Sole nero. Depressione e melanconia 8860369614, 9788860369611

Due tesi ardite sostengono questo libro di Julia Kristeva - semiologa, scrittrice, grande intellettuale e interprete del

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Italian Pages 220 Year 2013

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Sole nero. Depressione e melanconia
 8860369614, 9788860369611

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Tìtolo originale: Soteìl noir. Depression et mélancolie © Éditions Gallimard, 1987

Non c stato possibile rintracciare ì detentori dei diritti della traduzione di Alessandro Serra.

L’editore si dichiara disponibile a riconoscerli a chi ne facesse legittima richiesta.

La traduzione della Introduzione 2013 c di Adelina Galeotti.

© 2013 Donzelli editore per l’introduzione 2013

© 2013 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b

INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected]

ISBN 978-88-6036-961-1

___________________________________ SOLE NERO______________________________

Indice

p.

vii Sms ai lettori italiani Introduzione (2013)

5

I. Un controdepressivo: la psicoanalisi

31

11. Vita e morte della parola

6t

ni. Figure della depressione femminile La solitudine cannibalica

Uccidere o uccidersi: la colpa agita Una vergine madre

81

IV. La bellezza: l’altro mondo del depresso

89

v. Il Cristo morto di Holbein

117

vi. Nerval, El Desdichado

145

VII. Dostoevskij, la scrittura della sofferenza c il perdono

181

vili. La malattia del dolore: Duras

v

SOLE NERO__________________________________

Sms ai lettori italiani Introduzione (2013)

Vcntisei anni dopo la prima edizione francese di Soleil noir. De­ pression et mélancolie (Gallimard, Paris 1987), il mio amico e editore Carmine Donzelli mi chiede se ho qualcosa da aggiungere. Io lo rin­ grazio, e senza deprimermi mi interrogo. Per la verità, non avevo mai chiuso questo libro. I mici pazienti di oggi hanno una bella voglia di essere iperconnessi dai vari smart-phone c skypc: il web non impedisce il suicidio; può capitare al contrario che lo incoraggi. La logica della loro depressione segue le stesse figure alle prese con un «passato che non passa», con una «lingua morta», o con una «Cosa sepolta viva». I disturbi bipolari sono più che mai alla mo­ da, c la bellezza resta immancabilmente l’altra faccia del depresso. Il matrimonio per tutti e le famiglie ricomposte stanno diventando la nor­ ma, ma l’amore incorpora sempre il dolore, e la psicoanalisi rimane il solo spazio che la modernità riserva alla sofferenza per ottenere quella forma lucida del perdono che è l’interpretazione. Le conferenze che ho tenuto in Europa, in America o in Asia, le traduzioni in numerose lin­ gue, mi persuadono dell’attualità persistente di questo «sole nero», e io continuo ad affinare la spiegazione che ne propongo a coloro che ne so­ no scottati. Cosa posso aggiungere ancora, e per di più all’indirizzo del lettore italiano, della lettrice italiana? Non è dunque senza «paura e tremore» che affido oggi al mare questa bottiglia. Essendo cambiato, rispetto a un quarto di secolo fa, il ritmo della comunicazione, provo ad arrischiare, in questa introduzione, una con­ trazione, una sorta di sms al tempo stesso denso e serrato, che la lettu­ ra del libro permetterà - spero - di distendere e sviluppare. Sì, la depressione e la malinconia sono più che mai le compagne della globalizzazione. Il Prozac, l’Anafranil o il Seroxat hanno invaso l’armadietto dei medicinali di ogni famiglia, e gli antidepressivi sono in vii

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grado di regolare efficacemente il flusso nervoso. Tuttavia, con o sen­ za di essi, la vita e la morte della parola si giocano nella caverna senso­ riale dei traumi infantili, ed è il transfert sul terapeuta dell’odio indici­ bile e dell’eccitazione innominabile che fa rinascere il suicida o la sui­ cida: dentro nuovi legami, per realtà da reinventare. Sì, la sindrome depressiva non è più soltanto un malessere perso­ nale. Le nazioni stesse oggi sono depresse, sotto lo choc della crisi en­ demica e dell’inevitabile austerità. L’Europa stessa è minacciata in pri­ ma persona da un malinconico pensionamento, con relativa perdita di identità, di valori e di fierezza. Avevo scritto Cantre la depression na­ tionale (Tcxtuel, Paris 1998), analizzando la Francia tentata - già allo­ ra - dal Fronte nazionale e gettata nel panico dall’ondata degli immi­ grati. Nation Without Nationalism, suona così la traduzione inglese di un mio lavoro precedente (Columbia University Press, New York 1993). Siamo ancora, e più che mai, a quello stesso punto: perché l’i­ dentità è il nostro anti-depressivo sociopolitico, ma perché non si tra­ duca in una fonte di regressioni identitarie, di fronte allo stallo economico-politico dell’Europa che ci lascia impotenti, non abbiamo che una sola arma: la cultura. Riguardiamo il Cristo morto di Holbein, ri­ leggiamo El Desdichado di Gérard de Nerval, il carnevale dei Demo­ ni in Dostoevskij, la Malattia della morte secondo Duras... E parlia­ mone: esiste una cultura europea. Cos’è? Ieri, oggi, domani? No, io non sono né depressa né depressiva. Certi lettori me lo chie­ dono, e approfitto dell’occasione per rispondere. Ho visto la tempesta passarmi vicinissima, e l’ho vista sconfitta dalla persistenza del pensie­ ro, che mia madre (cui ho reso omaggio nel mio La testa senza il cor­ po, Donzelli, Roma 2010) considerava come il mezzo migliore per spostarsi: da un luogo, da sé, da tutto... Più tardi ho voluto fare com­ pagnia alla sofferenza dei malati all’Hópital de la Salpetrière a Parigi, ma anche immergermi nelle «idee», di cui Marcel Proust scrive che so­ no «i succedanei dei dolori». Non sono lontana dal pensare, con Ari­ stotele c Heidegger, che la malinconia è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Essere. E poi ho esplorato il genio femminile. E ho aggiunto l’erotismo della reliance materna (cfr. il mio Pulsions du temps, Fayard, Paris 2013); c oggi penso, con Colette, che «rinascere non è mai superiore alle nostre forze». Può darsi che sia più facile a dirsi che a farsi, se siete una donna che ha analizzato le sue ferite e i suoi limiti, i suoi bisogni di credere c i suoi desideri di sapere. E preferisco di gran lun­ ga Véclosion della natura, degli altri e di sé, piuttosto che compianger­ vi»

Sms ai lettori italiani________________________________

si nel mal-ètre - alla faccia della «tribù malinconica dei filosofi», di cui rideva Hannah Arendt. «La malinconia non è francese», mi avevano detto all’epoca dei cri­ tici che pensavano a Rabelais, a Sade, alla Rivoluzione, c nascondeva­ no le loro lacrime, degne al massimo di brume tedesche o nordiche. È italiana, la malinconia? SI o no? Amo il blu di Giotto, la Santa Teresa di Bernini, le estasi del Tiepolo, la voce di Cecilia Bartoli... Il mondo intero viene da voi a fare il turista per dimenticare la propria miseria e per divertirsi; e la barocca Venezia non fu essa stessa eretta come cul­ to della malinconia? L’Italia dunque come negazione delle realtà dolo­ rose? O piuttosto come scrigno globalizzato della depressione nazio­ nale, in mancanza di alternativa, in assenza di avvenire? Oppure - chis­ sà - in anticipo sul désètre mondiale, e pronta ad analizzare, a rivoltar­ si, a rinascere? Mi piacerebbe che quelli che leggeranno questo libro potessero ritrovarvisi. Non propongo soluzioni. Per la prima volta nella storia, dopo tante guerre, tanti crimini, tante speranze più o meno rivoluzio­ narie o paradisiache, stiamo capendo che i problemi essenziali non so­ no «solubili». Ma che ciascuno, ciascuna, può aprire la cicatrice o la piaga delle sue pene, per metterle in questione e cominciare a spiegar­ le. Il mio augurio è che voi possiate farlo, leggendo queste traversate di «soli neri» che io ho cercato di accompagnare nelle pagine che seguo­ no. E che possiate chiudere questo libro, avendo conquistato qualche lampo, per innescare delle nuove possibilità da dischiudere. J. K.

Parigi, 30 giugno 2013

ix

Sole nero

Perché sei triste, anima mia, c perché mi turbi? Salmo di Davide, XLll, 6-12

La grandeur de l’homme est grande en cc qu’il se connait miserable.

Pascal, Pensée!, 165

C’est peut-ctre ^a qu'on chcrche à travers la vie, rien que cela, le plus grand chagrin possible

pour devenir soi-méme avant de mourir. Celine, Voyage au bout de la nuli

1. Un controdepressivo: la psicoanalisi

__________________________________ SOI.E NERO_____________________________________

Scrivere sulla melanconia avrebbe senso, per coloro che la melan­ conia devasta, solo se lo scritto venisse dalla melanconia. Tenterò di parlarvi di un abisso di tristezza, di un dolore incomunicabile che tal volta ci assorbe, spesso in modo durevole, sino a farci perdere il gusto di qualsiasi parola, di ogni atto, il gusto stesso della vita. Questa di­ sperazione non è un disgusto - il disgusto presupporrebbe una capa­ cità di desiderio e di creazione, negativa certo ma esistente. Nella de­ pressione, se la mia esistenza è sul punto di crollare, il suo non senso non è tragico ma mi appare evidente, nettissimo e ineluttabile. Da dove viene questo sole nero? Da quale galassia insensata i suoi raggi invisibili e pesanti mi inchiodano al suolo, al letto, al mutismo, alla rinuncia? La ferita da me subita, una disavventura sentimentale o professio­ nale, un dolore o un lutto che agisce sulle mie relazioni con coloro che mi circondano, sono spesso il fattore scatenante, facilmente indivi­ duabile, della mia disperazione. Un tradimento, una malattia fatale, un incidente o un handicap che mi strappano bruscamente da quella categoria che mi sembrava normale, della gente normale, o che si ab­ battono con lo stesso effetto radicale su una persona cara, oppure che altro ancora...? L’elenco delle sventure che si abbattono ogni giorno su di noi è senza fine... Tutto questo mi dà all’improvviso un’altra vi­ ta. Una vita invivibile, sovraccarica di pene quotidiane, di lacrime in­ ghiottite o versate, di disperazione assoluta, a volte bruciante, a volte incolore e vuota. Un’esistenza devitalizzata, insomma, che, anche se a volte l’esalta lo sforzo da me fatto per continuarla, è pronta a ogni istante a precipitare nella mone. Morte vendetta o morte liberazione, essa è ormai la soglia interna della mia prostrazione, il senso impossi7

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_ Kristeva, Sole nero__________________________

bile di questa vita il cui peso mi sembra a ogni istante insostenibile, se si eccettuano i momenti in cui mi mobilito per far fronte al disastro. Io vivo una morte vivente, carne tagliata, sanguinante, cadavcrizzata, ritmo rallentato o sospeso, tempo cancellato o gonfiato, riassorbito nella pena... Assente dal senso degli altri, estranea, accidentale alla fe­ licità ingenua, la mia depressione mi dà una lucidità suprema, metafi­ sica. Alle frontiere della vita e della morte, ho talvolta il senso e la pre­ sunzione di essere testimone del non senso dell’Essere, di rivelare l’as­ surdità dei legami e degli esseri. Il mio dolore è il volto nascosto della mia filosofia, il suo fratello muto. Parallelamente, il «filosofare è imparare a morire» rimarrebbe inconcepibile senza il raccoglimento melanconico della pena o dell’o­ dio - che culminerà nella cura di Heidegger e nel disvclamcnto del no­ stro «esserc-per-la-morte». Senza una disposizione alla melanconia, non si ha psichismo ma passaggio all’atto o al gioco. Tuttavia la potenza degli eventi che suscitano la mia depressione è spesso sproporzionata rispetto al disastro che, bruscamente, mi tra­ volge. Più ancora, il disincanto, sia pur crudele, che subisco qui e ora sembra entrare in risonanza, quando lo si esamina, con traumi antichi di cui mi accorgo di non aver saputo fare il lutto. Posso così trovare dei precedenti al mio attuale crollo in una perdita, in una morte o in un lutto, di qualcuno o di qualcosa che un tempo ho amato. La scompar­ sa di questo essere indispensabile continua a privarmi della parte più valida di me stessa: la vivo come una ferita o una privazione, per sco­ prire, tuttavia, che la mia pena non è altro che il riattualizzarsi del mio odio o del desiderio di potenza che nutro nei confronti di colui o co­ lei che mi hanno tradito o abbandonato. La depressione mi segnala che non so perdere: forse non ho saputo trovare una valida contropartita alla perdita? Ne segue che ogni perdita comporta la perdita del mio es­ sere - e dell’Essere stesso. Il depresso è un ateo radicale e tetro.

Lit melanconia: doppio oscuro della passione amorosa Una triste voluttà, un’ebbrezza amara costituiscono il fondo bana­ le sul quale spesso spiccano i nostri ideali o le nostre euforie, quando non sono quella lucidità fugace che spezza l’ipnosi amorosa da cui so­ no avvinte due persone. Consapevoli come siamo di esser destinati a perdere i nostri amori, il nostro lutto deriva forse ancor di più dallo scorgere nell’amante l’ombra di un oggetto amato, anticamente perdu­ to. La depressione è il volto nascosto di Narciso, quello che lo trasci­ nerà nella morte ma che egli ignora quando si ammira in un miraggio.

Un controdepressivo: la psicoanalisi

Parlare della depressione ci porterà di nuovo nelle contrade paludose del mito narcisistico'. Tuttavia questa volta non vedremo in esso la vi­ stosa e fragile idealizzazione amorosa bensì l’ombra proiettata sull’io fragile, appena dissociato dall’altro, dalla perdita appunto di questo al­ tro necessario. Ombra della disperazione. Piuttosto che cercare il senso della disperazione (che è evidente o metafisico) confessiamo che non si ha senso fuori della disperazione. 11 bambino re diviene irrimediabilmente triste prima di proferire le sue prime parole: triste perche irreversibilmente separato e in preda alla di­ sperazione di fronte alla madre, una disperazione che lo spinge a ten­ tare di ritrovarla, al pari degli altri oggetti d’amore, nella sua immagi­ nazione prima e nelle parole poi. La semiologia, che si interessa al gra­ do zero del simbolismo, è immancabilmente indotta a interrogarsi non soltanto sullo stato amoroso ma anche sul suo cupo corollario, la me­ lanconia, finendo per constatare subito che non si dà scrittura che non sia innamorata, che non v’è immaginazione che non sia, in modo aper­ to o latente, melanconica. Pensiero-crisi-melanconia La melanconia non è francese. Il rigore del protestantesimo o il pe­ so materiale dell’ortodossia cristiana si rivelano più facilmente com­ plici dell’individuo in lutto, quando non lo invitano a un triste diletto. Se è vero che il Medioevo francese ci presenta la tristezza sotto figure delicate, il tono gaulois, nel doppio senso di gallico e salace, il tono ri­ nascimentale c illuminato volge alla battuta scherzosa, all’eròtico e al­ la retorica più che al nichilismo. Pascal, Rousseau e Nerval fanno la faccia lunga ma anche... eccezione. Per l’essere parlante, la vita è una vita che ha senso: la vita costi­ tuisce anzi l’apogeo del senso. Così se egli perde il senso della vita, la vita si perde senza difficoltà: a senso infranto, pericolo di vita. Nei suoi momenti di dubbio, il depresso è filosofo e dobbiamo a Eraclito, a Socrate, oltre che, più vicino a noi, a Kierkegaard, le pagine più sconvolgenti sul senso o il non senso dell’Essere. Occorre tuttavia ri­ salire ad Aristotele per trovare una riflessione completa sui rapporti che i filosofi hanno con la melanconia. Nei Problemata (30,1) attri­ buiti ad Aristotele, la bile nera (péXatva %oXrj) determina i grandi uo­ mini. La riflessione (pseudo-) aristotelica verte sull’erg neptrtóv, la 1 Si veda il nostro Histoircs d'amour, Denoel, Paris 1983; trad. it. Storie d’amore, Edito­ ri Riuniti, Roma 1985 (Donzelli, Roma 2012).

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personalità d’eccezione, che sarebbe caratterizzata dalla melanconia. Pur riprendendo alcune nozioni ippocratiche (i quattro umori e i quattro temperamenti), Aristotele opera un’innovazione, non solo sottraendo la melanconia al campo della patologia c situandola nella natura, ma anche, e soprattutto, facendola derivare dal calore, consi­ derato il principio regolatore dell’organismo, c dalla neoórrìg, intera­ zione controllata di energie opposte. Questa nozione greca di melan­ conia rimane estranea a noi contemporanei: essa presuppone una «di­ versità ben dosata» (eineparog avopoMa) che si esprime metaforica­ mente attraverso la schiuma (atppóg), contraltare euforico della bile nera. Questo miscuglio bianco di aria (irvevpa) e di liquido fa spuma­ re il mare, il vino e anche lo sperma dell’uomo. Aristotele in effetti combina esposizione scientifica e riferimenti mitici connettendo la melanconia alla schiuma spermatica e all’erotismo; in tal senso va let­ to anche il suo riferirsi a Dioniso c ad Afrodite (953b31-32). La me­ lanconia di cui parla Aristotele non è una malattia propria del filosofo ma la sua stessa natura, il suo eOog. Non è quella da cui è affetto il pri­ mo melanconico greco, Bellerofonte, così come ci viene presentato neW'Iliade (vi, 200-203): «Ma dopo che fu divenuto odioso agli dèi, solo vagava per la piana di Alea, rodendosi l’anima, evitando il passo degli uomini». Antofago perché abbandonato dagli dèi, esiliato per decreto divino, quel disperato era condannato non alla mania ma a te­ nersi lontano, all’assenza, al vuoto... Con Aristotele, la melanconia, equilibrata dal genio, è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Esscrc. Alcuni hanno visto in essa il preannuncio dell’angoscia hei­ deggeriana come Stimmung del pensiero. Analogamente, Schelling scopriva in essa l’«essenza dell’umana libertà», il segno della «simpa­ tia dell’uomo con la natura». Così il filosofo sarebbe «melanconico per sovrabbondanza di umanità»2. Questa visione della melanconia, come stato limite c come eccezio­ nalità rivelatrice dell’autentica natura dcll’Essere, subisce una profon­ da mutazione nel Medioevo. Da una parte, il pensiero medioevale ri­ torna alle cosmologie della tarda antichità e lega la melanconia a Sa­ turno, pianeta della mente e del pensiero'. La Melanconia (1514) di Diircr saprà magistralmente trasporre sul piano dcll’artc plastica que* Cfr. La «melanconia» dell’uomo di genio, a cura di C. Angelino e E. Salvancschi, il me­ langolo, Genova 1981, pp. 43-4. ' Sulla melanconia nella storia dcH’artc c delle idee, si veda l’opera fondamentale di E. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxi, Saturn and Melancholy, Studies in the History of Natural Philosophy Religion and Art, ‘Hi. Nelson, London 1964; trad. it. Saturno e la melanconia, Ei­ naudi, Torino 1983.

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Un conirodeprcssìvo: la psicoanalisi

ste speculazioni teoriche che raggiunsero l’apogeo con Marsilio Ficino. La teologia cristiana, d’altra parte, fa della tristezza un peccato. Dante pone «le genti dolorose c’hanno perduto il ben dell’intelletto» nella «città dolente» (Inf., III). Avere un «cuore scuro» significa aver perduto Dio, e i melanconici formano la «setta de’ cattivi a Dio spia­ centi ed a’ nemici suoi»: la loro punizione è quella di non avere «spe­ ranza di mone». Coloro che la disperazione rende violenti verso se stessi, i suicidi c gli scialacquatori, non sono neppur essi risparmiati: la loro condanna consiste nell’csser trasformati in alberi e nell’essere di­ laniati da «nere cagne» (Inf., XIII). I monaci del Medioevo coltiveran­ no tuttavia la tristezza: in quanto ascesi mistica (acedia), essa si im­ porrà come mezzo di conoscenza paradossale della verità divina e co­ stituirà la principale prova della fede. Variabile con i climi religiosi, la melanconia si afferma, per così di­ re, nel dubbio religioso. Nulla di più triste di un Dio morto, c lo stes­ so Dostoevskij sarà turbato dall’immagine sconsolata del Cristo mor­ to nel quadro di Holbein, posta accanto alla «verità della resurrezio­ ne». Le epoche che vedono il crollo degli idoli religiosi e politici, le epoche di crisi, sono particolarmente propizie all’umor nero. È vero che un disoccupato è meno incline al suicidio di un’amante abbando­ nata, ma in periodo di crisi, la melanconia si impone, si dice, fa la sua archeologia, produce le sue rappresentazioni e il suo sapere. Una me­ lanconia scritta certo non ha più molto a che vedere con lo stato di stupore manicomiale che porta lo stesso nome. Al di là della confu­ sione terminologica cui sino a questo momento ci siamo tenuti (che cos’è una melanconia? che cos’è una depressione?) ci troviamo qui di fronte a un paradosso enigmatico che non cesserà di assillarci: se la perdita, il lutto, l’assenza scatenano l’atto immaginario e lo nutrono in permanenza almeno quanto lo minacciano e lo distruggono, è an­ che degno di nota il fatto che è sulla sconfessione di questo dolore mobilizzante che si innalza il feticcio dell’opera. L’artista che si con­ suma di melanconia è anche il più risoluto nel combattere la rinuncia simbolica che io circonda... Finché la morte non lo colpisce o il sui­ cidio non si impone ad alcuni come trionfo finale sul nulla dell’og­ getto perduto... Melanconia/depressione Chiameremo melanconia la sintomatologia manicomiale di inibi­ zione e di asimbolia che si impadronisce, in modo saltuario o cronico, di un individuo, per lo più in alternanza con la fase detta maniaca del­ 11

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l'esaltazione. Quando i due fenomeni dell'abbattimento e dell’eccita­ zione sono di minore intensità e frequenza si può parlare di depres­ sione nevrotica. Pur riconoscendo la differenza tra melanconia e de­ pressione, la teoria freudiana finisce coll’individuare dappertutto il medesimo lutto impossibile dell’oggetto materno. Domanda: impossi­ bile in virtù di quale debolezza patema? ovvero di quale fragilità bio­ logica? La melanconia - riprendiamo il termine generico dopo aver di­ stinto le sintomatologie psicotica e nevrotica - ha l’increscioso privile­ gio di situare l’interrogazione dell’analista all’intersezione del biologi­ co c del simbolico. Serie parallele? Sequenze consecutive? Incrocio ca­ suale da precisare, altra relazione da inventare? I due termini melanconia e depressione designano un insieme che si potrebbe chiamare melanconico-depressivo e i cui confini sono in realtà fluttuanti, un insieme in cui la psichiatria riserva il concetto di «melanconia» alla malattia spontaneamente irreversibile (che reagisce solo alla somministrazione di antidepressivi). Senza entrare nei vari ti­ pi di depressione («psicotica» o «nevrotica» o, secondo un’altra clas­ sificazione, «ansiosa», «agitata», «rallentata», «ostile») né nel campo, promettente ma ancora poco preciso, degli effetti specifici degli anti­ depressivi (mao, triciclici, eterociclici) o degli stabilizzatori rimici (sa­ li di litio), assumeremo una prospettiva freudiana. A partire da essa, tenteremo di far emergere ciò che, all’interno dell’insieme melanconi­ co-depressivo, al di là della vaghezza dei suoi limiti, si collega a una comune esperienza della perdita dell’oggetto nonché a una modifica­ zione dei legami significanti. Questi ultimi, e in particolare il linguag­ gio, si rivelano, all’interno dell’insieme melanconico-depressivo, inca­ paci di assicurare l’auto-stimolazione necessaria a far scattare certe ri­ sposte. Invece di operare come un «sistema di ricompense», il lin­ guaggio iperattiva la coppia ansia-punizione, inserendosi così nel ral­ lentamento comportamentale e ideativo caratteristico della depressio­ ne. Se la tristezza passeggera o il lutto, da una parte, lo stupore me­ lanconico, dall’altra, si distinguono da un punto di vista clinico e nosologico, essi comunque poggiano su un’intolleranza nei confronti della perdita dell’oggetto e sull’incapacità da parte del significante di trovare una via d’uscita compensatoria per gli stati di ritiro in cui il soggetto si rifugia sino all'inazione, sino a fare il morto o sino addi­ rittura alla morte. Così, parleremo di depressione e di melanconia senza distinguere sempre le particolarità delle due affezioni ma te­ nendo presente la loro struttura comune. 12

Un controdepressivo: h psicoanalisi

Il depresso: astioso o ferito. L’«oggetto» e la «cosa» del lutto

Secondo la teoria psicoanalitica classica (Abraham', Freud', M. Klein1) la depressione, come il lutto, maschera un’aggressività contro l’oggetto perduto e rivela così l’ambivalenza del depresso nei confron­ ti dell’oggetto del suo lutto. «Io l’amo», sembra dire il depresso di un essere o di un oggetto perduto, «ma più ancora lo odio; perché lo amo, per non perderlo lo porto dentro di me; ma perché lo odio quest’altro in me è un cattivo me, io sono cattivo, sono uno zero, mi uccido». Il lamento contro di sé sarebbe quindi un lamento contro un altro e la messa a morte di sé il tragico travestimento del massacro di un altro. Una simile logica presuppone, come si può capire, un Super-io severo e tutta una dialettica complessa tra idealizzazione c svalorizzazione di sé e dell’altro, movimenti che nel loro insieme si fondano sul meccani­ smo dc\['identificazione. Giacché è identificandomi con l’altro amatoodiato, per incorporazione-introiezione-proiezione, che io porto den­ tro di me la sua parte sublime, la quale diviene così il mio giudice ti­ rannico e necessario, come pure la sua parte abietta, che invece mi av­ vilisce e che desidero liquidare. L’analisi della depressione passa quin­ di attraverso la messa in evidenza del fatto che il lamento di sé è un odio dell’altro e che quest’ultimo è probabilmente l’onda portatrice di un desiderio sessuale insospcttato. Si capisce così come il presentarsi di un odio del genere nel transfert comporti qualche rischio per l’analiz­ zando come per l’analista, e che la terapia della depressione (anche di quella che diciamo nevrotica) sfiori la frantumazione schizoide. Il cannibalismo melanconico, su cui hanno insistito Freud c Abraham e che appare in numerosi sogni e fantasmi’ di depressi, è l’e­ spressione della passione di trattenere all’interno della bocca (ma an­ che la vagina e l’ano si prestano a questo controllo) l’altro intollerabi­ le che ho voglia di distruggere per meglio possederlo da vivo. Meglio frantumato, dilaniato, tagliato, inghiottito, digerito... che perduto. ‘ Cfr. K. Abraham, Ansdtze zur psychoanalytischen Erforschung und Behandiung des manisch-depressrven Irreseins und verwandten Zustànde, in «Zentbl. PsychoanaL-, n, mar­ zo 1912, 6, pp. 302-15; trad, it- Note per l’indagine e il trattamento psicoanalilico della follia maniaco-depressiva e di stati affini, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1983. ’ Cfr. S. Freud, Trailer una Melancholic (1917), G. W, X, pp. 428-46, s £., xrv, pp. 237-58; trad. it. Lutto e melanconia, in Opere, Bollaci Boringhieri, Tonno 1967-82, Vili, pp. 102-18. * Cfr. M. Klein, Contributo alio studio della psicogenesi degli stati maniaco-depressivi (1934) e 11 lutto nei suoi rapporti con gii stati maniaco-depressivi, in Scritti 1928-1958, Bolla­ ti Boringhieri, Torino 1977. * Si veda il cap. Ili del presente lavoro, alla p. 65.

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L’immaginario cannibalico melanconico" è una sconfessione della realtà della perdita e insieme della morte. Esso manifesta l’angoscia di perdere l’altro facendo sopravvivere l’io, abbandonato, ceno, ma non separato da ciò che nutre ancora e sempre e che si trasforma in esso che resuscita anche attraverso questo divoramento. Tuttavia il trattamento delle personalità narcisistiche ha permesso agli analisti contemporanei di capire un’altra modalità della depressio­ ne'. Lungi dall’essere un attacco nascosto contro un altro immaginato ostile perché frustrante, la tristezza sarebbe il segnale di un Io primiti­ vo ferito, incompleto, vuoto. Un simile individuo non si considera le­ so ma colpito da un difetto fondamentale, da una carenza congenita. Il suo scoramento non maschera la colpevolezza o la colpa di una ven­ detta ordita in segreto contro l’oggetto ambivalente. La sua tristezza sarebbe piuttosto l’espressione più arcaica di una ferita narcisistica non simbolizzabile, innominabile, tanto precoce che nessun agente esterno (soggetto o oggetto) può esser riferito a essa. Per questo tipo di de­ presso narcisistico, la tristezza è in realtà il solo oggetto: essa è, più esattamente, un Ersatz di oggetto cui attaccarsi, da addomesticare e amare, in mancanza di un altro. In questo caso, il suicidio non è un at­ to di guerra camuffato ma un ricongiungersi con la tristezza e, al di là di essa, con questo impossibile amore, mai raggiunto, sempre altrove, come le promesse del nulla, della morte. Cosa e oggetto

Il depresso narcisistico è in lutto non di un Oggetto ma della Co­ sa'". Così chiamiamo il reale ribelle alla significazione, il polo di attra1 Come sottolinea P. l'édida, Le cannibalismo mélancolique, in l.’absence, Gallimard» Paris 1978» p. 65. * Cfr. E. Jakobson» Depression, Comparative Studies of Normal, Neurotic and Psycho­ tic Condition, Int. Univ. Press, New York 1977; B. Grunberger, Elude sur la depression c Le suicide du mélancolique, in Le narcissisme, Payot, Paris 1975, trad. it. // narcisismo, Laterza» Bari 1977; G. Rosolato, L’axe narcissique des depressions, in Essais sur le symbolique, Galli­ mard, Paris 1979. ,s Avendo constatato che, sin dagli albori della filosofìa greca, l’apprensione della cosa è so * lidale all’enunciato di una proposizione e della sua verità, Heidegger pone il problema del ca­ rattere «istoriale» della cosai «la domanda in direzione della cosa si rimette in movimento dal fondo del suo inizio» (Che co$ *è una cosa?, trad, frana Gallimard, Paris 1965, p. 57). Senza ri­ percorrere la storia della comparsa di questo pensiero della cosa ma aprendola nello spazio che è in gioco fra l’uomo c la cosa, Heidegger nota, traversando Kant: «Questo intervallo /uomocosi/ in quanto preapprensione estende la sua presa al di là della cosa proprio mentre, nello stesso tempo, in un movimento a ritroso, ha presa dietro di noi». Nella breccia aperta dalla do­ manda di Heidegger ma rifacendoci alla messa in crisi freudiana delle certezze razionali noi parleremo di Cosa intendendo con ciò il «qualcosa» che, visto a ritroso dal soggetto già costi­ tuito» appare come l’indeterminato, l’inseparato, l’inafferrabile, sin nella sua determinazione di

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zionc e di repulsione, dimora della sessualità dalla quale si distaccherà l’oggetto del desiderio. Nerval ne dà una splendida metafora suggerendo un’insistenza sen­ za presenza, una luce senza rappresentazione: la Cosa è un sole sogna­ to, chiaro e nero insieme. «Tutti sanno che nei sogni non si vede mai il sole sebbene si abbia spesso la percezione d'una luce molto più viva»". Fermo a questo attaccamento arcaico, il depresso ha l’impressione di essere diseredato di un supremo bene innominabile, di qualcosa di irrappresentabile, che solo una divorazione forse potrebbe raffigura­ re, solo un’invocazione potrebbe indicare, ma nessuna parola riusci­ rebbe a significare. Così, nessun oggetto erotico potrà sostituire per lui l’insostituibile appercezione di un luogo o di un pre-oggetto che imprigiona la libido c spezza i legami del desiderio. Sentendosi dise­ redato della sua Cosa, il depresso fugge all’inseguimento di avventu­ re e amori sempre deludenti, oppure si rinchiude, inconsolabile e afa­ sico, in un a tu per tu con la Cosa innominabile. La «prima e più im­ portante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria»12 sarebbe il mezzo, il trait d’union che gli per­ metterebbe di fare il lutto della Cosa. L’identificazione primaria avvia la compensazione della Cosa e contemporaneamente il fissaggio del soggetto in un’altra dimensione, quella dell’adesione immaginaria, che per certi aspetti ricorda il legame della fede, quello che precisamente viene a crollare nel depresso. Nel melanconico, l’identificazione primaria si rivela fragile e inca­ pace di assicurare le altre identificazioni, simboliche questa volta, a partire dalle quali la Cosa erotica sarebbe suscettibile di divenire un Oggetto di desiderio cattivante c capace di stabilire la continuità di una metonimia del piacere. La Cosa melanconica interrompe la me­ tonimia desiderante, così come si oppone all’elaborazione intrapsi­ chica della perdita". Come avvicinarsi a questo luogo? La sublimacosa sessuale stessa. Il termine Oggetto lo riserveremo invece alla costanza spazio-temporale verificata da una proposizione enunciata da un soggetto padrone de! suo dire. ,! G. de Nerval, Aurelia, in Oeuvres cornolètes, Gallimard («La Pleiade»), Paris 1952, t. i, p. 377; trad. il. in Le figlie del fuoco, Guanda, Milano 1979, p. 223.

