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Italian Pages 100 Year 2016
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Judit Bárdos Scritti sul primo modernismo del film italiano
Copyright © MMXVI Aracne editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni, Ariccia (RM) ()
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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: febbraio
Ad Agnese e Jimmy
Indice
Capitolo I Immagine, avvenimento, immagine–fatto. Il linguaggio cinematografico del neorealismo italiano Traduzione di J N
Capitolo II Il panorama cinematografico di Roma. Le scene finali di un film di Rossellini e uno di Pasolini Traduzione di M B
.. Rossellini: Roma città aperta, – .. Pasolini: Mamma Roma, .
Capitolo III Pavese, il film e Antonioni Traduzione di M B
.. Idee di Pavese sulla teoria cinematografica, – .. Pavese e Antonioni, – .. Le amiche, – .. Analisi comparativa tra film e romanzo, – .. La gita in spiaggia, .
Capitolo IV Colori caldi e freddi ne Il deserto rosso Traduzione di M B
Indice
Capitolo V Dante e il cinema Traduzione di J N
Filmografia
Bibliografia essenziale
Capitolo I
Immagine, avvenimento, immagine–fatto Il linguaggio cinematografico del neorealismo italiano
Il cinema è un’arte visuale, che da una parte è composta da immagini, dall’altra parte fissa il movimento. In che modo è capace il film di illustrare un evento per mezzo dell’immagine e del movimento? A questa domanda semplificatrice troviamo senz’altro una risposta semplificatrice: le singole immagini formano una serie di immagini per mezzo del taglio, mentre la serie di immagini rievoca nello spettatore l’evento. Se vediamo un bersaglio, poi una pistola puntata su di esso, percepiamo che ci sarà uno sparo. Nella cinematografia classica e in quella di massa lo sparo si realizza (mentre nel cinema moderno, cominciando da Jean–Luc Godard, non sempre). Una serie di immagini e di intervalli, costruita dal montaggio: ciò forma l’immagine dell’evento. (Le immagini sono separabili e distinguibili. Sappiamo quando finisce la prima e quando comincia la successiva — ciò è proprio quell’intervallo di cui ha scritto per primo Dziga Vertov.) Nel cinema moderno (cominciando dalla nouvelle vague) le immagini già non sono separabili l’una dall’altra, e anche lo spazio e il tempo si costruiscono in modo diverso. Si testimoniano cambiamenti radicali, comparabili a quelli
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che si effettuano — in confronto al romanzo classico — nel romanzo moderno ( James Joyce, Marcel Proust). Le storie si frammentano, si mescolano realtà e sogno, immagini di ricordi e di fantasia, si annulla la posizione onnisciente dell’autore, cambia il tipo della narrazione, ecc. Nel presente studio vorrei mostrare esclusivamente il modo in cui nell’arte cinematografica si cambiano l’immagine e la composizione delle immagini. In tale “processo di modernizzazione” il punto saliente è il neorealismo italiano, di cui il precursore diretto era Orson Welles, e la cui condizione tecnica era la possibilità di utilizzare la profondità dell’immagine. Vediamo un montaggio classico di immagini. L’immagine dei soldati che camminano verso il basso regolarmente, uniformemente, con ritmo, viene seguita da immagini di persone che si muovono verso l’alto irregolarmente; nello stesso momento la camera scompone con regolarità l’immagine del movimento e lo spazio, tuttavia l’evento illustrato e il movimento sono ricostruibili e si può seguire anche il cambiamento dall’ottica e del piano (ossia della distanza dall’oggetto), inoltre rimane chiaro che tutto ciò si vede da un’ottica esteriore. È univoco a chi è puntata l’arma. Questo esempio è tratto da La corazzata Potemkin (film di Sergej Ejzenštejn); ovviamente il film costruito sul montaggio è in un certo senso un caso estremo. Ho tratto questo esempio da una parte perchè è stato analizzato anche da Deleuze come un caso classico dell’immagine–azione, della grande forma, dall’altra parte perchè si possono trarre esempi innumerevoli della composizione tradizionale . Tratto dal film La corazzata Potemkin di Eisenstein, del (dalla sequenza della scala di Odessa).
. Immagine, avvenimento, immagine–fatto
di immagini (non necessariamente dal cinema muto o dal primo cinema sonoro, dove i confini delle correnti della storia del cinema sono tagliati da certi generi e da determinati stili di registi). Si possono, dunque, rievocare facilmente delle scene (anche persino da un film giallo) in cui in primo piano (PP) è rilevato un oggetto che in seguito avrà una certa importanza (per esempio la maniglia di una porta che presto si aprirà), o in cui in primissimo piano (PPP) è rilevata una parte di un viso (l’angolo della bocca che si contrae, il ciglio dell’occhio che batte), e in cui in seguito vengono mostrati altri oggetti o particolari, poi si vede in piano americano (PA) o in campo lungo (CL) il luogo intero della scena, per es. una stanza, e in base a tutto ciò siamo in grado di ricostruire lo spazio e l’azione. È dello stesso tipo la composizione tradizionale del campo–controcampo (in cui la camera mostra susseguentemente il primo, poi il secondo protagonista della scena). Vediamo ora una scena del Quarto potere di Orson Welles. Secondo l’analisi di Andrè Bazin: Lo schermo si apre sulla camera di Susan vista da dietro il comodino. In primo piano, incollato alla macchina da presa, un enorme bicchiere che occupa quasi un quarto dell’immagine, con un cucchiaino e un tubetto di medicine aperto. Il bicchiere nasconde quasi completamente ai nostri occhi il letto di Susan, immerso in una zona d’ombra [. . . ]. La camera è vuota. Proprio in fondo a questo deserto privato: la porta, resa ancor più lontana dalla falsa prospettiva dell’obiettivo. E, dietro questa porta, dei colpi. Senza aver visto nient’altro che un bicchiere e udito due rumori su due piani sonori diversi, abbiamo capito di colpo la situazione: Susan si è chiusa in . Tratto dal film intitolato Quarto potere di Welles, del (il tentativo di suicidio di Susan).
Scritti sul primo modernismo del film italiano camera per avvelenarsi; Kane cerca di entrare. La struttura drammatica della scena è essenzialmente basata sulla distinzione di due piani sonori [. . . ]. Tra questi due poli, tenuti a distanza dalla profondità di campo, si stabilisce una tensione [. . . ]. La scintilla tra i due poli drammatici dell’immagine è scoccata.
Secondo il metodo tradizionale la stessa scena sarebbe stata segmentata in cinque o sei inquadrature almeno: inquadratura del bicchiere e della medicina, di Susan sudata e rantolante, l’immagine della porta, il marito che sta rompendo la porta, la maniglia agitata dal marito — dunque si susseguirebbero i primi piani degli oggetti che il regista vorrebbe rilevare, creando la suspense con un breve montaggio alternato. Continua Bazin: “la sequenza classica, composta da una serie di inquadrature che analizzano l’azione secondo il modo in cui il regista vuole farcene prendere coscienza, si risolve qui con una sola e unica inquadratura. Così, al limite, il dècoupage in profondità di campo di Welles tende alla scomparsa della nozione di inquadratura, in un’unità di che si potrebbe chiamare pianosequenza.” Nel nostro caso invece tutto ciò si vede da uno stesso punto di vista. Anche Welles utilizza un montaggio astratto, metaforico o simbolico, per riassumere lunghi periodi dell’azione, utilizza il montaggio parallelo (proprio nella scena anteriore a questa rievoca con questo metodo la carriera di cantante e le sofferenze, durate ben tre anni, di Susan), ma applica il dècoupage in profondità nei momenti drammatici in cui è importante che gli eventi siano rispettati nella loro integrità? Secondo Bazin qui si tratta di un caso di estremo realismo: tale realismo . A. B Orson Welles, Editrice di Grafica Santhianese, Santhià , Traduzione di Elena Delgrada, pp –
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ridà il peso e la densità della presenza degli oggetti, non permettendo la separazione dell’attore dall’apparato scenico, degli oggetti dallo sfondo, della maniglia dall’intera porta — ossia non rilevando col primo piano un oggetto dalla totalità del luogo, e così della scena. Ciò è anche un realismo psicologico, che colloca lo spettatore tra le circostanze reali della percezione e così lo spettatore percepisce l’ambivalenza ontologica della realtà. In questo momento della storia del cinema, nel , il film tuttavia non è composto interamente da piani sequenza come sarà il caso nei film di Alain Resnais, Michelangelo Antonioni e di Miklós Jancsó; è ancora considerata significativa la differenza: nei momenti drammatici è importante mantenere l’unità degli eventi, e per questo in questi casi “è vietato il montaggio”. Ovviamente anche il montaggio ha il proprio ruolo.“Al posto di un découpage ibrido, dove l’evento concreto viene dissolto per metà nell’astrazione dei cambiamenti d’inquadratura, abbiamo due modalità della narrazione essenzialmente differenti. Lo si capisce appieno quando, dopo la serie di sovrimpressioni che riassumono tre anni del supplizio di Susan[...] lo schermo ci fa brutalmente sprofondare nel dramma dell’avvelenamento di Susan.” Bazin si richiama qui a Jean Paul Sartre che secondo lui “ha sottolineato molto a proposito che tutto ciò rappresenta l’equivalente della forma iterativa inglese” : «Per tre anni [egli] la costrinse a cantare su tutti i palcoscenici d’America. L’angoscia di Susan cresceva aumentava, ogni spettacolo era per lei un supplizio, un giorno non ce la fece più. . . : avvelenamento di Susan» . L’altra considerazione storica, che in questo luogo può
. Ibidem p.
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avere importanza: nel Bèla Balázs riteneva che la più grande possibilità dell’arte cinematografica fosse — contrariamente al caso dello spettatore teatrale — il cambiamento della distanza e dell’angolo visivo dello spettatore cinematografico rispetto all’oggetto. Negli anni quaranta si ristabilisce la composizione drammatica (parallelamente ai cambiamenti che si sono effettuati nelle caratteristiche di stile, nei principi della forma, e nelle possibilità tecniche). Oltre a Welles c’erano anche altri precursori della composizione moderna dell’immagine: per es. il “realismo poetico” francese, specialmente Renoir, d’altro canto Hitchcock, ecc. Secondo l’evaluazione di Bazin, questo metodo della composizione dell’immagine stimola lo spettatore ad una maggiore attività: non è il punto di vista del regista, nè quello della cinepresa, che rileva ciò che è importante, invece dagli eventi presentati come un’unita lo spettatore deve rendersi conto del momento in cui accade qualcosa di importante, e deve pure comprendere, di che cosa si tratti. Quando si muove un oggetto, quando batte il ciglio dell’attore, quando si contrae una parte del viso? Nel neorealismo italiano tale principio di composizione viene esteso: la persona e l’ambiente, l’oggetto e il luogo, l’apparato scenico e l’attore assumono ormai la stessa importanza, e in tale senso il film non è il corrispondente del dramma teatrale, ma lo è del romanzo moderno. Le cose stanno una accanto all’altra, accadono susseguentemente, ma non conseguono una dall’altra, non c’è una relazione di causalità tra di loro. Tra gli elementi di simile rilevanza è lo spettatore che deve scegliere, evaluare, anzi — a volte — . B. B, Il film, trad. di F. Di Giammatteo e G. Di Giammatteo, Einaudi .
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ricostruire lo stesso evento. Ciò si vede bene per es. nel Paisà (di Rossellini) del , che in modo eccezionale è una serie di novelle, e che mostra in sei episodi la liberazione dell’Italia. I luoghi, le città hanno la stessa importanza che i protagonisti (al plurale, giacchè in questo caso non si può parlare di un protagonista). Nell’episodio di Firenze una donna sta passando attraverso una città occupata dai tedeschi e dai fascisti italiani. Vuole incontrare il suo amore, il capo dei partigiani. E accompagnata da un uomo, che a sua volta cerca la propria moglie e il figlio. La camera di ripresa li segue con indifferenza, senza distinguerli dal resto delle persone. Allo stesso tempo ci rivela tutte le difficoltà e i pericoli con cui devono confrontarsi. Mostra diversi eventi, luoghi e persone. L’avventura dell’uomo e della donna non si lega strettamente a quella degli altri protagonisti. Tutto ciò è solo una parte del dramma della liberazione di Firenze. La donna solo per caso viene al corrente del fatto che colui che cerca già non vive. L’attenzione non si concentra mai sull’eroina. L’episodio finale del Paisà si svolge nella regione deltizia del Po, e mostra le ultime ore dei partigiani circondati nel fango. Tale scena è difficilmente comprensibile non solo a prima vista, ma anche avendo delle conoscenze più profonde sul film. Per i tagli e le reticenze solo per mezzo di un certo sforzo intellettuale si può ricostruire, cosa sia successo in realtà. Non vediamo l’arma puntata sul bersaglio, nè vediamo chi punta l’arma, vediamo solo la famiglia e la masseria, più tardi vediamo la masseria con i cadaveri e con l’unico superstite, il bambino che piange. Si vede un canneto che sembra infinito, il crepitio della fu. B. B,Il film.Traduzione di F di Gianmatteo, G. di Gianmatteo, Einaudi, Torino .
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cileria, cadaveri, pianto infantile. Dobbiamo comprendere da questi elementi che i tedeschi hanno fucilato i pescatori e le loro famiglie per aver dato cibo ai partigiani e agli americani che collaboravano con loro. Bazin analizza come segue la scena. “L’unità del racconto cinematografico in Paisà non è l’‘inquadratura’, punto di vista astratto sulla realtà che si analizza, ma il ’fatto’. Frammento di realtà bruta, in sè stesso multiplo ed equivoco, il cui ’senso’ viene fuori solo a posteriori grazie ad altri ’fatti’ tra i quali li spirito stabilisce dei rapporti. Senza dubbio il regista ha ben scelto questi ’fatti’, ma rispettando la loro integrità di ’fatto’. Il primo piano del pomo della porta al quale facevo allusione poco fa era meno un fatto che un segno isolato a priori e dalla macchina da presa, e che non aveva più indipendenza semantica di una proposizione all’interno della frase. È il contrario della palude o della morte dei contadini. Ma la natura dell”immagine-fatto’ non è solo quella di stabilire con altre ’immagine-fatto’ i rapporti inventati dallo spirito. Sono queste in qualche modo le proprietà centrifughe dell’immagine, quelle che permettono di costituire il racconto, Considerata in sè stessa, non essendo ogni immagine che un frammento di realtà anteriore al senso, tuttala superficie dello schermo deve presentare una uguale densità concreta. È ancora il contrario della messa in scena tipo ’pomo di porta’ in cui il colore dello smalto, lo spessore dell’incostazione sul legno all’altezza della mano, la brillantezza del metallo, l’usura del catenaccio sono altrettanti fatti perfettamente inutili, dei parassiti concreti dell’astrazione che dovrà eliminare. In Paisà (e ricordo che con questo alludo, a vari livelli, alla maggior parte dei film italiani), il primo piano del pomo di porta sarebbe sostituito dall”immagine-fatto’ di una porta di cui tutte le
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caratteristiche concrete sarebbero ugualmente visibili. per questa stessa ragione la direzione degli attori starà attenta a non dissociare mai la loro recitazione dall’ambiente o da quella degli altri personaggi. Lo stesso uomo non è che un fatto fra gli altri al quale nessuna importanza privilegata può essere data a priori. Per questo i cineasti italiani sono i soli che riescano a fare delle scene di autobus, di camion o di carrozza ferroviaria, proprio perchè esse riuniscono una particolare densità di ambienti e di uomini, e perchè in esse sanno descrivere un’azione senza dissociarla dal suo contesto materiale e senza smorzare la singolarità umana nella quale essa è embricata; la sottiglezza e la morbidezza dei movimenti della loro macchina da presa in questi spazi stretti e ingombri, la naturalezza del comportamento dei personaggi che entrano in campo fanno di queste scene il pezzo di bravura per eccelenza del cinema italiano” . Da ciò nasce una nuova sensazione dello spazio. Il paesaggio (e l’illuminazione) esercitano lo stesso effetto suggestivo sullo spettatore, che il gioco “dell’attore”, l’azione o il comportamento umano. Le immagini, rievocanti l’Inferno di Dante, dell’episodio siciliano del Paisà, che si svolge nell’oscurità, tra i sassi e nelle grotte, inoltre l’immagine accennata del fango, col suo grigiore, col suo orizzonte mostrato dà un angolo quasi immutevole, da un effetto forse ancora più suggestivo e costante. Il Ladri di biciclette (del ) è l’opera maestra di un’altra corrente del neorealismo italiano. Non c’è un atto significativo, non ci troviamo nè un conflitto drammati. Tratto dal film Paisà (del ) di Rossellini (dall’ultimo episodio, nella regione deltizia del Po). . Tratto dal film di De Sica Ladri di biciclette (dalle scene sulla strada, al mercato di biciclette e nella camionetta).
