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Italian Pages 229 [232] Year 2013
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CINEMA - FOCUS COLLANA DIRETTA DA CHRISTIAN UVA
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ISTANTANEE SUL CINEMA ITALIANO FILM, VOLTI, IDEE DEL NUOVO MILLENNIO a cura di Franco Montini e Vito Zagarrio
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CINEMA Collana diretta da Christian Uva
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(Università degli Studi Roma Tre) Comitato scientifico Enrico Carocci (Università degli Studi Roma Tre) Luigi Cimmino (Università degli Studi di Perugia) Enrico Magrelli (Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale) Giacomo Manzoli (Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) Andrea Minuz (Sapienza Università di Roma) Alan O’Leary (University of Leeds) Guido Vitiello (Sapienza Università di Roma) Vito Zagarrio (Università degli Studi Roma Tre)
© 2012 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it
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Indice
9 Introduzione Scenari del cinema italiano oggi FRANCO MONTINI E VITO ZAGARRIO
Il contesto produttivo 15 Per un pugno di dollari: il ruolo del produttore BARBARA CORSI
21 Il sostegno economico al cinema italiano ELEONORA RAIMONDO
39 Il cinema digitale italiano tra alta e bassa definizione CHRISTIAN UVA
Generi e autorialità 51 Il genere nel nuovo cinema italiano VITO ZAGARRIO
61 Il vero genere è il cinema d’autore PIERO SPILA
67 Sorrentino e Garrone, il nuovo cinema ibrido CRISTIANA PATERNÒ
73 Gomorra: l’apocalisse fuori dal genere PIERPAOLO DE SANCTIS
79 «L’elemento che sfugge»: Dario Argento MARIO MAZZETTI
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85 Paranoid androids: per una teoria del film italiano di genere
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PAOLO RUSSO
101 Viaggio al termine della notte. Lo sguardo sul genere di Salvatores FRANCESCO CRISPINO
109 Mazzacurati: fra commedia e noir BARBARA CORSI
113 Romanzo criminale: il poliziesco è morto, viva il poliziesco! LUCA PALLANCH
Attori e attrici 121 Il volto sulla maschera PIERO SPILA
127 Attori e personaggi PAOLO D’AGOSTINI 135 Davanti e dietro la macchina da presa: una tentazione inevitabile FRANCO MONTINI
143 I caratteristi STEVE DELLA CASA
147 Tra cinema e teatro MAURIZIO PORRO
153 Tutti pazzi per la fiction? LAURA DELLI COLLI
Il cinema del reale 161 La rivoluzione documentaria VITO ZAGARRIO
175 I «misteri virtuosi» del documentario italiano ALESSANDRO SIGNETTO
185 L’altro Paese. Il documentario politico nell’era berlusconiana LAURA BUFFONI
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Immagini di parole 197 Due mondi vicini e lontani FRANCO MONTINI
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203 Sguardi dal ponte FRANCESCO CRISPINO
213 Gianni Amelio, la dissimulazione onesta CRISTIANA PATERNÒ
217 Gli eredi di Flaiano: i nuovi romanzieri-sceneggiatori PIERPAOLO DE SANCTIS
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Introduzione Scenari del cinema italiano oggi FRANCO MONTINI E VITO ZAGARRIO
Fra la scarsa e insufficiente attenzione dei grandi mezzi di comunicazione, negli ultimi dieci anni, il cinema italiano è molto cambiato. A partire dalla fatidica data del 2000, la nostra industria audiovisiva è progressivamente cresciuta nel volume d’affari, nell’attenzione di pubblico, nel numero delle proposte realizzate ogni anno, nella complessiva qualità dei film prodotti. Qualche più attento osservatore ha parlato addirittura di «rinascita». Di sicuro dall’inizio del terzo millennio si è innescata una sorta di ciclo positivo e virtuoso che ha cambiato la realtà del settore. Nel breve volgere di pochi anni è emersa una nuova generazione di autori capaci di imporsi anche a livello internazionale, come nel caso di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, di registi che hanno ritrovato il gusto di raccontare il Paese, riscoprendo la vocazione al romanzesco e alla narrazione, liberandosi dall’epica dell’intimo e dal cinema delle due stanze e cucina. I più stretti legami fra letteratura e scrittura cinematografica, sia nella scelta dei soggetti da realizzare sul grande schermo, sia nella partecipazione di romanzieri alla compilazione di sceneggiature e copioni, hanno integrato e migliorato entrambi i comparti. E un altro apporto è arrivato dall’improvvisa resurrezione di un genere, il documentario, che sembrava destinato all’estinzione e che, nonostante la penalizzante invisibilità, ha fornito interessanti spunti di riflessione sul passato, il presente e il futuro del Paese. In questo sforzo di approfondimento, i nostri cineasti sono stati favoriti anche dall’apparizione di nuove figure professionali nel settore della produzione, che hanno funzionato come tramite per riavvicinare autori e spettatori, film e pubblico. Negli ultimi anni la crescita della quota di mercato della produzione nazionale è stata evidente e si è concretizzata grazie allo straordinario successo di alcune commedie popolari, ma anche con il sostanziale e spesso decisivo contributo di quel cinema d’autore, che, più di altri generi, ha visto crescere attenzioni e interessi nei propri confronti.
