Il sole nero del parossismo. Nazismo, violenza di guerra, tempo presente
 9788832908848

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Ombre del diritto

«La pura luce e la pura oscurità son due vuoti, che son lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità –, quindi solo nella luce intorbidata, si può distinguer qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce –, quindi solo nell’oscurità rischiarata» g.w.f. hegel

Direttore di collana Francesco Mancuso Comitato scientifico Luigi Alfieri; Francisco Javier Ansuátegui Roig; Laura Bazzicalupo; Carlo Cappa; Gennaro Carillo; Pietro Costa; Fabio Donato; Ida Dominijanni; Francesco Fasolino; Pasquale Femia; Marco Innamorati; Jean-François Kervégan; Marina Lalatta Costerbosa; Fernando H. Llano Alonso; Peter Langford; Marilena Maniaci; Giuseppe Martinico; Sergio Moccia; Josep Joan Moreso; Baldassare Pastore; Pierre-Yves Quiviger; Paolo Ridola; Flaminia Saccà; Aldo Schiavello; Giovanni Sciancalepore; Rita Šerpytytė; Laura Solidoro; Giusto Traina; Nadia Urbinati; Eugenio Raúl Zaffaroni. Comitato direttivo Valeria Giordano; Francesco Schiaffo; Antonino Sessa; Francesco Adorno; Giuseppe D’Angelo, Valentina Ripa; Giovanna Maria Antonietta Foddai; Gianmarco Gometz; Andrea Marchili; Persio Tincani; Stéphane Bauzon. Comitato di redazione Ernesto Sferrazza Papa; Sandro Luce; Dante Valitutti; Paola Pasquino; Michelangelo Lucia­no; Carmelo Nigro; Giovanni Chiarini; Valentina Antoniol; Carlo Crosato; Annachiara Carcano; Chiara Magneschi; Emanuele Cornetta; Vincenzo Peluso; Donato Aliberti; Gian Marco Galasso; Xenia Chiaramonte; Rosaria Pirosa; Leonardo Mellace; Gabriele Giacomini; Melissa Giannetta; Sabina Tortorella; Francesco Mazza; Filippo Preite; Claudia Atzeni; Attilio Novellino. Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Salerno, Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale PRIN, anno 2017, dal titolo “The Dark Side of Law. When Discrimination, Exclusion and Oppression are by Law”, unità di ricerca del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli studi di Salerno. Titolo originale: Le soleil noir du paroxysme © Odile Jacob, 2021 Traduzione dal francese di Chetro De Carolis © 2023 Lit Edizioni s.a.s. Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni s.a.s. Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 [email protected] www.castelvecchieditore.com

Christian Ingrao

IL SOLE NERO DEL PAROSSISMO Nazismo, violenza di guerra, tempo presente

Introduzione, postilla e cura di Francesco Mancuso e Giusto Traina Traduzione di Chetro De Carolis

Apocalypse now: l’irruzione dei parossismi e la “storia del tempo presente”*1 di Francesco Mancuso

Nella sua postfazione, Giusto Traina ha richiamato uno dei progetti di ricerca che sono alla base del Sole nero del parossismo (Explorations du paroxysme. Traces, objets, regards XIXème-XXIème siècles, seminario diretto, oltre che da Christian Ingrao, anche da Quentin Deluermoz ed Hervé Mazurel). Leggiamo un passaggio della presentazione (quasi certamente scritta dallo stesso Ingrao): Il parossismo… Senza soffermarci sulla definizione del termine […] – in cardiologia designa la sequenza più acuta di una patologia – ricordiamo innanzitutto che il suo uso non è nuovo alla Storia, che Alain Corbin ha desiderato a lungo studiarlo e che è già stato utilizzato da alcuni studiosi. L’obiettivo di questo seminario è quello di riunire e discutere la nozione, di esplorare collettivamente le sue tracce, di delimitare gli oggetti che abbraccia e di redigere un inventario degli strumenti necessari per attrezzare lo sguardo di coloro che desiderano affrontarlo. Il parossismo è sia * D’intesa con l’autore, e al fine di accrescere la compattezza e la scorrevolezza del testo, i curatori hanno tagliato dall’edizione italiana il capitolo III dell’edizione originaria, La citadelle et l’isolat. L’innovation européenne en histoire sociale contemporaine, 1974-1996, che vedrà prossimamente la luce in lingua italiana come saggio autonomo sulla storia della storiografia contemporanea. Desideriamo altresì ringraziare sentitamente il professor Roberto Bellotti, direttore del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bari, per la revisione della terminologia tecnica utilizzata da Ingrao nel capitolo II.

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un insieme di oggetti che un moltiplicatore sensoriale, nel senso in cui Pierre Chaunu usava il termine per designare gli artefatti (essenzialmente telescopi e microscopi) che, ampliando i sensi degli europei del 1620, permettevano loro di rivelare nuovi campi di ricerca. Da un lato, il termine permette di far emergere oggetti che in precedenza erano sfuggiti alla nostra attenzione, dall’altro, è di per sé un campo che deve essere padroneggiato con l’aiuto di concetti. Per coloro che desiderano uscire dalla vaghezza di questa breve presentazione, possiamo specificare che ci occuperemo di guerra, rivoluzione, violenza, religione, temporalità, fervore, sesso, emozioni, erotismo e parto, celebrazioni e agonie, musica e arti, angoscia e rituali; che mobiliteremo la Storia in tutti i suoi significati utili e le scienze sociali dell’esperienza1.

Mutatis mutandis, tra cui non solo il fatto che i responsabili di Explorations du paroxysme sono storici ma anche, e soprattutto, una certa fascinazione oscura per l’“eterogeneo”, del tutto assente, e senza alcun residuo, nell’opera di Ingrao2, quello sopra enunciato è un programma che ben potrebbe figurare tra gli obiettivi di quel Collège de sociologie che, con Bataille, Carl Einstein, Leiris, Caillois, si propose di analizzare la forza insieme stabilizzatrice e sovversiva della nozione di “sacro”, «fra interdetto e violenza profanatrice, fra limite e oltrepassamento […] contro il potere reificante della ragione moderna»3. Lo stesso titolo, Le soleil noir du paroxysme, rinvia, in un modo troppo palese per non essere consapevole, a quel soleil pourri di Georges Bataille che ben descrive, in poche righe, la forza esplosiva e ambigua del parossismo, il suo essere un agente insieme catalizzatore di angosce e di euforie, di attrazioni e repulsioni, di compattamenti sociali e di disgregazioni, oltre che un insieme di “oggetti” (miti, archetipi, ideologie, retoriche ostilizzanti, soteriologiche o preservative, narrazioni collettive, sistemi di credenze, “universi concettuali”, co1 Cfr. https://bit.ly/3JFPnyT, traduzione e corsivo miei. 2 Su tali forme, spesso occultate, di fascinazione, vedi il bellissimo saggio di Carlo Ginzburg, La spada e la lampadina. Per una lettura di Guernica, in Id., Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, 2015. 3 Andrea Marchili, Votati all’orrore. Sacro e comunità nel Collège de Sociologie, in «Storia del pensiero politico», vol. VI, n. 3, 2017.

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stellazioni emozionali) del tutto disparati, alle volte contraddittori (e non è un caso se uno dei capitoli centrali del volume è quello, insieme arduo e interessantissimo, dedicato a un possibile utilizzo in storiografia della teoria quantistica, la qual cosa peraltro a sua volta rimanda al concetto di “iperdialettica” di Merleau-Ponty)4, quasi sempre indeterminati. Di questa estrema complessità intrinseca all’oggetto sono la struttura stessa del volume nonché la difficoltà nella sua lunga redazione, provata dall’autore e in preludio manifestamente confessata. Ingrao è, insieme a Chapoutot, uno dei migliori storici francesi del nazismo, facenti parte di quella nuova generazione che ha avuto accesso, dopo il 1989, a una massa imponente di documenti. Parte del volume, che contiene un richiamo al fondamentale studio dedicato nel 2006 alla feroce cinegetica attuata dalla brigata Dirlewanger (più 4 Scrive Bataille: «Il sole, umanamente parlando (cioè in quanto si confonde con la nozione di mezzogiorno), è la concezione più elevata. È anche la cosa più astratta, poiché è impossibile guardarlo fissamente a quell’ora. Per finire di descrivere la nozione di sole nella mente di colui che deve necessariamente evirarlo a causa dell’incapacità degli occhi, bisogna dire che questo sole ha poeticamente il senso della serenità matematica e dell’elevazione spirituale. Per contro, se, a dispetto di tutto, lo si fissa in modo sufficientemente ostinato, ciò presuppone una certa follia e la nozione cambia di senso perché, nella luce, non è più la produzione ad apparire, ma il cascame, cioè la combustione, abbastanza bene espressa, psicologicamente, dall’orrore che si sprigiona da una lampada ad arco in incandescenza. Praticamente il sole fissato si identifica con l’eiaculazione mentale, la schiuma alle labbra e la crisi di epilessia. Come il sole precedente (quello che non si guarda) è perfettamente bello, quello che si guarda può essere considerato come orribilmente brutto». Georges Bataille, Soleil pourri, in Id., Œuvres complètes, I, Gallimard, 1970. Come ottimamente nota Marchili, già citato prima: «Per quanto i “congiurati” del Collège si impegnino a pensare al sacro come dimensione ambivalente, è comunque l’elemento della repulsione, cioè il fattore disgregante, a giocare un ruolo fondamentale ponendosi all’origine del processo attrattivo: le cose sacre [sono] essenzialmente cose rigettate, emesse dal corpo umano, e, in qualche modo, forze spese. L’unione sociale è derivata dalla repulsione che genera il tabù, cioè dalle forme parossistiche e vertiginose del sacro come la sessualità, l’estasi, il sacrificio, la morte. La fissazione del tabù, sottraendo l’orrore alla società, garantirà poi la vita del mondo profano, quello in cui ciascuno è libero di svolgere le attività di uso comune. In questo modo, il nucleo sacro dissolve il momento repulsivo in un momento attrattivo. Ma per ciò stesso si riconosce definitivamente che il principio della vita è nella stessa morte, o più in generale in tutto ciò che è impuro». In esordio di libro, significativamente, Ingrao non cita Bataille bensì il non troppo meno ambiguo Bernanos dei Grands Cimetières sous la lune.

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precisamente: dalla 36. Waffen Grenadier Division der SS)5, è centrata sull’indicibile violenza che attraversò le Bloodlands oggi di nuovo teatro di guerra. Ma, come il lettore appurerà, il parossismo, chiave di lettura fondamentale dell’iperviolenza nazista, non è limitato, logicamente, a quest’ultima. Come ha scritto Jonathan Littell nel lavoro preparatorio di quella discesa agli inferi che è il romanzo Le Benevole, «il sorriso ilare del maschio-soldato, la sua esultanza corporea di fronte alla morte che infligge, non è […] appannaggio del “fascista” o del nazista»6. Il che rimanda a imprescindibili considerazioni non solo psicoanalitiche ma, in senso ampio, antropologiche (tra cui gli studi diretti da 5 Christian Ingrao, Les chasseurs noirs. La brigade Dirlewanger, Perrin, 2006; trad. it. I cacciatori neri, Marco Tropea Editore, 2008 (fuori catalogo). Sulla cinegetica, in prospettiva dell’analisi concettuale, vedi: Grégoire Chamayou, Le cacce all’uomo. Storia e filosofia del potere cinegetico, Manifestolibri, 2010; Ernesto C. Sferrazza Papa, Il linciaggio come paradigma della violenza politica, in Xenia Chiaramonte, Alessandro Senaldi (a cura di), Violenza politica. Una redifinizione del concetto oltre la depoliticizzazione, Ledizioni, 2018. 6 Jonathan Littell, Il secco e l’umido. Una breve incursione in territorio fascista, Einaudi, 2009, nota di risposta a Klaus Theweleit (l’autore del fondamentale studio sulla psiche di massa nazifascista Männerphantasien 1-2, 1978-1979). Guido Mazzoni ha, nella sua recensione al romanzo di Littell e in riferimento al protagonista Maximilien Aue, notato la presenza, come un basso continuo, di Bataille e Sade (ovvero, aggiungo, di un Sade così come fu letto da Pasolini): cfr. https://bit.ly/3rbmwMB. È pur vero che «i fascisti e i nazisti leggono il mondo alla luce della guerra. Non sono gli unici: anche i marxisti vedono nella realtà sociale uno scontro latente o esplicito. Ma contrariamente ai marxisti, i fascisti vedono nella guerra un fatto esterno, estrinseco alla comunità nazionale o razziale, e non una dialettica interna alla società, divisa in classi ostili, dagli interessi contraddittori. Inoltre, se i marxisti agognano e promettono una pacificazione finale dopo la rivoluzione, la conclusione della guerra fascista appare lontana e allo stesso tempo problematica, dato che il fascismo sembra avere costante bisogno di nemici: l’identità fusionale e confusionale della comunità fascista necessita sempre di nuovi nemici per mantenere le energie in tensione e alimentare la dialettica fra identità e alterità. Del resto, l’esistenza di un progetto bellicoso e di una situazione di ostilità giustifica uno stato di eccezione permanente, una mobilitazione delle anime e dei corpi che spenga sul nascere ogni rivendicazione liberale della società civile, resa irreale dallo stato di guerra. Infine, per i nazisti in particolare, la guerra è la realtà naturale per eccellenza, quella che detta legge a ogni comportamento umano». Così Johann Chapoutot, Controllare e distruggere. Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa (1918-1945), Einaudi, 2015. La questione rimanda a sua volta ai nessi concettuali e alle differenziazioni tra guerra esterna e guerra civile (la stasis degli antichi).

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Françoise Héritier)7. Non solo: se la violenza estrema è sempre parossistica, non tutto il parossismo si esprime come violenza, sebbene a essa sia in qualche modo collegato, come dimostrano alcuni esempi analizzati da Ingrao: le commemorazioni musicali post-11 settembre, i dispositivi della medicina d’urgenza durante gli attentati di Parigi del 2015, la pandemia, ma anche la rinascenza del “teologico-politico” e la rivoluzione neoliberale (fenomeni entrambi aventi inizio, nota l’autore, in quell’anno “assiale” denso di «fenomeni imprevisti», come li chiama Ginzburg, che è il 1979)8. Il volume di Ingrao fornisce un ulteriore stimolo, a mio parere decisivo: quello di invitare a procedere nell’analisi di forme di pensiero, di costellazioni teoriche tipicamente parossistiche: non solo i già citati Bataille e Caillois, ma anche Sorel, Benjamin, lo stesso Carl Schmitt, alla cui “romantica” fascinazione per espressioni parossistiche, di «semantica assassina»9, di cui Il concetto di “politico” è infarcito (“sacrificio”, “versare il sangue”, “tragedia”, “uccidere altri uomini”), rispose un autore, Hans Morgenthau, tutt’altro che irenista: «L’essenza della società è misura e limitazione. Dove molteplici sfere vitali individuali sussistono una accanto all’altra, ciascuna libera di estendere indefinitamente il suo impulso, e dove quindi ogni esistenza, per il solo fatto di esistere, mette in questione l’integrale esistenza dell’altro, il vincolo sociale non può nascere e durare»10. Misura e limitazione: lo studio del parossismo è essenziale per analizzare l’altro capo della relazione in un modo che, come già avvertiva Foucault nel suo straordinario saggio sulla trasgressione, tenga conto del paradosso della rinascita del mito e del sacro, ma «in un mondo dove non ci sono più oggetti né esseri né spazi da profanare», per continuare: «La morte di Dio non ci restituisce a un 7 Françoise Héritier, De la violence, voll. I e II, Odile Jacob, 1996 e 2005. 8 Carlo Ginzburg, Mitologia germanica e nazismo. Su un vecchio libro di Georges Dumézil, in Id., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, 1992, saggio di cui si raccomanda caldamente la lettura per introdursi nella costellazione di temi toccati da Ingrao. 9 L’espressione è di Johann Chapoutot, La Loi du sang. Penser et agir en nazi, Gallimard, 2014; trad. it. La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Einaudi, 2016. 10 Hans Morgenthau, Il concetto del politico. “Contra” Schmitt, a cura di A. Campi e L. Cimmino, Rubbettino, 2009.

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mondo limitato e positivo, ma a un mondo che si snoda nell’esperienza del limite, si fa e si disfà nell’eccesso che lo oltrepassa», il che non significa altro che peras e apeiron, ‘limite’ e ‘trasgressione’, non sono polarità nettamente contrapposte bensì, come già nella tragedia greca, termini di una relazione continua e in auto-oscillazione11: nota ancora Foucault, la trasgressione non sta dunque al limite come il nero sta al bianco, il proibito al permesso, l’esteriore all’interiore, l’escluso allo spazio protetto della dimora. Essa è legata al limite, piuttosto, secondo un rapporto di avvolgimento di cui nessuna effrazione da sola potrà venire a capo. Forse qualcosa di simile al lampo nella notte, che dal fondo del tempo conferisce un essere denso e nero a ciò che nega, la illumina dall’interno e da cima a fondo, le deve pertanto la sua viva luminosità, la sua singolarità lacerante ed eretta, si perde in questo spazio che si designa con la sua sovranità, e infine tace dopo aver dato un nome a ciò che è oscuro12.

L’avvolgimento, come scrive Foucault: esso può significare che qualunque critica della violenza-trasgressione non dovrà mai, semplicisticamente (violentemente), sciogliere l’inestricabilità della compresenza, adottando l’esiziale logica dell’aut aut: ciò riguarda, per non citare che alcuni dei topoi filosofico-politici di oggi, tanto l’estensione,

11 Vedi anche Remo Bodei, Limite, il Mulino, 2016. Sarebbe molto interessante procedere a un’analisi su quanto le opposizioni giovane/vecchio, berserkir/nomoteti, distruzione/istituzione, presenti nell’analisi di Dumézil e analizzate nel precedentemente citato saggio di Ginzburg, suggestionino, magari inconsciamente, il pur cattolico Schmitt, quanto meno nei passaggi di alcuni scritti dove l’anti-normativismo si salda in modo ferreo con l’antisemitismo non d’occasione del Kronjurist tedesco: «Vi sono popoli che, senza territorio, senza Stato, senza Chiesa esistono solo nella “legge”; ad essi il pensiero normativistico appare come il solo pensiero giuridico razionale, mentre ogni altro tipo di pensiero appare incomprensibile, mistico, fantastico o addirittura ridicolo» (Carl Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, 1972). Su questi temi diffusamente Johann Chapoutot, La loi du sang, cit. 12 Michel Foucault, Prefazione alla trasgressione, in Id., Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, 2020.

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e dunque la banalizzazione del campo dell’eccezione13, quanto attese/ speranze della/nella violenza divina, che farebbe strame della violenza mitica di un diritto “marcio”; tanto prospettive iperpoliticizzanti, o recuperanti cascami teologici, quanto fallimentari rassicurazioni tecnocratiche e neutralizzanti14. Inutile sottolineare quanto la semplice attenzione a un metodo critico, pluralista, rispettoso della complessità ma assolutamente non ambiguo, qual è quello messo in opera da Ingrao, possa comportare l’apertura di ulteriori, e produttivi, spazi di indagine più direttamente filosofico-politici e giuridici, anzitutto sugli elementi fantasmatici, e performativi, del potere del linguaggio e sul linguaggio del potere; e ciò assumendo correttamente, come fa l’autore, che la violenza sia una forma di linguaggio, a volte muto, che trasmette, talora in modo criptato, contenuti di senso (primo fra tutti, l’angoscia), i quali vanno analizzati per comprenderne semantica e sintattica: i progetti genocidari, che sono l’acme della violenza, non sono insomma, Ingrao lo ripete più volte, meri frutti marci di follia, e la stessa relazione, fondamentale (non solo) per uno storico, tra memoria e oblio si rivela essere assai complicata e in alcuni casi – come sottolineato in alcuni lavori di Pier Paolo Portinaro di analisi del post-violenza di massa15 – densa di scivolose duplicità. Superfluo sottolineare, ma basterebbe leggere i numerosissimi interventi di Ingrao sui massacri ceceni, siriani, o sul conflitto russo-ucraino attuale, che si tratta di un comprendere non orientato al “perdonare”, ma all’ammonire, sensibilizzare, anche mobilitare rispetto alle cicliche 13 Jean-Claude Monod, Pensare il nemico, affrontare l’eccezione. Riflessioni critiche sull’attualità di Carl Schmitt, a cura di F. Mancuso ed E.C. Sferrazza Papa, Castelvecchi, 2023. 14 Questione filosoficamente centralissima, così ritrascritta da Roberto Esposito in termini intrinsecamente (anche) antischmittiani: «È contro questa compresenza di spoliticizzazione e teologia, di tecnica e valore, di nichilismo e apologia che insorge l’impolitico […]. [Esso] è il rifiuto del politico portato a valore, di ogni sua valorizzazione “teologica”. L’impolitico è critica dell’incanto, anche se questo non significa che esso si riduca al semplice disincanto, all’allegro politeismo del “dopo”. Non si riconosce nello sradicamento moderno: pur non ricercando, ed anzi denunciando, ogni utopico radicamento». Cfr. Roberto Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, 1988. 15 Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, 2011 (ma cfr. anche Id., L’imperativo di uccidere. Genocidio e democidio nella storia, Laterza, 2017).

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riproposizioni delle violenze estreme, soprattutto in un tempo dove la pervasività delle immagini ha prodotto cloroformizzazione dinanzi alle più indicibili sofferenze, specie dei più vulnerabili16. Tutta la grandissima filosofia politica del Novecento, a partire da Freud e Canetti, si è proposta questa ardua esplorazione del volto oscuro dell’umano, allo scopo di rigettare ogni fascino delle “comunità della morte” (in termini batailliani, né la Roma della sottomissione violenta, né la Numanzia del suicidio collettivo. Alla questione del suicidio in guerra, in Germania e in Giappone, nel Sole nero del parossismo sono dedicate pagine notevoli). Il contributo di uno storico assai “pensante” come Christian Ingrao, mosso da un’urgenza che è stimolata da un forte afflato etico e pacifista contro ogni presunta ineluttabilità destinale, aggiunge con questo libro un nuovo, fondamentale tassello.

16 Christian Ingrao, Les urgences d’un historien. Entretiens avec Philippe Petit, Les Éditions du Cerf, 2019.

Prefazione all’edizione italiana1 L’impero dell’evento

Il libro che state leggendo – e vi ringrazio per questo – è un testo di storia del tempo presente, una forma storiografica che, come del resto il periodo che comprende, si caratterizza per la compresenza degli oggetti di ricerca e dello storico (o della storica) che li studiano. Una particolarità di cui ci si è gradualmente resi conto nel XX secolo: da Marc Bloch, che nel libro La strana disfatta effettuò una vera e propria autopsia del crollo francese del maggio 19402, ai lavori di Henry Rousso su L’ultima catastrofe3, per giungere più di recente a quelle di Timothy Snyder, che pur non esplicitandolo chiaramente si cimenta sempre più nella lotta contro i rischi del nostro tempo4. Ma la storia del tempo presente si distingue anche – e mi ci è voluto un po’ di tempo per accettare che fosse così – per la complessità del suo dibattito teorico: la Francia si è distinta per l’intensità e la 1 Ringrazio Clémentine Vidal-Naquet per la sua disponibilità e l’acume con cui ha riletto questo testo. [Traduzione di Francesco Mancuso] 2 Marc Bloch, L’étrange défaite: témoignage écrit en 1940, Gallimard, 1990; trad. it. La strana disfatta: testimonianza del 1940, Einaudi, 1995. 3 Henry Rousso, La dernière catastrophe. L’histoire, le présent, le contemporaine, Gallimard, 2012 (in «Psiche», n. 1, 2014, è tradotta in italiano una sintesi del volume fatta dallo stesso Rousso, L’ultima catastrofe. La scrittura della storia contemporanea). 4 Timothy Snyder, Bloodlands: Europe Between Hitler and Stalin, Hachette UK, 2012; trad. it. Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, 2021.; Id., On Tyranny: Twenty Lessons from the Twentieth Century, Crown, 2017; trad. it. Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica, Rizzoli, 2017; Id., The Road to Unfreedom: Russia, Europe, America, Crown, 2018; trad. it. La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, Rizzoli, 2018.

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profondità di queste prospettive filosofiche, con François Bédarida e Henry Rousso che hanno intrapreso un dialogo approfondito con filosofi come Paul Ricœur e Michel de Certeau5. Per molto tempo ho evitato di parlarne, sia per la difficoltà del tema sia perché ne avevo soggezione. Trattandosi però di una posta in gioco alquanto importante, mi sono deciso a varcare la soglia e occuparmi della questione. Le mie esitazioni spiegano senza dubbio, almeno in parte, il tono forse un po’ angosciato di Le Soleil noir du paroxysme, in particolare della sua introduzione. Non ho deciso a cuor leggero di scrivere questo libro, e direi nemmeno del tutto volontariamente. Il lettore capirà perché, e non intendo rivelarne adesso il contenuto, come fanno quei perfidi amici che “spoilerano” il finale di una serie televisiva appassionante. Sappia però che sono stato assai intimorito nell’entrare in un campo storiografico così preciso e particolare, e che questa sensazione condiziona in parte il contenuto del volume. Un’opera sulla storia del presente, piaccia o meno, appartiene a due dimensioni: in primo luogo, quella della società che la accoglie – o che lo ignora; in secondo luogo, la dimensione del contesto in cui appare. Può sembrare strano che una prefazione inizi con la confessione di ciò che un libro cerca di non trattare, ma è proprio così: la sua stesura è stata segnata – lo confesso qui per la prima volta – dal desiderio di non entrare nei dibattiti sulla memoria, sulla domanda sociale e sul legame tra giustizia e storiografia. Su questo tema, l’opera di Henry Rousso è autorevole e difatti ho sempre seguito il suo quadro di pensiero6. Naturalmente, il fatto che Il sole nero sia stato scritto sulla base di un approccio empirico ed epistemologico molto influenzato dalla storiografia tedesca avrebbe potuto far pensare che avrei messo in opera un diverso approccio, ma non è questo il caso. Questo libro si basa su una metodologia caratterizzata dalla messa in discussione del suo legame con tradizioni epistemologiche più ampie. Al lettore italiano verrà risparmiato un lungo capitolo, troppo incentrato sul contesto culturale francese per suscitare il suo interesse, sull’inserimento della storia del presente francese nella tradizione delle nuove storie critiche sociali e culturali nate negli anni Settanta e Novanta in Gran Bretagna,

Germania e Italia con i nomi di History Workshop, Alltagsgeschichte e Microstoria. Ma al di là di questa decisione, è più significativa la scelta di lasciare da parte la questione della domanda sociale per proporre un approccio interno alla storia del tempo presente e del suo rinnovamento; un approccio caratterizzato da una duplice scelta scientifica. Da un lato, ho cercato qui di trovare alleanze epistemologiche in parte specifiche, mettendo insieme problematiche euristiche delle scienze sociali con questioni di fisica delle particelle – tenendo presente che non si tratta né di analogia né di confronto – e prendendo in prestito elementi dall’antropologia e dalla psicoanalisi. Dall’altro aspiravo a proporre un rinnovamento oggettuale. Senza abbandonare i domini tradizionali della storia del tempo presente, che ho esplorato a lungo negli ultimi due decenni, si tratta qui di designare nuovi oggetti che forse sono sfuggiti alla acutezza degli storici specializzati in questo campo. Questo è il significato della domanda in termini di parossismo. Detto questo, credo che una caratteristica sia particolarmente importante per me: questo libro aspira a essere europeo. Sebbene inizialmente esso cercasse di orientarsi su temi tipicamente francesi, in realtà procede da oggetti che sfuggono alle logiche nazionali, si nutre di storiografie più ampie e spera di utilizzare un linguaggio comune agli storici europei del tempo presente. La presente traduzione è un passo insperato in questa direzione e non sarebbe stata possibile senza la determinazione di Francesco Mancuso, il lavoro di Cristina Guarnieri e l’amicizia di Giusto Traina, che vorrei qui ringraziare infinitamente, anche perché forse non si rendono pienamente conto di quello che ha significato per me. Questa traduzione viene pubblicata a meno di due anni dalla pubblicazione originale: due anni che però sembrano un’eternità. Questa è senza dubbio una delle caratteristiche della storia del tempo presente – e del tempo che stiamo vivendo. La brutalità delle oscillazioni che si possono vedere in questo libro avrà segnato l’intero processo della sua preparazione. Essa ha avuto inizio a partire dal 2010, in un contesto segnato dalle primavere arabe, dalla rivolta siriana7, dalla crisi dei rifugiati e delle migrazioni, una crisi caratterizzata

5 François Bédarida, Histoire, critique et responsabilité, Complexe, 2003. 6 Henry Rousso, Face au passé. Essai sur la mémoire contemporaine, Humensis, 2017; Id., La dernière catastrophe, cit.

7 Gilles Dorronsoro, Adam Baczko, Arthur Quesnay, Syrie. Anatomie d’une guerre civile, CNRS Editions, 2016.

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ancora una volta dall’impotenza e dalla codardia europea, dalla portata della violenza bellica mobilitata dal regime di Assad e dal suo alleato russo, e dal rifiuto occidentale di intervenire, un rifiuto marcato con l’intervento inutile e distruttivo in Libia. Si è conclusa nel giugno 2019 con la rinnovata convinzione dell’esistenza di una comunità di destino sempre più inestricabile, condivisa dalle società dell’Europa e del Mediterraneo. E proprio nel momento in cui si stava pianificando la sua pubblicazione in francese, la pandemia ha imposto la stesura di una postfazione che mettesse alla prova, su questa nuova esperienza, gli strumenti euristici inventati nel libro. Le Soleil noir du paroxysme riflette quindi, senza risolverlo o sottometterlo, l’impero degli eventi sulle nostre società. È stato pubblicato in Francia durante il punto di svolta costituito dalla pandemia; viene pubblicato in italiano in un momento in cui la guerra ha ripreso furore, purtroppo in modo – temo – definitivo, nell’orizzonte delle aspettative e dell’esperienza degli europei. Nel 1991-1992, noi europei abbiamo rimosso o negato tale prospettiva interponendoci, ma senza intervenire, in Bosnia, delegando alla NATO in Kosovo nel 1999 ciò che avrebbe dovuto essere di nostra esclusiva responsabilità e, per i due decenni successivi, sperando che si trattasse di un epifenomeno residuale e passato. E infatti, come nell’Ottocento, gli europei hanno poi diretto le loro energie belliche verso altri teatri, mantenendo così l’illusione che il continente fosse al riparo dallo sciame sismico prodottosi almeno dal 2001, con la Global War on Terrorism. Gli episodi di immediato parossismo rappresentati dalle ondate di attentati che hanno colpito anzitutto i protagonisti di queste guerre, distanti solo in apparenza; l’arrivo di immense masse di rifugiati che, per una minoranza significativa, hanno scelto l’Europa come rifugio e l’hanno fatta precipitare in una crisi di unità e solidarietà: questi sono chiari segnali del crescente coinvolgimento delle nostre società in un vortice di eventi la cui storia deve ancora essere scritta, e sono tutte caratteristiche di un processo di denegazione della guerra da cui si spera di uscire gradualmente. Sfuggire all’impero dell’evento significa, credo, cercare di imparare a fronteggiare le prove che inesorabilmente si presentano8. Negli

ultimi decenni, la storia del tempo presente ha accumulato un’esperienza, in termini di analisi e storicizzazione della violenza bellica, che ora consente all’analista della tragedia ucraina di individuare linee di osservazione efficaci. Lo studio della Grande Guerra, particolarmente significativo nella storiografia degli anni Novanta (se non altro a causa della rievocazione dei ricordi indotti dall’esplosione di violenza che ha avuto luogo in Jugoslavia), dimostra quanto sia difficile pensare a una sequenza di violenza in termini di causalità. L’inanità dei dibattiti sulla responsabilità della guerra e il ricorso incantatorio alla memoria della Seconda Guerra Mondiale, che è stata mobilitata in modo così potente dall’invasore russo, costituiscono due aspetti completi di questo impero degli eventi da cui gli storici del tempo presente stanno cercando di liberarsi. L’analisi in termini di habitus e di trasmissione delle pratiche belliche, che abbiamo sviluppato lavorando sul fenomeno della guerra9, ci permette di tracciare linee genealogiche tra gli interventi russi in Cecenia, in Siria e, d’ora in poi, in Ucraina. La comunità di destino che lega indissolubilmente Kharkiv ad Aleppo si rivela qui in piena luce agli occhi dello storico del tempo presente. In questo libro, ho cercato di fare un inventario degli strumenti che possono permettere di affrontare i tempi difficili che stiamo attraversando e, forse, un giorno, per prendere una decisione informata al fine di costruire una casa comune e di affermare un Noi i cui contorni sembrano così sfumati, in questi giorni, per molti dei nostri concittadini europei.

8 Riprendo un’espressione (bien en face) di Stéphane Audoin-Rouzeau, Combattre. Une anthropologie historique de la guerre moderne (XIXe-XXIe siècle): une anthropologie historique de la guerre moderne (XIX-XXI siècle), Seuil, 2009.

9 Una suggestiva analisi del fenomeno bellico in Bruno Cabanes (a cura di), Une histoire de la guerre – Du XIXe siècle à nos jours, Seuil, 2018; trad. it. Una storia della guerra. Dal XIX secolo ai giorni nostri, Bompiani, 2022.

Berlino, 2 febbraio 2023

Introduzione Se provassi piacere verso l’opera che oggi intraprendo, probabilmente mi mancherebbe il coraggio di continuarla, perché non avrei nessuna fede in essa. Io credo solo a ciò che mi dà pena. Quel poco che ho fatto in questo mondo m’è sempre apparso in principio inutile, inutile sino al ridicolo, inutile sino al disgusto. Il demone del mio cuore si chiama «a che pro?». g. bernanos, I grandi cimiteri sotto la luna1

Citare in esergo il Bernanos pamphlettista è atto audace e ingannevole, ma paradossalmente fedele. Occorre audacia, infatti, per porre questo libro sotto l’egida di uno dei maggiori scrittori francesi del secolo scorso il quale, pur non privo di qualche ombra2, si scagliava allora con i suoi Grands Cimetières sous la lune (I grandi cimiteri sotto la luna) in uno dei più begli scritti di lotta contro il fascismo. La citazione è peraltro ingannevole sia per il suo contenuto che per la posizione che occupa: potrebbe cioè far pensare che io abbia iniziato a scrivere a partire da essa, portandola poi avanti, dall’inizio alla fine, dalla prima all’ultima parola. Ebbene ciò non è affatto vero, in quanto alcuni capitoli che lo compongono sono maturati – o hanno vegetato, a seconda del punto di vista… – per dieci anni, se non di più, nei meandri silicei di vari computer o su scrivanie migrate da Parigi a Le Bugue, da Berlino a Bellevue, ma anche, di sfuggita, ad Antibes, Pyla-sur-Mer, Barcellona, Madrid, Zagabria, Tuxedo Park (NY) e Milano. È ingannevole anche in quanto lascia credere che questo libro sia 1 Georges Bernanos, Les Grands Cimetières sous la lune (1938),  Plon, 1954, p. 5; trad. it. I grandi cimiteri sotto la luna, SE, 2017, p. 10. 2 La polemica sull’antisemitismo di Bernanos è ancora relativamente accesa. Egli se n’è distanziato in un articolo intitolato Encore la question juive, in Georges Bernanos, Scandale de la vérité. Essais, pamphlets, articles et témoignages, Robert Laffont, 2019, pp. 938-940; trad. it. Scandalo della verità, a cura di L. Castiglione, Logos, 1980. Ringrazio Michael Foessel che una sera mi regalò la sua copia personale del libro. Per un breve testo che torna sulla questione, a difesa dello scrittore, si legga Philippe Lançon, Bernanos et les bien-pensants, in «Libération», 2 settembre 2008, https://bit. ly/3O0x0rfhttps.

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uscito corazzato da una metodologia, da una qualche pianificazione generale. Ebbene, ancora una volta, ciò è tutt’altro che vero: se ogni testo di ricerca nasce da una pratica in cui le operazioni di riassetto, rammendo e accomodamento orientano quantomeno la composizione e la redazione finale, l’opera che qui presento spicca per la vastità delle incertezze nelle quali si è mossa praticamente fino alla fine. Mi pare evidente, a questo punto, lo scarto tra la citazione di Bernanos e quanto da me appena confessato. In pratica, le opere che ho in precedenza proposto al lettore3 portavano avanti ricerche relativamente ben delimitate, dotate di un oggetto, di uno schema interpretativo, di un’empiria, di una costellazione documentaria. Intellettuali SS assassini e il loro itinerario tra nazismo e genocidi4; bracconieri cacciatori di partigiani5; sognatori razzialisti della Volksgemeinschaft6 e i loro piani di riorganizzazione dell’impero nazista in costruzione7… In tre minuti era fatta: l’orizzonte chiarito; la trama spiegata. Al contrario, ancora adesso mi pare complicato e disagevole tentare di far comprendere a un interlocutore il contenuto di questo libro. Da questo stato d’animo traggo il primo segno della verità del messaggio di Bernanos posto in esergo a questa opera: essa ha una storia diversa dalle precedenti. Questa difficoltà a presentarla costituiva, credo, un segno della mia mancanza di convinzione relativamente alla sua utilità. E solo ciò – e nient’altro – assimila il mio discorso a quello dell’autore di Sous le Soleil de Satan (Sotto il sole di Satana). Devo ammettere che il libro che presento è paragonabile a un incrocio, a un crocevia di percorsi storici. Esso tenta al contempo di abbracciare vent’anni di indagini sulla violenza nazista, di mettere insieme i pochi risultati che si è creduto di poterne estrarre e di affrontarne 3 A eccezione di Les urgences d’un historien, cit., che è una raccolta di interviste. 4 Christian Ingrao, Croire et détruire. Les intellectuels dans la machine de guerre SS, Fayard, 2010; trad. it. Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS, Einaudi, 2012. 5 Christian Ingrao, Les Chasseurs noirs, cit. 6 ‘Comunità popolare’, figurazione della società utopica e armoniosa che la pratica di potere nazista avrebbe dovuto partorire. Su tale nozione, cfr. Frank Bajohr et al. (a cura di), Volksgemeinschaft: Neue Forschungen zur Gesellschaft des Nationalsozialismus, Fischer, 2009. 7 Christian Ingrao, La Promesse de l’Est. Espérance nazie et génocide, 1939-1943, Seuil, 2016.

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gli ostacoli, le difficoltà, l’incompletezza. Ce n’era bisogno per tentare di riflettere sul “poi”, sul seguito, sul “come continuare?”. Questo libro non ha un oggetto unico. Non è il frutto immediato di ricerche. Esso tenta piuttosto, facendo il bilancio di tre precedenti indagini riguardanti il nazismo e la violenza di guerra nel XX e XXI secolo, di delineare un auspicabile futuro della storiografia del tempo presente. Si tratta di prendere atto di un certo numero di debolezze nelle posizioni e nelle pratiche finora operate, nonché di affrontarle cercando strumenti al di là del campo della storiografia. E tuttavia, questo non è un lavoro di teoria della storia, di storiografia o di epistemologia. Esso evolve, si barcamena, esita tra empiria, riflessività, bilancio, inventario e critica. Come se non bastasse, una parte delle difficoltà che qui tento di sciogliere è apparsa soltanto durante la redazione. Eppure, senza questo libro, non ci sarebbe modo di continuare, di pensare un seguito delle ricerche – perlomeno agli occhi di chi lo ha scritto. V’è un termine tedesco che probabilmente riassumerebbe abbastanza bene il sentimento che ha animato questa redazione e che verosimilmente non verrebbe rinnegato dal Bernanos dell’introduzione dei Grands Cimetières sous la lune8. È il termine Uferlosigkeitsgefühl9. È un sostantivo neologico di genere neutro. È composto da due radici: una, terminale e principale, che significa ‘sentimento’ (Gefühl), l’altra, inaugurale e subordinata, che vuol dire ‘molo’ o ‘sponda’ (Ufer); esso è peraltro strutturato da un suffisso aggettivante privativo (-los), mentre gli altri suffissi (-ig e -keit) sono operatori rispettivamente di aggettivazione e di sostantivazione. È dunque un sostantivo che designa il sentimento di assenza di sponda o di molo che può provare un marinaio o un nuotatore; una specie di disorientamento oceanico, di sentimento d’infinità che fa sì che si nuoti o si navighi senza che si sappia bene da dove si viene – la sponda di partenza è sparita dall’orizzonte – o dove si va – nessuna sponda, nessuna isola si annunciano allo sguardo – e che tuttavia implica la necessità di continuare a nuotare o a far vela, pena annegare o naufragare. 8 «[…] esito a fare il primo passo. […] Fatto il primo passo, so che non mi fermerò più, che andrò, sia quel che sia, in fondo al mio compito, per giorni e giorni, simili tanto tra loro da non contarli più, come fossero tagliati dalla mia vita», Georges Bernanos, I grandi cimiteri sotto la luna, cit., p. 11. 9 Pronunciare “U-fer-lo-zig-caits-ghe-fül” tutto d’un fiato…

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Ho dunque pian piano compreso che ormai, per “far vela”, scrivendo ciò che poi è diventato questo libro, bisognava rendere conto di una pratica esplorativa di cui, seduta stante, ero incapace di spiegare con fermezza i determinanti – di vedere l’isola, insomma. Al fine di mettere ordine ho dovuto dunque dapprima fare una pausa nel cammino e voltarmi indietro per analizzare retrospettivamente la ricerca che avevo svolto in tutti questi anni; solo in un secondo momento ho tentato di allontanarmene un po’, di deviare e di lasciar emergere i mezzi intellettuali per portarla avanti in modo da tracciare, se possibile, una prospettiva, un avvenire. Contrapporre in qualche modo una sponda all’Uferlosigkeitsgefühl. Il primo capitolo di quest’opera non è né speculare né crepuscolare. Non è un bilancio. Un bilancio, infatti, lo si prepara nel momento in cui si chiude una sequenza, e non è questo il caso: i lavori utili a determinare un’antropologia sociale della militanza e delle pratiche di violenza naziste, che qui presento, tentando di ricontestualizzarle storiograficamente nel loro periodo di concezione e di produzione per poi dar conto dei principali risultati, non hanno niente di definitivo. In sostanza, si tratta di descrivere una pratica il cui unico oggetto, inizialmente, era il nazismo considerato come un sistema articolato in discorsi professati e pratiche condotte da determinati attori. Logicamente, l’attenzione si è concentrata su un gruppo di individui dedicatisi a un’intensa attività di formulazione ideologica e impegnatisi nelle pratiche specifiche dello Stato nazista e in particolare nelle politiche di sterminio delle comunità ebraiche dell’Unione Sovietica occupata. Questo gruppo costituiva un osservatorio ideale del nazismo nel suo insieme. Si è quindi reso necessario imparare a servirsi di strumenti provenienti da ciò che da allora viene chiamata “storia culturale”, in un ambito, la storia del nazismo, che pareva rimasto ancora relativamente impermeabile a tali strumenti. A tutto ciò si è aggiunta l’irruzione, nelle ricerche, della violenza di guerra e del genocidio. Questa irruzione è coincisa, per quanto mi riguarda, con quella, nella realtà dell’esistenza, della tragedia jugoslava che rinasceva sotto i nostri occhi allibiti. Da questo choc è emersa l’idea di studiare questi due oggetti così trasgressivi con gli strumenti dell’antropologo. Il nazismo, la violenza di guerra, l’Europa: ecco dunque il quadro di riflessione iniziale di questo libro. Per quasi vent’anni, esso ha

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circoscritto l’insieme delle indagini qui presentate, e sarebbe forse interessante di per sé tentare di guardare con un’introspezione retrospettiva il cammino percorso, i progressi fatti, le certezze acquisite. Questa prima riflessione sembra dover essere animata da due motivazioni supplementari, molto più potenti del semplice desiderio retrospettivo. Da una parte, ed è la cosa più evidente, questo libro esiste perché mi è parso indispensabile al fine di pensare la tappa successiva, l’indagine che potrebbe seguire le prime tre e prolungare, approfondendola, la riflessione sull’antropologia storica delle pratiche, dei discorsi e degli universi emozionali dei protagonisti di quella prima metà del Novecento (all’incirca dal 1911 al 1949-1953), che costituiva il quadro iniziale del mio progetto e che il lavoro collettivo sulla violenza di guerra ha prolungato per un lungo secolo che va dai prodromi balcanici della Grande Guerra al tempo presente (1911-2020). Questo seguito l’ho pensato sin dall’inizio in termini di “parossismo”, un concetto che ho utilizzato sin dall’inizio della mia attività di ricercatore10, e che mi pareva passibile di essere proficuamente rinnovato: esso costituiva un oggetto di studio in sé, benché ponesse notevoli difficoltà a essere delimitato, ma era allo stesso tempo uno strumento atto a far emergere altri nuovi oggetti di studio. Nel momento in cui ho intrapreso questa riflessione d’insieme, il parossismo, che allora ci si limitava a definire come l’insieme delle esperienze, sequenze e oggetti costituenti il punto culminante di un fenomeno, era stato oggetto di una riflessione collettiva, di un’esplorazione di quasi quattro anni che andava a integrare un utilizzo concettuale lungo quasi quindici anni11. Esso aveva permesso di percorrere tematiche fino ad allora sconosciute e di farlo con un lavoro di squadra, inaugurando sodalizi di ricerca, riflessioni collettive. Si poteva ormai sperare quantomeno di circoscrivere il perimetro di un oggetto il cui cupo ardore aveva qualcosa di inquietante, ma che si poteva ormai guardare in altro modo, dicendo “noi”. 10 La terza parte della mia tesi di dottorato s’intitola Nazisme, violence, paroxysme (Nazismo, violenza, parossismo) e tratta della violenza delle Einsatzgruppen. Cfr. Christian Ingrao, Credere, distruggere, cit., III parte. 11 Seminario Explorations du paroxysme. Traces, objets, regards XIXe-XXIe siècle, animato dal 2014 al 2017 da Quentin Deluermoz, Hervé Mazurel e me stesso.

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In definitiva questo libro delinea dunque un programma scientifico: mira a pensare una tappa supplementare nella scrittura della storia del tempo presente; ad assumere un’eredità, a mettersi sulla scia di precursori, ma anche ad abbozzare dei possibili futuri. Ma la sua redazione è spinta da una seconda motivazione, più sotterranea forse, legata, credo, a una sorda insoddisfazione, una frustrazione a lungo difficile da cogliere e la cui esplorazione costituisce uno dei fili rossi dell’indagine, premessa indispensabile allo studio del parossismo. In effetti, un po’ alla volta, in modo sfuggente, attraverso constatazioni parziali, mi si è progressivamente imposta una sensazione difficilmente descrivibile di incompletezza e di indeterminazione. Il semplice fatto di legare questi due sostantivi a tale sensazione ha richiesto molti anni ed è stato preso seriamente in considerazione solo quando ho accettato che non c’era altra soluzione che cercare di sistematizzare l’indagine, di metterla al centro della riflessione per poter effettivamente sperare di pensare le ricerche successive, una volta compiuto questo passo. I due termini condividono infatti la caratteristica di esprimere una mancanza, un’assenza, ed è così che il primo stadio del lavoro consiste essenzialmente nel narrare la via percorsa, tanto in termini di oggetti di studio quanto in termini di strumenti concettuali, ma ciò senza nascondere tutte le insoddisfazioni e le lacune che le indagini precedenti hanno potuto lasciare. Gli oggetti scelti si sono così rivelati stupefacenti caleidoscopi, palesemente difficili da restituire nella loro integralità, il cui studio sembrava sospendere la possibilità d’inserire l’impresa in una sola corrente storiografica. Più inquietante ancora: i due termini che descrivono questo stato di fatto condividono una seconda caratteristica. Sono entrambi ampiamente utilizzati in discipline scientifiche – la logica matematica e la fisica quantistica – assai lontane dalla storia. Questa doppia constatazione mi ha condotto a lanciarmi in un libro la cui economia è diversa da quella dei testi che lo hanno preceduto. Il termine di incompletezza, che qui non tratterò, proviene dunque dalla logica e dalla teoria degli insiemi, quella specialità che si interessa da una parte alla riscrittura dell’eredità matematica su basi logiche fondamentali, riscrittura che si chiama “assiomatizzazione” e, in secondo luogo, alle condizioni di dimostrazione dei teoremi enunciati dai ricercatori. L’incompletezza è certo ciò che,

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nella lingua corrente, è non completo, non compiuto o non terminato, ma è anche la traduzione italiana del concetto di Unvollständigkeit sviluppato da Kurt Gödel nei suoi studi sull’assiomatizzazione e che significa che «ogni sistema logico assiomatizzabile in maniera ricorrente, coerente e autonoma è o incompleto o contraddittorio» e contiene dunque enunciati indecidibili (unentscheidbar), ossia né contestabili né dimostrabili12. È nel corso di una riflessione discontinua sul doppio significato di questo termine che è emersa l’idea di fare una deviazione, passando per altri orizzonti scientifici. Il secondo concetto, quello di indeterminazione (Unbestimmtheit), proviene da un principio di fisica quantistica formulato da Werner Heisenberg13 sotto forma di una diseguaglianza matematica, e mi è venuto in mente nell’affrontare alcuni dei vicoli ciechi delle indagini che descriverò nel primo capitolo, cercando di capire in che corrente storiografica si potesse tentare di inserire la nostra impresa. Ancora una volta, la specificità del progetto, che ci conduce verso aree scientifiche remote, imprime a questa opera un impulso decisivo che, dopo questo primo capitolo, si distanzia un poco dalla riflessione empirica per portarla verso le sponde del teorico. Il secondo si allontana dunque da quanto comunemente ci si aspetta da un libro di storia ed è precisamente questo a spiegare la fatica provata nel redigerlo. La prima difficoltà sta nella chiara mancanza d’abitudine da parte della maggioranza degli storici non tanto di riflettere sulla loro maniera di scrivere la Storia, cosa che fanno nel corso dell’attività accademica, quanto d’interrogare le basi teoriche che ne sottendono la scrittura. Gli storici capaci di appropriarsi degli stru12 Kurt Gödel, Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme I, in «Monatshefte für Mathematik», vol. 149, n. 1, 2006 (edizione originale in «Monatshefte für Mathematik und Physik», vol. 38, n. 1, 1931), pp. 1‑29. Jacques Bouveresse ha proceduto a un severo inventario dei cattivi usi di Gödel da parte dei filosofi. Cfr. Jacques Bouveresse, Prodiges et vertiges de l’analogie. De l’abus des belles-lettres dans la pensée, Raisons d’agir, 1999, pp. 100‑122. Ringrazio Samir Boumediene per avermelo fatto notare. 13 Werner Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik und Mechanik, in «Zeitschrift für Physik», vol. 43, n. 3, 1927, pp. 172‑198. Se ne trova una presentazione illuminante in Douglas C. Giancoli, Physics. Principles with Applications, Pearson, 20157; trad.it. Fisica con fisica moderna. Principi e applicazioni, CEA Zanichelli, 2017, pp. 858 sgg.

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menti atti a fondare il loro discorso sulla pratica, strumenti spesso derivanti dalla filosofia, sono pochi e io non ne faccio parte. Questo libro non ambisce a costituire un contributo a un dibattito epistemologico nella Storia. Il suo campo di validità è strettamente limitato alla questione della pratica storica e non ha in alcun modo la pretesa di creare nuovi quadri teorici. Da una parte, infatti, la deviazione che ci vediamo costretti a fare nelle pagine che seguono è rigorosamente indicizzata a (e condizionata da) un’esperienza di ricerca singolare ma non unica. La sola ambizione possibile dell’excursus al quale inviterò il lettore consiste, al meglio, nel costituire una prasseologia, un discorso sulla pratica. Questa impresa si è articolata all’ombra dei grandi dibattiti che dagli anni 1980-2000 hanno riunito storici, epistemologi e filosofi, e in questo quadro si inserisce la presente opera, senza mirare né a rimetterlo in causa né a dargli un nuovo impulso. I ricchissimi dibattiti sullo statuto della storia contemporanea, su quello della memoria, della domanda sociale, della questione del tempo, del racconto, del linguaggio che strutturano la pratica degli storici e in particolare degli storici del tempo presente definiscono un mondo in cui è gradevole muoversi, senza pretendere di trasgredirlo o di sconvolgerlo14. Lanciandoci in questo excursus nell’analisi della pratica euristica degli storici del mondo contemporaneo, aspiriamo invece a osservarne in altro modo le prospettive e i limiti. L’uso del concetto di indeterminazione ci condurrà dunque a decentramenti legati alla fisica quantistica (secondo capitolo). Si tratta di una deviazione in qualche modo imposta, che si porta dietro un certo numero di difficoltà e di pericoli. Da una parte bisogna pagare quello che si potrebbe chiamare il “costo d’ingresso” nel campo, ossia accettare di affrontare un campo (scientifico o epistemologico) ignorandone tutto e cercando, se non di dominarlo, perlomeno di padro14 Ovviamente qui pensiamo al lavoro fondamentale svolto da François Bédarida, Histoire, critique et responsabilité, Complexe, 2003, e poi ovviamente a Henry Rousso, La Dernière Catastrophe. L’histoire, le présent, le contemporain, Gallimard, 2013; Christian Delacroix et al. (a cura di), Historicités, La Découverte, 2009; Christian Delacroix et al. (a cura di), Historiographies: concepts et débats, 2 voll., Gallimard, 2010; François Hartog, Croire en l’histoire, Flammarion, 2016; sul fronte tedesco: Peter Schöttler, Nach der Angst: Geschichtswissenschaft vor und nach dem «Linguistic turn», Westfälisches Dampfboot, 2018.

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neggiarne i tratti essenziali. Tuttavia questa operazione – ed ecco cosa ci ha portato a fare il passo – rientra nella quotidianità del ricercatore, abituato a formarsi nel campo linguistico, paleografico, informatico, storiografico. Compiere questo sforzo in altre discipline come, nella fattispecie, la fisica quantistica, non costituisce altro che una diversa declinazione di un’operazione che ci è familiare. Se il costo di ingresso nell’indagine non sembra esorbitante, esso può tuttavia restare realistico solo se si diffida del carattere labirintico che può caratterizzare questa pratica: il rischio maggiore che rappresenta sta nel far smarrire colui o colei che la adotta nell’immensità di un ambito che lo/la condurrebbe a perdere di vista il suo obiettivo. Peraltro, bisogna badare a che tale pratica conservi un carattere limitato: evitando di conferirle un’ambizione teorica e relegandola a una prasseologia, si riesce in questa strategia di limitazione a priori che cerca di preservarne il perimetro e la realisticità. V’è infine un ultimo rischio che il ricercatore corre in questo tipo di impresa: l’ambizione prescrittiva. Come riuscire a dire che nulla è più lontano dalle nostre preoccupazioni, che non è nelle nostre intenzioni dare ricette, consigli, raccomandazioni o indicare ad altri come procedere? Evitare tutti questi scogli richiede molta energia e tenacia: bisogna da un lato analizzare una pratica di storia sociale e/o culturale del nazismo e della violenza di guerra; dobbiamo poi avventurarci nei meandri dei due corpi cognitivi da una parte, in una pratica di continui andirivieni tra la situazione degli esperti di fisica quantistica che affrontano la questione dell’indeterminazione di cui abbiamo rilevato l’esistenza per consolidare la nostra posizione storiografica e ancorarla nel lungo termine. Il lettore frettoloso ci perdonerà, speriamo, queste digressioni riflessive. Se le trova troppo ardue, che si senta libero di lasciarle da parte: sono le premesse, ma non l’essenziale. Nei capitoli successivi tenteremo di testare questi approcci alquanto inediti su due oggetti di studio concreti, per riportare quest’opera verso terreni più empirici. Soltanto allora avremo eseguito il compito che ci assegniamo in questa introduzione: esplorare i “possibili” individuali e collettivi di una storia del nazismo, della violenza di guerra, del tempo presente; soltanto allora avremo raggiunto la sponda.

I. La politica, le emozioni e la violenza. Il caso nazista, tra panico, speranza e genocidio

Per cominciare il nostro percorso racconterò la vita di un uomo che condensa i vari risvolti dello studio del nazismo. La vita di Hermann Behrends, nato nel 1907 in una famiglia di classe medio-bassa e cresciuto a Wilhelmshaven, il grande porto della Marina militare tedesca. Da adolescente si distingue per un attivismo völkisch (etno-nazionalista), poi affermato da giovane adulto attraverso una precoce militanza nazista. Amico di Reinhard Heydrich, il futuro capo della Gestapo e del Sicherheitsdienst (SD)1 e architetto della soluzione finale genocida2, diventa uno dei fedelissimi di Himmler nelle SS. Incarna uno di quegli intellettuali d’azione con un percorso accademico e universitario notevole, segnato da un implacabile radicalismo ideologico che investe in quello che le SS dell’SD chiamano la Gegnerforschung, una sorta di ‘ricerca scientifica sugli oppositori’, volta a dare una caccia spietata ai massoni tedeschi. La sua carriera è folgorante: diventa colonnello SS a 27 anni, generale a 33, ossia a un’età in cui, nei nostri eserciti, si è capitani. Nel 1937 intraprende un’altra carriera, sposando la causa della revisione dei trattati della Grande Guerra e lavorando presso le minoranze tedesche d’Europa centrale per renderle partecipi della politica revisionista. Soft power, diplomazia culturale, azione clandestina, attivismo politico, nazificazione delle élite: ecco il lavoro di Behrends, militante instancabile, alto funzionario che parallelamente valuta la situazione dei Balcani e presiede il comitato organiz1 Servizio di sicurezza delle SS, sorta di centrale di informazioni che svolgeva peraltro il ruolo di brain trust per il Terzo Reich. 2 Su Heydrich, si legga Robert Gerwarth, Hitler’s Hangman: The Life of Heydrich, Yale University Press, 2011.

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zativo di scherma delle Olimpiadi di Berlino, senza mai abbandonare la formazione di ufficiale di artiglieria nelle Waffen-SS. Tutto nel suo percorso indica il credo nazista, a cominciare dai rituali pseudo-antichi che adotta al momento del “battesimo” neopagano (Namensweihe) dei suoi figli, a cui vengono assegnati dei nomi nordici, fino alle diverse donazioni alle organizzazioni affiliate del partito. Nel 1937, dunque, Hermann Behrends era stato integrato in uno degli organismi delle SS di diplomazia attivista clandestina irredentista e revisionista, la Volksdeutsche Mittelstelle (VoMi, Direzione generale del benessere dei tedeschi etnici)3. Due anni dopo le minoranze tedesche di Polonia, a lui care, furono il pretesto con cui Adolf Hitler precipitò l’Europa in un immenso conflitto che sarebbe diventato mondiale. Dopo qualche altra settimana, dopo le prime vittorie naziste, Hermann Behrends si trovava all’epicentro di un altro terremoto: la Germania aveva conquistato un nuovo spazio vitale, i tempi erano maturi. Occorreva fondare Tausendjähriges Reich, ‘l’impero millenario’. L’euforia dell’avvento della promessa imperiale fu certo una delle più intense emozioni politiche provate dall’attivismo nazista, e Hermann Behrends costituisce un osservatorio tra i più interessanti: nelle campagne militari in cui serve quale ufficiale d’artiglieria, egli diventa il grande albergatore di profughi Volksdeutsche (stranieri originari di minoranze di lingua tedesca, provenienti essenzialmente dall’Europa centrale e orientale), colui che crea i campi della speranza e della germanizzazione; i campi dell’attesa prima della colonizzazione. Nazismo, speranza imperiale e destino nordico: le emozioni politiche entrano in quella che è già una storia dell’Europa. Nel 1939, il Terzo Reich discute con l’Italia, gli Stati baltici, la Romania, l’Ungheria, la Jugoslavia, l’URSS e invade la Polonia per riportare con un lungo convoglio simbolico il prezioso sangue germanico nell’impero millenario. Infatti, al tempo la germanicità è una diaspora disseminata quantomeno in una Europa che va dalla Mosa al Volga4. Hermann 3 Sulla VoMi, cfr. Valdis O. Lumans, Himmler’s Auxiliaries. The Volksdeutsche Mittelstelle and the German National Minorities of Europe, 1933‑1945, University of North Carolina Press, 1993. 4 Markus Leniger, Nationalsozialistische «Volkstumsarbeit» und Umsiedlungspolitik 1933‑1945: von der Minderheitenbetreuung zur Siedlerauslese, Frank & Timme GmbH, 2006.

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Behrends è uno degli uomini che più si impegnarono a realizzare la speranza di fondare una nuova società destinata a durare mille anni. È uno degli uomini che avrebbero dovuto compiere la profezia hitleriana. E ovviamente, a partire dall’estate del ’44 e dall’inizio dell’incubo europeo che è la battaglia finale contro la fortezza nazista, fa esattamente l’opposto: spostandosi in tutta Europa a una velocità inaudita, tenta di organizzare i convogli per rimpatriare in Germania e salvare le minoranze tedesche che erano state incaricate della colonizzazione: Romania, Stati baltici, Ungheria, Serbia, ex Cecoslovacchia, Russia, Ucraina e Bielorussia lo vedono organizzare dei treni –  treks  – e la ritirata dalla disfatta nazista. Da soldato della speranza diventa soldato del salvataggio, poi della disperazione… Nel maggio del ’45, 35 milioni di persone pagarono con la vita la terrificante speranza nazista in Europa. Politica, emozione e violenza si trovano qui condensate nella vita di un solo uomo, generale SS, ufficiale d’artiglieria, militante e universitario, campione di scherma e nazi-esoterista. La biografia di Hermann Behrends ci ha proiettato in una storia dell’Europa tra il 1914 e il 1945. E alla fine uno dei capisaldi di questa storia del tempo presente consiste forse nel cogliere ciò che fu il transfert di speranza, di emozioni, che ebbe luogo tra l’estate del 1944 e il lungo inverno del 1945-1946; capire come le popolazioni europee martirizzate da anni di radicalismo nazista abbiano potuto reinvestire nel futuro, nella speranza, nella politica. Ma questa è una questione che possiamo porci nel 2020; una questione che inizialmente, nei primi anni Novanta, gli storici – soprattutto quelli del nazismo – sono incapaci anche solo di formulare. Al tempo, personaggi come Hermann Behrends sono totalmente ignoti, come pure le tematiche che rivelano. È anche questa storia, e quella della sua scoperta, che vorremmo qui narrare. Per lo storico che intraprende una ricerca sul nazismo a metà degli anni Novanta del secolo scorso, decennio che precede lo sviluppo degli strumenti informatici, Berlino è l’epicentro di uno sconvolgimento che è al contempo documentario, concettuale ed esistenziale. Documentario perché il crollo del Patto di Varsavia ha avuto una conseguenza inattesa: l’apertura di due tipi di centri archivistici. Uno situato a Mosca, che dà accesso ad archivi provenienti dalle istituzioni centrali del Terzo Reich che si credevano perduti; gli altri, situati in

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tutti i centri urbani importanti dell’arco occidentale dell’antico impero sovietico occupato dai tedeschi tra il 1939 e il 1945, tra Poznań a Ovest in Polonia e Mosca a Est, e da Reval a Nord fino a Odessa a Sud. Un mare di documentazione che lasciava osservare il Terzo Reich e le politiche d’occupazione sotto una nuova luce, con una prospettiva totalmente inattesa, conferendo una dimensione locale e concreta a tali politiche. In secondo luogo, dopo più di trentacinque anni di minuziose indagini, la Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen di Ludwigsburg metteva a disposizione dei ricercatori le centinaia di migliaia di fascicoli di indagini sui crimini nazisti nell’Europa occupata, i milioni di pagine di interrogatori e di perizie accuratamente conservate dagli organi d’investigazione tedeschi5. Questo afflusso di documentazione ha fortemente segnato la generazione di storici alla quale appartengo. Una generazione che ha voluto allontanarsi dalle diatribe talvolta un po’ iniziatiche che avevano diviso le due generazioni precedenti. In risposta a queste interminabili lotte di trincea, essa ha opposto un rifiuto categorico ai predecessori, formulando un indiscutibile neopositivismo caratterizzato dalla grande tecnicità della gestione della prova archivistica6. Concettuale, in quanto questo atteggiamento costituiva per un giovane storico francese un orizzonte insuperabile: sembrava impossibile anche solo eguagliare l’erudizione di un Christian Gerlach, autore nel 1998 di un’immensa tesi sulle politiche naziste di occupazione in Bielorussia, basata su 250 fondi d’archivio, di fatto 5.000 scatoloni e altrettante note a piè di pagina, in un opus di 1.235 pagine la cui vastità supera ogni immaginazione7. Non potendo fare meglio, bisognava fare altrimenti. E fare altrimenti, in quegli anni, voleva dire sfruttare due acquisizioni fondamentali: i progressi realizzati dalla storia religiosa dell’Europa medievale e moderna negli anni 1960-1990 e le grandi 5 A tal proposito, cfr. Ayşe Sıla Çehreli, Les Magistrats ouest-allemands font l’histoire. La Zentrale Stelle de Ludwigsburg, L’Harmattan, 2014. 6 Mi permetto di rinviare, per una panoramica storiografica, a Conquérir, aménager, exterminer. Nouvelles recherches sur la Shoah, in «Annales. Histoire, sciences sociales», vol. 58, n. 2, marzo-aprile 2003, pp. 417‑440. 7 Christian Gerlach, Kalkulierte Morde. Die deutsche Wirtschafts – und Vernichtungspolitik in Weißrußland, Hamburger Edition, 1999.

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esperienze della storia socioculturale e dell’antropologia storica. Questa alleanza condusse ad abbozzare un approccio all’enigma nazista visto non più come un’ideologia, una costruzione ideale analizzata dall’esterno, ma come un sistema di credenze di cui si poteva sperare di seguire le dinamiche individuali e collettive di interiorizzazione, di appropriazione. Peraltro, nello stesso momento, è avvenuto qualcosa di più profondo ancora e, a dirla tutta, di esistenziale relativamente alla storiografia del nazismo e del genocidio ma, ancora più in generale forse, all’insieme delle scienze sociali. Quando, a partire dall’estate del 1991, le immagini giunte dalla Jugoslavia hanno occupato i televisori, riportando sul piano delle coscienze e degli orizzonti d’attesa dell’Europa la prospettiva di una guerra sul proprio suolo, lo choc è stato tanto immenso quanto sordo. Nell’introduzione di Le Sentier de la guerre (Il sentiero della guerra), gli antropologi e paletnologi Jean Guilaine e Jean Zammit ammettevano che mai avrebbero avuto l’idea di studiare la violenza di guerra in base ai dati archeologici paleolitici e neolitici, se non fossero rimasti colpiti e sconcertati dalle immagini di una guerra atroce, e ancora più orribile di molte altre, che si riaffacciava a due ore di aereo da Parigi8. Città medievali bombardate, biblioteche incendiate, profughi smunti, bambini terrorizzati e donne dagli occhi incavati di cui si seppe presto che erano state vittime di un ricorso allo stupro sistematico: queste immagini, almeno credo, hanno scatenato un sisma che ha avuto ripercussioni non solo sui temi di ricerca, ma anche sulla dimensione esistenziale del ricercatore. Un sisma è una scossa che ha un carattere sotterraneo; a volte sconvolge in modo invisibile e può rivelare delle strutture facendole emergere alla luce. La violenza di guerra, le sue pratiche e le sue logiche sono allora entrate nelle coscienze degli storici della guerra; essa si è imposta come un oggetto di una valenza assoluta9. 8 Jean Guilaine, Jean Zammit, Le Sentier de la guerre. Visages de la violence préhistorique, Seuil, 2001. 9 Per me, che mi affacciavo allora allo studio del nazismo, il senso di colpa nato tra Vukovar e Srebrenica – dei soldati di questa Europa che è la mia patria e il mio futuro che, senza alzare un mignolo, lasciano dei mercenari separare uomini, donne e bambini di cui, per mandato, avrebbero dovuto garantire la protezione – costituisce

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È sotto questi auspici, e pressappoco in quel momento, che si è costituita la grande alleanza tra gli specialisti delle due guerre mondiali, alcuni storici di epoche più antiche, un certo numero di giuristi, sociologi, antropologi (questi ultimi si occupavano in molti casi del conflitto in Jugoslavia e della tragedia ruandese), che si accordarono per organizzare un gruppo di ricerca sulla violenza di guerra nel XX secolo. Abbiamo allora cominciato a lavorare sulle diverse categorie di attori della guerra, sulla storia dei corpi e della psiche, sulle competenze relative all’abbattimento di esseri umani e alla terapeutica, sulla medicina e i suoi gesti, sulla guerra urbana, di montagna e di foresta, sulla questione delle fasi dei conflitti, la loro scena inaugurale, la loro acme, la loro soluzione; sulla guerra nelle società non statali e l’adozione dello sguardo degli antropologi. Abbiamo allora analizzato l’Algeria, il Vietnam, la Corea, la Jugoslavia, il Ruanda, ma anche, più da lontano, i conflitti in Afghanistan e in Cecenia10. È in tale contesto che si è innescata la prima delle tre indagini che vorrei qui presentare in breve. Avevo elaborato il progetto di studiare il nazismo nella sua totalità e mi sono dunque concentrato sullo studio di un gruppo scelto di uomini colti, giovani, quasi tutti in possesso del dottorato universitario. Parti integranti delle istituzioni di polizia delle SS, all’avanguardia più fanatica della militanza nazista e punto di saldatura tra il discorso e le pratiche naziste, questi ottanta giovani intellettuali SS costituivano ai miei occhi un osservatorio ideale dell’enigma nazista. Studiando questo gruppo di intellettuali, mi si è spalancato un terreno accidentato che mostrava l’aspetto politico, le emozioni e la un’ustione indimenticabile, trasformando il Never again delle nazioni occidentali in un vomitevole mantra, in una bandiera bianca dell’impotenza. Per uno storico del nazismo alle prime armi, l’illusione di lavorare sul genocidio per evitarne un altro, se pure avesse mai avuto una qualche efficacia, sarebbe dunque svanita nella rinuncia europea dell’estate del ’95. Mentre avremmo dovuto guardare, guardare l’Europa, guardare il secolo, guardare dritto in faccia. 10 Questo gruppo si era fondato in seguito a un convegno organizzato dall’Historial de la Grande Guerre, rappresentato da J.J. Becker, Annette Becker, Stéphane Audoin-Rouzeau e dall’Institut d’Histoire du Temps Présent, rappresentato da Henry Rousso: cfr. Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, Christian Ingrao, Henry Rousso (a cura di), La Violence de guerre, 1914-1915. Approches comparées des deux conflits mondiaux, Complexe, 2002.

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violenza; la strategia euristica di un’antropologia storica e sociale delle emozioni e del gesto ha quindi finito per uniformare il metodo e organizzare la ricerca di ciò che individui e gruppi sociali avevano potuto vivere come esperienza, in termini di politica, emozioni, violenza e dominazione. Non mi soffermerò a lungo su questa prima ricerca11, che mi ha permesso di caratterizzare il nazismo come sistema culturale sotteso da un’angoscia escatologica nata durante una guerra, la Prima Guerra Mondiale, percepita come una tempesta bellica che mirava all’annientamento della Germania come Stato, ma anche, perlomeno in parte, come entità biologica. Col suo determinismo razziale caratterizzato dalla sua grande coerenza dogmatica, il nazismo figurava così quale sistema culturale di disangosciamento12, che dava senso alla disfatta del 1918 e all’inesprimibile esperienza del caos degli anni 1918-1924. Ma il nazismo, quale venne interiorizzato da questi militanti, si rivelò essere anche una promessa: quella dell’avvento, nel quadro di un Lebensraum conquistato a Est, di un impero millenario provvisto di una società armoniosa, la Volksgemeinschaft, società della bontà, dell’abbondanza frugale e della fraternità. Così, generando fervore e attesa, il nazismo rappresentava una promessa che bisognava far realizzare. Si trattava quindi di uno studio di storia culturale nazista. Partendo dalla biografia di un gruppo di ottanta persone, l’indagine è sfociata in una sorta di antropologia sociale dell’emozione nazista caratterizzata da quella che i sociologi definiscono – ci torneremo nei prossimi capitoli  – un procedimento comprensivo, o meglio, forse, internalista, che descrive le esperienze e le pratiche dei protagonisti dall’interno dei loro stessi spazi di enunciazione. Tuttavia, una delle caratteristiche fondamentali dei membri di questo gruppo è il loro impegno nelle tanatopolitiche del regime. Ed è osservando queste ultime che l’indagine ci ha condotto a tentare di capire quali fossero le spinte capaci di far aderire gli attori in campo alla violenza messa in atto per la circostanza. L’invasione della Polonia rappresenta qui la scena della violenza inaugurale. 11 Cfr. Christian Ingrao, Croire et détruire, cit. 12 Prendiamo in prestito il termine da Denis Crouzet, Les Guerriers de Dieu. La violence au temps des troubles de religion, vers 1525-vers 1610, Champs Vallon, 1990, 2 tomi, che lo applica ovviamente a tutt’altro contesto.

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L’idea di far seguire le truppe d’invasione che entravano in Polonia da gruppi mobili di ufficiali dell’SD, di funzionari della Gestapo appoggiati da poliziotti in uniforme, non era una novità, ma in Polonia ebbe una risonanza particolare a causa dello stato di belligeranza. Nate dalla guerra, le Einsatzgruppen di Polonia, formazioni di circa duemila uomini comandati per l’appunto da un gruppo di una trentina di quei giovani intellettuali e poliziotti SS, si distinsero per l’azione omicida che conobbe un salto di livello determinante. Nel corso delle sei settimane della loro esistenza, questi gruppi fucilarono quasi 12.000 persone. E la fortuna dello storico è che si possono capire le logiche alla base di questo passaggio all’atto grazie alla conservazione di sintesi dei loro rapporti giornalieri elaborate dall’SD a Berlino13. Le esecuzioni sono in essi legittimate con cura, e si può isolare, per esempio, una figura giustificativa illuminante: i gruppi segnalano la presenza di franchi tiratori, vera e propria ossessione dei redattori e dei dirigenti delle formazioni. La retorica dei franchi tiratori non era nuova, e rientra in una lunga storia dei repertori di legittimazione delle pratiche degli eserciti prussiani e imperiali. John Horne e Alan Kramer hanno mostrato che nel 1914, per giustificare un’ondata di aggressioni contro le popolazioni civili nei territori occupati del Belgio e del Nord della Francia, si era accampato il pretesto della presenza di franchi tiratori, di cui le truppe tedesche, provate dagli scontri, avevano ampiamente fantasticato14. Questo stato di fatto aveva chiuso, agli occhi delle potenze dell’Intesa, la questione della responsabilità tedesca nello scatenamento della Grande Guerra e quella del carattere criminale dell’invasione. In seguito si era largamente diffuso nella Germania di Weimar, in occasione dei dibattiti esplosivi sulla questione della responsabilità della guerra. È allora, molto probabilmente, che i giovani intellettuali dell’SD avevano interiorizzato queste retoriche. Quando si trattò di convincere delle SS a inaugurare una nuova fase aggressiva e mettersi a uccidere, 13 Bundesarchiv, Berlin-Lichterfelde, d’ora in poi indicato con la sigla BABL, R-58/1082. 14 Alan Kramer, John Horne, German Atrocities 1914. A History of a Denial, Yale University Press, 2001. La recente pubblicazione di Ulrich Keller, Schuldfragen: Belgischer Untergrundkrieg und deutsche Vergeltung im August 1914, Ferdinand Schöningh, 2017, non ci sembra sufficientemente convincente per rimettere in causa lo stato della storiografia.