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co, nè il patos (non solo nel modo dell’illustrazione, ma neanche negli stessi eventi illustrati contrariamente ai film illustranti la guerra e la resistenza, come per es. il Roma città aperta di Rossellini). Siamo gli spettatori di eventi insignificanti, banali e quotidiani. Essi non sono dei segni di qualcosa neanche in questo tipo di film, ma conservano il proprio peso, la propria peculiarità e integrità. L’uomo e il ragazzino girano per la città tutto il giorno, cercando la bicicletta. La storia non ha un arco drammatico. L’intreccio è quasi omesso. Il principio ordinatore degli eventi è il caso. Pioggia, persone per la strada, al teatro, dalla divinatrice, al ristorante, nel quartiere dei poveri. Moltissime persone. Moltissime biciclette incatenate per la strada, in attesa del loro proprietario, e moltissime biciclette al mercato, in attesa di acquirenti. ciò rende incerto lo spettatore: è la persona inseguita dal protagonista quella che aveva rubato la bicicletta? Si può riconoscere tra tante biciclette proprio quella rubata? Si formula anche la domanda (anche se è di importanza secondaria), se si può vedere bene in tale pioggia? E proprio quest’incertezza che rende moderno il film di De Sica. Il regista non decide se il ladro fosse quello, che è stato creduto tale dal protagonista; in questo modo neanche lo spettatore può deciderlo. Il regista non sa tutto, così neanche lo spettatore sa tutto. Accanto ai piani sequenza estesi nel tempo è proprio quest’oscurità, questo galleggiamento che caratterizza l’arte cinematografica moderna. Non sapremo mai se qualcosa fosse accaduto l’anno scorso a Marienbad. Si confondono le immagini della realtà, del ricordo e dell’immaginazione. Dunque, questo galleggiare compenetra l’immagine della città, della strada nel Ladri di biciclette. Nonostante i luoghi romani siano ben riconoscibili, e tutto sia concreto e realistico, lo stesso sentiamo come uno “spazio
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galleggiante” ciò che vediamo (per l’ulteriore sequenza di immagini sulla pioggia). Il galleggiamento, il vagabondaggio è una caratteristica della cinematografia moderna anche in un altro senso (non solo nel senso anteriore cioè in quello dell’incertezza crescente). L’azione si svolge tra determinate condizioni di spazio e di tempo, però i protagonisti del film dell’arte moderna girano senza scopo (come le eroine vaganti di Antonioni), oppure al contrario: trottolano. Non eseguono un movimento diretto ad un determinato scopo, svolgentesi in uno spazio e tempo concreto. Il mondo, ossia il contesto di effetti visivi e sonori, in cui si svolge l’azione, è più importante dell’azione stessa. Tale contesto visivo–sonoro è lo spazio–tempo in senso astratto, lo spazio galleggiante, che già non può essere raffigurato in modo reale (al massimo nella soggettività, come la parte di una coscienza, come l’immagine che appare in una coscienza), giacchè ormai non è determinata dalla logica dell’azione. L’inizio di tale tratto moderno è pure da ricercare — anche in senso concreto e storico — nel neorealismo, dato che Fellini e Antonioni hanno frequentato la “scuola” del neorealismo. Abbiamo già visto, quale ruolo centrale aveva attribuito Bazin (un classico della teoria del cinema, il fondatore teoretico della novelle vague francese) al neorealismo italiano. Come è la situazione oggi al rispetto? Una delle teorie moderne del cinema più rilevanti, quella di Deleuze, vede pure nel neorealismo il punto di partenza di quella forma di film, in cui si separa l’azione dalla rappresentazione di essa, in cui l’azione è condotta in modo diffuso, in cui non c’è azione e non c’è protagonista, e in cui il passare del tempo è integrato nella composizione del film. Nella sua teoria basata su quelle di Bergson, Peirce, ed Ejzenstejn stabilisce un rapporto tale tra il film classico e quello moderno che — è analogo a quel-
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lo stabilito da Friedrich Schiller tra la poesia naiva e quella sentimentale. Le immagini–movimento (immagine–ricezione, immagine–azione, immagine–affezione) si trasformano in immagini–tempo. Nel periodo classico i registi erano interessati innanzitutto nelle questioni del movimento e dello spazio, mentre nella modernità si occupano di più delle questioni del tempo. L’immagine–azione si sta decostruendo, e in tal modo cambia anche la percezione e l’affezione. Nasce la “struttura cristallina” dell’immagine–tempo, che è piuttosto di carattere seriale e non crea una forma organica di composizione. Al centro si pone il tempo, che nella sua durazione passa. La crisi del film costruito in base ai principi dell’azione e del movimento, suggerisce Deleuze, si manifesta prima nel neorealismo italiano e, in seguito, nella nuova ondata francese. La realtà frammentaria e dispersa del Paisà rende questionabile la forma tradizionale dell’immagine–azione. Non esiste più un vettore che possa unire in una sequenza compatta gli avvenimenti nel Ladri di biciclette. È sempre possibile che la pioggia interrompa o dirotti la ricerca casuale e il vagare dell’uomo e del ragazzino. La pioggia italiana diviene un segno del tempo vuoto e dell’interruzione sempre possibile. Nelle città distrutte, o in quelle che sono in corso di ricostruzione, il neorealismo diffonde gli spazi galleggianti, il tessuto canceroso e senza carattere delle città, le aree indeterminate che sono in netto contrasto con gli spazi determinati del realismo antico. Le sequenze di Rossellini e di De Sica sono, nello stesso tempo, i segni della crisi del film classico e gli indizi della nascita del film moderno. Traduzione di József Nagy Revisione linguistica di Júlia Csantavèri
Capitolo II
Il panorama cinematografico di Roma Le scene finali di un film di Rossellini e uno di Pasolini∗
.. Rossellini: Roma città aperta Alla fine del film Roma città aperta , sulla piana erbosa antistante la caserma, si sta preparando l’esecuzione di Don Pietro, il prete collaboratore della Resistenza. Nella penultima scena vediamo l’esecuzione stessa. È il cinico ufficiale tedesco a sparare in quanto gli Italiani non sono disposti ad uccidere nemmeno sotto ordine. Il campo che mostra il corpo di Don Pietro legato alla sedia, improvvisamente viene sostituito da un controcampo: appare un gruppo di bambini che dall’altro lato del recinto rotto, con dei fischi, cercano di attirare l’attenzione del prete alla loro presenza e al loro compatimento. Vediamo più volte in campo–controcampo il prete e i bambini. I bambini dopo lo sparo, vedendo il cadavere di Don Pietro, abbassano tristemente il capo e se ne vanno. La macchina da presa ∗ La prima versione di questo saggio fu pubblicata nel volume L’Italia e la cultura europea, Anna Kliemkiewicz, Maria Malinowska, Alicja Paleta e Magdalena Wrana (a cura di) Franco Casati, Firenze, , pp. –. . Roma città aperta, ; regista: Roberto Rossellini, sceneggiatore: Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini, operatore: Ubaldo Arata, personaggi: Anna Magnani (Pina), Aldo Fabrizi (Don Pietro), Marcello Pagliero (Giorgio Manfredi).
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li segue da dietro, poi, il panorama si amplifica. Appare la veduta di Roma ripresa in campo totale. Ormai è questa l’immagine che la cinepresa avvicina sempre di più e offre come sfondo al gruppo di ragazzi. Questi alzano la testa, uno più grande pone il braccio sulle spalle di uno più piccolo. L’immagine si riduce a campo medio, mentre, il complesso monumentale di Roma, crescendo sempre di più, si avvicina prospetticamente. Si nota la cupola della Basilica di San Pietro. Questa è la scena finale del film (Figura .). (Ma osserviamo anche ciò che i critici fin ora non hanno ancora messo in rilievo: il prete si chiama Pietro, e come la storia si conclude con la sua morte, allo stesso modo, sotto un aspetto visivo, il film viene chiuso dall’immagine della cupola. Nel contempo, il prete che ha subito il martirio, riceve la santità dalla Basilica di San Pietro. Don Pietro viene giustiziato per aver collaborato con l’ingegnere e il tipografo, ambedue comunisti e partecipi alla resistenza antifascista. Egli divenne loro compagno perchè, negli ultimi giorni di vita, l’imperativo della solidarietà fu più importante per lui di qualsiasi altra cosa. I bambini in ogni loro atto imitano gli adulti. Il film presenta spesso questo fenomeno in forma umoristica: per esempio, pur costituendo un gruppo e compiendo coraggiose azioni partigiane, temono lo schiaffo paterno. Hanno imparato la solidarietà, come lo possiamo notare nell’ultima scena del film quando, con dei fischi, danno segno di essere là, dietro il recinto e si allontanano mettendo le braccia l’uno sulle spalle dell’altro. Oltre ai combattenti contro i nazisti (l’ingegnere Manfredi, il tipografo Francesco, Pina, la sua amata, e Don Pietro) il vero protagonista del film — come è doveroso nel caso di un vero film neorealista — è il popolo stesso:
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Figura .. Roberto Rossellini, Roma città aperta: scena finale.
i membri di una famiglia (i genitori di Pina e sua sorella minore), i vicini di casa, gli inquilini del condominio, donne, anziani, ragazzi. Infatti, il film non dispone di alcun protagonista inteso nel senso tradizionale della parola. In un senso più lato però, il protagonista del film è la città di Roma. La scena iniziale stessa mostra Roma. Il film inizia con un campo totale. Già durante i titoli di testa, sullo sfondo, si possono osservare i noti edifici di Roma, si vedono i tetti delle case e in posizione centrale, la cupola della Basilica di San Pietro. La cinepresa soffermandosi sulla veduta di Roma, con un’inquadratura dall’alto, offre una panoramica della città. Siccome il panorama filmico fa sempre parte dell’immagine mobile, non lo possiamo interpretare come immagine fissa. Eppure le immagini in evidenza — quindi quelle iniziali e finali — in modo sug-
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gestivo vengono fissate nella memoria dello spettatore e dispongono di un ruolo importante sia nella realizzazione spazio–temporale, sia nella generalizzazione del pensiero: infatti, amplificano cronologicamente quanto visto. Man mano che ci si avvicina alla scena finale, diminuisce la velocità di alternanza dei piani e lo spettatore si appressa a percepire un’immagine fissa. Le immagini iniziali e finali hanno un ruolo importante anche nella narrazione: dalla generalità dell’immagine iniziale (di solito ripresa in campo totale) si focalizza sul luogo concreto, dove si entra nella trama. Poi, abbandonando i personaggi e il sito, si rivede di nuovo il paesaggio (in genere ripreso ancora una volta in campo totale) dove la storia ha avuto luogo in tutta la sua complessità e astrattezza. In questo film di Rossellini, la soluzione scelta risulta ancor più specifica del solito e per questo sostengo che la protagonista dell’opera sia Roma stessa. A questo allude anche il titolo: Roma città aperta, senza virgole, ossia la “città aperta” presente nel titolo non ha un ruolo di specificatore. Proprio per la presenza del Vaticano, i Tedeschi e gli Alleati hanno dichiarato Roma “città aperta”, ovvero fissarono che il suo territorio doveva essere esente da qualsiasi tipo di transito o attraversamento da parte dei rispettivi eserciti. Così la “città aperta”, come anche la “città eterna”, per antonomasia, indica Roma stessa, il quale dato aggiunge una nuova accezione alla polisemia del film. L’accento, quindi, cade soprattutto sulla “città di Roma”. Nel neorealismo, il paesaggio gode di un’importanza estrema al punto di ottenere un’esistenza pari a quella dei personaggi. E questo vale tanto per il paesaggio cittadino, quanto per quello naturale (e basti rievocare ivi qualche immagine di una strada di un paesello o un sito di una metropoli da uno dei film noti). La sua funzione non
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esaurisce nel rispecchiare l’umore dei personaggi (come nei film muti scandinavi, nei film espressionisti tedeschi o nella produzione filmografica italiana del primo dopoguerra). Nella nota scena di Paisà di Rossellini, il Po scorre tranquillo, lento e indifferente, pur dovendo trasportare il cadavere di un partigiano verso la folla impaurita e minacciata stante irrequieto sulla riva. Secondo Andrè Bazin, in questo meraviglioso episodio finale, l’acqua fangosa del delta del Po, partecipa attivamente alla nascita del dramma . Poichè l’orizzonte si trova sempre alla stessa altezza e, come tale, in ogni angolazione del film l’acqua e il cielo vengono presentati nella stessa proporzione, una caratteristica del paesaggio acquista un ruolo particolare. Ciò che vediamo, corrisponde ai sentimenti soggettivi degli abitanti “la cui vita dipende dal compiuto o mancato avvento dello spostamento di angolazione rispetto all’orizzonte” . Anche in Ossessione di Luchino Visconti, la pianura arsa dal sole o la sabbia costiera costituiscono lo sfondo neutrale e non la proiezione delle passioni dei personaggi. Questa nuova relazione tra il modo di rappresentare il paesaggio e la visione del mondo, è stata analizzata da Carlo Lizzani. Egli dimostrò che mentre nei film nati sotto il fascismo, la ripartizione verticale (le masse alzano il capo per guardare il duce) rappresenta il carattere gerarchico della mentalità fascista, nei film neorealisti domina il piano orizzontale. (L’immagine della Pianura padana in Ossessione o l’immagine del Po in Paisà sono atte a giustificare questo fenomeno). Inoltre, mentre i film dell’epoca fasci. A. B, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione, in Idem, Che cos’è il cinema? (raccolta di saggi scelti e tradotti da Adriano Aprà), Garzanti, Milano . . Ibidem.
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sta preferiscono le angolazioni pittoresche e romantiche, nonchè le immagini naturali che rispecchiano gli stati d’animo dei personaggi, come il mare in tempesta con le sue onde enormi, le opere neorealiste si distinguono per le angolazioni, le impostazioni della cinepresa, l’orizzonte e l’illuminazione conformi alle situazioni della vita reale. È un modo di rappresentare che mostra l’uomo agente dinnanzi ad uno sfondo aderente all’ambiente o addirittura indifferente e con il quale lo spettatore riesce ad identificarsi molto meglio rispetto a quanto riusciva a farlo con lo spettacolo prodotto dalle riprese verticali e dagli spostamenti della gru. L’evento rilevabile sullo sfondo, resta autonomo e non si scioglie nell’avvenimento manifesto in primo piano . Ritornando alla scena finale di Roma città aperta, bisogna affermare che — come tra tanti altri l’ha sottolineato anche Peter Brunett , uno dei monografisti di Rossellini — si tratta di un’opera decisamente polisemica. Cosa può significare nella scena dell’esecuzione di Don Pietro — mentre il prete sente i fischi dei ragazzi e in seguito essi, sostenendo l’un l’altro scendono il colle avviandosi verso il centro della città — la comparsa della cupola della Basilica di San Pietro? Cosa significa che lo sfondo del piano finale del film è il panorama di Roma dominato dalla cupola? Innanzitutto si deve considerare che in questo piano, la natura dominante della cupola indica la natura dominante della Chiesa: ovvero che la speranza dell’Italia futura è nella Chiesa. Ma nel contempo risulta palese che anche . V. C. L, (a cura di) — P. Tartagni, (regia), Antologia del Cinema Italiano. Il neorealismo: cinema italiano tra guerra e dopoguerra, documentario, Istituto Luce, Italoneggio Cinematografico, s. a., Roma. . V. P. B, Roberto Rossellini, New York: Oxford University Press , p. .