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Al rinnovato affetto nei confronti del cinema italiano ha poi fortemente contribuito la definitiva affermazione di una nuova generazione di interpreti, capaci di funzionare come immediato elemento di richiamo e in qualche caso come marchio di garanzia di qualità, al pari dei registi. Per certi versi si potrebbe perfino affermare che il nostro cinema non sia mai stato così ricco di attori come in questo periodo. Grazie alla frequentazione delle scuole, ma anche alla palestra offerta dalle tante occasioni della produzione televisiva di fiction non solo è cresciuta la preparazione professionale dei nostri interpreti, ma è maturata allo stesso tempo una sorta di etica del mestiere, che era un elemento abbastanza sconosciuto nella tradizione nazionale. La fioritura di nomi nuovi ha riguardato anche gli apporti tecnici: direttori della fotografia, montatori, scenografi, costumisti. Anche grazie ad una maggiore vicinanza anagrafica si è così fortificato uno spirito di squadra e una diffusa solidarietà che hanno aiutato i singoli, ciascuno nel proprio specifico campo di appartenenza, a crescere. Nei dodici anni che ormai ci separano dal 2000 molte cose sono cambiate anche sul versante strutturale; in questo periodo si è registrata una progressiva, inarrestabile diminuzione dell’interevento pubblico a favore del settore, solo in parte sostituita da meccanismi alternativi, quali tax credit e tax shelter. La realtà è che oggi le risorse dello Stato a favore del settore, sia per il sostegno alla produzione e alla distribuzione di film, sia per la promozione del nostro cinema all’estero, sia per la realizzazione di festival e rassegne, sono davvero minime. Se il numero dei film prodotti si è mantenuto costante, o addirittura è stato incrementato, lo si deve sempre più all’intervento di risorse private, supportate nella maggior parte dei casi dalla partecipazione dei due grandi broadcaster nazionali: Rai e Medusa, capaci di condizionare non sempre positivamente scelte produttive e autoriali dei nostri cineasti. Insomma nel cinema italiano i nodi strutturali da risolvere, a cominciare proprio da una reale liberalizzazione del mercato, sono ancora numerosi. La realtà è caratterizzata da luci e ombre e i più recenti segnali sembrano adombrare la fine del ciclo positivo e virtuoso cui si è accennato e la necessità di avviare una nuova, inedita stagione. Attraverso una serie di analisi operate da un variegato gruppo di studiosi, compresi i più promettenti rappresentanti di una nuova generazione critica, questo volume intende proprio offrire una visione complessiva del nostro cinema, suggerendo implicitamente non pochi spunti di riflessione. Per favorirne la lettura, il volume è suddiviso in sezioni, che sono poi i fenomeni e i temi emergenti ne10
FRANCO MONTINI E VITO ZAGARRIO
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gli studi sul cinema: la produzione e i suoi riflessi sull’immaginario e sullo stile; il confronto fra autorialità e cinema di genere; gli interpreti; il cinema del reale, dedicato alla rinascita del documentario; i rapporti con la letteratura contemporanea. Si tratta di «istantanee», appunto (da ciò il titolo del libro), scattate da più punti di vista sulla situazione odierna, fotogrammi significativi di un cinema e di un universo mediatico che promettono ancora sorprese.