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riciclarono gli stessi identici argomenti, armati delle memorie naziste intrise di una cultura bellica passata, razzializzata e biologizzata. Per le giovani élite naziste, ma anche per tutto il Terzo Reich, la guerra in Polonia costituiva così una guerra mnesica, una guerra di vendetta. E il primo insegnamento che se ne può trarre è che è impossibile comprendere veramente questi uomini, il nazismo e la guerra, se non inserendoli nella lunga storia della violenza della prima metà del XX secolo, e restituendole gli universi memoriali ed emozionali. La guerra in Polonia era una guerra di vendetta, di riparazione. E questo aspetto non smise di esistere una volta che essa fu vinta. Ecco perché, nella lunga indagine che ci attende, vorrei invitare il lettore a tentare anzitutto di comprendere e di storicizzare, studiando il caso nazista, i repertori di legittimazione della violenza, per poi concentrarsi sulle pratiche di eliminazione rivelate da queste inchieste. Tenteremo man mano di descrivere i principali risultati di queste ricerche e dei loro metodi, gli approcci, gli universi concettuali che sono stati utilizzati. Certo, ciò che qui si delinea in termini di storia culturale, o di antropologia sociale dell’emozione e delle gestualità di violenza genocidaria, è stato sperimentato sul caso nazista e sulle politiche omicide dispiegate in particolare nell’Est tra il 1939 e il 1945, ma intende abbracciare l’insieme della storia del continente. Retoriche difensive, retoriche utopiche: acconsentire al genocidio, riplasmare l’Europa Dal settembre del 1939 all’aprile del 1941, la Germania intraprese dunque quelle che si potrebbero chiamare guerre della revanche15. Si può facilmente mostrare come la campagna contro la Francia fosse carica di una portata memoriale considerevole per il belligerante tedesco, menzionando semplicemente il fatto che l’unico tesoro bellico archivistico che l’SD cercò sul serio fu l’esemplare francese del Trattato di Versailles16, che peraltro sparì in questa circostanza, e il fatto che 15 Per le guerre mi servo dell’espressione che Pierre Ayçoberry usava per gli eserciti tedeschi, in Id., La Société allemande sous le Troisième Reich (1933-1945), Seuil, 1998. 16 Daniel Schranz, Der Friedensvertrag als Beutestück, in Gerd Krumeich (a cura di), Versailles 1919. Ziele-Wirkung-Wahrnehmung, Klartext, 2001, pp. 342-348. Si veda

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l’armistizio fu firmato in un vagone ferroviario, che per l’occasione fu riposizionato nella radura di Rethondes. Si trattava di riprendere la guerra nel punto esatto in cui si era arrestata nel novembre 1918. La cosa non è tanto più difficile da dimostrare nel caso della Jugoslavia, nell’aprile 1941: fu davvero un caso se l’esercito dispiegato dal Terzo Reich per invadere la Jugoslavia dal Nord si componeva esclusivamente di austriaci e se il primo gesto compiuto da questo esercito il 6 aprile 1941 consistette nel bombardare Belgrado, come era avvenuto il 29 luglio 191417? Queste guerre erano guerre del passato, guerre della rivincita. L’invasione dell’URSS che si annunciava sin dalla fine dell’inverno 1940-1941 non era invece della stessa natura. Le gerarchie la caricavano di ben altre rappresentazioni, permeate di determinismo razziale nazista. Il generale Erich Hoepner, il comandante della quarta armata corazzata tedesca (4. Panzerarmee), che avrebbe dovuto aprire la breccia verso Leningrado, riassumeva così la portata dell’invasione in un dispaccio ai suoi uomini: La guerra contro la Russia è una parte essenziale nella lotta per l’esistenza (Daseinskampf) del popolo tedesco. È la vecchia lotta dei germani contro gli slavi, la difesa della cultura europea contro l’invasione moscovita-asiatica, la difesa (Abwehr) contro il bolscevismo giudaico. Questa battaglia deve avere come scopo l’annientamento della Russia attuale e deve dunque essere sferrata con una durezza inaudita. Ogni situazione di guerra deve essere condotta con una volontà di ferro fino all’annientamento totale e senza esclusione di colpi. Non deve esservi in particolare alcuna pietà per i sostenitori dell’attuale sistema russo-bolscevico18. anche Vincent Laniol, Des archives diplomatiques dans la guerre: le Destin “secret” des originaux des traités de Versailles et de Saint-Germain pendant la Seconde Guerre mondiale, in «Guerres mondiales et conflits contemporains», n. 229, 2008, pp. 21-42. 17 Il fatto è evidenziato da Walter Manoschek, «Serbien ist judenfrel»: Militärische Besatzungspolitik und Judenvernichtung in Serbien 1941/42, Walter de Gruyter, 1995. 18 Ordine del general comandante del 4. Panzerarmee, generale d’armata Hoepner, Bundesarchiv-Militärarchiv Freiburg (BA-MA), LVI.AK., 17965/7°, citato in Gerd Überschär, Wolfram Werte (a cura di), Der deutsche Überfall auf die Sowjetunion:

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Tutta l’economia del discorso nazista, un discorso sulla razza nella Storia, si ritrovava in questo vero e proprio distillato di questa ideologia. Circostanza inquietante: Erich Hoepner, antifascista convinto, per tale motivo fu destituito nel 1943 e impiccato dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Prova che l’interiorizzazione del determinismo razziale e della credenza nella fusione dei nemici politici (i bolscevichi) e razziali (gli ebrei) andava oltre la semplice convinzione di parte. Se la campagna contro la Polonia aveva rappresentato la guerra della Rivincita, quella contro la Russia era la Grande Guerra razziale, la guerra della Crociata. La portata era altissima, agli occhi delle gerarchie, e si ingiunse alle truppe di diffidare di tutti. Un documento indirizzato ai soldati qualche giorno prima dell’invasione permette di rendersene conto. Soldati! Combatterete un nemico dal quale non potete aspettarvi metodi di combattimento [degni di un] avversario leale e cavalleresco. L’Armata Rossa bolscevica […] utilizzerà i mezzi più ripugnanti e sleali. […] Dovete […] aspettarvi che i morti e i feriti che incontrerete durante l’avanzata si facciano passare per tali allo scopo di prendervi sotto il loro fuoco da vicino o da dietro. I Rossi faranno così passare piccoli reparti (avanguardia di fanteria) per attaccare le forze principali. State in guardia quando avanzate verso morti e feriti! […] Siete abituati a che un avversario che avanza verso di voi con le mani alzate sia intenzionato ad arrendersi. Con i bolscevichi anche questo può spesso essere un tranello per riprendere il combattimento alle vostre spalle. Non trattate qualcuno come un prigioniero prima di esservi assicurati che sia disarmato. Non lasciate alcun prigioniero senza sorveglianza. […] “Unternehmen Barbarossa” 1941, Fischer, 1997, p. 251. La quarta armata corazzata, coinvolta nella parte settentrionale del fronte, aveva come obiettivo Leningrado.

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Non mangiate niente di quello che trovate; non bevete l’acqua di fontane che non siano state esaminate. Dovete aspettarvi che tutto sia stato avvelenato. […] Il Paese e la sua popolazione sono contaminati da tifo, colera e peste: malattie che, grazie all’igiene del popolo tedesco, sono da tempo scomparse da noi. Siete vaccinati contro il contagio e non avete nulla da temere. Ciononostante, evitate qualsiasi contatto diretto con la popolazione e non bevete acqua che non sia stata fatta bollire. […] Dei paracadutisti in borghese tenteranno di assalirvi alle spalle. Non sono soldati, ma franchi tiratori: devono essere liquidati. State attenti! Siate duri e inflessibili ovunque incontriate tali metodi di combattimento – poco importa che si tratti di civili o di soldati19.

Ritenuto Paese della crudeltà e della barbarie, l’URSS giudeo-bolscevica era dipinta come un luogo in cui spariva ogni punto di riferimento classico di un soldato in guerra, e dove era legittimo non fare distinzioni tra morti e vivi, civili e militari, bambini e combattenti. Qui si vede chiaramente ciò che uno studio emozionale del nazismo apporta all’analisi: quello che emerge in piena luce è il risorgere dell’angoscia collettiva in occasione di questo evento razzialmente decisivo che è l’invasione nazista. Il determinismo razziale ormai funzionava a pieno, fenomeno tangibile nelle rappresentazioni dei giovani intellettuali SS che dirigevano le Einsatzgruppen. Questa volta sono 3.000 funzionari di polizia, ufficiali dell’SD, poliziotti in uniforme e giovanissime Waffen-SS a essere inviati nei quattro gruppi mobili di intervento ripartiti sull’insieme del fronte. Gli intellettuali dell’SD che vi furono mandati, come anche gli altri membri dei quattro gruppi, salvo rarissime eccezioni non erano veterani della Polonia. I membri subalterni dei gruppi erano stati reclutati in tutto il Reich sulla base di criteri quantitativi, dovendo ogni gruppo 19 Bundesarchiv-Militärarchiv (archivio federale militare di Freiburg-im-Brisgau, d’ora in poi abbreviato con la sigla BA-MA, RH 23/218, citato da Gerd Überschär, Wolfram Werte (a cura di), Der deutsche Überfall auf die Sowjetunion, cit., p. 264.

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regionale o locale dell’SD trasferire un determinato numero di funzionari in questi reparti mobili, senza che si fosse reperita alcuna forma di volontariato20. I giovani ufficiali vi si arruolano attraverso meccanismi che combinano il gioco delle reti locali e la selezione a livello centrale. Come nel caso della Polonia, sono stati conservati i rapporti giornalieri di sintesi, ma anche stavolta l’immagine che emana da questa vasta documentazione è ben più terrificante. I rapporti delle Einsatzgruppen esprimono la stessa angoscia provata dai nazisti che entravano nel territorio sovietico21. L’URSS vi era effettivamente dipinta come il Paese della fame, della crudeltà e del massacro e come il Paese in cui doveva attuarsi il determinismo razziale: qui l’ebreo era il bolscevico, agli occhi dei giovani intellettuali a capo dei commando SS, ed essi condividevano tale convinzione sia con la maggior parte dei responsabili della Wehrmacht che, inesorabilmente, con una parte importante delle popolazioni locali esasperate dalle politiche di escissione sociale – l’espressione, agghiacciante, è di Nicolas Werth – operate dal potere sovietico a partire dal 192922. Associato all’emissione di ordini che prevedevano l’uccisione automatica, da parte dei gruppi, di specifiche categorie di popolazione, questo misto di credo razziale e di immaginario di panico ebbe un effetto esplosivo nel contesto dell’invasione e generò uno stupefacente crescendo di violenza. Nelle loro prime sei settimane di esistenza, i gruppi dell’esercito della Rivincita avevano ucciso 12.000 persone in Polonia; quelli dell’esercito della Crociata razziale ne giustiziarono 50.000 nello stesso arco temporale. E non si 20 Sulle Einsatzgruppen, si leggano: Helmut Krausnick, Hans Heinrich Wilhelm, Die Truppen des Weltanschauungskrieges: Die Einsatzgruppen der SIPO und des SD, 1938‑1942, DVA, 1981; Andrej Angrick, Besatzungspolitik und Massenmord. Die Einsatzgruppe D in der südlichen Sowjetunion 1941‑1943, Hamburger Edition, 2003; Peter Klein (a cura di), Die Einsatzgruppen in der besetzten Sowjetunion 1941/42. Die Tätigkeits- und Lageberichte des Chefs der Sicherheitspolizei und des SD, Hentrich, 1997; Michaël Prazan, Einsatzgruppen. Les commandos de la mort nazis, Seuil, 2015. 21 Peter Klein (da cura di), Die Einsatzgruppen in der besetzten Sowjetunion 1941/42, cit. 22 Jan Tomasz Gross, Revolution from Abroad: The Soviet Conquest of Poland’s Western Ukraine and Western Belorussia, Princeton University Press, 2002; Timothy Snyder, Bloodlands. Europe Between Hitler and Stalin, Bodley Head, 2010; trad. it. Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, 2021.

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trattava che di un tragico inizio: a metà agosto del 1941, la natura dei gruppi cambiò profondamente. La storia di questa svolta che generò pratiche chiaramente genocidarie in URSS è stata studiata a fondo, e si sa che tra l’8 e il 16 agosto del 1941 i gruppi passarono all’uccisione di massa di bambini ebrei. Il passaggio all’infanticidio si effettuò senza alcuna progressione, e fu direttamente di massa23. Per uomini che, sette settimane prima, non avevano mai ucciso, il passaggio all’atto avvenne in modo brusco e irrimediabile. E i giovani intellettuali dell’SD accompagnarono questa svolta in modo decisivo. 6 agosto 1941, città di Tighina (Bessarabia): Bruno Müller comanda il Sonderkommando 11b dell’Einsatzgruppe D. È un brillante giurista con un dottorato in Diritto internazionale, che aveva alternato posti in organismi locali e nei livelli centrali degli organismi di controllo e di repressione del Terzo Reich e che, da sette settimane, agiva per la prima volta in operazioni di guerra a capo di un gruppo. Il giovane ufficiale trentacinquenne non era certamente alla sua prima operazione: aveva stazionato in Polonia, a Cracovia, dove aveva ordinato fucilazioni, ma qui il contesto cambiava, e in quel 6 agosto doveva annunciare al suo centinaio di uomini lì adunati che avrebbero dovuto cominciare a uccidere donne e bambini. Si fece dunque portare una donna e il suo neonato e, davanti alla truppa riunita, estrasse la sua arma d’ordinanza e li uccise entrambi per mostrare in cosa consisteva quello che Himmler avrebbe ormai chiamato il «compito atroce»24. Operata questa svolta, i gruppi trascinarono l’arco orientale dell’impero sovietico in un vortice micidiale che costò la vita a mezzo milione di individui in URSS, portando il numero delle vittime a 560.000 morti, tra uomini, donne e bambini, fra il 22 giugno e la fine del dicembre 1941. Non si conosce esattamente il tenore del discorso che Müller fece ai suoi uomini quella sera del 6 agosto; non lo si conosce esattamente, ma lo studio sistematico delle tracce di quelli tenuti dagli intellettuali e dai quadri dell’SD e ai fini di legittimare le esecuzioni e l’eliminazione 23 La storia evenemenziale di questa svolta è stata documentata da Ralf Ogorreck, Die Einsatzgruppen und die Genesis der “Endlösung”, Metropol Verlag, 1996. 24 Citato in Andrej Angrik, Die Einsatzgruppe D, in Peter Klein (a cura di), Die Einsatzgruppen in der besetzten Sowjetunion 1941/42, cit., p. 94, secondo cui la data è difficile da precisare, ma potrebbe essere il 6. Altre fonti fanno risalire questo assassinio all’8.

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di ogni limite può permetterci di compilare una tipologia delle retoriche a disposizione di Müller in quella serata decisiva. Questo metodo ha permesso di determinare due figure retoriche importanti, strettamente legate al corollario emozionale dell’interiorizzazione del credo nazista. Un primo asse argomentativo, il più cospicuo, è consistito, per i capi delle Einsatzgruppen, nel presentare le uccisioni – compresa quella di donne e bambini – come una necessità dettata dalla sopravvivenza della germanicità. Ecco come lo esprime Karl Kretschmer, ufficiale del SK 4a, attivo in Ucraina nei settori a est di Kiev, in una lettera alla moglie, nell’autunno 1942: Questa guerra, la combattiamo per l’esistenza stessa del nostro popolo. Grazie a Dio, nella nostra Patria non lo vedi da molto vicino. Ma i bombardamenti aerei ti hanno mostrato quanto il nemico ci riserva se vince. Gli uomini al fronte lo sperimentano di continuo. I miei compagni si battono letteralmente per l’esistenza del nostro popolo. Fanno al nemico ciò che egli farebbe loro. Penso che tu mi capisca. Poiché noi consideriamo che questa è una guerra ebrea, gli ebrei sono quelli che ne subiscono il primo colpo. In Russia, laddove v’è un soldato tedesco, non v’è più l’ebreo25.

Il carattere razziale della guerra totale spiega il fatto che ai suoi occhi sia evidente che lo sterminio di donne e bambini in Ucraina è la risposta ai bombardamenti in Germania: il fatto che l’avversario sia di natura razziale e biologica, conduca una guerra razziale e biologica e uccida indistintamente donne e bambini in una guerra di sterminio bombardando città tedesche rende legittimo sterminare anche donne e bambini, presso le fosse in Ucraina. Ciò che qui si delinea proviene direttamente da uno dei due grandi universi emozionali che articolano il credo nazista: la convinzione propriamente escatologica che vi sia un’alleanza mondiale nemica della Germania e coordinata da un nemico razziale assoluto, convinzione 25 Lettera di Karl Kretschmer, 30 settembre 1942, ZStL, 204 AR-Z 269/60, volume di documenti KA, f. 13. Citata anche in Daniel Jonah Goldhagen, Hitler’s Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, 1996; trad. it. I volonterosi carnefici di Hitler: i tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, 2017.

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ansiogena di cui il nazismo si era preoccupato, che aveva mitigato nei primi anni del potere, e che riemerse a sostegno dell’operazione Barbarossa. Quella che si elabora e che si diffonde è una vera e propria retorica difensiva, una retorica dell’“o loro o noi”, che divenne uno dei più potenti mezzi di persuasione all’atto più trasgressivo al culmine della pratica genocidaria: l’uccisione di bambini, un crimine inaugurato dallo stesso Bruno Müller davanti alla sua truppa a Tighina quella sera nel 6 agosto 1941. Ma v’è un secondo fatto che deve attirare la nostra attenzione nella biografia del giurista assassino. Prima di essere nominato a capo del Einsatzkommando 11b, Bruno Müller aveva diretto, dal maggio 1940 al maggio 1941, l’ufficio III B4 dell’SD. Questo ufficio III B4 era stato incaricato delle questioni relative a trasferimenti di popolazione e colonizzazione. Prima di diventare uno sterminatore, Bruno Müller era stato uno degli elementi più importanti del meccanismo amministrativo della germanizzazione. Non era certo l’unico caso del genere, in seno a quelle truppe di guerra di sterminio che erano diventate le Einsatzgruppen. Il caso di Martin Sandberger, anche lui precoce attivista nazista, autore di una tesi di dottorato sulla questione delle assicurazioni sociali sotto il Terzo Reich e membro dell’SD, si rivela qui particolarmente interessante. Dopo aver diretto, dal novembre 1939 al marzo 1941, l’EWZ, un centro SS d’insediamento di coloni volksdeutsche nella Polonia occupata, nel maggio del 1941 Sandberger venne nominato capo di un commando assegnato al settore Nord del fronte, con destinazione i Paesi baltici e l’Estonia. Ed ecco quanto racconta uno degli ex subordinati, per descrivere l’azione di Sandberger nel suo commando: L’ordine di principio, secondo il quale tutti gli ebrei, zingari, ecc., devono essere annientati per ragioni politiche e in vista di mantenere al sicuro durevolmente gli spazi dell’Est, mi è noto. […] Questi ordini, tuttavia, non sono stati annunciati davanti alla truppa riunita [a tale scopo]. Ricordo che noi [il commando antipartigiano di cui faceva parte] fummo radunati a inizio agosto 1941 nei dintorni di Kosta, stazione di Jam. Era a una trentina di chilometri da Narva. Fu là che ricevemmo la visita del Dr. Sandberger. Fu accolto da tutta la Wehrmacht come “Eroe del lago Peipus” perché era giunto su una imbarcazione d’assalto, passando per il lago

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mentre questo era controllato da cannoniere russe. Quella sera […] festeggiammo, bevemmo alcol. Nel corso della serata Sandberger si è tolto la giacca. Nel momento in cui se la tolse, divenne un semplice soldato come noi. Lo sentivamo così. Fu allora che ci siamo detti ciò che non si osa dire in altri casi, ossia la verità. Suppongo che fu quella sera che Sandberger o il capo del nostro commando, Feder, ci hanno rivelato, in privato, quegli ordini e gli obiettivi della politica tedesca a Est. Questi obiettivi erano delineati in modo vago: volevamo colonizzare gli spazi orientali. Ecco perché bisognava eliminare (ausrotten) l’intellighenzia locale. Era meglio fucilare un russo in più piuttosto che uno in meno. Era meglio piazzare un ufficiale estone –  che tuttavia, in qualche misura, apparteneva al nostro reparto – su una postazione dove eravamo certi che sarebbe caduto, piuttosto che non piazzarcelo. Così, sarebbe stato più facile colonizzare lo spazio e sfruttarlo economicamente […]26.

E il soldato aggiungeva peraltro: Voglio aggiungere ancora una cosa: il KdS Sandberger era un uomo di grande intelligenza. Appartenevo alla sua guardia del corpo durante l’invasione, e abbiamo viaggiato insieme in macchina per ore. In quella circostanza Sandberger ci ha spiegato gli obiettivi politici del governo del Reich per gli spazi orientali. Il contenuto era sempre lo stesso: colonizzazione dei territori orientali. Respingere le frontiere fino a Leningrado, dove doveva essere creato un commissariato di frontiera sotto la responsabilità della polizia. Eliminazione dell’intellighenzia russa. Sapevamo che questo implicava fucilare [queste persone]. […] Sono sicurissimo che ogni membro del KdS presente a Reval doveva conoscere questo tipo di conversazione e i discorsi sviluppati da Sandberger27. 26 Interrogatorio Erich R., 26/3/68, ZStL, 207 AR-Z 246/59 (Caso Sk 1a), 7, ff. 1303‑1306, qui f. 1304. Cfr. Hans-Heinrich Wilhelm, Rassenpolitik und Kriegsführung. Sicherheitspolizei und Wehrmacht in Polen und der Sowjetunion, Wissenschaftsverlag, 1991, pp. 202‑204. 27 Interrogatorio Erich R., 26/3/68, ZStL, 207 AR-Z 246/59 (Caso Sk 1a), 7, ff. 1303‑1306, qui f. 1305.

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Archetipo dell’intellettuale dell’SD, proprio come Bruno Müller, Martin Sandberger si prodigò in discorsi di persuasione per fabbricare il consenso genocida nella sua truppa. Quella che si svela ai nostri occhi è una seconda struttura argomentativa di legittimazione del genocidio, articolata sul secondo asse fondamentale dell’universo emozionale che strutturava il credo nazista: sistema di disangosciamento, il nazismo si presenta anche, a coloro che lo interiorizzano, come la promessa di un impero millenario. Questa promessa parve realizzarsi agli occhi degli intellettuali SS proprio a partire dall’invasione della Polonia. Ma nell’estate del 1941 una delle condicio sine qua non della sua realizzazione è il genocidio degli ebrei sovietici. Le attese legittimavano l’omicidio di massa e alla retorica dell’“o loro o noi” si aggiungeva ormai un “bisogna uccidere perché venga il nostro regno”. Al genocidio per angoscia corrispondeva anche, e penso che sia inesorabile, un genocidio per zelo28. Si è dunque trattato di fare la storia di questa promessa e della sua realizzazione. O meglio della prospettiva della sua realizzazione. Si comincia dunque dalla conquista della Polonia, scena inaugurale. La campagna di Polonia, lo abbiamo visto prima, è portatrice di una carica mnesica fondamentale: è una guerra del passato. Ma agisce come un Giano bifronte, con una guerra del passato che apre un futuro. Infatti l’entrata in guerra produce sugli orizzonti d’attesa nazisti uno scarto di cui s’è dovuta prendere la misura. Questo scarto è percepibile sin dal momento in cui Hitler annuncia al Reichstag l’entrata in guerra, ma s’incarna in tre tipi d’imperativi categorici29. Da una parte, lo si è visto, l’imperativo del controllo è rappresentato dalle Einsatzgruppen che avanzano sulla scia dei reparti d’invasione blindati e motorizzati, ma la cui esistenza si limita alle sei settimane della guerra di movimento. Una volta passata questa fase, esse si sedentarizzano per formare uffici locali della Gestapo e dell’SD. Dopo il tempo del controllo viene quello dell’amministrazione, che coincide con un secondo imperativo, quello della germanizzazio-

ne. Hitler infatti ha presto annunciato di aver deciso di «riorganizzare le relazioni interetniche in Europa», attraverso una serie di trattati firmati con l’insieme dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, che prevedevano il ritorno nel Reich dei Volksdeutsche, quei tedeschi etnici che il Trattato di Versailles aveva lasciato fuori dalle frontiere del Reich e che l’invasione della Polonia avrebbe dovuto salvare. Il tempo della germanizzazione era quello del controllo dei territori, dello Heim ins Reich des Volksdeutsche e dell’espulsione delle popolazioni indesiderate. Per realizzare questo insieme di annunci, Hitler nominò Himmler commissario del Reich per il rafforzamento della germanicità. Per quanto simbolica, questa nomina raccontava bene della lettura nazista della germanizzazione: era innanzitutto e soprattutto una questione razziale affidata all’élite razziale del Reich e Himmler incaricò l’RuSHA (SS-Rasse- und Siedlungshauptamt, ovvero Ufficio centrale per la razza e le colonie), di mettere a punto le procedure di selezione delle popolazioni, desiderabili e no, procedure fondate su esami medico-razziologici e sulla fornitura di alberi genealogici che permettessero di procedere all’anamnesi razziale ed ereditaria30; era in secondo luogo una questione di controllo delle popolazioni e di trasferimento, e l’SD e la Gestapo furono logicamente incaricati di questa pratica: la Gestapo, tramite Eichmann, aveva già messo a punto delle procedure di emigrazione/espulsione che consistevano nel creare una serie di sportelli per spogliare le popolazioni da cacciare, estorcendo loro il costo del viaggio, confiscando loro beni e documenti d’identità, e costringendoli a salire su treni previamente allestiti da quegli stessi uffici. Dal canto suo, l’SD, con l’ufficio III B che abbiamo visto quando si è parlato di Bruno Müller, metteva l’accento sulle procedure d’identificazione, di valutazione socio-razziale e modellazione degli indicatori demografici; insomma si trattava di riprogettare l’Europa attraverso la pianificazione e la trasformazione degli spazi, delle città, dei paesi e delle fattorie, il che poteva compiersi solo, da una parte, con il concorso di architetti e geografi progettisti, e, dall’altra, con il concorso di ingegneri costruttori che furono poi riuniti in una nuova istituzione,

28 È la storia che ho tentato di narrare nel recente libro La Promesse de l’Est, cit. Tutto il passo che segue rende conto di questa indagine. 29 Riprendo la nozione kantiana dal bel lavoro di Johann Chapoutot, La loi du sang, cit.

30 Sull’RuSHA si veda Isabel Heinemann, Selezione razziale, deportazione e genocidio: le SS e il nuovo ‘ordine razziale’ europeo, in Marina Cattaruzza et al. (a cura di), Storia della Shoah: la crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. 2, UTET, 2006, pp. 328-352.

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il WVHA (SS-Wirtschafts- und Verwaltungshauptamt, ovvero Ufficio centrale economico e amministrativo), vero e proprio perno dell’economia delle SS. Terzo e ultimo imperativo: quello della selezione razziale interna, che appare quando, il giorno stesso dell’invasione della Polonia, Hitler dà l’ordine retroattivo di sottoporre all’eutanasia i malati incurabili, anzitutto i bambini e poi gli adulti31. Il ragionamento era il seguente: poiché la Germania si accingeva a intraprendere un periodo di prove impegnative, in cui si mandava a morire in guerra il meglio del suo patrimonio genetico, era giunto il tempo di accelerare le pratiche eugenetiche e il ritorno alla purezza razziale dotando il personale eugenista di uno strumento radicale: l’eliminazione mirata d’individui che rappresentavano “vite prive di valore”, una zavorra che nuoceva al patrimonio razziale nordico. Così, nel giro di qualche settimana, la Germania nordica si pose, agli occhi dei militanti nazisti, sulla via della purezza razziale endogena e, grazie alla conquista e alla germanizzazione, su quella della realizzazione della promessa del regno e dell’avvento dell’utopia nei territori della Germania nuova. Bisognava però ancora mettere a punto e pianificare le diverse tappe della germanizzazione. È quanto si impegnarono a fare le squadre di Himmler, capeggiate in particolare da Heydrich e da quell’insieme di giovani intellettuali dell’SD, da geografi, progettisti, ingegneri, medici e razziologi. Il nuovo responsabile addetto alla pianificazione generale per l’Est, Konrad Meyer-Hetling, esprimeva così ciò che sarebbe risultato dalla conquista della Polonia e dalla creazione del Commissariato per il rafforzamento della germanicità: Ogni grande epoca crea nuove forme e genera nuove volontà. Ciò vale in particolare per le politiche di colonizzazione. Siamo ormai definitivamente messi di fronte alla grande causa della colonizzazione, attraverso la ricostruzione di questo Est ritrovato e l’espansione del Reich. Per volontà del Führer, questa causa è ormai posta sotto il segno del rafforzamento della germanicità. 31 Aly Götz, Aktion T4 1939‑1945. Die «Euthanasie»-Zentrale in der Tiergartenstraße 4, Édition Hentrich, 1989.

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Le politiche di insediamento e colonizzazione non erano mai state poste prima d’ora sotto gli auspici di questa teoria. Tra l’antagonismo città-campagna e la carenza di una teoria globale, esse trasformarono i territori in zone urbane e rurali sempre più distanti le une dalle altre e preda di divergenze di opinione e d’interesse tra i diversi partiti e fazioni. È così che si spiega la confusione ideologica e la molteplicità delle concezioni e dei motivi che si vedono spesso all’opera nelle questioni di colonizzazione32.

E aggiungeva peraltro: La pianificazione dell’organizzazione dell’Est deve affrontare la futura penuria e le barriere. Con la colonizzazione dell’Est, non si tratta solo di rifondare una nuova classe contadina tedesca, o di incrementare l’edilizia popolare; di gestire piccole lottizzazioni o risolvere questioni di proprietà, bensì di germanizzare nuovi territori, progettare, organizzare e differenziare gli spazi e i paesaggi quali futura patria di tedeschi [in corsivo nell’originale]. Bisognerà dunque costruire nuovi paesi con impianti comuni, edificare nuove città, o risistemarne totalmente delle altre, ridare a paesaggi trascurati [verwahrlosten] un aspetto razionale, e infine riarticolare città e campagna in modo economicamente, politicamente e culturalmente ordinato33.

Si trattava proprio di una nuova società, una nuova era, in cui tutto sarebbe stato diverso, in cui le città e le campagne sarebbero rinate e in cui i rapporti sarebbero stati profondamente trasformati nel senso di un’armonia felice. Agli occhi del colonnello delle SS, i tempi erano contrassegnati dal sigillo del Regno e dal compiersi della Promessa. E il professore di geografia berlinese non era l’unico a condividere questa esperienza. La ricerca ha mostrato che furono almeno in 40.000 a dedicarsi alle politiche per favorire l’avvento, per usare i termini di Alphonse Du-

32 Konrad Meyer-Hetling, Introduction, in Catalogue Planung und Aufbau im Osten, p. 4, BABL, R-49/157, f. 47. 33 Ibidem.

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pront34, ossia alle politiche dell’avvento del millennio razziale. Questo esercito della speranza nazista era misto, comprendeva coscritti e volontari, coordinati da un gruppo di diverse migliaia di ufficiali SS militanti, medici, storici, sociologi, demografi, geografi, giuristi e poliziotti, oltre che ingegneri e un numero significativo di studenti e giovanissimi militanti nazisti dei due sessi, neanche ventenni, che all’inizio delle vacanze partivano verso i territori occupati per aiutare i Volksdeutsche nei campi di transito, dove questi aspettavano il reinsediamento, a occuparsi delle loro mogli e dei loro figli, per attuare una sorta di care nazista. Questo era composto di educazione/animazione di colonie di vacanze, puericultura e rieducazione delle coppie e delle famiglie attraverso una sorta di germanizzazione culturale, prefigurando quella comunità etnica nazionale, la Volksgemeinschaft, la società del futuro nazista, che sarebbe divenuta armoniosa dopo l’incessante selezione delle popolazioni e l’eliminazione della lotta di classe. L’esercito della speranza nazista costituiva un piccolo mondo a sé, un piccolo mondo che faceva l’esperienza fondamentale del sentimento di contribuire alla fondazione di qualcosa che doveva durare mille anni e sconvolgere la storia dell’Europa, esperienza di fervore che traspariva in un gran numero di ego-documenti redatti da alcuni dei partecipanti. Bisogna tuttavia tenere ben presente che quando, durante l’estate del ’42 nel distretto di Lublino, queste giovanissime donne raccontano al loro “caro diario” come sono contente di riportare sulla retta via della pronuncia di Hannover la lingua parlata dai piccoli sassoni della Transilvania rumena, lo fanno a poche decine di chilometri dai grandi centri di sterminio di Bełżec e di Sobibór. Al culmine della “speranza” nazista, in quella estate del 1942, il genocidio è indissociabile dalla realizzazione dell’utopia. Questa era diventata una prospettiva gigantesca, che prevedeva l’invio dei migranti/coloni dal circolo polare al Mar Nero e dalla Lorena agli Urali, fino al Caucaso e Krasnodar, dove avrebbero costituito un popolo di seicento milioni di individui di pura razza nordica. 34 L’approccio di Alphonse Dupront è fondamentale per l’innovazione linguistica, la capacità di entrare negli enunciati e nell’imaginario dei protagonisti, l’attenzione alle logiche simboliche di lunga durata: Alphonse Dupront, Le Mythe de croisade, 4 tomi, Gallimard, 1997.

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E in occasione di due conferenze tenute di fronte all’assemblea degli studenti nazionalsocialisti di Graz, Hans Ehlich, il capo di quell’ufficio III B dell’SD, incaricato degli affari razziali e della colonizzazione, aveva ben precisato il corollario di questo gigantesco piano, per i settanta milioni di allogeni che vivevano in quegli spazi: solo ventidue milioni e mezzo di loro risultavano compatibili e assimilabili razzialmente. Gli altri dovevano andarsene oppure morire. Ora, i piani generali per l’Est prevedevano l’espulsione di “soli” trentuno milioni di individui. Ne restavano dunque sedici milioni e mezzo di cui non era prevista la partenza, ma di cui non era più consentita neppure l’esistenza e che dunque erano destinati a una morte più o meno rapida. E questo numero, già enorme, non considerava gli undici milioni e trecentomila ebrei europei il cui sterminio, ratificato a Wannsee il 20 gennaio 194235, non era più neppure materia di dibattito. Erano dunque ventisette milioni e ottocentomila le persone che dovevano soccombere affinché si concretizzasse il regno millenario, affinché il sogno nazista diventasse realtà. Violenza e forme di dominio sociopolitico. Immaginari razziali e animalizzazione Quello che nell’estate del 1942 era diventato un genocidio aveva preso le mosse dalla retorica sulla sicurezza del giugno 1941, o meglio dal doppio discorso sorto al momento dell’occupazione della Polonia: da una parte si faceva delle politiche di sicurezza, della necessità di un’azione vigorosa e spietata e dell’uso delle armi il nucleo delle politiche di mantenimento dell’ordine; dall’altra, tramite politiche di espulsione, di predazione, di concentramento e di germanizzazione, si sottomettevano le popolazioni-bersaglio a sistemi di dominio di tipo razziale e sociale sempre più duri e dal carattere arbitrario. In altri termini, le politiche sempre più letali imposte dai nazisti nei territori occupati a Est vengono giustificate da ragioni di sicurezza. Queste retoriche di rappresaglia o di mantenimento dell’ordine 35 Christian Gerlach, Die Wannsee-Konferenz, das Schicksal der Deutschen Juden und Hitlers politische Grundsatzentscheidung, alle Juden Europas zu ermorden, in «Werkstattgeschichte», n. 18, 1998.

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costituiscono la base argomentativa del crescendo di violenza che si osserva in Polonia, in URSS e in Serbia. In quest’ultimo Paese, è con la scusa della lotta contro i partigiani che le forze della Wehrmacht e della polizia intraprendono, nell’estate del 1941, lo sterminio delle comunità ebraiche36; è lo stesso argomento utilizzato dal Rückwärtiges Heeresgebiet e dal BdS (Befehlshaber der Sicherheitspolizei, comandante della polizia di sicurezza) di Minsk per legittimare, tra giugno e novembre 1941, il crescendo di violenza che sfocia nello sterminio totale degli ebrei della Bielorussia37. Ci troviamo qui di fronte a un paradosso: la documentazione lasciata dalle istituzioni assassine mostra che le misure prese accanto a quelle che i nazisti chiamano “misure esecutive”, vale a dire le uccisioni, ai loro occhi garantiscono effettivamente la sicurezza. Nelle prime settimane dell’invasione dell’URSS, i membri delle Einsatzgruppen trasmettevano alla centrale berlinese un gran numero di rapporti che riflettevano l’atmosfera di panico e paura, pieni di descrizioni orripilanti delle comunità ebraiche e di loro presunte attività; col passare delle settimane, le misure di sicurezza attuate trasformano però l’immagine delle comunità ebraiche, “pacificandole” in qualche misura. Ma allora, logicamente, il numero dei giustiziati dovrebbe ridursi. Niente affatto, invece: anzi, si produce un balzo gigantesco, come abbiamo visto, a partire da metà agosto 1941. Le esecuzioni aumentano d’intensità fino alla fine del 1941. Il paradosso è dunque il seguente: mentre l’immagine degli ebrei si edulcora, facendoli apparire meno pericolosi e violenti agli occhi stessi di coloro che li uccidono, questi ultimi diventano ancora più violenti, in un crescendo straordinario di assassinii. Per tentare di spiegare tale paradosso, bisogna, credo, cimentarsi in uno studio comparato dell’immagine degli ebrei che emerge dai rapporti degli assassinii all’inizio e alla fine dell’operazione. Ecco un primo esempio, tutto sommato abituale, del modo in cui essi vengono 36 Walter Manoschek, «Serbien ist Judenfrei». Militärische Besatzungspolitik und Judenvernichtung in Serbien 1941‑1942, Oldenbourg, 1993. 37 Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit., pp. 882 sgg; Walter Manoschek, «Wo der Partisan ist, ist der Jude und wo der Jude ist, ist der Partisan». Die Wehrmacht und der Shoah, in Gerhard Paul (a cura di), Die Täter der Shoah. Fanatische Nationalsozialisten oder ganz normale Menschen, Wallstein, 2003, pp. 167‑185, qui pp. 169‑171, per la Bielorussia.

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rappresentati all’inizio dell’operazione, durante l’invasione, dai membri della Einsatzgruppe C, tratto da un rapporto di situazione e di attività all’arrivo delle truppe tedesche: Einsatzgruppe C: Posizione: Zwiahel. I) Situazione generale all’arrivo. […] I bolscevichi hanno […] ucciso molti ucraini in combutta con gli ebrei locali. Hanno colto il pretesto di un tentativo di rivolta degli ucraini a Lemberg [Leopoli, L’viv] il 25.6.41, i quali volevano liberare i loro prigionieri. 20.000 ucraini, l’80% dei quali apparteneva all’intellighenzia, sono scomparsi da Lemberg secondo informazioni affidabili. Le prigioni di Lemberg erano zeppe di cadaveri di ucraini uccisi. […] Nel corso dei massacri, i russi e gli ebrei si sono comportati in modo estremamente crudele. Mutilazioni bestiali (viehische) erano all’ordine del giorno. Hanno tagliato i seni alle donne, agli uomini le parti genitali. Gli ebrei hanno inchiodato ai muri i bambini e li hanno uccisi38. I colpi di fucile venivano sparati alla nuca. Spesso sono state utilizzate granate durante le uccisioni. 38 Nulla permette di trarre conclusioni sulla veridicità delle descrizioni effettuate dalle Einsatzgruppen, in ogni modo molto esagerate: uno dei membri ha dichiarato di aver aiutato a seppellire un centinaio di corpi: Interrogatorio Rudolf W., 18/6/59, Zentralstelle der Landesjustizverwaltungen Ludwigsburg (ZStL), 2 AR-Z 21/58 (Ehrlinger, [BdS Kiev, Sk 1b.]), vol. 3, ff. 1817‑1861, qui f. 1829; cfr. anche Bogdan Musial, «Konterrevolutionäre Elemente sind zu erschiessen»: die Brutalisierung des deutsch-sowjetischen Krieges im Sommer 1941, Propyläen, 2001. Se è noto che l’NKVD ha effettivamente messo in atto esecuzioni, le violenze qui descritte sembrano piuttosto ascrivibili a una dinamica di massacro con partecipazione massiccia delle popolazioni. Comunque stiano le cose, l’elemento determinante qui è la griglia di lettura adottata dalle SS, e non le violenze commesse dai sovietici o dagli ucraini. Sulle esecuzioni condotte dall’NKVD e sui pogrom conseguentemente fomentati dalle organizzazioni nazionaliste ucraine, si consulti la tesi di abilitazione di Kai Struve, Deutsche Herrschaft, ukrainischer Nationalismus, antijüdische Gewalt: Der Sommer 1941 in der Westukraine, De Gruyter, 2015.

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A Dobromyl’, uomini e donne sono stati abbattuti a mazzate, come bestiame. In moltissimi casi, i prigionieri sembrano esser stati martoriati nei modi più duri: ossa spezzate, ecc. […]. Infine, si è constatata l’uccisione di 4-7 aviatori tedeschi fatti prigionieri. Tre di loro sono stati trovati in un ospedale russo, dove sono stati uccisi nel letto con un colpo di arma da fuoco nel basso ventre […]. III) Misure dell’Einsatzgruppe La Sicherheitspolizei ha ammassato (zusammengetrieben) e giustiziato circa 7.000 ebrei come rappresaglia contro le atrocità disumane. 73 uomini sono stati interrogati e anch’essi fucilati come funzionari o responsabili dell’NKVD39.

Gli ebrei sono qui rappresentati come istigatori di una violenza disumana e descritti utilizzando il campo lessicale della bestialità. La descrizione delle gestualità di messa a morte che avrebbero impiegato serve all’amministrazione come prova della loro presunta efferatezza. Se si esamina ora la fine dell’operazione, emerge tutt’altra immagi40 ne . Ecco come uno degli ufficiali dell’Einsatzgruppe A, l’SS-Standartenführer Karl Jäger, descriveva la situazione in Lituania nel dicembre del 1941: Volevo macellare (umlegen) anche quegli «ebrei da lavoro» e le loro famiglie, il che mi valse una serie di polemiche (Kampfansage) con l’amministrazione civile e la Wehrmacht, che portarono al divieto seguente: questi ebrei e le loro famiglie non devono essere fucilati […]. Ritengo che la fase principale delle «azioni ebraiche» nel territorio dell’EK [Einsatzkommando] 3 sia terminata. Gli ebrei da lavoro ancora presenti sono indispensabili e immagino che dopo l’inverno questa manodopera sarà ancora imperativamente necessaria. Sono 39 EM 24, 16/7/1941, BABL, R-58/214, ff. 188‑191. 40 Sulla Lituania si veda Christoph Dieckmann, La guerre et l’assassinat des juifs lituaniens, in Anne Duménil, Nicolas Beaupré, Christian Ingrao, 1914‑1945, l’ère de la guerre: 1939‑1945, nazisme, occupations, pratiques génocides, Viénot, 2004.

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dell’avviso di cominciare immediatamente la sterilizzazione degli ebrei da lavoro maschi, per evitarne la riproduzione. Se ciononostante un’ebrea restasse incinta, bisognerebbe allora liquidarla41.

Descrivendo un alterco con le autorità d’occupazione, Jäger forniva qui indirettamente un’immagine degli ebrei altrettanto disumana, ma nettamente meno marcata dall’angoscia. Erano qui rappresentati come una massa amorfa, una massa da lavoro sterilizzabile e di cui disporre a piacimento, e infine il termine Arbeitsjuden, ‘ebrei da lavoro’, illustrava bene in che termini li concepiva Jäger. Per capire lo scarto esistente tra queste due rappresentazioni così diverse degli ebrei a qualche mese di distanza bisogna far riferimento alle pratiche di gruppo da una parte, e all’antropologia sociale dall’altra. In quel periodo, anche al di là delle esecuzioni da loro operate, le Einsatzgruppen hanno proceduto alla ghettizzazione delle popolazioni ebree, imponendo loro l’esibizione della stella gialla distintiva e il lavoro forzato. Al momento dell’invasione, secondo gli autori dei rapporti queste popolazioni erano percepite come popolazioni selvagge, «in libertà», che sviluppavano comportamenti di violenza «bestiale». Nella psiche delle SS, le operazioni di stabbiatura, la marchiatura e il lavoro forzato fungevano così da surrogati del processo di addomesticamento. Una volta passate per questo processo e per le sue conseguenze simboliche, le comunità ebree non erano più percepite come bestie selvagge, ma letteralmente come bestiame domestico, mera forza lavoro, di cui i nazisti pretendevano di controllare sia l’alimentazione che la riproduzione. Peraltro, questo modello antropologico delle modalità di animalizzazione del nemico si rafforza ancora di più se si esaminano le condizioni in cui le Einsatzgruppen operavano nei due casi: nel momento in cui i loro agenti vedevano gli ebrei come animali selvaggi, si trattava di reparti mobili, nomadici in qualche modo, mentre la fine dell’operazione di addomesticamento simbolico coincise con la loro definitiva sedentarizzazione42. 41 Rapporto Jäger, dicembre 1941, BABL, R-70 (SU)/15, ff. 87‑88. 42 La coincidenza tra sedentarizzazione delle Einsatzgruppen e inizio delle liquidazioni esaustive di comunità ebree in Russia era stata notata da Christian Gerlach, Die Einsatzgruppe B, in Peter Klein (a cura di), Die Einsatzgruppen in der besetzten Sowjetunion 1941/42, cit.

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L’evoluzione delle operazioni delle Einsatzgruppen è quindi coerente con la percezione che i loro membri avevano degli ebrei. Si tratta evidentemente di un sistema di rappresentazione che mobilita strutture mentali profonde. Secondo gli antropologi che lavorano insieme a Françoise Héritier, Philippe Descola e Bertrand Hell, queste strutture si sono formate a partire dal Neolitico, in uno spazio che va dall’Europa occidentale alla Siberia, e determinano il rapporto degli uomini con il selvaggio e con il domestico, in particolare con l’uccisione43. Nel primo caso, sul piano immaginario e simbolico, le SS dell’estate del 1941 appaiono come dei cacciatori nomadi che attaccano coloro che percepivano come bestie selvagge; ma già in dicembre, gli uomini di Jäger rappresentavano se stessi come pastori sedentari, che avevano stabbiato, marchiato e messo al lavoro quegli ebrei. Il corollario di questo passaggio dall’una all’altra immagine mentale era che la modalità di uccisione ormai non poteva più essere dell’ordine della caccia, che concerne unicamente la sfera del Selvaggio. Nella sfera simmetrica del Domestico, la modalità di uccisione corrispettiva è la macellazione44. Ora, la differenza fondamentale tra le due è che la caccia presuppone, in modo quasi universale45, la pratica di risparmiare i giovani esemplari e, in minor misura, le femmine delle specie prese di mira, mentre la macellazione prevede sin dalle origini di uccidere giovanissimi individui, conferendo addirittura denominazioni specifiche (vitello, agnello, maialino da latte) ai prodotti di carne che ne derivano. Il passaggio dalla prima alla seconda modalità nazista di animalizzazio43 A tal proposito vedi Bertrand Hell, Le Sang noir. Chasse et mythe du sauvage en Europe, Flammarion, 1994. 44 Su questo aspetto è fondamentale Noëlie Vialles, Le Sang et la Chair. Les abattoirs des pays de l’Adour, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 1987. 45 Per i mondi antichi: Jacques Pernaud, Les Cervidae du site pleistocène moyen de la Caune de l’Arago à Tautavel (Pyrénées orientales). Paléontologie, étude des populations, approche paléoethnologique, tesi, MNHN, 1993. Pernaud ha dimostrato ha dimostrato che la predazione era essenzialmente di origine ominide e riguardava solo esemplari adulti. Per i mondi più o meno remoti, cfr. i rituali di adozione degli animaletti selvatici presso i Jívaros per compensare la morte dei genitori, in Philippe Descola, Des proies bienveillantes. Le traitement du gibier dans la chasse amazonienne, in Françoise Héritier (a cura di), De la violence, t. II, Odile Jacob, 1999, pp. 20‑44, qui p. 29. Questa pratica è presente anche in Siberia. A tal proposito, cfr. Bertrand Hell, Le Sang noir, cit.

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ne del nemico costituì dunque una mutazione antropologica capitale; una mutazione indotta dalla pratica stessa delle Einsatzgruppen; una mutazione che permise ai carnefici di prendere in considerazione l’esecuzione di giovanissimi individui e ciò, senza alcuna progressività nel superamento della soglia, nel momento stesso in cui venne loro la spinta genocida, segno della generalizzazione delle uccisioni. L’antropologia strutturale di seconda e terza generazione ha così permesso di portare alla luce sistemi di rappresentazione latenti che avrebbero reso conto dei mutamenti cospicui avvenuti nei meccanismi psichici individuali e collettivi degli assassini, in gruppo o singolarmente. Si sa bene che queste strutture non sono immutabili, che la loro storicità dev’essere mantenuta e discussa, che l’invariante varia. Ciò non toglie che in una storia ultracontestualizzata messa in campo dagli storici funzionalisti di terza generazione, sulla scia di Götz Aly, Christian Gerlach e Dieter Pohl, un tuffo in una prospettiva storica di lunga durata di queste strutture permette un diverso approccio a queste gestualità. Si è quindi deciso di mettere alla prova questo modello interpretativo per capire in che misura si potesse allargare e applicare all’insieme delle politiche di sicurezza e di occupazione naziste in Europa orientale. E per far ciò bisognava procedere per tappe, cominciando con una ricerca-test. E quale miglior modo per lavorare sull’immaginario nazista della caccia, del selvaggio e dell’addomesticamento, che soffermarsi in primo luogo su un reparto di SS il cui reclutamento si fondava inizialmente solo su bracconieri e criminali cinegetici46? Condannati per delitti cinegetici, questi “cacciatori neri” erano inviati a Est, in cambio della riabilitazione. Dovevano sia dare la caccia ai partigiani sovietici che fare la guardia agli ebrei, che nei campi di lavoro venivano sottoposti a un’operazione di addomesticamento spinto al parossismo. Prima cacciatori, poi pastori di esseri umani, i membri di questo reparto costituivano un osservatorio ideale dei differenziali delle pratiche di violenza e del loro essere condizionate dal contesto simbolico, immaginario e strutturale nel quale questi uomini e il loro reparto agivano. 46 Ne tratto in Christian Ingrao, Les Chasseurs noirs, cit.

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Bisognava appurare se le pratiche di violenza dispiegate contro i partigiani sovietici e i contadini bielorussi da una parte, e i detenuti ebrei dei campi di lavoro dall’altra, rifrangessero il suddetto passaggio, l’opposizione strutturale emersa grazie allo studio delle Einsatzgruppen. A complemento di questo quadro strutturalista, si è presupposto che gli aspetti principali sarebbero emersi grazie alla grande scoperta di Denis Crouzet, storico dei gesti della violenza religiosa: Il postulato che presiede all’analisi – perché ne era pur necessario uno – è che quella gestualità parossistica che è quella della violenza sia l’esteriorizzazione o piuttosto il precipitato della cultura che ha indotto o imposto la violenza, che quest’ultima sia un sistema significante culturalmente codificato, a partire dal quale è possibile individuare le ragioni della violenza e dunque della crisi religiosa47.

La violenza come linguaggio; i gesti come sintagmi, la loro sistematizzazione come grammatica o come sintassi che permette al ricercatore di accedere all’universo simbolico dell’assassino finché il suo gesto rimane di natura sociale. Questo apriva un percorso interpretativo della violenza profondamente nuovo, che consentiva di uscire dallo sgomento che le gestualità suscitano nell’osservatore: armati di questi strumenti, possiamo osservare – mi allontano per un momento dall’argomento “nazismo” – quei numerosissimi video di sgozzamenti e decapitazioni che i fondamentalisti islamici takfiristi girano da più di vent’anni e comprenderne il dispositivo. Per quanto ci riguarda, rientrando nell’ambito del nazismo, del genocidio e delle politiche di occupazione in Europa dell’Est, si è trattato di differenziare le gestualità della violenza in funzione degli immaginari utilizzati dai loro autori. Si delineava così una violenza dimostrativa, fatta di numerosissime impiccagioni pubbliche, con cartelli esplicativi applicati alle vittime; di impiccagioni dai diversi significati a seconda dei contesti. Prendiamo il caso di due persone identificate come ebrei comunisti e giustiziate a Tarnopol, capitale dell’omonimo voivodato polacco (oggi Ternopil’, in Ucraina occidentale), qualche giorno dopo l’ingresso dei tedeschi in città. In un elaboratissimo rituale, che comporta un folto pubbli47 Denis Crouzet, Les Guerriers de Dieu, cit., t. 1, p. 49.

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co ucraino e camion delle unità di propaganda dotati di altoparlanti, l’esecuzione celebra il festoso bando della fine del comunismo, ma d’altra parte assume una funzione di verifica sillogistica della fiducia nella fusione del nemico razziale col nemico politico: uccidendo quei due uomini, i tedeschi convincono se stessi e convincono gli astanti ucraini della collusione tra ebrei e bolscevichi, affermando al tempo stesso che questo fa ormai parte del passato. Si identificano altri rituali dello stesso tipo, anch’essi utili a inculcare messaggi nel pubblico, che fosse costituito da occupanti o da occupati: è il caso delle impiccagioni di donne accusate di aver venduto carne umana al mercato di Minsk48; o ancora delle esecuzioni di ebrei accusati di aver tentato di contaminare l’acqua con ceppi di bacilli di tifo49. Bisognava conformare le donne russe alla presunta selvatichezza della loro condizione razziale, e fare lo stesso con gli ebrei. In fin dei conti si trattava di un utilizzo differenziato dell’impiccagione, che si offriva all’osservatore intenzionato a sistematizzare lo sguardo su tale pratica. Oltre a questa violenza dimostratrice, è stato possibile seguire l’evoluzione delle procedure utilizzate dalle Einsatzgruppen per fucilare i sempre più numerosi contingenti di vittime ebree. Si sviluppò una vera e propria arte dell’uccisione, e praticamente tutti i commando, dopo aver tentato diverse procedure e in particolare l’uso della mitragliatrice pesante su gruppi di vittime compatti, elaborarono procedure che comportavano la divisione dei commando in tre squadre, una di guardia, una di scorta verso fosse precedentemente scavate e una di tiratori che giustiziavano le vittime sparando loro alla nuca con una pistola o un’arma di piccolo calibro. Emerge dunque un fenomeno di parcellizzazione dei compiti, di ripartizione della dimensione più trasgressiva del mestiere, una sorta di taylorizzazione dell’uccisione, uno spettacolo nauseabondo assimilabile, agli occhi dello storico, ai metodi di macello utilizzati nei mattatoi occidentali contemporanei, quali erano già osservabili a Chicago negli anni Trenta. Verosimilmente, i nazisti giunsero a 48 Interrogatorio Karl-Heinz B., 9/10/62, ZStL, 202 AR-Z 96/60 (Caso Sk7a, Rapp et al.), 8, ff. 3009‑3016, l’uomo ricorda di aver partecipato all’esecuzione pubblica di due donne che avevano ucciso, fatto a pezzi e venduto due bambini al mercato di Minsk. 49 Interrogatorio Heinrich Bergmann, 1/6/60, ZStL, 207 AR-Z 246/59 (Caso Sk1a), 2, ff. 457‑463.

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mettere in pratica procedure analoghe a quelle utilizzate nei moderni mattatoi anche perché degradavano le loro vittime al rango di bestiame. Ma torniamo un momento allo studio di quella unità di bracconieri: esso ha permesso peraltro di entrare in pieno negli immaginari della Caccia, del Selvaggio e del Domestico utilizzati dai nazisti e di mettere in luce logiche comportamentali assai differenziate, strettamente dipendenti dalle modalità secondo cui gli uomini dell’unità identificavano le popolazioni che incontravano. Le diverse popolazioni erano così classificate secondo una scala che va dal Selvaggio al Familiare, passando per il Domestico, agli occhi dei tedeschi: in fondo alla Selvatichezza, i partigiani bielorussi, visti come il peggio della selvaggina, di assoluta ferocia e pericolosità, dotati anche delle virtù intrinseche del mondo selvaggio: coraggio e saperi innati della vita silvestre. A forza di assaporare tali virtù, del resto, i bracconieri stessi se ne avvalevano e si vedevano descritti come gli elementi selvaggi e crudeli della comunità nazista, individui pericolosi che bisognava lasciare ai margini. In secondo luogo, sottoposte a processi di addomesticamento più o meno spinti, le popolazioni civili contano solo come forza di lavoro e di riproduzione. La pratica più spinta è quella subita dalle popolazioni ebree stabbiate, marchiate e messe al lavoro nei campi. Ma, a un grado minore e con sorti un po’ meno funeste, lo stesso ragionamento vale per le popolazioni bielorusse. Questi individui vengono sottoposti a trattamenti che riflettono quel tipo di dominio: uccisione di massa, gestualità crudele che passa per la marchiatura dei corpi, vendita o acquisto di individui, procedure di stupro collettivo per marcare la superiorità – compresa la superiorità razziale. Una menzione speciale va accordata ai paesini bielorussi – e dunque “addomesticati” – accusati di essere passati nuovamente dalla parte dei partigiani: negli immaginari europei, l’unico esempio importante di animali domestici che tornano allo stato selvatico è quello dei capi malati di rabbia (Tollwut) e Bertrand Hell ha ben mostrato che l’unico modo di sbarazzarsi dal contagio della rabbia, quando la chiave di sant’Uberto non funziona più, è darli alle fiamme50.

L’atroce destino dei 628 villaggi bielorussi che tra il giugno 1941 e il giugno 1944 hanno la stessa sorte di Oradour-sur-Glane51 può essere letto sulla base di questo simbolismo? Ne siamo convinti, perché le tecniche e le procedure messe a punto in Bielorussia per trucidare gli abitanti dei villaggi bruciandoli vivi non si spiegano né dal punto di vista funzionale – quelle truppe sapevano uccidere più rapidamente e più esaustivamente e potevano dunque operare altrimenti – né dal punto di vista retorico – la giustificazione attraverso il “contagio partigiano” sembra andare da sé. Insomma, gli strumenti dell’antropologia strutturale e della storia degli scontri religiosi moderni possono essere utilizzati per fondare un modello interpretativo che permetta di situare in un continuum di discorsi e giustificazioni delle pratiche di violenza, interpretando le gestualità sviluppate dagli attori come un insieme socialmente e culturalmente determinato. La combinazione tra il paradigma neopositivista ultracontestualizzante della storiografia internazionale del nazismo e questi strumenti mi sembra costituire una prospettiva particolarmente ricca, il cui potenziale non va trascurato nell’ottica di una storia della violenza europea nel XX secolo. Attraverso lo studio di ciò che degli esseri operano su altri esseri, di ciò che mozzano, lacerano, mutilano e prelevano nel corpo dell’altro, si arriva così ai sistemi di pensiero, agli immaginari e alle rappresentazioni dei violenti e della società da cui emanano. La violenza e la sua gestualità costituiscono così un punto singolare in cui si articolano la politica e le emozioni, le credenze e gli affetti degli attori che la elaborano e la producono. Infine, un ultimo oggetto sembra condensare e prolungare l’insieme di queste riflessioni. Un oggetto che, stavolta, è un luogo, uno spazio, e di cui vorrei descrivere dettagliatamente la storia. Si tratta di una terra di confine che, quando appare nella documentazione nel Cinquecento, si situa alla frontiera di tre mondi, quello delle foreste, quello dei campi coltivati e quello delle steppe. Nel 1573, l’atamano Jan Zamoyski fondò sulle sue terre la città di Zamość, alla quale concesse privilegi, e che nel giro di qualche decennio diventerà una cittadina modesta ma prospera. Appassionato di architettura, Jan Za-

50 Bertrand Hell, Le Sang noir, cit.

51 Le cifre in Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit., p. 870.

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moyski fa giungere costruttori veneziani che dotano la nuova cittadina di un centro barocco che stona totalmente col paesaggio della regione. La città e la sua regione, la Zamojszczyzna, saranno sotto il dominio austriaco e poi russo fino al 1918, allorquando saranno assorbiti dalla Repubblica polacca. La regione è stata sconvolta da una guerra mondiale, la prima, che non è affatto terminata nel 1918 ma ha avuto echi del sordo rumore delle campagne sovietiche, dei pogrom e della lotta accanita dei contadini ucraini delle province frontaliere contro, da una parte, la polacchizzazione sempre più affermata delle politiche condotte dalla giovane Repubblica e, dall’altra, i sovietici che operano campagne di collettivizzazione di inaudito radicalismo, che causeranno milioni di vittime da carestia. La Zamojszczyzna è un mosaico di lingue, nazioni, religioni ed etnie: due terzi di cattolici di lingua polacca convivono con un 10% di ebrei essenzialmente ashkenaziti parlanti yiddish che compongono la maggior parte della popolazione urbana della contea, e un 25% di persone di lingua ucraina, di confessione uniate o ortodossa. Le relazioni si sono polarizzate sotto i colpi della Grande Guerra, dei pogrom e della sempre più rigida politica d’integrazione polacca, ma si trattava comunque di un amalgama abbastanza stabile fin quando le autorità tedesche vi affondano gli stivali nell’ottobre del 1939. I nazisti ne faranno la terra di tutti i radicalismi, quella del tentativo di colonizzazione più riuscito; una terra di utopia e di fervore, quella di tutti i parossismi nazisti52. Il 1° dicembre 1939, a pochi giorni dall’inizio dell’occupazione, Himmler nomina Odilo Globočnik, ex Gauleiter di Vienna e membro importante del partito nazista clandestino austriaco caduto in disgrazia per malversazioni, suo rappresentante locale SSPF (SS- und Polizeiführer, capo della polizia e delle SS) per il distretto di Lublino, dove viene inviato per riabilitarsi. Agli occhi di tutti gli osservatori, 52 Su tutto questo e quel che segue, Czesław Madajczyk (a cura di), Zamojszczyzna-Sonderlaboratorium SS. Zbior dokumentow polskich i niemieckich z okresu okupacji hitlerowskiej, Ludowa Spółdzielnia Wydawnicza, 1979, 2 tomi; Cornelia Essner, Édouard Conte, La Quête de la race. Une anthropologie du Nazisme, Hachette, 1995; Édouard Conte, Terre et «pureté ethnique» aux confins polono-ukrainiens, in «Études rurales», vol. 138, n. 1, 1995, pp. 53‑85; Christian Ingrao, La Promesse de l’Est, cit., III parte.

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Globočnik è un militante nazista di una ferocia estrema. E, nonostante il territorio di Lublino e di Zamość, situato nel governo generale di Polonia, non sia destinato a essere incorporato nel Reich, Globočnik intraprende un programma di germanizzazione. In seguito alla scoperta negli archivi viennesi dell’immigrazione nel Settecento di circa settecento coloni tedeschi nel distretto, Globočnik lancia un’operazione denominata Fahndung nach deutschem Blut (Caccia al sangue tedesco), vera e propria operazione d’ingegneria razziale vampiresca, che consiste nel dare la caccia agli ultimi discendenti di quei coloni e germanizzarli culturalmente e razzialmente. Dopo essere state identificate, queste persone dovevano essere inquadrate nei loro paesi da militanti nazisti, giovani attivisti studenti o giovani donne della BDM (Bund Deutscher Mädel, Lega delle fanciulle tedesche), preposti a portare la buona parola e le buone pratiche germaniche. L’affare ottiene un notevole apprezzamento e, per sostenerlo, Globočnik crea due servizi, incaricati uno delle perizie e degli studi, l’altro di tutte le questioni costruttive. Vero e proprio centro di ricerche sulla germanizzazione, l’SS-Mannschaftshaus accoglie storici, geografi, un archivista, dei demografi, tutti militanti SS di una trentina d’anni che mettono a punto gli studi preparatori alla selezione della popolazione della contea di Zamość53. Parallelamente, si sviluppa un servizio di costruzioni che si occupa dell’insieme dei programmi previsti da Globočnik54. E dopo l’invasione dell’URSS, è poco dire che questi programmi conoscono un nuovo andamento. La prospettiva dell’invasione dell’URSS, che estende di più di cinquecento chilometri la frontiera delle terre germaniche a Est, fa di questo Far East che è la Zamojszczyzna un centro dell’impero millenario in divenire. A metà luglio del 1941, una visita di Himmler a Lublino e a Zamość conferma il movimento: Himmler approva le misure di germanizzazione per la città, prevede un campo di concentramento di 25.000 persone alla periferia di Lublino nella località di Majdanek e ordina la generalizzazione di Fahndung nach deutschem Blut. 53 Michael G. Esch, Das SS-Mannschaftshaus in Lublin und die Forschungsstelle für deutsche Osterkünfte, in Götz Aly (a cura di), Modelle für eine deutsche Europa. Ökonomie und Herrschaft in Großwirtschaftsraum, Rotbuch Verlag, 2002. 54 Jan Erik Schulte, Zwangsarbeit und Vernichtung. Das Wirtschaftsimperium der SS. Oswald Pohl und as SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt, Schöningh, 2001, pp. 265 sgg.

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L’ora di Globočnik è suonata, e anche quella di Zamość. Tra novembre e dicembre del 1941, una serie di decisioni segna la sorte degli ebrei, dapprima al livello del governo generale, poi di tutta l’Europa. Globočnik e il suo servizio di costruzione vengono incaricati della messa in opera di un programma di sterminio regionale destinato agli ebrei. La decisione non era sorprendente: Globočnik si era distinto per il suo estremismo e l’instaurazione di un programma di stabbiatura, marchiatura e sottomissione degli ebrei al lavoro forzato che faceva di lui un attore di punta di quelle pratiche simboliche di addomesticamento che abbiamo già descritto. I 125.000 ebrei presenti nella contea di Zamość (51.000 ebrei originari della contea e circa 75.000 ebrei deportati dai territori polacchi conquistati nel 1939 incorporati al Reich) erano concentrati nei ghetti delle città e in una serie di campi di lavoro destinati a lavori sulla rete viaria e al drenaggio di paludi, e stavano là a lavorare come bestie dal 194055. A partire dal novembre 1941 le squadre di costruzione di Globočnik stabilivano dunque i piani dei villaggi tedeschi del futuro nazista, mentre realizzavano gli studi di fattibilità dell’immenso campo di concentramento di Majdanek e i primi esperimenti di camere a gas negli impianti di Sobibór, Treblinka e Bełżec, quest’ultimo situato a meno di cinquanta chilometri a Sud di Zamość. È chiaro: sterminio e germanizzazione s’intrecciavano letteralmente nelle pratiche del SSPF Globočnik e nella storia di questa regione. Il genocidio degli ebrei nella regione si distinse per il carattere parossistico e la dimensione ostentativa. Gli ebrei della Zamojszczyzna furono imbarcati, a partire dal febbraio-marzo del 1942, su treni a destinazione Bełżec per essere immediatamente gasati, in un’orgia di violenza assolutamente inedita. Fu sotto gli occhi di tutti che gli ebrei furono perseguitati, fucilati, stritolati, annegati, buttati giù dall’alto degli edifici e gettati in quei treni che andavano alla morte; sotto gli occhi di tutti e innanzitutto di loro stessi: a sole tre settimane dall’entrata in servizio delle camere a gas di Bełżec, gli informatori del Judenrat (Consiglio giudaico) di Zamość segnalavano che non un solo 55 Su questo si veda Dieter Pohl, Von der «Judenpolitik» zum Judenmord. Der Distrikt Lublin des Generalgouvernement. 1939‑1944, Peter Lang, 1993; Bogdan Musial, Deutsche Zivilverwaltung und Judenverfolgung im Generalgouvernement: Eine Fallstudie zum Distrikt Lublin, Harassowitz, 2000.

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ebreo usciva vivo dal campo; che tutti i treni ritornavano vuoti56. Sotto gli occhi degli ebrei, ma anche sotto gli occhi dei polacchi, in una pratica di esibizione della violenza e del genocidio messa in atto allo scopo di far capire alla popolazione terrorizzata da una politica di occupazione di un’immensa brutalità che bisognava sottomettersi, altrimenti sarebbe toccato anche a loro salire sui treni della scomparsa. E la popolazione non ebrea del distretto interiorizzò perfettamente il messaggio, su questo i rapporti della resistenza coincidono con quelli degli occupanti: l’angoscia di una morte collettiva imminente divenne letteralmente ossessiva. Globočnik aveva infatti previsto di scatenare una grande operazione di germanizzazione immediatamente dopo aver terminato i preliminari, ossia lo sterminio degli ebrei. E aveva bisogno della sottomissione totale delle popolazioni. Il 27 novembre 1942, solo dieci giorni dopo la partenza dell’ultimo convoglio da Zamość verso Bełżec, i tedeschi fecero scattare le operazioni di espulsione dei contadini polacchi per dare inizio all’insediamento di Volksdeutsche giunti dalla Romania e dalla vicina Volinia. L’operazione era di un’ampiezza mai vista prima: 150 furono i villaggi evacuati, più di 120.000 persone dovevano essere espulse e raggiungere i campi di transito per essere poi esaminate e rialloggiate altrove nel governo generale. Ma i polacchi, spaventati all’idea di prendere i treni per Bełżec, tentarono di sottrarsi in massa alla grande retata SS. Solo 25.000 persone furono dunque catturate dalle squadre di espulsione. Gli altri si rifugiarono nelle foreste a sud del distretto, si armarono e decisero di resistere alle politiche dell’occupante. Il tornado di violenza che la realizzazione dell’utopia nazista rappresentava per le popolazioni locali aveva generato una reazione sociale. I nazisti decisero di tenerne conto a partire dalla primavera del 1943. Precedentemente avevano creduto che fosse arrivato il grande momento e la documentazione prodotta dai servizi di Globočnik lascia trasparire l’euforia di militanti SS che rifondano la germanicità in nuove comunità in cui tutto è nuovo, tutto fonda un nuovo mondo. Il 56 David Silberklang, «What did they know?». The Jews of the Lublin District and the deportations, in Roni Stauber, Aviva Halamish, Esther Webman (a cura di), Holocaust and Antisemitism: Research and Public Discourse. Essays Presented in Honor of Dina Porat, Tel Aviv University e Yad Vashem, 2015, pp. 25‑52. Ringrazio calorosamente David Silberklang per avermi fatto leggere il suo articolo.

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calendario deve cambiare, ne sono convinti; le cerimonie del rituale neopagano, unite alle nuove costruzioni, tracciano i contorni dell’impero millenario infine realizzato, della sua rivoluzione così profonda da sconvolgere il computo del tempo, la successione dei giorni, i riti del passaggio delle età della vita e dell’alleanza delle stirpi. Nella primavera del 1943, il fallimento è però palese: le foreste della contea brulicano di centinaia di migliaia di profughi, i movimenti di resistenza polacchi AK (Armia Krajowa, armata nazionale) e BCh (Bataliony Chłopskie, battaglioni contadini) hanno raggruppato truppe e ormai attaccano le comunità di Volksdeutsche e le stazioni di gendarmeria che dovrebbero proteggerli. Globočnik e la sua squadra di etnocrati cambiano allora strategia: continuano a espellere i polacchi, ma al posto dei coloni tedeschi reinseriscono degli ucraini. Alla base di questo cambiamento vi è un calcolo faustiano: si tratta di strumentalizzare le tensioni interetniche di popolazioni sfinite da quattro anni di occupazione per lanciarle le une contro le altre in una guerra etnica da cui usciranno esangui, lasciando il campo libero ai tedeschi. Questo calcolo, che mirava alla guerra di tutti contro tutti, funzionò ovviamente a meraviglia. In questo periodo emergono quindi nuove dinamiche, con l’innescarsi di uno stato di natura che può essere compreso alla luce dei lavori di Françoise Héritier e di Pierre Clastres. Queste guerre possono infatti chiamarsi guerre dell’entre-soi (‘tra di noi’), un concetto sviluppato da Héritier57 che a sua volta si può ricollegare all’analisi di Clastres, della guerra come strumento strutturale utilizzato dalle società primitive per lottare contro le forze centripete che, attraverso il gioco delle alleanze, costringono le società umane a adottare una forma statale. La guerra è lo strumento che limita la crescita delle collettività, che separa gli esseri, i gruppi e le stirpi con cui l’alleanza è possibile e con cui, come diceva in sostanza Claude Lévi-Strauss, ci si scambiano le donne, i beni, le informazioni58, da coloro contro i quali si conduce questo tipo di guerra e con i quali si instaurano relazioni 57 Françoise Héritier, Les matrices de la violence et de l’intolérance, in Ead. (a cura di), De la violence, vol. II, cit., pp. 321‑344. 58 Claude Lévi-Strauss, La notion de structure en ethnologie, in Id., Anthropologie structurale, Pocket, 1985, p. 353: dice «comunicare», non «cambiare»; trad. it. Antropologia strutturale, il Saggiatore, 2015.

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che sono dell’ordine della predazione e non dello scambio, il che impedisce l’alleanza59. Lo scambio di beni viene rimpiazzato dal furto e dalla razzia; lo scambio di informazioni, dalla tortura; il matrimonio dallo stupro. Si costruisce e si modella la forma dell’entre-soi delimitandone violentemente i contorni, tracciando con la gestualità omicida o mutilante il limite tra scambio e predazione. Ed è proprio quanto fanno i gruppi etnici compresenti, conducendo tra di loro una guerra ultraviolenta, moltiplicando l’aggressione contro le donne, cuore dello scambio, viatico del legame d’alleanza, e contro i bambini, prodotto dell’alleanza divenuto sangue, razziando, bruciando, cacciando e gettando sulle strade esseri a migliaia. Nell’estate del 1944, il domino etnico a cui le SS giocano dal 194160 provoca diverse guerre dell’entre-soi, condotte da tutti contro tutti: guerre di formazioni “borghesi” polacche dell’AK e dei BCh contro le formazioni nazionaliste ucraine; guerre tra le formazioni polacche di sinistra contro gli ucraini, l’AK e i BCh; guerra degli ucraini dell’UPA contro i polacchi, civili e resistenti e contro i partigiani sovietici; lotta di ognuno per imporre, mediante il sangue e la drammatica amputazione dei corpi e dei gruppi sociali ed etnici, la propria visione del futuro delle comunità che dovevano governare la Zamojszczyzna. Guerre di tutti contro tutti, queste guerre dell’entre-soi erano il prodotto parossistico e teratologico del progetto utopico nazista. Il determinismo razziale nazista aveva sognato una Zamojszczyzna nordica, agraria e coloniale. Al posto di questa, aveva scatenato focolai di odio che solo le «remues d’hommes»61, lo ‘scambio di popolazioni’, avrebbero stabilizzato tra il settembre del 1944, data in cui fu fissata la frontiera, e l’agosto del 1947, data di conclusione dell’operazione Vistola che mette un termine ai flussi di migrazioni coatte. Prolungamento del 59 Pierre Clastres, Archéologie de la violence. La guerre dans les sociétés primitives, Éditions de l’Aube, 2013; trad. it. Archeologia della violenza, Meltemi, 1998, che esprime un’opposizione frontale alla concezione della guerra in Lévi-Strauss. 60 La stratificazione delle guerre civili è stata messa in luce per la prima volta da Alfred J. Rieber, Civil Wars in the Soviet Union, in «Kritika: Explorations in Russian and Eurasian History», vol. 4, n. 1, 14 marzo 2003, pp. 129‑162. 61 Riprendiamo la felice espressione da Abel Poitrineau. Cfr. Jean-Pierre Poussou, Abel Poitrineau, Remues d’hommes: les migrations montagnardes en France, XVIIeXVIIIe siècles, in «Annales. Économies, sociétés, civilisations», anno 41, n. 5, 1986, pp. 1086‑1088.

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sogno nazista mediante il persistere dei metodi inaugurati dagli ufficiali SS dell’esercito dell’utopia, questo scambio di popolazioni – ma questa è già un’altra storia62… – costituì l’unica strategia prevista dal governo per stabilizzare una regione che l’orco Globočnik aveva gettato in un immenso incendio etnico. Sogno nazista, incubo dei confini. Conclusione Per concludere, torniamo sul caso di Hermann Behrends, evocato nell’introduzione. Il lettore lo ricorderà, spero, come intellettuale d’azione nazista, persecutore dei massoni ed esecutore del compimento della promessa millenarista e del rimpatrio dei Volksdeutsche. Ma c’è un episodio che fin qui abbiamo taciuto: a partire dal 1942 e fino all’estate del 1943, Behrends, in perfetta conformità con la sua formazione e la sua cultura, combatte come ufficiale, in qualità di comandante dell’artiglieria alpina della 13a divisione SS Handschar. Egli aveva sempre abbinato le sue molteplici funzioni a una solida formazione innanzitutto nell’artiglieria costiera, poi nei reparti delle Waffen-SS. Fu tuttavia nominato nella divisione SS Handschar, sia per via di questa formazione militare, sia perché aveva maturato un’esperienza incomparabile nell’attivismo volksdeutsche nei Balcani. Herman Behrends è infatti un esperto delle tensioni interetniche e la 13a divisione SS Handschar, composta da musulmani bosniaci, da Volksdeutsche di Serbia e di Croazia, e da cattolici croati, lascia una lunga traccia sanguinaria nei distretti di Tuzla, di Zvornik e di Brčko, immediatamente a nord di Srebrenica, sottoponendo i serbi locali a enormi massacri63. Avrà incrociato allora la strada della giovane Biljana Plavšić o della moglie di Slobodan Milošević, Mirjana Marković, rispettivamente una ragazzina e una bambina piccola, entrambe a lungo traumatizzate dal62 Un’altra storia ammirevolmente raccontata da Catherine Gousseff, Échanger les peuples. Le déplacement des minorités aux confins polono-soviétiques, Fayard, 2015, che si consulterà per i conseguenti scambi di popolazioni e in particolare per l’operazione Vistola sulla quale non ci soffermiamo. 63 Sulla Handschar, oltre a David Motadel, Les Musulmans et la Machine de guerre nazie, La Découverte, 2019, si può ormai consultare anche Xavier Bougarel, La Division Handschar: Waffen-SS de Bosnie. 1943‑1945, Humensis, 2020.

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la guerra di allora? Probabilmente lo storico non lo saprà mai, ma ce lo chiediamo per ritornare a un fatto fondamentale: tirare le fila della storia del nazismo equivale a scrivere la storia di un secolo, una storia della violenza e dell’emozione politica. Una storia dell’Europa. Alla fine di questa prima tappa della nostra odissea non bisogna tuttavia concludere che si tratti di una pratica “facile”, ovvia. Una delle sue difficoltà ricorrenti sta nell’impossibilità ormai constatata – ma non accettata – di articolare pienamente la storia dei percorsi militanti e quella delle circonlocuzioni ideologiche emananti non da autori identificati, che si sarebbero potuti includere in una storia sociale dei percorsi e delle carriere, bensì da istituzioni, statali o partigiane che siano. Ma allora non era possibile studiare nello stesso tempo, osservare con lo stesso sguardo, i percorsi – quelli degli esseri come quelli dei gruppi – e l’evoluzione delle rappresentazioni? Non si poteva accedere alla formulazione dogmatica e ai giochi del sociale nello stesso movimento? Ovvero studiare con uno stesso procedimento le politiche pubbliche di violenza parossistica e l’esperienza che ne fanno gli individui e i gruppi sociali? Da vent’anni a questa parte, tutta la pratica qui presentata affronta questo stato di fatto e ciò su almeno tre serie di oggetti ben distinti: il percorso di giovani intellettuali, le pratiche della violenza nella guerra partigiana, l’elaborazione delle politiche di occupazione e di germanizzazione. È affrontandola a lungo durante queste tre ricerche che mi sono progressivamente reso conto che dopo tutto la situazione – frustrante se non inquietante – che attraversavo non differiva affatto, su questo piano, da quella del fisico dell’universo quantico che non può misurare simultaneamente la posizione e l’impulso di una particella. Era forse una particolarità dello studio del nazismo o della violenza? È forse una specificità di questo campo di studio oppure un limite sistemico che avvicina le situazioni prasseologiche dello storico e del fisico delle particelle, facendo sbattere entrambi contro il principio d’indeterminazione? E se fosse questo il caso, non vi sarebbe qui una via un po’ inedita di pensare i contorni e le frontiere della pratica storica? Mi pare che qui vi sia un’inchiesta che si profila, che presenta la sua prima tappa. È questa a costituire la ragion d’essere di questo libro; è a questa che invitiamo ora il lettore.