. Il panorama cinematografico di Roma
la basilica faccia parte del complesso urbanistico romano, quindi la Chiesa stessa, a sua volta, non può essere altro che un elemento costituente della società italiana. È difficile sottrarci, inoltre, all’impressione apocalittica, offerta dalla scena finale del film che, com’è stato già accennato, può suscitare anche l’esatto contrario, considerando che i ragazzi sono il simbolo di un’Italia che verrà. Sono invalidi e depressi, è vero, ma si aiutano a vicenda mostrando che sono loro i garanti di una futura società solidale. Infine, chi potrebbe mai dimenticare che gli orrori rappresentati nel film, avvennero tutti nei pressi di quella cupola? La presenza grave di quella cupola ricorda il silenzio, la distanza, l’estraneità e l’indifferenza della Chiesa dinnanzi al martirio di milioni di persone (tra i quali anche tanti preti simili al Don Pietro rappresentato nel film). In ogni caso, interpretando la scena finale nell’uno e nell’altro modo, essa termina con il piano lungo della veduta evocativa di Roma che offre le possibilità di esegesi già elencate. Ovvero che è Roma la protagonista del film e che a sua volta — come una sineddoche — rappresenta l’Italia intera. È questo ciò che suggerisce il film, ma anche il fatto che secondo Brunett è da considerare decisivo: ossia che la città, come uno sfondo visuale, è sempre presente. È similmente interpretabile anche la scena iniziale. Dopo l’immagine dell’intera città, ripresa in campo totale, la cinepresa ci conduce immediatamente nel centro storico e mentre Manfredi, in fuga dai Tedeschi per i tetti, viene ripreso da un’inquadratura normale, i Tedeschi che lo inseguono vengono ripresi in plongèe, in modo allineante, a vista d’uccello. Quest’inquadratura mostra che essi sono degli intrusi. In seguito, la macchina da presa mostra una cartina in una camera, si fa una carrellata in dietro, e vediamo Bergmann, l’ufficiale nazista nel suo studio mentre
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esamina la carta di Roma. Altrove Bergmann guarda le foto di appartamenti romani. Essendo Tedesco, si trova separato dalla vita organica della città. Non uscendo mai dal suo studio, può stabilire solo un rapporto secondario, artificiale e astratto con il luogo, in quanto alimentato solo da cartine e da fotografie. Roma è eterna, sono i nazisti ad esserci provvisoriamente. È questo che propone l’interpretazione di Brunett. È palese la solidarietà del gruppo di ragazzi e l’importanza di tutto ciò. Risulta indecifrabile invece, se la Basilica di San Pietro sia atta a rappresentare Roma, l’Italia intera, o principalmente la Chiesa. Si tratta forse di una rilevante allusione simbolica, o di un semplice dato di fatto? In effetti a Roma, la cupola si vede ovunque. La finale del film, quindi, resta aperta e alcuni quesiti rimangono irrisolvibili. L’interpretazione riguardo la natura eterna di Roma e la provvisorietà del dominio nazista vengono appoggiate da un film più recente di Rossellini, Era notte a Roma, del , che a sua volta si svolge sotto l’occupazione tedesca e che, oltre a mostrare il centro storico, presenta dei totali con la veduta di Roma. Non si può ignorare inoltre, che i giovani si dirigono dalla periferia squallida, deserta e ridotta in rovine, verso il centro della città aiutandosi a vicenda. L’immagine suscita la loro disponibilità ad accogliere l’avvenire e la speranza, come è solito nel caso dei film che mostrano dei giovani nelle scene finali. Nel nostro caso questo significato viene rafforzato dal fatto che il capogruppo, il ragazzo zoppo, si chiama Romoletto, che può essere visto come il nuovo fondatore di Roma in un prossimo futuro. Non sono quindi la zoppaggine, la storpiatura, ma neppure la logoratezza dei ragazzi ad essere significativi, ma la speranza del nuovo inizio e il sentimento di solidarietà sorti in loro grazie alle vicende
. Il panorama cinematografico di Roma
trascorse. Quest’interpretazione ci risulta comoda anche perchè la solidarietà, com’è ben noto, è uno dei pensieri fondamentali del neorealismo. Sono simili le posizioni dell’altro monografista di Rossellini, Peter Bondanella. Il film, sottolinea, si trova sul filo del rasoio tra il comico e il tragico. È comico per esempio che Don Pietro per cospirare debba fare ricorso ad una leggera violenza per far tacere un uomo anziano (in effetti lo deve colpire con una crepiera perchè quello stia zitto e riesca ad interpretare credibilmente il ruolo del moribondo). Tutto ciò però precede di un solo minuto l’episodio in cui Pina viene fucilata davanti agli occhi del figlio, Marcello. (Quest’ultima è una scena leggendaria del film, nonchè la più famosa, nota come “la corsa di Anna Magnani” in cui i Tedeschi portano via Francesco, e Pina — Anna Magnani — rincorre disperata il camion per poi cadere colpita da una pallottola). Il gruppo di ragazzi rispecchia in maniera comica gli adulti aderenti ai gruppi della resistenza. Romoletto, per esempio, risulta comico nel ripetere frasi marxiste di cui ignora il significato. Siccome il film si trova continuamente in bilico tra l’umoristico e il tragico, e con questo suo carattere influenza i sentimenti degli spettatori, anche la scena finale va osservata entro tali quadri. L’immagine del corpo torturato e ucciso di Manfredi, iconograficamente evoca il Cristo crocifisso e in questo modo anche l’ultima sequenza ci rinvia alla resurrezione e alla rinascita, proprie del cristianesimo. Romoletto, Marcello e gli altri ragazzi guardano l’esecuzione di Don Pietro (non ci sono testimoni adulti), e non appena lasciano il sito, la cinepresa segue il futuro dell’Italia, . V. P. B, The Films of Roberto Rossellini, Cambridge — New York, Cambridge University Press, Boston , p. .
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riprendendo i bambini davanti allo sfondo costituito dalla Basilica di San Pietro. Così l’artefice si affaccia dalla tragica angoscia alla speranza di una “primavera in Italia” (sono le stesse parole di Francesco pronunciate prima). Il regista, infatti, con questa simbolica scena finale, avente come protagonisti i bambini, mostra la speranza, come lo fanno anche tanti altri classici neorealisti. Nei film neorealisti di Rossellini non appare direttamente la sacralità. A differenza delle sue opere successive, in questi non vi è nulla di trascendente, nulla di sovrannaturale o divino. La sacralità e la spiritualità verranno scoperte nei film aventi come soggetto la decadenza delle singole epoche della cultura europa, l’incontro tra uomini di diverse culture (quella europea e quella americana, quella settentrionale e quella meridionale); Esempi di questo tipo sono Viaggio in Italia o Stromboli terra di Dio. .. Pasolini: Mamma Roma Nei film giovanili di Pasolini (Accattone del , Mamma Roma del , La ricotta del ) vi è una maggiore contraddizione. Il mondo rappresentato (quello del proletariato e della periferia romana) è marcatamente rozzo e volgare, ma i suoi eroi vengono glorificati grazie alle evidenti allusioni musicali e artistiche e si integrano nella corrente principale della cultura europea. Ne Il Vangelo secondo Matteo () invece appare direttamente la sacralità. Questo mutamento viene ben descritto da Júlia Csantavèri: “Accattone, Mamma Roma, o La ricotta [. . . ] alludono tutti alla realtà concreta, tangibile dell’Italia degli anni sessanta e solo tramite la deformazione lirica e visiva acquistano anche un significato sacrale e metaforico”, a cominciare da
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Il vangelo secondo Matteo invece “l’ambientazione si sposta verso luoghi più astratti e simbolici, pieni di significato sin dal principio” . Il deserto, infatti, avrà maggior ruolo in Teorema, del . L’opera Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo Secondo Matteo, simile ad un videoracconto e sorto mentre il poeta–regista cercava i luoghi della vita di Cristo per il film in fase di preparazione, ci svela questo processo. Sappiamo che egli, infine, scelse un paesaggio italiano deserto del Mezzogiorno rinunciando al progetto di girare in Terra Santa. Eppure — sottolinea Csantavèri — Pasolini, percorrendo questa strada, e ricercando le tracce del mondo paleocristiano, scopre le possibilità simboliche nascoste nel mostrare degli spazi ampi e aperti nonchè la grande espressività delle immagini panoramiche orizzontali. Qui trova un solo luogo che giudica degno alla storia del Redentore: il deserto circostante il Mar Morto. Sin dagli anni sessanta l’immagine del deserto appare anche nelle opere poetiche di Pasolini in quanto rappresentazione della grandezza e della forza, ma anche della tranquillità arcaica e eterna opposta alla fugacità del momento e al disordine della quotidianità. Anzi, l’immagine, portatrice di diversi significati, ne condiziona anche i film sin dagli inizi, pur non essendo espressa visivamente nelle opere giovanili legate al mondo di tutti i giorni. Eppure la sua presenza è espressa, facendo ricorso ancora una volta a Csantavèri, dagli ampi campi di periferia arsi dal sole, dagli estesi cumuli . J. C, Szèlfútta sivatagok kèpei. A sivatag kèpe ès kèpzete Pier Paolo Pasolini m˝uveiben, (Immagini di deserti folati dal vento. L’immagine e la rappresentazione del deserto nelle opere di Pier Paolo Pasolini), in Pannonhalmi Szemle, .
Scritti sul primo modernismo del film italiano di immondizia luccicanti con un grigiore a guisa di metallo o dal cimitero, visibile nell’episodio del sogno di Accattone. Questi sono luoghi di amore e morte, ultimi rifugi dell’uomo umiliato e privato di ogni suo attributo divino. Al poeta, che vive l’inferno del mondo moderno anche come una sorta di inferno personale, questo rifugio rappresenta anche il luogo di morte [. . . ] della tranquillità della morte. Il deserto di Pasolini per questo è sempre attraente e spaventoso, liberatore e vincolante .
Da questo punto di vista abbiamo tutte le ragioni per supporre che il film Mamma Roma, nato nel sia un antecedente de Il vangelo secondo Matteo. Contiene metaforicamente il deserto che in seguito viene definito da Pasolini come l’unico luogo degno alla narrazione della vita di Cristo. La vicenda narrata, invece, è il racconto della redenzione. Certo, una redenzione che termina con la caduta in quanto la lotta della madre, che attribuisce al figlio una natura da Messia e che cerca di rendere superiore anche la propria vita con l’innalzamento di un suo prossimo, in conseguenza di cause tanto esterne quanto interne, si rivela essere una vana lotta contro i mulini a vento. Osserviamo, dunque, Mamma Roma , il film che mostra dei parallelismi con Roma città aperta. Nel presente saggio mi limito a comparare le due immagini di Roma. Già il titolo accenna a qualcosa di più di sè stesso, cioè alla città di Roma, sebbene “Mamma Roma” non sia altro che il nome della protagonista. Come anche nel film di Rossellini, anche qui la protagonista è Anna Magnani. Essa vuole evadere dal suo passato di prostituta e si prende il . J. C, ibidem. . Mamma Roma, , regia e sceneggiatura di: Pier Paolo Pasolini, operatore: Tonino Delli, personaggi: Anna Magnani (Mamma Roma), Ettore Garofolo (Ettore), Franco Citti (Carmine), Arco film (Roma).
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figlio. La scena iniziale è grottesca: la donna fa entrare tre porci al matrimonio di Carmine, il suo lenone fino a quel momento e in seguito, gli invitati alle nozze, si dispongono come le figure dell’Ultima cena di Paolo Veronese. La donna sogna una vita tranquilla da piccola borghese, apre un negozio di frutta e verdura e si compra un appartamento di periferia. Infatti, le scene esterne del film (le scene del mercato, certe scene di strada eccetto il lungo tragitto notturno che avviene due volte e rappresenta l’iter della vita) sono state riprese soprattutto nella periferia romana. Le scene si svolgono in un agro, ben lungi dall’essere considerato un ambiente metropolitano da dove si vedono in ultimo piano degli alti palazzi sorti dal nulla e privi di stile e ogni tanto appaiono anche le rovine di un acquedotto romano. Ci troviamo nella periferia romana, come anche la trama del romanzo Una vita violenta del di Pasolini si svolse là, nella borgata di Pietralta e Garbatella dove i giovani eroi crescono in misere capanne e poi, se mai avranno fortuna, potranno andare a vivere in uno degli alti palazzi. Là dove «il sobborgo splendette con tutta la sua luce in mezzo ai rifiuti e alla melma». Gli eroi del film raramente, e mai i semplici personaggi riescono ad andare nel centro storico o nei quartieri moderni della metropoli. Alla fine del film, Ettore, il figlio di Mamma Roma giace moribondo nel carcere. A questo punto senza che ce ne accorgiamo, avviene l’innalzamento verso la sacralità. La cinepresa riprende lungamente in accorciamento prospettico il ragazzo legato al letto di contenzione, facendo riferimento al Cristo morto di Andrea Mantegna mentre si sente la musica di Vivaldi (Figure . e .). Un montaggio parallelo mostra il Cristo sofferente sulla croce (lo . P.P. P, Una vita violenta, Garzanti, Milano .
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Figura .. Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma: Ettore morto.
Figura .. Andrea Mantegna, Cristo morto (–, tempera su tela, × cm, Pinacoteca di Brera, Milano).
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spostamento della cinepresa ritraente Ettore dal capo ai piedi, trasforma il letto in una croce), poi la madre che, come se stesse offrendo un sacrificio, getta dei pezzi di pane nel latte. In seguito vediamo ancora una volta Cristo sulla croce e di nuovo la Madonna sofferente, angosciata per il figlio mentre, diretta al mercato, tira dietro sè un carrello pieno di verdura. Il montaggio parallelo è composto da tre serie di immagini: per prima cogliamo i segni affannosi e contratti della ribellione sul corpo del giovane legato al letto, poi ci accorgiamo della sua disperazione mentre chiama la madre, infine è il suo cadavere immobile che appare sul grande schermo. Con questa serie cambiano anche le immagini relative alla solitudine e all’angoscia della madre. Quando essa viene a sapere della morte del figlio, corre a casa con la stessa disperazione con la quale lei stessa — Anna Magnani — correva anche in Roma città aperta. Corre a casa, dunque, cerca di gettarsi dalla finestra mentre gli altri le impediscono di compiere quest’estrema azione. Si affaccia alla finestra ma da lì non si vede il centro storico di Roma con la cupola di San Pietro, bensì una periferia deserta, piena di edifici uguali con la cupola di una chiesa semplice e moderna che potemmo vedere sempre durante il film. È solo lo sguardo di Mamma Roma a rispecchiare qualcosa in più. Lo sguardo di Mamma Roma (Figura .) è lo stesso sguardo con cui Pina, la protagonista di Roma città aperta in fin di vita guarda il mondo . L’ultima immagine, che Pina si porta con sè nelle tenebre, è l’immagine del fidanzato catturato. Benchè Mamma Roma non muoia letteralmente, anche la sua vicenda si conclude in un “ultimo” sguardo. . M. D B, Da Paisà a Salò e oltre. Parabole del grande cinema italiano, Avagliano Editore, Roma , p. .
Scritti sul primo modernismo del film italiano
Figura .. Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma: lo sguardo di Mamma Roma dopo la morte di Ettore.
Quando sapendo della morte del figlio vuole gettarsi dalla finestra, vede la cupola della chiesa in cemento armato (Figura .). La cupola della Basilica di San Pietro e la cupola della chiesa in cemento armato: due immagini diverse di Roma. La prima è la cupola che secondo la tradizione cristiana rappresenta l’utero della madre in dolce attesa e nella quale in Rossellini vediamo istintivamente il simbolo del futuro. Quest’ultima invece è l’emblema della fine in una città dominata da cupole–uteri. La città, almeno sotto quest’ottica pasoliniana, appare come la città delle persone come Ettore, dei “ruffiani” che sono tutti destinati alla crocifissione mentre le madri si consumano angosciate da un mare di dolori. Lo sguardo di Mamma Roma rispecchia il dolore materno vissuto, l’eterna sofferenza umana. Dinnanzi a lei non si estende la “città eterna”, custode della continuità della cultura europea, e neppure la cupola della Basilica di San Pietro, simbolo del centro del cristianesimo, bensì
. Il panorama cinematografico di Roma
Figura .. Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma: scena finale.
“l’inferno rosa della borgata” e il deserto della vita moderna. Come possiamo leggerlo nella sceneggiatura del film: «dalla finestra si vede Roma, l’immensità dei condomini e dei campi tremanti dal calore, che grandiosa e indifferente si estende nella luce» . Non c’è speranza. La crocifissione di Gesù non ci ha portato la salvezza. Pasolini, comunque, è in nome di questo pessimismo che tracciò un parallelo tra la conclusione di Roma città aperta, da altri considerata come finale aperta, e la conclusione del proprio film. In una sua poesia del lo citò come l’esempio emblematico del paesaggio neorealista e della disperazione: Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, sotto le ciocche disordinatamente assolute, . P.P. P, Mamma Roma, Il vangelo secondo Matteo, Medea (sceneggiature ). . P.P. P, ibidem.
Scritti sul primo modernismo del film italiano risuona nelle disperate panoramiche, e nelle sue occhiate vive e mute si addensa il senso della tragedia. È lì che si dissolve si mutila il presente, e assorda il canto degli aedi .
Traduzione di Márk Berènyi Revisione linguistica di Júlia Csantavèri
. P.P. P, Continuazione della serata a San Michele. Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano. Proiezione al “Nuovo” di “Roma città aperta”, in P.P. P, Poesie, Garzanti , p. .
Capitolo III
Pavese, il film e Antonioni
Grazie a Davide Lajolo sappiamo che Pavese era molto interessato al cinema. Il suo interesse andava oltre ad essere un appassionato frequentatore di cinema in tutta la sua vita. Infatti, dedicò ben due studi alle problematiche teoriche di esso e progettava anche di realizzare dei film. D’altro canto, com’è ben noto, Michelangelo Antonioni riportò sul grande schermo uno dei suoi romanzi, Tra donne sole. Sono note due sue sceneggiature senza titolo. In una di esse appaiono le scene principali di uno suo romanzo: l’ambiente torinese, Il Po, il paesaggio collinoso e le caratteristiche tipiche della borgata. L’atmosfera di questa storia, ambientata nel periodo dell’occupazione tedesca, presenta analogie con Il compagno specialmente osservando lo sviluppo politico e morale del protagonista. L’esito drammatico ricorda invece la famosa scena di Roma città aperta di Rossellini, la corsa di Anna Magnani: l’eroina muore durante un conflitto armato con i Tedeschi. Ma Pavese a sua volta, in quanto uno dei motori ed ispiratori della prosa neorealista italiana, ebbe un effetto sui regi. D. L, Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare Pavese, Il Saggiatore, Milano . . C. P, Due soggetti cinematografici inediti di Cesare Pavese, In: Cinema Nuovo, settembre–ottobre , n. , pp. –.
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sti neorealisti particolarmente con il suo impeto di dover rappresentare i personaggi in sintonia con l’ambiente. Oltre alle opere sovramenzionate, Pavese progettava la rielaborazione filmica del Diavolo sulle colline e scrisse anche un progetto filmico intitolato Breve libertà. .. Idee di Pavese sulla teoria cinematografica Pavese in uno degli scritti del suo diario intitolato Il mestiere di vivere esprime lungamente le sue idee relative al rapporto tra cinema e teatro. In base a quanto scritto, l’influenza del teatro sul mondo moderno è in regresso, affermava l’autore. Ciò che il romanzo esprime con mezzi verbali, il film lo rappresenta con mezzi visuali ed ambedue lo fanno provocando un maggiore effetto rispetto al teatro. Ma il film raggiunge un pubblico molto più ampio rispetto al romanzo (ivi inclusi i romanzi di Pavese stesso), il che aumenta ulteriormente la sua importanza. In un suo opuscolo del “periodo americano” con data non identificabile. Pavese ribadisce che il film è un mezzo di comunicazione di massa. La cinematografia– scrive — benchè sia stata in principio disdegnata, agli inizi del XX secolo in breve tempo è diventata un’arte di massa. Non è pura casualità che, in quanto manifestazione culturale popolare — ovvero arte delle masse e non arte eminente (“èlite”) — sia nata in Nord America, dove, contrariamente all’Europa, è minima la differenza tra la cultura e le . M. G e G. Z, Cesare Pavese. Introduzione e guida allo studio dell’opera pavesiana, Le Monnier, Firenze . . C. P, Il mestiere di vivere (Diario –), gennaio , Einaudi, Torino . . Ibidem –.