INTRODUZIONE
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Il contesto produttivo
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Per un pugno di dollari: il ruolo del produttore BARBARA CORSI
Una delle innovazioni più importanti contenute nella legge “Urbani” sul cinema è l’abbassamento dal 90 al 50 per cento della copertura statale al mutuo erogato ai film di interesse culturale nazionale (non opere prime), con l’impegno per il produttore di reperire sul mercato le risorse necessarie a coprire il restante 50 per cento del costo del film (art.13). La norma accoglie in pieno le richieste avanzate con ferma determinazione dall’Associazione Produttori Italiani (Api) fin dal 2000. Nel comunicato diffuso nel giugno di quell’anno, l’Api enunciava, fra i vantaggi della proposta, una notevole diminuzione di rischio da parte dello Stato, e un conseguente mutamento di ruolo del produttore, formulato come un’indicazione e quasi un’ammonizione a tutta la categoria: «Il produttore italiano dovrebbe aprirsi alle coproduzioni europee, ai cast con attori che possano garantire la vendita o l’uscita del film in Europa, ad un tipo di storie che possa avere accesso e sostegno sul mercato nazionale e internazionale». La rinuncia volontaria a una parte consistente del finanziamento statale, sembra dunque essere derivata da un diffuso senso di frustrazione e dalla presa di coscienza dei limiti di un sistema che ha ridotto l’autonomia e l’autorità della figura del produttore, dando rilievo al rapporto diretto fra l’autore che propone un progetto e la commissione statale che lo approva. Ma la crisi di identità del produttore cinematografico italiano, denunciata dalla parte più seria della categoria, non è attribuibile solo e semplicemente all’introduzione del Fondo di garanzia nella legge cinema del 1994 e alla politica statale. Ben prima di quella data, molti imprenditori cinematografici avevano abdicato al loro ruolo, obbedendo opportunisticamente al richiamo delle sirene televisive, e al sistema perverso che si stava creando in Italia fra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta.
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In quegli anni la crisi delle frequenze cinematografiche, già iniziata negli altri Paesi occidentali, si abbatte sull’Italia con violenza improvvisa, per la comparsa simultanea di centinaia di televisioni libere, beneficiate dalla più totale deregulation, che attingono a un bacino di spettatori di fascia economica medio-bassa o residenti in luoghi distanti dalle sale di prima visione. Quelle sale sono dominate dai kolossal della nuova Hollywood, rinata a nuova vita dopo una lunga crisi: Guerre stellari, Il padrino, Incontri ravvicinati del terzo tipo. I grandi produttori italiani della vecchia generazione – Dino De Laurentiis, Carlo Ponti, Alberto Grimaldi –, che sapevano mettere in piedi progetti italiani con capitali internazionali, hanno cessato l’attività o si sono trasferiti all’estero. I nuovi, in una situazione di mercato sicuramente più complicata, che richiederebbe una compattezza di categoria per ottenere nuove leggi sul rapporto cinema/tv, si accontentano di approfittare delle occasioni immediate che offre l’espansione della tv commerciale, senza porsi il problema del futuro. Per il bisogno di riempire i palinsesti con i film, il prodotto allora più ambito dallo spettatore televisivo, le televisioni del gruppo Fininvest scatenano la caccia ai diritti d’antenna dei film italiani, dopo una prima fase di programmazione massiccia di prodotto americano acquistato a pacchetti. E poiché in televisione funziona bene un prodotto medio-basso di genere comico o commedia, adatto a un pubblico eterogeneo, l’ingresso sulla scena della televisione commerciale come soggetto finanziatore, in un momento in cui l’apporto dei minimi garantiti della distribuzione è in calo per la crisi delle frequenze, non fa che accentuare tendenze già in atto nel cinema italiano da almeno un decennio. Le mutate condizioni di mercato favoriscono l’emersione dei modi di produzione di serie B e degli imprenditori che le praticano, che diventano in quegli anni gli effimeri protagonisti delle classifiche d’incasso e gli interlocutori privilegiati – per non dire i produttori esecutivi – delle televisioni. Sfruttamento intensivo del personaggio o del filone di successo, produzione seriale, politica del basso costo (tranne che per il compenso del protagonista) con l’azzeramento di tutti gli altri apporti professionali che contribuiscono alla qualità del film, ottica ristretta al mercato nazionale nell’ideazione e destinazione del prodotto: sono questi i parametri dell’industria del cinema italiano negli anni Ottanta, se si esclude la produzione d’autore e quella sostenuta dall’articolo 28, che meriterebbe un discorso a parte. La prospettiva di un guadagno immediato dalla prevendita televisiva azzera ogni strategia di coproduzione o collaborazione internazionale – che fino a qualche anno prima si praticava anche per il cinema di largo consu16
BARBARA CORSI
