Sentimento e ragione 9788857517773


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Sentimento e ragione
 9788857517773

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VITTORIO MAZZUCCONI

SENTIMENTO E RAGIONE Seminario marzo-giugno 2010

MIMESIS

I Quaderni del Convivio

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In copertina: Vittorio Mazzucconi, Crisalide, 1997.

© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana I Quaderni del Convivio n. 3 Isbn 9788857517773 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

INCONTRO N.1

INCONTRO N.2

INTRODUZIONE L’albero, il corpo e l’anima / Lo spirito / Che cos’è l’amore / Pensieri su Dio INTEGRAZIONE NEL CENTRO DI NOI STESSI Anima e spirito / L’intuizione / L’ispirazione

INCONTRO N.3

61

IL FEMMINILE E IL MASCHILE L’albero, l’anima e il femminile-maschile / Unioni fra femminile e maschile /A un livello superiore / Dio e l’anima / Sole, terra, luna / Un’interpretazione biblica / Integrazione di femminile e maschile / La visione di un equilibrio e il rapporto concreto fra le persone / Verità o consolazione? / Divisione o fusione dei generi? / Verso una conclusione

INCONTRO N.5

35

I RITMI DELLA NATURA, DELLA STORIA, DELL’ARTE Il giorno, le stagioni, la vita / La vita, la civiltà e l’arte / L’arte e l’anima / L’arte greco-romana / L’arte europea / Il ciclo e il suo superamento

INCONTRO N.4

9

87

LA NASCITA DEL FIGLIO L’illuminazione / Sul valore della scienza / Sull’anima / Cosa accade dopo la morte? / Il seme / L’educazione e la sorgente interiore

117

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INCONTRO N.6

INCONTRO N.7

LA LIBERTÀ E LA LEGGE Come si sono formate le leggi? / Le leggi e la giustizia / Una legge di natura / Illuminazione e utopia / Tendenze e negazioni / Sulle credenze LA POLIS Città della ragione e città del “sentimento” / La Città a immagine e somiglianza dell’uomo / La città Nascente / La città del pensiero / Il vuoto, in Occidente e in Oriente / La città della psiche

INCONTRO N.8

167

IL TEMPIO Il tempio greco e la cattedrale / L’idea dell’arca / Le dimensioni del tempio / Essere agnostico? / Ha un senso di pensare a un nuovo tempio? / Una città senza tempio / Stonehenge / Le mie arche

INCONTRO N.9

139

197

L’ARTE SUPREMA Una coscienza universale e l’arte / Religione e spiritualità / Per una rinascita / Ritrovare il bambino in noi / Il ricongiungimento fra ideale e reale / La crisalide / Conclusione

233

NOTA BIOGRAFICA

261

IL CONVIVIO

262

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INTRODUZIONE

Incontro n°1 del 31 marzo 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Anita Sarti, Pat Sophie Graja, Paolo Scarton, Carla Balabbio, Anna Maestri, Caterina Bazzani, Angela Passarello Vittorio Mazzucconi È da tanto tempo che non ci vediamo: dall’ultimo seminario sono passati tre mesi, anche se alcuni di voi sono venuti alla festa della primavera di una settimana fa. È un vero piacere ricominciare la nostra dolce abitudine, a cui sempre di più penso di dare un nome: oltre al titolo particolare del seminario, che sia “Il Lavoro Spirituale”, “Arte e Psiche” o quant’altro, li riunirei tutti in un insieme che possiamo chiamare “Convivio”, un convivio sia nel senso proprio di sedersi a tavola per mangiare insieme, come facciamo dopo i nostri Incontri, sia in quello più alto di nutrirci di amicizia, condivisione e conoscenza, come la parola convivio o simposio ha finito col significare col tempo e con alcuni illustri precedenti. Oltre a questo intento conviviale, non dimentichiamo però che si tratta anche di lavorare insieme e non solo quando ci riuniamo: dobbiamo così perseverare nel “Lavoro Spirituale” a cui ci ha invitati il primo seminario o almeno in qualcosa che, per quanto possibile, vi si avvicini; e dobbiamo continuare a vivere la storia di “Psiche” e non solo nell’arte, poiché è una storia che ci coinvolge profondamente su ogni piano. Col nuovo seminario che comincia stasera affrontiamo invece il tema “SENTIMENTO E RAGIONE”, che è tutt’altro che facile. L’idea mi è venuta solo per questo: guardando e rileggendo...sapete che è molto antipatico rileggersi, quando uno scrive qualcosa: occorre farlo infinite volte, ogni volta cambiando qualcosa, per poi accorgersi che una cosa che si ritiene di dover aggiungere in realtà la si è già detta dieci pagine

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Sentimento e ragione

dopo o prima…insomma, è un lavoro che trovo fastidiosissimo, senza parlare di quello successivo della correzione delle bozze. Comunque, l’altro giorno, mi è accaduto casualmente di leggere qualche cosa di questi incontri, e anche di alcuni passaggi di libri che ho scritto alcuni decenni fa, e dappertutto ho trovato che si parla sempre di “sentimento e ragione”. Sempre, sempre, e a proposito di tutto! Quindi mi sono detto che mi sto chiaramente ripetendo…però il concetto che mi faccio del pensare non è che ogni volta esso debba essere qualcosa di assolutamente nuovo, è come un fiume; apparentemente, anzi, è sempre lo stesso, però, se si guarda, in ogni momento non è mai uguale. Il pensiero è proprio come un fiume che scorre. Esso è inoltre ciclico: non ci possiamo lamentare che il sole che nasce la mattina sia nato anche la mattina precedente, o dieci giorni prima, e così per milioni di anni, poiché tutto si ripete nella vita…Nello stesso modo, consentitemi quindi che si possano anche ripetere i ragionamenti che facciamo, e proprio nel ripeterli essi si riveleranno qualcosa di più di un’idea che è venuta e di cui devo prendere nota perché altrimenti me ne dimentico, no! Il pensiero è come un respiro, io sono qui che respiro, voi siete qui che respirate, e continuamente ripetiamo questo atto del respirare. Faremo quindi lo stesso anche delle riflessioni sul pensiero e sul sentimento, seguendone sia il fluire che l’andamento ciclico. Esso ci porterà forse un po’ alla volta ad una chiarificazione, ad una conoscenza, ma non a qualcosa di definitivo. Sarà un processo infinito, o virtualmente infinito, tanto quanto lo sono le giornate della nostra vita e delle vite successive che vivremo. Rileggendo dunque tutto quello che ho scritto sul sentimento e la ragione, mi sono detto “ma che cosa in realtà ho voluto dire?” A proposito del sentimento, alcuni possono pensare, ad esempio, a quando si sono innamorati, e il sentimento li ha spinti a gettarsi nelle braccia di una persona, mentre la ragione diceva loro che non dovevano farlo, mettendo in campo mille argomenti per scoraggiarli. Quante volte nella vita vorremmo seguire un’inclinazione e poi qualcosa ci sconsiglia dal farlo. Non è però di questo che vorrei parlare, ma di un ordine di valori molto più vasto, anche se ognuno di noi potrà riconoscervi un senso particolare che ha sperimentato nella sua vita... Ho fatto allora uno schema del modo di porre il problema, ed è uno schema diviso in alcune colonne. La prima è l’albero.

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Introduzione

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L’albero Alla base del discorso su sentimento e ragione metterei infatti l’immagine dell’albero: l’albero non come lo si vede, ma come è in realtà: cioè un insieme formato non solo da un tronco e da una parte più alta, la chioma o ramatura, ma anche da una parte sotterranea che chiamiamo radici. La massa dei rami e quella delle radici sono assolutamente equivalenti. mentre il tronco costituirà la parte centrale dell’albero. Rispetto ad essa, c’è quindi una simmetria tra l’alto e il basso. In alto, vedremo la ramatura che si riveste di foglie mentre, in basso, la radice si completa con delle radichette, che sono come le foglie…le foglie captano la luce, le radichette succhiano i nutrimenti dalla terra. Al di sopra delle foglie nascerà poi il fiore e da esso si svilupperà il frutto, che ha in sé il seme, del tutto identico a quello che aveva dato origine all’albero, chiudendo così il ciclo e anzi riaprendolo incessantemente. Ecco, questo è il percorso seguito da ogni cosa nella natura. Non c’è nulla nel mondo, non solamente nella botanica, ma nella vita, nell’arte, oserei dire anche nella storia e soprattutto nella costituzione dell’uomo che non corrisponda al suo principio.

ALBERO frutto fiore foglie ramatura tronco radice radichette seme terra

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Sentimento e ragione

Mi baso su questo principio quando tendo a considerare la parte sotterranea, la parte delle radici, come quella che attiene al sentimento e invece la parte che è nell’atmosfera, nell’aria, esposta alla luce, come quella che corrisponde alla ragione. È evidente che il tronco, cioè l’elemento centrale del nostro essere completo, non può che partecipare delle due parti e trovarsi quindi fra il sentimento e la ragione, in una posizione di unione ed equilibrio fra i due.

Il corpo Nella colonna successiva, che accostiamo alla prima, non parliamo più di un albero ma del corpo umano. La prima cosa che notiamo è il cuore. Il cuore è come il tronco: infatti, se prendete il tronco e lo segate, trovate degli anelli concentrici che misurano il tempo: non è forse vero che anche il nostro cuore misura il tempo con il suo battito? Cuore e tronco sono quindi esattamente la stessa cosa. Nella mia filosofia della città, ho sempre considerato il centro di questa proprio come un tronco e nello stesso tempo come un cuore. Sono concetti assolutamente uniti ma forse non è corretto considerarli come dei concetti: l’albero è un’immagine vivente che, anche al solo evocarla, facendola nascere e crescere in noi, suscita e rivela per analogia moltissime altre forme in cui si esprime lo stesso principio. Spero che questo sia evidente a tutti e se non lo è lo ripetiamo: ogni forma vivente è esattamente l’espressione di un solo ed unico principio di cui l’albero è l’archetipo, che esso si mostri come tale, o nella forma di altre creature, di un uomo, o anche di un’opera d’arte, di una città... Se, dal cuore, scendiamo in basso, troviamo l’apparato gastro-intestinale, che corrisponde alla radice dell’albero: infatti il nostro intestino è contorto come se fosse una radice, e ha la sua stessa funzione di assorbire il nutrimento. Il sistema cardiocircolatorio che è centrato nel cuore, il sistema cerebro-spinale e quello periferico, fanno pensare alla ramatura dell’albero. Se guardiamo al rapporto fra intestino e cervello, esso è simile a quello fra radice e ramatura. È vero che, come le radici e i rami dell’albero si estendono liberamente nella terra o nell’aria, così fanno i nostri arti, gambe e braccia, ma c’è un altro rapporto più profondo da leggere: In questo si direbbe che il principio della ramificazione si ripete appunto anche nell’in-

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Introduzione

testino e nel cervello, in cui essa ha dovuto compattarsi nello spazio più ristretto possibile, il che l’ha obbligata a delle complesse circonvoluzioni. Si può pensare che la natura abbia cominciato con le piante, cioè con il modo più semplice, dopo quello dell’evaporazione dell’acqua, per far salire l’energia vitale dalla terra al cielo. Gli animali che hanno potuto in seguito nutrirsi delle piante hanno avuto bisogno di un cervello, che si è un po’ alla volta sviluppato fino a giungere alle dimensioni di quello dell’uomo. Ma come è nato il cervello? Suppongo che sia nato proprio dal principio primario della ramificazione, che si è in qualche modo concentrata fino a potersi compattare in una scatola cranica. L’albero non pensa ma i suoi rami e rametti che captano la luce e forse una superiore intelligenza, hanno dovuto concentrarsi per formare una massa pensante. ALBERO

CORPO

frutto fiore

testa bocca

foglie ramatura

polmoni sist. cerebrospinale

tronco

cuore

radice radichette seme terra

intestino organi digestione organi genitali seme

Sorriderete certamente delle mie interpretazioni, che non sono certo molto scientifiche, ma andiamo avanti.. Come la ramatura si riveste di foglie, così nell’uomo oltre che in ogni animale, ci sono i polmoni, che sono come un albero rovesciato, il cui tronco è la trachea. Gli alveoli dei polmoni sono come le foglie; le foglie respirano. E come fra le foglie nascono i fiori e da questi i frutti, così nel corpo umano la trachea giunge con la laringe alla bocca, che è come un fiore (soprattutto quando sorride...), e al frutto, che assimiliamo alla testa. Guardando invece adesso alla parte inferiore della colonna, le radici non si rivestiranno di foglie ma di radichette che, proprio come fanno le foglie per poter captare l’ossigeno dell’aria, avranno quella minuta ramificazione che permette di estrarre i succhi della terra.

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Sentimento e ragione

Scendendo ancora, come nella terra era stato posto il seme, così nelle parti basse dell’uomo troviamo gli organi genitali. Dopo aver percorso la parte superiore e quella inferiore delle due colonne, potete farne un’altra lettura, osservandone la simmetria rispetto alla parte centrale. Si vedrà allora che non solo le radici di un albero corrispondono alla sua ramatura e l’intestino di un uomo al suo cervello ma anche che il seme corrisponde al fiore e l’organo genitale alla bocca (non per nulla il bacio si associa a un rapporto amoroso). Si leggerà un rapporto di simmetria anche dal punto più basso della vita di un albero, la terra, al più alto, il frutto che, infatti, ciclicamente, ritorna alla terra quando si stacca dall’albero. E se ci fosse lo stesso rapporto nel corpo, dal suo punto più basso, l’ano, al più alto, la fontanella che è al di sopra della testa, due aperture che potrebbero essere viste come i varchi di entrata e di uscita dell’anima?...ma qui si entra in un altro discorso...

L’anima Si deve infatti parlare adesso dell’anima. Dalle prime due colonne, che riguardavano l’albero e il corpo, si passa a un’altra dimensione, che cerchiamo di descrivere in una terza colonna. Il tronco dell’albero era diventato per noi il cuore del nostro corpo, ma questo rivela adesso delle proprietà che riguardano la nostra anima, ed essenzialmente quella posizione centrale di unione fra sentimento e ragione che i Cinesi indicano nel giusto rapporto fra Jin e Yang. ALBERO

CORPO

ANIMA

frutto fiore

testa laringe-bocca

conoscenza parola espr. dell’anima

foglie ramatura

polmoni sist.cerebrospinale

ispir.intuizione ragione (divisione, linguaggio)

tronco

cuore

sentimento e ragione uniti

radice radichette

intestino organi digestione

sensazioni e sentimento nutrizione

seme terra

organi genitali ano

eros oscurità

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Introduzione

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Se guardiamo al di sopra della posizione del cuore, vediamo lo sviluppo della ragione che però si allontana da un equilibrio nativo per dividersi Sembra che lo sviluppo della ragione sia proprio sinonimo della sua divisione, così come, in un albero, la crescita della sua ramatura non è null’altro che la divisione del tronco, prima in due o tre rami e poi in successive e pressoché infinite ramificazioni. Non fa lo stesso il nostro pensiero? Nel nostro schema, vedrete infatti che la ramatura dell’albero, il cervello e la ragione sono sulla stessa riga. Lo sviluppo della ragione, ossia la sua progressiva divisione, si realizza attraverso il linguaggio. Questo, in sé, non condurrebbe che a un’infinita ramificazione come quella di un albero se, proprio come in questa, non esistesse un movimento contrario e complementare. Nel caso dell’albero, dall’atmosfera, la luce e l’aria entrano in contatto con le foglie e vivificano l’intero organismo. Con un immagine poetica, non è forse vero che le foglie in qualche modo parlano quando sono mosse dal vento e anche che vi si posano sopra gli uccelli che cinguettano? Sono quindi associate alla voce, al suono; sono associate anche all’anima che, grazie a questo influsso della luce, dello spirito, cerca di rivolgersi di nuovo a quell’unità che la divisione operata dalla ragione aveva fatto perdere. L’ispirazione che attribuiamo ai poeti, ai mistici o anche ai momenti migliori di ognuno di noi, non è null’altro che una respirazione. Ad essa associamo l’intuizione, la facoltà più alta dell’anima, in cui saremmo tentati di riconoscere il definitivo salto fra la pianta o l’animale e l’uomo, ma non è così. L’intuizione è in noi proprio come l’impulso meraviglioso che spinge la pianta a produrre il fiore! Abbiamo visto, sulla stessa linea, nella colonna della pianta il fiore, in quella del corpo la bocca e adesso, infine, in quella dell’anima la parola che ne è l’espressione. E come dal fiore si passa al frutto, e dalla bocca a tutta la testa, che è come il frutto del corpo, cosi, parlando dell’anima, giungiamo al suo vero frutto: la conoscenza. Sto parlando della conoscenza che viene appunto dall’anima, non del sapere scientifico, che fa invece parte della ramificazione-divisione della ragione. Se guardiamo adesso alla parte bassa della colonna, sotto la posizione centrale che è quella dell’equilibrio fra sentimento e ragione, troveremo il sentimento in sé, dove esso nasce dalla sensazione, e che, nelle colonne dell’albero e del corpo, avevamo associato all’intestino e alla radice.

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Sentimento e ragione

Ancora più in basso, sotto la sensazione e il sentimento, troveremo la nutrizione, e ancora più sotto l’eros e infine l’oscurità. Quindi, guardando adesso questa colonna, ne leggeremo il movimento di insieme che va dall’oscurità alla luce. Guardando poi alla simmetria fra le funzioni della parte alta e quelle della parte bassa rispetto alla posizione centrale di equilibrio, ci appariranno altre corrispondenze: dall’eros che, come abbiamo visto in un altro seminario, è la forza fondamentale, quella che fa crescere la grande pianta della vita, all’espressione dell’anima; dalla nutrizione all’ispirazione; e infine dal sentimento alla ragione. Mi rendo conto della difficoltà di questi passaggi poiché, in essi, non si segue il processo di una logica lineare ma si vede contemporaneamente l’alto e il basso, il prima e il dopo, rovesciando continuamente la clessidra, e passando ugualmente da una all’altra delle colonne in cui abbiamo elencato i diversi aspetti della nostra analisi: l’albero, il corpo e l’anima.

Lo spirito Ne aggiungeremo adesso un’altra, la colonna dello spirito: Oltre a leggerla in verticale come le altre, dall’alto al basso o viceversa, il suo vero significato apparirà piuttosto se mettiamo le colonne una accanto all’altra come se i loro termini, letti in ogni linea orizzontale, fossero da sommare. Il risultato dell’addizione di ogni linea è sempre lo stesso, “amore”, anche se esso va declinato e compreso in diversi modi. ALBERO

CORPO

ANIMA

SPIRITO

frutto fiore

testa laringe-bocca

conoscenza parola espr. dell’anima

amore, che si realizza, Dio amore, che fiorisce

foglie ramatura

polmoni cervello

ispir.intuizione ragione (divisione)

amore, che aspira a un liv. sup. amore, che si divide

tronco

cuore

sent.to e ragione uniti amore, completo

radice intestino radichette org. digestione

sensazioni e sentimento amore, che sente nutrizione amore, che nutre

seme terra

eros oscurità

org.genitali ano

amore, che sorga amore, che vuole emergere

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Introduzione

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È ovvio che la linea centrale del cuore e del sentimento porta all’amore, ma bisogna sottolineare che si tratta di un amore completo perché in esso il sentimento è unito alla ragione. Nella linea di sotto, l’amore è invece sempre il risultato di sensazioni, sentimenti più meno vaghi, è l’amore che sente ma non l’amore completo. La linea ancora sottostante è quella della nutrizione. Noi in qualche modo ci nutriamo della persona amata e la nutriamo, e questo è quindi l’amore che nutre. C’è quindi la riga dell’eros, l’amore che erompe, sgorga, vuole venire fuori, come un seme che si apre, come il germoglio di una pianta, come lo sbocciare di un fiore. Nell’ultima linea in basso c’è invece l’oscurità, l’amore che vorrebbe emergere ma non riesce ancora a farlo, perché è sotterraneo, compresso. Se invece andiamo nella parte superiore dello schema, sopra la linea dell’amore che riunisce sentimento e ragione, cosa incontriamo? L’amore che si divide. Tutti noi abbiamo fatto questa esperienza, come abbiamo visto in uno degli Incontri del Seminario “Arte e Psiche”. L’amore, che è un’ esperienza straordinaria di unità – unità fra due perone che si incontrano ma soprattutto unità fra le due parti di noi stessi – segue purtroppo un percorso ciclico che trasforma l’unità in disunione. Il linguaggio, che dovrebbe essere uno strumento di comprensione, spinge invece alla divisione. I punti di vista diversi che vengono in luce accentuano sempre di più le divergenze. Dal sentimento che è una forza che viene dal cuore, dal centro del nostro essere, si passa alla ragione che discrimina, distingue, obbietta...si, però...e si va incontro alla perdita dell’amore. Tutti i nostri amori finiscono in discussioni senza fine. Come abbiamo visto nella storia di “Arte e Psiche”, c’è però uno stato successivo dell’amore, che è più alto e più raro, poiché nella maggior parte dei casi, quando l’amore finisce, non è purtroppo dato di viverne il superamento. Ne abbiamo parlato lungamente, per indicare che l’amore, che è un’esperienza di unione, può giungere, dopo la divisione, a un livello di fioritura interiore in cui esso si sublima. È il processo della poesia: Dante con Beatrice fa proprio questo; l’arte, la

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Sentimento e ragione

bellezza, la filosofia, la percezione del divino vengono da questa sublimazione dell’eros. Ricordiamo che il processo aveva preso inizio con l’eros, forza sensuale pura, per poi farla evolvere nel sentimento e successivamente nell’equilibrio fra sentimento e ragione, finché la ragione non si è separata, rendendosi autonoma e sterile. E giungiamo al punto in cui può iniziare un nuovo processo, quello di una fioritura spirituale che porta a un amore più grande, non più legato a un fatto vitale: l’amore che tutto comprende, che tutto ama in un’altra dimensione. Possiamo chiamarlo l’amore di Dio? L’intuizione sarà il veicolo di questo processo, l’agente della sua fioritura, per mezzo del quale si conseguirà una conoscenza che è luce. Tutto questo vi potrà sembrare un po’ astratto, e ho l’impressione che non ne seguiate chiaramente tutti i passaggi. Proviamo quindi a ricominciare dal basso: qui c’è l’amore che vuol emergere dall’oscurità, anche nell’oscurità c’è quindi amore, anche in un sasso c’è amore, nella terra oscura c’è amore che, diciamo, cerca di venire fuori. A un certo momento spunta infatti come un filo d’erba, come un bocciolo, come una sensazione che nasce in un essere umano, anche se è ancora oscura in lui. Si comincia a nutrirsi, come il filo d’erba viene nutrito dalla terra e cresce sempre di più. Poi si giunge a qualcosa di più complesso della sensazione e della nutrizione: già l’albero ha una sensibilità, qualcosa sente, l’animale ancora di più, l’uomo elabora la sensazione fisica in un sentimento che è molto più elevato e complesso, giunge poi allo sviluppo della ragione che, nella sua prima forma è ancora unita al sentimento, in quello stato di centralità ed equilibrio che abbiamo identificato nel tronco e nel cuore. Avviene poi un processo che porta la ragione ad emergere come una forza autonoma ma anche come un fattore di progressiva divisione, come la ramatura di un albero, e si giunge così al termine del processo che ha visto nascere sia l’albero che noi stessi e che ci vede ormai avviarci verso la fine. C’è però qualcosa di meraviglioso che ci salva da questa fine: il fiore, da cui si forma il frutto che porta in sé il seme, principio vitale di una nuova pianta, di una nuova vita. L’equivalente nel corpo umano è ovviamente il seme che anche noi trasmettiamo, ma il discorso dell’anima è su un altro piano: Il fiore dell’anima nasce dall’intuizione, qualcosa cioè che va al di là della ra-

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Introduzione

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gione e della sua sterile divisione, per aprire la strada della conoscenza, e non parlo della conoscenza razionale, scientifica, ma di una luce che ci rischiara. Non per nulla, sulla stessa linea della conoscenza troviamo, nella colonna dell’albero, il frutto e, nella colonna del corpo, la testa e in particolare la fontanella che è sopra di essa: È come dire che il frutto dell’uomo è proprio in questo uscire della sua anima dal corpo, come inizio di un nuovo stadio, quello dello spirito? Sulla stessa linea troviamo infine ancora una volta l’amore ma, dopo tutte le forme di amore temporaneo, parziale e finito che abbiamo visto nelle linee precedenti, sarà finalmente l’amore che tutto ama, tutto comprende in sé, l’amore di Dio.

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DIBATTITO

Dopo questa piccola introduzione, possiamo intavolare un discorso partendo da uno degli elementi emersi? Anita S. Mi pare che i vari elementi della tabella che ci ha mostrato possano anche corrispondere ai chakra. ... Vittorio M. Esattamente, non nel senso però di dirci che un chakra vuol dir questo e un altro chakra vuol dire quest’altro... quante volte l’ho letto e l’ho sempre dimenticato!..Non è infatti una nozione razionale. Quando si cerca di individuare qualcosa che sia vero, profondamente vero, esso corrisponderà naturalmente a mille altre cose che sono state conosciute. Il vero è unico ma chi lo vede da un certo punto di vista, scopre che, da altri punti di vista, era stato visto lo stesso vero. Mi insegnate che il primo chakra è nella zona dell’ano, e sopra c’è quello degli organi genitali, giusto? e che su, su, vedremo tutti gli altri chakra fino a quello corrispondente alla fontanella sopra la testa? Questa sequenza corrisponde a quella delle nostre colonne, ma non nel senso che queste ne siano una dimostrazione o una citazione, ma perché il vero è unico, in tutto celato, in tutto svelabile. Si vede anche che dall’oscurità si balza alla luce, si prende l’ascensore della linfa dell’albero e dalla terra si balza al frutto. E il frutto cosa fa? Fa il seme che ricade nella terra. Tutto questo è assolutamente ciclico. Dall’oscurità si passa alla luce e della luce si ritorna all’oscurità. Puoi fare lo stesso percorrendo in su e in giù la sequenza dei chakra... Pat Sophie G. A questo punto mi viene da dire che, se noi pensiamo al cervello, il cervello già in sé rappresenta tutto ciò, è l’albero della vita. Quindi, rac-

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chiuso in ogni parte c’è questo tutto, questo insieme, e se noi andiamo a guardare oltre, tutto ciò che vediamo qui rappresentato in uno schema e che cerchiamo di capire, vedendolo in tre dimensioni, è il Dna. In effetti è rappresentato questo, è l’infinito... Vittorio M. Come dicevamo prima, sono tanti i punti di vista di un unico nucleo. Questo è un quadro di insieme, ma se sembra astratto – Pat Sophie può avvicinarlo al Dna o all’albero della vita – o se è troppo vasto, possiamo riconoscerne almeno degli aspetti parziali. Uno di essi, questo discorso sulla ragione che opera una divisione, ci porta subito a riconoscere ciò che invece riporta all’unità: l’amore. La lettura più interessante di tutti i rapporti esaminati è che qualunque linea che abbiamo seguito giunge alla stessa conclusione: l’amore. Amore in tante forme: c’è l’amore che cerca, l’amore che trova, l’amore che si perde, c’è l’amore oscuro, e infine c’è l’amore. che tutto comprende, ma tutto quanto è amore. Riguardando lo schema e le colonne verticali che lo compongono, abbiamo visto che le sue varie divisioni vengono assorbite nell’idea totale di amore, anche se l’amore visto con i nostri occhi è visto appunto in modo parziale: c’è amore e amore, ci sono tante funzioni dell’amore, una sola è quella suprema che tutto comprende e che è la funzione della divinità. Le altre sono parziali: quando un uomo si innamora di una donna l’ama veramente? Gli piace andare a letto con lei, si sente gratificato da questa donna, ne ha bisogno...cioè il nostro amore è sempre condizionato, amiamo ciò che ci piace e ci guardiamo invece bene dall’esplorare i lati che ci farebbero invece dispiacere, mentre invece, se c’è un amore che tutto comprende, anche le parti oscure, è appunto l’amore di Dio. Sembra un’idea astratta, ma gli amori che non sono l’amore di Dio, che non sono amore incondizionato, sono infatuazioni, desideri, sono piccoli progetti, come metter su casa, andare in vacanza,o anche condividere molte cose belle e importanti che però, quando cessano, lasciano una finale delusione, mentre invece, se uno si avvicina all’amore completo, questo non conosce delusione perché è come una sorgente pura e perenne Paolo S. ...però nell’uomo primitivo l’amore è una cosa molto vaga, è quasi come se non esistesse...

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Vittorio M. Abbiamo visto che, al livello più basso, l’amore è una forza inconscia, vuole emergere da uno stato di oscurità, come un animale che salta addosso alla prima femmina che trova, qualcosa che urge, che vuol venir fuori, è chiaro che comincia così, ma l’amore visto da una prospettiva più ampia, ha tanti livelli, di cui solo quello più alto, quello divino, tutto comprende mentre, più sotto, è solo qualcosa che vuole emergere. Se vai in giardino e vedi un filo d’erba che vuole venir fuori dalla terra, quello è l’amore Paolo S. Per uno che è credente sì ma se uno non è credente... Caterina B. Un filo d’erba è l’amore puro, la terra che si rinnova senza alcun fine. Non è questione di credere o di non credere, è la natura che si esprime nella sua forza. Carla B. Per quello che riguarda la natura, è vero, uno può guardare agli alberi, ai fiori, ma se uno non è credente, tutto questo che lei dice è utopico, perché io potrei essere ateo e non credere che ci sia il divino in tutto questo. Personalmente, io vedo, amo la natura, ma potrei anche non amare il divino. Dicendo questo, mi riallaccio all’intervento di Paolo S. Per un non cristiano potrebbe essere difficoltoso di accettare che si parli di amore di Dio. Vittorio M. Io non sono cristiano in un senso praticante, anche se nel cristianesimo posso riconoscere molte cose belle e nella parola viva di Gesù le più alte verità; le puoi ritrovare anche nelle altre religioni, che hanno detto tutte sostanzialmente le stesse cose. La scala è alta: qualcuno che dice, si, capisco l’amore del filo d’erba, o quello di tutta la natura, ma non accetto l’idea dell’amore di Dio perché esso mi fa pensare a un’imposizione della Chiesa, mi mostra il suo modo di pensare. Io sto presentando un’idea diversa ma soprattutto più ampia, accetto, condivido l’amore in tutte le sue forme, a livelli crescenti e, a un certo momento, cerco di vedere che la storia dell’albero non finisce con la sua chioma. È una storia che era partita dalla terra ma in alto, sopra la chioma, cosa c’è? C’è il cielo. E cos’è il cielo? È tutta un’altra dimensione...

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Anna M. Non so come lei lo intendeva, ma concepisco l’amore come un’armonia universale, che non è umana ma che sovrasta il tutto. Non c’entra il discorso della fede o della non fede,...nell’universo esiste un amore che muove tutto... Vittorio M. A proposito di fede, mi è accaduto di guardare l’altro giorno un video con una conversazione di Elémire Zolla, uno scrittore molto attento alle cose spirituali. Mi ha però sorpreso sentirgli dire: “Io non ho bisogno della fede perché le cose, o le so così e così e devo solo attivarmi per conoscerle meglio, o le so davvero e non ho quindi bisogno di fede, o non le so affatto e, in questo caso, come potrei credere a quello che non conosco?” Mi spiace di non condividere questo punto di vista. Già il fatto di dire: “questo lo so e quindi non ho bisogno di fede per convincermene”, non dovrebbe essere sulla bocca di un saggio, poiché il vero sigillo di chi sa è proprio di sapere di non sapere. Dato che quel poco che sappiamo è così minuscolo rispetto a un universo sconosciuto, come posso fermarmi alla mia conoscenza se è così limitata? Devo andare oltre con fiducia, anche se non accetto neppure io di credere nelle cose che mi raccontano se non posso vederle con i miei occhi. Posso però seguire almeno un orientamento, un’intuizione. Camminando, non guarderò con gli occhi solo per terra o ancora peggio chiusi, guarderò davanti e sopra, al sole e al cielo. Guarderò cioè a una dimensione più ampia di quella dei miei piccoli passi. Non occorre per questo essere credenti nel senso cristiano. Guarderò a una dimensione che certamente c’è: l’albero che ha in sé le sue radici, i suoi rami, ha sopra di sé il cielo, la luce. Quello che in realtà è lo riceve da un’altra realtà estremamente più grande, che è al di sopra dello stesso cielo e, ovviamente, al di sopra della nostra ragione. Carla B. Ho letto i pensieri filosofici di Einstein, conosciamo la sua ricerca di Dio. Perché però un grande fisico come lui, più cercava una risposta e meno la trovava? Sembra che, più ci si avvicina a una spiegazione scientifica e più si perde l’essenza del credere in Dio, più ci si avvicina al pensiero, matematico, filosofico, e più si perde...

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Vittorio M. Più ci si avvicina al pensiero e più esso divide, si allontana da questa verità. Carla B. Einstein non ha mai creduto in Dio... Anna M. ...ma cosa ha voluto dire con la sua frase: Dio non gioca a dadi con l’universo...? Paolo S. Io non sono credente, però la fede è un dono di Dio, c’è chi ce l’ha. Vittorio M. Hai detto una cosa: la fede è un dono di Dio, ma basta dire questo per mostrare che si crede in Dio... dovrà pur esistere per poterci fare questo dono. Ho cercato di costruire una scaletta per mostrare passo passo, attraverso diversi nodi, come quelli della costituzione di un albero, che ciò che può riunire il tutto non è il sentimento da solo (sia quello che viene dalla terra, da mille pulsioni che quello di un’aspirazione religiosa) e neppure è la ragione da sola che abbiamo visto come autrice più di divisioni che di unioni. E l’insieme dei due, l’unione fra il sentimento e la ragione, che è l’argomento di questa serata, a somiglianza di quella fra la radice e la ramatura nell’albero completo. Al di sopra dell’albero c’è poi il cielo e nello stesso modo possiamo supporre che, anche al di sopra della nostra mente, ci sia qualcosa, un’unità che tutto comprende e che tutto ama e che è l’amore stesso. Questa è, non dico certo una definizione di Dio, ma una piccola idea che ci possiamo formare e che sto cercando di enunciare. Essa non coincide con nessuna religione particolare, ma può condividere tutte le forme di fede. Elisa M. Cercavo un filo logico in tutto questo discorso e trovo che sia curioso che partendo dal concetto di amore, si sia andati dall’uomo primitivo ad Einstein, e dall’oscurità alla fede e all’amore che tutto comprende. Quindi, è partendo dall’amore che la ragione si è sviluppata nel processo evolutivo, come in un collegamento verticale...

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Vittorio M. Dici bene che tutto parte dall’amore, e aggiungo che certamente tutto vi ritorna. Non è però che stasera si sia partiti da questo. Come esso è stato presentato in questa tabella, con una specie di equazione, l’amore è apparso come la risultante del percorso compiuto in diverse strade. Qualunque cosa noi facciamo, che mangiamo, che lottiamo, che copuliamo... in tutte queste cose nessuno pensa magari all’amore, segue un impulso di sopravvivenza o altre pulsioni, ma, se c’è un disegno nell’universo, se c’è un’unità, un fine è che, da qualunque parte lo si veda, tutto converge verso una possibile unità, e cos’è che la produce? È l’amore. L’amore unisce te e l’uomo che ti ama, unisce l’artista alla sua opera, l’uomo impegnato alla sua fede politica. Tutti quanti ci leghiamo a qualcosa. In tante forme di vita, in qualunque senso si cammini, si va verso l’amore. In questo processo, perché l’amore possa essere realizzato, il filo d’erba spunta dalla terra, il grande poeta sente il bisogno di scrivere una Divina Commedia per fare la stessa cosa, il Santo prova l’impulso ad amare chi soffre, noi piccoli uomini ci occupiamo in mille fatiche, e, al di sopra e attraverso di tutto ciò, Dio ama e comprende tutto. Sono diversi livelli: il primo lo conosciamo, mentre l’ultimo è un po’ al di là della nostra capacità di comprensione. Non sappiamo cosa sia questo ultimo livello, ma dire che non esiste significherebbe chiudere gli occhi, la mente e il cuore... Pat Sophie G. Anche le cellule del nostro corpo mostrano questo amore. Esse cercano di cooperare per farci essere. L’amore è questo, è lo sforzo costante di essere insieme, come co-creatori di qualcosa... Nonostante gli errori, le deviazioni – il cancro è una di queste – le cellule fanno di tutto per collaborare... Paolo S. ...è una legge di natura, la legge della sopravvivenza... Vittorio M. Si, ma tutto sembra finalizzato a qualcosa che è oltre la sopravvivenza. Credendo in un tale fine, lo chiamiamo Dio, così come altri lo chiameranno evoluzione, senza che nessuno sappia bene verso che cosa. Comunque non vogliamo finalizzare stasera tutti i nostri ragionamenti su Dio, che sarebbero oltretutto privi di fondamento. Qualunque cosa si possa dire o pensare di Do, come diceva Sant’Agostino, sarà

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sempre erronea e incompleta. Però è molto importante – ne abbiamo parlato molto in un altro seminario – di trovare in noi un orientamento. Ognuno fa le sue cose in base alla sua esperienza, ai suoi desideri ecc. ma deve avere un intento, un orientamento interiore che si ottiene cercando di allineare i propri pensieri e i propri sentimenti secondo una direzione, un senso che diamo alle cose, di cui cerchiamo di leggere la segreta realtà. È un orientamento, il sapere da che parte nasce il sole. Se a uno piace, che so, cogliere un frutto, potrà mangiarlo anche senza credere in Dio ma, così facendo, non comprenderà appieno il valore e il significato di ciò che fa. Non renderà grazie del dono ricevuto e, senza questo grazie, la sua anima non crescerà. Pat Sophie G. ...è un dono che abbiamo in noi stessi. Vittorio M. Tutto quello di cui parliamo come se fosse al di fuori è in realtà al di dentro. Dio è dentro di noi. Nello stesso modo, tutto quello che è in alto è in basso e viceversa; anzi, è nel centro: nel centro di noi stessi.. Angela P. Mi chiedo, quando nel Simposio di Platone, si domanda a Diotima che cos’è l’amore...cosa ha risposto? Siamo oltretutto in un periodo in cui non c’era il cristianesimo e quindi non poteva valere l’interpretazione cristiana dell’amore. Vorrei sapere anche come mai, nel tuo schema, la parola amore viene spiegata fra parentesi...vedo l’amore che nutre, o che sgorga... Vittorio M. Tutto si riferisce all’amore ma a diversi livelli. L’amore di un gatto per una gatta non sarà come l’amore di Dante per Beatrice, o come l’amore di un Santo per i sofferenti, non che uno sia più basso dell’altro, tutte le forme di amore sono meravigliose, però, la ragione serve per questo, per capire i diversi livelli in cui l’amore si manifesta, e soprattutto per capire anche come tutti vengono riuniti perché l’amore, in sé, è questa riunione. Angela P. Non è così semplice... prima si parlava di natura, io sono d’accordo che dall’oscurità sorga la luce, il sole, perché ci sono dei cicli cosmici. Ci

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sono anche dei misteri che noi possiamo intuire – lo fanno soprattutto i poeti, gli artisti – e che non sono misurabili. Altre cose possono essere solo constatate, come i fenomeni della natura. Non tutto però è natura, e adesso c’è una natura che è stata snaturata. Bisognerebbe allora parlare di questo aspetto, del disamore presente. Vittorio M. Non vorrei insistere più sull’amore. L’amore lo vedo presente in tanti modi, in tanti diversi cammini, anche se sembrano talvolta divergenti o perfino opposti all’amore... Uno di essi, che allontana purtroppo l’uomo dalla natura, corrisponde proprio alla prevalenza nel nostro tempo della ragione, delle scienze. Tutta la scienza è materialista. D’altra parte il sentimento di cui parliamo non è soltanto un impulso del nostro cuore, un volersi bene, ma è la natura stessa. Nel suo insieme, rispetto alla civiltà, è come se la natura fosse “sentimento”, cioè qualcosa di irrazionale o inconscio rispetto alla razionalità della civiltà, o anche simile a quello che i cinesi chiamano Jin rispetto allo Yang, La natura, nel mondo in cui viviamo e anche in noi stessi, oggi soffre, è in uno stato di difesa, può essere anche sopraffatta dalla parte razionale dell’uomo, che è portata al materialismo e a una meccanica distruttiva. Il tragico esito che possiamo attenderci dal tipo di sviluppo del nostro tempo può però costituire la necessaria premessa, anche se catastrofica, per una nuova nascita. Angela P. Pensavo che la natura, che è anche matrigna, non avesse molto a che vedere con il sentimento, ma dipende che cosa intendiamo per sentimento. Vittorio M. Siamo qui per cercare di capirlo. Dire poi che la natura può essere anche matrigna, sembra volerne dare una connotazione negativa. La natura è da amare per quello che è, talvolta meravigliosa, talaltra terribile. Il ruolo dell’uomo è nel darsi interamente a questa potenza e farla propria. La natura farà nascere ogni sorta di piante e di creature, ma l’uomo farà nascere il pensiero, le civiltà, le opere d’arte, creando quasi una seconda natura. Ma tutto ciò avrà un valore. solo se l’uomo saprà onorare in sé il sentimento della natura che gli è madre, la propria radice, e anche guardare al cielo e collocare in esso il suo intento più profon-

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do. Mentre l’uomo che sa guardare solo a un interesse, che sia economico, speculativo o politico e disprezza quello che appartiene invece alla natura, al passato, ai valori dell’anima, crea un tale squilibrio nel mondo che esso, appunto, non può che portare a una catastrofe. Non la natura, ma la civiltà stessa è matrigna dell’uomo. Paolo S. La natura costruisce ma anche distrugge, non è una cosa che è soltanto positiva. Vittorio M. No, è sempre positiva. Sarebbe come quelli che, parlando di Dio, pensano che egli debba essere solamente “buono” lamentandosi con lui: “ma come puoi permettere tutto questo...?” Sono molto più saggi gli Induisti che vedono tre aspetti di Dio: quello che crea – Brahman – quello che conserva – Visnù – e quello che distrugge – Shiva. Così fa la natura, quella che fa germogliare i fiorellini è la stessa che provoca i cataclismi e uno tsunami che distrugge tutto. Questo va profondamente capito, fa parte della necessità dell’oscurità perché ne nasca la luce. Fa anche parte dell’eros, che non ha nulla in comune con l’amore buono ma è una forza creatrice e distruttrice. Paolo S. Si potrebbe anche pensare che la vita sia uno scherzo della natura, o che la vita si sia creata per caso e che si distrugga anche per caso, basta pensare agli animali che c’erano una volta e che oggi sono scomparsi.. Pat Sophie G. ...o a quelli che vengono distrutti oggi per opera dell’uomo, o soprattutto all’uomo che distrugge se stesso... Vittorio M. La morte è un ingrediente necessario della vita, come si vede in tutta la natura. Gli uomini di oggi cercano di abolire la morte con l’aiuto di nuove scoperte scientifiche, ma saranno delusi perché la natura troverà altri modi per farci morire, non si può creare senza distruggere. Per questo gli Induisti pensavano a tutte e tre le forze divine che dirigono la vita e soprattutto a Shiva che, distruggendo, permetteva la nascita del nuovo, come l’aratro che solca la terra permette la semina e il futuro raccolto.

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Quando io parlo di sentimento, non lo faccio nel modo in cui si può parlare degli affari di cuore ma come i cinesi parlerebbero dello Jin, cioè della forza complementare allo Yang, con cui deve essere in armonia. Oggi invece c’è una tale preminenza della mentalità scientifica, economica, nonché della volgarità di cui ci inonda la televisione e non solo, che bisogna lavorare a un riequilibrio, riunendo le forze, le idee e le persone che sono sensibili a queste cose. Bisogna però stare attenti. L’altro giorno ho sentito un autore che vi presenterò magari a questo seminario che, per reagire a questo stato di cose, dà come finalità della civiltà umana il rispetto della natura. Trovo che in tal modo si rischia di sbagliare in un senso opposto: la natura va rispettata ma va anche posseduta, onorata si ma nel senso anche di agire su di lei, come un uomo agisce su una donna per trasformarla e farle partorire il figlio. È in tal modo che può nascere l’uomo nuovo che porterà avanti il mondo. Caterina B. Guardando questo schema, esso mi sembra un insieme finito tendente all’infinito. Nel ciclo dell’amore che va dal primo stadio in cui deve emergere al più alto, come se noi da qui dove siamo puntassimo verso l’esterno, per conoscere chissà che cosa. Io la vedo in modo contrario. Non è l’esterno in cui dobbiamo entrare. Dio, senza entrare nel merito di cosa possono pensarne i cattolici, è dentro di noi. Facciamo un esempio pratico: io leggo un romanzo, oggi o un anno fa, se lo leggo oggi, lo interpreto in un modo diverso, però sono io che indago in me stesso e ne colgo l’infinità. L’albero è un sistema chiuso in sé stesso ma è infinito nelle sue diramazioni, nel tempo, porterà frutti ma partendo sempre da se stesso, il corpo fa la stessa cosa, va verso l’infinito attraverso i figli e i figli dei figli, l’anima anche, segue la luce e la conoscenza, crea, distrugge..è tutto un ciclo. Tutto ciò deve passare dal dentro, non solo attraverso l’esterno, la tecnologia, tante ricerche che vogliono trovare qualcosa al di fuori di noi. È invece dentro di noi... Vittorio M. Caterina, per ciò che mi riguarda, hai aperto una porta apertissima, perché non è certo nell’esteriorità che io compio la mia ricerca. Se parli invece delle tendenze del mondo nella civiltà materialistica in cui viviamo, è verissimo che vanno tutte al di fuori di noi, al di fuori dell’uomo. Non afferro però cosa dici dello schema che stiamo studiando. È vero che esso tende verso l’alto (il frutto, la testa, la conoscenza) in ogni

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colonna; oltre all’amore come meta e orientamento di ogni cammino, ma che questo vada verso l’esterno, la tecnologia o quant’altro lo dici solo tu. Certo il mondo va in questa direzione, ma non il lavoro che stiamo compiendo qui. Caterina B. Quello che dico non è esaustivo... da quello che colgo nel mondo, la ricerca è sempre di qualcosa che è al di fuori. Vittorio M. Qui parliamo invece di ciò che è di dentro, ma vorrei anche aggiungere che deve essere finito, proprio come lo è un albero. Non è certo dall’estensione delle sue ramificazioni che ricaverò la supposizione che l’albero sia infinito ma, semmai, è la centralità del tronco che mi farà pensare. È in esso, ossia nel tuo cuore, che avviene il processo di una crescita interiore che, per quanto limitata, ha delle risonanze infinite.. Il fatto stesso di aver indicato nel nostro schema un forte riferimento al centro e all’amore che si invera in esso mostra che non è una scala che va altrove. Teniamoci comunque sempre al finito, per favore. tutto si svolge e si ripete secondo dei cicli determinati e conclusi, mentre è solo il mistero e l’armonia della loro ciclicità che ci può far pensare all’infinito, cioè a Dio. Ho però voglia di contraddirmi subito con la tentazione di uscire dal finito. La simmetria delle radici e della ramatura rispetto al centro dell’albero non ci può infatti far supporre che esso potrebbe essere anche pensato alla rovescia, essere cioè rovesciato come una clessidra?. Pat Sophie G. Stavo pensando proprio a questo... Vittorio M. E se fossero tanti alberi, diritti, rovesciati o inclinati in vario modo, con una comune radice e le loro chiome tutte unite in una comune e grande chioma sferica? Sarebbe questo un uscire dal finito? Ma ci sono dei fiori di campo che sono fatti proprio così. Ne ho notati che sembrano dei soli, altri addirittura delle galassie, ma ce ne sono appunto che ci mostrano questo modello sferico di sviluppo. Quando si parla di un amore che tutto comprende, dell’amore di Dio, immaginiamolo anche così, come un grande fiore sferico. Ma non

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sarà una qualche super-stella, chissà dove nell’universo: sarà nel tuo cuore, sarà il tuo cuore. Se tu giungi a questa comprensione – io ancora non ce l’ho fatta...neanche voi, mi state dicendo, ma stiamo tutti studiando – stiamo studiando “da Dio”! Pat Sophie G. Stiamo aprendo le ali per vedere come funziona, fra conoscenza e amore... Caterina B. ...certo che parlare dell’albero è più facile che non gestire il sentimento e la ragione nella nostra vita... Vittorio M. ...ma nessuno vuol dire qualcos’altro?...Anna? si dice che chi sa tace, quindi qui siamo tutti sapienti. Caterina B. La cosa bella di questi seminari è che, pur rimanendo fedeli al loro oggetto, è possibile esprimere ognuno le nostre sensazioni, i nostri pensieri, seguiti da te che tieni il bandolo della matassa. Se qualcuno non si esprime è un peccato perché qui nessuno giudica qualcun altro...è assolutamente un arricchimento. Vittorio M. Vi siete forse un po’ raggelati per la complessità di,questo schema? D’altra parte lo scopo di stasera era di dare un’idea generale dell’insieme che cercheremo poi di svolgere in ambiti specifici, come il rapporto con la natura, il discorso sulla storia, sull’arte, sulla psicologia..Non sarà facile invitare dei relatori su temi specifici come questi anche perché, nell’esperienza fatta in altri seminari, si è visto che essi vengono spesso con il loro “prodotto” già confezionato e non sono disponibili ad entrare in una vera comunione con noi e la nostra voglia di sentire e di pensare, e non solo di ascoltare una conferenza. Ci sono però anche delle persone straordinarie, come alcune che ho avuto occasione di conoscere, attraverso i loro libri o dei video che potremo proiettare in qualche serata. Dialogheremo poi sul loro contenuto, con il grosso vantaggio che, essendo assenti e perlopiù scomparse, non potranno assolutamente controbattere le nostre osservazioni...

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Sentimento e ragione

Angela P. Tornando a quanto detto stasera, mi ha colpito questa cosa del tronco, del cuore che hai posto nel centro. Mi è venuto da pensare alla vita e alla morte come a un disopra e a un disotto. Nell’incontro fra la vita e la morte c’è la concretezza dell’amore, giusto? Certo che l’amore è legato alla morte... Vittorio M. Nello schema avevo posto la morte, nella linea della terra, dell’oscurità, come amore che vuole emergere, emergere appunto alla vita. Si può dire che l’amore sia un punto di incontro fra la vita e la morte? Non credo, ma si dirà meglio che è un punto di arrivo, sia della vita (che con la morte giunge alla sua conclusione) che della morte (che, con la nascita, emerge appunto alla vita) In ambedue i casi, mi sembra che l’amore sia la vera chiave di comprensione. Angela P. Un’altra cosa che mi fa pensare è il divino dentro la natura, una percezione talmente ancestrale che c’era già prima del cristianesimo nelle culture pagane, in cui il divino è sempre stato sentito, cercato dall’uomo come una necessità, un divino non nel senso creazionista ma legato alla natura in sé. Vittorio M. Non solo le culture pagane hanno sempre visto il divino nella natura ma mi pare che questa percezione sia stata invece assente nel cristianesimo, almeno fino a San Francesco. Paolo S. Secondo me dipende dal fatto che l’uomo, essendo molto limitato, pensa sempre che ci sia qualcosa di più grande di lui, che gli uomini primitivi vedevano quindi nel sole, nella luna, nelle stelle. In seguito, i concetti sono cambiati... Pat Sophie ...però l’uomo è talmente limitato da presumere che i suoi limiti siano la verità. Secondo Sibaldi, nel momento stesso in cui ci rendiamo conto di un limite, vuol dire che prendiamo coscienza che oltre quel limite c’è qualche cosa: è fondamentale accorgersi del limite.

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Vittorio M. Non è poi così difficile accorgersi della limitatezza delle nostre conoscenze. Pensa solo all’estensione dell’universo, con i suoi miliardi di galassie in espansione. Non solo, in confronto a questa immensità, la terra è un infinitesimo nulla, ma lo è probabilmente anche la nostra ragione di cui andiamo tanto fieri. Un conto comunque è la conoscenza esteriore e un’ altro è la conoscenza interiore, quella del nostro cuore. Non facciamoci spaventare dalle dimensioni dello spazio esteriore: il vero e sacro spazio è dentro di noi. La vera saggezza è quindi nel conoscere sé stesso, è in questo che non c’è alcun limite. Paolo S. ...perché l’uomo è il solo animale pensante... Vittorio M. ...un animale che non deve però solo pensare, ma anche realizzare in sé un equilibrio fra la ragione e il fondo inconscio del suo essere. L’abbiamo chiamato “sentimento”, ma è come parlare della terra, solida, profonda, dal cuore di fuoco, radice del nostro essere, che ruota sia su sé stessa, sia intorno al sole. La perfezione di questo movimento, la luce del sole che ci illumina e permette lo sviluppo della vita, sono come l’immagine di quello che una ragione evoluta dovrebbe essere. Nello stesso modo la terra sarà immagine del nostro essere profondo, che la luce deve saper rivelare e fondere in sé, fino a quell’unità, a quella suprema consapevolezza che chiamiamo Dio... e che siamo noi stessi.

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INTEGRAZIONE NEL CENTRO DI NOI STESSI

Incontro n°2 del 14 aprile 2010 Nel dibattito sono intervenuti anche: Gerardo Palmieri, Silvana Olmo, Kendall Katze, Gualtiero Mocenni, Silvia Guerriero, Paolo Scarton, Giulio Rentocchini, Piera Goldstein Vittorio Mazzucconi Questo nuovo seminario, che ha preso inizio la volta scorsa, ha il titolo “Sentimento e Ragione”, e direi che è un titolo molto incauto. Vi ho accennato che l’ho adottato perché sempre, in tutte le mie opere, in tutti i miei scritti, in tutti i i miei pensieri, ho molto insistito sul rapporto fra il sentimento e la ragione, e questo in un mondo in cui una mentalità diffusa, oltre alla scienza e a un certo tipo di arte, alla tecnologia imperante e a molte discipline, va verso una direzione esclusivamente razionale. A fronte della civiltà materialistica che ne deriva e in cui viviamo, io mi riferisco da sempre a quell’altro lato della vita, che è la natura, il sentimento, il cuore, l’anima, che oggi è molto trascurato. Ci rendiamo però sempre di più conto che il sentimento deve essere di nuovo recuperato, sviluppato, per riequilibrare il mondo. Nasce e si sviluppa così un impulso a cui un sempre maggior numero di persone e di idee fortunatamente convergono, in varie forme, come la new age, l’ecologia, l’attenzione alle problematiche sociali, l’interesse alle religioni orientali ecc, ma non ancora al livello di un impegno generale, capace di trasformare la realtà in un senso spirituale. L’approccio dominante è pur sempre quello materialistico. Se qui ci fosse per esempio un filosofo, come ce ne sono stati in altri seminari, non ci aiuterebbe certo con la struttura teorica che si è sovrapposta al senso comune ed anche all’antico intento della filosofia che riguardava l’essere in armonia con sé stessi, il conoscere sé stessi, la propria anima, mentre oggi si cerca invece di districarsi fra la complessità delle idee stesse della filosofia, in un esercizio auto-referente e farraginoso. Nei dibattiti fra filosofi è raro sentir parla-

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re in modo autentico e creativo dell’uomo, mentre ognuno menziona cosa ha pensato tale o tal’altro filosofo, chi Hegel, chi Kant, o chi volete, come fossero i personaggi di un qualche spettacolo di marionette, che si fanno combattere una con l’altra. Il senso di questo combattimento è tuttavia del tutto oscuro e, in un esercizio puramente concettuale, sembra dimenticato proprio il fine della filosofia, che è quello del conseguimento di un’armonia in noi stessi. Questo senza voler diminuire, per carità, il valore di tante ricerche e dello sviluppo del pensiero nella storia della filosofia, ma solo per sottolineare l’importanza di ritornare, sia pure facendo tesoro dell’arricchimento che esso ha portato, a un nucleo di verità e di vita. Questo nucleo è nell’unione di sentimento e ragione. È come dire mettere d’accordo il cuore e la mente. Ora, accade questo: che il cammino fra il cuore e la mente è molto breve; però, volendolo percorrere, si rivela il cammino di tutta la storia, di tutta la vita, di tutto l’universo, con infinite valenze. È a causa di tale complessità che l’impegno di dedicare alcune serate a questo tema è molto incauto, e che ci troviamo adesso in un’impresa di estrema difficoltà. Sembra semplice di dire: ma si, c’è il sentimento da una parte, la ragione dall’altra, cerchiamo di metterli d’accordo. E, in effetti, l’accordo fra queste cose sarebbe la perfezione, l’unità dell’uomo, così come sarebbe altrettanto meravigliosa l’unità fra natura e civiltà, come lo è fra il femminile e il maschile, come lo è fra l’ombra e la luce; bastano questi accenni per vedere che sono infiniti gli aspetti della dualità che dovrebbero bilanciarsi e comporsi in un’unità. Tutto il loro insieme è poi come un grande ciclo, come lo è quello del giorno e della notte, e saremo portati a esplorare se anche il sentimento e la ragione non devono essere compresi in modo altrettanto ciclico. Per orientarci, vi avevo presentato nell’ultimo incontro uno specchietto...chi l’ha già visto mi scuserà ma bisogna ripassare ed estendere certe osservazioni a cui esso ci aveva condotti. Un’immagine archetipica che ci soccorre è quella dell’albero. (vedi tabella pag. 11) La prima osservazione che si può fare è che, rispetto al tronco, la parte superiore dell’albero e quella inferiore delle radici sono in qualche modo equivalenti. La parte superiore fa pensare alla ragione. Essa riceve la luce e poi ci fa pensare a un aspetto fondamentale della ragione, la divisione: ragione vuol dire divisione, fino ai limiti della frammentazio-

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ne e della specializzazione. La parte inferiore è invece quella delle radici, e possiamo assimilarla al sentimento. Un’altra cosa che suggerisce questo schema è che le due parti sono completamente speculari e che il tronco è il luogo della loro unione, come se ci fosse in noi il luogo di un equilibrio fra il sentimento e la ragione. A questo punto, dobbiamo accordarci su una certa terminologia: quando parlo del “sentimento”, non parlo affatto del buon cuore, dei buoni sentimenti, parlo proprio delle forze oscure che sono radicate nell’inconscio. Anche quest’ultima parola richiede un chiarimento, poiché si tratta di qualcosa di molto complesso: c’è l’inconscio personale, l’inconscio collettivo, c’è la natura, c’è l’oscurità della terra, tutto quello che non si conosce, ma anche tutto quello che ci nutre, e che si trasforma, attraverso la nostra vita e il nostro “tronco”, in un mondo diverso, sempre più illuminato, sempre più aperto, sempre più ramificato, come la chioma dell’albero. Questo insieme non deve però mai perdere il contatto con la parte oscura perché, altrimenti, un eccesso di luce nella parte superiore senza che ci sia un corrispondente apporto di umidità dalla parte inferiore, porterebbe a un inaridimento. Penso che sia proprio quello che accade nella civiltà di oggi, in cui abbiamo une netta prevalenza della parte razionale e troppo poco si parla dell’altra. In ognuno di noi c’è poi lo stesso bisogno di un riequilibrio; al di sotto del livello della nostra esperienza, quanti di noi conoscono la nostra parte inferiore? Essa vuol dire non solo la nostra ombra, ma anche la nostra profonda ricchezza, mentre guardiamo solo alla parte superiore e ai frutti superficiali che essa produce. In un’altra immagine, si fa un paragone fra l’albero e il corpo. (vedi tabella pag. 13) La prima cosa che ci colpisce è proprio che il tronco equivale al cuore. Vi ho già accennato, ma ne parleremo in modo approfondito in un’altra occasione, ai miei progetti di città, soprattutto per Milano, in cui è apparsa molto chiaramente questa identificazione del centro della città, il centro storico, con il tronco della grande pianta della metropoli che si è poi sviluppata tutt’intorno. Questo centro storico, questo tronco, è anche il cuore della città, è il cuore delle nostre memorie, il cuore del passato. Il tronco-cuore è quindi il nucleo centrale nel nostro modello. Guardando alla sua parte inferiore, dove ci sono le radici dell’albero, fino al seme, fino alla terra, e paragonandola al corpo umano, abbiamo visto

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qualcosa di analogo, con l’intestino, gli organi genitali e l’ano. Nella parte superiore, invece, corrispondente alla ramatura dell’albero, incontreremo il sistema cerebro spinale del corpo, insieme ai polmoni, alla bocca e alla testa. Si potrebbe studiare la corrispondenza di questo insieme con l’allineamento dei chakra ma, in questa sede, ci interessa particolarmente la simmetria, rispetto al tronco-centro dell’albero e del corpo, della loro parte superiore e di quella inferiore. Da questo punto di vista, come alla ramatura corrisponde la radice, così al cervello corrisponde l’intestino. È come se il principio della ramificazione che ha generato le radici e i rami di un albero si fosse sviluppato in una forma compattata, nella scatole cranica e nel ventre, generando gli organi corrispondenti. Il discorso poi è molto bello, molto complesso, se si passa dalla ramatura alle foglie, al fiore e al frutto. Si può tracciare un parallelo fra l’albero e il corpo, osservando che alle foglie corrispondono i polmoni, che respirano infatti per mezzo degli alveoli, come l’albero fa con le foglie, e poi attraverso la trachea si giunge alla laringe, si giunge alla bocca, e la bocca è un po’ come il fiore del nostro corpo. Dal fiore al frutto, come dalla bocca a tutta la testa, che può essere vista come il frutto di tutto l’organismo, testa che è agli antipodi della zona dell’ano. Abbiamo così schematizzato quanto già detto nell’incontro precedente, ma occorre qui sottolineare che, in questo percorso dal basso all’alto e viceversa, non è che la parte bassa debba essere disprezzata in nome di quella alta, come sembrerebbe suggerire un confronto fra la testa e l’ano. Non solo ambedue sono necessarie ma ci si può chiedere: nella pianta, cosa fa il frutto? Fa il seme e, con il seme, si ricomincia da capo. C’è una trasformazione della parte oscura in noi nella parte luminosa ma anche di questa nella parte oscura. Non si tratta quindi di un percorso fatto in una sola direzione, una volta per sempre, ma di un ciclo che continuamente si ripete. Se mi permettete una battuta, consentirete quindi anche a me di ripetere le stesse cose... In quest’altra immagine (vedi tabella pag. 14), oltre all’albero che diventa un corpo, si parla dell’anima. La prima cosa che si vede, sempre nella linea centrale, è che dove c’erano il tronco e il cuore, ci sono adesso il sentimento e la ragione uniti. Prima di giungere a questo punto di unione, di dove proveniva il sentimento? L’avevamo visto ai livelli precedenti, derivato dalla sensazione e,

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ancor prima, dalla nutrizione, così come la linfa viene dalle radici. E dove andrà, al di là dell’unione? Andrà indebolendosi a beneficio della ragione che invece si rinforzerà e renderà autonoma, sviluppandosi, ramificandosi nella divisione, nel linguaggio. Nello schema, c’è una simmetria fra le due parti, del sentimento e della ragione, mentre fra di loro c’è la zona aurea del loro incontro, della loro felice fusione. È lo stato in cui quello che diciamo, lo sentiamo profondamente, in cui l’artista – penso a una scultura arcaica – fa un’opera pregna di tutta la densità del mito. Il mito è un bellissimo esempio di quello che chiamo sentimento: è tutto quello che non è conscio e che corrisponde a un tesoro interiore che la ragione è chiamata a svelare, sviluppare ma non a negare o insterilire, come invece purtroppo accade.. In questa gamma, dicevamo, al di sotto del sentimento, troveremo l’eros e l’oscurità. È dall’oscurità che nasce la fiamma dell’eros, poi l’amore che se ne nutre e nutre, poi sensazione e sentimento, che giunge a un equilibrio con la ragione nel luogo del cuore, del tronco, e poi dopo si divide e giunge infine alla fine del suo ciclo. L’albero non può crescere al di là di una certa dimensione, l’estensione della sua ramatura rende sempre più difficile l’afflusso della linfa, l’albero muore e, nello stesso modo, muore il corpo umano. Cosa accade invece dell’anima? Ne abbiamo parlato tanto nel seminario Arte e Psiche1, seguendo la vicenda dell’amore che, all’inizio, unisce – quando uno è innamorato tutto è fuso in lui, in un’unità vitale – ma subito dopo o molto dopo, dipende dai tempi, questa unità si divide. La ragione comincia a pensare, paragonare, distinguere, dubitare, si confrontano punti di vista diversi; più si sviluppa il linguaggio e più ci si divide, e molti amori finiscono così, proprio in questo modo. Qui si ipotizza che, dopo questa divisione, non solo fra due persone ma nella ragione stessa, nel linguaggio, nasce una nuova e grande possibilità. Nel seminario, seguendo il percorso di tanti amori, tutti giunti in un modo o nell’altro alla loro fine, l’abbiamo identificato con quanto si narra nei miti, storie della mitologia che mostrano le varie personificazioni dell’amore, finché siamo giunti al mito di Psiche in cui si vede come un amore che sembrava estremamente infelice ritorna all’unione perduta, non però su un piano ordinario ma solo e in quanto Psiche viene assunta fra gli Dei. Cioè l’anima umana – dopo aver sperimentato in mille modi l’impulso all’unione, sia con il sesso opposto, sia in altre forme offerte dalla vita – quando giunge alla delusione che è insita nel ri-

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cercare la felicità fra le cose terrene, si volge sempre di più a una verità interiore, alla cui luce scopre finalmente la divinità insita in noi stessi. Il primo approccio di questo sviluppo è proprio l’intuizione, che nel nostro schema viene associata alla respirazione, ai polmoni, alle foglie. Il fatto di respirare è sinonimo di vita, più di ogni altra cosa; il suo primo movimento è l’inspirazione, ed è altrettanto importante nella vita dell’anima: non per nulla si dice di un poeta che appunto è ispirato, respira in sé non solo l’aria, ma lo spirito, il pneuma. Questa ispirazione, questa intuizione, in che modo si esprime? Si esprime con la parola, ma non è più il linguaggio che è un’arma della separazione, della divisione dell’uomo, ma è la parola come espressione dell’anima, cioè la parola del poeta, la parola del santo, la parola interiore. Percorrendo questa strada, si perviene alla conoscenza. Abbiamo paragonato prima il frutto dell’albero alla testa del nostro corpo ma, se parliamo dell’anima, il suo vero frutto è la conoscenza. Non parlo della conoscenza scientifica, della ragione che scopre e formula delle leggi, ma della conoscenza totale, quella dell’anima, che viene appunto dall’intuizione. Nel nostro schema, noteremo che la conoscenza e l’oscurità sono complementari, simmetriche rispetto al centro. Poiché la conoscenza è sinonimo di luce, non c’è da meravigliarsi di questa corrispondenza, che ci parla sempre della stessa e meravigliosa ciclicità. Non lo vediamo forse tutti i giorni con i nostri occhi che la luce nasce dall’oscurità e l’oscurità dalla luce? Che cos’è l’amore? Ne abbiamo parlato molto nell’incontro precedente, in particolare con la lettura della tabella a pag. 16 secondo le sue linee orizzontali. Sommando gli elementi di ogni linea, si giungeva sempre allo stesso risultato, che è l’amore: l’amore in tante gamme. Ne abbiamo parlato, ti ricordi Paolo?: l’amore più basso che è semplicemente una forza della natura che vuole emergere dalla terra come un filo d’erba che spunta, è una forma di amore, un atto di nascita; dopo, con l’eros, l’amore che vuol venire fuori come se sgorgasse, come un seme, uno sperma, come un bocciolo che sboccia; e poi si giunge all’amore che nutre e si nutre; e poi all’amore completo, umano, dove il sentimento e la ragione sono uniti, in equilibrio. Dopo abbiamo visto l’amore che si divide e, ancora dopo, l’amore che al di là delle delusioni aspira a un livello superiore, e quindi fiorisce proprio come fiorisce un fiore e si realizza in un senso mistico, dove il fine dell’uomo non è più quello dell’amore

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fra uomo e donna e tanto meno quello della divisione insita nello sviluppo della ragione. È il livello successivo, lo stesso di cui parlavo a proposito di Psiche, che si riunisce a Eros, ossia all’amore stesso, al livello divino che finalmente l’anima riconosce come la sua vera natura. Stasera dovremmo allargare l’incontro ad altri argomenti, ma insisterei su un’idea centrale. In qualunque forma lo si veda, l’amore è la forza che spinge all’unione. Noi viviamo in uno stato di disunione, di frammentazione, ma l’amore è qualcosa che riunisce, sempre. Il riunire porta all’unità, l’unità è Dio, Dio è il punto di partenza della divisione e il punto di ritorno. Suggerisco così un’interpretazione della vicenda della condizione umana e del senso che possiamo dare al suo percorso, ma non vorrei riaprire la discussione che è esplosa l’altra sera fra credenti e non credenti. Lasciamo questa questione da parte e vediamo se ci sono altre cose che vi hanno colpito nei vari passaggi a cui ho accennato, in modo da cominciare un utile dibattito.