S. Freud, Das ieri und das Es (1923), £ £., XIX, p. 31, G. W, XIII, p. 258; trad. il. in Ope­ 1X, p. 493. La nostra proposta andrà distinta da quella di Lacan, che commenta la nozione di das Dine a partire aslYEnlwurf di Freud; «Questo das Ding non è nella relazione, in qualche modo riflessa nella misura in cui è esplicitabile, che porta l’uomo a mettere in questione le

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sue parole in quanto rifcrcntisi alle cose che pure hanno creato. C’è dell’altro in das Ding. Quello che c’c in das Ding è l’autentico segreto [...]. Qualcosa che vuole, //bisogno e non ì bisogni, la pressione, l’urgenza. Lo stato di Not des Lebens, c lo stato di urgenza della vita [... ], la quantità di energia conservata dall’organismo in proporzione alla risposta e necessa *

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zione fa un tentativo in questo senso: attraverso melodie, ritmi, poli­ valenze semantiche, la forma detta poetica, che decompone e rico­ struisce i segni, è il solo «contenente» che sembri assicurare una pre­ sa incerta ma adeguata sulla Cosa. Abbiamo supposto che il depresso sia ateo - privato d’ogni senso, d’ogni valore. Egli si svaluterebbe a temere o a ignorare l’Aldilà. Ep­ pure, per quanto ateo sia, il disperato è un mistico; aderisce al suo pre­ oggetto, non come credente in Te ma come adepto muto e incrollabi­ le del suo stesso contenente indicibile. A questa zona ai margini del­ l’estraneità egli consacra le sue lacrime c il suo godimento. Nella ten­ sione dei suoi affetti, dei suoi muscoli, delle sue mucose e della sua pel­ le egli prova a un tempo la sua appartenenza e la sua distanza rispetto a un altro arcaico che sfugge ancora alla rappresentazione e alla nomi­ nazione ma che ha lasciato il suo segno nelle scariche corporee e nel lo­ ro automatismo. Privo di fede nel linguaggio, il depresso è un affet­ tuoso, ferito, certo, ma prigioniero dell'affetto. L’affetto è la sua cosa. La Cosa si inscrive in noi senza ricordo, complice sotterranea del­ le nostre angosce indicibili. Si possono immaginare le delizie del ritro­ vamento che una fantasticheria regressiva si ripromette di provare at­ traverso le nozze del suicidio. L’emergenza della Cosa mobilita nel soggetto in via di costituzio­ ne il suo slancio vitale: l’essere prematuro che tutti noi siamo soprav­ vive solo aggrappandosi a un altro percepito come supplemento, pro­ tesi, involucro protettivo. Eppure, questa pulsione di vita è radical­ mente quella che, nello stesso tempo, mi respinge, mi isola, lo (o la) re­ spinge. L’ambivalenza pulsionale non è mai così temibile come in ria alla conservazione della vita» (L’Etique de la psychanalyse, seminario del 9 dicembre 1959, Seuil, Paris 1986, pp. 58 sgg.). Si tratterebbe di iscrizioni psichiche (Niederschriften) anteriori al quarto anno, sempre «secondarie» per Lacan ma vicine alla «qualità» dello «sfor­ zo» e dell’«endopsichico». «Il Ding come Fremde, come estraneo e persino ostile eventual­ mente in ogni caso come il primo esterno (...) c questo oggetto, das Ding, in quanto Altro assoluto del soggetto che si tratta dì ritrovare. Lo si ritrova tutt’al più come rimpianto È in questo auspicarlo e attenderlo che verrà cercata, in nome del principio di piacere, quel­

la tensione ottimale al di sono della quale non si ha più né percezione né sforzo» (p. 65). E, ancora più precisamente: •Das Ding è originariamente ciò che noi quindi chiamiamo il fuo­ ri-significato. È in funzione di questo fuori significato e di un rapporto patetico con esso che il soggetto mantiene la propria distanza e si costituisce in questo mondo di rapporto, di affet­ to primario anteriore ad ogni rimozione. Tutta la prima articolazione dell’Entttw/ha luogo intorno a ciò» (pp. 67-8). Tuttavia, mentre Freud insiste sul fatto che la Cosa si presenta so­ lo in quanto grido, Lacan traduce: mot, giocando sul senso ambivalente del termine in fran­ cese («mot, c ciò che si tace», «nessun mot è pronunciato») [si tenga presente che mot, in francese, entra in opposizione con il quasi sinonimo parole in quanto parole, contrariamen­ te amor, è sempre una parola detta e pronunciala]. «Le cose di cui si tratta (...) sono le cose in quanto mute. E delle cose mute non sono affatto la stessa cosa di cose che non hanno al­ cun rapporto con le parole», ibid., pp. 68-9.

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questo abbozzo dell'alterna, in cui, senza il filtro del linguaggio, io non posso inscrivere la mia violenza nel «no», come in qualsiasi altro segno, del resto. Posso solo espellerla attraverso gesti, spasmi, grida. La spingo fuori, la proietto. La mia Cosa necessaria è anche e assolu­ tamente il mio nemico, il mio spauracchio, il polo delizioso del mio odio. La Cosa cade da me nel corso di quella ricognizione della significanza in cui il Verbo non è ancora il mio Essere. Nulla che è una cau­ sa, ma nello stesso tempo una caduta, prima d’essere un Altro, la Co­ sa è il vaso che contiene le mie deiezioni e tutto ciò che risulta da ca­ dere'. è un cascame con il quale, nella tristezza, io mi confondo. Il le­ tamaio di Giobbe nella Bibbia. L’analità si mobilita nell’instaurazione di questa Cosa che ci è pro­ pria e insieme impropria. Il melanconico che commemora quel limite in cui il suo io si delinca ma precipita anche nella svalorizzazione non riesce a mobilitare la sua analità per farne un operatore di separazioni e di frontiere, che è poi il modo in cui essa agisce normalmente o in modo sovrabbondante nell’ossessivo. Anzi, è tutto l’io del depresso che s’inabissa in un’analità diserotizzata eppur giubilatoria nella misu­ ra in cui è divenuta il vettore di un godimento fusionale con la Cosa arcaica percepita non come oggetto significativo ma come elemento di frontiera dell’io. Per il depresso, la Cosa come l’io sono cadute che lo trascinano nell’invisibile e nell’innominabile. Cadere. Tutti cascami, tutti cadaveri. La pulsione di morte come inscrizione primaria della discontinuità (trauma o perdita)

Il postulato freudiano di un masochismo primario sembra trovare un riscontro in certi aspetti della melanconia narcisistica, nella quale l’estinzione di ogni legame libidico sembra non essere soltanto la con­ versione dell’aggressività verso l’oggetto in animosità verso se stessi ma piuttosto s’impone come anteriore a ogni possibilità di posizione d’oggetto. Apparsa nel 1915”, la nozione di «masochismo originario» si con­ solida in seguito all'apparizione della «pulsione di morte» nell’opera di Freud, soprattutto nel saggio sul Problema economico del masochismo (1924)”. Avendo osservato che l’essere vivente è apparso dopo il non " Cfr. S. Freud, Triebe und Triebschicksale, s. E., XIV, p. 139, G. W, X, p. 232; rrad. il. Pulstoni e loro destini, in Opere, vili, p. 23. •» Cfr. Id., Das okonomische Problem des Masochismus, $. XIX, pp. 159-70, G. w., xill, pp. 371-83; trad. ìl in Opere, X, pp. 5-16.

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vivente, Freud pensa che il primo debba essere abitato da una pulsio­ ne specifica che «tende al ritorno a uno stato precedente»'6. Dopo Al di là del principio di piacere (1920)17, che impone la nozione di pulsio­ ne di morte come tendenza a ritornare all’inorganico e all’omcostasi, contrariamente al principio erotico della scarica e del legame, Freud postula che una parte della pulsione di morte o di distruzione si diriga verso il mondo esterno, soprattutto attraverso il sistema muscolare, e si trasformi in pulsione di distruzione, di impossessamento o di vo­ lontà di potenza. Al servizio della sessualità, essa forma il sadismo. Freud nota tuttavia che «un’altra parte, invece, non viene estroflessa permane nell’organismo e [...] viene libidicamente legata. In questa parte dobbiamo riconoscere il masochismo originario, erogeno»1’. Dal momento che l’odio dell’altro era già da Freud considerato «più anti­ co dell’amore»1’, questo ritiro masochistico dell’odio indicherebbe l’e­ sistenza di un odio ancora più arcaico? E quanto Freud sembra sup­ porre e in effetti egli considera la pulsione di morte come una manife­ stazione intra-psichica di un’eredità filogenetica risalente sino alla ma­ teria inorganica. Tuttavia, accanto a queste speculazioni non seguite dalla maggior parte degli analisti dopo Freud, e possibile constatare non tanto l’anteriorità quanto la potenza della disintegrazione dei le­ gami in parecchie strutture e manifestazioni psichiche. Inoltre, la fre­ quenza del masochismo, la reazione terapeutica negativa come pure diverse patologie della prima infanzia che sembrano anteriori alla rela­ zione d’oggetto (anoressie infantili, mericismo, certi autismi) invitano ad accettare l’idea di una pulsione di morte che, presentandosi come un’incapacità biologica e logica di trasmettere le energie e le inscrizio­ ni psichiche, distruggerebbe circolazioni e legami. Freud fa riferimen­ to a ciò con le seguenti parole: «Considerando il quadro d’insieme nel quale convergono le manifestazioni derivanti dall’immanente maso­ chismo di tanta gente, dalla reazione terapeutica negativa, e dal senso di colpa dei nevrotici non si potrà più continuare a dar credito alla te­ si che gli eventi psichici siano dominati esclusivamente dalla spinta al piacere. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della pre­ senza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiau Cfr. S. Freud, Abrissder Psychoanalyse, s. E., xxill, pp. 139-207, g. w, xvh, pp. 67-138; trad. it. Compendio dipsìcoanalisi, in Opere, Xl, pp. 571-634. Cfr. S. Freud, Jenseits des Luttprinzips, s. e., XXIU, pp. 7-64, G. W, Xlll, pp. 3-69; trad, it. in Opere, ix, pp. 193-249. " Dos òkonomische Problem der Masochismus, £ E., XIX, p. 163, g. w., Xlll, p. 376; Ope­ re, x, pp. 9-10. Corsivo nostro. l* Triebe und Triebschicksalc, S. £., xiv, p. 319, G. w, X, p. 232; Opere, vili, p. 34.

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mo pulsioni di aggressione o di distruzione, e che consideriamo deri­ vata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente» * 1. La melanconia narcisistica manifesterebbe questa pulsione nel suo stato di disunione con la pulsione di vita: il Super-io del melanconico appare a Freud come una «pura coltura della pulsione di morte»19 *21. 11 problema tuttavia rimane aperto: questa diserotizzazione melanconica e proprio opposta al principio di piacere? Oppure invece è implicita­ mente erotica, il che significherebbe che il ritiro melanconico è sempre una conversione della relazione d’oggetto, una metamorfosi dell’odio per l’altro? L’opera di Melanie Klein, che ha conferito la massima im­ portanza alla pulsione di morte, sembra far dipendere quest’ultima per lo più dalla relazione d’oggetto, cosicché il masochismo e la melanco­ nia appaiono entrambi come incarnazioni dell’introiezione del cattivo oggetto. Ma il ragionamento klciniano ammette situazioni in cui i lega­ mi erotici sono spezzati, senza dire chiaramente se essi siano mai esisti­ ti o se siano suri spezzati (in quest’ultimo caso, sarebbe l’introiezione della proiezione che sfocerebbe in questo disinvestimento erotico). Andrà in particolare considerau la definizione kleiniana della scis­ sione (splitting) introdotu nel 1946. Da una parte ule definizione si sposta dalla posizione depressiva verso la posizione paranoidc e schi­ zoide, più arcaica. Dall’altra essa distingue tra una scissione binaria (la distinzione tra «buono» e «cattivo» oggetto che assicura l’unità del­ l’io) e una frantumante, che investirebbe non soltanto l’oggetto ma an­ che, come contropartita, l’io stesso che letteralmente «cade a pezzi» (falling into pieces).

Integrazione/non integrazione/disintegrazione Ai fini della nostra ricerca, è fondamentale notare che questo spez­ zettamento può essere dovuto sia a una nonintegrazione pulsionale che osucola la coesione dell’io sia a una disintegrazione accompagna­ ta da angosce e ule da provocare la frammentazione schizoide22. Nel­ la prima ipotesi, che sembra esser stau ripresa da Winnicott, la non in­ tegrazione è il risultato di una prematurazione biologica; se si può par­ lare di Thanatos in quesu situazione, la pulsione di morte si presenu come una incapacità biologica di adattarsi alla sequenzialità e all’inte­ grazione (niente memoria quindi). Nella seconda ipotesi, quella di una 19 Cfr. S. Freud, Endliche und ttnendliche Analyse, 1 £., XXili, p. 243, c. xvt, p. 88; Opere, xj, p. 525. 21 Cfr. S. Freud, Das Ich und das Es, s. E., XIX, p. 54, G. w:, XILI, p. 283; Opere, IX, p. 515. 32 Cfr. M. Klein, Developments in Psycho-Analysis, Hogarth Press, London 1952.

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disintegrazione dell’io in seguito al ribaltamento della pulsione di morte, riscontriamo una «reazione thanatoica a una minaccia anch’cssa thanatoica»23. Assai vicina a Ferenczi, questa concezione accentua la tendenza dell’essere umano alla frammentazione e alla disintegrazione come un’espressione della pulsione di morte. «L’io arcaico è larga­ mente privo di coesione e in esso una tendenza all’integrazione si al­ terna a una tendenza alla disintegrazione, a cadere in pezzi [...]. L’an­ goscia di essere distrutti dall’interno rimane attiva. 11 fatto che l’io, sot­ to la pressione dell’angoscia, tenda a cadere in pezzi mi sembra essere il risultato della sua stessa mancanza di coesione»2*. Se la frammenta­ zione schizoide è una manifestazione radicale e parossistica dello spez­ zettamento, si può considerare l’inibizione melanconica (rallentamen­ to, carenza della sequenzialità) come un’altra manifestazione della di­ sintegrazione dei legami. In che modo? Consecutivo alla deflessione della pulsione di morte, Vaffetto de­ pressivo può essere interpretato come una difesa contro lo spezzetta­ mento. In effetti, la tristezza ricostituisce una coesione affettiva dell’io che reintegra la sua unità nell’involucro dell’affetto. L’umore depressi­ vo si costituisce come un supporto narcisistico negativo, certo23, ma nondimeno capace di offrire all’io un’integrità, sia pure non verbale. Ne deriva che l’affetto depressivo supplisce all’invalidazione e all’in­ terruzione simbolica (al «non ha senso» del depresso) e contempora­ neamente lo protegge contro il passaggio all’atto suicida. Questa pro­ tezione è tuttavia fragile. La Verlengnung, il rinnegamento depressivo che annienta il senso del simbolico, annienta anche il senso dell’atto e porta il soggetto a commettere il suicidio senza angoscia di disintegra­ zione, come un ricongiungimento con la non integrazione arcaica tan­ to letale quanto giubiìatoria, «oceanica». Così quindi lo spezzettamento schizoide è una difesa contro la mor­ te - contro la somatizzazione o il suicidio. La depressione, invece, fa a meno dell’angoscia schizoide di frammentazione. Ma se la depressione non ha l’opportunità di poggiare su una certa erotizzaziane della soffe­ renza, non può funzionare come difesa contro la pulsione di morte. Il senso di pace che precede certi suicidi è forse il segno della regressione ** Cfr. J.-M. Petot, Melante Klein, le moi et le ban objet, Dunod, Paris 1932, p. 150. •’* Cfr. Klein, Developments citn A. Green, Narcùsisme de vie, narcùsisme de mort, Minuit, Paris 1983, p. 278, definisce nel seguente modo la nozione di «narcisismo negativo»: «Al di là dello spezzettamento che frantuma l'io c lo riporta all'anto-crotismo, il narcisismo primario assoluto mira al riposo mimetico della morte. E la ricerca del nondesidcrio dell'altro, dell’inesistenza, del non-csscre, altra forma di accesso all'immortalità».

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arcaica attraverso la quale l’atto di una coscienza rinnegata o intorpidi­ ta rivolge Thanatos contro l’io c ritrova il paradiso perduto di un io non integrato, senza altri e senza limiti, fantasma di pienezza intoccabile. Così, il soggetto parlante può reagire alla contrarietà non soltanto con lo spezzettamento depressivo ma anche con l’inibizione-rallentamcnto, con il rinnegamento della sequenzialità, con la neutralizzazio­ ne del significante. Una certa prematurazione o altre particolarità neu­ robiologiche tendenti alla non integrazione condizionano, forse, tale disposizione. È una disposizione difensiva? Il depresso si difende non contro la morte ma contro l’angoscia provocata dall’oggetto erotico. Il depresso non sopporta Eros, preferisce rimanere con la Cosa sino al li­ mite del narcisismo negativo che lo porta a Thanatos. Difeso com’c dal suo dolore contro Eros, è senza difese contro Thanatos in quanto fau­ tore incondizionato della Cosa. Messaggero di Thanatos, il melanco­ nico è il complice-testimone della fragilità del significante, della preca­ rietà del vivente. Meno abile di Melanie Klein nel mettere in scena la drammaturgia delle pulsioni, in particolare della pulsione di morte, Freud sembra co­ munque radicale. Per lui, l’essere parlante desidera, al di là del potere, la morte. A questo estremo logico, non c’è più desiderio. Il desiderio stesso si dissolve in una disintegrazione della trasmissione e in una di­ sintegrazione dei legami. Che sia biologicamente predeterminato, do­ vuto a traumi narcisistici pre-oggettuali o più banalmente all’inversio­ ne dell’aggressività, questo fenomeno, che si potrebbe descrivere come un crollo della sequenzialità biologica e logica, ha la sua manifestazio­ ne più radicale nella melanconia. La pulsione di morte sarà allora l’in­ scrizione primaria (logicamente e cronologicamente) di questo crollo? In realtà, se la «pulsione di morte» rimane una speculazione teori­ ca, l’esperienza della depressione mette tanto il malato quanto l’osser­ vatore di fronte all’enigma dell’umore. l 'umore è un linguaggio?

La tristezza è l’umore fondamentale della depressione, c anche se l’euforia maniacale si alterna a essa nelle forme bipolari della malattia, il dolore e lo scoramento sono le principali manifestazioni da cui si rico­ nosce il disperato. La tristezza ci porta nell’enigmatica sfera degli affet­ ti: angoscia, paura o gioia24. Irriducibile alle sue espressioni verbali o se•' Sull'affelto, cfr. A. Green, Le discanti vivant. Puf, Paris 1971; trad. it. Il discorso vivenie, Astrolabio, Roma 1977; Jakobson» Depression cit.

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micologiche, la tristezza (come ogni affetto) è la rappresentazione psichi­ ca di spostamenti energetici provocati da traumi esterni o interni. Lo sta­ tuto esatto di questi rappresentanti psichici degli spostamenti energeti­ ci rimane, allo stato attuale delle teorie psicoanalitiche e semiologichc, assai impreciso: nessun quadro concettuale delle scienze costituite (e penso in particolare alla linguistica) si rivela in grado di render conto di questa rappresentazione apparentemente alquanto rudimentale, pre-segnica e pre-iinguistica. L’umore «tristezza» scatenato da un’eccitazione, da una tensione o da un conflitto energetico in un organismo psicoso­ matico non è una risposta specifica a un fattore scatenante (non sono tri­ ste come risposta o segno rivolto a X e solamente a X). L’umore è un «transfert generalizzato» (E. Jakobson) che contraddistingue tutto il comportamento e tutti i sistemi di segni (dalla motricità all’elocuzione all’idealizzazione) senza identificarsi in essi e senza disorganizzarli. Si hanno buoni motivi per pensare che si tratti di un segnale energetico ar­ caico, di un’eredità filogenetica, che però, nello spazio psichico dell’es­ sere umano, viene ad essere immediatamente assunto dalla rappresenta­ zione verbale e dalla coscienza. Tuttavia questo atto dell’«assumcre» non è dell’ordine delle energie che Freud dice «legate», suscettibili di verbalizzazione, associazione e giudizio. Diciamo che le rappresenta­ zioni proprie degli affetti, e la tristezza in particolare, sono investimen­ ti energetici fluttuanti’, non abbastanza stabilizzati da coagulare in segni verbali o d’altro genere, agiti da processi primari di spostamento e con­ densazione, tributari comunque dell’istanza dell’io, essi registrano at­ traverso tale istanza le minacce, i comandi e le ingiunzioni del Super-io. Gli umori sono così inscrizioni, rotture energetiche e non soltanto ener­ gie brute. Essi ci portano a una modalità della significanza che, al limi­ te degli equilibri bioenergetici, assicura le precondizioni (o manifesta le dissoluzioni) dell’immaginario e del simbolico. Alle frontiere dell’ani­ malità e della simbolicità, gli umori - e la tristezza in particolare - sono le reazioni ultime ai nostri traumi, le nostre risorse omeostatiche di ba­ se. Perché se e vero che una persona schiava dei suoi umori, un essere sprofondato nella sua tristezza, rivela talune fragilità psichiche o ideativc, è vero anche che una diversificazione degli umori, una tristezza mol­ to variegata, una raffinatezza nello scoramento o nel lutto, sono il segno di un’umanità certo non trionfante ma combattiva, sottile e creatrice... La creazione letteraria è un’avventura del corpo e dei segni che reca te­ stimonianza dell’affetto: della tristezza, come contrassegno della sepa­ razione e come primo manifestarsi della dimensione del simbolo; della gioia, come contrassegno del trionfo che mi installa nell’universo del­ l’artificio e del simbolo, che tento di far corrispondere nel miglior mo­ 22

Un controdepressivo: la psicoanalisi

do possibile alle mie esperienze della realtà. Ma questa testimonianza la creazione letteraria la produce in un materiale completamente diverso dall’umore. Essa traspone l’affetto nei ritmi, nei segni, nelle forme. Il «semiotico» e il «simbolico»27 divengono le marche comunicabili di una realtà affettiva presente, sensibile al lettore (mi piace questo libro perché ini comunica la tristezza, l’angoscia o la gioia) eppure dominata, elimi­ nata, vinta.

Equivalenti simbolici/simboli

Se si ammette che l’affetto è l’inscrizione più arcaica degli eventi in­ terni ed esterni, come si arriva ai segni? Seguiremo l’ipotesi di Hanna Segai, secondo la quale, a partire dalla separazione (si noti la necessità di una «mancanza» perché il segno possa sorgere) il bambino produce o utilizza oggetti o vocalizzi che sono gli equivalenti simbolici di ciò che manca. Più avanti, a partire dalla posizione che diciamo depressi­ va, egli tenta di significare la tristezza che lo travolge producendo al­ l’interno del suo io elementi estranei al mondo esterno che fa corri­ spondere a questa esteriorità perduta o situata su un altro piano: ci tro­ viamo in questo caso di fronte non più a equivalenze ma a simboli pro­ priamente detti28. Alla formulazione di Hanna Segai si può aggiungere quanto segue: ciò che rende possibile un tale trionfo sulla tristezza è la capacità del,r Cfr. il nostro La Revolution du langagepoétiqxe, Le Seuil» Paris 1974; trad. it. La rivo­ luzione del linguaggio poetico, Marsilio» Venezia 1979: «Nel dire “semiotico” riprendiamo l'accezione greca del termine OTjpffov, marca distintiva, traccia, indizio, segno precorritore, prova, segno inciso o scritto, impronta, traccia, raffigurazione. [...] Si tratta di quanto la psi­ canalisi freudiana indica nel postulare il varco e la disposizione strutturante delle pulsioni, ma .niche dei cosiddetti processi primari che spostano e condensano sia le energie sia la loro in­ scrizione. Quantità discrete d’energia percorrono il corpo di quello che più tardi sarà un sog­ getto e, lungo la via del suo divenire» si dispongono secondo le coscrizioni imposte a tale cor­ po - già da sempre scmiotizzantc - dalla struttura familiare e sociale. Cariche “energetiche” e contemporaneamente marche "psichiche”, le pulsioni articolano quanto chiamiamo chora' una totalità non espressiva costituita dalle pulsioni e dalle loro stasi in una motilità movbncn * lata quanto regolamentuta» (p. 28). Il simbolico invece viene equiparato al giudizio e alla fra­

se: «Distingueremo il semiotico (le pulsioni e le loro articolazioni) dall’ambito della significa­ zione, che c sempre quello di una proposizione o di un giudizio: ossia un ambito di posizioni. Questa posizionalità» orchestrata dalla fenomenologia husserliana attraverso i concetti di doxa, ili posizione e di cesi» si struttura come un taglio nel processo della significanza che instaura 17dentifìcazione fra il soggetto e i suoi oggetti come condizione della proposizionalità. Chiame­ remo fase letica questo taglio che produce la posizione della significazione. Tctica c qualsiasi enunciazione sia di parola sia di Erase: ogni enunciazione esige un’identificazione, cioè una se­ parazione del soggetto dalla propria immagine ed entro la propria immagine c contempora­ neamente dai propri oggetti e fra i propri oggetti; esige preliminarmente la loro posizione in uno spazio divenuto ormai simbolico per il tatto che collega le due posizioni così separate per registrarle o distribuirle in una combinatoria di posizioni ormai aperte» (pp. 41 -2). " Cfr. H. Segal, Note on Symbol Formation, in «Intern. J. of Psycho-anal», xxxvn, 1957,6.

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l’io di identificarsi non più questa volta con l’oggetto perduto bensìcon una terza istanza - padre, forma, schema. Condizione di una po­ sizione di rinnegamento o maniaca («no, non ho perduto; io evoco, significo, faccio esistere grazie all’artificio dei segni e per me stesso ciò che si è separato da me») questa identificazione che possiamo dire fal­ lica o simbolica garantisce l’ingresso del soggetto nell’universo dei se­ gni e della creazione. Il padre-appoggio di questo trionfo simbolico non è il padre edipico bensì quel «padre immaginario», «padre della preistoria individuale» secondo Freud, che garantisce l’identificazio­ ne primaria. Tuttavia è assolutamente necessario che questo padre della preistoria individuale possa assumere e svolgere il suo ruolo di padre edipico nella Legge simbolica, perché c sulla base di questa unione armoniosa delle due facce della paternità che i segni astratti c arbitrari della comunicazione possono aver l’opportunità di legarsi al senso affettivo delle identificazioni preistoriche, e il linguaggio mor­ to del depresso potenziale quella di ottenere un senso vivo nel legame con gli altri. Nelle circostanze completamente diverse della creazione letteraria, per esempio, quel momento essenziale della formazione del simbolo che è la posizione maniaca, doppio della depressione, può manifestar­ si attraverso la costituzione di una filiazione simbolica - è il caso per esempio del ricorso a nomi propri legati alla storia reale o immagina­ ria del soggetto della quale il soggetto stesso si presenta come l’erede o l’eguale, nomi che commemorano, in realtà, l’adesione nostalgica al­ la madre perduta, al di là del venir meno paterno”. Depressione oggettuale (implicitamente aggressiva), depressione narcisistica (logicamente anteriore alla relazione libidica d’oggetto). Affettività alle prese con i segni, fatta per travolgerli, minacciarli o modificarli. A partire da questo quadro, il quesito che ci porremo può esser così riassunto: la creazione estetica, c quella letteraria in parti­ colare, al pari del discorso religioso nella sua essenza immaginaria, di finzione, propongono un dispositivo caratterizzato da un’economia prosodica, da una drammaturgia dei personaggi e da un simbolismo implicito che costituiscono una rappresentazione scmiologica assai fedele della lotta del soggetto contro il crollo simbolico. Questa rap­ presentazione letteraria non è un’elaborazione - non è cioè una «pre­ sa di coscienza» delle cause inter- e intra-psichiche del dolore morale; in ciò essa si distingue dalla via psicoanalitica, che mira alla dissolun Si veda, infra, il cap. vi, dedicato a Nerval, pp. 128-32.

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/.ione di questo sintomo. Tuttavia, questa rappresentazione letteraria (c religiosa) possiede un’efficacia reale e immaginaria, giacche dipen­ de più dalla catarsi che dall’elaborazione; essa è un mezzo terapeuti­ co utilizzato da tutte le società nel corso dei secoli. Se la psicoanalisi ritiene di averne sviluppato uno più efficace, in particolare rafforzan­ do le possibilità ideative del soggetto, essa ha anche il dovere di arric­ chirsi prestando maggiore attenzione a queste soluzioni sublimatorie delle nostre crisi, per essere non un antidepressivo neutralizzante bensì un contro-depressivo lucido.

I.a morte è irrappresentabile?

Sulla base dell’ipotesi che l’inconscio è governato dal principio di piacere, Freud postula molto logicamente che in esso non si dà rap­ presentazione della morte. Come ignora la negazione, così l’inconscio ignora la morte. Sinonimo del non godimento, equivalente immagina­ rio dello spossessamento fallico, la morte non si può vedere. Ed è for­ se proprio per questo che essa apre la strada alla speculazione. Pure, quando attraverso respcricnza clinica viene portato alla for­ mulazione del narcisismo”, quindi alla scoperta della pulsione di mor­ ie" e alla seconda topica’2 Freud impone una visione dell’apparato psi­ chico in cui l’Eros subisce la minaccia di esser dominato da Thanatos e in cui, di conseguenza, la possibilità di una rappresentazione della morte si pone in altri termini. La paura della castrazione, sino a quel momento intravista come soggiacente all’angoscia cosciente di morte, non scompare ma si eclis­ sa di fronte alla paura di perdere l’oggetto o di perdersi come oggetto (eziologia della melanconia e delle psicosi narcisistiche). Questa evoluzione del pensiero freudiano lascia aperti due interro­ gativi, come è stato sottolineato da André Green”. Il primo è relativo alla rappresentazione di questa pulsione di mor­ te. Ignorata dall’inconscio, essa è, nel «secondo Freud», una «coltura di Super-io», potremmo dire invertendo la formula freudiana. Essa scinde l’io stesso in una parte che l’ignora pur essendone colpita (ed è questa la sua parte inconscia) e in un’altra parte che la combatte - ed è l'io megalomaniaco che nega la castrazione e la morte e fantasmatizza l’immortalità. “ Introduzione al narcisismo (1914). ” Al di là del principio di piacere (1920). *Io e l'Es (1923). L ” Narcissisms de vie eie, pp. 255 sgg.

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Ma, più fondamentalmente, una tale scissione non attraversa forse ogni discorso? Il simbolo si costituisce attraverso la negazione (Verneinung) della perdita ma il rinnegamento (Verleugnung) del simbolo produce un’inscrizione psichica assai vicina all’odio e all’imposscssamento (Bemdchtigxng) nei confronti dell’oggetto perduto”. E quanto si decifra nei bianchi del discorso, nei vocalizzi, nei ritmi, nelle sillabe delle parole devitalizzate che spetta all’analista ricomporre a partire dall’ascolto della depressione. Così, se la pulsione di morte non si rappresenta nell’inconscio, oc­ correrà inventare un altro livello dell’apparato psichico nel quale contemporaneamente al godimento - essa registri l’essere del suo nonesscre? E appunto una produzione dell’io scisso, costruzione di fanta­ sma e di finzione - il registro dell’immaginario insomma, registro del­ la scrittura - che testimonia di quello iato, bianco o intervallo che è la morte per l’inconscio. Dissoàazione delle forme Le costruzioni immaginarie modificano la pulsione di morte trasfor­ mandola in aggressività erotizzata contro il padre o in terrificata ripulsa del corpo della madre. E noto che negli stessi anni in cui scopre la poten­ za della pulsione di morte, Freud non si limita a spostare i suoi interessi dal modello teorico della prima topica (conscio/preconscio/inconscio) a quello della seconda ma, soprattutto, e grazie a essa, si orienta ancor di più verso l’analisi delle produzioni immaginarie (religione, arte, lettera­ tura), in cui riscontra una certa rappresentazione dell’angoscia di mor­ te”. Ciò significa che l’angoscia di morire - che ormai non si esprime più nella paura di castrazione ma l’ingloba e aggiunge a essa la ferita, anzi la perdita dell’integrità del corpo dell’io - trova le sue rappresen­ tazioni in formazioni che potremmo chiamare «transcoscienti», nelle costruzioni immaginarie del soggetto scisso secondo Lacan? Probabil­ mente sì. Resta comunque il fatto che un’altra lettura dell’inconscio stesso potrebbe individuare nel suo tessuto, così come ci è dato da certi sogni, quell’intervallo a-rappresentativo della rappresentazione che è non il segno ma l’indìzio della pulsione di morte. I sogni di borderline, delle personalità schizoidi o in preda ad esperienze psichedeliche sono spesu Cfr. il cap. Il, «Vita e morte della parola». ” L’assassinio del padre in Totem e tabù (1913) o la vagina mortalmente dentata nel Per­ turbante (1919).

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so «dipinti astratti» o cascate di suoni, grovigli di linee e di tessuti in cui l’analista decifra la dissociazione - o una non-intcgrazione - dell’unità psichica e somatica. Si potrebbero interpretare questi indizi come il contrassegno ultimo della pulsione di morte. A parte le rappresenta­ zioni in immagini, necessariamente spostate perché erotizzate, della pulsione di morte, il lavoro puro e semplice della morte, al grado zero dello psichismo, è individuabile proprio nella dissociazione della forma in sé, quando quest’ultima si s-forma, si astrae, si s-figura, si svuota: so­ glie ultime della dislocazione e del godimento inscrittibili... Peraltro, l’irrappresentabilc della morte fu un tempo associato a quell’altro irrappresentabilc - dimora originaria, ma anche riposo ulti­ mo delle anime morte nell’aldilà - che è, per il pensiero mitico, il cor­ po femminile. L’orrore della castrazione soggiacente all’angoscia di morte spiega probabilmente in larga misura questa associazione uni­ versale fra il femminile privo di pene e la morte. Tuttavia, l’ipotesi di una pulsione di morte impone un altro ragionamento. Z. (versione del «Mousquetaire»), Si è notato il valore flo­ reale, vitale, resurrezionale della seconda quartina, oltre alla frequenza in Ner'al delle opposizioni di rosso e verde. II rosso si afferma come " Antéros, in Oeuvres cit., 1.1., p. 34; trad. it. cit., p. 269.