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mo –, subordina il cinema alla televisione, induce all’acquiescenza di fronte a uno strapotere televisivo strutturato in duopolio che non ha eguali in Europa. Complici i produttori, il cinema medio italiano subisce una degenerazione qualitativa che lo porta al punto più basso della sua storia, innescando un processo di disaffezione nel pubblico che sarà (è) difficile da recuperare. La pratica più diffusa è quella di reclutare il mattatore di turno, cucirgli addosso uno straccio di sceneggiatura e assemblare finanziamenti sul suo nome. Le coppie produttore/mattatore si ripetono fisse – Cecchi Gori/Celentano, Manzotti/Pozzetto, Angeletti-De Micheli/I gatti di vicolo miracoli – così come la povertà delle formule spettacolari, nonostante le dichiarazioni d’intenti a volte paradossali: «Occorre sprovincializzarsi, con proposte che trovino riscontro almeno in Europa», dice Achille Manzotti nel 1986, dopo aver realizzato venti film con Pozzetto. Il fenomeno induce alla lunga una saturazione del mercato che si ritorce come un boomerang sul cinema italiano: quel prodotto «medio» destinato principalmente alla televisione, dalla televisione viene fagocitato, così come il suo pubblico, senza lasciare niente dietro di sé. La produzione del decennio 1985-1995 si disperde in decine di sigle produttive, che non hanno nessun peso sul mercato, a eccezione di due nomi, Mario Cecchi Gori e Silvio Berlusconi, prima separati, poi uniti nella Penta, poi di nuovo separati. Il panorama asfittico dei primi anni Ottanta si è ulteriormente chiuso in un nuovo duopolio, che non lascia molto spazio a iniziative che vogliano prescindere dai finanziamenti o dalle distribuzioni delle due major italiane. In questo contesto si inserisce il Fondo di garanzia della legge 1994, un supporto statale alla produzione che sostituisce un mercato inesistente e compensa in parte il distorto equilibrio fra i media, ma non risolve il problema dell’esiguità delle fonti di finanziamento per il cinema. In altri paesi, come la Francia, dall’inizio degli anni Ottanta fino a tutto il decennio successivo sono stati messi a punto dispositivi che hanno favorito la nascita di una pluralità di fondi pubblici e privati: sono state promulgate leggi che legano i profitti delle televisioni ai finanziamenti della produzione cinematografica, sono nate società private di investimento, fondazioni e fondi regionali. Il produttore ha sufficienti margini di libertà d’azione per esercitare appieno il suo ruolo e non essere un mero esecutore. In Italia il predominio della tv è indiscusso e la cronica mancanza di una legge che regolamenti il sistema audiovisivo è l’espressione della precisa volontà politica di lasciare ai padroni (al padrone) delle tv le mani completamente libere. La legge 122 voluta da Veltroni, che obbliga i PER UN PUGNO DI DOLLARI: IL RUOLO DEL PRODUTTORE
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network a investire una quota del loro fatturato nella produzione cinematografica italiana ed europea, non viene applicata, e il cinema rimane in balia degli umori dei responsabili dei palinsesti di rete. Negli ultimi anni, con l’esplosione della fiction e il dirottamento degli investimenti sulle produzioni televisive, si interrompe il flusso di denaro per il cinema, rivelando una volta di più la dipendenza di quest’ultimo dal sistema televisivo, senza alcuna contropartita. La proposta dell’Api – diceva Angelo Barbagallo in un’intervista del 2000 – ha senso solo se si risolvono problemi a monte, a cominciare dal rispetto delle quote di investimento delle tv previste dalla legge “Maccanico”. La legge “Urbani”, che pure ha accolto la riduzione del Fondo di garanzia, non tocca questi punti, e certo non è lecito aspettarsi che sia questo governo ad affrontare le questioni legate alle televisioni. Che ruolo ha, dunque, il produttore italiano oggi? Sicuramente nell’ultimo decennio si è assistito all’ingresso sulla scena di un gruppo di produttori che ama il cinema ed è capace di esprimere una progettualità a lungo termine e di respiro internazionale. Con il successo dei loro film hanno recuperato rapporto col pubblico, autorità e autonomia decisionale. Il problema è che – vent’anni fa come oggi – i produttori sono costretti a fare lo slalom fra una serie di alternative di finanziamento molto ristretta e per lo più riconducibile a due soli operatori, oltre allo Stato: Rai (Rai Cinema, 01) e Mediaset (Medusa). Ma questo non è il sistema decentrato flessibile di Hollywood, dove i grandi gruppi affidano i progetti a produttori indipendenti per avere un ricambio continuo di idee e diversificare il prodotto per diversi target di pubblico. Questa è l’Italia, dove i grandi gruppi audiovisivi sono due invece di cinque-sei, ed i canali televisivi nazionali sono pochi e fanno capo ai soliti due proprietari. La posizione del produttore che non rientri nell’orbita di queste due società o che semplicemente voglia sviluppare un progetto a loro non gradito, è ancora debole, nonostante l’impegno crescente delle distribuzioni di qualità e l’aumento delle coproduzioni internazionali. Finiti per sempre i tempi dei Gualino e Rizzoli, ovvero degli imprenditori che potevano rischiare capitali in proprio, e poi quelli dei produttori come Grimaldi, capaci di mobilitare l’interessamento di case di distribuzione internazionali; esaurita anche l’effimera età dell’oro della prevendita selvaggia alle rampanti nuove tv commerciali, resta la solitudine del produttore che ama il cinema in un sistema che ne disconosce il valore. Per ora il suo ruolo è subordinato ad altre esigenze e non potrà dirsi libero finché non potrà uscire da questa soffocante logica di duopolio. 18
BARBARA CORSI
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È presto per dire se la nuova legge offrirà una via d’uscita. Di certo, nel buco nero nascosto nei suoi articoli, nella grande questione rimossa del rapporto fra la «grande sorella» e il cinema, il produttore rischia di essere di nuovo risucchiato1.