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DIBATTITO

Gerardo P. Questo schema è tuo o ha qualche reminiscenza filosofica...? Vittorio M. Assolutamente no! È il frutto del mio piccolo lavoro, un lavoro che era partito dalla mia esperienza in cui il sentire è tutt’uno in me con il pensare: Io sento sempre tutto insieme, unito, questa è la mia natura. D’altra parte, è proprio l’assunto del seminario che il sentimento e la ragione debbano essere uniti. Tuttavia, per potervi comunicare questa unione, mi sono imbarcato malgré moi in un’impresa raziocinante al massimo, e ho quindi finito col produrre questo schema, che è articolatissimo e a cui all’inizio proprio non pensavo. Kendall K. Io ho due pensieri: il primo si rifà alla prima immagine, il disegno dell’albero. (vedi incontro n.1 tabella a pag. 11) Quando ho visto questo, io, che lavoro nell’insegnamento, ho subito pensato al cervello, al corpo calloso che condivide entrambe le parti, la parte razionale e quella emotiva, il che è completamente in linea con questo schema. La parte dell’inconscio nel mondo in cui viviamo è molto trascurata, perché noi siamo molto fissati sul razionale. Trovo il tuo schema perfettamente in linea con questo collegamento, e poi anche quando vai avanti e descrivi la parte dell’oscurità, possiamo anche qui vedere che l’oscurità è l’inconscio. Poi si può pensare anche alla contrapposizione tra emisfero destro, parte creativa, e sinistro, parte razionale, del cervello, che sono bilanciati. Silvana O. Sì, l’emisfero sinistro, quello dominante, è la razionalità, l’emisfero destro è quello più intuitivo, legato all’arte…

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Gerardo P. Scusa, prima che si vada avanti, vorrei chiedere: tu, quando hai scritto testa, intendevi cervello, quindi quello che dice lei è giusto? Vittorio M. In realtà la cosa è più complessa, poiché il cervello l’ho paragonato alla ramatura, come vedete è qui indicato come “sistema cerebrospinale”. (vedi incontro n.1, pag. 13) La natura ha creato le piante, l’albero, ovvero un modo naturale per far salire le linfe, le energie della terra ma poi, perché l’evoluzione potesse procedere, occorreva che diventasse pensante, e allora negli animali la ramatura si è per così dire compressa per entrare dentro una scatola cranica ed è diventata il cervello. Come parallelamente la parte delle radici, è diventata l’intestino… non so, se ci fosse un medico qui presente, se sarebbe d’accordo…… Silvana O. Cervello ed intestino spesso sono associati in realtà… Vittorio M. Ecco, esattamente: hanno tutti e due queste circonvoluzioni e sono molto simili, ovviamente nei limiti di un’associazione di idee. Quando poi parlo della testa è un altro discorso. A parte la funzione del cervello, la testa è in qualche modo il frutto di tutto il corpo: non contiene solo il cervello ma anche gli occhi, la bocca, le orecchie, è la sede della personalità: i nostri corpi sono tutti uguali ma i nostri volti sono tutti diversi, ognuno unico, come espressione appunto della personalità individuale. Quindi in questo senso si intuisce – perché io parlo di “intuizione”, non ovviamente di osservazioni scientifiche – che la testa è il frutto del corpo, diciamo la parte più importante di noi. Essa prepara poi al passaggio seguente, quando si parla di anima, che è quello della conoscenza. Però, anche qui, come ho distinto la testa dal cervello, così distinguo la conoscenza profonda dell’anima dalla conoscenza scientifica, razionale, che è un’altra cosa: cioè il “conosci te stesso” in cui consiste la vera conoscenza umana, si riferisce alla conoscenza interiore, esoterica, profonda, e non alle conoscenze di stampo pratico, scientifico, culturale, anche estremamente elevate ma che trascurano sempre l’altro lato, ossia la radice.

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Silvana O. A me viene in mente un’altra immagine: quando Buddha raggiunge l’illuminazione, appoggiato all’albero di sughero, nella posizione del loto. Lui appunto ha la conoscenza, come dici tu, di tutto sé stesso ed è esattamente allineato con l’albero. E allora qui la metafora diventa ovvia. Vittorio M. Esattamente, giustissimo. Gerardo P. Però il Buddha saggio è quello disteso, non quello appoggiato all’albero. Il “Buddha perfetto”, quello di Bangkok, è dormiente. Vittorio M. Stai parlando di una statua, una rappresentazione, ma il senso di quello che voglio dire è più vicino a quello che dice Silvana: l’associazione dell’albero al Buddha è molto profonda. Tra l’altro, Buddha disse una cosa molto bella, non so se in quell’occasione o in un’altra: “quest’albero diventerà un giorno un Buddha” Questo è molto vero: quando si parla di minerali, animali, vegetali e uomini, si tende a pensarli in modo rigidamente separato o al massimo a collegarli in una scala evolutiva, ma io penso che sostanzialmente siamo tutti lo stesso essere nel processo di liberare “sé stesso”. Un processo che sembra avvenire nel tempo – “un giorno”, dice Buddha – ma che è immanente nell’essenza, nell’essere insieme albero, Buddha e tutti noi.

Anima e spirito Kendall K. Io vorrei andare avanti riferendomi all’immagine successiva (vedi incontro n.1, pag. 16) dove, per la prima volta in vita mia, ho visto separate l’idea di anima e quella di spirito, e questo mi intriga molto, perché per me sono sempre state due parole coincidenti, e quindi apre in me una bella domanda, è una bellissima novità. Gerardo P. Ma sono due cose diverse!

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Vittorio M. Non sono due “cose”, sono due intuizioni… Gerardo P. È la differenza tra “soul” e “feeling”, che sono due cose diverse: il feeling è lo spirito, mentre tutto quello che può essere l’emozione…. Vittorio M. Ma feeling non è l’anima? Gerardo P. Ecco, vedi, abbiamo già due intuizioni diverse,…. Vittorio M. In realtà possiamo sbagliare tutti e due: sono due pensieri che nessuno ha mai saputo esattamente distinguere perché nessuno sa esattamente cosa sia l’anima o lo spirito. Tuttavia, è intuitivo che tra la nostra esistenza materiale, terrestre, e lo spirito che è sinonimo di divinità, ci sia una situazione intermedia che è quella dell’anima anche se, ripeto, nessuno ha mai saputo esattamente cosa fosse. Io tendo a considerarla come una sorta di corpo intermedio, o come un veicolo. Se vuoi, per transitare allo spirito, abbiamo bisogno dell’anima come di una navetta, che ci porta continuamente nell’aldilà, poi ci riporta nell’al di quà, poi di nuovo nell’aldilà e così via, come fosse un viaggetto fra terra e luna, fino al giorno in cui si spicca il volo e si va più lontano, per esempio verso il sole o un’altra dimensione. Ovviamente, non è che un’immagine ma in essa c’è qualcosa che ci può guidare in questa distinzione fra anima e spirito. Le facoltà dell’anima sono le facoltà del sentimento, dell’intuizione, fino alla fioritura della conoscenza. Lo spirito invece, come ho indicato nello schema, conosce essenzialmente l’amore. In esso, ho scritto fra parentesi, anzi ho “tradotto” l’amore nelle forme corrispondenti e divise della nostra esperienza psico-fisica, ma lo spirito è solo amore, è la pulsazione dell’universo, è la pulsazione dell’unità, è come un immenso respiro. Molti filosofi e poeti hanno capito che l’amore è la sostanza di tutto, anche se il concetto è molto difficile da definire. Noi conosciamo l’amore in tante forme: amore è quello di un uomo per una donna, amore è anche il mangiare, amore è qualcuno che si sa-

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crifica, è l’artista che fa la sua opera, è amore del prossimo o anche di sé stessi….Amore è tutto quello che dà e che anche riceve, e qui in qualche modo, ne abbiamo parlato l’altra volta, si può provare non a separare, poiché così facendo andremmo contro lo scopo di questo seminario, ma a capire come tutte queste cose – tronco che è il cuore, sentimento che porta all’amore, ramatura che porta al cervello, che porta alla ragione – trovino infine il loro ricongiungimento nell’amore. Come dicevo prima, ci sono diversi livelli di amore: c’è l’amore a livello oscuro, c’è l’amore a livello altissimo, e via via ci sono amori che corrispondono alle varie fasi e necessità, come il bisogno di esprimersi, di nutrirsi, di legarsi, anche di dividersi. Per arrivare all’unità occorre passare anche attraverso delle divisioni, come l’albero deve necessariamente dividersi in tutta la ramatura, tutta la chioma, altrimenti rimarrebbe un pezzo di legno. Quindi, in tutte queste cose, assistiamo allo svolgimento attivo del logos, dello spirito se vuoi, che si manifesta nelle varie forme della vita. Gerardo P. Comunque è una nuova teoria filosofica. Io vedo però l’anima più come un’entità spirituale, cioè l’anima umana è un concetto universale, che non ha niente a che fare con lo spirito, che è invece l’applicazione pratica, contingente, concreta, delle emozioni, dei sentimenti. L’anima è un’entità più astratta, assolutamente spirituale, lo spirito, invece, è più concreto… Vittorio M. Perdonami, ma direi proprio il contrario…poi guarda come lo definisce anche la Chiesa, come “spirito santo”, è tutt’altro livello rispetto a quello che dici.. Silvana O. Se posso intervenire, il primo che parla di questa tripartizione è San Paolo, in una lettera, se non ricordo male, ai Corinzi, in cui menziona “il corpo, l’anima e lo spirito”. Per i Greci l’anima veniva indicata con il termine “psiche”, che significava però anche “farfalla”. Vittorio M. Che bella associazione! Ad essa ne hanno seguito molte altre, per rendere per finire molto complesso quello che oggi noi intendiamo per psiche o per anima. Ne potremo parlare un’altra volta, a proposito del quadro che è dietro le mie spalle e che è il logo di questo seminario.

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Silvana O. L’anima era un po’ come dire la personalità, quella che noi pensiamo che in qualche modo possa evolvere, mentre lo spirito – io ripeto quello che diceva San Paolo – è qualcosa che è divino, che ci viene donato. Vittorio M. San Paolo diceva la cosa più giusta, poi anche la citazione dei Greci ci aiuta, ma il concetto è lo stesso, tradotto in tante forme. Anche nella storia di Psiche di cui parlavo prima, l’anima che è assunta fra gli Dei giunge al livello dello spirito. L’anima è una situazione in qualche modo intermedia fra il corpo e la divinità, è una situazione in fieri, ed infatti noi crediamo che si reincarni e proceda lungo un suo percorso evolutivo, e che questo consegua il suo scopo quando, giungendo alla sua piena realizzazione, scoprirà di essere spirito. È un passaggio: si può pensare all’anima come a un passaggio dal corpo allo spirito, ossia dal nostro essere uomini “part-time”, qui e ora, entro le limitazioni imposte dalla nostra condizione fisica e temporale, al nostro essere uomini, forse domani, nella completezza, nell’unità divina che è appunto lo spirito. Gerardo P. È Caronte che ci da un passaggio…. Vittorio M. ...no, parlo di un altro percorso; non stiamo andando all’inferno, a cui poi io non credo. Chi ha avuto la pazienza di seguirmi nel seminario Arte e Psiche1, ha visto tante di quelle immagini di Caronte e degli Inferi…perché questa è la situazione dell’oscurità di cui abbiamo parlato tante volte. Però io la vedo sempre come qualcosa di ciclico: dall’oscurità rinasce la luce, e infatti anche Dante, se ci fai caso, quando è ormai sceso fino nel fondo dell’Inferno, stranamente, senza neanche rendersi conto perché, si rovescia e inizia a risalire. Gerardo P. Allora quando si dice “l’animo umano è tale che…” cosa si intende? Vittorio M. Non capisco ma ho comunque appena detto che non lo si sa bene, si è parlato per molti anni, anzi per millenni, dell’anima, di cui secondo i tempi si sono date accezioni diverse.

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Gerardo P. Una volta si pensava che fosse solamente vento, anemos come dicevano i Greci... Vittorio M. .. un soffio che, appunto, “anima” i corpi. Si è poi pensato che gli animali non avessero un’anima, quando invece nella parola stessa “animali” essa è ben presente… Non credo comunque che il concetto si possa chiarire più di quanto abbiamo fatto finora; concepiamo l’anima come un movimento, come la parte più profonda di noi stessi, un quid che abita il nostro corpo e che tende allo spirito. Sarebbe forse corroborante di parlare invece adesso del corpo, della materia... Dando però prima un’occhiata di insieme al tema del seminario, pur spaziando anche in altri argomenti, non ci allontaneremo troppo dallo schema che vi ho proposto. Io in fondo sono un architetto, e ho costruito questa struttura come un palazzo dove vi sono tante stanze ed ognuna è in comunicazione con le altre. Si può prendere l’ascensore per salire e scendere lungo le parti verticali, mentre, ai piani, ci si muove orizzontalmente.. Mi piacerebbe che voi visitaste anche altre stanze di questo mio palazzo….per esempio, il rapporto tra i polmoni e l’intuizione, o quello tra l’intuizione e la ragione. Consideriamo la ragione come qualcosa che si costruisce e consideriamo invece l’intuizione come qualcosa che viene captata. La costruzione si farà dal basso, come un muro o come la linfa che sale in un albero, mentre l’intuizione sembrerà captare qualcosa che viene dall’alto, come la luce, non sarà il risultato di un ragionamento. Siete d’accordo?

L’intuizione Silvana O. Assolutamente sì. Vittorio M. E questo lo vedi negli artisti, ma anche nei grandi fisici, nei filosofi, così come in ognuno di noi.

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Silvana O. Ma certo! Banalmente, credo capiti a tutti di dimenticarsi, che so, il nome di un attore o di un’attrice e dire “non ci penso, così poi mi viene in mente”. Cioè tu parli d’altro, stai facendo altro, e improvvisamente pum! ti arriva l’intuizione. È un esempio, chiaramente, ma non lontano dal famoso Eureka! di Pitagora, che non stava assolutamente pensando alla sua geometria sacra, quando gli è venuta l’intuizione mentre era nella vasca... Vittorio M. L’intuizione mi sembrerebbe un’altra cosa. Ritornando alla caverna di Platone, siamo nella sua oscurità e vediamo delle ombre che ci sembrano realtà, anche se sono solo delle ombre. Siamo chiusi in questa percezione del tutto erronea della realtà e non vediamo quello che c’è fuori della caverna. Allora uno può immaginare cosa ci sia fuori, o ne vede un vago riflesso, o scorge uno spiraglio, ed ecco appunto che si forma l’intuizione che esiste una realtà più grande. La religione è in gran parte frutto dell’intuizione. Silvana O. Io non lo vedo tanto così, Vittorio: secondo me l’intuizione può essere a vari livelli, però avviene quando uno si interroga su qualche cosa: può esserci il desiderio di fare un’opera d’arte, o di scrivere un libro di filosofia o che, e poi improvvisamente l’intuizione ti porta a farlo, ti arriva come se non ti appartenesse… Vittorio M. Sono d’accordo. Gerardo P. Ma quello è più intuito o ispirazione. C’è differenza tra l’intuito e l’ispirazione. Silvana O. Forse sì, hai ragione. Vittorio ha messo insieme ispirazione ed intuizione… Vittorio M. Li ho messi insieme nello schema anche se corrispondono a diversi livelli. Ci può essere l’intuizione di fare un buon affare, però, se parlo di

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ispirazione, mi riferisco chiaramente a un altro livello. L’intuizione di un poeta non riguarda un affare, riguarda la visione di una realtà spirituale. Diciamo che, comunque, l’intuizione è un mezzo non razionale per captare qualcosa di non conosciuto, che può variare dal livello più basso a quello più alto. Lasciando perdere il livello più basso, che è quello del “fiuto”, permettetemi di associarla alla respirazione e particolarmente al canale del respiro. L’uomo che intuisce e che anzi è ispirato, diventa in verità come un canale, attraverso il quale, come in un flauto, si esprime lo spirito. Kendall K. Nella discipline orientali, per esempio nello yoga, la meditazione con il respiro, quindi con i polmoni, è la linea chiave per tutto. Per questo quello che dici è molto interessante, perché è dal respiro, dal fare un’ispirazione--espirazione che arriva tutto, tutto... Vittorio M. Esattamente, esattamente. Gerardo P. E l’albero respira l’ossigeno attraverso le foglie. Vittorio M. Esattamente. Vedi infatti che le foglie fanno pensare ai polmoni, e quindi all’intuizione e all’ispirazione, e che questo ancora una volta ci porta al livello spirituale, che è amore, come se esso entrasse per osmosi in tutto, proprio per mezzo del respiro. Dare-ricevere, nascere-morire: questo è il movimento dell’amore, come quello del respiro. Quindi, giustamente, lo yoga mette l’accento su questo. Kendall K. Tutto quello che dici è in linea con lo yoga. Penso a Shakti, che è anche la dea della conoscenza, della musica, dell’arte, e al sanscrito, la lingua sacra di cui basta solo pronunciare una parola per cambiare la realtà. Quando si parla in modo puro si può veramente trasformare il mondo, così come le parole di basso livello possono peggiorarlo. Il linguaggio cura, se nasce dall’amore, l’amore che “fiorisce” come dici tu. Questo è assolutamente vero.

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La cosa bella di tutti questi seminari è che essi sono in linea tanto con il cristianesimo quanto con le religioni orientali. Così, si costruisce un ponte che collega questi diversi movimenti spirituali, che nascono tutti dalla verità. Il tuo pensiero è perfettamente in linea con questo. Vittorio M. Sono contento che sia così. Silvia G. Adesso vorrei dire qualcosa sulla materialità...(clamore)... In questo discorso sull’intuizione, vorrei sottolineare come si progredisce perché, appunto attraverso l’intuizione, gli scienziati arrivano alla definizione di alcune leggi, che poi si dimostrano giuste, vero? Vittorio M. Sì, abbiamo detto che l’intuizione è a diversi livelli… Silvia G. Ecco, appunto, ed io sto adesso parlando dell’intuizione che porta poi verso il progresso della scienza. Gerardo P. È più un’invenzione… Silvia G. Non è un’invenzione, perché secondo me si ha un’intuizione che esista qualche cosa e ci lavori sopra, altrimenti non si sarebbe scoperta la gravità, il movimento, o anche la “particella di Dio” di cui si sta parlando attualmente.

L’ispirazione Gualtiero M. A questo punto, anche l’ispirazione non ha significato. Vittorio M. Perché?

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Sentimento e ragione

Gualtiero M. Io, da scultore e pittore, sono convinto che l’ispirazione non esista. Sicuramente, quello che noi chiamiamo ispirazione, non è altro che il risultato di di una continua, giornaliera fatica, di una vita intera di esperienza. Non è quello che ci hanno fatto vedere nei film su Michelangelo o anche quando dicono che un giocatore di calcio certe volte era ispirato... Se guardiamo a questo o al ruolo di un artista, ci sono delle giornate positive e altre no, ma l’ispirazione che improvvisamente crea e un secondo dopo no, non esiste... Vittorio M. Ti posso rispondere? Ti può dare ragione Stravinski che diceva che l’ispirazione è quella cosa che viene mettendosi sul vasino ogni mattina andando in bagno, ci vuole ispirazione anche per quello, sono d’accordo con te nello sdrammatizzare l’ispirazione, però fino a un certo punto. Kendall K. Capisco che sei scultore e che quindi cominci la tua opera con un rapporto con la materia, ma non è che hai una visione, che intuisce un’immagine di quello che farai?. Gualtiero M. Non lo so, mica dico “eureka”, non mi sono mai trovato con un’opera fatta senza sapere perché l’ho fatta. Vittorio M. Perdonatemi, vorrei rispondere a tutti e due, sono cose vere entrambe. Io credo molto alla pratica quotidiana, al lavoro, al colpo di scalpello giusto che genera la forma giusta ecc. però tutto questo è quello che viene dalla realtà, dal tuo corpo, dalla tua forza, da quello che tu sai fare ma, tornando all’albero, non c’è forse anche la luce che viene dall’alto, senza la quale l’albero non potrebbe vivere?.. Gualtiero M. Io volevo chiederti una cosa, ma perché fai tutto questo parallelo con l’albero?

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Vittorio M. È il senso di tutto questo discorso. Quando tu ti fondi sul tuo lavoro, sulla realtà dell’operare, è come se guardassi alla radice dell’albero, di cui sei il tronco, costruito con tutta questa energia che viene dalla tua terra, da Pola, dalla pietra che lavori. Però l’albero non vive solo di questo, vive anche di quello che gli viene dall’alto, vive della luce, dell’atmosfera, della fotosintesi clorofilliana...questa in qualche modo è un’immagine delle due forze, c’è la forza della terra e c’è la forza del cielo... Gualtiero M. ...un esempio, un uomo gli taglio le gambe, vive, gli taglio la testa muore. L’albero gli tagli i rami non muore, gli tagli il tronco, ricresce... questo parallelo fra l’uomo e l’albero non regge Vittorio M. I paragoni vanno sempre presi con un grano di sale, ma io trovo che un artista che rinuncia all’ispirazione è come se appunto si tagliasse la testa...(brusii di approvazione)...insomma, senti, non posso immaginare che un artista prescinda dall’ispirazione. Che cos’è l’ispirazione? Capisco che tu pensi solo ai problemi della tua arte, alla materia, a quello che tu conosci, a quello che vuoi rappresentare, ma la parte in te che agisce usando questi mezzi, lo scalpello, la matita, il pennello ecc. mette questo al servizio della parte più profonda, più vera di te, chiamiamola anima, giusto? Uno lavora per esprimere la propria anima. E oso dire che quando questa anima va al di là di uno stato di feeling personale e giunge a un livello superiore come quello che viene attinto dalla grande arte, dalla mistica, dalla metafisica, tutto questo mi fa parlare di ispirazione, al punto che un vero artista, quando ha fatto un’opera, non dirà “Io ho fatto quest’opera” ma: “quest’opera, fatta attraverso di me, è l’opera dello spirito”, se è una vera opera d’arte e se è un vero artista. L’artista è stato l’esecutore, è stato lo scalpello, è stato il pennello, ma l’intento, il senso di tutto questo è spirituale. Gualtiero M. ...se vogliamo chiamarla ispirazione..., ma è il risultato di un continuo lavorare, di continue scoperte che fai giornalmente, ma tutti pensano a quello che hanno visto nei film di Michelangelo e così via, Michelangelo era un uomo che lavorava sodo e sapeva benissimo...

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Sentimento e ragione

Vittorio M. ma nessuno trascura questo, ti ho citato Stravinski, però non devi tu, sulla base di questa consapevolezza del lavoro materiale, negare l’altro aspetto, ci sono tutti e due, c’è la terra e c’è il cielo... Gualtiero M. Un’altra cosa che mi è sembrata, è che qui si sono divise le radici dal resto, la notte dal giorno come un concetto negativo, mentre solo l’altro sarebbe positivo... Il bianco è positivo, il nero è negativo. Vittorio M. Non ho detto questo (voci di approvazione) Gualtiero M. E poi l’amore e l’odio sono due concetti. In generale, si pensa che l’amore sia un concetto positivo e l’odio uno negativo. Vittorio M. Non ho proprio parlato di odio. Quando si è parlato di positivo e negativo, nessuno ha evocato l’odio. Non si è mai detto che la radice è negativa e che la ramatura dell’albero è positiva, abbiamo parlato di un ciclo; se immagini che le cose vadano dal basso all’alto o viceversa, è un ciclo. Si suol dire che dal male nasce il bene Io non credo al male in assoluto, la parola odio non l’abbiamo mai pronunciata. Se l’amore è tutto quello che unisce, certo quello che allontana dall’amore è un momento che sembra più negativo, però fa parte di un ciclo che lo porterà poi a suo turno al bene e perfino a un bene più grande. Poi non bisogna dividere: vedi, anche il rapporto fra il lavoro che viene dal basso, il lavoro onesto che ti piace tanto, lo sforzo di progredire e questa ispirazione che rifiuti è tutt’uno, non si può separare le due cose e dire “è solo ispirazione” ma neanche “è solo scalpello”, no, l’arte sarà proprio la loro unione, riuscita miracolosamente in qualche momento, in altri meno; è proprio l’unione fra sentimento e ragione, intendendo per sentimento tutto quello che viene dal cuore, quindi anche dai visceri, quindi anche dalla radice, quindi anche dalle palle. È questo sentimento che paragoniamo alle radici dell’albero, ma c’è anche l’altra parte, non solo tutto sale ma c’è un movimento di qualcosa che sale e qualcosa che scende. la vera arte è Il loro incontro...

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Gualtiero M. Se un giorno faccio un quadro con una grande componente lirica, un altro giorno non ce l’ha, ma non è una questione di ispirazione, è una questione di scelte se tu sai quello che fai... Vittorio M. No, qualche volta tu non sai quello che fai, scusa, non parlo di te ma di una cosa generale, ma non è che questa sia una menomazione, semplicemente quello che viene dalla parte più profonda di noi non è ancora giunto a un livello di consapevolezza razionale. Tutto quello che istintivamente c’è in te, finché non giunge a tale livello, non lo sai, ma è bene che tu non lo sappia perché, se tu lo sapessi, verrebbe una roba artificiale. Un artista non può mettersi a fare un quadro, dicendo “voglio fare questo o quest’altro”, lo fai perché il tuo animo ti porta a questo, giusto? Gualtiero M. Durante la lavorazione di un progetto ci possono essere degli interventi, ma non li chiamerei ispirazione Kendall K. Eppure molti artisti dicono che hanno scritto o composto le loro canzoni quasi sotto dettatura, ci sono poi idee che si affacciano alla tua mente come a quella di altri, idee che sono nell’aria e che vengono colte da qualcuno, appunto se ne sei ispirato... Vittorio M. Insomma, abbiamo un artista che nega l’ispirazione. Ne prendiamo atto, abbiamo discusso su questa opinione, ma non dobbiamo perdere di vista il senso generale di questo incontro, che verte sul rapporto fra sentimento e ragione. Lo stiamo qui vivendo anche come il rapporto fra la parte nativa, sorgiva di noi, strutturata, forte ecc., come quella del nostro amico scultore, e una parte che le è superiore, che non è però a fuoco. Non sto parlando solo della ragione che accompagna sempre l’opera anche dell’artista più istintivo, ma dell’intuizione di un livello più elevato, che l’ispirazione può suggerire, donando all’opera un afflato di vita.

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Sentimento e ragione

Giulio R. Io ritengo impossibile non ricevere una vera intuizione e definirsi artista...per definizione un artista vive di qualcosa che appartiene all’intangibile, che può diventare reale attraverso... Vittorio M. ...quello che cerca di esprimere...Abbiamo tutti questa opinione salvo l’artista. Ma passiamo a un altro argomento. Tu Silvia, non volevi dirci qualcosa sulla materia? Silvia G. Possiamo assimilare l’intuizione alla ragione? Non è questo un seminario sulla ragione e il sentimento? Quindi, anche nell’evolversi dell’umanità da un punto di vista scientifico, materiale, è chiaro che anche uno scienziato, se non ha prima un’intuizione, un’ispirazione, non può lavorare, quindi non dicevo affatto qualcosa che la nega in nome di un principio materialistico. Vittorio M. In tutto il primo seminario, che si chiamava “Il Lavoro Spirituale”2, ho cercato di spiegare cento volte che cos’è il lavoro spirituale, dicendo sempre: attenzione, è il lavoro materiale, è proprio il lavoro pesante nella vita, nella natura, nella realtà, fatto però con un intento che cerca di andare oltre, sia pure attraverso la materia, la conoscenza e ogni altra cosa. Lo stesso vale per l’intuizione; essa è il captare qualcosa che è davanti a te ma che la ragione da sola non vede, perché ragione e intuizione non sono proprio la stessa cosa come dici tu. Questo qualcosa può essere oggetto di intuizione sul piano economico, su quello scientifico ecc. perché fa parte del mondo e del lavoro reale, però questa stessa strada, se riesci a orientarti in un senso spirituale – e l’ispirazione è questo orientamento – ti può portare alle più alte sfere. L’intuizione ti conduce per mano dall’intuire un buon affare fino alla grandissima opera d’arte e oltre. Silvia G. Non guardare però solo al breve tratto della vita di un uomo, ma all’intero percorso, dai primordi fino ad arrivare ad oggi, in cui si parla addirittura della particella di Dio. (brusii) Io penso che tanto il

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sentimento quanto la materialità e anche la spiritualità portino alla stessa cosa. Vittorio M. Certamente. Paolo S. È la relazione fra le persone che porta a questo progresso. Giulio R. La relazione fra le persone e l’intuizione ne sono le chiavi. Gualtiero continua a insistere che questa intuizione non può nascere se l’artista non fa, non lavora... Vittorio M. Ma insomma...è come se tu dicessi: ma guarda, per costruire un edificio occorrono delle fondamenta, senza fondamenta non si può ecc. ecc. Lo sappiamo tutti, però tu continui a insistere che, oltre alle fondamenta, non c’è null’altro. No, esiste anche il resto, eccome, ed è solo in virtù di questo che ci interessano le fondamenta. Quando Dante fa la Divina Commedia, parte dalla realtà del suo tempo e costruisce in rima, verso dopo verso, lo stupendo edificio della sua interpretazione, ma questa segue un’ispirazione, un intento spirituale altissimo. Sulla stessa base un altro avrebbe detto delle banalità. Giulio R. Io parlerei anche di un altro aggettivo, che è l’emozione. L’intuizione si associa all’emozione. Se ci allarghiamo al discorso sulla relazione, intuizione e emozione sono fondamentali Vittorio M. Non per nulla, vedi che nel mio schema, intuizione e eros sono simmetrici. È l’eros che porta l’emozione, la passione, il fuoco, anche se l’intuizione che colloco in uno dei gradini più alti, come la porta della conoscenza superiore, sublima questo fuoco. (pausa)

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Sentimento e ragione

Nessuno dice niente? È vero che è da saggi ascoltare e non parlare, ma non bisogna neanche essere troppo saggi... Piera G. Penso a Kandisky, allo spirituale nell’arte, quel libro stupendo che ha scritto e che è assolutamente in linea con quello che hai detto. Lui vede proprio questa dimensione come l’alternativa a una civiltà che è tutta strutturata sul discorso della ragione e della scienza, a fronte di un’arte non più valida come valore assoluto...è molto, molto interessante questo dibattito. Giorgio F. Secondo me, la cosa su cui riflettere è il tentativo di trovare questo equilibrio fra sentimento e ragione. In diverse epoche si è vista la prevalenza dell’uno o dell’altra, i classicismi teoricamente hanno dato più importanza alla ragione, però ci sono stati esponenti che hanno cercato di riequilibrare questa tendenza. Canova parlava della bellezza secondo ragione ma le sue sculture temperano la freddezza del neoclassicismo con una sensibilità emotiva. Altre volte, come nell’arte romantica, in cui l’accesso alla dimensione più emotiva, al sentimento, ha aperto una finestra sull’assoluto, c’è stato chi ha portato un contributo più razionale. Alla fine, in realtà, io credo che ci sia un equilibrio da trovare fra ragione e sentimento, fra spirituale e materiale. Certo, il saper vedere è anche un saper fare, è sempre connesso, anche la stessa nozione di stile – la parola stile viene da stilus, lo strumento per scrivere – ci riporta a qualcosa di materiale attraverso cui ognuno può esprimere un suo contenuto. Allo stesso modo, nella scienza, questa famosa intuizione è un saper vedere, che viene dall’esperienza pratica, ne coglie magari degli aspetti che altri non avevano saputo vedere, ma che può anche trascenderli. Vittorio M. Con queste osservazioni del tutto ragionevoli, chiudiamo la serata. C’è chi chiede però quale sarà il programma dei prossimi incontri. Con tutte le riflessioni che ho fatto sul tema del seminario, avrei potuto scrivere un libro... ma non sono riuscito a individuare un percorso preciso e suddiviso in tappe, con una scaletta temporale, perché per me tutto è compenetrato e tutto costituisce un insieme vivente, proprio come l’albero di cui abbiamo parlato. In esso non si può dire:

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oggi facciamo crescere un ramo, domani invece una radice o una foglia, ma è l’albero tutto intero che deve crescere, nell’insieme e in ogni sua parte. Per cui io mi aspetto che anche il nostro seminario cresca grazie ai contributi di ognuno di noi, in modo altrettanto spontaneo e vivo. Grazie

Note 1 2

Vittorio Mazzucconi, Arte e Psiche, Edizioni Mimesis 2012 " " , Il Lavoro Spirituale, Edizioni Moretti & Vitali 2010

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I RITMI DELLA NATURA, DELLA STORIA, DELL’ARTE

Incontro n°3 del 21 aprile 2010 Nel dibattito sono intervenuti anche: Silvana Olmo, Pat Sophie Graja, Ettore Lariani, Carla Sanguinetti, Paolo Manasse, Caterina Bazzini, Maria Palermo Vittorio Mazzucconi Come vi dicevo nei precedenti incontri, il seminario “Sentimento e Ragione” scoperchia un vero e proprio vaso di Pandora. Sembrerebbe molto semplice; è come andare dal cuore alla mente, dai nostri sentimenti ai nostri pensieri, come facciamo in ogni momento, ma questo tragitto è invece estremamente lungo e complesso, perché coinvolge un vastissimo campo di indagine. Inoltre, quando si dice che andiamo dal sentimento alla ragione, mettiamo a fuoco solo un piccolo tratto del percorso, mentre ci accorgiamo che, prima del sentimento, c’è tutto un universo, e che esso si estende anche al di là della ragione. Nel primo caso, ci soccorre la psicanalisi, oltre all’antropologia e ad altre scienze, anche se occorrerebbe una conoscenza integrata e superiore per esplorare a fondo il mondo delle radici. Per ciò che riguarda invece ciò che è al di là della ragione, dobbiamo più intuirlo che vederlo con i nostri occhi. Oltre alle speculazioni della filosofia, c’è certo il grande aiuto delle religioni ma, anche in questo caso, è solo una conoscenza superiore e soprattutto interiore, la conoscenza dell’anima, che può fornirci l’orientamento in una dimensione che va ben al di là dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri. Ho proprio la netta sensazione che ci sia questo enorme, fantastico percorso, di cui noi viviamo un piccolissimo tratto nella nostra vita individuale, nella nostra esperienza, ma che ha una valenza che si spinge fino a un piano cosmico, e alla ciclicità che ne regola lo svolgimento. Come possiamo orientarci? Come possiamo conseguire la conoscenza dell’anima? Per il momento, soffermiamoci a captare il vivo passaggio in noi della linfa che viene dalla terra e sale fino alla chioma dell’albero, e contemporaneamente, si carica della luce del

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Sentimento e ragione

sole, come avviene con la funzione clorofilliana, per ridiscendere con questa nuova forza alle radici. Questo doppio movimento, di salita e discesa, ci sembra una chiave fondamentale per capire tante cose.

Riassunto degli incontri precedenti Fin dall’inizio del seminario, abbiamo così parlato dell’albero, assunto come archetipo dello sviluppo di ogni cosa, anche da un punto di vista psicologico. Per chiarirci le idee, ho presentato delle tavole con delle colonne verticali: in una di esse si legge il ciclo della vita dell’albero; in un’altra quello del nostro corpo, e infine, nell’ultima, quello dell’anima, ossia delle funzioni psicologiche. Tanto nelle colonne dell’albero quanto in quelle del corpo e dell’anima abbiamo evidenziato la linea centrale, che, secondo le colonne, corrisponde al tronco, al corpo e all’unione di sentimento e ragione nella vita dell’anima.

L’albero, il corpo, l’anima ALBERO

CORPO

ANIMA

frutto fiore

testa laringe-bocca

conoscenza parola espr. dell’anima

foglie ramatura

polmoni sist.cerebrospinale

ispir.intuizione ragione (divisione, linguaggio)

tronco

cuore

sentimento e ragione uniti

radice radichette

intestino organi digestione

sensazioni e sentimento nutrizione

seme terra

organi genitali ano

eros oscurità

Guardando il tronco, vediamo che sotto ci sono le radici, il seme, la terra; mentre sopra c’è la ramatura, ci sono le foglie, il fiore, il frutto. E c’è, anche se non visibile a prima vista, una simmetria in questa costituzione: la parte sotterranea corrisponde alla parte aerea; se voi immaginate l’albero,

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I ritmi della natura, della storia, dell’arte

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la ramificazione della sua chioma fa infatti pensare a quella delle sue radici. Guardando a questa costituzione, il senso del seminario è nel paragonare la radice al sentimento e la ramatura dell’albero, invece, alla ragione. Tutto il discorso si fa fra questi due poli, che sono perfettamente equivalenti e simmetrici. Però l’essenziale è il tronco, è il tronco la nostra verità, la nostra sostanza di uomini e anche di ogni altra creatura. È nel tronco che si può visualizzare l’intento del nostro lavoro, che è quello di unire il sentimento e la ragione. È in questa unione il senso del compito della nostra vita. Nel corpo si legge una struttura analoga a quella dell’albero: Il tronco diventa il cuore. Al di sotto del cuore abbiamo l’intestino, gli altri organi della digestione, gli organi genitali, il cui insieme ci fa pensare alle radici. Al di sopra invece abbiamo il sistema cerebro spinale, i polmoni, la laringe ecc., il cui insieme ci fa pensare alla ramatura dell’albero. Osserviamo anche nel corpo la stessa simmetria che abbiamo visto nell’albero: la parte superiore corrisponde a quella inferiore, per esempio il cervello all’intestino, la laringe agli organi genitali ecc come si può leggere nello schema. Quindi, quello che abbiamo detto prima, cioè il pensare che le radici di un albero fossero l’equivalente del sentimento, lo troviamo anche nell’equivalenza con il corpo umano. Parlo di immagini archetipiche, non di tale albero o di tale corpo. Se passiamo all’anima, invece delle funzioni fisiche del corpo abbiamo quelle non corporee, che però sono sulla stessa linea. Il tronco, che è il cuore, diventa il nucleo in cui sentimento e ragione sono uniti, che è appunto ciò che dobbiamo realizzare in noi stessi, e anche nell’arte e in una prospettiva più generale. Vediamo allora che al di sotto di questo nucleo, in modo corrispondente all’intestino, abbiamo il mondo della sensazione, del sentimento, e sotto ancora, ovviamente corrispondente alla zona dei genitali, l’eros, e in basso infine l’oscurità. Al di sopra vedremo invece la ragione, l’ispirazione e la parola. Qui il discorso si fa però complesso, perché si imposta il concetto che la ragione è in sé una divisione, che si realizza nel linguaggio, ed è la stessa divisione che c’è nell’albero, i cui rami si ramificano sempre di più. Allora, il nostro percorso, anzi il percorso di tutto l’universo è prima nel ramificarsi passando dall’unità alla complessità e poi nel ritornare invece dalla complessità all’unità. È un grande movimento cosmico che, come un respiro, si espande e si contrae. Adesso andiamo avanti

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Il giorno, le stagioni, la vita Dopo aver così riassunto alcuni aspetti visti nei precedenti incontri, possiamo estendere adesso l’indagine ad altre equivalenze. Questa volta esse sembrano piuttosto banali, poiché conosciamo tutti le fasi del giorno e delle stagioni. Non vogliamo però usarle come facili metafore ma indicare in esse delle imprescindibili e profonde realtà, che ci parlano dell’andamento ciclico del mondo. Dove avevamo visto prima il tronco, poi il cuore, poi l’unità fra sentimento e ragione, siamo qui in una delle nostre giornate. Stiamo infatti guardando la colonna a sinistra di una nuova tavola, in cui, sotto la linea centrale del mezzogiorno, c’è la mattina, e prima di essa l’alba e infine la notte che ha preceduto il sorgere del sole. Al di sopra invece c’è il pomeriggio, la sera e la notte dopo il tramonto del sole. C’è una simmetria in questi passaggi, come c’era nell’albero, nel corpo e nell’anima. Inoltre, come in tutti gli schemi che ci hanno parlato del tronco, del cuore e dell’anima, riscontriamo un fondamentale andamento ciclico. Si arriva in cima e si ricomincia poi da capo. Ricordate la colonna in cui si descriveva la costituzione dell’albero, che si concludeva con la formazione del seme? Non possiamo riparlarne ancora, ma solo rivivere in noi l’essenza di questo processo con cui si ricomincia un nuovo ciclo. Esso vale anche per le stagioni, in cui si passa dalla primavera all’autunno e si trova, prima e dopo, l’inverno, così simile alla notte del ciclo quotidiano e alla morte del ciclo della vita. Ma il nostro intento va oltre, associando la primavera al sentimento, l’estate all’unione fra sentimento e ragione, l’autunno alla ragione e l’inverno alla sua decomposizione. GIORNO

STAGIONI

VITA

notte sera pomeriggio

inverno autunno inizio autunno

morte vecchiaia anzianità

mezzogiorno

estate

vita adulta

mattina alba notte

primavera inizio primavera inverno

giovinezza infanzia grembo materno

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I ritmi della natura, della storia, dell’arte

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Questi ultimi passaggi non sono però così evidenti, e dobbiamo dapprima intenderci ancora una volta, come già abbiamo fatto, sui termini che impieghiamo. Quando parlo di sentimento, non mi riferisco al piano dei buoni sentimenti, del voler bene a qualcuno ecc. Qui il termine è impiegato in un’accezione più complessa, per indicare tutto quello che ha a che fare con l’ombra, con l’oscurità, con la terra, con la radice, con la generazione, la germinazione, con l’intuito. È tutto un mondo profondo e oscuro, quanto invece la ragione ha a che fare con la chiarezza, la divisione, il linguaggio, le applicazioni pratiche ecc. Ora, è intuitivo che occorre un equilibrio fra questi aspetti, l’equilibrio che oggi è gravemente disturbato dall’andamento della civiltà contemporanea, che in gran parte è una civiltà della ragione, ragione scientifica, ragione materialistica, ragione economica. Tutto, oggi come oggi, è misurato sul metro di questo tipo di ragione, mentre si è gravemente trascurata tutta l’altra parte. È bene che sorgano perciò nel mondo anche forze che lottano per il recupero di questa parte, in tante forme, come il risveglio del senso religioso, la new age, l’ecologia, l’attenzione in generale alla natura, l’attenzione al passato storico. Anche il passato fa in qualche modo parte del sentimento, anche se questa lettura richiederà un approfondimento, che faremo in un’altra serata. Se dal giorno e dalle stagioni passiamo adesso alla vita, scrivendo un’altra colonna, vedremo che sulla stessa linea centrale del tronco, del cuore, dell’unione fra sentimento e ragione, del mezzogiorno e dell’estate, possiamo collocare la vita adulta. Essa esprime infatti la pienezza del nostro essere, la centratura in noi stessi. Prima della vita adulta c’era la giovinezza, e prima ancora l’infanzia, il grembo materno, così come dopo c’è l’anzianità, la vecchiaia e la morte. Come dicevamo, tutto questo è ciclico perché, dalla morte, si ritorna nel grembo materno – io credo molto all’idea della reincarnazione – come dall’inverno si ritorna alla primavera, e dopo la notte ricomincia un nuovo giorno, in un andamento assolutamente ciclico. La sua evidenza è fuori discussione, mentre può essere discussa l’analogia della reincarnazione, di cui non esistono prove certe. Ma è appunto nell’analogia la migliore prova, come quella che porta all’unisono i suoni di diverse corde. Che poi la giovinezza somigli alla primavera, che l’anzianità somigli all’inizio dell’autunno e la vecchiaia alla morte, sono cose che conosciamo molto bene e su cui non occorre quindi dilungarci, per quanto possano essere molto ricche di altre e feconde analogie.

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La vita, la civiltà, l’arte L’incontro di stasera ci porta adesso a fare un passo avanti. Prendiamo l’ultima colonna, quella della vita, e paragoniamola con l’andamento della civiltà e dell’arte. Il discorso è lo stesso: c’è un momento nella civiltà con la sua pienezza, per esempio la pienezza della civiltà romana, o del nostro Cinquecento, prima del quale c’era una civiltà che possiamo chiamare “giovane”, prima ancora una civiltà primitiva, e ancora più indietro uno stato in cui non si può parlare ancora di civiltà, ossia la natura stessa, ovviamente in diversi gradi di evoluzione. Al di là invece del momento della civiltà piena ci sarà quello della decadenza, e poi questa si accentuerà procedendo nel tempo, con cui sopraggiungerà infine la morte di una civiltà. È necessario che essa avvenga, se si vuole completare il ciclo e ricominciarne uno nuovo, come sempre accade. Quando è crollato l’impero romano, con la sua grande civiltà, si è ricreata in qualche modo la natura. Immaginate: dove c’erano le città, sono spesso rimasti solo dei cumuli di rovine, dove c’erano i campi arati sono ritornate le foreste, è ritornata la natura, con la difficoltà delle comunicazioni, la divisione dei popoli, che non parlavano più la stessa lingua e non facevano più parte di un grande stato organizzato ecc. Dopo la civiltà bisognava ritornare alla natura, così come accade nella nostra vita, quando un uomo, che si è pienamente realizzato, non per questo può permanere in tale stato ma deve morire, al fine di lasciare spazio a una nuova nascita. VITA

CIVILTÀ

ARTE

morte vecchiaia anzianità

civiltà morta verso la fine decadenza

post-arte arte vecchia, mentale ellenismo, barocco

vita adulta

civiltà piena

arte classica

giovinezza infanzia grembo materno

civiltà giovane età primitiva natura

arte giovane arte arcaica pre-arte

Questo lo notiamo anche nell’arte. Anche nell’arte c’è questo momento centrale, che è l’arte classica, come si vede in diverse civiltà. Va da

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I ritmi della natura, della storia, dell’arte

sé che lo collochiamo in parallelo con l’analogo momento di pienezza di una civiltà, e in analogia con gli altri momenti centrali che abbiamo rilevato in diverse linee di indagine: il tronco, il cuore, l’anima, il giorno, le stagioni, la vita... L’arte classica giunge come il momento di maturazione di un’arte, diciamo, “giovane”, che era a suo turno preceduta da un’arte arcaica e, prima ancora da una pre-arte, cioè un periodo antecedente in cui l’uomo era molto vicino alla natura, immerso in essa, e non aveva quindi ancora sviluppato quel tipo di attività e di relazione che chiamiamo arte. (su cui potremo a lungo interrogarci in altri incontri) Dall’altra parte invece, dopo l’arte classica, comincia la sua decadenza, la sua diversificazione, come per esempio l’ellenismo e il barocco, per giungere a un’arte che chiamiamo “vecchia” poiché stiamo parlando delle diverse età dell’arte, quindi un’arte che, essendo ormai priva del vigore della giovinezza, degli impulsi vitali della radice-sentimento, diventa prevalentemente mentale. Segue poi una post-arte e così, anche per l’arte, il ciclo si chiude.

L’arte e l’anima Ma per capire meglio il discorso dell’arte, ricorriamo a uno schema più completo perché esamina in particolare l’arte greco-romana e l’arte europea. Non lo guardiamo però solo di per sé, ma in relazione al paradigma iniziale dell’anima, già visto in altri incontri, poiché non vogliamo tanto parlare di storia dell’arte, peraltro in modo estremamente sommario, quanto scoprire nell’arte lo stesso rapporto fra sentimento e ragione che è il tema del nostro seminario. ARTE

Arte Greco-Romana

Arte Europea

ANIMA

post-arte arte mentale

barbarie arte bizantina sviluppi successivi ellenismo

barbarie arte contemporanea sviluppi successivi barocco

oscurità linguaggio divisione ragione

arte classica V° secolo

Cinquecento

sent.to e ragione uniti

arte giovane arte arcaica pre-arte

Rinascimento arte romanica, gotica barbarie

sentimento eros (miti, natura) oscurità

decadenza

periodo “severo” periodo arcaico barbarie

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L’arte Greco-Romana Se pensiamo all’arte classica nell’antica Grecia (V° secolo) – avete senz’altro presente la scultura greca, con la serenità e la perfezione delle sue forme – io vedo appunto in esse un assoluto equilibrio fra sentimento e ragione. Inteso come? Era allora il periodo anche della ragione filosofica, pensiamo a un Platone, a un Aristotele, mentre, per ciò che riguarda il sentimento, fortissimo nelle passioni espresse nelle tragedie ma pressoché assente nella scultura, vogliamo indicare soprattutto l’aderenza al mito, la radice di quella civiltà, ancora viva perché l’arte arcaica e quello che si chiama il medioevo ellenico, carichi appunto di questa carica numinosa, non erano lontani. Attribuisco all’ambito del “sentimento” anche il senso della continuità di una tradizione, dell’apprendimento del mestiere, del contesto umano delle piccole polis in cui lavorava l’artista greco, del mare e della terra integra in cui esse sorgevano. A fronte di questa base, autentica come un humus vitale, immaginate la splendida ragione dei filosofi, vicini alle verità prime, come la filosofia dei millenni seguenti non sarebbe più riuscita ad essere. E qual’era il perché di questa vicinanza? Era proprio l’unione fra sentimento e ragione, che permetteva quindi, non solo la bellezza delle forme, ma anche quella delle idee e la verità dei moti dell’animo in naturale armonia e quindi in uno stato che definirei di risonanza e consonanza con una dimensione spirituale. Gli Dei erano allora veramente vicini agli uomini. Prima del V° secolo c’era il periodo che è chiamato “severo” perché, mentre nelle opere arcaiche i volti delle figure erano atteggiati a sorriso, nelle opere di questo periodo si vede invece un’espressione più seria. A dire la verità, questo periodo non lo si conosce altrettanto bene di quelli dell’arte arcaica e dell’arte classica, mentre conosciamo bene l’arte dell’ellenismo. Con l’ellenismo l’arte greca è diventata prima l’arte di tutta l’Asia minore e delle sue varie monarchie, e poi l’arte dell’impero romano. Con questa diffusione si è verificato un processo di allontanamento dalla purezza originaria dell’arte classica e di divisione in molte tendenze che, secondo i luoghi, i tempi e gli artisti, tendevano a diversificarsi. Questo è stato appunto l’ellenismo, che si è poi ampliato negli sviluppi successivi, sempre più frammentari, sempre meno puri, sempre più corrotti finché, con le invasioni dei popoli nordici, non abbiamo cominciato a inoltrarci verso la barbarie.

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Agli ultimi sviluppi dell’arte romana e a quella bizantina possiamo associare il discorso che facevamo sul linguaggio, il linguaggio in cui si sviluppa e diversifica la ragione, perdendo così il contatto con la forza del sentimento, così come, in un albero, l’estrema ramificazione suddivide troppo l’apporto della linfa e ne riduce quindi il nutrimento. L’arte che aveva prima una fortissima radice nel mito, qui diventa invece molto legata a tale divisione e alla contingenza. Se ne sono visti due risultati: da una parte l’arte romana, che si allontana dall’idealismo dell’arte greca e diventa un’arte realistica; i ritratti mostravano le persone come erano, in qualche modo come i nostri ready made o come la pop art. Dall’altra, l’arte bizantina ci fa pensare all’arte astratta di oggi. In un caso e nell’altro, si è abbandonata l’unità fra sentimento e ragione e quindi fra cuore e ideale per cedere, o alle immagini dettate dalla realtà, oppure alle immagini collegate a un’ispirazione astratta, che fa appunto pensare a certi aspetti del linguaggio contemporaneo.

L’arte Europea Il passo seguente è stato la barbarie, e dalla barbarie si è ricominciato di nuovo con il ciclo che questa volta percorriamo nell’arte europea: dalla barbarie è nata l’arte romanica, seguita poi dal Medioevo. Anche qui, vedete come è evidente il rapporto con gli aspetti dell’anima. Che la barbarie corrisponda all’oscurità è abbastanza ovvio, ma possiamo leggerne lo sviluppo nell’arte greca arcaica e nell’arte romanica, che hanno in comune questo rapporto con l’io profondo, in cui gli antichi greci attingevano i miti – pensiamo ai grandi poemi omerici e alle tragedie greche – mentre in Europa, millecinquecento anni dopo, sono sorti anche qui gli eroi, i cavalieri. L’idea dell’eroe ritorna nell’etica della cavalleria, sorta in questo periodo e, egualmente, un fortissimo rapporto con la natura. Si veda come vengono rappresentate nell’arte romanica le piante, gli animali e le forme immaginarie che ad essi si riferiscono. Da qui poi si passa al Medioevo, quello Europeo (di quello Ellenico non sappiamo molto) che, volendolo associare alle funzioni dell’anima del nostro schema, ci porta a parlare di “nutrizione”, e perché? Perché tutto quello che è venuto dopo, la splendida fioritura del Rinascimento e del Cinquecento, è nato dalla “terra” del Medioevo, ne è stato nutri-

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to: una terra nel senso di una natura ritrovata e anche arricchita nel suo humus dalla decomposizione della precedente civiltà. Il modo di vivere della gente era poi molto semplice e legato al lavoro dei campi, alle tradizioni, all’autorità religiosa e a quella feudale, e tutto questo radicava l’uomo, facendogli in qualche modo riscoprire una sua verginità, una sua nuova fecondità, che si era invece persa negli ultimi secoli della civiltà romana. Mentre questa era diventata una grande civiltà globalizzata e materialistica come la nostra, senza più radici, nel Medioevo esse sono state invece ritrovate, e ne è stata nuovamente nutrita la civiltà, acquistando il vigore necessario ai suoi futuri sviluppi. Si è infine formato il Rinascimento che, dopo l’infanzia del Medioevo, associamo alla giovinezza. Può sorprendere che lo associamo anche al sentimento, ma perché? Perché c’è in esso una linfa, un sentimento che viene dal Medioevo e che va verso la ragione. È questo movimento che ci colpisce nelle opere del Rinascimento e che ha una grazia, un sapore di primavera. È la ragione nascente che si dischiude come un fiore, non la ragione dei frutti del Cinquecento. È fatta di architetture nitide, disegnate con una timida geometria, con una prospettiva appena inventata. Ecco, il sentimento nutrito dal Medioevo ha generato una ragione nascente, che si è poi affermata con il Cinquecento in cui, come nel V° secolo dell’antica Grecia, si vede quella pienezza, quella centralità che sono il segno dell’equilibrio fra sentimento e ragione. Dopo, come era successo per l’arte greca dell’ellenismo, così, nell’arte europea, c’è stato il barocco, che associamo non più al sentimento ma alla ragione. Anche questo accostamento può sorprendere, perché l’ellenismo e il barocco sembrano addirittura sentimentali. Così come, con l’ellenismo, non si rappresentava più la perfezione degli Dei, ma delle scene tipiche, di genere, o comunque dei movimenti ad effetto e scomposti, nel barocco ci si allontana dalla classicità del Cinquecento per abbandonarsi alla stessa esuberanza formale e inconsistenza interiore. Tutto questo è dovuto alla ragione che si divide perché, finché essa rimane unita al sentimento, fa un tutt’uno con esso, come fosse un tronco, mentre, quando invece si divide, apre la strada alle passioni, alla sensualità, alla sfrenatezza, che possono sembrare vicine al sentimento ma ne sono invece la degenerazione. Un altro effetto della divisione della ragione è quello dell’amore della materia: infatti una ragione unita e nu-

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trita dall’anima guarda all’ideale, mentre una ragione divisa segue le cose più basse, come si vede anche nel nostro tempo. Dopo il barocco, la divisione della ragione si accresce in modo esponenziale. Non sto a parlare di tutti i periodi che si sono succeduti: il neoclassico, il romantico che era un revival del gotico, l’eclettismo, i vari movimenti dell’arte moderna ecc. ecc., fino all’arte contemporanea. Da una parte, questa sembra appunto caratterizzata dalle ricerche di linguaggio, in questa estrema ramificazione della ragione che si opera appunto attraverso il linguaggio. Non parliamo più con tutto il cuore, con tutta l’anima di quello a cui noi crediamo, che è il nostro tronco, la nostra verità interiore, non ci riferiamo più all’anima né sotto forma di sentimento religioso né sotto forma di potenti aspirazioni. L’arte contemporanea in gran parte è fatta sul linguaggio, sulla suddivisione delle tendenze, delle correnti, sull’elaborazione del linguaggio di per sé. Un artista, invece di rifarsi a valori perenni, oggi come oggi, è sempre più sollecitato ad affermarsi proprio in virtù di un certo tipo di linguaggio, che lo distingua da tutti gli altri linguaggi in questa babele che è il mondo contemporaneo. D’altra parte, si può dire che l’arte contemporanea sia ugualmente caratterizzata dalla ricerca della materia, il che non stupisce poiché è l’arte di una civiltà materialistica. È poi insito nella divisione della ragione che essa, nel suo ramificarsi, affondi sempre più nella materia, come se la ramatura dell’albero a cui l’abbiamo spesso paragonata diventi ormai simile a una radice che cerca di penetrare nella terra. Ma è un processo perverso che non nutre come una vera radice, ma indica solo che viviamo nel tempo in cui l’albero si sta rovesciando! Purtroppo il passo seguente è la barbarie, con cui si richiude il ciclo. Uno sguardo di insieme sul nostro tempo non può che riconoscere la probabile fine del dramma. Quali saranno le nuove tendenze artistiche? Ma avrà ancora un senso di parlare di arte quando, dopo, non ci saranno che rovine? Più che di arte, sarà necessario che il mondo si ricarichi di forze vive e che si ritorni alla fertilità della natura, e anche dell’ignoranza, dell’ingenuità, dell’essere uomini interi, non contaminati dalla polvere della civiltà, dalla polvere dell’informazione, dalla polvere del linguaggio e di mille altri detriti.