. Pavese, il film e Antonioni
esigenze culturali delle varie classi sociali. è degno di nota che ciò è in piena conformità con le idee dei personaggi significativi della storia dell’arte come Arnold Hauser e Erwin Panofsky. Il punto di partenza dell’opera Le problematiche della critica cinematografica è la mancata supposizione da parte della critica cinematografica del periodo della differenza tra cinema e teatro, come anche tra pittura e romanzo. Ovvero la critica, afferma Pavese, interpreta il film come un’illustrazione, una traduzione di una scena teatrale. Se i critici menzionano “lo specifico filmico”, con esso non esprimono niente in quanto la “settima arte” non dispone di regole fisse alle quali i singoli film potrebbero essere rapportati. Il film, quindi, è un’illustrazione o un’arte? — è a partire da questo interrogativo che Pavese esplica le proprie posizioni seguenti. In principio il film era un’innovazione tecnica. Ottenne subito un grande successo in quanto — e qui Pavese allude ai primi cortometraggi dei fratelli Lumière — è riuscito a mostrare la realtà: l’arrivo del treno o le persone uscenti dalla fabbrica. Riconoscendo che vi sono delle potenzialità maggiori in esso, si cominciò a riprendere scene di azione mimica, gesti comici: si produssero scene simili a quelle presenti nel contesto teatrale, romanzesco e pittoresco, quindi si produssero illustrazioni. Questo in sè non fa diventare il film un’arte ma lo aiuta senz’altro ad ottenere successi. Nei film muti le didascalie sono fastidiose e guastano la continuità. Senza esse però non è possibile capire l’intreccio e in tal modo sempre un maggior numero di . C. P, Le problematiche della critica cinematografica , in: C. P, Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, Einaudi, Torino .
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opere letterarie e teatrali vennero rielaborate per poi apparire nelle sale cinematografiche. I realizzatori, vedendo il successo di quest’ultime, seguirono la strada intrapresa e continuarono a produrre illustrazioni. Pavese afferma che il film artistico può esistere ma è raro. Come si manifesta, dunque, lo specifico filmico secondo lui? Nel rispondere a tale domanda egli mette in rilievo i momenti brevi e rari nei quali i singoli caratteri agiscono mossi da impulsi interni e si muovono in collisione con la dinamica dell’immagine per ottenere poi il proprio senso in quanto composizione dinamica di ombra e di luce, al di là del realismo preciso dei gesti della vita. Per Pavese il “film puro” privo di elementi teatrali e letterari, basato sull’alternanza ritmica di luce e di ombra e sul movimento espressivo della macchina da presa, non riuscirà mai a prendere il sopravvento sulle immagini munite di un linguaggio filmico eterogeneo e rappresentanti una vicenda già nota, ma è pur vero che secondo lo scrittore è questo il vero cammino che il cinema deve compiere. L’autore riporta due esempi per illustrare l’effetto filmico puro, basato solo sulla luce e sul movimento. In una scena del Faust di Murnau (), grazie alla massa informe dei festeggianti e all’ingrandimento che le bottiglie provocano, per via dell’effetto luminoso e del ritmo, nasce l’impressione della volgarità. L’altro esempio è la scena conclusiva de Il ladro di Bagdad (Raoul Walsh, ), dove i veli dell’eroina sventolano espressivamente dinnanzi allo sfondo vitreo. L’anno — anno della nascita dell’articolo — segna il passaggio dal film muto al film sonoro. Pavese pensa che la colonna sonora possa contribuire all’atmosfera del film solo se non mira ad una riproduzione realistica bensì cerca di aumentare l’espressività di esso, se necessario con
. Pavese, il film e Antonioni
l’utilizzo di suoni stilizzati e sintetici. Le posizioni di Pavese, in perfetta sintonia con la teoria filmica della sua epoca, rivelano una grande sensibilità ed un approccio raffinato. Nel primo decennio del Novecento, gli esperti vennero incantati dalla capacità del film di offrire un’immagine credibile della realtà (e anche successivamente nacquero teorie “realiste” nel senso proprio della parola). Negli anni ’, durante l’apogeo del film muto, fu proprio il film puro ed i mezzi tipicamente cinematografici ad occupare un posto di rilievo (la teoria e la produzione filmica delle avanguardie, dell’espressionismo, del surrealismo e del dadaismo). D’altro canto sono sorte le teorie filmiche “formaliste” (che a loro volta accompagnarono tutta la storia della teoria filmica). Questi non pongono l’accento sulla verosimiglianza dei film bensì sulla loro stilizzazione e carattere artistico. Sono tali per esempio le concezioni di Bèla Balázs e di Rudolf Arnheim. Benchè le idee di Pavese, principalmente agli inizi, rispecchiassero l’estetica crociana, è molto interessante e degno di nota che, conformemente ai teoretici del periodo, come potenzialità artistiche principali del film, anche egli stesso evidenzi gli elementi, come il gioco con la luce ed il movimento. .. Pavese e Antonioni Nel Michelangelo Antonioni, come suo quarto lungometraggio, riportò sullo schermo il romanzo Tra donne sole di Pavese scritto nel con il titolo Le amiche . Que. M. A, Le amiche, ; sceneggiatori: M. Antonioni, S. Cecchi d’Amico, A. De Cespedes; operatore: G. Di Venanzo; musica: G. Fusco; personaggi: E. Rossi Drago (Clelia), V. Cortese (Nene), G. Ferzetti
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sto fu il suo primo film di successo che nel gli valse il Leone d’argento al Festival Internazionale del Cinema di Venezia. A questo seguirono le altre opere che gli conferirono la fama mondiale e lo resero uno dei personaggi più significativi della cinematografia moderna: Il grido (), L’avventura (), La notte (), L’eclisse(), Il deserto rosso (), Blow–Up (), Zabriskie Point (), Professione: reporter (). Come a tutti i suoi film, anche a quest’ultimi è Antonioni stesso che scrisse la sceneggiatura in base alle sue proprie idee (con l’eccezione di Blow–Up che è un’adattazione di una novella di Cortazar). Solo Le Amiche è stato adattato in base ad un romanzo. Il regista usa e rielabora abbastanza liberamente i vari elementi del film. La sceneggiatura è stata scritta in collaborazione con due scrittrici, Suso Cecchi d’Amico e Alba de Cespedes (la prima ideò la trama, mentre la seconda scrisse i dialoghi). Si pone spontanea la domanda, perchè Antonioni scelse questa volta come punto di partenza un romanzo di Pavese? Le esperienze che il regista trasmette già di per sè sono simili agli spicchi di realtà presenti nel romanzo. L’esperienza autentica che si trova alla base, è il mondo borghese al quale il regista guarda principalmente da un’ottica psicologica e sentimentale. Il fatto che i protagonisti del romanzo siano donne, è un dato da sottolineare. Le loro reazioni sentimentali nonchè il loro modo di vivere la realtà, vengono raccontate in maniera fredda, oggettiva e con metodi analitici adoperando un linguaggio filmico nuovo e riservato, evitando ogni moralizzazione. Insomma, similmente a Pavese, crea un mondo artistico moderno, dedrammatizzato e privo d’intreccio nel quale i personaggi (Lorenzo), M. Fischer (Rosetta), Y. Furneaux (Momina).
. Pavese, il film e Antonioni
vagheggiano persi e senza scopi precisi. In questo senso i successivi film di Antonioni (fino a Blow–Up), riecheggiano un ambiente simile a quello di Pavese: il mondo dell’uomo solitario e tormentato dall’alienazione. Interrogato, perchè scelse sempre protagoniste femminili (con l’eccezione de Il grido), Antonioni così rispose: per esprimere attraverso il rapporto d’uomo con tante donne tutto il mio amore e il mio interesse per il personaggio donna: filtro molto più sottile della realtà, più inquieta e molto più capace dell’uomo di sacrificio e di sentimento d’amore” .
In tal modo sia l’ambiente de Le amiche che quello dei suoi film più maturi, mostrano parentele con Pavese, anzi, quest’ultimi sono ancora più “paveseggianti”, ovvero, paradossalmente l’effetto dell’autore è ancora più forte in quei film che non sono un adattamento di un’opera concreta. Il regista pronuncia le seguenti parole in proposito: Mi si chiede se io riscontri nei miei film analogie con il libro di Pavese. Non saprei, non di proposito, comunque. Ho letto il Diario, e può darsi che qualcosa sia rimasto dentro di me o che certe sue esperienze abbiano coinciso con le mie. È evidente che, nei propri film, si mette sempre qualcosa di autobiografico .
Gli ambienti alto borghesi, la solitudine, l’alienazione e lo spirito femminile sono tutti degli argomenti di rilievo, e . Io e il cinema, io e le donne in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, C. D C e G. T (a cura di), Marsilio, Venezia , p. . . La mia esperienza in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, p. ; Un rinnovamento senza sosta in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, p. .
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oltre alla somiglianza tra le esperienze realmente vissute, vi è un altro punto in comune da menzionare che concerne il rapporto tra Pavese e Antonioni. Il regista — in quanto ingegnere — in genere è visto come una persona legata alla pittura, alla fotografia e alle arti visive contemporanee. Ma lui, a proposito della funzione mediatrice di Pavese, menziona che anche la letteratura gli abbia dato spunto: i miei primi contatti con l’America sono stati sopratutto — e quasi naturalmente — di carattere letterario. “Naturalmente”, perchè le traduzioni di Pavese e di Vittorini erano molto note, e c’erano dei posti, a Roma, durante la guerra, dove si poteva andare e trovarle, nonostante la censura fascista.
.. Le amiche Italo Calvino, dopo la presentazione de Le amiche, in una lettera indirizzata ad Antonioni, sottolinea che tra i romanzi di Pavese proprio questo sembrava il meno adatto ad essere rielaborato sotto forma di film, in quanto si basa sul contrasto tra dialoghi e sentimenti appena espressi ed appena pronunciati. Ciononostante il regista è riuscito a convertire tutto questo in un intreccio e dare vita ad un nuovo linguaggio cinematografico alludente all’understatement conservando in tal modo l’atmosfera di Pavese. Antonioni nella sua risposta a Calvino appoggia la tesi dell’autonomia del suo film nel modo seguente: non ho mai avuto nemmeno la preoccupazione della fedeltà a Pavese. Le sole parole sull’argomento [. . . ] che avrei fatto il possibile per non tradire lo spirito del racconto [. . . ] in un racconto come Tra donne sole scritto in una prosa così incantata, allusiva, ferma in un mondo di sentimenti come una pianta miracolosamente immobile in un mulinello del vento. Portare
. Pavese, il film e Antonioni
sullo schermo il racconto così com’è sarebbe stato non solo impossibile, ma forse dannoso a Pavese stesso. Il cambiamento di linguaggio porta inevitabilmente a modifiche sostanziali. Non voglio affermare l’esistenza di uno “specifico cinematografico”, ma se non altro una portata pratica l’affermazione ce l’ha .
Nei prossimi paragrafi cercherò di riassumere quali siano le caratteristiche del linguaggio filmico moderno che erano presenti già ne Le amiche. Lunghi piani sequenza, particolarmente nella scena della spiaggia, dove l’operatore mostra senza tagli il viavai dei personaggi in modo che sembri casuale il materiale inquadrato. In realtà, invece, la composizione è molto ragionata: la focalizzazione si concentra su un solo personaggio, ma la macchina da presa non trascura nemmeno gli altri. In questa stessa scena la disposizione spaziale dei personaggi descrive i loro rapporti sentimentali, ovvero nella casualità dei loro incontri, contatti e separazioni viene espressa la brullezza e la superficialità dei loro rapporti. I personaggi sono caratterizzati dal movimento senza scopo e direzione, dal viavai e dai contatti immotivati seguiti da separazioni persino in occasione della festa organizzata a casa di Momina. L’unica eccezione è Clelia, i cui movimenti e passi sono decisi, come di consueto. La direzione opposta del movimento dei caratteri rappresenta le loro strade divergenti in ben tre scene: Clelia mostra a Carlo il cortile di quella vecchia casa in cui è cresciuta, poi escono dalla scena ambedue, ma in direzioni opposte. Il saluto di Rosetta e Lorenzo sulla piazza anticipa la loro separazione, nell’ultima scena invece il treno di . M. A, Fedeltà a Pavese, Cinema Nuovo, n. , febbraio , in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, p. .
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Clelia esce dall’inquadratura verso sinistra, mentre quello di Carlo verso destra. È proprio del regista il moto inquieto della macchina da presa, il movimento continuo di essa nonchè il pieno utilizzo della profondità di campo. Per quanto riguarda la composizione spaziale delle inquadrature, lo sfondo acquista un valore significativo. Là si possono vedere elementi che non hanno importanza rispetto al primo piano ma non sono neppure in contrasto con esso. Con essi non hanno rapporti nè simbolici, nè metaforici, eppure li completano da un’ottica impressiva. Per esempio: Clelia e Rosetta viaggiano in treno, mentre dialogano, nello sfondo appaiono delle suore con dei bambini che vengono mostrati ben due volte. Nella scena della spiaggia con Rosetta e Lorenzo dei fantini attraversano la scena. Questa soluzione contribuisce alla drammaturgia della casualità e allo stile filmico dell’understatement. Le scene contenenti specchi e sbarre, assai frequenti nel film, non sono simboliche e non contengono alcuna tensione drammatica pur avendo la capacità di creare una certa atmosfera. Dopo la festa Cesare e Momina restano soli e dopo la chiusura delle persiane vediamo Rosetta dietro alle sbarre, la luce si getta sia sulla superficie interna che su quella esterna della finestra. Nell’anticamera dell’albergo ci viene mostrata Clelia con uno specchio alle spalle, poi, in controcampo riappare lei stessa, dietro alla porta e dinnanzi a lei la luce risplende sul vetro della porta, infine alla stazione vediamo il gioco della luce sui vetri delle porte e delle cabine telefoniche.
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.. Analisi comparativa tra film e romanzo Risulta assai difficoltosa la comparazione di un romanzo e della sua adattazione cinematografica in quanto un’opera letteraria e un film sono due mondi distinti: mezzi differenti, codici differenti, branche dell’arte differenti. Tra una frase ed un’immagine non vi è corrispondenza perfetta. Oggidì non esistono solo adattamenti filmici, ma anche una letteratura specifica immensa di tale materia. Più semplicemente possiamo dire che sono numerose le soluzioni possibili. Ci sono adattazioni relativamente fedeli ad un romanzo, nelle quali, trascurando ora le soluzioni drammaturgiche necessarie, malgrado i compattamenti e gli accorciamenti, il film conserva la trama, la struttura di base del carattere e dei rapporti tra i personaggi. Ma gli elementi principali della composizione spazio–temporale anche in questo caso sono diversi. Il film, infatti, applica più piani temporali e gestisce con più elasticità la spazio–temporalità rispetto all’opera letteraria costituente la sua base (per non parlare delle opere drammatiche conservanti l’unità del tempo e dello spazio). È possibile anche l’altra estremità: la libera interpretazione, quando un romanzo non è null’altro che la fonte ispiratrice: alcuni momenti e certi tratti del carattere dei personaggi ricordano il romanzo. I tratti in comune in questo caso arricchiscono solo il sistema di riferimenti. E poi esistono soluzioni intermedie tra l’interpretazione “fedele” e quella “libera”. Quasi quasi sono tante le interpretazioni, quanti gli adattamenti. In questi casi intermedi, una parte della trama, dei caratteri e dei passi possono essere simili all’originale, mentre un’altra parte diversa, e con questo cambia anche il significato dell’opera, i toni cadono altrove, ovvero è più corretto parlare di interpretazione che di rielaborazione o calco. (È noto
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che lo stesso romanzo può avere più di un’adattamento cinematografico.) Per semplificare, volutamente non ho menzionato la problematica della lingua: gli enunciati presenti nel film, infatti, devono essere per forza accorciate perchè essi possano comporre un dialogo ma è una questione a parte se il film mantenga o meno le caratteristiche del linguaggio dei personaggi del romanzo. Le adattazioni cinematografiche di Antonioni, eseguite in base ai romanzi di Pavese, rientrano tra le soluzioni intermedie. Vedremo tutto ciò nel corso della comparazione tra la struttura narrativa, l’intreccio e i vari passaggi del film che Antonioni offre un’immagine un po’ più arida, riservata e “moderna” dell’ambiente de Le amiche rispetto a Pavese, ossia illustra la crisi spirituale della persona moderna. Ogni modifica procede in questa direzione e l’interpretazione di Antonioni è molto conseguente. Il romanzo e il film hanno degli importanti tratti in comune. Tra questi rientra lo stesso ambiente illustrato (l’ambiente borghese o volendo, alto borghese) e il fatto che — come ne abbiamo già fatto menzione — i protagonisti siano donne. A sua volta è un tratto in comune che il contrasto che si delinea tra l’autonomia femminile e il lavoro da un lato e la vita priva di problemi esistenziali ma vuota dall’altro, (ossia tra la vita di Clelia e quella delle altre donne), sia solo apparentemente il problema dei nostri eroi. In verità è lo stesso sentimento di solitudine e di spleen che caratterizza tutti quanti. Entrambe le opere fanno riferimento alla rete di rapporti sociali e offrono un’immagine raffinata delle situazioni sentimentali dei personaggi. Sia nel romanzo che nel film, l’amore significa nonamore. Gli eroi sono solitari, non riescono a rapportarsi con nessuno. Questo fatto viene illustrato da ambedue gli
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autori in modo non invadente e senza moralizzamenti. I personaggi sono passivi. Essi, infatti non sono soggetti bensì oggetti dell’intreccio. Pavese osserva i propri eroi senza empatia e da una distanza equa. Antonioni non fa diversamente: ce li mostra da un’inquadratura intermedia (piano americano o piano medio) e raramente utilizza il primo piano, spesso verso la fine del film, come per illustrare l’ultimo dialogo e l’addio tra Clelia e Carlo nelle scene dell’albergo e della stazione. Sono altrettanto significative le differenze presenti nella struttura narrativa delle due opere. Il romanzo di Pavese è composto da trenta capitoli, il film da ventisei sequenze. Il film non adatta ogni elemento significativo dell’intreccio. Nel primo capitolo evidenzia solo l’arrivo e il tentato suicidio di Rosetta e alcuni passaggi del IV capitolo (sala di moda). Dell’XI capitolo (la mostra di Nene), del XII, XIV, XXI, XXII (spiaggia), dal XIX (negozio di antichità), del XXIX (ristorante) e infine del XXX (l’addio di Clelia e Carlo, la morte di Rosetta). Altri eventi (come per esempio la gita erotica di Clelia, Momina e Febo descritta nel XIII capitolo, oppure il rapporto lesbico di Rosetta e Momina), personaggi (Morelli, il corteggiatore di Clelia), passaggi ed esperienze (ricordi dei tempi della guerra e del movimento partigiano) sono del tutto omessi. Nei capitoli di Pavese non vi è coerenza spazio–temporale. Si intrecciano elementi eterogenei (gli enunciati di carattere biografico del narratore, i dialoghi dei personaggi, parole sull’amore, sul lavoro, sulla vita). Nel film, invece, ogni scena porta la trama verso un fine specifico. Si posso. Durante la presentazione di queste scene ho fatto ricorso alla magnifica analisi di G.P. B, Le amiche: Pavese e Antonioni dal romanzo al film, in: G.P. B, Forma e parola nel cinema, Liviana Editrice, Padova , pp. –.