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metafora della rivolta, del fuoco insurrezionale. E cainico, diabolico, infernale, mentre il verde è santo e le vetrate gotiche l’attribuiscono a san Giovanni11. Dobbiamo insistere una volta di più sulla funzione rea­ le dell’amante, tanto più dominatrice quanto meno dominata, che oc­ cupa tutto lo spazio dell’autorità e della paternità potendo con ciò esercitare un’impareggiabile influenza sul tenebroso: l’amante è la re­ gina di Saba, Iside, Maria, regina della Chiesa...? Di fronte a lei, l’atto della scrittura è implicitamente signore e vendicatore: ricordiamo che il sonetto è scritto in inchiostro rosso... Abbiamo quindi solo una semplice ed esile allusione al desiderio sessuale e alla sua ambivalenza. Il legame erotico porta, è vero, al loro parossismo i conflitti del soggetto che sente come distruttivi sia la ses­ sualità sia il discorso che può designarla. Si capisce così come il ritiro melanconico sia una fuga di fronte ai pericoli dell’erotismo. Questo sottrarsi alla sessualità e alla sua nominazione conferma l’i­ potesi secondo la quale la «stella» del Desdichado è più vicina alla Co­ sa arcaica che a un oggetto di desiderio. Tuttavia, e benché questo sot­ trarsi sembri necessario all’equilibrio psichico di certi individui, ci si può chiedere se, sbarrando così la via verso Valtro (minaccioso certo ma tale da assicurare così le condizioni dell’instaurazione dei limiti dell’io) il soggetto non si condanni alla tomba della Cosa. La sublima­ zione soltanto, senza elaborazione dei contenuti erotici e tanatoici, sembra costituire una misera risorsa di fronte alle tendenze regressive che dissolvono i legami e portano alla mone. La via freudiana, invece, mira a favorire (in ogni circostanza e qua­ li che siano le difficoltà nelle personalità dette narcisistiche) l’avvento e la formulazione del desiderio sessuale. Questa intenzione, spesso criti­ cata come riduzionista dai detrattori della psicoanalisi, si impone - nel­ l’ottica di queste considerazioni sull’immaginario melanconico - come un’opzione etica, giacché il desiderio sessuale nominato garantisce l’at­ taccamento del soggetto all’altro e, di conseguenza, al senso - al senso della vita. Io racconto

Il poeta tuttavia ritorna dalla sua discesa agli inferi. Egli attraversa «due volte» l’Acheronte restando «vivo» (versione «Le Mousquetaire») c «vincitore» (versione Les Filles du feu), e le due traversate evo­ cano le due grandi crisi che precedono la follia in Nerval. 11 Cfr. Dhaencns, Z.e Destin d’Orphée eie., p. 59.

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Dopo aver assorbito una Euridice innominata nel suo canto c negli accordi della sua lira, Nerval riassume il pronome «je», io. Meno rigi­ do rispetto al primo verso c al di là dell’incertezza del verso 9, questo «io» e, alla fine del sonetto, un «io» che racconta una storia. Il passato intoccabile e violento, nero e rosso, ma anche il sogno verdeggiante di una resurrezione letale si sono modulati in un artificio che comporta la distanza temporale («ho... traversato») e appartiene a un’altra realtà, quella della lira. L’aldilà dell’inferno melanconico sarebbe così un rac­ conto modulato e cantato, un’integrazione della prosodia nella narra­ zione qui solamente annunciata. Nerval non precisa la causa, il movente o la ragione che l’ha con­ dotto a questa miracolosa modificazione («J’ai deux fois vainqueur traverse l’Achéron») ma svela l’economia della sua metamorfosi che consiste nel trasporre nella sua melodia e nel suo canto «les soupirs de la sainte et les cris de la fée , * i sospiri della santa e le grida della fata. Il personaggio dell’amata viene intanto sdoppiato: ideale e sessuale, bianca e rossa, Rosalia e Mclusina, la vergine e la regina, la spirituale e la carnale, Adrienne e Jenny ecc. Inoltre, c la cosa è ancor più im­ portante, queste donne sono ormai dei suoni portati da personaggi in una storia che racconta un passato. Né esseri innominabili giacenti sul fondo di un simbolismo polivalente né oggetti mitici di una passione distruttrice, esse tentano di trasformarsi in protagonisti immaginari di un racconto catartico che si sforza di nominare, differenziandoli, i piaceri e le ambiguità. I «sospiri» e le «grida» connotano il godimen­ to, e si distingue l’amore idealizzante (la «santa») dalla passione ero­ tica (la «fata»). Con un salto nell’universo orfico dell’artificio (della sublimazione), il tenebroso trattiene dell’esperienza e dell’oggetto traumatico del lut­ to solo una sonorità lugubre o passionale. Egli tocca così, attraverso le componenti stesse del linguaggio, la Cosa perduta. Il suo discorso si identifica a essa, l’assorbe, la modifica, la trasforma: egli fa uscire Eu­ ridice dall’inferno melanconico e le ridà una nuova esistenza nel suo canto-testo. La ri-nascita dei due, del «vedovo» e della «stella»-«fiorc» non è al­ tro che la poesia rafforzata dal principio di una posizione narrativa. Si tratta di un immaginario che ha l’economia di una resurrezione. Tuttavia, il racconto nervaliano è semplicemente suggerito in El Desdichado. Nelle altre poesie, esso rimane disperso c sempre lacuno­ so. Nei testi in prosa, per mantenere il suo difficile movimento lineare verso una meta e un messaggio limitato, ricorre al sotterfugio del viag­ gio o della realtà biografica di un personaggio letterario di cui riprende 134

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le avventure. Aurélia è l’esempio stesso di questa dispersione narrativa, intessuta di sogni, di sdoppiamenti, di riflessioni, di incompiutezze... Non si può quindi parlare di «scacco» di fronte a questo abba­ gliante caleidoscopio narrativo che prefigura le esperienze moderne di decomposizione del romanzo. Tuttavia, il concatenamento narrativo che, al di là della certezza della sintassi, costruisce lo spazio e il tempo e rivela il controllo di un giudizio esistenziale sulle alee e i conflitti, non è ceno il luogo preferito di Nerval. Ogni racconto presuppone già un’identità stabilizzata dall’Edipo, un’identità che, avendo fatto il lut­ to della Cosa, può concatenare le sue avventure attraverso gli scacchi c le conquiste sugli «oggetti» del desiderio. Se tale è la logica interna del racconto, si capisce come la narrazione sembri troppo «seconda­ ria», troppo schematica, troppo inessenziale per captare l’incandescen­ za del «sole nero» in Nerval. La prosodia sarà allora il filtro primo e fondamentale che smorzerà nel linguaggio la gioia e il dolore del «principe nero». Filtro fragile, ma, spesso, unico. Al di là delle significazioni multiple e contraddittorie delle parole e delle costruzioni sintattiche, non si coglie forse in fondo il gesto puramente vocale? Sin dalle prime allitterazioni, dai primi rit­ mi e dalle prime melodie, la trasposizione del corpo parlante si impo­ ne nella sua presenza glottica e orale: T: ténébreux, Aquitaine, tour, étoile, morte, luth, constellé, porte; BR-PR-TR: téne^reux, prince, tour, morte, porte; S: suis, inconscie, prince, seul, constellé, soleil; ON: in­ corsole, mon, constellé, mélancolie... Ripetitiva, spesso monotona, questa prosodia" impone alla fluidità affettiva una griglia tanto rigida c difficile da decifrare (essa presuppo­ ne infatti delle precise nozioni mitologiche o esoteriche) quanto elasti­ ca c indecisa per la sua stessa allusività. Chi sono il principe d’Aquita­ nia, la «sola stella morta», Febo, Lusignan, Biron...? Possiamo saper­ lo, e lo sappiamo, le interpretazioni si sovrappongono o divergono... Ma il sonetto può anche essere letto senza che il lettore normale sap­ pia nulla di questi referenti, lasciandosi semplicemente prendere dalla coerenza ritmica e fonica, che limita pur consentendole le associazioni libere ispirate da ogni parola o nome proprio. Si capisce così che il trionfo sulla melanconia consiste tanto nella costituzione di una famiglia simbolica (antenato, personaggio mitico, comunità esoterica) quanto nella costruzione di un oggetto simbolico indipendente: il sonetto. Costruzione dovuta all’autore, essa si sostia Cfr. M. Jcannerct, lai lettre perdue, cotture et folic dans l’oeuvre de Nerval, Flammarion, Paris 1978.

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tuisce all’ideale perduto così come inverte le tenebre dolorose in can­ to lirico capace di assorbire «i sospiri della santa e le grida della fata». 11 polo nostalgico - «la mia sola stella è morta» - si muta in voci fem­ minili incorporate in quella antropofagia simbolica che è la composi­ zione della poesia, nella prosodia creata dall’artista. In un senso analo­ go andrà interpretata la presenza massiccia dei nomi propri nei testi e, in particolare, nelle poesie di Nerval. Nomi-indici: è La serie dei nomi propri tenta di prendere il posto lasciato vuoto dalla mancanza di un solo nome. Nome paterno o Nome di Dio. «O padre mio! sei tu che mi sento al di dentro?/ Hai il potere di vivere, di vincere la morte?/ O forse sei crollato sotto la sforzo estremo// Del­ l’angelo notturno, colpito d’anatema?.../ Giacché mi vedo solo, a pian­ gere e a soffrire;/ Ahimè, se muoio è segno che tutto perisce!»1’. Questo lamento di Cristo in prima persona somiglia molto al la­ mento biografico di un orfano o di qualcuno che manchi di un appog­ gio paterno (Mme Labrunie muore nel 1810, il padre di Nerval, Etien­ ne Labrunie, rimane ferito a Wilna nel 1812). Il Cristo abbandonato dal padre, la passione di Cristo che discende da solo agli inferi, attira Nerval, che l’interpreta come un segnale, in seno alla stessa religione cristiana, della «morte di Dio» proclamata da Jcan-Paul in una frase che Nerval cita in esergo. Abbandonato dal padre che viene così meno alla sua onnipotenza, il Cristo muore c trascina ogni creatura in que­ sto abisso. Il melanconico nervaliano si identifica col Cristo abbandonato dal Padre, è un ateo che non sembra più credere al mito di «quel pazzo, quel demente sublime... Quest’Icaro negletto che risaliva ai cieli»1'. Quello di Nerval è forse lo stesso nichilismo che agita l’Europa dajean Paul a Dostoevskij e a Nietzsche, e che fa risuonare, sin dall’epigrafe del Christ aux Oliviers, il celebre motto di Jean Paul: «Dio è morto! Il cielo è vuoto.../Piangete o figli, non avete più padre!»! E quanto sem­ bra suggerire il poeta identificato al Cristo: «No, no, Dio non esiste!!! Dormivano. "Sapete, amici la novella?/ Ho toccato la volta eterna con la fronte,/ Insanguinato, rotto, lunghi dì sofferente!/ V’ingannavo, fra­ telli: Abisso! Abisso! Abisso!// Manca il dio sull’altare dove sono la vit­ tima. .. / Dio non c’è! Non c’è più ".Ma dormivano sempre!. ..»:i. *’ Le Christ des Olivien, in Oeuvres cit.» c. I.» p. 37, trad. it. cit., p. 273. •** Ibid., p. 38; trad, it., p. 275 n Ibid., p. 36; trad, it., pp. 271-2.

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Ma forse la sua filosofia è piuttosto ancora un cristianesimo imma­ nente sotto una patina di esoterismo. Al Dio morto, Nerval sostituisce il Dio nascosto, non il Dio del giansenismo ma quello di uno spirituali­ smo diffuso, ultimo rifugio di un’identità psichica catastroficamente an­ gosciata. In un essere oscuro spesso s’occulta un Dio;/ Come un occhio nascente, coperto dalle palpebre,/ Levita un puro spirito sotto silicea3*. L’accumulazione dei nomi propri (che si riferiscono a personaggi storici, mitici c soprattutto esoterici) realizza l’impossibile nominazio­ ne dell’Uno, quindi la sua polverizzazione e infine il suo spostamento verso la regione oscura della Cosa innominabile. Il che equivale a dire che non ci troviamo con ciò nell’ambito del dibattito interno al mo­ noteismo ebraico o cristiano sulla possibilità o meno di nominare Dio, sull’unicità o sulla molteplicità dei suoi nomi. Nella soggettività nervaliana, la crisi della nominazione e dell’autorità garante dell’unicità soggettiva è più profonda. Essendo l’Uno o il Suo Nome considerato morto o negato, si dà la possibilità di sostituirlo con serie di filiazioni immaginarie. Queste fa­ miglie o fraternità o doppi mitici, esoterici o storici che Nerval impo­ ne febbrilmente al posto dell’Uno sembrano tuttavia e in definitiva avere un valore incantatorio, apotropaico, rituale. Più che il loro refe­ rente concreto, questi nomi propri indicano, piuttosto che significare, una presenza massiccia, non delimitabile, innominabile, come se fos­ sero l’anafora dell’oggetto unico: non I’«equivalcnte simbolico» della madre ma il deittico «questo», privo di significazione. I nomi propri sono i gesti che indicano l’essere perduto da cui innanzitutto fugge «il sole nero della melanconia», prima che si installi l’oggetto erotico se­ parato dal soggetto in lutto, al pari deWartifìcio dei segni di linguaggio che traspone questo oggetto sul piano simbolico. In fin dei conti e al di là del loro valore ideologico, la poesia integra queste anafore fra i se­ gni senza significazione, infra-, sopra-segni che, al di là della comuni­ cazione, tentano di toccare l’oggetto morto o intoccabile, di appro­ priarsi dell’essere innominabile. Così dunque la sofisticazione di un sapere politeistico ha come funzione estrema quella di condurci fino sulla soglia della nominazione, ai bordi del non simbolizzato. Rappresentandosi questo non simbolizzato come un oggetto ma­ terno, fonte di dolore e di nostalgia, ma anche di venerazione rituale, l’immaginario melanconico lo sublima e si dota di una protezione con­ tro lo sprofondamento ncll’asimbolia. Nerval formula così il trionfo provvisorio di questo autentico pergolato'di nomi propri issati sull’a“ Ibid., p. 39; trad, il» p. 277.

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bisso della «Cosa» perduta: «Gridai a lungo, invocando mia madre con tutti i noni dati alle antiche divinità»2’.

Commemorare il lutto

Così il passato melanconico non passa. Quello del poeta nemme­ no. Egli è lo storico permanente non tanto della sua storia reale quan­ to degli eventi simbolici che hanno condotto il suo corpo alla signifi­ cazione o che minacciano di far sprofondare la sua coscienza. La poesia nervaliana ha così una funzione altamente mnemonica («una preghiera alla dea Mnemosyne» scrive in Aurelio.)’*•* nel senso di una commemorazione della genesi dei simboli e della vita fantasmatica in testi che divengono la sola vita «reale» dell'aclista: «Da quelpunto è cominciata per me quella che mi piace chiamare effusione del so­ gno nella vita reale. Da quel momento, tutto assumeva di quando in quando un duplice aspetto»™. Si seguirà per esempio, in un passo di Aurelio, il concatenarsi delle seguenti sequenze: morte della donna (madre) amata, identificazione a essa c con la morte, instaurazione di uno spazio di solitudine psichica sostenuto dalla percezione di una forma bi-sessuale o a-sessuale, infine esplosione della tristezza rias­ sunta nella menzione della Melanconia di Diircr. 11 seguente passo può essere interpretato come una commemorazione della «posizione de­ pressiva» cara ai kleiniani”: «...Mi vidi davanti una donna dal colori­ to smorto, con gli occhi affossati che mi pareva avesse i lineamenti di Aurelio. Mi dissi: Qui è annunziata la sua morte o la mia! [...] Erravo in un vasto edificio composto di molte stanze [...] Un essere d’uno grandezza smisurata - uomo o donna, non saprei dire - svolazzava fa­ ticosamente nello spazio superiore [...] Somigliava all’angelo della "Malinconia” di Albrecht Durer. - Non potei reprimermi dal cacciare urla di terrore, che mi svegliarono di soprassalto»". La simbolica del linguaggio c, più ancora, del testo, dà il cambio al terrore e al trionfo momentaneo sulla morte dell’altro o di se stesso. Variazioni del «doppio»

Vedovo o poeta, essere stellare o tombale, identificato alla morta o vincitore orfico - queste sono solo alcune delle ambiguità che suscita •7 •* ” w "

Fragments du manuscrit d'Aurélia, in Oeuvres cit., t. i,, p. 423. Aurélìa cit., p. 366; trad, it., p. 214. Ibid., p. 367; trad, it., p. 215. Cfr. supra, cap. 1, pp. 19 sgg., c 23 sgg. Aurélia cit., p. 366; trad, il., p. 214.

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la lettura di El Desdichado e che impongono lo sdoppiamento come fi­ gura centrale dell’immaginario nervaliano. Lungi dal rimuovere il dispiacere provocato dalla perdita (arcaica o attuale) dell’oggetto, il melanconico installa la Cosa o l’oggetto perdu­ ti dentro di sé, identificandosi da una parte agli aspetti benefici e dal­ l’altra a quelli malefici della perdita. Eccoci di fronte a una prima con­ dizione dello sdoppiamento del proprio io, il quale avvia una serie di identificazioni contraddittorie che il lavoro dell’immaginario tenterà di conciliare: giudice tirannico e vittima, ideale inaccessibile o malato irre­ cuperabile ecc. Le figure sono destinate a succedersi, incontrarsi, inse­ guirsi o amarsi, curarsi, respingersi. Fratelli, amici o nemici, i doppi po­ tranno dar luogo a un’autentica drammaturgia dell’omosessualità. Tuttavia, quando uno dei personaggi si sarà identificato al sesso femminile dell’oggetto perduto, il tentativo di conciliazione ai di là della scissione sfoccrà in una femminizzazione del locutore o nell’an­ droginia: «Da quel momento, tutto assumeva di quando in quando un duplice aspetto...»'2 Aurélia, «una donna che aveva amato per lungo tempo» è morta. Ma «io mi dico “E la sua morte o la mia che mi è an­ nunciata!’’»". Dopo aver trovato il busto funerario di Aurélia, il nar­ ratore rievoca lo stato melanconico provocato in lui dalla notizia del­ la sua malattia: «Credevo di non avere io stesso che poco tempo da vi­ vere [...] D’altronde, ella m’apparteneva molto di più nel suo stato di morte che di vita... »". Essa c lui, la vita e la morte, sono qui entità che si riflettono specularmente, entità intercambiabili. Dopo una rievocazione della creazione come gestazione, di anima­ li preistorici e di cataclismi diversi («Dovunque moriva, piangeva o languiva l’immagine sofferente della Madre eterna»)” viene un altro doppio. Si tratta di un principe orientale il cui volto è quello del locutorc: «Era tutta la mia forma idealizzata e ingrandita» *. Non avendo potuto unirsi ad Aurélia, il narratore la trasforma in doppio ideale e, questa volta, maschile: «“L’uomo è doppio”, mi disse, “Sento in me due uomini!”»'7. Spettatore e attore, locutore e interlo­ cutore ritrovano tuttavia la dialettica proiettiva del buono e del catti­ vo: «In ogni caso, l’altro mi è ostile». L’idealizzazione volge alla perIbid,, p. ” Ibid., p. ** Ibid., p. n /W.,p. H Ibid., p. Ibid., p. **fbid.t p.

367; trad, 365; trad, 378; trad, 383; trad, 384; trad, 385; trad, 388; trad,

it., it., it.» it., it., it.» it.,

p. p. p. p. p. p. p.

215. 213. 224. 228. 229. 230. 233.

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Kristeva, Sole nero .

sedizione e finisce coll'attribuire un «senso doppio» a tutto ciò che il narratore intende... Essendo abitato da questo doppio cattivo, da un «genio maligno che aveva preso il mio posto nel mondo delle anime», l’amante di Aurélia vede raddoppiare la sua disperazione. Per colmo di sventura, egli immagina che il suo doppio «debba sposare Aurélia» «e subito un insensato trasporto si impadronì di me», mentre gli altri intorno a lui si prendono gioco della sua impotenza. Come conse­ guenza di questo drammatico sdoppiamento, il sogno nervaliano è la­ cerato da grida femminili e da parole estranee - altri indici di sdop­ piamento, questa volta sessuale e verbale”. L’incontro, sotto un per­ golato, di una donna che è il doppio fisico di Aurélia lo fa cadere di nuovo nell’idea che egli debba morire per raggiungerla, quasi fosse Taker ego della mona»”. Gli episodi di sdoppiamento si susseguono e variano, ma convergo­ no tutti verso la celebrazione dì due figure fondamentali: verso la Ma­ dre universale, Iside o Maria, c verso l’apologià del Cristo, di cui il nar­ ratore si presenta come l’ultimo doppio: «Come un coro misterioso giungeva al mio orecchio: voci infantili ripetevano in coro: - Christel Christel Christel... [...J “Ma Cristo non c’è più" mi dicevo» * ”. Il narra­ tore discende agli inferi come il Cristo e il testo si chiude su questa im­ magine, come se egli non fosse sicuro del perdono e della resurrezione. In effetti il tema del perdono si impone nelle ultime pagine di Auré­ lia: sentendosi in colpa per non aver pianto i suoi vecchi genitori con la stessa intensità con cui ha pianto «questa donna», il poeta non può sperare il perdono. Eppure, «il perdono di Cristo è stato pronunziato anche per te!»4'. Così l’aspirazione al perdono, un tentativo di aderire alla religione che promette la sopravvivenza, incombe su questa lotta contro la melanconia e lo sdoppiamento. Di fronte al «sole nero della melanconia», il narratore di Aurélia afferma: «Dio è il Sole» * ’. Si tratta di una metafora di resurrezione o di un rovescio rispetto a quel dritto solidale che è il «sole nero»? Dire la frammentazione Di tanto in tanto, lo sdoppiamento diviene una frammentazione «molecolare» metaforizzata da correnti che solcano un «giorno senza » Aurélia cit., p. 399; trad, it., p. 243. Ibid., pp. 401-2; trad, it., p. 246. •' Ibid., p. 415; trad, it., p. 259. *- Ibid., p. 398; trad, it., p. 242. » Ibid., p. 370; trad, it., p. 218.

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Nerval, El Desdichado________________________________

sole»: «Mi sentivo travolto senza soffrirne da una corrente di metallo fuso, e mille fiumi consimili le cui tinte indicavano le diverse composi­ zioni chimiche, solcavano il seno della terra come i vasi e le vene che serpeggiano fra i lobi del cervello. Nella stessa guisa tutti quei corsi li­ quidi fluivano, circolavano e vibravano, e io ebbi la percezione che fos­ sero composti d’anime viventi allo stato molecolare, che solo la velocità del loro fluire m’impediva di distinguere»". Strana percezione, mirabile conoscenza della dislocazione accelera­ ta che sottende il processo melanconico e la psicosi soggiacente. Il lin­ guaggio di questa accelerazione vertiginosa assume un aspetto combi­ natorio, polivalente e totalizzante, dominato dai processi primari. Questa attività simbolica spesso ribelle alla rappresentazione «non fi­ gurativa», «astratta», è genialmente percepita da Nerval: «Il linguaggio dei miei compagni aveva un fraseggiare misterioso di cui capii il senso: gli oggetti informi e inanimati si prestavano anch’essi ai calcoli del mio spirito; da combinazioni di sassi, figure di alcuni spigoli, crepe o spacca­ ture, frastagliature di foglie, colori odori e suoni vedevo sorgere armo­ nie fin allora sconosciute. Mi dissero: “Come ho potuto esistere così lun­ go tempo fuori della natura e senza identificarmi con essa? Tutto vive, tutto funziona, tutto si corrisponde [...]. E una rete trasparente che co­ pre il mondo...’’»". Si ha qui un’enunciazione del cabaliamo o delle teorie esoteriche delle «corrispondenze». Eppure, il passo citato è anche una straordi­ naria allegoria del polimorfismo prosodico proprio di questa scrittura nella quale Nerval sembrava privilegiare la rete delle intensità, dei suo­ ni c delle significazioni piuttosto che la comunicazione di un’informa­ zione univoca. In effetti, questa «rete trasparente» indica il testo ner­ valiano stesso, e noi possiamo leggerlo come una metafora della subli­ mazione: trasposizione delle pulsioni e dei loro oggetti in segni desta­ bilizzati c ricombinati che rendono lo scrittore capace di «prenderpar­ te alle mie gioie e ai miei dolori»". Quali che siano le allusioni alla massoneria c all’iniziazione, e for­ se parallelamente a esse, la scrittura di Nerval evoca (come in un’ana­ lisi) esperienze psichiche arcaiche che poche persone raggiungono nel loro discorso cosciente. Che i conflitti psicotici di Nerval abbiano po“ Ibid., p. 407; trad, il., pp. 250-1. Cfr. supra, cap. I, pp. 25-27, a proposito della rapprcscniazione della mone. Ibid., p. 4C7; trad, it., p. 251.

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tuto favorire un tale accesso ai limiti dell’essere del linguaggio e del­ l’umanità, è più che evidente. In Nerval la melanconia è solo uno dei versanti di quei conflitti che possono giungere sino alla frammenta­ zione schizofrenica. Tuttavia, per la sua posizione centrale nell’orga­ nizzazione c nella disorganizzazione dello spazio psichico, ai limiti tra l’affetto e il senso, tra la biologia c il linguaggio, tra l’asimbolia e la si­ gnificazione vertiginosamente rapida o eclissata, è proprio la melanco­ nia che domina la rappresentazione nervaliana. La creazione di una prosodia e di una polifonia indecidibili dei simboli intorno al «punto nero» e al «sole nero» della melanconia costituisce così l’antidoto del­ la depressione, una salvezza provvisoria. La melanconia sottende la «crisi dei valori» che investe il XX seco­ lo e si esprime nella proliferazione esoterica. L’eredità del cattolicesi­ mo viene ad esser messa in causa, ma i suoi elementi relativi agli stati di crisi psichica sono ripresi c inseriti in un sincretismo spiritualista polimorfo e polivalente. Il Verbo viene vissuto non tanto come incar­ nazione ed euforia quanto come ricerca di una passione che rimane in­ nominabile o segreta, e come presenza di un senso assoluto che appare per un verso onnivalente e per l’altro inafferrabile e abbandonico. Una vera e propria esperienza melanconica delle risorse simboliche del­ l’uomo viene così vissuta, in occasione della crisi religiosa e politica aperta dalla Rivoluzione. Walter Benjamin ha insistito sul substrato melanconico di questo immaginario privato della stabilità classica nonché cattolica, eppur desideroso di dotarsi di un nuovo senso (fin­ ché parliamo, finché gli artisti creano) che rimane tuttavia essenzial­ mente deluso, lacerato dal nero o dall’ironia del Principe delle tenebre (finché viviamo orfani ma creatori, creatori ma abbandonati...). • Tuttavia, El Desdichado, come tutta la poesia e la prosa poetica nervalianc, tenta una formidabile incarnazione di questa significazione sfrenata che balza e vacilla nella polivalenza degli esoterismi. Assu­ mendo la dissipazione del senso - replica nel testo di un’identità fram­ mentata - i temi del sonetto rintracciano una vera e propria archeolo­ gia del lutto affettivo c della prova erotica, superati dall’assimilazione dell’arcaico nel linguaggio della poesia. Contemporaneamente, questa assimilazione ha luogo anche attraverso l’oralizzazione e la musicalizzazione dei segni stessi, che si avvicinano così al senso del corpo per­ duto. Proprio all’interno della crisi dei valori, la scrittura poetica mi­ ma una resurrezione. «Due volte vittorioso l’Acheronte ho varcato. Non ci sarà una terza volta. 142

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La sublimazione è un potente alleato del Desdichado, ma a condi­ zione che egli possa ricevere e accettare la parola di qualcun altro. Ora, l’altro non si presentò all’appuntamento di colui che andò incontro senza lira questa volta, solo sotto la notte di un lampione - «ai sospiri della Santa e alle grida della Fata».

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vii.

Dostoevskij, la scrittura della sofferenza e il perdono

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Apologia della sofferenza L’universo tormentato di Dostoevskij (1821-1881) è probabilmen­ te dominato più dall’epilessia che da una melanconia nel senso clinico del termine1. Se Ippocrate equiparava i due termini, se Aristotele li te­ neva distinti pur confrontandoli l’uno all’altro, l’attualità clinica li con­ sidera come entità fondamentalmente separate. In ogni caso, si rile­ verà, negli scritti di Dostoevskij, l'abbattimento che precede, e soprat­ tutto segue, la crisi così come lo scrittore stesso la descrive, nonché l’i­ postasi della sofferenza che, senza un rapporto esplicito e immediato con l’epilessia, si impone nell’arco di tutta l’opera come il tratto essen­ ziale dell’antropologia dostoevskiana. Curiosamente, l’insistenza con cui Dostoevskij ha parlato dell’esi­ stenza di una sofferenza precoce o almeno primordiale, sul limitare della coscienza, ricorda la tesi freudiana di una «pulsione di morte» originaria, portatrice di desideri, e di un «masochismo primario»2. Mentre in Melanie Klein la proiezione per lo più precede l’introiezio­ ne, l’aggressione viene prima della sofferenza e la posizione schizo-paranoide sottende la posizione depressiva, Freud insiste su quello che si potrebbe chiamare un grado zero della vita psichica in cui la sofferen­ za («masochismo primario», «melanconia») non erotizzata sarebbe l’inscrizione primordiale di una rottura (traccia mnestica del salto tra materia inorganica e organica; effetto della separazione tra il corpo e l’ecosistema, il figlio e la madre ecc.; ma anche effetto mortifero di un Super-io permanente e tirannico). 1 II testo canonico di Freud su Dostoevskij considera lo scrittore dal punto di vista del­ l’epilessia, dell’amoralismo, del parricidio e del gioco, e affronta solo per allusioni il «sado­ masochismo» soggiacente alla sofferenza. Cfr. Dostojewskì und die Vatertótung, i £., XXI, pp. 175 sgg.; G. IK, L X1V, pp. 173 sge., Opere, X, pp. 521-38. Per una discussione di questa tesi, cfr. P. Sollers, Dostoievsky Freud, la roulette, in Théorie des Exceptions, Folio Gallimard, Paris 1986. * Cfr. supra, cap. I, pp. 17-21.

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Kristeva, Sole nero_________________________________

Dostoevskij sembra assai vicino a una tale visione. Egli intende la sofferenza come un affetto precoce e primario, che reagisce a un trau­ ma certo, ma in qualche modo pre-oggettuale, al quale non si potreb­ be assegnare un agente separato dal soggetto e suscettibile, di conse­ guenza, di attirare verso l'esterno energie, inscrizioni psichiche, rap­ presentazioni o atti. Come sotto l’impatto di un Super-io anch’esso precoce, che ricorda il Super-io melanconico inteso da Freud come «una coltura pura della pulsione di morte», le pulsioni degli eroi dostoevskiani si rovesciano sullo spazio che è loro proprio. Invece di di­ venire pulsioni erotiche, esse si inscrivono come un umore di soffe­ renza. Né dentro ne fuori, a metà strada, sulla soglia della separazione io/altro c prima ancora che essa sia possibile, è qui che si erge la soffe­ renza dostoevskiana. I biografi segnalano che Dostoevskij preferiva frequentare persone inclini alla tristezza. Egli del resto la tristezza la coltivava dentro di se e l’esaltava nei suoi testi come nelle lettere. Prendiamo a esempio una let­ tera a Maikov datata Firenze, 27 maggio 1869: «La cosa principale è la tristezza, ma se se ne parla o ci si sofferma su di essa, occorre dime mol­ to di più. Eppure il dolore è tale che, se fossi solo, sarei forse caduto am­ malato di tristezza... In ogni modo la tristezza è terribile, e peggio an­ cora in Europa io guardo tutto qui come una bestia. Qualunque cosa ca­ piti, ho deciso di rientrare la prossima primavera a Pietroburgo... ». La crisi epilettica e la scrittura sono i luoghi d’elezione paralleli di una tristezza parossistica che si inverte in una giubilazione mistica fuo­ ri del tempo. Così, nei Taccuini dei Demoni (il romanzo appare nel 1873): «Attacco alle 6 del mattino (il giorno e all’incirca l’ora dell’ese­ cuzione di Tropmann). lo non l’ho sentito, mi sono svegliato verso le 9 con la coscienza di un attacco. La testa doleva, il corpo era rotto. NB: In generale le conseguenze degli altacchi.cioè nervosità, indebolimento della memoria, stato aggravato e nebuloso, quasi contemplativo - du­ rano ora più che negli anni precedenti Prima passava in tre giorni e ora forse in sei giorni. Specialmente la sera, al lume delle candele, una tri­ stezza ipocondriaca vaga e quasi una sfumatura rossa sanguigna (non un colore) su tutto... »’. Oppure: «riso nervoso e tristezza mistica»' ri­ pete riferendosi implicitamente ilì’acedia dei monaci del Medioevo. O ancora: Come scrivere? «Soffrire, soffrire molto...». La sofferenza sembra essere un di «più», una potenza, una voluttà. Il «punto nero» della melanconia nervaliana ha ceduto a un torrente * E Dostoevskij, / taccuini per * / *Demoni , 1963, in, p. 860. * Ibid., p. 861.