1. Cfr. Le botteghe dell’immaginario, Anica, Roma, 1986. A. Barbagallo, Il produttore? Torni a fare il produttore, in «Cinecittà», n. 1, agosto-settembre 2000. PER UN PUGNO DI DOLLARI: IL RUOLO DEL PRODUTTORE
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Il sostegno economico al cinema italiano ELEONORA RAIMONDO
È fondamentale, ma anche impresa non semplice, disegnare un quadro dei contesti produttivi dell’industria italiana, e anche spiegare la filosofia e la logica dei finanziamenti del comparto cinematografico. Si tratta certo di un quadro che fa emergere una fortissima crisi e una serie di conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: la demotivazione che oggigiorno sempre più impelaga tra i giovani talenti esordienti, l’impossibile desiderio di crescita dei produttori indipendenti, la scarsa fiducia nelle istituzioni da parte delle maestranze che vi lavorano, le continue vessazioni e i continui tagli con cui l’industria cinematografica ha dovuto fare i conti negli anni. La mancanza di leggi-quadro appropriate e di riferimento, logiche di business e di marketing poco profittevoli e non largamente espresse nel loro potenziale, proprio come accade con altri settori di carattere industriale, e usate strategicamente solo economicamente senza preservare «l’eccezione culturale» che ne è un elemento genetico. Le parole sono tante, ma i fatti non proclamano nulla di promettente. Fondamentalmente un’attenta analisi dell’evoluzione economico-legale a tutto tondo e in larga veduta disorienta il lettore poco informato e rende nevrotico chi invece ne ha dei rudimenti. Troppe le contraddittorietà, le lacune, le speculazioni, troppe le manovre politiche sotterranee, troppo il conflitto di interesse nella nostra Bella Italia. Non è rimasto nulla del cinema come mezzo culturale e di alta esperienza artistica. La sala ha perso la sua centralità e ha visto infittirsi la concorrenza. Attualmente la vecchia sala cinematografica rappresenta soltanto una delle modalità di fruizione del film, che piuttosto come si è accennato viene prodotto in funzione di una distribuzione multimediale attraverso altri canali come la tv generalista, l’home video, le tv digitali e on demand, e i DVD.
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Il decreto “Urbani” In Italia il sostegno pubblico al cinema è disciplinato dalla legge cinema 1213 del 1965 e dalla legge n. 153 del 1994. Il decreto 22 gennaio 2004 ha riformato l’intero sistema di aiuti alla produzione e alla distribuzione grazie alla «riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche, a norma dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002». L’autorità competente in materia è «il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, al cui interno opera la «Direzione Generale per il Cinema» istituita con il d.P.R. n. 441 del 29 settembre 2000 insieme alla «Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo». In generale il quadro normativo in materia di sovvenzioni statali del settore cinematografico è assai complesso. Appare quindi opportuno fornire al lettore l’elenco dei vari provvedimenti legislativi e dei decreti ministeriali del settore alla luce del suddetto decreto 22 gennaio 2004, noto come decreto “Urbani”. Essi sono i seguenti: - il d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 28 «Riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche a norma dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002 n. 137»; - il decreto Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac) 10 giugno 2004 «Modalità tecniche per il sostegno all’esercizio ed alle industrie tecniche cinematografiche»; - il decreto Mibac 10 giugno 2004 «Criteri di concessione premi alle sale d’essai e alle sale delle comunità ecclesiali»; - il decreto Mibac 10 giugno 2004 «Organizzazione della consulta territoriale per le attività cinematografiche»; - il decreto Mibac 16 luglio 2004 «Modalità di erogazione e monitoraggio dei contributi percentuali sugli incassi realizzati in sale dalle opere cinematografiche»; - il decreto Mibac 30 luglio 2004 «Modalità e tecniche di attuazione del collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un’opera cinematografica: Product placament»; - il decreto Mibac 27 settembre 2004 «Definizione dell’indicatore del criterio per il riconoscimento dell’interesse culturale dell’opera filmica di cui all’art. 8, comma 2, lettera D del decreto legislativo 22 gennaio 204 n. 28, e successive modificazioni, nonché la composizione e le modalità di organizzazione e di funzionamento della Commissione per la Cinematografia»; - il decreto Mibac 27 settembre 2004 «Modalità tecniche per il sostegno alla produzione ed alla distribuzione cinematografica»; 22
