudha, etc.) et des Gaules (Aix-les-Bains, Narbonne, Cologne, Lyon, etc.), il souligne combien les villes romaines tenaient à écarter des centres la trop grande circulation et le stationnement provisoire et comptaient sur des structures privées, ou mêlant les deux sphères, pour assurer l’hébergement des personnes, importantes ou pas, de passage ou censées résider plus durablement (comme le gouverneur). Les nombreux dossiers traités par Philippe Leveau montrent aussi combien les différents espaces sont imbriqués, que la séparation nette entre l’espace public et celui privé, voire de l’intimité, n’appartient pas à l’Antiquité.

Conclusioni – Conclusions

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La rue, que Carlotta Franceschelli réexamine à travers des données collectées dans l’ensemble de l’empire romain et plus particulièrement à Néris-les-Bains – site qu’elle connaît bien pour diriger le chantier de fouilles depuis plusieurs années –, possède bien un caractère public qui explique l’investissement des élites politiques dans sa construction, son entretien, son embellissement et in fine sa restauration. Elle insiste sur le concept opératoire de « parcours [à la fois] fonctionnels et symboliques ». La fouille de la rue Kléber à Néris (principalement en 2014-2017) a permis à Carlotta Franceschelli de déterminer les vestiges d’une allée monumentale connectée à un complexe sacré et thermal. Les activités publiques La rue est un espace public qui est le réceptacle de bien des actes des magistrats et de leurs auxiliaires, de l’expression électorale également, la littérature gréco-romaine et l’épigraphie peinte de Pompéi en témoignent. Françoise Sudi-Guiral et moi-même avons tenté de faire quitter la rue au personnel politique et de les faire entrer dans les bâtiments réputés publics et leur environnement proche. Si les travaux édifiant de tels lieux sont attestés par les inscriptions, la difficulté d’associer ces textes avec les résultats des fouilles archéologiques et la non spécialisation absolue des opérations et des personnels publics rend l’enquête souvent décevante. Seule peut-être l’activité d’écriture publique, produisant des archives consultables, semble contraindre à affecter à la conservation des pièces des actes publics des lieux précis (tabularia), raccordés au forum, à la curie décurionale et à la basilique. Le Capitolium peut alors apparaître comme le lieu de mémoire de l’action publique comme le démontre Lauretta Maganzani par le truchement de l’examen de la documentation exposée, en particulier de nature cadastrale, du Capitole de Vérone. Elle insiste sur l’idée de lieux d’exposition d’actes choisis pour leur importance, qui ne sont pas nécessairement assimilables aux lieux de conservation. Alessandro Cristofori pose la question de la construction et de l’entretien des lieux publics, il choisit d’interroger le corpus épigraphique des curatores operum publicorum des cités locales. Si la désignation à ce munus mixtum (personnel et public) dépend à la fois du pouvoir central (l’empereur directement ou le gouverneur) et des autorités locales, les titulaires de la fonction sont souvent des notables locaux expérimentés, choisis parmi les chevaliers romains comme parmi les augustales. Leurs compétences sont étendues, elles peuvent être générales ou liées à un chantier particulier. Ils peuvent être aussi les gardiens du patrimoine de la cité. Alessandro Cristofori n’hésite pas à revendiquer dans son corpus les célèbres triumviri locorum publicorum persequendorum de la cité de Vienne en Gaule Narbonnaise dont les missions ont toujours été difficiles à établir. Rome reste un laboratoire privilégié comme en témoigne la convergence entre le programme de Clermont et de Bologne et celui des établissements supérieurs lyonnais (Lyon 2 et Maison de l’Orient) sur les espaces du vote, à commencer par ceux des comices romains. Virginie Hollard rappelle à partir de l’exemple romain combien les évolutions des procédures et des rituels de vote entraînent des changements dans la configuration et l’organisation des lieux affectés aux rassemblements populaires. À partir d’une note de Suétone évoquant un graffiti hostile à Domitien gravé sur un arc (Suet., Dom. XIII), Cyril Courrier tente de retrouver la politique édilitaire en matière d’arcs et les motivations de l’empereur. Après un bilan archéologique (neuf propositions), il examine l’hypothèse d’une origine religieuse et politique : l’extension du pomérium, à cette frénésie de constructions. L’Asie Mineure et l’Afrique servent de terrains d’investigation à Jesper Carlsen pour intégrer à la réflexion commune la construction amphithéâtrale et l’organisation des combats de gladiateurs qui sont aux confins de l’action publique, mais non sans influence sur elle. Rupture et/ou continuité Les études de François Jacques (Le Privilège de liberté, 1984) et de Claude Lepelley (Les cités de l’Afrique romaine au Bas-Empire, 1977 et (éd.), La fin de la cité antique et le début de la cité médiévale, 1996) ont insisté sur le dynamisme puis la survivance de la civitas tout au long de l’époque impériale et pendant