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no rintracciare tre fili conduttori: il suicidio di Rosetta, la sala di moda, la separazione di Clelia e Beccuccio (Carlo nel film). Nel romanzo viene portato a termine solamente il filo del suicidio, gli altri due no. Nel film si concludono tutti e tre i fili chiaramente e decisamente: Clelia deve lasciare la sala di moda torinese, Clelia e Carlo si separano definitivamente alla stazione. Devo aggiungere che è esattamente questo il passaggio che è proprio solo dell’Antonioni de Le amiche e che successivamente scomparirà. È questa la ragione per cui sentiamo più “paveseggiante” L’avventura,L’eclisse, La notte e Il deserto rosso che invece sono marcati dalla narrazione dedrammatizzata e dalla variazione tematica, ossia il fatto che non vi succede niente di tangibile: vi rimane da osservare solo la situazione sentimentale dell’eroina da diversi approcci. L’eroina vagheggia in uno spazio molto inconcreto seguita dalla macchina da presa disposta a lunghi piani sequenza, incontra gente per caso e questi incontri le fanno riconoscere di volta in volta la propria solitudine. Le amiche guida l’intreccio fino ad arrivare ad una svolta che, in quel determinato caso, significa la decisione di tutti di seguire la via più pratica e più comoda: accettare il rinuncio al cambiamento, o meglio, il rinuncio alla scelta promettente un cambiamento. Clelia continua il proprio lavoro e ritorna a Roma, Lorenzo ritorna da Nene, Momina invece da suo marito. In Pavese il destino dei personaggi è palese sin dall’inizio, da Antonioni invece si delinea in base all’esito dell’intreccio. Nel film sono del tutto assenti le mosse mitiche così care a Pavese, dei quali, in questo romanzo, dominano i temi come il bambino, la fanciullezza e il mito di origine, inoltre le tematiche legate al rapporto tra lo scopo della vita e i figli. In Pavese Clelia ritorna a Torino che rappresenta le radici della sua vita. Nel film ciò non acquista alcuna
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importanza malgrado Torino fosse riconoscibile seppur privo di significati mitici e metaforici. La storia si svolge in un ambiente cosmopolita neutrale. Nel film l’ambiente alto borghese torinese, la sala di moda, l’appartamento di Momina, il quartiere popolare, il semplice ristorante e il mondo di Carlo ci vengono presentati della prospettiva di un estraneo. Nel romanzo è Clelia che racconta tutto in prima persona. Mentre Pavese posticipa l’incontro tra Clelia e Momina, Antonioni lo anticipa. Nel romanzo Momina e Rosetta sono i propri rispecchiamenti reciproci, le loro parole trasmettono lo stresso sentimento di spleen e solitudine. Momina domina Rosetta. Tutti vogliono che Rosetta si sacrifichi perchè il mondo diventi un teatro e Momina riesce ad effettuare questa volontà comune. Nel film subentra la coralità delle protagoniste femminili, non domina nessuna di esse, neppure Momina. Si sente anche al livello del registro linguistico che Antonioni priva l’ambiente dei propri personaggi dai significati mitici rendendolo così più arido e più prosaico. (A proposito delle origini torinesi di Clelia vi è solo un breve dialogo: «è mai stata a Torino? — Sono nata qui».) Nei dialoghi del romanzo vi è qualcosa di giocoso, poetico, ambiguo. I dialoghi del film sono esatti, chiari e decisi: hanno un valore puramente funzionale. In questa tendenza atta ad eliminare le connotazioni mitiche ed a favorire lo stile più secco possibile, rientra il tentativo di cambiare il titolo (“Le amiche” che sostituisce “Tra donne sole”). È degno di nota che — malgrado in Antonioni sia in genere l’immagine ad avere un ruolo chiave e non i dialoghi — in questo film ci sono relativamente tanti dialoghi. Nell’opera di Pavese i personaggi parlano molto del
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lavoro, della vita, della morte. Non dialogano, ma ognuno dice la propria concezione del senso della vita. Nel film — effettuando lo stile menzionato — le frasi sono neutrali e ridotte ai minimi termini. Sul grande schermo figurano la vita interna e i mutamenti spirituali ispirati dal comportamento dei singoli e non i pensieri. .. La gita in spiaggia Un capitolo di particolare importanza del romanzo è la gita in spiaggia. Che ruolo attribuisce Antonioni a questo episodio? Dal punto di vista narrativo spicca la tecnica di condensare in una sola scena (la sequenza più lunga del film) un episodio che d’altronde si svolge in numerosi luoghi. Più fortemente in Antonioni che in Pavese, si tratta di una sequenza di eventi apparentemente leggera e priva di ogni scopo, ma in realtà composta e ripresa con molta austerità e che offre un’occasione ai personaggi di fare un’esame di coscienza e di chiarire le loro relazioni, costituendo così una precisazione dei rapporti tra Lorenzo e Rosetta e tra Momina e Cesare. La nostra questione, naturalmente, ha un aspetto che va oltre i punti di vista narrativi. Dietro ad essa si delinea una domanda più generale mirata a decidere se l’immagine del mare abbia un significato più profondo nella biografia dello scrittore e del regista e se sì, che cosa sia questo significato e se esso venga espresso in qualche modo negli episodi relativi del romanzo e del film. Questa questione non costituisce oggetto della presente analisi ma è certo che in Pavese — a cominciare dalla poesia introduttiva “Mari del Sud” della raccolta di poesie Lavorare stanca– il mare assume un significato mitico e viene inserito tra i
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grandi simboli dello scrittore come “la morte”, “la terra”, “le origini”, “la luna” o “il sangue”. Stranamente, in questo romanzo tutto ciò non ha nessun impatto. Nel testo non troviamo descrizioni relative all’immagine della spiaggia o del mare. L’unica eccezione è la frase di uno dei personaggi: «Momina che guardava nell’acqua, disse: “Sembra una fogna, non il mare. Ci lavano i piatti?”» . Comparato con altre frasi di Momina, anche questo ha il proprio significato simbolico: «non c’è acqua che possa lavare i corpi della gente. È la vita che è sporca» . Come ce lo dimostra L’avventura o Il deserto rosso, il mare è un elemento importante anche nella vita di Antonioni. Il suo mondo — senza considerare ora l’episodio del sogno nel quale viene espresso il desiderio di abbandono della realtà verso un mondo infantile e favoloso — è caratterizzato dall’assenza completa del mare azzurro ed i suoi colori sono ben altro che limpidi e mediterranei con contorni vivaci. Nei propri film, in genere, illustra un mare grigio piombo e una spiaggia coperta di nebbia accompagnato dal mormorio monotono delle onde. Lo stesso caratterizza Le amiche cui immagini, se non per altro, per il colore bianco e nero del film, trasmettono un’atmosfera cupa. Nella relativa scena non ci sono contrasti netti, i colori sono sbiaditi. L’episodio pavesiano, dunque, si differenzia da quello antonioniano non solo a livello narrativo ma anche scenico. Il regista, che in genere non ama i temi simbolici, non adotta nessun mito pavesiano ma fa un’eccezione con il . C. P, Tra donne sole, in:La bella estate, Mondadori, Milano , p. . . Ibidem, p. .
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mare. Gli esperti della sua biografia ben sanno con quanta cura esso abbia elaborato il proprio discorso mitico concernente il tema del mare e che il primo passo lo abbia fatto proprio con la scena in spiaggia de Le amiche. Il suo mare — qui, come anche altrove — è fogna. Lo sfondo della scena, costituito dal mare nebbioso e grigio, viene mostrato come la proiezione della situazione sentimentale dei personaggi e dei loro rapporti interpersonali alienati. Paradossalmente Antonioni è riuscito a creare un’atmosfera veramente pavesiana proprio con questo panorama così ostile a Pavese, attribuendo al paesaggio in cui agiscono i suoi eroi un significato supplementare mitico e tipicamente proprio di Pavese. Traduzione di Márk Berènyi Revisione linguistica di Júlia Csantavèri
Capitolo IV
Colori caldi e freddi ne Il deserto rosso∗ Il Deserto rosso , la prima pellicola a colori di Michelangelo Antonioni, usci nel . Il semplice fatto che si sia reso tecnicamente possibile creare una pellicola a colori e che lo spettatore si attendesse una tale offerta, lo avrebbe indotto ad andare al cinema per vedere dei film a colori? Oppure si trattava di una questione–costrizione tecnica e finanziaria? Probabilmente non è così. Dal momento dell’invenzione del cinema a colori fino al periodo della sua divulgazione passarono più di vent’anni (nel caso del cinema sonoro ci vollero appena quattro o cinque anni). Oltre ai problemi tecnici, si dovette trovare una soluzione anche per quelli estetici. Le tecniche artistiche sviluppatesi nel cinema in bianco e nero non potevano sopravvivere nel cinema a colori: in questo ambiente, infatti, non spiccano nè il marcato contrasto o l’espressivo effetto luce–ombra (come in alcune correnti dell’espressionismo tedesco degli anni quaranta e ∗
La prima versione di questo saggio fu pubblicata nel volume Sul fil di ragno della memoria. Studi in onore di Ilona Fried, F. ’E H e D. F (a cura di), Eötvös Loránd Tudományegyetem Bölcsèszettudományi Kar, Olasz Nyelv ès Irodalom Tanszèk, Ponte Alapítvány, Budapest , pp. –. . M. A, Il deserto rosso, ; sceneggiatori: T. Guerra, M. Antonioni; operatore: C. Di Palma; musica: G. Fusco, V. Gelmetti; personaggi: M. Vitti (Giuliana), R. Harris (Corrado), C. Chionetti (Ugo), X. Valderi (Linda), R. Renoir (Emilia), A. Grotti (Max).
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successivamente nel primo modernismo), nè i colori grigi sfocati o i toni raffinati (come il “realismo poetico” francese). Eppure verso la metà degli anni sessanta si cominciò sempre di più a realizzare pellicole a colori (il primo film a colori di Fellini, Giulietta degli spiriti, uscì nel ). Antonioni ci rivela che si è impegnato a sfruttare «ogni minima risorsa narrativa del colore in modo che entrasse in armonia con lo spirito di ogni scena, di ogni sequenza». Antonioni continua dicendo che «la concordanza tra certi nuovi modi di utilizzare il colore nel cinema moderno — penso per esempio a Resnais, a Bergman — non è casuale. È un esigenza che abbiamo sentito contemporaneamente perchè è legata all’espressione della realtà del nostro tempo, la quale, secondo me, può sempre meno prescindere dal colore. Nel Deserto rosso ci troviamo in un universo industriale che produce ogni giorno milioni di oggetti di ogni genere, tutti colorati. È sufficiente uno solo di questi oggetti — e chi potrebbe farne a meno? — per introdurre in casa un’eco della vita industriale. Così le nostre abitazioni si riempiono di colore e la strade, i luoghi pubblici di manifesti pubblicitari. Con l’invasione del colore è giunta l’abitudine al colore» . È il mondo ad esser diventato colorato, la produzione industriale, la civiltà tecnica che raggiunge i massimi livelli e, connesso a tutto ciò, il mondo moderno caratterizzato dall’inquinamento ambientale. Questo mondo svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo della nevrosi della protagonista, Giuliana. L’esperienza che ispirò direttamente Antonioni fu il fatto che Ravenna divenne, dopo Genova, il secondo por. Il deserto rosso, testo raccolto da F. M, Humanitè dimanche, settembre , in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, C. D C e G. T (a cura di), Marsilio, Venezia , p. .
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to più importante d’Italia, vi si costruì una raffineria di petrolio e i cambiamenti violenti effettuati a scapito dell’ambiente naturale intorno alla città, sconvolsero il regista, ritornato dopo qualche anno di lontananza. Eppure — come ci rivela Antonioni nella famosa intervista con Godard — egli non ha voluto condannare solo l’industrializzazione, che rende nevrotico l’uomo moderno. La mia intenzione — sebbene si sappia quasi sempre da dove si parte ma quasi mai dove si arriverà — era di tradurre la poesia di quel mondo, in cui anche le fabbriche possono essere belle. . . Le linee, le curve delle fabbriche con i loro camini possono essere anche più belle del profilo degli alberi, che siamo già troppo abituati a vedere. È un mondo ricco, vivo, utile .
È lo stesso Antonioni a richiamare la nostra attenzione sul fatto che la rappresentazione del mondo colorato — con colori vivaci — comporta importanti conseguenze non solo tecniche ma anche estetiche. Se il regista concepisce i colori come delle macchie palpitanti, allora questo invece delle registrazioni a lunga durata, caratteristiche del primo modernismo, esige il ritorno ai tagli veloci, nonchè un moto rapido e brusco della macchina da presa, l’uso frequente del teleobiettivo, il che comporta una diversa profondità di campo e una differente percezione spaziale dello spettatore. È forse la proiezione del mondo interno della protagonista a far nascere questo nuovo atteggiamento nei confronti dell’immagine? (Fu Pasolini ad avanzare per primo questa ipotesi.) O tutto ciò non è altro che un trucco necessario del cinema a colori? La tecnica deve es. La notte, L’eclisse l’aurora. Intervista di Jean–Luc Godard con Michelangelo Antonioni, “Cahiers du Cinèma”, novembre , in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, p. .
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sere cambiata senza alcun dubbio: «una panoramica rapida rende bene su un rosso acceso ma non dirà niente su un verde marcio a meno di cercare nuovi contrasti. Credo che esista una relazione tra i movimenti della cinepresa e il colore» afferma Antonioni rispondendo ad una domanda di Godard. Antonioni ci ricorda che, Quando alla fine del nostro secolo il mondo ha incominciato a industrializzarsi, le fabbriche avevano colori neutri, erano nere, grigie. Oggi invece sono perlopiù dipinte con colori accesi. Persino i condotti dell’acqua, dell’elettricità e del vapore sono colorati. Alla base di questa invasione del colore ci sono ragioni tecniche, ma anche di ordine psicologico. Le pareti delle fabbriche si colorano non di rosso ma piuttosto di verde chiaro o di azzurro, i cosiddetti “colori freddi” che servono a riposare l’occhio” .
Proprio per questo, in principio, si era pensato di dare al film il titolo “Celeste e verde”, in seguito però Antonioni ha pensato che un titolo del genere sarebbe stato troppo legato ai colori, in quanto avrebbe fatto riferimento solo a questi ultimi, pur se il film trattava anche tanti altri argomenti. Non parla solo del desiderio di Giuliana di dipingere il negozio di ceramica con dei colori freddi — pareti celesti e soffitto verde — perchè il rosso “ucciderebbe” gli oggetti mentre il celeste e il verde li metterebbero in rilievo. Così come non racconta solo che Giuliana, uscendo dal negozio, vede (come anche lo spettatore) la frutta e la strada grigie, mentre quando stava con Corrado nella . Ibidem, p. . . Il deserto rosso, testo raccolto da F. M, Humanitè dimanche, settembre , in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, p. –.