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in Romanzi c taccuini. Sansoni, Firenze

Dostoevskij, la scrittura della sofferenza e il perdono

passionale, a un affetto isterico se si vuole, il cui straripamento fluido travolge i segni placidi c le composizioni pacificate della letteratura «monologica». Esso conferisce al testo dostoevskiano una polifonia vertiginosa, e impone come verità ultima dell’uomo dostoevskiano una carne ribelle che gode di non sottomettersi al Verbo. Voluttà della sofferenza che non ha «alcuna freddezza e alcun disincanto, nulla di ciò che è divenuto di moda con Byron»: ma ha «sete di voluttà smisu­ rata e insaziabile», «sete di vita inestinguibile», che non esclude una «voluttà del furto, del banditismo, una voluttà di suicidio»'. Questa esaltazione dell’umore, che può, dalla sofferenza, trasformarsi in una giubilazione incommensurabile, è mirabilmente descrìtta da Kirillov nei momenti che precedono il suicidio o la crisi: «Vi sono degli attimi non più di cinque o sei ogni volta, nei quali a un tratto sentite la pre­ senza dell'armonia eterna, perfettamente raggiunta. Non è cosa terre­ na: non dico che sia cosa celeste, ma dico che un uomo nel suo involu­ cro terreno non può sopportarla. Bisogna cambiarsi fisicamente o mori­ re. È una sensazione chiara e indiscutibile [...] Non è... non è intene­ rimento [.. .]Non è che mi amiate, oh questo sentimento è più alto del­ l’amore! la cosa più paurosa è che sia così terribilmente chiaro e che ci sia una simile gioia. Se durasse più di cinque secondi l’anima non resi­ sterebbe e dovrebbe sparire. [...] Per sopportare questa sensazione per dieci secondi bisognerebbe trasformarsi fisicamente [...]. - Non avete il mal caduco? - No. - Vuol dire che verrà. Guardatevi, Kirdlov: ho sentito dire che il mal caduco comincia proprio così [...]». E a proposito della breve du­ rata di questo stato: «Ricordate la brocca di Maometto: e non aveva fatto in tempo a venir fuori una goccia, che egli aveva fatto il giro del paradiso sul suo cavallo. La brocca son quei cinque secondi; ricorda troppo la vostra armonia, e Maometto era un epilettico. Guardatevi, Kirillov, si approssima il mal caduco!»'. Irriducibile ai sentimenti, l’affetto del suo doppio aspetto di flusso energetico e di inscrizione psichica - lucido, chiaro, armonioso, sep­ pur fuori linguaggio - viene qui espresso con una straordinaria fedeltà. L’affetto non passa per il linguaggio e quando il linguaggio fa riferi­ mento all’affetto, non si lega a esso come si lega a un’idea. La verbalizzazione degli affetti (inconsci o consci) non ha la stessa economia delle idee (inconsce o consce). Si può supporre che la verbalizzazione ’ Ibid., p. 1203. * Dostoevskij, I demoni, in Romanzi e taccuini cit., ili, pp. 664-5.

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_____________________ Kristeva, Sole nero______________________ degli affetti inconsci non li renda consci (il soggetto non sa più di pri­ ma da dove c come venga la sua gioia o la sua tristezza e non le modi­ fica) ma li faccia operare in modo doppio. Da una parte, gli affetti re­ distribuiscono l’ordine del linguaggio e fanno nascere uno stile. Dal­ l’altra, essi mostrano l’inconscio in personaggi e atti che rappresenta­ no le mozioni pulsionali più proibite e trasgressive. La letteratura, co­ me l’isteria, che per Freud è «un’opera d’arte deformata», è una messa in scena degli affetti a livello intersoggettivo (i personaggi) come a li­ vello intralinguistico (lo stile). È probabilmente questa intimità con l’affetto che ha portato Do­ stoevskij alla visione secondo la quale l’umanità dell’uomo consiste­ rebbe non tanto nella ricerca di un piacere o di un vantaggio (idea che rimane ancora soggiacente anche alla psicoanalisi freudiana, malgrado la predominanza accordata da Freud negli ultimi anni a un «al di là del principio di piacere») quanto nell’aspirazione a una sofferenza volut­ tuosa. Diversa dall’animosità o dalla rabbia, meno oggettuale, più ri­ piegata sulla persona propria, al di qua di questa sofferenza rimarreb­ be solo la perdita di sé nella notte del corpo. È una pulsione di morte inibita, un sadismo ostacolato dalla vigilanza della coscienza, c rove­ sciato sull’io ormai dolorante e inattivo. «La malvagità, in me, sempre per effetto di queste maledette leggi della coscienza, si decompone co­ me per un processo chimico. Guardi e vedi che l’oggetto si dissolve, le motivazioni si volatilizzano, il colpevole non si trova, l'offesa cessa di esser tale per trasformarsi in una fatalità, in qualcosa di simile a un do­ lor di denti del quale nessuno ha colpa»’. Alla fine, si arriva a questa ar­ ringa in favore della sofferenza, degna delì’acedia medioevale, e persi­ no di Giobbe: «E come mai voi siete così fermamente, così solenne­ mente convinti che soltanto ciò che è normale e positivo, in una parola soltanto ciò che apporta prosperità, è vantaggioso per l’uomo? Non può darsi che la ragione sbagli nel valutare i vantaggi? Non potrebbe dar­ si che gli piaccia altrettanto la sofferenza? Non può darsi che per lui la sofferenza sia vantaggiosa esattamente nella stessa misura aella pro­ sperità? E all'uomo talvolta piace terribilmente la sofferenza, gli piace alla follia, e anche questo è un fatto». Tutta dostoevskiana la definizio­ ne della sofferenza come libertà affermata, come capriccio'. «Io qui, in realtà, non parteggio per la sofferenza, ma non parteggio neppure per la prosperità. Parteggio per... il mio capriccio, e voglio che mi sia ga­ rantito quando è necessario. La sofferenza, per esempio, è inammissibi­ le nei vaudevilles questo lo so anch’io. Nel palazzo di cristallo essa è ad­ dirittura inconcepibile: la sofferenza è dubbio, negazione; e che razza 7 Dostoevskij, Il romanzo del sottosuolo, Feltrinelli, Milano 1981, p. 217.

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Dostoevskij, la scrittura della sofferenza e il perdono

di palazzo di cristallo sarebbe quello di cui si potesse dubitare? [...] Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza. E sebbene io ab­ bia dichiarato fin dal principio che la coscienza, secondo me, è la più grande disgrazia per l'uomo, tuttavia so bene che essa sta tanto a cuo­ re all’uomo che egli non la scambierebbe con nulla al mondo»1. Il trasgressore, quel «superuomo» dostoevskiano che si cerca, per esempio, attraverso l’apologià del delitto in Raskol’nikov, non è un ni­ chilista ma un uomo di valori’. Ne è una prova la sua sofferenza, che risulta da una perenne ricerca del senso. Chi ha la coscienza del suo at­ to trasgressivo ne è contemporaneamente punito nella misura in cui ne soffre: «se riconosce il suo errore. Questo sarà il suo castigo, oltre ai la­ vori forzati»'0. «La sofferenza e il dolore sono un obbligo inevitabile, per chi ha una coscienza profonda e un cuore sensibile, lo credo che in questo mondo gli uomini veramente grandi debbano provare una grande tristezza»". Così, quando Nicola si accuserà di aver commesso un crimine pur essendo innocente, Porfirio penserà di poter riconoscere in questa ac­ cusa zelante la vecchia tradizione mistica russa che esalta la sofferenza come indizio di umanità: «Sapete [.. .J che cosa significa per alcuni di loro "soffrire”? Non a vantaggio di qualcuno, ma così semplicemente perché “bisogna soffrire” cioè accettare la sofferenza, e se viene dalle autorità, tanto meglio»'1. «Provate a soffrire. Mikolka, forse, ha ragio­ ne di voler soffrire»". * Ibid, pp. 233-4. ’ Nietzsche associa Napoleone e Dostoevskij in una sua riflessione su «Il criminale e quel che gli c affine»: i due geni rivelerebbero la presenza di un’«esistenza catilinaria» alla ba­ se di ogni esperienza eccezionale, portatrice di una trasmutazione dei valori. «Per il proble­ ma che si presenta a questo punto, è importante la testimonianza di Dostoevskij - di Do­ stoevskij, l’unico psicologo, sia detto di passaggio, da cui avrei qualcosa da imparare: egli rientra nei più bei casi fortunati della mia vita, ancor più, perfino, della scoperta di Stendhal.

Quest’uomo profondo, che ebbe dieci volle ragione di apprezzare poco i superficiali Tede­ schi, sentì molto diversi da come lui stesso si aspettava i deportati della Siberia, in mezzo ai quali visse a lungo... *. E, secondo la versione w.n.6: «Il tipo del delinquente: è il tipo del­ l'uomo forte in circostanza sfavorevoli: sicché tutti i suoi istinti, messi al bando dal sospet­ to, dalla paura, dal disonore concrescono abitualmente insieme ad affetti depressivi e perciò degenerano fisiologicamente *. Cfr. E Nietzsche, Crepuscolo deeli idoli, in Opere, vi, 3, Adelphi, Milano 1970, pp. 146, 517. Pur apprezzando l’àpologìà del «genio estetico» e «de­ linquente» in Dostoevskij, Nietzsche si scaglia spesso contro quella che gli sembra essere la psicologia morbosa del cristianesimo, preso nelle reti dell’amore, dispiegata dallo scrittore russo: ci sarebbe un «idiotismo infantile» nel Vangelo come in un «romanzo russo», secon­ do (’Anticristo. Non c possibile insistere sul fascino che Dostoevskij esercita su Nietzsche, il quale vede in lui il precursore del suo superuomo, senza rilevare anche e soprattutto il di­ sagio suscitato nel filosofo tedesco dal cristianesimo dostoevskiano. 19 Delitto e castigo, in Romanzi e taccuini cit., I, p. 301. " Ibid.,pp. 301-2. ” Ibid., p. 507. ” Ibid., p. 512.

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Kristeva, Sole nero.

La sofferenza sarebbe un fatto di coscienza, la coscienza (per Do­ stoevskij) dice: soffri. «Conscio e quindi sofferente) ora io non voglio sof­ frire, perché a che scopo accetterei di soffrire? La natura, attraverso il ca­ nale della mia coscienza, mi avverte di non so qual armonia del Tutto. La coscienza umana ha costruito intere religioni su questo suo avverti­ mento [...] sottomettermi, accettare la sofferenza in considerazione del­ l’armonia del Tutto e accettare di vivere [...]. E perché dovrei far tanto caso della sua conservazione (del Tutto) dopo di me, vi chiedo! Sarebbe stato meglio che fossi stato creato simile a tutti gli altri animali; vivo cioè ma non razionalmente cosciente di me stesso: la mia coscienza è precisamente non un’armonia bensì una discordanza, giacché io sono infelice a causa di essa. Guardale chi è veramente felice al mondo e chi siano quel­ li che accettano di vivere! Quelli che accettano di essere simili agli ani­ mali, appunto, e, per lo scarso sviluppo della loro coscienza, più vicini al­ la condizione animale»' *. In quest’ottica, il suicidio nichilista stesso sa­ rebbe il compimento della condizione dell’uomo dotato di coscienza ma... privo di amore-perdono, di senso ideale, di Dio. Una sofferenza anteriore all’odio

Non affrettiamoci a interpretare questi discorsi come la confessio­ ne di un masochismo patologico. Non è forse in quanto significa l’o­ dio, la distruzione dell’altro e forse prima di tutto la sua messa a mor­ te, che l’essere umano sopravvive come animale simbolico? Una vio­ lenza esorbitante, ma frenata, ha come esito la messa a mone dell’io a opera di se stesso perché nasca il soggetto. Da un punto di vista dia­ cronico, ci troviamo con ciò alla soglia inferiore della soggettività, pri­ ma ancora che si distacchi un altro che costituisca l’oggetto di un at­ tacco d’odio o d’amore. Ora, questo medesimo contenimento dell’o­ dio permette anche il controllo dei segni: io non ti attacco, io parlo (o scrivo) la mia parola o il mio dolore. La mia sofferenza è l’altra faccia della mia parola, della mia civiltà. I rischi masochistici di questa civiltà sono facilmente immaginabili. Lo scrittore, per parte sua, può trarne una giubilazione attraverso la manipolazione che saprà, su questa ba­ se, infliggere ai segni e alle cose. La sofferenza e il suo rovescio solidale, il godimento o la «voluttà», nel senso dostoevskiano, si impongono come l’indizio ultimo di una rottura che precede di poco l’autonomizzazione (cronologica c logica) del soggetto e dell’Altro. Può trattarsi di una rottura bioenergetica inUna sentenza, in Diario di uno scrittore, trad, franc, Gallimard («La Plèiade *), 1972, pp. 725-6.

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Paris

Dostoevskij, la scrittura della sofferenza c il perdono

tema o esterna, oppure di una rottura simbolica dovuta a un abbando­ no, a un castigo, a una messa al bando. Non si ricorderà mai abbastanza la severità del padre di Dostoevskij, maledetto dai suoi mugichi e forse messo a morte da essi (secondo certi biografi, oggi confutati). La soffe­ renza è il primo o l’ultimo tentativo del soggetto di affermare ciò che gli è «proprio» in intimo contatto con l’unità biologica minacciata c con il narcisismo messo alla prova. Così questa esagerazione umorale, questa enfatizzazione pretenziosa del «proprio» rivela un dato essenziale del si­ stema psichico che sta per costituirsi o per franare sotto le leggi di un Al­ tro già dominante benché ancora misconosciuto nella sua alterità onni­ potente, sotto l’occhio dell’ideale dell’io saldato all’io ideale. Verotizzazione della sofferenza sembra secondaria. Essa si attua in effetti solo integrandosi nella corrente di una aggressività sadomasochistica orientata verso l’altro che la colora di voluttà e di capriccio - e in tal caso l’insieme può essere razionalizzato come un’esperienza me­ tafisica di libertà o di trasgressione. Tuttavia, a un livello logicamente e cronologicamente precedente, la sofferenza appare come la soglia ulti­ ma, l’affetto primario, della distinzione o della separazione. Restando all’interno di quest’ottica, si terrà conto anche delle recenti osservazio­ ni secondo le quali il sentimento di armonia o di gioia provocato dall’approssimarsi della crisi epilettica non sarebbe che un après-coup, un’azione successiva dell’immaginario che, in seguito alla crisi, tenta di appropriarsi positivamente del momento bianco, disruptivo, di questa sofferenza provocata dalla discontinuità (scarica energetica violenta, rottura della sequenzialità simbolica nella crisi). Dostoevskij avrebbe così ingannato i medici che, sulla base della sua testimonianza, hanno creduto di riscontrare, negli epilettici, dei periodi di euforia preceden­ ti la crisi, mentre in realtà questo momento di rottura sarebbe contras­ segnato soltanto dall’esperienza dolorosa della perdita e della sofferen­ za - cosa confermata dall’esperienza segreta dello stesso Dostoevskij1’. Si potrebbe sostenere che, nell’economia masochistica, l’inscrizione psichica della discontinuità è vissuta come un trauma o una perdita. Il soggetto rimuove o rigetta la violenza schizo-paranoide che, in questa prospettiva, sarebbe successiva alla dolorosa inscrizione psichica della discontinuità. Egli regredisce allora logicamente o cronologicamente al registro in cui le separazioni, al pari dei legami (soggetto/oggetto, affetto/senso), sono minacciate. Tale, stato si manifesta nel melanconico attraverso la dominanza dell’umore sulla possibilità stessa della verbalizzazione, prima di un’eventuale paralisi affettiva. » J. Cannati, La Creation littéraire chez Dostoieliski, Instimi d’Étudcs slaves, Paris 1978,

pp. 125-80.

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Tuttavia, si potrebbe considerare il sintomo epilettico come un’altra variante di questo ritiro del soggetto che, di fronte alla minaccia di ca­ dere nella posizione schizo-paranoide, ritrova attraverso la scarica mo­ toria il modo di operare una messa in atto muta della «pulsione di morte» (rottura della conducibilità neurologica; interruzione dei lega­ mi simbolici, scacco dato all’omeostasi della struttura vivente). In questa prospettiva, la melanconia come umore che spezza la continuità simbolica, al pari dell’epilessia come scarica motoria, sono strategie attraverso le quali il soggetto si ritrae dalla relazione erotica con l’altro e in particolare dalle potenzialità schizo-paranoidi del desi­ derio. L’idealizzazione e la sublimazione possono invece essere inter­ pretate come un tentativo di evitare il medesimo confronto ma signi­ ficando la regressione e le sue ambivalenze sadomasochistiche. In que­ sto senso, il perdono, coestensivo alla sublimazione, diserotizza al di là di Eros. Alla coppia Eros/Thanatos si sostituisce quella Eros/Perdono, che consente alla melanconia potenziale di non irrigidirsi in ritiro af­ fettivo dal mondo ma di traversare la rappresentazione dei legami ag­ gressivi e minacciosi con l’altro. È nella rappresentazione, nella misu­ ra in cui essa poggia sull’economia ideale e sublimatoria del perdono, che il soggetto può non agire ma formare - poiein - la sua pulsione di morte come pure i suoi legami erotici.

Dostoevskij e Giobbe L’essere sofferente in Dostoevskij ricorda l’avventura paradossale di Giobbe, che peraltro aveva molto impressionato lo scrittore: "Leg­ go il libro di Giobbe che produce in me un “esaltazione morbosa: smet­ to di leggere e vado avanti e indietro nella mia stanza per un'ora qua­ si piangendo [...] È una cosa strana, Anna, ma questo libro è uno dei primi che mi abbiano colpito... e allora ero poco più che un lattan­ te... »“ Giobbe, uomo benestante e fedele a lahvè, si vede all’improv­ viso colpito - da lahvè o da Satana - da diverse sventure... Ma questo «depresso», di cui gli altri si prendono gioco ("Come oseremo parlar­ ti? Tu sei turbato»)” triste in fondo solo perché tiene a Dio. Il fatto che '* Dostoevskij, Lettere alla moglie, trad, franc, t. li, 1875-80, Plon, Paris 1927, p. 61 (let­ tera del 10 giugno 1875). Per ciò che riguarda l’interesse di Dostoevskij per Giobbe, si veda B. Boursov, La Personalità di Dostoevskij (in russo) in «Zvevda», 1970,12, p. 104: «Soffriva di Dio e dell’universo, giacche non voleva dipendere dalle leggi eterne della natura e della

storia, c anzi a volte arrivava sino al punto di rifiutare di riconoscere che ciò che si andava compiendo era compiuto. Così egli andava come contro a tutto» (ripreso in voi. ed. Sovietskij Pissatel, 1979). "Gb, 4, 2.

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questo Dio sia spietato, ingiusto con i fedeli, generoso con gli empi, non lo induce a rompere il suo contratto con la divinità. Anzi, si sen­ te sempre sotto l’occhio di Dio, c offre con ciò una sorprendente te­ stimonianza della dipendenza del depresso nei confronti del suo Su­ per-io, mescolato all’io ideale: •Che è mai l’uomo che tu (Dio) ne fai tanto conto?»' *, •Lasciami perché mi rassereni un poco»n. Eppure Giobbe non attribuisce a Dio tutta la giusta potenza («Ecco, egli pas­ sa davanti a me e io non lo vedo»)”, c sarà alla fine necessario che Dio ricapitoli davanti al suo depresso tutta la Creazione, che affermi la sua posizione di Legislatore o di Super-io suscettibile di idealizzazione, perche Giobbe riprenda speranza. Il sofferente sarebbe allora forse un narcisista, un uomo troppo interessato a se stesso, attaccato al proprio valore e sul punto di prendersi per una immanenza della trascenden­ za? Ma, dopo averlo punito, lahvè infine lo gratifica e lo mette al di so­ pra dei suo detrattori, ai quali obietta: »Non avete detto di me la ve­ rità come il mio servo Giobbe»2'. Analogamente, nel cristiano Dostoevskij, la sofferenza - principa­ le indice di umanità - è il segno della dipendenza dell’uomo, nei con­ fronti di una Legge divina, nonché della sua irrimediabile differenza ri­ spetto a questa Legge. La simultaneità del legame e della colpa, della fedeltà e della trasgressione si ritrova anche nell’ordine etico, nel qua­ le l’uomo dostoevskiano è idiota per santità, rivelatore per criminalità. Questa logica di una necessaria interdipendenza tra legge e tra­ sgressione non può essere estranea al fatto che a scatenare la crisi epi­ lettica è assai spesso una forte contraddizione fra amore e odio, desi­ derio dell’altro e ripulsa di esso. Ci si può chiedere, d’altra parte, se la celebre ambivalenza degli eroi di Dostoevskij, che ha indotto Bachtin” a postulare un «dialogismo» alla base della poetica dostoevskiana, non sia un tentativo di rappresentare, attraverso il concatenamento dei di­ scorsi c i conflitti tra i personaggi, questa opposizione senza soluzio­ ne sintetica delle due forze (positiva e negativa) proprie della pulsione e del desiderio. Tuttavia, se si rompesse il legame simbolico, il nostro Giobbe di­ verrebbe Kirillov, un terrorista suicida. Merezkovskij” non ha del tut­ to torto quando vede nel grande scrittore il precursore della rivolu;1 " ' ” “ ”

Gb, Gb, Gb, Gb, Cfr. Cfr.

7,17. 10,21. 9,11. 12, 8. M. M. Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 1968. D. Merezkovskij, Profeta della rivoluzione russa, 1906, in russo.

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zione russa. Egli la teme, certo, la respinge e la stigmatizza, ma è lui che ne riconosce l’avvento strisciante nell’anima del suo uomo sofferente, pronto a tradire l’umiltà di Giobbe per l’esaltazione maniaca del rivo­ luzionario che si prende per Dio (tale è, secondo Dostoevskij, la fede socialista degli atei). Il narcisismo del depresso si rovescia nella mania del terrorismo ateo: Kirillov è l’uomo senza Dio che ha preso il posto di Dio. La sofferenza cessa perche si affermi la morte: la sofferenza era una diga contro il suicidio, c contro la morte? Suicidio e terrorismo Si terranno presenti almeno due soluzioni, entrambe fatali, della sofferenza dostoevskiana - velo ultimo del caos e della distruzione. Kirillov è persuaso che Dio non esista, ma aderendo all’istanza di­ vina, vuol issare la libertà umana all’altezza dell’assoluto attraverso l’atto negatore e libero per eccellenza che è per lui il suicidio. Dio non esiste - Io sono Dio - Io non esisto - Io mi uccido, sarebbe questa la lo­ gica paradossale di questa negazione di una paternità o divinità asso­ luta, comunque mantenuta perche me ne impadronisca. Raskol’nikov, invece, come in una difesa maniaca contro la dispe­ razione, fa convergere il suo odio non su di sé ma su un altro negato, denigrato. Attraverso il suo crimine gratuito, che consiste nell’uccidere una donna insignificante, egli rompe il contratto cristiano («Amerai il prossimo tuo come te stesso»). Egli nega il suo amore per l’oggetto originario («Poiché non amo mia madre, il mio prossimo è insignifi­ cante, cosa che mi permette di sopprimerlo senza problemi», sembra dire), e, a partire da questo implicito, si sente autorizzato a realizzare il suo odio contro un ambiente e una società sentiti come persecutori. Il senso metafisico di questi comportamenti è, come si sa, la nega­ zione nichilista del valore supremo che rivela anche un’incapacità di simbolizzare, pensare, assumere la sofferenza. Il nichilismo suscita in Dostoevskij la rivolta del credente contro l’annullamento trascendenta­ le. Lo psicoanalista rileverà come lo scrittore sia affascinato, in modo per lo meno ambiguo, tanto da certe difese maniache erette contro que­ sta sofferenza quanto dalla depressione squisita, tutte cose che egli pe­ raltro coltiva come doppi necessari e antinomie! della sua scrittura. Che questi bastioni siano abietti, è quanto l’abbandono della morale, la per­ dita del senso della vita, il terrorismo o la tortura, così frequenti nella nostra attualità, non cessano di ricordarci. Lo scrittore, per parte sua, ha scelto l’adesione all’ortodossia religiosa. Questo «oscurantismo», de­

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nunciato con tanta violenza da Freud, è, in fin dei conti, meno nefasto per la civiltà del nichilismo terrorista. Resta, con e al di là dell’ideologia, la scrittura: lotta dolorosa e permanente per comporre un’opera in per­ fetta aderenza alle voluttà innominabili della distruzione e del caos. La religione o la mania, figlia della paranoia, sono i soli contrappe­ si della disperazione? La creazione artistica le integra e le spende. Co­ sì le opere d’arte ci portano a stabilire dei rapporti meno distruttivi, più pacifici, con noi stessi e con gli altri. Una morte senza resurrezione. Il tempo apocalittico

Di fronte al Cristo morto di Holbein, Myskin c Ippolit nell’idiota (1869) dubitano della Resurrezione. La mone così naturale, così im­ placabile, di questo cadavere non sembra lasciare alcun posto alla re­ denzione: «Lo spettacolo di questo volto tumefatto, coperto di ferite sanguinanti è terribile», scrive Anna Grigorevna Dostoevskaja nei suoi ricordi", «così non avendo la forza di guardarlo più oltre, nella si­ tuazione in cui mi trovavo in quel momento, me ne andai in un'altra sala. Ma mio marito sembrava distrutto. Si può trovare nell'idiota un riflesso dell’impressione assai forte che il quadro fece su di lui. Quando ritornai dopo una ventina di minuti era ancora là allo stesso posto, in­ catenato. Sul suo volto commosso era impressa quell’espressione di ter­ rore che avevo già notato assai spesso all’inizio delle sue crisi di epiles­ sia. Lo presi dolcemente per un braccio, lo portai fuori della sala e lo fe­ ci sedere su una panca, aspettandomi da un momento all’altro la crisi che per fortuna non ebbe luogo. Poco a poco si calmò, ma uscendo dal museo non insistette per vedere una seconda volta il quadro»1'. Un tempo abolito pesa su questo quadro, mentre l’ineluttabilità del­ la morte cancella ogni promessa di progetto, di continuità o di resurre­ zione. È un tempo apocalittico, che Dostoevskij conosce bene: egli lo rievoca davanti alla spoglia mortale della sua prima moglie, Maria Dmi­ trievna («Non ci sarà più tempo») con riferimento all’Apocalisse (10,6) Cfr. A. G. Dostoevskaja, Dostoevskij, trad, frane., Gallimard, Paris 1930, p. 173; il le­ sto si riferisce al viaggio dei Dostoevskij in Svizzera. H Negli appunti stenografici del suo Diario in data 24/12 agosto 1867, la moglie dello scrittore annota: «Nel musco della città di Basilea, Fcdor Michailovic ha visto il quadro di Hans Holbein. Il quadro l'ha terribilmente impressionato ed egli mi ha detto che “un qua­ dro del genere può far perdere la fede"». Secondo L. P. Grossman, Dostoevskij avrebbe sa­ puto dcìi’csjstcnza del quadro sin dall’infanzia, sulla testimonianza delle Lettere del -viag­

giatore russo di Karamzin, per il quale non ci sarebbe «niente di divino» in questo Cristo di Holbein. 11 medesimo critico ritiene verosimile la lettura da parte di Dostoevskij di la mare an diable di George Sand, che insiste sul peso della sofferenza nell'opera di Holbein (Cfr. L. P. Grossman, E M. Dostoevskij, Molodaia gvardija, Moskva 1962, c Seminario su Dostoevskij, 1923, in russo).

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e il principe Myskin ne parla nei medesimi termini a Rogozin («In quel momento ebbi l’impressione di capire la singolare parola: Non ci sarà più tempo»), ma avendo presente, come Kirillov, una versione ottimi­ stica, alla Maometto, di questa sospensione temporale. Per Dostoevskij, sospendere il tempo significa sospendere la fede nel Cristo: «Quindi, tutto dipende da un punto, se si accetti o no Cristo come ideale definiti­ vo sulla terra, cioè tutto dipende dalla fede cristiana. Se tu credi in Cri­ sto, credi pure che vivrai in eterno» *. Eppure quale perdono, quale sal­ vezza di fronte al nulla irrimediabile di questa carne senza vita, di que­ sta solitudine assoluta nel quadro di Holbein? Lo scrittore è turbato, come davanti al cadavere della prima moglie nel 1864.

Che cos’è il tatto?

Il senso della melanconia? Solo una sofferenza abissale che non rie­ sce a significarsi e che, avendo perduto il senso, perde la vita. Questo senso è l’affetto insensato che l’analista andrà a cercare con un massi­ mo di empatia, al di là del rallentamento motorio e verbale dei suoi de­ pressi, nel tono della loro voce oppure ritagliando le loro parole devi­ talizzate, banalizzate, logore, parole dalle quali è scomparso ogni ap­ pello all’altro, per tentare precisamente di mettere insieme l’altro nelle sillabe, nei frammenti e nella loro ricomposizione2’. Un simile ascolto analitico presuppone del tatto. Che cos’è il tatto? Intender vero con il perdono. Perdono-, dare in più, scommettere su quello che c’è per rinnovare, per far ripartire il de­ presso (questo straniero ripiegato sulla sua ferita) e dargli la possibilità di un nuovo incontro. La gravità di questo perdono apparirà al meglio nella concezione sviluppata da Dostoevskij a proposito del senso del­ la melanconia: tra la sofferenza e il passaggio all’atto, l’attività estetica è un perdono. In tal modo viene a caratterizzarsi il cristianesimo orto­ dosso di Dostoevskij, che impregna da cima a fondo l’opera dell’arti­ sta. Ed è qui che si situa anche - più che nel luogo della sua complicità immaginaria con il criminale - il disagio che suscitano i suoi testi nel lettore moderno preso nel nichilismo. In effetti, ogni imprecazione moderna contro il cristianesimo quella di Nietzsche compresa - è un’imprecazione contro il perdono. “ Neisdannyi Dostoevskij, Zapisnye knizki i letradì, 1860-1881 gg., Nauka, Moskva 1971, voi. 83, p. 174; trad. it. Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881, Vallecchi, Firenze 1980, p. 95. ” Cfr. supra, cap. li, pp. 49-52.

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Eppure, questo «perdono», inteso come compiacimento nell’awilirsi, nel rammollirsi c nel rifiuto di esercitare il potere, è forse soltanto l’im­ magine che ci si fa di un cristianesimo decadente. E invece, la gravità del perdono - così come opera nella tradizione teologica e come viene riabilitata dall’esperienza estetica che si identifica con l’abiezione per traversarla, nominarla, spenderla - è inerente all’economia del rinasci­ mento psichico. Così appare almeno nella prospettiva benevola della pratica analitica. A partire da questo luogo, la «perversione del cristia­ nesimo» stigmatizzata da Nietzsche in Pascal2’, ma che vediamo di­ spiegarsi con forza anche nell’ambivalenza del perdono estetico in Do­ stoevskij, è un’accanita battaglia contro la paranoia ostile al perdono. Ne è un esempio la parabola di Raskol’nikov, che passa per la sua me­ lanconia, la sua negazione terrorista, e, infine, il suo riconoscimento che si rivela essere un rinascimento.

La morte: una inettitudine al perdono L’idea del perdono attraversa tutta l’opera di Dostoevskij. Umiliati e offesi (1861) ci fa incontrare, sin dalle prime pagine, un cadavere ambulante. Questo corpo, che somiglia a un morto ma che in realtà è in punto di morte, perseguita l’immaginario di Dostoevskij. Di fronte al quadro di Holbein, a Basilea, egli avrà probabilmente avuto l’impressione di ritrovare una vecchia conoscenza, un fantasma inti­ mo: «Mi stupiva pure la sua estrema magrezza. Quasi non aveva più carne, come se le ossa fossero rivestite soltanto di pelle. 1 suoi occhi grandi ma torbidi circondati da due cerchi lividi erano sempre fissi da­ vanti a sé, non guardavano mai lateralmente e sono persuaso che non vedevano nulla [...]. A che cosa pensa? - continuavo dentro di me. Che cosa ha nella mente? È capace ancora di pensare? Il suo viso è morto a tal punto, che non esprime più nulla»”. Questa è una descrizione non del quadro di Holbein ma di un per­ sonaggio enigmatico che entra per la prima volta sulla scena di Umi­ liati e offesi. Si tratta di un vecchio di nome Smith, nonno della picco­ la epilettica Nelly e padre di una giovane donna «romantica e un po’ pazza» cui egli non perdonerà mai la relazione con il principe P. A. Valkovskij, una relazione che segnerà la fine della fortuna di Smith, della figlia c anche della piccola Nelly, illegittima del principe. a «L'esempio più deprecabile è la rovina di Pascal, che credeva al corrompimento della sua ragione a causa del peccato originale, mentre era staro soltanto il suo cristianesimo a cor­ romperla» (UAnticrisio, in Opere cit., vi, 3, pp. 170-1). “ Umiliati e offesi^ in Romanzi e taccuini cit., t, p. 861.