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le Haut-Moyen Âge. Elles s’inscrivaient contre l’idée de crise de la cité que leurs prédécesseurs avaient érigée en dogme. Durant ce temps très long, les cités n’en connurent pas moins des mutations liées aux transformations de l’Empire et à sa christianisation. C’est bien dans ce sillage que s’inscrit l’étude de Pier Luigi Dall’Aglio et de Paolo Storchi sur « la cité » de la région VIII d’Italie (l’actuelle ÉmilieRomagne) à l’époque tardive prise dans son acception large. Il montre combien l’historien ne doit pas être dupe d’une documentation littéraire tardive (il se fonde sur une lettre de consolation d’Ambroise, Ep. I, 39) qui est à la fois catastrophiste et plagiaire (Ambroise plagie Cicéron). Les œuvres panégyriques à destination des rois Goths exploitent le même filon pour mieux souligner l’œuvre restauratrice des successeurs des empereurs d’Occident. L’archéologie permet de tenir un discours plus mesuré qui établit cependant des marqueurs du changement. Les villes tardives connaissent des rétractations spatiales accompagnant la construction ou la restauration de murailles et tenant compte des opportunités fluviales. L’habitat, qui utilise des matériaux plus communs, se redistribue à l’intérieur de ces nouveaux espaces clos, redessinant, en la faisant disparaître, la trame des domus. Le forum et les rues semblent perdre quelquefois leur caractère public pour des communautés qui se rassemblent désormais autour des églises et des cimetières intra muros (abandon de l’interdit de sépulture à l’intérieur de la ville connu depuis la loi des XII Tables) dont la localisation échappe à un déterminisme (il est possible cependant de noter comme à Parme une continuité de site entre le temple païen et l’église San Pietro). En fait, la diversité de destins domine, oscillant entre une certaine continuité (des fora qui restent places publiques) et une complète rupture voire un déclin qui ne pouvait qu’alimenter la veine nostalgique et mélancolique de la littérature tardive. Blaise Pichon fait le même constat pour la Gaule du nord entre le milieu du IIIe siècle et le Ve siècle en reprenant les dossiers d’Amiens, Bavay, Reims, Vieux et Paris. Il met en exergue, après l’excellent dossier La fin des dieux (Gallia, 71, 2014) coordonné par Willian Van Andringa, le rôle des changements qui ont affecté la religion civique (indépendamment de la christianisation), comme l’abandon du grand sacrifice public, qui ont conduit à abandonner des sanctuaires offerts à la privatisation et au démantèlement. Ces lignes n’épuisent en rien la richesse des quinze contributions qui constituent l’armature des Spazi pubblici. Chacune offre, dans le détail des corpus mobilisés et des arguments défendus, une myriade d’informations qui crée de nouvelles connaissances ou réactualise celles connues depuis longtemps. Chaque étude représente, dans son domaine particulier et au croisement des disciplines, un véritable « pays de cocagne ». Les Spazi pubblici ont ainsi rempli le contrat et tracé, pour les années à venir, des lignes de recherche prometteuses.