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Il ciclo e il suo superamento Tutto questo mi sembra che possa essere visto come un ciclo globale ed eterno. Cosa succede quando una civiltà arriva allo stadio della barbarie? Ricomincia da capo, come le nostre vite: anche noi passiamo dal grembo materno, dall’infanzia ecc fino alla vecchiaia; poi dopo si ricomincia, almeno così io credo, con la reincarnazione. E questo va avanti, va avanti...ma va avanti per sempre? O invece, come qui si ipotizza, c’è un’altra funzione? Per esempio, guardando all’immagine dell’albero, esso ha le sue radici, il suo tronco, la sua ramatura, le sue foglie, è completo in sé; però, al di là della sua completezza, accade qualcosa perché si possa poi ricominciare il ciclo: dall’albero spuntano i fiori, da questi si formano i frutti e i semi, che rendono possibile la ripetizione del ciclo. Ora, a me sembra che, anche su un un piano di coscienza, quello della vita dell’anima, ci sia questa possibilità. Oltre alla strada in cui, per quanto confusamente, prendiamo coscienza della vita, della nostra esperienza, e poi moriamo, e poi magari, se e quando rinasciamo, non ce ne ricordiamo più, ci può essere un’altra strada o un punto del percorso in cui il ciclo salta e si passa a un livello superiore: è quella che viene chiamata realizzazione spirituale, realizzazione del Sé, fioritura suprema, che però è sempre a immagine del processo naturale con cui sboccia il fiore. È quello che abbiamo visto prima. Come l’albero produce il seme, il fiore, il frutto, così, nella vita dell’anima, oltre all’esperienza che ci ha condotto dall’A alla Zeta, nasce un’altra pulsione, che è quella adombrata dall’arte, dalla filosofia, dalla natura stessa: nasce il momento dell’intuizione, e l’intuizione porta alla conoscenza, non la conoscenza filosofica e tanto meno la conoscenza scientifica o economica – io parlo della conoscenza dell’anima, una conoscenza che è consapevolezza – non il sapere tante cose, ma il sapere chi si è; e questo può essere considerato un po’ come il discorso del fiore, del seme e del frutto. È la stessa cosa, solo che, mentre nel mondo fisico il processo è destinato continuamente a ripetersi, nel mondo spirituale si può forse giungere improvvisamente a una svolta: è quando l’anima acquista consapevolezza e, con l’intuizione, perviene alla conoscenza di sé stessa. Questo è il processo dell’individuazione, il processo dell’iniziazione, il processo della santità, in una dimensione che, come dicevo prima, va al di là della

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ragione, perché è la dimensione dell’anima, e va quindi al di là anche della dimensione del tempo. Ma, come esso accade in questa dimensione, così possiamo forse ipotizzare che possa verificarsi anche nella civiltà e nell’arte? Forse non è necessario che le civiltà, una dopo l’altra, ripetano lo stesso ciclo, come fanno le nostre vite? Può venire il momento in cui potrebbe nascere un flusso – lo paragono all’intuizione mistica o poetica – capace di portare a una civiltà spirituale, una civiltà finalmente basata sulla conoscenza, in cui non avremo più il miserando spettacolo dei nostri politici, dell’arraffare economico, della distruzione del pianeta, del conflitto fra mille cose che vanno ognuna verso un’esplosione, ma ci sarà un’umanità saggia, universale, ispirata a valori profondi e spirituali? La legge ciclica che obbliga a un susseguirsi delle civiltà in una successione simile a una spirale che ha in sé l’impulso verso un perfezionamento, ma senza salti al di fuori della sua regola, penso che sia ineludibile. Ma il fatto che, a livello dell’anima individuale, il salto – la “grazia” – sia invece possibile, lascia aperta la speranza che esso possa essere possibile anche a livello di civiltà, o ci sostiene almeno nel porlo davanti a noi come un ideale. Esso ha anzi in sé la certezza della sua realizzazione, sia pure attraverso il susseguirsi storico di molti cicli di civiltà. Nella vita, anzi in innumerevoli vite, dobbiamo fare le nostre esperienze, in diversi contesti, con diversi intenti, in modo da far crescere sempre di più in noi la coscienza di sé. Ma esiste un momento decisivo in cui – si parla per esempio della resurrezione di Cristo, o dell’illuminazione di un Buddha – uno riesce a uscire da questo ciclo per passare a un livello superiore di coscienza. Questo livello lo vedi nella natura stessa: la vita di una pianta potrebbe anche essere considerata conclusa in sé, indipendentemente dalla sua fioritura, ma il fatto che si produce invece un fiore, un frutto, un seme, apre la prospettiva che è lo scopo supremo della nostra vita: non solo la garanzia della continuazione della specie sul piano fisico, ma il superamento su un piano spirituale della condizione ciclica della nostra vita, la catena che gli orientali chiamano la ruota delle rinascite, il samsara. Essi la prendono come una condanna, poiché non c’è nessuna prospettiva gioiosa nell’idea di rinascere continuamente, e tanto meno c’è nella visione cristiana di un inferno o di un paradiso fuori dal mondo. La vera rinascita, la vera resurrezione è ap-

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punto, lo possiamo sperare, a un livello più alto a cui l’anima individuale può accedere, nell’attesa che possa farlo un giorno l’anima dell’umanità intera.3 Noi siamo come i pesci che vivono al di sotto del livello del mare, siamo al di sotto di una dimensione che ci trascende. E come i pesci non sanno che, al di sopra del loro mondo, ci sia l’aria, il mondo fisico, lo spazio, l’universo intero...così noi non conosciamo nulla di ciò che ci sovrasta ma almeno ne intuiamo l’immensità. È per noi irraggiungibile? O basta forse un solo salto al di sopra del pelo dell’acqua? Grazie dell’attenzione ma, a questo punto, lavoriamo insieme. Avete qualche idea?

3

Quando nel padrenostro diciamo “venga il tuo regno” non esprimiamo forse la stessa aspirazione? Essa è stata elaborata dalla Chiesa con l’istituzione dell’Avvento, con cui ci si prepara tanto alla nascita di Gesù (in cui vedo la nascita del figlio di Dio in noi, come una resurrezione e illuminazione interiore, a livello individuale) quanto alla sua finale venuta per tutta l’umanità “alla fine dei tempi”, così simile anche se in termini diversi a quel “salto” al di fuori del ciclo delle civiltà di cui parlo.

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DIBATTITO

Silvana O. Intanto Vittorio, mi volevo complimentare e farti un applauso perché questo tuo filosofare è veramente pane per la mia anima, e quindi ti ringrazio perché mi è piaciuto tantissimo. Questo discorso del seme, e quindi della mutazione possibile, in fondo lo possiamo trovare anche nella genetica. Tu hai fatto tanti esempi, nell’arte, nell’architettura, nelle civiltà, eccetera eccetera, ma in fondo si può vedere la stessa cosa anche nei cromosomi che si ripetono da una vita all’altra, ma che possono anche mutare. Il seme giunge ad un certo punto a una mutazione, facendomi così pensare a questo salto, questo livello superiore che ci auspichiamo tutti possa arrivare al più presto, così che la nostra civiltà non ritorni alle barbarie. Vittorio M. Ci sarà senz’altro un salto in una nuova civiltà, però io qui ipotizzo una civiltà ideale solo come meta, quella di una realizzazione spirituale di tutta l’umanità. Oggi come oggi, però, posiamo solo pensare a una prossima civiltà che nasca dalla nostra barbarie e porti un po’ più avanti, attraverso un nuovo ciclo, un processo evolutivo. Individualmente, può essere invece possibile un cammino meravigliosamente diverso. Gesù sale al cielo, e un santo, un grande artista, un mistico, un filosofo, un uomo di bene, possono cercare di imitarlo. Anche per chi non crede è chiaro che un tale Essere è l’esempio di un cammino che anche noi possiamo e dobbiamo seguire. Chi accede a questo livello si fa seme di un ‘umanità nuova, è una speranza per tutti. Anzi, più che parlare di umanità, parlerei dell’universo intero. Se infatti concepiamo l’universo come qualcosa che è proceduto da un’unità iniziale fino a un’estrema espansione, la grande speranza è che, da questa, si ritorni all’unità iniziale. Possiamo percorrere anche una piccola parte di

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questo cammino, che è il cammino dell’amore, l’amore che tutto riunisce in Dio, come Gesù ci ha insegnato. Pat Sophie G. Io immaginavo quella bellissima immagine che tutte le civiltà hanno avuto, del seme come figlio del sole, come possibilità di nascita…Ed ecco allora il seme che ha in sé questa forza centripeta, per poter poi trasformarsi in pianta, e lì allora la forza diventa centrifuga, va verso l’alto, e crea quel qualcosa, il frutto, che è, sì, chiuso nella parte esterna, però è completamente aperto dentro di sé a una nuova vita. E questo è meraviglioso. Se infatti pensiamo che proprio al seme hanno dedicato delle divinità, la Dea Cerere per esempio, questa è proprio la dimostrazione di quello che nella vita viene a riformarsi continuamente, sacrificandosi, nel senso bello della parola, affinché continui l’esistenza. Vittorio M. Sono d’accordo, questo è bello che tu l’abbia messo in evidenza, però tu mi parli del ciclo della vita che continuamente si rinnova, mentre noi ipotizzavamo adesso che il concetto del seme, del fiore, che corrisponde sul piano biologico a quello che tu hai descritto, valga anche ad un livello diverso. Il rapporto con la divinità che tu evochi e soprattutto il senso sacro del sacrificio vanno in questa direzione. Pat Sophie G. Sì, perché il fine è poi nell’andare oltre, seguendo proprio il percorso che possiamo vedere anche nella; spirale del Dna. È un’evoluzione naturale, che ci porta a una dimensione in cui l’individuo si fonde nel tutto. Allora lì potremmo dire, forse, che nasce il Cristo in ogni individuo e quindi si crea il tutto. Vittorio M. A fronte di queste idee, che ci aprono a orizzonti vasti ma indeterminati, non vogliamo magari fermarci un po’ in qualche piccolo passaggio dello schema, per rendere possibile una discussione più concreta? Ettore L. A me interesserebbe chiarire meglio il rapporto fra Rinascimento e sentimento di cui hai parlato.

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Vittorio M. Come dicevo prima, una cosa che colpisce molto nel Rinascimento è la geometria, che è la forma principe della razionalità, e sembra il contrario di quello che chiamiamo invece sentimento. Le parole indicate nello schema non hanno un significato limitato e puntuale ma indicano un processo. Allora mi sembra che nel Rinascimento sia in atto il processo che va dal Medioevo al Cinquecento, il processo quindi da qualcosa che nasce dal sentimento, dalla terra, da una barbarie come abbiamo detto, verso una ragione matura, che poi rivive in sé la classicità dell’antica civiltà greco-romana. È un periodo di passaggio, perché il Rinascimento è il momento in cui, partendo dal sentimento, si va verso la pienezza della ragione. L’immagine del fiore che si nutre della linfa dello stelo e sta per sbocciare è l’immagine più giusta di questo processo. Anche quando associo il barocco alla “ragione”, sembrerebbe vero il contrario, perché il barocco fa pensare a un movimento esuberante e passionale simile al sentimento, ma in realtà queste sono forme che derivano dall’indebolimento dei freni della ragione, in seguito alla sua divisione. L’unica vera realtà che ha una consistenza ed è centrale è quella del tronco. Prima, con il Rinascimento, c’era un movimento che tendeva a questa centralità mentre dopo, con il barocco, il movimento va oltre, si divide e perde forza. Carla S. Gli stimoli in realtà qui sono davvero tanti. Questa tua costruzione così attenta al ritorno ciclico fa pensare un po’ alla filosofia di Vico, o all’eterno ritorno che, su un piano religioso lontano dal nostro, è il samsara. Nel cristianesimo, soprattutto in quello dell’inizio, il discorso dell’apocalisse, che viene sempre fuori in questo tuo discorso, con la morte e il ritorno alla vita, era vissuto in realtà come una rinascita. Addirittura l’apocalisse in certi momenti era vissuta come una festa, c’era qualcosa che finalmente finiva e si dischiudeva un mondo nuovo: ecco, era la rottura che rendeva possibile un mondo nuovo, più positivo. Vittorio M. È proprio quello che penso anch’io.

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Carla S. Di fronte a questa tua visione del mondo, così architettonicamente costruita e sentita, anche con il tuo credere nella reincarnazione dell’anima – è una costruzione solida – non so quanto poi corrisponda alla realtà, dove tutto è terribilmente diversificato e ramificato. Per esempio, ho sentito recentemente un’analisi dell’albero darwiniano dell’evoluzione della specie: fino a qualche tempo fa, si credeva fosse un procedere quasi come il tuo, per gradini e per ordine, e invece adesso è venuto fuori che non è così, cioè che anche la nostra evoluzione umana non è avvenuta dall’ homo di Neanderthal all’ Homo Sapiens, ma sono tutti rami diversi, che hanno portato a diverse evoluzioni, e la nostra specie attuale sapiens sapiens è quella che è rimasta, perché le altre si sono tutte interrotte per strada, ma non c’è il famoso anello mancante. Ecco, questa è l’ultima teoria scientifica sul problema dell’evoluzione umana. Ora io, a questo punto della mia vita, con mille riflessioni del tipo della tua, con mille studi sull’arte e su tutto, mi chiedo quali siano i punti a cui ci possiamo veramente appoggiare, se non a quell’oscurità di fondo delle radici da cui veniamo fuori, e a cui certamente ritorneremo. Il discorso che poi ci riporta a quelle radici è talmente complicato e diversificato, e in esso tutti i passaggi sono così veri – Hegel diceva: “solo il tutto è vero, non una cosa soltanto” – che mi riesce difficile davvero a questo punto della mia vita avere delle certezze, se non che il cammino è immenso e diversificato. Vittorio M. Ecco, sì: il cammino è immenso e sempre più diversificato; io qui sto solo indicando alcuni punti di una realtà infinitamente più complessa.. Carla S. ...come il fogliame del tuo albero… Vittorio M. Sì, però l’albero, nonostante tutte le sue foglie, giunge ad una forma, ad una sua unità. E tanto più noi siamo consapevoli di questa estrema differenziazione, che ci toglie ogni certezza, tanto più mi sembra urgente fare il movimento contrario e riportarci ad un’unità. Non per

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dire “l’unità che io propongo nel mio schema è la verità”: No!, sto dicendo che ci sono due movimenti: tanto più ci si espande in un senso, tanto più è necessario riportarci all’unità. Il senso totale dell’universo mi sembra che sia questo: un’estrema espansione, e poi appunto, il ritorno all’unità in tutti i sensi, nel senso religioso, nel senso dell’amore, che io riporto principalmente a questo bisogno di ritornare all’unità. Tu dirai che è una credenza, ma io penso che essa sia una verità insita a tutti i livelli, essendo fondata sul movimento fondamentale: quello dello stesso respiro. Per esempio, si è parlato molto nel nostro primo seminario, “Il Lavoro Spirituale”2, della metropoli contemporanea; io ho un’idea della metropoli molto rapportata all’idea del respiro, del nucleo, del cuore, mentre molti mi dicevano: “ma no, il mondo contemporaneo è aperto, non si può più concepire una città con un centro, ci sono molti centri, si è perso anche il senso di appartenere all’identità di un luogo, la nostra identità è più da riferirsi a fatti sociali, culturali che non a una località fisica...” Cioè, da tutte le parti, si legge una realtà centrifuga, e allora io dico: tanto più occorre pensare ad una realtà centripeta. Anche questo è il senso in cui si parla del rapporto fra sentimento e ragione. Carla S. Sono d’accordo con te. Vittorio M. Poi, c’è un altro discorso da fare: c’è l’espansione in tutte le direzioni, c’è l’apertura mentale indotta in ognuno di noi da un’informazione diffusissima, dalla televisione, dalla specializzazione professionale in mille campi, dalla conoscenza proveniente in modo continuo, esponenziale, ogni giorno in tutto il mondo, da centinaia di migliaia di ricercatori. Ecco, a fronte di questo, tanto più bisogna rivalutare, recuperare quella conoscenza dell’anima che non è espansa, è piuttosto concentrata, e che lego appunto al sentimento, nel senso che ho cercato di spiegare, come un insieme di valori che, a fronte dell’espansione, guardino invece alla concentrazione, a fronte del successo e del potere, guardino alla verità interiore, e così via. È proprio un elemento fondamentale di riequilibrio del mondo.

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Sentimento e ragione

Paolo M. Ho due osservazioni da fare. La prima è questa: trovo convincente questa tua visione ciclica dello sviluppo che hai delineato in diversi ambiti, nell’arte, nello studio delle civiltà ecc.; si potrebbero fare altri esempi di questo, mi viene in mente il percorso analogo nella musica, in cui si attraversano dei passaggi simili, fino alla melodia, all’armonia e alle tendenze contemporanee, che mostrano proprio quella diversificazione dei linguaggi che tu noti nelle arti visive. Fin qui sono completamente d’accordo. La seconda osservazione riguarda invece quello che tu aggiungi a questo sviluppo, ipotizzando un salto a un altro livello con la metafora del fiore e del seme, che mi sembra francamente un wishful thinking, qualcosa di posticcio rispetto alla struttura dell’insieme, che condivido. Vittorio M. Ma come puoi considerare “posticcio” il processo della fioritura che porta al frutto e al seme, che è invece un fatto fondamentale per la continuazione della specie? Capisco che tale processo non possa essere automaticamente trasferito al piano dell’anima e tanto meno a quello delle civiltà, ma l’intuizione ci porta a stabilire una feconda analogia fra quello che accade nel mondo fisico, in cui non solo l’albero ma tutte le creature producono il seme che permette la continuazione delle specie, e il cammino dell’anima umana che giunge a un fiore interiore, a un frutto interiore, al seme di una nuova nascita: è il cammino dell’individuazione, della realizzazione. Quanto a trasferire questo stesso processo sul piano delle civiltà, la natura umana ce lo fa effettivamente apparire come un wishful thinking, ma diciamo che va visto come un pensiero positivo, una speranza, un ideale per l’umanità. Caterina B. Quando parli di tutti questi cicli, non è vero che essi si ripetano sempre in una ruota senza fine. Ogni ciclo è solo apparentemente circolare mentre, in realtà, è come una spirale, che segue quindi un processo evolutivo. Vittorio M. Certo, è quanto abbiamo sempre detto, anche nei precedenti seminari a cui hai partecipato.

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I ritmi della natura, della storia, dell’arte

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Caterina B. Poi non capisco perché chiami mentale l’arte contemporanea. Mi sembra un’idea artificiosa. E perché parlare poi di barbarie? Io avrei voglia idi togliere l’arte classica dal centro dello schema per metterci invece l’arte contemporanea... Vittorio M. Chi taccia la mia interpretazione di “posticcio” e chi di “artificioso”..! Tutte le interpretazioni, anche le vostre, sono lecite, ma vorrei che fossero fondate e coerenti. Ti sembra possibile di scambiare a piacere dei concetti come il tramonto e il mezzogiorno di una giornata? Quanto alla barbarie, è un termine estremo per indicare lo stato di disgregazione di una civiltà, che prelude a un nuovo e più vigoroso sviluppo. Mi sembra che noi stiamo vivendo oggi in questo stato che, appunto, è abbastanza simile a un tramonto. Paolo M. Forse a Caterina sembra che tu veda lo sviluppo dell’arte come un elemento di imbarbarimento. Del resto, è sempre accaduto così quando, di fronte al nuovo, i conservatori hanno gridato allo scandalo e all’imbarbarimento. Vittorio M. È vero che accade spesso così, ma non è certo il mio caso. Paolo M. C’è un giudizio di valore in questa scala che proponi... Vittorio M. Non è di valore, sto parlando di oggettivi stati di maturazione, delle diverse età, delle diverse stagioni. Quanto al prevedere una prossima barbarie, è un punto di vista ormai condiviso da molti. Per me, non è neppure un punto di vista pessimistico ma è la percezione di un movimento cosmico. È perfino una buona notizia, poiché attribuisco alla “barbarie” una carica di rigenerazione, alla catastrofe la valenza di una rinascita.

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Sentimento e ragione

Silvana O. Volevo riallacciarmi, quando tu parli di evoluzione cosmica, alla precessione degli equinozi. La nostra civiltà è uscita dall’era dei Pesci ed è entrata o sta entrando nell’era dell’Acquario. Ogni era dura circa 2560 anni, per cui c’è una ciclicità, anche cosmica, nel movimento della nostra galassia, Con la precessione degli equinozi, questo movimento ciclico procede, e lo fa come una spirale, non è un tornare indietro totale. Vittorio M. L’abbiamo detto prima, condividiamo tutti l’idea della spirale, ma quello che crea ora lo scandalo è l’ipotesi che ci sia la possibilità di un salto al di fuori di questo andamento ciclico che, per quanto assimilabile a una spirale evolutiva, è pur sempre la ruota delle rinascite a cui siamo avvinti. Questa possibilità è il Cristo ma la si può vedere già configurata nel più umile fiorellino di campo. Silvana O. ...a livello di intuizione... Pat Sophie G. Vittorio, avrei una cosina da dirti. Pensiamo a una meravigliosa immagine, un fiore di loto, una rosa. Se noi riuscissimo a vedere il tuo schema, che è apparentemente così rigido, semplicemente come questo fiore che, naturalmente, secondo uno scopo di cui è incosciente, cresce e segue il suo percorso...noi siamo esattamente questo, tutto è così, ma cerchiamo di arrivare ad averne coscienza. È questa l’elevazione di cui tu parli, che non è una speranza futura, è un continuo senza spazio e senza tempo. Se riuscissimo a non vedere lo spazio e il tempo, a non immaginare un futuro ma a sentire la gioia di questa cosa che avviene così, in sé... Vittorio M. Avviene per tutti e per tutto, ma avviene molto più radicalmente e intensamente in certi momenti e in certe persone in cui veramente il fiore sboccia. Tutti gli altri vorrebbero sbocciare... Pat Sophie G. ...ma non pensiamo neanche a questo, proviamo ad essere innocenti in questa cosa, è semplicemente sentire che il fine è così in ogni individuo, nel tutto. Proviamo ad essere questo fiore.

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I ritmi della natura, della storia, dell’arte

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Vittorio M. Ma questo non può essere solo un convincimento personale, o un’auto-suggestione, e neanche possiamo illuderci di essere al di fuori dello spazio e del tempo, se non in un’estasi mistica che sembra portarci in un’altra dimensione. Ma, se rimaniamo qui ed ora, non siamo ahimè un fiore mistico, ma al massimo uno stelo che cerca di salire e di giungere, forse un giorno, al fiore. Il processo può prendere milioni di anni come può essere istantaneo, ogni persona vi giunge a tempo debito, anche se c’è qualcosa che è indipendente dal tempo, chiamiamola grazia, o illuminazione. È appunto la speranza di poter uscire dal ciclo. Maria P. Noi abbiamo una personalità che ci accompagna e che fa i suoi giochini. Riuscire a superare questa personalità, ad andare oltre è estremamente difficile. Ci sono dei circuiti mentali che ci fanno fare più o meno sempre le stesse cose, anche a livello strumentale, emozionale. Per tutta la vita proviamo sempre lo stesso tipo di sentimenti ma ce ne saranno infiniti altri. Però appunto il fatto di essere imprigionati in una personalità... Pat Sophie G. Se noi non avessimo la nostra personalità, non potremmo neanche avere questi pensieri e cercare di aprire una porta su qualcosa che va oltre, capire il significato dell’apertura, della nascita. Maria P. Però questo è un modo di pensare, mentre è difficile sentire a livello profondo, spirituale. Noi dovremmo sentire ciò che pensiamo, e viceversa. Vittorio M. È proprio l’unione fra sentimento e ragione, che è l’oggetto di questo seminario. In un altro seminario dell’anno scorso, “Arte e Psiche”1, abbiamo molto parlato della chiusura nella “caverna” e della difficoltà di uscirne: essa è la nostra stessa ombra. Quanto alla personalità, penso che essa abbia due aspetti: da una parte, hai ragione, la personalità è una prigione o una benda che ti nasconde la verità, ma dall’altra è uno strumento per vivere, agire, pensare. Noi poniamo l’accento sulla necessità di liberarci della personalità,

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Sentimento e ragione

dell’ego, in un cammino di realizzazione spirituale ma, avanzando in questo cammino, ci potremo anche rendere conto di andare incontro a una personalità suprema, il nostro vero e divino essere. Egli esige che lasciamo cadere la nostra personalità precaria, come un’incrostazione, una patina, ma solo per scoprire l’oro della vera personalità, il Sé, che essa ricopre e offusca. Caterina B. Stiamo parlando della ciclicità come prigione. A questo punto... Vittorio M. È la ruota delle rinascite. Certo che è una costrizione, una prigione, come è vero che la terra è obbligata a continuare a girare intorno al sole. Potrebbe non piacerle, ma non c’è niente da fare. Noi dobbiamo liberarci ma non immaginando di uscire a nostro piacimento dall’orbita. Il processo verso la liberazione è molto più profondo, più che un uscire è un “entrare” in noi stessi.. Pat Sophie G. Ma la prigione è solo questo: il percepire continuamente la prigione. In realtà, il momento in cui cominciamo a sentire che questa non è una costrizione, ma è una possibilità, che dobbiamo sentirla come fine e non come prigione, la nostra vita cambia. Entriamo in un diverso sentire, con tutte le nostre facoltà, ed è un sentire non la galera ma il fine, che è meraviglioso. Vittorio M. Questo è un po’ un wishfull thinking... Carla S. È nell’ordine del tuo pensiero, però, perché lei sta dicendo che, se ci liberiamo di maya... Vittorio M. ...sì, ma c’è modo e modo di farlo. Non basta dire: “dimentichiamoci di essere in prigione, ed eccoci liberi, la prigione non c’è più”. Gesù non si è dimenticato di vivere nel suo tempo, nel duro contesto dell’incomprensione, del male, ma l’ha accettato integralmente, fino alla crocifissione. Egli si è fatto letteralmente inchiodare alla realtà, anche se in

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I ritmi della natura, della storia, dell’arte

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lui c’era certo il “fine” divino. Ma questo fine, per realizzarsi nel mondo, deve passare dalla realtà, entrare fino in fondo nella realtà, fino a uscirne e manifestarsi come un fiore, che meraviglia!...ma si sa che i fiori nascono dalla terra e non per aria.

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IL FEMMINILE E IL MASCHILE

Incontro n°4 del 28 aprile 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Elisabetta Carmignani, Silvana Olmo, Carla Sanguinetti, Paolo Manasse, Silvia Guerriero, Paolo Scarton Vittorio Mazzucconi Ci siamo imbarcati da alcune settimane in questa impresa di parlare del sentimento e della ragione. È già stato detto che sembrava una cosa molto facile, poiché tutti quanti abbiamo un cuore e una mente abbastanza vicini uno all’altro, mentre si è aperto invece un campo vastissimo, che abbiamo cominciato ad esplorare da diversi punti di vista. In primo luogo ci siamo riferiti all’immagine archetipica dell’albero, osservandone dapprima la simmetria rispetto al tronco, poiché la ramatura della parte alta dell’albero corrisponde alla radice, e suggerendo poi un’analogia con il nostro tema, in modo tale che la ramatura ci ha fatto pensare alla ragione, che è appunto qualcosa che si divide in tanti rami, mentre la radice l’abbiamo associata al sentimento. Allargando poi questa analogia al corpo umano, abbiamo osservato delle funzioni analoghe, per esempio l’intestino, che ci fa pensare alla radice e al sentimento, o il cervello che ci fa pensare non solo, ovviamente, alla ragione, ma anche alla ramatura dell’albero, come se essa fosse stata compressa in modo da trasformarla in un organo pensante. Abbiamo infine letto delle analogie simili in altri aspetti della natura, della nostra vita, della storia, dell’arte. Stasera cerchiamo di affrontare un altro aspetto che, a giudicare dall’esperienza che ne abbiamo, è molto complicato: il femminile e il maschile. È qualcosa che, di primo acchito, sembra proprio corrispondere al sentimento e alla ragione, ma non vorrei semplificare troppo, come può sembrare guardando agli schemi che vi presento. Bisogna dire che stiamo procedendo in una foresta, con un’idea sommaria della

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Sentimento e ragione

direzione in cui andare, per seguire la quale dobbiamo aprici dei varchi. Siamo tutti consci che la foresta è immensa ma dobbiamo mettere dei segni sul nostro sentiero per non perderci nell’esplorazione di questa immensità.

Albero, anima, femminile-maschile Quindi ricomincio con i piccoli schemi che possono aiutarci a ragionare. Qui, ancora una volta, mi riferisco all’archetipo dell’albero e a quello che avevamo visto nella colonna corrispondente dell’anima. Come nell’albero c’è il tronco, e nel nostro corpo il cuore, così nell’anima, anzi nel suo centro, si realizza l’unione del sentimento e della ragione. Al di sotto di tale centro, nel nostro schema, vediamo il sentimento, sotto ancora l’eros e infine, nella parte più bassa, l’oscurità. Leggeremo invece al di sopra la ragione la sua divisione nel linguaggio, che ci condurrà a un’altra oscurità. Chi di voi legge molti libri di filosofia non può darmi torto: più si ragiona e più ci si ritrova nell’oscurità, non certo nella verità interiore. ALBERO

ANIMA

FEMMINILE-MASCHILE

fiore, frutto foglie ramatura

oscurità linguaggio ragione

separazione linguaggio maschile

tronco

unione sent.to-ragione

unione femm.maschile

radice seme terra

sentimento eros (miti, natura) oscurità

femminile eros solitudine

Per venire invece a una nuova colonna, quella del femminile-maschile, essa sembra una fotocopia di quella dell’anima, e non può infatti essere che così. Dove c’era il tronco, il cuore, l’unione fra il sentimento e la ragione, troviamo adesso l’unione del femminile e del maschile, che si realizza ovviamente nell’amore, nell’accoppiamento. Al di sotto (non nel senso di più basso) vediamo il femminile, e prima di esso l’eros e, in fondo alla colonna, la solitudine. Al di sopra poniamo invece il maschi-

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Il femminile e il maschile

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le (ancora una volta, non nel senso che esso sia più alto del femminile), il linguaggio, e infine la separazione. Stiamo guardando a questo tema del femminile e del maschile in modo banale, partendo dalla nostra esperienza. Tutti noi desideriamo andare dalla nostra parte femminile alla parte maschile o viceversa, e ci incrociamo in un punto di incontro, che è il rapporto di coppia. Purtroppo, in tutte le nostre vicende amorose, si sale attraverso le varie fasi indicate nello schema, ma solo per arrivare alla stessa oscurità da cui eravamo partiti. Come, nell’albero, si sale dalla terra al frutto – questo cade, ritorna alla terra, e si ricomincia da capo – così noi partiamo dalla solitudine, incontriamo il rapporto di coppia e finiamo purtroppo con la separazione, per poi ricominciare da capo. È un punto di vista un po’ pessimista ma purtroppo suffragato dall’esperienza.

Albero, anima, femminile-maschile a livello superiore Non vorrei però fermarmi al livello, temo molto condiviso, di questa esperienza. Il fatto di cominciare dalla solitudine per finire nella solitudine può non essere fine a sé stesso, senza una via di uscita ma, al contrario, può far emergere, come abbiamo visto nel precedente Seminario “ Arte e Psiche”, l’impulso ad evolvere in un senso più alto e bello. L’amore ci spinge a ricercare un’unità con un’altra persona che poi dopo, presto o tardi, si trasforma in una divisione, perché tale unità non può che essere un momento, un periodo felice che poi cede di nuovo all’impulso della disunione. L’impostazione idealistica del nostro discorso ci suggerisce però che, a un certo momento, invece di sfociare nella divisione e poi nella separazione, si può passare a un livello superiore, che ci condurrà alla luce e non più all’oscurità, alla conoscenza e non più all’illusione. Questo processo è esemplificato nel mito di Eros e Psiche, di cui abbiamo molto parlato nel Seminario che ho menzionato. Essi vivevano un amore bellissimo, che poi è stato interrotto e finalmente ritrovato, ma non a un livello banale, come quello delle fiabe, che finiscono tutte dicendo “...e vissero felici e contenti...” Il rapporto si ricompone perché Psiche viene “assunta fra gli Dei”, cioè si scopre la divinità dell’anima, ed è quindi a questo livello che l’amore raggiunge il suo vero fine. Rispetto ad esso, se guardiamo invece al livello della nostra esperienza, il modo in cui l’amore viene vissuto nel rapporto fra le persone appare

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Sentimento e ragione

dapprima strumentale, finalizzato alla procreazione, e può in seguito evolvere in una gamma crescente di significati e potenzialità. Il suo vero fine va invece al di là di tutto questo, è un destino divino. ALBERO

ANIMA

FEMMINILE-MASCHILE

frutto fiore ramatura

luce, conoscenza intuizione ragione

amore a livello superiore ispirazione maschile

tronco

sent.to e ragione uniti

femm. e maschile uniti

radice seme terra

sentimento eros (miti, natura) oscurità

femminile eros solitudine

Lo si vede appunto nella vita dell’anima in cui, dall’oscurità, dall’eros, dal sentimento, dalla ragione, si giunge, se uno va al di là della separazione e della delusione, alla coscienza, alla sapienza. Lo vedi nella natura stessa, in cui il ciclo di una pianta che nasce dal seme, e si sviluppa con la radice, il tronco, i rami, le foglie, potrebbe essere anche concluso, se non nascesse poi il fiore e, da esso, si formasse il frutto, aprendo così un nuovo livello. Io penso che, come accade in una pianta, così questo accada nell’anima, e così accada anche nel rapporto fra il femminile e il maschile. Un rapporto che non si esaurisce solo in una storia di amore – può essere bellissima, straordinaria ma può essere anche banale – ma va oltre, quando il nostro bisogno di un compagno non è più solo a livello umano ma si porta a un livello superiore. L’abbiamo visto nel mito di Eros e Psiche, ma lo vediamo anche, che so, nella poesia. Dante, con Beatrice, non ci mostra forse questa evoluzione, questa estrema idealizzazione dell’amore? Per quanti poeti, per quanti altri artisti, la donna amata diventa ispiratrice, diventa la guida del loro cammino spirituale. Il discorso è molto complesso ed è reciproco. Jung individuava nell’uomo un’anima, diciamo, femminile – viene appunto chiamata anima – e nella donna invece un anima maschile, che chiamava animus. In un caso e nell’altro c’è questa idealizzazione, questo veicolo di conoscenza che è il vero senso del rapporto di coppia, se lo si vede su un piano più alto.

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Il femminile e il maschile

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Unioni fra femminile e maschile L’unione fra femminile e maschile si fa a tanti livelli. Il primo livello per esempio – non so se ci avete mai pensato – è quello di essere nati, è cioè l’unione fra anima e corpo, se vogliamo pensare che l’anima sia femminile e che il corpo sia maschile, o anche il contrario, che un principio maschile fecondi una materia femminile pronta a riceverlo e a divenirne pregna. Vedremo forse più avanti che i generi non sono separati in assoluto ma, al contrario, si trasformano uno nell’altro, sono anzi uno nell’altro. Questo è quindi il primo e fondamentale modo dell’unione fra il maschile e il femminile. Dopo, ovviamente, c’è il rapporto fra donna e uomo o, più in generale, fra femmina e maschio in ogni specie. Noterete per inciso che io metto sempre per primo il femminile, non solo per galanteria ma perché le due parole del tema del Seminario, Sentimento e Ragione, corrispondono, nello stesso ordine, a Femminile e Maschile. Il rapporto fra femminile e maschile è sinonimo di quello fra sentimento e ragione. Esso può essere letto anche sul piano della nostra psiche in cui le due polarità vanno integrate. Nel dire che dobbiamo unire il femminile e il maschile in noi, ripetiamo in altra forma quello che sempre diciamo sulla necessità di unire il sentimento e la ragione, che adombra l’unione fondamentale fra anima e corpo che ci ha dato la vita. Se vogliamo poi guardare all’arte, io sostengo che un’opera d’arte nasce come un essere vivente, non è una invenzione intellettuale. Come ogni essere vivente, nasce proprio dall’unione del femminile e del maschile, che sono presenti nell’artista come lo sono il suo sentimento e la sua ragione, e dalla concomitante unione della sua anima alla materia, corpo dell’opera. Un’arte che fosse invece solamente frutto di un’invenzione intellettuale oppure di un’espressione sentimentale, di uno sfogo passionale, secondo me non sarebbe una vera opera d’arte. Io distinguo un’invenzione, un concetto, una teoria, e quello invece che “nasce”, a somiglianza di ogni altra cosa, anzi di ogni essere vivente, come una pianta, un animale, e soprattutto un uomo. Quindi nell’arte si realizza questa unione. Se guardiamo alla storia, sembra un po’ azzardato sostenerlo, ma ci sono epoche più improntate al femminile ed epoche più improntate al maschile, e c’è un passaggio dalla parte arcaica e più vicina al femminile alla parte matura che è invece più vicina al razionale, come si vede in

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Sentimento e ragione

tutte le civiltà, da quella greco-romana a quella europea. Si parte sempre da un sostrato vicino alla terra, vicino alla radice, vicino al femminile e si giunge in seguito allo sviluppo della ragione, con l’acquisizione di una conoscenza e di un potere, come è nella natura maschile. Qualcosa di analogo è leggibile nell’evoluzione. Al di là dei cicli storici che conosciamo – la storia umana appare solo di recente nel cammino dell’evoluzione – possiamo infatti immaginare un’evoluzione globale in cui si svolga lo stesso ciclo. Da un periodo arcaico dell’umanità si procede fino al nostro tempo, che è invece caratterizzato da un grande sviluppo della ragione, anche se in un senso materialistico (ma non è forse proprio in questa identificazione con la materia il lato perverso della ragione?) e poi fatalmente si deve ritornare, anche se con una maggiore consapevolezza, al punto di partenza. Quindi a me sembra che un’ipotizzabile e auspicabile evoluzione dell’uomo, della civiltà, sia proprio in un senso femminile, cioè in quello di recuperare tutti i valori che la civiltà materialistica, razionalistica, maschile, ha sterilizzato, ha ucciso: i valori di amore della natura, di amore dell’uomo, il generare, il prendere cura, l’accogliere, il coltivare i sentimenti, che sono propri della donna. Una cosa si cambia poi sempre nell’altra, il maschile si trasforma in femminile, le donne che, oggi come oggi, sempre di più informano tutti gli aspetti della vita sociale e culturale, così facendo diventano anche maschili, così come gli uomini stanno diventando femminili. È come lo Yin e lo Yang, nessuno dei due è in realtà separato dall’altro, ma sono un continuo circuito, un continuo fluire uno nell’altro. Oltre a questo quadro, parlavo prima del fine dell’amore, non della fine ma proprio del “fine” dell’amore, ricordando anche il mito di Psiche. Abbiamo cercato di capire che, come l’anima e il corpo si uniscono nell’incarnazione, così fanno il femminile e il maschile nel rapporto di coppia, oltre che in tanti aspetti del sentimento e della ragione, al di dentro e al di fuori di noi. Ma, al di là di queste forme, abbiamo anche cercato di intuire la possibilità di uscire dal ciclo. Mentre, al livello consueto dell’amore, ci si conosce, ci si ama, e poi ci si lascia, e si può ricominciare un’altra volta, riassumendo tutto questo in un ciclo, che poi si presenta anche in tanti altri aspetti della vita, pensiamo che l’uomo possa giungere a un livello di consapevolezza che gli permetta di uscire dal ciclo, comprendendo finalmente che l’amore terreno è un gradino per passare a un altro livello, in cui conoscerà for-

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Il femminile e il maschile

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se il vero amore. C’è un fine pratico dell’amore che è la procreazione, ma c’è un fine sublime che è la fioritura dell’anima, proprio come quella di un fiore, e il dono del frutto che ne nasce. Questo frutto che cos’è? È proprio lo scoprire la divinità in noi. Noi crediamo di essere un uomo e una donna separati, e ci cerchiamo l’un l’altro, perseguendo un’unità che può essere solo temporanea e illusoria, mentre l’unità vera, come si vede nel mito di Eros e Psiche, è possibile solo su un altro piano. Poiché Eros è un Dio e Psiche è simbolo dell’anima umana, è quindi questo amore fra Dio e l’anima umana la cosa essenziale, al di là delle vicende provvisorie e deformate della nostra esperienza.

Dio e l’anima Con questo si giunge appunto all’ultimo livello. Come si è detto che si uniscono l’anima e il corpo, la donna e l’uomo, si può dire anche che si uniscono l’uomo e Dio? Le analogie e i paragoni vanno però sempre presi con cautela, se non vogliamo che qualcuno ci chieda: chi dei due è maschile? Dio è maschile? l’essere umano è femminile? Non avrebbe molto senso dire questo. Però diciamo che, quando Psiche viene accolta fra gli Dei e scopre così la sua divinità, allora veramente si instaura il rapporto fondamentale che è quello, non tanto fra Dio e l’uomo, preso in un senso antropologico, ma fra Dio e l’anima, e questo è un rapporto di identità, non fra due generi. Il vero rapporto di Dio con l’anima è che l’anima scopre appunto di essere Dio, scopre la sua divinità. Quindi è un rapporto di identità. Non è che il nostro piccolo essere si fonda con Dio, ma è il riconoscere in sé, pur rimanendo nella nostra micro-dimensione limitata dallo spazio e dal tempo – siamo nulla in confronto a Dio – che è nella nostra natura l’identità con Dio, l’Atman scopre Brahman dentro di sé, questo è il concetto, non è che si sposi con lui, che si fonda in lui, ma solo scopre di esserlo, di averlo dentro di sé, mi spiego male ma... Silvana e altre voci: no, è chiarissimo... Ogni volta che si realizza un’unità, si riaffaccia anche una divisione. Dicendo che l’anima e non l’uomo si unisce a Dio, distinguiamo fra anima e uomo? Sono due cose diverse? Io oserei rispondere che si parla qui dell’anima in un senso molto vasto, come l’anima di tutte le creature, l’anima del mondo, come lo spirito stesso di Dio che lo permea e che si rivela a sé stesso attraverso l’evoluzione, finché questa identità non di-

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venta manifesta, pienamente espressa. Ci sembra oggi che ne sia l’uomo, quasi ovviamente, il manifestatore, l’anima eletta o che può aspirare ad esserlo, ma non è affatto detto che sia così. L’anima non è solo mia, e non è neppure privilegio degli uomini, è lo spirito di Dio diffuso ovunque, che tutto anima, di cui, individualmente, possiamo solo ambire a divenire consapevoli. Vediamo adesso un altro aspetto, che ci riporta al tema della ciclicità. Tutto quanto è sempre ciclico, il maschile diventa femminile, il femminile diventa maschile e così accade di qualunque cosa, nel giorno, nelle stagioni ecc. È ciclica la nostra vita, la nostra psiche, ed è quindi ciclico anche il rapporto fra sentimento e ragione: in esso, il sentimento si evolve certamente verso la ragione, che però poi, indebolendosi in conseguenza della sua ramificazione, ritorna al sentimento, e così via, tutto quanto è una grande ruota. Lo stesso avviene nell’arte: abbiamo visto l’alternarsi dei periodi arcaici, classici, decadenti ecc per poi ritornare di nuovo all’arcaico ecc. L’abbiamo visto nella storia, nell’evoluzione in generale. Però, abbiamo molto parlato anche del fatto che il ciclo è in realtà una spirale, e che questo è vero anche per l’anima che, in tal modo, attraverso il ciclo delle sue incarnazioni, segue una spirale evolutiva. Abbiamo però anche ipotizzato che la vita dell’anima non sia necessariamente, sempre e per tutti, una ruota che gira infinitamente, sia pure con l’andamento di una spirale, ma che avvenga in essa qualcosa di simile allo sbocciare di un fiore, al formarsi di un frutto, e che si apra così un’altra dimensione, che è quella dell’iniziazione, dell’illuminazione, della resurrezione. Anche un tale evento farebbe parte della spirale, poiché anche l’illuminazione sarà solo una piccola parte di un processo infinito ma tuttavia, rispetto al nostro piano ordinario, essa può apparirci come un evento straordinario, come un uscire dal ciclo.

Sole, terra, luna C’è poi un’altra lettura, in cui mi sarei avventurato. Dopo aver sempre parlato del ciclo come di un movimento dal basso all’alto e viceversa, possiamo leggerlo in questo ultimo schema in un modo diverso. Nel centro, abbiamo sempre l’unione del femminile e del maschile, ma di dove viene il femminile e di dove viene il maschile? Qui si suppone che il femminile venga dall’eros e, andando ancor più nel profondo, dalla

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luna, mentre il maschile sembra venire dal sole. Questo, non per attribuire agli uomini una dignità solare e considerare voi donne come delle parvenze lunari..., ma è lo stesso concetto dell’albero la cui parte superiore prende la luce dal sole, mentre quella inferiore è legata invece alla terra e, misteriosamente, alla luna, che regola in realtà l’intero ciclo vegetativo. In questo schema, se vediamo il femminile in rapporto con l’aspetto lunare, e vediamo invece il maschile in rapporto con l’aspetto solare, il loro incontro dov’è? È nel “tronco” che, a questo punto, si rivela il centro in cui si ritrovano il solare e il lunare, lo spirituale e il materiale, la linfa che viene dalla radice e la luce che viene dal cielo, come nell’albero; o, in modo equivalente, è nel cuore dell’uomo. Allora, oltre al movimento che va dal basso all’alto e e poi dopo ritorna su di sé, si può leggere il movimento che va da ogni parte al centro e poi dal centro ritorna a tutto il corpo, proprio come avviene nella circolazione attivata dal cuore. ALBERO

ANIMA

FEMMINILE-MASCHILE

fiore, frutto foglie ramatura

luce, conoscenza intuizione ragione

sole parola maschile

tronco

unione sent.to-ragione unione femm.-maschile

radice seme terra

sentimento eros (miti, natura) oscurità

femminile eros luna

Sarebbero molto complessi e rivelatori gli aspetti che derivano da questa lettura e che investono tutta una cosmogonia, con profonde radici nelle antiche mitologie, ma non è possibile approfondirla adesso. Vi propongo di fermarci dove siamo arrivati, cioè nel luogo in cui il femminile e il maschile, come il sentimento e la ragione, si congiungono in quella che è l’esperienza centrale della vita, a tutti i livelli, di equilibrio psichico, di procreazione, di ciclo storico, di opera d’arte... Questo luogo è la nostra realtà. Ogni pensiero porta ad essa. A questo punto, andiamo avanti con un po’ di dibattito, vi provoco subito!

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DIBATTITO

Elisabetta L. Io ho un’osservazione: questo è uno schema che si basa sul numero 7?. Vittorio M. Questa coincidenza mi è accaduta tante volte: per esempio, in un mio vecchio libro sulla città, mi chiesi come mai erano sette i suoi capitoli. Non è che io avessi all’inizio pensato di farne sette, ma si forma naturalmente una struttura in cui ha una grande importanza l’elemento centrale, a cui si legano altri elementi, tre su ambedue i lati. Però tutti i numeri hanno una loro sacralità. Carla S. A me sono passate per la testa alcune cose: per esempio, il fatto che tu abbia legato la donna alla luna e l’uomo al sole è un archetipo antichissimo, che credo si rifaccia alla cosmogonia vera e propria: al solstizio d’inverno, il sole fa il giro e ricomincia a crescere, perché fino a quel momento decresceva andando verso la notte; c’è una giravolta e il sole risale e coincide con la luna piena. Tanto che la divinità più antica del Mediterraneo, Iside, è nera come la terra perché è la terra divina ed ha la luna tra le corna sulla testa. Essa è anche madre del sole, Horus. Quindi è vero che nella terra si trovano proprio la luna e il sole, conciliati in un tutt’uno. Vittorio M. Certamente! È un archetipo antichissimo, che è bello veder spuntare spontaneamente nella nostra conversazione sul maschile e il femminile. Fra le corna sulla testa di Iside mi sembra però che ci sia il sole...

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Una interpretazione biblica Carla S. Poi, mi è venuta in mente un’altra cosa: che la dimensione maschile e la dimensione femminile dell’universo sono già presenti nella Bibbia, in quanto, in un proverbio di Salomone, a un certo punto si dice: “non c’erano ancora gli abissi ed io ero già stata concepita”, e chi parla così è Sophia, che gioca con Dio sugli abissi prima della Creazione. Per quanto questa figura di Sophia sia probabilmente di derivazione greca, leggiamo nella Bibbia che, quando Dio scorre sugli abissi, sulle acque e poi dice “sia la luce” e la luce fu, e poi separa le acque superiori dalle acque inferiori, Dio non è solo ma, secondo i proverbi, c’è Sophia che gioca con lui, e quindi Dio si presenta già con un aspetto maschile e uno femminile, prima ancora della Creazione! E poi c’è quella figura meravigliosa che è l’Adamo cosmico, descritto appunto nella Cabala, che vede l’universo proprio come un Adamo in cui è presente questo discorso ciclico, che però diventa storico, che è l’aspetto più straordinario, perché, così loro dicono, c’è questo abisso primordiale, tremendo, di cui non sappiamo niente, è caos, da cui esce un punto che sale, sale, sale e diventa l’Io, la testa di un Adamo che investe tutto l’universo e che ha una parte maschile ed una femminile: la parte femminile è quella che ha sapienza, sophia, intelligenza, e scorre nella parte sinistra, mentre la parte maschile che è fatta anche di rigore e violenza è la parte destra. Si ritrovano nella sessualità, a livello cosmico, e scendono poi giù nella storia umana, dove Dio è in esilio perché la potenza divina di questo Adamo cosmico parte dalla sua testa, dalla sua corona, e poi irrompe giù per l’universo e quindi si ritrae. Irrompe e si ritrae: quando irrompe, tutto si sviluppa – la sessualità, tutto quanto abbiamo dentro, il lato destro e quello sinistro – e parte la storia umana. Però poi si ritira, e quindi la storia umana è… Vittorio M. Ma non solo la storia umana, tutto l’universo è un ciclo di inspirazione ed espirazione, questo è fondamentale… Carla S. Certo, l’universo. Comunque è in particolare l’Adamo cosmico che finisce nella storia, e la nostra storia è poi nella terra, nell’universo, e c’è

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in essa l’attesa del ritorno di Dio, che è femminile, perché il dio che viene aspettato è la Shekhinah, che è la dimensione femminile. Vittorio M. Sì, però hai prima detto che Dio è insieme maschile e femminile, ne puoi leggere i due aspetti. Carla S. Sì, però è nell’esilio dell’uomo… Vittorio M. L’esilio di Dio, cioè la rottura, la moltiplicazione, la ramificazione dell’albero di cui parlo sempre, l’allontanamento dal centro, a cui segue però il ritorno... È in questo allontanamento e in questo ritorno il senso di tutto, e quello dell’amore che lo genera. Ci sono cioè due forze: il dare e il ricevere, il generare l’universo e il riassumerlo in sé. In generale, si può dire che questo non sia l’atto di una felice creazione, ma proprio un esilio, nel senso che Dio si allontana da sé e si fa materia, o dell’uomo che cade e si trova nella materia, nella caverna, per poi ritornare con molta fatica all’unità iniziale. Carla S. Sì, però questo Dio non c’è nella nostra storia, lo cerchiamo, lo aspettiamo…

Integrazione di femminile e maschile Vittorio M. A dire il vero, se lo vuoi trovare è dentro di te. Siamo noi nel nostro piccolo, anzi piccolissimo, a vivere in prima persona questo processo, e ad essere anzi proprio noi quel Dio che cerchiamo, che aspettiamo... Comunque, attenzione! È successo altre volte di avvicinarci al tema di Dio, che è un pochino vasto e finiamo con l’uscire dal seminato. Tornando sul concreto, vi esortavo a seguire alcuni passaggi. Carla ha messo molto bene in evidenza un’interpretazione biblica, ma ci sono altri passaggi, per esempio nell’arte, o nella psiche, che possono essere discussi. L’importanza, per esempio, prima di spaziare troppo nell’universo, di pensare a noi stessi, alla nostra piccola anima, in cui dobbiamo

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appunto integrare il sentimento e la ragione, il maschile e il femminile. Dobbiamo anche difenderci dalla dispersione portata dal partecipare alla vita, dall’inflazione delle informazioni. L’abbiamo visto altre volte: quanto maggiore è la dispersione, tanto più è necessario ritornare all’unità. Unità che è appunto la stessa cosa dell’unione tra un uomo e una donna, tra maschile e femminile, che ha aspetti meravigliosi, che dischiude il più alto senso della creazione, ma che viene spesso vissuta solo su un piano fisico o addirittura meccanico. È come se noi sperimentassimo a un basso livello un processo che è estremamente più bello e universale. Lo finalizziamo al piacere, frenando il più possibile la procreazione a cui dà luogo, e dimenticando anche di essere profondamente grati per il nutrimento che esso ci dona, come ci insegna la natura, prodiga di frutti sessuali con cui non solo vengono perpetuate le specie ma ne avviene assicurata la nutrizione. È poi stupendo vedere come l’amore si esplica a tutti i livelli, con l’unione del maschile e del femminile in Dio, in ogni cosa, nella nostra psiche, nell’opera d’arte….qualsiasi cosa che nasce, nasce come un atto di amore. Anche la materia inerte ne segue la legge, non facendo incontrare le anime ma i poli, il positivo e il negativo…ma forse anche qui ci stiamo allargando troppo! C’è qualche altro argomento, più vicino ed accessibile, che volete mettere in evidenza? Silvana O. Io volevo un attimo mettere l’accento, parlando dell’essere umano, di ognuno di noi, su come l’introspezione, cioè vivere l’interno, e vivere il quotidiano siano due aspetti che vanno comunque equilibrati, perché il femminile, secondo me, è la parte di raccoglimento, di preghiera, di meditazione, di introspezione insomma, mentre il maschile è il vivere fuori, il quotidiano, il lavoro, gli amici, ecc…quindi questo equilibrio lo vedo anche proprio nel tempo che noi viviamo, l’aspetto fuori di noi e l’aspetto dentro di noi. Vittorio M. Anche questo fa parte del respiro, no? Dentro e fuori, come inspirare ed espirare. Detto questo, stiamo ovviamente parlando di idee generali, poi nella pratica ci sono donne che hanno un grande sviluppo razionale e uomini che hanno invece una sensibilità molto femminile. Comunque è fon-

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damentale l’equilibrio tra questi due movimenti: io penso spesso all’arte greca, che ha raggiunto quasi di primo acchito la perfezione perché, secondo un mio punto di vista, il sentimento e la ragione si sono presentati fin dall’inizio in modo integro. Quando dico “sentimento”, intendo i miti profondissimi dell’anima greca, la vicinanza con i grandi eroi dell’età arcaica. Quanto alla ragione, non per nulla si parla di Minerva uscita dalla testa di Giove: anche in essa, è all’improvviso che si realizza l’equilibrio, ed è straordinario che dopo, per millenni, la filosofia si sia affannata per raggiungerlo senza più riuscirci. Perché? Perché, dove c’era questo equilibrio, tra sentimento e ragione, o femminile e maschile, si costituiva un nucleo energetico che in qualche modo è in contatto col divino. Per quanto sia un concetto non dimostrato, possiamo dire che il divino s’incarna dove l’uomo ha in sé questa integrazione di sentimento e ragione. Quando un saggio ha dentro di sé l’anima e la mente integrate, può allora captare, in qualche modo, il livello superiore. Nei Greci questa unione permetteva loro appunto di raffigurare persone divine e di conseguire la perfezione in ogni campo: nella filosofia, nell’architettura, nella scultura, nella tragedia. È questo il lavoro che anche noi dobbiamo fare – mettere insieme sempre il sentimento e la ragione – anche se ciò è molto difficile, in un tempo incomparabilmente più complesso di quello greco. Devo aggiungere che, per quanto io senta molto in me stesso questa integrazione, mi sto molto sbilanciando in questi incontri con voi, costruendo tutte queste strutture! Sembra che mi allontani dal sentimento, ma spero che non sia così. Ci vuole una ragione capace di discriminare, strutturare, illuminare come lo fa la luce del sole, ma questa deve essere sempre bilanciata dall’umidità che viene dalla terra, altrimenti brucerebbe tutto. Ma ora vorrei sentire un economista come Paolo cosa ne pensa…

Come conciliare la visione di un equilibrio e il rapporto concreto fra due persone? Paolo M. Ti faccio una domanda. Secondo questa visione che tu ci dai, ci sono questi due elementi dal cui equilibrio, dalla cui fusione, nasce diciamo una forma superiore di consapevolezza, chiamiamola così. Sono due elementi che sono indispensabili l’uno all’altro. Però, nella vita delle

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persone, degli uomini e delle donne vere, in realtà c’è una continua lotta, un’incomprensione tra queste due componenti. Allora, la mia domanda che ti pongo è: come concili questo piano, in cui il mascolino ed il femminino in qualche modo si fondono in quest’armonia suprema, con l’esperienza della vita di tutti, in cui c’è una lotta terrificante e spesso col coltello, dalla quale poi le persone escono comunque provate? Commenti e risate. “..ma che visione!” Vittorio M. Penso che questo viaggio verso l’unità lo si fa attraverso l’esperienza reale. Per esempio, l’amore non è solamente voler bene, avere dei sentimenti meravigliosi, è anche mangiare: se tu mangi un pezzo di carne, in qualche modo ti unisci a un altro essere; infatti i primitivi attribuivano a questo una grande importanza, mangiando il cuore di un nemico se ne acquistava il vigore, mangiando un animale, mangiando una pianta... sono tante le forme per realizzare dei tentativi di unione in vista dell’unità generale. L’unione fra gli esseri umani si fa non solo dandosi dei bacini, si fa anche lottando, uccidendosi, contrastandosi, divorandosi uno con l’altro; il bacio stesso dell’amore in fondo è un’evoluzione del morso. Cioè, abbiamo assoluto bisogno di ritornare all’Uno, e così comincio come posso, unendomi a lei, e lei a me, poi mi unisco a qualcun altro, mi unisco con il mio nemico, anche se lo contrasto, siamo su sponde diverse, vorrei magari ucciderlo, ma dobbiamo pervenire anche in questo modo a un’unità. Quindi non è un conciliare un ideale con qualcosa che invece nella vita reale non c’è. È la vita reale il modo in cui si realizza questo movimento generale. Tutto si fa attraverso la lotta dei contrari. Quando si parla del femminile e del maschile, tutti noi sappiamo come l’andare uno verso l’altro è un corpo a corpo, non sempre piacevole. Come voi, ne ho una certa esperienza nella mia vita, ho conosciuto l’amore in tante gamme ma proprio questa esperienza della lotta mi è molto chiara, e direi che quello che in me è cresciuto e si è fatto adulto, maturo, è il risultato di questa lotta. Se non avessi avuto delle donne con cui confrontarmi, non sarei cresciuto. Il figlio si confronta col padre e viceversa, non è così? Tu con i tuoi colleghi, un’idea con un’altra idea; è abbastanza ovvio che sia così. Quindi non stiamo parlando di una visione astratta... stasera non c’è Pat Sophie, che ha delle percezioni interessanti, ma sempre qualche metro sopra la terra, anzi almeno cinquecento metri sopra; l’altra volta ab-

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biamo discusso molto sul fiore come metafora, e per lei il fiore è qualcosa di simile a una farfallina, mentre per me il fiore è qualcosa che nasce dalla terra, molto spesso addirittura dallo sterco poiché deve essere concimato. Questa è la pregnanza della vita. Il “Lavoro Spirituale”2 di cui abbiamo tanto parlato e a cui abbiamo dedicato un seminario è proprio il lavoro materiale, la lotta materiale. Non vedete che, nel quadro che è stato usato come logo del Seminario, l’uomo è chiuso in una corazza? È per combattere, anche se l’angelo ha solo un gesto di luce e di amore, perché è talmente al di sopra della nostra guerra. Paolo M. Non voleva essere un’accusa di essere poco concreto, era solo una domanda. Carla S. Io aggiungerei: cosa succede però se non si arriva all’armonia di cui parli, se uno scopre di non farcela? In tutti gli aspetti della tua “organizzazione”, ce n’è forse uno che non hai considerato: cosa accade se non c’è la terra, se il seme non si sviluppa, la ragione e il sentimento non si accordano, se l’uomo e la donna non si amano più, che cosa accade quando non c’è l’amore? Vittorio M. In qualche modo accade, l’abbiamo indicato prima, che si ritorna purtroppo nell’oscurità e dall’oscurità si ricomincia. È questo che mostrava il mio schema, mentre l’altra ipotesi (indicata in corsivo) mostrava l’altro livello in cui si compie l’esperienza dell’amore idealizzato, strumento di elevazione e di conoscenza, ma nella massima parte dei casi questo non succede proprio e quindi, dopo esser finiti nell’oscurità, si ricomincia, ahimè, con una nuova oscurità, dalla solitudine si passa alla separazione... Carla S. La separazione è la parola, una parola molto grossa perché è il contrario di religione, è il diabolon, colui che separa. Vittorio M. Separazione come contrario di unità, non occorre trovare altre parole. Questo è quanto accade. Ancora una volta, non vi parlo di una pro-

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spettiva idealistica, fuori della realtà e della storia, ma della realtà della vita. Essa, l’abbiamo detto tante volte, è la caverna, è la lotta, il conflitto, è l’umanità, è la crocifissione, ma c’è anche la speranza che ci sia qualcos’altro: il fiore, il frutto, la resurrezione, l’illuminazione, che è a livello individuale – in alcuni periodi della storia qualche uomo ce la fa – ma che possiamo sperare che si realizzi anche a livello dell’insieme dell’evoluzione umana; non però domani mattina, come abbiamo già detto, ma un giorno potrà accadere. Forse allude a questo la resurrezione dei corpi di cui parla la Bibbia: io non ci crederei assolutamente così com’è annunciata ma lo potrei fare in un senso più vasto, nel senso cioè che tutta la fisicità, tutto il mondo, tutto quanto giunga un giorno all’unità divina. Non diceva forse il Buddha che anche l’albero a cui era appoggiato nella notte in cui conseguì l’illuminazione, sarebbe diventato un giorno un Buddha? Secondo poi gli Induisti, un saggio che individualmente giunge alla realizzazione, se è veramente realizzato non accetterà mai di esserlo da solo, ma lavorerà perché tutti gli uomini insieme lo siano...certo, dovrà aspettare molto tempo.