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- il decreto Mibac 27 settembre 2004 «Definizione degli indicatori e dei rispettivi valori per l’iscrizione delle imprese di produzione cinematografiche nell’elenco di cui all’art. 3 comma 1 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 28 e succ. modificazioni». L’analisi di insieme dei suddetti provvedimenti pone in evidenza un primo importante fattore: ogni anello della catena creativa, produttiva, distributiva di un’opera cinematografica è coinvolto, sia pure con modalità e in misura differente, nel sistema di incentivi, sovvenzioni, agevolazioni che lo Stato si propone di garantire, quale sostegno alla «cultura cinematografica»1. Detti anelli della «catena cinematografica», sono quelli che si esamineranno nella presente trattazione, e sono nello specifico riconducibili al seguente schema: - fase creativa (la creazione del soggetto cinematografico, la creazione della sceneggiatura, la direzione artistica); - fase della produzione dell’opera cinematografica; - fase di distribuzione dell’opera cinematografica prodotta; - fase di fruizione: imprese di esercizio di sala cinematografiche. Ai soggetti interessati alla realizzazione di ognuna di dette fasi, persone fisiche, persone giuridiche, o imprese commerciali che siano, lo Stato assicura il proprio impegno economico con modalità e meccanismi giuridici di incentivazione differenziati, così riassumibili: - «Premi di qualità» per i lungometraggi a cui vengono riconosciute particolari qualità artistiche e culturali, nonché premi di qualità riservati ai coautori dell’opera cinematografica: soggetto, sceneggiatura, regia con esclusione del solo autore del commento musicale (art. 44 lda). - «Contributi di incentivo» destinati alle imprese di produzione cinematografica erogati alle stesse in misura percentuale rispetto agli incassi lordi ottenuti attraverso la commercializzazione dell’opera cinematografica prodotta. - «Contributo erogato attraverso fondi», (il cosiddetto credito cinematografico) destinati oltre che alla produzione, anche alla distribuzione, all’esercizio, alla promozione e alle industrie tecniche, consistenti in contributi sia in «conto capitali» che in «conto interessi» (in particolare si segnala il «Fondo per la produzione, la distribuzione, e l’esercizio di sale cinematografiche e industrie tecniche» di cui all’art. 12 del d.lgs. 1.
Cfr. A. Miccichè, Legislazione dello spettacolo: cinema, musica, teatro, Artemide, Roma 2006. IL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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28/04, all’interno del quale sono confluite, in base a quanto stabilito dal richiamato decreto legislativo, le risorse di diversi Fondi precedentemente istituiti). - Concessioni di mutui agevolati tra i quali quelli in favore di lungometraggi o cortometraggi riconosciuti di interesse culturale. - Contributi per la promozione di opere cinematografiche. - Aiuti indiretti, attraverso il sostegno di apposite strutture e imprese tecniche a capitale pubblico quali: Ente Autonomo Gestione Cinema, Cinecittà Holding, Istituto Luce, Italnoleggio. Prima del decreto 22 Gennaio 2004, la precedente legge organica in materia di cinema è datata 1965; da quel momento in poi nessuno ha pensato di legiferare in materia di cinema. Una delle novità del decreto “Urbani” è stata l’istituzione di un sistema che si giustifica con una connotazione meritocratica, meglio conosciuto come Reference System. Secondo legge il Reference System è un sistema istituito per aiutare le commissioni di valutazione