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camera d’albergo vede la parete rosa e rosso, pur essendo di un colore neutrale. Percepisce i colori diversamente rispetto agli altri, proprio in questo consiste la sua nevrosi e la sua incapacità di adattarsi al mondo moderno e colorato (Corrado invece, parlando agli operai della Patagonia, vede delle strisce blu sulla parete). Giuliana è in crisi, sente che non può vivere come prima, ma allo stesso tempo non ha un problema ben definibile e risolvibile. Si tratta forse di una devianza? Di una psicosi? Di una nevrosi? O semplicemente dell’incapacità di adattarsi all’ambiente? Le interpretazioni del film si muovono entro questi limiti. Nella scena iniziale del film, quando si vede il titolo principale, appare un ambiente brunastro, color terra e in mezzo la fabbrica, circondata da tubi dai colori vivaci. Dalla ciminiera fuoriesce un fumo giallo acceso (che sul DVD assume un colore arancione). Poco dopo entra in scena Monica Vitti, dai capelli rosso rame, con un cappotto verde vivace ed il figliolo che porta un cappotto giallo senape. Ma già in questa scena risuona all’orecchio quella musica elettronica, quella melodia eterea che si sentirà anche nella scena della favola. Per quanto concerne la scena iniziale e la scena finale, che si svolgono ambedue presso lo stabilimento industriale, quasi tutti i critici sottolineano che si vedono dei colori brutti in un ambiente industriale sgradevole per colpa dell’inquinamento, alcuni hanno definito questi colori aridi, altri ancora parlano di colori freddi. Ma io richiamo l’attenzione sul fatto che a dominare sono il rosso, il bruno, quel tono brunastro del giallo che è incline verso il rosso, il giallo senape, questi sono tutti colori caldi. Antonioni sì che mostra i colori della luridezza e questi colori sono meravigliosi, anche se lo sono in modo innaturale. Ed è per questo che il cappotto color verde natura che indos-
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sa la donna, risulta estranea in modo agghiacciante tanto all’inizio che alla fine del film. Com’è possibile tutto ciò? A partire da Sergej Ejzenštejn è cosa risaputa che il significato e il valore sentimentale ed affettivo dei colori non sono determinati solo dai codici linguistici e culturali o da quelli dell’immaginario collettivo e della storia delle religioni, così come non li determinano solo le esperienze musicali basate sulla sinestesia o le associazioni aventi come base la storia psichica di un individuo. Le nozioni elencate naturalmente esercitano una forte influenza su di essi, ma infine il valore emotivo dei colori è determinato dalla complessità del film e delle scene. Nel caso di una concezione ben studiata e portata a termine possono nascere degli effetti e dei valori emotivi diversi o addirittura opposti rispetto al consueto. Per esempio il bianco, ritenuto in genere più allegro e il nero o il grigio, considerati luttuosi e tristi, appaiono in modo opposto nel film Aleksandr Nevsky: appare minacciante il freddo bianco dei Cavalieri Teutonici che avanzano sul lago ghiacciato, indossando cappucci e vestiti bianchi e procedendo su cavalli bianchi, mentre le macchie scure dei russi in difesa, tra il grigio neutrale di deboli cespusgli sulla riva del lago, appaiono più familiari, di un colore più caldo . Un altro esempio celebre per spiegare che il bianco e il nero possono assumere significati diversi lo rappresentano I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda: l’orribile oscurità del canale qui offre la vita, mentre il sole splendente sulla superficie significa la morte stessa, perchè li attendono là tedeschi armati. Ovviamente nel cinema a colori non può emergere così . S.M. E, Il montaggio verticale, in: I, Il montaggio. Saggi, a cura di P. M, Marsilio, Venezia .
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chiaramente questo significato. Ciononostante penso che vi sia qualcosa di originale e insolito in quest’intonazione di colori. In genere (ammesso che si possa generalizzare) la maggior parte delle persone ritiene gradevoli i colori caldi come il rosso, il giallo, il verde vivace, il marrone, insomma, i colori della terra e del bosco autunnale. Se a questo punto del film l’ambiente ci sembra “brutto”, questo è un sentimento contraddittorio e (in parte) lo proviamo perchè vi si proietta qualcosa della scena intera: del fatto che la ciminiera che emette fumo, la fabbrica arida ed enorme che occupa la periferia della città, appaiono tristi nonostante sulle mura degli edifici corrano tubi dai colori vivaci. Ed è possibile che — benchè lo spettatore non ne sia ancora cosciente — vi si proietti anche lo stato d’animo instabile di Giuliana. Neanche la scena del noioso convito, che si svolge nei pressi del mare, non la si può considerare “brutta in sè”. Tutto il contesto appare sgradevole in quella nebbia grigia e, benchè l’interno della capanna sia rosso e alcune donne indossino vestiti di colori vivaci (una per esempio porta un vestito verde) l’erba del prato intorno alla capanna dovette essere dipinta filo per filo di bianco dalla troupe, perchè desse l’impressione del prato morto e della natura morente. Il “deserto rosso” invece non è altro che il rossore di un deposito di ferro vecchio e del deposito di immondizia. Tutto questo sfuma ulteriormente il sentimento di alienazione e perdizione della protagonista. È la sua incertezza che aumenta nelle scene citate. È forse il suo stato d’animo che viene proiettato sul mondo esterno? La percezione patologica dei colori tende a sottolineare questo fenomeno. Inoltre, come afferma Bàlint Andràs Kovács , un teo. A.B. K, Screening Modernism: European Art Cinema. –,
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retico del film ungherese, considerandola anzi una delle principali caratteristiche dei film di Antonioni, i personaggi e l’ambiente nei suoi film hanno un rapporto vago. Questo rapporto è dominato dall’isolamento e dall’alienazione al quale si aggiunge la rappresentazione molto particolare dello spazio: gli spazi ampliati con il teleobiettivo, le impostazioni rotte dai quadretti, dai cunei, dalle forme astratte, e dalla forma geometrica delle composizioni, pratiche che risaltano nel cinema a colori (i personaggi non sono assorbiti nella profondità di campo ma le loro macchie colorate spiccano sullo sfondo di colore diverso.) La camera, quando si sofferma a lungo sulle bellezze colorate dell’ambiente e sui paesaggi della civiltà industriale mostra l’indifferenza dell’ambiente. Ci sono tanti campi lunghi grigiastri, altre volte grigio–marroni, ma i tanti colori vivaci rendono più splendente la scena: tubi, cavi, contenitori blu, rossi, gialli e verdi, il prato verde acceso, il fumo giallo. Secondo questa concezione il personaggio e il mondo esterno sarebbero indipendenti l’uno dall’altro, o almeno non vi sarebbe alcun rapporto diretto tra di essi. Vi è una contraddizione tra le due possibilità d’interpretazione, ma non la voglio sciogliere. Senza dubbio vi è una vibrazione, una tensione tra i due poli. L’interpretazione del regista non è l’unica giusta, ma Antonioni è un regista assai consapevole e, come tale, possiamo accettare la sua opinione come una possibile tra le tante opinioni contraddittorie. Alla fine del film ritorna lo stesso fumo, questa volta più verdastro, giallo canarino (questa tonalità del giallo viene percepita da tutti in modo sgradevole, mentre le tonalità calde, più vicine al rosso o all’arancione, sono piuttosto piacevoli), ma questa volta la protagonista dice al figlio che The University of Chicago Press .
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non bisogna aver paura del fumo giallo, anche gli uccelli lo evitano, non ci volano dentro. Si tratta forse di una rassegnazione da parte di Giuliana e dell’accettazione del modus vivendi? O abbiamo a che fare con una narrazione a spirale: Giuliana ritorna al punto di partenza, ma ad un livello spirituale più elevato? O si tratta di un finale aperto? Ciò che si oppone nettamente a queste scene dominate dai colori caldi è la scena della favola. Il mare turchino, il cielo azzurro e la sabbia rosa. Durante questa scena si sente continuamente una dolce melodia. L’azzurro è senza dubbio un colore molto amato, ma è anche un colore freddo. A mio avviso non è di primaria importanza il carattere caldo o freddo dei colori, ma la purezza dei colori stessi: nelle scene sopraccitate i colori sono sfocati, al momento dell’avverarsi della favola, all’improvviso, i colori diventano puri, brillanti. Giuliana comincia a raccontare la favola nella cameretta del bambino, nella profondità di campo si vedono il mare e una nave che si avvicina. Poi una carrellata: tutto il riquadro è dominato dal mare, la camera rimane ad osservare il mare mentre la voce della protagonista ci conduce nella scena successiva. Ritengo che questa scena, sotto l’ottica della teoria narrativa, utilizzi soluzioni molto interessanti: è molto difficile capire se la favola narrata dalla madre appaia nella mente di lei stessa o del bambino, così come è poco chiaro quali immagini interiori veda lo spettatore. Ci troviamo nella mente del bambino dalla fantasia molto vivace o in quella della madre? La voce della madre può risuonare in ambedue. Questo fenomeno è in relazione con quell’incertezza e con quel carattere onirico che, da Alain Resnais a Ingmar Bergman, è proprio di tanti e in generale caratterizza la produzione cinematografica moderna degli anni sessanta: non vi è più il regista onnisciente e così neanche lo spet-
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tatore può sapere tutto: ciò che abbiamo visto è realtà o sogno, è un ricordo, un desiderio o è successo veramente. In Persona è veramente presente il marito ed ha fatto davvero l’amore con Alma? Cos’è successo con Anna de L’avventura, o ancora, è successo qualcosa l’anno scorso a Marienbad (Alain Resnais: L’anno scorso a Marienbad)? Ciononostante i critici del film ritengono palese che assistiamo a delle scene presenti nell’immaginazione della madre. Probabilmente perchè in più scene del film i sentimenti della madre, ovvero della protagonista, vengono a proiettarsi sull’ambiente esterno e sui colori, quindi il film stesso rappresenta i suoi sentimenti e il suo stato d’animo. Pasolini è l’unica eccezione che sostiene «la sequenza del sogno: che, dopo tanta squisitezza coloristica è improvvisamente concepita quasi in un ovvio technicolor (a imitare, o meglio, a rivivere, attraverso una soggettiva libera indiretta” l’idea fumettistica che ha un bambino delle spiagge dei tropici)” . È una contraddizione apparente che sia proprio quel Pasolini a citare, come esempio per film poetico, Il Deserto rosso. Nella sua interpretazione Antonioni, mettendosi nei panni della protagonista, osserva il mondo dal punto di vista di Giuliana, quindi da quello di una persona di una cultura, lingua e stato d’animo (“squisiti fiori di borghesia”) simili a sè stesso, dunque il mondo interno di Giuliana non è rappresentato dall’oggettività del discorso libero indiretto ma dal soggettivo monologo interno in prima persona singolare. E per questo che Pier Paolo Pasolini lo chiama film poetico. Ricordiamo che nella teoria di Pasolini il “discorso libero indiretto” è pronunciato in una . Il cinema di poesia, in P.P. P, Empirismo eretico, Garzanti, Milano , p. . . Ibidem, p. .
. Colori caldi e freddi ne Il deserto rosso
lingua diversa da quella dell’autore mentre il “monologo interiore” è il mezzo per apostrofare qualcuno nella lingua dell’autore. Il discorso libero diretto soggettivo è solo un pretesto affinchè l’autore — con l’inserimento di un trucco narrativo — possa parlare in prima persona singolare. Se la scena del sogno, in base a quanto detto, la interpretiamo come la proiezione dell’ingegno del bambino e non di Giuliana, questo è da considerare un’eccezione in tutta l’opera. Secondo Pasolini è proprio per tale incertezza che questo film è una delle opere più caratteristiche dell’arte cinematografica moderna, chiamata da lui “film poetico”: due aspetti di una particolare operazione stilistica. . . estremamente significativa. . . L’accostamento successivo di due punti di vista, dalla diversità insignificante, su una stessa immagine: cioè il succedersi di due inquadrature che inquadrano lo stesso pezzo di realtà, prima da vicino, poi un po’ più da lontano; oppure, prima frontalmente e poi un po’ più obliquamente; oppure infine addirittura sullo stesso asse ma con due obiettivi diversi. Ne nasce l’insistenza che si fa ossessiva: in quanto mito della sostanziale e angoscia bellezza autonoma delle cose .
Da qui scaturisce la bellezza che particolarmente caratterizza questo film, quella dei colori: «il mondo si presenta come regolato da un mito di pure bellezza pittorica» . Ad eccezione di Pasolini, i critici del film ritengono che il mare azzurro e l’isola esistano solo nella mente della protagonista. Questo vorrebbe dire che Giuliana desideri far parte della natura intatta, trovarsi tra colori puri in un mondo dominato da colori freddi? Considerando la psicologia di Giuliana, mi sembra naturale . Ibidem, p. . . Ibidem, p. .
Scritti sul primo modernismo del film italiano che per lei quella storia diventi, inconsciamente, un’evasione dalla realtà che la circonda, la fuga verso un mondo dove i colori sono quelli della natura. Il mare è azzurro, la sabbia rosa
afferma lo stesso Antonioni nella celebre intervista fatta con Jean–Luc Godard . In ogni caso è forte il contrasto tra il paesaggio, l’ambiente cittadino e la costa distrutti dalla civiltà tecnologica, dove i colori sono mutati, mischiati, sfocati, desaturati e il paesaggio fiabesco, mondo dei colori puri (ammesso che non si stia guardando la versione in DVD, dove i contrasti sono troppo forti, eccessivamente visibili). A questo punto sorge un altro problema: il bianco sterile della cameretta del bambino. Un “bianco ospedaliero”: puro, evidente e, nonostante ciò, rigido. Vi troviamo colori vivaci: la ringhiera blu che spicca dal biancore dell’androne, il biancore del pigiama del bambino, delle lenzuola e della camicia da notte di Giuliana dinnanzi alla parete blu. Il blu vivace sottolinea ancora di più la sterilità del bianco. Non appartiene alla natura intatta, bensì al mondo creato dall’uomo, come anche il robot giocattolo continuamente in funzione. Si tratta forse di un’incongruenza? No, è solo la differenziazione e la contraddittorietà del mondo creato dal regista stesso. In ogni caso Antonioni, con la scena del robot e con l’intero film, voleva esprimere anche “la bellezza del mondo moderno”. Anche la percezione soggettiva della realtà che ha la protagonista assume un ruolo: la notte passata in questo appartamento rievoca in lei il tentato suicidio, l’incidente stradale, l’ospedale. Secondo . La notte, L’eclisse l’aurora. Intervista di Jean–Luc Godard con Michelangelo Antonioni, in: M. A, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, p. .