Verità o consolazione? Elisabetta C. Ma come si fa a distinguere la verità dalla consolazione in questo percorso? Secondo te c’è qualcuno che ha saputo vedere, in questo processo che ci porta all’identità, all’unione ecc se sia verità o consolazione?... noi che siamo qua, da te, in questa stanza, a fare queste magnifiche sessioni, siamo detentori di una verità oppure ci consoliamo nell’immaginare un percorso che sia un po’ meno banale, per proiettarci magari al di là, in un’illusione di eternità... Vittorio M. Consolazione, tu dici, wishfull thinking, come ha detto un’altra volta Paolo, ma vediamola come verità. La verità si basa su che cosa? Non che uno ne sia detentore – io, tu diciamo delle cose, stanno così, punto e basta – ma è un movimento dell’animo, una lettura di analogie, si regge su delle intuizioni, non è un’affermazione. Io parlo sempre di questa meraviglia della natura, tutti i giorni la vedi davanti agli occhi, vedi che una creatura, che sia cresciuta come pianta, come animale o come uomo, giunge al suo pieno sviluppo e poi fa dono del suo seme, e da lì

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Sentimento e ragione

nasce il fiore, il frutto o un’altra creatura. Questo ti dice che perlomeno, al di là del circuito della vita fisica, c’è questo meccanismo che ti permette poi di andare avanti nei figli, la pianta andrà avanti in altre piante, ogni creatura con altre creature, e questo è già molto. Non sei chiusa in qualcosa senza speranza, è già una consolazione effettiva, io muoio ma continuo nei miei figli, l’albero era bello, era completo ma ha dato dei semi che faranno nascere centinaia di altri alberi. I fiori sono commoventi nell’annuncio di questo. Il fiore è l’equivalente di un movimento, di uno slancio, è la parte più bella della vita. È un’illusione? È una consolazione? Allora tutto quello che è bello... Elisabetta L. Se ci fermiamo qui, d’accordo. Vittorio M. Però nasce poi l’analogia che, come il piano fisico genera ogni volta il salto seguente, così deve esserlo al livello dell’anima, cioè un Mozart che compone questa sua musica meravigliosa per me è come se producesse un fiore, fiore che diventa poi il frutto per noi del piacere di ascoltare, di aprire il nostro animo, di sentirlo vibrare, quindi esiste. L’arte ti da proprio l’esempio di una forma di amore che non è solo destinata alla procreazione fisica ma ti apre a un altro orizzonte. Lo stesso lo fa la religione, ti dice: comportatevi bene, seguite i precetti perché così accederete a un’altra dimensione, accederete al paradiso, all’illuminazione, alla realizzazione. Chiamalo come vuoi ma è essenzialmente la fioritura del tuo essere. È una consolazione? Oppure mostra, tutto quanto insieme, la natura, la nostra vita, i nostri sentimenti, l’arte, le religioni, che l’umanità ha questa spinta? Questa spinta è una realtà, non puoi dire che non ci sia. È semplicemente una consolazione? Elisabetta L. Non sto facendo una polemica. Vittorio M. Mi sembra che questo impulso di tutta l’umanità, in tutta la storia, in tutti i millenni, in tutte le filosofie, in tutte le religioni, abbia un suo evidente fondamento. Uno dice che questo è semplicemente il bisogno dell’uomo di consolarsi, ma consolarsi perché? Perché fa una vita infelice, certo, stretta com’è fra la nascita e la morte, la malattia, la totale

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inermità di fronte al cosmo; bisogna crearsi una consolazione, ma questa consolazione è come un razzo che porta in sé un ulteriore vettore che va sempre più avanti, sempre più in alto, fa parte non solo della nostra immaginazione ma della nostra reale natura, questo crescere e darsi. Carla S. Elisabetta ha fatto una domanda che è da sempre presente anche nella mente dei religiosi, perfino nella Bibbia. Non c’è senso, ce lo costruiamo, ce lo inventiamo, ma la nostra vita non ha senso. Fra l’altro è appena uscito un libro di uno psicologo, di quelli di ultima generazione, che hanno tutti gli strumenti, tutta la filosofia a disposizione, il quale sostiene che la nostra coscienza di esistere, di essere un sé, un Io, è una pura illusione, che, come macchine umane, ci diamo per sopravvivere nell’universo. Io credo che convivano queste cose, che necessariamente debbano convivere. Una domanda come la sua su quello che dici – ci vorrei credere però c’è una parte di me che non ci crede, che mi dice che è un’illusione, che è una costruzione bella, come una musica di Rossini, felice, bella, o anche di un Mozart...- non può avere risposta perché queste due cose stanno insieme, una non esclude l’altra. Vittorio M. Non sono d’accordo, la natura umana ci porta a vivere entro delle costrizioni. Tentare di uscirne può essere considerato un’illusione, però, nel novero delle illusioni ci sono appunto non solo le grandi religioni, ma anche i grandi poemi, le grandi architetture, tutta l’arte, tutto ciò per cui vale la pena vivere. C’è chi dice che tutto questo sia una consolazione per sopportare le costrizioni della realtà ma io mi permetto di dire, no, è la spinta della realtà stessa, come quella che produce il fiore. Elisabetta L. Se non pensassi così, non faresti quello che fai. Vittorio M. La forza che produce il fiore non è una costruzione artificiale, è il fine della realtà, è ciò che dà un senso alla vita. Se tu sei qui e parli e sei intelligente, hai un linguaggio, ti esprimi, tutto questo viene da questo grande lavoro del pensiero umano, dall’esperienza di millenni, che ci ha portato anche a costruire l’edificio del suo ideale superamento. Può certo venire in mente che sia un edificio illusorio, però, se io pensassi questo, se

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non fosse vero, mi sembrerebbe di negare di esistere, talmente vedo il senso della vita nel meditare, nello scoprire collegamenti, nello scoprire che tutto ti parla, che tutte le creature ti sono sorelle, che tutti gli esseri umani sono come te stesso, che devi imparare a conoscerti, che l’intuizione ti guida...tutto questo è come un fiorire. Se non avessi il fiore è come se non avessi la testa, non avessi il cuore. Sarei un automa con degli arti meccanici, ma come si potrebbe considerare questo come la sola realtà? Carla S. Ma su tutto questo un esistenzialista cosa ne penserebbe? Un Sartre cosa ti avrebbe detto? Vittorio M. Non amo queste persone e le loro idee. Carla S. Sartre ti avrebbe detto: questo è tutta roba che non si sa se abbia senso o meno, poiché Dio non esiste.. Però noi dobbiamo vivere lo stesso, è la nostra sfida a vivere, la nostra voglia di amare. Vittorio M. È più di una voglia o una sfida, è l’amore “che muove il sole e le altre stelle” Che muove anche il nostro cuore, quando ci innamoriamo. Che cos’è l’innamoramento? è una consolazione anche quella? In un certo senso si, però ti accende la vita. Elisabetta L. Non mi hai capito Vittorio, io sono assolutamente positiva nei confronti dell’essere umano, l’uomo è grande, è anche più grande di quello che può manifestare, su questo non ci piove. Addirittura, secondo me, noi abbiamo delle grandissime potenzialità, io credo nell’individuo in una maniera viscerale.. Vittorio M. ...e quindi devi credere nell’amore, nella bellezza... Elisabetta L. Per me è scontato che si nasca, che ci siano i fiori, le farfalle, i semini, cioè è già grandissimo tutto questo, non sarebbe nemmeno necessario

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aspirare a un oltre, perché il dono di questo e anche la contemplazione di come si muove la natura è già bellissimo in sé. Vittorio M. Più che andare oltre, qui si cerca di capire il senso delle cose, avventurandosi, anche se non bisogna poi farlo troppo e soprattutto non con la sola mente. Elisabetta L. Se parli di senso, se vuoi metterla su un piano intellettuale, la mia testa chiede una premessa, perché tu mi dici così, e poi arriva il rabbino e mi dice in un altro modo... Vittorio M. No, se permetti, il rabbino, il sufi, il bramino, il sacerdote, il sapiente greco, tutti dicono nell’essenziale la stessa cosa, si può disquisire solo su degli aspetti secondari. C’è una continuità nell’uomo. Quel che è vero o che si può immaginare che sia vero, lo è nel corso dei millenni, lo è nelle persone più profonde, è come un nocciolo, tu dirai che è una consolazione universale che perdura nei millenni, ma non è che uno dica una cosa e uno ne dica un’altra; se ti avvicini alle vere fonti della sapienza, sono concordi. Io sto parlando dei saggi, dei sapienti, non sto parlando delle varie credenze e opinioni che metto nel conto della ramificazione, i deterministi, i marxisti, i positivisti, lo psicologo di cui parlava Carla, quanti ne vuoi... Elisabetta L. Ma qual è la premessa? Vittorio M. C’è un filo d’oro che, nella storia dell’anima umana, attraverso tutto, ti mostra proprio questo filo di sapienza, che poi tu puoi svelare facilmente nel linguaggio del cristianesimo, o in quello del buddismo, dell’induismo, o nell’antica filosofia greca. Lo trovi da per tutto e soprattutto in te stessa, ma non è la premessa razionale che cerchi. La premessa vera è l’origine, celata in un mistero la cui sacralità è il vero senso della tua vita. Certo occorre la fede per avvicinarsi ad esso, però anche qui bisogna intendersi: fede in che cosa? Era Dante che diceva: fede è sostanza di cose sperate...

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Sentimento e ragione

Carla S. ...ed argomento delle non parventi... Vittorio M. Tu dirai che sono appunto cose solo sperate, ma io ne leggo soprattutto la sostanza. Tu puoi sperare o non sperare, ma c’è una sostanza... A questo punto, però, dovremmo cercare di diversificare il dibattito. Guardando ai miei schemi, c’è per esempio un divertente accostamento fra le foglie e il linguaggio, su cui potremmo discutere. Perché paragonare le foglie al linguaggio? Perché le foglie rappresentano l’estrema ramificazione dell’albero, oltre la divisione che già prima aveva preso inizio con i rami in cui esso si era diviso. Lo stesso fa il linguaggio: da un primo sentimento, a malapena articolato, il pensiero si sviluppa sempre di più insieme al linguaggio e non si può anzi neppure concepire senza il linguaggio. Ma lasciatemi immaginare le foglie che, mosse dal vento, fanno un fruscio, stormiscono, o anche gli uccellini che si posano sui rami, fra le foglie, e cinguettano. Sono come le parole di un linguaggio, che sembra parlarci di un’armonia che è già presente nel nostro cuore. Quando però la stessa cosa avviene fra delle persone, allora il linguaggio diventa fonte di diversificazione e opposizione. La lotta, il corpo a corpo di cui parlavamo prima, con il proprio partner per esempio, è in gran parte dovuta al linguaggio. Quando ci si ama, ci si bacia, ci si desidera, si va a letto,va tutto bene, ma quando si comincia a pensare, a ragionare – io ho detto questo, tu hai detto quest’altro ecc.- si può arrivare a degli aspetti cruenti con il solo fatto di scambiare delle parole, che poi finiscono con gli oggetti scagliati addosso, è vero o no? Al livello dell’anima c’è però da dire una cosa, come si vede in un altro schema: invece della parola antagonista, quella che i greci chiamavano “contesa”, il combattere uno con l’altro, ecco la parola di saggezza che viene dal profondo del cuore. Sarà magari una parola di consolazione, perché no?, guardate che Gesù, quando riapparve ai discepoli disse: vi invierò il Consolatore, lo Spirito Santo che vi consolerà. Anche questo è vero. Come i bambini, abbiamo bisogno di essere consolati (la verità e la consolazione non sono poi così diverse e antagoniste), non illusi ma portati dall’amore. Questa consolazione è un gesto di amore, tanto quanto invece è di non-amore tutto quello che di intellettuale, esistenzialista, materialista ci viene inculcato e che finisce col sopprimere gli aneliti più ingenui e genuini di noi stessi. È come buttare su delle pianticelle che stanno germogliando delle palate di detriti inquinati. Invece la consolazione è

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Il femminile e il maschile

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proprio un prendere cura, è un amare. In questo è anche il valore della parola, ma c’è una grande differenza fra la parola di saggezza e di amore – senza parlare del Verbo, la Parola che ha creato il mondo – e le parole che spendiamo e che fanno parte della divisione del linguaggio.

Divisione o fusione dei generi? Ecco, abbiamo qui un altro schema, in cui investigavo qualche cosa che però non sono arrivato a capire, cioè, quando noi parliamo della divisione dei generi, non pensiamo che, magari, all’origine, essi non c’erano. Eravamo androgini, il nostro corpo stesso ha ancora i segni di un’unità sessuale, che poi dopo si è differenziata con il femminile e il maschile, ma non vi sembra che oggi ci siano dei segni di un ritorno a una androginia? Non è che, a livello evolutivo, possiamo intravedere un’ attenuarsi della differenza fra i sessi? Direi che è sotto i nostri occhi: le donne che diventano maschili e gli uomini che sono più femminili di una volta.. Questo è da prendere come una forma di degenerazione, un abbandono di un sano modo di concepire la vita, o è invece l’annuncio di un’evoluzione in rapporto con un ritmo cosmico? Siamo originati da una posizione di androginia, siamo giunti a una differenziazione, poi a una forma di unione, e infine ci proiettiamo di nuovo verso una androginia, quando non sarà più necessario di far partorire i figli a una donna: essi potranno nascere in un altro modo. Non vorrei comunque avventurarmi in futurologie, ma solo riflettere in un senso più profondo. Fu posta a Gesù la domanda: “tu ci parli della resurrezione dei corpi ma mettiamo che tizio abbia avuto quattro mogli, sono morte tutte una dopo l’altra, nell’ al di là cosa accadrà? Le terrà tutte e quattro o come risolverà altrimenti il problema?” E lui rispose: nell’al di là non ci sarà più né il maschile né il femminile. Ecco, la risposta è perfetta. Nell’al di là c’è un futuro in cui questo maschile e femminile, che si esprime oggi in forme finalizzate alla procreazione, non sarà più necessario, prenderà altre forme, non sessuali ma spirituali. Non dicevamo prima che anche Dio ha in sé il maschile e il femminile? Silvana O. Io credo che comunque noi, fin dal momento del concepimento, avendo i cromosomi del padre e della madre, abbiamo già le due componenti. Al livello dell’anima è un cammino interiore che ognuno deve fare, ma per quel che riguarda la specie, se un domani, con delle muta-

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Sentimento e ragione

zioni particolari, essa evolverà, progredirà in modo da far partorire a turno, un po’ l’uomo e un po’ la donna, oppure chissà come... Vittorio M. Ma pensa, a che punto siamo: non solo bisogna dividere i lavori domestici, ma anche partorire a turno... Silvia G. Questo fa pensare a come i rapporti fra uomo e donna sono difficili. Noi cerchiamo nell’altro un completamento, ma dovremmo essere già completi in noi stessi, cerchiamo il nostro maschile o il nostro femminile, siamo poi delusi, cerchiamo l’unità, ma purtroppo l’unità, in questo momento, in questa terra, non è possibile – si raggiungerà forse solo domani quando saremo un unico essere – e quindi il rapporto fra uomo e donna adesso non va affrontato con questo tipo di aspettativa. Paolo S. Bisogna amare l’altro e non il nostro sosia in lui, che è solo una proiezione. Se questo non è possibile, bisogna portare l’amore su un altro piano. Siamo fondamentalmente egoisti nell’amare. Si sta prospettando un futuro narcisista, il rapporto di coppia va sempre più deteriorandosi. È sempre un Io che prevale mentre, nell’antichità, c’era molta più propensione all’altro, e anche una spinta della natura molto più forte. Con il tempo, più la conoscenza umana avanza, più uno rimane sempre più centrato su sé stesso. Carla S. Ci sono però delle scelte che si fanno. Uno rimane sempre più incentrato su sé stesso, se fa questa scelta, ma se ne può fare un’altra. Abbiamo tutti gli strumenti per lottare contro questa cosa Paolo S. Lo so, però capisce che siamo sottoposti a dei bombardamenti spaventosi dei mass-media fin da quando la gente si alza al mattino? Ormai non si ragiona più, non si ha più la testa per ragionare, si ragiona solo con tutte le informazioni che riceviamo. Carla S. Bisogna fare delle battaglie, contro queste cose.

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Il femminile e il maschile

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Natura, civiltà, città Vittorio M. Noi qui stiamo facendo appunto delle piccole battaglie di riequilibrio, nei limiti delle nostre forze. Il discorso che fai tu va però visto più in generale, non riguarda solo il rapporto fra uomo e donna, fra i tempi passati e il presente, o il malcostume della società attuale, ma va portato sul piano del rapporto fra natura e civiltà. La natura in qualche modo è femminile e la civiltà in qualche modo è maschile ed è nettamente sopraffatrice della natura. Anche qui e anzi soprattutto qui c’è da ristabilire un equilibrio, di cui la campagna di emancipazione delle donne è solo un piccolo inizio. Il rapporto fra maschile e femminile comprende quindi anche una riflessione sulla natura e la civiltà. Anche in questo campo bisogna realizzare una integrazione, un’unità: fra la natura che nutre la civiltà, e una civiltà che sappia tutelare la natura, in una felice armonia che è, ahimè, lontanissima da quanto accade oggi. Parleremo in un prossimo incontro della città, perché è in essa che si incentra il rapporto fra civiltà e natura Elisabetta C. Ci sono città femminili e città maschili, secondo te? Vittorio M. Non bisogna schematizzare il maschile e femminile che, certo, è in tutte le cose. Silvana O. Secondo me, le città di mare sono femminili. Vittorio M. Forse perché accolgono e sono aperte verso il mare, che è come l’inconscio? Elisabetta poi ci dice che Sparta, invece, era maschile, ma non insisterei su queste associazioni. Il femminile e il maschile sono presenti in tutto, ma non in modo così semplificato. Ci può essere una prevalenza, in un determinato periodo, dell’uno o dell’altro aspetto, e poi uno si cambia nell’altro. Per esempio, la città del medioevo io la sento come femminile, in confronto con la città classica che invece è maschile. La città classica è un ordine razionale, dettato dalle leggi della geometria,

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Sentimento e ragione

mentre quella del medioevo si forma in modo organico, simile a una pianta, intorno a un cuore che è la cattedrale. Ciò però non toglie che la città del medioevo era irta di torri e chiusa fra le sue mura, mentre si difendeva dai nemici con fior di maschi guerrieri ricoperti di ferro. Una cosa si trasforma nell’altra ma non per questo perde la sua verità, ci indica solo che la verità è qualcosa di vivo, in mutamento, in continua trasformazione. Quindi i nostri ragionamenti non devono essere presi come schemi rigidi, ma indicano dei principi, per poi un momento dopo rovesciarli, giusto, no? La sola cosa certa è che tutto cambia: il mutamento è la realtà.

Verso una conclusione Carla S. Posso dire ancora una cosa, per concludere con un pensiero positivo? A questo punto, penso che, con tutte le riflessioni filosofiche e religiose, a livello altissimo, che sono state fatte e che abbiamo anche tutte in noi, in qualche modo, anche a livello artistico, musicale, e che costituiscono un patrimonio immenso di cultura e di cose straordinarie, così come abbiamo anche un grande patrimonio di ricerche scientifiche…ecco, allora penso che veramente dentro di noi possono convivere tante cose: così, vedendo l’infelicità del mondo ci sentiamo infelici, però se il nostro uomo o figlio ci ama, siamo allora felici, e la nostra felicità può stare accanto all’infelicità per quello che vedi. Ugualmente, dentro di noi possiamo sperare che oltre la morte ritroveremo forse chi abbiamo amato e perduto, e nello stesso tempo avere una voce dentro che ci dice che non è vero niente di questo e non si troverà nulla. Allora credere ad uno schema come quello che hai fatto tu, Vittorio, dove in fondo c’è una specie di armonia universale, e dall’altro sentire la voce che dentro ti dice “no, guarda, prendi quello che la vita ti dà perché poi sarai polvere e non ci sarà più niente”... le due cose, secondo me, possono stare insieme, così come credere in un Dio creatore, buono, che in un modo o nell’altro ti è vicino, oppure credere che no, Dio non può esistere e c’è solo questo piccolo spirito che anela al bene che abbiamo dentro, e che dobbiamo lottare per far sopravvivere, altrimenti, come umanità non siamo altro che questo spettacolo sgradevole che viviamo ogni giorno e che vediamo alla televisione.

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Il femminile e il maschile

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Ecco, queste cose convivono, e credo che in tutto una cosa debba restare salda: mi riferisco alla lettura di Levinas, proveniente da studi biblici e religiosi e maestro di molti rabbini, il quale dice che, per lui, parlare di Dio, oggi, sostenere la realtà di Dio e credere in queste cose che ci vengono dalla cultura passata, è lontano, difficile, quasi insostenibile, ma che appunto c’è una cosa che è fissa, cioè che se c’è una divinità che viene su dall’universo attraverso di noi, qualcosa in cui si manifesta, è nella legge, vale a dire la legge umana che cerca la giustizia. Silvana O. Idea un po’ rabbinica, molto ebraica, direi… Carla S. È molto ebraica, ma è molto vera, però, perché noi non abbiamo altro che la legge su cui far passare il discorso del bene e del male. Vittorio M. Non conosco Levinas, al di là di un’informazione superficiale sull’impostazione etica della sua filosofia, ma mi permetto di completare il tuo discorso con un’immagine. La legge mi fa pensare ad un campo arato in cui noi tracciamo i solchi, però non si può trascurare il fatto che in questi solchi devono nascere delle piante viventi. Ecco quindi il bellissimo rapporto che intercorre fra la legge, cioè la ragione, e quello che chiamo molto impropriamente il sentimento, in questo caso la natura. Sono complementari, l’etica umana deve fare una sintesi fra la libertà della natura, o dei nostri sentimenti, e la legge della ragione. Ma non potrò assolutamente affidarmi solo alla ragione, alla legge, mentre crederò profondamente all’equilibrio fra sentimento e ragione che è iscritto in noi. Non solo vedrò il rapporto fra natura e civiltà, fra la vita e il pensiero, a sua immagine, ma evocherò di nuovo quanto dicevo prima dell’arte ellenica in cui il perfetto equilibrio fra queste facoltà è la base che ci permette di captare il divino, di parlare con gli Dei. Riprendendo l’esempio concreto del solco, al di sopra della base in cui la ragione umana che lo traccia e la forza vegetativa si equilibrano, splende la luce del sole, scende la grazia di Dio.

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Sentimento e ragione

Carla S. Ma certo, la legge deve tenere conto di tutto, è il nostro massimo raggiungimento. Vittorio M. No, la legge, la ragione, e neppure la ragione etica di cui parli, non può affatto essere il nostro massimo raggiungimento ma, al contrario, sarà la nostra prigione, la nostra condanna, se non sapremo elaborarla nell’equilibrio con il sentimento, con il femminile, con la natura, con la nostra anima profonda, e in sostanza con lo stesso divino: non abbiamo detto che Dio è insieme maschile e femminile?.. Carla S. Ma la legge la fai tu e la fai appunto così, se fai una legge buona! Vittorio M. Ma vedi, questo mio stesso discorso, un po’ architettonico, si appoggia alla costruzione di alcuni schemi, come fossero delle leggi, ma io stesso dico “attenzione!”, non va preso in modo arido, non si deve giurare che sia assolutamente vero, e neppure dire che può convivere con qualunque altro punto di vista. È un modo di disegnare degli assi, dei tracciati, perché fra di essi possano crescere dei sentimenti vitali, ma guai se questi tracciati li soffocassero, come avviene di troppe teorie, di troppe leggi, comprese quelle che si pretendono divine. Riguardo poi a quello che è vero o che non è vero, a ciò che posso credere o non credere, mi viene in mente un’altra immagine. Vedrei la vita come una ruota – l’abbiamo già detto tante volte, è la ruota del samsara – che, come quella di una bicicletta, è costruita con molti raggi che ne collegano la circonferenza al centro. In questi raggi possiamo vedere tutti i ragionamenti, tutti i percorsi, quello della storia, dell’arte eccetera e tutti quanti si dirigono allo stesso centro. Certo è vero che essi convivono e che possono anche essere tutti veri, purché però portino davvero al centro comune. Ecco, quello che a me interessa è questo centro, che è fisso e non opinabile: la ruota può girare come vuoi, può andare avanti, tornare indietro, i suoi raggi possono essere tanti o pochi, per quanto possibile non divergenti o sconnessi. Ma soprattutto il centro non è un’opinione, non è neppure una consolazione: lo senti nel tuo essere!

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Il femminile e il maschile

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E se uno si rifiuta di sentirlo, è come proprio se chiudesse gli occhi e le orecchie, se rifiutasse il nutrimento, e non volesse neppure respirare. Ma perché?

Note 1 2

Vittorio Mazzucconi, Arte e Psiche, Edizioni Mimesis 2012 " " , Il Lavoro Spirituale, Edizioni Moretti & Vitali 2010

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LA NASCITA DEL FIGLIO

Incontro n°5 del 5 maggio 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Silvia Guerriero, Eugenia Destro, Silvana Olmo, Alberto Fagioli, Federica Lanata, Carlo Laiso Vittorio Mazzucconi Abbiamo dedicato l’ultimo Incontro al rapporto fra femminile e maschile, che è perfettamente equivalente a quello fra sentimento e ragione. Non dico certo che le donne siano prive di ragione, o che la ragione sia solo appannaggio degli uomini: al contrario. Ci sono mille situazioni, mille sfumature, in cui sentimento e ragione sono presenti nei modi più vari, senza alcun riguardo ai diversi generi. Si potrebbe anche sostenere che l’uomo in fondo è molto più sentimentale della donna e che la donna è molto razionale; è la donna che decide, delibera, mentre noi uomini ci facciamo facilmente prendere dai sentimenti. Comunque, al di là dei casi particolari e concreti, vale in generale l’equivalenza che abbiamo enunciato, e che invito ad esplorare meglio con la lettura delle dispense degli incontri precedenti. L’argomento di stasera è: che cosa accade in questa unione? L’unione in sé è già un grande risultato; l’equilibrio fra sentimento e ragione è fondamentale nella nostra vita psichica, come lo è ugualmente l’integrazione fra femminile e maschile in noi. Essa si realizza poi su diversi piani, come abbiamo già visto, e in molteplici rapporti in cui il passaggio dal femminile al maschile, dal sentimento alla ragione, si può leggere e si può anche compiere nei due sensi. Sono cioè valori reversibili, nel senso che uno può cambiare e trasformarsi nell’altro, e che, insieme, formano un ciclo. La ciclicità è tutta una filosofia della vita che abbiamo già avuto modo di sviluppare nei nostri Incontri. Sostanzialmente, il rapporto fra maschile e femminile è un’unione che produce il figlio, questa è la cosa fondamentale. E non parlo solo del

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Sentimento e ragione

bambino che nasce nell’ambito di un rapporto di coppia, ma di diversi piani in cui può essere vista la nascita del figlio. Il figlio di chi? La tabella che segue ne mostra, nella prima colonna, il padre-madre, cioè l’essere di cui vogliamo osservare il processo di procreazione. Vi ho scritto i nomi di questa paternità: la pianta, l’animale, la natura, l’arte, l’anima, Dio...è certo un modo sorprendente di porre il problema, ma vi prego di seguirmi. Nella seconda colonna si vedono i modi in cui si opera l’unione da cui nasce il figlio: l’unione dei pollini nella vita vegetativa, l’unione sessuale negli animali, l’evoluzione nella natura, la sintesi di sentimento e ragione nell’arte, del femminile e del maschile in noi stessi, e infine l’unione fra uomo e donna attraverso cui possiamo forse intuire un processo più profondo e diretto a una più alta meta. L’unione del maschile e del femminile che si realizza in tutte queste forme permette materialmente la riproduzione ma perché nasca veramente il figlio, introduco, con la terza colonna, l’ipotesi di un terzo elemento. Sarà l’anima, anch’essa in diverse forme: una spinta vitale ai livelli della vita vegetativa e di quella animale, un impulso educativo all’inizio di ogni civiltà, un’ispirazione per l’opera d’arte, un’intuizione che apre la strada alla conoscenza, lo Spirito con cui può nascere il “figlio di Dio”. C’è infine una quarta colonna in cui si vedono i diversi tipi di figlio: prima di arrivare in alto al figlio di Dio, vediamo in basso il frutto della pianta che è in verità il suo figlio; o il cucciolo degli animali, o la nascita della civiltà, se la vediamo come figlia della natura, o l’opera d’arte, figlia dell’artista, o la conoscenza, figlia dell’anima. LA NASCITA DEL FIGLIO

SENTIMENTO-RAGIONE = FEMMINILE-MASCHILE

padre madre

modalità

fiore

frutto

Dio anima (mente arte natura animali e uomo piante

uomo unione femm.maschile ragione unione sent.to-ragione evoluzione unione sessuale vita vegetativa

+ spirito + intuizione + divisione + ispirazione + uomo + anima + fiore

= figlio di Dio = conoscenza = scienza) = opera d’arte = civiltà = figlio = frutto

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La nascita del figlio

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Temo proprio che la spiegazione della tabella sia ancora più oscura di quanto vi vedete scritto, e cerco quindi di spiegarmi meglio. Ricominciando dalla vita delle piante, è abbastanza ovvio che dal fiore nasce il frutto. La stessa cosa avviene negli animali, fra cui l’uomo: è l’unione sessuale fra i corpi, da cui nasce il figlio. Qui si postula però anche un’altra cosa: che il rapporto fra i due generi non sia sufficiente a far nascere un figlio, perché ci vuole qualcos’altro: ci vuole l’anima che, se volete, entra nell’embrione nel momento in cui il maschile e il femminile si uniscono. È solo una credenza? Ma non accadeva forse lo stesso anche nella pianta, in cui l’unione dei pollini non avrebbe dato luogo a niente se non ci fosse stato quel quid che suscita la vita...È quello che chiamiamo anima? Vediamo quindi l’anima in ogni nascita, non solo in quella dell’uomo? Certamente. Quando poi parlo della natura, da cui nascerebbe la civiltà come un suo figlio, c’è certo di che chiedersi cosa voglio dire. L’evoluzione della natura si svolge ovviamente su un piano materiale, ma basta porre mente alle sue meraviglie per dirci che essa sembra illuminata, orientata, dalle più piccole forme all’intero universo, da un’intelligenza superiore; così almeno penso, nonostante l’avviso contrario dei darwinisti. Quando poi assistiamo ai primi inizi della civiltà umana, essi ci appaiono in un rapporto con l’evoluzione naturale che è insieme di continuità e di distacco. Ci rendiamo conto del faticoso processo con cui gli uomini primitivi, in tempi lunghissimi, hanno lentamente imparato le cose più elementari, come accendere il fuoco o scheggiare le pietre per farne delle armi, ma ci fa pensare il fatto che, in tutti i popoli, in tutte le religioni, c’è sempre stata l’intuizione di un personaggio divino che ha insegnato agli uomini a fare i primi passi: Osiride e Iside che insegnarono l’agricoltura agli Egiziani, Tagete che fece lo stesso nell’antica Etruria, e così via. In ogni religione si ipotizza un principio soprannaturale che ha insegnato agli uomini come passare dalla natura alla civiltà; alcuni pensano anche a messaggeri venuti dallo spazio...Noi non sappiamo ovviamente nulla di questo, però l’insieme dei rapporti finora visti fa immaginare che l’unione di femminile e maschile, letta in questo caso come quella della natura e dell’uomo, dia frutto, ossia dia nascita alla civiltà solo in presenza di un fattore superiore: è l’anima, è un essere superiore o è solo un particolare sviluppo del cervello? Sappiamo solo che c’è stato un salto fra l’evoluzione naturale e la civiltà umana, che tenterei di paragonare a quello fra l’incontro del maschile e del femminile in

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Sentimento e ragione

un rapporto sessuale e la stupefacente nascita di un essere umano, con la sua imprevedibile personalità. Nel campo dell’arte è vero lo stesso discorso. Anche nell’arte, l’opera nasce sempre da un rapporto fra il sentimento e la ragione – come io sostengo strenuamente – mentre, quando questo rapporto non c’è, l’arte diventa solo un esercizio concettuale, oppure solo un’effusione sentimentale: non è un’opera d’arte vera, che io considero invece proprio come un figlio, cioè un’opera vivente che nasce come un figlio. Nell’opera devono così unirsi il sentimento e la ragione, come il maschile e il femminile presenti nell’anima dell’artista. Occorre ovviamente un “corpo” tecnico in cui questa unione si realizza, ma occorre anche ispirazione, un qualcosa che è ad un altro livello e che dona la vita a questo rapporto. In uno degli scorsi incontri, ho avuto una grande discussione con uno scultore che pretendeva che l’ispirazione non esistesse. Non sono riuscito a convincerlo che, pur apprezzando il suo approccio, molto concreto, molto onesto, di chi lavora la pietra con le sue mani, non ci può essere vera arte senza la presenza di questo quid che poi è il senso, l’anima vivente del tutto. Il cammino dell’anima, che la tabella mostra nella riga superiore a quella dell’arte passa anch’esso dall’unione femminile-maschile, che realizza un equilibrio interiore. Si può permanere in esso fino a che non si incontra un dislivello, che occorre superare per accedere a un livello superiore: un gradino per salire il quale occorre un balzo che si chiama “intuizione”. Femminile e maschile, sentimento e ragione devono essere armonicamente uniti, ma occorre l’intuizione per portare questa unione a un livello più alto, che è quello della vera conoscenza: non la conoscenza materialistica, ideologica, scientifica ma la conoscenza dell’anima. Prima di giungere a un livello ancora più alto, quello di Dio, vorrei però tornare indietro a una linea intermedia, indicata in corsivo, in cui dovremmo parlare della mente. La mente cosa fa? Mentre le altre categorie indicate nello schema comportano l’unione di femminile e maschile, sentimento e ragione, la mente ha ed è solo ragione e, in luogo di unirsi al principio complementare per giungere a un livello più alto, si divide, come abbiamo detto tante volte paragonando la ragione alla ramatura di un albero, che si suddivide sempre di più. Questa divisione è il cammino della scienza. In ogni settore, in ogni specializzazione la scienza indaga e sviluppa una conoscenza sempre più ramificata. È il

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La nascita del figlio

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percorso dell’evoluzione umana che ha portato a tante conquiste ma che, in qualche modo, è anche il percorso del “peccato originale”. In una creazione in cui tutto è o potrebbe essere ordinato al bene, alla felicità, ci troviamo invece nella realtà del male e dell’infelicità. La ragione, la mente è questo straordinario strumento che però produce un effetto completamente diverso dagli altri principi esaminati perché, mentre le piante producono il fiore, una coppia produce il figlio, dalla natura nasce in un certo senso la civiltà, dai primi e rozzi tentativi si passa a una sublime opera d’arte, dall’intuizione si genera la conoscenza...la ragione, con la separazione che induce fra l’uomo e l’universo, come fra soggetto e oggetto, genera la scienza, e questa porta a una direzione diversa da quella di uno sviluppo armonico dell’uomo e del mondo. Ne vediamo le conseguenze sotto gli occhi: la scienza che si trasferisce nella tecnologia, il materialismo dilagante, l’interesse speculativo a cui tutto è asservito. E non parlo solo di un interesse economico ma dell’impulso speculativo della mente in ogni campo, che porta allo sfruttamento insensato del pianeta e a una crescita distorta simile a quella dei tumori. Guardate invece alle piante, che vivono certo anch’esse una vita materiale, hanno le radici nella terra, devono resistere ai venti, devono costruirsi, vivere, espandersi in situazioni del tutto concrete, ma sono tuttavia in rapporto con la luce, con le forze benefiche dell’universo; guardate agli animali, a ogni forma della natura in cui le dure leggi dell’ opposizione fra le forze in gioco sono tuttavia al servizio di una superiore armonia. Nella ragione vedrete invece che essa è solo in rapporto con sé stessa e si suddivide sempre di più, come un’opera deliberata di inaridimento, di sterilizzazione del mondo, in cui tutte le altre facoltà un po’ alla volta si reclinano come fiori appassiti, se non aiutiamo la loro sopravvivenza – é questo il senso del piccolissimo lavoro che facciamo – se non le annaffiamo come pianticelle, se non ne prendiamo cura. Prender cura vuol dire amare. Quante volte si può dire che la ricerca scientifica ami il suo oggetto? Penso molto raramente. L’amore è un’altra cosa, è un prendere cura, un immedesimarsi, un entrare nell’oggetto e portarlo in sé, mentre la scienza lo viviseziona, lo traduce in equazioni, lo mette poi al servizio di applicazioni tecnologiche ed economiche. Dopo questa parentesi, ritorniamo all’anima, al vero cammino dell’anima, in cui viene superata questa divisione e, per mezzo dell’intuizione o di quella che nell’arte si chiama ispirazione e che è la stessa cosa, si

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giunge alla vera conoscenza. Dire che è la conoscenza del cuore è molto generico: si intende in tal modo la bontà, i buoni sentimenti, l’avere un rapporto di empatia con gli altri. Tutto questo è bello ma la vera conoscenza è unione fra sentimento e ragione, non cuore solo, non bontà sola. Come abbiamo detto tante volte è l’unione della luce e dell’oscurità che ne viene illuminata, della conoscenza e dell’inconscio che emerge in essa. Se vogliamo salire adesso al livello seguente del nostro schema, il più alto – Dio – da quale base partiremo per tentare di avvicinarci a tale altezza? Dall’uomo stesso, ma solo se in esso si è realizzata l’unione fra sentimento e ragione, fra femminile e maschile, ossia se è un uomo completo in cui si riassumono tutti i precedenti tentativi di unione, operati a tutti i livelli, dalla vita vegetativa al corpo, all’arte, all’anima. Ma anche un’unione così perfetta ha bisogno di un impulso che venga dall’alto, come la luce, l’intuizione, l’ispirazione: questo impulso è lo Spirito. E nello stesso tempo viene anche dalle profondità del tuo animo, come dalla linfa dello stelo sale la forza che fa sbocciare il fiore. Questo impulso, per l’uomo, è quindi come quello che produce il fiore nella pianta, è come l’intuizione della conoscenza e l’ispirazione artistica, ma a un livello più alto. Quindi, quando l’essere umano entra in contatto con lo Spirito, ancora una volta nasce il figlio, come il frutto di questa unione. Ma quale figlio, quale frutto?. L’albero si conosce dai suoi frutti, diceva Gesù. Così come il figlio della pianta era il suo frutto; il figlio della natura, in un certo senso, era la civiltà; il figlio dell’arte era l’opera d’arte; il figlio dell’anima, la vera conoscenza; il figlio dell’unione con lo Spirito possiamo chiamarlo il “figlio di Dio”. È difficile capire profondamente o almeno approfondire un po’ di più questo pensiero. Nella storia di tanto in tanto appare un uomo di cui si dice che sia figlio di Dio, non molti a dire il vero: Gesù, Horus, Krishna, forse altre incarnazioni, oltre a dei saggi che si sono realizzati in silenzio, come fiorisce spesso in silenzio e in solitudine un fiore meraviglioso. Non è però nella storia ma proprio in questa analogia della fioritura, a cui continuamente mi richiamo, che mi sembra di intuire il senso profondo di questo mistero. Il figlio della pianta si prepara quando il fiore sbocciato e fecondato si trasforma in un frutto, portatore di semi; il frutto dell’anima nasce quando, per mezzo dell’intuizione, si apre in essa la vera conoscenza; il “figlio dell’uomo”, come Gesù diceva di sé stesso, è chi accoglie in sé lo Spirito, e diventa in tal modo il “figlio di Dio”. L’uomo si rende conto – non lo dice forse la prima parola della preghiera di

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Gesù? – di poter dire “Padre”, rivolgendosi a Dio. Che cosa stupenda, dire Padre vuol dire essere della stessa natura del Padre, vuol dire essere il suo erede, il suo continuatore: noi tutti siamo Dio nel suol farsi, nel suo svelarsi, nel suol realizzarsi in noi. Siamo figli del Dio padre e siamo quindi destinati a diventare Dio quando saremo abbastanza grandi... Questo pensiero non viene in me da uno studio teologico ma nasce da un’intuizione più modesta, che non credo si trovi in alcuna religione: che tutto quello che accade ad ogni livello è uguale a quello che noi possiamo immaginare di Dio. Egli non è una realtà al di fuori di noi, inconoscibile, situata in spazi siderali o al di fuori dello spazio e del tempo o, se anche lo è, la vediamo rappresentata, anzi incarnata, vivente, in tutto quello che è la vita reale. La stessa cosa della pianta che produce il fiore la fa Dio, cercando con l’evoluzione in eoni di tempo di realizzarsi nel figlio, cioè in un essere finalmente consapevole. Per il momento questo figlio lo siamo noi o siamo sulla strada di diventarlo, ma ce ne saranno certo altri nell’universo. È la stessa cosa se guardi una pianta che fiorisce, un uomo che cerca la verità interiore, un ricercatore che indaga la natura: è sempre Dio che, attraverso le opere della natura o quelle dell’uomo, realizza un certo livello di consapevolezza. L’artista si rallegra di aver fatto un bel quadro, la mamma un bel bambino, l’anima gioisce di un’illuminazione interiore, qualche volta la natura si può gloriare – per modo di dire e non sempre, purtroppo – di essere diventata una civiltà ma, a livelli sempre crescenti, dal frutto al bambino alla civiltà ecc. si dovrebbe arrivare al livello supremo in cui la consapevolezza divina sarà proprio il conseguimento dell’uomo. Si capirà allora che, in questo rallegrarsi, è Dio che si rallegra; in questo realizzarsi, è Dio che si realizza, ossia ci realizziamo noi, che siamo Lui. Ieri sera partecipavamo a una conferenza sull’illuminazione. Si diceva giustamente che, con essa, si giunge a sentirsi in simbiosi con il mondo, ad amare tutti, a capire il senso delle cose, a rifuggire dalla separazione. Se l’illuminazione deve essere il conseguire in sé la coscienza divina, è certo che sono questi dei segni di essere sulla buona strada. Guardiamo con ammirazione a dei personaggi come Gesù o come Buddha che l’hanno percorsa fino in fondo e che ci mostrano il cammino evolutivo che tutta l’umanità deve percorrere. Possiamo quindi seguirlo con devozione ma chiederci se non esiste una tecnica per conseguire più sicuramente e velocemente lo scopo, come si diceva nella

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conferenza, non ci credo proprio. È un processo che va dalla profondità della terra, dalla profondità dell’inconscio e sale attraverso tutte le nostre azioni, tutto il nostro essere e non una tecnica particolare, per arrivare un giorno a questa esperienza di Dio. Ecco, parlare di queste cose è molto difficile. Io mi sono appoggiato a degli schemi, non per costruire un edificio razionale a sé stante ma, in qualche modo, per tracciare dei solchi. Nell’ultimo incontro mi è proprio accaduto di parlare dei solchi tracciati dall’agricoltore, che ci offrono un paragone veritiero: l’agricoltore, cioè la ragione umana, traccia i solchi e poi, fra i solchi, può crescere qualcosa non di razionale ma di vivo, come lo è una pianta. In questo esempio è evidente il rapporto fra il “sentimento” – in questo caso la forza germinante della natura – e la ragione dell’uomo, ma è anche evidente che c’è al di sopra la luce del sole che rende possibile la vita poiché, altrimenti, le cure dell’agricoltore e la vitalità delle piante non arriverebbero ad alcun risultato. È nello stesso modo che, in tutte le forme di unione che danno nascita a un figlio, abbiamo sempre intuito la trascendente presenza dello Spirito, che si manifesta nei tanti modi adatti ad ogni cosa, ad ogni creatura, ad ogni idea.

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DIBATTITO

L’illuminazione Silvia G. Vorrei fare una domanda. Secondo te l’illuminazione e l’intuizione indicata nel tuo schema sono la stessa cosa? Vittorio M. L’autentica e finale illuminazione ci può essere solo al livello più alto dello schema, quando si parla del “figlio di Dio”. Da un lato direi che non è di questo mondo, se non con estrema rarità ma, dall’altro, può accadere da un momento all’altro. Abbiamo parlato tante volte dell’idea del ciclo, che non va inteso come una ripetizione meccanica poiché evolve in una spirale – su questo siamo tutti d’accordo – però io ho sempre ipotizzato l’idea che, questa essendo la regola, di tanto in tanto – mettiamola così – c’è la possibilità di uscire dal ciclo, dalla regola. Ne è la prova la conversione di Paolo che cade sulla via di Damasco: un evento istantaneo, che arriva all’improvviso, ma che è preparato però chissà da quante vite, da quanta ricerca, da quante sofferenze. L’intuizione è proprio come il primo sbocciare di un germoglio, in un’aria, un calore di primavera, che poi diventerà un bel fiore; arriverà poi un’ape a fecondarlo... insomma la strada va molto oltre – io la vedrei così – mentre l’illuminazione, ossia il suo compimento è quando il fiore è completamente aperto, è diventato anzi un frutto. Questo accade a tanti livelli perché un conto è l’illuminazione – diciamo – di una pianta, che ha prodotto la mela: è la luce che l’ha fatta maturare. Un altro è l’illuminazione che fa nascere il figlio: è un’annunciazione! E poi su su, con l’illuminazione che è conoscenza, fino poi all’illuminazione suprema in cui scopre di essere figlio di Dio: non più solo annunciato ma nato, non più illuminato ma luminoso di luce propria. Ecco, ci sono tanti livelli, di crescente luce, ma solo l’ultimo sarà la completa realizzazione, che chiamerei anche, in un certo senso, resurrezione.

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Sentimento e ragione

Il significato della resurrezione mi sembra quello di essere anch’essa ciclica. Cioè, agli inizi – per quanto noi possiamo saperne – possiamo immaginare che l’uomo e Dio fossero uniti, erano la stessa cosa, cioè l’uomo era in Dio, come ogni altra creatura, come tutto un universo non ancora nato. Finché Dio non si è diviso, da uno è diventato due e poi molteplice e infinito e, in questa cosmica polverizzazione, ci ritroviamo anche noi, granelli di polvere lontanissimi dal Diouno. Nonostante questa abissale separazione, Dio non è tuttavia così lontano da noi, poiché risiede nel nostro stesso cuore. Tutto il cammino in cui siamo impegnati è di ritornare da questa molteplicità all’unione, di risalire dalla caduta nel mondo frammentario, di recuperare la divinità perduta, di risorgere quindi, di scoprire veramente Dio in noi. Mi sembra questo il significato della resurrezione, di cui il Cristo si è fatto simbolo vivente, mostrando come l’uomo può nuovamente unirsi a Dio. Ma andrei oltre, pensando che anche questo non avvenga una volta per tutte ma sia un ciclo. Una bellissima intuizione, condivisa in alcuni orientamenti religiosi orientali, è che l’universo sia come un grande respiro, con una espirazione paragonabile a una divisione-creazione e un’ispirazione che è invece il ritorno all’unità, e così in eterno.

Sul valore della scienza Eugenia D. Io volevo fare una domanda, che più che altro magari è una riflessione mia per via del fatto che, essendo stata assente a questi seminari, non ho forse capito bene, ma mi sembra che la riga in corsivo della tua tabella, che io trovo molto affascinante, sia messa un pochino al bando. Nel senso che si vede nella scienza una discesa o un allontanamento dalla ricerca che conduce all’illuminazione. Se non erro, c’è stato un tono un po’ polemico nei confronti della mente, che secondo me è la scintilla che fa per l’appunto collegare il corpo all’anima. Nella mia idea, la ragione è quella che tende a dominare quelle che sono le emotività primarie dell’essere umano, legate ad un bisogno personale, per allargarsi agli altri ed arrivare così a una conoscenza obiettiva. Si tende a vedere la scienza come tecnologia, però questo mi sembra limitativo, perché la scienza in sé è uno studio da parte dell’essere umano – il figlio di Dio di cui parli – che però, in luogo di cercare di

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trasferire il proprio sentimento su qualcosa che è più grande di lui, guarda invece ammirato a quello che viene a scoprire con il suo microscopio, piuttosto che con la sua intuizione, e che gli viene dato da un mondo in cui lui è immerso, ma che non è il suo mondo interiore, bensì un mondo di cui viene reso partecipe. Cioè, la scienza, se non viene vista come qualcosa di freddamente razionale, è un modo a mio avviso per arrivare ad una diversa illuminazione. Vittorio M. Stai mettendo in rilievo una cosa giusta: non si può certo processare la ragione come il male in sé, poiché la mente può servire nel bene come nel male. Per ciò che riguarda la scienza in particolare, niente di più bello che applicarsi allo studio del mondo fisico, scoprendone le leggi, rendendosi conto, attraverso di esse, anche del significato dell’universo, della divinità del mondo, che si esprime in questa perfezione. Però purtroppo non è solo così. Quello che prima mettevo in evidenza è che la scienza si inorgoglisce di quello che scopre, e in questo trova la negazione di Dio, e non uno strumento di conoscenza…cominciando da Darwin, che diceva di non essere assolutamente contrario a Dio ma che per lui Dio era del tutto “superfluo”. Quando ha scoperto la legge di evoluzione della specie, l’ha infatti considerata autosufficiente, senza alcun bisogno di immaginare un Dio creatore. A dir la verità sembra una conclusione un po’ miope. Come non vedere, davanti a questa stupenda evoluzione, che attraverso di essa si fa, non dico la volontà di Dio – perché questo equivarrebbe ad immaginare Dio come un qualcuno “che vuole”, un autocrate, un imperatore dell’universo, ma si realizza proprio il processo che fa sì che dalla materia divisa, dalla dispersione degli atomi, un po’ alla volta si costituiscano gli organismi, eccetera eccetera, fino a giungere a degli esseri pensanti? E a non intuire che la conquista più alta del pensiero è proprio nel recuperare il senso profondo della sacralità, vedendo che tutto è emanazione dello Spirito? Se la mente serve a capire tutto questo, è qualcosa di straordinario. Ma c’è mente e mente: c’è la mente che comprende e dice la verità e quella – sembra un gioco di parole – che “mente”, quando si limita a sé stessa. e dunque quando la conoscenza scientifica diventa la negazione di un’altra e più profonda conoscenza.

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Eugenia D. Ci può effettivamente essere qualcuno che ha una mente che ragiona in modo così limitato, quando invece la mente è un’espansione continua, che deve andare oltre i nostri limiti… Vittorio M. Sì, però tu dici “qualcuno”, mentre in realtà è tutto il tempo in cui viviamo, che è pervaso da un estremo materialismo, in cui la scienza non è intesa come strumento di conoscenza, ossia di completezza e, al limite, di illuminazione, ma come indagine del mondo fisico, che immediatamente dopo si trasforma in tecnologia, e quindi nelle sue applicazioni economiche. Questo appiattisce tutto e inaridisce la base della vita. Quando si parla infatti della ragione – che vediamo adesso sotto l’aspetto della scienza – e il sentimento, intendiamo per quest’ultimo, in un’accezione più larga, la natura stessa, l’inconscio, tutto quello che non si conosce ma che è il nostro fondamento vitale, la forza della terra, la linfa che ci nutre, la femminilità, la nascita. Tutto questo, se vuoi, è sentimento. Nessuno nega la funzione della ragione, che è utile e anzi preziosa ma solo nella misura in cui si accorda al sentimento, non il sentimento personale di cui parlavi ma questo “sentimento”, nel suo significato più ampio e vero. Nella tabella, ho invece messo in evidenza quella parte della mente che si dissocia da questo accordo e che va per conto suo, come possiamo vedere in mille aspetti del mondo in cui viviamo, fino a temerne le più tragiche conseguenze. Dobbiamo quindi lavorare a un’integrazione, che non deve però accadere solo intorno a noi, nel mondo, ma anche e soprattutto in noi stessi, in ognuno di noi. Penso in particolare a un artista, che dovrebbe in ogni sua opera rispecchiare questa unità istintiva di sentimento e ragione. Che un uomo d’affari pensi solamente alla ragione o uno scienziato anche, lo si può capire, seppure invitandoli a cambiare strada, ma un artista non dovrebbe mai farlo. Egli ha avuto il dono di una facoltà particolarissima: l’imitazione di Dio, imitazione che, beninteso, è con la “i” minuscola, diciamo come quella di un mimo, ma, in questi limiti, preziosa. L’artista conserva qualcosa della natura di un bambino, che è vicino a questa unità originaria da cui proviene in modo sorgivo, e quindi dovrebbe appunto portarla in sé e nella sua opera, come naturale espressione dell’equilibrio fra questi fattori.

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Sull’anima Alberto F. C’è molto da discutere su questo schema che hai fatto. Per esempio, dire che nelle piante, nella vita vegetativa si produce il fiore e che questo porta al frutto è logico, però tu hai anche detto poc’anzi che la luce, il vento, il sole sono il sentimento...Dove vedi il sentimento, io vedo invece pura biologia. Al massimo, facendo magari una piccola forzatura, guardando al vento, al sole, alla pioggia, potrei catalogarli come sentimento in quanto eventi imprevedibili? Vittorio M. Tu non hai partecipato agli incontri precedenti, in cui abbiamo fatto lo sforzo di accordarci sui termini che stiamo ora usando, perché effettivamente possono non riferirsi a ciò che è abituale. Quando dico sentimento, non è che uno possa pensare che il vento sia sentimento. Diciamo che c’è una parte razionale in noi, ed una parte non-razionale. Sulla parte razionale, non è difficile accordarsi, puoi anche paragonarla al sole, a quello che hai costruito, mentre la parte non razionale è quella oscura. Allora, se la parola sentimento ti sembra non giusta, pensa all’inconscio, alla natura, senza per questo dire che il vento è il sentimento. Tutto l’insieme della natura è inconscio, puoi metterlo da questa parte, e alla natura potrai associare anche le tue emozioni, o la femminilità, che è anche la matrice della nascita, così come la natura è materna, e quindi intuitivamente puoi vedere tutto questo insieme. Mentre, dall’altra parte, avrai la luce del sole, la razionalità, la decisione, eccetera. Non dobbiamo però pensare a tutto questo con l’intento di farne una catalogazione precisa, ma solo sentirlo come una base per i nostri ragionamenti, per le nostre analogie, come un sintonizzarci con l’armonia di questi due poli, il loro mutuo rapporto, la vita che scorre dall’uno all’altro, il loro trasformarsi uno nell’altro, e il loro ripetersi, rieccheggiarsi in un’infinità di cose. Federica L. ... qualcosa che va verso il cielo, verso l’alto, è la ragione... Vittorio M. Questo, come sai, ci fa pensare all’immagine della ramatura dell’albero, o a quella del sistema nervoso, al tracciato dei fulmini – è presen-

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te in tutto il principio della ramificazione – ma il suo impulso ad andare verso il cielo è purtroppo contraddetto dalla ragione materialistica che, al contrario, va verso il basso fino ad affondare nella materia, come una sorta di albero rovesciato. Alberto F. Mentre io capisco quello che dici sull’uomo, sul corpo, sull’unione sessuale, il maschile e il femminile che si incontrano, non vedo bene il collegamento dell’anima con il sentimento. Allora chiedo: l’anima che cos’è in questa situazione e perché deve venirne fuori come conseguenza il figlio? Mi è stato detto che, se qualcosa non funziona, è perché manca una terza cosa, forse l’anima, o un progetto? Un progetto è anche il figlio... Vittorio M. Che cosa sia l’anima è difficile saperlo, però quello che è evidente è che un corpo senza anima non vive. Alberto F. Ci sono le anime morte... Vittorio M. Questo è vero. Anche senza Dostoevsky ce ne sono molte in giro, o almeno dormienti. Io sono convinto che siamo tutti esseri dormienti. Viviamo dormendo e poi, quando si muore, molti pensano che andranno in Paradiso, ma io credo che si continui invece a dormire, salvo chi si risveglia, e – tornando al discorso di prima – è illuminato, è anzi il “Risvegliato” per definizione, come si dice del Buddha. La maggior parte degli uomini continua altrimenti a dormire e poi, dal sonno della morte, si sveglierà in un altra vita, in un altro corpo, ma solo per dormire ancora un po’. Comunque, quando si parla di questo strano essere che nasce, muore, si sveglia, si riaddormenta, ci possiamo chiedere: chi è? Diciamo provvisoriamente che è l’anima, alludendo però a qualcosa che ha tanti strati: possiamo intuire che l’anima sia un corpo sottile, qualcosa di intermedio fra il corpo e lo Spirito perché poi, appunto, c’è lo Spirito, che è un’altra cosa dall’anima. Se vuoi è il futuro dell’anima, l’essenza dell’anima, quello che l’anima vorrebbe raggiungere, con cui vorrebbe fondersi.

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Alberto F. La vita interiore cos’è? anima, spirito? Vittorio M. È un campo di riflessioni molto vasto. Abbiamo cercato di lavorare un po’ su questo, identificando abbastanza chiaramente una tripartizione: corpo, anima e spirito. Che cosa sia il corpo è abbastanza evidente, l’anima non ci è chiara, diciamo che è uno stato di transizione... Federica L. È la coscienza... Vittorio M. Diciamo che è la coscienza, anche, ma lo Spirito è una realtà? C’è, non c’è? Io posso rispondere che credo fermamente che ci sia, ma questo non è un argomento. Nello schema si assume che il sentimento e la ragione possano essere uniti in un uomo, come anche il femminile e il maschile, in un modo così completo da avvicinarlo a un livello superiore, lo stato divino. Ma per giungervi egli ha bisogno di un aiuto, di un’ulteriore integrazione, che è quella con lo Spirito. Lo Spirito è ben più della coscienza di cui parli, che mi sembra piuttosto una registrazione di quello che l’uomo ha potuto comprendere e realizzare. Alberto F. Il concetto è che l’uomo è fatto “a immagine e somiglianza di Dio”, così dicono i credenti. Vittorio M. Prendiamo sul serio questa definizione. Tuo figlio è fatto a tua immagine, non è vero? Quindi nello stesso modo in cui ti è figlio, così tu sei figlio di Dio. È un’identificazione che riguarda il profondissimo centro del tuo essere ma è anche un grande cammino che devi percorrere. Per arrivare a rendersi conto di questo ci sono tante strade; a dire il vero tutte le strade conducono a questo, che potremmo veramente chiamare illuminazione. Questa però non è un flash mentale, un dirmi che ho avuto una bella idea: è una realizzazione che è un salto in un’altra dimensione, anche se questa è la tua vera dimensione, di cui tuttavia non sei consapevole.

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Cosa accade dopo la morte? Federica L. ...un salto che interviene con la morte... Vittorio M. No, io temo che la morte sia come un addormentarsi dopo una giornata di vita, per poi portarti in un mondo di sogni. Non è che la morte ti riveli la verità. Il Buddismo Tibetano fa un’analisi molto approfondita dei diversi passaggi della morte, parla molto del “bardo”, che è una specie di intervallo, e crede che in questo intervallo l’anima possa cogliere l’occasione per risvegliarsi. Dopo che hai finito la tua giornata operosa – a parte il fatto che in realtà hai dormito, tutti noi abbiamo dormito – scivoli nel sonno. C’è un momento, fra la veglia e il sonno, fra la vita e la morte, in cui è forse possibile riconoscere, come dicono i Tibetani, la “chiara luce”, ma, se passi questo momento senza farlo, devi aspettare un’ altro momento in cui l’occasione si ripresenta e magari perderla del tutto. Federica L. E se lo cogli, cosa succede? Vittorio M. Se lo cogli, c’è caso che uno finalmente si risvegli... Federica L. ... quindi non ritornerai più nel mondo Vittorio M. Non avrai più bisogno di farlo, però si dice che un risvegliato lo fa perché, se raggiunge questo livello di consapevolezza,. non è per lui una acquisizione personale, egoistica, ma deve aiutare gli altri e quindi rinasce come servizio. Silvana O. Sul discorso della reincarnazione, volevo aggiungere una mia idea: il passaggio dopo la morte di cui parli può essere un momento di crescita, uno spiraglio che si apre, però io credo secondo quello che dicono gli Induisti, che, andando dall’altra parte, si supera la personalità dell’ultima

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vita, si prende coscienza di tutta la sua esperienza, e la si somma all’esperienza di tutte le vite precedenti. Si raggiunge una consapevolezza diversa. A quel punto inizia tutto il cammino dell’anima che può decidere di reincarnarsi, di ripetere delle prove, e poi ripeterle di nuovo in altre vite, fino a terminare la ruota dell’esistenza e ad arrivare al nirvana, per poi tonare liberamente indietro soltanto per servizio, come dicevi tu. Però, nel tuo schema, secondo me, tu superi questo discorso della reincarnazione, vai assolutamente oltre, e quindi questo quid dello Spirito in più è il Sé, raggiunto però non a livello mentale. Siamo infatti tutti Cristiani, diciamo tutti il Padre nostro, sappiamo che siamo figli di Dio, ma lo sappiamo a livello mentale, non per averne la percezione profonda, la coscienza, mentre il raggiungimento del Sé è assolutamente un’altra cosa. Quindi l’addormentarsi come dici tu può essere un addormentarsi in un momento immediatamente precedente al risvegliarsi alla coscienza del Sé? Vittorio M. Non so, ma penso che succeda come nei sogni. Come in questi si presentano immagini anche di eventi passati della giornata, ma in modo confuso, non con un messaggio chiaro, ma in un modo tale da compensarne forse le negatività, così può accadere nello stato che segue la morte, in cui l’anima sogna e rielabora gli eventi e i problemi aperti nella vita appena trascorsa o anche di strati più profondi del suo inconscio. Sarei portato a credere – ma io non sono andato di là a informarmi...- che, dopo questa rielaborazione, l’anima non si risvegli nel senso spirituale, poiché, se lo facesse, non tornerebbe in questo mondo, a meno di avere una vocazione di sacrificio. Invece, dopo un poco, è di nuovo attratta dal bisogno di rinascere nella materia e ricapita nella vita per fare un’altra esperienza, come nella quasi totalità dei casi noi facciamo, spesso come sciocchi o balordi – quello che l’altro giorno mi ha tirato giù dalla macchina con la pistola puntata, poverino, che vita disgraziata fa – ma anche come il grande scienziato che consuma tutta la vita in ricerche meravigliose ma non ha capito “chi è” lui stesso, qual’è la sua vera natura. Sarà magari divenuto celebre ma, anche lui, che vita ha fatto? Tutto questo somiglia veramente a un dormire e a un sognare, e coloro che si risvegliano si contano veramente sulle dita di una mano: il Buddha che si è risvegliato mentre si appoggiava a un albero, Gesù che è risorto, e quanti altri?