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II. Fisica quantistica e pratica dello storico Un esperimento mentale nella storia contemporanea per André Roussarie (1946-2008)

Di primo acchito, fare un parallelismo tra due universi lontani tra loro come la fisica quantistica e la scrittura storica può apparire un’operazione rischiosa. E lo è ancor di più quando l’osservatore non può vantarsi di padroneggiare entrambi i campi. Se conosce un po’ la storia delle culture o delle società umane e delle loro produzioni, nel campo della fisica quantistica è invece un novellino, e per tentare questo parallelismo non dispone che di qualche lettura che molto probabilmente lo porterà a scandalose semplificazioni. Ma lo farà con la preoccupazione fissa di non tradire né fuorviare. L’ipotesi alla base di questo esperimento è questa: che un tentativo di esplorazione di una correlazione tra la pratica storica e la fisica quantistica potrebbe permettere di formalizzare in modo meno effimero alcuni orizzonti di possibilità della storia sociale e culturale, intesa nel senso di storia delle pratiche sociali e delle rappresentazioni ancorate nel sociale, generate da ed emananti da individui e da entità collettive più o meno formalizzate. Una serie di analogie intuitive mi ha portato, a partire, come abbiamo visto, da lavori precedenti, a cimentarmi in questo parallelismo. Le analogie di situazioni, sfortunatamente assai eterogenee, che riprenderò nel corso dell’indagine, erano tuttavia abbastanza ricorrenti perché tentassi di mettervi ordine e di esporle introducendovi il massimo rigore analitico possibile. Non si tratta di un lavoro di filosofia delle scienze: l’obiettivo non è creare un sistema d’interpretazione completo, coerente o nomotetico, che ambisca a produrre, in ambito storico, una teoria simile a quello che potrei identificare con un modello standard, considerato

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come la teoria dei quanti; si tratta piuttosto di tentare, approfondendo certi punti, di importare nello sguardo e nell’inchiesta storica un certo numero di decentramenti indotti dalla mutazione della meccanica newtoniana sotto l’influsso dei lavori di Planck, Einstein, Heisenberg, Dirac o Neumann, per osservare, grazie a questo spostamento, eventuali effetti di trasformazione dei nostri oggetti di studio o delle nostre pratiche d’indagine. Il movimento consisterà, lungo tutto il processo, nel “partire” dai sistemi della fisica classica e della sua evoluzione per trasporli sui diversi problemi posti dall’operazione euristica storica. Per tentare l’avventura conviene in primo luogo cercare di capire da cosa è nata la fisica quantistica, questa fisica controintuitiva, tra gli inizi del Novecento e gli anni Trenta. Ouverture. La meccanica alla prova della radiazione dei corpi neri Nata nel XVII secolo, la meccanica ormai detta classica, formalizzata a partire da esperimenti e osservazioni macroscopiche, originata in particolare dai lavori di Newton, aveva al tempo provocato un’immensa rivoluzione nelle coscienze scientifiche1, e si era nutrita della matematica durante tutto il XVIII e XIX secolo. Questa fisica postula che è lo stato di un sistema a determinare i risultati di misura delle grandezze fisiche. Ogni misura di questo stato dà un insieme di grandezze fisiche osservabili, espresse da valori vettoriali formalizzabili e prevedibili sotto forma di equazioni differenziali. Questa fisica rende conto tanto dei sistemi statici quanto di quelli cinematici e dinamici, di quelli liquidi quanto di quelli solidi o gassosi, e tutto questo su diverse scale, dall’osservazione stellare allo studio molecolare. Le ricerche di Gustav Kirchhoff nell’ambito delle radiazioni (quelle che qualsiasi oggetto emette a causa della temperatura, dal tostapane fino all’acciaio in fusione o ai corpi stellari) diedero vita tuttavia a una serie di lavori, sia sperimentali che teorici, che portarono i fisici a 1 Su questa rivoluzione, si leggano Pierre Chaunu, Église, culture et société. Essais sur Réforme et Contre-réforme, 1517‑1620, SEDES, 1981, e Alexandre Koyré, Du monde clos à l’univers infini, Gallimard, 1973; trad. it. Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, 1961.

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pensare di rimettere in questione alcuni fondamenti della loro disciplina. Volendo studiare sul piano teorico la radiazione, ossia l’emissione e la trasmissione dell’energia che implica la sua circolazione sotto forma di onde, Kirchhoff ebbe l’idea – bell’esempio di esperimento mentale! – di creare un oggetto teorico, il corpo nero, che, posto in un forno anch’esso teorico, assorbirebbe tutta l’energia elettromagnetica (la radiazione emessa dal forno) senza rifletterla né trasmetterla. La temperatura del corpo nero è dunque l’unica variabile che influisce sulla propria radiazione. Ma le misure prese dai fisici non permisero di elaborare un modello sotto forma di equazioni differenziali unificate in grado di rendere conto della totalità dello spettro emesso dal corpo nero, come osservabile nello schema qui sotto:

Una curva (ossia un’equazione)2, quella di Rayleigh-Jeans (puntinata) è valida per le alte frequenze spettrali, le lunghezze d’onda cortissime, e dunque per le radiazioni x e y, ma presuppone in maniera palesemente sbagliata l’emissione di una quantità infinita di energia e di luminanza alle basse frequenze e alle lunghezze d’onda tendenti all’infinito; una seconda curva, quella di Wien (tratteggiata), fondata 2 Da non confondere con uno spettrografo, il quale dà una rappresentazione grafica al profilo radicalmente diverso della comparazione delle tre equazioni.

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su misure prese in un forno reale, funziona soltanto sulle basse frequenze, fino alla radiazione radioelettrica (le onde che utilizziamo per ascoltare Radio France Culture, per esempio), passando per lo spettro visibile e quello infrarosso3. Ma Planck propose allora di “rettificare” empiricamente le equazioni, introducendo una costante, h, che avrebbe permesso di riunificare le osservazioni fatte da Rayleigh-Jeans e Wien (curva piena). Fu allora necessario dare un fondamento teorico a questa costante: per farlo, Planck partì da un’ipotesi nuova e radicale, che rompeva con l’idea di un’energia radiante in maniera continuativa, e la definiva ormai piuttosto come prodotta ed emessa in piccolissime quantità, ognuna delle quali osservabile a una frequenza di oscillazione che si distribuisce sotto forma di un prodotto della costante di Planck e di un numero reale intero, la più piccola delle quali venne battezzata quantum di energia. Fu Einstein ad applicare questa rivoluzione a una teoria della luce, introducendo la legge di conservazione dell’energia e deducendone che anche la luce era emessa in piccolissimi pacchetti o quanti, la cui energia equivaleva al prodotto della costante di Planck per la frequenza di oscillazione (E = h·v)4. Il corollario della dimostrazione di Einstein era che anche la luce sembrava radiare sotto forma di pacchetti di particelle, ormai chiamati fotoni. Dall’ipotesi di Planck sul corpo nero e dalla sua adozione da parte di Einstein nello studio della radiazione luminosa nacque una nuova fisica, le cui premesse erano profondamente diverse da quella newtoniana, le cui osservazioni restavano sempre valide nelle condizioni dette “classiche” (velocità ridotte, lunghezza d’onda e/o energie “medie”), e che diventava una versione locale – per quanto problematica, come vedremo più in là – della nuova teoria generale che si profilava. Questa nuova fisica provocava un certo numero di sconvolgimenti, tra cui immergere i fisici, come dei profani, in un mondo totalmente controintuitivo. In questa nuova fisica, ogni corpo ha una lunghezza 3 La descrizione qui fatta non ha proprio nulla d’originale, e deve tutto a un certo numero di opere divulgative che mettono gli eventi e i ragionamenti alla portata di profani come l’autore di queste righe. La più preziosa è Douglas C. Giancoli, Physique générale. Ondes, optique et physique moderne, De Boeck Supérieur, 1993, cap. 9, qui p. 225. 4 Ivi, pp. 227-230.

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d’onda, la luce è particella, la presenza è discreta; il continuo non esiste: esso è distribuito in modo frequenziale5. A questo punto dobbiamo realizzare la dimensione di questo sconvolgimento per tentare di vedere come il considerare gli oggetti studiati dello storico come oggetti quantici potrebbe condurci a modificare il nostro sguardo. Gli oggetti di studio che si dà la storia sfuggono spesso a una definizione chiara, rigorosa o quantificabile. La stessa densità dei dibattiti intorno ai concetti di cultura, mentalità, rappresentazioni, storia culturale o sociale, dà un’idea di questo stato di fatto. Ancor prima di operare o di apprestarsi a farlo, gli specialisti hanno avuto lunghe controversie sulla mera definizione o delimitazione di ciò che volevano rilevare6. Dal canto loro, i sistemi studiati dalla fisica quantistica, per quanto semplici in teoria, non si possono comprendere in quanto tali, per ciò che sono, ma lo sono unicamente in certi stati, caratterizzati e misurati da osservabili. E se ciò valesse anche per le società, le culture, le mentalità, le rappresentazioni, le pratiche, per non citare di nuovo altro che queste categorie di “oggetti”, per riprendere la terminologia delle scienze sociali: se si tentasse di comprendere gli oggetti studiati dalla storia “come” sistemi quantici? Bisogna innanzitutto tentare di chiarire un poco la questione dello status dell’accostamento tra le due discipline: lungi da noi l’idea di applicare alla storia sociale e culturale i livelli di formalizzazione 5 Una parte di queste conseguenze è elegantemente esposta da Paul Dirac, The Principles of Quantum Mechanics, Oxford University Press, 1981 (trad. it. I principî della meccanica quantistica, Boringhieri, 1976 [1959]), che ricorre il meno possibile al linguaggio matematico. 6 Senza pretendere in alcun modo di riassumere questi dibattiti né di precisarne i contorni, ci limitiamo per ora a rinviare, per quanto concerne la storia sociale della Francia contemporanea, a François Jarrige, Discontinue et fragmentée? Un état des lieux de l’histoire sociale de la France contemporaine, in «Histoire, économie & société», vol. XXXI, n. 2, 2012, pp. 45‑59, e, per quanto concerne la sfera culturale, da una parte Clifford Geertz, La description dense. Vers une théorie interprétative de la culture, 1, in «Enquête», n. 6, 1998, https://bit.ly/3pFF4V4, che in realtà è un estratto di Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, 1973, primo capitolo (trad. it. Interpretazioni di culture, il Mulino, 1987), e dà uno scorcio interessante della complessità del dibattito sul concetto di cultura, e, dall’altra, il giro d’orizzonte che ne ha tracciato Dominique Kalifa, Lendemains de bataille. L’historiographie française du culturel aujourd’hui, in «Histoire, économie & société», vol. 31, n. 2, 2012, pp. 61‑70.

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matematica raggiunti dai fisici. Lo scientismo che comporterebbe una tale aspirazione ci è estraneo. Si tratterebbe piuttosto di paragonare le situazioni euristiche di due categorie di ricercatori per guardare in altro modo gli oggetti di studio che sono i nostri. In fondo, si tratterebbe di fare di questa pratica l’equivalente storico di un esperimento mentale, operazione che è più familiare ai fisici che agli specialisti di scienze umane o sociali7. Di fatto non si tratterebbe tanto di attribuire a questa operazione una vocazione di verità o di oggettività, quanto di trasporre, grazie a essa, le possibili modalità di costruzione degli oggetti, delle procedure e degli sguardi della fisica quantistica verso la storia. È stato Ernst Mach – l’uomo della velocità del suono – a enunciare per primo con precisione lo statuto degli esperimenti mentali: i Gedankenexperimenten (‘esperimenti mentali’), costruzioni immaginate senza intervenire sul reale, sono concepiti a cavallo tra l’esperienza (Erfahrung), insieme delle conoscenze passate messe insieme e utilizzate per costruire l’esperimento mentale, e l’esperimento (Experiment) fisico8. Gli esperimenti mentali sono operazioni cui ricorrono i fisici teorici, da una parte, e, dall’altra, l’insieme dei ricercatori quando constatano che le operazioni sperimentali concrete falliscono per ragioni di impossibilità e di precisione. Tali esperimenti sono destinati a essere formalizzati, costituiscono una tappa nella costruzione e formalizzazione di modelli teorici e prima o poi devono essere messi a confronto con l’osservazione e l’ambito sperimentale. Il nostro esperimento mentale consiste nel tentare di riflettere sulle conseguenze di una comprensione quantica degli oggetti di studio dello storico. Se tentiamo di fare dei nostri oggetti dei sistemi “metaquantici”, allora dobbiamo trasporre anche ciò che, in storia, 7 Questa affermazione è assolutamente discutibile, in quanto l’esperimento mentale può anche intervenire in quelle operazioni spesso implicite e talvolta anche inconsapevoli che mettono in gioco l’empatia o l’immaginazione dello storico, preliminarmente alla formulazione di queste ipotesi. Ma non è questa la sede per entrare in tali considerazioni, seppure avessimo –  e non l’abbiamo  – l’ardire di pensare di avere qualcosa da dire su questa misteriosa questione. 8 Ernst Mach, La Connaissance et l’Erreur, Flammarion, 1908; trad. it. Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, Mimesis, 2017. Questo passaggio deve tutto al bell’articolo di François-Xavier Demoures, Éric Monnet, Le monde à l’épreuve de l’imagination. Sur «l’expérimentation mentale», in «Tracés. Revue de Sciences humaines», n. 9, 2005, pp. 37‑51.

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sarebbe dell’ordine dello stato quantico, ciò che sarebbe analogo a degli osservabili, a una misura, e così via… Affinché tale analogia possa funzionare, bisogna attuare una trasposizione più fedele possibile. Propongo dunque di assimilare a stati quantici di un oggetto/sistema l’insieme delle componenti, strutture e fasi evolutive che lo caratterizzano agli occhi dello storico, e a misure i diversi oggetti documentali/ tracce ai quali e alle quali quest’ultimo ricorre per ricostituirli, e di assimilare a osservabili i fondamenti fattuali e/o quantificati che egli ricava dall’analisi di tali documenti. Tale è la soluzione meno rischiosa, mi pare. Resta tuttavia da cercare di capire le conseguenze che tale assimilazione può avere sui nostri oggetti di studio, i nostri concetti, le nostre pratiche. Farò ciò in tre tempi: dapprima considererò le conseguenze della teoria dei quanti sui sistemi e gli stati, trasponendoli così su alcuni oggetti di studio e problematizzazioni degli storici; in seguito, tenterò di capire, studiando le caratteristiche delle misure e delle osservabili, che statuto possano assumere le tracce, i fatti e i dati, in questa lettura un tantino eterodossa della pratica storica; infine, mi interesserò più specificamente a tre delle conseguenze chiave del quantico: l’indeterminazione, l’entanglement e la decoerenza. Lo storico alle prese con un sistema e i suoi stati Riprendiamo la pratica di Planck e di Einstein da dove l’abbiamo lasciata. Di fronte a una grave discordanza tra i risultati degli esperimenti di studio della radiazione del corpo nero o della luce e la teoria allora disponibile, i due scienziati avevano introdotto una nuova costante e una nuova teoria della distribuzione dell’energia che, da un lato, faceva della radiazione un fenomeno discreto e non continuo e che, dall’altro, sconvolgeva la natura ondulatoria della radiazione, riconferendole una natura corpuscolare. Mentre nella fisica classica la natura ondulatoria e quella corpuscolare si escludevano, ogni sistema, secondo i due scienziati – anche se Planck esitò a lungo a trarre questa conseguenza dalla propria scoperta –, comprendeva sia l’una che l’altra. È quanto i due fisici chiamarono la dualità onda/corpuscolo. Per darne un’illustrazione che aiuti il lettore a chiarirsi le idee, facciamo prima a formulare un esempio molto semplice.

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Nello schema qui presentato,

il cilindro può rappresentare il sistema di cui si possono studiare gli stati mediante le sue proiezioni sui piani (pareti) di una camera buia. Se si proietta, come illustrato sullo schema, una luce blu secondo un asse perpendicolare a quello del cilindro, la proiezione –  misura di uno stato del sistema – ottenuta sarà un quadrilatero rettangolo, mentre se si procede a una proiezione di luce gialla nell’asse del cilindro, si otterrà un disco. Gli stati del cilindro sono dunque effettivamente di natura sia rettangolare che circolare. Per lo storico che come me studia le politiche naziste di lotta contro i partigiani, la presente illustrazione ha costituito il primo esempio probante del carattere diciamo metaquantico dell’oggetto/sistema che studiavo. Fino ad allora mi ero arenato in una lancinante difficoltà nell’afferrare l’oggetto nel prisma della documentazione (delle misure) che avevo accumulato. Nell’Europa occupata degli anni 1941-1944, le gerarchie naziste, centrali e locali, si trovarono di fronte a movimenti armati di partigiani e condussero ovunque politiche di occupazione, uno dei cui fattori era la presenza di questi movimenti. L’osservatore si ritrovava a studiare politiche pubbliche di cui Christian Gerlach aveva ben mostrato il carattere sequenziale nel caso della Bielorussia. Quattro sequenze si

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distribuivano così su un periodo di quattro anni, una fatta di controllo delle strade e degli assi di comunicazione, senza mirare alla presenza nelle campagne; la seconda, concepita dopo la comparsa di movimenti partigiani, consisteva in grandi operazioni di rastrellamento e in politiche di rappresaglia a seguito delle loro attività appena agli inizi; la terza conservava gli stessi caratteri della precedente, con l’aggiunta di una fondamentale razionalità economica predatrice; la quarta consisteva, per farla breve, nel tentare di occupare le campagne controllando spazi e popolazioni, grazie a spostamenti forzati e insediamenti di popolazioni favorevoli9. Questo modello sequenziale, sviluppato appoggiandosi su fonti statali tedesche, locali e centrali, mi sembra passibile di essere applicato alla maggior parte dell’Europa sotto il dominio nazista10, ma costituisce/iva una sola dimensione dell’oggetto/ sistema Partisanenbekämpfung: un immenso continente di documenti, formato essenzialmente di testimonianze di ex soldati e vittime, rivelava una tutt’altra immagine di quel processo, di quella politica. Queste testimonianze rivelavano un’enorme caccia all’uomo, nauseabonda e sanguinaria, fatta di urla e massacri, corpi dilaniati e insondabile violenza, stupri, roghi di viventi, greggi, raccolti e costruzioni, di commercio di donne e di alcolici, suppliche ignorate, bambini dai crani fracassati. Questa realtà non poteva essere colta con gli strumenti di studio delle politiche pubbliche cari alla generazione di storici tedeschi di cui fa parte Christian Gerlach11. Per studiare questa dimensione, mi parvero indispensabili gli strumenti dell’antropologia strutturale della violenza, che erano invece praticamente inutili per cogliere i meandri logici delle gerarchie naziste12. L’antropologia della caccia, dell’allevamento, dell’addomesticamento, quella, infine, della crudeltà come progetto politico davano conto di ciò che veniva alla luce nei duri interrogatori degli uccisori, dei sopravvissuti e dei testimoni, lontanissimi dalla documentazione istituzionale nazista. 9 A tal proposito, si veda Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit., pp. 870‑1050. 10 L’ho formulato in poche pagine nel volumetto scritto assieme a Johann Chapoutot, Hitler, PUF, 2018; trad. it. Hitler, Laterza, 2021. 11 Per uno scorcio su questa ondata di studi, mi permetto di rinviare a Christian Ingrao, Conquérir, aménager, exterminer, cit., pp. 417‑438. 12 Ne ho dato un primo scorcio in Christian Ingrao, Les Chasseurs noirs, cit.

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Politica pubblica razionale di uso delle risorse belliche e predazione di esseri e di beni; sfrenata caccia all’uomo e spietata macellazione di popolazioni: l’una, in fondo, sarebbe l’equivalente storico dell’ondulatoria e l’altra del corpuscolare, aut vice versa. E la trasposizione dell’universo quantico sulla storia fattuale-culturale delle politiche naziste di lotta contro i partigiani rendeva bene conto contemporaneamente di ciò che era dato a vedere, dell’irrimediabile scarto che struttura questo campo, e, dunque, delle difficoltà nell’afferrarlo. Tuttavia, lo schema qui presentato, per quanto illustrativo, tende a semplificare fino all’errore le grandi caratteristiche della meccanica quantistica. Sarebbe stato più corretto se una sola e unica proiezione (misura) avesse dato tutti e due i “risultati”. Infatti, una delle caratteristiche della meccanica quantistica è ciò che si chiama la sovrapposizione di stati. Rimettiamoci all’elegante lavoro di Paul Dirac per trovarne una definizione. Rimane infine un’ultima critica da fare all’intero schema, e cioè che, abbandonando il determinismo della teoria classica, s’introduce una notevole complicazione nella descrizione della natura, caratteristica questa assai poco desiderabile. Tale complicazione è innegabile, ma è attenuata dalla notevole semplificazione fornita dal principio generale di sovrapposizione degli stati che ora considereremo13. Il principio generale di sovrapposizione della meccanica quantistica […] consiste nell’ipotesi che fra questi stati esistano relazioni caratteristiche tali che, ogniqualvolta detto sistema si trovi in uno stato definito, esso possa venire considerato come facente parte contemporaneamente di due o più altri. Lo stato iniziale deve essere considerato come risultante da una specie di sovrapposizione di due o più altri nuovi stati, che avviene in maniera inconcepibile dal punto di vista delle idee classiche. Un qualunque stato può così essere considerato come la sovrapposizione di due o più altri in un numero infinito di modi. Viceversa, due o più stati possono venir sovrapposti per formarne uno nuovo14. 13 Paul Dirac dà qui una definizione di stato del sistema in meccanica quantistica (Paul Dirac, I principî della meccanica quantistica, cit., p. 15). 14 Ivi, p. 16.

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Per quanto esatta ed elegante, questa formulazione resta tuttavia alquanto oscura perché controintuitiva. Qui Dirac dice che la sovrapposizione di stati fa sì che un sistema può trovarsi simultaneamente in due stati differenti, che uno stato è la risultante di più stati sovrapposti e che uno stato evolve in più stati sovrapposti. È quanto il suo co-vincitore del premio Nobel per la Fisica nel 1933, Erwin Schrödinger, ha formulato nel celebre esperimento mentale del gatto15. Supponiamo che vi sia un gatto rinchiuso in una scatola con un atomo radioattivo, e un contatore Geiger che aziona un martello, il quale rompe una fiala di cianuro non appena registra le radiazioni prodotte dal decadimento dell’atomo. La meccanica quantistica afferma che finché non viene registrata la misura, l’atomo può essere nei due stati intatto/disintegrato, il che implica che il gatto possa essere nei due stati vivo/morto. Tale è l’illustrazione macroscopica ad absurdum della sovrapposizione degli stati nell’esperimento di Schrödinger. In cosa questo esperimento può essere utilmente trasposto sugli oggetti di studio che sono i nostri? L’operazione è delicata: le grandi controversie che hanno agitato la storiografia del nazismo avrebbero potuto essere oggetto di questo saggio, in particolare quella che fece furore negli anni 1980-1990 sulla questione della dimensione modernizzatrice o arcaica del nazismo16. Ma così questo lavoro risulterebbe deludente: si tratterebbe in questo caso di concludere che i due stati “arcaico/moderno” sono sovrapposti, che ognuna delle “misure” contraddittorie è giusta, relegando così l’apporto della meccanica quantistica a un consenso debole e truistico. Se dovessimo basarci solo su questo esempio, dovremmo constatare il fallimento del tentativo: lo sforzo di trasposizione sarebbe sproporzionato rispetto ai risultati ottenuti. Tuttavia, possiamo chiederci se proprio l’interrogazione binaria “arcaismo/modernità” non sia essa stessa responsabile della propria infruttuosità. La problematica un po’ sommaria, l’evanescen15 Erwin Schrödinger, Die gegenwärtige Situation in der Quantenmechanik. § 5. Sind die Variablen wirklich verwaschen?, in «Naturwissenschaften», vol. 23, nn. 48-49-50, novembre 1935, ripubblicato in Kurt Baumann, Die Deutungen der Quantentheorie, Springer, 2013, pp. 107‑108 per il paradosso del gatto. 16 Una sintesi di questa lunga diatriba è data in Riccardo Bavaj, Die Ambivalenz der Moderne im Nationalsozialismus: eine Bilanz der Forschung, Oldenbourg, 2003, pp. 13‑82.

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za delle due categorie sembrano indurre risposte semplicistiche e non prive di giudizio di valore17. Allora, forse, più che la trasposizione, a porre problemi sarebbe il dibattito scientifico interno alla storiografia del nazismo. Insomma, la trasposizione sarebbe fruttuosa solo quando il problema di partenza venga posto in termini elaborati. Cerchiamo dunque un altro sistema; altri stati… Tentiamo con un oggetto più complesso, sul quale gli storici hanno lavorato a lungo e in maniera controversa negli ultimi venti anni: le rappresentazioni della Grande Guerra. È davvero difficile rendere conto di ciò che non fu un vero e proprio dibattito, ma una serie di pubblicazioni polemiche di cui non stiamo qui a fare la storia18. Il problema di questo oggetto è la sua complessità e dunque la difficoltà di enunciarlo: come rendere conto del modo in cui i contemporanei, civili e soldati, uomini e donne, adulti e bambini, operai e borghesi o contadini, tedeschi, francesi, britannici, nativi degli imperi coloniali o dei Paesi dell’Europa centrale, hanno potuto raffigurarsi l’immensa conflagrazione che fu la Grande Guerra19? Immenso oggetto/sistema – se si tenta di fare un parallelismo con la meccanica quantistica –, ma oggetto di cui diventa interessante misurare gli stati. Ogni documento che ci dà indizi o scorci di queste rappresentazioni è dunque una misura, visto che l’oggetto prende corpo in seno a ogni rappresentazione individuale, collettiva, sociale o statale, e che ognuna di queste e tutte quante combinate insieme diventano stati dell’oggetto stesso. E si può così sostenere che l’oggetto “rappresentazioni della Grande Guerra” ammette miliardi di stati possibili in ognuno dei milioni di mentalità o di enunciati dei protagonisti individuali e delle entità collettive interessate. 17 Il che non toglie che certi apporti individuali a questo dibattito siano opere di valore, come attesta in particolare il libro di Zygmunt Bauman, Modernité et holocauste, La Fabrique, 2002; trad. it. Modernità e Olocausto, il Mulino, 1992. 18 Per farsi un’idea sullo stato della questione, si consultino François Buton, André Loez, Nicolas Mariot, Philippe Olivera, 1914‑1918: retrouver la controverse, in «La Vie des idées», 10 dicembre 2008: https://bit.ly/46SvAX2, e Stéphane Audoin-Rouzeau, Controverse ou polémique?, in «La Vie des idées», 5 febbraio 2009, https://bit. ly/3XX2Ubp. 19 Per una prospettiva globale della storiografia che porta avanti questa sfida, rinviamo a Jay Winter (a cura di), Cambridge History of the First World War, Cambridge University Press, 3 voll. 2014: t. 1 Global War; t. 2: Civil Society; t. 3: The State.

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Può infine essere utile riprendere a questo proposito le parole di Dirac. Egli ci dice: [Tra gli stati di un sistema esistono] caratteristiche tali che, ogniqualvolta detto sistema si trovi in uno stato definito, esso possa venire considerato come facente parte contemporaneamente di due o più altri. Lo stato iniziale deve essere considerato come risultante da una specie di sovrapposizione di due o più altri nuovi stati, che avviene in maniera inconcepibile dal punto di vista delle idee classiche. Un qualunque stato può così essere considerato come la sovrapposizione di due o più altri in un numero infinito di modi20.

Per lo storico in cerca di rappresentazioni della guerra, ciò significa che ogni stato misurato –  ogni rappresentazione della guerra giunta sino a noi grazie a una traccia, un documento, di qualsiasi tipo – può enunciare una cosa e il suo contrario, che le rappresentazioni possono essere articolate l’una all’altra se non addirittura enunciate nello stesso movimento. Come nel caso dell’esperimento di Schrödinger, prima della misura esiste così la sovrapposizione di stati delle rappresentazioni della Grande Guerra immaginate come oggetto quantico, e si può persino assimilare – ci torneremo nell’ultimissima parte di questa indagine – la messa in prospettiva degli storici con la loro documentazione a ciò che i fisici chiamano la riduzione dei pacchetti d’onda mediante la misura. Questo fenomeno, in fisica, permette di rendere conto del fatto che degli stati sovrapposti diventano uno al momento della misura. In altri termini, che il gatto di Schrödinger è vivo o morto quando si apre la scatola. È qui il caso di porre ancora mano al dossier relativo alla cultura (o alle culture) della guerra? Certo che no, visto quanto è corposo; ma mi sembra che passare per la meccanica quantistica ci permetta di osservare i termini di questo dibattito da un’altra angolazione. Le prese di posizione sociologiche e accademiche hanno certo contribuito ampiamente a radicalizzarne i termini. Il ricorso al quantico mi pare condurre a negarne il carattere durevolmente probante, a rinunciare a trovare una via di uscita decisiva fondando teoricamente 20 Paul Dirac, I principî della meccanica quantistica, cit., p. 16.

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la complessità di un oggetto che sfida la definitività. Per cogliere completamente l’oggetto sul piano sperimentale, bisognerebbe infatti misurarne l’interezza degli stati. Ora, la meccanica quantistica ci mostra il carattere illusorio di questa necessità, «qualunque stato [potendo] essere considerato come la sovrapposizione di due o più altri in un numero infinito di modi»21: ciò che possiamo identificare come un «rifiuto della guerra» può dunque essere la risultante di un’infinità di atti che denotano un consenso a essa, e viceversa. È quanto sottolinea Nicolas Beaupré con l’esempio di Rudolf Leonhard, scrittore spartachista pacifista arruolato volontario e autore di poesie patriottiche all’inizio della guerra, o quello di Henri Barbusse22. La sovrapposizione di stati quantici ci permette così di capire come la misura di uno stato possa rifrangere la sovrapposizione di un’infinità di altri stati e ciò simultaneamente – in Barbusse il socialismo pacifista e l’antimilitarismo (che appartengono all’ordine del rifiuto) si sovrappongono all’arruolamento volontario (atto di consenso per eccellenza) – e dunque come, nella fattispecie, la questione della tensione tra rifiuto della guerra e consenso alla stessa sia semplicemente non pertinente: del tutto insufficiente a dare una risposta, foss’anche provvisoria, a tale problematica, in ogni caso se posta in questi termini. Qui va detta qualche parola sulla matematica che sta alla base di questa rivoluzione concettuale controintuitiva costituita, nell’ambito della meccanica quantistica, dal principio di sovrapposizione. Paul Dirac, nella sua definizione dello stato quantico, insiste sul fatto che si debba cambiare teoria matematica per rendere conto del principio di sovrapposizione23. Spiega infatti che il carattere intermedio di uno stato formato per sovrapposizione non è dato dal fatto che è esso stesso intermedio tra i risultati corrispondenti agli stati originali, ma dalla probabilità di un risultato particolare, essa stessa intermedia tra le probabilità corrispondenti agli stati originali. La prima conseguenza di questo stato di fatto, per Dirac, è che si deve riconoscere il potenziale di disturbo, di modifica (disturbance) che comporta sullo stato di un sistema l’osservazione/misura e l’indeterminazione inerente al 21 Ibidem. 22 Nicolas Beaupré, Écrire en guerre, écrire la guerre. France, Allemagne 1914‑1920, CNRS Éditions, 2006, qui pp. 33‑35. 23 Paul Dirac, I principî della meccanica quantistica, cit., p. 17.

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risultato di questa osservazione/misura. Peraltro Dirac ci dice che se si procede a una data misura di un dato sistema, non ne sarà determinato lo stato, e che se l’esperimento viene ripetuto un certo numero di volte, in condizioni identiche, possono essere ottenuti risultati diversi. Ma se si ripete l’esperimento un enorme numero di volte, ogni risultato particolare sarà una proporzione definita del numero di volte in cui si è fatto l’esperimento. E dunque vi è una probabilità definita che lo si ottenga24. E conclude che la sovrapposizione che interviene in meccanica quantistica è di una natura che differisce essenzialmente da tutto ciò che interviene nella teoria classica, in cui le stesse condizioni riproducevano gli stessi risultati. Donde la necessità di rinunciare alle equazioni differenziali vettoriali in spazi a dimensioni finite che costituivano il linguaggio della fisica newtoniana classica per ricorrere a una matematica vettoriale probabilistica in spazi a dimensioni infinite25. Scommetto che la lettura delle righe che precedono ha comportato per il lettore la stessa difficoltà provata dallo storico per scriverle… Cionondimeno tento di coglierne le conseguenze per la nostra impresa. Il cambiamento di linguaggio matematico intervenuto suggerisce che nell’operazione storica lo statuto equivalente degli stati quantici è anch’esso suscettibile di poter essere reinterrogato. Ricordiamoci che abbiamo fatto la scelta di assimilare agli stati di un sistema l’insieme delle componenti, strutture o fasi evolutive che caratterizzano un oggetto agli occhi dello storico. Il salto osservato tra la fisica classica e quella quantistica non sorprenderà quindi gli storici, attenti come sono da tempo, soprattutto alcuni, al carattere contingente delle situazioni che osservano, ai loro possibili alternativi non avvenuti, alle ucronie, alle distopie, alla considerazione delle divergenze che le situazioni o scelte operate potevano occultare26. 24 Ibidem. 25 Ciò viene descritto con un’altra formulazione matematica più formale in Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Mécanique quantique, Éditions de l’École polytechnique, 2002, p. 35. 26 Si veda il bel giro d’orizzonte in Quentin Deluermoz, Pierre Singaravélou, Explorer le champ des possibles. Approches contrefactuelles et futurs non advenus en histoire, in «RHMC», vol. 59, n. 3, 2012, pp. 70‑95, e Quentin Deluermoz, Pierre Singaravélou, Pour une histoire des possibles, Seuil, 2016.

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Vi è tuttavia un punto in cui probabilmente l’esercizio richiederà da parte loro un decentramento dello sguardo: il linguaggio matematico utilizzato dai fisici dell’universo quantico consiste nello stabilire equazioni che reggono, in spazi di dimensioni infinite, condizioni di probabilità aleatorie ma definite. Riportate ai nostri oggetti e ai nostri strumenti di studio, vuol dire, credo, accettare di rinunciare al certo per inquadrare le condizioni di esistenza, di enunciazione e di rappresentazione, per limitare il possibile e l’impossibile delle pratiche e dei discorsi, di mettere in luce margini di manovra, spazi di espressione, gamme di atteggiamento e campi di comportamento, di isolare degli scarti tipo, in repertori di discorsi e di pratiche possibili, di reperire discorsi e pratiche quantitativamente dominanti nel loro ambito, piuttosto che fissare in maniera definitiva e, sul piano macro, di identificare contesti sospesi e campi di oscillazione. Così, nel caso che qui ci interessa, il parallelismo tra operazione storica e fisica quantistica si limita, nel suo apporto, a rafforzare stati di consapevolezza e pratiche di ricerca consolidate. Tuttavia, il vantaggio euristico non è nullo: da una parte, esso solidifica a livello teorico ed epistemologico un’intuizione e una pratica storiche – quella dell’esplorazione dei possibili, in particolare attraverso l’ucronia – talvolta contestate27, illustrando in modo convincente agli occhi di coloro che le praticano la dimensione feconda di quella che resta malgrado tutto una pratica minoritaria28, e, d’altra parte, sembra fare della definizione dei quadri di possibilità che inglobano e delimitano la massa dei 27 Quentin Deluermoz, Pierre Singaravélou ricordano che gli storici marxisti inglesi, e per primi E.P. Thompson ed Eric Hobsbawn, insorsero vivamente contro la storia controfattuale proposta da Niall Ferguson nel corso degli anni Novanta: Explorer le champ des possibles, cit., p. 76. 28 Ibidem; cfr. Paul Ricœur, Temps et récit, Seuil, 1983, t. 1, pp. 331‑332, e Reinhart Koselleck, Le Futur passé. Contribution à la sémantique des temps historiques, Éditions de l’EHESS, 1990 (trad. it. Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, 1986), citato da Quentin Deluermoz, Pierre Singaravélou, Explorer le temps des possibles, cit. Si vedano anche i sociostorici del gruppo di Michel Offerlé. Cfr. Renaud Payre, Les institutionnalisations improbables. Une sociologie historique prospective des sciences de gouvernement, in François Buton, Nicolas Mariot, Pratiques et méthodes de la socio-histoire, PUF, 2009, pp. 69‑86, che cita l’appello di Michel Offerlé a «combattere l’amnesia dei possibili non avvenuti […], comprendere l’avvenuto, il solidificato, il consolidato come i prodotti di una storia» (p. 73).

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discorsi e delle pratiche degli attori uno degli orizzonti meno eterei dell’atto storico. Riassumendo, dunque: la questione dell’osservazione storica di un sistema e dei suoi stati ci ha fin qui condotto a adottare una procedura che spero sia prudente. Essa limita l’apporto del parallelismo e ci condiziona a una costruzione accorta del sistema equivalente in ambito storico. Se la problematica storica non è sufficientemente costruita e se ci si riduce a discussioni antagonistiche o dialettiche, il paragone con la fisica quantistica si fa truistico e indigente, e diventa superfluo investire tempo ed energia in una pratica ardua e incerta, o, peggio ancora, banale. Se invece vi si sottopongono oggetti e pratiche complesse e contraddittorie, allora l’uso delle nozioni di sovrapposizione di stati e di dualità onda/corpuscolo ci permette di rendere conto del carattere apparentemente infinito delle possibilità di enunciazione, della dimensione non contraddittoria della fusione di rappresentazioni antagonistiche, insomma: ci porta a cercare e ad elaborare nuove espressioni della complessità dei nostri oggetti, quand’anche il vantaggio ricavato andasse a scapito del carattere definitivo delle nostre dimostrazioni, o addirittura, per spingerci ancora oltre, a scapito del carattere dimostrativo dell’enunciazione del discorso storico. Accettando la dimensione “metaquantica” dei nostri oggetti di studio, ed evitando di eludere l’essenza probabilista e contingente dei loro stati e delle nostre misure, di certo guadagniamo in complessità se non in fedeltà ciò che perdiamo in certezze consolidate, in dimostrazioni apparentemente costituite. Misure, operatori e osservabili Non abbiamo certo chiuso con la questione degli stati e dello studio dei sistemi, ma c’è un fatto che ci incita a dirigerci subito verso lo studio delle misure, degli operatori e delle osservabili: mentre il parallelo tra oggetti e stati della fisica quantistica e della pratica storica ci limitava alla questione della costruzione e della comprensione degli oggetti della storia, questa parte dovrebbe condurci molto più direttamente nel laboratorio dello storico, dove questi si sente più a suo agio che con le discussioni sulla natura e sulle modalità della sua

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attività: ecco da dove viene forse questa sorta di fretta, nonché un certo sollievo nell’abbordare terre un po’ meno sconosciute… Ma non vorremmo che questo sollievo restasse nell’ordine del pensiero propiziatorio o del pio desiderio. Perché è qui che sarà più intensamente messa alla prova la pertinenza dell’impresa fin qui delineata. Se finora la questione della coerenza delle procedure di comparazione tra i due campi non era stata messa in questione, probabilmente non varrà lo stesso per quanto concerne osservabili e misure. Abbiamo avviato il procedimento comparando la misura delle grandezze da parte del fisico alla raccolta, da parte dello storico, dei documenti e di qualsiasi tipo di traccia utile a “ricostituire” gli stati del suo oggetto di studio. Possiamo partire dal tentare di accostare gli statuti dati alla misura nelle due operazioni. Cominciamo evocando rapidamente la questione della misura in fisica quantistica. A metà degli anni Venti, al culmine dello sviluppo di questa disciplina, diverse strategie di ricerca tendono verso uno stesso punto ma differiscono fortemente per i mezzi concettuali impiegati per risolvere i problemi posti dalla fisica fondamentale allora quasi in crisi. Una delle fisiche, a volte chiamata meccanica ondulatoria, si sviluppa a partire dalle equazioni differenziali probabilistiche con derivate parziali, in particolare dalla funzione di onda e dall’equazione di Schrödinger, mentre l’altra, che si sviluppa a partire dall’algebra matriciale, comporta forse una procedura più internalista e un rapporto più lontano con la sperimentazione29. Solo nel 1926-1927 si opera la riunificazione dei due approcci, sia grazie alla dimostrazione della loro analogia, compiuta da Paul Dirac30, sia grazie all’importazione 29 Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Mécanique quantique, cit., cap. 2, p. 33. 30 Paul Dirac dimostra la possibilità di esprimere tramite matrici algebriche i vettori bra e ket, come anche l’insieme degli operatori lineari, il tutto allo scopo di poter esprimere tutti i valori astratti attraverso matrici numeriche. Egli fa la dimostrazione e la pubblica nel 1930 in Paul Dirac, I principî della meccanica quantistica, cit., passim. Cfr. Helge Kragh, Paul Dirac and «The Principles of Quantum Mechanics», Max Planck Research Library for the History and Development of Knowledge Studies, 10 settembre 2013. Si veda anche Guido Bacciagaluppi, The statistical interpretation according to Born and Heisenberg, in Christian Joas, Christoph Lehner, Jürgen Renn, HQ-1: Conference on the History of Quantum Physics, Max Planck Institute for the History of Science, 2007, n. 2, pp. 269‑288 e MPIWG preprint series (vol. 350, 2008),

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di matrici nelle ricerche sulla posizione e l’impulso delle particelle, che fu inaugurata da Werner Heisenberg31 e da Neumann per quanto concerne le matrici-densità32. Prestiamo ora attenzione al concetto di matrice, apparso bruscamente nel nostro discorso. Noi storici crediamo infatti di conoscerlo un po’, per esempio in quanto vi abbiamo intensamente fatto ricorso per la Grande Guerra, sin dall’inizio del XXI secolo, per caratterizzare quest’ultima come punto di origine di pratiche – e in particolare, ma non solo, pratiche di violenza – osservabili lungo tutto il secolo ma incontrate per la prima volta in modo sistematico durante il primo conflitto mondiale33. Questo uso, suggerito agli storici della Grande Guerra e a certi storici della Seconda Guerra Mondiale dal trauma della risurrezione della guerra nell’orizzonte delle coscienze delle società europee all’inizio degli anni Novanta, per quanto stimolante, va tuttavia interrogato. Non tenderà forse a rinchiudere l’avvenuto nell’inesorabile? Non chiuderà la storia europea in un’illusione retrospettiva? Sosterremo qui il contrario, facendo una digressione sull’accezione del termine “matrice” e considerandolo stavolta proprio nel senso in cui Neumann l’ha introdotto nella meccanica quantistica. Una matrice-densità è dunque una tabella rettangolare di numeri definiti utilizsul processo di Born e di Heisenberg d’interpretazione statistica delle equazioni d’onda e sulla presentazione della meccanica matriciale alla conferenza di Solvay del 1927, in particolare p. 269 per il contesto, p. 277 per l’articolazione tra matrici e interpretazione statistica. 31 Werner Heisenberg, The Physical Principles of the Quantum Theory, Courier Corporation, 2013 (trad. it. I principi fisici della teoria dei quanti, Boringhieri 1963), p. 132, sulla commutatività delle matrici di posizione e di quantità di moto. Su tutti questi sviluppi, si veda la dimostrazione attenta e illuminante di Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Cours de physique quantique, cit., ultimo capitolo, pp. 414‑415. 32 John von Neumann, Mathematical Foundations of Quantum Mechanics, Princeton University Press, 1955; trad. it. I fondamenti matematici della fisica quantistica, Il Poligrafo, 1998, introduzione. 33 Cfr. in particolare Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, Christian Ingrao, Henry Rousso (a cura di), La Violence de guerre, cit. Françoise Héritier ha dato una bella definizione, fondamentale in antropologia strutturale, del concetto di matrice in Quels fondements de la violence?, in «Cahiers du Genre», n. 35, 2003, pp. 21‑44, qui pp. 22‑23.

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zata dai matematici per rappresentare comodamente le operazioni che effettuano per studiare gli spazi vettoriali a n dimensioni, con n variante da 3 a + ∞. Questi spazi vettoriali a n dimensioni, ricordiamolo, sono quelli che servono ai fisici per descrivere i fenomeni quantistici, e ciò in una versione probabilistica. In particolare, le matrici-densità di Neumann sono strumenti che riuniscono in un’unica tabella l’insieme degli stati possibili di un sistema, misurati completamente o incompletamente, sovrapposti o meno. A questo punto, grazie alla meccanica quantistica, il concetto di matrice perde il suo carattere potenzialmente teleologico, e ritrova ai nostri occhi di storici ciò che la rende significativa in quel campo di studi: è uno strumento che permette di esplorare comodamente il campo delle possibili dinamiche di un sistema, utilizzando vettori dipendenti dal tempo (che scorre in un senso solo) senza nascondere la dimensione probabilistica, se non aleatoria, delle operazioni di misura e dei risultati che ne emergono, e, dunque, di ciò che la matrice-densità identifica. In altri termini, questa accezione del termine di matrice ci permette di studiare un po’ meglio ciò che, nella Grande Guerra, ha avuto o meno una posterità significativa, senza mai fare di questa posterità una fatalità. E si può così sostenere ormai più fermamente che si osserva, nella Grande Guerra, un certo numero di fenomeni, discorsi, pratiche, che hanno strutturato il campo dei possibili del primo Novecento, perlomeno in Europa. Gli storici fanno presto a rendere ineluttabile ciò che è avvenuto, ma il termine di matrice, oltre a servirci ormai per riunire sotto un unico sguardo questo insieme notevolmente sparso ed eterogeneo, ci dice anche che il campo di inerzie generato dal conflitto era immenso, ma che non rendeva ineluttabile la ricomparsa in seguito delle potenzialità inventariate da una matrice. Ci permette dunque di descrivere l’uso dei gas velenosi come un elemento della matrice e di constatare che questo elemento della matrice dei possibili non è ricomparso in quella riattualizzazione che fu la Seconda Guerra Mondiale. I gas tossici costituiscono così, per esempio, un futuro non avvenuto della Grande Guerra in quella successiva – la questione sarà tutt’altra nel seguito del secolo. Le pratiche di mobilitazione totale dell’economia, di controllo dei flussi di popolazioni, d’instaurazione di modi di dominazione politica e sociale inediti formano così una sorta di matrice-densità, in accor-

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do con la creazione di specifici mondi carcerari e concentrazionari che, sebbene abbiano spesso avuto una funesta posterità nei modi di governo delle grandi tirannie del secolo, tuttavia erano anch’essi una mera potenzialità che ha dovuto essere attualizzata da meccanismi e processi di cui la matrice non rende conto, facendo essa solo l’inventario dei possibili, ma di cui rivela le potenzialità, formulando l’insieme dei possibili la cui realizzazione non ha niente di automatico, d’inesorabile, per non dire di meccanico… Ma torniamo alla questione, lasciata per un attimo da parte, della misura e interroghiamoci su ciò che essa comporta. Ecco cosa ne dicono Jean-Louis Basdevant, Manuel Joffre e Jean Dalibard:

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I fisici sembrano dunque d’accordo sull’assegnare lo statuto di prova e di verifica all’operazione di misura dello stato, ma inciampiamo subito su una prima difficoltà: una prova di cosa? La risposta è almeno apparentemente semplice: la totalità dell’informazione disponibile su un sistema è accessibile in una sola equazione unificata, denominata equazione di Schrödinger, essa stessa dipendente dalla funzione d’onda 𝜓 (r, t0), menzionata da Jean-Louis Basdevant, Manuel Joffre e Jean Dalibard, che descrive gli stati di questo sistema. L’equazione di Schrö-

dinger è un modo di calcolare la funzione d’onda e la sua evoluzione nel tempo. Un’operazione di misura dà una soluzione dell’equazione e dunque una prova sperimentale o una verifica empirica locale dell’equazione, che non è deterministica ma probabilistica. Ogni risultato di misura è aleatorio ed è determinato da una legge di probabilità35. La misura sembra dunque poter essere associata a un “risultato” e alla sua densità – o al suo insieme – di probabilità, in fisica quantistica. È evidente che da ognuna delle fonti che noi storici utilizziamo, e che nella nostra sperimentazione equivalgono alle misurazioni degli scienziati, si può trarre un insieme di informazioni (spesso non quantificabili) e un’informazione di probabilità e/o di diffusione – la quale è generalmente fornita dalla critica esterna operata dallo storico –, e che ognuna di esse, pur essendo spesso databile in maniera variabilmente precisa e puntuale, è dotata di una “vita” posteriore che le conferisce, se vogliamo, una dimensione vettoriale. In questo senso, la misura storica ha davvero qualcosa di paragonabile a un carattere quantistico. Lo storico qui non è disorientato dallo statuto della misura. In certi casi ben precisi, anzi, il carattere seriale dell’informazione conferisce alla misura storica e ai tipi di storie che si praticano a partire da essa una similitudine interessante che inverte il rapporto tra le due discipline e fa della misura uno dei punti di convergenza tra meccanica quantistica e storia. Vi è un secondo punto che dovrebbe catturare la nostra attenzione: il fatto che per i fisici sia impossibile parlare di misura o di osservazione senza tenere conto dell’apparecchio di misura, senza affrontare il problema di quella che Paul Dirac chiamava la disturbance, il disturbo provocato al sistema dalla misura. La questione della disturbance, del disturbo della misura, può essere pertinentemente importata nelle problematiche dello storico? Gli archeologi sono abituati al fatto di distruggere parti dei loro campioni per sottoporli a microscopi o a spettrometri, come i fisici lo erano, ancora poco tempo fa, alla distruzione dei fotoni che osservavano. Ma gli storici del contemporaneo si trovano in condizioni analoghe? La misura effettuata dallo storico è capace di sconvolgere i sistemi che egli studia? Ci sembra che la risposta debba essere almeno parzialmente positiva se si considerano effettivamente i

34 Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Cours de physique quantique, cit., p. 56.

35 Ibidem.

Prepariamo N⨠1 sistemi indipendentemente nello stesso stato. Essi hanno dunque la stessa funzione d’onda 𝜓 (r, t0) all’istante t0 della misura. Il risultato della misura di una grandezza A in generale non è unico. Vi è un insieme {ai} di modalità con delle probabilità pi. L’insieme {ai} può essere continuo, come nel caso della posizione di una particella. Può essere discreto, come l’energia di un elettrone legato in un atomo. Nel primo caso, abbiamo a che fare con una densità di probabilità P(a), nel secondo con un insieme di probabilità {pi}. Le N misure ci portano a un valore medio ⟨a⟩, uno scarto quadratico ∆a, ecc., con, per esempio, ⟨a⟩ = ∫iai pi. Il risultato completo della misura sperimentale di A sul sistema consiste nel determinare le modalità ai e le probabilità corrispondenti P (a) o pi34.

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nostri oggetti di studio come sistemi che conoscono posterità memoriali. Facciamo un esempio, classico nella storia del tempo presente. La Germania Federale, che pure aveva svolto uno sforzo d’introspezione immane sulla questione della pratica criminale nazista, percepì i lavori di Hannes Heer, Klaus Naumann e Christian Gerlach come una vera onda d’urto sulla scia della prima mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dall’Hamburger Institut für Sozialforschung36. E se si accetta che a fare sistema, qui, sono la pratica criminale e il fatto che diventi oggetto di memoria e di analisi da parte di una determinata società, allora l’insieme della pratica storica è stato, sì, sconvolto, disturbato dall’ondata di indagini storiche che si sono riversate nella mostra e al grande pubblico, e i lavori di Christian Gerlach, nel marzo e aprile del 1997, sono stati addirittura discussi al Bundestag37. Per il momento ci accontenteremo di osservare che il rifiorire di ricerche sulla questione delle pratiche di violenza della Wehrmacht, dovuto da una parte, è stato detto nel capitolo precedente, a una vera e propria rivoluzione documentaria originata dalla messa a disposizione dei ricercatori di nuovi fondi d’archivio, e, dall’altra, a un rinnovarsi delle problematiche con l’arrivo a maturità di una nuova generazione di studiosi, ha portato a un’evoluzione significativa delle rappresentazioni sociali che sono parte integrante del sistema stesso. Nella fattispecie, la misura o meglio, l’afflusso di un insieme considerevole di misure costituito da questa rivoluzione documentaria e dalla conseguente ondata di ricerche, ha senz’altro esercitato un effetto di modifica del sistema. La disturbance, così, non pare sconosciuta agli storici: Henry Rousso aveva già mostrato come la storia del tempo presente si inneschi in un regime di storicità caratterizzato dall’instabilità, l’incertezza (presa nel senso classico del termine), l’incompiutezza38. 36 Klaus Naumann, Hannes Heer, Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941‑1944, Hamburger Edition, 1995; e, sulla Bielorussia, Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit. Sullo sforzo memoriale tedesco, si legga Norbert Frei, Vergangenheitspolitik. Amnestie, Integration und die Abgrenzung vom Nationalsozialismus in den Anfangsjahren der Bundesrepublik, Oldenbourg, 1994. 37 Per una visione globale dei dibattiti su questa mostra, tra le numerose pubblicazioni, si noti Christian Hartmann, Johannes Hürter, Ulrike Jureit, Jan Philipp Reemtsma, Horst Möller, Verbrechen der Wehrmacht: Bilanz einer Debatte, C.H. Beck, 2005. 38 Henry Rousso, La Dernière Catastrophe, cit., in particolare pp. 190‑202, ma anche pp. 228‑229.

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La trasformazione del sistema operata dalla misurazione è una caratteristica fondamentale, che ha conseguenze capitali sulla fisica stessa. Infatti, è proprio in quanto il sistema viene modificato dall’osservazione e dalla misura che la successione delle operazioni di osservazione e di misura e l’ordine nel quale le si attuano è non modificabile. Su un dato sistema quantistico non si ottengono né gli stessi risultati di misura, né le stesse densità di probabilità, né gli stessi scarti quadratici, se si effettua prima una misura di posizione e poi una misura di impulso oppure prima una misura di impulso e poi una di posizione. È ciò che abbiamo denominato, sul piano teorico, la non-commutatività degli operatori. Uno degli esperimenti più noti della fisica quantistica, quello della doppia fenditura ovvero esperimento di Young, permette di comprendere questa caratteristica39. Sia data una sorgente di particelle, per esempio una sorgente luminosa (un laser) che emette fotoni a uno a uno, dirigendoli verso un interferometro dotato di un dispositivo di registrazione delle particelle mediante una piastra dotata di due distinte fenditure. Lo schema qui sotto

ci mostra due visioni di ciò che succede al momento dell’esperimento. Sul grafico che descrive l’esperimento con il laser, si vede be39 Descrizione precisa dell’esperimento, non più con i fotoni ma con atomi di neon raffreddati mediante laser, in Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Cours de Physique Quantique, cit., cap. 1, pp. 20‑23. Per una vivida presentazione dell’esperimento si veda la conference di Serge Haroche all’École polytechnique, 7 aprile 2014, https://bit.ly/3rfMajm.

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nissimo che i “nostri” fotoni si comportano come delle onde, mentre sull’istogramma dell’intensità dell’onda viene rappresentata la granulometria, la frequenza dell’arrivo dei fotoni a tale settore dello schermo: più fotoni impattano su tale punto dello schermo, più intensa è l’onda sullo schermo. L’esperimento mostra che la descrizione che include la sorgente laser, l’itinerario40 e la doppia fenditura dà una rappresentazione del comportamento ondulatorio dei fotoni, mentre la rappresentazione grafica ce ne dà una rappresentazione corpuscolare. E che dunque, in fisica, le modalità di misura condizionano la descrizione del comportamento dei sistemi. Se si misura la posizione di un fotone, allora ciò che gli si “chiede” fa sì che ci si aspetti che esso si comporti come una particella, mentre se si studia il suo impulso o il suo spettro, si presuppone che esso adotti una dinamica ondulatoria. Ciò che turbava assai ai primi tempi della fisica quantistica – è ancora il caso oggi?  – sembra essere moneta corrente in storia, anche se non sempre gli storici sono coscienti dell’acutezza di tale analogia. A seconda di quali documenti, problemi e concetti scelgono, i loro oggetti di studio adottano probabilmente comportamenti del tutto diversi. Così, lo studio delle politiche antiebraiche naziste differisce radicalmente a seconda dei documenti che si sceglie di selezionare. È dunque possibile, quando si studiano le dinamiche delle prime ondate di violenza dell’estate del 1941 in URSS, concentrarsi su quella serie notevole di documenti – le nostre misure – che sono i resoconti giornalieri dei rapporti delle Einsatzgruppen redatti dagli organi centrali berlinesi perché fossero trasmessi agli alti gradi dei ministeri e degli organi del partito e delle SS. Questi documenti – gli storici lo hanno finalmente capito – sono spesso più preziosi per studiare i repertori di legittimazione delle violenze e l’elaborazione degli immaginari di guerra totale militanti e la loro evoluzione che non per capire ciò che era successo concretamente o per afferrare la mutazione delle pratiche dei gruppi. La rivoluzione archivistica degli anni 1990-2000,  in precedenza più volte evocata, ha permesso di rinnovare considerevolmente la prospettiva mostrando, grazie agli archivi degli organi di occupazione locali, le dinamiche propriamente interazionali che con40 Ovviamente non si può parlare di traiettoria: un’onda non ha traiettoria, essa riempie lo spazio.

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dizionavano le pratiche di uccisione41. Se, sul piano centrale, si può effettivamente accedere agli immaginari elitari, alla loro diffusione, e alle retoriche che sottendono le grandi prese di decisioni, è grazie alla documentazione locale che si colgono le considerazioni logistiche, economiche, sanitarie e razziali che permettono di comprendere i margini di manovra e le negoziazioni locali che sottendono le brusche inflessioni delle politiche su scala urbana, provinciale o regionale. I fisici hanno formalizzato questo stato di fatto e ne hanno tratto conseguenze più coerenti di quanto non abbiano potuto fare gli storici: loro – al contrario degli storici, mi pare – sono coscienti del loro impatto sui loro oggetti di studio e del fatto che non trovano che quel che cercano. Ed è la ragione per cui dobbiamo ora tentare di studiare, per concludere questa sezione, i modi in cui hanno importato tali conseguenze nell’operazione storica. Indeterminazione, intreccio, decoerenza Nel 1925-1926, Werner Heisenberg era stato messo in difficoltà dalla caratteristica fondamentale che è la non-commutatività delle osservabili ottenute mediante misure sequenziali. L’approccio matriciale che aveva messo a punto e importato sulle questioni di misura delle osservabili di posizione e d’impulso aveva, ai suoi occhi, permesso, inizialmente, di dissimulare la non-commutatività. Ma Paul Dirac, che ammetteva l’esistenza della non-commutatività grazie alla sua conoscenza dell’esistenza di algebre non commutative, si applicò a riformulare le equazioni per tenere conto di questa nuova caratteristica42. Heisenberg, dal canto suo, pubblicò nel 1927 un articolo intitolato Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik und Mechanik43 (Sulla maniera di rappresentare i contenuti della fisica e della cinematica teoriche quantistiche), in cui riprendeva in modo siste41 Christian Ingrao, Conquérir, aménager, exterminer, cit., per uno scorcio su questa tendenza di ricerca. 42 Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Mécanique quantique, cit., p. 151. 43 Werner Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik und Mechanik, cit.

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matico il problema della non-commutatività, partendo dal fatto che la misura e l’osservazione della posizione x di una particella conducono a una disturbance del suo impulso p. L’incertezza della misura della posizione è dipendente dalla lunghezza d’onda della luce utilizzata per localizzarla, mentre la derivazione della quantità luminosa utilizzata agisce sulla particella come un colpo, attraverso il quale il suo impulso acquisisce una incertezza che Heisenberg quantifica. Alla fine, correlando queste constatazioni con le quantificazioni fondamentali della fisica quantistica, formula una disuguaglianza: il prodotto tra l’incertezza di posizione e l’incertezza di impulso non può essere inferiore alla costante di Planck: ∆x∆p ∼ h. Questa prima formulazione era qualitativa e mancava di sistematicità. Ne seguirono altre che estendevano la disuguaglianza formulandola in maniera statistica44. Tuttavia, finivano tutte per sistematizzare il fatto che non solo, come prevedeva la non-commutatività degli operatori, non si potevano misurare simultaneamente le osservabili di posizione e di impulso, ma che in più esisteva una correlazione quantificata di proporzione inversa degli scarti tipo nelle misure: la precisione dell’una era inversamente proporzionale a quella dell’altra. Qui non c’entrava la tecnica: i progressi nell’acutezza della misura non sarebbero serviti a nulla. Il principio di indeterminazione veniva così sancito, ed è su questo che dobbiamo soffermarci ora, perché potrebbe condurci a formulare alcuni dei limiti della prospezione storica e di ciò che possiamo chiedere alle nostre indagini, alle nostre misure – ossia ai nostri documenti. Per tentare di illustrare questo stato di fatto, vorrei basarmi sul bel testo sul Sessantotto presentato da Ludivine Bantigny per ottenere il diploma di HDR (Habilitation à diriger des recherches). Nelle conclusioni, dove si riscontra qualche sfumatura nostalgica, distingue dei vettori documentari e delle situazioni di diverso tipo. Dopo aver constatato che il pronome impersonale “on” [si] si è imposto nella formulazione lungo tutta l’indagine, la storica continua così: La forma impersonale nasconde a fatica una difficoltà: le fonti parlano di comitati di sciopero, d’azione e di quartiere; di organiz44 Douglas C. Giancoli, Physique générale, cit., pp. 259‑265.

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zazioni sindacali e politiche; di scioperanti e di manifestanti. Ma indicano pochi nomi, e quando questo accade lo fanno per menzionare personalità, o per adeguarsi allo stile della polizia. Negli archivi dei RG (Renseignements généraux, i servizi segreti) e dei prefetti di polizia, ho ovviamente scoperto schede, fornitissime, con pretese di esaustività; ho addirittura trovato, senza leggerle, le descrizioni degli alloggi perquisiti; ho guardato le foto d’identità. Ma ho preferito non fare nomi –  non solo perché questa era la condizione della deroga, ma perché questa procedura “poliziesca” era troppo lontana da quello che volevo fare. Donde il paradosso di una storia che tenta d’incarnarsi senza fare nomi45.

Agli occhi della storica, si palesa dunque un paradosso: le fonti che le permettono di cogliere l’essenza dell’esperienza della rivolta sessantottina, di estrapolarne le speranze, l’elemento festoso, l’angoscia, le pratiche, sono fonti senza nomi e senza identità: questi discorsi sono incorporati in anonime identità collettive. Esistono poi altre masse di documenti stracariche di questo tipo informazione, che si basano su logiche inquisitorie e su pratiche poliziesche di identificazione, ma in questo caso non si ha accesso all’esperienza sessantottina giovanile o operaia, bensì soltanto alla procedura poliziesca46. In questa situazione, si può ottenere l’una esperienza solo rinunciando all’altra, e avere l’altra solo rinunciando all’una. Se tale paradosso è qui affrontato in modo particolarmente manifesto, il caso dell’inchiesta di Ludivine Bantigny è lungi dall’essere un’ec45 Ora in Ludivine Bantigny, 1968. De grands soirs en petits matins, Seuil, 2018, conclusione, p. 371. La citazione è lievissimamente modificata nella versione pubblicata. Ho conservato quella del dattiloscritto. 46 Ovviamente questa constatazione non vale in tutte le situazioni documentarie ed epistemologiche: gli archivi della polizia sono spesso l’unico modo per ritrovare la voce di coloro che non ne hanno, e, dal Medioevo ai Lumi, le fonti inquisitorie hanno permesso a Emmanuel Le Roy Ladurie, Carlo Ginzburg, e Arlette Farge di perpetrare nel cuore delle rappresentazioni delle classi popolari catturate nelle reti delle istituzioni penali: Emmanuel Le Roy Ladurie, Montaillou, village occitan de 1294 à 1324, Gallimard, 2016 (trad. it. Montaillou. Storia di un villaggio occitanico durante l’Inquisizione, il Saggiatore, 1977); Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500 (1976), Adelphi, 2019; Arlette Farge, La Vie fragile. Violence, pouvoirs et solidarités à Paris au XVIIIe siècle, Hachette, 1986.

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cezione: nel suo grande libro, intitolato Les Enfants de Staline. Le mouvement partisan soviétique pendant la Seconde Guerre mondiale (I figli di Stalin. Il movimento partigiano sovietico durante la Seconda Guerra Mondiale), Masha Cerovic mi sembra trarre conclusioni analoghe sulla situazione documentaria del suo immenso oggetto di studio47. Ella sottolinea il fatto che le moli documentaristiche sovietiche e tedesche non propongono la stessa narrazione, benché ai suoi occhi solo il loro confronto sistematico permetta di ricostruire la dinamica della violenza48. Le esperienze storiche non combaciano: mentre per i sovietici sono le ultimissime operazioni di rastrellamento, battezzate Regenschauer e Kormoran, a sancire l’annientamento dei grandi reparti partigiani da parte delle forze naziste e, per loro, sono queste a costituire l’apice del racconto di questa orribile ma eroica gigantomachia, per i tedeschi, l’apice delle operazioni antipartigiane viene rappresentato praticamente un anno prima, tra Lepel’ e Borisov, con l’operazione Cottbus, tornado del parossismo bellico che costa la vita a più di 15.000 civili e nella quale la Kampfgruppe von Gottberg e la Sondereinheit Dirlewanger si distinguono per una violenza sfrenata. Oltre ai già citati 15.000 civili, il bilancio sembra non dar adito a equivoci: 9.796 morti, 3.000 morti per operazioni di “sminamento”, 500 prigionieri e 6.053 persone deportate verso il Reich, per 1.000 armi leggere e 48 armi pesanti. Le unità di caccia tedesche e collaborazioniste, invece, hanno perso 128 uomini49. Eppure, lo dicevamo poc’anzi, nelle narrazioni partigiane sono le operazioni militari naziste dell’anno successivo e degli ultimissimi mesi dell’occupazione tedesca a rappresentare la prova peggiore e più letale. Le esperienze rispettive, degli occupanti e degli occupati, non coincidono. Un esempio permette di rendersene conto più concretamente: le testimonianze della commissione d’inchiesta bielorussa sulle violenze operate dagli occupanti tra il gennaio del ’42 e l’estate del ’43 costitu47 Masha Cerovic, Les Enfants de Staline. Histoire du mouvement partisan soviétique 1941‑1945, Seuil, 2018. 48 Ivi, introduzione. 49 Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit., p. 902, per il bilancio. Ho raccontato le operazioni di sminamento in Christian Ingrao, Chasseurs noirs, cit. La descrizione più minuziosa a partire dagli archivi sovietici e tedeschi è data in Masha Cerovic, Les Enfants de Staline, cit., pp. 208‑219.

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iscono una fonte estremamente formalizzata, del resto spesso in continuità con il vocabolario impiegato nelle fonti partigiane utilizzate da Masha Cerovic. Queste non precisano i nomi delle unità tedesche, che formano un tutto indifferenziato definito col termine generico di “unità di rappresaglia”. Non vi figurano praticamente i nominativi di chi commise tali violenze, con la notevole eccezione delle testimonianze di ex collaboratori russi di queste unità, arrestati nel quadro delle indagini. Qui, infatti, appaiono talvolta unità e addirittura nomi di criminali. Ma allora sono i nomi delle vittime e delle località martirizzate e le date della loro distruzione, sempre menzionate nei racconti dei sopravvissuti, a mancare ormai organicamente all’appello. La misura – la fonte – è qui inversamente precisa a seconda del tipo d’informazione sollecitata dallo storico. O data e situa; o nomina e identifica. Il racconto fatto da Masha Cerovic rende manifesta l’impossibilità di scrivere la storia del movimento e dell’atteggiamento delle unità partigiane basandosi sugli archivi tedeschi; ma esso mostra anche l’impossibilità, per gli attori sovietici, di leggere la strategia e le pratiche naziste. La storica, dal canto suo, produce un racconto abbastanza preciso, ma giunge malgrado tutto alla conclusione che è impossibile narrarlo se non per sequenze, passando da un campo all’altro, senza possibilità effettiva di produrre un racconto di quella penosa interazione che è il combattimento. La similitudine delle rispettive situazioni epistemologiche mi sembra palese. Proprio come quando si tratta di rappresentare le situazioni cinematiche usando la teoria quantistica, le due storiche, poste di fronte alla necessità di rendere conto della dimensione interazionale dinamica del loro oggetto di studio, inciampano letteralmente su un ostacolo fondamentale: l’impossibilità di misurare (nel senso fisico del termine, dunque di documentare), nello stesso movimento, le politiche di repressione e le pratiche dei militanti – rispettivamente gli attivisti del Sessantotto e i partigiani sovietici. Allora, certo, né Ludivine Bantigny né Masha Cerovic cercano un grado di formulazione preciso quanto l’equazione di inversa proporzionalità, fondata sulla costante di Planck, dettata dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Si può malgrado tutto accettare il fatto che le due situazioni epistemologiche sono simili su un aspetto centrale: quello della misura e della sua acutezza. La questione del progresso

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tecnologico, l’abbiamo detto, non ha alcun impatto sul principio d’indeterminazione, poiché esso è dovuto alla non-commutatività degli operatori. E si può supporre che valga lo stesso per la storia del movimento partigiano o dell’attivismo del Sessantotto: quando si lavora sull’esperienza attraversata dagli attori, la questione dell’interazione non è condizionata dalla precisione delle fonti, ma dall’impossibilità di cogliere simultaneamente l’esperienza di più protagonisti. Proprio come non si possono misurare contemporaneamente la posizione e l’impulso di una particella, non si può cogliere, nello stesso tempo, in un’unica misura (una sola fonte), l’esperienza di diverse soggettività. Ciò porta, mi pare, a una constatazione che permette di porre qualche limite all’esperienza storica, di non chiederle troppo e di evitarci così inutili polemiche. In un’altra prospettiva, se non si può comprendere, con una stessa misura, uno stesso movimento, il cuore di un’esperienza, la sua espressione paradigmatica o esemplare, le sue più precise formulazioni e le strutture – nominate, identificate e strutturate – dei gruppi che la attraversano e l’enunciano, allora bisogna riconoscere che lo storico è posto davanti a scelte che opera forse senza esserne sempre cosciente. Così, per la sua storia delle travagliate guerre di religione, Denis Crouzet ha fatto la scelta radicale di mettere in un corpus un’ampia documentazione stampata senza interrogare davvero l’ambiente e le reti che la emettono, trasformando questo corpus in una distesa – possiamo osare chiamarla onda? – narrativa e argomentativa, una nuvola discorsiva, lasciando consapevolmente da parte l’esplorazione della topografia sociale delle fonti di emissione50. Si può analizzare negli stessi termini la difficoltà provata dagli storici della Grande Guerra, che trovano in alcuni corpus composti di fonti individuali, spesso letterari e/o pubblicati, le più sorprendenti formulazioni degli affetti alla base delle culture belliche europee. Essi inseguono, per esempio le formulazioni più complete del lutto sacrificando la rappresentatività e la superficie sociale a questo tuffo nelle profondità delle emozioni, operazione che i sostenitori di storie sociali critiche rifiutano talvolta brutalmente51. 50 Denis Crouzet, Les Guerriers de Dieu, cit. 51 Cfr. Markus Leniger, Nationalsozialistische «Volkstumsarbeit» und Umsiedlungspolitik 1933‑1945, cit., e Annette Becker, Stéphane Audoin-Rouzeau, 14‑18. Retrou-

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Un ultimo esempio permette di affermare con decisione l’inanità del tentare di cogliere in uno stesso movimento il cuore dell’enunciazione e lo spettro sociale. Klaus Latzel, nel suo studio magistrale sulla corrispondenza dei soldati tedeschi dei due conflitti mondiali, ha fornito un vastissimo lavoro di esplorazione su un corpus di diverse decine di migliaia di lettere provenienti da fondi ampi, diversi tra loro e sparsi un po’ ovunque in Germania. Ma al momento di dare i risultati, è stato proprio il fatto che la fonte consistesse in una gigantesca distesa/onda/serie a permettergli di cogliere il discorso bellico dei Landser dei due conflitti. Lo studio sociale, invece, sfiora il truismo: è tutto lo spettro di una società massicciamente alfabetizzata a scrivere; è un intero esercito a produrre un discorso omogeneo senza essere uniforme, e socialmente poco differenziato52. Al di là del fatto che quanto qui si riproduce rivela forse uno sfaldamento che attraversa non solo le storie sociali e culturali contemporanee e la sociologia53, ma anche l’insieme delle discipline umanistiche e delle scienze umane e sociali54, mi sembra che uno dei meccanismi dell’insorgere di queste critiche sia una vera e propria omologia, ignorata dai protagonisti come probabilmente dagli storici, esistente tra il principio d’indeterminazione di Heisenberg e le situazioni epistemologiche dell’indagine storica. Se le cose stanno così, è proprio ora che noi tutti cessiamo di incaponirci a cogliere contemporaneamente il cuore di un discorso e la cartografia sociale di un ambiente o di un gruppo che lo ver la Guerre, Gallimard, 2000; Stéphane Audoin-Rouzeau, Cinq Deuils de guerre 1914‑1918, Noësis, 2001; per un rifiuto di questo tipo di approccio, si veda Nicolas Mariot, Tous unis dans la tranchée? 1914‑1918. Les intellectuels rencontrent le peuple, Seuil, 2013. 52 Klaus Latzel, Deutsche Soldaten-nationalsozialistischer Krieg? Kriegserlebnis-Kriegserfahrung 1939‑1945, Schöning Verlag, 1998. 53 Sulla portata filosofica di questo sfaldamento: Francisco Naishtat, Max Weber et l’individualisme méthodologique, in «Raison présente», vol. 1, n. 116, 1995, pp. 99‑120, qui pp. 105‑107. Non è del resto questo lo scarto che Bourdieu intendeva ridurre in Le Sens pratique, Minuit, 1980 (trad. it. Il senso pratico, Armando Editore, 2005), citato da Paul Costey, Pierre Bourdieu, penseur de la pratique, in «Tracés. Revue de Sciences humaines», n. 7, 1 dicembre 2004, pp. 11‑25. 54 Mi pare che Foucault lo esprima in modo illuminante opponendo filosofie del concetto e filosofie dell’esperienza nel suo ultimo articolo: Michel Foucault, La vie: l’expérience et la science, in «Revue de métaphysique et de morale», n. 1, 1985, numero omaggio a Canguilhem, a cura di Bertrand Saint-Sernin.

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enuncia. Eviteremo allora vane polemiche, speranze sempre disattese, brutali entropie personali e scontri accademici sfiancanti e inopportuni. Con il secondo concetto fisico, gli storici entrano in una specie di «giardino dei malintesi»55, talmente esso viene usato, da una decina d’anni a questa parte, da una frangia della professione tanto creativa quanto impressionante. La scuola francese dei transferts culturels e dell’histoire croisée ha infatti ottenuto una notevole eco internazionale56. Bisogna anche dire che si potrebbe – in maniera cosmetica o retorica  – presentare questo movimento come l’obiezione radicale opposta dalla disciplina storica al principio d’indeterminazione. Un movimento che si assegna come obiettivo di lavorare sugli scambi, sui transfert e dunque, perlomeno parzialmente, sulle intersoggettività: e cosa di più adatto di questa storia delle interfacce per partire frontalmente all’attacco dell’impossibilità enunciata da Heisenberg, impossibilità di cui noi pensiamo di aver osservato l’equivalente nelle configurazioni epistemologiche precedentemente studiate? Bisogna dire che l’avvento di correnti storiche che fanno professione di incrociare le esperienze e le tracce lasciate dagli attori, di descrivere, dunque, quanto vi è di interfaccia, d’ibridazione dei punti di vista o dei transfert culturali tra due o più gruppi, costituisce uno dei cantieri più appassionanti aperti negli ultimi vent’anni nel mondo accademico57. Queste correnti si danno la missione di rendere conto dell’interconnessione di società in contatto, partendo dalla presupposizione di base che né gli Stati, né le nazioni, né gli imperi, né le civiltà, possano costituire categorie – reali o storiografiche – uniche ed esaustive; che 55 Traggo l’espressione da Jacques Leenhardt, Au jardin des malentendus: Le commerce franco-allemand des idées, Actes Sud, 2004. 56 Una buona introduzione, rapida e immediata pur restando fedele e informata, si trova in Sönke Bauck, Thomas Maier, Entangled history, in «Social and Political Key Terms of the Americas», CIAS, 2015, https://bit.ly/46T7DPl. Più dettagliato, alla base della pratica dell’histoire croisée, Michael Werner, Bénédicte Zimmermann, Penser l’histoire croisée: entre empirie et réflexivité, in «Annales. Histoire, sciences sociales», vol. 58, n. 1, 2003, pp. 5‑36. 57 Oltre ai lavori di Sanjay Subrahmanyam, citiamo qui soltanto i due bei libri di Romain Bertrand, L’Histoire à parts égales. Récits d’une rencontre, Orient-Occident (XVIe‑XVIIe siècles), Seuil, 2011, e Le Long Remords de la conquête. Manille- Mexico-Madrid: l’affaire Diego de Avila (1577‑1580), Seuil, 2015.