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Smith ha la dignità rigida e mortifera di chi non perdona. Nel ro­ manzo, egli è il primo di una serie di personaggi profondamente umi­ liati e offesi che non possono perdonare e che, nell’ora della morte, maledicono il loro tiranno con un’intensità passionale dalla quale tra­ pela come, sulla soglia stessa della morte, sia il persecutore a esser de­ siderato. È il caso appunto della figlia di Smith e della stessa Nelly. A questa serie se ne opporrà un’altra: quella del narratore, che co­ me Dostoevskij è uno scrittore, e l’altra, della famiglia Ichmcncv, che, in circostanze analoghe a quelle degli Smith umiliati c offesi, finisce per perdonare non al cinico ma alla giovane vittima. (Ritorneremo su que­ sta differenza quando ci occuperemo della prescrizione del crimine, che non lo cancella ma permette al perdonato di «rifarsi una strada»). Soffermiamoci per il momento sull’impossibilità del perdono: Smith non perdona ne sua figlia né Valkovskij; Nelly perdona sua ma­ dre ma non Valkovskij, la madre non perdona né Valkovskij né il pa­ dre inacidito. Come in una danza macabra, l’umiliazione senza per­ dono guida la danza c porta questo «egoismo della sofferenza» a pro­ nunciare la condanna a morte di tutti in c attraverso il racconto. Un messaggio nascosto sembra venire alla luce: il condannato a morte è colui che non perdona. Il corpo decaduto nella vecchiaia, nella malat­ tia e nella solitudine, tutti i segni fisici della morte ineluttabile, la ma­ lattia e persino la tristezza denoterebbero in questo senso un’incapa­ cità di perdonare. Il lettore scopre, in seguito, che lo stesso Cristo morto sarebbe un Cristo immaginato come estraneo al perdono. Per essere così «realmente morto», quel Cristo non è stato perdonato e non perdonerà. Viceversa, la Resurrezione si presenta come la mani­ festazione suprema del perdono: riportando il Figlio alla vita, il Padre si riconcilia con Lui ma, più ancora, resuscitando, il Cristo significa ai suoi fedeli che Egli non li abbandona: «Vengo a voi», sembra dire, «e ciò vuol dire che vi perdono». Incredibile, incerto, miracoloso eppure così essenziale alla fede cri­ stiana come pure all’estetica c alla morale di Dostoevskij, il perdono è quasi una follia nc\\‘Idiota, un deus ex machina in Delitto e castigo. In effetti, a parte le crisi convulsive, il principe Myskin è «idiota» so­ lo perché è senza rancore. Ridicolizzato, insultato, schernito c addirit­ tura minacciato di morte da Rogozin, il principe perdona. La miseri­ cordia trova in lui una realizzazione psicologica letterale: per aver trop­ po sofferto, egli assume su di sé la miseria degli altri. Come se avesse in­ travisto la sofferenza soggiacente alle aggressioni, egli passa oltre, si ti­ ra in disparte c addirittura consola. Le scene di violenza arbitraria che 160

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si trova a subire e che Dostoevskij evoca con tutta la forza del tragico e del grottesco, lo fanno certo soffrire: ricordiamo la sua compassione per le disavventure sessuali di una giovane contadina svizzera, riprova­ ta dagli abitanti del suo villaggio, che grazie a lui i bambini impareran­ no ad amare: o la canzonatura infantile c affettuosamente irritata di Aglaja, da cui il principe non si lascia ingannare, dietro l’apparenza di una bonomia distratta; o gli assalti isterici di Nastasja Filippovna con­ tro questo nobile decaduto che sa bene esser il solo capace di capirla; e, per finire, la coltellata infettagli da Rogozin nell’oscuro corridoio di quell’albergo in cui Proust ha visto il genio di Dostoevskij manifestar­ si come inventore di nuovi spazi. Il principe è sconvolto da questi atti di violenza, il male gli fa male, l’orrore è ben lungi dall’essere dimenti­ cato e neutralizzato in lui, ma si riprende, e il suo benevolo disagio ma­ nifesta un’«intelligenza fondamentale», come dirà Aglaja: «perché an­ che se voi in realtà siete malato di mente (voi certo non vi arrabbierete, lo dico da un punto di vista superiore), in voi però l’intelligenza fonda­ mentale è migliore che in tutti loro: è anzi tale che loro nemmeno se la sognano, perché ci sono due intelligenze: una fondamentale e l’altra se­ condaria. E costi Vero che è così?»K. Questa intelligenza lo induce a pa­ cificare il suo aggressore e ad armonizzare il gruppo di cui appare esse­ re, quindi, non l’elemento minore, l’«estraneo» o il «reietto»’1, bensì il leader spirituale, discreto e insuperabile. L’oggetto del perdono

Qual è l’oggetto del perdono? Le offese, certo, qualsiasi ferita fisica o morale, e, in definitiva, la morte. La colpa sessuale abita gli Umiliati e offesi e accompagna numerosi personaggi femminili in Dostoevskij (Nastasja Filippovna, Grusen’ka, Natasa...), così come nelle perversio­ ni maschili (la violenza su minori da parte di Stavrogin, per esempio) essa serve a rappresentare uno dei motivi principali del perdono. Co­ munque il male assoluto rimane la morte e, quali che siano la voluttà della sofferenza o le ragioni che portano il suo eroe al limite del suici­ dio e del delitto, Dostoevskij condanna implacabilmente l’omicidio, cioè la morte che l’uomo è capace di dare a un altro uomo. Egli non sembra distinguere l’omicidio folle dall’omicidio come punizione mo­ rale inflitta dalla giustizia degli uomini. Se dovesse stabilire una distin­ zione tra i due, propenderebbe per il supplizio e il dolore che, erotiz­ zandolo, sembra «coltivare» e quindi umanizzare l’omicidio c la vioM l'idiota, in Romanzi c taccuini cit., Il, p. 526. " Itici., p. 520.

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lenza agli occhi dell’artista12. Egli non perdona, in compenso, la morte fredda, irrevocabile, la morte «pulita» data dalla ghigliottina, «il più crudele dei supplizi». «Chi ha mai detto che la natura umana è capa­ ce di sopportare una tal cosa senza impazzire?»". In effetti, per il con­ dannato alla ghigliottina, il perdono è impossibile. Il volto di un «con­ dannato un minuto prima del colpo di ghigliottina quando sta ancora in piedi sul patibolo, prima di stendersi sopra quell’asse»» ricorda al principe Myskin il quadro di Basilea: «Anche il Cristo ha parlato di questa tortura e di questo orrore»". Dostoevskij, anch’egli condannato a morte, fu graziato. Nella vi­ sione dostoevskiana del bello e del giusto, il perdono trae la sua im­ portanza da questa tragedia risolta all’ultimo momento? Non può dar­ si che il perdono, venendo dopo una morte già immaginata, già vissu­ ta per così dire, una morte che deve aver acceso una sensibilità già di per sé sovreccitata come quella di Dostoevskij, abbia potuto realmen­ te dare il cambio a questa morte, cancellandola c riconciliando il con­ dannato con la potenza condannante? Un grande slancio di riconcilia­ zione con il potere abbandonico, divenuto di nuovo ideale desiderabi­ le, è probabilmente necessario perche la vita ridata riprenda e si stabi­ lisca il contatto con gli altri così ritrovati’'1. Uno slancio tuttavia sotto ii quale permane spesso intatta l’angoscia rrielanconica del soggetto già morto una volta, benché miracolosamente resuscitato... Nell’immagi­ nario dello scrittore si attua così un’alternanza tra l’insuperabilità del­ la sofferenza e l’abbagliante sorpresa del perdono, che scandiscono con il loro eterno ritorno l’insieme dell’opera dostoevskiana. L’immaginario drammatico di Dostoevskij, i suoi personaggi lace­ rati suggeriscono soprattutto la difficoltà, anzi l’impossibilità di que­ sto amore-perdono. L’espressione più intensa di questo turbamento, suscitato dalla necessità e dall’impossibilità dell’amore-perdono, si ha negli appunti dello scrittore relativi alla morte della prima moglie. MaQuesta crotizzazione della sofferenza * parallela a una ripulsa della pena di morte * ri­ corda le analoghe posizioni assunte dal marchese de Sade. L'accostamento tra i due scrittori è stato avanzato con intenti screditanti * già dai contemporanci di Dostoevskij. Così, in una lettera a Saltykov-Scedrin datata 24 febbraio 1882, Turgenev nota che Dostoevskij, come Sa­ de, «descrive nei suoi romanzi i piaceri dei sensuali» e s'indigna perché «i vescovi russi han­ no celebrato delle messe c letto lusinghieri elogi su questo superuomo, sul Sade di casa no­ stra! In che strani tempi viviamo!». ” /.’idiota, in Romanzi e taccuini cit. * II, p. 42. H !bid.,p. 91. !bid., p. 42. * A questo proposito andrà tenuto presente il legame filiale di Dostoevskij con il pro­ curatore generale Constantin Pobedonostsev, una figura dispotica che costituisce la perfetta incarnazione dell’oscurantismo zarista. Cfr. T. Stoyanov, // Genio e il suo tutore, Sofia 1978 (in lingua bulgara).

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ria Dmitrevna: «Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamen­ to di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità im­ paccia. L’io è di ostacolo»”. L’artificio del perdono e della resurrezione, che rimane comunque tassativo per lo scrittore, si impone in Delitto e castigo (1866).

Dalla tristezza al delitto Raskol’nikov si descrive come un personaggio triste: «Senti Razumichin [...] ho dato a loro tutto il mio denaro [...] mi sento così triste, così triste! Come una donna... davvero!»' *, e sua madre lo considera un melanconico: «Sai, Dunja, vi guardavo tutti e due; sei proprio Usuo ritratto, e non tanto fisicamente, quanto spiritualmente: tutti e due avete un carattere malinconico, triste e impulsivo, siete tutti e due alte­ ri, tutti e due generosi»". Come si trasforma questa tristezza in delitto? Dostoevskij ausculta qui un aspetto essenziale della dinamica depressiva: l’oscillazione tra l’io e l’altro, la proiezione sull’io dell’odio contro l’altro e, viceversa, il ri­ volgimento contro l’altro della svalutazione dell’io. Cosa viene prima: M Neisdannyi Dostoevsky (cit. pp. 173-4, 16 aprile 1864; trad. it. cit., p. 93. E la riflessio­ ne di Dostoevskij così prosegue: «Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale eterno sin dairinizio dei tempi, quell’ideale al quale tende, c deve tendere per legge di natura, l’uo­ mo. Invece, dopo la comparsa di Cristo come ideale dell'uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che lo sviluppo supremo, l’evoluzione ultima della personalità deve appunto arrivare (...) a far sì che l’uomo trovi, riconosca e con tutta la forza della sua natura si con­ vinca che l’uso più elevato che egli può fare della propria personalità, della pienezza di svi­ luppo del proprio io, consiste quasi ncll’annientare l’io stesso, nel consegnarlo completa­ mente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E questa è la massima felicità. In tal modo, la legge dell’io si fonde con la legge dell’umanesimo, e nella fusione entrambi gli elementi, l’io e il tulio (...) reciprocamente annullati l’uno in favore dell’altro, nello stesso tempo raggiungono anche lo scopo supremo del proprio sviluppo individuale, ciascuno per conto proprio. «Questo appunto è il paradiso di Cristo (...). «Ma raggiungere questa meta altissima, secondo il mio parere, è del tutto insensato se al momento in cui la si raggiunge tutto si spegne e svanisce, ossia se l’uomo non continua a vivere anche dopo averla raggiun­ ta. Di conseguenza, esiste la vita futura, il paradiso». «Quale essa sia, dove, su quale pianeta, in quale centro - forse nel centro finale, ossia nel senso della sintesi universale, ossia Dio? noi non lo sappiamo. Conosciamo una sola definizione della natura avvenire del futuro esse­ re, che a malapena potrà aspirare a chiamarsi uomo, quindi, non siamo neppure in grado di concepire che cosa saremo». Dostoevskij prosegue poi affermando che questa sintesi utopisti­ ca in cui si annullano i limiti dell’io in seno a una fusione amorosa con gli altri si realizzereb­ be attraverso una sospensione della sessualità generatrice di tensioni c conflitti: «Là esiste l’es­ sere, in pienezza di sintesi, che gode eternamente ed è compiuto, e per il quale, dunque, non esisterà più il "tempo”». L’impossibilità di sacrificare l’io per amore di un altro essere («io e Masa») produce il sentimento di sofferenza c la condizione di peccato: «Quindi l’uomo deve sentire costantemente una sofferenza pari al godimento paracfisiaco dell’adcmpimcnro della Legge, cioè a) sacrificio» (trad. it. eie, pp. 94-6.) w Dostoevskij, Delitto e castigo, in Romanzi e taccuini cit., I, p. 225. " Ibid., p. 275.

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l’odio o la svalutazione? L’apologià dostoevskiana della sofferenza fa supporre che, come abbiamo visto, Dostoevskij privilegi l’autodeprezzamento, l’umikazione di se, addirittura una sorta di masochismo sotto l’occhio severo di un Super-io precoce c tirannico. In questa prospetti­ va, il delitto è una reazione di difesa contro la depressione: l’omicidio dell’altro protegge dal suicidio. La «teoria» e l’atto criminale di Raskol’nikov dimostrano perfettamente questa logica. Lo studente tetro che si abbandona a una vita di straccione abbozza, come si ricorderà, una «distinzione tra uomini comuni e non comuni»: i primi servono a procreare, i secondi hanno «il dono e la capacità di dire nel loro am­ biente una parola nuova». Gli uomini di questa seconda categoria «tra­ sgrediscono tutti la legge, sono dei sovvertitori, o inclini ad esserlo, in rapporto alle loro capacità» * 0. Anche Raskol’nikov appartiene a questa categoria? Sarà questa la fatale domanda alla quale lo studente melanco­ nico tenterà di rispondere osando o non osando il passaggio all’atto. L’atto omicida fa uscire il depresso dalla passività e dall’abbatti­ mento, confrontandolo con il solo oggetto desiderabile, che è per lui l’interdetto incarnato dalla legge e dal padrone: «Fare come Napoleo­ ne»”. Il correlato di questa legge tirannica e desiderabile che si tratta di sfidare è solo una cosa insignificante, un pidocchio. Chi è il pidocchio? Forse la vittima dell’omicidio, o lo stesso studente melanconico, prov­ visoriamente esaltato in omicida, ma che sa di essere profondamente nullo e abominevole? La confusione persiste, e Dostoevskij mette co­ sì genialmente in evidenza l’identificazione del depresso con l’oggetto odiato: «La •vecchia non è stata che una malattia... volevo scavalcare subito l’ostacolo..... io non ho ucciso una persona, ho ucciso un princi­ * pio» 1. «C’è una sola cosa da fare, una sola: basta osare! [...] prendere il tutto bellamente per la coda e scaraventare tutto al diavolo! Io... io ho voluto osare, e ho ucciso... [...] Ci sono andato con molto cervello, ed è proprio questo che mi ha rovinato! [...] Oppure che, se mi pongo la domanda: “L'uomo è davvero un pidocchio, vuol dire che l’uomo per me non è più un pidocchio, ma è un pidocchio per quelli ai quali non viene neppure in mente di domandarselo e che vanno dritti senza farsi nessuna domanda... [...] ho voluto uccidere senza casistica. Sonja, uc­ cidere per me stesso, per me solo! f...] avevo bisogno di sapere, e di sa­ perlo subito, se io ero un pidocchio come tutti o un uomo! Sarei stalo ca­ pace di scavalcare l’ostacolo o no!»". E infine: «Ho ucciso me stesso, *5 Dostoe zskij, Delitto c castigo, in Romanzi e taccuini Ibid., p. 312. Ibid., p. 312. *’ Ibid., pp. 468-9.

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cìl,

p. 297.

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non quella vecchia!»", «io sono un pidocchio e niente più [...] perché io stesso, forse, sono ancora più immondo e più schifoso del pidocchio che ho ucciso» *. L’amica Sonja fa la stessa constatazione: «No, in tutto il mondo non c'è nessuno più infelice di te!» *. Madre e sorella: madre o sorella

Fra i due poli reversibili della svalutazione e dell’odio, di sé e dell’al­ tro, il passaggio all’atto afferma non un soggetto ma una posizione pa­ ranoica che rinnega, insieme alla legge, la sofferenza. Per Dostoevskij, a questo movimento catastrofico si conoscono due antidoti: il ricorso al­ la sofferenza e al perdono. Questo movimento si attua in parallelo e, forse, grazie a una rivelazione sotterranea, oscura, difficilmente afferra­ bile nel concatenamento della trama dostoevskiana anche se percepita con una lucidità sonnambolica da parte dell’artista e... del lettore. Le tracce di questa «malattia», cosa insignificante o «pidocchio», convergono verso la madre e la sorella dello studente triste. Amate e odiate, attraenti e repulsive, queste donne si riaccostano all’omicida nei momenti cruciali della sua azione c della sua riflessione e, come dei pa­ rafulmini, attirano su di se la passione ambigua, sempre che non ne sia­ no l’origine. Così: «Tutt'e due si slanciarono verso di lui Ma lui resta­ va li come morto: una luce improvvisa e intollerabile lo aveva come fulminato. E non alzava neppure le mani per abbracciarle: non poteva. La mamma e la sorella lo stringevano fra le braccia, lo badavano, ri­ devano, piangevano... Fece un passo avanti barcollò e stramazzò sul pavimento, svenuto»". «Mia madre, mia sorella quanto le amavo! Co­ me mai ora le odio! Sì, le odio fisicamente, non posso sopportare la loro vidnanza [...] Ehm! Lei (sua madre) dev’essere proprio uguale a me [...]. Oh, quanto la odio ora, quella vecchia! Mi sembra che l’ammaz­ zerei un'altra volta, se rivivesse» *. In queste ultime parole che pro­ nuncia nel suo delirio, Raskol’nikov svela chiaramente la confusione tra il se stesso avvilito, sua madre, la vecchia assassinata... Perche que­ sta confusione? L’episodio Svidrigajlov-Dunja chiarisce un poco il mistero: l’uomo «corrotto» che ha riconosciuto in Raskol’nikov l’assassino della vec­ chia, desidera sua sorella Dunja. Il triste Raskol’nikov è di nuovo pronto a uccidere, ma questa volta per difendere la sorella. Uccidere, “ ° ** ‘‘ “

/bid., /bid., Ibid., Ibid., Ibid.,

p. 470. pp. 312-3. p. 461. p. 226. p. 313.

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trasgredire per proteggere e tenere tutto per se il suo segreto, il suo im­ possibile amore incestuoso? Raskol’nikov lo sa quasi: «Oh; se fossi so­ lo e nessuno mi amasse, e se io stesso non avessi mai amato nessuno! Tutto questo non accadrebbe!»”. La terza via

11 perdono appare come la sola via d’uscita, la terza via fra l’abbat­ timento e l’omicidio. Esso sopravviene sull’onda dei chiarimenti ero­ tici e appare non come un movimento di idealizzazione che rimuove la passione sessuale ma come la sua traversata. L’angelo di questo pa­ radiso in cui si risolve l’apocalisse si chiama Sonja, prostituta per com­ passione e per desiderio di aiutare la sua famiglia miserabile ma sem­ pre prostituta. Quando segue Raskol’nikov al bagno penale in uno slancio di umiltà e di abnegazione, i forzati la chiamano «la nostra mammina, buona e compassionevole»K. La riconciliazione con una madre piena d’amore ma infedele e anzi prostituta, al di là e malgrado le sue «colpe», appare così come una condizione della riconciliazione con se stessi. Il «sé» diviene infine accettabile perché posto ormai fuo­ ri della giurisdizione tirannica del padrone. La madre perdonata e per­ donante diviene una sorella ideale c sostituisce... Napoleone. L’eroe umiliato e in perpetua guerra può a questo punto pacificarsi. Eccoci al­ la scena bucolica della fine: una giornata chiara e dolce, una terra inon­ data di sole, il tempo si è fermato. «Pareva che perfino il tempo, laggiù, si fosse fermalo, come se non fossero ancora passati i secoli di A bramo e dei suoi armenti»". E anche se restano da scontare sette anni di lavori forzati, la sofferenza è ormai legata alla felicità: «Ma egli (Raskol’nikov) era rinato e lo sapeva, lo sentiva con tutto il suo essere rinnovato, e Sonja - Sonja non viveva che della vita di lui!»". Questa soluzione può sembrare posticcia solo a condizione di ignorare l’importanza fondamentale dell’idealizzazione nell’attività sublimatoria della scrittura. Attraverso Raskol’nikov e altri demoni in­ terposti, non è forse la sua stessa drammaturgia insostenibile che lo scrittore racconta? L’immaginario è quello strano luogo in cui il sog­ getto rischia la sua identità, si perde sino a sfiorare le soglie del male, del delitto o dell’asimbolia, per traversarle e recarne testimonianza... da un altrove. Spazio sdoppiato, esso si regge tutto sull’essere solida" “ v M

Dostoevskij, Delitto c castigo, in Romanzi c taccuini cit., p. 579. Ibid., p. 606. Ibid., p. 609. Ibid., p. 610.

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mente aggrappato all’ideale che autorizza la violenza distruttiva a dir­ si piuttosto che a farsi. È la sublimazione, c la sublimazione ha biso­ gno del perdono.

Atemporalità del perdono

Il perdono è anistorico. Esso spezza il concatenamento degli effet­ ti e delle cause, dei castighi e dei delitti, sospendendo il tempo degli at­ ti. In questa intemporalità si apre uno spazio strano che non è quello dell’inconscio selvaggio, desiderante e omicida, bensì la sua contro­ partita: la sua sublimazione in piena conoscenza di causa, un’armonia amorosa che non ignora le sue violenze ma le accoglie, da un’altra par­ te. Messi di fronte a questa sospensione del tempo e degli atti nell’a­ temporalità del perdono, noi comprendiamo coloro per i quali Dio so­ lo può perdonare”. Nel cristianesimo invece la sospensione, certo di­ vina, dei delitti e dei castighi è innanzitutto opera degli uomini”. Insistiamo su questa atemporalità del perdono, che è qualcosa di diverso dall’Età dell’oro delle mitologie antiche. Quando Dostoevskij considera questa Età dell’oro, fa annunciare la sua fantasticheria da Stavrogin (Z Demoni), da Versilov {L’adolescente) e nel Sogno di un uo­ mo ridicolo (Diario dello scrittore, 1877). Come supporto Dostoevskij prende poi Aci e Galatea di Claude Lorrain. In perfetto contrappunto rispetto al Cristo morto di Holbein que­ sta rappresentazione dell’idillio tra il giovane pastore Aci c la nereide Galatea, sotto l’occhio corrucciato ma momentaneamente ammansito di Polifemo, l’amante ufficiale, raffigura l’Età dell’oro dell’incesto, il paradiso pre-edipico narcisistico. L’Età dell’oro è fuori del tempo perché si sottrae al desiderio di mettere a morte il padre, immergen­ dosi nel fantasma dell’onnipotenza del figlio nel cuore di un’«Arcadia narcisistica»”. Ecco come la vive Stavrogin: «Nella galleria di Dresda esiste un quadro di Claude Lorrain, catalogato, mi pare, col titolo di “Ad e Galatea” io lo chiamavo invece «Il secolo d'oro» senza sapere perché [...] Quel quadro appunto mi apparve in sogno, ma non come pittura, bensì come un episodio di vita». «Siamo in un angolo dell’ardpelago greco: glauche onde carezzevo­ li isole e rocce, una spiaggia fiorita, un magico panorama in lontanan” Come nota I lannah Arendt, «il principio romano di risparmiare gli sconfitti (parcere subjectis) (è) una saggezza totalmente sconosciuta ai Greci», in Condizione delTuomo mo­ derno, trad, frane. Calmann-I.évy, Paris 1961, p. 269. Cfr. fra le altre testimonianze Mt 6, 14-15: «Se perdonate agli uomini le loro mancan­ ze, anche il padre che c nei cieli vi perdonerà; ma se non perdonate gli uomini, il padre che è nei cicli non vi perdonerà le vostre mancanze». '* Secondo l’espressione di A. Besan^on, Le Tsarevitch immolò, Paris 1967, p. 214.

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7.a, rinvilo del sole morente; le parole non riescono ad esprimere un ta­ le incanto. Qui l'umanità europea ricorda la sua culla, le prime scene della mitologia, il suo paradiso terrestre... Qui abitarono uomini idea­ li. Si alzavano e si addormentavano felici e innocenti, boschi risonava­ no delle loro gaie canzoni, la piena delle loro forze intatte si spandeva nell’amore e nella ingenua letizia. Il sole inondava di raggi queste iso­ le e il mare, esultando neU’illuminare quelle belle creature. Magnifico sogno, alto errore! Il sogno più inverosimile di quanti mai siano stati, al quale tutta l’umanità, per tutta la vita, dava tutte le sue forze: per il quale sacrificava tutto; per il quale i suoi profeti morivano sulle croci e venivano immolali; sogno senza il quale ipopoli si rifiuterebbero di vi­ vere e non potrebbero neanche morire [.. . J ma mi pareva di vedere an­ cora le rocce, il mare e i raggi obliqui del sole morente, quando mi sve­ gliai e apersi gli occhi, che per la prima volta in vita mia sentii umidi di lacrime[...]. Ma a un tratto, come in mezzo a una luce abbagliante, vi­ di un minuscolo cagnolino rosso. Lo ricordai quale l’avevo visto stilla foglia del geranio, quando similmente entravano obliqui nella stanza i raggi del sole morente. Si conficcò in me come una lama; [...] Ecco quello che accadde allora... »* ’. Dostoevskij, I demoni, in Romanzi e taccuini cit., Ili, pp. 787-8.

Claude I.oirain, Paesaggio con Aci e Galatea, Gcmiildegalcric, Dresda.

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Il sogno dell’Età dell’oro è in realtà una negazione della colpevo­ lezza. In effetti, immediatamente dopo il quadro di Claude Lorrain, Stavrogin vede in sogno la bestiolina del rimorso, il ragno, che lo trat­ tiene nella tela di questa coscienza infelice di essere sottoposti alla ti­ rannia di una legge repressiva e vendicatrice, alla quale egli appunto aveva reagito con il suo delitto. Il regno della consapevolezza introdu­ ce l’immagine della piccola Matrioska violentata e suicida. Fra Ad e Galatea c il ragno, fra la fuga nella regressione e il delitto che in defi­ nitiva è colpevolizzante, Stavrogin è come diviso. Non ha accesso alla mediazione dell’amore, c estraneo all’universo del perdono. Naturalmente, è Dostoevskij che si cela dietro la maschera di Sta­ vrogin, di Vcrsilov o dcH’Uomo ridicolo che sogna l’Età dell’oro. Ma egli non indossa più alcuna maschera quando descrive la scena del per­ dono tra Raskol’nikov c Sonja: in quanto artista e cristiano è lui, il nar­ ratore, che assume l’artificio di quella strana figura che è l’epilogo-perdono di Delitto e castigo. La scena tra Raskol’nikov c Sonja, pur ri­ cordando quella di Ad e Galatea per la gioia bucolica e la luminosità paradisiaca da cui è pervasa, non si riferisce all’opera di Claude Lor­ rain né all’Età dell’oro. Una strana «Età dell’oro», che si situa nel cuo­ re stesso dell’inferno, nel bagno penale, accanto alla baracca del forza­ to. Il perdono di Sonja evoca la regressione narcisistica dell’amante in­ cestuoso, ma non si confonde con essa: Raskol’nikov traversa la cesu­ ra della felicità d’amore immergendosi nella lettura della storia di Laz­ zaro secondo il Vangelo che gli presta Sonja. Il tempo del perdono non è né quello dell’inseguimento né quello dell’antro mitologico «...vivo pendentia saxo/ antra, quibus nec sol medio sentitur in aestu/ nec sentitur hiems»”. È piuttosto quello della sospensione del delitto, il tempo della sua prescrizione. Una prescri­ zione che conosce il delitto e non lo dimentica ma, senza rimaner cie­ ca di fronte al suo orrore, scommette su una nuova partenza, da zero, su un rinnovamento della persona5’. «Raskol’nikov usd dalla baracca e andò proprio sulla riva, sedette sulle travi accatastate vidno alla ba­ racca e si mise a guardare il fiume, ampio e deserto. La sponda era alta e si vedeva un panorama molto vasto. Dalla riva opposta arrivava, de­ bolissima, una canzone. Laggiù, nella steppa sconfinata e inondata di sole, si scorgevano due puntini neri: le tende dei nomadi Laggiù c’era *’ Ovidio, Metamorfosi, Aci c Galatea: «caverne aperte nella viva roccia, che sono gran parte della montagna, ove né si sente a mezza estate il sole, ne si sente l’inverno». M Hannah Arendt ricorda il senso in Luca dei termini greci che stanno per perdono: «aphienai, metanoien: rinviare, liberare, cambiar parere, ritornare, rifare la strada»; si veda Id., Condizione deU’uo>no moderno cit., p. 170.

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la libertà e c’erano altri uomini completamente diversi da questi, pare­ va che perfino il tempo, laggiù, si fosse fermato, come se non fossero an­ cora passati i secoli di Abramo e dei suoi armenti. Raskol’nikov guar­ dava immobile con gli occhi fissi; la sua mente fantasticava, si perdeva nella contemplazione; non pensava a nulla ma era inquieto, tormenta­ to da una strana angoscia. A un tratto, vide accanto a sé Sonja. [...] Gli sorrise con affabilità e con gioia, ma, al solito, gli tese la mano timidamente. [...] Non sapeva nemmeno lui che cosa gli fosse accaduto, ma a un tratto aveva sentito come una forza che lo afferrava e lo spingeva in terra, ai piedi di Sonja. Piangeva e le abbracciava le ginocchia. In un primo momento Sonja eb­ be una gran paura e il suo viso sifece smorto. Balzò in piedi e lo guardò, tremando. Ma subito, in quell’attimo stesso, capì lutto. Nei suoi occhi brillò una felicità immensa; capì - e non ebbe più nessun dubbio - che egli l'amava l’amava immensamente, e che alla fine era arrivato quel momento... »”. Questo perdono dostoevskiano sembra dire: Con il mio amore, io vi sottraggo per un attimo alla storia, vi pren­ do per bambini, il che significa che riconosco i moventi inconsci del vo­ stro delitto e vi permetto di trasformarvi. Per inscriversi in una nuova storia, che non sia l’eterno ritorno della pulsione della morte nel ciclo delitto/castigo, l’inconscio deve passare attraverso l’amore del perdono, trasferirsi sull’amore del perdono. Le risorse del narcisismo e dell’idea­ lizzazione lasciano il loro marchio sull’inconscio e lo rimodellano. Per­ ché l’inconscio non è strutturato come un linguaggio, ma come tutti i marchi dell’Altro, compresi i più arcaici, soprattutto quelli, i «semioti­ ci», fatti di autosensualità preverbali che l’esperienza narcisistica o amorosa mi restituisce. Il perdono rinnova l’inconscio perché inscrive il diritto alla regressione narcisistica nella Storia c nella Parola. Le quali ne risultano modificate. Perché la Storia e la Parola non so­ no né fuga lineare in avanti né eterno ritorno della ripetizione mortevendetta, ma spirale che segate la parabola della pulsione mortale e quella dell’amore-rinascita. Sospendendo l’inseguimento storico grazie all’amore, il perdono scopre le potenzialità rigeneranti proprie della gratificazione narcisi­ stica e dell’idealizzazione interne al legame amoroso. Esso tiene quin­ di conto simultaneamente dei due registri della soggettività: del regi­ stro inconscio che ferma il tempo attraverso il desiderio e la morte, e del registro dell’amore che sospende l’antico inconscio e l’antica storia av* Dostoevskij, Delitto e castigo, in Romanzi c taccuini cit., I, pp. 608>9.

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viando la ricostruzione della personalità in una nuova relazione per un altro. Il mio inconscio è reinscrivibile al di là del dono che qualcun al­ tro mi fa, quello di non giudicare i miei atti. 11 perdono non lava gli atti. Leva sotto gli atti l’inconscio c gli fa in­ contrare un altro innamorato: un altro che non giudica ma che ascolta la mia verità nella disponibilità dell’amore, c proprio per questo per­ mette di rinascere. Il perdono è la fase luminosa dell’oscura atempora­ lità inconscia: la fase in cui qucst’ultima cambia legge e adotta l’attacca­ mento all’amore come un principio di rinnovamento dell’altro e di sé. Il perdono estetico

Si coglie la gravità di un simile perdono con e attraverso l’inaccet­ tabile orrore. Questa gravità è percettibile nell’ascolto analitico che non giudica ne calcola ma tenta di sciogliere e di ricomporre. La sua temporalità a spirale si realizza nel tempo della scrittura. È perché so­ no separato dal mio inconscio da un nuovo transfert su un nuovo al­ tro o su un nuovo ideale che io sono capace di scrivere la drammatur­ gia della mia violenza e della mia disperazione pur indimenticabili. Il tempo di questa separazione c di questo ricominciamento soggiacente all’atto stesso di scrittura non appare necessariamente nei temi narra­ tivi che possono rivelare solo l’inferno dell’inconscio. Esso può mani­ festarsi anche sotto l’artificio di un epilogo, come quello di Delitto e castigo, che sospende un’avventura romanzesca prima di farla rinasce­ re attraverso un nuovo romanzo. Il delitto non dimenticato ma signi­ ficato attraverso il perdono, l’orrore scritto, è la condizione della bel­ lezza. Non si ha bellezza al di fuori del perdono che si ricorda dell’a­ biezione c la filtra attraverso i segni destabilizzati, musicalizzati, riscnsualizzati, del discorso amoroso. Il perdono è estetico c i discorsi (le re­ ligioni, le filosofie, le ideologie) che aderiscono alla dinamica del per­ dono precondizionano lo sbocciare dell’estetica nel loro ambito. Questo perdono comporta già in partenza una volontà, un postula­ to o uno schema: il senso esiste. Non si tratta necessariamente di un ri­ fiuto del non senso o di un’esaltazione maniaca contro la disperazione (anche se, in numerosi casi, questo movimento può essere preponde­ rante). Quel gesto di affermazione e di inscrizione del senso che è il per­ dono racchiude in sé, quasi in contropartita, l’erosione del senso, la me­ lanconia e l’abiezione. Comprendendole le sposta, assorbendole le tra­ sforma e le lega per qualcun altro. «C’è un senso»: gesto eminentemen­ te transferenziale che fa esistere un terzo per c attraverso un altro. Il perdono si manifesta innanzitutto come l’instaurazione di una forma. 171

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Una instaurazione che ha l’effetto di una attuazione, di un fare, di una poiesis. Messa in forma delle relazioni tra gli individui umiliati e offesi: armonia del gruppo. Messa in forma dei segni: armonia dell’opera, sen­ za esegesi, senza spiegazione, senza comprensione. Tecnica c arte. L’a­ spetto «primario» di una simile azione chiarisce perché essa abbia la ca­ pacità di cogliere, al di qua delle parole e delle intelligenze, le emozioni e i corpi straziati. Eppure questa economia non ha nulla di primitivo. La possibilità logica di Aufhebung che essa implica (non senso e senso, soprassalto positivo che integra il suo niente possibile) e legata a un so­ lido agganciamento del soggetto all’ideale oblativo. Colui che è nella sfera del perdono - che lo dà e lo accetta - è capace di identificarsi con un padre amante, padre immaginario, con il quale, di conseguenza, è pronto a riconciliarsi in vista di una nuova legge simbolica. Il rifiuto è parte integrante di questa operazione di Aufhebung o di riconciliazione identificatoria. Esso procura un piacere perverso, ma­ sochistico, nella traversata della sofferenza verso quell’affermazione di nuovi legami che è data dal perdono come dall’opera. Tuttavia, con­ trariamente al rifiuto della negazione che annulla il significante e reg­ ge la parola cava del melanconico”5, un altro processo entra qui in gio­ co, per assicurare la vita immaginaria. Si tratta del perdono essenziale alla sublimazione, che porta il sog­ getto a un’identificazione completa (reale, immaginaria e simbolica) con l’istanza stessa dell’ideale6'. È attraverso il miracoloso artificio di questa identificazione sempre instabile, incompiuta, ma costantemen­ te tripla (reale, immaginaria e simbolica) che il corpo sofferente di co­ lui che perdona - come dell’artista - subisce una mutazione: una «tran­ sustanziazione», dirà Joyce. Essa gli permette di vivere una seconda vi­ ta, una vita di forma e di senso, un po’ esaltata o artificiale agli occhi di coloro che ne restano fuori ma comunque la sola condizione di so­ pravvivenza per il soggetto.