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Sentimento e ragione

Questi seminari sono partiti dall’immagine della caverna di Platone, cioè dalla constatazione di vivere in questa condizione di oscurità, in cui vediamo a mala pena delle ombre sulle pareti della caverna. Siamo ricorsi alla fiaccola dell’eros per illuminare la caverna e portarci fuori, abbiamo seguito questo, la forza dell’eros. In uno degli schemi avete visto che l’eros corrisponde all’intuizione, è la stessa forza su piani diversi, è anche la stessa forza sul piano del fiore che si apre: sono tante tappe, che però si riassumono tutte nella forza universale dell’amore.. La volta scorsa, avevo terminato parlando del rapporto fra il centro e la ruota: l’idea che esista una molteplicità, che esistano tanti cammini di esperienza, di conoscenza, fa pensare ai raggi di una ruota: tutta la vita è una ruota, la ruota del samsara, dell’esistenza, dell’apparenza, di maya, del mondo, e questa è come una circonferenza, e poi ci sono tanti cammini che sono come i raggi della ruota e tutti convergono al centro. Diciamo che il senso spirituale della ruota non pretende che tutti i cammini vadano diritti al centro al primo colpo, possono sembrare sparpagliati in tutte le direzioni ma, in un modo o nell’altro arriveranno al centro. La vera realtà è il centro e questo va riconosciuto come abbiamo fatto ad ogni livello, nel tronco, nel cuore, nell’anima, fino a Dio. Se c’è qualcosa che è nel centro, è Dio che è dentro di te, non chissà dove in una galassia ma proprio dentro di te, nel tuo centro. Questo mi sembrava così evidente, nonostante che fosse messo in discussione da tante voci in questo Seminario, che mi dicevo: ma come si può non capirne l’evidenza, la verità? Ma mi è poi venuto in mente di aver mostrato dei miei quadri, qui, nel corso del Seminario “Arte e Psiche”, e fra di essi ce n’erano molti in cui si vedeva un personaggio che non voleva sentire, che non voleva vedere, che si teneva la testa fasciata. Quante volte istintivamente ho rappresentato quest’uomo immerso nell’ombra, mutilato, che si chiude gli occhi e non vuole vedere, non vuole sentire, e Gesù che gli dice “Effatà”, svegliati! Questa è la natura umana, e anche la mia personale natura, che io continuavo a esprimere seguendo l’impulso inconscio a liberarmene. Il cammino di passare attraverso la propria ombra è il sacrosanto cammino da percorrere, se si vuole sperare di arrivare a un po’ di luce. Se uno si illude che il cammino non sia necessario, e prende per luce quella che è semplicemente un’informazione di tipo razionale o scientifico, in realtà dorme e, anche se è finita la notte e si è in pieno giorno, continua a dormire.

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La nascita del figlio

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Il seme Anna Maria, che è andata via adesso, l’altro giorno mi chiese: ma come fanno a venirti in mente tutte queste cose? A me è venuto naturale di rispondere: mah, io metto un semino e poi, dopo, la pianta cresce..., non ci avevo pensato prima di dirlo, ma è vero, è vero proprio in virtù di quanto abbiamo capito adesso. Come il seme di una pianta ha in sé qualcosa di miracoloso, che è nato dall’unione fra il maschile e il femminile dei pollini, così accade nell’uomo che ha l’unione in sé del sentimento e della ragione. E come il seme della pianta si apre e cresce grazie alla forza del sole che ne risveglia e sviluppa la vita, fino a renderla portatrice di un frutto, così fa l’uomo come seme del divino, che lo Spirito appunto risveglia, facendolo crescere e realizzarsi nel frutto supremo: quello di divenire figlio di Dio. C’erano delle tappe in questo processo, lo stesso identico processo che si realizzava via via in tante forme, che tu le chiami anima, ispirazione, intuizione, ma esse si riassumono nell’annunciazione dello Spirito. Abbiamo visto che questo è vero anche facendo un quadro, facendo un’opera, ma facciamolo vivere in noi stessi. Occorre un approccio molto puro, molto silenzioso e, quando metti il seme nel terreno che ti è magari dato dalla contingenza, dal caso, tutto cresce poi secondo una sua naturalezza, per cui l’uomo deve avere l’umiltà di mettersi all’ascolto e di lasciarlo crescere, senza forzarlo. Immagina che la tua ragione vegli a questo processo, illuminandolo come farebbe la luce del sole, ma senza violarne il misterioso farsi, senza inaridirne la radice che è nella profonda oscurità della terra, di te stesso... Alberto F. Ci sono persone che hanno questa tendenza all’assoluto e quindi per loro è più facile avvicinarsi al concetto di anima, di spirito, di percorso spirituale, ed altri invece che hanno molta più difficoltà a farlo, non perché siano materialisti, ma perché non è la loro natura. Io mi sento di far parte di questa fascia, ma non per questo mi sento addormentato. Cerco anch’io; poi, andando avanti con gli anni, c’è questo desiderio di avvicinarsi a dei temi che magari prima non prendevo in considerazione, ma per me è molto difficile. Già lo stabilire che ho una vita interiore, fatta di tante cose, di sentimenti, di sensazioni, di aspettative, è molto per me, perché prima non ci arrivavo, mentre vedo degli amici miei che hanno invece questa tendenza, diciamo mistica...

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Sentimento e ragione

Vittorio M. Ma non è detto che siano più avanti o più fortunati. Vorrei evocare i paralitici di cui parla il Vangelo. Alberto F. Se mi dai del paralitico... Vittorio M. In qualche modo si, ma non a te personalmente, mio caro amico. È un’immagine che si adatta a tutti noi, siamo tutti più o meno paralitici, ciechi o storpi, anche mentalmente. In che modo si guarisce da queste deformità? Giunge lo Spirito e ti dice: “alzati e cammina”! È qualcosa che viene dal di fuori e nello stesso tempo dal di dentro del tuo essere che, consciamente o inconsciamente, lo voleva, lo cercava da sempre.

L’educazione e la sorgente interiore Federica L. Io penso che dipenda molto anche dall’educazione. Vittorio M. Ma non è detto che l’educazione sia così importante; penso a San Paolo che è stato educato in una rigida ortodossia ebraica, fino a divenire il peggiore persecutore dei Cristiani, mentre a un tratto diventa un apostolo, o a un Krishnamurti, in cui l’educazione ricevuta, finalizzata a farlo diventare il salvatore del mondo, ha sortito un effetto contrario, quello di renderlo allergico a ogni ideologia religiosa. Che ci sia una preparazione al manifestarsi di una vocazione, è evidente, ma penso che essa sia da ricercarsi anche prima dell’educazione. Quindi, non c’è da spaventarsi se, in una certa situazione della nostra vita, noi siamo nell’oscurità, a come un fiume sotterraneo, bloccato da qualche cosa. L’acqua era ferma, paralizzata da qualche ostacolo, non riusciva a venir fuori e poi a un tratto, come un fiume sotterraneo che esce finalmente alla luce solo in un punto, si crea una sorgente. La sorgente viene fuori come, dove e quando Dio vuole, ma viene chissà da dove, e questo vale anche per noi che stiamo qui, ma chissà da dove veniamo. È per questo, perché il percorso di un’anima è imperscrutabile, che io non credo in una tecnica per conseguire l’illuminazione...

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La nascita del figlio

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Va avanti la conversazione, con Federica L. che, a proposito di San Paolo e del suo salto dalla persecuzione dei Cristiani all’apostolato, dice che non le piacciono i comportamenti così radicali di chi passa da un estremo all’altro, come dal nero al bianco. Carlo L. menziona anche i casi di Sant’Agostino, di Padre Gemelli, o di San Francesco, che cambiarono radicalmente vita, ma Vittorio M. è portato a vedere in essi non un semplice per quanto radicale cambiamento di opinione, ma proprio quel salto con cui irrompe lo Spirito nella vita di un uomo e lo trasforma in figlio di Dio. Il discorso ritorna poi su Krishnamurti, che insegnava a non credere a nessuna autorità ma a interrogare sé stessi. Vittorio M. Sono profondamente d’accordo su questo. Accade anche a me di dire la stessa cosa: mai ripetere quello che gli altri dicono, soprattutto se viene da una loro autorità, più o meno fondata; devi cercare il vero in te stesso e, quando l’avrai trovato, potrai vedere che corrisponde anche a quanto possono aver detto i saggi in ogni tempo, poiché il vero è una sorgente perenne che sgorga nel cuore di ogni uomo. Ma in che modo uno la trova in sé? Come accade che sappia in modo inconscio tante cose? Talvolta è come una forma di rêve éveillé, un sogno molto vicino alla coscienza. È il sogno che forse fa anche il seme dell’anima addormentata, prima di risvegliarsi.

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LA LIBERTÀ E LA LEGGE

Incontro n°6 del 12 maggio 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Alberto d’Adda, Carla Sanguinetti, Federico Ferraris, Gerardo Palmieri, Silvia Guerriero, Pat Sophie Graja, Ettore Lariani Vittorio Mazzucconi Continuiamo nella difficile impresa di questo Seminario, il cui tema “Sentimento e Ragione” investe tanti piani. Occorre ricordare ancora una volta che il significato che attribuiamo alla parola “sentimento” è diverso e più ampio di quello abituale. Volendolo definire per esclusione, diciamo che è tutto quello che non è razionale, per esempio la natura – associarla al sentimento può sembrare un concetto un po’ strano – e poi l’inconscio, l’ignoranza stessa, l’oscurità, la morte, la femminilità, la maternità ecc. Se chiamiamo tutto questo “sentimento”, la ragione appare un’altra cosa: è la mente, la geometria, la luce. Un’ altro elemento che è alla base della nostra attribuzione di significati è l’archetipo dell’albero di cui tante volte abbiamo parlato. Abbiamo paragonato la sua ramatura alla ragione in cui il tronco si divide, mentre abbiamo invece associato la sua radice al sentimento. Fra i vari piani in cui abbiamo studiato il rapporto fra il sentimento e la ragione – esso è stato studiato anche nell’arte e nella storia – abbiamo parlato molto in uno degli ultimi incontri del femminile e del maschile, stabilendo un’equivalenza: femminile = sentimento, maschile = ragione. Si tratta evidentemente di un’equiparazione schematica, di un modo per mettere dei paletti per poter cominciare a pensare, ma diciamo che non è qualcosa di molto lontano dalla verità, se non ci si ferma a dei casi particolari che sembrano magari sugerire il contrario. Dopo il maschile e il femminile abbiamo poi parlato della nascita del figlio. Il figlio, come è naturale, è il frutto del rapporto di coppia,

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Sentimento e ragione

ma l’abbiamo visto come figlio in tanti sensi, dicendo per esempio che il figlio dell’albero nasce dal suo frutto, il figlio nell’arte nasce dall’unione del sentimento e della ragione in un’opera d’arte vivente, e che il figlio della stessa unione nella vita dell’anima è la conoscenza. Tutti i processi umani consistono nell’unione di due poli opposti, chiamiamoli sentimento e ragione, ma potete chiamarli anche femminile e maschile, negativo e positivo, Yin e Yang, ed è da questa unione che nasce la vita, il figlio. La scala degli esseri è stata poi vista come un percorso universale, che comincia a livello biologico – dall’unione dei pollini nasce un fiore, un frutto – e, di gradino in gradino, ci porta infine a un piano altissimo, dove l’anima umana si congiunge allo Spirito, a Dio. Nasce allora quello che si può chiamare il “figlio di Dio”. Dal livello quindi terreno, biologico, al livello metafisico: questo è il cammino che abbiamo seguito negli incontri precedenti. Questa volta ci avventuriamo nel rapporto fra libertà e legge. Mi tremano un po’ le gambe perché la mia preparazione è quella di un artista, di un architetto o, più in generale, di un uomo che ama meditare, ma non di un filosofo di professione e tanto meno di un giurista. Se c’è un campo in cui i filosofi si sono accapigliati per millenni, è proprio quello della definizione della libertà e della legge su cui ci accingiamo a discutere in modo molto incauto. Portandolo avanti insieme, troveremo però forse qualcosa di vicino a quel senso comune e nativo su cui si basano tutto sommato anche le più grandi teorie, se beninteso non se ne allontanano, come molto spesso accade. Partirei da una metafora, che è poi la stessa, mi pare, con cui ho terminato l’ultimo incontro, cioè la metafora del solco e delle pianticelle che crescono in esso. Ripeto che non affronto il problema della libertà e della legge da un punto di vista teoretico, filosofico, ma vi invito solo a considerare questa immagine: si tratta del solco, che è evidentemente un’opera della ragione, mentre fra i solchi agisce la natura, crescono le piante che sono state selezionate per la loro utilità. Questa mi sembra una giusta chiave per comprendere il rapporto di cui parliamo. Con essa, associamo queste piante al sentimento, così come abbiamo associato il solco alla ragione. Facciamo inoltre subito un ulteriore passo con un’altra e intuitiva associazione: fra il sentimentonatura e la libertà, come pure fra la ragione-solco e la legge.

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La libertà e la legge

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Il discorso sulla libertà è stato invece sempre posto in modo teorico, chiedendosi: come è possibile che l’uomo sia libero quando in realtà è dominato dal fato, come pensavano gli antichi, o comunque da una volontà divina e imperscrutabile, o anche, in modo più pratico, dalle circostanze della vita, dall’ambiente, dall’educazione ricevuta, dai vincoli insiti nella nostra corporeità? Se guardiamo bene nessun nostro atto è libero: sono tutti condizionati da qualche cosa, senza parlare della nostra mente, che è prigioniera di sé stessa... Si capisce che non si è mai arrivati ad una verità; non ci si potrà mai arrivare, è evidente. Però, già il fatto di associare la libertà non alla ragione e alla sua divisione ma al sentimento, alla natura, è qualcosa che può essere interessante. Se guardiamo infatti alla natura, assumiamo che essa sia sinonimo di libertà. Mi direte che ci sono delle costrizioni inerenti ai diversi contesti, alla lotta per la sopravvivenza, all’insieme dei fattori che condizionano l’evoluzione, e che è solamente attraverso queste costrizioni che gli esseri prendono forma; però c’è nella natura un principio di vitalità sorgiva, che è più forte di qualsiasi condizionamento. Ogni pianta fa questo bellissimo lavoro di “collegare la terra al cielo”, che a mio avviso è l’essenza della vita e anche l’essenza della verità. Possiamo chiamare questa essenza “libertà”, pur sapendo che essa è evidentemente condizionata dalla libertà di tutte le altre creature che, una con l’altra, formano la configurazione del mondo. Se si pensa invece alla ragione, si vede che essa tenta dapprima di interpretare ma subito dopo di trasformare questa naturale libertà in una proiezione di tipo astratto, razionale. Una proiezione che fino a un certo punto è molto utile, come accade appunto del solco che permette di organizzare una piantagione (saremmo altrimenti in una selva in cui crescerebbe ogni tipo di pianta, dandosi ombra una all’altra) ma che, andando oltre, porta a inaridire la sorgente stessa della libertà. Un altro e bellissimo passo è quando, dall’idea di solco, si passa all’idea di città. In antico, la città veniva proprio fondata tracciando dei solchi. Il sacerdote determinava con essi gli assi principali e il perimetro delle mura, e quindi l’idea del fondatore di città e quella dell’agricoltore erano in fondo la stessa cosa. Anche nelle città di oggi si tracciano delle linee simili agli antichi solchi, che poi diventano delle strade, e soprattutto delle regole, delle leggi, entro le quali si può svolgere la vita della gente, che possiamo paragonare a quella delle piante. Ognuno esplica le sue potenzialità, ma può farlo solo nell’ambito fissato dalla ragione.

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Sentimento e ragione

Fin qui la ragione ha una funzione fondamentale. Quando poi la ragione e il sentimenti si uniscono, io trovo che questo sia proprio un momento aureo, che è poi lo stesso che tante volte abbiamo visto in altre forme, per esempio nell’unione dell’amore fra un uomo e una donna, che è ugualmente un momento aureo, felice; nell’unione nel tronco dell’albero fra ciò che viene dalla terra e ciò che viene dal cielo, la luce; nei momenti più alti della civiltà; nell’età adulta... In tantissime forme quello che viene dal basso, che chiamiamo sentimento, e quello che viene dall’alto e che chiamiamo ragione, si equilibrano e danno luogo al meglio in ogni cosa. Sul piano dell’esistenza umana, questa integrazione è fondamentale, sia a livello personale, in cui genera una personalità equilibrata, che equivale poi all’integrazione fra maschile e femminile, sia a livello sociale. Se parliamo della città, è soprattutto la polis, la città classica, che ci mostra il valore di questo tracciamento dei solchi, come di un atto fondamentale di civiltà. Era una civiltà che aveva origini recenti nell’organizzazione dell’agricoltura e delle prime forme di vita associata, così come era vicina al cittadino, non quello edulcorato di oggi ma quello colmo di vitalità, di passioni, appena uscito dalla potenza dei tempi mitici. Una ragione altrettanto vitale ha posto ordine in questo fecondo terreno, giungendo rapidamente al momento aureo della sintesi su ogni piano: nella città come nelle sue leggi, nelle arti e nella filosofia. Abbiamo già visto come in seguito, con l’ulteriore sviluppo della ragione, essa si allontana da questa straordinaria unità, per dar invece luogo a una divisione. Così come il tronco dell’albero si biforca e poi si divide ancora fino a un’estrema ramificazione, lo stesso accade per la ragione e quindi per le leggi che ne scaturiscono. Questo processo è evidentissimo. Noi viviamo oggi in uno stato di complessità e ramificazione, che metterei in rapporto anche con lo sviluppo del linguaggio. Un pensiero vero, semplice, si esprime in una parola, in uno sguardo, in una stretta di mano. Se a questo si aggiunge il ragionamento, articolato nel linguaggio, ne nascono certo idee più precise e approfondite ma anche mille sottigliezze, scappatoie, complicazioni, in fondo alle quali si perde il senso della verità e si entra nel regno della confusione. La ramificazione delle idee e del linguaggio che si opera nelle epoche di declino, come possiamo vedere nel nostro tempo, che è un’autentica torre di Babele, porta infatti alla confusione e all’impotenza, come può essere riscontrato in ogni campo, dalla vita personale al rapporto di cop-

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La libertà e la legge

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pia, all’arte, all’insieme della cultura e della società. Nei nostri Incontri abbiamo cercato di vedere un po’ più da vicino alcune di queste situazioni, pensando che esse preludano a una nuova barbarie, cioè al ritorno in uno stato vicino alla natura. Quando il sentimento e la ragione si vanno corrompendo, non c’è più verità, non c’è più certezza della legge, e diventa quindi necessario il ritorno a uno stato di barbarie, a cui non attribuisco però un senso negativo, ma piuttosto quello di una condizione di base, di oscurità – come lo è la notte prima del risveglio – e da cui, analogamente, si può sperare che prenda inizio un nuovo ciclo di civiltà. Moltissime volte abbiamo parlato della ciclicità di tutti questi fenomeni, non solo degli aspetti che vediamo adesso ma di ogni altro: abbiamo menzionato il femminile e il maschile, ma tutto, il giorno e la notte, le stagioni, la vita umana, la storia ecc. risponde allo stesso principio. È stato poi detto che questa ciclicità non è fine a se stessa ma si enuclea come una spirale, conosce cioè un’evoluzione, non è una ripetizione meccanica. Ma, soprattutto, io ho sempre portato avanti la speranza, o la fede, l’intuizione, la consolazione – possiamo usare diverse parole per dirlo – che sia possibile uscire dal ciclo. Questo lo si vede non tanto a livello sociale, ma a livello individuale, quello raggiunto da personalità straordinarie che ci hanno illuminato, mostrandoci che, facendo un passo oltre, si può aprire questa possibilità. Mentre ogni ciclo comincia con l’oscurità e finisce con l’oscurità, comincia con la morte da cui emerge una nascita e finisce con la morte – è tutto così, in ogni cosa – se si va invece oltre, se si passa a un’altra scala...è quella dell’intuizione, di un’ispirazione che conduce alla vera conoscenza dell’anima e che conduce all’illuminazione, alla realizzazione interiore. Si traccia allora una strada che porta su un altro piano, chiamiamolo piano metafisico, o piano di una speranza, di una visione, che si apre dapprima a degli uomini eccezionali ma che lo fa in seguito per tutta l’umanità, via via che l’esempio dei primi iniziatori, dei primi profeti è seguito da molti altri. C’è quindi la speranza che un sempre maggior numero di persone giunga appunto a un livello superiore a quello di una ciclicità meccanica, per arrivare invece a un’apertura spirituale. Se, alla luce di queste considerazioni, ci riportiamo al problema della libertà e della legge, come possiamo vederlo? Invece di guardare alle leggi, come sono adesso – dei modi di stabilire delle regole, di punire chi le trasgredisce, di regolare i rapporti fra interessi contrastanti – e sapendo quanto esse possono essere deviate e quanti sono i danni che creano,

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Sentimento e ragione

oltre ai benefici innegabili, non possiamo fare un passo oltre? Non si può sognare una legge illuminata, che rifletta una sapienza, non solo una cultura giuridica ma una vera e spirituale sapienza? Possiamo sperarla e collocarla in un futuro lontano ma possiamo soprattutto rintracciarla, fin da adesso e anzi da sempre, nelle parole e nelle opere di innumerevoli uomini che ci hanno preceduto, grandi profeti, pensatori, artisti, e in fondo anche nel cuore di ognuno di noi. Se guardiamo nel nostro animo senza i paraocchi di una struttura confusionale come quella di un linguaggio diventato fine a sé stesso, abbiamo una fonte interiore di verità, la stessa a cui stiamo cercando in questo momento di attingere. Quindi la speranza di una legge illuminata non è nella costituzione di commissioni di esperti, di giuristi eminenti, ma è proprio nell’intento di ognuno di noi di ristabilire in sé un giusto rapporto fra sentimento e ragione, un rapporto che, io penso, è assolutamente deviato nella maggior parte dei casi. È anche il rapporto con la propria ombra, che bisogna portare alla luce. Questo non è un seminario di psicologia, e non possiamo certo addentrarci in un argomento così complesso ma si può solo individuarne il filo conduttore. È essenzialmente quello di avere pulizia interiore, purezza interiore: è da questa, penso, che potrà nascere qualche cosa di vero, sia a livello della limitata cultura dell’attuale condizione dell’umanità, sia a livelli più alti, su tutti i piani della società e della conoscenza. C’è una conoscenza, una verità universale che, se vi poniamo mente, esiste e che non è così distante dalla natura, anzi è proprio la natura. Mi viene in mente un Sartre – veniva citato nel nostro ultimo incontro e io personalmente non lo amo – che, se non sbaglio, diceva che la nostra naturalità è una prigione che non ci permetterà mai di trovare un contatto con il trascendente. Ma io, che credo molto all’idea della prigione – infatti abbiamo dedicato tutto un seminario all’immagine della “caverna” da cui bisogna uscire – non posso accettare che questa caverna ci impedisca per sempre di vedere il lume della verità; questo proprio lo rifiuto. È proprio dalla caverna che noi dobbiamo uscire per andare verso la luce, e possiamo farlo con la torcia dell’amore, che è la nostra luce interiore. L’idea della prigione non esclude quella della liberazione, al contrario la genera. La condizione umana è necessariamente una condizione di limitatezza dalla quale, con grandi sforzi, nell’evoluzione di eoni di tempo, si deve uscire per andare verso un’unità, verso la luce. E quindi anche il concetto di legge, la legge che comincia a dirimere i pro-

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La libertà e la legge

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blemi fra le persone che brancolano nella caverna, che urtano una contro l’altra, che battono la testa contro le sue pareti – più o meno la nostra situazione è questa – può evolvere verso una legge che sa che oltre la caverna c’è la luce e che quindi, nel modo più opportuno, conduca gli uomini verso un innalzamento della loro consapevolezza. Il concetto di legge parte dalla contingenza e può, potrebbe, potrà giungere fino all’assoluto. È come il concetto del solco, che parte da un piano pratico che è quello dell’agricoltura, per poi diventare il principio direttore della fondazione delle città e, in seguito, quello più sofisticato con cui i solchi diventano i binari della tecnologia, i binari del pensiero. Non bisogna però smarrire mai il fatto che questo principio deve porsi al servizio della vita, della natura, dell’amore, e che non deve essere una griglia auto-referente, da cui nasce l’idolatria della tecnologia, del computer, dell’astrazione in ogni campo. Deve essere sempre legato alla sostanza, che è proprio quella che chiamerei libertà. Non vedrei mai la libertà come un fatto razionale e volitivo, dicendo: io ragiono, sono libero perché decido di fare questo, sono libero perché scelgo. Non mi verrebbe mai in mente di dire questo, ma molti filosofi lo hanno invece detto. Sono libero, ma perché sono libero? Non posso razionalmente capirlo, perché la libertà è nell’essenza. La mia essenza è un’essenza spirituale, la mia essenza è la stessa del divino, ognuno di noi ha un’essenza divina, e quale attributo del divino è più grande, più vero di quello della libertà? Non nell’essere costretto da qualcos’altro, o dominato o limitato, ma è solo per sua propria volontà – anzi non volontà – direi meglio per sua propria virtù e germinazione, che il Divino si manifesta. Senza andare fino al divino, abbiamo parlato tante volte del fiore: è lo stesso concetto. È forse per un atto di volontà che lo stelo a un certo momento diventa un fiore, ha deciso di diventare un fiore? Direi di no – uno stelo non è razionale – ma cosa lo ha spinto a fiorire, un’urgenza, una necessità? Vedrete che è invece solo la manifestazione della sua essenza. In fondo, facendo un volo e immaginando come Dio può aver creato l’universo, possiamo pensare che Egli abbia solo manifestato la sua essenza. Questa essenza non è divisibile, non si può distinguere in soggetto e in oggetto per costruirci una teoria, è proprio qualcosa di assolutamente germinante che possiamo intuire in Dio come in ogni creatura. La ragione può, dall’esterno, solo osservare, capire nei limiti delle nostre possibilità, riceverne un messaggio di grazia. Se è di fronte a una pianta, può solo curarla, annaffiandola, sarchiando la terra, togliendo i parassiti, ma null’altro. Non è la ragione che può creare la vita e la sua essenza

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Sentimento e ragione

di libertà, mentre può essere più vicina alla vita, condividendone l’essenza, quella parte che io impropriamente chiamo “sentimento”, in cui coincidono la nostra propria essenza e quella della vita stessa. Chi è venuto agli altri Incontri sa che vi ho tartassato con una dozzina di tabelle. Io che parlo molto in difesa del sentimento, sono stato poi portato a costruire una struttura razionale per tentare di spiegarlo, ma è stato proprio come un tracciare dei solchi, per organizzare il pensiero. In questa tabella si riassumono alcuni aspetti, come l’archetipo dell’albero, le funzioni dell’anima, la civiltà – tutte cose che avete già visto – e si aggiunge a destra una nuova colonna, che è quella della libertà e della legge. In tutte le colonne si vede che c’è un luogo centrale: è quello del tronco, del cuore, dell’unione sentimento-ragione; è il luogo della civiltà giunta alla sua pienezza e, finalmente, il luogo dell’unione fra libertà e legge, di cui abbiamo visto essere espressione la polis. Non parlo di nuovo dei diversi passaggi mostrati nella tabella ma, per concentrarci solo sulla libertà, si comincia a vedere uno stato di anarchia, che può essere chiamato anche età primitiva o natura, in cui si manifestano le prime forme di vita sociale, in assenza di leggi. È da qui che si passa al senso della libertà che, paradossalmente, nasce quando se ne manifestano le prime limitazioni. Dalla libertà si passa infatti progressivamente alla legge finché, nella linea centrale della tabella, si vede una condizione di unione, di equilibrio fra la libertà e la legge. Rispetto a tale linea, vediamo che, al di sotto di essa, è indicata la libertà mentre, al di sopra, è indicata la legge, nello stesso modo in cui avevamo visto il rapporto fra il sentimento e la ragione, fra l’inizio della civiltà e il suo declino. C’è una simmetria in questa costituzione rispetto al centro. Mentre al di sotto di esso vediamo la legge nascente, ossia la libertà che diventa legge, al di sopra vediamo la legge che si sviluppa in modo autonomo, finendo col sovrapporsi alla realtà, con l’opprimere la realtà, che è proprio quanto accade nel mondo di oggi. La confusione che questo genera – vediamo anche questo intorno a noi – porta a uno stato di aridità, come quello di un albero spoglio, o quello della morte di una civiltà, fino a una nuova barbarie, che è necessaria per poter ritornare a uno stato di natura, recuperandone le forze primigenie. È invece indicata in corsivo la parte superiore della tabella che mostra come, al di là di questo ciclo, si può intraprendere un cammino che porta a un livello superiore. Dalla barbarie nascono i fermenti di una nuova cultura che poi finiscono col dare vita a una nuova civiltà e a un nuovo ciclo.

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La libertà e la legge ALBERO

ANIMA

CIVILTÀ

LIBERTÀ E LEGGE

frutto fiore

conoscenza intuizione

nuova civiltà nuovi imput

legge illuminata nuova cultura

albero spoglio aridità foglie divis.linguaggio ramatura ragione

morte della civiltà barbarie declino confusione espansione legge che opprime

tronco

unione sent.to ragione civiltà matura

unione libertà-legge

radice seme terra

sentimento eros oscurità

libertà, legge nascente anarchia natura

civiltà giovane età primitiva natura

Se è vero che, al di fuori di tale ciclicità, esiste poi in ognuno di noi la possibilità, individualmente, di attingere a una realizzazione spirituale, si può pensare che, a livello di civiltà, si possa ugualmente pervenire a una vera conoscenza, una conoscenza dell’anima, una profonda sapienza, che possa quindi generare una legge illuminata? Questa è sempre stata la visione, lo scopo della filosofia, da Platone in poi. Che poi un filosofo l’abbia vista come primato della ragione; un altro l’abbia messa in rapporto con un astratto assoluto; un ‘altro l’abbia posta sotto la benedizione di una grazia divina; o un Marx l’abbia vista come uno svolgimento storico che si realizza attraverso le lotte politiche e sociali, l’ideale non è stato comunque conseguito e il corso dell’evoluzione umana non è affatto cambiato. Al di là di tante forme di pensiero e di tante vicende, che sembrano aver anzi seguito l’intento opposto, c’è però un’essenza che viene dal cuore dell’uomo, come il filo della sapienza di tanti uomini illuminati nel corso della storia, che vive ancora e sempre in noi stessi, e che ci conduce a una linea evolutiva in un senso spirituale. Questo più o meno è il mio discorso, che adesso può prendere maggior consistenza e valore con il vostro contributo. Volete dire qualcosa?

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Sentimento e ragione

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DIBATTITO

Alberto D. Io non sono mai venuto prima al seminario, ma mi è piaciuta la metafora della radice e del tronco. Stavo riflettendo sul fatto che i sentimenti, se li paragoni alla radice, stanno infatti sotto e non si vedono, mentre il tronco e i rami ovviamente si vedono di più. Vittorio M. Estenderei la tua riflessione all’inconscio, che è alla radice dell’albero. Non solo esso è nascosto alla vista degli altri, come lo sono spesso i nostri sentimenti, ma è nascosto anche a noi stessi. Il nostro scopo è appunto quello di portarlo alla luce ma, nel far questo, c’è modo e modo, perché, se prendi un albero, togli la terra e esponi la radice al sole, l’albero muore. Quindi, bisogna attingere al profondo, ma anche preservarne l’oscurità e l’umidità, preservare la radice, la forza germinante del nostro essere. Nel grembo materno c’è un bambino che non si separa dall’oscurità del grembo finché non nasce. Non solo deve essere giunta al suo termine la gestazione, ma il passaggio dall’oscurità alla luce è un momento unico e sacro, è la nascita che, con la stessa sacralità, deve essere vissuta anche nel nostro rapporto con l’inconscio.

Come si sono formate le leggi? Alberto D. Entrando invece più nel merito, chiaramente l’argomento “libertà e legge” è molto interessante. Lo possiamo esaminare da un punto di vista trascendente, e magari lo facciamo dopo, piuttosto che immanente. Non sono molto d’accordo sul discorso che tu fai sull’anarchia: in real-

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La libertà e la legge

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tà è vero, anch’io prima pensavo che l’uomo primitivo fosse in una situazione di anarchia, perché forse non aveva nemmeno bisogno di leggi Era in una situazione di grande libertà, finché però non appare il bisogno delle prime leggi. Vittorio M. È quanto stiamo dicendo, mostrando il processo da una natura in cui non c’è ancora l’uomo ai primi uomini della preistoria, che vivono in una situazione di anarchia, nel senso che non ci sono leggi né stati, ma che però un po’ alla volta cominciano a stabilire delle regole. Da questa condizione – nei primi uomini non c’è ancora il sentimento come noi lo viviamo oggi, c’è la superstizione, o la pura brutalità – nascono lentamente i sentimenti e la ragione. Con essi, la libertà originaria comincia ad auto-limitarsi e ad articolarsi in regole: è la legge allo stato nascente. La libertà equivale al senso dell’Io, alla consapevolezza, alla possibilità di scegliere, che si esercita nel rapporto con gli altri, da cui cui nasce la necessità di stabilire le regole con cui esercitarlo. Alberto D. Sì, questo è chiaro. Però il punto è che, paradossalmente, più leggi l’uomo è andato a darsi, più viene meno la propria libertà. Qual’è poi l’obiettivo della legge? È quello di garantire la giustizia, ma se la giustizia non viene garantita, non possiamo più dire di essere liberi. Cioè, noi siamo liberi in quanto esiste la giustizia: se essa manca, pensiamo di essere liberi, ma non lo siamo. Vittorio M. Io penso che noi non siamo liberi, se non in un modo che è da svelare a noi stessi. Ne dà evidenza il discorso della “caverna”, che mostra appunto tutta la limitatezza umana. La libertà va conquistata. È come l’amore: un’idea assoluta, che si realizza però a diversi livelli. Ricordate che abbiamo riconosciuto l’amore anche al livello più basso, quello per esempio di mangiare, con cui ci si unisce a ciò che si mangia. Anche nell’unione tra uomo e donna il bacio è proprio simile ad un morso, tendenzialmente è un voler mangiare. E così via via, in progressive forme di unione, sino all’amore di Dio, in cui si realizza l’unione con l’assoluto.

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Sentimento e ragione

Direi che avviene lo stesso per la libertà: la prima libertà può essere quella dell’albero che spinge i suoi rami tutt’intorno e, con il movimento delle foglie, segue il soffio del vento; poi quella dell’animale che può muoversi con tutto il corpo; e quindi quella dell’uomo, che ha una libertà anche nei pensieri, per poi evolvere sempre di più finché non giungerà a conquistare la libertà vera che è quella spirituale, cioè il riconoscersi come essere divino. Prima di questo si può parlare di libertà solo in modi più o meno limitati. I filosofi ci dicono che l’uomo è si, libero, ma lo è però solo nell’ambito della volontà di Dio, ponendosi il problema del libero arbitrio e comunque della limitatezza della nostra condizione. Ma preferirei dire che l’uomo sperimenta la libertà e la conseguente possibilità di volere a vari livelli, sempre crescenti, fino a coincidere con quella volontà di Dio da cui si riteneva dominato. È proprio come nell’amore, in tutti gli stadi che via via percorre, dal sub-umano sino al divino. Quando interviene la ragione, vediamo che essa sostiene la libertà ma solo fino a un certo punto, perché poi si sovrappone ad essa, dimenticando del tutto quale sia l’origine, l’essenza dell’uomo. La ragione tende così a costruirsi come ente a sé stante, ed è questa la grave deviazione che mette in pericolo il mondo. Abbiamo invece bisogno che la ragione sia sempre in un giusto rapporto col sentimento, come, nello stesso modo, la legge con la libertà. È fondamentale di individuare il loro equilibrio, la loro unione, e non dire che uno è la strada della verità e l’altro una deviazione. La vera deviazione è se si va al di fuori di questo equilibrio.

La Legge Carla S. Vorrei dire una cosa. Innanzitutto, trovo molto bello questo tuo sistema che hai costruito, evidentemente attraverso tutta la tua vita, le tue esperienze, i tuoi pensieri, e che assume questa immagine splendida dell’albero cosmico, che poi è un archetipo, un’immagine che tutti abbiamo dentro, perché ci sentiamo far parte di un universo di cui capiamo molto poco, ma con le radici ci siamo dentro e con le foglie andiamo su e troviamo l’equilibrio, come pure cerchiamo un equilibrio dentro di noi. Ecco, è molto interessante, in questa parte, quello che tu

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La libertà e la legge

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dici sull’unione fra sentimento e ragione, cioè che il sentimento deve trovare una sua razionalità. La razionalità deve riunirsi col sentimento. Questo è fondamentale, anche per il discorso della legge, che è di oggi. Io recentemente ho letto due cose, proprio su questo, che ho trovato straordinarie. Una l’ho citata la volta scorsa e che è Jonas, e l’altra è un articolo di Claudio Magris, uscito giorni fa sul Corriere della Sera: qualunque cosa a cui noi possiamo aspirare come libertà cavalcante, sciolta, naturale, romantica, in realtà non è possibile. Dicono tutti e due, sia Jonas come filosofo che Magris come pensatore, che quando riusciamo ad unire sentimento e ragione – deve essere il nostro obiettivo nella vita – la vera libertà consiste nella legge che noi diamo al nostro vivere sociale così come a noi stessi, in questo nostro cammino interiore, in questa nostra ascesi e tentativo di capire quest’universo così difficile. Nel nostro rapportarci agli altri, in fondo qual è lo strumento principe che abbiamo? Una legge che sappia unire sentimento e ragione. Certo, ci muoviamo a livello quasi utopico e nella realtà delle cose sappiamo come tutto questo sia difficile, e anche come essi siano ambiti separati, che anzi si scontrano ed opprimono l’un l’altro. La legge può essere terribilmente oppressiva, però anche l’anarchia dei sentimenti lo è. Vittorio M. Certo, certo. Già in un altro incontro tu avevi evocato che nella molteplicità del mondo, dove ci sono moltissime cose, anche vere, anche dal peso uguale, opinioni che possono convivere, c’è comunque un nucleo di certezza che chiami la legge, riferendoti al pensiero di Jonas. Però qualcuno ha detto che questa è un’opinione molto biblica… Carla S. Sì, giustamente, perché io ho il sangue ebreo… Vittorio M. Ed in effetti gli ebrei hanno sempre avuto questa idea, con Mosè che si presenta con le tavole delle leggi, e anche con Gesù che diceva: Non sono venuto per abolire la Legge, ma per attuare la Legge. Io però sono un po’ anarchico e non metterei l’accento sulla legge se non proprio come perfetto equivalente della libertà. Ecco, li vedo proprio insieme.

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Sentimento e ragione

Carla S. Ma la nostra libertà è nella legge, io credo a questo paradosso. Vittorio M. Sì, uno può dire che la nostra libertà è muoversi nell’ambito della legge. Però la libertà è un’essenza, la legge è una sovrapposizione. Sono convinto anch’io che nel tempo si debba giungere ad una legge sempre più illuminata – anche se non crederei affatto al governo dei filosofi, o qualcosa del genere, per non parlare di quello dei politici – ma mi pare proprio che sia vero un principio di assoluta equivalenza: se cioè l’uomo scopre in sé un’essenza illuminata, vale a dire l’essenza divina, allora creerà una legge illuminata, vicina al divino.. Altrimenti, se l’uomo ha un sentimento non sviluppato, cioè una vita naturale confusa, mescolata all’ombra, se si dibatte nella caverna, le sue leggi non faranno che rinforzare questo stato. Quindi non è che la speranza sia la legge: la speranza è conquistare la libertà vera, interiore, divina, che porterà ad una vera legge. Non è la legge in sé che dobbiamo adorare: una legge posta sopra ogni altra cosa non è la verità, non è una volontà divina, ma rischia di essere un idolo. Invece di questa sottomissione parlerei di equivalenza: come il sentimento e la ragione devono essere equilibrati, così devono esserlo anche la libertà e la legge. Nessun altro interviene? Dicevo prima come Platone ebbe l’idea dei dialoghi (mi ha copiato...!?!). Alla parola scritta, ha preferito la comunicazione diretta, orale, con un gruppo di amici e discepoli, ascoltando e parlando in modo da mettere in relazione le persone e le idee, che è un po’ quello che più in piccolo stiamo facendo. Però, col tempo, diventando vecchio e autoritario, ha messo in primo piano questo personaggio di Socrate che praticamente parlava solo lui, mentre gli altri erano ridotti a dire solo: si, si, oppure no, no. Socrate poneva delle domande: è vero che le cose stanno così? E le risposte erano si, è vero, oppure no, non è vero. E così, se voi non parlate, andrà a finire con noi. Mi auguro invece che continui un dialogo vero...

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La libertà e la legge

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Federico F. Trovo che nella vita c’è una lotta continua fra diversi interessi. La legge è necessaria per questo, ma deve adattarsi continuamente alla situazione reale, non rimanere immutabile. Vittorio M. Ma questo accade non solo nel mondo umano ma anche nella natura. Una pianta cresce liberamente? Si, ma se c’è un’altra pianta vicina, la relazione con questa limita la sua libertà: una pianta dà ombra all’altra, c’è una lotta, una competizione, si sviluppano forme particolari di difesa.. Quanto alla lotta fra i diversi interessi, nella società degli uomini, essa non riguarda solo gli aspetti economici, ma le stesse forze costitutive della vita; la lotta è la legge della vita su tutti piani. Mentre la natura ne assicura una regolazione automatica, che si realizza nell’evoluzione, l’uomo crea una regolamentazione conscia e articolata nelle leggi, che è fondamentale per il vivere civile. Solo che essa deve essere sempre al servizio della vita perché, altrimenti, rischierebbe, come accade, di sovrapporsi ad essa e di soffocarla.

Le leggi e la giustizia Alberto D. Per questo volevo enfatizzare prima il concetto di giustizia, oggi abbiamo troppe leggi. Invece di darci più libertà, ci tolgono libertà in quanto sono strumentali per la libertà di qualcun altro. Nel mondo non c’è giustizia. Eppure, guarda quante leggi ci sono... Vittorio M. Anche solo nel mio campo, l’architettura, non si è più liberi di progettare perché è indescrivibile il labirinto di regolamenti, che dovrebbero avere come risultato di darci una città più giusta, più bella e meglio funzionante, mentre avviene il contrario. Se pensi alle città antiche, in cui non esistevano assolutamente queste montagne di regolamenti, le città crescevano in modo organico, giusto, bello, oltre ad essere portatrici dei valori più alti di un popolo, mentre oggi sono assolutamente desolanti. Quindi, quando la legge diventa una struttura

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Sentimento e ragione

a sé, non solo non aiuta lo sviluppo della vita ma lo contrasta, lo mortifica. È proprio un punto esatto di equilibrio che occorre trovare: un momento prima c’era l’anarchia, un momento dopo l’irrigidimento provocato dalla legge. Per questo io diffidavo di quello che diceva Carla che, già in un altro incontro, evocava la “Legge”, si inchinava alla legge. Ma la legge non è un Dio, è o deve essere solo l’equivalente della libertà, della vita, del vero come, per fare un esempio, potrebbe esserlo la carta moneta rispetto all’oro di cui costituisce solo una ricevuta convenzionale. È inutile tracciare i solchi se le piante non crescono in modo vigoroso, se non ricevono la luce del sole, il nutrimento della terra. Se si guarda alla storia del pensiero, si è sempre ipotizzata la legge proprio come qualcosa di astratto: una volta come la legge divina; un’altra volta come un’ imperativo morale – come diceva Kant – che discrimina fra bene e male; un’altra volta una grazia che ricevi, o un ordine dettato da un Dio assoluto. È sempre stato come l’attribuire a un’autorità esterna, che sia il Padreterno, il giudice, il governante, o la ragione eletta a Dea, il diritto di ordinare la nostra vita. Questo diritto dovrebbe invece nascere dalla nostra vita interiore, dalla nostra libertà, da una vera conoscenza. Noi ci riduciamo invece ad avere margini ristrettissimi di libertà nella misura in cui le leggi ce li hanno lasciati, finché non vengono poi accuratamente eliminati uno dopo l’altro. È un processo che porta necessariamente alla paralisi dell’organismo sociale e che genera anche, oso dire, il bisogno di una nuova barbarie come esperienza rigeneratrice. Che poi la nuova civiltà che viene così preparata costituisca un progresso, possiamo sperarlo sulla base dell’esperienza storica che ci ha indubbiamente portato a un progresso rispetto alla civiltà antica, almeno sotto il profilo della democrazia e di tutto lo sviluppo civile che vi è associato. Il progredire dell’umanità che si opera faticosamente con la successione dei cicli storici non può comunque che essere molto limitato rispetto alla prospettiva di una civiltà e di una legge illuminata in un senso spirituale, come essa può nascere nel nostro animo e nelle parole degli uomini più saggi. Essa non sarà comunque possibile né come elargizione divina né come conquista esclusivamente razionale, ma solo se noi avremo acquistato parallelamente, simmetricamente, un’analoga for-

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La libertà e la legge

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za, un’analoga libertà, che si chiama appunto “essenza”. La libertà è l’essenza. Gerardo P. Volevo dire che non sono molto d’accordo con quello che ha detto Alberto. La giustizia è una conseguenza naturale delle leggi, se esse sono equilibrate e sagge. Le leggi sono fatte per stabilire una convivenza, una socialità. Quando l’individuo viveva nella foresta, faceva quello che voleva, mentre adesso, con delle nazioni di decine o centinaia di milioni di abitanti, sarebbe inconcepibile che esse non si diano delle regole di convivenza, per le quali ognuno è libero di avere e di manifestare i propri diritti, i propri interessi ma nel rispetto dei diritti degli altri: questa è la legge. Vittorio M ...ma è anche giustizia. Gerardo P. Giustizia è un termine vago... la giustizia fa degli errori, le leggi non dovrebbero. Vittorio M. L’applicazione delle leggi può compiere degli errori, però il concetto di dare ad ognuno il suo, di rispettare gli altri è la giustizia, no? Non vorrei avventurarmi in un campo che non è il mio, ma la giustizia è un concetto molto vicino a quello di legge, caspita, a meno che non sia una legge oppressiva, una legge ingiusta, che privilegia i malvagi e bastona i buoni, ma una legge invece che si applica a stabilire dei giusti rapporti coincide con la giustizia, o no? Gerardo P. Non sempre. La giustizia è un concetto più astratto di quello che è un ordinamento per la convivenza, tale da poter garantire ad ognuno i propri diritti senza ledere quelli degli altri. La giustizia è un concetto più relativo della legge, che è un fatto oggettivo. La giustizia, la sentenza per me può essere giusta, per chi ha un altro interesse non lo è. Però la legge è al di sopra degli interessi individuali. Vittorio M. Stiamo parlando di sinonimi o c’è qualche differenza sostanziale?

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Sentimento e ragione

Forse io parlo della giustizia in sé mentre tu intendi la pratica giudiziaria, la sentenza? Alberto D. È importante mettersi d’accordo sui termini, come io suggerirei anche per la libertà e la legge. Vittorio M. Il linguaggio può portare a una chiarezza come a una confusione, e non deve comunque bloccarci in definizioni a priori. Forse è meglio procedere con una certa approssimazione, come fa un artista quando, cominciando un’opera, lo fa con un abbozzo, non può stabilire prima cosa bisogna fare nel dettaglio e curare un tratto perfetto fin dall’inizio. Adesso ci scontriamo con questa difficoltà, se la legge è sinonimo di giustizia. Vogliamo tentare un’altra strada? Immaginiamo che giustizia, non nel senso corrente del termine – cioè di cosa fanno i giudici, delle loro sentenze, o al contrario del farsi giustizia da sé ecc. – ma in un senso più alto, sia proprio il rapporto equilibrato fra la libertà e la legge, con cui si definisce ciò che è giusto. Se invece si parla di giustizia come dell’applicazione delle leggi, è una cosa alquanto distante da questo concetto, cioè è un prevalere delle leggi, spesso tutt’altro che illuminate, mentre invece sarebbe più giusto di vedere la giustizia come un’armonia fra la legge e la libertà, fra le regole e il contenuto umano a cui tutto si deve sempre riferire. Silvia G. Ma allora, scusa, al posto di libertà e legge io avrei scritto unione di libertà e legge = giustizia: Vittorio M. Proprio così. Gerardo P. Vediamo di comprenderlo insieme. Giustizia e legge sono due termini non omogenei, perché la legge è l’emanazione di un potere che decide quali, in un determinato contesto sociale, sono le regole più idonee. La giustizia è invece un risultato che può esserci o non esserci.

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La libertà e la legge

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Alberto D. Che non siano omogenei sono d’accordo.

Una legge di natura Pat Sophie G. Qui si stanno dando delle definizioni non valide. Pensiamo invece alla legge in un altro senso: legge di natura, legge che è in te, e non solo legge sociale, organizzativa. Sono legge le une e le altre. Ma ci sarà giustizia solo se riusciremo a integrarle e a comporle in un equilibrio. Alberto D. Per legge di natura cosa intendi? Non stai andando sul trascendente? Quando ho fatto il primo intervento, ricordate, ho detto: che bel tema quello della libertà e della legge! Possiamo parlarne da un punto di vista trascendente o da uno immanente. Parlando solo dal punto di vista immanente ho detto che la legge deve garantire giustizia perché, se non c’è giustizia, non c’è libertà, questa è la sintesi del mio discorso. Se invece entro nel trascendente e metto di mezzo anche la legge della natura, allora faccio tutto un altro ragionamento. Vittorio M. La nostra linea non è divisa fra due categorie. È un tutt’uno, dal basso all’alto e dall’alto al basso. Si dice infatti “come in basso, così è in alto”. Quindi cerchiamo pure di toccare anche il trascendente, ma senza separarlo da noi. Io dico che la libertà è possibile a tutti i livelli, e così mi pare che sia anche la giustizia. Consideriamola come un momento di equilibrio, che si può realizzare a un certo livello, in cui si definisce il giusto in rapporto a un determinato contesto, mentre non lo sarà in un contesto diverso. Di livello in livello potremo giungere anche a intuire che esista una giustizia divina, oppure, restando in questo mondo, ricercheremo almeno un equilibrio fra una legge di natura e la legge umana. Tutto è comunque unito. La legge di natura può essere molto dura, perché è dura la lotta per la sopravvivenza, ma forse tu intendevi il sentimento naturale che è in noi riguardo a ciò che è giusto?

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Sentimento e ragione

Pat Sophie G. Intendo lo svolgersi della natura... Gerardo P. Cosa vuol dire lo svolgersi della natura? Pat Sophie G. Vuol dire che se il fiore nasce, non è perché tu l’hai spinto, ma perché... Vittorio M. Sai quante volte ripeto che il senso più vero del nostro essere è proprio quello di fiorire e aprirsi come un fiore, ma questo richiede un’interpretazione spirituale della legge di natura, che ha invece anche degli aspetti su tutt’altro piano. Prendiamo però dalla natura un altro principio, quello della libertà, e diciamo che esso ne è proprio l’essenza, un’essenza comune sia alla natura che a noi stessi. Se si vuol classificarlo come immanente o trascendente, fate voi, io non vedo differenze. Silvia G. Ci possono essere diverse leggi: la legge di natura, la legge della propria coscienza... Gerardo P. Molte leggi hanno trascritto, codificato ciò che era già nella natura dell’uomo. Anche la legge religiosa “non desiderare la donna d’altri” nasce da qualcosa che è nell’istinto dell’uomo. Vittorio M. Su tutto questo siamo d’accordo, ma non distinguiamo troppo per favore fra legge naturale, legge religiosa, legge morale, penale, civile... quello che dice Gerardo è sensato: c’è un impulso naturale in noi stessi, oltre ai dettami richiesti dalla convivenza, che viene codificato, dando luogo a delle giuste regole. La legge che così nasce continua però in un processo di suddivisione e elaborazione di concetti, sotto la spinta della crescente complessità della società, o anche di deviazioni e interessi particolari. Questo processo è proprio dello sviluppo della ragione. Applicato alla giustizia, finisce col creare concetti e leggi stac-

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La libertà e la legge

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cati dai bisogni primari che tu vedevi rispecchiati nella legge, fino a creare una crescente confusione. Riportando come sempre le cose a una prospettiva più vasta, si vede come questa confusione porta a un indebolimento, quasi una paralisi dell’organismo sociale, a cui segue il bisogno di ritrovare il vero fondamento che si era via via perduto nell’evoluzione dell’uomo. Il discorso è sempre questo. Sono argomenti molto vasti, ma noi non dobbiamo perdere il nostro filo conduttore. Mi ricordavo proprio oggi le parole lapidarie che Plotino pronunciò in punto di morte: Fuggite il molteplice! Certo è che, più il molteplice si moltiplica, si ramifica, e più si perde di vista l’unità: quello che è il punto di partenza, in modo se volete nativo, semplice, germinante, ed è anche il punto di arrivo, in modo illuminato, spirituale.

Illuminazione e utopia Silvia G. Il tuo punto di vista è sempre quello del modo illuminato, può essere un po’ utopico ma è questa la direzione in cui dobbiamo andare. Alberto D. Utopico se lo vedo come “illuminato”, mentre è meno utopico come attributo di conoscenza... Vittorio M. Si, può essere utopico a livello sociale, se non vogliamo farci troppe illusioni sulla possibilità di cambiare l’umanità, ma è invece vero a livello individuale, in cui un uomo può essere illuminato, realizzato... Alberto D. Se per conoscenza intendiamo illuminazione, non abbiamo più bisogno di una legge che ci illumini. Nel momento in cui siamo tutti illuminati, arriviamo tutti alla conoscenza. Vittorio M. Non parlo di legge illuminata nel senso di immaginare un consesso di giuristi che, fra cinquantamila anni, ne stabilirà le norme, ma pen-

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Sentimento e ragione

so a un’evoluzione del concetto di giustizia che a poco a poco si farà strada, se gli uomini saranno illuminati o almeno un po’ più saggi. Può certo sembrare un’utopia se guardiamo al mondo d’oggi, in cui siamo governati da persone spesso disoneste o ignoranti, o ambedue le cose insieme, ma si può dire che questo accada solo oggi? La storia non è forse sempre stata una storia di sopraffazioni? I grandi re, i grandi conquistatori, gli uomini di potere in ogni tempo non erano spesso che dei sopraffatori. Non ci sarà mai nell’umanità, un giorno, un governo illuminato, che sia ispirato a sapienza, e agisca con una vera visione del bene? Pat Sophie G. Ci sarà solo quando accadrà quello che hai detto prima, quando cioè ogni uomo non sarà diviso in sé ma unito, e non ci sarà quindi bisogno di cercare qualche criminale per governare la sua divisione. Io smetterei però di parlare di utopia: mentre parliamo tanto di illuminazione, perché continuiamo a dire che è una utopia? Vittorio M. Ma certo. Per chi guarda solo la realtà, un’idea può sembrare un’utopia, una cosa fuori dal mondo, ma essa è invece la spinta che fa crescere il mondo. È proprio come la forza che porta lo stelo a produrre il fiore – un principio germinante – è così semplice. La vera utopia sarebbe e purtroppo è il nostro modo consueto di ragionare, di fare, di dedicarci a delle astrazioni invece che alla vita. Gerardo P. Io parlo di utopia nel senso che è purtroppo una pia illusione che tutti gli uomini possano raggiungere questa illuminazione, contemporaneamente. Vittorio M. Io, guarda, quando mi figuro l’illuminazione, immagino di essere un fiorellino giallo che si apre con tutti i suoi petali, mi viene in mente così... E dove mi vedo? In un prato strapieno di altri fiorellini gialli. È questo che può e deve succedere, non è un’utopia, è quanto accade quando viene il momento della fioritura. Già prima il prato era ed è pieno di semini dormienti, come lo siamo noi, e poi fioriscono...

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La libertà e la legge

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Pat Sophie G. Se tu hai il pensiero, se pensi all’utopia, tu hai concepito; se pensi all’illuminazione, l’illuminazione c’è perché il pensiero esiste al di là di te, tu l’hai solo tirato fuori da una incredibile possibilità, come nella fisica quantistica, l’hai raccolto e chiamato illuminazione, quindi non negarlo: c’è, c’è la possibilità... Gerardo P. Un conto è che ci sia come possibilità e un altro che questa venga realizzata. Vittorio M. Ti ricordi che abbiamo già fatto una discussione a proposito di un mio progetto rivoluzionario per Milano? Tu dicevi sempre: si, è bello, ma è un’utopia perché mai e mai più si potrà realizzare demolendo mezza città. Hai ragione su un piano pratico, contingente, però ciò non toglie che il pensiero che questo si possa fare, che si debba fare se uno ha un orizzonte abbastanza grande per andare al di là della contingenza, è già una realtà che, un po’ alla volta, potrà modificare la realtà esterna. Quella di oggi ti dà ragione, ma c’è una realtà più grande nella totalità dell’esperienza umana su eoni di tempo, rispetto ai quali la nostra vita e le nostre esperienze sono ben piccola cosa. Quindi l’utopia – chiamala piuttosto come “un progetto non immediatamente realizzabile”. – può essere una vera e feconda realtà per il fatto stesso di formularla. Ci sono invece delle astrazioni che non saranno mai realizzate e che, anche quando lo fossero, rimarrebbero morte, anzi neppure nate. Ben altra cosa è l’idea di un equilibrio profondo che, dal cuore di ogni persona, si allarghi, e oggi si sta allargando sotto i nostri occhi – non per nulla siamo qui in quindici a parlarne – coinvolgendo una quantità sempre maggiore di persone, proprio come tanti “fiorellini gialli”. Essi finiranno col determinare la tendenza di una nuova civiltà. Gerardo P. Dimentichiamo la parola utopia, è come se non l’avessi pronunciata. Benedette le nuove idee, le iniziative, i progetti come il tuo, ma purtroppo la dura realtà ci dice che millenni di storia dell’umanità e

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Sentimento e ragione

chissà quanti altri in futuro difficilmente riusciranno a fare dell’umanità... Vittorio M. Fra centomila anni ci ritroveremo qui e vedremo se saranno stati fatti dei progressi. Guarda che c’è già una bella differenza fra come noi parliamo qui e come si poteva parlarne trent’anni fa. Delle idee che una volta erano isolate, o riservate a pochi iniziati, oggi sono largamente condivise.

Tendenze e negazioni Federico F. È la biologia delle tendenze. Una legge crea un contesto che porta poi a modificare la legge stessa. Il fatto che tu parli di un’idea non lascia intatto il quadro ma lo modifica. Vittorio M. Esattamente, le idee sono forze. Non è che noi osserviamo una realtà dall’esterno, e siamo liberi di pensarne quello che vogliamo senza alcuna conseguenza. Il nostro pensiero entra in relazione con la realtà e quindi la modifica. Ettore L. Posso consigliare la lettura di un tomo degli anni sessanta sulla tecnologia sociale o società tecnologica?. Direi che farebbe un po’ piazza pulita di tante cose che sono state dette stasera. Cosa serve ragionare su tematiche così complesse su cui sono stati spesi fiumi di energie, quando Habermas già vent’anni fa ha detto che sono sbagliate? Quello di cui parla Vittorio alludendo al gran casino della nostra politica è ciò che Newman ha definito autoreferenzialità sistemica. Il problema della formazione delle leggi è stato già discusso vent’anni fa e siamo al punto in cui siamo. Certo, questi autori non parlavano di spiritualità o di fede, però quanto meno hanno cercato per anni di capire quale può essere l’agire partecipativo; sembrava una buona cosa, ma purtroppo Habermas l’ha smentito dicendo, mi sembra: “ragazzi non funziona, mi spiace”.

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La libertà e la legge

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Vittorio M. A parte questi studiosi che non conosco, è da migliaia di anni che gli uomini si affannano su questo problema, che si è andato certo aggravando. Gerardo P. Non siamo qui per cambiare i massimi sistemi ma per scambiarci dei punti di vista Silvia G. Altrimenti, a questo punto, sarebbe inutile di star qui a parlarne, limitiamoci a fare la nostra vita; si nasce si vive e si muore senza porci troppi problemi... Ettore L. Vi ricordo che ci sono stati 55 milioni morti nell’ultima guerra mondiale e che le idee dello spiritualismo hanno portato al nazismo. Vittorio M. Qui sei andato fuori... In questi incontri, noi cerchiamo di dire quello che, in filo diretto col nostro cuore e la nostra mente, ci sembra giusto, anche a costo di ripetere o ignorare ciò che altri possono aver detto, poiché importante è sentire, vivere un’idea come il proprio sangue, e non solo citarla. Non possiamo d’altra parte discutere delle ipotesi come quella che lo spiritualismo avrebbe prodotto il nazismo, che mi sembra una specie di cortocircuito intellettuale. Data comunque l’ora, vogliamo comunque concludere così la serata?

Sulle credenze Alberto D. Posso fare invece un ultimo intervento? A questo punto, parlerei di un piano trascendente... Vittorio M. Ma si, ascoltiamo Alberto e poi andiamo a cena.

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Sentimento e ragione

Alberto D. Mi rifaccio al tema a cui Federico aveva prima accennato: le credenze. Da un punto di vista trascendente sulla legge, io la intendo in questo modo: libertà intesa come possibilità di esprimere il proprio pensiero ma soprattutto di pensare liberamente. Dall’altra parte, in contrapposizione, c’è una legge, non umana ma divina, quella dei dogmi che ci vengono imposti. Con essi si creano delle credenze che, in qualche modo, offuscano, condizionano quello che è il libero pensare. Faccio un’ultima considerazione che lega le due cose: libertà e libero arbitrio – mi sembra che tu ci avevi accennato – che è un tema che meriterebbe un ulteriore esame. Penso a Sant’ Erasmo da Rotterdam che scrive il “De libero arbitrio” mentre, dall’altra parte abbiamo in contrapposizione Lutero che scrive “De servo arbitrio” Quindi il punto è: noi esercitiamo il nostro libero arbitrio o no? Io penso che il libero arbitrio non esista. Vittorio M. Voi che avete fame e siete già in piedi per andarvene, aspettate ancora un momento per favore. Tu, Alberto, stai chiudendo un dibattito aprendone invece un altro, che spalanca una vera voragine. Ti dico però la verità: parlare di dogmi è del tutto al di fuori del nostro modo di pensare e anche il “ libero arbitrio” che menzioni non fa parte del nostro vocabolario, anche se il problema che pone è molto profondo. I teologi cristiani ne hanno dibattuto per secoli ma, piuttosto che citarli, vorrei cercare di vedere la cosa in sé. La libertà, come dicevo prima, è qualcosa che va conquistata, non è solo un affermare che noi siamo liberi, seppure entro i limiti di un universale disegno di Dio. Noi siamo liberi su tanti e progressivi piani, nella misura delle nostre possibilità, avvicinandoci sempre di più all’infinito livello che chiamiamo Dio, in cui solo ci sarà vera e assoluta libertà. Se vuoi parlare di trascendenza, essa è certo un livello ben più alto di quello dell’esperienza umana, ma non la definirei come qualcosa di così separato rispetto all’immanenza, o contrapposto ad essa, e tanto meno le darei una connotazione confessionale. Come potremmo avvicinarci al livello della vera libertà, chiudendoci entro le barriere create da una ragione astratta, invece di cercare la libertà in noi stessi, come la nostra propria essenza? Che poi questa sia anche l’essenza del divino, è proprio il senso che guida queste riflessioni.