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essi siano stati costruiti da scambi, confronti, processi di interdipendenza e di circolazione. Questo è l’insieme di fenomeni e di caratteristiche che questa storia economica, sociale, culturale e intellettuale tenta di cogliere attraverso il concetto di enchevêtrement (‘groviglio’), Verflechtung in tedesco58, entanglement in inglese. Ma qui l’Entangled History, la ‘storia intrecciata’ che i contemporaneisti francesi hanno sviluppato come histoire croisée, non restituisce che in parte ciò che i fisici chiamano entanglement. La traduzione degli storici è frutto di una scelta e in francese sarebbe meglio tradurre usando, per la storia, l’aggettivo “intriquée” (‘intricata’) anziché “croisée” (‘incrociata’) o “enchevêtrée” (‘aggrovigliata’), ed ecco che questa traduzione fa spiccare un concetto diventato centrale in fisica quantistica: l’intreccio. Dobbiamo, mi pare, tornare sulla definizione dei fisici per misurare tutto ciò che separa la percezione quantica di questo concetto da quella storica, e forse cogliere qui l’occasione di fare una digressione. Nei mondi quantici, l’intreccio designa una correlazione particolare, ignota nella fisica classica, che coinvolge gli stati di due o più sistemi fondamentali. Riferiamoci a una definizione semplificata per tentare di capire tutto ciò. In un articolo congiunto, Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen, prendendo atto di un certo numero di fatti che si oppongono alla teoria delle funzioni d’onda, concludono che la descrizione di un sistema attraverso le equazioni di Schrödinger non è esaustiva59. Questo bellissimo articolo si apre con una riflessione sulla non-commutatività degli operatori e sul principio d’indeterminazione, arrivando alla conclusione che la conoscenza di un operatore influisce sulla conoscenza dell’altro. Dimostra ciò che Schrödinger, nella sua risposta, chiama una «evidenza sconcertante», ossia che «anche se restringiamo le misure di districamento (disentanglement) a un sistema, le rappresentazioni ottenute per l’altro sistema non sono in nessun caso indipendenti dalla scelta particolare di osservazioni che 58 Michael Werner, Bénédicte Zimmermann, Vergleich, Transfer, Verflechtung. Der Ansatz der Histoire croisée und die Herausforderung des Transnationalen, in «Geschichte und Gesellschaft», vol. 4, n. 28, 2002, pp. 607‑636. 59 Albert Einstein, Boris Podolsky, Nathan Rosen, Can quantum-mechanical description of physical reality be considered complete? (1935), in «Physical Review», 1947, vol. 48, n. 8, pp. 777‑780.

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abbiamo selezionato a questo scopo e che, sia detto per inciso, sono totalmente arbitrarie»60. Ecco l’esordio dell’articolo di Schrödinger:

l’altro tipo di stato a scelta dello sperimentatore nonostante questi non abbia accesso a esso62.

Quando due sistemi, di cui conosciamo gli stati dai rispettivi modelli (respective representatives)61, entrano in interazione fisica temporanea a causa di forze note tra di loro, e quando dopo un periodo di reciproca influenza i sistemi si separano nuovamente, allora non possono più essere descritti nello stesso modo di prima, vale a dire dotando ciascuno di loro di una propria (of its own) rappresentazione. Non chiamerei questo un ma il tratto caratteristico della meccanica quantistica, quello che impone il suo completo allontanamento (departure) dalle linee di pensiero classiche. A causa dell’interazione le due rappresentazioni (o funzioni 𝜓) si sono intrecciate. Per districarle dobbiamo raccogliere ulteriori informazioni attraverso la sperimentazione, per quanto sappiamo come può saperlo chiunque altro ciò che può accadere. Di entrambi i sistemi, presi separatamente, tutte le conoscenze precedenti possono essere completamente perse, lasciandoci un solo privilegio: limitare gli esperimenti a uno solo dei due sistemi. Dopo aver ristabilito una rappresentazione mediante l’osservazione, l’altra può essere dedotta simultaneamente. D’ora in poi, chiameremo tutto questo procedimento “il districamento” (the disentanglement). […] Recentemente è stata richiamata l’attenzione sul fatto ovvio ma molto sconcertante che, anche se restringiamo le misurazioni del districamento a un sistema, la rappresentatività ottenuta per l’altro sistema non è affatto indipendente dalla particolare scelta di osservazioni che selezioniamo a tale scopo e che tra l’altro sono del tutto arbitrarie. È piuttosto sconfortante che la teoria debba consentire a un sistema di essere guidato o pilotato verso l’uno o

Era proprio la teoria che permetteva di definire questo legame persistente tra i due sistemi malgrado la separazione successiva alla loro interazione; la stessa che, tuttavia, reintroducendo in se stessa la misura, faceva rispuntare la sperimentalità e l’empiria; la stessa infine che, ciononostante, poneva la questione della (in)capacità delle funzioni d’onda di rappresentare l’insieme degli stati di un sistema nell’istante t. Ma dobbiamo tentare di essere più precisi per afferrare al meglio cos’è l’intrico, ed è nel manuale di Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard e Manuel Joffre che lo troviamo espresso nella maniera più chiara, perlomeno ai nostri occhi di novizi:

60 Erwin Schrödinger, Discussion of probability relations between separated systems, in «Mathematical Proceedings of the Cambridge Philosophical Society», vol. 31, n. 4, 1935, pp. 555‑563, qui p. 555‑556. 61 Questa espressione mi pare difficilmente traducibile. [NdT: nella versione italiana tradotta con “modelli”]. Più in là Erwin Schrödinger sembra assimilarla a una funzione d’onda (funzione Ψ), ossia quella funzione rappresentante la somma d’informazioni che possediamo sullo stato di un sistema in un istante t e che è poi generalizzabile con l’equazione di cui è l’eponimo.

Consideriamo un sistema fisico a due gradi di libertà A e B il cui stato si descrive in uno spazio ℇ = ℇA ⨂ ℇB. Certi vettori di stato di questo spazio hanno una forma semplicissima, fattorizzata:

∣ 𝛙⟩ = ∣𝛂⟩ ⨂ ∣𝛽⟩

Per un sistema preparato in uno stato di questo tipo, ognuno dei sottosistemi è in uno stato ben definito ∣𝛂⟩ per A e ∣𝛽⟩ per B. Ma uno stato qualsiasi di ℇ non è, in generale, fattorizzabile e si scrive come somma (eventualmente infinita) di stati fattorizzati. Un tale stato è chiamato stato entangled o stato intricato. Consideriamo per esempio: ∣ 𝛙⟩ = 1/√2 (∣𝛂1⟩ ⨂ ∣𝛽1⟩ + ∣𝛂2⟩ ⨂ ∣𝛽2⟩) Questo stato di fatto comporta correlazioni forti tra i gradi di libertà A e B. Se misuriamo separatamente gli stati di ognuno di questi gradi di libertà possiamo trovare, con una probabilità ½, A nello stato ∣𝛂1⟩ e B nello stato ∣𝛽1⟩ oppure, sempre con una probabilità ½, A nello stato ∣𝛂2⟩ e B nello stato ∣𝛽2⟩. Invece, non troviamo mai A nello stato ∣𝛂1⟩ e B nello stato ∣𝛽2⟩ o A nello stato ∣𝛂2⟩ e B nello stato ∣𝛽1⟩63. 62 Erwin Schrödinger, Discussion of probability relations between separated systems, cit., pp. 555‑556. 63 Jean-Louis Basdevant, Jean Dalibard, Manuel Joffre, Mécanique quantique, cit., pp. 291‑292.

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Quando si misurano separatamente i due sottosistemi, le misure ottenute restano strettamente correlate; l’interazione tra i due influenza abbastanza il campo delle possibilità, perché la misura dell’uno renda impossibile certi stati in caso di misura dell’altro, compreso addirittura il caso in cui i due sistemi siano spazialmente separati uno dall’altro. Allora ci chiediamo: non vi è qui un sentiero che permette, alla luce di ciò che è l’intrico in meccanica quantistica, di ripensare da capo alcuni dei nostri ragionamenti e forse dei nostri oggetti di studio o dei loro stati? A questo stadio dell’avventura, rientrerò nelle mie proprie ricerche empiriche per tentare di mostrare in cosa l’accostamento tra le due situazioni epistemiche è euristicamente fruttuoso. La prudenza non è l’unico movente di questo ripiegamento: esso procede anche dalla constatazione che è a partire dal mio stesso campo disciplinare che sono stato portato ad avvalermi della nozione e a intuire che essa potesse avere un’utilità euristica. Credo che sia stato Götz Aly il primo a mostrare come la chiusura del ghetto di Varsavia il 15 novembre 1940 forse non dipese da logiche locali. Durante i mesi euforici da maggio a settembre del 1940, il ministero degli Affari esteri del Reich e l’RSHA (Reichssicherheithauptamt: Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich), rappresentato nella fattispecie da Adolf Eichmann e dai suoi uomini, avevano sviluppato, d’accordo con il BdS Bruno Streckenbach, che lo diffuse durante una riunione dei responsabili locali del Governo generale il 31 luglio, un ambizioso piano della «soluzione della questione ebraica» che consisteva nel trarre vantaggio dalla fulminea vittoria tedesca a Ovest per organizzare l’“emigrazione” dei circa 4,5 milioni di ebrei che si trovavano nei territori occupati dalla Germania64. La tenacia dei piloti della RAF (Royal Air Force) aveva tuttavia avuto la conseguenza inattesa di scombussolare il campo delle possibilità dei satrapi nazisti e dei fautori della germanizzazione: l’Inghilterra non si era arresa e conservava il 64 Su tutto questo: Magnus Brechtken, «Madagaskar für die Juden». Antisemitische Idee und politische Praxis 1885‑1945, Oldenbourg, 1997; fondamentale: Götz Aly, «Endlösung». Völkerverschiebung und der Mord an den europaischen Juden, Fischer, 1995, e Michael Alberti, Die Verfolgung und Vernichtung der Juden im Reichsgau Wartheland 1939‑1945, Harrassowitz, 2006, pp. 241‑242, per la riunione con Streckenbach.

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dominio degli oceani, dunque la possibilità “Madagascar” si volatilizzava. Agli occhi dei dignitari nazisti, bisognava ormai adeguarsi all’hic et nunc. È quanto facevano sostanzialmente, il 15 novembre 1940, avallando infine l’arresto delle centinaia di migliaia di ebrei presenti a Varsavia che non potevano mandare a vegetare oltremare65. Se si considera che la battaglia d’Inghilterra era un sistema A a due stati possibili, il fatto che uno degli stati – la vittoria della RAF – fosse stato ottenuto, non aveva forse elaborato in profondità la possibilità di un secondo sistema B che esprimeva la questione della sorte degli ebrei nei territori europei occupati dai nazisti? Anche qui si può osservare che la misura dello stato 𝛂1 (vittoria della RAF) del sistema A era legato alla misura 𝛽1 dello stato del sistema B della sorte degli ebrei (permanenza nei territori occupati) ∣𝛂1⟩ ⨂ ∣𝛽1⟩, mentre la misura 𝛂2 (vittoria della Luftwaffe) dello stato A era legata alla misura 𝛽2 dello stato di B dell’altra sorte degli ebrei (deportazione in Madagascar) ∣𝛂2⟩ ⨂ ∣𝛽2⟩ e che si rivelava impossibile ottenere (∣𝛂1⟩ ⨂ ∣𝛽2⟩ o ∣𝛂2⟩ ⨂ ∣𝛽1⟩: la decisione di espulsione degli ebrei d’Europa verso il Madagascar avrebbe costituito l’orizzonte d’ipotesi e d’attesa dei dignitari SS in caso di vittoria della Germania, mentre, senza di essa, era votata al fallimento e non poteva avvenire. Se troviamo le stesse equazioni di quelle del caso sviluppato dai tre fisici, allora è giustificato dire che qui l’intreccio rivela l’esistenza di un sistema composto da due sottosistemi A e B, la somma dei cui stati descrive l’insieme delle possibilità reali della configurazione storica, e costituisce l’equivalente storico di una funzione 𝛙. Per dirlo ora in modo più storico: la battaglia d’Inghilterra e il destino degli ebrei d’Europa costituivano, nell’autunno del 1940, un sistema in sé (e sconosciuto fino ad allora, almeno a mia conoscenza) composto da due sottosistemi dagli stati intricati e questo intreccio si esprimeva con un equivalente storico dell’equazione di Schrödinger che rendeva effettivamente conto dell’insieme dei possibili esistenti a quella data. Si può trarre una conclusione da questo stato di fatto? Può essere utile tentare di esplorare la plusvalenza scientifica di questa identità di situazione logica o epistemologica e capire se un legame d’intreccio possa, per esempio, costituire uno strumento euristico suscettibile di far emergere nuovi “sistemi” (oggetti di studio). 65 Götz Aly, «Endlösung», cit.

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Facciamo un secondo esempio, tratto dalla stessa ricerca empirica. Gli storici che lavorano su quel che resta degli archivi delle istituzioni SS si scontrano, come ben si sa, con tassi di perdita colossali – probabilmente più del 90% di ciò che fu prodotto non è mai arrivato fino a noi. Queste immense voragini documentarie lasciano agli storici domande aperte: per esempio, non abbiamo praticamente alcuna idea del tenore delle relazioni esistenti tra le istituzioni di sicurezza del Terzo Reich – l’RSHA, l’SD, la Gestapo66 – e le istituzioni che gestivano l’immenso sistema carcerario nazista –  sussunte dopo gennaio del 1942 nel WVHA (Wirtschafts und Verwaltungshauptamt, Ufficio Centrale Economico e Amministrativo)67 – e quasi altrettanto poche informazioni sulle relazioni tra questi due mastodonti istituzionali con l’RKFdV (Reichskommissariat für die Festigung deutschen Volkstums, Commissariato del Reich per il rafforzamento della germanicità), creato nel 1939 da Himmler per gestire le politiche di germanizzazione dei territori e delle popolazioni68. Sappiamo, tuttavia, che queste relazioni devono essere state intense e talvolta burrascose; che queste istituzioni, all’interno come all’esterno delle SS, lottavano per la preminenza politica69. Sappiamo anche che capire meglio queste relazioni ci permetterebbe di entrare nel cuore delle politiche più specifiche e micidiali del Terzo Reich. Queste istituzioni lavoravano su settori – sistemi – che sembrano profondamente diversi: il primo comprende in particolare tutta la questione della sicurezza e della repressione dei molteplici nemici che il Terzo Reich si scelse; il secondo, l’insieme degli universi carcerari extragiudiziali presi in mano dalle SS e le questioni di manodopera e, dunque, di economia e di gestione; il terzo, tutto l’aspetto delle politiche razziali, demografiche e fondiarie 66 Sull’RSHA e il suo personale, insostituibile: Michael Wildt, Generation des Unbedingtes. Das Führungskorps des Reichssicherheitshauptamtes, Hamburger Edition, 2002. 67 Jan-Erik Schulte, Zwangsarbeit und Vernichtung, cit., 2001. 68 Robert L. Koehl, RKFDV: German Resttlement and Population Policy, 1939‑1945. A History of the Reich Commission for Strengthening of Germandom, Cambridge University Press, 1957; Isabel Heinemann, «Rasse, Siedlung, deutsches Blut». Der Rasse- und Siedlungshauptamt der SS und die rassenpolitische Neuordnung Europas, Wallstein, 2003. 69 Lo si è intuito presto, come attesta il libro di Robert L. Koehl, The Black Corps: The Structure and Power Struggles of the Nazy SS, Madison University Press, 1983.

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concernenti i territori e le popolazioni conquistati. I lavori già frequentemente citati di Götz Aly, Christian Gerlach, Dieter Pohl, Jan Erik Schulte, Timothy Snyder, Adam Tooze e molti altri storici hanno minuziosamente valorizzato la molteplicità dei fattori sottostanti all’evoluzione di questo vortice complesso da cui dipende il destino delle popolazioni e delle società dell’Europa centrale e orientale70. E fondamentalmente non capiamo molto dell’interazione tra queste istituzioni, benché disponiamo ormai di racconti convincenti della risultante di questa interazione. Ciò che possiamo dire, malgrado tutto, di questa interazione, è che un gioco sottile si è instaurato tra questi tre pilastri dell’impero SS tra il 1939 e il 194371; un gioco che li vede elaborare una serie di pianificazioni per regolare la futura organizzazione dei territori occupati dal Terzo Reich nell’Europa dell’Est. La prima istituzione a lanciarsi nella pianificazione dell’avvenire nazista dell’Est è l’RSHA che, come mostrato da Götz Aly e Karl Heinz Roth, sviluppa dei piani a breve termine, che vanno a costituire un piano a lungo termine di germanizzazione dei territori incorporati al Reich nell’autunno del 193972. È probabilmente nel gennaio del 1940 che anche l’RKFdV comincia a mettere le mani nella pianificazione. Disponiamo ormai dei diversi progetti in tempi brevi e del Fernplan –  l’equivalente storico delle misure dello stato del sistema “Pianificazione dell’RSHA” – e dei “Principî di pianificazioni per i territori occupati dell’Est” formulati dal servizio di pianificazione dell’RKF70 Timothy Snyder, Terres de sang. L’Europe entre Hitler et Staline, Gallimard, 2012 (trad. it. Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e di Stalin, Rizzoli, 2021); Adam Tooze, The Wages of Destruction. The Making and Breaking of the Nazi Economy, Penguin, 2007 (trad. it. Il prezzo dello sterminio. Ascesa e caduta dell’economia nazista, Garzanti, 2008). 71 Il WVHA è creato solo a partire da febbraio 1942. Ma le istituzioni che lo prefigurano sono attive prima di questa data e interagiscono con l’RSHA e l’RKFdV. Cfr. Jan-Erik Schulte, Zwangsarbeit und Vernichtung, cit. 72 Götz Aly, «Endlösung», cit., Karl Heinz Roth, «Generalplan Ost» – «Gesamtplan Ost». Forschungsstand, Quellenproblem, neue Ergebnisse, in Mechtild Rössler, Sabine Schleiermacher (a cura di), Der «Generalplan Ost». Hauptlinien der nationalsozialistischen Planungs- und Vernichtungspolitik, Akademie Verlag, 1993; dello stesso autore: «Generalplan Ost» und der Mord an den Juden: der «Fernplan um der Umsiedlung in den Ostprovinzen» aus dem Reichssicherheitshaupamt vom November 1939, in «1999. Zeitschrift für Geschichte der 20 und 21 Jahrhunderte», n. 12, 1997.

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dV. La correlazione tra le pianificazioni è evidente ma poco chiara: i pianificatori dell’RSHA tengono chiaramente conto delle previsioni demografiche dei poliziotti e degli operatori del mantenimento dell’ordine e del controllo delle popolazioni dell’RSHA, ma nessuna misura –  nessun archivio  – documenta l’interazione. Per di più, commetteremmo un errore riducendo la pianificazione dell’RSHA al Fernplan Ost e ai piani a breve termine: gli uffici di Adolf Eichmann, che sono determinanti su tali questioni, producono alla fine del primo semestre 1940 un altro tipo di pianificazione, quel piano Madagascar che abbiamo menzionato poco fa e che riguarda esclusivamente la “questione ebraica”. Risulta evidente, nella redazione dei “Principî di pianificazione” dell’RKFdV, che quest’ultimo tiene conto dello “stato dell’arte” degli operatori delle politiche antiebraiche. I piani di queste due istituzioni evolvono secondo la congiuntura e gli impulsi radicalizzanti impressi dagli attori centrali (Hitler, Himmler, Heydrich ed Eichmann), ai quali si aggiunge peraltro tra dicembre 1941 e febbraio 1942 la pianificazione (in termini di manodopera, di materiali da costruzione e di organizzazione delle politiche di attrezzatura) dei lavori di edilizia e di impiantistica dell’Europa del Lebensraum operata dal WVHA e dal capo del suo ufficio costruzione, Hans Kammler73. Insomma, un insieme complesso di piani che sembrano in interazione gli uni con gli altri senza che si possa determinare oltre la natura di tale interazione. Provando ora a utilizzare la terminologia dei fisici, le pianificazioni operate dalle tre istituzioni di cui abbiamo i documenti costituiscono un insieme di misure degli stati di tre sistemi: una pianificazione dei trasferimenti di popolazione concernenti da un lato le popolazioni indesiderabili dei territori incorporati e dall’altro le popolazioni ebraiche sottomesse al regime nazista; una pianificazione della germanizzazione delle popolazioni e dei territori conquistati; una pianificazione dei programmi di costruzione. La loro interazione è percepibile, senza che si possa ottenere un’informazione supplementare su di essa attraverso altri documenti, altre misure. Queste, come le funzioni d’onda di Schrödinger, ci danno l’insieme dell’informazione disponibile sugli

stati di un sistema. Quello che vi si constata, invece, è che le diverse pianificazioni interagiscono tra loro. Le cifre evocate da Eichmann e dai pianificatori dell’RSHA si ritrovano nella pianificazione dell’RKFdV; le cifre di migranti volksdeutsche a disposizione dei pianificatori per ripopolare i territori occupati non variano da un’agenzia all’altra. Infine, il WVHA riprende implicitamente le cifre del censimento degli ebrei prodotte nel piano Madagascar dall’RSHA nella sua prima stima dei costi di costruzione dell’utopico spazio nazista nel dicembre 194174. Questo esempio ci mostra così che, come in fisica quantistica, vi è una interazione tra sistemi/settori apparentemente disgiunti dalle politiche pubbliche naziste. Si può così sostenere che essi fossero intrecciati e costituissero un solo e unico sistema in se stessi; un sistema da studiare in un unico movimento. Il sistema comprendeva così le pratiche parossistiche di eccidio degli ebrei dall’estate del ’42 a quella del ’43, fucilati o fatti morire di fame, nei campi di sterminio; le politiche di massacro su vasta scala delle popolazioni civili rurali della Bielorussa, degli Stati baltici e della Russia occupata, le grandi manovre economiche dell’impero SS; infine, le riflessioni agro-geografiche dell’RKFdV. Il tutto può essere studiato come un unico movimento, se accettiamo di integrare tutte le misure – le documentazioni archivistiche a nostra disposizione – in un solo, vastissimo, insieme documentario. Se questo insieme appare caleidoscopico agli occhi dello storico, esso nondimeno rivela quanto l’insondabile violenza impiegata dalla Germania nazista fosse intrecciata al fervore generato dalla prospettiva della realizzazione del millennio razzista. L’invisibile circolazione delle cifre e dell’informazione e quella, già più semplice da studiare, degli esperti e degli agenti e la congiunzione delle pratiche sul piano locale, fanno emergere un oggetto unico: quello dell’avvento dell’impero millenario, costituito dall’intreccio del progetto genocida, dell’ambizione di epurazione eugenetica socio-razziale dell’Europa e della costruzione materiale e politica di una comunità etnica nordica felicemente qualificata come premurosa e frugale. L’intreccio, qui, è assimilabile a ciò che osservano i fisici: una correlazione che non concerne tanto i sistemi correlati, quanto gli scarti

73 Memorandum di Kammler, 10 febbraio 1942, BABL, NS-19/2065, ff. 20‑32, qui ff. 27‑28. Cfr. Christian Ingrao, La Promesse de l’Est, cit., pp. 439‑440 per il contenuto del secondo piano.

74 Su questa questione e quanto segue, mi permetto di citare Christian Ingrao, La Promesse de l’Est, cit., qui essenzialmente pp. 78‑92 per la questione dei piani.

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quadratici delle misure dei loro stati – ossia l’ampiezza della loro incertezza: le probabilità di risultato o le densità di probabilità di questi risultati – e dunque le opzioni di possibilità in cui si muovono. Ogni misura dello stato di un sistema agisce sul ventaglio di probabilità delle misure dello stato degli altri, al punto da poterle studiare in uno stesso movimento come se si trattasse di un unico sistema unitario. È forse qui che il nostro esperimento mentale produce i risultati più vantaggiosi, ottenendo tutta la legittimità che può avere agli occhi dello storico: il concetto d’intreccio aveva inizialmente un uso fisso e già produttivo nelle discipline storiche, ma il ricorso ai concetti della fisica quantistica ci ha portati a spostarne profondamente il contenuto e, strada facendo, ha mostrato di poter costituire un efficiente rivelatore di oggetti fino ad allora invisibili. Per concludere il nostro esperimento mentale, dobbiamo affrontare un ultimo paradosso portato alla luce dai fisici. Per loro, ogni sistema è contemporaneamente onda e corpuscolo; ogni oggetto si comporta in modo quantistico; la luce è particella, la presenza e il tempo sono di essenza discreta; il continuo non esiste: esso è distribuito in modo frequenziale. Ma come è possibile allora che il reale obbedisca almeno apparentemente a quella verità parziale che è la fisica newtoniana classica? I fisici si sono posti questa domanda sin dagli anni Venti. È stato forse Paul Dirac a formulare per primo, nella sua definizione della misura degli stati, la questione centrale, all’interno del testo che abbiamo già in parte citato: «Il principio generale di sovrapposizione della meccanica quantistica» richiede da parte nostra di ammettere (to assume) che tra gli stati di un sistema esistano relazioni particolari tali che, quando il sistema si trova definitivamente in uno stato, possiamo considerarlo come parzialmente appartenente a due o più altri stati. Lo stato iniziale deve essere considerato come risultante da una specie di sovrapposizione di due o più altri nuovi stati, che avviene in maniera inconcepibile dal punto di vista delle idee classiche. Un qualunque stato può così essere considerato come la sovrapposizione di due o più altri, in un numero infinito di modi. Viceversa, due o più stati possono venir sovrapposti per formarne uno nuovo. È importante ricordare, tuttavia, che la sovrapposizione che ha luo-

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go in meccanica quantistica è di natura essenzialmente diversa da qualunque altra incontrata nella teoria classica75, come è mostrato dal fatto che il principio di sovrapposizione quantistico richiede l’indeterminazione (indeterminacy) nei risultati delle osservazioni per essere suscettibile di un’interpretazione fisica ragionevole76.

Dirac vedeva dunque nella sovrapposizione di stati la principale divergenza tra la fisica classica e la fisica quantistica. Il corollario di ciò è che deve esistere un meccanismo che rende conto del fatto che l’osservazione macroscopica si conforma alle regole della fisica classica; un meccanismo che provoca una transizione tra il mondo quantistico e il mondo newtoniano; un meccanismo che, forse, ha qualcosa a che vedere con l’osservazione e, dunque, con la misura. Questa è in ogni caso la conclusione alla quale arrivavano sia Dirac, con la questione della disturbance, del disturbo occasionato dalla misura, sia Schrödinger, con il suo celebre esperimento del gatto. Ma fondamentalmente nessuno dei due riusciva a rendere conto di questo meccanismo. Un primo tentativo di spiegazione, legato all’equazione di Schrödinger, emerse e tentò di giustificare teoricamente questo meccanismo concependo che la misura riduceva istantaneamente lo stato di un sistema al risultato misurato; questo meccanismo fu battezzato collasso della funzione d’onda o riduzione del pacchetto d’onda77. Tuttavia, questa teoria presentava lo svantaggio fondamentale di condizionare l’esistenza del meccanismo alla misura. Che succedeva dunque per gli stati non misurati? È in particolare Heinz-Dieter Zeh che, nel 1970, in un articolo intitolato On the interpretation of measurement in quantum theory (Sull’interpretazione della misura nella teoria quantistica), attacca frontalmente la questione78. Comincia col ricordare le interpretazioni precedenti, differenziandole in tre tipi: le prime sono quelle che sottolineano la dimensione contraddittoria quando il processo di misura è 75 Corsivi di Dirac. 76 Paul Dirac, I principi della meccanica quantistica, cit., pp. 16, 19. 77 Werner Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik und Mechanik, cit.; John von Neumann lo formalizza, nel 1932, in John von Neumann, Mathematical Foundations of Quantum Mechanics, cit. 78 Heinz-Dieter Zeh, On the interpretation of measurement in quantum theory, in «Foundations of Physics», vol. 1, n. 1, 1970, pp. 69‑76.

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esso stesso descritto in termini quantistici; le seconde sostengono che si possa descrivere il processo di misura in termini d’incertezza statistica classica inerente agli apparecchi di misura macroscopica classica; le terze introducono delle variabili nascoste79. Le prime e le terze sono dunque fondate sull’ipotesi che le equazioni di Schrödinger descriverebbero gli stati di un sistema in maniera incompleta. Zeh riprende il problema riformulando la messa in equazione della misura dello stato di un sistema S correlando il suo valore proprio (Eigenvalue) allo stato di un apparecchio di misura M e formulando un’equazione di Schrödinger per il sistema M + S. Lo studio dell’equazione porta Heinz-Dieter Zeh a sostenere che una parte degli stati possibili dipende dalla sovrapposizione di stati dell’apparecchio di misura. È, scrive, «assai insoddisfacente supporre che le leggi della natura cambino in funzione (according to) [della questione di sapere] se un processo fisico sia una misura»80. La difficoltà sta nel fatto che quando si descrive un sistema macroscopico come un apparecchio di misura in termini quantistici, un certo numero di stati sovrapposti fa parte integrante dei risultati di misura possibili. Ora, non li si osserva mai nella realtà. Alcuni ricercatori hanno tentato di spiegare l’impossibilità di rilevare questi stati per vie statistiche legate a M, utilizzando un formalismo matematico nato dalle matrici-densità di Neumann, teoricamente rappresentanti l’insieme degli stati possibili di S e M. Utilizzando lo stesso metodo, Heinz-Dieter Zeh s’impegna poi a mostrare che non si può distinguere mediante la misura l’insieme statistico di probabilità di trovare, per un determinato neutrone, la misura di spin ↑ o ↓ per la direzione x, dall’insieme statistico di probabilità di trovare la misura ↑↑ o ↑↓ per la direzione y per un insieme analogo. Siamo dunque autorizzati a utilizzare la stessa matrice-densità per descrivere questi due stati dei sistemi e la loro probabilità. Se così è, dimostra poi Heinz-Dieter Zeh, è in quanto si produce attraverso la misura un collasso della funzione d’onda che riduce l’insieme dei risultati possibili e la loro probabilità al risultato ottenuto attraverso la misura con una probabilità pari a 181. Ma Zeh si spinge oltre, dimostrando che la funzione d’onda che si presume rappresentare il sistema M + S non riesce a rappresentarlo 79 Ivi, p. 69. 80 Ivi, p. 70. 81 Ivi, p. 72.

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completamente per ragioni dinamiche. M + S non può essere un sistema chiuso e l’argomentazione che ha prevalso fino ad allora è valida se e soltanto se la funzione d’onda di quello che fin qui pensavamo fosse un sistema M + S include il «residuo dell’universo» (Remainder of the universe)82. Il collasso della funzione d’onda si produce dunque anche in mancanza di qualsiasi apparecchio di misura. Dunque, non c’è affatto bisogno di M: è l’interazione tra sistemi quantistici, eventuali apparecchi di misura e/o ambiente esterno, a far produrre questo collasso. Abbiamo qui la prima descrizione della decoerenza che Heinz-Dieter Zeh, in un altro articolo, definisce come una delocalizzazione che interviene mediante la funzione di un intreccio tra un qualsiasi sistema e un altro sistema «o il suo inevitabile ambiente», che culmina nell’eliminazione «degli stati sovrapposti dei due sistemi, i quali continuano a esistere, ma non ci sono più»83. È così che, per Zeh, l’indeterminazione quantistica sparisce sul piano macroscopico, per eliminazione degli stati sovrapposti esistenti sul piano microscopico e ciò, per interazione tra l’ambiente e il sistema, che vi sia o meno misura. Tutto questo può spronarci a vedere certi oggetti storici in modo nuovo e diverso. Per provarlo, tornerò su un oggetto un po’ fuori moda: la demografia europea medievale e moderna, lungamente studiata negli anni Sessanta e Settanta e magistralmente raccolta da studiosi come Pierre Chaunu e Jacques Dupâquier che, nella Histoire de la population française, hanno formalizzato e quantificato i comportamenti matrimoniali dei francesi e quell’“invenzione” del modello demografico occidentale che è il matrimonio tardivo84. Gli studiosi spiegano quei «milioni di microvoleri»85 tali da organizzarsi in una realtà percettibile mediante mezzi statistici facilmente governabili da quegli specialisti di studi umanistici e scienze sociali che siamo noi storici… Ciò non toglie che il sistema di “riproduzione” delle società europee occidentali del lungo Medioevo da loro descritto sia formato da milioni di orgasmi –  essenzialmente maschili, temo  – e centinaia di milioni di istanti sospesi, in cui coppie vibranti di desiderio si sono 82 Ivi, pp. 73‑74. 83 Corsivi dell’autore, Heinz-Dieter Zeh, Roots and fruits of decoherence, in «Séminaire Poincaré», n. 1, 2005, pp. 115‑129, qui p. 115. 84 Jacques Dupâquier, Histoire de la population française, 4 tomi, PUF, 1988. 85 Pierre Chaunu, Histoire et imagination: la transition, PUF, 1980, p. 49.

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astenute dal fare l’amore, miriadi di vertiginosi rapporti interrotti da uomini o donne che costruivano –  malgrado e con il piacere, che è parossismo della corporeità – quello che si degradava per decoerenza in un modello demografico di limitazione delle nascite attraverso l’età sempre più avanzata per contrarre matrimonio. Questi miliardi di possibilità, verificatisi solo in certi casi, che sono in sé gli stati di un sistema, la sua storia e il suo divenire, non sono stati mai misurati né osservati. Ma il loro involucro, appena pensabile, costituisce gli spazi probabilistici a dimensioni infinite che fanno del reale un sistema quantistico sul quale la storia delle popolazioni, la demografia storica, ma anche le osservazioni più microscopiche emerse dalla storia sociale, dalla microstoria, dai cultural studies e dai gender studies, non hanno e forse non potranno mai avere che un punto di vista newtoniano, non potendosi dotare di procedure e strumenti descrittivi – come il calcolo matriciale, la matematica probabilistica o l’algebra non commutativa – capaci di rendere conto della sua natura quantistica. Infatti, la realtà, in storia come nella maggior parte della fisica, non è misurabile che dopo la o in decoerenza86; una decoerenza costante ma anch’essa discreta; una decoerenza che elimina sovrapposizione degli stati e sospensione delle potenzialità. Una realtà che ci sfugge, dunque, ma di cui si intuiscono almeno di sfuggita le potenzialità, non foss’altro che formulando esperimenti mentali… In ogni caso, è ormai ora di terminare questo nostro esperimento. Conclusione Per quanto audace possa sembrare, questo procedimento, di cui speriamo di essere riusciti perlomeno a mettere in dubbio la vacuità, paradossalmente potrebbe suggerire prudenza87. 86 Il caso dell’osservazione simultanea alla decoerenza, che mi è stato evocato da Henry Rousso, potrebbe concernere anche i sondaggi, con la loro disturbance appunto… Cfr. Jonathan Parienté, Heisenberg et les sondeurs, in «Le Monde», 20 ottobre 2007, https://bit.ly/3JNJpwd. Ringrazio Henry Rousso per il riferimento. 87 E ciò tanto più che non si è stati capaci di comprendere la fisica quantistica teorica posteriore agli anni Ottanta; a cominciare in particolare dal lavoro di Richard Feynman, pure assai anteriore.

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In primo luogo, questo accostamento tra l’esperienza euristica dello storico e il mondo quantistico ci avrà condotti ad affermare l’impossibilità di cogliere un sistema se non attraverso i suoi stati e dunque di scrivere la storia di un oggetto senza passare per le tracce che esso ha lasciato. Le nostre tracce sono le misure e gli “osservabili” dei fisici. Ciò che, qui, sembra rientrare nel truismo, se ne allontana definitivamente se si è coscienti di ciò che questa tesi comporta nella fisica quantistica: fissando la misura come responsabile dell’eliminazione dell’osservazione degli stati sovrapposti, la riduzione della funzione d’onda porta a enunciare l’impossibilità di cogliere interamente la dinamica probabilistica contenuta in ogni oggetto storico. La misura è, almeno in parte, ciò che costituisce la molla del passaggio di un oggetto da un comportamento quantistico a un comportamento classico o newtoniano; la misura, che fa della realtà un documento, è un mezzo sicuro per farlo passare dalla dinamica probabilistica dell’avvenire all’unidimensionalità del racconto di ciò che è avvenuto. È questo stato di fatto che ci porta a ripensare, spinti da questo Gedankenexperiment, il perimetro della pratica storica. La traslazione in essa della questione della non-commutatività degli operatori e di ciò che Paul Dirac chiamava la disturbance, il disturbo che la misura comporta nel sistema, fenomeno che fa sì che ogni misura, ogni storico che riduce i dubbi, ci incita a generalizzare quell’operazione intellettuale che è l’esperimento mentale come strumento che permette di sperare di inventariare meglio i repertori reali o immaginari di possibilità, di azioni, di rappresentazioni e di pratiche che vedremo poi organizzarsi semplificandosi nella realtà avvenuta, attraverso quell’equivalente storico della riduzione della funzione d’onda che sono la raccolta e la selezione delle fonti. Tutto ciò limita fortemente le aspettative dello storico: il principio d’indeterminazione che abbiamo visto equivalere all’indagine storica implica che non si possa né mai si potrà88 afferrare in uno stesso movimento e con lo stesso grado di precisione, da un lato, ciò che è dell’ordine del socialmente ancorato, del reticolato, dell’organizzazione sociale, del materiale –  in altri termini, del corpuscolare  –, e, 88 Detto ciò, di recente i fisici, in particolare l’équipe di Serge Haroche, sono riusciti a non distruggere, nei loro esperimenti, i fotoni da loro osservati. Dunque “mai dire mai”, ma insomma…

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dall’altro, ciò che viene diffuso attraverso i discorsi, che è dell’ordine dello scambio, del comunicazionale, delle rappresentazioni e degli immaginari – dunque dell’ondulatorio. Cogliendone bene uno, si perde precisione sull’altro; forgiando i nostri strumenti in una dimensione, incitiamo l’oggetto a comportarsi – e dunque a sembrarci – o come l’uno, o come l’altro. Voler cogliere l’uno e l’altro nello stesso movimento rientra, temo, nell’illusione storica. In effetti, applicare il principio di Heisenberg con una certa inesorabilità nel campo delle nostre pratiche potrebbe trasformare questo esperimento mentale in una sorta di operazione scorbutica che limita la possibilità storica, ma noi non lo crediamo. Infatti, pensiamo di aver mostrato che, incitando all’esperimento mentale, all’esplorazione degli universi in attesa e dei repertori delle possibilità, reali e immaginarie, questo percorso un tantino avventuroso nei meandri della riflessione quantistica costituisca un’arringa per l’immaginazione storica e la sua μῆτις89. Ed è proprio l’adozione della riflessione sull’intreccio quantistico a costituirne l’esempio migliore: il concetto di intreccio ha già un’accezione fruttuosa e legittima nelle pratiche storiche, ma lo spostamento operato nel passaggio attraverso la fisica quantistica permette di inaugurarne un altro uso, di fare un’escursione capace di far vedere nuovi oggetti, sorprendenti e almeno tanto controintuitivi quanto quella sovrapposizione di stati che continua a rendere affascinante il mondo della meccanica quantistica. Un’escursione che ci ha permesso di capire meglio, per esempio, come, perlomeno tra il 1939 e il 1943, fervore della realizzazione dell’utopia, considerazioni economiche o strategiche e impulso omicida o genocidio abbiano potuto costituire un solo e medesimo sistema in cui si sono intrecciate le pratiche naziste.

89 Marcel Detienne, Jean-Pierre Vernant, Les Ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs, Flammarion, 1974; trad. it. Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, 2005.

III. Il sole nero del parossismo Messaggio alle storiche e agli storici del tempo presente1 Il colore nero racchiude l’impossibile vivente. Il suo campo mentale è la sede di tutti gli imprevisti, di tutti i parossismi. Il suo prestigio scorta i poeti e prepara gli uomini d’azione2. r. char

Propongo qui una cartografia degli strumenti analitici che abbiamo a disposizione per scrivere e prolungare questa forma di storia che si delinea e che è nostra. «Questa forma di storia che è nostra…»3. È questo, in fondo, a riportarci, car* tutt*, alle inflessioni che subiamo, che non sono né parallele, né omogenee, ma convergenti, verso quello che dunque io suppongo essere «questa forma di storia che è nostra». Per quanto mi riguarda, da una ventina d’anni a questa parte ho portato avanti riflessioni sparse, articolate intorno a un numero limitato, forse una mezza dozzina di arsenali concettuali. Mi piacerebbe farne l’inventario, descriverne l’universo dei possibili, tracciarne i limiti, gli eventuali punti ciechi. Ma vorrei intanto tentare di fare una panoramica per valutarne la pertinenza e fondarne l’ambizione. Il punto di partenza della mia riflessione è stato empirico e tematico ma anche, in minor misura, storiografico, e si può riassumere così: 1 Questo capitolo si collega a un lavoro portato avanti da Malika Rahal intitolato Vivre ensemble et paroxysme. Pour une histoire de la guerre civile en Algérie 1936‑2002, e al seminario Explorations du paroxysme, cit. Versioni precedenti del testo sono state rilette da Anne Kerlan, Hervé Mazurel, Quentin Deluermoz, Philippe de Lara, Nicolas Werth, Stéphane Audoin-Rouzeau, Johann Chapoutot, che troveranno qui la testimonianza dei rapporti che ci legano. 2 René Char, Fragment n° 229. Les feuillets d’Hypnos, in Id., Œuvres complètes, Gallimard, 1983, p. 230. 3 L’allusione è alla celebre polemica di Lucien Febvre con Louis Halphen, Une forme d’histoire qui n’est pas la nôtre, in «Annales ESC», vol. 3, n. 1, 1948, pp. 21-24, in Lucien Febvre, Combats pour l’histoire, Dunod, 20122.

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Nicolas Werth, che lavora sullo stalinismo, e numerosi storici che si occupano del nazismo o della Grande Guerra, sono stati messi di fronte a tentativi spesso inconsci ma molto elaborati di quello che Stéphane Audoin-Rouzeau chiama «rifiuto di vedere»4. Al principio avevo scritto che tali tentativi si contrapponevano a «questa forma di storia che è nostra», ma mi sbagliavo. In realtà siamo noi a contrapporci… Sì: Nicolas Mariot aveva ragione, al tempo, a sostenere, citando Christophe Charle, che le leggi che fondano lo Stato sociale in Germania hanno probabilmente intessuto solidi legami tra i soldati dei campi di battaglia sconvolti e la Germania della Grande Guerra5; sì: demograficamente, il Grande Terrore non tocca la maggior parte di chi viveva nell’Unione Sovietica staliniana6, ma tutto questo possiamo comprenderlo senza difficoltà. Intanto, John Arc Getty7 o Antoine Prost8 tacciono, un po’ interdetti forse, uno davanti alle affilate pale da trincea con le istruzioni per la formazione dei gruppi di fanteria tedeschi

del 19179, l’altro davanti all’ordine 00447 firmato da Stalin10. Insomma, tacciono: più precisamente, evitano. Costruiscono modelli interpretativi eludendo qualcosa. Questo qualcosa è quello che noi chiamiamo “parossismo”, una categoria che a mio avviso sussume l’insieme di quegli oggetti apparentemente tanto dispersi che costituiscono la base della nostra pratica storica. O piuttosto una delle categorie; la seconda, che propongo qui, è quella della “convivenza”11. È bene tener conto che queste categorie non sono contrapposte: l’una non è il contrario dell’altra. E la prima trappola sarebbe tentare di definire il concetto/i concetti. Limitiamoci a dire, per cominciare, che si può immaginare il parossismo come un’esperienza che produce uno spavento o qualcosa di ineffabile, e, dunque, un silenzio. Il che non vuol dire che facciamo la storia dei silenzi, bensì che prestiamo attenzione a fonti non verbali. Il tipo di storia che vogliamo praticare è una storia dell’esperienza (Erfahrungsgeschichte)12; una storia che si situa logicamente sulla scia

4 Fenomeno già evocato e studiato da Stéphane Audoin-Rouzeau, specialmente per il caso della Grande Guerra, in Violence extrême et refus de voir, in «Revue internationale des sciences sociales», n. 174, 2002/4, pp. 543‑549. 5 Nicolas Mariot, Faut-il être motivé pour tuer? Sur quelques explications aux violences de guerre, in «Genèses», n. 53, 2003, pp. 154‑177, qui p. 176, dove cita Christophe Charle, La Crise des sociétés impériales. Allemagne, France, Grande-Bretagne 1900‑1940. Essai d’histoire sociale comparée, Seuil, 2001. 6 Sul Grande Terrore, si legga l’introduzione storiografica e problematica di Alain Blum, Nicolas Werth, La Grande Terreur en URSS, in «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», n. 107, luglio-settembre 2009, pp. 3‑19. 7 La tesi revisionista è rappresentata con talento da Gábor Tamás Rittersporn, Simplifications staliniennes et complications soviétiques. Tensions sociales et conflits politiques en URSS (1933‑1953), Éditions archives contemporaines, 1988, e da John Arch Getty, Origins of the Great Purges. The Soviet Communist Party Reconsidered. 1933‑1938 (1985), Cambridge University Press, 1996. Quest’ultimo ha reiterato la sua tesi eludendo il problema delle operazioni segrete, facendo tuttavia una parziale autocritica in una raccolta di documenti in John Arch Getty, Oleg V. Naumov, The Road to Terror: Stalin and the Self-Destruction of the Bolsheviks. 1932‑1939, Yale University Press, 1999. Si veda infine, più in generale, Gábor Tamás Rittersporn, Anguish, Anger, and Folkways in Soviet Russia, University of Pittsburgh Press, 2014. 8 Antoine Prost, Les limites de la Brutalisation. Tuer sur le front occidental 1914‑1918, in «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», n. 81, 2004, pp. 5‑20.

9 Citiamo qui non senza rimorsi la tesi fondatrice ma non pubblicata di Anne Duménil, Le Soldat allemand de la Grande Guerre. Expérience du combat et institution militaire, Amiens, tesi dattiloscritta, 2000; ci si rifaccia a Stéphane Audoin-Rouzeau, Les Armes et la chair. Trois objets de mort de la Grande Guerre, Armand Colin, 2009. 10 Non rifaremo qui la storia dei lavori di Nicolas Werth sul parossismo che ha saturato il periodo staliniano… Si tengano presente le ultime sue tre opere: L’Île aux cannibales: 1933, une déportation-abandon en Sibérie, Perrin, 2007; La Terreur et le Désarroi. Staline en son système, Perrin, 2007; L’Ivrogne et la Marchande de fleurs. Autopsie d’un meurtre de masse 1937‑1938, Perrin, 2009. Ormai si veda anche Nicolas Werth, Le Cimetière de l’espérance, Essais sur l’histoire de l’Union soviétique (1914-1991), Perrin, 2019. 11 Sostantivo costruito a partire dal tedesco Zusammensein (‘stare insieme’) o Zusammenleben (‘vivere insieme, convivere’). Si utilizza questo concetto in orizzonti d’attesa diversi, ma spesso proiettato nel futuro rappresentato dalle società interessate. Noi utilizziamo tuttavia anche il concetto, apparentemente più statico dal punto di vista temporale, di entre-soi, nel presente dei gruppi sociali studiati. Se lo citiamo qui soltanto di passaggio è perché, sviluppato dall’antropologa Françoise Héritier, sarà oggetto di un ulteriore sviluppo nel capitolo, quando affronteremo l’apporto euristico dell’antropologia nel presente lavoro. 12 Riprendo qui il bel concetto di Alf Lüdtke, Hans Medick, Wolfgang Schäfer, nel loro editoriale in «Geschichtswerkstatt», n. 6, 1985, p. 5; nella stessa epoca, Lutz Niethammer e il suo gruppo lo usano appoggiandosi su ricche indagini di storia orale: Lutz Niethammer, Alexander von Plato (a cura di), «Wir kriegen jetzt andere Zeiten»: auf der Suche nach der Erfahrung des Volkes in nachfaschistischen Ländern, Dietz, 1985; più tardi, Gerd Krumeich lo utilizza in Der Krieg in den Kopfen, in Gerd Krumeich (a cura di), Versailles 1919, cit. È infine diventato comune in Germania, come

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dell’Alltagsgeschichte, dello History Workshop e della microstoria e, più analiticamente, dal lato dell’esperienza più che da quello del concetto, per riprendere la distinzione di Foucault sviluppata in omaggio a Jean Cavaillès e Georges Canguilhem13. Forse anche l’Iliade ci ha permesso di formalizzare le strutture principali di questa storia. Gli storici e gli antropologi ci hanno infatti insegnato che eroi e vittime delle gesta omeriche erano di tre nature diverse, in quanto tutti erano contemporaneamente σῶμα (sōma: ‘corpo’), ψυχή (psichē: ‘spirito’) e μνήμη (mnēmē: ‘memoria, memoriale’)14. Il corpo, la mente – in quanto risultante della cultura e della psiche – e la memoria/commemorazione: ecco così ben definite le entrate della storia del tempo presente nel momento in cui si fa Erfahrungsgeschichte. È precisamente questa premessa a spingerci a cercare i nostri strumenti nell’ambito delle scienze umane e sociali più che nell’ambito di quelle del concetto dell’esperienza quali la filosofia, sociologia e scienze politiche. Utilizzeremo quindi l’antropologia, basata sull’osservazione partecipante che fa dell’esperienza del ricercatore la modalità della conoscenza15, e una certa psicoanalisi, così prossima del resto a quella che era l’antropologia dell’inizio del secolo scorso16 e che non va confusa con una psicologia applicata a individui o entità collettive. testimonia il tomo di storia culturale della società tedesca sotto il nazismo, a cura di Norbert Frei e redatto da Moritz Föllmer, «Ein Leben wie im Traum»: Kultur im Dritten Reich, C.H. Beck, 2016. 13 Michel Foucault, La vie: l’expérience et la science, cit. 14 Su ciò si legga la messa a punto di Nicole Loraux, Mourir devant Troie, tomber pour Athènes, in Gherardo Gnoli, Jean-Pierre Vernant (a cura di), La Mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge University Press-Maison des sciences de l’homme, 1982, pp. 27‑44, qui p. 34. 15 Con ovviamente tutto un dibattito di fondo sul contenuto dell’osservazione partecipante, ne testimonia il libro magistrale di Jeanne Favret-Saada, Les Mots, la mort, les sorts, Gallimard, 1977, per la prima edizione. E questa citazione tratta dall’introduzione può farci riflettere: «Di tutte le trappole che minacciano il nostro lavoro, ve ne sono due che abbiamo imparato a evitare come la peste: accettare di partecipare al discorso indigeno, soccombere alle tentazioni della soggettività. Non solo mi è stato impossibile evitarle, ma è grazie a queste che ho elaborato l’essenziale della mia etnografia». 16 E René Girard lo mostra bene utilizzando entrambe le discipline, in La Violence et le Sacré, Grasset, 1972; trad. it. La violenza e il sacro, Adelphi, 1986; si veda anche Lucien Scubla, Donner la vie, donner la mort. Psychanalyse, anthropologie, philosophie, Le Bord de l’eau, 2014.

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De facto, ma non sta qui il punto, la maggior parte degli strumenti di cui vorremmo fare l’inventario provengono dalla storia sociale e culturale internalista, dall’antropologia e dalla psicoanalisi. Non si tratta di interrogarsi sulle ragioni che ci spingono a concentrarci su queste due discipline, combinandole insieme. No: si tratta solo, qui, di rilevare ciò che può servirci a cogliere nel pieno quegli istanti, quei riti, quelle sequenze che rientrano nella convivenza e nel parossismo, e producono spavento e senso dell’ineffabile. Ultimo avvertimento: non si tratta neppure di costruire una teoria interpretativa dei quattro oggetti qui citati. Non ne abbiamo né il tempo, né i mezzi, né l’ambizione. Come organizzare il pensiero, evitando questi ostacoli? Come restare nell’ordine dell’inventario senza essere banali? Ecco cosa mi preoccupa mentre mi accingo ad affrontare questo capitolo. Abbiamo parlato dell’origine degli universi concettuali, abbozzato una precisazione sugli oggetti che studiamo, sottolineato l’importanza del lavoro in comune, della riflessione collettiva, in queste prime formulazioni. Adesso dobbiamo entrare nel vivo dell’inventario, cominciare a nominare questi oggetti, questi strumenti, queste metodologie. Una storia totale del parossismo? Al di là della contingenza dei differenti percorsi scientifici dei ricercatori reclutati da un’istituzione accademica, cosa può esserci – o esserci stato  – in comune tra la storia della Cina repubblicana o maoista, quella dell’Algeria degli anni 1936-2002, quella della violenza bellica del XX e XXI secolo, da una parte, e, dall’altra, quella della memoria o delle immagini che sono state presentate nei processi? Si è potuto discorrere sulla trasversalità di questi oggetti, costruire punti di aggancio e di incontro, interfacce: qui sta l’essenza del presente lavoro continuamente ricominciato sugli assi di ricerca dell’Institut d’Histoire du Temps Présent che ha riunito e ancora riunisce una parte di noi; il lavoro su quello che è la storia del tempo presente. Ne siamo gli eredi e questo lavoro è un ulteriore strato sedimentario. Ma a legare questi oggetti e questi campi è lo sguardo che possiamo rivolgere loro in termini di parossismo.

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Il segno del parossismo sarebbe, sembra, la non-verbalizzazione o la sotto-verbalizzazione da parte degli attori. Per quanto riguarda la sofferenza, Alain Corbin – che fu, credo, il primo a parlare di parossismo17 – ha detto con estrema efficacia: «Quando si soffre troppo, si smette di parlare»; Paul Fussell, di contro, parlava della «generazione del silenzio» dei veterani dei due conflitti mondiali di cui si fece storico18. Per lo storico, reperire queste sequenze temporali nel corso delle quali gli attori enunciano forme discorsive molto specifiche, spesso poco elaborate, attraversate da riferimenti alla loro corporeità (uso dei campi semantici del sensoriale), se non di espressioni corporee (lacrime, tremori, brividi, irrigidimenti), costituisce spesso un primo indizio probante della presenza del parossismo. Nello scrivere queste pagine mi ricollego essenzialmente alla mia pratica storica personale, al lungo confronto con le fonti giudiziarie che costituivano una via d’accesso ai gesti genocidi dei tiratori delle Einsatzgruppen, che gli inquirenti stimolarono a raccontare un’esperienza segnata dal trauma e dal parossismo19. Mi sembra inoltre che la validità di questa constatazione non si limiti a questa sequenza, e soprattutto che si possa applicare anche a quelle esperienze del parossismo dove la violenza non si riscontra. Per restare nel mio campo di competenze, prenderò il caso di Robert Brasillach, che a Norimberga assiste a una di quelle cerimonie nazional-socialiste così cariche di liturgia, sature della dimensione millenarista e utopica del sistema di credenza determinista razziale nazista. A Zeppelinfeld, fuori della città, è stato costruito uno stadio immenso, in stile miceneo, architettura che affascina il Terzo Reich. Sulle gradinate possono trovar posto centomila persone sedute; nell’arena propriamente detta, altre due o trecentomila. Le gigantesche bandiere con la svastica, sotto il sole splendente, ondeggia17 Alain Corbin, Conclusion, in Michel Lagrée, François Lebrun (a cura di), Pour l’histoire de la médecine. Autour de l’œuvre de Jacques Léonard, Presses universitaires de Rennes, 1994, p. 106, invoca per la prima volta una storia del parossismo. 18 Paul Fussell, Wartime: Understanding and Behavior in the Second World War, Oxford University Press, 1989, p. 134; trad. it. Tempo di guerra: psicologia, emozioni e cultura nella Seconda Guerra Mondiale, Mondadori, 1991. 19 Tra altri, Christian Ingrao, Croire et détruire, cit.

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no e brillano. Ed ecco che entrano i primi battaglioni del lavoro, gli uomini dell’Arbeitskorp, in file esatte di diciotto, con banda e bandiere in testa al corteo, il badile in spalla. Escono dallo stadio e vi fanno il loro ingresso nuovamente, i capi del servizio del lavoro li seguono, a torso nudo, poi entrano le ragazze. Presentano i badili come fossero fucili e ha inizio il rito del lavoro. «Siete pronti a fecondare la terra tedesca?». «Lo siamo». Cantano, rulla il tamburo, si rievocano i caduti, l’anima del partito e della nazione sono una sola cosa, ed infine il Padrone sembra abbracciare questa folla enorme e trasformarla in un unico, grande essere; e parla. Quando lo stadio si svuota lentamente e ordinatamente di celebranti e spettatori, abbiamo cominciato a capire cos’è realmente la nuova Germania E lo avremmo compreso ancor di più l’indomani, in quella cerimonia inaudita, quasi incredibile, che porta il nome banale d’“appello dei capi del partito” ([Appel der] politischen Leiter). È notte. L’immenso stadio è rischiarato qua e là da qualche riflettore che lascia intravvedere i battaglioni immobili e compatti delle SA, in camicia bruna. […] Sono le otto in punto quando fa il suo ingresso, seguito dal suo maggiore, e raggiunge la tribuna tra la folla osannante. […] Nell’istante preciso in cui il Führer fa il suo ingresso nello stadio, si accendono mille riflettori, posti tutt’intorno il gigantesco complesso, e puntano i loro fasci luminosi verso la notte e il cielo. […] Disegnano nel cielo il luogo sacro e magico del mistero della nazione; gli organizzatori hanno battezzato questo stupefacente incantesimo Lichtdom, la Cattedrale di Luce. […] Infine, prima e dopo il discorso di Hitler, che si rivolge alle folle tendendo le braccia e gridando, esplode un canto cosmico, possente sotto la cattedrale di luce: il Deutschland über alles e l’Horst Wessel in cui palpita ancora lo spirito dei camerati uccisi dal Fronte Rosso e dalla reazione, e il canto del soldato in guerra […] poi altri canti, di lotta, di pace o di battaglia, di orgoglio e di forza, canti creati proprio per il Parteitag, che si fondono alla notte fresca alla gravità e solennità del momento, a quelle belle voci nell’ombra: un autentico incanto musicale, una magia, a prescindere dalla quale

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nulla si può concepire della nuova Germania, né la patria, né la guerra, né la politica, né il sacrificio20.

A colpire in questo testo è proprio la formulazione sensoriale dell’esperienza politica e metareligiosa costituita dallo spettacolo, la messa in scena del Tausendjähriges Reich, della società razzializzata e fusionale del Terzo Reich in modalità erettiva. Brasillach non sta più analizzando o ha smesso di farlo, i suoi sensi sono come le porte d’ingresso di un’esperienza che produce un eccesso21 di emozioni che lo invadono senza che possa verbalizzarle, enunciarle oltre. Un giorno potremo fare la storia del brivido? Qui siamo precisamente in presenza di un parossismo della modalità di convivenza sviluppata dai nazisti, un’esperienza politica ineffabile. Nel caso nazista, la messa in scena del convivere è sufficientemente formulata perché questo ingresso nell’ineffabile si combini a uno studio delle modalità di enunciazione del progetto attraversando una produzione ideologica e varia. È certo uno dei casi meno complessi, ma ciò non toglie che le dimensioni parossistiche di queste formulazioni sfuggano in gran parte allo storico che non si munisca di una specifica strumentazione concettuale o, perlomeno, di uno sguardo certo empirico, ma fornito di questa strumentazione. Si tratta dunque innanzitutto di reperire queste forme meno verbalizzate di enunciazione di esperienze difficili da afferrare. Ma questa è soltanto una prima tappa. Bisogna in secondo luogo tentare di trovare degli strumenti per contestualizzare il parossismo, per inserirlo, per esempio, in temporalità – o “spazialità” – esterne e articolarlo a esse. Degli strumenti dinamici, che definiscano dei trend, possono essere qui utilizzati, anche se siamo ancora lontani dal valutarne bene la necessità. Per quanto criticabili e limitati, i lavori di un George Mosse, di un Norbert Elias e dei loro rispettivi allievi mi sembrano costituire interessanti tentativi di comprendere le sequenze parossistiche e le modalità della convivenza. Per fare un esempio, è possibile servirsi del concetto di brutalizzazione per capire, i diversi sistemi per rap20 Robert Brasillach, Notre avant-guerre, Plon, 1941, ried. 1983, pp. 268‑270; trad. it. Il nostro anteguerra, Ciarrapico, 1986, pp. 330-333. 21 La parola è scelta male, probabilmente, ma cerca di dire quanto vi è di dionisiaco in questa esperienza.

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presentare la violenza nel cinema americano o francese del secondo dopoguerra? Sembrerebbe di no: la Seconda Guerra Mondiale non ha generato pulsioni di violenza nella società francese o in quella americana, dove anzi si verifica esattamente il contrario. In questo caso, sarà forse utile tornare all’idea di civilizzazione di Norbert Elias, debitamente riadattandola in termini dialettici e dinamici tramite il concetto di decivilizzazione. Tuttavia, la necessità di interrogarsi sull’emergere di un’ostentazione di violenza nelle società europee contemporanee che conoscono solo marginalmente la violenza bellica – un margine che è del resto opportuno studiare in termini che rientrano anche nella messa in contesto22 – pone il problema della virtualizzazione delle società occidentali. Il cinema non ama più mostrare la violenza, in quanto quest’ultima non è più presente sul suolo europeo, non costituisce un altrove23 in cui essa può essere mostrata perché non è reale, bensì virtuale? Non è diventato precisamente un luogo –  virtuale  – della persistenza del parossismo bellico proprio in quanto questo è sparito dall’orizzonte reale di esperienza delle società in Europa? Brutalizzazione, trivializzazione24, virtualizzazione, civilizzazione, decivilizzazione, compartimentazione25, informalizzazione26: altrettanti concetti dovuti a George Mosse, Norbert Elias o ai loro allievi e che permettono, mi pare, di ricontestualizzare parossismi e “convivenze”, di precisarne la topografia, l’impianto temporale, l’orientamento vettoriale, i ribaltamenti. Chiariamolo: siamo ben consa22 Pensiamo alla “compartimentazione”, nozione cara ad Abram de Swaan, The Killing Compartments. The Mentality of Mass Murder, Yale University Press, 2015, nozione che abbraccia l’insieme delle pratiche sociali e politiche con le quali per esempio si confinano il parossismo bellico e gran parte delle violenze sociali europee negli spazi coloniali e postcoloniali dal 1945 fino al 1991. 23 E notiamo en passant che la virtualizzazione è un’ulteriore forma, non topografica, di compartimentazione… 24 Per le definizioni di entrambi i concetti cfr. George L. Mosse, Fallen Soldiers, Reshaping the Memory of the World Wars, Clarendon Press, 1990; trad. it. Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, 2007. 25 Per un esame dettagliato, si vedano gli articoli di Stephen Mennel e Cas Wouters in Alain Garrigoux, Bernard Lacroix (a cura di), Norbert Elias, la Politique et l’Histoire, La Découverte, 1997. 26 Cas Wouters, Informalisierung: Norbert Elias’ Zivilisationstheorie und Zivilisationsprozesse im 20. Jahrhundert, Westdeutscher Verlag, 1999.

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pevoli del carattere estremamente rudimentale dell’esposizione qui presentata. Lo scopo, ripetiamolo, non è, per ora, né produrre nuove analisi, né lanciare piste di ricerca, né soprattutto tentare una nuova teoria del sociale, bensì presentare una sorta di catalogo ragionato dei concetti a nostra disposizione per guardare nello stesso movimento la convivenza e il parossismo e illustrare il carattere operativo di questo catalogo. Non appena reperiti e contestualizzati, i due oggetti “parossismo” e “convivenza” ci sfuggono già; occorre dunque isolarli. Trovare l’unità socio-spazio-temporale che permetta di percepirli nella loro individualità, nella loro singolarità; nessuna regola ci permette a priori di isolare queste “unità”, viste un po’ come quell’unità tragica cara alle scienze della letteratura e del teatro. Questo lavoro, probabilmente, sfida l’immaginazione, tanto enormi sono le diversità. Infatti, cosa può esserci in comune tra un concerto degli U2 all’intervallo del Super Bowl del 2002, la pratica di macellazione moderna e l’esecuzione di Ravaillac nel 1610? Niente, se non che essi sono attraversati da momenti parossistici per gli uni; per altri, da una riaffermazione dell’entre-soi, e per altri ancora da un misto di entrambi. Sul piano dei contenuti, non si trovano elementi funzionali o simbolici. L’unico denominatore comune che vi si possa trovare è che sono costituiti da una sequenza temporale, da un luogo, da un’attività umana, da dinamiche simboliche risultanti dalla loro definizione, e infine che essi costituiscono degli artefatti, degli oggetti socialmente costruiti, che ciò sia o meno cosciente. Per comodità, li chiameremo “dispositivi sociali”. Dobbiamo rinunciare a compilarne la tipologia: certo, non tutto è «dispositivo sociale di produzione dell’entre-soi e/o del parossismo», ma l’inventario di questi ultimi è illimitato. Lo scopo del designarli è oggettivarli e renderli comprensibili attraverso l’analisi. Prendiamo l’esempio del concerto degli U2 nell’intervallo del Super Bowl del 3 febbraio del 2002. Il video fa parte del dispositivo sociale, che fissa e mediatizza; l’evento che lo inserisce nel corso regolare della vita della nazione – l’evento televisivo più guardato dell’anno negli Stati Uniti – e le sue particolarità contestuali – l’irruzione evenemenziale immediata all’aggressione dell’11 settembre 2001 –, la scelta artistica operata dal gruppo rock e la scenografia ne sono le altre componenti,

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insieme, ovviamente, alla reazione del pubblico – nello stadio, davanti agli schermi televisivi e sui siti di diffusione del video – e l’atteggiamento del gruppo. L’insieme – artefatto mediatizzato a moltissimi livelli – costituisce dunque un dispositivo il cui carattere sociale non sfugge a nessuno e che è ricco di significato e d’analisi. La folla infatti reagisce in modo evidentemente non verbale – ci si ribatterà che non poteva essere altrimenti, ma comunque sia essa reagisce all’insieme dell’evento proprio attraverso una gestualità della comunicazione e della fusione ineffabile. Leggendo i commenti lasciati dagli utenti di Internet sulla pagina di diffusione del video, si ha l’impressione di un grande parallelo tra l’esperienza di coloro che hanno vissuto l’evento e coloro che ne guardano il video: i commenti, spesso poco verbalizzati, descrivono reazioni di emozione estrema, con persone in lacrime ovunque27. Siamo in presenza di un parossismo bello e buono, e di un parossismo della riaffermazione dell’entre-soi vittima degli attentati dell’11 settembre. Mentre gli U2 eseguivano le ultime due canzoni, su un telo verticale dietro il palco venivano proiettati i nomi dei caduti dell’11 settembre, trasformando la scena in un immenso monumento ai defunti sul tipo delle pratiche che seguirono la Grande Guerra. È proprio la riaffermazione dell’entre-soi della nazione americana a operarsi sia nella canzone – rappresentata come la nazione della libertà e dei diritti civili, con la presenza del testo su Martin Luther King prima di Where the Streets Have No Name, ode al Paese in cui le strade non hanno nome – che nella gestualità del gruppo irlandese, con il cantante Bono che alla fine del pezzo apre il giubbotto per mostrare la fodera interna con la bandiera americana. Insomma, in sintesi, sono la musica, lo stadio, gli astanti, la scenografia, il contesto, la diffusione video, a formare un dispositivo sociale che genera un parossismo della rappresentazione del convivere, trasfigurando il trauma e il lutto. Un artefatto culturale la cui costruzione è assai sofisticata, inserita in un tempo e in uno spazio che ne fanno parte integrante, e che conosce delle riattualizzazioni grazie alla diffusione video. Siamo, con ciò che chiamiamo, in mancanza di meglio, “dispositivi”, in presenza di oggetti che necessitano del ricorso a strumenti concettuali assai diversi, e che non possono essere ridotti a nessuna 27 Video e commenti disponibili su https://bit.ly/44hoUQw.

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forma unica di storia: né soltanto storia culturale, né soltanto storia sociale o politica, questa Erfahrungsgeschichte dei dispositivi sociali dell’entre-soi, dell’ineffabile e del parossismo comporta un approccio necessariamente totalizzante. Cogliere in pieno Lo abbiamo già detto, credo: a tenere unite le pratiche di indagine che abbiamo presentato è la volontà di guardare bene in faccia28 gli oggetti qui circoscritti. Ora però dobbiamo fare l’inventario degli strumenti. E, una volta ancora, siamo in difficoltà nell’indicare le linee direttrici di questi ultimi. Una di esse, non ancora abbastanza esplorata, sarebbe tentare di riflettere nuovamente sulle modalità di adattamento dei concetti freudiani allo sguardo storico. Il tentativo non è semplice: esiste già tutta una biblioteca sulla teoria dei legami tra storia e psicoanalisi e sull’epistemologia di questi legami29. Si potrebbe riempire tutta un’altra biblioteca con i saggi di psicologia storica, come quello di Freud e Bullitt su Wilson30 o i tentativi, secondo me falliti, di Peter Loewenberg sugli anni difficili vissuti dal giovane Himmler31: va da sé che si tratta di studi poco innovativi o interessanti. Noi ci proponiamo tutt’altro, cercando di adattare allo studio dei filtri di cui le società occidentali si servono per elaborare la loro rappresentazione della realtà un certo numero di strumenti sviluppati da Freud. Presentiamoli brevemente: per Freud e alcuni freudiani, la realtà che nella fase originaria giunge dal sistema sensoriale alla psiche 28 Prendo in prestito questa felice espressione da Stéphane Audoin-Rouzeau, Combattre. Une anthropologie historique de la guerre moderne, Seuil, 2008, qui in conclusione. 29 Su tali questioni gli scritti migliori sono ovviamente quelli di Michel de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, 1987; trad. it. Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, 2006. Su tutto ciò, cfr. Henry Rousso, Face au passé, Essai sur la mémoire contemporaine, Belin, 2017, pp. 71‑86. 30 Sigmund Freud, William C. Bullitt, Thomas Woodrow Wilson. Der 28. Präsident der Vereinigten Staaten von Amerika (1913‑1921). Eine psychoanalytische Studie, Psychosozialverlag, 2007. 31 Peter Loewenberg, The unsuccessful adolescence of Heinrich Himmler (1982), in Id., Decoding the Past. The Psychohistorical Approach, Routledge, 1996.

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(che nel corso della terapia si differenzia in tre istanze diverse) può essere “trattata” in due maniere ben distinte32. La prima è l’Einbeziehung ins Ich (letteralmente: ‘l’integrazione nell’ego’); la seconda, l’Ausstoßung, ‘il rigetto’. La prima, quando è affermativa (Bejahung), è una forma di assimilazione accettante. La mente fa entrare dentro di sé lo stimolo o l’esperienza caratterizzata come “gradevole”, con un’operazione simile a una fagocitazione mentale, un’incorporazione, che gli psicoanalisti chiamano introiezione. Quando l’esperienza è negativa, questa incorporazione può avere luogo solo se e perché la mente possiede la facoltà di operare una scissione (Spaltung)33 che le consente di produrre in uno stesso movimento due rappresentazioni diverse di una stessa realtà. Questo meccanismo di scissione è il fondamento della negazione (Verneinung), che permette alla mente di identificare il carattere negativo della rappresentazione, assegnandole simultaneamente un carattere sufficientemente positivo per poterla integrare (meccanismo che è, con la Bejahung, il fondamento della dinamica nevrotica –  o, diciamo, comune  – di adattamento della mente alla realtà che è esterna a essa)34, ma anche il fondamento di quanto chiamiamo la Verleugnung – spesso tradotta in francese con “deni” [e in italiano con ‘rinnegamento’], e che a volte Lacan traduce più felicemente con “démenti” – ‘smentita’, ma il concetto viene tradotto in italiano con ‘rifiuto’ –, che è la giustapposizione da parte della mente di un enunciato e del suo contrario (meccanismo che Freud, e Lacan dietro di lui, identificano come l’operazione fondamentale della perversione)35. 32 Sigmund Freud, Abriss der Psychoanalyse, in Id., Gesammelte Werke (d’ora in poi GW), t. 17, 1925, pp. 63‑140, qui pp. 67‑69; trad. it. Compendio di psicoanalisi. 1938, in Id., Opere Sigmund Freud (d’ora in poi OSF), vol. XI, Boringhieri, 1980. 33 La Spaltung viene definita in Sigmund Freud, Die Ichspaltung im Abwehrvorgang, in GW, tome 17, pp. 59‑62; trad. it. La scissione dell’io nel processo di difesa, in OSF, vol. XI. 34 La Bejahung e la Verneinung vengono definite in uno stesso movimento come le due operazioni psichiche che costituiscono la via nevrotica, in Sigmund Freud, Die Verneinung, in GW, t. 14, 1925, pp. 9‑16; Id., La negazione, in OSF, vol. X. 35 Freud non fa un uso unico del termine Verleugnung: in Die Ichspaltung im Abwehrvorgang (1938), in GW, t. 17, pp. 59‑63 (La scissione dell’io nel processo di difesa, cit.), la situa dal lato della perversione, e in questo caso tradurremmo con “démenti” (‘rifiuto’), seguendo Lacan, mentre in altri contesti, descrivendo la via psicotica, Freud

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Il secondo modo di gestione delle rappresentazioni della mente è dunque l’Ausstoßung (il ‘rigetto, l’espulsione’), di cui Lacan, ispirandosi a Freud, ha affinato il modello, descrivendo un meccanismo battezzato forclusion (Verwerfung), ‘forclusione’, a chiave della sindrome psicotica. Con la forclusione, siamo in presenza di un fenomeno nel quale il soggetto rigetta il significante e l’affetto a esso legato, senza integrarlo inconsciamente o subconsciamente, come avviene nel caso della Verdrängung (la ‘rimozione’), che resta una forma nevrotica d’integrazione della realtà. Il significante e l’affetto, nel caso della forclusione, sono rigettati persino dall’ordine del fantasma e, per il soggetto, non hanno semplicemente alcuna esistenza, né conscia, né inconscia. Questi strumenti, sviluppati dagli specialisti delle scienze della psiche, potrebbero forse rivelarsi preziosi come chiave di comprensione di ciò che i dispositivi sociali, da cui emana il parossismo, producono per i loro protagonisti. È difficile dare un esempio concreto e la riflessione è appena agli inizi, ma ci proviamo. Potremmo allora considerare un certo numero di dispositivi sociali di uccisione – il sacrificio, la macellazione del bestiame, la caccia, l’esecuzione pubblica, la guerra – come generatori – nei protagonisti e negli spettatori – della scissione e della negazione. Lucien Scubla, antropologo dell’identità ebraica e del sacrificio, faceva così un’analisi penetrante dei rituali sacrificali ebrei associandoli al quadro di Magritte intitolato Ceci n’est pas une pipe (‘Questa non è una pipa’), e vedeva dietro tutta l’organizzazione del sacrificio un «ceci n’est pas si serve della stessa parola, e mette la Verleugnung dalla parte dell’Ausstoßung e di ciò che Lacan descrive come la «forclusion» (‘forclusione’) (per un uso della Verleugnung da parte di Freud nella descrizione della via psicotica, si legga Sigmund Freud, Der Realitätsverlust bei Neurose und Psychose [1924], in GW, t. 13, 1924, pp. 364‑365; trad. it. La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi, in OSF, vol. X). Viene da pensare che agli occhi degli psicanalisti esistano nella via psicotica due modalità di rigetto: una, totale, che è la forclusione, e l’altra (quella Verleugnung che Freud classifica come psicosi), che sarebbe l’equivalente psicotico di un diniego, il che potrebbe definirsi come l’iscrizione fantasmatica e allucinata nell’inconscio psicotico della rappresentazione rifiutata e che si chiamerebbe allora negazione. Qui ci sembra che siamo, paradossalmente, praticamente fedeli al lavoro realizzato da Jean Laplanche, Jean-Bernard Pontalis (a cura di), Les Mots de la psychanalyse, PUF, 1990, qui pp. 115‑117, anche se loro affermano di tradurre invariabilmente Verleugnung con “deni” (‘negazione’).