Oriente e Occidente: "Per Hltum» o «Filioque»

La fonte più chiara della nozione di perdono che il cristianesimo svi­ lupperà per secoli risale, nei Vangeli, a Paolo" e Luca". Come tutti i principi fondamentali della cristianità essa sarà sviluppata in sant’AgoCfr. supra, cap. Il, pp. 47-52. *' Cfr., sull’identilicazione, il nostro Hisloires d’amour cit. v Ef. 4,32: «Siate invece benigni c compassionevoli gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio in Cristo ha perdonato a voi». u «In grazia della tenera misericordia del nostro Dio in virtù della quale il Sole ci visi­ terà spuntando dall’alto» (Le, 1,78).

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stino, ma è in san Giovanni Damasceno (nel secolo Vili) che si troverà un’ipostasi della «benevolenza del padre» (eudoxia), della «tenera mise­ ricordia» (eusplanchna) e della «condiscendenza» (il Figlio si abbassa si­ no a noi) (synkatabasis). A ritroso, queste nozioni possono essere inter­ pretate come anticipazioni della singolarità del cristianesimo ortodosso, sino allo scisma nato dalla contrapposizione Per Filium/Filioque. Un teologo sembra aver profondamente determinato la fede orto­ dossa che si esprime con grande forza in Dostoevskij e dà all’esperien­ za interiore propria dei suoi romanzi quell’intensità emozionale, quel pathos mistico che sono apparsi così sorprendenti in Occidente. Si tratta di san Simeone il Nuovo Teologo (999-1022)". Il racconto della conversione di questo agrammatos al cristianesimo è di uno stile che è stato da alcuni avvicinato a quello paolino: «Sempre piangendo, io an­ dai in cerca di le, Sconosciuto, dimenticavo tutto... Allora tu apparisti invisibile, inafferrabile... Mi sembra, o Signore, che tu, immobile, ti muovessi, tu immutabile, che tu cambiassi, tu senza volto, tu ne assu­ mevi uno... Tu risplendevi oltre misura e sembravi apparirmi tutto in­ tero, in tutto... »* ’. San Simeone comprende la Trinità come una fusio­ ne delle differenze che sono le tre persone c l’enuncia intensamente at­ traverso la metafora della luce". Luce e ipostasi, unità e apparizioni: è questa la logica della Trinità bizantina6'. Essa trova immediatamente, in Simeone, il suo equivalen­ te antropologico: «Poiché è impossibile che esista un uomo con paro­ la o spirito senz’anima, così è impossibile pensare il Figlio con il Padre senza lo Spirito Santo [...] Perché il tuo stesso spirito, al pari della tua anima, è nella tua intelligenza, e tutta la tua intelligenza è in tutto il tuo verbo, e tutto il tuo verbo è in tutto il tuo spirito, senza separazione e senza confusione. È l’immagine di Dio in noi»“. Su questa via, il cre­ dente si deifica fondendosi con il Figlio e con lo Spirito: «Io ti ringraw Cfr. Opere, in lìngua russa, Mosca 1890 e Sources chrétiennes, 51. M Cit. da O. Clement, L’Essor di< christianisme orientai, Puf, Paris 1964, pp. 25-6. “ «La luce Dio, la luce Tiglio c la luce Spirito Santo - queste tre luci sono una sola c me­ desima luce eterna, indivisibile, senza confusione, increata, finita, incommensurabile, invisibi­ le, nella misura in cui è fonte di ogni luce» (Sermoni, 57, in Opere cit., t. il, p. 46); «Non c’è dif­ ferenza fra Dio che abita la luce e la luce stessa che è la sua dimora; come non c’è differenza fra la luce di Dio e Dio. Ma sono una sola e medesima cosa, la dimora c l’abitante, la luce e Dio» (Sermoni, 59, p. 72); «Dio è la luce, luce infinita, e la luce di Dio si rivela a noi attraverso la sua natura indistintamente inseparabile in ipostasi (volti, facce)... Il Padre è luce, il Figlio è luce, lo Spirilo Santo è luce, e tutti e tre sono una sola luce semplice, non complicata, della medesima essenza, del medesimo valore, della medesima gloria» (Sermoni, 62, p. 105). «Perché la Trinità e un’unità in tre principi e questa unità si cniania una trinità in ipo­ stasi (volti, facce)... c nessuna di queste ipostasi è esistita un solo istante prima dell’altra... le tre facce sono senza origine e coctemc c coessenziali» (Sermoni, 60, p. 80). *■* Sermoni, 61, p. 95.

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zio perché senza confusione, senza cambiamento, tu ti sei fatto un so­ lo Spirito con me, benché tu sia Dio, al di sopra di tutto, e tu sia dive­ nuto per me tutto in rutto»6’. Comprendiamo così quale sia l’«originalità dell’ortodossia». Essa porterà, attraverso varie controversie istituzionali e politiche, allo scisma prodottosi ncll’XI secolo e reso definitivo con la presa di Costantinopoli da parte dei Latini nel 1204. Sul piano propriamente teologico, è Simeone, più che Fozio, a formulare la dottrina orientale Per Filium opposta a quella Filioque dei Latini. Insistendo sullo spirito, egli afferma l’identità della vita nello Spirito e della vita in Cristo, se­ condo una grandiosa pneumatologia che ha nel Padre la sua origine. Pure, una simile insistenza sul Padre non è soltanto un principio di au­ torità o una causa meccanica semplice: nel Padre, lo Spirito perde la sua immanenza c si identifica con il regno di Dio, definito attraverso meta­ morfosi germinali, floreali, nutritive ed erotiche che connotano, al di là dell’energetismo cosmico spesso considerato specifico dell’oriente, la fusione apertamente sessuale con la Cosa ai limiti del nominabile'6. In questa dinamica, la stessa Chiesa appare come un somapneumatikon, un «mistero» più che un’istituzione fatta a immagine c somi­ glianza delle monarchie. Questa identificazione estatica delle tre ipostasi tra loro e del cre­ dente con la Trinità non porta alla concezione di un’autonomia del Fi­ glio (o del credente), ma a un’appartenenza pneumatologica di ciascu­ no agli altri, un’appartenenza resa dall’espressione Per Filium (lo Spi­ rito discende dal padre attraverso il Figlio), che si contrappone a Ftlioque (lo Spirito discende dal Padre e dal Figlio)’1. M Prefazione degli inni dell’amore divino, Pg612, coll. 507-9, cit. da Clement, L'Essordu christianisme orientai cit, p. 29. ' «lo non parlo a mio nome personale, ma in nome del tesoro stesso (che ho appena tro­ vato), di Gesù Cristo che dice attraverso di me: “Io sono la resurrezione e la vita" (Gc, 1145), “Io sono il grano di senape" (Mi, 13,31-32), “lo sono la perla" (Mi, 13, 45-46), “Io sono il lievito" (Mt, 13,33)» (Sermoni cit., 89, p. 479). Simeone ammette che un giorno, men­ tre si trovava in uno stato «di eccitazione infernale e di svuotamento», si rivolse a Dio c ac­ colse la sua luce «a calde lacrime», avendo riconosciuto nella sua stessa esperienza proprio 3uel regno divino che le scritture hanno descritto come una perla (Mt, 13,45-46), un grano i senape (Mi, 13,31-32), un lievito (Mt, 13,33), un’acqua viva (Gv, 4,6-42), un fuoco (Ebr, 1,7 sgg.), un pane (Le, 22, 19), un baldacchino nuziale (si, 18,5-6), uno sposo (Mt, 25,6; Gn, 3,29, Apoc, 21,9)...: «Che dire ancora dell’indicibile... Pur avendo tutto ciò in fondo a noi, depositato da Dio, non possiamo comprenderlo con l’intelligenza e illuminarlo con la paro­ la» (Sermoni cit., 90, p. 490). T! «Lo Spirito santo è dato e mandato non nel senso che non l’avrebbe per parte sua de­ siderato, ma nel senso che lo Spirito santo, attraverso il Figlio che è un’ipostasi della Trinità, compie, come se fosse la sua stessa volontà, ciò che appartiene alla volontà del Padre. Perché la Santissima Trinità è inseparabile per natura, essenza e volontà, mentre per ipostasi si no-

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È stato impossibile, a quel tempo, trovare la razionalizzazione di questo movimento mistico interno alla Trinità e alla fede, in cui senza perdere il suo valore di persona, lo Spirito si fonde con gli altri due po­ li e, nel medesimo movimento, conferisce ad essi, al di là del loro valo­ re di identità o di autorità distinte, una profondità abissale, vertiginosa, certamente anche sessuale, in cui prenderà dimora l’esperienza psicolo­ gica della perdita e dell’estasi. Il nodo borromeo che Lacan ha utilizza­ to come metafora dell’unità e della differenza tra il Reale, l’immagina­ rio e il Simbolico permette forse di pensare questa logica, sempre che sia necessario razionalizzarla. Ora, appunto, non sembra esser stato questo il proposito dei teologi bizantini dei secoli XI c XII, preoccupati di de­ scrivere una nuova soggettività post-antica piuttosto che di sottoporla alla ragione esistente. Invece i Padri della Chiesa latina, più logici, e che avevano appena scoperto Aristotele (mentre l’Oriente ne era imbevuto e cercava solo di distaccarsene) hanno logicizzato la Trinità vedendo in Dio un’essenza intellettuale semplice, articolabilc in diadi: il Padre ge­ nera il Figlio; il Padre e il Figlio in quanto insieme fanno procedere lo Spirito73. Sviluppata dalla sillogistica di Anseimo di Canterbury al con­ cilio di Bari del 1098, questa argomentazione del Filioque verrà ripresa e sviluppata da Tommaso d’Aquino. Essa avrà il vantaggio di consoli­ dare da una parte l’autorità politica e spirituale del papato, dall’altra l’autonomia e la razionalità della persona del credente identificato con un Figlio, con il potere e il prestigio su un piede di parità con il Padre. Ciò che in tal modo si guadagna in parità, e quindi in efficacia e in sto­ ricità, viene forse perduto a livello dell’esperienza àd\’identificazione, nel senso di un’instabilità permanente dell’identità. Differenza e identità, piuttosto che autonomia e parità, sono i lega­ mi che tengono unita questa Trinità orientale divenuta, di conseguenza, fonte di estasi e di mistica. L’ortodossia la coltiverà adorando, al di là delle opposizioni, un senso della pienezza in cui ogni persona della Tri­ nità si lega e si identifica a tutte le altre: fusione erotica. In questa logica «borromea» della Trinità ortodossa, lo spazio psichico del credente si apre ai movimenti più violenti di trasporto verso il rapimento o la mor­ te, distinti semplicemente per esser confusi nell’unità dell’amor divino75. mina in persone. Padre, Figlio e Spinto santo, e queste persone sono un solo Dio, il cui no­ me è Trinità» (Sermoni cit., 62, p. 105). 71 Cfr. Clément, L'Essor du christiamsme orientai cit-, p. 74. n All'interno di questa osmosi dolorosa e piena di godimento delle tre ipostasi, l'indivi­ dualità dell’io viene percepita come limite necessario alla vita biologica c sociale, che tuttavia impedisce l’esperienza dell’amore-perdono per gli altri. Si vedano, in questo stesso capitolo, le riflessioni di Dostoevskij a proposito delrio-Timite, al momento della morte della moglie Maria (pp. 162 *4,

nota 37).

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È su questo fondo psicologico che occorre comprendere l’audacia dell’immaginario bizantino quando rappresenta la morte e la Passione del Cristo nell’arte delle icone, così come la propensione del discorso ortodosso a esplorare la sofferenza e la misericordia. L’unità può per­ dersi (quella del Cristo sul Golgota, quella del credente nell’umiliazio­ ne o nella morte), ma nel movimento del nodo trinitario essa può ri­ trovare la sua consistenza provvisoria grazie alla benevolenza e alla mi­ sericordia, prima di riprendere questo ciclo eterno di scomparsa e di apparizione. «Io» è Figlio e Spirito Ricordiamo, a questo proposito, alcuni degli eventi teologici, psi­ cologici e pittorici che annunciano tanto lo scisma quanto la successi­ va spiritualità ortodossa russa, fondamento del discorso dostoevskia­ no. Per Simeone il Nuovo Teologo, la luce è inseparabile dalla «tene­ rezza dolorosa» (katanyxis) che si apre a Dio attraverso l’umiltà e un torrente di lacrime, perché sa di essere in anticipo perdonata. D’altra parte, la concezione pneumatica dell’eucarestia, esposta per esempio da Massimo il Confessore (XII secolo), induce a pensare che Gesù sia stato contemporaneamente deificato e crocifisso, che la morte sulla croce sia infusa nella vita e quindi viva. È a partire da ciò che i pittori si arrogheranno il diritto di presentare la morte del Cristo sulla Croce: poiché la morte è viva, il corpo morto è un corpo incorruttibile che può essere conservato dalla Chiesa in quanto immagine e realtà. A partire dall’XI secolo, lo schematismo dell’architettura e dell’ico­ nografia ecclesiale si arricchisce di una rappresentazione del Cristo cir­ condato dagli apostoli, cui offre il calice e il vino: un Cristo «che offre e che è offerto», secondo la formula di san Giovanni Crisostomo. Co­ me sottolinea Olivier Clément, la stessa arte del mosaico impone la pre­ senza della luce, del dono di grazia e magnificenza, così come la rap­ presentazione iconica del ciclo mariano e della Passione di Gesù invita a un’identificazione degli individui che credono con le persone della Scrittura. Questo soggettivismo, sotto il raggio della grazia, trova un’e­ spressione privilegiata nella rappresentazione della Passione del Cristo: al pari dell’uomo, il Cristo soffre c muore. E il pittore può mostrare, come il credente vedere, la sua umiliazione e la sua sofferenza immerse nella tenerezza della misericordia per il Figlio nello Spirito. Come se la Resurrezione rendesse la morte visibile e nello stesso tempo ancor più patetica. Le scene della Passione furono aggiunte al ciclo liturgico tra­ dizionale nel 1164, a Ncrczi, chiesa macedone fondata dai Comneni. 176

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Questo progresso dell’iconografia bizantina rispetto alla tradizio­ ne classica o giudaica si c tuttavia consolidato più tardi. Il Rinasci­ mento fu latino, ed è probabile che il declino dell’arte pittorica orto­ dossa, il suo scadere nello schematismo, non sia stato determinato sol­ tanto da cause politico-sociali o dalle invasioni straniere. Quello che è certo c che la concezione orientale della Trinità conferiva meno auto­ nomia all’individuo, quando addirittura non lo subordinava all’auto­ rità, e non lo incoraggiava sicuramente a trasformarsi in «individualità artistica». Pure, nei meandri meno vistosi, più segreti c quindi meno controllabili dell’arte verbale, questo sviluppo ha comunque avuto luogo, malgrado il ritardo a tutti noto, con, in più, una distillazione dell’alchimia della sofferenza, in particolare nella letteratura russa. Sorta tardivamente, dopo lo sviluppo bizantino e quello degli Slavi del Sud (bulgari, serbi), la Chiesa russa accentua le sue tendenze pneumatologiche e mistiche. Pagana, dionisiaca, orientale, la tradizione pre­ cristiana imprime all’ortodossia bizantina passata in Russia un parossi­ smo mai raggiunto prima: i «chlysty», setta mistica di ispirazione ma­ nichea che privilegia gli eccessi nel registro della sofferenza e dell’ero­ tismo allo scopo di raggiungere una fusione completa degli adepti con il Cristo: la teofania della terra (che porterà all’idea di Mosca come «terza Roma», dopo Costantinopoli... ma anche alla Terza internazio­ nale, come vogliono alcuni); l’apologià dcll’amore-salvezza, c soprat­ tutto l’ipostasi della tenerezza (oumilienie), tra la sofferenza e la gioia e nel Cristo; il movimento di «coloro che hanno sofferto la Passione» (strastotieirptsy) cioè di coloro che hanno realmente subito violenza o sono stati umiliati ma rispondono al male solo con il perdono - sono alcune delle espressioni più parossistiche e più concrete della logica or­ todossa russa. Senza di essa non si può capire Dostoevskij. Il suo dialogismo, la sua polifonia’4 derivano probabilmente da fonti diverse. Ma non va tra­ scurata quella costituita dalla fede ortodossa, la cui concezione trinita­ ria (differenza e unità delle tre Persone in una pneumatologia genera­ lizzata che invita ogni soggettività a un dispiegamento estremo delle sue contraddizioni) ispira tanto il «dialogismo» dello scrittore quanto la sua apologia della sofferenza e nello stesso tempo del perdono. In questa ottica, l’immagine del padre tirannico, presente nell’universo dostoevskiano - in essa Freud ha visto la fonte dell’epilessia come pu­ re della dissipazione ludica (la passione del gioco)” -, va equilibrata ■' Bachtin, Dostoevskij cit. ?* Cfr. Freud, Dostoevskij c ilparriàdio cit.

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per capire non il Dostoevskij neuropatico ma il Dostoevskij artista con quella del padre benevolo propria della Trinità bizantina, con la sua tenerezza e il suo perdono.

// perdono parlato La posizione dello scrittore è una posizione di parola: una costru­ zione simbolica assorbe e sostituisce il perdono in quanto movimento emotivo, misericordia, compassione antropomorfica. Dire che l’opera d’arte è un perdono presuppone già che si esca dal perdono psicologi­ co (ma senza misconoscerlo) per un atto singolo, quello della nomina­ zione c della composizione. Così si potrà comprendere in cosa l’arte è un perdono solo apren­ do tutti i registri in cui il perdono opera e si esaurisce. Si comincerà da quello dell’identificazione psicologica, soggettiva, con la sofferenza e la tenerezza degli altri, dei «personaggi» e di se stessi, che in Dostoev­ skij poggia sulla fede ortodossa. Si passerà poi c necessariamente alla formulazione logica dell’efficacia del perdono come opera della crea­ zione transpersonale, così come la intende san Tommaso (all’interno del Filioque questa volta). Infine, si riscontrerà la caduta di questo per­ dono al di là della polifonia dell’opera, nella sola morale dell’efficacia estetica, nel godimento della passione come bellezza. Potenzialmente immoralista, questo terzo tempo del perdono-efficacia ritorna al pun­ to di partenza di questo movimento circolare: alla sofferenza e alla te­ nerezza dell’altro per l’estraneo.

L’atto di dare riassorbe l’affetto San Tommaso connette la «misericordia di Dio» alla sua «giusti­ zia»76. Dopo aver sottolineato che «la giustizia di Dio riguarda le con­ venienze del suo essere, conformemente alle quali egli rende a se stesso ciò che gli è dovuto» (iustitia Dei rcspicit decentiam ipsius, secundum quam reddit sibi quod sibi debetur), san Tommaso si preoccupa di sta­ bilire la verità di questa giustizia, restando inteso che è verità ciò che è «conforme alle concezioni della saggezza, che è la sua legge» (conformem rationi sapientiae suae, quae est lex eius). Quanto alla misericor­ dia, Tommaso non manca di ricordare l’opinione, affatto antropologi­ ca, quindi psicologica, di san Giovanni Damasceno, per il quale essa sarebbe «una specie di tristezza» (species tristitiae). Tommaso prende * Sxmma theologica, l, 21, 1-4.

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le distanze da tale posizione affermando che la misericordia non può essere «un sentimento proprio di Dio, ma un effetto da esso deter­ minato» (misericordia est Deo maxime attribuenda: tamcn secundum effectum, non secundum passionis affectum). «Trattandosi di Dio, la tristezza circa la miseria altrui non può aver luogo; ma allontanare questa miseria gli conviene per eccellenza intendendo per miseria una mancanza, un difetto d’una natura qualsiasi» (Tristan ergo de miseria alterius non competit Deo: sed repellere miseriam alterius hoc maxime ei competit, ut per miseriam quemcumque defectum intelligamus)77. Nella misura in cui riempie un vuoto ai fini del raggiungimento della perfezione, la misericordia sarebbe una donazione (donatio). «Donate invicem, sicut et Christus vobis donavit», che di solito si traduce con «Fatevi grazia» o «Perdonatevi». Il perdono, dono supplementare e gratuito, supplisce alla mancanza, al difetto. Io mi do a te, tu mi rice­ vi, io sono in te. Né giustizia né ingiustizia, il perdono sarebbe una «pienezza di giustizia» (iustitiae plenitudo), al di là del giudizio. Ed è questo che fa dire a san Giacomo: «La misericordia prevale sul giudi­ zio» (misericordia supercxaltat iudicium)”. Se è vero che non è paragonabile alla misericordia divina, il perdo­ no umano tenta di modellarsi a sua immagine e somiglianza: dono, oblazione in deroga al giudizio, il perdono presuppone un’identifica­ zione potenziale con questa divinità di misericordia effettiva ed effica­ ce di cui parla il teologo. Tuttavia, e contrariamente alla misericordia divina che vuol essere esente da qualsiasi tristezza, il perdono raccoglie nel suo passaggio verso l’altro anche l’umanissimo dolore. Ricono­ scendo la mancanza c la ferita da cui trae origine, offre come rimedio un dono ideale: promessa, progetto, artificio, racchiudendo così l’esse­ re umiliato e offeso in un ordine di perfezione e dandogli la sicurezza di appartenere a esso. L’amore, insomma, al di là del giudizio, innalza la tristezza pur compresa, intesa, dispiegata. Se riusciamo a perdonare a noi stessi, innalzando, grazie a qualcuno che ci ascolta, la nostra man­ canza o la nostra ferita in un ordine ideale al quale siamo sicuri di ap­ partenere, ecco che siamo garantiti contro la depressione. Tuttavia, co­ me esser sicuri di appartenere a questo ordine ideale attraverso la man­ canza, senza passare una volta di più per la sfilata dell’identificazione con questa idealità senza incrinature, paternità amante, garante primi­ tiva delle nostre sicurezze? n Ibid., corsivo nostro. ”2, 13, cit. da Tommaso.

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La scrittura: perdono immorale Colui che crea un testo o un’interpretazione è portato più di chiun­ que altro ad aderire a questa istanza affatto logica e attiva della miseri­ cordia tomista al di là dello sfogo emotivo. Egli aderisce al suo valore di giustizia nell’atto e più ancora alla giustezza dell’atto. E rendendo la propria parola adeguata alla commiserazione e, in questo senso, giusta, che si compie l’adesione del soggetto all’ideale perdonante e diviene possibile il perdono efficace verso gli altri come verso se stessi. Alle frontiere dell’emozione e dell’atto, non si ha avvento della scrittura se non attraverso il momento di negazione dell’affetto, perché nasca l’ef­ ficacia dei segni. La scrittura fa passare {’affetto nell’effetto: «actuspurus» direbbe san Tommaso. Essa veicola gli affetti e non li rimuove, ne propone un esito sublimatorio, li traspone per un altro in un legame terzo, immaginario e simbolico. In quanto è perdono, la scrittura è tra­ sformazione, trasposizione, traduzione. A partire da questo momento, l’universo dei segni impone la pro­ pria logica. La giubilazione che esso procura, quella della performance come l’altra, della recezione, oblitera in modo intermittente tanto l’i­ deale quanto ogni possibilità di giustizia esterna. L’immoralismo è la sorte che tocca a questo processo, ben noto a Dostoevskij: la scrittura è complice del male non soltanto in principio (nel suo pretesto, nei suoi oggetti) ma anche alla fine, nell’assolutismo del suo universo esclusivo di ogni alterità. Ed è forse anche la coscienza del fatto che l’effetto estetico è racchiuso in una passione senza esterno - nel rischio di una chiusura di morte come di gioia attraverso un’autoconsumazione immaginaria, attraverso la tirannia del bello - a spingere Do­ stoevskij a stringersi in modo violento alla sua religione e al suo fon­ damento, il perdono. Un eterno ritorno di un triplice movimento vie­ ne così a prender le mosse: tenerezza legata alla sofferenza, giustizia logica e giustezza dell’opera, ipostasi e infine disagio dell’opera asso­ luta. Poi, di nuovo, per perdonarsi, riprende la triplice logica del per­ dono... Non ne abbiamo forse bisogno per dare un senso vivo - ero­ tico, immorale - alla presa melanconica?

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Vili. La malattia del dolore: Duras

Il dolore è fra le cose più

importanti della mia vita. Il Dolore Gli dico che nella mia infanzia l’infelicità di mia madre ha

occupato lo spazio del sogno. L'amante

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Retorica, bianca dell’apocalisse Le nostre civiltà sanno ora non solo di essere mortali, come pro­ clamava Valéry dopo il 1914', ma anche di potersi dare la morte. Auschwitz e Hiroshima hanno rivelato che la «malattia della mor­ te», per dirla con Marguerite Duras, costituisce la nostra intimità più segreta. Se la sfera militare e quella economica sono, come i rapporti politici e sociali, retti dalla passione della morte, quest’ultima sembra ormai governare persino il regno spirituale, un tempo nobile. Una for­ midabile crisi del pensiero e della parola, crisi della rappresentazione, si è infatti manifestata; di essa si possono ricercare i corrispettivi nei se­ coli passati (il crollo dell’impero romano c il sorgere del cristianesimo, le epidemie di peste o le guerre medioevali devastatrici...) o le cause nei fallimenti economici, politici o giuridici. Tuttavia la potenza delle forze di distruzione non è mai apparsa tanto incontestabile né tanto inevitabile, all’esterno come all’interno dell’individuo e della società. La distruzione della natura, delle vite e dei beni si accompagna a una recrudescenza, o semplicemente a una manifestazione più patente dei disordini di cui la psichiatria rende più raffinata la diagnosi: psicosi, depressione, mania, borderline, false personalità, e così via. Come i cataclismi politici e militari sono terribili e sfidano il pen­ siero per la mostruosità della loro violenza (quella di un campo di con­ centramento o di una bomba atomica), così la deflagrazione dell’iden­ tità psichica, di intensità non meno violenta, rimane difficilmente iden­ tificabile. Già Valéry era rimasto colpito da questo fatto quando para­ gonava tale disastro dello spirito (consecutivo alla prima guerra mon­ diale ma anche, a monte, al nichilismo derivato dalla «morte di Dio») ' Cfr. La crise de l'espnt, in Varìelès, 1, Gallimard, Paris 1934.

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con quanto osserva il fisico: «in un forno portato ad incandescenza: se il nostro occhio sopravvivesse, non vedrebbe niente. Nessuna disegua­ glianza luminosa rimarrebbe a distinguere i punti dello spazio. Questa formidabile energia racchiusa avrebbe come risultato l’invisibilità, l’e­ guaglianza sensibile. Una eguaglianza di tal genere altro non è se non il disordine allo stato perfetto»2. Una delle principali poste in gioco per la letteratura e per l’arte si situa ormai all’interno di questa invisibilità della crisi che colpisce l’identità della persona, della morale, della reli­ gione o della politica. A un tempo religiosa c politica, essa trova la sua traduzione radicale nella crisi della significazione. Ormai, la difficoltà di nominare approda non più alla «musica nelle lettere» (Mallarmé e Joyce erano credenti ed esteti), ma all’illogicismo e al silenzio. Dopo la parentesi piuttosto ludica e tuttavia sempre politicamente impegnata del surrealismo, l’attualità della seconda guerra mondiale ha fatto vio­ lenza alle coscienze con un’esplosione di morte e di follia che nessuna diga, ideologica o estetica, sembrava ormai in grado di contenere. Si trattava di una pressione che aveva trovato in seno al dolore psichico la sua intima e inevitabile ripercussione. Essa fu provata come un’ur­ genza ineluttabile, senza per questo cessare di essere invisibile, irrap­ presentabile. In che senso? Se è ancora possibile parlare di «nulla» quando si tenta di captare gli infimi meandri del dolore e della mone psichica, si potrà dire di es­ sere davanti a un nulla anche con le camere a gas, la bomba atomica o il gulag? Ad essere in causa non sono né l’aspetto spettacolare dell’e­ splosione della mone nell’universo della seconda guerra mondiale, né la dissoluzione dell’identità cosciente e del comportamento razionale che fallisce davanti alle manifestazioni manicomiali della psicosi, anch’esse sovente spettacolari. Quello che simili spettacoli, mostruosi e dolorosi, mettono in crisi, sono i nostri apparati percettivi e rappre­ sentativi. Come fossero esasperati o distrutti da un’onda troppo po­ tente, i nostri mezzi simbolici si ritrovano svuotati, quasi annichiliti, pietrificati. Sull’orlo del silenzio emerge la parola «nulla», pudica dife­ sa di fronte a tanto disordine, interno ed esterno, incommensurabile. Mai cataclisma è stato più apocalitticamente esorbitante. Mai la sua rappresentazione è stata assunta da così pochi mezzi simbolici. Certe correnti religiose hanno sentito che, a tanto orrore, solo il si­ lenzio si addice, e che la morte deve essere mantenuta fuori della pa­ rola viva per venire evocata solo obliquamente, nelle crepe e nei non­ 2 Ibùi., p. 991. Corsivo nostro.

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detti di una inquietudine prossima alla contrizione. Un’attrazione per il giudaismo, per non dire un flirt, si è così imposta, rivelando la col­ pevolezza di un’intera generazione di intellettuali davanti all’antisemi­ tismo e al collaborazionismo dei primi anni di guerra. Una nuova retorica dell’apocalisse (etimologicamente, apocalypsis significa dimostrazione, disvelamento attraverso lo sguardo, c si con­ trappone a aletheia, lo svelamento filosofico della verità) è sembrata necessaria per fare sorgere la visione di questo pur mostruoso nulla, di questa mostruosità che acceca e impone il silenzio. Questa nuova re­ torica apocalittica si è verificata a due estremi apparentemente opposti, i quali, spesso, si completano: la profusione delle immagini e la riten­ zione della parola. Da un lato, l’arte dell’immagine eccelle nell’ostentazione pura e semplice della mostruosità: il cinema rimane l’arte suprema dell’apo­ calittico, quali che siano le sue finezze, tanto 1’immaginc è in grado di «farci camminare nella paura», come già aveva visto sant’Agostino *. Dall’altro, l’arte verbale e pittorica si fa «ricerca inquieta ed infinita della propria fonte»’. Da Heidegger a Blanchot, ricordando Holderlin e Mallarmé e passando per i surrealisti5, constatiamo che il poeta - pro­ babilmente ridimensionato, nel mondo moderno, dalla supremazia politica - fa ritorno verso la dimora che gli è propria, cioè il linguag­ gio, di cui dispiega le risorse anziché affrontare ingenuamente la rap­ presentazione di un oggetto esterno. La melanconia diventa il motore segreto di una nuova retorica: ora si tratterà di seguire il malessere pas­ so per passo, quasi clinicamente, senza mai superarlo. In questa dicotomia immagine/parola, spetta al cinema mettere in mostra la trivialità dell’orrore o gli schemi esterni del piacere, mentre la letteratura si interiorizza e si ritrae dal mondo sulla scia della crisi del pensiero. Capovolta nel formalismo di se stessa e in questo più lu­ cida dell’impegno entusiastico e dell’erotismo libertariamente adole­ scenziale degli esistenzialisti, la letteratura moderna del dopoguerra si incammina tuttavia per una strada ardua. La sua ricerca dell’invisibile, forse metafisicamente motivata daH’ambizione di rimanere fedele al­ * «Benché l’uomo si inquieti invano, pure procede nell’immagine», in «Le immagini», in De Trinitate, XIV, IV, 6. 1 Cfr. M. Blanchot, Où va la littérature?, in Le Urea venir, Gallimard, Paris 1959; trad, it. Il libro a venire, Einaudi, Torino 1981. 5 5 R. Caillois, auspica, in letteratura, l’impiego delle «tecniche di esplorazione dell'in­ conscio»: «resoconti, con o senza commento, di depressione, di confusione, di angoscia, di esperienze affettive personali», in Crise de la liitérature, in «Cahiers du Sud», 1935 (corsi­ vo nostro).

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l’intensità dell’orrore fin nell’esattezza estrema delle parole, diventa impercettibile e progressivamente asociale, antidimostrativa, ma an­ che, c a forza di essere antispettacolare, priva di interesse. L’arte dei mass media da un lato, l’avventura del nouveau roman dall’altro illu­ strano queste due posizioni.