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La libertà e la legge

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Confrontato con idee dogmatiche, non è certo sulla stessa lunghezza d’onda A questo punto non vorrei arrogarmi il diritto di dire l’ultima parola ma è proprio così, e la parola è: “andiamo a cena”.

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LA POLIS

Incontro n°7 del 19 maggio 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Silvana Olmo, Carla Sanguinetti, Federico Ferraris, Giorgio Fedeli, Silvia Guerriero Vittorio Mazzucconi Nell’ultimo incontro abbiamo parlato molto della libertà e della legge. Ne abbiamo discusso da diversi punti di vista: filosofico, giuridico, anche con riferimenti ai precetti biblici o a una legge di natura, non senza una certa confusione, da cui tuttavia sono venute fuori delle cose interessanti. Personalmente, mi sono avventurato in un campo che non è il mio, non essendo un giurista, ma che ho invece sempre molto sentito nella forma della città. La città è un campo in cui la libertà e la legge devono fare i conti una con l’altra, essendo il campo per eccellenza della convivenza umana. Se un uomo vive isolato in campagna non si pone certo molti problemi giuridici che sono invece inerenti alla vita nelle città. D’altro canto, il discorso sulla libertà e sulla legge si iscriveva nel quadro più vasto del discorso sul sentimento e la ragione, a proposito del quale io facevo ancora una volta delle equivalenze: fra sentimento e libertà, fra legge e ragione. La perfezione, chiamiamola giustizia, non è propriamente la legge e tanto meno la libertà, è l’armonia. L’armonia fra la legge e la libertà possiamo chiamarla giustizia e anche unità, che è poi la stessa che abbiamo visto in tutto il corso dei nostri incontri, come armonia fra sentimento e ragione, fra femminile maschile, fra natura e civiltà. Abbiamo tracciato molti altri paralleli, con l’aiuto di ben dodici tabelle, ma bisogna dire che il problema della città ha una sua particolare complessità. C’è stata una serata in cui, parlando di maschile e femminile, qualcuno si chiese: ci sono delle città maschili e delle città femminili? No, non si può dire questo, anche se c’è stato subito chi ha detto Sparta!, che era

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Sentimento e ragione

evidentemente una città maschile, se si guarda alle attitudini guerriere dei suoi abitanti. La battuta sarebbe invece più fondata se associassimo alle città non una distinzione di genere ma il discorso fondamentale sul sentimento e la ragione, che ci appare anzi la base di un pensiero fecondo sulla città. Possiamo parlare di una città-sentimento? È bene ricordare che, quando dico sentimento, voglio indicare ciò che appartiene alla natura, all’inconscio, a forme spontanee, a tutto quello insomma che non è razionale. I primitivi creavano dei villaggi senza un progetto preordinato, costruivano una capanna qui, un’altra là, disposte casualmente. Poi, un po’ alla volta, le capanne si sono disposte in modo simile a quello delle cellule di una foglia, che si allineano lungo le nervature che portano la linfa, seguendo così un processo organico, un impulso naturale. A questa immagine corrispondono per esempio le città medioevali, che prendono origine per lo più da un incrocio casuale, e in cui le strade finiscono col configurarsi come le nervature di una foglia, come i rami o le radici di una pianta. È questa conformazione che fa pensare a una pianta vista dall’alto, con le radici e i rami che si dipartono dal tronco. La vediamo in qualsiasi borgo medioevale ma anche in una grande città come Milano. Quasi tutte le città seguono naturalmente questo impulso. Il principio della ramificazione è universale, si applica al disegno tracciato dai fulmini nel cielo, si applica al nostro sistema nervoso, si applica anche alla città. A fronte di questo tipo di sviluppo, c’è invece la città classica, grecoromana, che veniva invece fondata secondo uno schema razionale. Spesso nasceva da un castro, con un’impronta militare, ma il suo spirito non era tanto legato alla difesa quanto a un principio di legge, di razionalità. La prima legge è infatti la strada: essa vi permette la libertà di andare avanti e indietro ma non di sconfinare al di fuori del suo tracciato. Il concetto di legge e il concetto di strada sono molto legati. Quanto al concetto di libertà, ne vediamo l’espressione non solo nella disposizione casuale dei primi villaggi ma anche nell’andamento spontaneo delle strade della città medioevale: la gente costruiva le case dove voleva, profittando magari di un edificio preesistente crollato per costruire la sua casa un po’ più fuori dell’allineamento originario che era spesso quello di una strada romana preesistente, il cui tracciato si andava quindi deformando nel tempo. Nasceva in quei tempi un nuovo mondo; la fran-

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La Polis

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tumazione dell’antico potere permetteva una nuova libertà, in cui nascevano nuove forme di associazione, nuovi popoli, e anche un nuovo eroismo – mi riferisco ai cavalieri – come non lo si vedeva dai tempi omerici. Quanto alla città classica, dicevo che essa nasceva come città razionale, sia da un punto di vista militare che da quello di corrispondere a una struttura giuridica, a uno spirito di geometria, e anche a una visione religiosa, non in un senso biblico e neanche cristiano ma nel senso di riferire agli Dei e alle forze della natura che essi personificavano le azioni dell’uomo sulla terra. Quindi la città veniva fondata dal sacerdote che ne tracciava gli assi con un riferimento al cielo e in particolare all’oriente. Questo è un concetto molto importante, poiché l’oriente è il momento della nascita del sole, quindi della nascita, del manifestarsi del divino. Le città erano quindi collegate a un’ispirazione celeste, come anche – per mezzo del sacro incrocio dei suoi assi – al mondo sotterraneo. Non si guardava solo al cielo ma anche agli inferi, alle potenze della terra; quindi la città era un’impresa di collegamento fra terra e cielo. Niente di più bello! Se si guarda bene, anche ogni pianta fa questo bellissimo lavoro di collegare la terra al cielo. Ed è questo anche il nostro lavoro: la nostra terra, che è come la placenta di cui ci nutriamo, le nostre radici, la nostra vita terrena, mentre il nostro cielo è fatto delle nostre aspirazioni ideali... è tutto un filo che ci conduce dal basso all’alto, e ugualmente dall’alto al basso, secondo il processo parallelo con cui la luce illumina l’albero e l’aria lo fa respirare. Si complementa così l’energia della radice che invece sale dalla terra, in questa fondamentale associazione con l’albero, a cui riferiamo sempre tutto il nostro discorso. Con un’altra immagine, abbiamo parlato negli ultimi incontri anche dei solchi, che sono appunto come il tracciato delle strade – non per nulla i fondatori delle città usavano l’aratro per tracciare gli assi e il perimetro della città – ma la cosa che a me piaceva mettere in evidenza era che, fra i solchi, crescono le piante. Quindi, avevo paragonato i solchi alla legge e la crescita delle piante alla libertà, come cose complementari, che sono ambedue necessarie. La libertà da sola darebbe infatti luogo a una selva inestricabile, mentre un mondo tutto fatto di solchi, di binari,di geomerie, sarebbe invivibile. È invece l’unione fra i due che crea il tessuto della vita, come abbiamo visto dell’unione fra sentimento e ragione, o dell’unione fra femminile e maschile: tutto si tiene.

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Sentimento e ragione

Se non ci sono città femminili e città maschili, come qualcuno si è divertito a ipotizzare, i due aspetti sono però ben presenti nella città, per esempio nel rapporto fra la Chiesa e il potere politico, come vedremo magari meglio in un’altra occasione. Ma è la ragione o il sentimento che determina la forma stessa della città, derivandone delle città completamente diverse, “organiche” o razionali. Uno sguardo di insieme sul loro sviluppo metterebbe in evidenza lo stesso percorso che abbiamo già visto nello sviluppo delle civiltà. All’emergere della ragione dopo un Medioevo più legato al “sentimento” è per esempio seguito, con il Rinascimento, l’impulso a ritrovare la geometria della città classica, anche se esso si è soprattutto espresso in disegni teorici. Con il successivo sviluppo della civiltà europea, si assiste a esempi più effettivi di tracciati urbani ispirati a uno schema razionale, finché essi non sono stati travolti dall’espansione smisurata delle città. In queste si mostra quella stessa estensione, ramificazione e divisione della ragione su cui tante volte ho messo l’accento. È la stessa ragione che all’inizio nasce dal sentimento, poi raggiunge con esso una parità, un’unione equilibrata, e dopo prende il sopravvento sul sentimento, ossia sulla natura, sulla vita, sull’anima degli uomini, diventando autoreferente e sempre più dominante. La scienza è questo, il mondo contemporaneo è questo: una ramificazione senza fine. E così le nostre città non sono più simili a una forma naturale e non sono neanche più la città costruita secondo un impianto razionale, ma sono un ammasso informe che tende a diffondersi, sovrapponendosi a tutto il territorio. Lo si può paragonare non più a un albero, armonico nella sua costituzione, ma a una erbaccia infestante, a una terribile malattia che distrugge l’organismo. Ne sono evidenti le ragioni storiche, fra cui, dominante, il sovrapopolamento del mondo, ma io ne metterei in questa sede in evidenza la somiglianza, anzi l’identità con la ramificazione estrema della ragione e del linguaggio in cui essa si esprime, fino al trionfo del delirio informatico. È quanto, mi pare, possiamo vedere tutti. La nostra analisi non può però fermarsi a questa evidenza, se vogliamo porci il problema di come riportare a un’unità la ramificazione e il caos della città. Io partirei proprio da quanto abbiamo detto e che sembra estremamente lontano dai problemi delle metropoli contemporenee: la dualità fra la città organica, come quella del Medioevo, e la città classica. Questa non vuol essere un’osservazione storica o morfologica,

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e tanto meno una contrapposizione, ma la base per riconoscere fra le due forme una feconda complementarità, che rispecchia quella, fondamentale, fra sentimento e ragione. Posso dirvi che ho vissuto questa complementarità in casi concreti. In un mio progetto per Aix-Etoile, una città satellite vicino a Parigi, mi sono trovato a “raccontare” a me stesso e ai futuri abitanti una storia: come quella di un borgo nato spontaneamente – poteva essere un borgo celtico o più tardi un borgo medioevale – a fronte del quale poteva invece esser stata fondata una città di impianto classico, tutta squadrata, con il cardo, il decumano, il Foro. Le ho progettate tutt’e due, su un lato e sull’altro della ferrovia Paris-Lyon che, nella mia immaginazione, era diventata un fiume, e neppure un fiume qualsiasi, ma il fiume della storia, che unisce e divide. Poteva essere certo arbitrario di raccontare una favola come questa, ma mi sembra importante che l’architettura e l’urbanistica sappiano raccontare le storie e non solamente piazzare stradoni e casamenti. Esse devono nutrire l’immaginazione, come lo fa un libro, una musica, qualsiasi opera umana che abbia un senso. Più tardi mi è accaduto di avere l’incarico di disegnare una parte della città di Nancy, in cui sono stato sorpreso di vedere in atto, nella storia, la stessa cosa che avevo intuito nel progetto Aix-Etoile: c’erano cioè due città, una squadrata e l’altra rotonda – semplificando – molto vicine, separate da un fosso, finchè poi il Re Stanislao di Polonia, genero di Luigi XIV, a cui era stato attribuito il governo dell’Alsazia, non ha creato un’unica città fondendole e realizzandone il nuovo e comune centro nel loro interstizio. Unendo queste due realtà, si è in qualche modo sperimentato il principio essenziale che è quello di unire il sentimento e la ragione. A parte questi casi, mi sono molto applicato a un piano urbanistico per Milano4, di cui non voglio parlarvi nei particolari, ma solo raccontare da dove esso ha preso inizio. Non da una favola o dall’illuminata decisione di un Re, ma da uno sguardo a questa indifferenziata periferia, che si estende sempre di più e che finisce col divorare tutte le cittadine, le cascine, i campi che ci sono sul territorio. È importante di fare molta attenzione a ognuna di queste cittadine per riconquistarne l’identità, la forma, il disegno, in modo simile alle città che ho “raccontato” ma, questa volta, agendo sul territorio mediante regolamenti appropiati, in modo da riportarle a un’unità, fisica e sociale. Pensate a quanto ac-

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Sentimento e ragione

cade qui fra noi nel nostro gruppo: se uno fosse in giardino, l’altro per strada, un altro ancora da un’altra parte, non potremmo certo comunicare. Nello stesso modo la periferia è fatta di tanti pezzi, un po’ qui e un po’ la, mentre sarebbe invece così importante di riportarli ognuno a una forma organica, facendone delle vere e propie città, simili, se vogliamo, alle città organiche del Medioevo. Sto cercando di visualizzare questa operazione come una forma conclusa, anche sotto il profilo sociale, ma possiamo definirla meglio col metro dell’educazione. Il modo migliore per organizzare un abitato è che le case siano vicine a un nido di infanzia, un numero maggiore di case intorno a una scuola elementare, e poi un numero ancora maggiore intorno a una scuola media e a un liceo, fino ad arrivare all’università che però non attribuirei a queste cittadine ma piuttosto alla grande metropoli in cui le cittadine sarebbero federate. Immaginiamo quindi di riportare queste piccole città a una scala appropriata. Dire “a misura d’uomo” è diventato molto banale: io vorrei proprio una misura profonda, fatta di sentimento, di amore per la gente, per la città, che vuol dire appunto che in ognuna, per esempio Rho o Gallarate (come poi stanno facendo poiché, da quando io ho cominciato a formulare questi pensieri cinquant’anni fa, la situazione è molto migliorata), si ritrovino le tradizioni locali e si costruisca un tessuto sociale omogeneo, che vorrei rendere anche urbanisticamente, visualmente omogeneo. Farebbe poi parte della stessa misura l’intento di collegare o separare le varie città con spazi verdi, ma che siano veri spazi verdi, veri parchi, vere campagne, e non spazi inframezzati di ferrovie, officine, parcheggi. Quindi, il concetto dell’organicità, che io riporto al sentimento, è il primo a cui dobbiamo fare attenzione. Quanto all’altra dimensione, che è quella della ragione, la vedrei a un livello superiore, che è quello del rapporto fra le città che abbiamo così delineato. Non solo in esse si deve vivere, si deve educare i propri figli e, oltre alla vita famigliare, si deve pensare al lavoro e alla vita comunitaria, ma bisogna collegarsi alle altre città – ce ne sno moltissime nella regione – e collegarsi anche a un comune centro. Allora l’assetto stradale che, a scala metropolitana, deve diventare autostradale e anche ferroviario, può formare di nuovo una rete razionale come quella dell’antica città greco-romana. Se essa comprendeva degli isolati di poche diecine di metri, e se i blocs analoghi delle città americane misurano centinaia di metri, nella mia idea le maglie sarebbero di qualche chilometro di lato,

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abbastanza grandi perché al loro interno possano crescere delle città autonome. È il concetto del solco e delle pianticelle, pianticelle come città, solchi come grandi direttrici che, tradotte in termini di strade, permettono di organizzare una grande metropoli. Ora, questo concetto di strada non è solo una strada fisica, è una strada anche tecnologica, come quella dei binari del treno. Tutte le strutture della società organizzata sono d’altra parte dei binari, che hanno fondamentrali funzioni nel mondo in cui vivamo, a patto però di servire e non sostituire la crescita organica, naturale. Quindi i binari sono come le leggi, i regolamenti: devono permettere la libertà, la creatività, non soffocarla. Sembra ovvio che debba essere così eppure, ogni giorno, nascono in tutto il mondo nuovi vincoli, si tracciano nuovi binari, si rendono sempre più fitte le maglie di una rete inestricabile che distrugge completamente il senso della vita. È questa la legge, o non è piuttosto una sopraffazione? Come potremo ristabilire un giusto rapporto fra legge e libertà? Volevo riassumere questi concetti, aiutandomi con delle immagini.

Fig. 2

L’insieme della regione Milanese, fra il Ticino e l’Adda, con tutte le varie cittadine e agglomerazioni che la compongono

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Sentimento e ragione

Fig. 3

Il concetto che, entro le maglie di una grande rete autostradale, possono svilupparsi delle piccole città autonome. È un’evoluzione del concetto dell’isolato, del quartiere, del bloc, che diventa a livello paesaggistico uno spazio enorme, che però permette agli abitanti di ogni città, per mezzo delle autostrade, di raggiungere qualunque altro punto del territorio. Se è vero che il tracciato razionale dei solchi permette lo sviluppo vitale delle pianticelle e, nel nostro caso, di piccole città, e se è altresì vero che Milano soffre di una conformazione radiocentrica, perché non immaginare in modo del tutto rivoluzionario di soprapporre alla pianura padana un reticolo di maglie autostradali quadrate come se fosse una gigantesca città romana o una grande città coloniale? È ovviamente un’ipotesi teorica, ma è interessante portare le cose fino alle estreme conseguenze per poi capirne i limiti. È ovviamente più sensato di pensare invece a una rete autostradale che segua la conformazione di Milano e coincida quindi con la storia, con la morfologia, con la vita della città. Il disegno mostra quindi una tale rete, articolata in autostrade circolari e autostrade radiali. Se il concetto della rete è quello di una struttura razionale che rende possibile all’interno delle maglie una vita organica, come in una piantagione, esso non cambia se la stessa rete è curvata, come si vede nella fig. 5. Se adesso immaginate di completare questa rete curva, chiudendola come un cerchio, il concetto non cambia. Ogni volta permettiamo cioè alla vita di crescere nell’ambito di una struttura razionale. Non viviamo più in una natura vergine, ma in un mondo razionale in cui il rapporto con la natura deve essere compreso e gestito.

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Fig. 4

Fig. 5

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Sentimento e ragione

Fig. 6

Questo concetto della curvatura lo si può anche trasferire nell’immagine della nuova e grande metropoli, che ha una costituzione radiocentrica come la città attuale, ma si espande in tutta la pianura e che si addensa intorno a uno spazio centrale. E qui adesso io non voglio più parlarvi di urbanistica ma di un concetto, di un’interpretazione del nostro tempo. In tutti gli aspetti del mondo, se si traccia un diagramma, si vede che per millenni la curva del diagramma è stata pressoché piatta, cioè i progressi dell’umanità sono stati scarsissimi, e poi a un tratto la curva sale con un’accelerazione esponenziale. Questo accade nel nostro tempo, come si vede nell’aumento vertiginoso del numero di abitanti e in moltissimi altri aspetti. La curva volge alla verticale ma si fa sempre più presente l’urgenza di introdurre invece la nozione di un limite alla crescita. È quanto si propone nel diagramma, che visualizza tale limite. È infatti evidente che non si può crescere indefinitamente, né ipotizzando un aumento esponenziale degli abitanti del pianeta, né immaginando uno sviluppo infinito dell’economia, della scienza e delle tecnologie. Il senso è di trovare la misura in tutto ciò, ma in che modo? In base a una conoscenza, a un’illuminazione, in base a una sapienza, in base al

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La Polis

vedere anche qual’è il punto utile in cui la crescita deve fermarsi sul piano materiale e continuare invece in modo virtuale, in una direzione spirituale. Riportandoci al piano urbanistico di Milano, il diagramma fa vedere che, se la metropoli estesa a tutta la regione si sviluppasse tutta al di fuori della cerchia dei Bastioni trovando in questa un argine, una diga, all’interno di questa noi avremmo uno spazio virtualmente vuoto. Il concetto è che le energie che da tutta la metropoli affluirebbero al centro giungerebbero a un massimo di concentrazione anche edilizia, anche visuale, in corrispondenza alla cinta dei Bastioni, ma qui ne sarebbe arrestata la crescita e l’affermazione, poiché ciò che è al suo interno, a immagine del nostro cuore, appartiene a una dimensione spirituale. È in questa dimensione che va inteso lo spazio “vuoto”: spazio della memoria, dell’università, di ciò che resta della città antica, e anche spazio della natura preservata in un parco centrale. Al centro di tale spazio, il diagramma mostra la sagoma del Duomo, come simbolo spirituale. Al di sopra la curva del diagramma continua verso la verticale perché non ci deve essere limite alla crescita spirituale dell’uomo. È proprio la stessa verticale che, parlando della città antica, saliva dal profondo della terra al cielo, non certo la verticale della crescita economica e di ogni altro potere che l’uomo di oggi stoltamente persegue.

Fig. 7

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Sentimento e ragione

Nella copertina del libro La Città a Immagine e Somiglianza dell’Uomo4, in cui tutti questi argomenti venivano sviluppati, usavo il particolare dell’affresco di Michelangelo come se il divino e l’umano si toccassero in questo sacro incrocio ma, riguardandolo oggi, lo interpreterei anche in un altro modo. Tutto il discorso sul sentimento e la ragione è in fondo questo. Michelangelo ha rappresentato la mano di Dio ma nessuno ha mai visto la mano di Dio. Invece noi tocchiamo col dito, nel vero senso della parola, questo rapporto fra le due parti di noi, che sono appunto il cuore e l’intelletto, il sentimento e la ragione. Con questo non voglio negare una prospettiva trascendente poiché, al contrario, è proprio dall’unione fra queste nostre parti che può scoccare la scintilla divina. Un’unione che è come l’incrocio sacro del nostro essere, dove il senso del divino, del trascendente, si rivela lo scopo della nostra vita. In altri incontri ci siamo avventurati nell’idea di vuoto. Ripeto, non vorrei soffermarmi stasera sul piano urbanistico di Milano, ma vorrei sottolineare una sua caratteristica saliente nel fatto che tutto lo sviluppo in cui sentimento e ragione si alleano, come si alleano anche tutte le forze che fanno la nostra vita associata, il modo in cui una grande comunità può articolarsi, vivere, tutto questo ha come centro il vuoto, ed è bello che si vada in tal modo in una dimensione metafisica, in un concetto Zen, in cui il vuoto è il centro del tutto. Non a caso vi si trova il collegamento con lo spirito, o anche con le ragioni profonde del nostro essere uomini, con la nostra storia, con l’educazione dei giovani: sempre e poi sempre si ritrova la sacralità di questo nucleo, vero centro del nostro essere. Nel caso di Milano questo concetto, grazie alla conformazione concentrica della città, può essere rappresentabile con un piano urbanistico in cui una cosa è dentro l’altra, fino al vuoto che è al centro di tutto l’insieme. Nel caso invece di un’altra città come Firenze, essa non ha una conformazione così concentrica come Milano; al contrario è una città “cometa”, ha cioè un centro che è in contatto immediato con la campagna, subito sopra il Ponte Vecchio, mentre dal lato opposto c’è una coda che non finisce più, fino a Prato e oltre. L’immagine della cometa è poetica, come non lo è purtroppo la realtà, ma è solo un paragone. Il discorso del vuoto, che è fondamentale, è indipendente dalla conformazione di una città ma, nel mio progetto della Città Nascente5, come lo si vive? Anche qui non voglio farvi vedere veramente un progetto ma solo qualche immagine...

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La Polis

Fig. 8

Ma ecco qui ancora un’immagine del libro precedente, che è ancora più bella: il modo in cui ci si deve avvicinare alla conoscenza e anche alla città, che è una forma di conoscenza oltre che di convivenza, io lo trovo rappresentato in modo meraviglioso in questo affresco di Giotto: San Francesco che parla agli uccelli davanti a un albero. Occorre questo atteggiamento di dialogo con la natura, occorre questa semplicità e purezza, anche per concepire le strutture più razionali e più complesse...

Fig. 9

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Sentimento e ragione

Questo è un progetto per rinnovare il centro di Firenze, ma non starò a parlarvi dei singoli edifici che lo compongono quanto di altre immagini che sento così vicine a quello che intendo dire. Prima di tutto Dante e Virgilio, che sembrano essere con noi nel nostro discorso sul sentimento e sulla ragione e prepararci al passaggio a un livello superiore. Visualizziamo in Dante il sentimento, cioè la sua natura di uomo vero del suo tempo, che soffre e che, visitando l’inferno e il purgatorio, riconosce le persone, le ama, le insulta, inveisce; è un uomo che appartiene alla realtà della vita, che è molto passionale, come il sentimento, come la forza della natura. E questo è Virgilio che invece, almeno nell’interpretazione di Dante, è la conoscenza, è la ragione. Virgilio accompagna Dante, cioè la ragione accompagna il sentimento, ma solo fino a un certo punto. Dopo, Virgilio si ritira e interviene Beatrice. Questo fatto è importantissimo: come dicevamo, le due forze che abbiamo in noi ci accompagnano fino al momento in cui dobbiamo passare a un livello trascendentale, il livello dell’anima che incontra il divino.

Fig. 10

Anche questa immagine è molto interessante: ci fa vedere la Firenze del tempo di Dante, l’inferno e il purgatorio, ma noi possiamo leggere tutto questo in un modo diverso. La città sulla destra è il mondo della realtà apparente in cui noi viviamo, la parte a sinistra che il pittore pensava fosse l’inferno è invece in realtà la nostra ombra: si va

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quindi dalla parte “razionale”, apparente, alla parte invece dell’ombra in noi stessi. Nel mezzo si vede la montagna del Purgatorio, il percorso da compiere, il cammino ascensionale dell’anima, e non per nulla in cima scorgiamo Adamo ed Eva, di cui non ho mai parlato, mentre ho sempre parlato del sentimento e della ragione, del femminile e del maschile, che ne sono l’equivalente. Essi sono dunque il punto centrale della vicenda. Oltre, inizia il cielo e con esso tutta una dimensione spirituale. È molto importante leggere questo rapporto fra la realtà, l’ombra, il cammino dell’anima, e giungere alla consapevolezza anche del fatto che maschile e femminile, o sentimento e ragione, sono la dualità costitutiva dell’universo.

Fig. 11

Qui si vede il centro di Firenze visto dall’alto. Sono indicati in grigio più scuro i palazzoni fatti tra ottocento e novecento, distruggendo l’antico centro della città. Senza inoltrarmi in un discorso urbanistico, voglio solo farvi immaginare di creare un vuoto. Questo vuoto, che prima avevamo visto come centro di noi stessi, come centro dell’essere, dobbiamo

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Sentimento e ragione

riconoscerlo nella realtà. Io non accetto che, dopo aver spaziato in concetti filosofici o in pratiche Zen, si lasci la realtà com’è, senza cercare di esprimere una verità interiore nel mondo reale. Ma in che modo esprimerla? Non pensate neanche per un momento alle eventuali difficoltà di demolire degli edifici, azzerando dei considerevoli valori immobiliari. Non è di questo che stiamo parlando, ma immaginate di fare il vuoto, proprio come momento fondamentale di riflessione e di rinascita. È lo stesso vuoto in cui Firenze è nata, in un lontano mattino di duemila anni fa, quando l’aruspice etrusco ne tracciò gli assi fondamentali. Immaginiamo che, dall’incrocio di questi assi prenda inizio il movimento di una spirale, cioè che da questo incrocio – da cui come abbiamo visto passa una linea che collega la terra al cielo – parta una spirale che determina tutta la forma del nuovo centro che costruiremo, ma soprattutto la amplifica fino all’universo, perché non è solo una città reale che stiamo progettando: quello che è vero in piccolo lo è in grande, quello che è in basso è uguale a quello che è in alto e viceversa. C’è quindi un senso profondo in questa spirale che si allarga in tutto l’universo e che, da tutto l’universo, ritorna indietro come una molla, creando appunto questa vibrazione, questo battito, come un cuore o come il movimento del respiro.

Fig. 12b

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Vedendo il modello dall’alto, con l’Arno, il Battistero, il Cupolone, si intravedono le tracce dell’antica città etrusco-romana: se ne possono infatti ritrovare il Foro, il tempio capitolino, le antiche terme. Con altri e nuovi edifici, con tante e innovative soluzioni urbanistiche, si può creare in questo luogo un campus universitario per i giovani di tutto il mondo, in modo che Firenze riconosca sul serio la sua vocazione di una delle capitali dell’arte e della cultura.

Fig. 12

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Sentimento e ragione

Nell’incrocio degli assi, c’è poi questo incredibile edificio del Fiore, di cui abbiamo parlato tante volte. Direi che l’immagine più bella che è nata in noi, in tutti questi convegni, è proprio quella del fiore. Abbiamo visto come l’albero è cresciuto, come ha realizzato la sua ramatura, giungendo alla sua completezza, e come a un certo punto deve produrre il fiore e il frutto da cui nasce un nuovo albero. E abbiamo esteso questa immagine a molti altri campi, in cui essa ha risvegliato in noi l’intuizione del senso della nostra vita, della nostra anima. Anche la nostra anima deve produrre il fiore, deve produrre il frutto: questo frutto è l’illuminazione, è una superiore conoscenza a cui l’anima può giungere, al di là però del ciclo della sua vita terrena, come appunto il fiore e il frutto sono in qualche modo al di là della vita vegetativa dell’albero. E ci è infine sembrato che il Cupolone stesso non fosse che il bocciolo chiuso di questa fioritura, che adesso può manifestarsi: il bocciolo può rovesciarsi e sbocciare nel nostro Fiore. Ma vi chiederete che cos’è questo edificio: è una serie di grandi auditori per la vita universitaria coperti da una piazza leggermente concava in cui i giovani potrebbero riunirsi; immaginiamo dei gruppi che si formano qua e là nel grande e aereo spazio, da cui si godrebbe la vista di tanti monumenti oggi nascosti di questa incredibile città.

Fig. 13

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Non so se possiamo adesso portare il ragionamento su un piano più generale, anche se esso è molto dolente. Con la Città Nascente, con Firenze, abbiamo guardato all’essenza e non alla contingenza. Abbiamo anche guardato al passato ma ricreandolo poiché, quando uno trova l’essenza, trova la sua radice, trova sé stesso. È una specie di regressione se volete, in cui si ritrova in noi il bambino interiore, il bambino nascente. Tutto questo fa parte del nostro mondo interiore ma lo possiamo poi portare nella realtà? E nella realtà ci scontriamo con la politica. Non voglio dire che la politica, come è purtroppo vero, sia solo disonesta, ignorante ecc. ma voglio riprendere il problema della libertà e della legge che abbiamo discusso nel precedente incontro. Per quale motivo per esempio non si potrebbe realizzare questo progetto per Firenze? Sarebbe anche estremamente utile da un punto di vista economico perché demolire dei vecchi edifici e costruire delle nuove strutture, oltretutto togliendo le funzioni amministrative dal centro e proiettandole in una nuova metropoli nell’area di Prato sarebbe fonte di un incredibile sviluppo per la città. In paesi più avveduti, in Francia, negli Stati Uniti, un progetto come questo si potrebbe anche realizzare, ma perché a Firenze non se ne parla neppure? Perché vi si oppone una mentalità corrente? O perché vi si opporrebbero le leggi? È evidente in questo caso che la legge non è affatto sinonimo di giustizia, come dicevamo nell’ultimo incontro, ma è semplicemente uno schema mentale prodotto dalla società e non certo dalla sua parte più illuminata. Nel caso di una società vecchia come la nostra, che diventa sempre più conservatrice, sempre più contraria allo spirito della vita, si tratterà di uno schema negativo, sordo a ogni ideale. Questa è quindi una conclusione molto triste. Non si può cioè realizzare una grande idea non perché sia qualcosa di assurdo e non praticabile, ma perché c’è una totale scucitura fra la libertà creativa individuale, l’arte, una visione, e la realtà esterna, che una volta non c’era. Se guardiamo a Firenze, come essa era nel Rinascimento, gli impulsi creativi che nascevano nell’anima degli artisti trovavamo riscontro immediato in impulsi diversi ma compatibili, complementari, di potenti, di banchieri, di ecclesiastici, del popolo minuto, e tutta la città serviva quindi questo ideale di bellezza, di compimento, su tutti i piani e in particolare nelle arti. Oggi questo non c’è assolutamente più, proprio perchè, in luogo di una libertà creativa e partecipativa, c’è una legge che, invece di favorire lo sviluppo della vita, la impedisce, crea una cristallizzazione: è una giustizia conservativa, che, in quanto tale, è sinonimo della peggiore ingiustizia. Da qui nasce l’istanza di una nuova leg-

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Sentimento e ragione

ge, che si fondi sulla ricerca della bellezza, sulla verità, sulla sapienza, su una conoscenza superiore. Abbiamo parlato tante volte di come una tale ricerca sia possibile a livello individuale, nel cammino dell’anima di ognuno di noi, mentre, quando poi cerchiamo di situarla a livello sociale, andiamo incontro a un totale fallimento. Possiamo solo sperare che, nel cammino di tutta l’umanità, attraverso vari cicli, cadute, ricadute e ricorrenti barbarie, si giungerà forse un giorno a una civiltà solare, in cui l’uomo sarà pervenuto a una conoscenza superiore? Per il momento, dei progetti di questo tipo sono come dei piccoli impulsi, dei piccoli passi, che è troppo facile chiamare utopia. Così facendo, si sottovaluta il fatto che la realtà deve essere comunque modificata, che il mutamento è in verità la sola realtà e che noi dobbiamo essere il lievito di questo mutamento, per portare la realtà a crescere e trasformarsi. Un’altra tematica riguarda i modi del mutamento. Come succede nei movimenti della terra, se essi fanno parte di un assestamento dolce, graduale, non ce ne accorgiamo neppure mentre, se ci sono degli ostacoli a questo assestamento, le tensioni accumulate esplodono in terremoti ed eruzioni. E così penso che, nel corso delle civiltà, quando non è possibile una evoluzione normale e progressiva, si può solo pensare a quanto è sempre accaduto nella storia, cioè alle rotture dei cicli, alle catastrofi che, fino ad oggi, sono state il mezzo risolutivo per cambiare pagina. Se non fosse così, sarei qui a farvi vedere l’antica Florentia etrusco-romana e non la città di oggi. Vi avrei fatto vedere ugualmente la Mediolanum romana e non la Milano di oggi. Se queste città sono invece diverse e incomparabilmente più grandi di quelle di allora, è perché c’è stata nel frattempo una rottura che ha permesso alla civiltà di rinascere e di crescere dopo la catastrofe. Tante volte abbiamo parlato dell’importanza dei cicli e del percorso evolutivo che si fa di ciclo in ciclo, attraverso la vita e la morte, la costruzione e la distruzione. I lineamenti della Polis futura, al di là delle vicende di Milano e di Firenze, saranno disegnati da questo continuo processo.

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La Polis

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DIBATTITO

Vittorio M. A questo punto chiederei a voi di contribuire un poco...

La città del pensiero Silvana O. Io ho subito due domande: innanzitutto, proprio adesso hai parlato di catastrofi, e già prima, vedendo la piantina di Milano, con la raggiera delle eventuali griglie stradali, mi è venuta in mente Atlantide. Nell’interpretazione sia del Crizia che del Timeo, Platone parla di Atlantide e di come era strutturata la città, in forma concentrica, con dei canali, e probabilmente anche a forma di spirale, perché le navi che arrivavano su quest’isola dovevano prima attraversare questi tre canali, per arrivare poi al centro, dove c’era il tempio di Poseidone, tutto d’oro. Quindi, la domanda è: questa idea di città che Platone aveva poteva esistere davvero al suo tempo, oppure era solo frutto della sua fantasia? Si può inoltre dire che una città così razionale poteva essere in qualche modo una città maschile? Vittorio M. Beh, no, ai tempi di Platone la città non esisteva, lui narra nel Crizia… Silvana O. Sì, però la descrive proprio come hai fatto tu. Vittorio M. L’abbiamo detto tante volte: se uno si nutre di un pensiero sul nucleo, sul centro interiore, scopre che è sempre lo stesso, ed è così quindi anche di quello di cui ha parlato Platone. È lo stesso centro che può aver ispirato gli architetti di Atlantide e quelli di altri tempi. La verità è una

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Sentimento e ragione

sola e, per quanto i nostri punti di vista possano differire, se uno comunque arriva vicino al centro, allora ne vede l’unicità. Silvana O. E si origina quindi la stessa forma? Vittorio M. Più che a una forma, si è vicini al nucleo profondo che la origina. Quanto poi a quello che dicevi di una città della ragione, o addirittura maschile, io tenderei a dire che la nuova metropoli che ho disegnato sia la città del pensiero, perché è il pensiero che si avvicina alla verità. Silvana O. La ragione, dunque… Vittorio M. Ecco, distinguerei un attimo tra ragione e pensiero: la ragione e il sentimento sono su un piano diciamo paritario, ma il vero pensiero è quello che sa unire la ragione e il sentimento, per metterli poi in contatto con la trascendenza. Io la vedrei in questo senso: che la città non può essere solo la città della ragione, ma deve giungere al livello del pensiero, che è superiore alla ragione stessa. Questo è importante, perché parlare di ragione può indicare anche la ragione economica, politica, scientifica, e non c’è dubbio che la maggior parte della città attuale risponda a questo tipo di ragione, mentre il pensiero è un’altra cosa, è piuttosto sinonimo di sapienza. Silvana O. Infatti, se vogliamo, ritornando alle immagini di Milano, il tuo progetto è concentrico, non segue lo schema della città romana. La città del pensiero è diversa dalla città della ragione che sembra più quadrata. Vittorio M. Ecco, la città della ragione segue un principio di geometria, la città naturale invece segue un principio di organicità, e la città del pensiero deve comprendere l’uno e l’altro, e deve comprendere in sé anche la natura. Una volta le città avevano delle mura che le difendevano dalla natura, che appariva impenetrabile e piena di pericoli, mentre oggi, in cui l’uomo è diventato più forte della natura o meglio ha una tecnica che

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può distruggere la natura – la nostra “forza” si intende purtroppo in questo senso distruttivo – oggi si sta invece sviluppando per fortuna il contrario, cioè un dialogo, un amore per la natura, con cui l’assumiamo come parte integrante di noi stessi. Allora vedi che le mura, invece di averle all’esterno della città, si devono avere al suo interno, come nella mia idea della cinta dei Bastioni, per proteggere la natura interiore, cioè quel vuoto di cui abbiamo parlato. Però qui faccio molte confusioni, peraltro feconde, perché una volta penso a questo vuoto come natura, penso a un bosco dentro la città, un’altra volta penso che nel bosco ci siano degli edifici antichi, o anche nuovissimi, al servizio di esigenze educative, in un altro caso, come a Firenze, niente bosco ma vado a ritrovare la nascita della città in un tempo remoto, o in un tempo futuro, o in un tempo metafisico... Ma sono confusioni feconde, perché tutto quello che non è razionale, utilitario, economico, brutale, è unito nel nostro centro interiore, che sia l’antica città o la natura, o l’albero, o San Franceso, o il nostro cuore, il nostro sentimento: io vedo tutto insieme... Silvana O. E qui viene la seconda domanda, scusatemi, poi non parlo più...Volevo dire che abito a Milano 2, un piccolo quartiere di edifici realizzato con un progetto che appartiene evidentemente alla ragione. Mi sembra però che appartenga più al pensiero perché, come dicevi tu, incorpora il verde nel quartiere, è integrato nella natura. Poi, se lo guardiamo dall’alto, è un po’ come se fosse il biscione, il simbolo di Milano, e si riporta quindi anche alla storia. Io ci sto benissimo ma, a parte questo, la mia domanda era: come collochi tu, Vittorio, questo progetto? Vittorio M. Io non lo conosco bene, però è evidentemente un buon progetto. Non schematizzerei però nulla, dicendo che una cosa appartiene alla ragione, l’altra al pensiero ecc. Però, se dovessi collocare Milano 2 nell’insieme della metropoli, direi che va bene che ci siano episodi di diversi tipi: prima dicevo che le cittadine federate devono recuperare la loro identità, che certe volte può essere legata a una preesistenza, a un monumento, alla conformazione antica della città, mentre, in altri casi, può invece risultare da un progetto disegnato ex novo.

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Sentimento e ragione

Silvana O. Quindi non lo chiamaresti città del pensiero. Vittorio M. No, la “metropoli del pensiero” a cui mi riferisco è un’altra cosa: penso a un grande urbanismo urbano in cui vengono integrati gli aspetti di razionalità e di organicità, che abbiamo riconosciuto nelle città del passato, individuando nel nostro tempo o meglio nella civiltà in cui esso può svilupparsi la capacità di fonderli in un vero pensiero: un pensiero che sappia unire anche lo sviluppo economico, l’ingegneria delle comunicazioni, l’educazione dei giovani, la salvaguardia della natura e ogni altro aspetto, in una visione etica e spirituale... Nel contesto di una grande metropoli, così intesa, va bene che ci siano diverse forme di abitato, anche se il mio cuore va piuttosto verso una città che abbia una sua identità, con una comunità che si riconosca in essa, piuttosto che verso delle operazioni di tipo commerciale, che tuttavia possono essere fatte molto bene ed essere molto piacevoli. C’è qualcun altro che vuole intervenire? Carla S. stasera non ho niente da dire, mi è piaciuta molto, il tuo discorso è molto bello, molto autentico, molto profondo, molto tutto, mi ci sono molto riconosciuta, ma non ho niente da aggiungere. Vittorio M. Non è un discorso facile, perché parlare della città è un tema che è purtroppo riservato ai soli urbanisti. Se essi fossero d’altra parte qui, figurati...sentirci parlare di un fiore, dell’albero, dell’anima...C’è poi un aspetto del mio discorso che sarebbe anche molto ferrato sul piano tecnico, ma mi guardo bene dal farlo, tanto più che proprio oggi ho dovuto rileggere le dispense di un seminario dell’anno scorso in cui avevo già parlato di questo progetto in modo molto più dettagliato. A dire il vero me ne sono pò stancato..., e poi ho scoperto che mi ripeto in modo clamoroso! Ho però diverse spiegazioni per questo: una è quella di una campana cinese, non so quale maestro diceva che era una campana speciale: in qualunque punto tu la toccassi, dava sempre lo stesso suono. Poi il mio altro alibi è il fiume: il fiume passa, sembra sempre lo stesso però non lo è, oppure in fondo lo è... e così è il fiume dei pensieri. E infine ho parlato tanto dei cicli, non per niente..., non è che si dice una cosa

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dall’A alla Z, e poi si va a casa. La diciamo e poi la ridiciamo e poi la ridiciamo ancora... Silvana O. Repetita adiuvant Vittorio M. Certo, ma non è poi una ripetizione di nozioni: è un rifare il percorso, come fa il sole che nasce la mattina, poi splende per tutto il giorno, poi va a dormire, ci pensa tutta la notte e ritorna la mattina dopo..., anche per far crescere una carota, un filo d’erba qualsiasi il sole quanti viaggi deve fare, quante volte deve rifare il giro, ve ne rendete conto? Carla S. L’unica cosa che ho pensato, l’unica, non è un pensiero, è solo un’immagine: vedendo il tuo disegno della spirale, mi è venuto in mente come in fondo noi abbiamo dentro di noi due spirali, una è il nostro intestino e l’altra è il nostro cervello, e noi ci esplichiamo anche attraverso questi segni, che esprimono questa nostra spiraliformità, che è anche quella dell’universo, molte galassie sono spirali. Mi è venuta solo l’immagine di questa organicità, di questo legame profondo fra noi, quello che creiamo, quello che sentiamo fuori, quello che è nell’universo, quello che è dentro di noi, il grande e il piccolo, ecco tutto questo mi è passato per la testa, suggerito da te... Federico F. Parlavi di unione fra sentimento e ragione. È anche lo Yin e lo Yang. Vittorio M. Esattamente, è la stessa cosa. È una delle intuizioni più belle della filosofia orientale. Federico F. Un’altra cosa: gli antichi si occupavano della geomanzia, lo studio di un edificio in relazione alle forze cosmiche. Sarebbe possibile tenerne conto nella città moderna, costruendo dove sarebbe meglio conforme? Silvana O. Puoi farlo in campagna, in città mi sembra difficile.

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Sentimento e ragione

Vittorio M. Una volta l’uomo era legato alla terra, che faceva parte di lui stesso. È un rapporto fondamentale, che oggi è dimenticato. Quanto a me, non conosco il Feng shui, a cui penso che tu alluda parlando di geomanzia, ma ho una certa attenzione per il lato magico di questa pratica. Una volta ho disegnato una casa che era rigorosamente pensata in funzione dell’orientamento, delle stagioni e delle età della vita, la cui ricerca si è poi focalizzata nell’orientamento in un senso spirituale, come quello che presiedeva una volta alla fondazione delle città. Esse venivano orientate secondo i punti cardinali e, in particolare, venivano orientati verso l’oriente tutti templi, ma di questo parleremo, credo, nel prossimo incontro. Vi parlerò del tempio, nelle forme storiche che esso ha assunto, e soprattutto nella forma “interiore” di fare un tempio di noi stessi. Adesso devo però interrogare qualcuno... Giorgio?

Il vuoto in occidente e in oriente Giorgio F. Prendo spunto da quanto è stato detto. Penso che a noi uomini occidentali risulti costituzionalmente difficile di attingere a quel vuoto che citiamo spesso. Secondo me, in occidente c’è veramente un horror vacui, di cui è stato una forma anche l’andare a colonizzare tante terre vergini. È qualcosa di insito nella mentalità dell’uomo occidentale, in modo che sembra difficile anche di far accettare un progetto che preveda di fare il vuoto, proprio perché non fa parte della nostra dimensione antropologica. Lo si vede anche nell’arte, pensando per esempio all’arte romanica e agli infiniti intrecci decorativi di cui riempiva le superfici e i capitelli. Si direbbe che, sia nel pensiero che nelle immagini, tendiamo a colonizzare, a riempire tutto, mentre in oriente, nell’arte giapponese, il vuoto regna sovrano. Vittorio M. Giusto, però penso che una delle chiavi di sviluppo del nostro tempo è proprio l’unione fra l’occidente e l’oriente, è proprio quello che dobbiamo fare. Jung, con tutto il discorso sull’inconscio, aveva già cominciato a esplorare questo vuoto, che poi non è vuoto ma ricchissimo di con-

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tenuti, ma oggi è fondamentale avanzare nella fusione fra la cultura occidentale e la cultura orientale. Carla S. Vorrei però dire, per rispondere a Giorgio, che veramente, già nel medioevo, c’era questa doppia anima: da un lato queste chiese piene di decorazioni, animali, mostri, tanto che San Bernardo tuonava, non li voleva, preferendo delle superfici lisce, nude: ma dall’altro anche gli spazi vuoti e senza nessuna decorazione di tante chiese romaniche. Quindi c’è questa duplice anima, l’anima che riempie il vuoto e l’altra anima che invece lo ama e ricerca questa purità di superfici. Io direi che questa duplice anima c’è sempre, anche nell’arte contemporanea. Se voi pensate a tutto il filone dell’arte astratta, pensiamo a Mondrian, alle superfici geometriche, al rifiuto di figurazioni, di espressività, all’amore delle superfici nude, come un discorso di ricerca interiore... Vittorio M. Hai ragione a dire che ci sono sempre le due anime, però in oriente è prevalente questa cultura del vuoto, anche se, sembra curioso, i loro templi sono “pieni” come sculture, non hanno perlopiù uno spazio interno. In occidente è stato invece molto sentito lo spazio. Mi viene in mente un’antica chiesa, Santa Maria del Fiore, le cui facciate sono riempite di decorazioni in ogni particolare, come è nella tradizione fiorentina, mentre il suo interno è un immenso e assoluto spazio vuoto. Non se ne è però fatta una filosofia come in Oriente ma, se si vuole, una sana pratica: vuoto e pieno come vino e pane, cose complementari come, nella vita, il silenzio e la parola. In Oriente si è ricercato il vuoto interiore, ma da noi, soprattutto in Toscana, si sono costruite le forme che contengono il vuoto, i vasi, ben torniti e pieni. Nei progetti di città di cui vi ho parlato, il vuoto è preso in un altro senso. In tutti questi seminari e anzi da sempre io mi occupo del bisogno di una rifondazione del mondo, della città e sostanzialmente di noi stessi. Non sono mai andato a pensare cosa facessi nelle vite anteriori ma probabilmente in una o nell’altra dovevo fondare una città, come architetto, sacerdote o magari solo come l’addetto al vomere che ne tracciava i solchi. Di fronte al caos del mondo contemporaneo – guardate a una città come Firenze, come Milano o come qualunque altra città – sento il bisogno di rifarmi al momento della sua nascita, come una specie di ma-

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Sentimento e ragione

gia interiore. Nel libro che ho scritto sul progetto di Firenze, La Città Nascente5, ogni capitolo comincia immaginando di trovarmi in questa bella pianura sotto Fiesole quando fu fondata Firenze o poco più tadi quando il sacerdote, ogni mattina, di fronte al sole nascente, celebrava il suo rito... Mi direte che, oggi come oggi, il nostro impegno deve essere ben altro: partecipiamo all’attività del mondo lavorando su alcuni degli infiniti particolari dell’immenso edificio comune, dando una mano, progredendo, cercando di fare qualcosa di meglio, ma siamo largamente deficitari, sopraffatti da chi invece fa sempre qualcosa di peggio! Per cui nasce in noi un profondo bisogno dell’anima che dice: “No, bisogna ricominciare da capo” Non accade forse così in tante situazioni della vita? Non si può più perfezionare un edificio che è vicino al crollo, non si può indefinitamente vivere e guarire da infinite malattie, bisogna morire e bisogna rinascere. Questo rinascere è un lavoro, è il mio lavoro, sono molto attento a questo, è un lavoro maieutico. Quindi dico: rifacciamo il vuoto, in noi stessi, come una verginità recuperata, ma riconosciamolo anche in tante situazioni del mondo, che soffre manifestamente del troppo pieno, del troppo costruito, del troppo inquinato. Un vuoto che però, un momento dopo, riempio: non ricerco il vuoto come uno stato di interiore perfezione, ma lo riempio di progetti civili, che sono molto integrati con i bisogni profondi del tempo, con l’educazione dei giovani, con l’avvenire che vogliamo render possibile per loro. Non rifiuto l’operatività della vita, ma chiedo che essa sia messa al servizio di un intento spirituale.

La città della psiche Silvana O. Ma non ti verrebbe voglia di inventare invece una città nuova? Vittorio M. Una volta me l’hai già detto, non è una questione di voglia, ma sarebbe un’astrazione di pensare al nuovo come a qualcosa di staccato dalla realtà. Non c’è più una natura vergine, non c’è più una coscienza vergine, vuota; il nuovo non può essere che uno sguardo nuovo su ciò che già esiste, in noi e al di fuori di noi. Oso dire uno sguardo “vergine” in cui lo Spirito si invera, come in una Annunciazione.

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D’altra parte, ti ho fatto vedere il progetto di una nuova città – AixEtoile – ma vedi, pur facendo una cosa interamente nuova, è come se io avessi lavorato su un humus psicologico; occorrerebbe forse uno psicologo per chiarirlo. Vi ho detto prima che, nel disegnare questa città, ho raccontato una storia; ho in realtà ricordato alla psiche umana ciò che essa ha già in sé: l’idea della città, il suo collegamento con il cielo e con la terra, il principio verso il quale orientare la realtà. Fa parte della nostra psiche di avere tutto ciò dentro di sé: che poi tu lo applichi a una città preesistente, a una sua parte, oppure ex novo, non cambia molto. Cambia invece tutto se questa essenza non viene percepita e si bada solo a tracciare strade, a costruire case, o anche a restaurarle, e soprattutto a venderle e a comprarle. Tutto ciò fa parte della realtà, ma occorre fare in modo che la realtà rispecchi una verità interiore, che è il senso che noi diamo alle cose. Si parla poi di Brasilia e del divario che si vede in essa fra una città artificiale, creata sulla carta, e le favellas che si sono sviluppate tutt’intorno. Federico si chiede cos’è un progetto urbanistico, un mega-piano? Vittorio risponde che in Italia si fa un po’ di confusione fra i diversi livelli di intervento urbanistico, mentre in America essi sono distinti fra urban planning e urban design. Quest’ultimo è un progetto visualizzabile a livello architettonico, come quello per il Centro di Firenze, mentre quello per Milano è più un urban planning a causa della sua scala regionale. Vittorio M. A dire il vero, richiederebbe un’altra categoria per essere definito: è infatti più un piano filosofico che urbanistico, anzi un piano metafisico.. Non per nulla si chiama “la città a immagine e somiglianza dell’uomo”. Silvia G. Le hai dato la struttura quasi di un corpo umano. Vittorio M. Questo è un altro discorso ed è un po’ difficile. Dire che tale città è a immagine dell’uomo è un pensiero che si può cercare di definire in alcuni aspetti, ma che ha anche un fondo esoterico. Non è che fisicamente questa città debba far pensare al corpo umano. Potremmo ravvisare in essa, è vero, una testa, un cuore, un sistema circolatorio e respirato-

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Sentimento e ragione

rio, e perfino un pensiero, ma l’intento è più profondo: la vera somiglianza con l’uomo è nell’analogia con il detto biblico che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Silvana O. Allora la settimana prossima ci parli del tempio? Vittorio M. Il tempio...Anche qui c’è da riconoscere diversi livelli: come è stato il tempio nella civiltà classica, come lo è stato nell’architettura gotica, come può esserlo oggi e come soprattutto deve esserlo dentro di noi. Il discorso è sempre lo stesso: fare il vuoto in sé è proprio come costruire il tempio, e somiglia al discorso della Città Nascente, in cui ci si riporta al momento sacro della nascita. Mi è molto difficile separare le cose, sono tutte la stessa cosa... Carla S. Sai che cosa vorrei dire io a conclusione di questa bellissima serata? Una frase che ho letto di Panikkar, che io amo moltissimo e mi ha dato tantissimo: “sono partito per l’India ed ero Cristiano, mi sono ritrovato Indù, sono diventato Buddista, senza mai smettere di essere Cristiano”. Vittorio M. Anche tutte queste religioni sono la stessa cosa... Anche a me è successo, andando in India, non solo di non smettere di essere Cristiano, ma anzi di diventarlo ancora di più. Perché vedi, il messaggio di Gesù è meraviglioso ma è stato così irrigidito nel catechismo, nei dogmi, che è diventato difficile comprenderlo, se non facendo appunto il vuoto in noi per riceverlo, o aprendo almeno una parentesi di distacco. Questa permette di porsi da un punto di vista diverso, per poi ritrovare con rinnovata freschezza il centro, che deve essere come un tempio interiore in cui tutte le immagini di Dio sono accolte, anzi può anche non essercene nessuna...poiché siamo noi stessi la sua immagine.