. Colori caldi e freddi ne Il deserto rosso
me qui si sta preparando l’atmosfera per la scena dell’isola, della quale nonostante i colori freddi non possiamo negarne la bellezza. Viene inoltre espressa la mancanza della percezione della realtà: la malattia del bambino è proprio l’insensibilità, la paralisi del sistema nervoso (certo qui non si tratta solo di una metafora: la paralisi infantile, infatti, era una malattia temuta all’epoca e non vi era ancora alcun vaccino contro di essa.) Quest’insensibilità in senso traslato caratterizza i personaggi, il marito, i partecipanti al convito nella capanna, ma non Giuliana e (un po’ meno) Corrado. Il figlio di Giuliana si ammala, o meglio si sente temporaneamente malato e viene considerato tale — ma il robot non si ferma. La mancanza della percezione della realtà e della comunicazione: sono questi gli argomenti dei dialoghi divenuti ormai celebri del film, dialoghi che girano intorno alla problematica relativa al cosa guardiamo–vediamo e al come vivere. Il mondo oggettivo e la percezione soggettiva diventano sempre meno distinguibili anche nella sfera acustica. La protagonista sente ciò che gli altri non sentono: la melodia eterea mentre racconta, e il suono della sirena che annuncia l’avvicinarsi della nave colpita dall’epidemia. Si sente come se il mondo volesse crollarle addosso. Giuliana racconta esperienze simili quando ricorda il tentato suicidio e il tempo passato in ospedale assieme all’operaio. “Una ragazza si sentiva soffocare” — sappiamo che qui parla di sè stessa — e a questo punto il muro è arancione vivace. Dove tutto ciò viene raccontato, ossia nell’appartamento dell’operaio, i colori sono vivaci, anzi, accesi: il grembiule della donna, il copriletto. La forma nella quale scompare la realtà — è questo mondo materiale ricolorato artificialmente. A questo punto, al momento del crollo spirituale, le figure scompaiono nella profondità di campo, i contorni netti si
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sciolgono nella nebbia, i colori diventano sempre più sfocati, impuri, fumosi. Nella nebbia (quando la protagonista lasciando la capanna si riavvicina al suicidio) la costa, la nave e tutto l’ambiente sono strani, lontani, sfocati, opachi, grigio–neri. Il rosso (nella scena precedente all’interno della capanna) può essere considerato come un segnale di allarme. Quest’orgia di colori, questa quantità immensa di colori vivaci dinnanzi ad uno sfondo grigio è insopportabile per la protagonista. È lo stesso sentimento che proviamo all’inizio del film, nella scena in cui il prato è verde vivace intorno alla raffineria di petrolio e dominano i colori vivaci (il fumo giallo, i tubi rossi); poi nell’appartamento dell’operaio, dove dominano i colori accesi (anche questo ambiente le fa venire in mente l’incidente e l’ospedale dove ha conosciuto l’operaio); infine nella capanna color blu vivace, dove le pareti interne sono rosso scuro e i tizzoni del fuoco arancioni; ma anche nell’albergo, al momento dell’incontro con Corrado. Un corridoio estremamente bianco, una camera dalle pareti bianche da ospedale, pannellatura marrone caldo, rosso, macchie viola sul muro e poi tutto invaso dal rosa. Giuliana vede i colori vivaci e allo stesso tempo spaventosi, a tal punto da provocarle, tramite i ricordi, un malessere psicosomatico? L’analisi dei colori affianca la “percezione patologica dei colori”. Il mondo colorato non è fatto così: è solo la protagonista che lo vede così. Anche tramite i vestiti Giuliana mostra che i colori del mondo le appaiono insopportabili: indossa vestiti di colore neutrale, senza mai un disegno nè colori vivaci, tranne il cappotto verde all’inizio e alla fine del film. Giuliana porta un vestito viola (nel negozio), una giacca grigia (per strada, uscita dal negozio), una maglietta grigia (nell’appartamento dell’operaio), una camicia da notte bianca e un foulard a casa, nella camera del figlio e nell’anticamera. Poi un vestito nero (nella capanna), uno viola sfocato in albergo, una
. Colori caldi e freddi ne Il deserto rosso
gonna e un gilet neri con una camicetta bianca nel deserto rosso, nel deposito di ferro vecchio del porto dove la nave è arrugginita, la macchia d’olio in mare è marrone ma ci sono comunque colori vivaci. I contenitori, le scale, la ringhiera, infatti, sono rossi. Il mondo della favola, il rosa pastello, l’azzurro del mare e del cielo rompono quest’orgia di colori con la loro vivacità che, in conseguenza alla crisi, diventano sfocati, grigi, marroni. Per mare qui intendo il mare della favola e non il mare reale con la spiaggia nebbiosa, dove Giuliana fugge dal convito libertino privo di ogni erotismo. Anche Rosina di Le Amiche e Anna de L’Avventura muoiono in mare. Anche questa scena — un nuovo tentativo di suicidarsi? — si svolge sulla costa marittima nebbiosa e grigia come il suicidio del protagonista maschile de Il Grido (che si getta da una torre). Il mare o il grigiore significano desiderio di morte, il desiderio di unirsi alla natura. Secondo un monografista di Antonioni la nave contagiata è la morte stessa. Non guardarlo in faccia, pietrificarsi — è questo il desiderio di Giuliana in uno stato d’animo instabile. È per questo che solo lei sente la sirena, ossia il richiamo della morte che gli altri non sentono. Anche questa è un’interpretazione possibile. Ma in seguito la donna guarisce da questo stato. Dopo aver vissuto diverse esperienze, anche il figlio guarisce, Corrado parte, il suo stato d’animo diventa stabile, invece della fuga accetta l’alternativa dell’adattamento e dopo ciò, anzi, per ciò, a sua volta interpreta diversamente il fumo giallo alla fine del film rispetto alla scena iniziale. Questa interpretazione spiega anche perchè è diverso il significato della sequenza iniziale del film rispetto a quella finale, benchè il mondo dei colori sia lo stesso. . D. G, Invito al cinema di Antonioni, Mursia, Milano .
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Come potremmo definire la differenza tra i due mondi di colori? Da un lato troviamo il mare coperto di nebbia, la strada grigia dove si vende frutta grigia, i muri verdi pallidi, la fabbrica dai tubi colorati: questo mondo è caratterizzato sia dai colori vivaci che da quelli vaghi. Dall’altro lato troviamo il mare e il cielo azzurri, ovvero il mondo della favola. Sembra indefinibile ogni distinzione tra i colori freddi e caldi, puri e impuri, naturali e innaturali. Benchè i colori siano molto espressivi, la saturazione dell’immagine non è meno importante. La fabbrica e i suoi dintorni (consideriamo ora le scene iniziali e finali del film) riempiono quel vuoto. È un luogo progettato e pianificato con delle forme regolari e colorate (tubi, contenitori ecc.) Nonostante la natura sembri quasi venire a meno, esso è pieno dei segni della civiltà. Nella profondità di campo il moto è continuo, persone e automobili si avvicinano e si allontanano. Paradossalmente il vivo si avvicina alla natura morta, alla costa nebbiosa, dove non ci sono contorni netti, non ci sono colori (a parte la bandiera gialla della nave della morte che, a sua volta, può essere considerata un segnale di allarme). La natura è vuota — siccome essa è il nulla stesso. È questo contrasto che ritengo fondamentale: la regolarità, la vivacità, ma anche la ripugnanza del mondo creato dall’uomo, l’ambiente colorato e moderno e la natura morta, meno colorata ma non meno insopportabile. A far nascere questo contrasto — l’utopia mitica e allegorica ricca di colori, il mondo del mare azzurro e dell’isola — è l’ambiente industriale dipinto artificialmente in modo così vivace. Nelle scene in cui l’immagine non è piena ma è quasi vuota, l’ambiente non è mai regolato dall’uomo e l’orizzonte è ampio.
Traduzione di Márk Berènyi Revisione linguistica di Michele Sità
Capitolo V
Dante e il cinema∗
La Divina Commedia di Dante ha un effetto così straordinario, è un’opera così ricca di immagini e stimola talmente la fantasia, da offrirsi di per sé all’elaborazione cinematografica. Ci sono stati vari tentativi che procedevano in questa direzione, nonostante ciò non esiste un vero e proprio adattamento cinematografico. La sua elaborazione più bella e stilizzata la si ritrova in un film muto italiano, un film che ha poi dato ispirazione ad opere cinematografiche posteriori. Tutte le elaborazioni cinematografiche dell’opera principale di Dante si proponevano la realizzazione di un film sull’Inferno, forse perchè il mondo delle sofferenze eterne è più spettacolare di quello del Purgatorio o del Paradiso, e forse perchè l’Inferno stimola di più sia la fantasia dei registi che quella del pubblico. Ciò sembra trovare conferma nel fatto che, quando Gassman e Benigni recitano Dante in televisione, leggono pure dei canti del Purgatorio e del Paradiso — pur tenendo presente che queste letture, ovviamente, non costituiscono dei film, rappresentando bensì il risultato artistico del lavoro di due grandi attori. Risale al il primo film muto, l’Inferno di Giuseppe De Liguoro. Nell’ambito di quali processi nasce l’Inferno e ∗ La prima versione di questo saggio fu pubblicato nel volume: E. V (a cura di), Leggere Dante oggi. Interpretare, commentare, tradurre alle soglie del settecentesimo anniversario, Aracne editrice, Roma , pp. –.
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quali sono le esigenze che soddisfa? In seguito alle prime proiezioni (del ) per vari anni hanno avuto successo i film brevi che registravano il movimento, i piccoli eventi quotidiani, la “vita spiata”, inoltre i film burleschi dei fratelli Lumière e i film di fantasia di Mèliès, pieni di trucchi spettacolari, che si svolgono tra apparati scenici dipinti, mostrando parentela col mondo del teatro e del circo. Il cinema affascina il pubblico innanzitutto come un’invenzione tecnica e come intrattenimento quotidiano — all’inizio disprezzato dall’èlite culturale. Intorno al già si sente l’esigenza di realizzare dei film più estesi, con delle narrative più complesse. Quest’esigenza si manifesta, in maniera particolare e per la prima volta, proprio in Italia. Accanto alla Francia era l’Italia il Paese in cui sono stati girati, inizialmente, dei lungometraggi con più pellicole. Per alcuni anni (tra il e il ) i film italiani rubano il primato alla Francia. Questo cambiamento è facilitato dal fatto che, per le riprese esterne, l’Italia aveva a disposizione una grande abbondanza di apparati scenografici naturali, luoghi ed edifici per rievocare l’antichità, oltre alle comparse. Grazie a questa predisposizione sono nati dei monumentali film storici in costume, con degli apparati di scena e dei costumi spettacolari, ma anche con l’utilizzo di grandi masse in movimento. Tali film servivano d’esempio anche al cinema americano, per es. ai grandi film storici di Griffith, ed hanno anche introdotto delle innovazioni nel linguaggio cinematografico delle immagini. I registi italiani hanno elaborato dei temi ispirati all’antichità (Luigi Maggi: Gli ultimi giorni di Pompei, Giovanni Pastrone: La caduta di Troia, ; Giuseppe De Liguoro: Odisseo; Ernesto Mario Pasquali: Giulio Cesare; Arturo Ambrosio: Lo schiavo di Cartagine; Ernesto Mario Pasquali:Spartaco), poi alla storia italiana successiva,
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in particolare al periodo del Risorgimento (Luigi Maggi: Nozze d’oro; Fosco: Napoleone), ma prendevano anche ispirazione dalla letteratura (Enrico Guazzoni: Gerusalemme liberata; Giuseppe De Liguoro: Inferno), dalle opere di Zola, Dumas, Shakespeare, Schiller, Manzoni, Tasso, Omero. Mario Caserini gira dei film su Antigone, Otello, Macbeth, Romeo e Giulietta, Amleto e Cid. I due più grandi successi sono Quo vadis?, di Enrico Guarzoni, risalente al , ispirato al romanzo di Sienkewicz (che dà un’immagine grandiosa della Roma all’epoca di Nerone e della persecuzione dei cristiani), e Cabiria, di Giovanni Pastrone, risalente al (un film storico spettacolare sulla guerra romana–punica e sul passaggio di Annibale attraverso le Alpi). Nella cinematografia italiana il primo film a soggetto per una serata intera era l’Inferno del di De Liguoro. È peculiare che il primo film a soggetto in Italia sia stato proprio un adattamento dell’opera di Dante. L’Inferno ha avuto un buon esito in Francia, in Germania, in Spagna e anche negli Stati Uniti. Col tempo il cinema stava diventando sempre più un giro d’affari, per questo motivo i produttori e i distributori (i nomi dei registi in questo periodo non contavano ancora) intendevano reinvestire ed aumentare il capitale ricavato grazie al successo di un film. Non mi occuperò qui nei dettagli di questo fenomeno, vorrei comunque segnalare la grande importanza che questo ebbe ad assumere. Tra i motivi esterni che hanno portato al successo di questo film, accennerei a quel fatto, noto nella sociologia dell’arte, secondo cui il cinema sarebbe diventato particolarmente importante — oltre che come forma di intrattenimento, anche come motivo di chiarimento, di propaganda e di divulgazione delle conoscenze — in tutti quei Paesi in cui c’erano delle masse enormi di analfabeti: ciò è dimostrato
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dal successo di cui godette il cinema nella Russia e negli Stati Uniti degli anni dieci e venti, ma anche in quei Paesi in cui la lingua non aveva ancora raggiunto una conoscenza univoca ed omogenea. Tra questi ultimi si trova anche l’Italia. Allo stesso tempo, all’inizio del Novecento, c’è un’esigenza enorme nei confronti della ricreazione, per cui sono molto popolari la lanterna magica, il circo, il mondo dei giocolieri e quello dello spettacolo in tutte le sue forme possibili. Nei primi brevissimi film muti non c’erano delle didascalie, quindi questo tipo di film poteva essere popolare anche tra coloro che erano in grado di concentrarsi esclusivamente sul movimento, sulla spettacolarità e sul miracolo tecnico. Proprio per questo hanno un ruolo così determinante i film storici in costume, nonchè quelli ispirati a temi letterari: il film muto era adatto per diventare la Biblia Pauperum (Bibbia dei poveri) del Novecento. Il film muto narra gli eventi biblici, storici e letterari in una forma comprensibile e popolare, col passare del tempo anche con l’inserzione di sottotitoli (che, nel corso della distribuzione all’estero, dovevano essere pure tradotte — ma ciò si poteva risolvere relativamente a buon prezzo, giacchè il cinema muto rappresentava tuttavia un linguaggio internazionale; tale situazione cambierà radicalmente con l’introduzione dei film sonori). In questo modo il film muto avrà, quindi, una rilevanza di tipo propagandistico e, per questo motivo, verrà accettato anche dall’èlite sociale e dagli intellettuali. Un altro motivo per cui viene accettato dalla classe media consiste nel fatto che, col tempo, ha oltrepassato la gloria dubbia del mezzo di intrattenimento volgare delle classi inferiori. In questo modo gli intellettuali non vedranno più come una vergogna l’andare al cinema, anzi, potranno anche occuparsene in qualità di sceneggiatori (Cabiria per es. è firmato da D’Annunzio),
. Dante e il cinema
giornalisti e anche critici. Agli intellettuali il film offre anche il piacere del riconoscere, ossia la possibilità di rivivere e rievocare storie già conosciute. Per tal motivo un adattamento dantesco assume il significato di un’esperienza sia per chi ha solo dei ricordi vaghi di scuola sulla Divina Commedia, sia per chi conosce nei dettagli tale opera ed è curioso di vederla trasformata in immagini. Inoltre, giacchè si tratta di cinema muto, il film in questione diventa un’esperienza che si offre non solo al pubblico italiano, ma anche a quello inglese, francese e tedesco. A questo punto nasce un nuovo problema estetico che, a ben vedere, è anche di carattere narrativo. Il film, mostrando i protagonisti, i luoghi e gli eventi che fino allora esistevano solo nell’immaginazione dei lettori (e dell’autore), restringe lo spazio dell’immaginazione e rende tutto troppo concreto. Proprio per questo, le opere letterarie che vengono adattate al cinema, causano spesso disillusione. Guardando Madame Bovary o Anna Karenina, non posso più immaginarle così come vorrei, ma solo nel modo in cui la camera le mostra. D’altra parte, nell’ambito visivo concreto del film, è molto difficile far percepire concetti astratti, formare delle astrazioni di alto livello, ossia ottenere, per esempio, che il paesaggio mostrato dalla camera significhi più di ciò che, di per sè, già rappresenta. Non è facile che un monte, una foresta o un fiume, siano più di quel che mostrano e che noi, quindi, possiamo vedere in essi l’Inferno o il fiume Stige. Tale stilizzazione, comunque, piuttosto che nell’ambito audio–visuale del cinema sonoro, sembra più facilmente realizzabile in quello esclusivamente visivo del cinema muto. Nel film muto, però, ci troviamo di fronte ad un problema narrativo: non essendo di per sè evidenti le connessioni tra le diverse scene, la continuità visiva deve per forza essere continuamente
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interrotta dai sottotitoli. Tornerò su questo problema a proposito del film di De Liguoro. Il pubblico desidera rivedere più volte sullo schermo le storie che conosce, innanzitutto perchè il film è più suggestivo della parola: vuole conoscere o rivivere le vicende note, oppure conosciute per sentito dire. Si possono fare degli adattamenti cinematografici di romanzi e di drammi, si possono rievocare i caratteri, narrare le azioni e ricreare le atmosfere di un’epoca. Nel caso di un’opera letteraria così peculiare come la Divina Commedia, è più appropriato parlare di illustrazioni piuttosto che di adattamenti cinematografici. Questi film illustrano per mezzo di immagini o serie di immagini il testo comunicato nei sottotitoli o nel testo verbale. Un adattamento vero e proprio sarebbe quello che offre un’interpretazione possibile di un’opera letteraria, narrando la storia per mezzo di un linguaggio cinematografico autonomo, senza ripetere il soggetto (sujet), ossia l’argomento. È raro che di grandi opere letterarie si possano fare dei grandi film; quelle mediocri sono più appropriate all’adattamento. Oltre al problema del genere letterario, anche per quest’ultimo fattore risulta difficile adattare al cinema l’opera di Dante. Non appena era diventata possibile — in senso tecnico e psicologico — la produzione e la ricezione di film più lunghi, non appena il pubblico si era abituato alla comprensione di connessioni complesse e al montaggio, già nel nasceva l’idea di girare un film sull’Inferno di Dante. Due studi rivali hanno cominciato a girare dei film su questo argomento (l’antecedente di Milano ed Helios). Nel è uscito un film pubblicitario dal titolo Saggi dell’Inferno dantesco; dopo tre anni di lavoro, nel è stato comple-
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tato, nello studio Milano, il film intitolato Inferno (com’è stato già accennato, il primo film che coprisse un’intera serata), che è stato presentato nel marzo del a Napoli, presso il Teatro Mercandante. Il fondamento del film è stato definito in questo modo: “Soggetto: dalla Divina Commedia di Dante”. I creatori del film erano Francesco Bertolini, Adolfo Padovan e Giuseppe De Liguoro; secondo altre fonti il regista era esclusivamente De Liguoro. L’operatore di ripresa era Emiliano Roncarolo. Tra gli attori figura lo stesso Liguoro, nella parte di Ugolino. Oggi il film è visibile con accompagnamento musicale (su un nastro sonoro): nella versione restaurata dal British Film Institute e pubblicata su DVD nel si ascolta la musica di Edgar Froose. Passando all’analisi del film di De Liguoro, che considero il miglior film dantesco, vorrei accentuare l’unità visivo–atmosferica dell’opera. Le didascalie (preparate da D’Annunzio) rievocano gli eventi, denominano i protagonisti, definiscono i loro peccati e castighi. Oltre alla funzione esplicativa, fungono anche da dialoghi e da commenti, sono sufficientemente brevi e dense. Ciò è importante perchè le inserzioni non hanno una mera rilevanza informativa, ma determinano anche il ritmo del film. Le didascalie che interrompono le immagini (e la musica che si ascolta oggi) in definitiva non distolgono la nostra attenzione dalle immagini, al contrario aiutano la loro ricezione e contribuiscono a dare unità all’atmosfera. Il mondo visivo del film è ispirato alle illustrazioni dantesche di Gustav Dorè. Il fumo turbinante, l’illuminazione . Versione restaurata di G. D L, L’Inferno; F. B, A. P, G. D L: L’Inferno, British Film Institute, ; Music composed and performed by T. D, E. F and J. F.