Un’estetica della goffaggine

L’esperienza di Marguerite Duras appare non tanto quella di un’«opera verso l’origine dell’opera» come aveva auspicato Blanchot, quanto quella di un confronto con il «nulla» di Valéry: questo nulla imposto a una coscienza turbata dall’orrore della seconda guerra mon­ diale e, indipendentemente da essa, ma in parallelo, dal malessere psi­ chico dell’individuo dovuto agli impatti segreti della biologia, della fa­ miglia, degli altri. La scrittura della Duras non si autoanalizza cercando le sue fonti nella musica sotto le lettere o nella disfatta della logica del racconto. Se si può parlare di ricerca formale, essa è subordinata all’atto di affron­ tare il silenzio dell’orrore in se e nel mondo. Questo confronto la por­ ta a un’estetica della goffaggine da una parte, a una letteratura non ca­ tartica dall’altra. La ricercata retorica della letteratura e persino quella usuale del parlare quotidiano sembrano sempre un po’ in festa. Come dire la ve­ rità del dolore senza dar scacco a questa festa retorica, rendendola gof­ fa, facendola cigolare, rendendola impedita e zoppicante? C’è tuttavia un certo fascino in queste frasi stiracchiate, prive di grazia sonora e in cui il verbo sembra dimenticare il soggetto {«Nel­ l’immobilità come nel movimento, la sua eleganza, racconta Tatiana, inquietava»)1, o che si chiudono troppo presto, a corto di fiato, di com­ plemento oggetto o di aggettivo («In seguito, pur restando silenziosa, riprese a chiedere di mangiare, che le aprissero le finestre, il sonno»7 e «Ne sono questi gli ultimi avvenimenti manifesti») *. Spesso ci si trova di fronte a giunte dell’ultimo minuto, ammuc­ chiate in una proposizione che non le aveva previste, ma che trae da es­ se tutto il suo senso, la sorpresa {«il desiderio -e sene compiaceva - di ragazzine appena cresciute, tristi, impudiche e senza voce»’’. «La loro * M. Duras» Le Ravissement de Lal V Stein, Gallimard, Paris 1964; trad. it. Il rapimen­ to di Lol V. Stein, Torino 1966, p. 12. ’ Ibid., p. 20. 1 IbùL, p. 21. ’ Ibid., p. 24.

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unione è fatta d’insensibilità, in una maniera generica che adottano là sul momento, ne è esclusa ogni scelta)'0. Oppure a parole troppo dotte c iperboliche, o al contrario troppo banali e logore, che alludono a una magniloquenza immobile, artifi­ ciale e morbosa: «Non so. Io so qualcosa solo sull’immobilità della vi­ ta: perciò, quando questa si spezza, io lo so»". «Quando avete pianto, era su voi solo e non sulla mirabile impossibilità di raggiungerla attra­ verso la differenza che vi separa»'1. Non si tratta di un discorso parlato ma di una parola fatta inade­ guata a forza d’esser disfatta, come una donna è struccata o svestita senza esser trascurata, perché costretta da qualche malattia insormon­ tabile cppur gravida di un piacere che accattiva e sfida. Pure, e forse proprio per questo, questa parola falsata suona insolita, inattesa e so­ prattutto dolorosa. Una seduzione difficile vi trascina nelle crisi dei personaggi o della narratrice, in questo nulla, nell’insignificabile della malattia senza parossismo tragico e senza bellezza, un dolore di cui non resta che la tensione. Lo stile goffo, maldestro, sarebbe proprio del discorso del dolore attutito. A questa esagerazione silenziosa o preziosa della parola, al suo ve­ nir meno, teso sull’abisso della sofferenza, è il cinema a por rimedio. Ricorrere alla rappresentazione teatrale, ma soprattutto all’immagine cinematografica, porta necessariamente a una profusione incontrolla­ bile di associazioni, di ricchezze o di povertà semantiche e sentimen­ tali a piacimento dello spettatore. Se è vero che le immagini non rime­ diano alle goffaggini stilistiche verbali, le immergono tuttavia nell’in­ dicibile: il «nulla» diviene indecidibile e il silenzio fa sognare. Arte col­ lettiva anche quando la sceneggiatrice riesce a controllarla, il cinema aggiunge alle scarne indicazioni dell’autrice (che protegge senza sosta un segreto morboso nel cavo di un intrigo sempre più inafferrabile nel testo) i volumi e le combinazioni, necessariamente spettacolari, dei corpi, dei gesti, delle voci degli attori, delle scene, delle luci, dei pro­ duttori, di tutti coloro il cui mestiere consiste nel mostrare. Se la Du­ ras si serve del cinema per usare sino all’abbaglio dell’invisibile la sua forza spettacolare inondandola di parole ellittiche e di suoni allusivi se ne serve anche per il suo fascino supplementare, che rimedia alla con­ trazione del verbo. Moltiplicando così il potere di seduzione dei suoi personaggi, fa divenire la loro invisibile malattia meno contagiosa sul15 Ibid., p. 49. " Ibid., p. 104. 11 Cfr. M. Duras, La Maladie de la mort, Éditions de Minuic, Paris 1982.

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lo schermo a forza di esser recitata: la depressione fumata si rivela es­ sere un artificio esterno. Si capisce quindi che i libri della Duras non vanno dati a lettori e lettrici fragili. Se costoro andranno a vedere i suoi film o le sue opere teatrali, ritroveranno questa medesima malattia ma smorzata, avvolta in un fascino sognante che la addolcisce e la rende anche più fittizia e inventata: una convenzione. I libri, invece, ci fanno sfiorare la follia. Non la mostrano da lontano, non l’osservano né la analizzano per sof­ frirne a distanza nella speranza di un esito, buono o cattivo, un giorno o l’altro... Anzi, i testi addomesticano la malattia della mone, forma­ no con essa un tutt’uno, si tengono tutti dentro di essa, senza distanza e senza sguardo esterno. All’uscita di questi romanzi in contatto diret­ to con la malattia, nessuna purificazione ci attende, né quella di uno star meglio né la promessa di un aldilà, e neppure la bellezza incanta­ trice di uno stile o di un’ironia che costituirebbe un premio di piacere aggiunto al male rivelato. Senza catarsi

Senza guarigione né Dio, senza valore né bellezza diversa da quella della malattia stessa, presa nel luogo della sua rottura essenziale, mai, forse, un’arte è stata meno catartica. Essa appartiene, senz’altro e pro­ prio per questo, più alla stregoneria e al sortilegio che alla grazia c al perdono tradizionalmente associati al genio artistico. Un’oscura, e in­ sieme leggera in quanto distratta, complicità con la malattia del dolore e della morte si fa luce nei testi durassiani. La scrittrice ci porta a radio­ grafare le nostre follie, le pericolose rive in cui crolla l’identità del sen­ so, della persona e della vita. «Il mistero in piena luce», diceva Barrès dei quadri di Claude Lorrain. Con la Duras, è la follia ad essere in pie­ na luce: «Sono diventata pazza in piena lucidità»". Siamo presenti al nulla del senso e dei sentimenti che la lucidità accompagna nella loro estinzione, e assistiamo alle nostre miserie neutralizzate, senza tragedia ed entusiasmo, chiaramente, nell’insignificanza frigida di un torpore psichico, segno minimale ma anche ultimo del dolore e del rapimento. Claire Lispcctor (1924-1977) propone anch’cssa una rivelazione del­ la sofferenza e della mone estranea all’estetica del perdono. Il suo Bàtisseur de ruines" sembra opporsi a Dostoevskij. Omicida di una donna come Raskol’nikov (ma questa volta si tratta della sua donna) l’eroe del11

Cfr. M. Duras, L'amant, Éditions de Minuit, Paris 1984; trad, it L'amante, Feltrinelli,

Milano 1988, p. 92. '* Cfr. C. Lispcctor, Le Ratìssenr de ruines, trad, franc., Gallimard, Paris 1970.

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la Lispector ne incontra altre due, una spirituale e l’altra carnale. Se lo allontanano dall’assassinio - come Sonja fa per il forzato di Delitto e ca­ stigo - non lo salvano né lo perdonano. Peggio ancora, lo denunciano alla polizia. Eppure, questo scioglimento non è né un rovescio del per­ dono né un castigo. La calma ineluttabile del destino si abbatte sui pro­ tagonisti c chiude il romanzo con una dolcezza implacabile, femminile forse, che non è priva di rapporti con il tono disincantato della Duras, specchio tutt’altro che compiacente della pena che abita il soggetto. Se l’universo della Lispector, contrariamente a quello di Dostoevskij, non è un universo del perdono, ne deriva tuttavia una complicità dei prota­ gonisti tra loro, quei protagonisti i cui legami persistono al di là della se­ parazione e costruiscono un ambiente accogliente e invisibile, una vol­ ta terminato il romanzo”. Oppure, ancora, i racconti feroci della scrit­ trice, al di là del sinistro dispiegarsi del male, sono traversati da uno hu­ mour che assume un valore purificatorio e sottrae il lettore alla crisi. Nulla di simile nella Duras. La morte c il dolore sono la tela di ra­ gno del testo, c guai al lettore complice che soccombe al suo fascino: può restarci davvero. La «crisi della letteratura» di cui parlavano Valéry, Caillois o Blanchot raggiunge qui una sorta di apoteosi. La let­ teratura non è né autocritica, né critica, né un’ambivalenza generaliz­ zata che mescoli astutamente uomo e donna, reale e immaginario, ve­ ro c falso, nella festa disincantata del sembiante che danza sul vulcano di un oggetto impossibile o di un tempo introvabile... Qui, la crisi porta la scrittura a rimanere al di qua di ogni torsione del senso e si tie­ ne alla messa a nudo della malattia. Senza catarsi, questa letteratura in­ contra, riconosce, ma propaga anche il male che la mobilita. Essa è il rovescio del discorso clinico - assai vicina a esso, ma pronta ad avva­ lersi dei benefici secondari della malattia, la coltiva c la doma senza mai esaurirla. A partire da questa fedeltà al disagio, si capisce che un’alter­ nativa possa esser trovata nel neoromanticismo del cinema o nella preoccupazione di trasmettere messaggi e meditazioni ideologiche o metafisiche. Fra Distruggere, ella disse (1969) e La Maladie de la mart (1982) che porta alla condensazione estrema il tema deU’amorc-morte: tredici anni di film, opere teatrali, spiegazioni”. «Tutù e due evitarono di guardarsi sentendo di esser penetrati in un elemento più va­ sto» quell’elemento che a volte riesce a esprimersi nella tragedia Poiché avevano appena compiuto di nuovo il miracolo del perdono, infastiditi da questa scena penosa, evitavano di guardarsi, a disagio, ci sono molte cose antiestetiche da perdonare. Ma anche ridicola e rab­ berciata, la mimica della resurrezione aveva avuto luogo. Quelle cose che sembrano non ca­ pitare ma capitano» (Lispector, Le Bàtiueur de rumes cit., pp. 320-1). •* M. Duras è autrice di diciannove sceneggiature di film e di quindici opere teatrali, tra cui tre adattamenti.

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L’esotismo erotico deli’Amante (1984) dà poi il cambio agli esseri e alle parole estenuati di morte tacita. Nel romanzo si dispiega la stessa passione dolorosa e omicida propria di tutta la produzione della Du­ ras, consapevole di sé e trattenuta {«Potrebbe rispondere che non lo ama, non dice niente. A un tratto lei sa, in quell’istante sa che lui non la conosce, che non la conoscerà mai, che non avrà mai modo di cono­ scere un essere tanto perverso»)'7. Ma il realismo geografico c sociale, il resoconto giornalistico della miseria coloniale e il disagio dell’Occupazione, il naturalismo dei fallimenti e degli odi materni avvolgono il piacere soavemente morboso della piccola prostituta che si concede al­ la sensualità affranta di un ricco cinese adulto, tristemente eppure con la perseveranza di una narratrice professionista. Pur rimanendo un so­ gno impossibile, il godimento femminile si ancora in un colore locale e in una storia certo lontana ma resa ormai verosimile e stranamente vicina, intima, dalla pressione del Terzo mondo, da una parte, e dal rea­ lismo del massacro familiare. Con L’amante, il dolore raggiunge una consonanza sociale e storicamente neoromantica che è garanzia di un grande successo di pubblico c di stampa. Non tutta l’opera della Duras sembra aderire a quella ascetica fe­ deltà alla follia che precede l’istante. Alcuni testi tuttavia, fra gli altri, ci permetteranno di osservarne i punti culminanti. Hiroshima dell’amore

Perché c’è stata Hiroshima, non può darsi artificio. Né artificio tra­ gico o pacifista di fronte all’esplosione atomica né artificio retorico di fronte alla mutilazione dei sentimenti. «Tutto quel che si può fare è par­ lare dell’impossibilità di parlare di Hiroshima. Perché la conoscenza di Hiroshima si pone a priori come una lusinga esemplare dello spirito»' *. Il sacrilegio è la stessa Hiroshima, l’evento mortifero, non le sue ri­ percussioni. Il testo si propone di «finirla con la descrizione dell'onore attraverso l’orrore, perché questo è stato fatto dai Giapponesi stessi» e di «far rinascere questo orrore da quelle ceneri inscrivendolo in un amore che sarà necessariamente particolare e tale da suscitar “meravi­ glia’’»''1. L’esplosione nucleare si infiltra sin nell’amore, e la sua violen­ za devastatrice lo rende a un tempo impossibile e superbamente eroti­ co, condannato e magicamente attraente: come appunto l’infermiera impersonata da Emmanuelle Riva in uno dei parossismi della passioDuras, L amante cit., pp. 44-5. " Cfr. Id., Hiroshima mon amour, synopsis, Gallimard, Paris 1960, p. 10. " Ibid., p. 11.

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ne. Il testo e il film si aprono non sull’immagine del fungo nucleare, come si era previsto all’inizio, ma sulle membra dei corpi allacciati di una coppia di amanti che potrebbero essere una coppia di moribondi. «Si vedono al loro posto dei corpi mutilati - all’altezza della testa e del­ le anche - in movimento - in preda o all’amore o all’angoscia - e suc­ cessivamente ricoperti dalle ceneri, dalle rugiade della morte atomica e dal sudore dell’amore appena fatto»™. L’amore più forte della morte? Forse. «La loro storia personale, per breve che sia, prevarrà sempre su Hiroshima». Ma forse no. Perché se Lui viene da Hiroshima, Lei vie­ ne da Nevers, dove «è stata pazza; pazza di crudeltà». Il suo primo amante era un tedesco: lui fu ucciso, lei rasata. Un primo amore ucci­ so dal\'« assoluto e dall’orrore della stupidità». In cambio, l’orrore di Hiroshima l’ha in qualche modo liberata dalla sua tragedia francese. L’uso dell’arma atomica sembra dimostrare che l’orrore non è dalla pane sola dei belligeranti; che non ha ne campo né partito ma può in­ furiare assolutamente, incontrastato. Una simile trascendenza dell’or­ rore libera l’amante da una falsa colpevolezza. La giovane porta ormai con sé il suo «amore inutilizzato fino a Hiroshima. Al di là dei loro matrimoni, che entrambi dicono felici, il nuovo amore dei due prota­ gonisti - pur forte e di un’autenticità toccante - sarà anche «sgozzato»: dietro di esso, dalle due parti, un disastro: qui Nevers, là Hiroshima. Per intenso che sia nel suo silenzio innominabile, l’amore è ormai so­ speso, polverizzato, atomizzato. Amare, per lei, significa amare un morto. Il corpo del suo nuovo amante si confonde con il cadavere del primo amore, che aveva coper­ to con il proprio corpo, un giorno e una notte interi, c di cui ha assag­ giato il sangue. Inoltre, la passione è resa più intensa dal sapore di im­ possibile che l’amante giapponese impone. Malgrado il suo aspetto «internazionale» e il volto occidentalizzato secondo le indicazioni del­ la sceneggiatrice, egli rimane, se non esotico, altro, di un altro mondo, di un aldilà, al punto da confondersi con l’immagine del tedesco ama­ to e morto a Nevers. Ma il dinamicissimo ingegnere giapponese ha an­ ch’egli su di sé il marchio della morte perché porta necessariamente an­ ch’egli le stimmate morali della morte atomica di cui i suoi compatrio­ ti furono le prime vittime. Amore gravato di morte o amore della morte? Amore reso impos­ sibile o passione necrofila per la morte? Il mio amore è una Hiroshi­ ma, ovvero: Amo Hiroshima perché il suo dolore è il mio eros? Hiro” Ìbid.t pp. 9-10.

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shima amore mio mantiene questa ambiguità, che è, forse, la versione post-bellica dell’amore. A meno che questa versione storica dell’amo­ re non riveli la profonda ambiguità dell’amore a morte, l’alone morti­ fero di ogni passione... «Il fatto che sia morto non le impedisce di de­ siderarlo. Non ne può più di aver voglia di lui, morto. Corpo svubtato, ansimante. La sua bocca è umida. Ha la posa di una donna presa nel desiderio, impudica sino alla volgarità. Più impudica che in qualsiasi al­ tro momento. Disgustosa. Desidera un morto»1'. «L’amore serve a mo­ rire più comodamente alla vita»11. L’implosione dell’amore nella morte e della morte nell’amore rag­ giunge la sua espressione parossistica nell’insostenibile pena della fol­ lia. «Mi fecero passare per morta [...} Divenni pazza. Di crudeltà. Io sputavo, a quel che dicono, in faccia a mia madre»13. Questa follia, do­ lente c omicida, non sarebbe altro che l’assorbimento da parte di Lei della morte di Lui. «La si potrebbe creder morta, tanto muore della morte di lui»11. Questa identificazione dei protagonisti, che confonde le loro frontiere, le loro parole e il loro essere, è una figura permanen­ te, nella Duras. Per il fatto di non morire come lui, di sopravvivere al loro amore morto, essa diviene tuttavia come una morta: dissociata da­ gli altri e dal tempo, ha lo sguardo eterno e animale delle gatte, è paz­ za: «Morta d’amore a Nevers». «...Non riuscivo a trovare la minima differenza tra quel corpo morto c il mio... Non potevo trovare tra quel corpo e il mio altro che delle somiglianze... urlanti, capisci»25. Frequente, permanente anzi, l’identificazione è tuttavia assoluta e ine­ luttabile con l’oggetto del lutto. Con ciò appunto il lutto diviene im­ possibile e trasforma l’eroina in cripta abitata da un cadavere vivente... Privato e pubblico

Tutta l’opera di Marguerite Duras è forse racchiusa in questo testo del 1960, che situa l’azione del film di Resnais nel 1957, quattordici an­ ni dopo la prima esplosione atomica. C’è tutto: la sofferenza, la mor­ te, l’amore e la loro mescolanza esplosiva nella folle melanconia di una donna; ma soprattutto l’unione tra il realismo storico-sociale, annun­ ciato in Una diga sul Pacifico (1950) e ripreso nc\\’Amante da una par­ te, e dall’altra la radiografia della depressione imposta da Moderato Duras, Hiroshima mon amour cit., pp. 136-7. Ibid., p. 132. Ibid., p. 149. Ibid., p. 125. * Ibid., p. 100.

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cantabile (1958) che diverrà il terreno d’elezione, l’area esclusiva dei testi intimisti degli anni successivi. Se la storia si fa discreta sino a scomparire in seguito, essa è qui cau­ sa e scena. Questo dramma dell’amore e della follia sembra indipen­ dente dal dramma politico, giacché la potenza della passione supera gli eventi politici, quale che ne sia stata l’atrocità. Più ancora, l’amore im­ possibile e folle sembra trionfare di questi eventi, se si può parlare di trionfo quando si impone un dolore erotizzato o un amore sospeso. Tuttavia, la melanconia durassiana è anche come una deflagrazione della storia. 11 dolore privato riassorbe nel microcosmo psichico del soggetto l’orrore politico. Questa francese a Hiroshima è forse stendhaliana, anzi eterna; la guerra, i nazisti e la bomba non le sottrag­ gono esistenza... Attraverso la sua integrazione nella vita privata, comunque, la vita politica perde quell’autonomia che le nostre coscienze insistono a ri­ servarle religiosamente. Cionondimeno i diversi schieramenti del con­ flitto mondiale non scompaiono all’interno di una condanna globale che equivarrebbe a un’assoluzione del crimine in nome dell’amore. Il giovane tedesco è un nemico, la durezza degli uomini della Resistenza ha una sua logica e non una parola viene detta per giustificare la parte­ cipazione giapponese al conflitto accanto ai nazisti, come peraltro la tardiva risposta americana. Se i fatti politici vengono riconosciuti dan­ do per scontata una coscienza politica che si dichiara di sinistra (il giapponese deve apparire chiaramente come un uomo di sinistra) la posta in gioco a livello estetico rimane quella dell’amore e della morte e situa di conseguenza i fatti pubblici nella luce della follia. L’evento, oggi, è la follia umana. La politica ne fa parte, soprattut­ to nei suoi accessi omicidi. La politica non è, come per Hannah Arendt, il campo in cui si dispiega la libertà umana. Il mondo moder­ no, il mondo delle guerre mondiali, il Terzo mondo, il mondo sotter­ raneo della morte che ci agisce non hanno il civile splendore della città greca. L’ambito della politica moderna è massicciamente, totalitaria­ mente sociale, livellante, omicida. Così la follia è uno spazio di indivi­ duazione antisociale, apolitico e, paradossalmente, libero. Di fronte a essa, gli eventi politici pur esorbitanti e mostruosi - l’invasione nazi­ sta, l’esplosione atomica - si riassorbono per commisurarsi unicamen­ te al dolore umano che provocano. Al limite, alla luce del dolore mo­ rale, non esiste gerarchia fra una donna innamorata rasata in Francia e una giapponese bruciata dall’atomo. Per questa etica e per questa este­ tica orientate sul dolore, il privato schernito raggiunge una dignità gra­ 193

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ve che ridimensiona il pubblico pur attribuendo alla storia la respon­ sabilità grandiosa di essere l’elemento scatenante della malattia della morte. La vita pubblica ne risulta gravemente derealizzata, mentre quella privata, in compenso, si aggrava sino a occupare tutto il reale e a render caduca qualsiasi altra preoccupazione. Il nuovo mondo, ne­ cessariamente politico, è irreale. Noi viviamo la realtà di un nuovo mondo doloroso. A partire da questo imperativo del disagio fondamentale, i diversi schieramenti politici sembrano equivalenti e rivelano la loro strategia di fuga e di debolezza menzognera: «Erano collaborazionisti, i Fernandez, e io, due anni dopo la guerra, membro del Pcf. L’equivalenza è assolu­ ta, definitiva. È la stessa cosa, la stessa pietà, la stessa invocazione di aiu­ to, la stessa incapacità di giudicare, la stessa superstizione che consiste nel credere a una soluzione politica del problema personale A partire da questo limite, si potrà sospendere l’osservazione del politico e rendere nei dettagli solo l’arcobaleno del dolore. Siamo dei sopravvissuti, dei morti viventi, dei cadaveri in aspettativa che racchiu­ dono delle Hiroshima personali nel chiuso del loro mondo privato. È possibile immaginare un’arte che, pur riconoscendo il peso del dolore moderno, lo diluisca nel trionfo dei conquistatori, o nei sarca­ smi c negli entusiasmi metafisici, oppure anche nella tenerezza del pia­ cere erotico. Non è vero anche, e soprattutto, che l’uomo moderno riesce, come non mai, a vincere la tomba, che la vita prevale ncH’cspcrienza dei vivi e che, militarmente e politicamente, le forze distruttrici della seconda guerra mondiale sembrano stroncate? La Duras sceglie un’altra via o soccombe a essa: la contemplazione complice, voluttuo­ sa, ammaliante della morte in noi, della permanenza della ferita. La pubblicazione, nel 1985, di La Douleur - strano diario segreto tenuto durante la guerra che ha come episodio principale il ritorno di Robert L. da Dachau - rivela uno dei radicamenti biografici e storici fondamentali di questo dolore. La lotta dell’uomo contro la morte di fronte allo sterminio imposto dai nazisti. La lotta del sopravvissuto nel­ la vita normale per ritrovare nel suo quasi-cadavere di scampato le for­ ze elementari di vita. La narratrice - testimone c combattente di questa avventura fra vita e morte - l’espone come da dentro, dall’interno del suo amore per il morente che rinasce. «La lotta contro la morte è co­ minciata molto presto. Bisognava andarci piano con lei, avere delicatez­ za, tatto, diplomazia. Lo accerchiava da tutte le parti Tuttavia restava ancora un varco per arrivare sino a lui. Un varco attraverso cui comu* Duras, L'amante cìr., p. 76.

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nicare con lui, certo non grande, comunque in lui c’era ancora vita, ap­ pena una scheggia di vita, ma una scheggia sì. La morte andava all’as­ salto. 39,5 il primo giorno. Poi 40. Poi 41. La morte ce la metteva tutta. 41: il cuore vibrava come una corda di violino. Il cuore, pensavamo, ora il cuore si ferma. Sempre 41. La morte lo ingiuria, lo percuote, il cuore è sordo. Non può andare avanti così, ora si fermerà»1’. La narratrice si attacca minuziosamente ai dettagli infimi ed essen­ ziali di questa lotta del corpo con la morte, della morte contro il corpo; essa scruta la testa «spiritata ma sublime», le ossa, la pelle, gli intestini e persino la merda «disumana» o «umana»... Nel cuore del suo amore, anch’esso in punto di morte, per quest’uomo, essa ritrova tuttavia, con il dolore e attraverso di esso, la sua passione per quell’essere singolo, unico e di conseguenza amato per sempre, che è il sopravvissuto Ro­ bert L. La morte ravviva l’amore morto. «X quel nome, Robert L., piango. Piango ancora. Piangerò tutta la vita [... ] proprio durante la sua agonia avievo conosciuto meglio quell’uomo, Robert L. [.. .j avevo ca­ pito per sempre quel che faceva di lui lui, lui solo e nulla e nessun altro al mondo, che parlavo della grazia così speciale di Robert L»2‘. Il dolore innamorato della morte sarebbe allora l’individuazione suprema? Ci voleva, forse, la strana avventura dello sradicamento, un’infan­ zia sul continente asiatico, la tensione di un’esistenza ardua accanto al­ la madre, una maestra elementare dura e coraggiosa, l’incontro preco­ ce con la malattia mentale del fratello c con la miseria di tutti, perche una sensibilità personale al dolore sposasse con tanta avidità il dram­ ma del nostro tempo, che impone la malattia della morte nel cuore del­ l’esperienza psichica della maggior parte di noi. Un’infanzia in cui l’a­ more, già calcinato dal fuoco di un odio trattenuto, si manifesta, come la speranza, solo sotto l’accanirsi della sventura: «Adesso gli sputo sul muso. Ella aperse e lo sputo le rimase nella bocca. Non valeva la pena. Era ancora la disdetta, questo M. Jo, la disdetta, come la diga, come il cavallo che crepava, nient’altro che la disdetta»1’. Questa infanzia fat­ ta di odio e di paura è divenuta la fonte e il blasone della storia con­ temporanca: «Una famiglia di sasso, pietrificata, chiusa in uno spessore inaccessibile. Tentiamo ogni giorno di ucciderci di uccidere. Non par­ liamo tra di noi non ci guardiamo neppure. [...] Facciamo parte della 77 Cfr. M. Duras, La Douleur, P.O.L., Paris 1985; trad, it., // dolore, Feltrinelli, Milano

1985, p. 51. " Ibid., p. 59. * Cfr. M. Duras, Un barrage contre le Pacifìque, Gallimard, Paris 1950; trad. it. Una di­ ga sul Pacifico, Einaudi, Torino 1985, p. 63.

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società che ha ridotto mia madre alla disperazione. Per quel che è sta­ to fatto a lei cosi dolce, così fiduciosa, odiamo la vita e ci odiamo»". «So­ no in preda a una paura totale»". «So già parlare a me stessa, dirmi che ho vagamente voglia di morire»". [...]aspettavo questa tristezza, era dentro di me, sono sempre stata triste»". Con questa sete di dolore sino alla follia, la Duras rivela la grazia delle nostre disperazioni più tenaci, più restie alla fede, più attuali. La donna tristezza « “Per quale via prendere una donna?” domanda il viceconsole. Il direttore ride. [...] "loia prenderei con la tristezza ” dice il viceconsole, “se mi fos­ se permesso farlo”»". La tristezza sarebbe la malattia fondamentale, se non fosse il fondo morboso delle donne nella Duras. Così Anne-Marie Stretter {Il vice­ console), Alissa {Distruggere, ella disse) o Lol V. Stein {Il rapimento di Lol V Stein) per citare solo tre casi. Una tristezza non drammatica, ap­ passita, innominabile. Un nulla che dà lacrime discrete e parole ellitti­ che. Dolore e rapimento si confondono in essa in una qualche discre­ zione. «Ho sentito dire questo... Usuo cielo, sono le lacrime», nota il vi­ ceconsole a proposito di Anne-Marie Stretter. La strana ambasciatrice a Calcutta sembra portare con sé una morte sepolta nel suo corpo pal­ lido e magro. «"La morte che vi corre dietro nella vita”, dice infine il viceconsole, “ma che non vi raggiunge mai? E così?"»". Essa porta con sé per il mondo, c al di là dei suoi amori infranti, il fascino melanconi­ co della Venezia della sua infanzia e un destino interrotto di musicista. Metafora ambulante di una Venezia glauca, di una città da fine del mondo, mentre, per altri, la città dei dogi rimane fonte di eccitazione, Anne-Marie Stretter è tuttavia l'incarnazione del dolore di ogni don­ na normale, «Di Digione, di Milano, di Brest, di Dublino» un po’ in­ glese forse, ma no, è universale: « Volevo dire che è un po' semplice cre­ dere che si venga soltanto da Venezia, si può venire da altri luoghi at­ traversati strada facendo, direi»". “ Duras, L’amante cit., pp. 61-2. '■ Ibid., p. 91. “ Ibid., p. 09. ” Ibid., p. j2. M Cfr. M. Duras, Le Vice-Consul, Gallimard» Paris 1966; trad. il. Il viceconsole, Feltri­ nelli, Milmo 1986, p. 55. '>s!bil.,p. 111. u Ibid., p. 73.

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Il dolore è il suo sesso, il luogo d’elezione del suo erotismo. Quan­ do riunisce di nascosto il cenacolo dei suoi innamorati, al Blue-Moon o nella sua residenza segreta, cosa fanno costoro? «La guardano. È magra sotto l’accappatoio nero, stringe le palpebre, la sua bellezza è scomparsa. In quale intollerabile benessere si trovai». «Ed ecco che quanto Charles Rossett non sapeva di aspettare acca­ de. Ne è certo? Sì. Sono lacrime. Le escono dagli occhi e le scivolano lungo le guance, molto piccole, rilucenti»”. «La guardano, le palpebre larghe fremono, le lacrime non scorrono [...] Piango senza poterne di­ re il motivo, è come una pena che mi trafigge, bisogna pure che qual­ cuno pianga, è come se fossi io». «Lei sa che loro sono lì, vicini, ne è certa, gli uomini di Calcutta, non si muove affatto, se lo facesse... no... dà la sensazione di essere adesso prigioniera di un dolore troppo antico per essere ancora pianto» *. Questo dolore esprime un piacere impossibile, è il segno lacerante della frigidità. Trattenendo una passione che non può esprimersi, il do­ lore è tuttavia, e più profondamente, la prigione in cui si rinchiude il lutto impossibile di un antico amore fatto tutto di sensazioni e di au­ tosensazioni, inalienabile, inseparabile e, per ciò stesso, innominabile. Il lutto incompiuto del pre-oggetto autosensualc fissa la frigidità fem­ minile. Così il dolore che a esso si connette contiene una donna sco­ nosciuta a quella che abita in superficie: un’estranea. Al narcisismo in disarmo delle apparenze melanconiche, il dolore aggiunge e oppone il narcisismo profondo, l’autosensualità arcaica, degli affetti feriti. Così, troveremo alla fonte di questo dolore un abbandono inassumibile. Co­ sì esso si rivela attraverso il gioco delle duplicazioni in cui il corpo pro­ prio si riconosce nell’immagine di un altro a condizione che sia la re­ plica della sua. «Non io» o l’abbandono

l’.abbandono raffigura l’insormontabile trauma inflitto dalla sco­ perta - probabilmente precoce e proprio per questo impossibile da ela­ borare - dell’esistenza di un non io”. In effetti, l’abbandono struttura ciò che resta di una storia nei testi della Duras: l’amante è abbandona­ ta dal suo amante, il Tedesco della Francese di Nevers muore (Hiro’’ Ibid., p, 124. M Ibid., Dp. 125-6. * * “È la forza di Marguerite Duras osare un discorso tra “il fascino che agirebbe liberan­ do” e “il colpo di fulmine, ma suicida”, pulsione di morte da cui trarrebbe origine quella che prende il nome di sublimazione». Cfr. M. Marini, Territoires du femìn (in collaoorazione con Marguerite Duras), Editions de Minuit, Paris 1977, p. 56.