Note 4 5

Vittorio Mazzucconi, La Città a immagine e somiglianza dell’uomo, Ed. Hoepli 1967 " " , La Città Nascente, Ed. Dedalo 1985

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IL TEMPIO

Incontro n°8 del 26 maggio 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Federico Ferraris, Gerardo Palmieri, Antonio Miglietta, Silvana Olmo, Ettore Lariani Vittorio Mazzucconi Il discorso sul sentimento e sulla ragione ci ha accompagnato in tanti modi. Lo abbiamo infatti letto anche nella forma parallela del femminile e del maschile e, nel penultimo incontro, nel rapporto fra libertà e legge. Questo rapporto lo abbiamo poi vissuto anche nella città, perché in essa è evidente la necessità di un insieme di norme che regolamentino le attività dei cittadini, al fine di contemperarne la libertà con la convivenza sociale. Oltre ad aver citato il concetto di strada, che è la prima legge presente in una città, non ci siamo però divulgati oltre nella selva delle disposizioni regolamentari di ogni sorte che disciplinano ma anche mortificano la vita del cittadino, mentre abbiamo preferito parlare della Polis in un senso molto ideale. Ci siamo riallacciati in tal modo al tema del Seminario “Il Lavoro Spirituale”2 dell’anno scorso, in cui si propugnava l’esigenza di una vera e propria rifondazione della città: non di interventi tecnici, o burocratici o politici, ma proprio di un intento fondativo che è poi a specchio del rifondamento di noi stessi. È questa l’impresa essenziale, fondamentale, se vogliamo che il mondo vada avanti, al di là del crollo di ogni valore che stiamo vivendo e della possibile catastrofe in cui esso può sfociare. Restando ancora nel tema della città, ma non in quello specifico della legge che in essa si manifesta, vogliamo parlare adesso del tempio. Le città sono sempre state raccolte intorno a un tempio: una volta si credeva molto nei valori religiosi ma, a parte le credenze e anche i poteri che si fondavano su di esse, vogliamo mettere l’accento sulla centralità del tempio. Come nel nostro essere, nel nostro corpo, c’è un cuore,

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Sentimento e ragione

così nella città c’era un tempio. Questo sia in epoca greco-romana, sia nel Medioevo, sia nei secoli successivi, anche se con un intento sempre meno orientato verso una vera spiritualità. Oggi il tempio, la chiesa, non sono più il centro della città, e quel che è peggio non coincidono più con il nostro cuore, con la nostra verità, con la nostra ricchezza interiore. Al centro della vita contemporanea, invece del tempio, abbiamo i monumenti al benessere, al denaro. Andando però con ordine, mi viene in mente l’immagine del tempio greco. Non so se voi sapete che le sue forme, le colonne, i triglifi, i particolari decorativi, erano la traduzione dell’originale costruzione in legno, vengono proprio da questo saper costruire in legno. A parte la tecnica messa a punto in questa attività, c’era un rapporto con la natura, col famoso “sentimento”, parola che abbiamo usato come contenitore per definire non solo i sentimenti ma anche l’inconscio, la natura, le radici, e anche l’oscurità in cui esse penetrano, o anche l’appartenenza alla terra, o infine l’appartenenza alle tradizioni che vengono da una lungo processo di apprendimento. Gli uomini nella foresta hanno cominciato a costruire fisicamente e anche mentalmente le cose, tagliando gli alberi, mentre più tardi, in una civiltà più avanzata, questa costruzione si è trasferita nel marmo. È come dire, seguendo quello che abbiamo sempre detto nel Seminario, che il sentimento si evolve nella ragione, e oltre. I primitivi non sapevano evidentemente che l’albero usato a colpi d’ascia come materiale da costruzione, portava in sé la chiave archetipica di ben più sofisticate intuizioni. Esse ci hanno mostrato un momento iniziale in cui il sentimento è sorgivo, un momento finale in cui la ragione decade, ed un momento centrale in cui sentimento e ragione insieme formano un’unità. Il tempio greco è proprio l’espressione di questa unità, dove non c’è traccia di un sentimento isolato dalla ragione e neanche di una ragione che abbia fatto tabula rasa del sentimento. Questa unità si esprimeva anche in forme pratiche: non solo, come dicevo, le forme nel marmo erano la traduzione di quelle del legno, ma questo lavoro era intessuto alla vita sociale, era tutt’uno con essa. L’edificazione di tutti i templi ha sempre richiesto i contributi economici dei cittadini, ma si dice che il Partenone fosse stato costruito mettendo insieme i pezzi di marmo fatti addirittura uno per uno e portati dai cittadini. Riesce difficile immaginare la perizia e la coordinazione necessa-

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Il tempio

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ria per una tale opera, ma ci viene in aiuto, facendo un salto in altri tempi e luoghi, quello che ho saputo in Messico visitando le piramidi Maya. Anche queste erano fatte col concorso del popolo, perfino delle donne e dei bambini. Quando vedi queste piramidi così immense, ti chiedi come potessero farcela. Se vai lì te ne accorgi: sono tutte fatte di piccoli sassi, sassi di fiume, e quindi anche un bambino poteva portare il suo sasso. Poi gli artefici esperti rivestivano questa montagna di sassi con delle lastre, tagliate ad arte evidentemente ma, al di là di un’abile suddivisione dei compiti, l’essenziale è che il tempio fosse l’opera, il dono di tutta la comunità. Il rapporto col sentimento è anche questo: non si costruiva un edificio per il prestigio, per un investimento di denaro, per una speculazione, tutte cose che accadono oggi. Si costruiva invece come opera corale di un popolo e questo è straordinario! Facciamo ora un altro salto e vediamo com’era la città nel Medioevo. Abbiamo tutti in mente la cattedrale gotica, proprio nel centro di queste città spontanee. Mentre il tempio pagano era aperto sul Foro, nel centro della città classica, dove si incontrano gli assi ortogonali, le città medievali erano come un insieme organico, una forma naturale di strade circolari e strade radiali, cresciuta spontaneamente, direi come una pianta, una molecola, un animale. Nel suo centro c’era appunto il cuore pulsante, ovvero la cattedrale per la quale per secoli e secoli lavorava la gente. E anche lì vedi il rapporto col sentimento: non solo il sentimento della gente che appunto contribuiva con tutta l’anima, con tutto il proprio lavoro, alla costruzione della cattedrale, ma anche la sua radice nella vita dei popoli nordici, in un ambiente naturale ricco di grandi foreste, a cui la cattedrale si è naturalmente ispirata. Anche essa è la traduzione di un primo lavoro nel legno. Ma mentre la colonna greca era un tronco – salvo quella dorica che poteva essere immaginata come fatta da tanti piccoli tronchi assemblati, di cui è rimasta memoria nelle sue scanalature – i pilastri della cattedrale gotica sono costruiti mettendo tanti legni insieme, ma questa volta sono veri alberi uniti in un fascio e che poi alla loro sommità si ramificano, generando delle volte che sembrano fatte di rami intrecciati, come si usava fare per costruirsi un riparo nella foresta. Tutto questo è bellissimo! Io torno sempre al solito punto, cioè: il rapporto tra quello che è in noi, che fa parte del nostro cuore e che ricono-

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Sentimento e ragione

sciamo nella natura, e anche nel lavoro dell’uomo legato alla natura, al mestiere, alle tradizioni, da una parte; e dall’altra invece la ragione, che costruisce geometrie in continuità con un principio naturale: è come l’accordo di due note che genera un’armonia e ci porta sulla soglia del trascendente... Pensate ai rosoni di una cattedrale gotica, che non sono altro che mandala, simboli dell’assoluto, dell’universo, della centralità del tutto. Facendo un altro salto, questa volta un brutto salto, e giungendo alla nostra città, vediamo che il centro non è più quello di cui stiamo parlando. Possono esserci delle grandi chiese, monumenti del passato, ma non sono più la nostra opera vera. Il nostro centro a Milano è la Rinascente, sono le banche… Questo esprime il fatto che, nel nostro tempo, il sentimento, come ancoraggio al cuore e alle tradizioni, è andato del tutto perduto, e la ragione non è più quella del cuore, quella che disciplina, purifica, illumina i moti dell’animo, ma è diventata in sé una struttura a sé stante – vedi la matematica, l’informatica, la scienza – che nega ogni altro aspetto che non sia riconducibile a un piano razionale. In questa luce, o piuttosto in questa oscurità, possiamo chiederci qual’è stato il destino dei due modelli quasi archetipici di cui abbiamo parlato, il tempio classico e la cattedrale gotica. Per ciò che riguarda il tempio classico – forse non ci avrete fatto caso – ma il suo frontone è diventato quello delle banche e dei palazzi del potere di tutto il mondo. Se invece si prende la cattedrale gotica, la sua spinta alla verticalità la si ritrova nei grattacieli, è lo stesso impulso; solo che prima, costruendo le cattedrali con guglie sempre più alte, si pensava di andare verso Dio, mentre oggi, col grattacielo, si pensa solo ad accumulare soldi su soldi, soldi su soldi...fino a farne non una guglia, un campanile, un minareto, uno strumento di ascesa verso il divino, ma una pila di denaro. Ciò fa parte della proiezione di un senso di onnipotenza, di un’ottica prometeica, con cui l’uomo crede di raggiungere la felicità con il potere, a cui equivalgono il denaro e la stessa conoscenza. È questo purtroppo il nostro tempo anche se, accanto agli aspetti che io reputo distruttivi, e che sono sotto i nostri occhi, si fanno strada sempre più delle tendenze opposte, in tante forme, che possono riequilibrare lo strapotere della ragione e del materialismo economico. Per non citarne che alcune, sono l’attenzione alla sostenibilità, il rispetto della vita,

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l’emancipazione femminile, la fusione di popoli e culture, la New age..., fino a poter intuire in tutto questo il sorgere di una nuova spiritualità. Parlando di questa, non bisogna però farsi illusioni perché sarà spiritualità vera solo nella misura in cui saprà rapportarsi alla realtà operante, anche alla realtà economica, anche alla scienza: enormi forze che una nuova spiritualità non può certo negare ma solo equilibrare. È solo in un nuovo equilibrio la soluzione ai problemi del mondo. In una società come la nostra, se noi volessimo immaginare un nuovo tempio, come sarebbe? Possiamo immaginare un tempio come quello greco, che è simbolo di un’unità tra sentimento e ragione? Direi proprio di no, perché se ci sono due cose che sono divise nel nostro tempo, sono proprio queste. Possiamo immaginare un tempio come quello gotico, così ispirato a un anelito divino? No… Come ci dobbiamo poi situare rispetto al tempio? Nell’antichità classica la gente stava all’esterno del tempio; il sacerdote praticava i suoi riti davanti alla sua facciata. Il tempio era riservato a Dio, che si supponeva vi abitasse, e l’ingresso nella cella dove c’era il simulacro del Dio era consentito ai soli sacerdoti, come del testo accadeva anche nei templi egizi. Nella chiesa cristiana, invece, il tempio è diventato la casa della comunità – ecclesia vuol dire appunto “assemblea” – in cui si riuniscono i fedeli. Oggi, noi ci troviamo al cinema, ci riuniamo davanti alla televisione – il mondo è incredibilmente cambiato – e porsi il problema di dire “come facciamo oggi un edificio sacro” è pressoché senza speranza. Ogni tanto si fanno dei concorsi per la realizzazione di chiese moderne, che sono squallidissime, non per colpa degli architetti, ma perché un architetto, senza l’ancoraggio a una viva tradizione e senza vivere un profondo bisogno collettivo come quello delle epoche animate da uno spirito religioso, che cosa può fare? Può solo fare delle forme cercando di essere moderno, cercando di essere originale, ma saranno forme al servizio di un contenuto che non c’è più. C’è poi un altro aspetto: nel parlare tante volte di sentimento e ragione, ne abbiamo associato il rapporto a quello fra femminile e maschile, ma possiamo adesso leggerne il rapporto anche nel tempio. La chiesa era, direi, non solo legata al sentimento religioso ma legata al femminile, tanto quanto invece il potere politico era maschile. Quindi, nella città antica, c’era questa chiesa femminile, a fronte della quale c’era il po-

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Sentimento e ragione

tere politico, eminentemente maschile. A guardar meglio c’era un rapporto fra due poteri, quello religioso e quello politico, non dissimile dagli analoghi poteri in un rapporto di coppia. Se guardate invece un tempio greco, sapreste dirmi per caso se è maschile o femminile? No, perché in sé realizzava proprio un’unione, l’unione del femminile e del maschile. Gibran, il poeta libanese che ha scritto “Il Profeta”- lo conoscete? – diceva molto bene che per sostenere l’architrave di un tempio, occorrono due colonne e che esse devono essere a una giusta distanza, proprio come due amanti, a cui riferiva l’immagine. Quindi il tempio era l’unione del maschile e del femminile, basata sulle vere ed eterne forze della vita. Se pensate invece a una chiesa gotica, vedete che comincia con essa il cammino della separazione: si è fatto qualcosa di unicamente legato al sentimento, tutto rivolto alla mamma – non si dice forse “madre chiesa”?- separandolo dalla ragione, che veniva invece identificata nel potere paterno. Pensando a un tempio per il nostro tempo – voi sapete che tendo a ripetermi perché sono ormai vecchio – ho fatto tante arche, ma proprio tante! Questa questione dell’arca mi travaglia da sempre: non è l’arca ebraica, che era una cassa in cui si custodivano le tavole della legge ed altre cose preziose; non è neanche l’arca di Noè, per quanto io abbia qualche piccola idea sulla possibilità di diluvi atomici nel nostro tempo; ma è qualcosa di misterioso, che io associo alla falce della luna, l’associo a un grembo materno. Ci sono però due modi di pensare l’arca, con riferimento al maschile e al femminile. In un modo maschile, l’arca è un mezzo, un veicolo, una nave come quella che gli argonauti costruirono per andare alla ricerca del vello d’oro o come quella degli ardimentosi esploratori di ogni tempo. Questa idea di arca al maschile – si può pensare oggi a un’astronave, a un viaggio spaziale – è uno strumento di potere, di viaggio, di avventura. Io stesso, se guardo al mio progetto della Piramide del Palatino6, vedo che c’è molto, in questa forma tecnologica, che fa pensare a un’astronave. C’è invece poi l’arca al femminile, che è concava, tutta fatta di un accogliere, di un ricevere, di un amare, e anche di un sognare e un intuire qualcosa di misterioso, come una falce di luna. E poi, ma questo non è per domattina, ci può essere una fusione di queste cose, di nuovo una unione del sentimento e della ragione ma non più ai livelli in cui questo era possibile nel passato. Domani ci saranno le

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astronavi, ci saranno tecnologie strabilianti, ma il mondo nuovo in cui queste cose avverranno dovrà essere anche il mondo di una consapevolezza, di una conoscenza nutrita dall’anima, un mondo in cui il femminile e il maschile troveranno un nuovo equilibrio. Altrimenti, cosa accadrà? Accadrà che un tale mondo semplicemente “non potrà nascere” nel senso vero, divino della parola, ma sarà solo un’invenzione diabolica, un mostro che ci condurrà alla catastrofe... A questo punto, potremmo visualizzare l’arca, rivedendo alcuni dei miei progetti, o potremmo invece continuare solo con le parole, cercando di mettere a fuoco questa idea di un tempio possibile per una società come la nostra. Più che guardare a una forma di tale tempio, e anche più che pensare a una sua funzione, come quella di riunire una comunità in preghiera, più che costruire insomma un edificio, dobbiamo chiederci: esiste e qual’è il bisogno di un tempio? Il bisogno dell’uomo, da sempre, che fosse credente o non credente in una o nell’altra religione, è sempre stato quello di trovare una risposta alla domanda cruciale di come sopravvivere alla morte, e di intuirla in un’idea trascendente: quella di Dio. Per avvicinarsi a questo Dio, sono sorti molti modi di propiziazione e purificazione, con delle pratiche, delle preghiere, delle meditazioni, e con la creazione di luoghi, i templi, in cui svolgerle. Un uomo veramente religioso non dovrebbe tuttavia pregare solo quando è in chiesa ma dovrebbe avere dentro di sé il suo tempio interiore, dovrebbe anzi fare di sé stesso un tempio. È solo se si è coltivato in sé questo atteggiamento che si può pensare anche ad esprimerlo all’esterno con delle azioni, con delle forme, compresa quella, per gli addetti ai lavori, di realizzare un edificio cultuale. Tutto ciò non corrisponde purtroppo affatto alla posizione dell’uomo del nostro tempo. E se anche per un qualche miracolo si decidesse di realizzare un tale tempio, quanta gente sarebbe portata a considerarlo come un oggetto di appalti, di guadagno! I sindaci farebbero a gara nell’accappararsi delle archi-stars per ricavarne prestigio; accadrebbe insomma l’opposto di un vero senso religioso. È d’altra parte probabile che, anche in altri tempi, sia sempre accaduto così. Anche le chiese più belle, le opere più spirituali sono state fatte per una qualche motivazione politica o di prestigio, non solo per un intento religioso. Le parole di Gesù – dai a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio – regolano purtroppo il rapporto fra la realtà terrena e la

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Sentimento e ragione

spiritualità, anche se non posso credere che sanciscano una separazione ma piuttosto una complementarità. Comunque la si realizzi, a cosa serve la basilica più grande del mondo se si perde di vista il fatto che il Dio che si immagina che scenda come una grazia nel suo spazio sacro, deve in realtà scendere o salire in noi, nel nostro centro interiore?

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Il tempio

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DIBATTITO

Federico F. Lo scopo di un tempio, o almeno il dono che esso di dà, è anche la bellezza. Vittorio M. Il divino, la verità interiore e la bellezza non sono forse la stessa cosa? Uno deve trovarla dentro di sé ma anche riconoscerla al di fuori di sé, e collaborare alla sua scoperta. È fondamentale esprimere la bellezza e sentirla come un bene comune. Io posso avere il mio tempio interiore, ma è bello che esso sia per tutti e che sia bello perché, se qualcuno è privo del beneficio della bellezza, gli manca una dimensione essenziale della vita. Federico F. La bellezza nasce dall’unione di due poli... Vittorio M. ...il femminile e il maschile. Tornando a quanto dicevamo prima del tempio, il religioso lo puoi associare al femminile, il pratico o il politico al maschile, dico “associare” perché non bisogna arrivare a identificazioni troppo precise. La religione ha una funzione di accoglienza, di consolazione, di maternità. C’è poi un fatto che riguarda l’età dell’uomo. Nel passato della storia umana l’uomo era come un bambino e aveva quindi bisogno della madre e del padre. La chiesa era la madre e il Re o Dio stesso era il padre. Oggi l’uomo è adulto e quindi, a noi, dell’autorità del padre non ce ne importa niente – non la riconosciamo neanche – e della madre chiesa ce ne importa ancora meno. Questo è giusto, siamo diventati adulti; però, da adulti, cosa facciamo? Beh, facciamo delle cose orrende, perché va benissimo essere indipendenti, seguire la propria ragione, non ubbidire più ai genitori o alle autorità, ma

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Sentimento e ragione

dobbiamo trovare dentro di noi la verità, la base, l’imperativo morale, il senso della bellezza, il senso della giustizia, il senso della sostenibilità del pianeta, tutte leggi che non sono più comandamenti di Dio o ordini della mamma e del papà, ma dobbiamo costruircele noi. In questa ricerca prendiamo delle grandi cantonate, fabbrichiamo armi spaventose, seguiamo delle strade nefaste. Poi, col, tempo, io penso che l’uomo adulto dovrebbe arrivare a una maggiore saggezza, ritrovando la verità in sé. Tante cose che sono state insegnate nel corso della storia in un modo che oggi ci sembra infantile, come le varie superstizioni, l’inferno, il paradiso ecc. Sono appunto favole per bambini, che hanno certo un fondo di verità, ma adattata a un’intelligenza infantile. Se, da adulti vogliamo ancora parlare dell’inferno, dobbiamo vederlo come l’ombra in noi, il nostro lato oscuro; quando parliamo di verità, non dobbiamo identificarla con i dogmi della chiesa ma dobbiamo costruirla noi stessi, attraverso la nostra responsabile esperienza. Dobbiamo però essere adulti così maturi da poter contenere e riscoprire il bambino in noi, non per raccontargli le favole ma per ritrovarne lo stato nascente, innocente, pronto a creare liberamente un nuovo mondo. Tornando al tempio, non rimpiangerei la forma del tempio greco né quella della cattedrale gotica, non mi fisserei in alcuna forma ma indugerei un poco nella mia metafora dell’arca, che mi sembra esprimere il fatto che viviamo in un tempo di grandissimo pericolo, che prelude a una fine del mondo o almeno a una profonda trasformazione del mondo come lo conosciamo. Di fronte a questa prospettiva, l’arca ci mostra poi la scelta fra due direzioni: quella della violenza tecnologica e non solo, al maschile; e quella di una civiltà al femminile, che rivaluti il sentimento, la natura, la spiritualità.

Le dimensioni del tempio Gerardo P. Scusa Vittorio, prima tu volevi forse dire che le dimensioni di un tempio sono in contrasto con quella che dovrebbe essere la spiritualità con cui un tempio deve richiamare i fedeli? o ho capito male?

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Il tempio

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Vittorio M. Non ho detto questo, non parlavo di dimensioni. Possiamo comunque distinguere fra la chiesa opera della devozione del suo popolo e quella invece che rispondeva a un intento di prestigio politico, spesso con dimensioni imponenti al servizio di tale prestigio. In ogni caso l’essenziale è pregare, che sia in una basilica enorme o nell’intimo del proprio cuore, come in un tempio interiore, che è quello che io sento di più. È però anche bello che tanti uomini insieme condividano questo loro impulso e che lo esprimano anche in una bella e grande basilica. Non dicevo mai che la dimensione è in contrasto con la spiritualità, ma che non deve in nessun caso presumere di potersi sostituire ad essa. Anzi, deve porsi al suo servizio. Gerardo P. Sta di fatto che la maggior parte dei templi importanti privilegiano la dimensione. Non so se hai mai visto la moschea di Hassan II che è la più grande del mondo, è impressionante...la spiritualità che ti dà questa dimensione enorme – tu ti senti una mosca – credo che fosse nelle intenzioni di chi l’ha voluta... Vittorio M. La grande dimensione non ha molto a che vedere con la spiritualità. La riscontravi una volta, è vero, per lo più nei templi, ma anche in altre opere, pensa al Colosseo, ai Palazzi Reali o, oggi, ai nostri grattacieli. Questi sono gli eredi della cattedrale gotica anche da un altro punto di vista: hanno la stessa spinta alla verticalità, che una volta esprimeva un anelito religioso e oggi la potenza del denaro. La fronte del tempio greco una volta era il volto di Dio – si pensava che il Dio abitasse nel tempio – oggi come oggi la trovi nella facciata delle banche e nei palazzi del potere di tutto il mondo. In questo senso io dicevo che l’esteriorizzazione, la dimensione non hanno nulla in comune con la spiritualità, a meno di essere poste al suo servizio. Nel mio progetto per una nuova Milano, quando proponevo una cerchia di grattacieli lungo la cerchia dei Bastioni, ne mettevo in evidenza la grande dimensione, la monumentalità, ma dicevo che erano auspicabili solo se messe in rapporto con l’aspetto complementare del cuore della città, ispirato invece a tutt’altri valori.

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Vale poi il discorso più generale sull’età dell’uomo. Mentre il bambino guardava timorosamente alla mamma o al papà, alla chiesa, all’imperatore ecc, così l’uomo adulto guarda alla sua ragione e ne è orgoglioso; è proprio l’orgoglio di cui sono espressione i grattacieli. In un periodo storico come il nostro questa ragione gli sembra la sola chiave, la sola realtà, per cui si inchina ad essa e le costruisce i più grandi monumenti. Ragione, denaro, scienza e tecnologia fine a se stesse sono unite insieme. Silvana O. È l’aspetto maschile. Vittorio M. È l’aspetto maschile ed è anche un aspetto di immaturità, se vuoi come un ragazzo di vent’anni che è nel pieno delle sue forze ma non del suo giudizio. Più tardi, quando diventa più maturo, cresce in lui anche una parte femminile che porta a un addolcimento. Un uomo adulto, un uomo civile, non è più prepotente, aggressivo. Quando poi, andando avanti nel tempo, giungerà alla vecchiaia, questo equilibrio si volgerà sempre di più verso dei valori interiori. Gerardo P. Io però penso che la dimensione o anche l’aggressività di certi templi contribuiscano a far sentire all’uomo maturo la sua dimensione rispetto alla divinità. San Pietro, la moschea di Hassan II, la grande Piramide mi incutono rispetto, sono strutture realizzate per richiamare l’uomo alla sua dimensione umana, così piccola rispetto alla divinità.

Essere agnostico Vittorio M. La dimensione umana richiederebbe un altro discorso, ma non mi fisserei troppo sulla dimensione degli edifici, dato che sto difendendo l’importanza e la verità del tempio interiore. Ma adesso vorrei sentire cosa dice il nostro amico Antonio che mi sembra sia piuttosto laico, no? Antonio M. Io sono agnostico.

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Vittorio M. Io sono sempre alle prese, in combattimento, sia con i filosofi deterministi, laici, riduzionisti..e altrettanto lo sono con i confessionali, i credenti... Silvana O. ...le prendi da tutt’e due. Antonio M. Agnostico è una posizione diversa. Gerardo P. Agnostico vuol dire qualcuno che non conosce, è molto più facile essere in mezzo... Antonio M. ...uno che non crede. Per certi versi può essere anche considerata una posizione di comodo, di non responsabilità. Agnostico può però avere tante chiavi di lettura: può voler dire che i modelli di credo che le varie culture, le varie epoche hanno formulato, non mi soddisfano. Gerardo P. E perché non ne proponi un’altro? Antonio M. Mi sembrerebbe di essere un po’ presuntuoso. Gerardo P. Scusa, ma se tu ti trovi in un sistema che contesti, se non proponi un’alternativa che contributo dai? Antonio M. L’agnostico, o perlomeno il tipo di agnostico che io credo di essere, non fa questo tipo di ragionamento, che è plausibile, ma fa tutto un altro discorso: cioè quando io dico che i modelli di religione, di credo, non mi soddisfano, stiamo parlando di credo, qualcosa che non ha nulla a che fare con una verità oggettiva, ma riflette solo la presunzione della religione che crede di essere la verità rilevata. Davanti a questo, che diventa una questione di fede, l’agnostico che non l’ha, che non la sente...

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Sentimento e ragione

Vittorio M. Vorrei dire che un conto è il Credo, insegnato dalla Chiesa come una verità rivelata che non ha alcuna base razionale e che siamo liberi di non condividere, e un altro è credere che la realtà non sia solo quella fisica ma che, al di sopra di essa e anzi nella sua profonda radice, ci sia un’essenza spirituale. Anche se non ne esiste un’evidenza razionale, è tuttavia evidente che è la nostra ragione stessa ad essere limitata, in confronto all’immensità dell’universo e alla prodigiosa ricchezza e molteplicità di significati che esso ci suggerisce, e che riuniamo nell’intuizione di un Dio da cui tutto emana. Quanto alle forme che questa intuizione ha preso in tante diverse religioni, che siano la rivelazione di Gesù, il messaggio del Corano, o cento altre credenze nel mondo, sono solo delle forme culturali, mi sembra, ma non da trascurare per questo, perché ricalcano dei percorsi della psiche umana che ha un bisogno essenziale di Dio, lo ha nel suo Dna: non è un’immaginazione, ma la necessità di strutturarsi seguendo il filo conduttore che ci porta dalla terra al cielo, come vedi nella vita di un albero. Gerardo P. Io volevo rispondere ad Antonio. Non è solo la religione che ci impone dei dogmi. ma anche la scienza. Non credo che tutto possa essere provato sul piano fisico. Per esempio, i neuroni e protoni, tu li hai mai visti? e la corrente elettrica? Non sono cose più evidenti di tutto quello che si dice della vita di Gesù. Tante cose sono indimostrabili, però la mente umana desidera e cerca di darsi degli obiettivi in una continua ricerca. Non è possibile essere scettici su tutto; proprio come diceva Vittorio, lo spirito umano ha una esigenza di spiritualità, di divinità che è fondamentale. Che poi la si possa chiamare Jahvè, Padre eterno, Allah non cambia l’esigenza fondamentale dell’anima umana, e tanto meno la cambia il fatto che degli elementi specifici non siano dimostrabili. Questa è la mia opinione... Vittorio M. ...che condivido. Quanto a questo bisogno dell’essere umano, molto spesso ho parlato del fiore, facendo un paragone con la pianta che cresce, si sviluppa, e per un suo profondo impulso deve produrre il fiore, il frutto. Questo, sul piano pratico, biologico, è finalizzato alla riproduzione, ma mi sembra anche metafora di un cammino più essen-

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ziale che, dalla radice, dalla vita pratica, sale come la linfa di un albero per giungere alla ragione e soprattutto andare oltre. Il bisogno di cui parlava Gerardo, è quello di creare il fiore, e il frutto che non è più solo quello che contiene i semi per assicurare la riproduzione, ma è il frutto della conoscenza. Non parlo della conoscenza razionale ma di quella del tutto che ci rende uomini nel più alto senso della parola. Questa conoscenza, per un profondo sentimento religioso, non è il collocare Dio nel più alto dei cieli, ma il sentirlo in noi stessi. Anzi, se c’è un Dio, io penso che noi siamo questo Dio, nel suo farsi attraverso di noi. Io credo molto in questo, anche se può non essere un’opinione condivisa dalla Chiesa.

Ha un senso di pensare a un nuovo tempio? Ettore L. Io posso solo fare una fotografia della realtà e vedere che ciò che è più simile al tempio sono oggi i musei, per esempio, o certe strutture, soprattutto di matrice nordica, dove i parametri che si sanno utilizzare per formare dei luoghi socialmente fruibili e equilibrati, hanno a che fare con la bioedilizia o con l’architettura sostenibile. In questo senso, a me sembra – tu sai che la mia posizione è come quella di Antonio, mi proclamo agnostico – a me sembra che questo sia un trend positivo. Da una parte abbiamo delle grandi architetture che possono anche essere in taluni casi delle performance tecnologiche che ci lasciano un po’ a bocca aperta, musei che non hanno nulla a che fare con la religione, perché sono delle macchine culturali che possono servire in modo molto democratico allo sviluppo e all’acculturazione delle cosiddette masse. D’altro canto, fenomeno secondo me più interessante, abbiamo un’evoluzione di elementi, di manufatti anche stilisticamente coerenti con esigenze tecnologiche, che rendono le città più vivibili, con meno inquinamento, col recupero di energia, e quindi in questo senso non vedo l’esigenza di un tempio, non capisco la domanda, proprio perché, sia che uno abbia una religiosità sia che non la possieda, a me basta un vivere civile: ci sono dei bei musei, delle città più vivibili e, in prospettiva, ecologicamente più sostenibili rispetto a quelle odierne, mi sembra un buon trend.

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Sentimento e ragione

Gerardo P. Qualunque associazione, i Lyons per esempio, deve pur avere una sede per i propri aderenti. La chiesa è ugualmente il luogo di incontro per i fedeli. Ettore L. Non trascuriamo il fatto che l’appartenenza religiosa e anche l’aspetto associazionistico sono meccanismi sociali attualmente non così necessari. Le relazioni che vanno poi a strutturare degli aspetti politici, di intervento sulla realtà, sono associazioni che hanno molto a che fare con la realtà sociale e economica e, al di là di luoghi di incontro fisico, con lo scambio a distanza, anche al di là delle frontiere. Gerardo P. Ma i contatti diretti fra persone sonio insostituibili. Ettore L. Sì, sono una buona cosa ma non contraddittoria rispetto ad altre forme associative che, dopo Habermas, si stanno dimostrando più vitali. Ho già citato cosa egli dice sull’agire partecipativo, constatando che non funziona. Vittorio M. Non allarghiamo troppo... i musei c’erano anche una volta, le biblioteche e altre opere pubbliche anche, basti pensare alla biblioteca di Alessandria, ai Fori di Roma, ai teatri...Che oggi si facciano delle cose spettacolari mi va molto bene, però la religione è un altro discorso. Uno può dire che è del tutto inutile – non mi serve – mentre un altro può invece pensare – e io lo penso – che, come dice la parola, la religione è un religere, un mettere insieme. Cioè, mi va bene che ci siano i musei, i teatri, gli ospedali, la partecipazione ecc, ma il senso del tutto, a cui un uomo si trova di fronte quando muore, qual è? È una mania dell’uomo di cercare una risposta a questo? pensando che tutte le costruzioni del mondo, compresi tutti i musei più grandi e più belli, non siano sufficienti se manca un qualcosa, se non riesci a renderti conto del perché di tutto questo. Le domande che sono nel cuore dell’uomo sono domande profonde. Uno può essere agnostico e non porsele- è una sua scelta – però l’umanità ci ha sempre creduto, in innumerevoli forme, alcune di altissimo livello spirituale, altre pur-

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troppo spinte fino a delle conseguenze deplorevoli, anche di violenza, di aggressività. Ma non si può negare che un bisogno profondo esista, è una realtà. Ora, io non vedo una possibile risposta nei dogmi, credenze in cui uno si chiude, ma proprio nel fatto della fioritura. È la stessa esigenza che fa sì che un uomo desideri un figlio e, se non perviene ad averlo, è come se limitasse molto sé stesso, non si realizzasse pienamente; e così un uomo che non ha una fede, qualcosa che lo trascende, che non fa nascere in lui un figlio spirituale, è un uomo che vive a un livello, per carità, civile, onesto, valido da tanti punti di vista, ma che mi fa desiderare per lui un passo oltre. Non puoi contestare che alcuni uomini abbiano questa esigenza. Ettore L. Quello che non accetto è che, chi ha questo senso religioso, voglia trasferirlo all’altro, desiderare che l’altro debba porsi nelle stesse condizioni. Vittorio M. Chiunque abbia un’opinione, se la ritiene giusta, desidera che sia condivisa, ma comunque nessuno ti vuole obbligare a convertirti a qualsiasi cosa. Io stavo parlando di un’esigenza interiore, che non può essere imposta, ma vorrei aggiungere un’altra osservazione su un piano storico. Mi viene in mente che, anche nell’Impero Romano, si costruivano edifici spettacolari, come terme, basiliche, anfiteatri, Fori, mentre era meno evidente l’impegno nel costruire templi, peraltro dedicati per lo più agli imperatori stessi. Questo perché la civiltà romana, come la nostra, era una civiltà adulta, in un certo senso laica. Ciò non toglie che, quando a tale civiltà è seguita una nuova barbarie, crollassero gli illustri edifici dell’opulenza e del potere, per far posto ai luoghi di culto e a tutta una cultura improntata a nuovi valori religiosi. Perché questo? Perché il sentimento religioso è una realtà profonda dell’anima umana che ciclicamente emerge e che, io penso, sarà destinata ad emergere e affermarsi, quando l’orgoglio della nostra civiltà lascerà il posto al ritorno ai valori interiori. Il tempio è appunto un valore interiore, che emerge e si realizza spontaneamente in tante forme, non necessariamente in un vero e proprio luogo di culto. Guardando per esempio un Centro polisportivo che ho costruito anni fa in montagna – ne potete vedere un’immagine appe-

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Sentimento e ragione

sa al muro – tutti pensano che sia una chiesa. Non era certo la mia intenzione, ma solo un impulso del mio animo: già un gesto, il disegno di una forma è in sé una preghiera. Io sento molto questo, altri sentono un’altra cosa. Prendendo la mia metafora dell’albero, noi siamo tutto l’albero ma, su un piano più particolare, funzionale, c’è chi è parte della corteccia, un altro è una radice e ha a che fare con la terra, un terzo con le foglie che fa muovere al vento, e un altro infine si sta occupando di far spuntare il fiore... È un mestiere anche questo... ed io sto cercando di impararlo. Gerardo P. Anche gli uccelli volano ad altezze diverse. Vittorio M. Quello che non mi piace nel punto di vista razionale, agnostico, determinista – chiamiamolo come vogliamo – è che sembra incapace di riconoscere che non è il solo punto di vista possibile. Tu pensi che i religiosi vogliono convertirti a qualcosa – nessuno vuole convertirti, non saprei neanche a cosa convertirti – ma in realtà, in un certo senso, la pensi come loro: cioè ti stupisci che la gente si occupi di templi, di religioni, quando è così evidente e civile che è meglio occuparsi di tutte le cose utili e belle che hai enumerato, con o senza partecipazione. Mi sembrerebbe invece più giusto di dirsi che, certamente, c’è un piano pratico, in cui fai benissimo a stare con la tua competenza e la tua onestà, ma ce n’è anche un altro, è così evidente! Nessuno nega che ci sia la terra, ma non rifiutare che ci sia anche il cielo e, oltre il cielo, uno spazio cosmico, un’ altra dimensione. È la realtà intesa in un senso più vasto. Pensi che sia invece immaginazione? Ma abbiamo appena visto che anche la storia ci mostra quanto l’impulso al cielo sia invece reale, fino a ridurre in polvere le più solide civiltà.

Una città senza tempio Federico F. Come si può pensare una città senza tempio?

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Vittorio M. Sarebbe come un uomo senza un cuore. Sembra un’immagine facile, ma una città che non ha una chiesa nel centro non riesco neppure a pensarla. Non funzionerebbe? No, funzionerebbe benissimo, magari ci sarebbe una pompa al posto del cuore, un centro commerciale al posto della chiesa, ma è proprio indifferente che nel centro della città ci sia qualunque cosa? Come se nel nostro centro interiore, invece di sentimenti, impulsi, amore, ci fossero degli oggetti. Al cuore si associano non solo la circolazione del sangue ma anche appunto il mondo dei sentimenti – gli antichi pensavano che fosse la sede dell’anima – e io sono portato a crederlo perché ogni cosa e a maggior ragione un cuore è un intero polivalente, uno specchio dell’universo, e nell’universo c’è tutto: c’è spazio per la radice e c’è spazio per il fiore, c’è spazio per le opinioni più razionali e c’è spazio per l’ascesi, per i voli mistici, c’è spazio per tutto. Ora, la religione, nel senso vero della parola, è il contrario di quello che sembra: non una costruzione dogmatica che ti chiude – questa è l’opera dei preti – mentre la religione è un aprirsi a tutto, è un rimettere insieme tutto, proprio il contrario di quello che appare. Federico F. A proposito di luoghi di culto, penso agli americani che riempiono gli stadi per le riunioni di sette, in cui molti credono ciecamente. Vittorio M. Il primo modo di essere religioso è di non credere a niente, è di essere agnostico nel senso buono della parola. Però, se uno non è assolutamente religioso, e si appoggia esclusivamente alla ragione, alla scienza, che stia bene attento a non farsi imprigionare a suo turno da delle opinioni, che diventano anch’esse dei dogmi. Comunque, quanto al discorso centrale, esso è quello del tempio interiore. Che cos’è? Insomma, tu nasci nel mondo, vivi, un brutto giorno giungi alla morte; c’è qualcosa in te che non si rassegna, che pensa che, al di là della vita fisica, ci sia un senso: il coltivare questo senso è come avere un’immagine dentro di te, è come avere un piccolo altare, una fiammella che brucia...Ma andrei oltre: l’uomo stesso deve farsi tempio di Dio e testimoniarlo con i suoi pensieri e le sue azioni.

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Ettore L. Sì, ma mi chiedo se, oggi, ha senso di proiettare tutto questo in un edificio fisico... Vittorio M. Su questo sono d’accordo. Infatti mi ero posto il problema, anche in modo un po’ naif, chiedendo: se dovessimo fare un tempio, oggi, come lo faremmo? Non mi sono avventurato in ipotesi ma mi sono solo detto che forse non farei un luogo dove riunirsi, la gente si riunisce piuttosto allo stadio, in un teatro o altrove; non farei qualche cosa perché la gente creda che Dio ci abiti dentro, e allora mi è venuta in mente – lo sai – questa idea dell’arca. Che cos’è questa arca? È qualcosa che viene dal profondo, e io stesso mi applico a cercare di capire che cos’è. Da una parte ne vedo un senso messianico. Guardando al mondo così com’è, per quanto tu lo veda così civile, penso che non abbia la vita lunga e che ci avviciniamo a un profondo cambio di civiltà. Quindi l’arca è un po’ questo. L’idea dell’arca è anche un conservare tanti frutti meravigliosi della nostra civiltà che andrebbero persi, che possono andare persi, compresi i bellissimi musei di oggi. Basta una bombetta atomica lanciata da un terrorista per dire addio ai musei, addio ai grattacieli di vetro, addio ai nostri volonterosi propositi di sostenibilità. Dall’altro canto, ti ripeto, c’è nell’arca anche un aspetto femminile. La sua concavità, il suo farsi grembo, il suo magico riferirsi alla luna, ci fanno pensare a una civiltà futura che, penso, sarà molto improntata al femminile. Sarà un bene per il mondo che ciò avvenga perché il punto di vista femminile è più comprensivo, più legato alla vita, alla maternità, all’amore, e non più solo all’affermazione e alla lotta. Con questo non voglio dire che dobbiamo tutti costruire delle arche per entrarci come ai tempi di Noè, ma sto solo dandovi un’immagine, un’interpretazione personale del dramma del mondo. Non è concettuale, non è voluta, ma è qualcosa che sorge spontaneamente nel mio animo, ogni qualvolta faccio un progetto: anche se è un centro commerciale, un edificio sportivo, un teatro, un museo...nasce in me l’idea dell’arca, che è in realtà un tempio.

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Stonehenge Silvana O. Posso aggiungere qualche cosa? Avrei voluto intervenire su molti punti; però era per me più interessante ascoltare. Volevo ritornare al tempio più antico che conosciamo, che è Stonehenge. È un cerchio scavato nella terra, in cui probabilmente facevano circolare l’acqua. Con la luce della luna o del sole questo anello d’acqua prendeva luminosità. E poi queste meravigliose pietre che conosciamo: in questo caso il tempio è proprio l’unione, come dicevi tu, della terra e del cielo, a cui certamente guardavano, per calcolare la posizione del sole, della luna, forse anche di Venere. Anche l’unione fra il maschile e il femminile era presente: basta pensare al carattere maschile di forme come i monoliti, o a quello femminile dell’anello in cui circolava l’acqua. In epoche successive, abbiamo poi i monumenti egizi, che erano anch’essi ispirati a delle conoscenze astronomiche, per poi arrivare alle cattedrali gotiche di cui parlavi tu, o a Santa Sofia, costruita inizialmente da Giustiniano, la cui cupola è così femminile, tanto quanto sono maschili i minareti, peraltro aggiunti posteriormente. Ho anche visto in Grecia, questa volta una cabina ad alta tensione, in cui mi hanno spiegato come, in certi strumenti, le forme arrotondate trattengono energia, mentre quelle diritte e a punta la trasmettono. È esattamente come dicevi tu, l’unione di femminile e maschile è a tutti i livelli, naturale, simbolico, energetico... Vittorio M. ...e lo è anche e soprattutto a livello psichico. Tutto si tiene. Questo raggiunge il senso di questo seminario – mi rivolgo a chi viene per la prima volta – che è sul sentimento e la ragione, sul femminile e maschile in tutte le forme. Abbiamo potuto vederne più da vicino qualcuna, però sempre con un occhio all’unione dei due principi su tanti piani, che ci è apparsa essere l’amore stesso, che si manifesta a tanti livelli, dall’amore più elementare fino all’amore sublime. Federico F. L’amor che move il sole e le altre stelle...

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Vittorio M. Sembra solo un verso poetico, ma è proprio vero...amore che è la spinta all’unione, è il dare e il ricevere, è il creare...ho letto una cosa molto interessante l’altro giorno, che raggiunge completamente quello che stavamo dicendo, cioè che il senso della parola “creazione”, con cui si pensa in generale che Dio abbia creato questo e quest’altro, è ben diverso. La parola ebraica originaria voleva dire invece “spezzare, rompere, frantumare”, proprio come ho sempre pensato nella mia ingenua metafisica. L’atto della creazione è quello in cui l’Uno si è spezzato per diventare due, e poi quattro e poi l’infinita frammentazione che ne è seguita. Mi è sempre sembrato così, anche se era magari più poetico immaginare un Dio che con il suo gesto crea fiori, piante, animali di ogni specie...Invece no: era una frattura, un’esplosione dell’Uno, così come è vero che tutto deve poi ritornare all’Uno. C’è per forza questo movimento, ogni espirazione comporta un’ispirazione, e l’amore è questo: il rompersi, se si è capaci di amare – Gesù l’ha detto rompendo il pane in tanti pezzi... – e poi è il ricomporsi, il ritornare all’Uno con l’unione ricercata in tanti modi, non solo fra uomo e donna: ci si ama, si ama anche quello che si mangia, si amano delle idee, si compie continuamente lo sforzo di riunirci, lottando contro ciò che ci separa.

LE ARCHE Vittorio M. Volete che vi faccia vedere un po’ di arche, o parliamo ancora?

La Piramide del Palatino Silvana O. Quindi l’arca la vedi come un seme, Vittorio? Vittorio M. Quello che noi facciamo è un seme. L’arca è piuttosto il luogo dove si conservano i semi...

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Il tempio

Ecco, questa per esempio è una delle arche – ci si può ragionare insieme – c’è in essa il maschile e il femminile. Da una parte, questa grande costruzione tecnologica fa pensare a un’astronave – non si parlava forse delle grandi realizzazioni contemporanee, dei nuovi musei ecc? – ed è proprio disegnata per essere un museo e un grande auditorium. Certo, sarebbe assolutamente spettacolare di fare una cosa del genere nel cuore di Roma, con grande gioia di Gerardo che ama gli edifici di grandi dimensioni..., ma io ci vedo anche altre cose che sono nate nel mio animo e che ho cercato di esprimere, come il fatto che questa struttura tecnologica, così maschile, così meccanica, sia in realtà una piramide rovesciata, avendo in questo rovesciamento un segno di evidente femminilità. Questa è poi presente anche nella grande vela di marmo bianco, che porta il movimento e la dolcezza di una curva fra degli elementi strutturali rettilinei. Questa vela fa si che una forma auto-centrata come la piramide, sia spinta ad orientarsi e si trasformi in nave, in arca. Ne vedete la chiglia, che è in parte rivestita di specchi che riflettono dei portici e altri frammenti architettonici, al fine di creare una rievocazione immaginaria dell’antica Roma.

Fig. 14

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Sentimento e ragione

La chiglia ci mostra una direzione, seguendo la quale l’immensa piramide, centrata nel punto in cui essa si appoggia col suo vertice sul terreno archeologico, sembra dirigersi, ma verso dove? Verso dove tutti i miei progetti si dirigono in modo tanto ineluttabile quanto inconscio: verso l’Oriente. Non per nulla tutte le chiese, tutti templi in ogni religione (salvo l’Islam) sono rivolti verso oriente. Quindi, come vedete, c’è un aspetto maschile, tecnologico, aggressivo, futuribile, c’è un aspetto femminile con cui esso si pone in rapporto, e poi c’è infine e soprattutto un aspetto di orientamento spirituale. Io sono convinto che un tale orientamento nasce in un essere umano ma in generale in ogni creatura proprio dall’unione fra il femminile e il maschile. A questo proposito, trovo inconcepibile che i ministri del culto siano obbligati al celibato, contraddicendo così in pieno questa verità. Ricordate il paragone delle due colonne di cui parlavamo prima? Solo con l’unione dei due principi si può accedere a un orientamento spirituale, poiché esso è sinonimo di unità, è un movimento verso l’unità. Silvana O. ...verso l’equilibrio... Vittorio M. ...non solo l’equilibrio, che è uno stato, ma qualcosa di propulsivo, da cui si parte per un ulteriore sviluppo. Nell’antica Grecia, tu vedi queste statue che univano il maschile e il femminile in modo perfetto, come pure la ragione e il sentimento che poteva venire dalla tragedia, dai miti, dalla poesia; e una tale unione rendeva queste statue delle vere e proprie effigi divine. Come il maschio e la femmina si congiungono in un’unione che produce il figlio, in un modo analogo, se in noi stessi, nelle nostre opere uniamo il maschile e il femminile, noi produciamo il figlio spirituale, cioè qualcosa che ci supera, il fiore di cui parlavo prima. Non so se sono chiari questi concetti, ma io li sento in modo estremamente forte. Quanto all’idea della piramide rovesciata ne ho parlato tante volte. La realtà materiale, in cui tutto si costruisce pietra su pietra, soldo su soldo, per arrivare a un vertice di potere – in fondo anche la grande religione egiziana non si discostava da questo, costruendo piramidi di potere – è invece rovesciata con questo concetto. Si vede in esso un’evoluzione dall’idea di accumulo, appunto piramidale, a quella di un’apertura in cui, partendo da un punto che è sempre il nostro cuore, il tempio interiore, l’uomo si predispone a una vera e propria fioritura.

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Il tempio

Qualunque cosa si dica, giungo sempre alla stessa verità, vista da punti di vista diversi. In cuor vostro magari pensate che per fortuna non mi lasceranno mai costruire questa Piramide sul Palatino, e anche Gerardo comincerà ad apprezzare edifici più piccoli...

Il Fiore della Città Nascente Un altro esempio di questo tempio dei nostri giorni, ma in realtà di un futuro non so quanto vicino o quanto lontano, è il progetto della Città Nascente per un nuovo Centro di Firenze, di cui tante volte vi ho parlato, e in particolare il suo edificio più importante, che è proprio il “Fiore”. Qui non si pensa a un luogo in cui entrare per pregare ma piuttosto a uno spazio aperto, una grande e aerea piazza, in cui i giovani di tutto il mondo si ritrovano, suonano la chitarra, cantano, oppure partecipano alle attività universitarie negli auditorium che si trovano al di sotto della piazza. Ma l’importante, ciò che ha valore di simbolo, del tutto spontaneo peraltro, è sempre la fioritura, di cui il Fiore ci mostra i petali aperti intorno al suo centro. Questo è il vero tempio – non so proprio quale culto vi sarà mai celebrato – ma l’edificio in sé è una celebrazione, è un’illuminazione. Cos’è l’illuminazione se non proprio la fioritura dell’essere umano, simile a quella di un fiore in un prato? Quindi, se vogliamo pensare a un’immagine di tempio che esprima l’illuminazione interiore, è proprio quella del fiore.

Fig. 15

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Sentimento e ragione

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L’Arca della Nuova Agora Questa parte, in costruzione, del complesso della Nuova Agora, ad Atene, vi parla invece dell’aspetto apocalittico dell’arca. Il cantiere, di cui vedete le impalcature con cui l’edificio si innalza, ci parla ancora della spinta vitale delle aspirazioni umane, ma ogni aspirazione, ogni conquista porta in sé il destino di un naufragio. Eccone infatti il relitto, incorporato nella superficie di vetro dell’edificio. La nostra vita è sempre un naufragio, non c’è nessuna impresa umana che non finisca nel crollo o nel naufragio: questo sul piano fisico, sul piano storico, sul piano biologico, ma c’è un altro piano che è quello di questa ascesa che va oltre il naufragio, come una vela destinata a ben altro viaggio. Chiamala fiore, spirito, è ciò che è oltre l’evidenza della fine.

Fig. 16

Silvana O. Perché parli di naufragio, Vittorio?

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Vittorio M. Perché ogni vita è un naufragio. Proprio ieri, con Federico, siamo andati al funerale di un comune amico. Silvana O. Ah, parli in questo senso... Vittorio M. Certo, ma anche in molti altri sensi e anche per ciò che riguarda le più belle speranze. Pensa a Gesù stesso... la sua vita non è stata forse un naufragio? Silvana O. Dipende da quale punto di vista lo guardi; potrebbe anche essere stata un successo... Vittorio M. Infatti sto indicando anche questo, che è l’altra faccia di uno stesso evento. Su un piano fisico, sul piano della realizzazione materiale tutto è un naufragio, compresi i più grandi poteri della terra – pensa a Roma stessa, parlavamo prima di questo grande impero finito in polvere – però questo naufragio è superato dall’aspirazione spirituale, sia a livello interiore che a livello anche storico. Il naufragio fisico di Gesù ha dato vita al Cristianesimo che è una grande conquista per l’umanità. Quindi, anche se il lato materiale è destinato più o meno al naufragio, alla morte, al crollo, esso porta in sé la possibilità del suo superamento in un’altra dimensione.

Opéra-Bastille Vittorio M. In un’altro progetto – ecco per esempio questa nuova arca – si leggono bene i due aspetti femminile e maschile: il primo nella grande curva, che è come un’onda o una nave pronta al varo, e il secondo nel cantiere stesso della sua costruzione, che non è solo un’impalcatura tecnica, ma è incorporato come elemento di architettura nel progetto stesso.

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Sentimento e ragione

Fig. 17

Silvana O. E quella colonna che si vede nel centro? Vittorio M. È una piccola magia. Questo edificio è un teatro, l’Operà Bastille, che doveva essere costruito sulla piazza della Bastiglia a Parigi Nel centro della piazza c’è appunto la famosa colonna che si vede riflessa in degli specchi, ma la colonna in realtà è davanti al Teatro. È portata dentro come un riflesso da questi cubi di cristallo, con cui si costruisce un muro virtuale: un’immagine, volendo, che esprimerebbe bene la struttura della nostra ragione e il suo “riflettere”, anche se in questa riflessione manca l’elemento più importante, il genio alato, la cui statua è in cima alla colonna. Esso sarà invece visibile dall’interno del teatro, al di sopra dei cubi: una metafora per dire che esso è visibile solo da un punto di vista “interiore”.

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Il tempio

Fig. 18

L’Arca delle Nevi Ripeto che non voglio parlarvi di architettura, ma solo mostrarvi alcune testimonianze su quello che abbiamo detto sul tema del tempio. Questo edificio è un centro poli-sportivo, a cui avevo già accennato prima. È molto più grande di quanto sembra, perché l’ho in gran parte interrato per non disturbare il paesaggio, in cui sono visibili solo le curve delle travi di copertura, simili a una falce di luna o anche a un semplice gesto, che è come un gesto di preghiera. Tutti pensano infatti che sia una chiesa, mentre molte chiese sembrano magari dei centri sportivi o qualunque altra cosa. In tutti gli edifici che ho avuto l’opportunità di disegnare, si è rivelata una segreta sacralità, che ha portato con sé anche l’orientamento verso Oriente, come accade anche in questo edificio. Ritorno così al nucleo del discorso di questa sera: il centro dell’essere umano, la nostra funzione è nel realizzare nella nostra vita il ricettacolo, il vaso di quello che trascende l’uomo, il vaso del divino. Se non vogliamo vivere inutilmente, dobbiamo costituirci come calice, come vaso dello spirito. Se un artista sente questa esigenza, è normale che la esprima in tutte le sue opere.

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Sentimento e ragione

Silvana O. Il calice è come il Santo Graal, un cuore vuoto, pulsante... Vittorio M. ...in qualche modo si, questa è un’osservazione molto bella. Silvana O. Ma dov’è questo edificio magico? Vittorio M. È in Francia, nel Massiccio Centrale: un posto ancora più magico, poiché è il cratere di un antico vulcano, che oggi ha l’aspetto di una prateria, tutta coperta di neve in inverno, fra delle pendici boschive che sono i frammenti della corona del cratere.

Les Halles Quest’altra arca, a dire il vero la prima che ho disegnato, era prevista per le Halles a Parigi. In essa si congiungevano due cose: da una parte il fortissimo senso apocalittico, che è come spingesse sulle acque la grande ruota del destino, e dall’altra la misteriosa compresenza di una cattedrale, ne potete vedere delle parti vetrate e un grande organo. La zona delle Halles è il cuore di Parigi, il cuore svuotato e distrutto, da quando è stato demolito il mercato generale, che era uno dei quartieri più vivaci della città – immaginate lo straordinario spaccio di alimentari, vegetali, carni, la folla di gente che vi si accalcava, i carri, i cavalli e più tardi i camion: è tutto scomparso. Ne è rimasto un solo testimone, la chiesa di Saint Eustache, di cui la nuova arca in un modo misterioso riprende le proporzioni. Un altro collegamento, del tutto inconscio perché ne sono venuto a conoscenza molto tempo dopo, riguarda l’emblema stesso di Parigi, che è proprio la barca, perché la nascita della città è legata alla Senna, con il suo primo nucleo fondato sulla Ile de la Cité. Una visione apocalittica si unisce quindi inconsciamente all’identità di Parigi, in un nuovo tempio che collega la memoria del passato a un profondo senso religioso, mentre si affaccia al nostro mondo tecnologico e alla sua possibile e catastrofica evoluzione.

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Il tempio

Fig. 19

Fig. 20

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L’Arche du Canal Un’altra arca è nata nel progetto di una nuova sistemazione urbana a Nancy, anche in questo caso in rapporto con l’acqua. Mentre però nell’arca delle Halles il riferimento era simbolico, qui c’è effettivamente un grande bacino, derivato dalla Meurthe, in cui si affaccia il nuovo edificio. Ancora una volta la compresenza di un elemento roteante, come la grande ruota delle Halles, e dell’anima del tempio, le cui vetrate rievocano l’antica cattedrale della città.

Fig. 21

Nasce una conversazione in cui molti si chiedono dov’è Nancy. Vittorio risponde spiegando anche la storia di questa città, molto marcata dall’azione del Re Stanislas. A proposito degli interventi urbanistici di questo Re, si accenna alla pratica, presente anche nella Parigi di Haussmann, di tracciare degli assi che tagliavano con decisione il tessuto medioevale preesistente. Si ricorda anche Roma, in cui fu aperta nello stesso modo la Via della Conciliazione davanti a San Pietro, anche se con esiti meno felici. Vittorio M. Mentre, nei primi casi che abbiamo menzionato, era in qualche modo in atto un vivo rapporto fra libertà e legge, fra vita popolare e volontà urbanistica, derivandone una grande ricchezza e varietà di situazioni particolari,

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Il tempio

a Roma si è fatto un intervento freddo e compassato. Accanto al vantaggio di dare a San Pietro un accesso ufficiale e proporzionato all’afflusso di turisti e devoti, esso ci ha privato dello straordinario effetto di sorpresa che si provava uscendo dai vecchi vicoli per trovarsi di fronte all’immensa basilica. Qualcosa di analogo si è fatto anche a Milano nell’ ottocento, con la Piazza del Duomo, che ha ridotto il Duomo alla condizione di un oggetto posto in un contenitore troppo grande, dicendo addio all’apparizione magica di un tempo, quando sembrava che la cattedrale sorgesse per incanto dalla città popolare.

L’Arca del Duomo Non volevo riparlare stasera di questo progetto, che conoscete bene, ma l’argomento ci porta diritto ad esso. L’Arca vuol essere infatti un tempio e più precisamente un battistero, posto nel luogo naturale per questo tipo di funzione, che è sempre stato davanti alle chiese. A pochi metri ci sono poi le rovine dell’antico battistero in cui Sant’Ambrogio battezzò Sant’Agostino, a cui la nuova Arca vuol rifarsi con devozione. Come allora prese termine una civiltà e ne iniziò una nuova, così penso che stia accadendo oggi, per cui, con l’Arca, ci apprestiamo a celebrare la nascita del nostro futuro. Ricordo anche che l’Arca si situa nel centro di quel grande “vuoto” centrale della nuova metropoli, che ho descritto nel mio libro La Città Immagine e Somiglianza dell’Uomo4. In questa visione, non solo un edificio ma tutto il cuore della città è un tempio, nel senso profondo della parola.

Fig. 22

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Fig. 23

Per concludere Se vogliamo adesso riprendere e concludere la discussione sul tema “se è possibile e come potrebbe essere un tempio, oggi?”, ci possiamo chiedere qual’è il contributo che possono portarvi le idee che abbiamo discusso. La prima cosa che è emersa con forte evidenza è il loro messaggio apocalittico: non solo un messaggio di catastrofe ma di salvezza, come l’annuncio di una nuova nascita; comunque ben diverso dalle consolazioni religiose che vengono impartite nelle chiese. Una seconda è che nessuna delle mie arche è concepita come un luogo di culto nel senso confessionale del termine: al loro interno ci sono per lo più degli auditorium, che potrebbero anche essere utilizzati per questo scopo o per altre forme di culto che nasceranno da una nuova civiltà. Un’altra, che è molto significativa, è infine la trasformazione della chiesa stessa in arca, come si vede nell’ultimo progetto per Nancy e in molti precedenti. Un’arca di salvezza, in un mondo che va verso la catastrofe. Non pro-

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Il tempio

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pongo certo la trasformazione di reali edifici ma l’immagine vuol forse dire che la religione dovrebbe abbandonare i suoi vecchi schemi per abbracciare una nuova realtà, la realtà di un periodo drammatico in cui deve assolvere la funzione di un traghetto fra una civiltà e l’altra. Nel frattempo, nelle sterminate città del nostro tempo può essere richiesto di costruire dei nuovi luoghi di culto, ma non avranno nulla in comune con i templi e le cattedrali di un tempo, la cui forma nasceva da una forte e corale motivazione religiosa, oggi del tutto assente. Le antiche chiese rispondono invece ancora a un bisogno di identità e di ancoraggio spirituale, culturale, sociale; non parlano forse più alla nostra mente ma comunicano certamente con il nostro cuore. Quanto ai luoghi di altri culti, come le moschee, esse appartengono a un altro ancoraggio, a un’altra cultura. Tendono a una stessa ispirazione religiosa, ma in forme diverse da quelle degli archetipi – il tempio classico e la cattedrale gotica – a cui ci siamo riferiti. Se il tema del tempio non è oggi molto sentito nel mondo occidentale, o se in altre culture esso assume forme diverse, dove collochiamo la costruzione dell’arca? Io ne propongo degli esempi nella piazza del Duomo di Milano, come nel centro di Firenze, di Parigi o altrove, ma è evidente che la sua vera realizzazione può essere solo in una dimensione escatologica, forse anche storica nel lungo periodo ma, vorrei dire, soprattutto in una dimensione interiore. L’idea dell’arca è in sé un atto di culto, è un’opera votiva, così almeno io la sento. Avete visto come le mie arche si sposano intimamente con le cattedrali che esprimono l’identità di una città, di cui, in un certo senso, costituiscono una nuova incarnazione. Nello stesso modo, esse materializzano, in forme sempre diverse, il tempio interiore e invisibile che porto in me, e che vi esorto a scoprire anche in voi stessi.