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un meurtre» (‘questo non è un omicidio’)36. Fatto inquietante, Scubla non menziona Freud, che pur conosce a fondo. Eppure, parafrasando una formula cara al compianto Roland Beller, chi esegue un sacrificio dice a se stesso: «Uccido, so che uccido, ma non uccido veramente». Peraltro, il «questo non è un omicidio», lo si riconoscerà facilmente, è anche un «questo è un omicidio». In definitiva, il sacrificio descritto da Scubla produce insieme scissione e negazione alla base del parossismo religioso. Ci proponiamo dunque di descrivere quello che, in tali dispositivi sociali così presenti nella storia del tempo presente – caccia, guerra, esecuzione –, la scissione e la negazione provocano nei protagonisti – boia, sacrificatori, ma anche vittime e spettatori –, permettendo loro di acconsentire a tutto questo. Che cosa impedisce a un condannato che arriva sotto l’ascia del boia di rifiutare di inginocchiarsi e di tendere il collo? Che cosa porta la folla che assiste a una decapitazione a non salvare la vita del condannato scacciando le guardie e il boia? Tra le altre cose, l’interiorizzazione (generata da vari elementi del dispositivo evenemenziale) del fatto che «questo non è un omicidio». In un tutt’altro caso, che cosa permette agli uomini di lavorare nei mattatoi uccidendo tramite scarica elettrica o stordimento bovini, ovini o suini, e di sgozzarli per dissanguarli? Al di là della necessità economica tutta relativa che spinge gli uomini a conservare il loro impiego, l’antropologa Noëlie Vialles ha messo in luce il fatto che, lavorando in coppia (colui che abbatte e colui che dissangua), i macellatori non “sanno” davvero chi dei due uccida veramente l’animale37. Essi uccidono, sanno che uccidono, ma non uccidono veramente: stordiscono senza uccidere e dissanguano ciò che è già inerte. Scissione, provocata dall’organizzazione spaziale della catena del macello, ma anche da quella, personale e binomiale, delle squadre della morte. Lo studio di Lucien Scubla si posiziona a metà fra i due universi concettuali che stiamo per esplorare. Abbiamo appena visto qual è il beneficio che si potrebbe eventualmente trarre dall’uso di certi concetti sviluppati da Freud e dai suoi successori. Ciò non ha nulla di sorprendente: Scubla è perfettamente consapevole del fatto che all’epoca 36 Lucien Scubla, «Ceci n’est pas un meurtre» ou comment le sacrifice contient la violence, in Françoise Héritier (a cura di), De la violence, vol. II, cit. 37 Noëlie Vialles, Le Sang et la Chair, cit.

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di Totem e Tabù o ancora quando Freud scrive il suo Mosè, le due discipline si pensano con uno stesso respiro, con gli stessi strumenti38. Lo studio del sacrificio in Scubla costituisce anche una bellissima dimostrazione delle problematiche dell’antropologia strutturale rappresentata da Françoise Héritier, Alain Testart39, Philippe Descola40, Bertrand Hell41, o Véronique Nahoum-Grappe42. Interessandosi alla formazione di invarianti, dopo avere definito il «classificare opponendo» come operazione universale al centro del pensiero umano, Françoise Héritier ha descritto in qualche rigo illuminante la via di pensiero alla quale ci ispiriamo. Non è superfluo farne una lunga citazione: Esiste uno zoccolo duro delle evidenze elementari, ineludibili, non secabili; che l’uomo ha osservato sin dalle origini e che sono ancora presenti: la differenza sessuale visibile, anatomica e fisiologica, le regolarità cosmologiche, le necessità biologiche e le loro conseguenze: nutrirsi e dunque procurarsi il cibo, accoppiarsi e dunque riprodursi e prendersi cura del prodotto, riposarsi e dormire e dunque assicurarsi di poterlo fare senza timore, morire e dunque fare qualcosa delle spoglie. […] Postulo che dall’osservazione delle grandi alternanze e opposizioni strutturali –  il giorno e la notte o, più vicino al nostro discorso, quella che oppone anatomicamente e fisiologicamente il maschile e il femminile – sia scaturita per l’umanità delle origini (ossia nel corso di millenni), una classificazione primordiale delle cose e degli esseri in funzione della loro identità (medesimità) o della loro differenza. […] 38 Qui Scubla cita Paul Jorion che lo osservava in Reprendre à zéro, in «L’Homme», vol. 26, n. 97‑98, p. 301, citato in Lucien Scubla, «Ceci n’est pas un meurtre» ou comment le sacrifice contient la violence, cit., p. 135. 39 Alain Testart, Essai sur le fondement de la division sexuelle du travail chez les chasseurs-cueilleurs, Éditions de l’EHESS, 1986. 40 Philippe Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, 2005; trad. it. Diversità di natura, diversità di cultura, BookTime, 2011. 41 Bertrand Hell, Le Sang noir, cit.; Id., Entre chien et loup. Faits et dits de chasse dans la France de l’Est, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, 1985. 42 Véronique Nahoum-Grappe, Les usages politiques de la cruauté, in Françoise Héritier (a cura di), De la violence. Séminaire de Françoise Héritier, Odile Jacob, 1996, pp. 273‑323 (opera estremamente prolissa).

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Questa curvatura particolare dello spazio mentale dipende strettamente dalla necessità di classificare opponendo. Essa è nata dalla differenza dei sessi. […] Se è nata dall’osservazione di evidenze corporee elementari, altre necessità (nutrirsi, trovare riparo, dormire, accoppiarsi, morire) sono all’origine di bisogni e affetti che, per esprimersi, si ritrovano presi nel linguaggio del diverso e dell’identico […]. Ne derivano, mi pare, due costanti osservabili antropologicamente nel funzionamento delle società umane, costruite secondo un bisogno, un desiderio, una contentezza specifica di stare tra identici, entre-soi. Questo desiderio-bisogno-contentezza riveste due forme: – l’entre-soi primario della consanguineità e del territorio: essere con i propri cari, i vicini, quelli della stessa stirpe e dello stesso luogo; – e, diversa dalla prima, ma altrettanto vivace e presente, la forma dell’entre-soi del genere… […]43.

Inserendo così il fondamento teorico dell’antropologia strutturale nella questione dell’invarianza, degli zoccoli duri e del lavoro simbolico, attenta alle analisi in termini di circolazione, Françoise Héritier ci dà un certo numero di chiavi che ci rendono attenti ai bisogni elementari, alla filiazione, al genere, al legame sociale, alla sua assenza, alle modalità di costruzione di questi entre-soi, insomma: alcune chiavi che arricchiscono il nostro sguardo allargandolo un po’. Numerosi sono gli storici che hanno preso in mano questo programma e lo hanno applicato in svariati campi. Raphaëlle Branche e Stéphane Audoin-Rouzeau sono esempi tra tanti, che qui non possiamo citare esaustivamente44. Per illustrare questo discorso, potremmo intraprendere una rilettura delle pratiche giudiziarie, armati dei detti strumenti, e formulare, 43 Françoise Héritier, Les matrices de l’intolérance et de la violence, in Ead. (a cura), De la violence, vol. II, cit., pp. 321‑343, qui pp. 323‑325. 44 Ci limitiamo a tre riferimenti, per non sovraccaricare il lettore: Raphaëlle Branche, La Torture et l’armée pendant la guerre d’Algérie. 1954‑1962, Gallimard, 2001; Stéphane Audoin-Rouzeau, Les Armes et la Chair, cit.; Christian Ingrao, Les Chasseurs noirs, cit.

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perlomeno parzialmente, un’antropologia delle pratiche di costruzione dell’entre-soi, attraverso il dispositivo giudiziario, dispositivo sociale che include contemporaneamente la costruzione giuridica, l’attività inquisitoria, il dibattito in tribunale, la sentenza e la sua applicazione. Prendiamo il caso, che conosco abbastanza bene, della applicazione della pena di morte nei territori occupati dalle forze tedesche in Europa dell’Est tra il 1941 e il 1945. Le forze di polizia e di giustizia che vi sono stazionate disponevano di testi normativi che inquadravano almeno in parte le procedure di esecuzione. L’8 luglio 1943, il BdS Ostland e capo della Einsatzgruppe A riceve dall’RSHA45 una circolare del ministero dei Territori occupati concernente «l’applicazione della pena di morte nei territori occupati», progetto di tre pagine dal linguaggio giuridico preciso46. La messa a punto della procedura di esecuzione rivela una profonda riflessione che traccia i contorni di una messa a morte fondata su un dato regolamentare. Essa implica dunque un giudizio preliminare, il che annulla la sua portata nel caso di esecuzioni senza sentenza, le quali – c’è bisogno di dirlo? – costituiscono la stragrande maggioranza dei casi47. A eccezione di probabilmente meno dello 0,1% dei casi di esecuzione da noi presi in considerazione, non possiamo non chiederci quale fosse la sua funzione. Illusoria e ambigua stilla di diritto in un mare di arbitrarietà? Oppure, anche e soprattutto paziente lavoro di elaborazione di un dispositivo sociale di scissione e di negazione di quel parossismo che è la morte data, indizio del lavoro simbolico effettuato dalla società e dallo Stato nazisti confrontati all’inflizione della morte di massa. Questo testo ci dà dunque informazioni su quanto di procedura sopravvive nell’esecuzione, ma va oltre: reintegrando, perlomeno sul piano testuale, la messa a morte in seno al diritto nazista, esso opera 45 L’Ostland è una circoscrizione di occupazione nazista che raggruppa gli Stati baltici e il Nord della Bielorussia. 46 Progetto di circolare RMfdbO (ministero dei Territori occupati), non datato, con lettera di accompagno del 7/7/1943, BABL, R-58/3568, ff. 10‑13. 47 La regione interessata è stato il teatro di immense esecuzioni di popolazioni ebraiche tra l’agosto del 1941 e l’estate del 1943. Essa è caratterizzata da un genocidio precoce e quasi esaustivo. Cfr. Raul Hilberg, The Destruction of European Jews, 2 voll., Quadrangle Books, 1961; trad. it. La distruzione degli ebrei d’Europa, 2 voll., Mondadori, 2011.

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quello che operano tutti i testi che regolano l’esecuzione, il sacrificio e i dispositivi di cui parlavamo poco fa; ci dice dunque che, per i grandi autori di genocidi che sono gli uomini delle Einsatzgruppen, «questo non è un omicidio». Sebbene non riguardi dunque che un’infima parte delle esecuzioni, questa circolare può tuttavia essere considerata anche come il fondamento di una finzione normalizzatrice, finzione che, grazie alla presenza del medico, dell’interprete (se il condannato non è germanofono)48, della presa di coscienza da parte del condannato della decisione della sua esecuzione49, delinea un universo che derealizza/addomestica il parossismo generato quasi invariabilmente dalla messa a morte. Questo prospetto potrebbe benissimo figurare come prova della doppiezza delle istituzioni naziste, se da questo testo troppo trasparente, troppo artificiale, non emergessero due elementi. Il primo concerne i modi di esecuzione previsti dalla circolare. Sono due: la fucilazione e l’impiccagione. Se il modo di esecuzione tradizionale dei territori in questione deve essere preservato, i tedeschi del Reich e i Volksdeutsch possono essere uccisi soltanto tramite fucilazione. Secondo elemento fondamentale: l’esecutore deve essere scelto con cura in funzione della nazionalità della vittima. Nel caso di cittadini tedeschi, la questione non si pone: poiché essi non possono esseri impiccati, saranno fucilati da plotoni di poliziotti. Questa prima prescrizione assoluta è abbinata a una seconda impossibilità: quella, per un tedesco in uniforme, di effettuare un’impiccagione. Questo secondo divieto non è formulato in modo esplicito. Semplicemente, non è previsto. Si tratta di una proibizione sociale assoluta? Un secondo testo normativo permette di apportare un elemento di risposta, offrendo al tempo stesso un’immagine ben diversa della morte somministrata “legalmente”. Apparentemente, questo secondo testo50 si riferisce a tutte le esecuzioni, e non solo quelle che hanno luogo dopo giudizio regolare51. Esso configura tutti i casi possibili di esecuzione per impiccagione, supplizio che, nei campi di concentramento, può 48 BABL, R-58/3568, 4, f. 11. 49 Ivi, 6, f. 12. 50 R SHA IV D 2, 6/1/1943, firmata Himmler, BABL, R-58/3568, ff. 15‑20. 51 Concerne dunque tanto gli uffici di polizia dei territori occupati che gli uffici locali della SIPO/SD nel Reich.

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essere applicato anche a detenuti di nazionalità tedesca. Il divieto è allora formulato in modo esplicito e puntuale: l’impiccagione non può essere inflitta da un tedesco in uniforme. Essa deve essere eseguita da un detenuto. Dunque, un tedesco “libero”, ossia non detenuto, non può essere impiccato; un tedesco “libero” non può impiccare. È allora proprio il modo di esecuzione stesso che, per il legislatore, è portatore di infamia, sia esso subito o inflitto; e che segna per lui, per la vittima e per il suo esecutore, il limite dell’entre-soi razzializzato nazista. I meccanismi dell’onta procurata dalla forca e dalla corda sono difficilmente percepibili, tanto più che sappiamo che l’impiccagione è stata abbondantemente utilizzata52. Tentiamo malgrado tutto di tracciare qualche pista che possa chiarire questo non detto. La fucilazione è operata da plotoni militarizzati che ricevono l’ordine di sparare contemporaneamente. Peraltro, questa procedura, caratterizzata da un preciso codice, costituisce una modalità di uccisione collettiva: il testo prevede infatti che i tiratori siano almeno sei. Sembra quindi una messinscena della potenza militare e della sua dimensione punitiva. La proibizione dell’impiccagione è forse dunque un tabù legato alla condizione militare e paramilitare, la quale comporterebbe un’uccisione collettiva su ordine. Ma vi è forse un secondo tabù, mai espresso: fucilazione e impiccagione si oppongono infatti nella misura in cui l’impiccagione, che uccide provocando strangolamento o frattura delle vertebre cervicali, non comporta l’attraversamento della barriera corporale e lo scorrimento del sangue. Ora, il militare esercita la violenza unicamente attraversando questa barriera, qualsiasi sia l’arma con cui opera – con la notevole eccezione del gas53. Alain Testart54 ha mostrato il tabù che grava sull’utilizzo da parte delle donne di strumenti desti52 L’impiccagione fu un modo di esecuzione minoritario ma cospicuo negli anni 1944-1945 in Germania, persino nelle città, e la maggior parte dei condannati in seguito al complotto del 20 luglio 1944 fu impiccata; nei territori occupati, l’impiccagione fu intensamente utilizzata e se n’è tentata un’analisi antropologica in Christian Ingrao, Croire et détruire, cit. 53 A tal proposito, si leggano le analisi di Stéphane Audoin-Rouzeau, in Les Armes et la Chair, cit. 54 Alain Testart, Essai sur le fondement de la division sexuelle du travail chez les chasseurs-cueilleurs, cit.; cfr. anche Noëlie Vialles, Le Sang et la Chair, cit., pp. 119‑120.

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nati a versare il sangue55. Per opposizione strutturale, il guerriero, e più in generale l’uomo che fa versare volontariamente il sangue del nemico e il proprio, si oppone quasi universalmente alla donna che versa involontariamente il suo sangue per dare la vita. Emerge così una struttura antropologica bipolare condizionata dalla morte con effusione di sangue. L’uccisione militare esigerebbe dunque questa effusione di sangue, contrariamente a una morte data e ricevuta nell’infamia, una morte che può concernere soltanto categorie socialmente o razzialmente inferiori, allogene all’entre-soi nazista. Qui starebbe il fondamento di una vera e propria gerarchia nazista delle pene, dei boia e delle vittime, ampiamente condizionata da un tabù che rifletterebbe l’ordine sociale e razziale implicitamente riaffermato da questi testi che escludono, per meglio risignificare, l’entre-soi nazista. In fin dei conti, da questo breve studio emergono due fatti importanti: da una parte, l’esecuzione formalizzata costituisce, sì, un dispositivo sociale di scissione che produce una negazione che “funziona” sugli attori che la operano e genera il consenso all’uccisione, col pretesto che “questo non è un omicidio”. Dall’altra, pur escludendo in ogni caso il suppliziato dalla comunità dei vivi (comunità di cui nulla ci dice che abbia un’esistenza per i nazisti), il dispositivo di messa a morte, nella misura in cui produce un complesso intreccio di tabù e di configurazioni, genera una gerarchia e riafferma alcune forme dell’entre-soi. Il parossismo inquadrato nel dispositivo sociale produce così un entre-soi, nella fattispecie razzializzato. Si vede bene dunque il vantaggio che si può trarre dall’incrocio e dalla combinazione di due serie di strumenti concettuali qui brevemente presentati. Ci resta tuttavia da esplorare un’ultima serie di strumenti che ci sono forse più familiari, ma che si lasciano più difficilmente racchiudere in una disciplina originaria. Siamo ormai in molti a fare riferimento ai lavori di illustri predecessori, storici e antropologi, che lavorano essenzialmente sull’epoca medievale e moderna, e che, di fronte ai problemi posti dai loro rispettivi campi, hanno sviluppato concetti di cui si sono poi appropriati gli storici del tempo presente. Anche in questo caso, niente di tanto nuovo, certo, ma non è privo di 55 Françoise Héritier, Le sang des guerriers et le sang des femmes. Notes anthropologiques sur le rapport des sexes, in Ead., L’Africaine. Sexes et signes, in «Cahiers du GRIF», n. 29, 1984, p. 21.

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interesse farne un giro di orizzonte, tanto il loro apporto è stato seminale e resta promettente. Infatti, sono stati proprio Alphonse Dupront, Pierre Chaunu e Denis Crouzet ad aver fatto progredire in maniera tanto decisiva quella che il primo di loro definì un’«antropologia del credere»56, offrendone più che uno schizzo nel suo monumentale Mythe de croisade (Mito della crociata). Ciò che ha fatto Dupront, ai nostri occhi, è stata una sorta di rivoluzione storiografica che poneva gli attori individuali e collettivi, le loro credenze e le loro pratiche, al centro dell’indagine, e affrontava gli affetti che queste ultime generavano57. Per quanto ne sappiamo (poco, lo ammettiamo), è il primo storico del panico religioso58, dell’angoscia della fine del mondo – spesso menzionata, ma mai veramente trattata prima di lui –, dell’ineffabile e dell’Avvento. Con Alphonse Dupront, Pierre Chaunu e, molto più vicino a noi, Denis Crouzet, a essere oggettivate sono le emozioni più intense, quelle che fanno da corollario a ciò che riassumiamo oggi sotto la categoria di parossismo. Mostrando il percorso interiore dei cristiani in viaggio per la Terra Santa, raccontando ciò che vi era di imitatio nel pellegrinaggio, sot56 Alphonse Dupront, Anthropologie religieuse, in Pierre Nora, Jacques Le Goff (a cura di), Faire de l’histoire, Gallimard, 1974, qui tomo 2; trad. it. Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, Einaudi, 1981. 57 Alphonse Dupront, Du Sacré. Croisades et pèlerinages. Images et langages sur la chrétienté et l’idée de croisade, Gallimard, 1987; trad. it. Crociate e pellegrinaggi, Bollati Boringhieri, 2006; Paul Alphandéry, Alphonse Dupront, La Chrétienté et l’idée de croisade, Albin Michel, 1995; trad. it. La cristianità e l’idea di crociata, il Mulino, 1974; e soprattutto Alphonse Dupront, Le Mythe de croisade, cit.: gli ultimi capitoli del terzo volume sono una vera e propria storia del tempo presente armata del paradigma delle Crociate. 58 Ed è, ci sembra, la ragione che ci ha portati a volgerci a lui piuttosto che a Michel de Certeau, anch’egli antropologo delle credenze in epoca moderna, paradossalmente più freudiano di Dupront che si appoggiava spesso su Jung, ma storico del corso ordinario delle cose e, quale seguace di Foucault in questo caso, del dominio delle élite sulle masse e delle strategie di resistenza di queste ultime; rimasto storico dunque, contrariamente a Dupront che gli consacrò tutta la vita, al di fuori dello studio del parossismo religioso, con la notevole eccezione del suo studio sulla possessione di Loudun… Si noterà che la presentazione di Christian Delacroix, François Dosse, Patrick Garcia, Les Courants historiques en France XIXe-XXe siècles, Gallimard, 2005, qui pp. 468‑472, li giustappone senza evidenziare una vera convergenza.

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tolineando il desiderio di morte e la folle speranza della Salvezza, Alphonse Dupront inventò letteralmente un nuovo linguaggio storico. Reinserendo le inquietudini religiose in un contesto mentale multisecolare, Denis Crouzet riprese il progetto su una lunga sequenza introdotta dalla grande indagine portata avanti da Chaunu59, servendosi degli strumenti di Dupront per rileggere la crisi di violenza parossistica – usa lui il termine – che la Francia conosce a partire dal 1520 e fino al 161060. Vi aggiunse una seconda innovazione rivoluzionaria, postulando due cose: da un lato, che la violenza era un sistema significante culturalmente codificato, funzionante come un linguaggio, condizionato da un sistema di rappresentazioni e da un immaginario che rendeva possibile le pratiche sociali; dall’altro, che questi sistemi di rappresentazione e questi immaginari costituivano una risposta collettiva disangosciante all’esperienza parossistica della morte di massa sperimentata a partire dal 1348. L’introduzione di questi strumenti, accanto a quelli dell’antropologia sociale, in ambito contemporaneo non è inedita ed è ormai testata su campi relativamente numerosi, come testimoniano i libri di Raphaëlle Branche sulla tortura in Algeria o sull’imboscata di Djerrah/Palestro61, gli studi di Véronique Nahoum-Grappe ed Élisabeth Claverie sulla guerra in Jugoslavia o sui pellegrinaggi mariani contemporanei62, la bella tesi di Hervé Mazurel, benché quest’ultima non riguardi la storia del tempo presente63. Essa ci porta a centrare in pieno il parossismo e, infine, a contemplare i margini per prenderne le misure.

59 Impossibile citare qui tutti i libri consacrati da Pierre Chaunu alla questione religiosa tra il 1348 et il XVII secolo. Ci limitiamo a menzionare la sua bellissima sintesi Église, culture et société: Essais sur Réforme et Contre-réforme, 1517-1620, SEDES, 1981, e in particolare il capitolo consacrato alla memoria del 1517. 60 Denis Crouzet, Les Guerriers de Dieu, cit. 61 Raphaëlle Branche, L’Embuscade de Palestro, Algérie, 1956, Armand Colin, 2010. 62 Élisabeth Claverie, Les Guerres de la Vierge. Une anthropologie des apparitions, Gallimard, 2003. 63 Hervé Mazurel, Désirs de guerre et rêves d’ailleurs. La Croisade philhellène des volontaires de la guerre d’indépendance grecque (1821‑1830), tesi dattiloscritta discussa alla Sorbonne, a cura di Alain Corbin, il 13 giugno 2009, poi pubblicata con il titolo Vertiges de la guerre: Byron, les philhellènes et le mirage grec, Les Belles Lettres, 2013.

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Porsi ai margini Per finire, dobbiamo osservare ciò che procede dai limiti dei nostri oggetti e da ciò che questi limiti generano. E può sembrare paradossale sperare che l’articolazione tra i nostri due concetti possa operarsi dall’osservazione di questi margini. Ciò non toglie che uno degli obiettivi mal confessati di quest’ultima parte stia nel tentare di esplorare i limiti dei nostri due concetti e di comprendere contemporaneamente come potrebbero interagire. L’operazione che ci proponiamo consiste in primo luogo nel cercare di concentrarci sui margini temporali del parossismo, nel tentare di sequenziarlo. E il primo piano di sequenziamento ci conduce rapidamente a mettere in luce le transizioni che, quando concernono sequenze di violenza e/o sono dell’ordine delle pratiche, possono in certi casi essere designate anche come passaggi all’atto (acting out). Questo è un oggetto che, nella mia pratica storica personale, riveste un’importanza capitale. Nella storia delle Einsatzgruppen, o in quella delle unità di lotta contro i partigiani, si assiste paradossalmente alla brusca trasformazione, lungo una serie di transizioni, di uomini che non hanno mai ucciso in operazioni di sterminio. E si possono cogliere queste dinamiche prendendo in esame l’esempio più volte citato, benché in modo diverso, da Christian Gerlach e da me stesso, di Walter Mattner, giovane ufficiale di polizia austriaco che non partecipò a quella fase di superamento dei limiti che porta alla violenza genocida. Nell’autunno del 1941 fu nominato responsabile della polizia di Mogilëv (Mahilëv in bielorusso), dove giunse nel momento stesso in cui furono operate le prime fucilazioni massive di comunità ebraiche. Non avendo mai sparato prima, mai ucciso prima, Walter Mattner raccontava così alla moglie il modo in cui aveva vissuto il suo primo massacro, quello dei 2.300 ebrei del ghetto della città: Ho dunque partecipato anch’io al grande massacro (Massensterben) dell’altro ieri. Ai primi veicoli [che avrebbero portato le vittime], mi ha tremato la mano al momento di sparare, ma ci si abitua. Al decimo [veicolo], miravo con calma e sparavo in modo sicuro su donne, bambini e lattanti. Avevo in mente il fatto di avere an-

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ch’io a casa dei lattanti, con i quali queste orde avrebbero agito esattamente nello stesso modo se non dieci volte peggio. Abbiamo somministrato loro una morte dolce e rapida (kurz), se la compariamo alle infernali torture [subite da] migliaia e migliaia [di persone] nelle galere del KGB. I lattanti volavano in cielo in grandi archi di cerchio e noi li abbattevamo64 al volo, prima che cadessero nella fossa e nell’acqua. Bisogna farla finita con queste bestie che hanno gettato l’Europa nella guerra […]65.

Malgrado la loro assurdità, queste parole destinate a un ambito strettamente familiare svelano in realtà ciò che, in ultima istanza, costituiva il nucleo del consenso al genocidio e alla sua violenza trasgressiva per gli uccisori. La brutalità singolare con cui il poliziotto viennese esprimeva la violenza che lo animava rivela probabilmente quella che fu una delle molle più efficaci del consenso degli uccisori al genocidio: l’angoscia della scomparsa collettiva, il sentimento di essere impegnati in una lotta che aveva come posta in gioco la sopravvivenza biologica della “razza”. Detto ciò, l’interesse di questa fonte non sta solo nel fatto che ci rivela dei contenuti del consenso omicida, per quanto nettamente esposto. No: ad apparire qui con grande chiarezza è proprio l’esperienza del passaggio alla gestualità omicida, la precisione estrema con cui colui che è diventato un uccisore ci descrive il passaggio all’atto in termini tanto psichici quanto corporei. Con questo tipo di testo, lo storico del tempo presente si fa antropologo del “passaggio all’atto” e della “transizione”: ne capisce le spinte, i meccanismi e i contenuti. Resta però il fatto che non tutte le transizioni sono passaggi all’atto. E per illustrarlo, mi trovo costretto a passare per una fonte fotografica e ad avvicinarmi ancora di più alla definizione originale del parossismo: Grégoire Korganow ha pubblicato, per i tipi di Le Clou dans le fer, un libro magnifico e scottante intitolato J’étais mort (Ero morto). Korganow ha seguito per un anno una squadra di soccorritori nei loro interventi. E quello che appare qui sotto i nostri occhi è proprio tutto il parossismo delle società occidentali libere dalla violenza bellica, ivi 64 La mia traduzione edulcora l’espressione originale «abknallen»: ‘far esplodere, scoppiare’. 65 Lettera di Walter Mattner del 5/10/1941 IfZ, Fb/104/1, non impaginata, citata in Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit., pp. 588‑589.

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compresi i processi di passaggio. Infatti, l’autore ci dà qui una traccia dell’accesso al parossismo sia di coloro che vedono il loro mondo crollare bruscamente, sia di coloro che hanno fatto del salvataggio e della rianimazione il loro mestiere, e affrontano quella che è la clinica del parossismo, per subirne talvolta in prima persona l’effrazione: ed è così che la fibrillazione ventricolare, l’incidente automobilistico, il suicidio appaiono sotto i nostri occhi, quali oggetti della storia del tempo presente, benché nessuno di noi, credo, sia ancora in grado di coglierli veramente. Rivelatrice della realtà delle società occidentali, quest’opera, finestra sull’attività di quegli uomini e di quelle donne, è anche una traccia interessante della circolazione del parossismo, stavo per dire addirittura del suo contagio. E vorrei tentare di darne un esempio citando uno dei testi, anche se questo libro è soprattutto un magnifico oggetto fotografico. Una giovane donna corre verso il veicolo della Croce Rossa. È in lacrime. Fate presto! In fondo al corridoio c’è una donna stesa per terra. […] Nicolas s’inginocchia e comincia un massaggio cardiaco […] Trenta minuti da che siamo arrivati. Ancora niente. Nicolas e Sylvie si guardano. «Vado a parlare con la figlia. Continuate il massaggio a mano» dice con calma Nicolas. […] Un giovanotto arriva, senza fiato. «È finita» gli dice la sorella. Lui scoppia a piangere. Lei lo abbraccia. Restano stretti uno all’altro. A lungo66.

Contagio del passaggio che si opera attraverso l’annuncio, qui: dal medico, “portatore sano” (in questo caso) del parossismo, alla sorella, poi dalla sorella al fratello. Questo momento dell’annuncio, Stéphane Audoin-Rouzeau l’aveva già tematizzato nei suoi Cinq deuils de guerre (Cinque lutti di guerra)67. Qui lo si vede all’opera, benché quel parossismo che è il tuffo nel lutto appaia qui annidato nel corso ordinario 66 Grégoire Korganow, J’étais mort, Éditions du Clou dans le fer, 2010, qui pp. 24‑25. 67 Stéphane Audoin-Rouzeau, Cinq deuils de guerre 1914‑1918, cit.

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di una società in pace. Si sarà notato quanto sia utile a tal proposito il vocabolario della clinica del trauma, e l’apporto della psichiatria – niente di nuovo, certo: lavoriamo con gli psichiatri da almeno vent’anni68. Ed è proprio questo a darci i mezzi per analizzare quello che il parossismo opera sugli attori che lo sperimentano, e di mettere in luce un’altra sua modalità di emersione: Le due del pomeriggio. Gonesse. Partiamo su chiamata per una donna senza conoscenza, non ne so altro, dice Dominique, il medico di guardia. “Partire su chiamata” significa che sul posto non c’è ancora alcun soccorso. A dare l’allerta sono degli inquilini in una periferia di Villiers-le-Bel. Da tre giorni non hanno notizie della vicina ottantacinquenne. I pompieri bussano alla porta, non risponde nessuno, la sfondano. L’appartamento è al piano terra. Un monolocale minuscolo. […] L’anziana indossa una camicia da notte. Giace ai piedi del letto. Morta probabilmente da diversi giorni. Dominique esamina il corpo irrigidito alla luce dell’unica lampada funzionante. I pompieri sistemano la defunta sulla barella. Chiudono le ante. «C’è puzza di morte» dice Sébastien, uno di loro. «È triste morire così. L’estate della canicule, trovavamo persone anziane morte da sole in casa due o tre volte al giorno. Talvolta da varie settimane. Era l’odore ad allertare i vicini» continua, commosso69.

L’enunciato di questo giovane pompiere marca l’esperienza del parossismo: appaiono chiaramente l’emozione, l’uso dei campi semantici del sensoriale –  come nel testo di Brasillach. Epperò questa morte non ha niente di parossistico. Morte probabilmente naturale, di vec68 Due articoli testimoniano di questo lavoro, uno sulla clinica del trauma dei sopravvissuti dei campi di concentramento, scritto da Jean-Marc Berthommet, l’altro sul trauma psichico da combattimento, scritto dal dottor Yves Le Bigot, in Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, Christian Ingrao, Henry Rousso (a cura di), La Violence de guerre, cit. 69 Grégoire Korganow, J’étais mort, cit., p. 92.

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chiaia, conforme certo – in tutta la sua specificità occidentale, tuttavia, e questo fa parte dell’oggetto  – al corso delle cose quale l’umanità l’ha interiorizzato sin dal Musteriano, essa costituisce tuttavia paradossalmente un punto di accesso specifico che è dell’ordine, non del passaggio al parossismo, ma della reviviscenza, della riattualizzazione di un parossismo anteriore – visibilmente un’esperienza olfattiva traumatica – e interviene senza irruzione, ma non senza effrazione, forse, nella mente del giovane pompiere. Ovviamente siamo lungi dall’esaurire con queste poche osservazioni quello che la ricerca e l’osservazione delle transizioni e delle riattualizzazioni possono illustrare e qui non abbiamo fatto altro che abbozzare qualche analisi. Dovremmo peraltro portare questo stesso sguardo sull’uscita dal parossismo, operazione ormai tradizionale nelle nostre pratiche, in particolare in termini di «uscita dalla guerra», o di «transizione»70, e ho dunque deliberatamente deciso di non insistere su questo punto del sequenziamento. Conosco tuttavia il prezzo cognitivo che dovremo pagare limitandoci a sorvolare quell’ambito così ricco che è il punto di uscita – o di mancata uscita – dal parossismo di una società, di un gruppo sociale, di un individuo. Vi perderemo in particolare quel fenomeno che fa sì che gli attori colpiti dal parossismo traumatico usino tutti i mezzi possibili per riattivare o attivare i legami da esso strappati. Nella sua biografia di Ali Boumendjel, per esempio, Malika Rahal fornisce un buon esempio di questo meccanismo. Quando Ali Boumendjel, avvocato algerino vicino all’UDMA e poi al FLN71, scompare il 9 febbraio 1957, Malika Rahal ha i mezzi documentari per ricostruire l’itinerario che porta alla sua defenestrazione il 3 marzo dello stesso anno, appoggiandosi su interviste, in particolare con i membri della famiglia Boumendjel, come Djamel Amrani. E, sin dal primo paragrafo di questo capitolo, spunta il parossismo: «L’uomo 70 Ci siamo occupati e continuiamo a occuparci della questione delle transizioni democratiche e dell’uscita dalla guerra, di cui Stéphane Audoin-Rouzeau, Christophe Prochasson, Bruno Cabanes, Guillaume Piketty hanno dato brillanti illustrazioni. Cfr. Stéphane Audoin-Rouzeau, Christophe Prochasson (a cura di), Sortir de la Grande Guerre, le monde et l’après-1918, Tallandier, 2008; Guillaume Piketty, Bruno Cabanes (a cura di), Retour à l’intime. Au sortir de la guerre, Tallandier, 2009. 71 Rispettivamente Union démocratique du manifeste algérien e Front de libération nationale.

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era nervosissimo» scrive Malika Rahal «alla sola menzione del cognato Ali, ebbe un groppo in gola»72. Parossismo semplicemente menzionato di passaggio, perché le righe successive fanno l’anatomia delle logiche inquisitorie che i seviziatori sembrano mettere in atto. “Sembrano”? Sì. Perché quello che conta ai loro occhi non è indagare, ma conformare la società che si vuole sottomettere all’immagine che di essa ci si fa… Ma torniamo alla nostra questione: che cosa ha provocato in Djamel Amrani uno sconvolgimento tale da far sì che questo poeta, particolarmente espressivo, resti incapace, a quasi quarant’anni di distanza, di esprimersi su quella storia? Ci si consenta di formulare l’ipotesi che sia stata proprio la scomparsa di Ali – ed è del resto su questa che prosegue, con logiche inquisitorie, l’indagine di Malika Rahal: il suo studio mostra quanto la sparizione delle vittime, la loro sospensione antropologica tra il morto e il vivo, costituisca un colpo fondamentale, teratologico, per coloro che sono nell’al di qua, ossia per tutta la società algerina. Quello che conta, qui, è, dal punto di vista degli attori francesi, rifare la guerra sul corpo che torturano – e finire col vincerla, probabilmente –, ma è anche produrre un effetto di sgomento collettivo – che lo si chiami “silenzio” o “sbigottimento”, non cambia molto le cose, credo – su coloro che sono legati alla persona che si tortura. Il valore di questo lavoro è darci lumi sulla performatività di questo meccanismo. Ed è qui che la questione della rivascolarizzazione sociale prende tutta la sua dimensione. Analizzando quello che chiama il caso Boumendjel, Malika Rahal mostra che le persone vicine all’avvocato utilizzano o riutilizzano tutte le reti di socializzazione possibili per tentare innanzitutto di salvarlo e, in secondo luogo, per accompagnare il lutto e trasformarlo in militanza. Lo sbigottimento o il silenzio attonito fanno posto molto rapidamente a pratiche di utilizzazione di queste reti che sono analizzabili in termini di reazione infiammatoria, dice la storica. Io avrei usato piuttosto il vocabolario della chirurgia traumatologica e dell’oncologia, per descrivere quel fenomeno d’inflazione metastatica della comunicazione in termini di vascolarizzazione o di rivascolarizzazione che succedono allo strappo, alla derelizione provo72 Malika Rahal, Ali Boumendjel, une affaire française, une histoire algérienne, Les Belles Lettres, 2010, p. 189.

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cati dal rapimento e dall’annuncio della morte dell’avvocato. E la pratica epistolare di Ahmed, il fratello di Ali Boumendjel, mi sembra dirne molto. Tra le lettere che riceve e quelle che invia, si scoprono non solo le strategie di un attore ma le reazioni di tutta una ramificazione sociale. Sono la lettera di Jean Daniel citata da Malika Rahal, come quella che Ahmed Boumendjel scrive al presidente Coty73, a rivelarci come gli attori abbiano sperimentato il vuoto, lo strappo, in cosa la pratica della scomparsa e della tortura “performino” effettivamente la derelizione; in cosa entrambe minino la base del legame sociale, ma anche come, al di là dello sbigottimento e dello strazio, gli attori provino a reinventare, a riattualizzare il legame sociale, tentino, se non di cicatrizzarlo, perlomeno di rivascolarizzarlo. Vediamo effettivamente giustapposti nella stessa analisi – ma non negli stessi documenti – la pratica di coloro che operano la violenza, ciò che essa provoca nelle vittime e la loro reazione. Ed è proprio il lavoro di Malika Rahal in questo ambito che ci spinge, per terminare, a interrogarci sui legami operativi fra l’entre-soi e il parossismo. Tale questione, l’ultima che ci poniamo in questo capitolo, è probabilmente la più temibile di tutte, perché ci riporta brutalmente ai due strumenti che abbiamo scelto: l’entre-soi e il parossismo, e la difficile questione dei loro rapporti. Ora dobbiamo tentare di formalizzare questa articolazione. Mi sembra impossibile pensare in modo compiuto le diverse possibilità di articolazione. La questione della transitività o della commutatività – quale dei due strumenti si articola sull’altro?  –, quella della declinazione dei diversi impatti che l’uno opera sull’altro, mi sembrano entrambe letteralmente impossibili da pensare. Proviamoci lo stesso… Si sarà notato in più contesti che il parossismo è un operatore de l’entre-soi: la pena di morte presso i nazisti riafferma la norma razziale eliminando un individuo considerato come deviante. Il dispositivo sociale creato dagli U2 al Super Bowl, innegabile parossismo musicale per i protagonisti, mette in scena un’America da sogno, ma insieme anche un’America in lutto a causa dell’11 settembre; non si possono analizzare anche le cerimonie funebri che tutti noi abbiamo vissuto come un momento di (ri)affermazione fusionale di un entre-soi 73 Ivi, pp. 241‑248 e 247‑248.

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composto dalla famiglia e dalle varie parentele elettive del defunto? Ma quest’ultimo caso ci porta immediatamente al primo problema da porre. Dove sta il parossismo: nel decesso o nell’istante fusionale creato dall’afflizione? Se il parossismo è nel decesso, esso sembra allora creare un entre-soi attraverso la cerimonia. In questo caso, comunità di lutto, entre-soi di combattenti così difficili da cogliere per gli storici, ma magnificamente dipinti dalle serie americane Band of Brothers (Fratelli al Fronte) e The Pacific, entre-soi nazionali – penso qui, immediatamente, alla Serbia e all’Algeria, ma ci sono altri casi – non sono forse generati dal parossismo? Negli ultimi due casi citati, il parossismo crea l’entre-soi. Farsi la domanda inversa, ossia quale sia il ruolo dell’entre-soi nella “produzione” del parossismo, comporta l’interrogarsi sulle condizioni di possibilità di quest’ultimo. Questa questione ci è familiare, ne testimoniano i lavori sull’epurazione etnica operata tra il 1944 e il 1948 ai confini tra l’Ucraina occidentale e la Polonia, o quelli sulla guerra in Jugoslavia74. Il confronto di entre-soi così discordi genera parossismi strazianti di cui abbiamo già, se non padroneggiato i meccanismi, perlomeno preso le misure – quello che avevo chiamato qualche anno fa «guerre dell’entre-soi»75, parlando dello scontro proteiforme tra tedeschi, Volksdeutsch, ucraini nazionalisti e comunisti, polacchi nel distretto di Zamość76. In gran parte 74 Élisabeth Claverie, Les Guerres de la Vierge, cit.; Véronique Nahoum-Grappe, Les usages politiques de la cruauté, cit.; cfr. anche Keith Lowe, L’Europe barbare 1945‑1950, Perrin, 2013; ed. originale Savage Continent: Europe in the Aftermath of World War II, Macmillan, 2012; trad. it. Il continente selvaggio: l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Laterza, 2015. 75 Ne ho descritto il meccanismo in Nicolas Beaupré, Caroline Moine (a cura di), L’Europe de Versailles à Maastricht, Visions, moments et acteurs des projets européens, Séli Arslan, 2007, p. 88. Mi permetto di rinviare a Christian Ingrao, La Promesse de l’Est, cit., ultimo capitolo. 76 In tedesco, si legga in primo luogo la documentazione primaria in Czeslaw Madajczyk (a cura di), Vom Generalplan Ost zum Generalsiedlungsplan, Veröffentlichung der Historischen Kommission zu Berlin, Band 80, Saur Verlag, 1994; Götz Aly, Suzan Heim, Vordenker der Vernichtung. Auschwitz und die deutschen Pläne für eine neue europäiche Ordnung, Fischer, 1991, quest’ultimo tradotto in francese nel 2006, anche se quello più stimolante resta Cornelia Essner, Édouard Conte, La Quête de la race, cit.; Czeslaw Madajczyk, Zamojszczyzna-Sonderlaboratorium SS, cit. E più in generale gli articoli di Catherine Gousseff, Des migrations de sorties de guerre qui reconfigurent la frontière: ouverture et refermeture de l’URSS avant la guerre froide,

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scatenati dai tedeschi, dalle loro politiche genocide e dagli immensi trasferimenti di popolazione che erano i preliminari della germanizzazione, questi «fuochi dell’odio», che abbiamo affrontato nel primo capitolo, perdurarono fino alla stabilizzazione delle frontiere e alla ripresa di controllo dei territori da parte delle democrazie popolari, negli anni 1946-48 per Zamość77. Lo studio di questi parossismi ci è ben noto, fa parte integrante del nostro presente e del nostro futuro scientifico. Ma l’entre-soi produce altri parossismi e questo senza divisione né esclusione; si riafferma, si riattualizza in alcuni casi. E per finire farò un ultimo esempio: un concerto del gruppo serbo Bijelo Dugme all’ippodromo di Belgrado, nel 2005, davanti a 200.000 persone78. Nel corso del concerto, il gruppo intona Djurdjevdan (Il giorno di san Giorgio), e 400.000 polmoni si mettono a scandire le parole di questo canto tradizionale che tutti gli slavi e gli zingari balcanici intonano il giorno della festa di san Giorgio. Parossismo di emozione per queste 200.000 persone79, questa sequenza è generata da un entre-soi di cui ci risulta difficile precisare il contenuto: si tratta di un entre-soi nazionale serbo, di un entre-soi jugoslavo fusionale perduto (“Djurdjevdan” è una parola serba; l’equivalente serbo e bosniaco è “Djurdjevo”), o semplicemente di un entre-soi religioso cristiano e/o balcanico – la canzone nota in Occidente nella versione in lingua romaní, Ederlezi, immortalata nel film Il tempo dei gitani di Emir Kusturica80? Non si può rispondere a questa domanda senza un’indagine accurata. Ma è tutto un settore di ricerca che sembra aprirsi qui. A questo esempio possiamo probabilmente opporre almeno una critica, concernente il tropismo alla guerra e/o alla violenza. Non è in Sophie Cœuré, Sabine Dullin (a cura di), Les Frontières du communisme. Réalités et mythologies de la division de l’Europe de la révolution d’Octobre au mur de Berlin, La Découverte, 2007, pp. 428‑442. Per una visione problematica globale, cfr. Alfred J. Rieber, Civil Wars in the Soviet Union, cit., p. 129‑162; Richard Bessel, Claudia B. Haake (a cura di), Removing Peoples. Forced Removal in the Modern World, Oxford University Press, 2009. 77 Norman Naimark, Fires of Hatred: Ethnic Cleansing In 20th Century Europe, Harvard University Press, 2001. 78 Cfr. Catherine Goussef, Échanger les peuples, cit. e Christian Ingrao, La Promesse de L’Est, cit., ultima parte. 79 https://bit.ly/44rYcot. 80 https://bit.ly/3ObjFfH.

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sospetto questo canto che evoca un santo guerriero (san Giorgio) cantato da 200.000 serbi dieci anni dopo Srebrenica? Non v’è forse un che di vendicativo o di rivendicativo dietro questa folla in fusione, quest’approccio non è forse angelico? A ciò rispondiamo innanzitutto che solo l’indagine e il sempre necessario lavoro sul contesto e il confronto delle fonti potranno rispondere a questo preconcetto. In secondo luogo, potremmo presentare molteplici esempi di queste folle fusionali che scandiscono testi che conoscono a memoria senza che la chiave politica o bellica sia pertinente. Quando Bruce Springsteen canta Thunder Road al Palau Sant Jordi di Barcellona una sera di ottobre del 200281, e la folla finisce per coprire la sua voce, non c’entra né l’entre-soi nazionale né l’entre-soi europeo – Springsteen viene dal New Jersey – né la guerra – la canzone parla dell’amore, dei sogni e della realtà della coppia – né l’entre-soi della lingua: gli spettatori sono spagnoli, e conoscono a memoria un testo peraltro assai complesso. E tuttavia si produce un parossismo che genera un’emozione ineffabile e una “convivenza”. Pratichiamo qui una Erfahrungsgeschichte delle produzioni culturali del tempo presente che mi sembra poter utilizzare gli stessi strumenti di quella della guerra e della violenza; che ha a che fare, quanto l’altra, col parossismo e l’entre-soi. Non abbiamo forse, a questo punto, finito col superare quel dislivello rimproverato agli storici, di fare una storia del tetro XX secolo e, accanto a essa, una storia culturale – in particolare quella dell’immagine e del cinema – senza articolarli tra di loro? Ce lo dirà il futuro. Conclusione La storia che facciamo ha dunque a che fare con gli affetti, l’amore, l’odio, la disperazione, e con la violenza, il desiderio e il piacere, le nascite e le agonie; con la fusione e la divisione, l’ineffabile e lo sbigottimento; storia analitica dell’esperienza e del suo corollario: l’emozione. Essa mette tutto in gioco: le nostre anime, i nostri corpi, le nostre memorie; tutto… Eccone dunque gli strumenti. 81 https://bit.ly/44oOnYh.

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E non è perché ci arrischiamo, non è perché accettiamo di metterci in gioco, che siamo tenuti ad accogliere – come è già avvenuto, come avverrà probabilmente sempre  – quella domanda che viene spesso dal fondo della sala, che ci interroga, in modo insistente, e ci chiede: da dove parliamo? Quella domanda che presuppone che noi traiamo “qualcosa” da ciò, che ci chiede con insistenza da una parte quale esperienza ci legittimi («che hai vissuto tu che…») e, dall’altra, dunque, che piacere – perché è la parola soggiacente a quel “qualcosa” – traiamo da questo. Dobbiamo passare perlomeno in parte davanti a essa senza vederla da subito. Vogliamo certo rispondere all’attore –  inevitabile e legittimo protagonista della storia del tempo presente – che ci pone la prima parte di questa domanda: dirgli che né gli antropologi né gli studiosi delle scienze della psiche, che sono nell’interlocuzione presente o nell’osservazione partecipante dell’irruzione dell’evento, sono certi di tornarne vivi e/o esperti dei rispettivi campi di ricerca. Ed è quello che vogliamo. Tuttavia, a chiunque ci farà la seconda domanda – quella del piacere –, risponderemo soltanto con il silenzio o con il duello, coscienti che i nostri stessi strumenti ci impediscono ogni enunciazione a tal soggetto: le nostre eventuali giustificazioni non potrebbero essere analizzate proprio come una negazione? Noi che guardiamo quelle immagini cecene di sgozzamenti di prigionieri russi, genesi tragica delle immagini dell’ISIS; noi che ci mettiamo di fronte alla violenza estrema di ben altre pratiche belliche, di terrorismo, o di violenti modellamenti dell’entre-soi; noi che affrontiamo l’indicibile sentimento di fusione delle riunioni militanti e dei concerti, delle liturgie politiche e delle manifestazioni; noi che affrontiamo l’emozione immersiva della finzione come del documentario; noi, infine, che opponiamo al parossismo, alla fusione e alla derelizione, il racconto analitico dello storico, ci sentiamo legittimati a non rispondere verbalmente a questa domanda. E questo rifiuto, enunciato una volta per tutte, della risposta si presenta tutto sommato come un fondamento della storia del tempo presente, almeno quando essa si fa Erfahrungsgeschichte dei parossismi. Storia di testimoni, di attori, di domanda sociale, di emozione, di memoria e di dibattiti, la storia del tempo presente e i suoi esperti guardano bene in faccia la realtà dei secoli di ferro che l’umanità ha attraversato dalla Grande Guerra in poi. Questo metallo – speriamo di

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averlo qui mostrato come di passaggio, in qualche modo – non è fatto solo di guerre e di massacri, ma anche di benessere, di solidarietà, del calore dell’entre-soi, di arti e di emozioni. Tutto ciò possiamo contemplarlo con gli stessi strumenti, lo stesso sguardo. Ed è su questo sguardo, certo, che si pongono le basi di un Noi storico, un Noi che nasce anche dal rifiuto di rispondere, innalzato al rango di regola fondativa della nostra pratica, e che si racconta così: Non chiedete chi siamo, né da dove veniamo; siamo la Coorte di coloro che fissano senza batter ciglio il sole nero del parossismo.

Intermezzo

Eccoci alla fine di questa lunga ricerca di strumenti che ci permettono di affrontare lo studio di alcuni temi della storia del tempo presente. Abbiamo cercato di mostrare come essi consentano l’adozione di un approccio unitario a oggetti apparentemente eterogenei, nonché di rivelarne altri. Per concludere questo lavoro vorrei sperimentare tale approccio su due oggetti saturi di parossismo: il suicidio in guerra (come fuoruscita da essa) e il pronto soccorso. Per ragioni di spazio e di unitarietà, da una parte ho scelto di concentrarmi sul suicidio come uscita dalla guerra durante la Seconda Guerra Mondiale, ma estendendo i miei campi abituali di studio alla guerra nel Pacifico e, dall’altra, mi sono concesso un’incursione su un terreno che non ho la pretesa di padroneggiare, ma solo di esplorare: il pronto soccorso come disciplina composita, messa sul banco di prova con gli attentati a Parigi del 13 novembre 2015.

IV. Il suicidio come uscita parossistica dalla guerra Germania, Giappone 19451

Per introdurre questo capitolo, occorre qualche avvertimento preliminare. Sin da Durkheim, l’oggetto “suicidi” rientra negli standard della ricerca sociologica2. Lo stesso non può dirsi per la ricerca storica, e meno ancora quando si tratta di studiare il fenomeno bellico. Il tacito consenso che vuole che il suicidio sparisca come fenomeno sociale durante le fasi della guerra è stato uno dei topoi dell’apprendistato di uno psichiatra negli anni Settanta. Ora, se seguissimo questa tesi, il presente studio risulterebbe privo di fondamento e, almeno di primo acchito, illegittimo. In realtà non vogliamo cimentarci in una tipologia del suicidio in guerra, bensì tentare di analizzare, sulla base di varie costanti, il posto occupato da questa violenza rivolta contro se stessi, scelta da alcuni individui per farla finita con la guerra. Tuttavia, alcuni ostacoli non trascurabili riducono la pretesa dello storico di appropriarsi del soggetto per portarlo su un terreno solido, appoggiandosi al consueto, corposo apparato di note a piè di pagina. Qui bisognerà accontentarsi di fonti sparse, di qualche testimonianza particolare, e della ricostruzione dei fatti che precedono immediatamente il suicidio, per tentare di dargli un senso. 1 Tengo a ringraziare Stéphane Audoin-Rouzeau, Nicolas Beaupré, Raphaëlle Branche, Anne Duménil, Pieter Lagrou, Thomas Serrier, Nicolas Werth per il loro aiuto, qualsiasi ne sia stata la forma. L’indagine alla base di questo testo è stata svolta nel 2003‑2005, ed è stata oggetto di un complemento bibliografico per la redazione del presente capitolo. 2 Rinvio, senza essermene servito, al classicissimo Émile Durkheim, Le Suicide. Étude de sociologie, PUF, 19995; trad. it. Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, 1987.

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Ho scelto di limitarmi al caso dei tedeschi e dei giapponesi sconfitti nel secondo conflitto mondiale3. In ogni caso, per questo tema ambire alla completezza è impossibile4. Per comodità di presentazione, distingueremo due tipi di suicidi: il “suicidio combattente” e il “suicidio civile”. Ci concentreremo in primo luogo sul caso dei militari tedeschi e su quello dei giapponesi, reso celebre dai kamikaze5, che però qui non trattiamo. Infatti, se questi ultimi furono, sì, suicidi combattenti, essi rivestivano tuttavia ancora una certa funzionalità. Si trattava, per i piloti come per lo stato maggiore della marina giapponese che strutturò l’azione kamikaze, di far indietreggiare con un mezzo – molto costoso in termini umani, ma efficace ed economico ai loro occhi – gli americani che occupavano una dopo l’altra le isole dell’arcipelago delle Marianne. I suicidi bellici

che noi abbiamo tentato di studiare sono per la precisione dei suicidi come modo di uscire dalla guerra, suicidi che non hanno alcuna funzionalità strategica identificata dagli stati maggiori e che non sono organizzati da questi ultimi. Ci interesseremo in secondo luogo al caso del suicidio dei coloni giapponesi durante gli sbarchi americani sugli atolli delle isole delle Marianne, Saipan in particolare, nel 1945, nonché alla pulsione suicida tedesca. È qui, del resto, che tenteremo di capire se la molla del suicidio sia la prospettiva del confronto con il nemico o l’effettività di questa esperienza: suicidio d’invasione o suicidio di occupazione? Tenteremo infine di capire i meccanismi più intimi del suicidio, esaminando qualche percorso di soggetti suicidi, in particolare di dignitari nazisti.

3 Non abbiamo potuto estendere il campo d’indagine alla Germania della Grande Guerra, che conosce un suicidio di rifiuto della sconfitta che, seppure non massiccio, testimonia l’intensità dell’investimento affettivo degli individui nella nazione e nel conflitto. Per mancanza di tempo, tuttavia, non è stato possibile approfondire quest’asse di ricerca. Per il caso tedesco, si veda Ian Kershaw, La Fin. Allemagne, Seuil, 2014 (ed. orig. The End: Hitler’s Germany 1944–45, Allen Lane, 2011; trad. it. La fine del Terzo Reich: Germania 1944-1945, Bompiani, 2016), benché la questione dell’universo emozionale delle popolazioni sia civili che militari vi sia poco trattata. Sulla questione del suicidio in Germania nel 1945, cfr. Christian Goeschel, Suicide at the end of the Third Reich, in «Journal of Contemporary History», vol. 41, n. 1, 2006, pp. 153‑73; e più recentemente, Id., Selbstmord im Dritten Reich, Suhrkamp Verlag, 2013, e Florian Huber, Kind, versprich mir, dass du dich erschießt: Der Untergang der kleinen Leute 1945, Berlin Verlag, 2014; trad. it. Promettimi che ti ucciderai. Nazisti fino alla morte. Storia dei suicidi di massa alla fine del Terzo Reich, Rizzoli, 2020. Per il Giappone, in maniera generale, si legga John Dower, War Without Mercy: Race and Power in the Pacific War, Pantheon, 1993; Id., Embracing Defeat: Japan in the Wake of World War II, W.W. Norton & Company, 2000, che però tratta solo il Giappone insulare e non coloniale, e, dello stesso autore e più recentemente, Cultures of War: Pearl Harbor/Hiroshima/9‑11/Iraq, W.W. Norton & Company, 2010. Si veda infine Michael Lucken, Les Japonais et la guerre: 1937‑1952, Fayard, 2013. 4 Non è stato possibile, per esempio, trattare i suicidi rituali di capi di guerra gallici (Giulio Sacroviro nel 21 d.C. o le rivolte bagaude del IV-V d.C.), ovvero i suicidi dei samurai. 5 Su questo argomento esistono una decina di riferimenti in ambito giapponese. Si consulti Raymond Lamont-Brown, Japan’s Suicide Samurai, Arms & Armour, 1997, e Denis A. Warner, Peggy Warner, The Sacred Warriors: Japan’s suicide Legions, Van Nostrand Reinhold Company, 1982. Cfr. Michael Lucken, Les Japonais et la guerre: 1937‑1952, cit., pp. 237 sgg.

Il suicidio combattente: un modo militare di uscire dalla guerra? Conviene identificare innanzitutto la nozione di suicidio e le realtà che essa comprende. Il suicidio è unicamente un gesto di violenza rivolta da un individuo contro se stesso nell’ottica di mettere fine ai propri giorni? Se questa definizione ha il vantaggio di distinguere indubitabilmente il suicidio dall’esposizione volontaria e sacrificale al pericolo, dalle automutilazioni e da tutti i comportamenti patologici che inducono un comportamento autodistruttivo senza violenza puntuale – alcolismo, tossicomanie, ecc. –, essa non permette tuttavia di rendere conto di ciò che fa l’essenza del suicidio: la volontà, individuale o collettiva, di mettere fine alla propria esistenza, quale che sia il mezzo scelto per raggiungere questo scopo. Concentrandosi sul gesto, si rischia di perdere di vista il contesto, le rappresentazioni e i repertori d’azione degli attori, i loro universi simbolici. Il caso della Germania del 1945 è qui relativamente illuminante. Contrariamente a quanto suggerito da Omer Bartov, i mesi più sanguinosi della guerra non furono quelli dell’inizio della campagna, segnati in URSS dal marchio del Blitzkrieg6. Nonostante questo autore veda 6 Cfr. a tal proposito, Omer Bartov, The Eastern Front, 1941‑1945. German Troops and the Barbarization of Warfare, Saint Antony’s-Mac Millan Series, 1985.

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nella mortalità che colpì allora i soldati tedeschi uno dei fattori di dissoluzione dei gruppi primari che permettevano la violenza estrema7, la ripartizione delle perdite mostra che la metà dei caduti dell’esercito tedesco viene uccisa durante l’ultimo anno di guerra, al momento della disfatta. Questa, iniziata con il crollo della Heeresgruppe Mitte (‘Gruppo di armate Centro’) nell’estate del 1944, prosegue a una velocità sempre maggiore nell’inverno del 1944-1945 e nella primavera dello stesso anno8. Il gennaio del 1945 costituisce sotto questo aspetto il culmine: il 10% delle perdite totali in combattimento contro solo il 2% del tempo dell’avvio della guerra contro l’URSS! Fu l’intensità del massacro che di fatto portò al crollo del Reich sotto l’assalto sovietico. La spiegazione, a leggere gli autori che trattano lo svolgimento delle battaglie, potrebbe essere semplice: nel momento in cui un esercito indietreggia, entrando nel panico e offrendo le spalle alle armi degli avversari, esso si dà al massacro generalizzato. Ma non è così nel caso dell’esercito tedesco tra gennaio e aprile 1945: esso non indietreggia, ma sembra dissolversi di fronte all’assalto sovietico. Nei casi osservati da Victor Davis Hanson, questa fase del massacro generalizzato è anche quella in cui il vincitore vede il proprio tasso di feriti e di morti abbassarsi significativamente9. Non è così nel caso sovietico. Le perdite russe erano certo in regressione – moderata – durante l’estate e l’autunno del 1944, il che conferma che le truppe tedesche, che rifluiscono in disordine, sono meno letali quando acconsentono – seppure agonizzanti – a ritirarsi10. Il fatto curioso è che i tassi di perdite sovietiche ricominciarono ad aumentare non appena i combattimenti ebbero come posta in gioco il territorio tedesco. È allora opportuno interrogarsi sui fattori alla base di questo curioso fenomeno: sebbene disorganizzato e sempre peggio equipaggiato, l’esercito tedesco con7 Omer Bartov, L’Armée d’Hitler. La Wehrmacht, les nazis et la guerre, Hachette, 1999. 8 Rüdiger Overmans, Deutsche militärische Verluste im Zweiten Weltkrieg, Oldenbourg, 2000, pp. 238, 269. L’esercito tedesco perde, solo in quest’ultimo anno, 2.500.000 uomini, ossia il 50% delle sue perdite totali. 9 Victor Davis Hanson, The Western Way of War: Infantry Battle in Classical Greece, Alfred A. Knopf, 1989, seconda ed. 2000; trad. it. L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Mondadori, 1990. 10 Richard Overy, Russia’s War, Penguin, 1999, p. 262; trad. it. Russia in guerra. 19411945, Net, 2006, pp. 270-271.

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tinuò a infliggere perdite estremamente pesanti ai sovietici. È chiaro che non si può trascurare il ruolo –  determinante  – delle strategie sovietiche, né quello delle gerarchie della Wehrmacht e in particolare dell’Oberkommando (OKW), che rifiuta qualsiasi ritirata delle truppe. Questo secondo fattore, però, va moderato: l’atteggiamento dell’OKW è una costante sin da Stalingrado, e le truppe tedesche che ne avevano la possibilità non lo ignorarono, specialmente in Polonia e in Ucraina. In Bielorussia, la manovra sovietica d’accerchiamento non lasciò ai tedeschi alcuna possibilità di ritirata. I gruppi di armate Centro, accerchiati, si arresero dopo combattimenti accaniti e circa trecentomila uomini furono fatti prigionieri intorno a Minsk, mentre altri centomila soldati caddero nelle mani dei sovietici durante la conquista della Bielorussia, compiuta la settimana successiva11. Resta il fatto che, non appena i russi si trovarono sul suolo del Reich, la resistenza tedesca si fece ancora più aspra, benché ormai fosse assicurata solo da reparti per lo più poco addestrati, composte in gran parte da sezioni del Volkssturm, la milizia popolare creata da Hitler nell’ottobre 1944, in cui militavano tutti gli uomini abili dai 16 ai 60 anni. Pur se inesperti, questi soldati inflissero spesso gravi perdite alle truppe russe (va da sé che essi pagarono elevatissimi tassi di mortalità). Riassumiamo: durante gli ultimi dodici mesi di guerra, e più in particolare durante l’offensiva finale contro il territorio del Reich, i tedeschi subirono perdite altissime, senza smettere di nuocere gravemente agli invasori sovietici. Tutto sembra dunque accadere come se esistesse una specie di erosione collettiva dei sistemi di protezione dei soldati –  spiegabili soltanto in parte con l’inesperienza delle truppe tedesche – e come se i tedeschi scegliessero di non indietreggiare più di fronte all’assalto sovietico. Al momento di contrapporsi all’invasione del proprio territorio, i soldati tedeschi – SS, soldati e civili del Volkssturm – sembravano così lasciarsi letteralmente falciare sul posto piuttosto che battere in ritirata. A partire dal 1944, l’OKW aveva certo impartito ordini che implicavano la resistenza a oltranza ma, di fronte agli stessi ordini, si osserva una differenza considerevole di comportamento tra le truppe che combattono durante l’estate del 1944 in Bielorussia e cadono 11 Ivi, p. 243 (pp. 252-253).

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in massa tra le mani dei sovietici, e quelle che «resistono in modo frenetico se non suicida»12 nella Prussia orientale tedesca e in Slesia. Questa differenza non è spiegabile con un cambiamento negli ordini dati alle truppe. Non si può neppure spiegare l’ampiezza delle perdite tenendo conto unicamente della debole esperienza bellica delle truppe tedesche: esse infliggono infatti troppe perdite ai sovietici per solo quelle propaggini di un esercito composto da vecchi e bambini che la storiografia ha a lungo voluto vedervi. Si trattava certo di un esercito diminuito dalla perdita di più di un milione e mezzo di uomini messi fuori combattimento o fatti prigionieri, disorganizzato da una logistica sopraffatta, ma certe divisioni erano ancora pesantemente armate all’inizio dell’attacco contro il territorio del Reich. Non è dunque possibile interpretare con sicurezza i comportamenti dei soldati tedeschi durante questo periodo. Qui non abbiamo a disposizione nessuno dei mezzi utili allo storico per tentare questo esperimento a proposito delle fasi più stabili della sequenza bellica: le lettere dal fronte non si sono conservate, se mai furono scritte, e i diari di guerra sono spesso lacunosi per le settimane che precedettero la fine dei combattimenti13. Ma non si può forse prendere comunque in considerazione la possibilità che i soldati tedeschi, che durante tutto il conflitto avevano vissuto nella paura della brutalità russa e della «barbarie asiatica», abbiano interiorizzato i discorsi profondamente ansiogeni che rivolgeva loro una gerarchia tanto più convincente in quanto anch’essa totalmente convinta delle rappresentazioni che instillava così nella massa delle truppe14? Per quattro anni, i soldati hanno sentito ripetere un discorso di legittimazione del conflitto riassunto in modo efficace dal già citato volantino distribuito nel 1941 dal 4° gruppo di Panzer:

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dei germani contro gli slavi, la difesa della cultura europea contro l’invasione moscovita-asiatica, la difesa (Abwehr) contro il bolscevismo giudaico. Questa battaglia deve avere come scopo l’annientamento della Russia attuale e deve dunque essere sferrata con una durezza inaudita. Ogni situazione di guerra deve essere condotta con una volontà di ferro fino all’annientamento totale e senza esclusione. Non deve esservi in particolare alcuna pietà per i sostenitori dell’attuale sistema russo-bolscevico15.

Questa retorica era sufficientemente ansiogena da generare nei soldati tedeschi dei comportamenti estremamente violenti, sin dai primi giorni del conflitto. E giustifica a maggior ragione la resistenza disperata all’Armata Rossa, quando quest’ultima fu in grado di invadere il territorio del Reich16. Se non si esclude questa ipotesi, è opportuno analizzare il senso dell’atteggiamento dei soldati tedeschi: non si tratta di un vero e proprio suicidio, poiché non si osserva un rivolgimento della violenza contro se stessi. E tuttavia la resistenza a oltranza induceva a una solida accettazione della morte, che i nemici infliggevano ai soldati dopo ch’essi avevano freneticamente cercato di ucciderne il maggior numero possibile. La disperazione, l’odio per il nemico, la stessa accettazione della morte portavano a comportamenti al limite del suicida. L’esercito della Crociata era così diventato l’esercito della Disperazione. Per quanto sia difficile illustrare una simile ipotesi, alcune fonti permettono di apportare un elemento di risposta. Il libro di memorie di Peter Neumann (pseudonimo di un anonimo veterano della Waffen-SS) fa parte di quelle pubblicazioni apertamente revisioniste che solo la Germania liberale presessantottina, conservatrice e amnesica, avrebbe

La guerra contro la Russia è una parte essenziale nella lotta per l’esistenza (Daseinskampf) del popolo tedesco. È la vecchia lotta 12 Il termine è di Overy, ivi, p. 257 (pp. 265-266). 13 Per uno studio classico basato su queste fonti, si legga Klaus Latzel, Deutsche Soldaten-nationalsozialistischer Krieg?, cit. 14 Sull’angoscia generatrice di violenza, mi permetto di rinviare a Christian Ingrao, Culture de guerre, imaginaire nazi, violence génocide. Le cas des cadres du SD, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», vol. 47, n. 2, 2000, pp. 265‑289.

15 Ordine del comandante del 4° gruppo di Panzer, generale d’armata Hoeppner, Bundesarchiv-Militärarchiv Freiburg (BA-MA), LVI.AK., 17965/7°, cit. 16 Si legga a tal proposito il libro – le cui carenze concettuali restano massicce – di Bogdan Musial, «Konterrevolutionären Elementen sind zu erschiessen», cit. Cfr. anche l’articolo di Bernd Boll, Hans Safrian, Auf dem Weg nach Stalingrad. Die 6. Armee 1941‑42, in Klaus Naumann, Hannes Heer (a cura di), Vernichtungskrieg, cit., pp. 260‑290.

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potuto tollerare17. Il libro, tuttavia, è uscito in traduzione solo in Francia, poi nel mondo anglosassone18. Peter Neumann si arruolò nelle SS dopo la campagna del 1940 e fece tutta la guerra sul fronte dell’Est19. Elaborato, secondo le stesse parole dell’autore, a partire dal suo diario di guerra20, il libro – come la sua campagna – si chiude nell’aprile del 1945, al momento dell’assedio di Vienna. Peter Neumann vi è arrivato il 3 aprile. Le annotazioni del 3 e del 4 aprile lasciano trasparire l’evidenza della sconfitta. L’esercito russo è paragonato a un «fiume immenso» che niente avrebbe potuto frenare21. Il 5 aprile, le SS dell’unità di Peter Neumann sono messe brutalmente davanti a ciò che, ai loro occhi, doveva provocare la sconfitta e la presa della città da parte dei sovietici: Sgomenta, scapigliata, una donna, che ha attraversato il fronte, ci racconta cosa è stato l’ingresso dei bolscevichi a Baden. Il bombardamento è durato varie ore, dopo che le truppe tedesche hanno evacuato la città. Come se i russi volessero essere ben certi di avere eliminato ogni forma di resistenza. Con una decina di altre donne, si era nascosta in una cantina. Verso le sei, i primi carri armati sono penetrati a Baden, sparando a raffica sulle barricate […]. 17 Sulla memoria del nazismo nel dopoguerra, cfr. Norbert Frei, Vergangenheitspolitik. Amnestie, Integration und die Abgrenzung vom Nationalsozialismus in den Anfangsjahren der Bundesrepublik, Beck, 1994. 18 Nei fatti, il libro non è mai uscito in Germania: tutti i tentativi di ritrovare il manoscritto originale o la prima pubblicazione in tedesco sono falliti. Questo fatto, e il comportamento curioso del traduttore, che utilizza non meno di tre pseudonimi – tra cui: Claude Darville, il suo vero nome, Claude Rank (autore di romanzi dell’orrore) –, hanno fatto pensare che questo racconto sia opera di un ex combattente della divisione Charlemagne, ma i pochi dati biografici raccolti sul traduttore e quelli di Neumann non concordano. E il diario è troppo ben informato sull’inizio della campagna per essere opera di un francese che non poteva aver partecipato a queste campagne. Si è allora pensato al caso di un volontario delle Waffen-SS alsaziano, che avrebbe potuto essere arruolato nel 1940. Ma in questo caso i fatti concordano e l’uomo descrive un’esperienza di guerra conforme a quella che fecero i tedeschi. Tuttavia non è stato possibile dare una risposta definitiva. Non si può scartare la possibilità che si tratti semplicemente di un’opera fittizia. 19 Peter Neumann, SS! Journal de marche, Éditions France-Empire, 1958, ried. 20 Ivi, p. 10. 21 Ivi, p. 281.

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La maggior parte delle truppe di Tolbuchin è formata da mongoli e asiatici. Zigomi sporgenti, nasi camusi, facce bestiali. Attraverso le finestrelle, le austriache, terrorizzate, sentivano i Rossi urlare a squarciagola i loro canti selvaggi e gutturali. Qualche ora dopo il loro ingresso, la caccia alle donne è cominciata. Sparando sulle serrature, sfondando le porte a colpi di stivali e con il calcio dei fucili, le orde bolsceviche cercavano la femmina… Ora dopo ora, nuovi reggimenti rossi si spargevano nell’antica città termale trasformata in lupanare. Le donne, rinchiuse a gruppi in certi edifici, erano abbandonate alla follia lubrica di centinaia di uomini. L’austriaca che ci ha raccontato questo ha aggiunto che alcuni ufficiali sovietici hanno tentato, revolver alla mano, di fermare quella mostruosità. Ma i soldati rossi, ubriachi di acquavite, di rabbia e d’odio, non li ascoltavano. Non li ascoltavano più22…

Lo stupro sovietico – ben reale nei primi giorni dell’invasione23 – è qui percepito come asservimento e attacco letale alla «sostanza razziale» della nordicità. È l’esistenza stessa dell’identità biologica tedesca che, secondo le SS, è in gioco nella pratica sovietica dello stupro, che porta il marchio della bestialità dei soldati. L’esercito tedesco non ha potuto fermare «l’oceano» russo, e la conseguenza non può che essere, per tutti gli uomini dei reggimenti SS, la scomparsa della Germania, entità politica e biologica. È in questo contesto d’angoscia escatologica estremamente intensa e di disperazione assoluta che le SS dell’unità di Peter Neumann, sostenute da elementi del Volkssturm e della Wehrmacht, si preparano a difendere l’antica capitale austriaca. I combattimenti infuriano dal 5 al 12 aprile. Neumann, che è capitano delle SS, è alla testa di un centinaio di uomini e difende un perimetro dell’ex centro città dell’antica capitale asburgica. Dopo una battaglia di diversi giorni, alle otto della sera decide di congedare i suoi uomini. Resta con due sezioni per coprire la ritirata dei suoi uomini, che tentano di sfondare l’accerchiamento sovietico passando per il fiume e i suoi bordi. Calata la notte, tocca a Neumann tentare di infiltrarsi tra 22 Ivi, p. 282. 23 Cfr. Norman M. Naimark, The Russians in Germany: A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945‑1949, Harvard University Press, 1995.

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le linee sovietiche. Parte allora accompagnato da un sottufficiale a cui è legato fin dai tempi della militanza nella Gioventù Hitleriana. Dopo aver distrutto i loro documenti – pensano che i russi «sterminino tutte le SS che cadono nelle loro mani»24 – i due uomini costeggiano il fiume. Vengono scoperti, il compagno di Neumann è ferito al piede e il fuoco sovietico costringe i due uomini a tuffarsi. Rimasti per lunghe ore in acqua, essi riguadagnano la riva a notte fonda. La ferita del secondo SS è grave: la pallottola gli ha distrutto il piede e l’immersione prolungata gli ha procurato una necrosi cancrenosa. La ferita di Stinsmann, orribile, non lascia speranze. […] Il polpaccio è già nerastro. […] Accendo un altro fiammifero per guardargli la faccia. […] Segue ogni mio movimento. Le sue labbra si muovono: «Fottuta, eh?… Va in putrefazione. Che importa… ormai». Mi sono sdraiato accanto a lui. Lentamente ha cercato la mia mano: «Peter!… Non mi devi lasciare… tra le loro mani. Promettimelo…». Alzo le spalle come se potesse vedermi. Non abbiamo neppure più un’arma! Nella notte, riprende a parlare, come pregando: «Ho dato abbastanza… Ce la devi fare, Peter». […] La notte si dissipa lentamente. Si alza il giorno… […] Mi giro verso Michael. Ha la faccia color terra. Le narici strette. Il petto si solleva in modo irregolare. Il respiro è rapido, fischiante. Penso alla promessa che mi ha strappato… Non appena è spuntato il giorno, ho cercato tra i morti nell’hangar, rovistando tutto, rigirando i corpi, nella speranza di trovare un’arma. Ma i sopravvissuti della compagnia devono aver disarmato i caduti prima di battere in ritirata. Ho potuto trovare soltanto un fucile Mauser con il calcio sfondato e una mezza dozzina di pallottole. …Da più di un’ora setacciano le rovine… Ogni tanto, una detonazione secca… Prono, al riparo di un mucchio di macerie, ho visto arrivare i sei uomini… […] Ho preso la mira quando il primo dei russi è stato a 24 Peter Neumann, SS! Journal de marche, cit., p. 292.

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meno di cento metri […]. Quando ho sparato, è parso stupito, ho visto un buco nero spuntargli giusto sotto il casco, in piena fronte. È scivolato a terra. Gli altri si sono messi a urlare. A correre verso l’hangar nascondendosi a ogni balzo, dietro le macerie. Un secondo proiettile… un terzo… Un altro russo si è accasciato, lasciando la sua arma. Quando sono arrivati all’entrata dell’edificio, mi sono bruscamente sollevato. Avevo calcolato e previsto in anticipo ogni mio movimento. Sapevo che mi bastava ruotare il fucile per avere la testa di Michael nel mio angolo di mira. Treue bis zum Tote… Fedele fino alla morte. Il giuramento proveniente dalle nebbie della Hitler-Jugend mi aleggia per un istante nel cervello. Ho premuto il grilletto. L’ho colpito su un lato. Non ha avuto neppure un tremore. Per essere più sicuro che fosse morto, ho inserito un altro proiettile. Ho sparato di nuovo. Stavolta il cranio è stato colpito. Solo il cranio. Il viso era intatto. I russi continuano ad avanzare. […] Sparano a corte raffiche. Lanciano granate su granate.

* Perché non mi hanno ucciso? Una pallottola. Piazzata male. O troppo bene… Le settimane a marcire in una semi-incoscienza, tra infermerie di campagna e ospedali in rovina. Una sera, gli altoparlanti del campo si scatenavano in inni fracassanti: «Il “tiranno” è morto. La Germania ha capitolato». Le notti, le interminabili notti, a passare in rassegna i diversi modi per farla finita. L’impossibile morte. Nelle macerie di Varsavia, il seppellimento delle carogne, lo sgombero delle strade. Brutalità, sogghigni delle sentinelle sovietiche. Talvolta una sberla secca. Di nuovo… Per il piacere, questa volta. Nessuna possibilità per me. Malgrado le voci secondo cui le SS dovevano implacabilmente essere sterminate. Ma avranno bisogno di uomini. Di schiavi a milioni.

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Mi guardo le mani, il corpo, i vestiti. Perché non mi hanno ucciso25?