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shima mon amour, 1960); Michael Richardson abbandona pubbli­ camente Lol V. Stein (Il rapimento di Lol V. Stein); ancora Michael Richardson, amante impossibile, scandisce una serie di naufragi nella vita di Anne-Marie Stretter (Il viceconsole); Elisabeth Alione ha per­ duto il figlio nato-morto, e prima c’è stato l’amore del giovane medi­ co per lei, che tenta di uccidersi quando mostra le lettere dell’amante al marito (Distruggere, ella disse, 1969); quanto all’uomo c alla ragaz­ za di La Maladie de la mori (1982), essi sembrano abitati da un lutto costitutivo che rende la loro passione fisica morbosa, distante, sempre già condannata; infine, la piccola francese e il suo amante cinese sono già in partenza convinti dell’impossibilità e della condanna del loro le­ game, al punto che la bambina c persuasa di non amare e si lascia tur­ bare da un’eco della sua passione messa da parte solo quando sente un’aria di Chopin sul battello che la porta in Francia (L’amante). Questo sentimento di inevitabile abbandono che rivela la separazio­ ne o la morte reale degli amanti sembra così immanente e come prede­ stinato. Esso si aggroviglia intorno alla figura materna. La madre della giovane di Nevers era separata dal marito... oppure (la narratrice esita) era ebrea, e era partita per la zona libera. Lol V. Stein, per parte sua, an­ cor prima del fatidico ballo in cui Michael Richardson l’abbandonerà per Anne-Marie Stretter, arriva accompagnata dalla madre la cui silhouette, elegante e ossuta, con tutti «gli emblemi di una oscura nega­ zione della natura»0 annuncia la magrezza elegante, mortuaria e inac­ cessibile della futura rivale. Più drammaticamente, la folle sacerdotessa buddista del Viceconsole, che passa senza rendersene conto dall’Indoci­ na in India, incinta e in preda alla cancrena, lotta con la morte, ma so­ prattutto con la madre che l’aveva cacciata dalla casa natale: «Dice qual­ che parola in cambogiano: buongiorno, buonasera. Alla bambina, lei parlava. A chi adesso? Alla vecchia madre del Tonlé-Sap, origine, causa di tutti i mali, del suo destino storto, il suo amore puro»". Con una lugubre forza gotica la follia della madre dell’innamorata nell’Amante assurge quasi ad archetipo delle donne folli che popolano l’universo durassiano. « Vedo chiaramente che mia madre è pazza. Di nascita. Nel sangue. Non era malata di pazzia, viveva la pazzia come fosse salute»". L’odio unisce madre e figlia in una morsa di passione che si rivela esser la fonte del misterioso silenzio che solca la scrittura: «è da rinchiudere, da picchiare, da uccidere»". «Credo di aver parlato c Duras, Il rapimento di l.ol V. Stein cit., p. 12. *'■ Id., // viceconsole cit., p. 125. '• Id., L’amante cit., pp. 38-9. /bid., p. 31.

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dell’amore per nostra madre, ma non so se ho parlato anche dell’odio [...] Di lì comincia anche il silenzio, quel silenzio sul quale mi affati­ cherò lentamente per tutta la vita. Sono ancora qui davanti a questi bambini ossessionati, sempre ugualmente distante dal mistero. Non ho mai scritto credendo di farlo, non ho mai amato credendo di amare, ho solo aspettato davanti a quella porta chiusa» . ** La paura della follia ma­ terna induce la scrittrice a far scomparire questa madre, a distaccarse­ ne con una violenza non meno omicida di quella della stessa madre che batte la figlia prostituta. Distruggere, sembra dire la figlia narratrice nell'Amante, ma cancellando il volto della madre essa ne prende auto­ maticamente il posto. La figlia si sostituisce alla follia materna, più che uccidere la madre la prolunga nell’allucinazione negativa di un’identi­ ficazione sempre fedelmente amorosa: «4 un tratto avevo vicino una persona seduta al posto di mia madre che non era mia madre, [...] la sua insostituibile identità era sparita e io non potevo fare in modo che tornasse, che cominciasse a tornare. Niente sembrava più abitare quel­ l’immagine. Sono diventata pazza in piena lucidità» * 5. Pur indicando che il legame con la madre è un antecedente del dolo­ re, il testo non lo designa né come causa né come origine. Il dolore è au­ tosufficiente, esso trascende gli effetti come le cause c spazza via qual­ siasi entità, quella dell’oggetto come quella del soggetto. Il dolore sareb­ be allora la soglia ultima dei nostri stati anoggettuali? Esso è inaccessibi­ le alla descrizione ma si dà nelle inspirazioni, nelle lacrime, nei bianchi tra le parole. «Mi esalto sul dolore in India. Lo facciamo tutti più o me­ no, noi È un dolore di cui si può parlare solo se ce ne assumiamo il respi­ ro in noi...» . ** A un tempo massiccio ed esterno, il dolore si confonde con il distacco o con qualche profonda scissione dell’essere femminile, che verrebbe sentita come il vuoto di una noia insuperabile se si rivelas­ se nel luogo stesso della divisione soggettiva: «Parlò solo per dire che le era impossibile esprimere quanto fosse noioso e lungo, lungo - essere Lol V Stein. Le chiedevano di fare uno sforzo. Non capiva perché, diceva. La difficoltà che provava davanti alla ricerca di una sola parola sem­ brava insormontabile. Pareva che non aspettasse più niente». «Pensava a qualche cosa, a se stessa? le domandavano. Non capiva la domanda. Si sarebbe detto che andava avanti per forza d’inerzia e che l’infinita stanchezza di non riuscire a fermarsi non era concepibi­ le, sembrava divenuta un deseno dove una facoltà nomade l’avesse “ Ibid., p. 33. •’/W,p.92. “■ Duras, Il viceconsole cit., p. IC1.

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lanciata all’inseguimento interminabile di che? Non si sapeva. Essa non rispondeva»". Del rapimento: niente piacere

Si avrebbe probabilmente torto a prendere questa donna durassiana per tutta la donna. Tuttavia, in essa appaiono alcuni tratti frequen­ ti nella sessualità femminile. Si è portati a supporre, in questo essere tutto di tristezza, non una rimozione ma un esaurimento delle pulsio­ ni erotiche. Confiscate dall’oggetto d’amore - dall’amante o, dietro a lui, dalla madre il cui lutto rimane impossibile - le pulsioni sono come sbiancate, svuotate della loro capacità di formare un legame, di piace­ re sessuale o di complicità simbolica. La Cosa perduta ha certo lascia­ to il suo marchio sui suoi affetti in disarmo e su questo discorso alleg­ gerito di significazione, ma è il marchio di un’assenza di uno slega­ mento fondamentale, che può provocare il rapimento, non il piacere. Per raggiungere questa donna c il suo amore, occorrerebbe cercare nel­ la cantina segreta in cui non c’è nessuno, solo gli occhi scintillanti dei gatti di Nevers e l’angoscia catastrofica della giovane che si perde in es­ si. «Ritornare e raggiungerla? No. Sono forse le lacrime che privano della persona?»'". Questo rapimento dissimulato e ancrotico (nel senso di privo di le­ game, di distacco dall’altro per volgersi soltanto verso il cavo del cor­ po proprio che si disappropria tuttavia nell’istante stesso del godi­ mento e sprofonda in un’amata morte a sé) sarebbe allora, se non il se­ greto, almeno un aspetto del godimento femminile? È quanto La Maladie de la mon lascia intendere. Qui l’uomo assapora il corpo aperto della giovane come una scoperta regale della differenza sessuale altri­ menti inaccessibile, ma che tuttavia gli appare mortifera, divorante, pe­ ricolosa. Egli si difende dal piacere di dormire nel sesso umido della compagna immaginandosi di ucciderla: « Voi scoprite che è là, in lei, che sifomenta la malattia della morte, che è questa forma dispiegantesi da­ vanti a voi che decreta la malattia della morte»n. Lei, invece, ha una grande familiarità con la morte. Distaccata, indifferente al sesso eppu­ re innamorata dell’amore e docile al piacere, essa ama la morte che pensa di portare dentro di lei. Più ancora, questa complicità con la morte le dà l’impressione di essere al di là della morte: la donna non dà *’ Duras, Il rapimento di Lol V. Stein cit., pp. 19-20. “ Id., Il viceconsole cit., p. 127. " Id., La maladie de la mori cit., p. 38.

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né subisce la morte perché ne fa parte e perché l’impone. È lui che ha la malattia della morte; lei ne è parte, quindi passa da un’altra parte: « Vi guarda attraverso il filtro verde delle sue pupille. Lei dice: Voi annun­ ciate il regno della morte. Non si può amare la morte se vi viene impo­ sta dal di fuori Voi credete di piangere di non amore, mentre piangete perché non imponete la morte» *. E se ne va, inaccessibile, deificata dal­ la narratrice per il suo portar la morte agli altri attraverso un amore di «una mirabile impossibilità», per lei come per lui. Una certa verità del­ l’esperienza femminile che tocca il godimento del dolore sfiora nella Duras la mitizzazione del femminile inaccessibile. Pure, questa no man’s land di affetti dolorosi e di parole svaloriz­ zate che si avvicina allo zenith del mistero, per morta che sia, non è del tutto priva di espressione. Essa ha un suo specifico linguaggio: la ridu­ plicazione. Tale linguaggio crea degli eco, dei doppi, dei simili che ma­ nifestano la passione o la distruzione quale la donna addolorata non è in grado di parlare e di cui soffre di esser priva.

Coppie e doppi Una riduplicazione La riduplicazione è una ripetizione bloccata. Mentre il ripetuto si sgrana nel tempo, la riduplicazione è fuori tempo. È una riverberazio­ ne nello spazio, un gioco di specchi senza prospettiva, senza durata. Un doppio può fissare per un certo periodo l’instabilità del medesimo, dargli un’identità provvisoria, ma scava soprattutto il medesimo en ahimè, apre in esso un fondo insospettato e insondabile. Il doppio è il fondo inconscio del medesimo, ciò che lo minaccia e può divorarlo. Fabbricata dallo specchio, la riduplicazione precede l’identificazio­ ne speculare propria dello «stadio dello specchio»: essa rimanda agli ante-posti delle nostre identità instabili confuse da una pulsione che nulla ha saputo differire, negare, significare. La potenza innominabile di un simile sguardo aggiunto alla vista si impone come universo privilegiato e insondabile nel desiderio: «Si ac­ contentava di guardare Suzanne con occhi turbati, di guardarla anco­ ra, di accrescere il suo sguardo con una vista supplementare, come si fa di solito quando si è soffocati dalla passione» *'. Al di là o al di qua del­ la vista, la passione ipnotica vede dei doppi. Anne Desbaresdes c Chauvin in Moderato cantabile costruiscono la loro storia d’amore sull’eco di quella che immaginano sia la storia w ibid., p. 48. 15 Duns, Una diga sul Palifico cir., p. 59.

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della coppia di amanti in cui la donna ha voluto essere uccisa dall’uo­ mo. 1 due protagonisti esisterebbero senza il riferimento immaginario al godimento masochistico della coppia che li ha preceduti? La trama è strutturata in modo che in essa si esegua «moderato cantabile» un’altra riduplicazione, quella della madre e del figlio. Madre e bambino realiz­ zano un’acme di quella riflessione immaginata in cui l’identità di una donna si perde nell’amore del suo piccolo. Se madre e figlia possono es­ sere rivali e nemiche (L'amante), la madre e il figlioletto appaiono in Moderato cantabile come puro amore divorante. Come il vino e prima ancora di mettersi a bere, il figlio assorbe Anne Desbaresdes, che si ac­ cetta solo in lui - indulgente e rapita. Egli è l’asse che sostituisce le de­ lusioni amorose sottintese e che rivela la sua demenza. Il figlio è la for­ ma visibile della follia di una madre delusa. Senza di lui, essa sarebbe forse morta; con lui, è in una vertigine d’amore, di procedure pratiche c pedagogiche, ma anche di solitudine, in eterno esilio rispetto agli altri e a se stessa. Come una replica quotidiana e banale della donna che, al­ l’inizio del romanzo, ha desiderato di essere uccisa dal suo amante, la madre Anne Desbaresdes vive la sua morte estatica nell’amore per il fi­ glio. Pur svelando gli abissi masochistici del desiderio, questa figura complessa (madre-figlio/innamorato-innamorata/morta-uccisore ap­ passionati) mostra su quali delizie narcisistiche e autosensuali la soffe­ renza femminile si regga. II figlio è certo la resurrezione della madre, ma, inversamente, le morti di lei sopravvivono in lui: le sue umiliazio­ ni, le sue ferite innominate divenute carne viva. Più l’amore materno aleggia sulla sofferenza di una donna, più il figlio è di una dolorosa e sonile tenerezza... Anche il giapponese e il tedesco in Hiroshima mon amour sono dei doppi. Nell’esperienza amorosa della giovane di Nevers, il giappone­ se riaccende il ricordo del suo amante morto, ma le due immagini ma­ schili si mescolano in un puzzle allucinatorio tale da suggerire che l’a­ more per il tedesco è presente senza oblio possibile e che, inversamen­ te, l’amore per il giapponese è destinato a morire. Riduplicazione e scambio di attributi. Attraverso questa strana osmosi, la vitalità di un sopravvissuto alla catastrofe di Hiroshima viene ad essere come velata da una sorte macabra, mentre la morte definitiva dell’altro sopravvive, diafana, nella passione ferita della giovane donna. Questa riverbera­ zione dei suoi oggetti d’amore polverizza l’identità dell’eroina: essa non appartiene ad alcun tempo ma allo spazio della contaminazione delle entità in cui il suo essere proprio oscilla, doloroso e rapito. 202

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Il segreto criminale

Nel Viceconsole, questa tecnica di riduplicazionc raggiunge l’apo­ geo. Alla follia espressionista della sacerdotessa di Savannakhet - che ri­ prende il tema della donna asiatica dal piede malato in Una diga sul Pa­ cifico?1 fa riscontro la melanconia decadente di Annc-Marie Strctter. Di fronte alla miseria struggente e al corpo che imputridisce della donna asiatica, le lacrime veneziane di Anne-Marie Stretter sembrano un ca­ priccio lussuoso c insostenibile. Eppure, il contrasto tra le due cose non sussiste quando il dolore entra in gioco. Su un fondo di malattia, le im­ magini delle due donne si confondono, e l’universo etereo di Anne-Marie Strctter acquista una dimensione di follia che non avrebbe tanta for­ za se non recasse impresso il marchio dell’altra randagia. Due musiciste: la pianista, la cantante delirante; due esiliate: una dall’Europa, l’al­ tra dall’Asia; due donne ferite: una da una ferita invisibile, l’altra vitti­ ma incancrenita della violenza sociale, familiare, umana... Questo duo diviene un trio per l’aggiunta di un’altra replica, maschile questa volta: il viceconsole di Lahore. Strano personaggio, che si presume abitato da una miseria arcaica, mai confessata, che ci è nota solo attraverso gli atti sadici: fialette puzzolenti a scuola, spari su esseri viventi a Lahore... È vero, e falso? II viceconsole, temuto da tutti, diviene il complice di An­ ne-Marie Stretter c un innamorato condannato soltanto alla sua fred­ dezza perché anche le lacrime dell’incantatrice sono destinate agli altri. Il viceconsole sarebbe allora una metamorfosi viziosa, possibile, della melanconica ambasciatrice, la sua replica maschile, la sua variante sadi­ ca, l’espressione del passaggio all’atto cui precisamente essa non si dà, neppure attraverso il coito? Un omosessuale forse, che ama di un amo­ re impossibile una donna che, nella sua miseria sessuale percorsa da un desiderio privo di soddisfazione, avrebbe voluto essere proprio come lui: fuori legge, fuori portata. 11 trio di questi tre sfasati - la sacerdotes­ sa buddista, il viceconsole, la depressa - tesse un universo che sfugge agli altri personaggi del romanzo, per quanto vicini all’ambasciatrice. Esso offre alla narratrice l’humus profondo della sua ricerca psicologi­ ca: il segreto criminale e folle che giace sotto le supcrfici dei nostri com­ portamenti diplomatici e di cui la tristezza di certe donne reca discreta testimonianza. L’atto amoroso dà spesso occasione a una simile riduplicazione, in cui ogni partner diviene il doppio dell’altro. Così, in La maladie de la mon, l’ossessione mortifera dell’uomo si confonde con i pensieri morM Ibid., p. 102.

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tuari della sua amante. Le lacrime dell’uomo che gode dell’«abominevole frigidità» della donna fanno riscontro al suo silenzio addormentato, di­ staccato, rivelando quale ne sia il senso: una sofferenza. Ciò che la don­ na crede sia la falsità del discorso di lui, che non corrisponderebbe alla realtà sottile delle cose, viene ad essere abreagito nella sua fuga, quando, indifferente alla sua passione, lascia la stanza delle loro effusioni. Cosic­ ché i due personaggi finiscono per sembrare come due voci, due onde «fra il bianco dei lenzuoli e quello del mare»'’'. Un dolore passato (come un colore) riempie questi uomini e queste donne, doppi e repliche, e, colmandoli, sottrae loro ogni altra psicolo­ gia. Questi calchi non sono più individuati che attraverso i loro nomi propri: diamanti neri e incomparabili, impenetrabili, che coagulano sul­ la distesa della sofferenza. Anne Desbaresdes, Lol V. Stein, Elisabeth Aliene, Michael Richardson, Max Thor, Stein... I nomi sembrano con­ densare c trattenere una storia che i loro portatori forse ignorano, al pa­ ri del lettore, una storia che tuttavia insiste nella loro consonanza stra­ na c finisce quasi per rivelarsi alle nostre proprie estranierà inconsce, di­ venendo bruscamente ma familiarmente incomprensibile. L’evento e l’odio. Tra donne.

Facendo eco alla simbiosi mortifera con la madre, la passione tra due donne è una delle figure più intense dello sdoppiamento. Quando Lol V. Stein si vede sottrarre il fidanzato da Anne-Marie Stretter (che non trarrà gran giovamento da questo acquisto e di cui conosceremo la tri­ stezza inconsolabile nel Viceconsole), si rinchiude in un isolamento te­ tro e inaccessibile: «Non sapere niente di Lol era già conoscerla»". Tut­ tavia, qualche anno dopo, quando tutti la credono guarita e tranquilla­ mente sposata, la vediamo spiare le effusioni amorose della sua amica di un tempo Tatiana Karl e di Jacques Hold. Lol è innamorata della cop­ pia, di Tatiana soprattutto, e vorrà prenderne il posto, tra le stesse brac­ cia, nel medesimo letto. Questo assorbimento della passione dell’altra donna - con Tatiana che funge qui da sostituto della prima rivale, An­ ne-Marie Stretter, e, in ultima analisi, della madre - ha luogo anche in senso inverso: Tatiana, sino a quel momento leggera e lucida, si mette a soffrire. Le due donne sono ormai dei calchi, delle repliche nello scena­ rio del dolore che, agli occhi rapiti di Lol V. Stein, regola il moto del mondo: «le cose si fanno pii precise intomo a lei e a un tratto ne scorge “ Duras, La maladie de la mori cit., p. 61. M ld., Il rapimento di Lol V Stein cit., p. 65.

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a nudo le spine, i rimasugli sparsi dappertutto, roteantipel mondo, e quel rifugio già mezzo rosicchiato dai topi il dolore di Tatiana, lo vede, ne è nauseata, dovunque il sentimento, scivolare su quell'untume. Credeva che potesse esistere un tempo capace di riempirsi e svuotarsi alternativa­ mente, si riempie, si svuota ed è pronto di nuovo, sempre, a servire. Lo crede ancora, lo crederà sempre, non guarirà mai»". I doppi si moltiplicano nello specchio di Distruggere, ella disse e aleggiano sul tema della distruzione che, una volta nominato nel cor­ po del testo, viene a galla per illuminare il titolo c rendere intelligibili tutte le relazioni che il romanzo mette in scena. Elisabeth Alione, de­ pressa in seguito a un amore infelice e alla morte durante il parto del­ la sua bambina, si riposa in un albergo desolato, abitato da malati. Qui incontra Stein c il suo doppio Max Thor, due ebrei eternamente sul punto di divenire scrittori: «con che forza si impone a volte il non scriverc»4*. Due uomini legati da un’indicibile passione che si suppone omosessuale c che, precisamente, non riesce a inscriversi, se non attra­ verso la mediazione di due donne. Egli ama/cssi amano Alissa c sono affascinati da Elisa. Alissa Thor scopre che suo marito è felice di co­ noscere Elisa che seduce Stein: così si lascia a sua volta avvicinare e amare dal medesimo Stein (il lettore è libero di comporre le diadi che preferisce in questa trama suggestiva). Alissa è stupefatta di scoprire che Max Thor è felice in questo universo caleidoscopico dei doppi con Stein, probabilmente a causa di Elisa? Ma egli non afferma anche che è a causa della stessa Alissa? - «Distruggere, ella disse»4'. Per quan­ to abitata da questa distruzione, Alissa si specchia in Elisa, per disve­ lare, nell’ambiguità dell’identificazione e della decomposizione, un’au­ tentica follia dietro la parvenza di giovane donna fresca. «Sono una che ha paura - continua Alissa - paura d'essere abbandonata, paura del­ l'avvenire, paura d’amare, paura della violenza del numero, paura di ciò che non si sa, della fame, della miseria, della verità»". Quale? La sua o quella di Elisa? «Distruggere, ella disse». Le due donne, tuttavia, si intendono. Alissa e il portaparola di Elisa. Ripete i suoi discorsi, testimonia del suo passato e profetizza sul suo avvenire, in cui peraltro vede solo ripetizioni e doppi, tanto più che l’estraneità di ogni persona a se stessa fa sì che ciascuno divenga, con il tempo, il proprio doppio c il proprio altro. ’’ Ibid., p. 127. » Cfr. M. Duras, Détruìre, dit-elle, Éditions de Minuit, Paris 1969; trad. it. Distruggere, ella disse, Eìnaudì, Torino 1969, p- 39. ” Ibid., p. 25. 127.

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«Elisabeth non risponde. - Ci si conosceva quando si era bambini, le nostre famiglie erano amiche. Alissa ripete a bassa voce: “Ci si conosceva quando si era bambini, le nostre famiglie erano amiche”. Silenzio. - Se lo amasse, se lo avesse amato una volta, una sola volta nella sua vita, avrebbe amato gli altri - disse Alissa, - Stein e Max Thor. - Non capisco... - dice Elisabeth, - ma... - Tutto questo succederà in un altro tempo, - dice Alissa, - più tar­ di. Ma non sarà né lei né loro. Non badi a quel che dico. - Stein dice che lei è pazza. - Stein dice tutto»". Le due donne parlano facendosi eco: una completa le parole del­ l’altra e l’altra le nega pur sapendo che queste parole dicono una parte della loro verità comune, della loro complicità. Questa dualità deriverebbe dal fatto di esser donna, dal condivide­ re una stessa plasticità, che alcuni dicono isterica, pronta a prendere la sua immagine per quella dell’altro {«Prova quello che l’altra prova»)?11 O dall’amare un medesimo uomo doppio? Dal non avere un oggetto d’amore stabile, dal sezionare questo oggetto in un brillio di riflessi inafferrabili, giacche nessun asse è capace di fissare e di placare una passione endemica, forse materna? In effetti, l’uomo sogna di lei - di esse. Max Thor, innamorato della moglie Alissa, ma memore di essere il doppio di Stein, la chiama in so­ gno Elisa, mentre Stein per parte sua sogna c pronuncia Alissa Eli­ sa/Alissa.. . Fatto sta che «si trovano tutte e due prese in uno specchio». «Ci assomigliamo, - dice Alissa - ameremmo Stein, se fosse possibi­ le amare. -[...]. - Com’è bella, - dice Elisabeth. - Siamo donne, - dice Alissa. - Guardi -[...]. - L’amo e la desidero, - dice Alissa»". Con l’aiuto dell’omonimia non è però un’identificazione che si pro­ duce tra loro. Al di là del momento fugace del riconoscimento specula** Duras, Déiruire, dit-clle cit., p. 69. “ Ibid., p. 87. •’ Ibid., pp. 67-8.

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re e ipnoide, si apre vertiginosamente l’impossibilità di essere l’altro. L’ipnosi (la cui formula suonerebbe: Pana è l’altra) si accompagna al dolore di constatare che la fusione dei loro corpi è impossibile, che es­ se non saranno mai la madre e sua figlia inseparabile: la figlia di Elisa­ beth è morta, la figlia e distrutta dalla nascita. C’è di che sfasare ciascu­ na delle protagoniste c svuotare ancora di più la loro identità instabile. Quali sono gli ingredienti di questo miscuglio di ipnosi e di pas­ sione utopica? Gelosia, odio trattenuto, fascinazione, desiderio sessuale per la ri­ vale e per il suo uomo: tutta la gamma si insinua nei comportamenti e nelle parole di queste creature lunatiche che vivono «un’enorme pena» e si lamentano senza dirlo ma «come cantando». La violenza di queste pulsioni irriducibili alle parole è soprattutto filtrata da un ritegno dei comportamenti, come addomesticati già in se stessi grazie allo sforzo di messa in forma, come in una scrittura pree­ sistente. Il grido dell’odio di conseguenza non risuona nella sua sel­ vaggia brutalità ma è trasformato in musica, una musica che (ricor­ dando in ciò il sorriso della Vergine o della Gioconda) rende visibile il sapere di un segreto anch’csso invisibile, sotterraneo, uterino, e comu­ nica alla civiltà un dolore civile, rapito ma sempre implacato che le pa­ role eccedono. Musica a un tempo neutra e distruttiva: «che frantuma alberi, fulmina i muri» smorzando la rabbia in «dolcezza sublime» e in «riso assoluto»11. La melanconia femminile sarebbe placata dal ritrovamento dell’al­ tra donna, una volta che quest’ultima può essere immaginata come la partner privilegiata dell’uomo? Oppure sarebbe acutizzata e anzi for­ se provocata dall’impossibilità di incontrare - di soddisfare - l’altra donna? Fra donne in ogni caso si consuma l’odio captato, inghiottito dentro, là dove giace imprigionata la rivale arcaica. Quando si esprime, la depressione si erotizza in distruzione: violenza scatenata con la ma­ dre, demolizione piena di grazia con l’amica. La madre dominatrice, cadente e folle, entra in scena con forza in Una diga sul Pacifico e determina la sessualità dei figli: «una disperata della speranza stessa»". «Il dottore faceva risalire l’origine delle sue cri­ si al crollo della diga. Forse si sbagliava. Una simile somma di risenti­ mento non poteva essersi accumulata che molto lentamente, anno per “ Ibid., p. 90, *’ Duras, Una diga sul Pacifico cit., p. 123.

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anno, giorno per giorno. Non aveva una causa sola. Ne aveva mille, compreso il crollo della diga, l’ingiustizia del mondo, lo spettacolo dei suoi figli che si bagnavano nel fiume [...] morire di questo, morire di sfortuna»1'’. Distrutta dalla «scalogna», esasperata dalla sessualità gra­ tuita della figlia, questa madre cade in preda a crisi. «Ella colpiva an­ cora, come spinta da un bisogno che non l’abbandonava. Suzanne ai suoipiedi, mezzo nuda nella veste strappata, piangeva. [...] E se voles­ si ammazzarla?». Se mi piacesse di ammazzarla?»‘s dice a proposito della figlia. In preda a questa passione, Suzanne si dà senza amare nes­ suno. A parte, forse, suo fratello Giuseppe. E questo desiderio inces­ sante che il fratello condivide e realizza nel suo modo furioso e quasi delinquenziale («era un po’ come se andassi a letto con una sorella quando andavo con lei»f‘ introduce il tema favorito dei romanzi che seguiranno, l’impossibilità dell’amore, delincato da una serie di doppi. Dopo l’implosione dell’odio materno nella demenza della folle sa­ cerdotessa {Il viceconsole), la distruzione madrc/figlia dell’Amante im­ pone la convinzione che lo scatenamento della madre contro la figlia sia l’«evcnto» che la figlia in preda all’odio e all’amore per la madre spia, prova e rende con meraviglia: «Nelle sue crisi mia madre mi si butta addosso, mi rinchiude in camera, mi dà pugni, schiaffi, mi spo­ glia, mi si avvicina, mi annusa, annusa la biancheria, dice di sentire l'o­ dore dell’uomo cinese... »a. Così il doppio inafferrabile rivela l’insistenza di un oggetto d’amo­ re arcaico, incontrollabile e immaginario che, dalla sua dominazione e dal suo tirarsi indietro, dalla sua prossimità sororale o materna, come pure dalla sua esteriorità imprendibile e di conseguenza soggetto e og­ getto di odio, mi mette a morte. Tutte le figure dell’amore convergono verso questo oggetto autosensuale e devastante, anche se sono costan­ temente rilanciate dal perno di una presenza maschile. Spesso centra­ le, il desiderio dell’uomo è ciononostante sempre travolto e trascinato dalla passività offesa ina subdolamente forte delle donne. Sono stranieri tutti gli uomini - il cinese neìl’Amante, il giappone­ se in Hiroshima, c tutta la serie degli ebrei o dei diplomatici senza ra­ dici... Sensuali e insieme astratti, essi sono corrosi da una paura che la loro passione non riesce mai a dominare. Questa paura appassionata è “ Duras, Una diga sul Pacifico eie, p. 17. “ Ibid., pp. 118-9. “ Ibid., p. 222. v Duras, L’amante eie., p. 66.

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La malattia de) dolore: Duras

come uno spigolo vivo, asse o rilancio dei giochi di specchi fra donne che dispiegano la carne del dolore di cui gli uomini sono lo scheletro. Dall’altra parte dello specchio

Un’insoddisfazione irriducibile, ma rapita, si apre nello spazio co­ sì costruito che separa due donne. Si può chiamarla senza mezzi ter­ mini un'omosessualità femminile. Nella Duras, tuttavia, si ha piutto­ sto a che fare con una ricerca per sempre nostalgica del medesimo co­ me altro, dell’altro come medesimo, nella panoplia del messaggio nar­ cisistico o di un’ipnosi che sembra inevitabile alla narratrice. Essa rac­ conta il sottosuolo psichico che precede le nostre conquiste dell’altro sesso e che rimane soggiacente agli incontri eventuali, e rischiosi, degli uomini e delle donne. Siamo abituati a non fare attenzione a questo spazio quasi uterino. E non a torto. Perché in questa cripta di riflessi, le identità, i lega­ mi e i sentimenti si distruggono. «Distruggere, ella disse». Eppure, la società delle donne non è né necessariamente selvaggia né semplicemente distruttrice. Dall’inconsistenza o dall’impossibilità dei legami necessariamente erotici, essa costituisce un’aura immaginaria di com­ plicità che può rivelarsi lievemente dolorosa e forzatamente luttuosa in quanto assorbe nella sua fluidità narcisistica ogni oggetto sessuale, ogni ideale sublime. I valori non reggono di fronte a questa «ironia della comunità» - così Hegel chiamava le donne - la cui distruttività non è tuttavia necessariamente divertente. Il dolore dispiega il suo microcosmo attraverso la riverberazione dei personaggi. Questi ultimi si articolano in doppi come in specchi che deformano ingrandendole le loro melanconie fino alla violenza c al delirio. Questa drammaturgia della riduplicazione ricorda l’identità instabile del bambino che, nello specchio, trova l’immagine della ma­ dre solo come replica o come eco (pacificante o terrificante) di se stes­ so. Come un alter ego coagulato nella gamma delle intensità pulsiona­ li che lo agitano, distaccato di fronte a lui, ma non mai fisso c sempre sul punto di invaderlo con un movimento ostile di ritorno a boome­ rang. L’identità, nel senso di un’immagine stabile c solida di sé in cui si costituirà l’autonomia del soggetto, si attua solo al termine di questo processo, quando il brillio narcisistico si compie in un’assunzione giubilatoria, opera del Terzo. Anche i più solidi di noi sanno tuttavia che un’identità chiusa ri­ mane una finzione. Il dolore durassiano evoca precisamente e in paro­ 209

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le vuote questo lutto impossibile che, se portato a termine, ci avrebbe distaccato dalla nostra controfigura morbosa e istituito in soggetti in­ dipendenti c unificati. Così esso ci prende e ci porta ai rischiosi confi­ ni delle nostre vite psichiche. Moderno e postmoderno

Letteratura delle nostre malattie, l’opera della Duras accompagna le profonde miserie scatenate e accentuate dal mondo moderno, certo, ma anche e soprattutto essenziali, trans-storiche. Letteratura dei limiti, anche nel suo dispiegare i limiti del nomina­ bile. I discorsi ellittici dei personaggi, l’ossessiva vocazione di un «nul­ la» che riassumerebbe la malattia del dolore, designano un naufragio delle parole di fronte all’affetto innominabile. Questo silenzio, come abbiamo detto, ricorda il «nulla» che l’occhio di Valéry vedeva in un forno incandescente, nel cuore di un disordine mostruoso. La Duras non lo orchestra al modo di Mallarmé, che cercava la musica delle pa­ role, né a quello di Beckett, che raffina una sintassi che segna il passo o avanza a scatti aggirando la fuga in avanti del racconto. La riverbe­ razione dei personaggi al pari del silenzio inscritto tal quale, l’insisten­ za sul «nulla» da dire come manifestazione ultima del dolore, portano la Duras a una sbiancatura del senso. Uniti a una goffaggine retorica, tutti questi elementi costituiscono un universo di disagio perturbante e contagioso. Moderna storicamente e psicologicamente, questa scrittura si tro­ va oggi a dover affrontare la sfida post-moderna. Si tratta ormai di ve­ dere nella «malattia del dolore» solo un momento della sintesi narra­ tiva capace di trascinare nel suo complesso turbine tanto le medita­ zioni filosofiche quanto le difese erotiche o i piaceri divertenti. Il po­ st-moderno è più vicino alla commedia umana che al disagio abissale. L’inferno così com’è, esplorato a fondo nella letteratura del dopo­ guerra, non ha forse perduto la sua inaccessibilità infernale per dive­ nire sorte quotidiana, trasparente, quasi banale - un «nulla» - come le nostre verità ormai visualizzate, teletrasmesse, e in fondo non più tan­ to segrete...? Il desiderio di commedia maschera oggi - senza igno­ rarlo - il pensiero di questa verità senza tragedia, di questa melanco­ nia senza purgatorio. Vengono in mente Marivaux e Crébillon. Un nuovo mondo amoroso vuole venire alla luce nell’eterno ri­ torno dei cicli storici e mentali. All’inverno della cura succede l’arti­ ficio del sembiante; al bianco della noia - il divertimento lacerante della parodia. E viceversa. La verità, insomma, come fa la sua strada 210

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negli scintillìi dei divertimenti fittizi, così può affermarsi nei giochi di specchi dolorosi. La meraviglia della vita psichica non è dopotutto le­ gata a questo alternarsi di difese c cadute, di sorrisi c lacrime, di soli e melanconie?

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