AUTORI AUTEURS

Jesper Carlsen, Syddansk Universitet, Odense Cyril Courrier, Centre Camille Jullian, Aix-Marseille Université Alessandro Cristofori, Dipartimento di Storia Culture Civiltà (DiSCi), Università di Bologna Pier Luigi Dall’Aglio, Dipartimento di Storia Culture Civiltà (DiSCi), Università di Bologna Carlotta Franceschelli, Centre d’Histoire « Espaces et Cultures » (CHEC), Université Clermont Auvergne, Clermont-Ferrand Cairoli Fulvio Giuliani, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università di Roma 1 La Sapienza Virginie Hollard, Laboratoire HISoMA, Maison de l’Orient et de la Méditerranée, Université Lumière Lyon 2 Laurent Lamoine, Centre d’Histoire « Espaces et Cultures » (CHEC), Université Clermont Auvergne, Clermont-Ferrand Philippe Leveau, Centre Camille Jullian, Aix-Marseille Université Lauretta Maganzani, Istituto Giuridico, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Stefano Maggi, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Pavia Luisa Migliorati, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università di Roma 1 La Sapienza Mario Pagano, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, per le Province di Catanzaro, Cosenza e Crotone Blaise Pichon, Centre d’Histoire « Espaces et Cultures » (CHEC), Université Clermont Auvergne, Clermont-Ferrand Paolo Storchi, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università di Roma 1 La Sapienza Françoise Sudi-Guiral, Centre d’Histoire « Espaces et Cultures » (CHEC), Université Clermont Auvergne, Clermont-Ferrand

Collana DiSCi Archeologia

1. Stefano Santocchini Gerg, Incontri Tirrenici. Le relazioni fra Etruschi, Sardi e Fenici in Sardegna (630-480 a.C.), 2014 2. Enrico Giorgi e Paola Buzi, a cura di, Bakchias. Dall’Archeologia alla Storia, 2014 3. Anna Chiara Fariselli, a cura di, Da Tharros a Bitia. Nuove prospettive della ricerca archeologica nella Sardegna fenicia e punica. Atti della Giornata di Studio, Bologna 25 marzo 2013, 2014 4. Silvia Romagnoli, Il santuario etrusco di Villa Cassarini a Bologna, 2014 5. Marco Podini, La decorazione architettonica di età ellenistica e romana nell’Epiro del nord, 2014 6. Isabella Baldini e Monica Livadiotti, a cura di, Archeologia protobizantina a Kos. La città e il complesso episcopale, 2015 7. Enrico Ravaioli, L’insediamento fortificato in Romagna tra fonti scritte e dati archeologici (VIII-XVI sec.). Le province di Forlì-Cesena e Ravenna, 2015 8. Giuseppe Sassatelli, Archeologia e Preistoria: alle origini della nostra disciplina. Il Congresso di Bologna del 1871 e i suoi protagonisti, 2015 9. Kevin Ferrari, Ad ostium Liris fluvii. Storia del paesaggio costiero alla foce del Garigliano, 2016 10. Anna Gamberini, Ceramiche fini ellenistiche da Phoinike: forme, produzioni, commerci, 2016 11. Federica Boschi, edited by, Looking to the Future, Caring for the Past. Preventive Archaeology in Theory and Practice, 2016 12. Francesco Belfiori, «Lucum conlucare Romano more». Archeologia e religione del “lucus” Pisaurensis, 2017 13. Michele Silani, Città e territorio: la formazione della città romana nell’ager Gallicus, 2017 14. Sandro De Maria, Celeberrimi loci. Studi sulle strategie della celebrazione nel mondo romano, 2017 15. Elisabetta Govi, a cura di, La città etrusca e il sacro. Santuari e istituzioni politiche. Atti del Convegno, Bologna 21-23 gennaio 2016, 2017 16. Andrea Augenti, Neil Christie, Jozsef Laszlovsky, Gisela Ripoll, a cura di, La Basilica di San Severo a Classe. Scavi 2006, 2017

Finito di stampare nel mese di novembre 2017 per i tipi di Bononia University Press