Così finisce il libro di Peter Neumann. Al di là del tono apologetico dell’autore, per lo storico si tratta di una testimonianza del massimo interesse; chi ha scritto queste parole, infatti, non ha perso nessuno degli schemi mentali che sottendevano i suoi comportamenti in guerra. Testimonianza preziosa quella di questo giuramento di suicidio tra due amici, di questo desiderio di morte del sopravvissuto dopo la sconfitta. Testimonianza quasi unica sulle modalità d’iscrizione nel reale della pulsione suicida che coglie certi combattenti tedeschi nel momento del crollo della speranza millenarista che incarnava secondo loro il Terzo Reich26. Le memorie di Neumann illustrano quello che poté essere un comportamento metasuicidario nell’esercito tedesco. Detto questo, il libro non può dare alcuna indicazione sull’ampiezza della diffusione di un tale comportamento. I suicidi ufficialmente recensiti nell’esercito tedesco non superano i 25.000 casi27. I comportamenti qui descritti non hanno potuto essere oggetto di censimento, e d’altronde forse non sarebbero categorizzati come atti suicidi dai servizi della Wehrmacht. Se l’aspetto della violenza contro se stessi è qui assente, nondimeno il desiderio di morte e la volontà di non accettare la sconfitta sono invece ben presenti e confermano la dimensione suicida di questa pratica. Certo non siamo in grado di capire quanto fosse diffuso questo tipo di comportamento combattente; ma possiamo comunque chiederci se non abbia costituito un fattore determinante del carattere accanito dei combattimenti che caratterizzò la conquista della Germania da parte dei russi. Per i teatri di operazione in Occidente, quindi, non è certo se il suicidio dei combattenti fosse un fenomeno di massa. Ma nel Pacifico la situazione fu ben differente. Il fatto è comprovato: dopo una resistenza accanita durante le grandi battaglie come quelle di Tarawa, 25 Ivi, pp. 303‑309. 26 Sulla dimensione millenarista del sistema del credo nazista, cfr. James Rhodes, The Hitler Movement: A Modern Millenarian Revolution, Stanford University Press, 1980. 27 Rüdiger Overmans, Deutche militärische Verluste im Zweiten Weltkrieg, cit., p. 335.

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di Iwo Jima, di Saipan o delle Aleutine, moltissimi soldati giapponesi si suicidarono. Nel caso giapponese, il basso tasso di prigionieri è un segno eloquente sia della durezza dei combattimenti che della pratica massiccia del suicidio. A Tarawa, in particolare, sui 5.000 uomini della guarnigione incaricata di difendere l’atollo, solo 146 furono fatti prigionieri28. Se la battaglia delle Aleutine non figura tra le grandi battaglie del Pacifico, essa fu comunque la scena di uno dei più importanti suicidi di massa di soldati29. L’11 maggio 1943, gli americani decisero di dare l’assalto ad Attu, l’isola più grande dell’arcipelago. 3.000 marines parteciparono a questo sbarco, che ebbe luogo in condizioni meteorologiche rigidissime, con vento e nebbia. Il combattimento, sin dall’inizio disperato per la guarnigione giapponese inferiore in numero e priva di appoggio aereo, durò una quindicina di giorni. Il 29 maggio, gli americani giunsero al punto di invadere la totalità dell’isola. I giapponesi decisero allora di suicidarsi. Horiguchi Sakae, soldato presente nell’ospedale di campagna, partecipò alla carica disperata degli ultimi combattenti, e sopravvisse soltanto perché la granata che si teneva stretta in petto fece cilecca. Egli racconta in questi termini lo svolgimento della preparazione dell’assalto, che ebbe luogo all’ospedale di campagna: Tutti quanti avevano le lacrime agli occhi, specialmente quelli che dovevano bruciare le foto della loro vedova o dei loro figli. Quelli che non potevano camminare si suicidarono. Quelli che non potevano farlo da soli furono aiutati dai soldati30.

Quanto ai soldati validi, essi si radunarono per l’ultima carica. Tra cinquecento e mille soldati, quasi tutti armati di sciabole e baionette, si lanciarono sui trinceramenti americani, tentando di approfittare della 28 James Burbeck, An Interview with Guy Gabaldon, in «War Times Journal Interviews», 1998, https://bit.ly/3pxd99P. Questo testo fa parte di una serie di interviste di veterani della guerra nel Pacifico. Membro di un commando di pulizia dell’isola di Saipan, con l’ordine di perquisire le grotte e le scogliere dell’isola alla ricerca di soldati imboscati, Guy Gabaldon divenne un esperto nel recupero di prigionieri. 29 Brian Garfield, Thousand-Mile War: World War II in Alaska and the Aleutians, University of Alaska Press, 2010. 30 Testimonianza di Horiguchi Sakae nel documentario NBC, Forgotten Soldiers.

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nebbia per prendere la posizione di sorpresa. Arrivati in cima alla collina che tenevano gli americani, i giapponesi furono tuttavia respinti dai reparti del genio, e batterono in ritirata. Innescarono insieme delle granate e se le fecero esplodere sul petto. Sui 2.700 uomini della guarnigione giapponese, solo 27 furono fatti prigionieri. Si ritrovarono quasi quattrocento cadaveri nell’ospedale, che pure non era stato colpito dal fuoco della fanteria americana. Uno dei soldati americani che respinse l’assalto giapponese racconta: Li sentivamo guaire, gridare «urrà», sembrava un branco di coyote. […] Non abbiamo avuto il tempo di avere paura. […] Se non ci fossimo occupati di loro, si sarebbero occupati loro di noi31. Gli spari cessarono [quando i giapponesi si ritirarono verso il fondo della collina]. E tutto ridivenne calmo. Calmo32.

I soldati sentirono allora attraverso la nebbia delle detonazioni in serie, e uno di loro riporta la vista che li aspettava: Avreste giurato che era arrivato il Diavolo. Erano tutti ammucchiati uno sopra all’altro. Era una vera e propria scena di campo di battaglia. Certi non avevano più la testa33.

Oltre a tradire una forte animalizzazione dell’avversario tra i G.I., queste testimonianze danno essenzialmente informazioni sui gesti usati dai giapponesi, gesti che gli americani non hanno potuto cogliere e che assimilano a suicidi individuali commessi dai soldati simultaneamente. La descrizione dei corpi ammucchiati lascia tuttavia pensare che i gesti furono collettivi, e che gli uomini si strinsero a grappolo intorno a un individuo che innescava la granata. Vero gesto di suicidio collettivo posto tuttavia sotto il sigillo del Seppuku tradizionale, tanto per il rituale della carica lanciata con il ben noto grido di guerra quanto per le due testimonianze che abbiamo a disposizione34. Nelle parole 31 Dichiarazione di Roy Olson, ibidem. 32 Dichiarazione di Clyde Adams, ibidem. 33 Dichiarazione di Clint Davis, ibidem. 34 Sul Seppuku tradizionale, la migliore sintesi in francese è Maurice Pinguet, La Mort volontaire au Japon, Gallimard, 1984, pp. 74 sgg; trad. it. La morte volontaria in

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di Horiguchi Sakae, due cose colpiscono: da una parte, la differenza tra i comportamenti dei soldati validi e dei feriti. I feriti si suicidano seduta stante, come i samurai. In secondo luogo, i soldati validi li assistono nel loro suicidio prima di partecipare alla carica e suicidarsi alla fine di questa. Come nel rito Seppuku, durante il quale è presente un “assistente” per supplire a eventuali desistenze del suicida e gli taglia la testa nel caso in cui non riuscisse a praticarsi le incisioni all’addome35: i validi in questo caso svolgono precisamente il ruolo di assistenti. Sembra dunque che siamo in presenza di un gesto tradizionale della cultura giapponese. La seconda fonte giapponese di cui disponiamo sembra del resto confermare questa ipotesi. Si tratta del diario tenuto dal dottor Paul Tatsugotchi, medico formato negli Stati Uniti, perfettamente anglofono, che riporta, la sera prima del giorno dell’assalto: Oggi [28/05/1943], ore 20: siamo riuniti davanti al quartiere generale. […] L’ultima linea di difesa è stata sfondata. Nessuna speranza di ricevere rinforzi. Banzai all’Imperatore. […] Arrivederci Taeko, amore mio, che mi hai amato fino alla fine. Buona fortuna fino a quando ci rivedremo [Until we meet again, grant you Godspeed]. Mi dispiace per Tokiko, nata a febbraio di quest’anno senza aver visto suo padre. Ho vissuto solo trentatré anni e devo morire qui. Non ho rimpianti. Lunga vita all’Imperatore!36

Il diario di questo medico – pacifista convinto al momento di Pearl Harbor – tradotto in inglese, fece il giro dei reparti che parteciparono Giappone, Luni Editrice, 2007. Cfr. anche Stuart Picken, Suicide: Japan and the West. A comparative Study, The Stimul Press, 1979, pp. 68 e 116 per il suicidio tradizionale. Questa pubblicazione è disponibile solo alla Biblioteca nazionale giapponese, in giapponese. Cfr. il riassunto in inglese di questa pubblicazione in Watanabe Chika, Suicide and modern Japan, paper di un seminario di sociologia giapponese. 35 Dichiarazione di Clint Davis nel documentario Forgotten Soldiers, cit. 36 Diario di Paul Tatsugochi. Citato peraltro in Brian Garfield, Thousand-Mile War, cit., p. 328. Non si sa in che momento Tatsugochi sia deceduto: il commento del documentario tenta di accreditare la tesi della sua partecipazione all’ultima carica. Secondo noi, le annotazioni del diario raccontano del consenso. Uno dei soldati intervistati sembra averlo abbattuto durante la carica.

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all’assalto. Esso provocava infatti nei combattenti un effetto di riumanizzazione del nemico. In effetti, se riflette la grande conoscenza che l’autore ha dell’Occidente, il consenso alla morte, ricevuta o meno dalle proprie mani, sotto il segno dell’Imperatore, riaffermava l’identità nipponica e combattente di un uomo che pure, per il suo mestiere e la sua esperienza, era certo radicalmente diverso dal soldato giapponese comune. La forza della pulsione suicida giapponese sembra dunque poter essere attribuita alle “tradizioni” giapponesi. È in ogni modo la tesi che sostengono la maggior parte dei testimoni, che conservano così intatta l’argomentazione di guerra americana, che affermava l’alterità assoluta dei giapponesi, stigmatizzati come animali. Alla luce dell’esempio tedesco, tuttavia, sembra proprio che il suicidio come uscita da una guerra in cui si è sconfitti non sia una specificità giapponese. Nel caso tedesco, l’ampiezza e la diffusione del fenomeno nel mondo combattente non può essere valutata mentre emerge con forza nel caso giapponese. Le rappresentazioni soggiacenti al suicidio sembrano invece essere più chiaramente espresse nelle testimonianze tedesche che in quelle giapponesi37. Alla luce di questo esempio, possiamo chiederci se spiegare la pulsione suicida giapponese imputandola alla “tradizione” non costituisca uno schermo che impedisce l’analisi. L’analisi del suicidio civile può forse contribuire a superare questa difficoltà. Il suicidio civile nella Seconda Guerra Mondiale La tradizione del suicidio, in Giappone, è elitaria ed essenzialmente combattente. Teoricamente, dunque, essa non dovrebbe riguardare i civili. Ora, in numerosi casi, le truppe americane che sbarcarono sugli atolli delle Marianne assistettero al suicidio di massa di civili38. 37 A mia conoscenza e malgrado il carattere eccezionale del libro di Peter Neumann, a quanto pare non disponiamo di testimonianze equivalenti di combattenti giapponesi “suicidi”. E sottolineo “a quanto pare”, poiché non conosco il giapponese e non sono in grado di verificare l’affermazione. 38 Nel momento in cui sono state scritte queste righe, il soggetto era, sembra, a malapena trattato dalla storiografia giapponese: oltre al già citato libro di Stuart Picken solo un altro libro trattava, a mia conoscenza, il suicidio collettivo civile di fine guerra.

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Il caso più noto è quello dell’isola di Saipan39. La ragione di questa celebrità è forse dovuta al fatto che questi suicidi sono stati in parte filmati da reporter americani. Le immagini dei civili che si buttano in massa dalle scogliere, quelle delle persone a cui gli americani tendevano le mani e che si buttavano al minimo gesto da parte dei G.I., sono tra le più tragiche immagini catturate da una telecamera durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo studio di questo suicidio civile, che si svolge in perfetta simultaneità con il suicidio combattente dei tedeschi, può permettere di comparare i fattori alla base di questo gesto di autodistruzione. Contrariamente al caso delle Aleutine, non è stato possibile trovare testimonianze giapponesi. Ci appoggeremo dunque purtroppo soltanto su testimonianze di G.I., i quali per di più non hanno la mente «smobilitata»40: a diversi decenni di distanza, la descrizione degli atteggiamenti dei giapponesi serve ancora come prova della loro bestialità e della loro disumanità. Al di là di quello che, quarant’anni più Scritto in giapponese e non tradotto, è difficile da consultare: Ishihara Masaie, Okinawa-sen ni okeru Nihongun to jumin gisei: Kyokasho Saiban (daisanji sosho kososhin) no shogen «ikensho», Kyokasho Kentei Sosho o Shiensuru Zenkoku Renrakukai, 1991. Apparentemente esso tratta il caso dei suicidi collettivi nelle isole Ryūkyū e a Saipan. In seguito la questione non pare essere stata trattata oltre: il suicidio militare resta ben più intensamente trattato. A tal proposito, cfr. John Dower, Cultures of War, cit., pp. 299‑301, in cui si cita in particolare Kazuko Tsurumi, Social Change and the Individual: Japan before and after Defeat in the World War II, Princeton University Press, 1970. Resta comunque il fatto che il suicidio civile non è praticamente mai menzionato. Il libro di Michael Lucken, Les Japonais et la guerre: 1937‑1952, cit., tratta essenzialmente delle operazioni kamikaze e del suicidio militare, in particolare pp. 237‑258. Nel 2019, è infine uscito il volume di Alexander Astroth, Mass Suicides on Saipan and Tinian, 1944: An Examination of the Civilian Deaths in Historical Context, McFarland, 2019. 39 Esiste una monografia americana di storia militare sullo sbarco di Saipan: Harold J. Goldberg, D-Day in the Pacific: The Battle of Saipan, Indiana University Press, 2007. L’autore dedica anche un breve capitolo alla carica banzai, servendosi però essenzialmente di testimonianze di veterani (come Guy Gabaldon, qui più volte citato), e consacrando solo poche pagine (pp. 197‑204) al suicidio civile, che non viene distinto da quello dei combattenti. 40 Il termine è di John Horne, Mobilizating for Total War. Society and State in Europe, 1914‑1918, Cambridge University Press, 1999. Cfr. John Horne, Demobilizing the Mind. France and the legacy of the Great War, 1919‑1939, in «French history and civilization», Papers from the George Rudé Seminar, 2, 2009, pp. 101‑119.

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tardi, resta dunque un discorso di guerra41, queste testimonianze mostrano malgrado tutto qualche elemento dei fattori mentali alla base del suicidio di massa. Sul piano dello svolgimento delle operazioni, il caso di Saipan non è molto diverso da quello delle Aleutine. La carica suicidaria ebbe luogo qualche giorno dopo lo sbarco, e fu probabilmente una delle più micidiali della campagna del Pacifico: essa durò quindici ore e portò il numero delle vittime della battaglia di Saipan a quasi trentamila42. Uno dei marines che l’affrontò è Guy Gabaldon, un esperto di missioni commando, che dopo lo sbarco fu incaricato di “ripulire” le numerose grotte dell’isola e neutralizzare i soldati giapponesi che vi erano imboscati. Fatto determinante, parla correntemente giapponese. A forza di dialogo, Guy Gabaldon riesce, all’indomani della carica disperata dei soldati giapponesi, a convincere un gruppo di 800 individui che devono arrendersi e che otterranno una resa onorevole e rapide cure43. Poi, interrogato sul suicidio, dichiara: Molti giapponesi, sia civili che militari, si suicidarono. Era triste (sad) vedere i bambini battersi contro i genitori, supplicandoli che non li gettassero dall’alto delle falesie. «Ti prego papà, non mi uccidere. Non voglio morire». Quei genitori erano pericolosi, gente disperata che non voleva altro che uccidere «quei selvaggi americani» che avrebbero arrostito e mangiato i propri figli. «Hurley [nome di uno dei compagni di Guy Gabaldon], guarda tutte quelle persone allineate in cima alla falesia! Si stanno buttando tutti insieme. Mio Dio, fermali! Vieni». Uno dei gruppi era a duecento iarde da noi. Gridai loro [citazione in giapponese non tradotta], chiesi loro di smettere di uccidere i bambini. Ma vidi che si buttavano giù in gran numero mentre ci avvicinavamo. «Hurley, fermati. Se ci avviciniamo saltano giù tutti. Cerchiamo di parlarci». 41 Il disprezzo di Guy Gabaldon per il valore militare dei giapponesi è palese. Il suo odio emerge con evidenza in alcuni racconti e l’uccisione dei bambini da parte dei loro genitori è l’illustrazione della loro disumanità. Cfr. nota seguente. 42 James Burbeck, Introduction, in Id., An Interview with Guy Gabaldon, cit., ttps:// bit.ly/3pxd99P. 43 Talking with Guy, intervista con Guy Gabaldon, ibidem.

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Nel momento in cui ci siamo fermati, abbiamo potuto vedere quattro bambini precipitare. Chiedevano ai genitori di non ucciderli. Sembravano avere più fiducia in noi che in loro. Erano circa cinquanta in quel gruppo. Mi sembra che una decina di loro restò [in vita]. Uno di loro che sembrava il capo si mise a gridare al resto [del gruppo]… non sono capace di ripetere quello che ha detto, ma è ovvio che li incitava a non arrendersi. Le persone guardavano giù e vedevano i loro amici agonizzare. In quel momento preciso, uno di loro prese un bambino e lo lanciò. Doveva essere una specie di segnale perché hanno cominciato tutti a saltare. Nel giro di uno o due minuti, fu tutto finito, tutti [gli individui del gruppo] erano di sotto, o morti o agonizzanti. Prima di lasciare Saipan, mi recai allo stockade [campo di transito] per dire adiós a tutte le persone che conoscevo. Ve ne erano centinaia che avevo salvato da una morte certa. Uno di loro, Shimabukuro, era uno dei miei migliori amici [special friend] ed era diventato una sorta di barbiere personale. «Guy-san, prima che lei parta vorrei che vedesse una delle persone che ha salvato dal salto dalla falesia. Si ricorda quella donna che ha afferrato dopo che aveva lanciato il suo neonato dalla scogliera? La gente che c’era dice che la donna urlava e si batteva contro di lei, ma che lei non la mollava. Bene, la donna è impazzita qualche giorno dopo essere stata portata qui. Sembra che quando ha realizzato di avere ucciso suo figlio inutilmente – e che gli americani non avrebbero arrostito e mangiato i bambini – è diventata “Hidari-maki” (pazza). Venga, la porto da lei». Stava seduta là, spenta, guardando dritto davanti a lei. Dio mio, che visione patetica! Avrei dovuto lasciare che raggiungesse il suo bambino l’altro giorno, sulla scogliera. Era questo in verità l’orrore della guerra44.

Questo testo, prodotto forse da uno dei personaggi più vicini allo spettacolo della pulsione suicida, mostra uno dei meccanismi che la determinano. Oltre ad analizzare perfettamente l’angoscia atroce che assale i civili giapponesi all’arrivo dei G.I., la cui bestialità –  che si incarna nella credenza che divorino i bambini – è indubbia ai loro oc44 Ibidem.

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chi, questo testo lascia trasparire una dimensione incontestabilmente escatologica: a determinarne l’intensità è la paura dell’attacco alla discendenza, garante della sopravvivenza biologica del gruppo sociale. I bambini sono per di più oggetto di una minaccia di ingestione preceduta da un supplizio – essere arrostiti – la cui prospettiva fa desiderare ai loro genitori la morte come scappatoia. L’impatto eminentemente traumatico di questa credenza, il suo attacco assoluto alla discendenza e all’identità generano la pulsione suicida. La decristallizzazione della credenza – nella madre del lattante  – fa sorgere in seguito un altro trauma, altrettanto distruttivo, che aggiunge il senso di colpa dell’omicidio a quello della sopravvivenza. È, mi pare, questo meccanismo ad annientare la mente della giovane donna. È il vederla – costretto e forzato dal suo “amico” giapponese – che porta il “cane da guerra” che è il marine Gabaldon a rimpiangere di non aver semplicemente lasciato che si suicidasse, e a trasmettergli il parossismo traumatico. Qui tocchiamo il cuore del meccanismo parossistico che è la pulsione suicida collettiva in tempo di guerra nel Pacifico. Una sovramoltiplicazione dell’angoscia legata alla prospettiva della morte collettiva del gruppo che va certo ben oltre la spiegazione troppo semplice delle “tradizioni giapponesi”, comodo paravento che ha la sola funzione di ripetere la cultura bellica americana all’opera nel conflitto45. Questa angoscia collettiva la si ritrova nel caso tedesco. Riprendiamo un altro esempio raccontato da Peter Neumann. Non occorre riportare il testo anche stavolta: basterà ricordare che la descrizione dello stupro che apriva il racconto degli ultimi giorni di campagna del capitano SS implicava un attacco alla filiazione tanto deleterio quanto la credenza che gli americani mangiassero i bambini giapponesi46. Nel maggio del 1945, questa credenza, che rimette in causa l’identità biologica del gruppo, la sua esistenza stessa, sembra 45 Guy Gabaldon è del resto esemplare di questo stato di fatto: l’odio per i combattenti giapponesi – esplicito – che prova vari decenni dopo i fatti è certo meno percettibile quando parla dei civili, ma i suoi racconti sui suicidi militari giapponesi restano tipici dell’analisi che li fa rientrare nella “cultura giapponese”, ibidem. Sulla cultura bellica dei soldati americani nel Pacifico, cfr. John Dower, War without Mercy, cit. L’autore ha peraltro pubblicato un libro notevole sul Giappone e la sconfitta: Embracing Defeat, cit. 46 Peter Neumann, SS! Journal de marche, cit., p. 282.

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estremamente diffusa47. Il Sicherheitsdienst (SD), servizio di sicurezza delle SS, era incaricato sia del controllo degli oppositori –  razziali, politici e sociali – del regime, che dell’osservazione dei movimenti in seno all’opinione tedesca48. Ecco cosa dice l’ultimo dei suoi rapporti che ci sia arrivato: L’evoluzione della situazione militare, a partire dallo sfondamento sovietico dal capo del ponte di Boranov fino all’Oder, ha pesato fortemente sul nostro popolo. Da allora, ognuno si ritrova di fronte al problema puro e semplice della sopravvivenza. […] In queste condizioni, non c’è più differenza tra esercito e civili, Partito ed esterno al Partito, dirigenti e diretti, gente semplice e gente istruita, operai e borghesi, città e campagna […]. Si constatano essenzialmente i seguenti fatti: Dal momento dell’invasione sovietica è stato chiaro a tutti i membri della comunità nazionale che ci avviciniamo alla più grande catastrofe nazionale che abbiamo mai conosciuto e che essa avrà per tutte le famiglie e per tutti gli individui conseguenze pesantissime. Il popolo intero, senza alcuna distinzione, vive in un’angoscia ogni giorno più opprimente. Con l’evacuazione dei profughi dell’Est, l’orrore della guerra è giunto in tutte le città e in tutti i più remoti villaggi del Reich i cui confini si sono ormai ristretti. Gli attacchi aerei hanno sconvolto il corso relativamente normale della vita a un punto tale che ognuno ne è colpito. La popolazione patisce profondamente il terrore delle bombe. I legami tra le persone si sono praticamente spezzati. Decine di migliaia di uomini al fronte sono fino a oggi senza notizie, non sanno se le loro mogli, i 47 È un’opinione personale: se gli autori concordano sulla disperazione della popolazione tedesca, essi non sono unanimi sulla dimensione escatologica di questa angoscia. Caratteristico della lettura classica: Heinz Boberach, Die Stimmung in Deutschland im letzten Kriegsjahr 1944‑1945, in «Studien und Forschungen des Instituts für Niederösterreichische Landesgeschichte», vol. 20, n. 1, 1995, e, molto più recente, Ian Kershaw, The End, cit., che non ricorre alle nozioni dell’antropologia storica per limitare strettamente la sua analisi all’ordine dello studio delle opinioni pubbliche. 48 Alwin Ramme, Der Sicherheitsdienst des SS. Zu seiner Funktion im faschisticher Apparat und im Besatzungsregime der sogennante Generalgouvernements Polen, Deutscher Militär Verlag, 1970; Shlomo Aronson, Heydrich und die Frühgeschichte der Gestapo und des SD 1931‑1945, Ernst Reuter Gesellschaft, 1967.

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loro figli siano ancora in vita né dove si trovino. Non sanno se non siano stati già da tempo uccisi nei bombardamenti o nei massacri dei Soviet. […] Da ogni parte, si sente il bisogno che i clan e le famiglie si riuniscano; se la più estrema disgrazia si abbatte sulla Germania, le persone che restano vogliono perlomeno subirla tutte insieme. Certo, si tenta nervosamente qua e là di rassicurarsi dicendosi che alla fine non sarà forse così terribile. Una nazione di 80 milioni di persone non può mica essere sterminata fino all’ultimo uomo, fino all’ultima donna, fino all’ultimo bambino. Ci si dice che teoricamente i Soviet non dovrebbero prendersela con gli operai e con i contadini, perché ne hanno bisogno in tutte le città. Si sta attenti a tutto quello che si può sapere dei territori occupati da inglesi e americani. Ma dietro i discorsi di consolazione regna la più profonda angoscia, con il desiderio che le cose non vadano oltre. Per la prima volta dall’inizio della guerra, il problema dell’approvvigionamento si fa sentire davvero. Come colmo della disgrazia, si profila dunque lo spettro della fame. […] Se il disfattismo si definisce così superficialmente come lo abbiamo fatto fino a oggi, a partire dall’offensiva dei Soviet esso è un fenomeno generale nella nazione […]. Da questa disperazione generale si traggono individualmente le più svariate conclusioni. Gran parte della popolazione si è abituata a vivere giorno per giorno. Si approfitta di ogni piccolo piacere che ci si può ancora concedere. Qualsiasi occasione, per quanto insignificante, è buona per aprire l’ultima bottiglia, quella che si era messa da parte per celebrare la vittoria, l’uscita dal tunnel, il ritorno del marito o del figlio? Molti si abituano all’idea di farla finita. La richiesta di veleno, di pistole e di altri mezzi per mettere fine ai propri giorni è forte ovunque. Il suicidio per pura disperazione provocata dalla catastrofe annunciata è all’ordine del giorno49.

49 Dalla Meldung aus dem Reich [rapporto segreto dell’SD sulla situazione politica interna] del marzo 1945: Heinz Boberach (a cura di), Meldungen aus dem Reich, 1938‑1945. Die Geheime Lageberichte des Sicherheitsdientes des SS, Herrsching, 17 voll. e indici, 1984, qui vol. 17, pp. 6734‑6770; citato da Norbert Frei, L’État hitlerien et la société allemande (1933-1945), Seuil, 1994, pp. 295‑304, qui pp. 295‑299.

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Questo testo è tanto più prezioso in quanto dà elementi di risposta a proposito della diffusione dell’angoscia escatologica in seno alla società tedesca alla vigilia del crollo del Reich. Se non dice dell’angoscia dello stupro, contrariamente a quello di Neumann e a numerose testimonianze civili delle ultime ore apocalittiche della città di Demmin (Prussia orientale), ormai ammirevolmente trattate da Florian Huber50, se non fa che menzionare la paura del massacro dei civili, esso è comunque una prova della grandissima prossimità tra i sistemi di rappresentazione della società civile e del mondo combattente, permettendoci così di pensare che l’espressione militare della pulsione suicida provenga, sì, nell’esempio tedesco, dagli stessi meccanismi del suicidio civile, il quale, certo, è cospicuamente presente. Non si può generalizzare l’esperienza suicida dei civili tedeschi e giapponesi estendendola all’insieme delle popolazioni in guerra. Nel 1918 la disfatta tedesca provocò probabilmente una recrudescenza di suicidi. Un numero non paragonabile, tuttavia, a quello dell’uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Si è trattato in entrambi i casi di sequenze provocate da disfatte militari. Le modalità della disfatta sono state sicuramente molto diverse. In un caso, essa è stata un periodo di turbamento e di diffusione a tutto campo della violenza nel corpo sociale; nel secondo caso, la diffusione si è fatta invasione, il suolo tedesco è diventato un campo di battaglia massicciamente distrutto. In entrambi i casi, le rappresentazioni portarono il sigillo dell’escatologia: nel 1918, i tedeschi percepirono Rethondes – poi Versailles – secondo il metro della «volontà di annientamento» dell’Intesa51. Nel 1945, questa rappresentazione fu appoggiata dall’arrivo di diversi milioni di soldati di eserciti stranieri che – nel caso sovietico – saccheggiarono e violentarono sistematicamente52. I fatti, qui, sembravano apportare 50 Florian Huber, Promise Me You’ll Shoot Yourself: The Downfall of Ordinary Germans, 1945, Penguin, 2019, in particolare pp. 105 sgg. 51 Sintomatico di questa lettura è il best-seller di Werner Beumelburg, Sperrfeuer um Deutschland, 1941, la cui riedizione è stampata a più di 400.000 copie. Per uno studio innovatore del Trattato di Versailles dal punto di vista del sistema di rappresentazione tedesco, cfr. Gerd Krumeich, Silke Fehlemann, Versailles 1919, Klartext, 2001, e, di recente, Gerd Krumeich, L’Impensable Défaite. L’Allemagne déchirée, 1918‑1933, Humensis, 2019. 52 Per un primo approccio dell’atteggiamento sovietico durante la prima fase di occupazione, si veda Manfred Zeidler, Kriegsende im Osten: Die Rote Armee und die

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una conferma empirica delle rappresentazioni diffuse dalla cultura bellica nazista. Fu il confronto con gli eserciti invasori a provocare la pulsione suicida nel 1945. Nel 1918, i suicidi hanno numeri molto più ridotti, e riguardano individui che decompensano l’investimento affettivo effettuato in guerra. È un suicidio da rifiuto della disfatta, suicidio essenzialmente individuale senza grande rapporto con i suicidi – o con le pulsioni suicide collettive – che caratterizzano i comportamenti collettivi della fine della Seconda Guerra Mondiale. Albert Ballin era uno dei più ricchi uomini d’affari di Amburgo. Aveva fatto fortuna nel commercio e dirigeva una compagnia di trasporti marittimi tra le più prospere della città, anche se il blocco imposto dagli Alleati aveva inferto un colpo durissimo ai suoi affari. Il 9 novembre 1918, Albert Ballin si suicidò ingerendo dei sonniferi. Il suo suicidio, indubbiamente, era un suicidio del rifiuto della disfatta: fu l’annuncio della richiesta d’armistizio a provocare il gesto, e non le conseguenze prodotte da questa disfatta, e in particolare la rivoluzione, che certo scoppiò il giorno della sua morte, ma senza che ne fosse realmente percettibile l’ampiezza53. Questo suicidio non è della stessa natura del suicidio giapponese o tedesco della Seconda Guerra Mondiale: a provocare il gesto in questi ultimi due casi è lo spettro corollario dell’argomentario di guerra totale, l’impossibilità di elaborare rappresentazioni capaci di accollarsi l’angoscia di scomparsa biologica collettiva. Questo studio del suicidio civile durante la Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, non può essere considerato esaustivo. I suicidi di emigrati tedeschi, riacciuffati o meno con l’invasione tedesca nel maggio 1940 (penso ovviamente a Walter Benjamin ma anche a Stefan Zweig), o quello degli ebrei tedeschi minacciati di deportazione a partire dal 1941, non rientrano negli schemi mentali che abbiamo qui descritto54. Non sono né suicidi dettati dal rifiuto di una disfatta, né suicidi Besetzung Deutschland östlich von Oder und Neiße 1944/45, Oldenbourg, 1996; Norman M. Naimark, The Russians in Germany, cit. 53 Saul Friedländer, Les Années de persécutions (1933‑1939). L’Allemagne nazie et les Juifs, tomo 1, Seuil, 1997, p. 83; si veda anche Lamar Cecil, Albert Ballin: Business and Politics in Imperial Germany, 1888‑1918, Princeton University Press, 1967. 54 Qui pensiamo a Jochen Klepper, romanziere che tentò di evitare la deportazione alla moglie e alla cognata ebree e finì per suicidarsi con loro. Cfr. Wolfgang Benz, Überleben im Hintergrund, in Id. (a cura di), Die Juden in Deutschland 1933‑1945,

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risultanti dalla cristallizzazione di un’angoscia escatologica. È difficile assimilarli a suicidi come uscita dalla guerra, tanto rispondono ad altre logiche psichiche che sfuggono in gran parte all’osservatore. L’angoscia della scomparsa collettiva dei gruppi sociali, osservata in queste due sequenze di suicidio che si distinguono per l’imponenza del fenomeno o per l’ampiezza della diffusione della sua eventualità, svolge tuttavia un ruolo centrale nel suicidio civile come uscita dalla guerra. Lo studio di alcuni itinerari di persone suicide può permettere di illustrare come il suicidio si iscriva nella realtà. Itinerari suicidi Se si considerano i suicidi di guerra e di disfatta tedeschi nel 1945, prescindendo dai comportamenti metasuicidari già studiati, emerge un’immagine estremamente eterogenea. Moltissimi membri dei gruppi funzionali come quello dei Gauleiter o degli HSSPF55 si uccidono massicciamente nel 1945, mentre altri, i generali della Wehrmacht o delle Waffen-SS per esempio, optano in minor numero per questa soluzione disperata. Se si esaminano i gradi più modesti della gerarchia, i tassi di suicidi si abbassano molto rapidamente. E si è allora tentati di vedere nella partecipazione al genocidio un criterio che porta al suicidio: un dignitario nazista, sapendosi gravemente implicato e aspettandosi di essere giudicato, condannato a morte e giustiziato dagli Alleati, si ucciderebbe per sfuggire a questo destino. Il caso di Rudolf Lange, ex funzionario della Gestapo responsabile del centro di sterminio di Chełmno e dei suoi camion a gas che sterminarono più di 100.000 ebrei, potrebbe sembrare una perfetta illustrazione di questo caso56. Invece non è così: Lange si suicida nel marzo del 1945 in una Poznań assediata dai sovietici. Assegnato a un’unità di combattimento delle SS e gravemente ferito, ha constatato che la sua ferita lo rendeva non Beck, 1988, pp. 660‑700. Citato anche in Pierre Ayçoberry, La Société allemande sous le Troisième Reich, cit., p. 323. 55 Höhere SS- und Polizeiführer, generali nazisti che dirigevano le SS e la polizia in regioni e territori occupati. Cfr. su questo Ruth Bettina Birn, Die Höheren SS und Polizei Führer, Himmler Stellvertreter im Reich und Besetzen Gebiete, Droste, 1986. 56 A tal proposito, cfr. Götz Aly, Endlösung, cit.

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trasportabile, e ha deciso di mettere fine ai suoi giorni57. Il suo suicidio non sembra aver avuto a che vedere con il suo passato genocida, ma sembra poter essere assimilato a un suicidio combattente più classico nella guerra totale, e motivato dalla determinazione a non cadere vivo nelle mani dei sovietici. Dunque rappresenta un caso vicino a quello che tentava di descrivere Peter Neumann nel suo “diario”. Il criterio della coscienza del coinvolgimento nel genocidio sembra dunque non aver svolto che un ruolo minore nel gesto suicida e nel suo scatenamento. Se certi dignitari nazisti si sono forse uccisi perché non volevano rispondere dei loro crimini, questo criterio non delinea alcuna demarcazione tra coloro che scelgono di non sopravvivere e coloro che, al contrario, tentano di sopravvivere alla disfatta. Se i Gauleiter hanno certamente svolto un ruolo nella deportazione degli ebrei tedeschi58, essi non ebbero un ruolo di primo piano nel sistema di concentramento e di sterminio nazista. Eppure molti di loro si sono suicidati nel 1945. I dirigenti degli Amt [uffici] dell’RSHA – loro sì furono i principali istigatori ed esecutori della «Soluzione Finale della Questione ebraica» – hanno quasi tutti optato per la sopravvivenza: uomini come Heinrich Müller o Otto Ohlendorf avevano partecipato in maniera diretta al genocidio ed entrambi scelsero di non suicidarsi. Uno tentò di sparire, sfuggendo a tutte le ricerche, mentre l’altro scelse di affrontare i suoi giudici e di imbastire una ambiziosa strategia di giustificazione dei crimini commessi: fuggire o affrontare, ma sopravvivere, perlomeno temporaneamente59. La coscienza dell’implicazione nei processi genocidi non è dunque un criterio determinante nella scelta del suicidio: uomini relativamente poco implicati nel processo si sono suicidati, mentre altri, che hanno svolto un ruolo centrale nello sterminio, hanno scelto di sopravvivere. 57 Circolare che annuncia il suicidio di Lange, ZStL, 204 AR-Z 48/58 (indagine sul Battaglione di polizia 320 e sul KdS Rowno [audizione di testimoni]), vol. 11, ff. 1607‑1610. 58 Per l’esempio di Amburgo, si veda Frank Bajohr, Joachim Szodrynski (a cura di), Hamburg in der NS-Zeit. Ergebnisse neuerer Forschungen, Ergebnisse Verlag, 1995. 59 Otto Ohlendorf, infatti, scegliendo di giustificare la sua azione nell’Est e il genocidio, accettò implicitamente la sua condanna a morte. Fu effettivamente condannato e impiccato dopo una polemica che divise l’opinione tedesca nel 1952. A tal proposito, cfr. Norbert Frei, Vergangenheitspolitik, cit., pp. 239 sgg.

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Uno dei criteri di cui tener conto in questa ricerca sembra essere quello dell’età degli individui in questione: la maggior parte dei capi servizio dell’RSHA che, malgrado la loro implicazione, scelgono di non suicidarsi, sono uomini relativamente giovani60. In particolare, nessuno di loro ha partecipato alla Grande Guerra come soldato. Per loro, il crollo del 1945 è il primo, mentre gli uomini della generazione precedente – compresi Hitler, Göring e Goebbels  – vivono la loro seconda disfatta (con l’eccezione di Goebbels che non ha combattuto per menomazione fisica). E se proviamo a tener conto di questo criterio, incrociandolo con quello delle funzioni, possiamo constatare che la scelta del suicidio, nelle funzioni medie e superiori dell’apparato nazista, riguarda soprattutto i militanti – i funzionari di Stato per esempio si suicidano molto meno di quelli del partito – e gli ex soldati della Grande Guerra. Come se la scelta del suicidio risultasse dall’impossibilità di accettare l’abbandono del millenarismo nazista, come se fosse tanto più impossibile per loro accettare di vivere un secondo crollo. Uno dei rari Gauleiter a non essersi suicidato è Gustav Adolf Scheel, Gauleiter della regione di Salisburgo. Ora, quest’uomo ha un percorso atipico per un Gauleiter. Mentre la maggior parte di quegli uomini sono vecchi militanti nazisti, che per lo più hanno una cinquantina d’anni nel 194561, Gustav Adolf Scheel, medico di formazione, ne ha 38. Nato nel 1907, non ha partecipato ai combattimenti della Grande Guerra, ha fatto carriera nelle organizzazioni di arruolamento degli studenti nazisti, poi nelle SS e nella polizia, prima di essere nominato Gauleiter nel 193962. Di fronte alla disfatta, il suo atteggiamento è profondamente diverso da quello dei Gauleiter delle regioni dell’Est o del Nord della Germania, che rifiutano le evacuazioni di popolazione,

60 Per il loro profilo generazionale e sociologico, come anche per elementi di paragone con altri gruppi di responsabili nazisti, cfr. Jens Banach, Heydrichs Elite. Das Führerkorps der Sicherheitspolizei und des SD 1936‑1945, Schöningh, 1998. 61 Tabelle comparative in Herbert F. Ziegler, Nazi Germany’s New Aristocracy: The SS Leadership 1925‑1939, Princeton University Press, 1989; cfr. anche Michael Kater, The Nazi Party. A social Profile of Members and Leader, Oxford University Press, 1983. 62 Lebenslauf (Racconto di vita) Gustav Adolph Scheel, BADH, ZM/1455, A.3, f. 106; Lutz Hachmeister, Der Gegnerforscher. Zur Karriere des SS-Führers Franz Alfred Six, Beck, 1998.

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esortano a fare terra bruciata e a combattere fino alla fine63. Scheel è probabilmente l’unico Gauleiter ad aver consegnato i territori sotto la sua giurisdizione in modo regolare, senza combattimenti. Non si suicidò e tentò di garantire la continuità amministrativa e la sicurezza delle popolazioni civili. Anche se non si possono ridurre le circostanze della resa della regione alpina – che doveva essere invasa dagli americani e dai francesi – alla sola azione di Scheel, resta il fatto che il suo comportamento fu determinante nell’evoluzione degli eventi64. Possiamo pensare che in lui l’assenza di atteggiamenti suicidi, sia sul piano personale che sul piano della pratica politica, derivi dal fatto che questa era la sua prima esperienza di disfatta e che poteva ancora pensare di sopravvivere a essa? Ovviamente è difficile rispondere a questa domanda ma sembra proprio che il criterio dell’età – e dunque della differenza di esperienza di fronte alla disfatta – abbia svolto un ruolo determinante nella differenza di comportamento tra i dignitari nazisti. Se per un buon numero di nazisti era impossibile pensare il futuro collettivo della nazione tedesca sconfitta dai russi, un tale ragionamento era ancora più valido per chi aveva combattuto nelle due guerre e viveva l’invasione sovietica nello specchio deformante della memoria della Grande Guerra – della sconfitta e della rivoluzione del 1919 – e del determinismo razziale nazista. Tentiamo adesso di ricostruire alcuni itinerari di individui che scelsero di suicidarsi. Il lungo discorso che precede lo avrà fatto capire: questi esempi saranno essenzialmente legati alla disfatta nazista del 1945. Abbiamo visto l’esempio del tentativo di suicidio di Peter Neumann, che sembra testimoniare di tali pratiche. Queste, non essendo di massa, sfuggono tanto più allo sguardo dello storico in quanto il desiderio di morte si trova sconnesso dal gesto della morte volontaria. 63 Cfr. la descrizione del loro ruolo in Pierre Ayçoberry, La Société allemande sous le Troisième Reich, cit., pp. 254-256. Vedi anche, per il caso della Prussia orientale e del Warthegau, Manfred Zeidler, Kriegsende im Osten, cit. 64 Su Scheel non disponiamo che della biografia agiografica di Georg Franz Willing, «Bin Ich Schuldig?» Leben und Wirken des Reichsstudentenführer und Gauleiters Dr. Gustav-Adolph Scheel 1907‑1979. Eine Biographie, Leoni am Starnberger See, 1987; Karl Heinz Roth, Heydrichs Professor: Historiographie des “Volkstums” und der Massenvernichtungen. Der Fall Hans Joachim Beyer, in Peter Schättler (a cura di), Geschichtsschreibung als Legitimationswissenschaft, 1918‑1945, Suhrkamp, 1997, pp. 262‑342, qui pp. 266‑271, per il suo lavoro all’SD.

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Là si trattava di una pulsione suicida provata in pieno combattimento, nel momento in cui la prospettiva della disfatta, della prigionia e della scomparsa collettiva s’impone alle SS. Il suicidio è nella fattispecie un modo militare di uscire dalla guerra provocato da un sistema di rappresentazione ampiamente condiviso dalle popolazioni. Il caso che vorremmo qui trattare è molto più noto. Hermann Göring, che fu a lungo la seconda figura più elevata del Terzo Reich, non si è suicidato alla fine di un combattimento disperato contro i sovietici65. Egli è il più eminente dirigente del Terzo Reich caduto nelle mani degli Alleati da vivo. Fu perciò il principale imputato al processo dei grandi criminali di guerra nazisti. Vi si distinse per una difesa ostinata: discusse per esempio i filmati sulle atrocità naziste mostrati durante le sessioni, sostenendo che si trattava di un montaggio di immagini provenienti dai sovietici, i quali tentavano così, a suo dire, di attribuire ai tedeschi massacri di cui erano gli autori66. La sua difesa fu pugnace e Göring diede talvolta prova di carisma, assimilando, ogni volta che poteva, i suoi atti a quelli di un combattente e ricontestualizzando le sue pratiche in quelle della guerra totale che combatteva la Germania. Reo di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, cospirazione contro la pace, Göring, come dieci dei suoi compagni, fu condannato a morte per impiccagione e si suicidò ingerendo del cianuro giusto qualche ora prima dell’esecuzione della sentenza. Göring non fu né il primo né l’ultimo degli imputati dei diversi processi di Norimberga a suicidarsi67. Prima di lui, Robert Ley, per esempio, l’ex capo del Fronte del Lavoro, si era impiccato alla catena dello sciacquone del bagno della sua cella68. Il suo comportamento, se sem65 La miglior biografia è quella di Alfred Kube, Pour le mérite und Hakenkreuz. Hermann Göring im Dritten Reich, Oldenbourg, 1986; per il periodo precedente il 1933, si veda anche Stefan Martens, Hermann Göring «erster Paladin des Führers» und «zweiter Mann im Reich», Schöning, 1985. 66 A tal proposito si legga Christian Delage, L’image comme preuve. L’expérience du procès de Nuremberg, in «Vingtième siècle. Revue d’histoire», vol. 4, n. 72, 2001, pp. 63‑78. 67 Uno degli imputati del processo delle Einsatzgruppen si suicidò nella sua cella nel 1948. Breve scheda biografica in François Bayle, Psychologie et éthique du National-socialisme. Étude anthropologique des dirigeants SS, PUF, 1953. 68 Su Robert Ley, cfr. Ronald Smelser, Robert Ley. Hitler‘s Labor front Leader, Berg, 1988.

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bra abbastanza simile a quello che avrebbe adottato Göring qualche mese dopo, forse, approfondendo l’analisi, non lo è poi tanto: la prima differenza tra i due suicidi deriva dalla data in cui hanno luogo. Ley si uccide qualche giorno dopo essere messo in stato d’accusa, mentre Göring lo fa due ore prima della sua esecuzione. La lettera lasciata da Ley spiega il suo gesto con il fatto che non vuole «subire più a lungo la vergogna» di comparire davanti al tribunale, mentre Göring affronta i suoi giudici fino alla fine. Robert Ley, che non è un ex combattente, sceglie di impiccarsi e di morire per strangolamento, mentre Göring sceglie di avvelenarsi precisamente per sfuggire all’impiccagione. Se il suicidio di Ley può apparire come un suicidio dovuto alla vergogna e al senso di colpa – la sua ultima lettera è un appello alla riconciliazione tra ebrei e tedeschi –, quello di Göring non può certamente essere analizzato in questi termini. L’ex asso della Grande Guerra figurava già sulle liste dei criminali di guerra che dovevano essere giudicati alla fine della Prima Guerra Mondiale, e aveva già dovuto considerare l’eventualità di un giudizio. Per lui, il tribunale è legato alla capitolazione. Si tratta di una «giustizia del vincitore» (Siegerjustiz) che della giustizia non ha che l’apparenza69. La corte, per lui, è il campo di battaglia finale, una tribuna per tentare di giustificare. Göring era convinto che sarebbe stato condannato a morte e giustiziato da militari, come un militare, ossia da un plotone di esecuzione: in qualche modo, una uscita militare dalla guerra. È la prospettiva di essere privato di quest’ultimo finale a spingere l’ex capo della Luftwaffe ad avvelenarsi. Durante la visita di addio che ogni condannato a morte riceve prima dell’esecuzione, egli dichiara alla moglie che gli Alleati non lo impiccheranno70. Difatti, due ore prima dell’esecuzione, decedeva dopo aver ingerito il contenuto di una capsula di cianuro. 69 Il termine è tratto dall’articolo pioniere di Martin Broszat, SiegerJustiz oder Strafrechtliche ‘Selbstbereinigung’? Aspekte der Vergangenheitsbewältigung der deutschen Justiz während der Besatzungszeit, in «Vierteljahresheft für Zeitgeschichte», n. 29, 1981. Broszat lo trae da parole di ex nazisti poiché molti imputati sono in questa condizione: Otto Ohlendorf dichiara nella sua ultima allocuzione prima della condanna che i verdetti erano noti da prima, il che non gli ha impedito affatto di collaborare con gli investigatori né di parlare liberamente davanti al tribunale. Otto Ohlendorf, dichiarazione del 13/2/1948, TWC, t. IX, pp. 386‑394. 70 Emmy Göring, Göring, Presses de la Cité, 1963, pp. 290‑291.

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Bisogna ora tentare di capire sia il senso di repulsione per l’impiccagione che quello della scelta del veleno per quest’uomo imbevuto di cultura militare, vissuto in un sistema referenziale la cui marca distintiva era l’esperienza di combattente accumulata durante la Grande Guerra. Per capire bene ciò che poteva spiegare l’ostinazione di Göring a far cambiare questo modo di esecuzione, è possibile tornare alla percezione che i militari tedeschi avevano dei modi di esecuzione usati in Germania e nei territori occupati, studiata nel capitolo precedente. Nell’estate del 1943, in pieno genocidio, gli organi repressivi del Terzo Reich emanarono testi che codificavano la procedura di esecuzione dei condannati a morte71. Istituendo un rito estremamente dettagliato dell’uccisione dei condannati, queste misure delineavano un ordine immaginario e tracciavano un certo numero di tabù. Questi testi contemplavano tutti i casi di condannati, elencando le misure per i tedeschi del Reich, i tedeschi etnici, gli allogeni (russi, polacchi, baltici, ucraini, ecc.), e i detenuti di campi di concentramento. Per ognuno di questi casi, le misure differivano, anche se gli unici due modi di esecuzione previsti erano la fucilazione e l’impiccagione72. Non è possibile né opportuno elencare qui di nuovo nel dettaglio le misure prese in questi testi. Limitiamoci a ricordare qualcuno dei tabù da essi veicolati. Se il primo di questi tabù rendeva impossibile l’uccisione di un tedesco – del Reich o etnico – da parte di un allogeno, esisteva una seconda impossibilità: quella di vedere un tedesco libero condannato all’impiccagione. I tedeschi detenuti nei campi di concentramento, invece, potevano secondo i testi essere impiccati, ma in questo caso, come in quello dell’esecuzione di un allogeno, il boia non poteva e non doveva essere un tedesco in uniforme73. Questo testo dice proprio dello statuto infamante – tanto per la vittima quanto 71 Progetto di circolare RMfdbO, non datata, con lettera d’accompagnamento del 7/71943, BABL, R-58/3568, ff. 10‑13; documento RSHA IV D 2, 6/1/1943, firmato Himmler, BABL, R-58/3568, ff. 15‑20. 72 I testi non menzionano gli ebrei che non vengono giustiziati ma sottoposti a trattamento speciale, misura che rientra in un immaginario diverso da quello delle misure qui descritte. 73 Documento RSHA IV D 2, 6/1/1943, firmato Himmler, BABL, R-58/3568, ff. 15‑20.

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per il boia – dell’impiccagione, castigo che dimostrava l’inferiorità di colui che lo subiva o, se era tedesco, la sua messa al bando dalla Volksgemeinschaft nazista. In tutti i casi, l’impiccagione rivestiva un carattere stigmatizzante nell’immaginario nazista. In cima alla gerarchia tracciata da questi testi, si trovava l’esecuzione di un tedesco del Reich da parte di un plotone tedesco. I riti, in questo caso, erano fissi, dal numero dei tiratori fino alle modalità di annuncio dell’esecuzione al condannato e alle persone che lo accompagnavano sul posto74. L’esecuzione restava un rito militare, con una gerarchia, una uccisione collettiva innescata da un ordine: un militare condannato a morte riceveva una morte che non lo rigettava fuori dalla casta. Pur giustiziato, egli restava un membro della classe combattente. Tale era l’universo simbolico dei delitti e delle pene interiorizzato da Göring. L’ex capo della Luftwaffe, un veterano e per giunta un alto graduato, non poteva che patire fortemente la dimensione degradante dell’impiccagione che lo aspettava. Tale era certo il motivo per cui la rigettava. Egli doveva peraltro conformarsi anche alla sua identità militare – e razziale: il documento qui menzionato delineava la gerarchia dei delitti e delle pene secondo criteri razziali e sociali. In cima a questa scala, il suppliziato che riceveva la morte, accompagnato da un uomo di Chiesa, dopo essere stato regolarmente avvertito due ore prima dell’esecuzione e aver ricevuto un ultimo pasto di sua scelta e una sigaretta, c’era ovviamente il militare tedesco75. Göring, chiedendo che si cambiasse il modo di esecuzione, aspirava così a che gli Alleati rispettassero l’identità che si era costruito. Resta il fatto che il suo suicidio per avvelenamento, pur permettendogli di sfuggire all’infamia della forca, non poteva ambire a rappresentare l’archetipo della morte onorevole per un militare. La testimonianza di un altro soldato della Grande Guerra, anche lui oggetto di una condanna a morte, anche lui destinato a essere impiccato, può forse contribuire a dare un elemento di risposta determinante. Rudolf Höss, soldato della Grande Guerra, militante nazista della prima ora e responsabile dello sterminio ad Auschwitz, fu giudicato e impiccato nel campo di concentramento polacco nel 1947.

Qualche settimana prima di essere giustiziato, terminava così il volume scritto durante la prigionia:

74 Progetto di circolare RMfdbO, non datata, con lettera d’accompagnamento del 7/71943, BABL, R-58/3568, ff. 10‑13, in particolare nn. 4 e 6, ff. 11 e 12. 75 Ibidem.

76 Rudolf Höss, Kommandant in Auschwitz, Deutscher Verlag Anstatt, 1958; trad. it. Comandante ad Auschwitz, Einaudi, 1985, p. 166. Ringrazio Nicolas Beaupré per avermi ricordato questo testo.

Il destino mi ha giocato degli strani tiri. Quante volte sono sfuggito alla morte per un pelo. Nella Prima Guerra Mondiale, nei combattimenti del Corpo volontari, in incidenti sul lavoro, nell’incidente d’auto del 1941, quando mi trovai all’improvviso davanti un autocarro a luci spente, e proprio per la frazione di un secondo riuscii a evitarlo e a passargli a lato. Così l’urto avvenne di fianco, e noi ce la cavammo con escoriazioni e contusioni, sebbene la parte anteriore della nostra macchina si fosse schiacciata come una fisarmonica. Vi fu poi la caduta da cavallo, nel 1942, quando caddi proprio a un pelo da una roccia, con il pesante stallone addosso. Me la cavai con la rottura di qualche costola. Durante gli attacchi aerei, quante volte non avrei dato un quattrino per la mia vita, e pure riuscii a sopravvivere a tutto. Vi fu ancora un incidente automobilistico prima dell’evacuazione di Ravensbrück. Tutti mi credevano già morto, e dato il modo in cui si era svolto l’incidente, avrei dovuto esserlo, eppure non fu così. Vi fu poi la rottura della fiala di veleno, prima del mio arresto. In ogni occasione, il destino mi ha preservato dalla morte per annientarmi ora in modo così infamante. Come invidio i miei camerati cui è toccata la morte onorata del soldato76.

Le poche frasi di Höss lasciano ben trasparire una simile gerarchia nei modi di morire. La fiala del veleno «[rotta] prima del mio arresto» è chiaramente esclusa dai mezzi degradanti di porre fine alla propria esistenza. Probabilmente Höss non l’assimila a quella «morte da soldato» a cui, sull’esempio di Göring, aspirava. Ma, ai suoi occhi, è comunque meglio della forca che l’aspetta, quella fine degradante. Non si può pensare che un ragionamento analogo abbia potuto essere presente alla mente di Göring, dal profilo così vicino a quello di Höss, tanto sul piano biografico quanto su quello di un’identità militare conservata al di là del passaggio nelle strutture delle SS per il comandante di Auschwitz, al di là degli uffici ministeriali per Göring?

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Per l’ex capo della Luftwaffe, il suicidio per avvelenamento era così il mezzo per conservare la sua identità di soldato. Era per lui un modo di uscire dalla guerra? La morte da soldato a cui aspirava era sicuramente la testimonianza della sua volontà di non uscirne mai. Il suicidio, allora – anche al di là della conservazione della sua identità militare –, diventava un mezzo per sfuggire al dominio dei vincitori, estremo gesto da combattente dopo aver condotto un’ultima battaglia contro i giudici. Questi ultimi, del resto, non concepivano forse l’impiccagione come l’ultimo dei loro argomenti nel processo che si era svolto a Norimberga? Göring l’aveva ben capito, essa era un modo di esecuzione civile dei criminali: non era in nessun caso – né in Francia, né in URSS, né in Inghilterra, né negli Stati Uniti – il modo di esecuzione previsto dalle giurisdizioni militari. Eppure quasi tutti i membri della corte – eccetto Telford Taylor –, erano militari in servizio, scelti per le loro competenze giuridiche. Non si trattava, facendo giustiziare i condannati a morte tramite impiccagione, di affermare definitivamente che i crimini commessi dai dignitari nazisti durante quella guerra non rientravano in un comportamento da tempo di guerra? Mentre l’argomentario nazista aveva presentato durante tutta la guerra le diverse pratiche di sterminio, predazione economica e distruzione sistematica, come gli elementi di una strategia militare essenzialmente difensiva e di una politica di occupazione che mirava alla sicurezza e all’utilizzazione delle risorse77, ricorrendo all’impiccagione gli Alleati negavano definitivamente il fatto che quello che si era svolto nell’Europa sotto il dominio nazista avesse avuto qualcosa a che vedere con una guerra78. Göring, sottraendosi alla forca, tentava evidentemente di sfuggire alla categorizzazione criminale. Se è forse riuscito a conservare la sua identità militare scegliendo il veleno, la dimensione discorsiva del suo gesto, se essa è stata di fatto coscientemente costruita, che consisteva nel fare del suo gesto quello di un combattente, non fu mai interpretata nel senso che lui voleva darle. 77 Rinvio qui a Christian Ingrao, Culture de guerre, cit.; per quanto concerne la dimensione industriale del genocidio – i campi di sterminio – lo studio della retorica di legittimazione resta ancora da scrivere. Non si dispone a oggi di alcuno studio del sistema di rappresentazione dei membri delle guarnigioni dei campi. 78 Ricordiamolo: tre dei quattro capi d’accusa messi a punto dagli Alleati non menzionavano la guerra.

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Agli occhi degli Alleati – come dei nostri senza dubbio – si trattava di un ultimo modo di tirarsi indietro, dell’ultima vigliaccheria di un criminale. Conclusione Non bisogna perdere di vista, al termine di questo capitolo, il rischio che comporta lo studio del parossismo scaturito immancabilmente da questi “suicidi di guerra”, che non furono tutti dettati dal desiderio di terminare la guerra: anzi. Né potevamo esaminarli tutti: abbiamo dovuto dunque abbandonare l’idea di studiare il suicidio nelle comunità ebraiche che subirono direttamente le politiche genocide; abbiamo anche dovuto rinunciare a prendere in considerazione il suicidio in altri conflitti. Tentiamo malgrado tutto di trarre una conclusione, perlomeno per i casi qui affrontati: l’esperienza di guerra totale ha generato nei tedeschi e nei giapponesi sconfitti una pulsione suicida molto diversa nella sua ampiezza. Massiccia tra i soldati giapponesi come tra i civili nelle isole Marianne, questa sequenza micidiale non è analizzabile facendo appello soltanto alla “tradizione giapponese”. Se l’immaginario del Seppuku ha svolto un ruolo nel concatenamento dei comportamenti suicidari, esso ha certo visto la sua eco considerevolmente amplificata dalla diffusione di un’immagine dell’americano sufficientemente terrorizzante perché un gran numero di civili e militari decidessero di non cadere da vivi tra le mani dei marines. La credenza nel fatto che i soldati americani mangiassero i bambini, in particolare, si è sufficientemente diffusa tra le popolazioni civili delle isole Marianne perché si assistesse al suicidio di massa di diverse migliaia di civili sul Suicide Cliff, la falesia di Saipan. Questa credenza ha così provocato la crescita di un’angoscia escatologica abbastanza potente da generare un comportamento suicida di un’ampiezza forse mai osservata fino ad allora. Il caso tedesco, in fondo, non differisce che per la vastità del fenomeno. L’arrivo dei sovietici e la diffusione dei racconti che dipingevano le loro pratiche di stupro provocarono la cristallizzazione di comportamenti metasuicidari in combattimento, e dei casi certo più isolati di suicidi tra i civili. Ben 3.881 persone si suicidarono all’arrivo

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dei sovietici a Berlino79. La cifra indica certo un fenomeno ampio, ma non vi sono paragoni con il caso giapponese. In entrambi i casi, tuttavia, è stata l’impossibilità di accettare la disfatta, provocata dall’interiorizzazione profonda di un argomentario di guerra totale, a generare il comportamento suicidario. Il suicidio, nella fattispecie, non è un modo per uscire dalla guerra: è impossibilità di uscirne. Questo fenomeno è tanto più espresso in Germania in quanto la disfatta del 1945 è la seconda che subisce una generazione di combattenti che avevano inizialmente caricato il nazismo di una funzione simbolica di interpretazione e di riparazione della disfatta del 1914. Trattandosi della seconda sconfitta in una guerra totale, che di conseguenza metteva in gioco l’intera esistenza della nazione ai loro occhi, l’implosione del 1945 non può avere altro corollario che la scomparsa politica, culturale e razziale – tramite lo stupro e lo spettro dello sterminio  – della Germania. L’impossibilità di trovare una salvezza collettiva è dunque il motore principale della pulsione suicida. La guerra, insomma, non presenterebbe un’uscita, bensì un vicolo cieco parossistico. Il caso di Hermann Göring, lungi dall’essere fondamentalmente diverso80, sembra ben illustrare il fenomeno: dopo aver continuato a combattere, in tribunale, una lotta che per lui era perduta fin dall’inizio, Göring si è voluto sottrarre alla forca, supplizio infamante ai suoi occhi. Il veleno, così, fu per lui l’ultima difesa della sua identità guerriera; l’ultimo modo di restare in guerra.

79 Cifre date in Ian Kershaw, The End, cit, che cita Christian Goeschel, Suicide at the end of the Third Reich, cit., qui pp. 162‑163. Per quanto riguarda Saipan, le cifre sono variate molto. La bibliografia tradizionale stimava i suicidi tra gli 8.000 e i 22.000, ma lo studio di Alexander Astroth, fondato sulle fonti americane, stima a 2.000 le vittime (8% della popolazione civile totale). Cfr. Alexander Astroth, Introduction, in Id., Mass Suicides on Saipan and Tinian, 1944, cit., pp. 3‑5. 80 Perché lo sarebbe, del resto? Fa parte lui stesso della generazione che ha vissuto le due guerre. Va tuttavia notato che non esprime mai l’angoscia escatologica sensibile in altre dichiarazioni, come quella di Otto Ohlendorf al processo delle Einsatzgruppen, il 13/2/1948 in TWC, t. IX, pp. 386‑394.

V. Volti del pronto soccorso Dispositivi, esperienza, parossismo (Parigi, 13 novembre 2015)1

A Louise Deluermoz

Per uno storico, lanciarsi a studiare il pronto soccorso è una vera e propria sfida; specie se, come chi scrive, deve ammettere di essere un principiante assoluto di storia della medicina. Ma chi si occupa di storiografia non è poi così sprovveduto, in quanto possiede gli strumenti adeguati a dare un’occhiata a questo oggetto multiforme che rappresenta un campo ideale per lo storico che intenda esplorare i tratti del parossismo all’inizio di questo XXI secolo. Prima di tentare di spiegare il perché, occorre circoscrivere un po’ il campo del nostro nuovo oggetto di osservazione. Non ci occuperemo del Pronto Soccorso come luogo topografico e locus discorsivo, che pure sarebbe uno splendido argomento per chi volesse contemplare il lato in ombra che si trova dietro le facciate ornamentali delle società occidentali del XXI secolo. Il Pronto Soccorso è infatti il luogo in cui, perlomeno in Francia, vanno a rifugiarsi le vittime dei sempre più numerosi angoli morti della società dello Stato sociale in crisi. Vi si praticano psichiatria, geriatria, stomatologia, un po’ di traumatologia d’urgenza, moltissima medicina generale e molto bricolage palliativo. Benché vi si possano scovare senza difficoltà il parossismo e la dimensione traumatica dell’esperienza medica, non è 1 Questo testo è frutto di un intervento al seminario Explorations du paroxysme. Traces, objets, regards XIXe-XXIe siècles. Vorrei qui ringraziare Quentin Deluermoz, Hervé Mazurel per il loro sostegno e la loro amicizia. È stato pubblicato una prima volta in Quentin Deluermoz, Christian Ingrao, Hervé Mazurel, Clémentine Vidal-Naquet, Corps au paroxysme, in «Sensibilités. Histoire, critique, sciences sociales», n. 3, Anamosa, 2017.

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questo tuttavia l’angolo da cui studieremo il soggetto. Non tratteremo quindi del “Pronto Soccorso”, bensì del “pronto soccorso”, ovvero delle “emergenze-urgenze”, e dei loro molteplici volti. Non il luogo “Pronto Soccorso”, di cui faremo comunque una panoramica, bensì una specie di storia delle pratiche del pronto soccorso, nella misura in cui queste ultime comportano saperi e organizzatissimi protocolli d’azione: oggetti storicizzabili di cui possiamo tracciare la formazione, gli sviluppi, le genealogie. Per fare ciò disponiamo di fonti che, a un primo esame, sono più ricche di quanto avremmo potuto credere. Ovviamente non si può accedere ai rapporti delle squadre di intervento del SAMU (Service d’Aide Médicale Urgente) e delle SMUR (Structures Mobiles d’Urgence et de Réanimation), anche se mi è stato concesso di esaminarne alcuni. Un giorno, quando verranno aperti gli archivi, essi potranno essere oggetto di un trattamento seriale che permetterà allo storico di mettere a punto la sua metodologia di studio, accostandosi a soggetti che per il momento probabilmente ci sfuggono. A ogni modo, anche se non abbiamo accesso a queste fonti in maniera estensiva, la massa delle pubblicazioni scientifiche e mediche che utilizzano come fonte questa mole documentaristica è abbastanza consistente da consentire un lavoro di ricerca. L’immensa letteratura grigia costituita dalle pubblicazioni universitarie mediche negli ambiti della traumatologia, del pronto soccorso, della medicina palliativa e dell’anestesia-rianimazione costituisce dunque un fondo documentaristico accessibile di fronte al quale lo storico ritrova quella sensazione immersiva che è destino ben conosciuto dal contemporaneista o dello storico del tempo presente. Ma queste non sono le uniche fonti a disposizione dello storico che volesse condurre questa indagine. E devo confessare che il presente capitolo non ha nulla dell’indagine esaustiva. Anzi, è proprio il contrario: devo riconoscere di aver “lavorato” alla questione in modo assai sconnesso. Quando si svolge una ricerca di solito si compie uno sforzo ostinato, limitato nel tempo ma intenso. Io ho lavorato in modo diametralmente opposto. È da quindici anni ormai che mi interesso al pronto soccorso e alla rianimazione. L’ho fatto inizialmente alla fine del 2005, indagando su un caso, unico, ben preciso, su un intervento che mi interessava e sul quale ho potuto accumulare diverse fonti, ma di cui non parlerò in questa sede; poi, a partire dal 2010 e dall’in-

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contro con il già citato libro di Grégoire Korganow2, ho cominciato a individuare un insieme di linee di analisi, che mi permettevano, per sedimentazione, di raccogliere un certo numero di documenti che mi sembravano delle necessarie pezze d’appoggio per studiare in futuro la questione, magari a titolo preliminare ed esplorativo. La tesi centrale è che le società occidentali del XX e XXI secolo hanno elaborato dei dispositivi di compartimentazione, studiati da Elias e dalla sua scuola, a tal punto e così bene che il parossismo si vede ormai strettamente confinato a sequenze spazio-temporali, dispositivi sociali, organismi e spazi talmente delimitati e marginalizzati da essere praticamente invisibili per chi scegliesse di passare senza vederli3. L’incrocio di questi spazi con l’ambito del pronto soccorso mi è parso costituire una delle vie d’accesso più promettenti e più accessibili per coglierne il parossismo. Questo capitolo, pertanto, presenta i prodromi di una ricerca per la quale è stato raccolto, certo, un ricco insieme di documenti; e tuttavia un insieme che, da una parte, resta molto parziale in quanto non rappresenta in alcun modo la totalità dei dispositivi adibiti al pronto soccorso presenti almeno sul suolo francese, e, dall’altra, è frutto di una serie di scelte basate sul criterio di non studiare il luogo “Pronto Soccorso”, bensì il “pronto soccorso”, o le “emergenze-urgenze”, come serie di azioni che implicano un insieme di discipline, saperi o dispositivi medici, delimitanti un’attività socialmente identificata, praticata in diversi contesti, a volte “degradati” o preospedalieri, come li chiamano i medici, e, le altre volte, in dispositivi ospedalieri. Il lettore avrà quindi compreso che questa è solo una premessa, e che quella che vorremmo presentare alla fine è un’indagine sul parossismo del pronto soccorso. Questo testo fu redatto 62 giorni dopo che i servizi di pronto soccorso parigini avevano dovuto affrontare una prova parossistica che li coinvolgeva nel modo più brutale, totale, dirompente. Anche a questa esperienza era ormai possibile rivolgere uno sguardo da storico del tempo presente, appoggiato da un insie2 Grégoire Korganow, J’étais mort, cit. 3 Abram de Swaan, The Killing Compartments, cit. L’autore ha formulato una prima volta la sua definizione della compartimentazione in La dyscivilisation, l’extermination de masse et l’État, in Jean-Manuel de Queiroz et al., Norbert Elias et la théorie de la civilisation. Lectures et critiques, Presses universitaires de Rennes, 2015.

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me documentario composto essenzialmente da testimonianze di MEU (medici d’emergenza-urgenza) e, in misura minore, di altri attori di questa tragedia, pubblicati nelle settimane successive agli attentati, insieme documentario che da allora ho arricchito solo marginalmente, per lasciare a questo lavoro il suo carattere di immediatezza, sebbene nel frattempo siano state svolte da altri alcune interessanti analisi. In un secondo tempo, mi proporrò dunque di tentare di esplorare quel parossismo del pronto soccorso che furono gli attentati del 13 novembre 2015, perlomeno per il personale ospedaliero che li affrontò. I dispositivi di pronto soccorso Con i saperi relativi al pronto soccorso, lo storico va in brodo di giuggiole. Un campo ben delimitato, appoggiato da masse documentarie ben identificate; un ambito che abbraccia una serie di conoscenze la cui costituzione, storicizzabile, ci è nota. Per affrontarli, possiamo cominciare con lo studio dei saperi accumulati a partire dalla rivoluzione di Pasteur e che hanno finito col diventare autonomi sotto la designazione di “medicina d’emergenza-urgenza”. Questi saperi, tuttavia, rientrano in diverse branche delle scienze e delle discipline mediche. Dunque, a individualizzare le emergenze-urgenze e i MEU è il ricorso a protocolli e dispositivi che ne fanno non un insieme disciplinare, ma una pratica unificante dei saperi provenienti da diversi orizzonti disciplinari. Possiamo farne la storia, descriverne la genesi, poi il carattere composito, prima di trattarne un esempio, per offrire uno scorcio dei livelli performativi raggiunti dalla medicina di emergenza-urgenza in ambito non degradato. I saperi Senza temere di irritare troppo i veri storici della medicina, possiamo far risalire la genesi della medicina di emergenza-urgenza alla Grande Guerra. Qui ci muoviamo su un terreno sicuro, potendo appoggiarci sui lavori di Sophie Delaporte4, la quale ha mostrato che 4 Sophie Delaporte, Les médecins dans la Grande Guerre: 1914‑1918, Bayard, 2003.

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le infermerie di campagna e gli ospedali, i quali guardavano al conflitto dall’alto della fiducia in una pratica medica che aveva appena conosciuto la rivoluzione di Pasteur, conobbero un’immensa disfatta iniziale. Nelle ambulanze di primissima linea, i medici si trovano di fronte a lesioni di cui non avevano neppure idea e che li portano a mettere in opera nuove pratiche, spesso dolorose, e sotto la terribile pressione di trovarsi subissati dai feriti. Accingendosi a studiare patologie e traumi specifici, Delaporte osserva come la medicina di emergenza-urgenza nasca dalla pratica della medicina di guerra e sottolinea quanto disarmati fossero i chirurghi di fronte alle ferite addominali, che per buona parte del conflitto decisero di non trattare, sacrificando deliberatamente i soldati che ne erano stati colpiti. L’autrice mostra anche come i medici del fronte misero a punto protocolli che miravano innanzitutto a garantire la sopravvivenza dei feriti e non a curarli/operarli definitivamente. Col proseguire della guerra, gli immensi traumi provocati da armi che avevano conosciuto una rivoluzione tecnologica dovevano ormai essere oggetto di strategie chirurgiche complesse, fondate su una molteplicità di gesti e di interventi mirati in particolare a ridurre il numero o l’ampiezza delle amputazioni. Al di là di questa presentazione un po’ sommaria, dobbiamo tenere conto di alcuni principi inaugurati da questa prima medicina di emergenza-urgenza posteriore a Pasteur: in primo luogo, la necessità di gerarchizzare e selezionare i pazienti secondo gradi di gravità; in secondo luogo, quella di garantire innanzitutto la sopravvivenza dei pazienti prima di mettere in atto strategie riparatrici o curative. Nasceva qui, a cavallo tra considerazioni d’ordine logistico, funzionale e medico, un ambito ibrido, designato come medicina di guerra, e che si sarebbe trasformato progressivamente in medicina di emergenza-urgenza, con l’importazione di un certo numero di queste caratteristiche nei sistemi sanitari delle società in tempo di pace5. La medicina di emergenza-urgenza nata nella Grande Guerra fa dunque appello a una combinazione di diverse specializzazioni mediche: medicina generale, anestesia/rianimazione, chirurgia o traumato5 Questa storia è narrata da Charles-Antoine Wanecq nella sua tesi a cura di Paul-André Rosenthal, intitolata Sauver, protéger et soigner. Histoire des secours d’urgence en France 1945‑1989, discussa il 18 ottobre 2018.

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logia, tossicologia, psichiatria e, ai nostri giorni, radiologia/imaging. Tutti questi insiemi prasseologici si ritrovano associati nei reparti di pronto soccorso e ne strutturano l’attività. La medicina generale, che al Pronto Soccorso è rappresentata delle istituzioni ospedaliere e serve essenzialmente a smistare le urgenze relative, non verrà trattata da noi che cerchiamo di afferrare il parossismo nelle pratiche mediche d’urgenza. Ai blocchi di partenza di missioni primarie (i soccorsi veri e propri, in seguito a incidenti, problemi gravi, malori, ecc.), i medici presenti sono in gran parte MEU – medici d’emergenza/urgenza – o anestesisti/rianimatori. All’accettazione nelle sale di pronto soccorso, le squadre utilizzate sono composte di specialisti (spesso junior) delle diverse discipline che lavorano insieme sulla durata, per un migliore coordinamento6. Il primo tipo di sapere è nel campo della rianimazione e dell’anestesia, e viene utilizzato in tutti i casi di perdita di conoscenza, ma anche per tutto ciò che concerne le tecniche di sedazione, in ambito ospedaliero o preospedaliero. Lo storico vi impara, cosa preziosa, che la somministrazione delle sostanze sedative ha obiettivi diversificati: l’analgesia, l’ansiolisi, l’amnesia, la facilitazione degli atti a scopo diagnostico7. Gli altri tipi di sapere sono di ordine chirurgico, cardiologico, neurologico, traumatologico, psichiatrico, e la loro varietà è troppo ampia per essere qui dettagliata. Ma un esempio può permettere di illustrare il livello di operatività raggiunto da una disciplina le cui basi, lo abbiamo detto, furono poste durante la Grande Guerra, ma che conobbe una fase di istituzionalizzazione intensa a partire dagli anni Cinquanta e, tra gli anni Cinquanta e l’inizio del XXI secolo, fu profondamente modificata dalla rivoluzione chimica e farmaceutica e successivamente dall’imaging. Per farsi un’idea dei livelli d’intervento ormai consentiti dalla formazione e dall’equipaggiamento delle squadre di soccorso, soffermia6 La regola, in caso di aggravamento della situazione globale (politraumi, gran numero di vittime, situazioni specifiche) è di “seniorizzare” le squadre. Il che vuol dire, a contrario, che gran parte delle missioni è lasciata essenzialmente ai giovani apprendisti specialisti interni e giovanissimi PH (medici di ospedale). Cfr. Algorithme de prise en charge en salle de déchoquage, Hôpital de Grenoble, 2004, https://bit.ly/3JQghUO. 7 Conferenza di esperti pronunciata al Centro traumatologico dell’Hôpital Nord de Marseille, https://bit.ly/3NJXZWL.

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moci su interventi eccezionali al torace in medicina di emergenza-urgenza. In caso di arresto cardiorespiratorio (e dunque di minaccia di decesso imminente) provocato da un trauma toracico penetrante, è ormai indicata, sotto certe condizioni, la doppia toracotomia, per eliminare una dopo l’altra le cause emorragiche, localizzarle e mettere in atto un’emostasi efficace, anche in casi di traumi penetranti cardiaci o aortici. In altri termini, su ferite al petto causate da arma bianca o arma da fuoco, con lesioni cardiache o vascolari gravissime, come una resezione aortica, le squadre di soccorso si avvalgono di tecniche di esplorazione funzionale e di emostasi estremamente rischiose e invasive che permettono, anche in ambito ospedaliero, di migliorare le probabilità di sopravvivenza di pazienti per i quali prima non ci sarebbe stato più nulla da fare8. Per concludere questa rapida panoramica dei saperi medici del pronto soccorso, possiamo dire che il grande principio alla base del loro miglioramento consiste nell’estendere l’applicazione di tecniche sempre più efficaci a luoghi di esercizio sempre più degradati, a praticarli il più possibile in ambito preospedaliero per permettere il trasporto dei pazienti stabilizzati colpiti da patologie o lesioni sempre più severe. I protocolli Composta di saperi ibridi, la medicina d’emergenza-urgenza è certo una specializzazione sempre più riconosciuta sul piano medico, universitario e accademico, anche se non costituisce un ambito di sapere autonomo. E questa è una delle sue grandi specificità. A darle un’esistenza autonoma sono tre protocolli ben identificati, e che possiamo riassumere con tre verbi: valutare, smistare (effettuare il triage), stabilizzare i pazienti. Un intervento comincia sempre con una valutazione del paziente, che dura qualche decina di secondi: bilancio neurologico (stato di co8 Gestes thoraciques d’exception en médecine d’urgence, La Mine, 2015, https://bit. ly/3XHsvF8, che cita Daniele Massarutti et al., Simple thoracostomy in prehospital trauma management is safe and effective: A 2-year experience by helicopter emergency medical crews, in «European Journal of Emergency Medicine», n. 13, 2006, pp. 276‑280.