nella scelta dei progetti meritevoli di finanziamento, che riconosce un credito, un elemento di merito a quei soggetti che hanno nel recente passato prodotto sia cinema di qualità, sia cinema capace di attrarre l’attenzione del grande pubblico. In concreto per ogni film da finanziare viene preso in considerazione anche il curriculum del produttore. Tale sistema di valutazione si traduce in un punteggio che vincolerà le commissioni a tener presente i progetti ideati e presentati da produttori e artisti eccellenti. Secondo il legislatore con l’introduzione di questo sistema vengono a inverarsi praticamente gli scopi che la legge si prefigge, cioè di premiare il merito e il talento e ad agevolare i produttori più solidi dal punto di vista artistico, ma soprattutto economico. Nello specifico, la legge prevede la concessione di mutui a tasso agevolato o contributi sugli interessi per gli investimenti relativi alla realizzazione tecnica di film di «produzione nazionale» effettuati dalle industrie tecniche cinematografiche iscritte negli elenchi di cui l’articolo 3 della legge cinema. Al fine di fugare ogni dubbio riguardo all’individuazione dell’industria tecnica cinematografica, il legislatore con l’emanazione del decreto ministeriale 16.06.2004 («modalità tecniche per il sostegno all’esercizio ed alle industrie tecniche cinematografiche»), ha stabilito cosa s’intende per impresa specializzata. È definita tale ai sensi dell’art. 11 del citato decreto, l’impresa che offre lavorazioni e servizi alle imprese di produzione e distribuzione cinematografica, con specifico riguardo ai seguenti settori operativi: - teatri di posa; 24
ELEONORA RAIMONDO
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- noleggio di attrezzature e mezzi tecnici di ripresa; - automezzi specializzati di servizio alle riprese cinematografiche; - stabilimenti di sviluppo e stampa; montaggio, post produzione ed effetti speciali; produzione DVD da pellicola; sincronizzazione; sonorizzazione e mixage; - restauro di prodotti filmici e servizi ausiliari. Come ha ribadito Fisicaro, per tutti i suindicati settori operativi il legislatore ha concesso la possibilità di ottenere contributi2. Nello specifico, il decreto in esame, prescrive che alle industrie tecniche cinematografiche sono concessi mutui decennali per un importo massimo ammissibile pari al 70 per cento del costo dell’investimento, a un tasso di interesse pari al 40 per cento del tasso di riferimento in vigore al momento della stipula del mutuo. Per quanto concerne gli investimenti caratterizzati da un elevato contenuto di innovazione tecnologica, l’importo finanziabile dal Ministero può raggiungere sino il 90 per cento del costo dell’investimento ed è concesso a un tasso di interesse pari al 30 per cento del predetto tasso di riferimento. Inoltre è previsto che il finanziamento sia concesso anche per l’acquisto di beni strumentali altamente tecnologici3. Con riferimento ai preventivi di spesa, il legislatore ha considerato ammissibile, oltre alle spese di produzione della manifestazione, anche i costi indiretti: spese generali e di gestione connesse alla struttura organizzativa e costi per eventuale personale dipendente fisso. In base all’art. 19 del decreto ministeriale 28.10.2004 «modalità tecniche di gestione e monitoraggio dell’impiego delle risorse destinate alla promozione cinematografica» si prevedono sovvenzioni anche per iniziative e manifestazioni finalizzate alla promozione delle attività cinematografiche in Italia ed all’estero inerenti allo sviluppo del cinema sul piano artistico, culturale e tecnico. Secondo le disposizioni normative, le richieste dei contributi possono essere presentate solo ed esclusivamente da enti pubblici e privati senza scopo di lucro, istituiti universitari, comitati e associazioni culturali e di categoria. Sotto il profilo economico, requisito indispensabile ai fini dell’ammissibilità al contributo è la copertura di almeno il 30 per cento del costo complessivo delle iniziative previste, con entrate diverse (pubbliche e/o private) da quelle richieste dalla Direzione Generale per il Cinema4. Nella sostanza,
2. 3. 4.