Note 4 5 6

Vittorio Mazzucconi, La Città a immagine e somiglianza dell’uomo, Ed. Hoepli 1967 " " , La Città Nascente, Ed. Dedalo 1985 " " , La Piramide del Palatino, Ed. Fondazione Mazzucconi 2003

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L’ARTE SUPREMA

Incontro n°9 del 9 giugno 2010

Nel dibattito sono intervenuti anche: Silvana Olmo, Giovanni Bonomo, Silverio Guanti, Pat Sophie Graja, Roberto Provenzano, Anne Delaby, Carla Sanguinetti Vittorio Mazzucconi Stasera parliamo di arte, come del terreno privilegiato in cui si esprime o dovrebbe esprimersi il rapporto fra sentimento e ragione che, in tante forme, ci ha occupati in tutto il Seminario. Per chi viene per la prima volta, sarà forse difficile immaginare quante e quanto diverse possono essere queste forme, e come l’interpretazione che ne abbiamo dato è tutt’altro che usuale. Oltre al femminile e al maschile, che calzano perfettamente con il binomio parallelo di sentimento e ragione, abbiamo molto parlato dell’archetipo dell’albero, della costituzione del corpo umano, delle età, delle stagioni, delle civiltà, della storia dell’arte, della filosofia, della libertà e della legge, della città, del tempio e di altro ancora; e non è stato facile orientarci in questa vastità, cosa che ha richiesto l’aiuto di diverse tavole sinottiche. Senza poter ripercorrere questo cammino, per il quale rinvio alle dispense che sono state fatte con la registrazione di tutti i nostri incontri, devo però chiarire ancora una volta che cosa, nel nostro contesto, si intende per sentimento: cominciando ovviamente dai nostri sentimenti personali, includiamo in esso anche l’inconscio, la vita della nostra anima, il femminile, la natura, le radici nella storia, l’impulso religioso, la libertà ecc.: in sintesi, tutto quello che non può essere assimilato alla ragione. Mentre la ragione, ovviamente, è quello che riguarda l’intelletto, il maschile, la scienza, l’economia, la politica e ogni altro aspetto della ragione pratica. Il rapporto fra queste due categorie è stato visto in un modo dinamico, osservando cioè come dal sentimento si evolve verso la ragione, e come si realizza fra di essi un momento di equilibrio, che possiamo leg-

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Sentimento e ragione

gere nei momenti più felici della vita, dell’amore, dell’arte, della civiltà, mentre, andando oltre, se ne constata il progressivo decadimento. Ringrazio le persone che sono sempre venute e che sono state di un validissimo appoggio. Tutto questo lavoro è stato fatto insieme. Ogni volta io parlo un poco e poi nasce un dibattito in cui chi lo desidera può esprimersi. È stato veramente bello, anche sbobinando, rileggendo, ricomponendo gli interventi – che poi saranno riuniti in un libro – è stato molto bello, dicevo, vedere quanti punti di vista diversi ci sono e come, senza che nessuno di essi voglia prevalere sugli altri, essi formino tutti insieme un concerto. È ovviamente qualcosa di spontaneo, non così perfetto come avrebbe potuto essere uno studio sistematico fatto a tavolino; è stato come una campionatura, diciamo, di diversi punti di vista su problemi fondamentali come la vita e la morte, la libertà, la legge, l’arte ecc. scoperti via via con delle osservazioni di buon senso, come possono farle degli uomini della strada come siamo noi, e senza richiedere il contributo di specialisti nei diversi campi. Essi avrebbero potuto portarci il contributo di una conoscenza specifica ma senza la libera varietà delle nostre conversazioni. Ne è scaturita poi una gamma di verità che magari un giorno, rileggendo queste dispense e il libro che faremo, potremo approfondire con un certo profitto. In autunno dovrebbe uscire il libro del primo Seminario dell’anno scorso, “Il Lavoro Spirituale”, e seguiranno poi gli altri...se non riuscirò a mettere un freno a un’attività galoppante come questa. Parliamo quindi dell’arte come del terreno privilegiato in cui in cui il sentimento e la ragione devono essere presenti e devono concorrere all’opera come alla loro unione. Perché l’arte? Perché non possiamo chiedere ovviamente alla scienza di avere dei sentimenti, e neanche possiamo chiedere alle passioni di darci un contributo razionale, mentre nell’arte questi aspetti saranno coesistenti. Un vero artista, in una vera opera d’arte, deve avere una forza che viene dal cuore e una mente capace di disciplinarla. Ci dobbiamo però chiedere prima di tutto cosa si intende per “arte”, poiché essa è una parola ormai molto abusata. Se ci pensiamo, l’arte – i Greci dicevano Teknè, semplicemente “tecnica” – era una forma di abilità, di fare per esempio un vaso, e poi dopo una statuetta, e poi qualcosa di sempre più impegnativo. Era una forma di abilità manuale, accompagnata da un certo esercizio della mente che si allea all’esercizio

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L’Arte suprema

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delle mani mentre, solo più tardi, in questa attività manuale, ha potuto inserirsi un quid che va al di là della volontà o del piacere di fare il bell’oggetto, il bel vaso, la bella statua. Questo quid, cioè l’ispirazione, il talento, il lato magico con cui l’arte può aprire un piccolo spiraglio su un mondo superiore, ha portato nella manualità lo stesso afflato che già aveva animato la parola, trasformandola in poesia. Chi dice manualità dice anche tradizione, perché essa si veniva formando attraverso un mestiere trasmesso di padre in figlio, con la relativa stabilità familiare e sociale e la stessa omogeneità di valori che forma una lingua comune. L’esercizio di un mestiere faceva parte di un’ organizzazione sociale, di una cultura, del suo linguaggio, del popolo di tutta una città. Cosa che oggi non c’è assolutamente più: l’artista è del tutto isolato, ha rinunciato all’abilità tecnica – quasi nessuno sa più dipingere o scolpire – non esprime più l’anima di tutta una società, presente nella sua religione e in una cultura condivisa, ma è ridotto ad esprimere la sua frammentarietà e a ricercare in essa la cifra di un linguaggio personale che gli permetta di affermarsi come ego, come individuo, in mezzo a una società che altrimenti, lo ignorerebbe e schiaccerebbe. Quindi, se pensiamo all’arte in generale come a una nativa unione fra il sentimento e la ragione, possiamo riscontrare questa sua natura nel passato, ma non certo nel presente in cui appare invece una totale disunione. D’altra parte l’arte, se la vediamo nell’ambito dello sviluppo della psiche umana, va collocata in un certo momento, che è simile a quello dell’infanzia: i bambini sono artisti, come, non a caso, lo erano gli uomini primitivi. Prima di scrivere, forse ancor prima di parlare, essi incidevano i grafiti nelle pareti delle caverne, che ci appaiono come il primo segno lasciato dall’uomo. Con il segno, con l’immagine, inizia il lungo cammino con cui, in seguito allo sviluppo della ragione, un sentimento istintivo evolve e si associa a dei significati: non più solo quelli inerenti a un’immagine frutto di un’osservazione della realtà, ma quelli di una prima interpretazione del mondo, su un piano più elevato di quello della realtà ordinaria. Dall’arte si è così passati alla religione. In ambedue le forme è in atto l’unione del sentimento e della ragione. Quando poi la ragione evolve, fino a giungere a forme di cultura sempre più articolate e complesse, essa finisce col realizzare una sua completa indipendenza rispetto al sentimento a cui era prima legata. Nasce la filosofia, come amore della ragione in sé, e poi, dopo almeno un millennio, si applica allo studio della realtà fisica producendo la

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Sentimento e ragione

scienza, e questa porta infine alla tecnologia. In tutto questo percorso c’è un passaggio dalle facoltà native, istintive, come quelle che si vedono in un bambino, alle facoltà invece dell’uomo adulto o di una società adulta come la nostra. Poiché tutto è ciclico – forse l’idea più frequente nei nostri discorsi è stata quella di riconoscere la ciclicità in tutto – così può esserlo anche questo cammino, che dall’arte porta alla tecnologia. Poiché l’arte all’inizio era semplicemente tecnica, il cammino che va dalla tecnica alla tecnologia è praticamente un ritorno al punto di partenza, con la sola differenza che la nostra tecnica è molto più evoluta di quella degli uomini primitivi. Ciò ci autorizzerebbe a pensare alla rinascita dell’arte in un nuovo ciclo, che però non riesco a ipotizzare in termini precisi. Abbiamo tanto parlato dell’aspettativa di una nuova civiltà e anche del fatto che una possibile catastrofe del nostro mondo sia un ingrediente necessario perché essa si realizzi, ma non posso dire con altrettanta sicurezza che la morte dell’arte a cui assistiamo oggi preluda a una rinascita dell’arte. Perché questo fosse possibile, occorrerebbe ritrovare il momento nascente in cui il sentimento e la ragione potrebbero essere di nuovo uniti ma, per il momento, non ne vediamo assolutamente traccia. Si può però aprire un discorso più vasto. Al di là dei cicli – ogni volta abbiamo visto che ciò che nasce muore, dall’oscurità si va alla luce, dalla luce all’oscurità e così per sempre – abbiamo sempre tentato la buona sorte di riuscire ad evadere dal ciclo per puntare a quella che è stata chiamata realizzazione, illuminazione, speranza, utopia, consolazione...:cioè l’uomo ci prova sempre. Anche nei cicli stessi, nel loro susseguirsi, si produce un processo di apprendimento, che abbiamo letto come una spirale di crescita, con cui viene superato il senso di una disperante ripetitività, ma alcuni uomini meravigliosi che ci sono stati nella storia dell’umanità – i grandi mistici, i grandi filosofi, i grandi artisti – ci hanno mostrato come si può uscire dalla ciclicità e avere un assaggio di una dimensione superiore. Quante volte abbiamo trovato proprio nella vita biologica la prova di questo, che è quella della fioritura. Con l’immagine dell’albero, che è stato centrale nel nostro Seminario e che abbiamo seguito dalla radice alla ramificazione e alla sua forma conclusiva, ci siamo spinti fino al suo fiore, che ci sembra rappresentare una possibilità superiore. Sul piano biologico è quella che prelude al frutto e quindi alla formazione del seme ma, sul piano spirituale, io propugno la tesi, anzi la fede, che ci sia una fioritura della nostra anima,

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che è al di sopra della ripetizione ciclica, meccanica della sequenza nascita-morte, oscurità- luce ecc. Ora, l’arte è un esempio di questa possibilità, come si è visto nel corso dei secoli: molto al di là di quel percorso virtuoso di abilità, di tradizione, e anche della funzione dell’arte nella società, e quindi del tipo di opere che venivano richieste agli artisti, c’è il fatto che l’arte riesce nelle sue punte più alte ad aprire veramente uno spiraglio sul divino. Che sia l’arte greca antica, che sia un Michelangelo, un Leonardo, o un Mozart, tutti i grandi artisti ci hanno fatto vedere che esiste questo passaggio. Non a caso poi l’arte si è espressa in forme molto legate alla religione, non perché gli artisti fossero particolarmente religiosi – potevano anche non esserlo sul piano personale – ma proprio perché la religione e l’arte hanno in comune il centrale equilibrio fra il sentimento e la ragione. Come l’arte, anche la religione nasce dal sentimento del nostro cuore e cerca di accordarlo con la ragione – non guardiamo al fatto che nel cristianesimo di oggi il sentimento diventa spesso sentimentalismo, e la ragione una teologia astratta che ha perso ogni rapporto con i nostri interessi – ma, a parte i momenti di deviazione di questa unione, sta di fatto che la religione e l’arte sono vicine. L’arte trova la sua vera ispirazione proprio in quello che trascende la realtà, anche nei casi in cui si applica a un soggetto reale; indipendentemente dal soggetto che rappresenta, il particolare angolo sotto cui lo vede, il talento dell’artista, essa ci apre una percezione spirituale. L’arte è in questo senso la fioritura di cui parlavamo. Sarà ancora possibile oggi una tale fioritura? È possibile ancora oggi riunire il sentimento e la ragione? Io temo proprio di no, salvo in qualche caso fortunato, eccezionale. Però il mondo è in condizioni di tale disordine, di tale pericolo, di tale confusione, che da tutte le parti sorgono impulsi a cercare una via d’uscita o a chiedere una trasformazione. Possono partire da un’istanza etica, dal ritorno di un senso religioso, da una diffusa e crescente consapevolezza, dallo sviluppo culturale, dalle emergenze a scala mondiale, ma sono in sostanza impulsi che cercano di recuperare l’unità perduta dell’uomo, in sé stesso e con l’ambiente. Essi non sono però più centrati nell’arte, come cammino di esperienza e di conoscenza, ma su altri percorsi di ricerca, su altri mezzi espressivi. Per ciò che riguarda l’arte, c’è da dire che essa è sempre stata rivolta all’idea del bello, del piacevole, e che quindi è sempre stata considerata come un piacere puramente esteriore, puramente estetico, mentre io vorrei propugnare proprio l’esigenza di un’arte che abbia un

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valore etico, proprio perché nel momento in cui il mondo è investito da una così grande crisi, è importante che anche l’arte si impegni per mostrare un indirizzo all’uomo. L’arte ha in fondo molti ingredienti per poterlo fare: ha un suo connaturato accesso a un principio di armonia, ha la facoltà di unire come dicevamo il cuore e la mente e, in certe forme – io penso adesso ai miei progetti di città, per es. La città a immagine e somiglianza dell’uomo4 – è una filosofia che si rivela sempre più profonda, che pone al centro di tutto l’uomo, non come si suol dire fra virgolette e in modo abbastanza banale, ma come un’identificazione che è immagine, analogia, espressione dell’umano in ogni cosa. Quando parlo dell’umano parlo anche del divino: non per nulla il titolo del mio libro che menziona l’immagine e la somiglianza parafrasa il detto biblico. È in questa luce che l’arte può farsi faro e veicolo di conoscenza, non scientifica però, non razionale, ma conoscenza in senso profondo, conoscenza dell’anima. Ho detto che l’arte è qualcosa che salda insieme il sentimento e la ragione ma possiamo fare un salto e immaginare per esempio un’interpretazione del creato in cui la materia e lo Spirito siano nello stesso rapporto di quello che esiste fra sentimento e ragione. Una materia che è formata dallo Spirito, proprio come il sentimento è la materia prima della ragione, ne è disciplinato. Il titolo di questa serata era appunto l’Arte suprema, e ci stiamo avvicinando ad essa pensando alla vera e grande arte che si esprime nel mondo: guardate come spuntano i fiori, come la vegetazione si sviluppa, come noi creature nasciamo e siamo ricche di qualità meravigliose, è come se la base materiale di cui tutto questo è fatto sia stata fecondata e resa quella che è dallo Spirito, nello stesso modo in cui l’intelletto di un artista, partendo dalla materia di cui si occupa, il marmo, i colori, qualunque altra cosa, le dà forma, le dà vita. Anche questo è un punto molto importante: l’arte è come dare vita, non solo un rappresentare, un raffigurare o un esprimere un concetto, ma proprio un imprimere il suggello della vita. Se dico che l’artista mi fa pensare a Dio non voglio dire nulla di palesemente sproporzionato. Dio è un’immensità inconoscibile, mentre l’artista è spesso un povero e piccolo uomo, molto limitato nel suo piccolo campo e per giunta narcisista. Però, nel momento in cui esercita la sua funzione, in piccolo, in modo grossolano, in modo estremamente approssimativo, fa qualche cosa che ci fa proprio pensare per analogia alla scala ben più grande del divino. Ma è a livello di questo che riconosceremo l’arte più grande, quella in

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cui l’unione fra sentimento e ragione che viviamo a livello umano si rivela l’unione stessa fra materia e Spirito, di cui l’arte umana è una scarsissima approssimazione. Quando poi si dice che l’arte deve rispondere al principio del bello, anche qui si apre un campo estremamente vasto. Quando parlo del bello, non parlo di qualcosa che semplicemente piaccia allo sguardo, che risponda alla nostra sensibilità: il bello è l’equivalente del vero, è l’equivalente del buono, è quello in cui l’ideale e il reale si saldano. A questo proposito – io non amo mai fare delle citazioni – ma ho letto l’altro giorno alcune parole di Shelling, che sembrano veramente dire quello che penso. Egli riconosce nell’arte il momento in cui lo scarto fra idea e realtà, fra spirito e natura, fra attività conscia e inconscia si annulla. Si annulla cioè la distanza fra lo spirito e la materia, attraverso la natura. Perché? Evidentemente perché si uniscono, si saldano insieme. Quante volte, parlando di sentimento e ragione, di femminile e maschile, abbiamo messo l’accento sulla loro unione, che non è null’altro che il figlio. In questo senso, anche l’opera d’arte è un figlio. Non è forse anche l’uomo stesso un figlio, della natura e dello spirito? Nell’arte agisce quell’intuizione che la filosofia teoretica può solo riconoscere ma non realizzare. Cioè l’azione estetica è paragonabile a una natura creatrice, che ubbidisce alle leggi che essa si dà. L’artista nella sua attività creatrice realizza questa unione di ideale e reale dopo che questi due, nella coscienza dell’uomo, sono stati separati. Questa unione di ideale e reale l’abbiamo vista per esempio in certe visioni, in certi progetti di città che vi ho presentato nell’incontro sulla Polis. È stato facile dire: “ma si, sono belli ma sono un’utopia, non sono realizzabili”. Può darsi che, da un punto di vista politico, economico o giuridico, siano in effetti difficilmente realizzabili, nulla di più evidente, ma l’essenza è un’altra: solo il fatto che sia possibile di unire l’ideale e il reale in un’ idea, in un progetto, mostra la strada che dovrebbe essere sempre seguita. Noi separiamo quello che è il nostro ideale, la nostra intuizione, la nostra immaginazione, e la realtà della vita; separiamo il nostro corpo dalla nostra anima, il nostro cuore dalla nostra mente. È l’unione di tutto questo che non solo è una felice saldatura ma dà la vita e, con la vita, crea l’arte, crea il figlio, crea il fiore, si apre all’intuizione del divino. Il divino è in sé l’unione e ogni volta che ci avviciniamo a un’unione, ci avviciniamo alla porta del divino. Quindi, questo ideale e questo reale si possono rapportare a quanto abbiamo detto sul sentimento

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Sentimento e ragione

e la ragione. Nel senso molto vasto che abbiamo dato alla parola “sentimento” diciamo che esso è come la materia prima, inconscia del reale, su cui la ragione agisce per trasformarlo a immagine dell’ideale. In questo discorso sul sentimento e la ragione, abbiamo visto il loro rapporto come quello fra due poli abbastanza vicini, come il mio cuore e la mia testa: non sembra in effetti una grande distanza. Ma era un modo approssimativo, schematico, per poterci poi estendere alla percezione di un percorso estremamente più lungo: prima del sentimento, del cuore, c’è l’inconscio, c’è la natura, c’è l’oscurità in noi, come pure nell’intero universo. Oltre la ragione c’è invece l’intuizione, c’è la visione, la conoscenza superiore, l’ideale: c’è Dio... Ecco, la vera idea di religione è proprio nell’intento di riunire, come lo dice la stessa parola religere, tutti questi aspetti del mondo, che si riassumono nella terra e nel cielo. E l’arte, questa piccola e purtroppo infedele imitatrice, fa proprio la stessa cosa. Nello stesso modo, vorrei adesso riunire queste idee alle vostre, ma bisogna che prima me le raccontiate... Qualcuno ha qualcosa da dire?

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DIBATTITO

Una coscienza universale e l’arte Silvana O. Più che una domanda, è una riflessione che mi fai venire in mente quando citi la filosofia estetica, di cui Platone è stato l’iniziatore, sostenendo che Dio è il bello e anche il buono. Tutto quello che tende all’unità è, come dicevi, un tentativo dell’uomo di avvicinarsi a Dio e lo è quindi anche l’opera d’arte, unione di una ragione che appartiene all’uomo e di un sentimento che è qualcosa di più profondo. Vittorio M. Io trovo che il movimento dell’avvicinarsi a Dio, per ritrovarne l’unità originaria, è proprio l’ABC di un’interpretazione veritiera del mondo che, partendo da un inizio, in cui è avvenuto, come un’esplosione, l’allontanamento da Dio, vede impegnata tutta la potenza dell’amore nello sforzo del ritorno. Questo impulso muove tutte le azioni umane, in ogni tempo, in tutta la storia, e anche l’intero movimento cosmico. Rispetto a questo l’arte è ben piccola cosa ma essa ci fa vedere in piccolo, in un oggetto, se volete simbolicamente, l’unione che ricerchiamo. Ma la stessa cosa io la vedo guardando ognuno di noi: ognuno di noi è nato come un’unione di diversi principi, di diversi genitori, siamo tutti il frutto di questa unione, che immediatamente dopo si è divisa nella vita per poi sforzarsi di ricomporsi in nuove forme di unione. L’arte è una di queste forme. Non le darei tanta importanza sul piano, diciamo, dell’oggetto d’arte in sé, mentre ne rivelerei la meravigliosa analogia con ben altro livello, quello in cui, come dicevo prima guardando all’insieme del creato, la materia grezza è chiaramente plasmata dallo spirito per un fine divino.

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Dico “chiaramente” affermando una verità che può essere invece opinabile da un altro punto di vista, anche se a me sembra il punto di vista di chi è cieco. Io che sono architetto, oltre che “parlatore” in queste nostre serate, uso dei materiali per progettare, uso dei mattoni, uso delle putrelle di ferro, del cemento, dei vetri...ma immagino Dio come un architetto sublime che usa dei materiali viventi. Mentre io dico al mattone “mettiti li” e li rimane, Dio lascerà che la terra stessa si faccia mattone, e che questo provi il bisogno di comporre un arco, una colonna, una volta, e che quindi l’edificio si realizzi attraverso la creatività e la necessità della vita di tutte le cose, di tutte le creature. Il famoso discorso della libertà e della legge si può condensare in questo mistero: che, nell’ambito di una legge universale, di una creazione, di un disegno divino, possa esistere la libertà di tutte le parti che lo compongono e che esse, ognuna con i mezzi concessi dalla propria natura, necessariamente concorrano alla realizzazione del progetto, proprio come se i materiali per la costruzione di una cattedrale si auto creassero e si mettessero spontaneamente ognuno al suo posto. In fondo è quanto sostengono gli atei dando così prova di un’incredibile fede, non però in Dio ma nell’assurda opinione che le cattedrali si possano fare per puro caso e senza alcun progetto. Giovanni B. Nell’ottica dello spirito creativo, che diviene anche mistico, l’artista si può sentire parte di quel tutto, che poi viene chiamato Dio, o di una coscienza universale, che potrebbe spiegare anche molte coincidenze non solo nel campo delle arti visive, ma anche nella musica, per esempio, se non addirittura nella scienza, con Marconi e altri scienziati che hanno avuto l’intuizione dei campi energetici. C’è secondo me questa coscienza comune che spinge l’uomo a esprimerla in opere che sono in sintonia con una realtà suprema che trascende la realtà delle cose, carpendo in qualche modo delle intuizioni che sono superiori alle sue stesse capacità. Se invece vogliamo parlare dell’arte contemporanea... Vittorio M. Sì, però stasera non vorremmo parlare di questa in particolare, ma piuttosto riflettere sulla coscienza universale che abbiamo evocato. Ci pensavo proprio stamattina, camminando lungo il Naviglio, e guardando le erbacce che crescono lungo il bordo del canale. Alcune sono dei

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capolavori meravigliosi; una in particolare, con dei fiori indaco che formano una specie di torre, mi ha fatto pensare alla Sagrada Familia di Gaudì, che però lascia di gran lunga indietro. Ebbene, tutte queste “cose” non hanno una coscienza, un fiore non sa che è un fiore, ma come si fa a non credere che siano animate, come ogni altra cosa, come ogni altra creatura, da una coscienza universale? Senza dubbio c’è una coscienza di Dio che tutto sostiene, tutto crea: solo che le creature non ne sono consapevoli finché, nel corso dell’evoluzione, non nasce un essere come l’uomo che ha la possibilità, anzi il sacro compito, di acquistare coscienza di questo, anche per loro. Purtroppo però, in questo acquistare coscienza, come prima cosa l’uomo si inorgoglisce e pensa che sia la sua intelligenza a dare un senso alle cose, arrivando così a negare Dio. Mentre l’uomo dovrà riconoscere la sua parte migliore, conseguendo la sua realizzazione, proprio nell’essere lui stesso la coscienza divina, rivelandola in sé.

Religione e spiritualità Giovanni B. Attenzione però ad usare il termine “religione” in luogo di quello di “spiritualità” La spiritualità non è la religione, che è figlia della paura, e madre della crudeltà, come dice anche Husserl, non è un sentimento... Vittorio M. La religione è un movimento fondamentale dell’animo umano, ma quando diventa una raccolta di dogmi, di favole, è chiaro che bisogna trovare altre forme per esprimere la nostra ricerca di Dio. Non è infatti detto che quello che va bene per un bambino, vada bene anche per un adulto. Molte cose che la Chiesa ci racconta sono favole da bambini, che contengono delle verità profonde ma espresse in modo inadatto. Bisogna però riflettere. L’uomo adulto del nostro tempo che cosa fa? Fra tante cose buone, commette anche dei tragici errori, crea dei falsi miti, dei falsi Dei, fino a produrre l’incubo di una catastrofe globale! Quindi, l’uomo adulto non dovrebbe essere così sicuro della sua intelligenza ma anzi farebbe bene a tornare, paradossalmente, allo stato del bambino. Le favole potrebbero allora rivelargli il loro senso profondo, che non è solo razionale: è, come il mito, come il simbolo, un senso che

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unisce la ragione con delle pulsioni molto più profonde. Quindi, da una parte bisogna abbandonare le favole dell’infanzia, inadatte alla mente adulta, e dall’altra bisogna ritrovarne il vero significato, che può nutrire una mente non solo adulta ma illuminata. Penso alla psicanalisi e in particolare a Marie-Louise von Franz, seguace di Jung, che nelle favole ha saputo leggere un’enorme saggezza. Ma veniamo a qualcun altro, a cui chiedere le proprie riflessioni…. tu, Silverio, che vieni incautamente solo alla fine di un seminario, vuoi forse dire qualcosa? Silverio G. Mah, mi hanno colpito diversi aspetti della piacevole conversazione. Io non ne farei una questione terminologica tra spiritualità e religione, anche perché sappiamo molto poco di quali siano le religioni o le spiritualità di altre parti del mondo. Credo che oggi non ci sia nemmeno una laurea per lo studio delle religioni. Giovanni B. Non so, comunque penso che per capire la religione non bisogna essere uno studioso delle religioni. È spesso solo una fantasia che nasce dalla paura della morte e non equivale alla spiritualità… Silverio G. Io ho visitato un tempio in Francia, che è considerato proprio un tempio della non-paura, mi sembra si chiami “le tombeau sans peur” È da qui che parte la spiritualità, che non deve necessariamente essere ingombrata da tutto quello che può essere il cristianesimo o le altre forme religiose dell’Occidente. Dobbiamo stare cauti, non siamo al centro del mondo. Mentre mi interessava, Vittorio, un aspetto che ho colto nella tua esposizione: l’arte come strumento per far leva su una rinascita, e quindi l’arte vista come una forma di conoscenza nei confronti degli abissi della nostra coscienza. Mi interessava capire come questo possa realizzarsi, perché in questa arte, nella sua pluralità di manifestazioni espressive, puoi trovare di tutto. Però ci sono delle idee che permangono. Il maestro dei maestri, Socrate, faceva leva su un aspetto femminile, cioè la maieutica, ma mi sembra che questo aspetto maieutico sia più verbalizzato che sentito in questo tuo seminario

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Per una rinascita Vittorio M. A parte il quiproquò – perché la tomba di cui parli era quella di un Duca di Borgogna, Jean sans Peur, che si chiamava proprio così, e non un tempio elevato alla mancanza di paura, magari ci fosse – tu sei venuto all’ultimo momento di un seminario che va avanti da molto tempo e nel quale proprio l’aspetto della nascita è stato centrale. È insito nel rapporto fra sentimento e ragione, ossia di femminile e maschile, che esso dia luogo a una nascita. L’abbiamo chiamato anche fiore – è la stessa cosa – e anche auspicio di una civiltà al femminile, che giustamente richiami. Io in fondo non ho parlato d’altro, non solo nel Seminario ma nelle mie opere – basta pensare al progetto della Città Nascente5 o a quello dell’Arca del Duomo7, che conosci e che si pone come simbolo di rinascita della città, quasi come un nuovo battistero. Pat Sophie G. Stavo sentendo l’arte come il momento stesso in cui noi tocchiamo questa coscienza universale e riusciamo a renderla tangibile a noi stessi e agli altri. Ed è proprio il momento in cui torniamo a un’innocenza, torniamo ad essere tutt’uno. Che poi sia difficile, sì, sicuramente è difficile, ma non impossibile, perché abbiamo in noi l’intuizione che si possa semplicemente “essere” su questa terra e non solo diventare questo o quest’altro. Il percorso è lungo, veramente lungo, e troviamo in esso la ribellione, il malessere del nostro tempo. È anche positivo perché, stando male, ci accorgiamo di tante cose che si stanno muovendo ora, a macchia d’olio, con difficoltà, in un mondo che apparentemente è catastrofico: una catastrofe probabilmente necessaria, per incontrare la coscienza e per realizzarla. Vittorio M. In questo senso, la catastrofe prelude al bisogno di rinascere, no? È un pensare alla morte come a un passo necessario verso una nuova vita… Pat Sophie G. Sì, io la catastrofe in questo senso la sento assolutamente ma, in un senso diverso, mi accorgo che ogni forma espressiva umana in questo momento è portata ad amplificare la paura che tutto vada verso la ca-

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tastrofe. Si stanno infatti educando i bambini all’idea del continuo disagio, del continuo divenire di qualcosa di pesante, di brutto. In realtà, è difficile oggi vedere qualcosa di veramente artistico, anche se molti più individui – pensando all’individuo come persona “non divisa”- riescono a realizzare in piccole cose un’unità tra la ragione e il sentimento. Forse siamo in un momento in cui non esistono le grandi figure, non ci sono espressioni grandiose. L’arte è diventata più democratica, legata al quotidiano...

Ritrovare il bambino in noi Vittorio M. Quanto al bambino di cui parlavamo, guardando alle favole religiose come a qualcosa di appropriato all’infanzia dell’uomo, dicevo che dovremmo tornare bambini. Il bambino capta infatti in modo naturale, istintivo, l’unione delle cose; il sentimento e la ragione per lui sono uniti. Per questo l’immaginario per lui è reale quanto lo è per noi la realtà, che è il frutto amaro della nostra esperienza, del vissuto famigliare, della lotta per la vita e, troppo spesso, per la sopraffazione. Davanti a nuove idee siamo pronti a dire che sono una favola, un’utopia, mentre questo nel bambino non accade. In qualche modo bisogna ritornare ad essere bambini e l’artista, in questo senso – ripeto che non voglio fare l’elogio dell’artista o dell’arte – ha proprio la caratteristica di essere rimasto un po’ bambino, ha tenuto insieme queste cose...In questo senso il suo può essere quindi un punto di vista fecondo anche per il resto degli uomini. Come diceva Shelling, unire l’ideale e il reale è la cosa più importante, la cosa fondamentale. Confesso che io mi sento molto bambino, perché non vedo alcuna differenza fra ideale e reale. Silvana O. Mi fai pensare al fanciullino del Pascoli. Bisogna continuare a tener vivo il bambino che è in noi... Vittorio M. Mi sembra che lo dicesse anche quel Tale: “se non siete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”. Mi sembra che anche Panikkar parli di un’innocenza da recuperare...

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Pat Sohie G. Veramente tu ritorni innocente come un bambino ma hai la consapevolezza... Vittorio M. Certo, non si tratta mica di rimbambire. È un’innocenza conquistata, non la pagina bianca dell’inizio. Questo è poi vero di tutto, anche della semplicità che è propria di chi non sa nulla, non conosce la complessità delle cose; però la vera, la grande semplicità è di chi ha percorso tutto il cammino della complessità ed ha infine raggiunto il livello della semplicità conclusiva. E questo è vero anche dell’innocenza: non è l’ingenuità in partenza, ma è l’innocenza riconquistata dopo aver conosciuto la vita. Silverio G. Mi veniva in mente, a proposito del fanciullo, che il filo conduttore della storia umana è l’immagine del sacrificio di Isacco, se sostituiamo la parola “sentire” con “fede”, per unirla alla ragione in un nesso antichissimo che ci portiamo dietro da secoli. La religione ha a che fare con il sacrificio, la sacralità inizia con il sacrificio, anche se ne possono cambiare i canoni in diversi periodi storici: oggi potrebbe essere in un’altra forma, più umana. Vittorio M. Mi permetto di dire che questa “fede” non la porrei a fronte della ragione, come abbiamo fatto col sentimento. Porrei il sentimento e la ragione su un piano umano, come femminile e maschile, che abbiamo visto unirsi nella nascita, ma la loro sintesi può essere anche la fede: un passo oltre, non più un sentimento istintivo, è un credere al trascendente più che alla realtà dei fatti. La fede è proprio come una nuova nascita: una nascita spirituale. Sul piano del sentimento, un padre non avrebbe mai ucciso il figlio, ma la fede lo porta invece a un altro ordine di valori. Silverio G. Non è una favola, fa capire il valore della fede e quello del sentimento. Giovanni B. La fede è un file word della conoscenza, e la conoscenza è anche la base dell’arte. Ci può essere un’arte senza una conoscenza tecnica di base, come si vede in tante improvvisazioni?.

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Vittorio M. All’inizio della serata ho provato a chiedermi anch’io cosa è l’arte, riportandola alla sua sana e modesta origine, che era semplicemente un’abilità tecnica, per esempio nel fare un vaso. Seguendone poi lo sviluppo, abbiamo visto che, un po’ alla volta, si è imparato ad esprimere anche qualcosa di più alto della necessità, creando delle belle forme, e che, al di là di queste, si è raggiunto un ideale ancora più alto nella religione e nella filosofia. Al di là di una conoscenza tecnica di base, che è oggi trascurata in alcune forme di arte, vorrei però adesso parlare della conoscenza su un altro piano. Pat Sophie G. A proposito del sacrificio del figlio, in realtà noi oggi possiamo leggerlo in un altro senso: che abbiamo creato qualche cosa e che, nel momento stesso in cui siamo capaci di staccarci dalla nostra creatura, liberarla dal nostro possesso, questa creatura vivrà e darà frutto. Quindi noi non possiamo leggere ancora il testo biblico come la storiella del padre che deve sacrificare il figlio. Ciò che sacrifichiamo è il coraggio di rendere sacro ciò che abbiamo creato. A quel punto non ci sarà il sacrificio, ci sarà solo il frutto del sacrificio e la vita a cui esso darà origine. Il passo della Bibbia va letto in modo simbolico.

Il ricongiungimento fra ideale e reale Roberto P. Io volevo recuperare quel concetto di frammentarietà di cui hai parlato all’inizio, che impedisce all’uomo moderno di trovare un’unità, quell’unità che stava nell’arte, e stavo riflettendo al concetto espresso da Shelling sull’unione fra spirito e natura, o fra ideale e reale. Ma qui possiamo chiederci: come fa l’essere umano a riconoscere questa unità? Per poterla riconoscere, per forza di cose deve ricorrere a delle categorie di senso. Queste però non possono essere utilizzate qualora non ci sia una forma riconoscibile a cui l’uomo può dare senso. Allora mi viene da riflettere sul fatto che, mentre la gran parte dell’arte tradizionale è un’arte di imitazione del reale ed è quindi possibile trovare in essa il nesso fra reale e ideale, come potremo riconoscerlo in un’arte che non è invece imitazione del reale? Faccio un esempio per cercare di spiegarmi: la cultura ellenica che è per noi la base dell’arte, faceva le statue, faceva i tem-

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pli, faceva i capitelli, ma guardiamo un attimo che differenza c’è fra la statua e il capitello: la statua è l’arte che imita la natura, il capitello non imita niente, è già la dimostrazione di un’arte che si allontana dall’imitazione pura e semplice della realtà, quindi si allontana dal congiungimento con il senso. Oggi come oggi, appare che l’arte moderna è sempre più lontana dal senso, e questo allontanamento penso che sia da mettere in relazione appunto alla coscienza della frammentarietà, all’impossibilità dell’unione. Ecco perché io vedo dei giovani che fanno delle sculture astratte, pezzi di materiale plastico piuttosto che ferroso... cosa me ne faccio io di quest’arte? Non posso prenderne un senso, però posso prenderne una percezione, una emozione. Mi sembra che quello che sta succedendo nel mondo di oggi è che l’arte va sempre di più verso la pura emozione, staccata dal senso, e che quindi non possa essere più letta nei termini di Shelling. Non può più essere letta in termini di ricongiungimento fra reale e ideale, perché non c’è più il concetto dell’imitazione del reale a cui riferirsi. Vittorio M. Il ricongiungimento fra reale e ideale va inteso su ben altro piano, indipendentemente dall’imitazione del reale nell’arte del passato. Noi parliamo della realtà del mondo, non di un certo tipo di rappresentazione, e dobbiamo metterla in rapporto con una visione ideale, questo è il punto. Dire poi che l’arte contemporanea va verso l’emozione mi sembra strano perché, con l’arte concettuale, essa mi sembra appellarsi piuttosto alla mente. Volevo però fermarmi su una delle cose che hai detto quando, parlando della colonna, ti sembrava che il capitello fosse diverso da una forma ispirata al reale. Io ho per questo una piccola interpretazione che ha un suo fascino. La colonna è un elemento strutturale, praticamente il tronco di un albero usato per sostenere un edificio. Al di là di questa funzione, mi ha però sempre commosso il fatto che in cima alla colonna ci sia il capitello. Il capitello è un po’ come la fioritura della colonna – sto parlando in particolare del capitello corinzio – una fioritura che mi fa pensare al senso globale dell’esperienza umana, quando essa giunge alla sua parte più alta, più idealizzata, più nobile. Pensa d’altra parte, sul piano umano, allo scalpellino che faceva la colonna, torniva questo pezzo di sasso guadagnandosi duramente di che vivere, ma quando poi giungeva al capitello, che realizzazione, che inventiva, che creatività tirava fuori! Se guardi bene, in tante chiese i capitelli sono

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tutti diversi uno dall’altro e contenevano inoltre tante storie. Non è poi vero che non guardassero la natura: una volta le foglie d’acanto, altre vari intrecci vegetali come nell’arte bizantina, o figurine come nella romanica...Senza entrare però nello specifico, vorrei mettere in evidenza dapprima il rapporto fra una realtà costruita razionalmente e la natura, non solo nei riferimenti vegetali di un capitello, ma nel fatto che la colonna, pur essendo una forma geometrica e strutturale, è anche naturale in quanto traduzione del tronco. E, in seguito e soprattutto, la fioritura, in cui si centra tutto il mio discorso, con cui si guarda al significato del fiore, che è anche quello del figlio, o dell’opera d’arte, è la creazione. Il fatto che non lo si percepisca è molto triste, ma viviamo in un mondo frammentario, in cui i frammenti vengono presi per arte, non è così? Un manifesto stracciato diventa un’opera d’arte, delle longarine di ferrovia presentate da un artista come scultura hanno fatto scrivere a un famoso critico che esse stanno a significare un cammino iniziatico...e, di fronte a questo, bisogna anche convincersi di provare un’emozione! Roberto P. Scusami, ma se posso aggiungere una cosa che mi sono dimenticato prima, è proprio questo: quando l’uomo pone in campo delle categorie di senso, è chiaro che lo fa a livello soggettivo. Il tutto va ricondotto allo sguardo soggettivo, per cui ciò che a te non comunica un’emozione può comunicarla a me, o il contrario. Vittorio M. Sei su una cattiva strada..., te lo dico così, senza riferirmi a te personalmente: il segreto dell’arte o anche quello di capire le cose è di smetterla di dire: “io sono qui, tu sei li”, non bisogna dividersi fra soggetto e oggetto, anche se la filosofia la pensa diversamente. L’artista e soprattutto il mistico fa esperienza di un’immedesimazione totale. Non posso dire: “io faccio questa cosa, però essa sarà quello che tu vedrai in un modo e un altro in un altro”. Io faccio questa cosa perché sono questa cosa, (che tu la veda o no o in qualunque modo tu la veda). Dio ha fatto il mondo non preoccupandosi se qualche altro dio l’avrebbe dopo visto in un altro modo, ma ha espresso, manifestato se stesso. L’azione estetica – rileggendo Shelling – è paragonabile a una natura creatrice che ubbidisce alle sue proprie leggi, al suo proprio impulso, non al gioco del soggetto e dell’oggetto che è quello che frammenta alla base la conoscenza. È un tutt’uno. Tant’è vero, facendo un’estrapolazione poetica,

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immaginifica, mi spingo a pensare che Dio non ha fatto l’erba, non ha fatto te, non ha fatto me, ma è lui che si è fatto erba, te e me, siamo lui; la sua non è un’opera esterna; non puoi distinguere fra soggetto e oggetto...Puoi accettare questa unione, questa fusione a livello creativo, a livello di innocenza? È proprio questo il contributo che l’arte può dare al mondo, che invece è tutto basato sulla frammentazione.

Ancora sul bambino in noi Roberto P. Io non vedo questo mondo infantile come un mondo di unità, ma comunque è un mondo a cui manca ancora qualcosa. Che poi sia un mondo bello, ideale, da sognare...Un conto è poi dire: recuperiamo il bambino che è dentro di noi, questo mi piace, e un conto è dire che il mondo del bambino è il mondo dell’unità. Vittorio M. L’abbiamo detto prima: l’importante è coltivare in sé un approccio che recuperi l’essenziale di quello del bambino, senza però rimbambire...È come la semplicità, che è un punto di arrivo: la semplicità di uno scienziato che è arrivato a condensare in una piccola equazione un mondo di scibile non è come quella del bambino che fa le aste, le assomiglia ma non è la stessa cosa, è la fine, non l’inizio di un cammino. Come metodo per raggiungere il senso della vita bisogna saper coltivare l’aspetto di fusione, di intuizione, di immedesimazione che vedi nel bambino. Esso è simile al processo delle favole che è appunto congeniale alla psicologia infantile mentre, in quella degli adulti, vediamo tutti dove conduce la strada di una ragione che si è separata dalla sua radice. Anne D. Il bambino non è scisso, è con l’educazione che viene frammentato; andiamo verso un mondo adulto perché qualcuno ci educa alla conoscenza, ma vediamo dove ci porta questo mondo adulto in cui non c’è più l’anima del bambino, l’unione naturale fra ragione e sentimento. L’abbandono della spiritualità ci porta alla catastrofe. Ciò è anche conseguenza del prevalere di un mondo maschile, un mondo unicamente cerebrale, in cui ci sovrasta una legge che si sostituisce alla coscienza, mentre occorre fare più posto all’anima femminile e alle sue capacità intuitive.

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Riprendendo il discorso sulla conoscenza di cui ho colto dei frammenti, secondo me l’unione di ragione e sentimento sta nella coscienza. La fede non basta più, adesso ho bisogno di conoscere, ma non dal punto di vista scientifico, razionale, che è spacciato per conoscenza, mentre per me è un sapere sterile che non porta da nessuna parte. Vittorio M. Questo è tutto il senso del lavoro che abbiamo fatto. Pat Sophie G. È la coscienza che è ma che non ha bisogno di sapere di essere. È questo che è il bambino. Egli ha una tale saggezza che riesce ad essere disobbediente a tutto ciò che è sciocco, inutile. Il fatto di ritornare bambini non è un rimbambire ma è un ritrovare il contatto con questa coscienza, che è una conoscenza totale, senza sapere di conoscerla, potendo però agire secondo delle leggi universali su cui non è possibile avere dei dubbi. Esse sono le stesse che portano il fiore a crescere, senza bisogno di intervenire per spingerlo o forzarlo. Per questo io continuo a insistere sul fatto che il bambino è saggio, anche se non è consapevole. Vittorio M. Quello che dicevi è vicino a quella coscienza di cui parlavo, degli animali, delle piante, dei fiori, dei fili d’erba, che è universalmente diffusa, e a cui partecipa anche il bambino. In lui non si è ancora sviluppata la mente che discrimina e separa dall’unità, in sé stesso e con tutte le cose. Quando diciamo che dobbiamo ritornare a questa condizione, è chiaro che non possiamo cancellare tutto il cammino che abbiamo fatto ma, al contrario, riportarci con la conoscenza acquisita alla coscienza originaria che è un tutt’uno, una fusione. Dividere, discriminare è stato necessario – quante volte abbiamo parlato della ramificazione dell’albero – però è altrettanto necessario di ritornare all’unità, cioè all’equilibrio fra di essa e la radice con cui abbiamo perso il contatto... Silverio G. Non vorrei essere retorico ma, anche fra gli adulti, c’è chi riesce a vedere in un filo d’erba l’universo... Pat Sophie G. ...ma certo.

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Cos’è l’arte? Giovanni B. Vorrei sapere cosa ne pensa Vittorio – facendo questa domanda, propongo anche degli spunti di riflessione agli altri partecipanti – sull’arte che non è arte, sul cattivo gusto, sul kitsch: come mai si afferma anche ai livelli dei maggiori musei, in cui si vedono delle cose, degli artisti, in cui non vedo una vera creatività, e allora la domanda è: sono ancora rinvenibili nell’arte delle categorie di base per capire che cos’è arte e che cosa non è arte? Tanta arte a me sembra solo una forma di comunicazione pubblicitaria. Vittorio M. Viviamo in un periodo di confusione, disunione, contraddizione in tutti i campi. Non sfugge certo a questo stato l’arte, che lo riflette nel bene e nel male: in alcuni artisti di grande valore con un’autentica testimonianza, in altri con un’infinità di esiti deteriori, ingigantiti dalle deformazioni indotte dal mercato e dalla comunicazione di massa. Da onesto mestiere come era una volta, al servizio di esigenze precise, l’arte è diventata oggi una forma di espressione mimica e delirante di una civiltà allo sbaraglio. Distinguerei poi fra la pittura, che sembra ormai in disuso, e molti altri mezzi di fare arte; guarda alla letteratura, al cinema... Giovanni B. Ma esiste un criterio oggettivo per il bello? Vittorio M. Direi che è lo stesso del vero e del buono, il che ci porta a vedere nell’arte l’espressione di una verità, di una conoscenza. È qualcosa di profondamente vero che sento nel mio cuore e che posso riconoscere in artisti di valore ma purtroppo molto di rado, perché anche i migliori talenti sono frastornati dalla frammentazione del nostro tempo e dalla ragione materialistica che ha la meglio in esso. Stasera, non parliamo però in particolare dell’arte contemporanea, o dei musei a cui alludi, ma appunto dell’arte come possibile via di conoscenza, il che ci guida a un altro ordine di idee. Per questo parliamo di realtà psicologiche come quella di un bambino, o dell’intuizione, o del senso religioso, nell’intento di richiamare l’arte a un contenuto propriamente umano.

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D’altra parte, dovendo rispondere alla domanda di quale potrebbe essere un’arte che risponda a un criterio di verità e conoscenza, non saprei proprio cosa dire, se non cercando qua e là dei semi di un nuovo modo di sentire, che è forse la sola cosa che possiamo fare oggi, nell’attesa che essi possano germogliare in tempi migliori... Pat Sophie G. Vorrei dire che mi è capitato proprio ieri di leggere un libro dei primi del ‘900 che è una dispensa per imparare il taglio e cucito, ed era una cosa talmente equilibrata tra la tecnica e l’arte che sono rimasta senza parole. Cercavo anzi una parola che non riesco più a trovare nel vocabolario, sono andata a cercarla li, e a un certo punto sono rimasta senza fiato: era l’armonia, la sapienza, una cosa cosi straordinaria che sono rimasta in ammirazione. Vittorio M. Ma l’arte è proprio questo che ci dice giustamente Pat Sophie: è come l’arte della cucina, l’arte di tirare con l’arco, l’arte del giardinaggio, e molte altre: tutto è un’arte, se è fatto con amore. Arte vuol dire fare con amore, e così era quando si guardava a un’abilità, all’acquisizione di una competenza, a una lunga dedizione, mentre oggi non c’è più niente di tutto questo. Abbiamo già visto che il mondo dell’arte è diventato uno spettacolo, in cui non c’è freno a ogni tipo di esibizione e di eccesso. Carla S. L’arte esiste però ancora; non esiste un canone, questo si, perché i canoni sono stati tutti mandati a farsi benedire, quelli letterari, quelli artistici, quelli musicali. La cosa è iniziata agli inizi del ‘900; il sapere contemporaneo, il modo di essere contemporaneo, si sono dispiegati su uno scacchiere troppo vasto perché possa esistere un canone, come è esistito fino all’800, un canone di armonia, di bella misura, di comportamento. È vero che esiste oggi tanta paccottiglia nel sistema dell’arte, c’è un mercato tiranno che impone artisti che non valgono niente e magari lascia in ombra artisti che valgono, però artisti che valgono oggi ce ne sono; ma il fatto è che il mondo contemporaneo ha talmente tante branche di sapere che bisogna saper nuotare in molti stili. Allora, se uno vuole parlare dell’arte contemporanea, deve tuffarsi in questo mare, che è pieno di secche, di scogli, ma anche di cose meravi-

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gliose come tutti i mari. Ci sono artisti stupendi oggi, che ci danno tanto – meno male che esistono – nel mondo delle arti figurative, nel cinema, nel mondo della scrittura. E che cos’è che li distingue da quelli che sono paccottiglia, o che vengono imposti dal mercato? È il fatto che ci fanno vedere più a fondo le cose, che ci fanno entrare in quello stato d’animo, come dicevi tu, di compenetrazione maggiore con gli altri, con la realtà, con l’universo e con le sue contraddizioni, anche perché io credo che noi oggi viviamo in un mondo che vive della contraddizione, e forse la deve anche assumere. Èun momento storico così, è quello che per esempio, nel campo religioso, Floreschi chiamava il mondo dell’antinomia: io posso essere ateo e credere lo stesso in Dio. perchè non esiste più oggi una definizione accettabile di Dio. La definizione che ne dà la Bibbia, o quelle di tutte le religioni costituite, non sono più accettabili. Nello stesso tempo, nessuna persona di buon senso che abbia un minimo di cultura, non può non sentire che tutta la realtà dell’universo ha un’anima, uno spirito – è altrettanto innegabile – e allora una convinzione convive con l’altra, e anche col dubbio, e stanno tutte insieme. Ecco, per esempio, io ho letto in questi giorni un libro stupendo di Batison “Dove gli angeli esitano”, in cui si parla proprio della realtà di Dio, della realtà del sacro, che cosa può essere per noi oggi: non può essere quella che è stata fino a ieri. Tuttavia non possiamo buttarla a mare, quindi accettiamo un’intuizione, cui non sappiamo dare un corpo, ma che c’è; anima, spirito e corpo li dividiamo ancora oggi... non li possiamo più dividere, ma com’è che li unifichiamo? Non lo sappiamo, tutto attende una nuova formulazione della spiritualità, di quelli che erano i concetti di Dio, del sacro, di anima, di spirito, di corpo che c’erano prima… Vittorio M. Io apprezzo molto il tuo intervento, come ho apprezzato anche quelli che hai fatto in altri incontri, che mostrano tutti la tua cultura, la tua sensibilità, e poi questa equanimità con cui guardi alle cose, Però non sono d’accordo sulla conclusione che mi sembra di leggere in fondo alle tue parole, cioè un porre tante cose non dico sullo stesso piano, ma in una condizione di coesistenza e di equivalenza, come se una cosa valesse in fondo l’altra, si potesse credere o non credere... Carla S. No, non dico questo...

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Sentimento e ragione

Vittorio M. ...ma guarda che l’hai detto anche altre volte. Tu dici: ci sono tanti aspetti del vero, il mondo contemporaneo ne ha moltiplicato la percezione, non si possono più accettare le limitazioni, i canoni – su questo sono d’accordo – però il passo seguente è che, per finire, uno accetta tutto, mentre a me sembra che, proprio perché viviamo in un mondo di estrema molteplicità e frammentazione, bisogna saperci orientare con nuova forza verso un’unità in cui tutto questo possa un giorno ricomporsi. Molta arte contemporanea esprime la frammentazione, l’angoscia del mondo in cui viviamo e si impegna anche, si direbbe, nel darle enfasi – è molto più facile esprimere il brutto che il bello – ma io vorrei un’arte che esprima invece l’anelito all’unità, che è appunto anelito al bello, al vero.

La crisalide La mia è forse un’istanza solitaria, che può anche portarmi a farmi un’immagine ingenua dell’unità a cui aneliamo, o che può almeno sembrare tale alla cultura corrente ma, come ho fatto con questi Seminari, la difendo in prima persona. Sarò anzi molto incauto, parlando adesso di un mio quadro che, sia ben chiaro, non vuole assolutamente proporsi come esempio di quello che intendo per arte ma, poiché è stato usato come icona del Seminario, mi sembra giusto parlarne almeno negli ultimi dieci minuti di questo. E lo faccio perché, a modo suo, esso può rispondere a quello che tu dici sul corpo, sull’anima e sullo spirito, su come possiamo distinguerli e soprattutto riunirli. Vedo quindi nel quadro tre parti: una in basso, una mediana e la terza in alto. In quella in basso regna l’oscurità, come in una notte di tempesta e, nel buio, si vede una gamba che sembra tesa nello sforzo di avanzare: è la nostra vita fisica, il nostro corpo, è l’oscurità della caverna di cui abbiamo tanto parlato nel Seminario “Arte e Psiche”. Nella parte mediana, vediamo invece una crisalide (il quadro si chiama proprio così) che è l’anima, che è anch’essa un corpo ma più etereo, un corpo celeste che ha in sé l’impronta di un’armonia cosmica, lo si vede dalla spirale... Nella parte alta infine si apre la bianca ala di un angelo, che si libra in un cielo dorato. Consentitemi di leggere in essa lo spirito e di vedere quindi nell’insieme il corpo, l’anima e lo spirito, che compongo-

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L’Arte suprema

no una sola cosa, una sola figura: è la nostra figura, siamo noi che procediamo verso la nostra realizzazione. Così, rispetto a un punto di vista colto, aperto come il tuo, anche appassionato, che unisce una sensibilità religiosa a uno scetticismo intellettuale – è esempio della contraddizione del nostro tempo – io tendo a spingermi verso un pensiero unificante che non teme di esprimersi in un’immagine, e soprattutto verso una fede che in tal modo si costruisce dal profondo di me stesso, e non da una problematica culturale. Non solo sono uniti il corpo, l’anima e lo spirito, ma lo sono anche il pensiero, l’immagine e la fede. Se poi viene qualcuno che mi dice “ma si, hai questa fede ma uno può averne un’altra, se ne possono avere tante e poi, per finire...” rispondo che è invece bello combattere per la propria fede e credere fino in fondo nel proprio amore. Come un uomo che ha una donna non può dire: “si, c’è lei, ma ce ne può anche essere un’altra, e un’altra ancora...” No, amo la mia donna ed è tutto per me.

Fig. 24

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Conclusione Sulla scia di tutte le forme di unione che abbiamo visto – fra sentimento e ragione, femminile e maschile, natura e civiltà, libertà e legge ecc. – siamo giunti a un certo punto ad evocare l’unione fra la materia e lo spirito. Il rapporto fra sentimento e ragione, che ci ha occupati per tutto il Seminario, si ripresenta così nella forma più grande e originaria, in cui la materia della creazione è assimilata al sentimento – pensate alla materia oscura, al caos iniziale – e lo spirito alla ragione, non la ragione umana che ne è un’emanazione ma la coscienza universale. Non è forse dall’unione di questi due principi che è nato il mondo? Molto più in piccolo, anche l’arte ci è apparsa come una forma di unione, analoga a tutte quelle che abbiamo considerato salendo di piano in piano, ma ci sono molte forme di arte, una per ognuno di questi piani, di cui la più alta è appunto quella che ha generato il mondo. Di fronte alla straordinaria bellezza di questo, come non credere che esso non sia la più grande opera d’arte concepibile?...e che l’arte umana può solo cercare di imitare in piccolo e da lontano? È quindi l’unione fra materia e spirito che può essere chiamata “’arte suprema”? No, l’arte suprema è ancora più alta: essa lascia indietro la materia, perché è l’unione fra l’anima e Dio. Anche nel Seminario “Arte e Psiche” avevamo percorso lo stesso cammino, ricordate? Psiche, cioè l’anima umana che, attraverso le diverse fasi della sua esperienza, realizza finalmente la sua divinità, ossia si unisce a Dio. Non a caso lo fa, nel mito, in virtù del suo essere sposa di Eros, l’Amore, quintessenza di Dio. Questa può essere una prospettiva escatologica, si dirà, ma cosa ha in comune col concetto di arte e tanto meno con i diversi modi di fare arte? Diciamo allora che l’arte è essenzialmente “imitazione”, in molti sensi. Una volta si pensava che fosse imitazione del vero, ma era solo uno stadio, riferito a una rappresentazione realistica. L’imitazione del “vero” nel senso più alto della parola è imitazione del gesto creatore, del divino, un’imitazione che si fa con un solo mezzo: l’amore. Amore su tutti i piani: guardando all’amore divino che si effonde nella creazione del mondo, è amore della natura, dell’uomo, della donna, di tutto, fino anche all’amore per il proprio mestiere, per la materia su cui si lavora, per la propria piccola opera. Non c’è vera arte senza amore; mentre la falsa arte è quella in cui questo sacro principio è dimenticato o, ancor

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peggio, è tradito nel suo contrario: dove l’arte è imprigionata nella materia fine a sé stessa, nella mente fine a sé stessa, nella separazione che ne consegue dal proprio cuore e dall’universo intero. Ecco che scopriamo così anche un senso etico dell’arte, certo non pensando che l’arte debba incarnare dei precetti morali o essere giudicata sui loro parametri. Direi anzi che l’arte in sé non ha alcun rapporto con la moralità; la legge estetica a cui obbedisce ne è del tutto indipendente anche se ne è il perfetto equivalente, secondo l’assoluta identità fra il vero, il bello e il buono. È nella fedeltà a questa identità l’etica dell’arte. Fra tutti gli strumenti umani che permettono di avvicinarsi a queste virtù, diciamo che l’arte si distingue per una qualità preziosa che essa possiede in modo eminente: l’intuizione. Essa intuisce ciò che poi è portata ad imitare, immedesimandosi con esso, formandosi a sua immagine. E qui permettetemi di evocare ancora una volta la visione della città ideale che ho sempre nutrito in me, “La città a immagine e somiglianza dell’uomo”, ossia del Dio che l’uomo porta in sé, per concludere con l’auspicio che anche l’arte possa essere ugualmente una”arte a immagine e somiglianza dell’uomo”. Un’arte cioè che sappia riconciliare e riunire gli attributi essenziali dell’uomo che in tutto questo Seminario ci siamo sforzati di mettere in luce: un sentimento sviluppato al punto di poter contenere in sé l’umanità, la natura, il mistero, l’anelito religioso, e una ragione capace di rischiarare tutto questo e di elevarsi al divino. È in questa unione, in questo equilibrio la realizzazione dell’uomo la cui anima si unisce a Dio. Ci si avvicina ad essa in tante forme e anche nell’arte, nei limiti dei vari contesti storici e culturali, ma soprattutto, al di là di questi e di ogni forma transeunte, la si consegue nella nostra stessa anima, quando essa si rende capace di collaborare all’Arte suprema. Grazie

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Sentimento e ragione

Vittorio Mazzucconi

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NOTA BIOGRAFICA

L’AUTORE Vittorio Mazzucconi fa pensare agli uomini del Rinascimento, di cui ha la poliedrica apertura, ma la rinascita che egli propugna con le sue idee e le sue opere è per il mondo di oggi, con un impulso maieutico al suo rinnovamento. Il lavoro sull’uomo a cui si dedica è per lui un servizio che svolge su tanti piani: come architetto, con opere a livello internazionale, come urbanista, elaborando una filosofia della città che sa affrontarne i problemi alla luce di una visione, come pittore e come scrittore. Si vedano i suoi libri La Città a Immagine e Somiglianza dell’Uomo (Hoepli 1967) che ci parla di una metropoli etica per il nuovo millennio, La Città Nascente (Dedalo 1985) dedicata a una “rifondazione” di Firenze, e Il Lavoro Spirituale (Moretti&Vitali 2009) con cui il tema della rifondazione della città si centra nell’intento di ritrovarne in noi stessi il fondamento etico. Uno stesso impegno, insieme artistico, etico e filosofico è espresso nella pittura di Mazzucconi. Ne parla il libro Arte e Psiche, di prossima pubblicazione in questa stessa collana. LA FONDAZIONE MAZZUCCONI La ricerca che è alla base dell’opera di Vittorio Mazzucconi ha portato alla costituzione di una Fondazione, dedicata alla formazione e alla comunicazione di una rinnovata coscienza, che è oggi così necessaria nel mondo. A fronte del predominio nel nostro tempo di una ragione materialistica che ci conduce ad esiti drammatici, Mazzucconi, come ha scritto Riccardo Barletta, “costituisce da decenni un argine morale e culturale”e soprattutto porta avanti l’istanza di una nuova spiritualità. Le iniziative in cui ha preso forma l’attività della Fondazione sostengono così delle opere intese a una finalità di conoscenza e di rinascita, interiore e civile, come la Cittadella della Cultura e l’Arca del Duomo. www.fondazionemazzucconi.it

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IL CONVIVIO

IL CONVIVIO Dal 2009 è’ infine nato il Convivio, una pratica di dialogo filosofico che permette il formarsi e il fluire di un pensiero live, in un contesto di partecipazione. Esso si articola in due Seminari trimestrali all’anno, in primavera e in autunno, lasciando invece al riposo l’estate e l’inverno, e ponendosi così in armonia con il tempo, la natura e noi stessi. Ogni Seminario comprende una decina di incontri, sempre di Mercoledì, nei quali Vittorio Mazzucconi dialoga con i partecipanti. I Quaderni del Convivio costituiscono la registrazione di queste conversazioni, in qualche modo interattive, poiché i lettori possono esserne stimolati a partecipare al dialogo, sia interiormente, sia a mezzo e-mail: [email protected] Ecco lo svolgimento dei Seminari che sono raccolti nella collana I Quaderni del Convivio delle Edizioni Mimesis, con l’eccezione de Il Lavoro Spirituale.

PARLANDO CON BENEDETTO (2007-2008) Il pensiero che si svilupperà nell’insieme del Convivio in forma condivisa con i partecipanti ai Seminari nasce dapprima nel silenzio di un un colloquio interiore. Benedetto è il Santo a cui è dedicata l’Abbazia in cui, durante un breve soggiorno, l’autore ha scritto ogni giorno qualche riflessione su Dio, sulla natura, sull’uomo. Sono riflessioni che vengono da molto lontano, da tutta una vita e dalle sue opere, e che continueranno poi in un lungo cammino, ma il raccoglimento del convento bendettino ha aiutato a incanalarle in una pratica quotidiana, con una spontanea adesione alla regola ora et labora.

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IL LAVORO SPIRITUALE (primavera 2009) Nel crescente disordine del mondo contemporaneo, l’intento del seminario è di contribuire invece alla ricerca di un nuovo orientamento, nella nostra coscienza e nelle nostre opere, al servizio dell’uomo. E’ da questo orientamento che nasce l’impegno e il “Manifesto del Lavoro Spirituale”. Il Seminario è stato articolato in una serie di incontri sulla città, l’architettura, l’arte, accompagnati da una riflessione filosofica diretta a ritrovarne il comune fondamento. Si propugna in particolare l’idea di una “rifondazione” della città, con il rinnovamento dell’uomo che può renderla possibile. Applicandosi a temi così vasti, si è compiuto evidentemente solo un primo sforzo, che richiede di essere proseguito e ampliato, ma che testimonia di una vera e fondante esperienza.

ARTE E PSICHE (autunno 2009) Un successivo approfondimento è stato così dedicato all’arte, identificata però con il tema perenne dell’anima, letto attraverso un altro canale dell’esperienza di Vittorio Mazzucconi: la pittura. Con essa, ci stacchiamo dal mondo effimero dell’arte contemporanea, in gran parte corrotto da ideologie, protagonismo e mercato, per guardare solo alla vita interiore, che è il vero valore dell’uomo. L’arte può così divenire un mezzo per conoscere sé stessi.

SENTIMENTO E RAGIONE (primavera 2010) In un successivo Seminario, il lavoro è proseguito occupandosi in altre forme dell’uomo, della sua anima, delle sue opere, del suo cammino. Si sono investigate le due polarità del nostro essere, fra cui si svolge la nostra vita. Non si è parlato solo di una vita interiore di cui sono protagonisti il cuore e la mente, ma di un insieme molto più vasto e che è stato letto su diversi piani: in primo luogo nel rapporto fra il corpo, l’anima e lo spirito; quindi in quello fra luce e oscurità, vita e morte, femminile e maschile, jin e yang. In un’ulteriore mappa, si sono poi visti dei rapporti analoghi nella storia, nella cultura, nella religione mentre, nel nostro tempo, ci siamo trovati davanti alla rottura dell’equilibrio fra le due polarità. Dobbiamo quindi lavorare per contribuire alla nascita di un nuovo equilibrio, in noi stessi e nel mondo. È il Lavoro Spirituale con cui sono iniziati i Seminari del Convivio, ma dove comincia? In che cosa consiste?

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CONOSCI TE STESSO (autunno 2010) Da quando questo precetto è stato scritto all’entrata del Santuario di Delfo, l’uomo si è interrogato sul suo significato. Esso può essere esplorato su diversi piani, da quello delle nostre caratteristiche personali di cui ognuno può cercare di rendersi conto, a quello più alto di cosa significa essere un uomo. Vuol dire chiedersi: chi è l’uomo? Chi sono io? La risposta che abbiamo cercato non può che aprire altre questioni ancor più profonde, poiché la ricerca di sé è un campo infinito. C’è poi un significato più alto ancora di quello dell’essere uomo, ed è di scoprire “il tesoro degli Dei” che è celato in noi. Il rivelarlo è la vera conoscenza.

CONOSCENZA E AMORE (primavera 2011) Ma è ben diversa la conoscenza ordinaria a cui si applicano le scienze e l’insieme della cultura del nostro tempo. Essa è solo un prodotto della ragione in sé, del suo asservimento alla materia, e in ultima analisi dell’assenza di amore. A somiglianza dell’unione fra corpo e anima, la vera conoscenza deve essere invece un’unione fra la ragione che tutto esplora e il sentimento che ne ascolta e esprime il senso profondo. E’ l’amore che opera questa unione, generando la vita, e lo fa ad ogni livello, fino al livello supremo del ritorno all’unità divina.

COSCIENZA (autunno 2011) Che cos’è la coscienza? Un fatto puramente sensoriale o qualcosa che va al di là, nella sfera dell’anima? Sappiamo poi che ci sono diversi livelli di coscienza, da quello degli animali meno sviluppati o addirittura della materia a quello della coscienza umana ma, se apriamo un’indagine sull’anima, c’è uno stadio ulteriore che possiamo intuire? Oltre ad essere uno specchio per la nostra vita interiore, la coscienza si forma nella relazione, sviluppandosi su un piano etico e civile che, un po’ alla volta, si estende a tutta l’umanità. Esiste infine il contrario della coscienza o la sua assenza: è l’inconscio di cui parla la psicanalisi? è tutto ciò che nel mondo non è cosciente o che noi riteniamo tale? O è anche la nostra abituale condizione di essere in uno stato di sonno, di non consapevolezza, da cui ci dobbiamo risvegliare? Al risveglio, saremo forse coscienti non solo della nostra persona e del mondo in cui viviamo, ma del nostro vero e spirituale Essere. È a questo che conduce il cammino di un vero sviluppo della coscienza.

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A RMONIA (primavera 2012) In un’epoca come la nostra, in cui sono talmente forti le contraddizioni e le tendenze esplosive, in cui l’uomo è dissociato, in cui non si crede più alle grandi visioni della filosofia, della religione, dell’arte, è ben difficile parlare di armonia. Ma è anche necessario farlo, con l’intento di riportare queste divergenze e carenze a un ordine, a un senso. Non sarà certo qualcosa di statico e immutabile come ciò a cui si credeva in passato, ma sarà una spinta a riequilibrare il disordine che ci affligge su tutti i piani, a sanare la rottura soprattutto in noi stessi, a credere nella bellezza, nella verità, nell’amore. Un’utopia? No, parliamo della forza che non solo sa opporsi alla negatività ma sa assumerla e finalizzarla al conseguimento di un nuova e dinamica armonia. È la sua ricerca che ha animato l’insieme dei seminari del Convivio, suggerendo un orientamento interiore, un equilibrio fra sentimento e ragione, fra femminile e maschile; esortando alla conoscenza di sé, allo sviluppo della coscienza; aprendosi all’amore.

IL CORPO E L’ANIMA (autunno 2012) In tutti i precedenti seminari abbiamo parlato molto dell’anima ma ha un senso, oggi, parlare di anima? Nella cultura laica, ossia nel materialismo del nostro tempo, l’anima è negata come è negato Dio. Parliamo allora del corpo, di cui non abbiamo comunque mai diminuito l’importanza: basti ricordare il seminario ARTE E PSICHE di cui è appena uscito il libro che ne raccoglie gli incontri e le immagini, per vedere che il cammino dell’anima si compie attraverso l’eros, ossia l’amore corporale, con tutta la sua forza. Ha comunque un senso distinguere fra corpo e anima? Anche credendo nella loro dualità, è evidente che essa si compone nella realtà della persona, in cui corpo e anima sono indissociabili. E’ un’unione che però si conclude e dissolve con la morte. Come non chiedersi allora se, al di là di questa vicenda, non c’è qualcosa, a un livello più alto e profondo, che si manifesta attraverso di essa e che ne è il fine e l’essenza?

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ESSERE ED ESISTERE (primavera 2013) Ha un senso di distinguere fra “essere” ed “esistere”? Una distinzione che apparirà infondata a chi non crede neppure che ci sia un essere, così come pensa che non ci sia un’anima e un Dio. Una triplice negazione che ci mostra almeno che l’essere, l’anima e Dio sono una stessa cosa, anche se noi ne viviamo l’equivalente solo nell’esistere, nel corpo e nella materia. L’esistere fluisce verso l’essere così come l’essere era fluito nella vita, quando siamo nati. Essere ed esistere sono in mutuo rapporto come lo Yin e lo Yang; e, come questi sono manifestazioni del Tao, così - chiamandolo in termini occidentali l’Uno - penseremo che esso sia al di sopra della loro ciclicità o, a dire il vero, nel suo centro. E’ una dualità che si riscontra in diverse forme, che in tutti i seminari del Convivio sono state esplorate, da “Il corpo e l’anima” a “Il sentimento e la ragione”, fino a “Conosci te stesso” e “Coscienza” in cui la dualità viene riassorbita nell’unità. L’indagine sull’essere porta a riconoscere la nostra essenza ma anche a chiedersi: chi si cela in essa? Sono io, e io chi sono? fino a scoprire nel Sé la nostra vera identità. Il libro ci conduce lungo il cammino che porta a questa identificazione e ci esorta a portarne il frutto nella vita, mettendo in pratica “Il Lavoro spirituale” con cui era iniziato il Convivio: esso è il nostro lavoro pratico e quotidiano ma orientato verso un fine centrato nell’essenza dell’uomo, con la speranza che in tale orientamento sia la possibilità di superare la crisi di un mondo che ha dimenticato l’essere, precipitando nella follia di un esistere votato alla propria distruzione.

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