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scienza, orientamento spaziotemporale, stato delle pupille, presenza di tetraplegia o emiplegia), bilancio respiratorio (frequenza, ampiezza, eventuale cianosi), bilancio circolatorio, con presenza di polso radiale o carotideo. Una volta effettuato, questo primo test viene formalizzato e reiterato durante tutto l’intervento per osservare l’evoluzione del paziente. I MEU dispongono di una scala di misura per questa osservazione ed evoluzione, che si chiama scala di Glasgow. Sviluppata nel 1974 all’Istituto di Neurologia di Glasgow9, essa è basata su tre criteri: l’apertura degli occhi, la risposta verbale e la risposta motoria. La valutazione dello stato di coscienza, come dicevamo, viene formalizzata sulla base di un test: l’apertura degli occhi può essere nulla, oppure verificarsi come reazione al dolore, o su domanda, oppure spontaneamente. Allo stesso modo, la risposta verbale può essere nulla, incomprensibile, inappropriata, confusa, normale. Infine, la risposta motoria può essere nulla, orientata, adattata, o reattiva agli ordini; la flessione può essere stereotipata, come anche l’estensione, la quale può essere anche orientata, adattata, o reattiva agli ordini, e ognuna di queste risposte costituisce un indice nella valutazione. Al termine di questo rapido esame, ci si rende conto che le risposte al test di Glasgow delineano un protocollo particolare di presa di contatto tra il medico e il paziente, che determina l’insieme dell’interazione dei primissimi minuti, e le dà un carattere rituale o procedurale certo. Il medico comincia col chiedere al paziente di aprire gli occhi, se non l’ha fatto spontaneamente, o gli infligge un leggero dolore per vedere se li apre. Poi continua a parlargli per valutare la risposta verbale, poi valuta il grado di coscienza e comincia il bilancio neurologico domandando al paziente di fare delle flessioni ed estensioni dei quattro arti. Il test di Glasgow uniforma dunque la presa in carico e l’interazione medico/paziente. Una volta effettuata questa valutazione, le squadre di soccorso fanno il triage dei pazienti, ossia li smistano. Questa operazione deriva direttamente dalle pratiche della medicina di guerra, che doveva affrontare bruschi e imponenti afflussi di pazienti in situazioni di

crisi e di stress che nuocevano alla efficacia della presa in carico. Gli specialisti della medicina di guerra, Sophie Delaporte in testa, hanno ben mostrato la dimensione capitale del triage nell’organizzazione dei servizi sanitari della prima linea militare. Sin dal secondo anno di guerra, i medici di prima linea praticano questa selezione dei pazienti e la definiscono in questo modo10. Il corollario di questa pratica è la classificazione dei pazienti in scale che variano ma hanno la costante di incidere in modo determinante sul destino del paziente. Queste scale di triage sono assai varie e adattate al personale a cui sono destinate. Le scale di selezione più correnti tra quelle utilizzate nelle società in tempo di pace sono quelle infermieristiche, che abbracciano il maggior numero di casi riscontrabili in un Pronto Soccorso ospedaliero normale.

9 Graham Teasdale, Bryan Jennett, Assessment of coma and impaired consciousness: A practical scale, in «The Lancet», vol. 2, n. 7872, 1974, pp. 81‑84.

10 Sophie Delaporte, Les médecins dans la Grande Guerre: 1914‑1918, cit.; Lucien Laby, Les Carnets de l’aspirant Laby. Médecin dans les tranchées, Bayard, 2001.

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Livello CIMU

Situazione

Rischio

Risorsa

Azione

Tempi

Reparto

1

Pericolo di vita

Nel giro di minuti

≥5

Supporto di una o più funzioni vitali

Infermiere < 1 min Medico < 1 min

SAUV (Salle d’Accueil Urgences Vitales)

2

Compromissione evidente di un organo vitale

Entro le prossime ore

≥5

Trattamento della funzione vitale o lesione traumatica

Infermiere < 1 min Medico < 20 min

SAUV

3

Compromissione funzionale o lesione instabile o complessa (instabilità potenziale)

Entro 24 ore

≥3

Valutazione diagnostica e prognostica e completamento del trattamento

Medico < 90 min

Box o sala d’attesa

4

Compromissione funzionale o lesione stabile

No

1-2

Atto diagnostico e/o terapeutico limitato

Medico < 120 min

Box o sala d’attesa

5

Nessuna compromissione funzionale evidente

No

0

Nessun atto diagnostico o terapeutico

Medico < 240 min

Box o sala d’attesa

IMU (Classification Infirmière des Malades aux Urgences)11 È interessante esaminare questa scala in quanto costitutiva di uno strumento di gestione dei locali e del personale. Ne esistono altre, che riflettono altre situazioni. La scheda Wikipedia che descrive le tecniche di triage ne annovera addirittura quattro tipi. In tutte quante, tuttavia, si tiene conto di tre criteri12: 1) il grado di gravità delle ferite; 2) il grado di priorità dei trattamenti conseguenti; 3) il grado di priorità del trasporto verso altri centri.

11 Fonte: https://bit.ly/46Fqiy4. 12 https://bit.ly/46J0zVq.

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Sono questi a determinare l’ordine di priorità della presa in carico e si risolvono in una scala adottata generalmente in Francia per i reparti di pronto soccorso, di medicina militare e di medicina delle catastrofi, e che si può grosso modo riassumere così: Scala 1: impossibilità dei soccorsi, decesso o agonia irreversibile. Nessun trattamento o trattamento palliativo. Scala 2: urgenza assoluta (in seguito UA): trattamento e intervento immediato nel rispetto della Golden Hour, con grosse possibilità di sopravvivenza. Scala 3: urgenza relativa (in seguito UR): persona stabile e trasportabile. Può essere trasferita in una struttura medica classica, oppure messa in attesa prima delle cure o del trasporto. Scala 4: urgenza medico-psicologica (d’ora in poi UMP), ferito leggero o soggetto emotivamente coinvolto. La persona viene diretta verso una struttura parallela per essere presa in carico materialmente (alloggio provvisorio) e psicologicamente (cellula di pronto soccorso medico-psicologico).

Lo si vede, i livelli di triage sono relativamente chiari ma si può fare sin d’ora un’osservazione. Si sarà notato che il triage di pronto soccorso classico è affidato a personale infermieristico; nella medicina di guerra e di catastrofe è invece d’uso affidarlo ai medici e chirurghi di grado più elevato e più qualificati, in modo che le loro decisioni siano accettate, e non rimesse in questione, da tutta la catena di presa in carico. E possiamo sin d’ora attribuire questo stato di fatto a una differenza fondamentale e maggiore tra i due contesti: il secondo è un contesto nel quale incombe la saturazione delle squadre e gli attori che smistano sono portati a fare delle scelte che condannano certi pazienti a una morte inesorabile: la classificazione di feriti gravissimi che non è più possibile salvare presuppone l’abbandono terapeutico. In un contesto classico e ospedaliero, questa configurazione non esiste, o, meglio, diciamo che non dovrebbe esistere. Il terzo imperativo dei soccorritori è la “stabilizzazione” del paziente. In poche parole, l’arresto dell’evoluzione patologica del suo stato, prima di procedere al trasporto o a un’operazione. È l’obiettivo primordiale della medicina di emergenza-urgenza, che è finalizzata a

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ottenere questo risultato prima di orientare i pazienti verso i reparti di cure specialistiche. È qui che la nostra classificazione per azione (valutare/smistare/stabilizzare) è più debole, perché la stabilizzazione non è un protocollo ma un insieme di protocolli, che passa per tappe che sono allo stesso tempo molto formalizzate e molto varie ed è difficile descriverle brevemente. È in un manuale edito in Québec che ho trovato la formalizzazione più riassuntiva dei criteri di stabilizzazione, che qui riporto: In presenza di un malato in condizioni medico-chirurgiche urgenti, di cui sia minacciato uno degli organi vitali o addirittura la vita, il trasferimento deve essere eseguito dopo la stabilizzazione. La stabilizzazione include la valutazione adeguata e l’inizio del trattamento affinché, con una ragionevole probabilità, il trasferimento del malato non si risolva nel decesso o nella perdita/compromissione seria delle funzioni o degli organi. La stabilizzazione del paziente prima del trasferimento deve comprendere, laddove sia necessario: – il mantenimento della permeabilità delle vie aeree; – il controllo delle eventuali emorragie; – l’adeguata immobilizzazione del malato o degli arti; – la pratica di un accesso venoso per somministrazione di soluto o di sangue; – la messa in atto della medicazione necessaria; – le misure necessarie ad assicurare la stabilità ottimale durante il trasferimento13.

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strategie di stabilizzazione, il che rende ancora più difficile l’identificazione chiara dell’azione di stabilizzazione, tanto più che quest’ultima è, anch’essa in parte, dell’ordine dell’anestesia/rianimazione ed è dunque a cavallo tra diverse attività, diverse specialità e probabilmente anche diverse tappe e diversi luoghi: ampiamente legata alla fase preospedaliera, essa viene utilizzata anche, in caso di intervento da parte di reparti non medicalizzati – come i pompieri senza medico, nel caso della BSPP parigina (Brigade de Sapeurs Pompiers de Paris)  –, in luoghi dedicati all’interno del Pronto Soccorso. Questi luoghi, come le unità medicalizzate delle SMUR e del SAMU, sono sia reparti di cura che spazi terapeutici specializzati, e sono organizzati come dei dispositivi. Per terminare la nostra panoramica, interessiamoci al dispositivo del Pronto Soccorso, ovvero del servizio medico di emergenza-urgenza.

Si vede che la stabilizzazione è in realtà un condizionamento medico finalizzato, da un lato, a portare gli indicatori vitali a indicare un abbassamento dell’urgenza e, dall’altro, a permettere il rapido proseguimento di trattamenti e interventi in reparti specializzati. La pratica di accessi venosi, l’immobilizzazione, il controllo emorragico sono tutte misure che permettono una presa in carico specializzata senza pericolo per la vita. Tra il triage e la stabilizzazione spesso si fa ricorso, almeno parzialmente, alla pratica diagnostica che consente di mettere a punto le

I dispositivi I dispositivi del pronto soccorso sono sostanzialmente due: le unità mobili d’intervento preospedaliero e la sala di rianimazione. Le prime sono denominate SMUR (Sections Mobiles d’Urgence et de Réanimation) in Francia. La Société française de médecine d’urgence ha emesso un documento di riferimento di 43 pagine – al quale ci interesseremo da vicino – per dettagliarne le caratteristiche e i criteri di valutazione14. Il materiale immancabile nelle SMUR è quello che serve alla rianimazione respiratoria, alla rianimazione cardiovascolare, alla somministrazione di medicinali, a una voce diversificata che va dal monitoraggio alla refrigerazione passando per l’ecografia portatile, e infine al soccorso pediatrico per neonati e lattanti. Senza contare la somministrazione di medicinali, vi sono ben 37 elementi necessari. Peraltro, il dispositivo è dotato anche di mezzi umani, ossia, come minimo, di un medico anestesista rianimatore urgentista, di un infermiere e di un pilota/barelliere/ambulanziere titolare [nel caso della Francia, NdT] di una patente per mezzi pesanti. Senza dilungarci oltre sulla pratica che emana da questo dispositivo – valutare, smistare, stabilizzare e convogliare –, sottolineiamo che esso è centrale nel nostro discorso. Infatti, queste SMUR

13 https://bit.ly/3PXVy5v.

14 https://bit.ly/46DcHHB.

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sono unità avanzate, in prima linea in incidenti e catastrofi. In quanto tali, costituiscono un oggetto di predilezione per noi che cerchiamo di snidare l’esperienza degli attori di queste unità di emergenza-urgenza. Il secondo dispositivo è quello della sala di rianimazione, in francese chiamata anche SAUV (Salle d’Accueil des Urgences Vitales). Anche questo dispositivo combina mezzi umani e materiali, e la concentrazione di specialisti di diversi orizzonti capaci di agire in modo coordinato sui pazienti classificati dal triage come livello di urgenza assoluta, urgenza relativa, o urgenza differita ma in presenza di indicatori di rischio importanti (natura della patologia, dell’incidente stradale, forte decelerazione malgrado un Glasgow superiore a 10). I documenti che possiamo consultare per tentare di descriverne le caratteristiche insistono sulla reattività e la coordinazione dei mezzi e degli interventi. La prima grande differenza con le SMUR è che si hanno ormai a disposizione tutte le strategie di stabilizzazione e di diagnostica, e si può ricorrere ampiamente all’imaging medico che permette di fare diagnosi molto più complete. In secondo luogo, le squadre dispiegate nelle sale di rianimazione sono incomparabilmente più numerose e dispongono di un anestesista-rianimatore, un infermiere-anestesista, un chirurgo e di qualsiasi specialista necessario nella patologia. Al di là di questa squadra direttamente coinvolta nell’effettuazione della stabilizzazione e nella messa in campo della strategia terapeutica, sono presenti e attivi anche barellieri, infermieri, un medico radiologo, dei tecnici radiologi, diversi medici junior. In tutto a volte fino a una quindicina di persone a seconda dei casi, i gradi di urgenza, le caratteristiche traumatologiche. Quello della rianimazione è dunque un dispositivo che mescola topografia, mezzi umani e materiali, e procedure specifiche. In sala di rianimazione, i processes di valutazione, di triage e di stabilizzazione di cui abbiamo parlato sono oggetto di una maggiore formalizzazione rispetto alla pratica delle SMUR. Un certo numero di documenti di formalizzazione a nostra disposizione mostra una significativa taylorizzazione dei compiti e dei protocolli, con l’uso di tecniche algoritmiche15 come base organizzativa. 15 Ricordiamo che in informatica, secondo la definizione del Vocabolario Treccani, l’algoritmo è un insieme di istruzioni che deve essere applicato per eseguire un’elaborazione o risolvere un problema.

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L’uso di diagrammi e strutture a frecce permette così, dopo prese di decisione fondate su indicatori più chiari e quantificati possibile, di formalizzare dei possibili percorsi verso le operazioni o i servizi terapeutici specialistici. Nello schema seguente16, si vede che l’accettazione e il triage sono in gran parte determinati dall’imaging e che il risultato dei diversi esami decide le urgenze assolute che devono essere immediatamente prese in carico nel blocco operatorio e gli esami complementari che permettono di dare luogo a strategie non urgenti. Questo schema mostra bene anche l’uscita dalla rianimazione. La stabilizzazione, confermata da una TAC di tutto il corpo (nei casi di lesioni traumatiche), permette di fare un bilancio globale per poi prendere in carico l’insieme delle patologie in un ambiente interamente stabilizzato, che non è più quello del Pronto Soccorso.

16 https://bit.ly/3JOul1c, p. 10.

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Mi si perdonerà questo lungo resoconto sul Pronto Soccorso e sulla presa in carico medica, ma penso che ci avrà permesso di raccogliere, in via preliminare, alcuni elementi importanti per il seguito. Abbiamo in primo luogo potuto interessarci alla genesi della medicina d’emergenza-urgenza e farne risalire le origini alla Grande Guerra, primo banco di prova della medicina dell’epoca post-Pasteur di fronte a una catastrofe di massa. Abbiamo poi potuto mostrare che la medicina di emergenza-urgenza, disciplina composita che si avvale di numerose specialità, aveva fatto uno sforzo di coordinamento dei saperi particolari e impiantato gestualità sempre più elaborate, esportandole sempre più frequentemente nelle condizioni degradate in ambiente preospedaliero, come ha mostrato la questione della toracotomia eccezionale in emergenza-urgenza. Il seguito di questo studio ci ha permesso di sottolineare due caratteristiche fondamentali che condizionano la nostra ricerca del vissuto degli attori: il fatto che la pratica del pronto soccorso medico sia formalizzata in termini di protocolli, e che rientri in dispositivi17. Questi sono fortemente condizionati da questa formalizzazione che, usando queste tecniche di taylorizzazione, di gestione e di ricorso all’algoritmica, delimita rigorosamente i repertori di azione del personale medico e paramedico. È l’articolazione tra il contenuto dell’esperienza del pronto soccorso –  la quale mette regolarmente questi medici di fronte a terribili lesioni corporali e a situazioni critiche piene di stress – e questo ambiente di risposte fortemente formalizzate e algoritmiche, a costituire il quadro di analisi dell’esperienza degli attori. In altri termini, si può interpretare il quadro dei soccorsi come un dispositivo di contenimento e di regolamento dell’esperienza parossistica costituita dall’irruzione dell’incidente nell’ordinario. Questo insieme di saperi compositi, di luoghi dedicati, di protocolli estremamente codificati, e di procedure talmente formalizzate da essere praticamente esprimibili sotto forme algoritmiche, sono beninteso al servizio di un obiettivo funzionale: salvare delle vite umane stabilizzando degli stati critici. Ma al servizio di questo primo obiettivo funzionale, 17 Qui ci limitiamo alle procedure di pronto soccorso. Esistono procedure dipendenti dalla prefettura o dalle istituzioni più generali, come il Plan blanc o il Plan Orsec [Organization de la Réponse de Sécurité Civile], ma riguardano più la logistica e l’organizzazione che l’aspetto medico. Ringrazio Denis Peschanski per questa osservazione.

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questo dispositivo ne mette in campo un secondo – sussidiario? –, di protezione psicologica, perlomeno parziale, temporanea e immediata, di coloro che lo servono. Bisogna tuttavia, è il nostro scopo iniziale, osservare questo dispositivo e questi uomini sul terreno. E in quanto noi siamo anche storici del tempo presente, questo studio si è assegnato, sin dall’inizio, il compito di osservare il dispositivo di pronto soccorso parigino durante quell’esperienza straziante che sono stati gli attentati del novembre 2015. Prova dei dispositivi, prove degli attori: il pronto soccorso di fronte agli attentati del novembre 2015 Dobbiamo innanzitutto tornare sul contesto in cui sono avvenuti gli attentati del novembre 2015. Non sul contesto politico, geostrategico o evenemenziale, ma su quello interno, quello in cui operano involontariamente gli attori del sistema di emergenza-urgenza. Dovremo poi caratterizzare la sequenza in termini di tenuta dei dispositivi di questo sistema prima di poter, infine, tentare di cogliere l’esperienza degli attori. Dall’anticipazione all’esperienza Sono le 21:30 di venerdì 13 novembre 2015, quando il primo allarme arriva all’AP-HP (Centro di Assistenza Pubblica degli Ospedali di Parigi). Due esplosioni, una alle 21:20, l’altra alle 21:30, si sono verificate allo Stade de France, dove 80.000 tifosi e il presidente della Repubblica francese assistono a una partita di calcio tra Francia e Germania. Una terza esplosione avrà luogo alle 21:53. Tre criminali muniti di gilet esplosivi, che non sono riusciti ad attraversare i controlli di sicurezza, si fanno esplodere trascinando nel loro suicidio una vittima18. Dieci minuti dopo, alle 21:40, un secondo gruppo si mette 18 La maggior parte delle informazioni qui menzionate è tratta da una grande pubblicazione nella rivista medica «The Lancet». Ringrazio Robert Matra e soprattutto Nathalie de Suremain del loro aiuto generoso per le linee generali di questa indagine. Cfr. Martin Hirsch et al., The Medical Response to Multisite Terrorist Attacks in Paris, in «The Lancet», vol. 386, n. 10012, 2015, pp. 2535‑2538. Ce ne serviamo qui come ci si serve di una fonte e non come di un’analisi storica. Esiste peraltro un rapporto

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a sparare nella sala da concerto del Bataclan, nell’XI arrondissement della città. Circa 1.550 persone si ritrovano in trappola, e i colpi costeranno la vita a 89 di loro e ne feriranno diverse centinaia, mentre una terza squadra di terroristi ha aperto il fuoco alle 21:25, e si riversa sul canal Saint-Martin e nell’est parigino, sparando a più riprese, in particolare all’angolo tra la Rue Bichat e la Rue Alibert19. Alle 22:34 il centro di allerta dell’AP-HP fa scattare il Plan blanc, mobilitando i 40 ospedali parigini, richiamando i medici, liberando letti per feriti eventuali. Il personale insiste sul fatto che il Plan blanc, concepito vent’anni prima, ha avuto un impatto critico sul modo di fronteggiare la crisi: in nessun momento il dispositivo ha sentito la mancanza di personale, in nessun momento è stato sommerso, constatano con visibile soddisfazione gli autori del resoconto pubblicato da «The Lancet»20. Dietro a questo successo vi è un primo fattore, non sapremmo dire se determinante o meno: la contingenza ha voluto che la mattina del 13 novembre, alle 9, fosse cominciata un’esercitazione delle 8 SAMU e della BSPP, su uno scenario che prevedeva 4 gruppi di tiratori, 13 siti, 66 morti, 74 UA, e 48 UR21. Nell’esercitazione, l’accento viene posto sui dispositivi logistici, sulla «regolazione multisito zonale», con il SAMU che comunica «pacchetti di posti» al medico, il quale smista in modo più fine le urgenze assolute, per gruppi di 5, in sale di sorveglianza postoperatoria o verso blocchi di operazione chirurgica specializzata, in chirurgia toracica, viscerale, in neurochirurgia o in ortopedia22. Dodici ore e trenta minuti dopo l’inizio dell’esercitazione, quando non era verosimilmente neppure terminato il debriefing, un dispositivo parlamentare molto completo che risale al 2016: Georges Fenech, Sébastien Pietrasanta (rap.), Rapport fait au nom de la Commission d’enquête, relative aux moyens mis en œuvre par l’état pour lutter contre le terrorisme depuis le 7 janvier 2015, https://bit. ly/3O3pVGm, e, per i rapporti di audizione, https://bit.ly/448wYmJ. 19 Pierre Carli, Michel Nahon, del SAMU di Parigi, hanno preparato uno slideshow PowerPoint di supporto alla presentazione orale del RETEX del dispositivo di pronto soccorso dispiegato il 13 novembre. Questo documento, a me comunicato a titolo gratuito da Nathalie de Suremain, che qui ringrazio, sarà d’ora in poi citato con l’abbreviazione, 13nov2015VF; le slides sono numerate da 1 a 56, qui p. 2. 20 Marc Hirsch et al., The Medical Response to Multisite Terrorist Attacks in Paris, cit., p. 2535. 21 Qui 13nov2015VF, pp. 39‑40. 22 Ivi, p. 42.

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analogo entrò realmente in azione, con la stessa divisione per zone, una configurazione multisito, e questo per un evento che doveva coinvolgere certo meno della metà dei siti, ma più di mille persone, e provocare 129 decessi (quasi il doppio di quelli dell’esercitazione), 76 UA e 226 UR23. Ricalcando il modello dell’esercitazione, lo schema di intervento dei soccorsi si basa sull’installazione di dispositivi adattati al carattere evolutivo della situazione: i contesti e i vincoli non sono gli stessi allo Stade de France – dove i soccorsi si trovano di fronte a un solo decesso (a parte i tre criminali che si sono fatti esplodere), a UA relativamente poco numerose (5) e a 33 UR per 200 esami medici, il tutto tra 80.000 spettatori – e sulle rive del canal Saint-Martin o nella Rue de Charonne, dove si lamentano rispettivamente 20 decessi e 18 UA su due siti e 19 morti per 9 UA su un solo sito. L’assalto al Bataclan satura tutti i sensori del Retex, che è incapace di fare una stima delle UA, per non parlare delle UR e delle UMP, e dichiara 89 decessi. Nell’immediato, lo schema di intervento si rivela dunque multisito: si tratta di tentare di risparmiare i mezzi considerando che l’incertezza è grande e che i soccorsi cercano sempre di mantenere degli effettivi di riserva – qui quasi il 35% – nell’ipotesi dell’apertura di nuovi siti durante l’operazione. Sempre nell’immediato si organizza una spazializzazione graduata delle evacuazioni, lasciando gli ospedali parigini in prima linea di evacuazione, per poi diluire/diffondere verso quelli dei dipartimenti limitrofi24. Qui risulta chiaro come il dispositivo sia stato costruito a prolungamento di quello dell’esercitazione, con una capacità di adattamento di cui i capi servizio si sono compiaciuti. Ma vi è malgrado tutto un punto sul quale la realtà conservava la sua zona inedita rispetto all’esercitazione. Il Bataclan, infatti, presentava un contesto e una situazione che andavano al di là di ogni anticipazione, per il gran numero di persone coinvolte, la durata dell’attentato e la sua intensità, il che ci porta a interrogarci su una possibile degradazione del dispositivo in ambito preospedaliero.

23 Prendo qui le cifre presentate nel Retex di Marc Hirsch et al., The Medical Response to Multisite Terrorist Attacks in Paris, cit., p. 2536. Le cifre presentate dalle due fonti non corrispondono perfettamente e bisognerà capire questo stato di fatto. 24 Qui 13nov2015VF, pp. 6‑7.

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Una degradazione del dispositivo di pronto soccorso? Nelle fonti, gli autori lasciano talvolta trasparire quanto i dispositivi siano stati messi alla prova dalla situazione: «Il Bataclan = Il colmo!» dice una delle slide del Retex dell’AP-HP25. È che quel giorno le difficoltà si sono combinate in modo inedito: morti, feriti in fuga, tiratori in azione, settori non messi al sicuro e un’operazione in corso fino a 00:20. Le modalità della sparatoria erano state tali da consentire a numerose vittime, comprese alcune UA, di estrarsi spontaneamente dal luogo del massacro e formare dei nidi di feriti e rifugiati, mentre ancora colpi di armi da fuoco, almeno potenziali, minacciavano quelle zone e i circuiti di intervento. Fino a 00:20, per di più, i soccorsi si aspettano di dover trattare un centinaio di UA supplementari e tengono in riserva un numero di effettivi corrispondente26. Benché i responsabili del Plan blanc sostengano che i dispositivi non sono mai stati minacciati di essere sommersi, il tono qui usato mostra che essi sono stati messi a dura prova al Bataclan, e che, anche se non sono mai stati sopraffatti, sono stati sollecitati e degradati in modo inedito. L’intervento abbina mezzi dell’AP-HP a mezzi della BSPP. Si decide di evacuare i gruppi di feriti e di fuggitivi tanto rapidamente quanto permesso dalla situazione, e di installare due Posti Medici Avanzati (PMA), uno per le UR, l’altro per le UA, sul Boulevard des Filles-du-Calvaire, a debita distanza dal Bataclan e in prossimità dei gruppi di rifugiati nella Rue Oberkampf27. Si trattava di una strategia classica, prevista dal Plan blanc, e che corrispondeva a un tentativo di anticipazione di degradazione dei dispositivi attraverso la proiezione, in ambito preospedaliero, di uno spazio che permettesse le prime cure e la stabilizzazione. Via di mezzo tra le SMUR e la sala rianimazione, il PMA è il luogo in cui si effettuano le operazioni di stabilizzazione – anche provvisoria – delle vittime prima di trasportarle verso i centri ospedalieri28. In questo PMA, le squadre mediche del SAMU e della 25 Ivi, p. 21. 26 Ivi, p. 22. 27 Ivi, p. 20. 28 Foto del PMA UA disponibili in https://bit.ly/44zC7Ux: Power point di Retex degli attentati prodotto da Pierre Carli, capo del SAMU de l’Hôpital Necker, 58 slides, qui ss. 37 e 39.

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BSPP praticano una procedura chiamata Damage control, procedura semplificata volta alla stabilizzazione delle variabili emodinamiche del paziente: blocco di eventuali emorragie per compressione o con laccio, mantenimento della pressione con l’obiettivo di conservare il paziente cosciente, somministrazione di inibitore della fluidificazione sanguigna, prevenzione dell’ipotermia, e analgesia limitata per mantenere la coscienza. Nel Damage control, l’obiettivo è ottenere un’evacuazione verso il blocco operatorio nel giro di un’ora. Jean-Pierre Orsini, medico d’emergenza-urgenza, constata quanto segue, non senza orgoglio e con toni autoelogiativi: «Vi rendete conto, i feriti del PMA del Bataclan sono stati evacuati in meno di due ore! […] Non vi sono state falle. Pochissimi feriti gravi sono morti durante la presa in carico. Era un bordello molto ben organizzato»29. All’uscita dal PMA o nei centri ospedalieri che accolgono le presentazioni spontanee (numerose quella sera), la medicina praticata è ancora quasi analoga al Damage control. Una soccorritrice, giovane medico d’emergenza-urgenza, presentatasi spontaneamente all’Hôpital Saint-Antoine30, dà questa testimonianza: La medicina che si è praticata è medicina di base. C’è un foro, cerchi quanti fori ci sono. Se ce n’è uno, vuol dire che il proiettile è ancora all’interno. Se ce ne sono due, vuol dire che è uscito. Sanguina? Il ferito è ancora vivo? Ecc. Quanto alle prescrizioni di medicinali, erano sempre uguali: antidolorifici, l’antibiotico per proteggere, e la soluzione endovenosa per idratare… Quanto agli esami, neppure in questo caso si discuteva tanto, si chiamava il servizio: «Salve, sono di nuovo il medico, stavolta è una ferita al ventre, hai trasmesso la richiesta, sì, grazie»31.

29 Bérénice Rocfort-Giovanni, Attentats de Paris: “Les blessés graves se sentaient partir”, in «L’Obs», 20 novembre 2015: https://bit.ly/448x8KR. 30 Situato a due passi dalla sparatoria della Rue de Charonne, con 19 decessi e 9 codici rossi, Saint-Antoine è uno dei due ospedali dove le vittime si sono presentate spontaneamente; cfr. 13nov2015VF, s. 35, con probabilmente la presentazione spontanea di un codice rosso, 3 codici rossi inviati dal controllo di crisi zonale e un numero non determinato di codici arancione. 31 Patricia Neves, 13 novembre: aux urgences, dans la tête d’un médecin, in «Marianne», 22 novembre 2015, https://bit.ly/44heZue.

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È una medicina degradata, senza fini terapeutici o riparatori, erede della medicina di guerra di una volta. E le testimonianze dei medici raccontavano proprio, lo si vede, questo stato di fatto. Tuttavia, in quest’ultima testimonianza si osserva una prima normalizzazione, che fa entrare il dispositivo predisposto nel secondo stadio della presa in carico: dopo il preospedaliero e la stabilizzazione – il tempo del mantenimento in vita, in altri termini – viene il tempo del triage effettivo, dell’imaging e degli esami, ossia della ripartizione dei feriti nei diversi servizi incaricati di trattare le ferite: neurochirurgia, per i casi più gravi (ferite craniche con compromissione cerebrale, ferite vertebrali con coinvolgimento del midollo), chirurgia addominale o toracica, traumatologia per le ferite agli arti… Nel complesso, i resoconti istituzionali –  che ovviamente hanno interesse a presentare l’immagine più controllata possibile – e le testimonianze del personale medico sembrano indicare che il dispositivo adattato del Plan blanc non è stato sopraffatto e neppure destabilizzato. Così, non si è dovuto mai ricorrere a quel 35% di squadre di riserva previste nel Plan blanc e mantenuto durante tutta la sequenza, fino alla fine dello stato di allarme, il 14 novembre alle 5:30 del mattino; la componente centrale non è mai stata costretta a ricorrere alle componenti più avanzate: il trasporto in elicottero e il ricorso ai centri ospedalieri dei dintorni della capitale o delle metropoli provinciali vicine32. Potremmo dunque concludere che il dispositivo di presa in carico e di confinamento del parossismo è stato efficace: la procedura algoritmica, la razionalità dei processi, la potenza della logistica hanno resistito con successo a una delle esperienze più dirompenti che abbiano mai attraversato la società francese contemporanea dalla fine della Guerra d’Algeria. In una prova durissima come quella degli attentati del novembre 2015, l’insieme di saperi, procedure, anticipazioni, pianificazioni e pratiche di pronto soccorso utilizzato dal personale hanno effettivamente svolto il loro ruolo di organi di compartimentazione del parossismo in modo tale da permettere al personale dell’AP-PH di superare il cimento. Il pronto soccorso, come organo 32 13nov2015VF, s. 28 per i mezzi e il personale di riserva, 34 per la zonizzazione sui centri ospedalieri di Parigi e della petite couronne, 36 per il trasporto elicotteristico progettato e la lista delle metropoli regionali anticipate.

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atto a confinare l’effrazione e il parossismo e ad assegnare a questi degli spazi e dei tempi ben precisi, avrebbe dunque svolto pienamente il suo ruolo. È questo gusto del successo a trasparire dalle testimonianze di molti terapeuti e capi servizio dell’AP-PH e della BSPP, quando tornano sulla loro pratica. Tuttavia, questo discorso non è unanime, e non viene diffuso in tutti i resoconti che riflettono sull’esperienza del 13 novembre. Ed è entrando negli enunciati degli attori che, dopo aver esplorato il rapporto di esperienza istituzionale, possiamo sperare di cogliere l’esperienza del personale medico e paramedico. Alla ricerca delle esperienze del personale Nelle settimane successive agli attentati, le testimonianze del personale di soccorso (medici, infermieri, ma anche poliziotti, e talvolta persone che combinavano questi ruoli) si sono moltiplicate e sono state diffuse dalla stampa francese. Queste testimonianze sono abbondanti e diversissime tra loro. Costituiscono una fonte preziosa in quanto espongono nel modo più immediato quella che fu l’esperienza degli attori, e costituiscono così uno specchio dello sbalordimento di un’intera società33, diffondendo gli stati emotivi senza poterli filtrare e costituendo in questo modo un accesso diretto al cuore dell’esperienza di coloro che furono coinvolti negli attentati, come vittime o come soccorritori34. Tuttavia, al di là di questa prima caratterizzazione, possiamo vedere emergere alcune grandi costanti tematiche. In primo luogo, le testimonianze insistono spesso sulla contestualizzazione, sulla descrizione dei momenti precedenti e sulle circostanze dell’irruzione del parossismo. Ecco la testimonianza della già citata giovane soccorritrice, tutto sommato molto rappresentativa di questo stato di fatto:

33 Sbalordimento che è stato oggetto di un’inchiesta sociologica redatta prima degli attentati di novembre 2015 da Gérôme Truc, Sidérations. Une sociologie des attentats, PUF, 2016. Ringrazio Denis Peschanski per il riferimento. 34 Non abbiamo avuto accesso alla raccolta di testimonianze filmate realizzata da Christian Delage né al lavoro ai confini tra neuroscienza e storia, della squadra di Denis Peschanski. Si tratta di un altro tipo di storia del tempo presente.

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Quando prende la metropolitana, la sera del venerdì 13 novembre, Mélanie, giovane medico di 29 anni, si appresta a festeggiare il compleanno di suo fratello, non lontano da Bastille, nel centro di Parigi. Ma a qualche isolato più in là, sui marciapiedi di quel quartiere animato della capitale, giacciono già a terra dei corpi crivellati di proiettili. Allertata dalle conversazioni che si intessono spontaneamente tra sconosciuti nei treni, e da tutti gli occhi fissi sui cellulari, Mélanie realizza. «Prestissimo» pensa: «devo andare là», come racconta con voce chiara. «Là» è il Pronto Soccorso dell’Hôpital Saint-Antoine – situato a qualche centinaio di metri dai locali del X e XI arrondissement –, dove ha lavorato un anno prima. Non sono neppure le 22:30 quando Mélanie vi si presenta. Tra i volti familiari, una donna «col camice bianco, il collo e il volto insanguinati» aspetta. La sua presenza silenziosa turba la calma di un servizio che in quel momento funziona ancora come d’ordinario, benché due primi feriti da proiettile siano già stati presi in carico35.

Segue il resoconto dell’esperienza del lavoro della notte, la sensazione, già osservata, di caos organizzato, ma anche le prime impressioni sui feriti e la descrizione del loro atteggiamento. Tutte le testimonianze sono caratterizzate dall’immenso sbalordimento delle vittime. La soccorritrice prosegue infatti: «Quello che ci sorprende tutti da subito […] è che le persone sono talmente sbalordite, talmente scioccate, che non provano dolore, continuano a ripetere che c’è chi sta peggio, certi sono addirittura disinvolti». Così una ragazza continua a guardare il cellulare, mentre si vede «chiarissimamente» il foro di entrata di un proiettile sul suo fianco destro, e quello di uscita sull’ombelico, molto più impressionante, questo, perché, in uscita, il proiettile «lacera», rovina di più i tessuti. «Posta all’interno del ventre della paziente, una compressa tenta di tappare il vaso sanguigno» e di «stabilizzare l’emorragia», ma la ragazza continua a sembrare in festa, quasi euforica. «Eppure sono tecniche alle quali si ricorre in caso di ferite 35 Patricia Neves, 13 novembre: aux urgences, dans la tête d’un médecin, cit. Il testo dell’articolo è scritto in tondo, le citazioni del medico tra virgolette. Questa convenzione vale per l’insieme delle fonti di questa parte.

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di guerra». […] A quell’ora avanzata della notte, i feriti arrivano «uno dopo l’altro», Mélanie non pensa a niente: «In certi momenti senti una specie di groppo alla gola, ma va subito giù, perché si è risucchiati dalle cure che bisogna prestare» dichiara. «[Risucchiati] da quello che bisogna dire, anche, a quelli che invece sono venuti al concerto in due e ne escono da soli e su una barella. Quelli sono in un tale stato di shock che per esempio non smettono di dire a ripetizione frasi confuse, come una donna che ha perso il marito e chiede inconsolabile: “Ma dove sto, ma che mi fate, ma chi siete, dove sta il mio cellulare… ma dove sto, ma che mi fate, ma chi siete, dove sta il mio cellulare”». […] «Ci diciamo che presto arriveranno tutti gli altri feriti e sarà ancora più mostruoso; quando tutti riprendevano il respiro perché l’assalto stava per concludersi, noi invece ci dicevamo che era proprio allora che cominciava tutto».

Si osserva almeno parzialmente che i riflessi professionali, il pensiero e la pratica sequenziale e algoritmica in atto influiscono sulla finezza delle testimonianze e il giornalista ha certo intuitivamente ragione a notare che la soccorritrice si esprime usando «un gergo medico, come per immunizzarsi meglio dal terrore». A partire dalle 4-4:30, c’è un calo dell’attività. La testimonianza di Mélanie e l’articolo su «Marianne» passano a parlare di questo rallentamento e dei giorni successivi. Dopo l’afflusso di feriti, verso le 4 o le 5 del mattino, c’è un calo «brutale» dell’«attività», quando arriva una squadra di polizia, armata, munita di gilet antiproiettile. Mentre fin qui non riusciva a raccapezzarsi, ora Mélanie comincia a mettere insieme i vari «pezzi della storia». «L’anno scorso ero al SAMU del 77° [département], durante la presa di ostaggi di Dammartin (i fratelli Kouachi avevano preso in ostaggio due impiegati di una tipografia), ma qui è diverso… prestando soccorso a queste persone, ti dici: “Potrei essere io”, ma non te lo dici al momento». Paradossalmente, «al momento» Mélanie si sente «al sicuro» al pronto soccorso, «in tanti ci siamo detti, alla fine dei feriti in un

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ospedale ci stanno, rientrano nella normalità; invece dei feriti in un bistrot…». «Paura di rientrare a casa, bisogno di restare insieme», sono in tanti a essersi ritrovati dopo, quella notte, tra colleghi, «a parlare». Parlare di quello che hanno visto, di quello che hanno fatto, di quello che hanno sentito dalla bocca di altri medici, mobilitati altrove, a Parigi. […] Il giorno dopo, i giorni seguenti, quando Mélanie e tanti altri membri del personale ospedaliero si risveglieranno «svuotati», si ritroveranno a tentare di trovare un senso, tra aneddoti assurdi e storie tragiche. Come quel piumone di Hello Kitty in cui si è avvolto un ragazzone di 35 anni, ferito da uno sparo alla gamba, dopo che una portiera di un palazzo vicino ai luoghi degli attentati ha «portato generosamente da casa sua tutto quello che poteva per andare in soccorso alle persone». O come il signor X, dal volto distrutto dalla pallottola che ha ricevuto in piena testa e che gli ha tolto un occhio e leso il cervello, così sfigurato che in un primo tempo è stato impossibile identificarlo.

È dopo i fatti, quando i dispositivi di confinamento del parossismo si smobilitano, che lo stress accumulato durante le sei ore d’intensa attività e le esperienze vissute si fa sentire. La formulazione diventa allora più sensoriale: la giovane soccorritrice parla di quello che ha visto, detto, sentito, provato; restituisce visivamente la descrizione delle immense lacerazioni, vera e propria incarnazione dell’irruzione parossistica della violenza e dello spettacolo normalmente limitato alla guerra. Più le testimonianze sono prese in ambito preospedaliero, più la dinamica della degradazione del dispositivo di confinamento del parossismo che dà la formazione della medicina di emergenza-urgenza lascia posto all’espressione dell’intensità della prova. Ecco, per concludere, la testimonianza di un medico del RAID [corpo speciale di polizia: l’acronimo sta per “Recherche, Assistance, Intervention, Dissuasion”], tra i primi a entrare per evacuare i sopravvissuti del Bataclan, quale appare su un articolo di «VSD»36. La testimonianza ha 36 Luca Andreolli, Le récit choc du médecin-chef du RAID sur le “cauchemar” du Bataclan, in «VSD», 14 ottobre 2016.

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praticamente la stessa struttura narrativa di quella della soccorritrice precedentemente citata, con tuttavia una prima introduzione che sottolinea l’orrore dello spettacolo offerto dai corpi che giacciono nella sala da concerto. Poi parla in modo molto descrittivo e analitico, restituendo bene la procedura algoritmica: Presto il medico in capo del RAID constata: «È tutto chiaro. Ci sono quelli che sono già “bianchi”, ossia certamente morti, e gli altri». Allora tutto sta nel mantenere il sangue freddo e organizzarsi per mettere al riparo o mantenere in vita quelli che respirano ancora. Rapidissimamente. «Quando la situazione è così imprevedibile, non è il momento della “grande medicina”. Il ferito parla senza soffocare? La respirazione è ampia? Bastano occhi e orecchie per valutare la situazione. Qualcuno che ti parla normalmente non è in difficoltà respiratoria. Se la vittima sanguina, se si sta dissanguando, posso applicare un laccio o utilizzare un prodotto per fermare l’emorragia. Non più di dieci secondi per ogni gesto, questa è l’economia alla quale mi devo attenere». «Alla fine della scala, il nostro gruppetto capita sulla testa del terrorista che si è fatto esplodere». Qua e là, constatiamo vari tipi di ferite. Da quella più orribile a quella meno visibile. Spiega di nuovo: «Con un ferito da arma da fuoco, la prima cosa da guardare è il colorito. Si vede subito se la persona sta morendo a causa di un’emorragia. In caso di dubbio, si prende il polso. La clinica in zona di combattimento si riduce a questi esami ultrasommari, che sono più efficaci di tutti gli accessori che si potrebbero utilizzare». Gli capitano anche vittime che non hanno ricevuto proiettili né frammenti di proiettili, ma che restano paralizzate in cima a una scala. Allora deve alzare la voce: «Stammi a sentire! Stammi a sentire! È inutile restare qua. Fidati, usciamo». Un modo di portarli via da quell’inferno il più presto possibile. Consapevole che certi «non soffrono fisicamente» ma «psicologicamente», precisa che anche l’empatia si rivela utile («Forza, signorina, coraggio!»).

È presente anche una particolare attenzione, scorta nel comportamento di molti membri del RAID dalle vittime evacuate, a ciò che succede

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alle vittime a livello psichico. E si può pensare che questa empatia sia anche legata alla consapevolezza dell’eventualità di essere colpiti a propria volta. Il medico in capo continua così: Ma resta un altro problema: «Per uscire, quelle vittime devono ripassare sui luoghi. Arrivato in fondo alla scala, il nostro gruppetto capita sulla testa del terrorista il cui giubbotto carico di esplosivo è saltato quando quel commissario della squadra anticrimine, un eroe, lo ha colpito e neutralizzato prima che noi giungessimo sul posto. Solo la testa, staccata dalle altre parti del corpo, che giacciono non lontano. Ed è lungi dall’essere l’unica delle visioni dell’orrore inflitte a quei feriti appena estratti dal loro nascondiglio. Dobbiamo anche scavalcare corpi, tanto che a un certo punto, come per riflesso, metto la mano guantata sugli occhi del ragazzo che trasporto. Gli voglio risparmiare quell’incubo, ma volendo impedirgli di vedere gli imbratto la faccia di sangue. Quando capisco il mio errore, il suo volto è già macchiato».

I campi semantici del trauma sono effettivamente presenti: l’onnipresenza della descrizione delle visioni, delle sensazioni, del tatto, con l’evocazione dello scavalcamento dei cadaveri, coincidono con il momento esatto in cui l’attività di questo medico non è più urgentistica e medica, ma consiste nel procedere all’evacuazione. Questa testimonianza si distingue tuttavia dalle altre negli ultimi paragrafi, in quanto il medico è l’unico che ha indicato nel rapporto di aver classificato alcuni individui come UD [Urgences Dépassées], ossia persone per le quali non c’è più niente da fare, condannandole al decesso a breve termine per mancanza di cure. Ecco come ciò viene formulato dal medico e dall’articolo: Purtroppo, decine di feriti da arma da fuoco sono morte qualche ora o qualche giorno dopo. Come quella giovane donna che non ha fatto evacuare in priorità sapendola già condannata. Una decisione sempre dolorosa da prendere. Tuttavia, afferma, all’ospedale della Pitié-Salpêtrière: «Il neurochirurgo e il neurorianimatore che l’hanno presa in carico mi hanno confermato che non avrebbe avuto nessuna chance di sopravvivere alle sue ferite, racconta. So quanto

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è difficile ammetterlo, ma la notizia tragica del suo decesso ha confortato la mia scelta». Nell’effusione di sentimenti che lo animano, arriva a convincersi che il suo ruolo è chiaro, definito, decisamente umano: «Non posso tappare i fori di kalashnikov. Né ricucire arti mozzati da un’esplosione. Invece faccio tutto quello che è nelle mie possibilità affinché le vittime raggiungano il più presto possibile il blocco operatorio, con l’aiuto dei pompieri e del SAMU».

La questione sollevata da così tante fonti che descrivono il vissuto degli attori, sopravvissuti e personale medico, poliziotti o pompieri, rientra dunque spesso nei campi semantici e lessicografici del trauma. E in effetti, l’esistenza di CUMP37, studiati in particolare da Louis Crocq e François Lebigot38, che funzionano su tecniche di debriefing e di defusing, mette in luce un’ultima categoria di vittime, mai o quasi mai menzionate nelle testimonianze o nella letteratura grigia: quelle che si chiamano UMP, «urgenze medico-psicologiche», feriti leggeri o persone coinvolte, spesso in stato di estrema tensione psichica, che furono migliaia, quella notte, a vedersi la vita sconvolta e che si situano fuori dal nostro campo, le cui invisibili ferite sfuggono al campo del pronto soccorso. Queste testimonianze illustrano anche, e non soltanto in modo indiretto, il fatto che i dispositivi di pronto soccorso hanno svolto il loro ruolo di regolazione e di contenimento dell’esperienza traumatica e del parossismo in quell’intensa prova che furono gli attentati. Vi è un’ultima questione da trattare, che è semplicemente di cogliere ciò che questa irruzione della guerra e del trauma dice a quelli che, come noi, si interrogano sul parossismo. Conclusione Al termine di questa indagine, abbiamo potuto innanzitutto studiare un oggetto scientifico, il pronto soccorso, come oggetto di storia 37 Cellule di pronto soccorso medico-psichiatrico. Presentazione ufficiale di queste strutture in https://bit.ly/3DbUkvH. 38 Cfr., tra gli altri, Louis Crocq, Les Traumatismes psychiques de guerre, Odile Jacob, 1999; François Lebigot, Traiter les traumatismes psychiques. Clinique et prise en charge, Dunod, 2005.

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contemporanea, muovendoci tra le storie dei dispositivi, della costruzione e della diffusione di saperi, pratiche e metodologie. Abbiamo potuto caratterizzarlo come un dispositivo di contenimento o addirittura di confinamento del parossismo traumatico. Un confinamento che assegna all’accidenza spazi, dispositivi e protocolli nei quali e attraverso i quali, dopo la sua irruzione, essa viene limitata, trattata, addomesticata, normalizzata. In queste società occidentali che sopportano sempre meno facilmente la dirompenza parossistica dei corpi lacerati, il pronto soccorso dispiega dispositivi spaziali fissi (le sale di rianimazione e, eccezionalmente, i posti medici avanzati) o mobili (le SMUR) e protocolli di rinormalizzazione che dissimulano i corpi, salvano le persone stabilizzando le situazioni sanitarie e mirano infine a preservare lo spazio pubblico dalla presenza sconvolgente del prodotto di quella che Michel Foucault chiamava la «stupida violenza delle cose»39. Dispositivo di contenimento, il pronto soccorso lo è anche, infine, in quanto si occupa – rendendoli invisibili – di tutti gli emarginati e i derelitti prodotti dal fallimento dello Stato sociale, che finiscono, spesso di notte, nelle sale di quelle isole sperdute dei mondi ospedalieri. Il 13 e 14 novembre 2015, i dispositivi di pronto soccorso hanno peraltro dovuto contenere e confinare l’ignobile irruzione del parossismo, normalmente limitato ai contesti bellici, dei corpi lacerati, utilizzando quegli stessi dispositivi, quegli stessi strumenti. Si trattò di un banco di prova anticipato ma inedito; una prova che il personale ospedaliero attraversò in seno a un più ampio gruppo di attori, e a tal proposito, per concludere, vorremmo citare un ultimo testo, che non è di un medico ospedaliero o di un infermiere, ma di un poliziotto della squadra anticrimine: Tengo ad aggiungere che non posso precisare la cronologia esatta dei fatti, il numero delle vittime che abbiamo estratto, né le loro identità. Ricordo solo volti, sangue, persone che trasportavamo con le quali parlavamo mentre stavano morendo. Ricordo di aver 39 Michel Foucault, Hommage à Roland Barthes, in «Annuaire du Collège de France», n. 80, 1980, pp. 61‑62, citato secondo il testo n. 289 in Michel Foucault, Dits et écrits: 1976‑1979, t. 3, Gallimard, 2014; trad. it. Discipline, poteri e verità. Detti e scritti (1970-1984), a cura di Enrica Z. Merlo e Valeria Zini, Marietti, 2008.

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cercato il compagno di una donna italiana con una ferita da arma da fuoco e i loro volti quando li ho riuniti. Ricordo quella sala tinta di sangue, piena zeppa di corpi, le vittime talmente scioccate che non riuscivano né parlare né a camminare40.

Questo testo sembra condensare perfettamente il vissuto di moltissimi di coloro che hanno provato questa esperienza parossistica. L’enunciazione del poliziotto, alla fine di questo rapporto freddo e clinico, scivola nei campi semantici del sensoriale, proprio come i rapporti del personale ospedaliero. La memoria (μνήμη) si fa corpo (σῶμα) e le sue porte – i sensi – si aprono: il brigadiere parla di flash visivi, dell’esperienza corpo-sensoriale del trasporto dei feriti, dei colori del sangue, della visione dei corpi e dello sconvolgimento delle vittime. Ma in mezzo a tutto questo, quei due esseri che s’illuminano del loro rincontrarsi, ai loro occhi miracoloso… Alla fine di questa indagine, e dopo questo testo, dobbiamo forse trarre la conclusione che il parossismo è il moltiplicatore sensoriale che ci ha fatto scegliere il pronto soccorso come oggetto di studio; che esso è anche ciò che ci permette di contemplare il trauma senza voltare lo sguardo altrove; e che è, per finire, ciò che ci conduce a cogliere un po’ della bellezza sfuggente e incandescente che illumina i volti di quegli amanti sopravvissuti quando si ritrovano, bellezza che forse quell’ispettore della squadra anticrimine ricorderà per tutta la vita, insieme allo strazio di fronte al quale si trovò quella notte. È il parossismo che ci permette, come il poeta guerriero (ma restando storici) di collegare la bellezza con queste tenebre41.

40 Frédéric Ploquin, Bataclan, “J’ai l’honneur de vous rendre compte des faits suivants”, in «Marianne», 19 novembre 2015. 41 L’aforisma esatto di René Char è «Dans nos ténèbres, il n’y a pas une place pour la Beauté. Toute la place est pour la Beauté» (‘Nelle nostre tenebre non si fa posto alla Bellezza. Perché la Bellezza si è preso tutto il posto’). René Char, Fragment n° 237. Les feuillets d’Hypnos, cit., p. 232.

Conclusione

Hypnos afferrò l’inverno e lo vestì di granito. L’inverno si fece sonno e Hypnos divenne fuoco. Il seguito sta agli uomini1. r. char

Al momento di concludere, possiamo chiederci: abbiamo ottenuto lo scopo, raggiunto la sponda, superato quell’Uferlosigkeitsgefühl che avevamo menzionato nell’introduzione? Dobbiamo riconoscere che non ne siamo del tutto sicuri, tanto la sensazione di confusione è dominante nel varcare la soglia di questo libro per prenderne congedo. E forse, per capirci qualcosa in più, dalla porta dobbiamo volgere su di esso un ultimo sguardo, come fa il Figlio con la casa del Padre, quando infine la lascia per darsi lo slancio utile a intraprendere il proprio cammino. Vi sono ragioni che possono renderci difficile varcare questa soglia, malgrado il sollievo. In primo luogo, possiamo essere presi dal timore di abbandonare ciò che non ci siamo dati il tempo di abbracciare, ciò che non siamo consapevoli di lasciarci dietro. Inoltre, possiamo temere di non aver messo tutto il necessario in valigia, di perdere qualcosa di prezioso nel dire addio alla casa. Infine, possiamo anche guardare con apprensione e timore il vasto mondo e il futuro che ci aspetta, una volta varcata questa soglia. Tutto, così, ci suggerisce di darci il tempo di prendere congedo, di fare l’inventario di quello che abbiamo appreso, ma anche quello delle difficoltà o degli insuccessi o delle frustrazioni che abbiamo provato. Poi, una volta fatto tutto ciò, di prendere, nei limiti del possibile, le misure di quanto rimane da compiere. E, per essere più chiari, dobbiamo in primo luogo ricordare come, a partire dalla situazione storiografica della seconda metà degli anni 1 René Char, Incipit, in Id., Les feuillets d’Hypnos, cit., p. 172.

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Novanta, si sia costruita una metodologia di indagine del nazismo e della violenza bellica. Dovremo poi evocare ciò che, nel cuore del presente libro, ci ha permesso di fare una deviazione, e come il ricorso alla fisica quantistica e alla messa a punto della problematica del parossismo e dell’entre-soi (il ‘tra di noi’) ci abbia portato a consolidare e a precisare ciò che ci pare possibile e ciò che non lo è, ciò che è saggio sperare e ciò che è inutile aspettarsi. Solo dopo tutto questo saremo in grado di abbozzare quelli che potrebbero essere i contorni del futuro di una storia del tempo presente, scegliendo di esplorare i parossismi che attraversano i mondi occidentali e che i mondi occidentali attraversano, e gli entre-soi che producono. Quello che abbiamo imparato Per lo storico che si dedicava allo studio delle militanze elitarie naziste, il paesaggio storiografico tedesco, alla metà degli anni Novanta, era dominato da due macigni tematici che conoscevano sconvolgimenti profondi. Da un lato, la storia sociale dei grandi aggregati, che era servita da quadro interpretativo alla corrente funzionalista e l’aveva portata a formulare una teoria dello Stato nazista fondata sulla questione della policrazia e della concorrenza darwiniana tra istituzioni, sulla radicalizzazione cumulativa e su un’analisi weberiana nel senso del predominio carismatico, costituiva il paradigma dominante negli studi sul nazismo e sul genocidio2. Delle voci adiacenti, tuttavia, si facevano già sentire: da una parte, il recente crollo del blocco sovietico aveva messo gli studiosi di fronte a una valanga di documentazione che li costringeva non tanto a rivedere le loro interpretazioni, quanto a estendere la loro prospettiva alla scala europea, integrando in particolare gli immensi volumi archivistici ritrovati nei depositi di 2 Cfr. a tal proposito, per il quadro generale, Ian Kershaw, Che cos’è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca d’interpretazione, Bollati Boringhieri, 1995, ma anche Id., Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, Editori Riuniti, 2002. Paradigmatico, Martin Broszat, Der Staat Hitlers: Grundlegung und Entwicklung seiner inneren Verfassung, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1969; trad. it. Da Weimar a Hitler, Editori Laterza, 2001, e Ian Kershaw, Hitler: 1936-1945, Deutsche Verlags-Anstalt, 2000; trad. it. Hitler, Bompiani, 2019.

conclusione

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tutti i Paesi dell’Europa centrale e orientale, compreso l’arco occidentale dell’ex Unione Sovietica. Era finalmente possibile studiare minuziosamente, per esempio, i meccanismi che avevano portato al massacro di una parte degli ebrei tedeschi deportati verso l’Est, dal 25 al 29 novembre 1941, e la cui traccia si sbiadiva una volta varcata la frontiera del Reich. Inviati a Riga e a Kaunas, ma arrivati troppo presto perché si fossero liberati dei posti mediante il massacro degli ebrei locali, essi erano stati puramente e semplicemente fucilati al loro arrivo, in mancanza di altre «soluzioni»3. Tuttavia non era questo a colpire di più: l’onda storiografica che avanzava si distinse da quella precedente per la sua pronunciata avversione a interpretazioni e polemiche epistemologiche, per il suo gusto per l’erudizione e per la storia fattuale, per il suo dichiarato neopositivismo metodologico4. D’altra parte, però, sulla scia degli Ordinary Men di Christopher Browning e della controversia Goldhagen, alcuni lavori che trattavano i meccanismi del passaggio all’atto degli attori, individuali e collettivi acquistarono contemporaneamente importanza. Gli strumenti utilizzati furono allora assai diversificati: Christopher Browning, basandosi essenzialmente sui cambiamenti di scala (da qui il suo ringraziamento, nel libro, a Carlo Ginzburg), sull’esperimento di Milgram e sulla psicologia sociale sperimentale, studiò la costruzione delle figure autoritarie, mentre Daniel Goldhagen, dal canto suo, dichiarò di avvalersi degli strumenti della sociologia (dei quali in realtà è difficile trovar traccia nei suoi libri), raccordando l’insieme delle dinamiche multifattoriali invocate da Browning a una tesi sulla specificità dell’«antisemitismo eliminazionista» nazista. I loro successori, poi, utilizzarono altri strumenti diversificati, offerti essenzialmente dalla storia sociale e dalla storia delle idee5. 3 Christian Gerlach, Die Wannsee-Konferenz, das Schicksal der Deutschen Juden und Hitlers politische Grundsatzentscheidung, alle Juden Europas zu ermorden, cit., pp. 7‑44, qui pp. 12‑14; Andrej Angrick, Peter Klein, Die «Endlösung» in Riga: Ausbeutung und Vernichtung. 1941‑1944, WBG, 2010. 4 Per una visione globale in francese, cfr. Christian Ingrao, Conquérir, aménager, exterminer, cit., pp. 417‑440. 5 Christopher Browning, Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, Harper Perennial, 1993; trad. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, 1999; Daniel Jonah Goldhagen, Hitler’s Willing Executioners, cit. Sulla controversia, cfr. Christian Ingrao, Le nazisme, la violence, l’an-

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A partire dal 1989, alcuni studi di sociografia e di storia sociale quantitativa tentarono di colmare il vuoto storiografico esistente sulla questione delle istituzioni militanti naziste e delle origini sociali dei loro membri. Essi ebbero un bel daffare a lottare contro i pregiudizi che volevano che i militanti nazisti non potessero essere altro che bruti ignoranti e fanatici senza cultura né coscienza6. È dunque in questo contesto che ha preso avvio il mio lavoro sugli intellettuali dell’SD e dell’RSHA. L’argomento sollevava, per il poco che avevo potuto constatare, lo scetticismo di una parte dei miei precursori, sia tedeschi che anglosassoni. Uno studioso come Ian Kershaw diffidava della questione della militanza e temeva un ritorno della vecchia storia delle idee, in particolare intorno alla questione dei risentimenti contro la modernità7; altri ricercatori tentarono di adattare strumenti di storia politica o sociale al genere biografico o agli studi generazionali8. Tutti noi, però, inciampavamo sulla scelta degli strumenti più idonei a cogliere i sistemi di rappresentazione degli attori. Il mio riflesso di storico formatosi in Francia sulla storia religiosa moderna, in particolare su quella della Riforma e della Controriforma (per dire le cose in breve), fu quello di tentare di riflettere su come importare, nel campo di studi al quale volevo consacrarmi, gli strumenti che mi erano stati trasmessi9. E mi ritrovavo dunque munito di due universi referenziali perfettamente estranei, forse, agli occhi dei miei colleghi tedeschi. thropologie. Autour de Daniel Goldhagen, in «European Review of History. Revue européenne d’histoire», vol. 4, n. 1, 1998, e Gerhard Paul (a cura di), Die Täter der Shoah, cit., per uno scorcio efficace su questo campo di ricerca. In francese, Harald Welzer, Les Exécuteurs: des hommes normaux aux meurtriers de masse, Gallimard, 2007. 6 Herbert F. Ziegler, Nazi Germany’s New Aristocracy, cit.; Jens Banach, Heydrichs Elite, cit. 7 Si apriva su ciò nella nostra corrispondenza, bisogna pur dire in sua difesa che allora gli parlavo con calore del vecchio libro di Fritz Stern, The Politics of Cultural Despair. A Study in the Rise of the Germanic Ideology, University of California Press, 1961. 8 Qui pensiamo a Ulrich Herbert, Best, eine Biographische Studien über Radikalismus, Weltanschauung und Vernunft, Dietz, 1996; e a Michael Wildt, Generation des Unbedingtes, cit., dal quadro epistemologico ben più complesso di quello che qui tentiamo di delineare. 9 Ho cercato di soffermarmici di più in Christian Ingrao, Les urgences d’un historien, cit.

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Da un lato, per proseguire gli studi intrapresi sulla scia di Pierre Chaunu, Jean Delumeau, ma anche Alain Croix, Marc Vénard, Nicole Lemaître o Louis Pérouas10, desideravo analizzare il nazismo sia come si studiano le appartenenze religiose nel Medioevo e in epoca moderna (e, così riportare l’oggetto nel noto, rifamiliarizzarlo), sia come un antropologo poteva occuparsi di un qualche popolo lontano ed esotico. Questo approccio sembrava tanto meno peregrino in quanto era uscito, nel 1995, l’ammirevole libro di un antropologo francese e di una storica tedesca che si erano assegnati l’obiettivo di scrivere un’antropologia del nazismo e dunque, per dirlo in maniera figurata, di trattare i nazisti come Malinowski aveva trattato i melanesiani del Pacifico occidentale11. Importando lo sguardo antropologico – senza, certamente, porsi il problema dell’assenza se non dell’impossibilità dell’osservazione partecipante  –, Édouard Conte e Cornelia Essner rivelarono elementi appassionanti, che andavano dalla liturgia del matrimonio al rito della fede scambiata con il fidanzato morto in combattimento, passando per i rituali di commemorazione, la questione delle dimensioni religiose del movimento, i dibattiti sull’universo della razziologia, l’esplorazione delle pratiche coloniali ai confini ucraino-polacchi12. In secondo luogo, grazie ai lavori di Denis Crouzet sulle logiche dello scontro religioso che spaccò la Francia tra il 1524 e il 1610, disponevo di un secondo sistema referenziale che si proponeva di reinscrivere la questione religiosa negli universi emozionali dell’epoca, insistendo sulle differenze di temporalità e sulle angosce collettive, sui fervori o sulle attese che venivano alla luce in moli documentaristiche tanto gigantesche quanto specifiche, e di leggere, in una nuova chiave interpretativa della materialità di questa violenza, i gesti che ne costi10 Panoramico su queste questioni, il vecchio Cour d’agrégation di Pierre Chaunu dà un buono scorcio di ciò che contavo di utilizzare all’epoca. Pierre Chaunu, Église, culture et société, cit. 11 Bronisław Malinowski, Argonauts of the Western Pacific: An Account of Native Enterprise in the Archipelagoes of the Melanesian New Guinea, Routledge, 2014 (1922); trad. it. Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Bollati Boringhieri, 2 voll., 2015, 12 Cornelia Essner, Édouard Conte, La Quête de la race, cit.

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tuivano le offese ai corpi13, facendo della violenza un linguaggio che aveva come sintagmi i gesti, e del quale si potevano dunque decifrare i significati esaminando questi ultimi. Storia delle credenze, storia delle gestualità della violenza, storia dell’angoscia e del fervore, storia dell’attesa e dell’escatologia: ecco quello che mi accompagnava nel momento in cui partivo alla scoperta dei grandi fondi archivistici che si trovavano in fase di riunificazione tra il 1997 e il 2001. Ma vi era un secondo polo referenziale, dall’interesse certo più immediato agli occhi dell’osservatore, per quanto allora percepito soltanto da un’infima minoranza di specialisti del nazismo e del genocidio. A partire dalla metà degli anni Ottanta, essenzialmente in Francia, ma anche, in una certa misura, in Europa, era sorta, all’ombra della storia politica classica, una nuova generazione di studiosi che volevano osservare la Prima Guerra Mondiale altrimenti. Questa generazione di studiosi, che, sulla scia di Sir John Keegan14, vedeva la guerra come un atto culturale, eseguiva uno studio sistematico delle pratiche di guerra, in termini di mobilitazione, esplosioni di violenza, aggressione contro i civili, pratiche di combattimento, ma anche di universi emozionali e di vissuto. Questo approccio, fondato su cooperazioni internazionali e su un’apertura europea, rivelò nuovi oggetti e orientò le preoccupazioni degli studiosi verso la rapida comparsa e la diffusione di sistemi di rappresentazione che spiegavano e davano senso a un conflitto marcato da un’enorme letalità. È così che una corrente di analisi della Grande Guerra in termini di esperienza e di cultura si sviluppò progressivamente lungo tutti gli anni Novanta, in continuità con lo sviluppo più generale della storia culturale15. 13 Denis Crouzet, Les Guerriers de Dieu, cit., che si appoggia in particolare, per quanto concerne gli universi emozionali, su Alphonse Dupront, Le Mythe de croisade, cit. 14 John Keegan, The Face of Battle: A Study of Agincourt, Waterloo and the Somme, Random House, 2011 (1976); trad. it. Il volto della battaglia. Azincourt, Waterloo, la Somme, Mondadori, 1978. 15 Ricordiamo qui Jean Jacques Becker, Stéphane Audoin-Rouzeau, Les Sociétés européennes et la guerre de 1914‑1918, Université de Paris X-Nanterre, Armand Colin, 1990; Annette Becker, Stéphane Audoin-Rouzeau, 14‑18, cit.; Stéphane Audoin-Rouzeau, Cinq deuils de guerre 1914‑1918, cit. In tedesco, Gerd Krumeich, Gerhard Hirschfeld (a cura di), «Keiner fühlt sich hier mehr als Mensch…». Erlebnis und Wirkung des Ersten Weltkriegs, Fischer, 1996; Gerd Krumeich, Dieter Langewiesche,

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Tali erano dunque gli strumenti originali che, pensavo allora, potevano permettere di guardare altrimenti il nazismo, il determinismo razziale che ne era il fondamento e le sue principali caratteristiche. È armato di questi strumenti che mi sono lanciato in questa sfida che, all’epoca, era costituita dal tentare di dire qualcosa di diverso dagli eserciti di storici tedeschi o anglosassoni che formavano il grosso delle coorti funzionaliste o neoerudite dominanti nel campo storiografico negli anni a cavallo tra la fine del Novecento e il primo Duemila, senza lasciarsene intimidire. Quello che abbiamo imparato a fare allora può dunque essere molto brevemente riassunto nel modo seguente. Abbiamo innanzitutto appreso a esplorare l’intensità e la profondità degli universi emozionali in opera nell’esperienza nazista del credere. Abbiamo, in secondo luogo, imparato a delimitare le sequenze e a mettere in luce le dinamiche di violenza generate dagli apparati statali o bellici; a descrivere le credenze, i know-how sociali, la τέχνη omicida e i dispositivi statali, le catene di comando e il riserbo degli attori, che siano individuali, collettivi o istituzionali. Abbiamo, infine, capito come gettare uno sguardo sulle sequenze di violenza, affrontando il penoso studio delle concrete modalità della loro esecuzione; a studiare gesti, corpi, colpi, sofferenze e crudeltà, restituendo i linguaggi simbolici che emanano, restando più vicino possibile a coloro che li compiono, li subiscono, li attraversano. Ai nostri occhi, l’avanzata non concerneva unicamente il nazismo e la violenza della Seconda Guerra Mondiale, lungi da ciò. L’alleanza tra gli specialisti dei due conflitti mondiali, attuata a partire dal 19972001, si era in seguito approfondita ed estesa, grazie all’apporto di storici del XX secolo, ma anche a quello di modernisti, antropologi e psicoanalisti, all’insieme dei conflitti che hanno avuto luogo tra il 1911 e oggi16. Quella che abbiamo voluto e desideriamo rileggere è nientemeno che la storia di un mondo e delle terribili migrazioni della guerra e della sua violenza, dall’Europa verso l’Altrove e, ormai, forse in senso inverso. Hans Peter Ullmann, Gerhard Hirschfeld (a cura di), Kriegserfahrungen. Studien zur Sozial- und Mentalitätsgeschichte des Ersten Weltkriegs, Klartext, 1997. 16 Stéphane Audoin-Rouzeau, Annette Becker, Christian Ingrao, Henry Rousso (a cura di), La Violence de guerre, cit.

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Dal «ciò su cui esitiamo» alla deviazione Sarebbe sbagliato, tuttavia, vedere nell’itinerario intrapreso durante gli anni 1996-2005 una strada rettilinea e uniforme. Le difficoltà furono numerose, il senso di incompletezza17 onnipresente, e non è inutile tendere l’orecchio al ritornello dell’ostacolo che si erge, per prenderne le misure, perché questo libro, alla fine, avrà tentato di esplorare le opzioni che permettono di superarlo. La prima notevole difficoltà che siamo stati costretti ad affrontare concerne la questione e lo status della dimensione sociale delle identità e della militanza che abbiamo studiato. Infatti, le prime constatazioni della ricerca sugli intellettuali nell’SD e nell’RSHA avevano mostrato che una prosopografia che sperasse di legare l’arruolamento di questi uomini nei ranghi nazisti alla loro estrazione sociale sarebbe stata, nel migliore dei casi, truistica: come stupirsi del fatto che gran parte degli uomini che avevano frequentato il Gymnasium e l’università provenisse da classi sociali medie che aspiravano a un’ascensione sociale? Come aderire alla venerabile spiegazione funzionalista dell’adesione di quelle classi medie al nazionalsocialismo per timore del declassamento, allorché nessuno, nel campionario selezionato, aveva fatto esperienza della disoccupazione o della precarietà dopo il 192918? Lo studio sociale, nei modi in cui era espresso in questa prima indagine, non portava a niente. Resta il fatto che, dal canto suo, uno studio condotto con strumenti di storia strettamente culturale faticava a restituire l’impianto dei discorsi prodotti dalle istituzioni, li sprofondava in un anonimato spesso insoddisfacente, eliminandone la singolarità sociale. La constatazione apparve progressivamente, ma con 17 Qui pensiamo ovviamente ai lavori di Kurt Gödel, evocati nell’introduzione, e forse un giorno bisognerà anche tentare di capire meglio se esistano legami tra i lavori di Gödel sulla questione dell’assiomatica, della logica e dell’indecidibilità (Unentscheidbarkeit) da una parte, e le procedure di amministrazione della prova in scienze sociali, dall’altra. Ma bisognerebbe sfidare l’aspra critica di Jacques Bouveresse che elenca gli usi abusivi di Gödel in filosofia, in Jacques Bouveresse, Prodiges et vertiges de l’analogie, cit., e quella di Jean Bricmont, Alan Sokal, Impostures intellectuelles, Odile Jacob, 1997. 18 Christian Ingrao, Croire et détruire, cit., qui capitolo 1.

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una grande costanza: non si poteva percorrere il primo ambito che rinunciando all’altro, e se si cominciava con lo studiarne uno, allora lo studio successivo dell’altro se ne trovava trasformato. Più grave ancora, forse: l’indagine successiva, consacrata alle politiche naziste di lotta contro i partigiani in Polonia, nell’URSS e – inizialmente – nei Balcani, rivelò che gli approcci adottati appiattivano in qualche modo il reale, riducendo la sua costruzione pluridimensionale. Studiate nel prisma delle fonti statali, dei rapporti dei Wirtschaftskommandos (squadre di prelievo economico) o dei reparti di combattimento o di controllo dei territori situati entro il fronte, queste pratiche potevano essere descritte come politiche pubbliche terribilmente micidiali e predatrici, ma la cui coerenza funzionale era una questione di scelte politiche analizzabili in termini di razionalità e di strategia politico-razziale. Ma queste fonti non restituivano affatto quello che i protagonisti di quell’immensa tragedia avevano attraversato: l’aggressione sistematica delle popolazioni rurali della Bielorussia, dell’Ucraina, degli ex Stati baltici e della Polonia era certo percepibile nelle cifre e nell’ampiezza, ma non vi si vedevano i contadini spaventati o i miliziani baltici e ucraini pieni di risentimento e di rabbia, o ancora i tedeschi autoritari e terribili. C’era tuttavia un secondo tipo di fonte che faceva saltare agli occhi quel nauseabondo tornado di violenza, restituendo quelle immense cacce all’uomo durante le quali si giungeva a ottenere donne in cambio di vodka, istituendo un “corso” dei termini dello scambio, in cui gli uomini ridevano davanti ai roghi mentre donne, vecchi e bambini supplicanti ardevano come torce. Queste fonti, ritrovate in tutta l’Europa orientale dalle commissioni d’inchiesta sui crimini nazisti istituite nei Paesi futuri membri del Patto di Varsavia, ma anche negli archivi giudiziari tedeschi, restituivano dunque abbastanza fedelmente – ancorché non fossero esonerabili da accuse di edulcorazione – quella dimensione delle politiche di lotta contro i partigiani, ma non riuscivano a coglierne le logiche funzionali sopra descritte. Anche in questo caso, dunque, non si poteva cogliere un aspetto senza rinunciare all’altro, ma era ancora più chiaro, in questo secondo esempio, che l’oggetto osservato aveva sia l’uno che l’altro aspetto… Scissione degli oggetti, scissione degli strumenti, scissione degli sguardi: era dunque inevitabile esitare tra approcci che si escludevano

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l’un l’altro; rinunciare ad abbracciare un oggetto nella sua interezza; cogliere l’esperienza e la rappresentazione degli esseri e dei gruppi al prezzo di una indeterminazione molle della loro estrazione, della loro struttura e delle loro dinamiche o, al contrario, esplorare in maniera approfondita le strutturazioni e le evoluzioni del sociale senza afferrare in modo soddisfacente il vissuto degli esseri e dei gruppi? La ricerca che qui si conclude è nata da questo interrogativo, lentamente constatato, poi formulato, lungo vent’anni di sforzi e di insoddisfazioni tanto transitorie quanto lancinanti; vent’anni di assenza di certezze. Il lettore l’avrà capito da un pezzo: non ci siamo lanciati a cuor leggero nella riflessione presentata in questo libro. Infatti, dobbiamo ammettere che inizialmente l’accostamento tra la situazione epistemologica dello storico del nazismo che tentavo di diventare e quella del fisico dei mondi quantici ha rappresentato uno scherzo un po’ amaro, una sorta di “plaisantriste”, per dirla con Serge Gainsbourg ricordando la citazione di Georges Bernanos posta in esergo inaugurale a questa opera19. Ma tant’è: non ho saputo fare altrimenti. Un giorno, dunque, è stato chiaro che, per uscirne, non c’era altra scelta che fare un salto nel buio e tentare di condurre l’indagine nel modo meno incoerente possibile. Ed è così che, da una parte, ho cominciato a tentare di capire, tornando ai testi dei grandi fisici fondatori di quella rivoluzione scientifica controintuitiva che è la fisica quantistica, le conseguenze del suo sviluppo nel suo campo, per poi costituire un dispositivo che permettesse di organizzare una pratica di confronto delle situazioni epistemologiche delle due attività euristiche. L’idea consisteva nel partire da ciò che si poteva comprendere della pratica e delle tesi dei fisici per poi tentare di determinare se questa plusvalenza cognitiva tratta dalla fisica quantistica potesse condurci a generarne una seconda in ambito storico. Nata dunque negli anni decisivi (quasi ventidue) tra il 1905 e il 1927, la fisica dei quanti sconvolge la fisica classica introducendo, in primis, un cambiamento fondamentale nello studio dei fenomeni fisi19 [“Plaisantriste” è un neologismo di Gainsbourg in cui si combinano le parole “plaisanterie”, ossia ‘scherzo’, e “triste”, NdT.] «C’est un Aquoiboniste, un faiseur de plaisantristes, qui dit toujours: “à quoi bon?”, “à quoi bon?” […]» faceva cantare Serge Gainsbourg a Jane Birkin in un album intitolato Ex-fan des Sixties, pubblicato nel 1978 da Mercury e ripubblicato nel 2001 da Universal Records.