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espressiva e le convulsioni della massa degli uomini nudi crea l’atmosfera di base dell’Inferno. Solo raramente si vedono primi piani o campi medi: gli eventi per lo più sono osservati da campi lunghissimi, campi lunghi o campo totale. ciò rende possibile che le persone siano mostrate nude, per esempio inquadrate di spalle o di semiprofilo, mentre aspettano il battello di Caronte. La camera non mostra da vicino nè gli abitanti del Limbo, nè quelli sofferenti dell’Inferno (che nella narrazione dantesca sono delle persone ben denominate, la cui sorte è conosciuta): ciò sarebbe il caso tra l’altro di Cleopatra e di Elena, dei dotti, degli scienziati e dei filosofi dell’antichità, di Orazio, di Ovidio e di Aristotele. In primo piano o in campo medio sono mostrati invece i mostri dell’Inferno — che per questo non sono totalmente nudi — per esempio Minosse e Cerbero. Si riceve l’immagine a campo lungo dei corpi visibili solo di fianco o dal collo in su, e delle teste. Le immagini a campo totale suggeriscono l’atemporalità e l’eternità dei movimenti: per esempio si mostra sempre a campo totale la posizione corporea peculiare, il volo, o — al contrario — coloro che sono immersi nello sterco, gettati nel fuoco, ghiacciati, o il movimento in seguito al quale si respingono i peccatori nella caldaia ardente; inoltre i movimenti eseguiti dai dannati per l’eternità, per esempio quelli di coloro che rotolano i sassi. Sono frequenti le immagini composte diagonalmente e i campi d’immagine divisi. Virgilio e Dante spesso guardano dall’alto o da un lato gli eventi, da un’angolazione simile a quella dello spettatore, in questo modo elevandosi anche leggermente oltre. Oltre ai campi lunghi e ai movimenti ripetitivi, anche l’illuminazione e l’illustrazione del paesaggio contribuiscono alla formazione della stilizzazione. Il film in bianco e nero rappresenta, già in sè, un ambito più astratto e stilizza-
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to rispetto al mondo eterogeneo del film a colori. Nel caso di questo film (oltre al fatto tecnico) è assolutamente motivata l’assenza dei colori, dato che nell’Inferno non ci sono colori. Quando Dante e Virgilio cominciano la discesa nell’Inferno, l’immagine si oscura. Quando sono in ascesa, il quadro si schiarisce. Il contrasto dei colori scuri e chiari, le numerose macchie bianche, l’illuminazione forte e la frequente contro–illuminazione causano l’impressione della nebbia, allontanando anche in questo modo l’immagine cinematografica dall’illustrazione diretta e naturalistica. In che modo diventa stilizzato un paesaggio? In che modo creano, il regista e l’operatore di ripresa, quella distanza che rende possibile vedere non semplicemente un monte, una valle, una foresta, un fiume, ma l’Inferno stesso? Rivestendo tutto di nebbia e rendendo incerti i contorni. Ancora prima della discesa riceviamo una segnalazione marcata, relazionata al fatto che ci troviamo in un mondo stilizzato e non nella natura. La pendice del monte è più dirupata del naturale ed è immersa nella nebbia, i contorni delle montagne non sono chiari, anche nella valle turbina la nebbia. Nell’Inferno stesso, poi, alla presenza del fuoco, dell’acqua e della lava ardente, sono ancora più accentuati gli effetti dei contorni sfumati: nelle immagini dei paesaggi si vedono continuamente la nebbia, i vapori e il fumo. Accanto alle masse e agli individui appaiono sullo schermo anche delle creature particolari, questa volta non rivestite di nebbia, ma con contorni ben definiti: esseri con penne e con ali, serpenti, arpie, furie, infine la figura di Gerione, simile ad un drago. Queste soluzioni d’immagine sembra che proiettino il linguaggio cinematografico nell’odierna “science fiction”. ciò si può dire anche in connessione ai trucchi: gli esseri volanti, l’uragano che fa volare Paolo e Francesca verso lo spettatore, il movimento
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di Anteo che sospinge Dante e Virgilio sulla riva opposta, Bertran de Born, che porta la propria testa tra le mani, nonchè le gambe che pendono dalla bocca di Lucifero. Con l’aiuto di questi trucchi usciamo, talvolta, dallo spazio nebbioso, ci allontaniamo dal luogo immediato e otteniamo una prospettiva sugli eventi: con ciò viene inserito anche un certo elemento grottesco nel corso degli eventi (e in questi casi i contorni sono sempre chiari), come per esempio nella scena in cui Odisseo e Diomede parlano tra loro sulle due rive di un fosso. Anche nella rappresentazione del tempo si osserva una duplicità. La maggior parte delle scene suggerisce atemporalità, ma ce ne sono alcune in cui qualche storia viene rievocata — per esempio quella di Ugolino e quella dell’accecamento di Pier della Vigna. I flashback hanno degli stili diversi rispetto al resto del film: narrano nello stile dei film storici in costume, con dei dettagli minuziosi, la storia dei protagonisti in questione. La distanza, l’illuminazione, il paesaggio stilizzato promuovono la formazione di un mondo d’immagini unitario. Perciò questo film è quasi un adattamento, nel senso che rievoca per mezzo di un linguaggio cinematografico autonomo — ispirato da Dorè — il mondo dantesco. Sono stati realizzati anche degli adattamenti televisivi dell’opera di Dante. Tra questi ve ne sono alcuni in cui un grande attore, con pochissimi accorgimenti di regia, narra il testo (Gassman legge Dante, Benigni legge la Divina Commedia). Questi sono i più adatti ad assumere la funzione di “Biblia Pauperum”. Fanno conoscere Dante sia a coloro che non hanno mai letto l’opera completa, sia a quelli che vogliono rivivere e riconoscere ciò che già conoscevano a proposito di Dante. Si tratta quindi di produzioni popolari che hanno molto successo, Benigni ha
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avuto un successo straordinario recitando Dante per le strade. In quest’occasione non mi occuperò nè di questi nè di altri adattamenti teatrali e musicali. Questi ultimi, paragonati alla recitazione, rappresentano il limite opposto: gli effetti visivi e sonori, la musica e il ballo dominano la scena, mentre il testo diventa secondario. Si deve inoltre accennare ad una produzione televisiva che ha cercato di adattare l’opera di Dante al linguaggio cinematografico: Peter Greenaway e Tom Phillips, nel , hanno realizzato una serie televisiva su alcuni canti dell’Inferno. Vediamo in primo piano Bob Peck nel ruolo di Dante e John Gielgud nel ruolo di Virgilio, che recitano il testo. Dietro di loro, sullo sfondo, nonchè in seguito nella parte anteriore della scena, si animano le immagini che illustrano il testo. Si vede la lonza, poi il leone, la lupa, infine il veltro, in seguito — da vicino e a colori — i movimenti, le convulsioni, la sofferenza di corpi nudi. La sequenza d’immagini viene a volte interrotta dal viso in primo piano di qualche esperto, ossia di uno storico, di un filologo, di un biologo e di uno psicologo, i quali — dai propri punti di vista — spiegano quali significati assumessero, per i contemporanei di Dante, la lonza, il leone, la lupa e il veltro, come immaginavano l’oltre mondo, inoltre cosa bisogna sapere sulla puntura della vespa, sulle stelle, chi era Virgilio, Aristotele, Omero, e quanto sia grande per lo spirito il carico della disperazione. Involontariamente si giunge ad una ridondanza: si narrano, si mostrano e si spiegano le stesse cose. Giacchè non si forma alcun ambito omogeneo, non c’è stilizzazione, tutto ciò rimane frammentario, non si giunge ad alcuna coerenza, nè ad alcuna intensità. Le immagini non mostrano solo i dotti che passeggiano con dignità nel Limbo e i corpi che soffrono nei cerchi
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infernali, nel mezzo di strisce e di effetti colorati, di cambi intensi di trucchi digitali e di animazioni computerizzate, ma anche — con anacronismo intenzionale — molte scene prese dal mondo d’oggi: file di automobili illuminate dai neon, immagini di ecografie, diagrammi, tabelle, mucchi di libri. A volte si percepisce qualche connessione tra il Canto rievocato e l’informazione odierna, per esempio la scena di Paolo e Francesca è anticipata da un servizio meteorologico. Ma pure nei casi in cui si suppone che ci sia qualche connessione, i commenti non contribuiscono nè intellettualmente, nè dal punto di vista sentimentale al testo narrato, anzi, col loro carattere didattico, diminuiscono la tensione nello spettatore. Per esempio quando si ascolta “Lasciate ogni speranza voi, ch’entrate”, appare il termine “speranza” in venti lingue, ogni versione quattro volte ai quattro angoli dell’immagine, poi ognuna delle venti parole viene cancellata quattro volte. Greenaway, regista postmoderno, in quel periodo si occupava del “multimedia project”: intendeva rappresentare opere d’arte introducendo il maggior numero possibile di ambiti eterogenei. Nei primi anni Novanta ha realizzato delle installazioni–video su pitture ed opere musicali classiche. Passiamo ora all’ultima domanda: si può parlare dell’influenza di Dante sull’arte cinematografica? Esistono dei film che, pur non essendo degli adattamenti, mostrano l’influenza dell’opera di Dante? Naturalmente non mi riferisco alle produzioni in cui il titolo o l’azione richiamano il termine “inferno”, o in qualche modo l’aldilà (ci sono numerosi film di questo tipo, da Federico Fellini a Giuseppe Tornatore, da Claude Chabrol a Dario Argento, a Tom Tykwer, a Danis Tanovi´c ed a Krzysztof Kie´slowski), ma ad un’eventuale influenza diretta. Nel caso del primo
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episodio siciliano di Paisà di Roberto Rossellini forse si potrebbe parlare di un’influenza del genere: Carmina e Joe scendono nell’inferno, nell’oscurità, per attraversare la lava ardente; nessuno dei due sopravvive. Pier Paolo Pasolini si riferisce direttamente a Dante in Salò o le giornate di Sodoma, nel quale rappresenta delle sofferenze e delle torture di vario genere, suddivise nel seguente modo: “girone delle manie”, “girone della merda” e “girone del sangue”. Non è stato tuttavia un regista italiano a realizzare il film che — secondo me — presenta la maggior influenza dantesca e che, quindi, potrebbe essere considerato come un’interpretazione moderna dell’inferno: si tratta del polacco Andrzej Wajda. L’azione del suo film, intitolato I dannati di Varsavia si svolge negli ultimi giorni della ribellione di Varsavia, nel settembre del . Nel film la strapotenza dei tedeschi costringe alla ritirata un gruppo di insorgenti polacchi. Loro intendono arrivare dalla periferia della città al centro attraverso il canale di Varsavia. Sono soggetti a delle sofferenze terribili. Il primo terzo dell’intero film, così come le ultime due scene, si svolgono letteralmente nell’inferno moderno, nelle fogne della città, ossia nel “girone della merda”. I protagonisti si smarriscono, vagano, soffrono per la mancanza d’aria, per la puzza, per l’acqua che arriva ai fianchi, per il gas velenoso (introdotto nel canale dai tedeschi), per il freddo, inoltre per la pazzia e per la disperazione. Wajda illustra la loro situazione col contrasto drammaturgico enorme tra luce e tenebre. La luce del sole e la luminosità, che generalmente rappresentano la libertà, in questo contesto assumono il significato opposto della morte. Colui che arriva in superficie si tro. A. W: I dannati di Warsavia (Kanał), .
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verà di fronte alle armi tedesche. Alcuni protagonisti, che alla fine arriveranno in superficie, lo spettatore li rivedrà poi prigionieri, in attesa dell’esecuzione. L’inferno è sotto, ma è anche di sopra. Quando la protagonista (“Cento volte bella” è il suo soprannome cospirativo) infine troverà la via d’uscita, il suo compagno ferito (che è il suo amore) già non sarà in grado di risalirla: così ambedue torneranno indietro. Alla seguente occasione, quando di nuovo vedono la luce del sole, sono ostacolati da sbarre, definitivamente e senza speranza. Il loro calvario è mostrato da un’angolazione inferiore della camera, in controluce — si potrebbe dire, in un modo un poco idealizzato. Wajda, nel suo film, fa più volte riferimento all’opera di Dante: “questo qui è l’inferno”, dicono alcuni protagonisti il cinquantaseiesimo giorno della ribellione, prima ancora della discesa nell’inferno. “Questa è l’acqua del Lete, ossia del fiume dell’oblio”, dice uno dei protagonisti che beve l’ultima goccia di vodka dalla borraccia. Laggiù, nella profondità, un pianista — presentato all’inizio del film come “l’Artista” — cita dal Canto XVIII dell’Inferno. Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso.
Nel testo polacco, così come in quello ungherese del film, la narrazione è in prima persona plurale. «Siamo noi — dice l’Artista — che man mano avanziamo, giungiamo sempre ad una maggiore profondità in questo canale sanguinoso». «Cosa dici Michal?», gli domandano. «Questi . Inferno XVIII, –.
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sono i pensieri di Dante», risponde lui. Non è tuttavia soltanto per questi riferimenti diretti che intendo mettere in rilievo l’importanza del film di Wajda. Questo film è un’illustrazione, un’interpretazione possibile dell’Inferno, realizzata coi mezzi del linguaggio cinematografico moderno. Bisogna però osservare due differenze importanti rispetto all’opera dantesca. Nell’Inferno di Dante la sofferenza è atemporale ed eterna; nell’inferno moderno di Wajda è invece il contrario: è proprio la coscienza della propria esistenza finita che causa sempre maggior sofferenza ai protagonisti. Non hanno delle armi, nè rifornimenti, nè acqua pura, nè aria; non hanno un posto dove andare ed hanno a disposizione solo poche ore: o moriranno nell’inferno sotterraneo, o si troveranno di fronte alle armi tedesche in superficie. La tensione aumenta — a livello di drammaturgia — anche per il fatto che lo spettatore, già all’inizio del film, ne conosce l’esodo: il narratore stesso ci spiega che il film mostrerà le ultime ore della vita dei protagonisti. Nell’Inferno di Dante si possono conoscere — nel caso di ogni individuo — i peccati e le punizioni corrispondenti. Nell’inferno moderno di Wajda i protagonisti non hanno commesso dei peccati ma, al contrario, sono proprio loro che lottano per una causa giusta. Allo stesso tempo, però, non sono degli eroi, bensì delle persone comuni e caduche. Oltre che dalla causa dell’insurrezione nazionale, della resistenza antinazista e dell’identità della loro situazione personale, sono stimolati da vari motivi. Le differenze etiche–morali si manifesteranno nell’esodo. C’è chi si offre per l’auto sacrificio (l’eroina e il comandante), c’è chi dimostra d’essere egoista, e c’è colui che alla fine sarà un traditore. L’eroina bionda, “Cento volte bella”, che guida da Beatrice il suo amore ferito e cieco, si sacrifica per poter
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passare le ultime ore insieme a lui: non sale per l’uscita trovata e quindi conosciuta esclusivamente da lei, ma rimane laggiù e, con delle bugie ufficiose, rende più facile le ultime ore dell’uomo. L’altra coppia amorosa, invece, si separa, giacchè la loro relazione si basava sulla menzogna, l’uomo era un egoista. Il comandante (il tenente “Scaglia”) non rinuncia mai allo scopo prefisso di dover guidare fuori dal canale il suo gruppo: deve uccidere tutti quelli che — dicendo che già non esiste il gruppo — intendono cambiare questo scopo. Il tenente riesce ad arrivare in superficie per mezzo d’un uscita che non è custodita dai tedeschi, poi torna indietro e, non volendo abbandonare i propri uomini, di nuovo discende nell’Inferno. Altri ancora sono condotti dalla propria mania e, proprio in questo, si scorge l’atemporalità. C’è anche colui che, persino in questa situazione fatale, insegue con la propria gelosia il proprio amore. Il pianista impazzisce per una melodia ascoltata perpetuamente. Si tratta, quindi, di un bel film moderno, pur tuttavia ispirato a Dante. Traduzione di Jòzsef Nagy Revisione linguistica di Júlia Csantavèri
Filmografia A A., Lo schiavo di Cartagine. A M., Le amiche, . A M., Il grido, . A M., L’avventura . A M., La notte, . A M., L’eclisse, . A M., Il deserto rosso, . A M., Blow–Up, . A M., Zabriskie Point, . A M., Professione: reporter, . Benigni legge la Divina commedia, RAI UNO, –. B I., Persona, . D L G., Odisseo. D L G., Inferno, Milano Film, . D S V., Ladri di biciclette, . E S.M., La corazzata di Potemkin, . E S.M., Alexander Nevsky, . F F., Giulietta degli spiriti, . Gassman legge Dante, RAI, . G P. e P T., TV–Dante, mini series, . G E., Quo vadis?, .
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