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ci, nella misura in cui niente, neppure il tempo, ha ormai un carattere continuo: la presenza, lo spazio, il tempo e tutti gli oggetti sono di carattere discreto, ossia composti di unità fondamentali separate le une dalle altre. In secondo luogo, le conclusioni di Max Planck e di Albert Einstein suggeriscono che, contrariamente a quanto sostiene la fisica classica newtoniana, ogni oggetto è di natura sia corpuscolare che ondulatoria. La luce, per esempio, è sia un gioco di fotoni che un insieme di irradiamenti di lunghezze d’onda variabili. Essa adotta, in certe circostanze osservate, il comportamento di un’onda e, in altre, quello di un insieme di particelle. Sul piano teorico, i fisici furono inoltre costretti a constatare che non solo il loro sguardo sull’oggetto osservato comportava modifiche della sua natura apparente, ma che, in più, la precisione delle loro misure degli oggetti quantici dipendeva da un’equazione d’inversione proporzionale delle probabilità di occorrenza dei risultati che impediva, quale che fosse l’acuità degli apparecchi di misura reali, di cogliere in uno stesso movimento le caratteristiche corpuscolari e le dinamiche ondulatorie di uno stesso oggetto con la stessa precisione, la stessa certezza. Questa conclusione inesorabile, tratta dal principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, ci ha costretto a constatare che avveniva la stessa cosa nel nostro campo, e che dunque ormai era inutile voler dimostrare che un approccio fosse più pertinente dell’altro. Non solo è illusorio e vano sperare – semmai lo avessimo voluto, Dio non voglia – dimostrare la superiorità di una storia focalizzata sulle rappresentazioni e le loro singolarità su una storia degli aggregati e delle ricorrenze che costituiscono un corpo sociale, aut vice versa, ma la formulazione stessa dell’interrogativo è sillogistica e conduce lo studioso a trovare quello che sta cercando, proprio come il fisico che vuole misurare la posizione di un oggetto gli chiede di comportarsi da particella mentre colui che tenta di misurarne l’impulso gli chiede di comportarsi come un’onda. E questo, mentre l’oggetto partecipa delle due nature. Di fronte a quella che sembra essere un’inesorabilità definitiva, la deviazione attraverso la fisica quantistica ci incita tuttavia ad andare al di là dell’incompletezza e a far fronte a questa barriera senza schivarla; a esplorarne le impossibilità e a risparmiare le nostre forze e le nostre parole per investirle in attività diverse dallo scontro ricorrente tra il corpuscolare e l’ondulatorio o, per gli storici nel nostro caso, tra

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la ricerca della strutturazione sociale e quella delle singolarità o dei paradigmi discorsivi. Dopo aver preso le misure dell’indeterminazione e della «incommutabilità degli operatori» dimostrata da Heisenberg, Dirac e Neumann, abbiamo affrontato la questione della sovrapposizione degli stati, quella dell’entanglement (intreccio) quantico, e quella di quel fenomeno che permette di rendere conto della transizione, nel caso di oggetti di grandi dimensioni, da un comportamento quantico a un comportamento classico e che si chiama “decoerenza”. La sovrapposizione degli stati, ossia la capacità di un sistema fisico di trovarsi contemporaneamente in più stati diversi se non opposti, non disorienta profondamente noi storici: nella stessa epoca di Heisenberg, Freud elaborava il concetto di Verleugnung, termine che Lacan traduce con “démenti” (‘rifiuto’) e che designa la capacità della mente umana di produrre nello stesso movimento un enunciato o una rappresentazione e il suo contrario20… Gli ultimi due concetti a cui ci siamo interessati, quello di entanglement e quello di decoerenza, ci hanno portato, in primo luogo, a tentare, studiando oggetti storici apparentemente non articolati ma constatando che gli orizzonti di possibilità o di probabilità dell’uno influivano a distanza sugli orizzonti di probabilità o di possibilità dell’altro, di suggerire che era allora legittimo considerarli insieme, come un solo e medesimo sistema in sé, come un oggetto che si rivelava allora agli occhi dello storico, il quale poteva allora studiarlo in uno stesso movimento di documentazione. È qui che la deviazione attraverso la fisica quantistica produce forse i suoi effetti di conoscenza più interessanti, rinnovando gli oggetti di cui noi storici possiamo legittimamente occuparci. Con la decoerenza, insomma, i fisici hanno tentato di rendere conto del fatto che gli oggetti macroscopici non hanno più il carattere probabilistico e sovrapposto degli oggetti quantici. Noi abbiamo traspo20 Sigmund Freud, Der Realitätsverlust bei Neurose und Psychose, (1924), in GW, t. 13, pp. 364‑365; trad. it. La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, in OSF, vol. X. Sulla posizione di Lacan e la scelta di tradurre con “démenti”, si consulti, per una critica di questa scelta di Lacan, confinata alla relazione del transfert tra analista e analizzato, Bernard Penot, Action du psychanalyste sur le processus, in «Revue française de psychanalyse», vol. 68, n. 5, 2004, pp. 1781‑1788, qui pp. 1785 sgg.

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sto questa constatazione alla realtà storica, suggerendo che quest’ultima era osservabile con i nostri strumenti e i nostri sguardi, con la o dopo la decoerenza, nel momento in cui, essendo la situazione passata dall’attesa dell’avvenimento all’avvenuto, gli orizzonti di possibilità o di probabilità che nascondeva la situazione si sono cristallizzati in una delle innumerevoli potenzialità che essa portava, schiacciando l’insieme delle altre per non lasciarne sussistere che una, con probabilità 1. La deviazione attraverso la fisica quantistica ci ha infine permesso di promuovere questa operazione così profondamente fisica che è l’esperimento mentale e di perorarne la causa, se ce ne fosse stato bisogno, presso gli storici. Ci ha anche permesso di guardare con uno sguardo rinnovato un certo numero di situazioni di controversia e di divisioni storiche per esaminare il loro potenziale scientifico e, infine, di scoprire che vi era la possibilità di svelare tutta una serie di oggetti rimasti ancora ignoti. Seppure al prezzo di assegnare alla pratica storica un certo numero di limiti inevitabili, allo stato delle nostre conoscenze odierne, questa deviazione sarà stata fruttuosa, credo, non fosse altro che in quanto spinge all’immaginazione euristica all’interno di questo quadro, o in quanto indica la possibilità di svelare nuovi oggetti. Prendendo atto della definizione abbastanza vaga di quello che designiamo sotto il vocabolo di storia nell’approccio che ricorre alla fisica quantistica, abbiamo poi voluto tentare di capire di quale situazione questa vaghezza fosse il sintomo. L’ipotesi alla base di questa nuova tappa dell’indagine vuole che, tra il 1974 e il 1996, la storia sociale dei grandi aggregati, praticata un po’ ovunque in Europa, sia entrata in un periodo di rimessa in questione, in particolare a causa della comparsa di storie sociali alternative, che abbiamo potuto caratterizzare quali pratiche internaliste, critiche e comprensive, che indicavano una via capace di integrare culture e rappresentazioni alle descrizioni dei meccanismi sociali, senza tornare alle controversie filosofiche o storiografie ottocentesche o primo novecentesche. Movimento europeo, questa dinamica, che comprende History Workshop, Alltagsgeschichte e microstoria, sotto l’influenza fondamentale di E.P. Thompson, è stata ignorata se non rifiutata dalle storiografie francesi del gioco sociale contemporaneo, conducendo la cittadella dei seguaci di Braudel a riformarsi, certo, ma costituendo, in qualche modo, tra il 1974 e il 1996, un fortino epistemologico nella storia sociale contemporanea,

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fenomeno manifesto quando si guarda all’evoluzione di quella corrente così dinamica che è la sociostoria in questo periodo. È questo stato di fatto, insieme alla constatazione che le potenzialità di emergenza di questa storia sociale erano state presenti sin dall’origine ed erano rimaste tali lungo tutta la tumultuosa storia dell’Institut d’Histoire du Temps Présent, che ci ha portato a sperare che fosse possibile, da una parte, riunificarvi le storie sociali internaliste sviluppatesi in Inghilterra, in Germania o in Italia e quella storia culturale nata tra il 1987 e il 1996, e, dall’altra, ridurvi lo scarto, di cui sono tanto spesso accusati quella storia e quel gruppo di storici, che separa lo studio delle culture e del quotidiano delle società da quella degli eventi e della tragicità che saturano il XX secolo che attraversano21. Senza rinnegare nulla del nostro bagaglio e della nostra eredità storiografica istituzionale; senza rinnegare nulla del nostro passato, è nell’enunciazione di un programma di ricerca che articoli i concetti di parossismo e di entre-soi che abbiamo tentato, a questo fine, d’inventariare gli strumenti euristici messi così a nostra disposizione da quella storia socioculturale e dalle scienze sociali dell’esperienza (antropologia e psicoanalisi principalmente, ma non unicamente). È stato allora possibile sottolineare l’estrema ricchezza del concetto di parossismo, che abbiamo tratto dalla cardiologia e che designa l’apice di un fenomeno, di un’affezione. Oltre a permettere di designare oggetti che finora sfuggivano allo sguardo degli storici della contemporaneità (come il parto, gli incidenti, l’agonia, il trasporto artistico, il fervore politico o musicale, il terrore o l’immersione cinematografica, il massacro, ovviamente, ma anche il sacrificio, la macellazione e una grande parte delle pratiche di crudeltà), il concetto di parossismo permette anche di cogliere fenomeni intrecciati gli uni negli altri, come il fervore nell’imminenza immaginata del massacro, fervore visibilmente provato dai terroristi intenti a pregare nell’Airbus A300 del volo AF-8969 di Air France al momento dell’assalto del GIGN (Groupe d’intervention de la Gendarmerie nationale) all’aeroporto di Marignane, il 26 dicembre 199422. Caratterizzato da una 21 Alludo al capitolo La citadelle et l’isolat. L’innovation européenne en histoire sociale contemporaine, 1974-1996, non presente in questa edizione italiana. 22 Cfr. per esempio, Vol AF-8969: «On entendait passer les balles», https://bit. ly/3rwQZFi.

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dinamica di sotto-verbalizzazione o di non-verbalizzazione dell’esperienza da parte dei protagonisti, il parossismo costituisce così sia un moltiplicatore sensoriale che rivela degli oggetti, sia un oggetto in se stesso o un insieme di oggetti che è peraltro opportuno identificare, sequenziare, contestualizzare e inserire nelle temporalità delle società in cui emergono. Articolato al concetto dell’entre-soi ben noto ai lettori di Françoise Héritier23, quello del parossismo permette di rivisitare le frontiere e gli specchi di lacune tematiche della storia del tempo presente e di sperare di studiare, in uno stesso movimento, l’esperienza del fervore, estetico ed emozionale, talvolta generato dal cinema o dal concerto di musica, e di quello, tanto oscuro, scatenato dall’ebbrezza della fine dei combattimenti, teatro di violenze talvolta insostenibili, come nel marzo del 2000 nel villaggio ceceno di Saadi-Kotar (in russo Komsomol’skoe), dove i militari russi sottomisero i ribelli ceceni a una violenza antifunzionale e sardonica, ma piena zeppa di significati24. Noi pratichiamo così fin d’ora una storia contemporaneamente internalista e critica dell’esperienza e del suo corollario: l’emozione. Una storia del nazismo, una storia della violenza, una storia del parossismo; una storia del tempo presente. Sta a noi, per concludere, tracciarle un futuro. Futuri del parossismo, storie del tempo presente Molto è già stato detto, certo, sulla violenza nazista, e più in generale sulla violenza bellica. Ma è una tematica esigente, inesauribile e resta molto da fare. Questo polo tematico rappresenta la prospettiva 23 Françoise Héritier, Les matrices de la violence et de l’intolérance, in Ead. (a cura di), De la violence, vol. II, cit., pp. 321‑344. 24 Racconto in Christian Ingrao, Violence extrême. Que s’est-il passé? XIXe-XXIe siècle, in Bruno Cabanès, Thomas Dodman, Hervé Mazurel (a cura di), Histoire de la guerre du XIXe siècle à nos jours, Seuil, 2018, pp. 566‑575. Su questo tipo di soggetti, si legga Arkadi Babtchenko, La Couleur de la guerre: récits, Gallimard, 2009, e anche Svetlana Alexievitch, La Fin de l’homme rouge, Ou le temps du désenchantement, Actes Sud Littérature, 2013, e Anna Politkovskaïa, Tchétchénie, le déshonneur russe, Gallimard, 2005; trad. it. Cecenia. Il disonore russo, Fandango, 2003.

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immediata di una storia socioculturale dell’esperienza e di un’antropologia storica del parossismo. Sarà opportuno, in un futuro prossimo, sistematizzare la pratica tramite indagini che mescolino lavoro individuale e attività collettive, designando degli assi tematici, sequenziando dei conflitti isolandone periodi o scansioni, operando sondaggi fondati su cambiamenti di scala, inventariando sistematicamente i fondi documentaristici disponibili e gli universi referenziali a nostra disposizione, come anche i mezzi d’indagine. Perché, nei fatti, le monografie su conflitti, sequenze, reparti combattenti o tematiche specifiche, e le biografie di protagonisti, dovranno abbinarsi agli approcci d’insieme e alle prospettive globalizzanti. Facciamo qualche esempio: se è ancora possibile e auspicabile lavorare in modo sistematico sulle pratiche naziste di lotta contro i partigiani sui fronti dell’Est, tematica alla quale abbiamo già consacrato un’intera monografia25, sarebbe perlomeno interessante riprendere l’indagine sul metro del secolo e di questo tipo di configurazione di combattimento. Si tratterebbe allora di tentare di comprendere se il modello in quattro fasi sviluppato da Christian Gerlach per il caso bielorusso26, che abbiamo già evocato nel primo capitolo e rapidamente generalizzato a tutti i Paesi occupati dal Terzo Reich27, non possa applicarsi, in realtà, a un gran numero di configurazioni di quelle che sono ormai chiamate guerre di “contro-insurrezione” o guerre irregolari28. Identificando i casi in cui questo modello sembrava a prima vista “funzionare” – guerre d’Indocina e del Vietnam, guerra d’Algeria, “operazioni di ripristino della legalità costituzionale” in Cecenia, conquista americana dell’Iraq o conquista alleata dell’Afghanistan a partire dal 2001, operazioni Serval e Barkhane in Mali e nell’area sahelo-sahariana dal 2013 – e discriminandoli da alcuni casi che rientrano in uno schema diverso – essenzialmente le guerre di conquista o di riconquista: Libano, Malesia (1948-1960), per esempio  –, sarà possibile condurre degli 25 Christian Ingrao, Les Chasseurs noirs, cit. 26 Christian Gerlach, Kalkulierte Morde, cit., pp. 870‑1055. 27 Johann Chapoutot, Christian Ingrao, Hitler, PUF, 2018, qui pp. 172‑180; trad. it. Hitler, Laterza, 2021. 28 Gérard Chaliand, Les Guerres irrégulières. XXe-XXIe siècle: guérillas et terrorismes, Gallimard, 2008.

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studi comparatistici per tentare di comprendere ciò che distingue le configurazioni, ma anche, più approfonditamente, se e come delle esperienze, delle τέχναι siano potute circolare, sia tra movimenti di insurrezione che tra forze contro-insurrezionali, oppure da un campo all’altro29, e ciò nel momento in cui la guerra si allontana dall’orizzonte immediato di un’Europa che, pur essendo caratterizzata dalla prospettiva della “guerra fredda”, relega a quegli spazi topograficamente e simbolicamente marginali che sono gli imperi coloniali aspiranti all’emancipazione, l’attività bellica e le pratiche parossistiche sviluppate durante la sequenza 1911-1947 sul proprio territorio. Il fatto che quasi quarantamila veterani tedeschi della Seconda Guerra Mondiale si siano arruolati nella Legione straniera francese e abbiano combattuto in Indocina ci sembra costituire un’ipotesi appassionante di migrazione dei saperi militari o tattici sviluppati sul fronte Est verso le lotte di decolonizzazione, tanto più che alcune recenti ricerche hanno mostrato che questi tedeschi erano sovrarappresentati nell’arruolamento e nelle unità di addestramento30. Come mostra questo esempio assai parziale, quella che si delinea è un’altra storia, una storia del tempo presente dell’Europa che relega il parossismo bellico nel “remoto”, associandolo a popolazioni spesso socialmente o simbolicamente marginalizzate – in questo contesto il caso dei coscritti in Algeria costituisce, forse, un’eccezione lampante, insieme a quello dei coscritti portoghesi in Angola e in Mozambico e quello dei coscritti americani, sovietici e russi rispettivamente in Vietnam e in Afghanistan, o in Cecenia, e bisognerà studiarne le ragioni in termini di uscita dalla guerra e di mantenimento – o cancellamento – degli immaginari di guerra razziale che sono stati diffusi in alcuni di questi contingenti durante questi conflitti31. Si potrebbero moltiplicare gli esempi, ma limitiamoci a precisare, concludendo, che questo è 29 Pioniere nella materia, Gérard Chaliand, Les Guerres irrégulières, cit.; Elie Tenenbaum, Partisans et centurions. Histoire de la guerre irrégulière au XXe siècle, Place des Éditeurs, 2018. 30 Pierre Thoumelin, L’Ennemi utile: 1946‑1954. Des vétérans de la Wehrmacht et de la Waffen-SS dans les rangs de la Légion étrangère en Indochine, Schneider Text, 2013. 31 Per il contingente francese, cfr. l’ormai classico Raphaëlle Branche, La Torture et l’armée pendant la guerre d’Algérie, cit.; per il Portogallo, Armelle Enders, Histoire de l’Afrique lusophone, Éditions Chandeigne, 1994, pp. 113‑126.

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un tipo di lavoro che si può fare bene soltanto in modo collettivo, costruendolo intorno a progetti federatori che riuniscano specialisti su tematiche trasversali, comparatiste, lasciando regolarmente tempo alla sintesi32, ma operando anche sondaggi tematici in profondità, lavorando per esempio sulla questione del combattimento di montagna, o della marginalità di guerra; interessandosi ai danni corporali, o ai rumori; interrogandosi sulle pratiche della scrittura di sé in guerra e sulla traccia che l’esperienza della violenza lascia nella finzione. E vorrei fare qui un ultimo esempio: chi ricorda che Jacques Mesrine aveva combattuto nei commando di paracadutisti in Algeria, prima di darsi al grande banditismo? Chi può sapere quale fu l’impatto di un’esperienza di guerra, che tutto indica caratterizzata dal parossismo, sul successivo itinerario del celebre evaso? Chi, nello stesso ordine di idee, può realizzare davvero le dimensioni e l’effetto dell’esperienza di guerra in Algeria sugli agenti antisommossa della CRS (Compagnie républicaine de sécurité) che fronteggiarono i giovani contestatori nel Sessantotto in Francia o che repressero i grandi scioperi del settore automobilistico nella periferia parigina, mentre il potere socialista agitava il pericolo del radicalismo islamico33? Non possediamo ovviamente le risposte a queste due domande, ma esse illustrano il fatto che quando si allarga la prospettiva alla scala del continente, questo approccio del fenomeno bellico delinea un’altra storia dell’Europa e che lo fa perlomeno, per quanto ci riguarda, dal 1911 al 2019 compreso. Ecco la sfida di una storia del tempo presente rivivificata come un’antropologia storica e sociale dell’esperienza del parossismo di guerra. Una storia che mette in gioco i corpi, le anime, le menti, le memorie, gli esseri, insomma, ma anche le intere società. Il concetto di parossismo, se applicato in tutta la sua ampiezza al fenomeno bellico, è lungi dall’esaurirsi in questa riflessione. Il capitolo consacrato al pronto soccorso, benché mirasse, come è ormai

d’abitudine negli studi di storia del tempo presente34, anche a esplorare il parossismo irruttivo degli attentati del 13 novembre 2015, cercava innanzitutto di sottolineare la funzione regolatrice e isolante del dispositivo “pronto soccorso” nelle società occidentali contemporanee. Armandoci di griglie di analisi sviluppate dagli allievi di Norbert Elias, e in particolare del concetto di compartimentazione35, abbiamo analizzato il pronto soccorso anche come procedura di stabilizzazione dei pazienti in urgenza assoluta e come dispositivo spaziale (che sia immobile, come una sala di rianimazione, o mobile, come le ambulanze), la cui funzione è contenere il parossismo, confinarlo in spazi che sono dell’ordine dell’interstizio, per separare dalle società europee, sempre più incapaci di tollerarne la loro vista, corpi straziati e individui miserevoli, quelle esperienze e quei fenomeni che vorrebbero dimenticare. Dispositivo cognitivo e spaziale di confinamento o di rimozione, ma anche, allo stesso tempo, di addomesticamento del parossismo, non fosse che tramite la dimensione innegabilmente algoritmica impressa, durante l’addestramento, ai comportamenti dei medici, il pronto soccorso costituisce un oggetto che offre una porta d’accesso allo strazio traumatico della patologia e della contingenza accidentale ma anche, inesorabilmente, a tutta la miseria e la marginalità che le società occidentali producono, negli interstizi e negli angoli ciechi dei loro Stati sociali, ormai da tempo in crisi, i quali sovraespongono coloro che ne fanno l’esperienza ad attraversare il parossismo. Si potrebbero così moltiplicare le indagini, elencando ogni tipo di parossismo e l’eventuale dispositivo di contenimento/rimozione elaborato dalle società occidentali: così il parossismo del dolore, che ci condurrebbe a lavorare sulle terapie antidolorifiche e i reparti di cure palliative36; così il parossismo festivo e corporeo, preso in carico, tra altri, dai rave o free parties, che confinano queste manifestazioni negli

32 Come ha fatto negli ultimi tempi la bella équipe riunita da Bruno Cabanes, Thomas Dodman, Gene Tempest, Hervé Mazurel (a cura di), Histoire de la guerre XIXeXXIe siècles, Seuil, 2018. 33 La questione è posta senza mezzi termini per lo sciopero delle fabbriche Talbot di Poissy del 1982 in Vincent Gay, Grèves saintes ou grèves ouvrières?, in «Genèses. Sciences sociales et histoire», vol. 98, n. 1, 2015, pp. 110‑310.

34 Lo testimoniano i progetti rispettivi di Christian Delage e di Denis Peschanski intrapresi negli ultimi anni. 35 Essenzialmente i lavori di Abram de Swaan, La dyscivilisation, l’extermination de masse et l’État, in Jean-Manuel de Queiroz et al. (a cura di), Norbert Elias et la théorie de la civilisation, cit., pp. 63‑73, e Abram de Swaan, The Killing Compartments, cit. 36 Lo specialista francese dell’antropologia del dolore è David Le Breton, Anthropologie de la douleur, Métailié, 2006.

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spazi rurali lontani dalle città; così la macellazione degli animali da allevamento, con l’evoluzione molto specifica dei mattatoi a partire dalla metà del XX secolo37; così, infine, il parto, con lo studio della maternità e delle evoluzioni dell’ostetricia38. Il programma che qui si abbozza è un vero e proprio programma di storia del tempo presente, che si interessa all’esperienza del parossismo in tutta la diversità della sua esistenza, ma anche ai contesti materiali, giuridici, sociali e cognitivi che lo circondano e, lo si è visto, lo addomesticano, lo edulcorano, lo rimuovono, lo adattano alle sensibilità e agli entre-soi delle società occidentali del tempo presente. Forse ci si può rimproverare, a questo stadio di presentazione degli orizzonti di possibilità di una storia sociale internalista e critica dell’esperienza del parossismo e dell’entre-soi, di descrivere prospettive un po’ evanescenti, forse socialmente ancorate, sì, ma relativamente poco costituite. Ed è con la presentazione di un ultimo progetto che vorremmo eliminare questa impressione e convincere il lettore che la storia alla quale lo invitiamo è una storia impiantata nel tempo presente delle società in cui viviamo, una storia sensibile, dunque, al vissuto degli esseri, una storia che riconcilia esigenze del presente, approccio critico e comprensivo del passato e ricorso alle scienze sociali dell’esperienza al servizio di vaste imprese. Il progetto che vorremmo dunque qui evocare, intrapreso ormai già da quattro anni e intitolato 1979. Le migrazioni della speranza, è stato concepito nell’urgenza dell’irruzione parossistica degli attacchi che hanno colpito la redazione di «Charlie Hebdo», poi, nel novembre 2015, lo Stade de France, le rive del canal Saint-Martin – da

37 A proposito di questo dispositivo, disponiamo di lavori che possono costituire un punto di partenza significativo: Noëlie Vialles, Le Sang et la Chair, cit.; Catherine Rémy, La Fin des bêtes. Une ethnographie de la mise à mort des animaux, Economica, 2009. 38 Sulla questione, si vedano, per quanto concerne essenzialmente il XIX secolo, i lavori di Nathalie Sage-Pranchère, Mettre au monde: sages-femmes et accouchées en Corrèze au XIXe siècle, Archives départementales de la Corrèze, 2007, ed Emmanuelle Berthiaud, Enceinte: une histoire de la grossesse entre art et société, La Martinière, 2013. Le due storiche hanno pubblicato un testo nel numero della rivista «Sensibilités» che raccoglie una parte dei contributi del seminario: Quentin Deluermoz, Christian Ingrao, Hervé Mazurel, Clémentine Vidal-Naquet, Corps au paroxysme, cit.

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vent’anni il mio quartiere preferito – e il Bataclan39. Una volta richiusa la porta di casa, per proteggere i miei figli rientrati sani e salvi ma scioccati, mi sono reso conto che l’analisi storica costituiva un valido ausilio per tentare di capire che cosa fosse entrato in gioco nello shock sconvolgente che la società francese aveva appena subito. L’ipotesi alla base della sua formulazione è che l’esame delle cronologie interne a un gruppo non trascurabile di Paesi rivela una sorta di respiro comune. Perlomeno tre gruppi di Paesi, tre grandi tipi di società, sono così coinvolti: le democrazie popolari dell’Europa centrale e orientale e quella sovietica, i principali Stati detti nazionalisti e/o socialisti derivati dalla decolonizzazione, in particolare nei mondi turco-arabo-persiani (Israele compreso, ovviamente), e gli Stati sociali europei occidentali. Il programma vorrebbe tentare di verificare se questi tre grandi gruppi di Paesi, che non si muovono negli stessi contesti macroeconomici, abbiano evoluzioni la cui similarità si osservi in primo luogo in una simultaneità che sarebbe opportuno esplorare. Questi tre grandi gruppi di Paesi e di società, dopo una fase di espansione e di strutturazione, sperimentano, nello stesso momento, una costellazione di crisi40 composta da una crisi economica profonda, strutturale, che combina inflazione, stagnazione e mutazioni degli apparati produttivi; da una crisi dei sistemi di distribuzione e di consumo, che fa emergere disfunzionamenti sempre più manifesti delle funzioni regolatrici e organizzatrici degli Stati interessati; e da crisi politiche proteiformi. A questo primo insieme noumenico – e le questioni di articolazione di queste due dimensioni sono cruciali – va aggiunta una crisi dei loro orizzonti d’attesa e del loro regime di storicità, combinata allo sviluppo di modelli di contestazione della loro esistenza, i quali si presentano, perlomeno parzialmente, come alternative politiche, fondate in particolare sulla rimessa in discussione del 39 Concepito nel novembre 2015, è stato sostenuto da un finanziamento “Attentati” del CNRS che ha permesso di riunire una squadra pilota composta di specialisti delle quattro aree coinvolte (Ludivine Bantigny, Malika Rahal, Roman Krakovsky, Mathieu Rey e io), di costituire una squadra di una ventina di ricercatori originari dell’Europa, del Nord America, del Maghreb e del Vicino Oriente per un primo tentativo di ERC, purtroppo rifiutato. 40 “Critica” qui è la forma aggettivata del sostantivo “crisi”, e indica ciò che riguarda una crisi.

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loro carattere laico, ateo o secolarizzato, e, soprattutto forse, dell’architettura degli orizzonti d’attesa che li strutturavano. “Ciò” che subisce la crisi in questo momento, è un insieme di paradigmi la cui origine giace nella sequenza parossistica cominciata nel 1914 e che disegna un modo occidentale di gestione dei beni, degli uomini e delle informazioni degradato, appropriato ed emendato. Basati su tecniche di gestione e di regolazione di massa forgiate durante i due conflitti mondiali, questi sistemi hanno in comune, tra l’altro, un impianto ideologico portatore di speranza secolarizzata, condivisa dal maggior numero e assegnata al futuro di queste società. Fatta della prospettiva futura di un tempo di abbondanza, di fraternità e di benessere, questa speranza, veicolata da quegli orizzonti di attesa e da quei particolarissimi regimi di storicità, sembra entrare in crisi spesso prima ancora che gli indicatori economici svelino le lacune del sistema. Questo programma dovrà mettere il dito contemporaneamente su ciò che si frantuma e su ciò che frantuma. Inesorabilmente, un sottile filo di vacuità sembra invadere progressivamente attori, pratiche, creazione e immaginari a partire dagli anni Settanta. Gli afflati utopici e le grandi speranze sorte tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e le decolonizzazioni sfumano e sembrano congelarsi progressivamente sotto l’effetto di questo vuoto. E c’è da supporre che allora la speranza circoli, migri, e pian piano vada a popolare e irrigare altri sistemi di credenza e altri progetti politici che si presentano abbastanza rapidamente come alternativi a quei regimi di cui è tuttavia così difficile diagnosticare l’entrata in crisi, a tal punto il loro giovanilismo acceca i contemporanei. Ormai quarant’anni fa, nel 1979, questa è la nostra ipotesi, appare un panottico di questo stato di fatto. L’osservatore un po’ meno eurocentrico del comune – ma bisogna forse ricordare che nel 1979 esce Starmania, “opera rock” che affronta di petto queste tematiche e che il 1979 è peraltro l’anno del successo di Margaret Thatcher41 che ascende alla carica di primo ministro in Inghilterra o dell’immenso sciopero degli operai siderurgici della Lorena cari a Gérard Noiriel? – constata secondo noi effettivamente i sempre più numerosi segni dell’entrata in

crisi, a partire dagli anni Settanta, dei grandi sistemi europei, ma anche socialisti maghrebini e vicino-orientali, Siria, Iraq, Israele, ma anche Algeria, Libia, Tunisia e probabilmente arabi e persiani. Inesorabilmente, si può vedere nel 1979 un primo osservatorio di un’evoluzione ancora in corso nel 2019. Al di là delle grandi varietà locali, i suoi principali sintomi sono i segni di crisi strutturali degli apparati produttivi (tanto per dirne uno: il fallimento della riforma agraria e l’emergere della dipendenza alimentare nel caso dell’Algeria)42, le mutazioni dei sistemi di governo in Siria e in Iraq, per non parlare dei precoci grandi cataclismi evenemenziali, come l’invasione sovietica dell’Afganistan, come lo scoppio della guerra Iran-Iraq conseguente alla rivoluzione islamica iraniana, come la presa della Grande Moschea della Mecca da parte di elementi sunniti messianici e millenaristi o come il primo attentato islamista in Siria, alla Scuola di artiglieria di Aleppo: il 1979 costituisce un punto di osservazione ideale sia di ciò che sopraggiunge che di ciò che si spegne, di quel vuoto che invade le coscienze come della speranza dell’avvento divino che nasce altrove. Accostare gli scioperi dei cantieri Lenin a Danzica e la visita di Giovanni Paolo II in Polonia alla rivoluzione islamica iraniana o alle manifestazioni dei Fratelli musulmani in Siria, o alla vittoria elettorale di Margaret Thatcher, non deve disorientare l’osservatore: si tratta anche, al di là di questa prima tappa, di prendere le misure della crescita di una contestazione a base religiosa nei diversi tipi di progetti emancipatori post-conflitti. Sei mesi prima della morte di Tito, nel momento in cui l’URSS invade l’Afghanistan, in cui scoppia la rivoluzione islamica che sconfigge insieme lo Scià e i comunisti iraniani, in cui i millenaristi sunniti occupano la Grande Moschea della Mecca e i regimi socialisti arabi si volgono sempre più apertamente verso un’autocrazia che sembra costituire una variante locale della “glaciazione di Brežnev”, la speranza dell’avvento del regno sembra far capolino e prendere (dappertutto?) il sopravvento sulla speranza – ormai sempre più svuotata di sostanza – della realizzazione, quaggiù, di una società ideale. Si tratta in primo luogo di determinare se esista un trend comune alle società europee, arabe, turche e persiane, e dunque, eventual-

41 Il suo «there’s no such thing as a society» risale al 1987 in un’intervista alla rivista «Women’s own», 23 settembre 1987. Costituisce un indizio sicuro della potenza sempre maggiore del progetto neoliberale di fronte agli Stati sociali del dopoguerra.

42 Philippe Adair, Mythes et réalités de la réforme agraire en Algérie, in «Études rurales», n. 85, 1982, pp. 49‑66. E, come testimoniato da Marc Côte, L’Algérie ou l’Espace retourné, Flammarion, 1992.

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mente, di consolidare, provare e illustrare, mettendo in luce alcuni indicatori (taluni quantitativi, talaltri qualitativi), il fatto che queste società apparentemente così disparate hanno delle evoluzioni comuni, contemporanee e analoghe; che esiste una sincronia di evoluzione e forse di destino che è opportuno, in primo luogo, mettere in luce e illustrare e di cui bisognerebbe tentare di comprendere l’esistenza, convinti come siamo del fatto che questo non si limita a un sistema di scambio di beni e di servizi – che, non perdiamolo tuttavia di vista, comincia allora a globalizzarsi. In secondo luogo, si tratta di tentare di descrivere i meccanismi economici, sociali, culturali e politici che danno conto del processo di oscuramento del senso, di slegamento degli attori dai sistemi di produzione e di circolazione dei beni, dalle informazioni, dai legami sociali e dagli orizzonti d’attesa nati, riaggiornati o rimodellati durante le guerre mondiali o di liberazione anticoloniale. Scrivere una storia, insomma, dell’entrata in crisi di queste tre grandi modalità del convivere, dell’entre-soi, della politica. Si tratta dunque di verificare qui se le suddette società respirino allo stesso ritmo, e forse addirittura insieme, il che significherebbe che potremmo accettare l’esistenza di una congiuntura non soltanto economica e sociale, né unicamente politica e culturale, che descriverebbe questi trend, la cui periodicità andrebbe studiata. In questa prospettiva sarà necessario osservare, in certi contesti nazionali giudiziosamente scelti, il funzionamento e l’evoluzione delle istituzioni che costituiscono o costituivano il cuore del progetto di benessere e di legame sociale e che costruivano l’orizzonte di felicità che entra in crisi e subisce progressivamente la concorrenza della prospettiva di realizzazione delle parusie religiose: ospedali, sistemi di assistenza e di lotta contro la povertà, d’indennizzazione della disoccupazione, di assicurazione sociale, sistemi scolastici e progetti educativi, ma anche la gestione delle terre da parte delle opere pie islamiche (waqf, o anche ḥabūs, soprattutto nel Maghreb) e delle fondazioni riforme agrarie e controllo della leva fiscale, sistemi di redistribuzione, associazioni di utenti e di dialogo sociale. Si tratterà di capire che cosa li inceppi, come anche il disinvestimento dei loro significati. In terzo luogo, si tratterebbe di studiare, contemporaneamente, individui, gruppi sociali, organizzazioni e sistemi di credenze che si

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lanciano all’assalto dei sistemi che vediamo qui entrare in crisi. Tentare così di comprendere questa migrazione della speranza, gli attori che la prendono in carico, perlomeno momentaneamente. Qui, gli studi di organizzazioni confessionali, di istituzioni del legame sociale nel quadro religioso, di fondazioni e di enti assistenziali, di ONG, l’emergenza di attori nuovi nelle società civili coinvolte potranno permettere di rendere conto di questa migrazione della speranza di cui vediamo i prodromi negli anni Settanta e che è in pieno svolgimento in questo primo quarto del XXI secolo, forse non meno parossisticamente che in quel XX secolo che gli attori sembravano felici di poter finalmente lasciare. Di fronte alla crescita apparentemente irresistibile dell’incapacità di mettere un freno a queste crisi e opposizioni socioeconomiche, si tratterà infine di studiare i repertori di azione costruiti dai diversi protagonisti in interazione gli uni con gli altri, per ricostituire le pratiche di ricorso alla violenza, anche nelle sue dimensioni più parossistiche. Violenze di Stato, ricorso alla tortura e alla pratica della sparizione, repressione belligerante delle manifestazioni di opposizione, teorizzazione e messa in pratica delle forme di attentato terroristico (dirottamenti, presa di ostaggi, assassinio, pratica dell’attentato suicida, ricaduta dei legami familiari, sociali e affettivi nella violenza) diverrebbero altrettanti oggetti parossistici, sintomi di una lunga storia di cui vediamo oggi gli aspetti dolorosi, in questa vasta comunità dal destino condiviso, che va da Ouessant a Kabul, da San Pietroburgo a Damasco e Baghdad, e dal Sud marocchino e sahariano algerino al circolo polare artico, passando, lo sappiamo ormai tragicamente, dal canal Saint-Martin. Lo si vede, in questo progetto si incarna nella maniera più concreta l’aspirazione ad articolare la storia del tempo presente intorno ai concetti di parossismo e di entre-soi. Esso costituisce in effetti un quadro fondamentale che permette di contestualizzare l’irruzione della violenza terrorista d’ispirazione religiosa in un’Europa che ne fa l’esperienza sin dagli anni Ottanta, e di rendersi conto delle logiche che la governano. Questo progetto, tuttavia, non può vivere che sotto la forma di una grande indagine collettiva, tanto il prezzo di ingresso nell’argomento è alto in termini di capacità linguistiche e concettuali. Se il suo interesse

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immediato mi pare saltare agli occhi e illustrare ciò che comporta una storia del tempo presente che si basa sui concetti di parossismo e di convivenza, e che si rivitalizza grazie all’apporto della storia sociale e culturale dell’esperienza degli esseri e dei gruppi sociali che abbiamo descritto, esso costituisce soltanto una tappa logica che va a prolungare questo programma di rilettura della storia dell’Europa nel prisma del parossismo bellico che va dal 1911 al 2019; una tappa necessaria, tuttavia, e, in definitiva, una specie di appello a tutte e a tutti coloro che vogliono guardare dritto negli occhi, in qualità di storiche e di storici, questo inverno vestito di granito43 che le società europee (ma non unicamente queste) rischiano di dover affrontare dolorosamente in un futuro probabilmente più vicino di quanto vorremmo. Di fronte a questo, bisognerà saper dire noi. Parigi, giovedì 20 giugno 2019

43 L’espressione è ispirata a René Char, Incipit, in Id., Les feuillets d’Hypnos, cit., p. 172.

Postfazione Alla prova della pandemia

Che il granito si presenti a noi sotto la specie singolare di una pandemia a diffusione aerea e a infezione polmonare non pregiudica né la sua essenza invernale né il suo carattere inedito. Cionondimeno il banco di prova che questa sequenza costituisce per il progetto evocato nelle righe che precedono mi porta a riprendere involontariamente il discorso, seppure brevemente. Oh! Non intendo certo scimmiottare Marc Bloch, ma vorrei piuttosto sottoporre i nostri strumenti a questo esame che la realtà impone al presente. Sono tutte le scienze umane e sociali a essere oggi sollecitate dalla sfida dell’irruzione della epidemia da sindrome respiratoria acuta severa che caratterizza la malattia del coronavirus scoperto nel 2019 (Covid-19) ed è fuori questione pretendere che una disciplina, un progetto scientifico o un paradigma possa aver più voce in capitolo dell’altro/a, sia più in grado dell’altro/a di dare un apporto all’analisi, al sapere, alla conoscenza. Alcuni dei nostri colleghi ci iniziano a una preziosa prospettiva decentrata1, altri maneggiano l’arte dell’analogia, del ritorno indietro2, dell’ellissi3. Non 1 Alludiamo ai lavori di Frédéric Keck, Un monde grippé, Flammarion, 2010. 2 Cfr., per esempio, Adam Tooze, «No, we are not living the apocalypse», https://bit. ly/43M9OS9; Id., The normal economy was broken by the coronavirus pandemic and is never coming back, https://bit.ly/3Yeaa2H e, per quanto riguarda la crisi del 2008 che costituisce uno dei fondamenti della sua riflessione, Id., Crashed: How a Decade of Financial Crises Changed the World, Penguin, 2018; trad. it. Lo schianto. 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori, 2018. Cfr. anche Joseph Confavreux, Patrick Boucheron: «En quoi aujourd’hui diffère d’hier», in «Mediapart», 12 aprile 2020, https://bit.ly/44GmyLp. 3 Si tornerà rapidamente sugli storici della Grande Guerra e della mobilitazione culturale che hanno permesso di analizzare la persistenza del discorso di guerra in certi

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è questo il proposito di questa breve postfazione. Non mi sembra ancora giunto il tempo di cercare in modo critico e distanziato l’apporto che si può trarre da questa pandemia in termini di conoscenza e di esperienza. Per ora, in fondo, si tratta solo di valutare la finezza degli strumenti di cui siamo dotati. All’origine di questa metodologia sta l’applicazione, a oggetti di storia del nazismo, di strumenti sviluppati in campi che hanno in comune il fatto di essere conseguenze dell’irruzione del parossismo pandemico del 1347-1348. Così concepiti per capire le conseguenze di tutto ciò che resta forse il sisma evenemenziale di più ampia magnitudine che abbia attraversato l’Europa dopo l’invenzione della scrittura4, simili strumenti non dovrebbero essere minacciati di saturazione dalla crisi aperta nel dicembre 2019, pur senza dare un giudizio prematuro sul suo seguito e le sue conseguenze. Questa serie di strumenti, che hanno finito col costituire un campo autonomo nel dominio della storia moderna, è stata forgiata da quei turbolenti eredi di Fernand Braudel e di Lucien Febvre che sono Pierre Chaunu5, Jean Delumeau6 e i loro alliedecisori occidentali, presidente della Repubblica francese in testa. Sull’argomento, cfr. Joseph Confavreux, Stéphane Audoin-Rouzeau: «Nous ne reverrons jamais le monde que nous avons quitté il y a un mois», in «Mediapart», 12 aprile 2020, p. 5, https:// bit.ly/43YY7rz. I lavori in corso di Claire Demoulin, che analizzano, attraverso il cinema hollywoodiano, le figure dello scienziato, dell’epidemia (nella fattispecie la rabbia e la sifilide), dell’ordine scientifico e della mobilitazione bellica, hanno una risonanza particolare in questa primavera del 2020. Claire Demoulin, La Biographie historique chez William Dieterle (1935‑1942). Migrations, transferts culturels et tribunes cinématographiques, tesi di dottorato all’Università Paris-VIII. 4 È la constatazione che faceva già Emmanuel Le Roy Ladurie, Un concept: L’unification microbienne du monde (XVIe-XVIIe siècles), in «Schweizerische Zeitschrift für Geschichte/Revue suisse d’histoire/Rivista storica svizzera», vol. 23, n. 4, 1973, pp. 627‑694, con un’introduzione di raro intuito sulla diffusione mondiale dell’influenza di Hong Kong del 1968. 5 Si vedano, di Pierre Chaunu: Église, culture et société, cit.; Le Temps des réformes. La crise de la chrétienté, l’éclatement (1250‑1550), Fayard, 2014. 6 Jean Delumeau, La Peur en Occident. Une cité assiégée (XIVe-XVIIe siècles), Fayard, 2014; trad. it. La paura in Occidente: la città assediata (secoli XIV-XVIII), SEI, 1978. E, beninteso, le due Nouvelles Clio: Jean Delumeau, Thierry Wanegffelen, Naissance et affirmation de la Réforme, PUF, 2012; trad. it. La Riforma. Origini e affermazione, Mursia, 2017; Jean Delumeau, Monique Cottret, Le Catholicisme entre Luther et Voltaire, PUF, 2015; infine, riccamente illustrato, Jean Delumeau, La Civilisation de la Renaissance, Arthaud, 1967.

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vi, affiancati da Alphonse Dupront7. Sono loro, lo abbiamo visto, che, esplorando i penetrali emozionali della cristianità in Crociata o all’uscita dalla pandemia di peste, hanno aperto la via a un’antropologia storica e sociale dell’emozione. Sulla loro scia, e per la Francia dal 1517 al 1610, Denis Crouzet ha permesso di riunificare apprensione dei discorsi, studi delle pratiche e dei meccanismi emozionali in un metodo che abbinava questa storia religiosa francese al ricorso a Max Weber, a Edward Evans-Pritchard e a Clifford Geertz, per dar conto di ciò che egli chiamava il «grande angosciamento» della prima modernità, e della dimensione fondamentalmente liberatrice della credenza calvinista che, autonomizzando il Mondo rispetto al Regno, liberava coloro che l’abbracciavano dall’ossidionalità del sovrincanto cattolico8. Caratterizzare il nazismo, sulla scia di Denis Crouzet, come una credenza che satura il mondo di un determinismo razziale che condiziona la previsione del destino della germanicità sulla base di un’escatologia demografica, politica ed etnica, ma anche come un sistema culturale di disangosciamento che faceva vedere una via d’uscita, una Salvezza, nei panni dell’utopia del Tausendjähriges Reich, ha costituito una delle operazioni che ci hanno permesso di dare conto dell’attrattività della fede nazista per gli intellettuali dell’SD. Ricorrere di nuovo a questa tavolozza di strumenti sembra un approccio di studio possibile dei sistemi di credenza e di interpretazione contemporanei, religiosi (come l’Islam takfirista quale lo abbiamo delineato nel progetto 1979) o secolari (come le correnti raggruppate più o meno discutibilmente sotto l’etichetta di collassologia, accelerazionismo e survivalismo)9, 7 Alphonse Dupront, Le Mythe de croisade, cit. 8 Denis Crouzet, Les Guerriers de Dieu, cit. L’itinerario scelto da Denis Crouzet era stato già abbozzato da Pierre Chaunu citando Delumeau in Le XVIIe siècle religieux. Réflexions préalables, in «Annales ESC», vol. 22, n. 2, 1967, pp. 279‑302. 9 Per un’idea sulla forma scientifica della collassologia, si vedano Jared Diamond, Collapse: How Societies Choose to Fail or Survive, Penguin, 2013; trad. it. Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, a cura di L. Civalleri, Einaudi, 2014; Pablo Servigne, Raphaël Stevens, Gauthier Chapelle, Une autre fin du monde est possible: vivre l’effondrement (et pas seulement y survivre), Seuil, 2018; trad. it. Un’altra fine del mondo è possibile. Vivere il collasso (e non solo sopravvivere), Treccani, 2020. L’accelerazionismo consiste invece nell’agire affinché le dinamiche antagoniste che attraversano le società moderne, che siano etniche, economiche o ecologiche, precipitino il crollo. Per uno scorcio su questa corrente, cfr. Zack Beauchamp, The extremist

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dal momento che si tratta di interrogare i loro orizzonti d’attesa o i fondi emozionali che generano e veicolano. Il secondo serbatoio nozionale e concettuale del nostro programma è, lo abbiamo visto, affiliato al rinnovamento, operato a partire dagli anni Novanta, degli studi sui conflitti mondiali e non c’è bisogno di illustrare oltre in cosa i lavori degli storici raggruppati intorno all’Historial de la Grande Guerre e all’Institut d’Histoire du Temps Présent, che si concentrano sulle modalità di presenza della guerra, costituiscano un thesaurus utile per pensare la prova attuale. Le questioni di morte di massa, trauma, cultura, memoria del passato traumatico attraversano l’osservazione della pandemia, nei Paesi occidentali almeno, e il rispuntare della memoria dell’influenza spagnola è diventato un luogo comune dell’analisi del presente in questa primavera del 2020. Ciò non ha niente di sorprendente, tanto il ritorno alla precedente sequenza di sbigottimento di fronte alla minaccia generalizzata delle strutture sociali dice qualcosa dello scombussolamento generato dal presente. Ma questo dà anche informazioni sulla solidità degli strumenti che hanno permesso di osservare il primo Duemila e di dargli senso ed eco. Parimenti, i concetti attinti all’antropologia strutturale, già evocati in questo libro, sono sin da ora utilizzati da Frédérik Keck per dar conto delle opzioni di prevenzione e di lotta contro le pandemie influenzali. Gli immaginari pastorizi e cinegetici che abbiamo evocato nell’analisi delle politiche naziste di lotta contro i partigiani all’Est affiorano di nuovo sotto i nostri occhi nel contesto attuale10. Se gli strumenti della storia del tempo presente, inizialmente utilizzati per costruire questa indagine, sembrano adatti per pensare il presente pandemico e la sua coorte di mutazioni, si può dire lo stesso dell’oggetto che ci siamo assegnati, ossia di quel parossismo che abphilosophy that’s more violent than the alt-right and growing in popularity, https://bit. ly/3QgBueW. Per quanto concerne il survivalismo, cfr. Richard G. Mitchell, Dancing at Armageddon: Survivalism and Chaos in Modern Times, University of Chicago Press, 2002. 10 Frédéric Keck, Nous n’avons pas l’imaginaire pour comprendre ce qui nous arrive, in «Philosophie Magazine», 21 marzo 2020 https://bit.ly/3rTonpy, e, ormai, Id., Les Sentinelles des pandémies. Chasseurs de virus et observateurs d’oiseaux aux frontières de la Chine, Zones Sensibles Éditions, 2020.

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biamo un po’ esplorato in questo libro? A prima vista, la pandemia attuale non irrompe su uno sfondo di Dies Irae e non ha comportato il crollo di un mondo, come fece la peste giustinianea, o la devastazione di un intero continente, come nel 134811. L’oggetto “parossismo”, dunque, potrebbe apparire un po’ sovradimensionato, inadatto a ciò che attraversano le società umane oggi. Ciononostante, questa prima impressione non mi sembra resistere a un esame approfondito. Il lavoro operato sul pronto soccorso e gli attentati del 13 novembre 2015 mi ha condotto a un’analisi in termini di degradazione dei dispositivi ospedalieri, i quali non si erano mai trovati sommersi dall’afflusso di feriti per arma da fuoco negli ospedali parigini. Lo studio del dispositivo esistente per lottare contro il Covid-19 non sembra davvero dover differire nelle sue modalità. Anche qui, l’ospedale, e nella fattispecie i suoi servizi di pronto soccorso, di terapia intensiva e di rianimazione, sembrano costituire precisamente dei luoghi di compartimentazione che confinano il parossismo in spazi ben precisi – spazi sanitari, spazi mortuari – e le poche fughe di parossismo osservate nei Paesi occidentali generano precisamente lo sbalordimento degli osservatori12. A un certo punto, questo sbalordimento dei terapeuti, le loro angosce e le loro euforie, puri prodotti dell’esperienza parossistica, saranno oggetto dei nostri studi: potremo infatti esplorare questi parossismi e il loro contenimento, per quanto ermetico sia rimasto. Perché tale è generalmente rimasto, perlomeno in Europa, senza alcuna possibilità di contestazione: da nessuna parte nei Paesi sviluppati si osservano corpi abbandonati come nelle vie di Guayaquil in Ecuador; da nessuna parte si rilevano 800 cadaveri lasciati nelle abitazioni13 come, tuffandoci nel passato, nella Orvieto devastata dalla 11 Jean-Noël Biraben, Les Hommes et la peste en France et dans les pays européens et méditerranéens. La peste dans l’histoire, tomo 1, Mouton, 1975; Frédérique Audoin-Rouzeau, Les Chemins de la peste. Le rat, la puce et l’homme, Presses universitaires de Rennes, 2015. 12 Immagini molto significative di un newyorkese che filma la manutenzione dei corpi all’uscita di un ospedale di Brooklyn e che supplica i suoi compatrioti di rispettare il lockdown. This is for real!: Shocking video shows body bags being forklifted into lorry in New York, https://bit.ly/3OwUm84. 13 Immagini di corpi a Guayaquil in un reportage online di venti minuti, https://bit. ly/3Kd8aly; Coronavirus en Equateur: près de 800 cadavres recueillis dans des logements de Guayaquil, https://bit.ly/3QesYgc.

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Morte nera nel 134814. Il parossismo, così, tranne rarissime eccezioni, resta confinato negli angoli morti dei sistemi sanitari. Ma questo stato di fatto fa emergere la questione del posto delle case di riposo in questi sistemi, vista la loro estrema esposizione al virus (ricordiamo sin d’ora che più di un terzo dei decessi francesi è avvenuto in tali strutture) e, per estensione, quella del luogo della senescenza non autonoma nelle società occidentali. Anche qui, il parossismo, sia quale oggetto da esplorare che quale moltiplicatore sensoriale, rivela problematiche, suscita domande. Nello stesso ordine di idee, la crisi e i meccanismi di confinamento hanno trasformato le case in spazi di scontri coniugali e familiari, rendendo drammaticamente più numerose, se non più visibili, le sequenze parossistiche di violenze e aggressioni contro le donne e i bambini. Certo, gli strumenti che abbiamo presentato in questo libro non pretendono di fornire da soli un’analisi globale della pandemia, ma permettono forse di gettarvi uno sguardo singolare. L’Orvieto francese del 2020 è forse situata in Seine-Saint-Denis o in Alsazia. Se è in Alsazia, allora l’Alto Reno costituisce forse una terra di scelta sui cui concentrarci. La cartografia ci dice infatti che è l’Europa popolosa e attiva, commerciale e precocemente alfabetizzata a essere quella più colpita dal virus. Dall’Italia del Nord passando per il corridoio di Mosella e Renania, fino al Sud dell’Inghilterra, è l’Europa della Riforma, del commercio preindustriale, della storia di lunga durata di Fernand Braudel, della Peste nera di Jean-Noël Biraben e dei lavori di storia religiosa di Pierre Chaunu, a costituire il fulcro della pandemia più acuta. Che ce lo si spieghi o meno, queste ricorrenze della lunga durata si applicano in Europa alla pandemia globalizzata, ma non è questo il nostro proposito. L’Alto Reno, sul quale ci concentriamo, ha effettivamente un ruolo principale in questa Europa molto popolata, presto alfabetizzata, industriosa e riformata, che concentra su un millennio le più fitte

comunicazioni, il più intenso investimento religioso e i successi economici più duraturi dell’Europa, ma il destino – o l’inerzia, di questo si discute… – ha anche fatto sì che vi si sia tenuta una riunione evangelica che ha costituito, è ormai appurato dagli epidemiologi, una sorta di diffusore epidemico che ha considerevolmente aggravato la situazione15. Un articolo del quotidiano regionale «Sud Ouest», datato 12 aprile 2020, centrato sul comune di Wittenheim, permette di prendere le misure della violenza dell’epidemia. In primo luogo, l’articolo insiste sul fatto che le statistiche che servono in Francia da indicatore della crisi (i decessi in ospedale e quelli nelle istituzioni sanitarie, case di riposo in testa) nascondono una mortalità: quella della gente in casa propria. Wittenheim è presentata come situata all’epicentro dell’epidemia. Nel giro di due settimane, tra il 22 marzo e il 5 aprile 2020, SOS Médecins ha recensito 253 decessi a domicilio (su 15.000 abitanti che il settore annovera, ossia il 17,5% in 15 giorni), il 54% di più che nel marzo-aprile 2019. Se si aggiunge che un terzo degli ospiti della locale casa di riposo, ossia 23 persone, è deceduto durante lo stesso periodo e che altri 20 abitanti della città sono morti in ospedale, si capisce che si tratta della più alta intensità dell’epidemia sul piano della mortalità, ma si coglie anche il fortissimo predominio della morte a domicilio. Il 17,5% di mortalità è un parossismo bello e buono16, molto localizzato, ma contenuto, compartimentato: le agonie sopraggiungono al riparo dagli sguardi, cerimonie e visite sono vietate; le case di riposo e i servizi di terapia intensiva sono pieni; i canali di circolazione degli affetti, che siano dolorosi o consolatori, derelizionali o cicatriziali, sono ridotti alla corrispondenza. L’aggiornamento di situazioni particolarmente acute, come quella di una donna che aveva perduto marito e cognato nella stessa settimana, o di fonti che rendono conto dell’esperienza costituirà la prima tappa di un’eventuale inchiesta17. Non andremo oltre nell’evocazione di questa esperienza pandemica: qui volevamo semplicemente passare in rassegna alcune delle

14 Élisabeth Carpentier, Une ville devant la peste: Orvieto et la Peste noire de 1348, S.E.V.P.E.N., 1962, conta che la metà della popolazione della città muore in tre settimane, e Pierre Chaunu, sulla sua scia, constata che la soglia dei morti nell’Occidente del Medioevo e nell’epoca moderna è tra il 40 e il 50% l’anno. Oltre questa soglia, secondo lui, una società non procede più ai riti. Pierre Chaunu, Histoire, science sociale. Le temps, la durée, l’espace à l’époque moderne, SEDES, 1974.

15 In Alsazia, dieci casi di contagi di coronavirus in una “megachurch” evangelica, in «La Croix», 4 marzo 2020, https://bit.ly/47aet36. 16 A promemoria, la mortalità annua in periodo normale in Francia è stabilizzata intorno al 9,1%. Fonte Insee. 17 Questo schizzo si appoggia su Morts à domicile en France: les victimes invisibles du covid-19, https://bit.ly/3q9jWXp.

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prospettive che può lasciare presagire la serie di strumenti che abbiamo esplorato. «Il seguito», come scriveva René Char a proposito di Hypnos e dell’inverno di granito, «appartiene agli uomini»18. Bellevue, 14 aprile 2020

Un seminario del 2008 e i suoi effetti collaterali1 di Giusto Traina C’était pas des amis choisis / Par Montaigne et La Boétie / Sur le ventre, ils se tapaient fort / Les copains d’abord. g. brassens (1964)

Christian Ingrao è entrato nel mio raggio di azione, per poi non uscirne più, grazie a una recensione del primo libro da lui pubblicato, Les chasseurs noirs2. Il libro uscì per i tipi di Perrin, grazie alla lungimiranza di Anthony Rowley (1952-2011), all’epoca responsabile dei libri di storia della casa editrice3. Correva l’anno 2006, lo stesso in cui Gallimard pubblicò Les bienveillantes di Jonathan Littell, un americano che riuscì nell’impresa impossibile di conquistare i lettori e soprattutto i critici dell’«Hexagone», vincendo il premio Goncourt con un ponderoso romanzo scritto in una lingua diversa dalla propria lingua madre, e per giunta con un mostro nazista come io narrante4. Nello stesso anno esce il libro di Ingrao, anch’esso dedicato alla storia

18 René Char, Incipit, in Les feuillets d’Hypnos, cit., p. 172.

1 L’accessibilità di tutti i link internet citati è stata verificata il 15 luglio 2023. 2 Christian Ingrao, Les chasseurs noirs, cit., Perrin, 2006. La recensione è quella di Olivier Wieviorka, in «Libération», 26 ottobre 2006, dal classico titolo-calembour: Gibiers de potence (in italiano ‘pendagli da forca’, ma “gibier” significa ‘selvaggina’), https://bit.ly/3rswr0i. Tra le altre recensioni si veda quella di un’altra studiosa di prim’ordine, Masha Cerovic, in «Cahiers du monde russe», vol. 48, n. 4, 2007, pp. 738-741. https://bit.ly/3Q0UnSO. 3 Partito da studi di storia economica, Rowley fu poi un eccellente headhunter editoriale, ma possiamo ricordarlo anche come formidabile gourmet: si veda la sua Histoire mondiale de la table. Stratégies de bouche, Odile Jacob, 2006. Da ricordare anche i due libri scritti in tandem con Fabrice d’Almeida: Et si on refaisait l’histoire ?, Odile Jacob, 2009; Quand l’histoire nous prend par les sentiments, Odile Jacob, 2013. 4 Si veda la triplice intervista sul libro di Littell, dove insieme a Ingrao intervengono lo storico Denis Peschanski e lo storico della letteratura Bruno Blanckeman. https:// bit.ly/3rnN2m9.

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di un nazista che oltre a essere un mostro era anche un mascalzone, al punto da meritare anche il disprezzo dei suoi superiori gerarchici: Oskar Dirlewanger, classe 18955. Chi non conosceva Dirlewanger, in questo libro ha trovato la sua vicenda e il relativo contesto storico. E soprattutto ha appreso che la storia della sua brigata è una tappa importante del più che ventennale percorso scientifico di Ingrao, che elabora una sintesi a uso non solo degli storici, ma anche dei medici e degli scienziati “duri”6. All’epoca dei Chasseurs noirs, Christian Ingrao non era ancora diventato una vedette della storia del tempo presente. Divinando il suo grande avvenire, ordinai il libro, lo lessi rapidamente e lo invitai prontamente a intervenire al mio seminario all’Università di Rouen. A prima vista, la notizia vi sembrerà di scarso interesse: me lo vedo già il buon Francesco Mancuso, che dirige con maestria la collana in cui esce questo libro, commentare: “E al popolo?”. Fidatevi: qualche interesse, almeno dal punto di vista metodologico, c’è. Ma prima, tanto per aggravare la mia situazione, aggiungerò alcuni brevi dettagli autobiografici. Anzitutto, la recensione la scoprii per caso, nella primavera del 2008, a distanza di più di un anno, facendo una ricerca su Google (infinite sono le vie della serendipity). All’epoca ero ancora un professore di mezza età, che da qualche mese aveva lasciato una cattedra italiana di Storia romana per prenderne una francese di Storia greca; Ingrao, classe 1970, era invece un ancor giovane directeur de recherche al CNRS, nonché direttore dell’Institut d’Histoire du Temps Présent. E qui gli storici che leggono si saranno quantomeno stupiti. Ma come? Un antichista che invita un contemporaneista, e senza nemmeno conoscerlo? Du jamais vu. E poi, perché rimborsare le spese di viaggio a un ricercatore esterno per un intervento su Dirlewanger a un se5 Non a caso, in un’altra recensione del libro (in «Sciences humaines», n. 180, marzo 2007: https://bit.ly/3XPbU24), il libraio Pascal Pradon si era giustamente chiesto: «Come seguire le orme di un gruppo di criminali senza scadere nel compiacimento o nell’esaltazione della violenza?», spiegando subito dopo che l’autore aveva raccolto la sfida per vincerla brillantemente. 6 Pagine che integrano le osservazioni già espresse nel libro-intervista di pochi anni fa: Christian Ingrao (con Philippe Petit), Les urgences d’un historien, cit. Quanto a Dirlewanger, fece la fine che meritava: nel giugno 1945, poco dopo l’arresto venne condotto in un campo di prigionia dove lo riconobbero e lo ammazzarono di botte.

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minario di Storia antica, dove gli studenti si aspettano conferenze su Alcibiade o Alessandro Magno? In effetti, quando Christian ricevette la prima di una serie di e-mail che non si è ancora interrotta, fu piuttosto stupito di questa proposta indecente. Ebbene, decise di accettare: come mi spiegò poco dopo, lo fece soprattutto per ragioni personali. In ogni caso, a differenza di molti o alcuni contemporaneisti italiani (non mi voglio sbilanciare), qualche nozione di storia antica lui ce l’ha, eccome! Se non altro perché, prima di entrare al CNRS, come quasi tutti i suoi simili aveva passato il famigerato concorso dell’agrégation, e quindi qualche elemento approfondito di antichistica era stato costretto a studiarlo, seguendo la preparazione alla Sorbonne, dove il mio predecessore Yann Le Bohec aveva invitato Giovanni Brizzi a tenere una serie di lezioni rivolte proprio agli aspiranti agrégés. L’interesse interdisciplinare dei cacciatori neri nazisti studiati da Christian risiede nella pratica dell’animalizzazione del nemico, un aspetto di cui mi stavo allora occupando per il mio libro sulla battaglia di Carre (quando i parti sconfissero i romani nel 53 a.C.), che grazie alle sempre più frequenti discussioni con Christian ha finito per prendere una forma meno paludata dei consueti libri di storia antica7. Se qualcuno è ancora curioso di sapere cosa sia accaduto dopo, deve avere ancora un po’ di pazienza e consentirmi di tirare in ballo i fratelli Epstein, sceneggiatori di Casablanca, e di utilizzare, pur sapendo di essere irrimediabilmente scontato, le battute del finale del film: infatti, il seminario di Rouen è stato the beginning of a beautiful friendship. E tra gli effetti collaterali di questa amicizia c’è anche questa edizione italiana. Sono infatti stato io ad attrarre la curiositas dell’amico Mancuso, che ha prontamente deciso di pubblicarlo sulla sua collana “Ombre del diritto”: collana varata da non molto, ma già autorevole presso i giuristi e anche per i “giuristi per caso” come chi scrive, che per giunta si occupa di temi ben più “risalenti” rispetto agli ambiti praticati dal Mancuso e da quasi tutti gli altri membri del comitato scientifico. Ma torniamo al seminario di Rouen del 10 dicembre 2008, dove dialogammo per circa tre ore su Anthropologie de la violence. Chasse, 7 Giusto Traina, La resa di Roma. Battaglia a Carre, 9 giugno 53 a.C., Laterza, 2010; ed. francese: Carrhes, 9 juin 53 av. J.-C. Anatomie d’une défaite, Les Belles Lettres, 2011.

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sauvagerie, cruauté entre Antiquité et Modernité. Christian, che per il suo libro si era ispirato agli studi dell’antropologo Bertrand Hell8, raccontò agli studenti la vicenda di quella canaglia di Dirlewanger, e la sua idea crudelmente ingegnosa di ricorrere alle tecniche cinegetiche, e ai loro aspetti parossistici, per rastrellare i partigiani e gli ebrei nella Bielorussia occupata dalla Wehrmacht. Non a caso, gli effettivi che componevano la brigata Dirlewanger agli inizi dell’invasione dell’URSS erano stati tirati appositamente fuori dai campi di prigionia, dove scontavano delle condanne per bracconaggio. Dopo questa prima fase, gli uomini di Dirlewanger ricorsero poi a tecniche desunte dalla pastorizia per occuparsi sempre degli ebrei, che da prede di caccia diventavano ora bestiame da radunare, sorvegliare, e infine mandare al macello9. Ingrao prese poi rapidamente in considerazione altri due contesti, separati sia nello spazio che nel tempo: le guerre di religione di età moderna e la guerra nell’ex Jugoslavia, che all’epoca era ancora d’attualità, e che coinvolse anche la Madonna di Medjugorje10. Da parte mia, parlai del rapporto fra guerra e caccia nel mondo greco, partendo dalla monografia di Alain Schnapp11 ma aggiungendo una serie di osservazioni più estranee agli ambiti dei classicisti “puri e duri” che si limitano (peggio per loro) ai greci e ai romani12, con esempi di immagini sia di nemici equiparati a selvaggina sia di nemici equiparati a bestiame. Tra gli esempi della prima categoria avevo ri8 Bertrand Hell, Le sang noir, cit. 9 Oltre a Les chasseurs noir, cit., cfr. Christian Ingrao, Anthropologie du massacre nazi. Le cas des Einsatzgruppen en Russie, in David El Kenz (a cura di), Le massacre, objet d’histoire, Gallimard 2005, pp. 351-369, note alle pp. 502-508. Cfr. già Wolfgang Sofsky, Zeiten des Schreckens: Amok, Terror, Krieg, Fischer, 2002 (libro che meriterebbe una traduzione italiana, al pari di altre opere già tradotte del sociologo di Gottinga). 10 Denis Crouzet, Les guerriers de Dieu, cit. Per le pubblicazioni di Crouzet che seguirono quest’opera monumentale rimando alla voce Wikipedia https://bit.ly/ 3D9HMVH; Élisabeth Claverie, Les guerres de la Vierge, cit. 11 Alain Schnapp, Le chasseur et la cité. Chasse et érotique dans la Grèce ancienne, Albin Michel, 1997. 12 Sull’esigenza di una storia antica più inclusiva rimando a Katherine Blouin, https://bit.ly/44IK5en. Cfr. anche Federico Santangelo, Giusto Traina, Emilio Zucchetti, Di chi è la storia romana?, in «Quaderni di Storia», n. 95, gennaio-giugno 2022, pp. 299-316.

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cordato l’esempio mitologico dell’orrenda morte di Penteo, il Re di Tebe, fatto a pezzi dalla madre Agave e dalle sorelle, che nell’ebbrezza dionisiaca lo avevano scambiato per un leone13; ovvero esaminare il sarcofago trovato in un tumulo funerario presso i Dardanelli, nell’antica Bitinia, che con ogni probabilità aveva contenuto le spoglie di un satrapo achemenide morto nel primo quarto del IV secolo a.C., ritratto a cavallo, con la medesima iconografia, sia nell’atto di travolgere un nemico in battaglia che in quello di dare la caccia a un leone14. Per la categoria del nemico-selvaggina proposi il caso delle tattiche utilizzate dai parti di Surena contro l’esercito di Crasso, ben sintetizzate da Giovanni Brizzi: «Almeno in origine, sono i caroselli degli arcieri che, simili a cani da pastore, costringevano il nemico ad ammassarsi in ricerca istintiva di un riparo e favorivano così l’attacco irresistibile e micidiale dei cavalieri corazzati»15. Qualche mese dopo il seminario di Rouen – Christian aveva appena scritto l’Ur-Text del suo progetto sul Sole Nero del parossismo – ripetemmo l’evento anche a Parigi, in una versione leggermente perfezionata, al seminario dell’équipe de recherche “Anthropologie et littératures” del Collège de France, diretta da Clarisse Herrenschmidt e Salvatore D’Onofrio. Confrontandoci con degli antropologi veri e propri, volevamo così evitare l’atteggiamento di quegli antichisti che, pur ispirandosi a un’antropologia più meno classica, finiscono per proporre un approccio dove di fatto l’antropologia è un pretesto per non fare i conti con la storia e gli storici. 13 Un’eco di questa tremenda immagine si ritrova nel racconto di Plutarco, verso la fine della Vita di Crasso: Giusto Traina, La tête et la main droite de Crassus. Quelques remarques supplémentaires, in Annie Allély (a cura di), Corps au supplice et violences de guerre dans l’Antiquité, Ausonius, 2014, pp. 95-98. 14 John Ma, Mysians in the Çan Sarcophagus? Ethnicity and Domination in Achaemenid Military Art, in «Historia», vol. 57, n. 3, 2008, pp. 243-254. Sul contesto archeologico si veda Charles Brian Rose, The Archeology of Greek and Roman Troy, Cambridge University Press, 2014, pp. 130-140. Le scene a cui mi riferisco si possono consultare agevolmente su Wikipedia: https://bit.ly/44DnBuZ. 15 Giovanni Brizzi, Note sulla battaglia di Carre, in Id., Studi militari romani, CLUEB, 1983, pp. 9-30, in particolare p. 14; Id., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, il Mulino, 2002, pp. 156-165, e il mio La resa di Roma, cit., pp. 6971. Da ultimo cfr. Giovanni Brizzi, Roma contro i Parti. Due imperi in guerra, Carocci, 2022, p. 52-53.

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L’idea era quella di proseguire queste linee di fondo sull’animalizzazione del nemico, coinvolgendo varie altre forze impegnate nello studio dei massacri di massa e anche dei genocidi, L’amicizia con Christian nacque proprio in questi mesi, mentre le nostre strade scientifiche si divisero: non tanto perché i rispettivi campi di ricerca sono separati dai famosi quarante siècles ricordati dal Bonaparte alle Piramidi (vabbè, magari qualche secolo in meno), quanto perché siamo stati entrambi coinvolti in molti, troppi progetti diversi16. Mentre io ho proseguito nei miei studi di geopolitica e storia militare antica, Christian ha portato avanti le sue ricerche a dir poco rivoluzionarie sul parossismo, che questo libro sintetizza in modo esemplare. Sono però riuscito a convincere Christian a ritrovarci a Reims nel giugno 2023, insieme a Mancuso (in collegamento da Roma) e ad altre personalità, in una discussione comune sul parossismo nell’antichità che avrà luogo in occasione del convegno conclusivo del programma di ricerca dell’ANR (Agence nationale pour la recherche) PARABAINO (Massacres, violences extrêmes et transgression en temps de guerre. Antiquité grecque et romaine), che negli ultimi tre anni ha esplorato vari aspetti della violenza di guerra e del parossismo17. Ci siamo quindi ritrovati alla tavola rotonda Guerres, violences extrêmes et transgression ‘au masculin’, dove abbiamo ripreso il discorso del 2008. E magari, in futuro, riusciremo a spingerci un po’ più in là, 16 Ad esempio, il seminario Explorations du paroxysme: traces, objets, regards XIXèmeXXIème siècles, animato da Christian Ingrao insieme a Quentin Deluermoz e Hervé Mazurel. Il programma si può consultare sulla piattaforma della rivista online «Conserveries mémorielles»: https://bit.ly/3JFPnyT. 17 Cfr. i materiali pubblicati sul sito https://bit.ly/3PMC7ws. Fra i contributi finora pubblicati, si vedano almeno Nathalie Barrandon, La transgression dans la guerre au temps de Cicéron: droit et cruauté, in Ead., Isabelle Pimouguet-Pédarros (a cura di), La transgression en temps de guerre. De l’Antiquité à nos jours, Presses universitaires de Rennes, 2021, pp. 97-123 ; Isabelle Pimouguet-Pédarros, Des violences de masse et des femmes : enquête au temps des campagnes d’Alexandre en Grèce et en Orient, in «Kentron», n. 37, 2022, pp. 59-110, https://bit.ly/3D7Dmyz; Immacolata Eramo, Des femmes lanceuses de tuiles, in «HiMA. Revue internationale d’histoire militaire ancienne», n. 11, 2022, pp. 87-102. Si vedano anche le precedenti pubblicazioni di Pascal Payen, Les revers de la guerre en Grèce ancienne: histoire et historiographie, Belin, 2012; Laurent Douzou, Sylvène Édouard, Stéphane Gal (a cura di), Guerre et transgressions. Expériences transgressives en temps de guerre de l’Antiquité au génocide rwandais, Presses universitaires de Grenoble, 2017.

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coinvolgendo anche gli studi sui guerrieri berserkir o sul parossismo di Achille utilizzato come modello dal medico militare americano Jonathan Shay18. In ogni caso, come cantava Georges Brassens, «les copains d’abord», la migliore formula d’auspicio perché i lavori di un seminario riescano per il meglio. A maggior ragione se si tratta di un seminario interdisciplinare e transperiodico. Rodi (Dodecaneso), luglio 2023

18 Jonathan Shay, Achilles in Vietnam: Combat Trauma and the Undoing of Character, Atheneum Publishers, 1994; su cui cfr. Giusto Traina, I Greci e i Romani ci salveranno dalla barbarie, Laterza, 2023, pp. 47-49, 105.

Indice

Apocalypse now: l’irruzione dei parossismi e la “storia del tempo presente” di Francesco Mancuso5 Prefazione all’edizione italiana L’impero dell’evento

13

Introduzione19 I. La politica, le emozioni e la violenza. Il caso nazista, tra panico, speranza e genocidio

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II. Fisica quantistica e pratica dello storico Un esperimento mentale nella storia contemporanea

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Retoriche difensive, retoriche utopiche: acconsentire al genocidio, riplasmare l’Europa 37 Violenza e forme di dominio sociopolitico. Immaginari razziali e animalizzazione 51 Conclusione68

Ouverture. La meccanica alla prova della radiazione dei corpi neri 71 Lo storico alle prese con un sistema e i suoi stati 76 Misure, operatori e osservabili 86 Indeterminazione, intreccio, decoerenza 95 Conclusione116

III. Il sole nero del parossismo Messaggio alle storiche e agli storici del tempo presente

119

Una storia totale del parossismo? 123 Cogliere in pieno 130 Porsi ai margini 142 Conclusione151

Nella stessa collana

Intermezzo155 IV. Il suicidio come uscita parossistica dalla guerra Germania, Giappone 1945

157

Il suicidio combattente: un modo militare di uscire dalla guerra? 159 Il suicidio civile nella Seconda Guerra Mondiale 172 Itinerari suicidi 181 Conclusione191

V. Volti del pronto soccorso Dispositivi, esperienza, parossismo (Parigi, 13 novembre 2015) 193

I dispositivi di pronto soccorso 196 I saperi 196 I protocolli 199 I dispositivi 205 Prova dei dispositivi, prove degli attori: il pronto soccorso di fronte agli attentati del novembre 2015 210 Dall’anticipazione all’esperienza 210 Una degradazione del dispositivo di pronto soccorso? 213 Alla ricerca delle esperienze del personale 216 Conclusione222

Conclusione225 Quello che abbiamo imparato Dal «ciò su cui esitiamo» alla deviazione Futuri del parossismo, storie del tempo presente

Postfazione Alla prova della pandemia

226 232 239

251

Un seminario del 2008 e i suoi effetti collaterali di Giusto Traina259

Christoph Menke, Diritto e violenza, a cura di Francesco Mancuso e Giovanni Andreozzi Alfonso Catania, Decisione e norma, a cura di Valeria Giordano e Francesco Mancuso Giorgio Ridolfi, Identità e continuità dello Stato Jean-Claude Monod, Pensare il nemico, affrontare l’eccezione, a cura di Francesco Mancuso ed Ernesto C. Sferrazza Papa

sempre bianca prima del finito di stampare

finito di stampare