E. Fisicaro, Diritto cinematografico, Giuffrè, Milano 2006, p. 103. Ivi, p. 105. Ivi, p. 107. IL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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il legislatore vuole erogare contributi a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, promuovono l’arte cinematografia. Il d.lgs. 20 ottobre 1998, n. 368 istituisce il «Mibac – Ministero per i Beni e le Attività Culturali» il quale provvede alla tutela, alla gestione e alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali nonché alla promozione delle attività culturali5. A questo Ministero sono devolute le attribuzioni in materia di spettacolo (art. 2, n. 1, lett. b) e dunque esercita funzioni amministrative statali nella promozione delle attività teatrali, musicali e cinematografiche della danza e delle altre forme dello spettacolo, inclusi i circhi e gli spettacoli viaggianti. Con successivo d.P.R. 10 giugno 2004, n. 173 il Ministero si è articolato in dipartimenti ed essi, a loro volta, in direzioni generali. I dipartimenti sono: a) il Dipartimento per i Beni e le Attività Culturali; b) il Dipartimento per i Beni Archivistici e Librari; c) il Dipartimento per la Ricerca, l’Innovazione e l’Organizzazione; d) il Dipartimento per lo Spettacolo e lo Sport. Per ciò che concerne lo spettacolo, il Dipartimento si articola nei seguenti uffici dirigenziali di livello generale (art. 6): a) Direzione Generale per il Cinema; b) Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo e lo Sport. Il capo del dipartimento in questione: a) svolge i compiti in materia di proprietà letteraria di diritto d’autore e opera la vigilanza sulla Società Italiana Autori ed Editori - Siae; b) esercita la vigilanza sulla Fondazione «La Biennale di Venezia»; c) elabora sulla base delle proposte formulate dai direttori generali il programma annuale e pluriennale degli interventi nei settori di competenza e lo trasmette al capo Dipartimento per la Ricerca, l’Innovazione e l’Organizzazione (art. 6, n. 3). L’attività di vigilanza esercitata dal Ministero sulla Siae si attua con: - l’approvazione dello Statuto, con decreto ministeriale, di concerto con il Ministero dell’Economia; - l’approvazione del regolamento elettorale; - l’approvazione annuale dei bilanci e dei rendiconti; 5. 26
Cfr., A. Miccichè, op. cit., p. 91. ELEONORA RAIMONDO
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- l’approvazione annuale dei criteri di ripartizione dei proventi dei diritti d’autore tra gli aventi diritto; - la nomina dei membri del consiglio d’amministrazione; - la proposta di nomina del presidente designato dall’assemblea (proposta che dopo un iter particolare viene formalizzata da un decreto del Presidente della Repubblica); - la vidimazione, da parte del servizio per il diritto d’autore, dei fogli del Pubblico Registro per la Cinematografia tenuto in custodia alla Siae. Il Direttore generale per il Cinema (art. 15): - dispone interventi finanziari a sostegno delle attività cinematografiche e della promozione della cultura cinematografica; - gestisce gli interventi finanziari per la produzione, la distribuzione e l’esercizio cinematografico; - svolge verifiche amministrative e contabili, ispezioni e controlli sugli enti sottoposti a vigilanza e sui soggetti beneficiari di contributi da parte del Ministero; - esercita vigilanza sulla fondazione «Centro Sperimentale di Cinematografia»; - presiede le commissioni in materia di attività cinematografiche e partecipa alle riunioni per i problemi dello spettacolo e della relativa sezione competente; - provvede alla revisione delle opere cinematografiche per concedere il nulla osta per la visione in pubblico e l’esportazione di film nazionali. Concludendo la Direzione Generale per il Cinema ha competenze in materia di produzione, promozione ed esercizio cinematografico e opera attraverso varie commissioni di esperti e tecnici, nominati in parte dal Ministro e in parte dalle categorie di settore più rappresentative. Inoltre svolge un’intensa attività di coordinamento con il Ministero degli Affari Esteri in relazione alla predisposizione degli accordi culturali e dei relativi protocolli esecutivi tra l’Italia e i vari Paesi del mondo, al fine di promuovere scambi culturali attraverso enti, associazioni, artisti e prodotti particolarmente qualificati e rappresentativi sia del cinema italiano che di quello estero, assicurando la partecipazione a festival ed eventi di rilievo per una migliore conoscenza e diffusione delle rispettive culture. La nuova legge cinema ha il grande pregio di restituire centralità al produttore sempre con l’obiettivo strategico di coniugare la qualità artistica con le esigenze di mercato, ovvero combinare l’ineludibile rilevanza culturaIL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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le del film con gli aspetti commerciali legati al reale gradimento da parte del pubblico. In ultimo, il Direttore generale per lo Spettacolo dal Vivo e lo Sport svolge funzioni e compiti in materia di attività di spettacolo dal vivo con riferimento all’attività musicale, alla danza, al teatro, ai circhi, allo spettacolo viaggiante ed ai festival teatrali nonché in materia di attività sportive agonistiche, amatoriali e di impiantistica sportiva. Una novità legislativa, che fino a non molto tempo addietro era impensabile, è rappresentata dalla costituzione ex art. 12 del fondo unico chiamato «Fondo per la produzione, la distribuzione, l’esercizio e le industrie tecniche». Nella sostanza con la costituzione del predetto fondo i cinque fondi precedentemente esistenti (fondo speciale, fondo particolare, fondo di intervento, fondo d’esercizio e fondo di garanzia) che erogavano finanziamenti e corrispondevano contributi e premi sono stati soppressi e le risorse finanziarie disponibili sono affluite nel Fondo Unico per lo Spettacolo6. Miccichè spiega che con la legge 30 aprile 1985 n. 163 è stato istituito il cosiddetto Fondo Unico dello Spettacolo. Esso è finalizzato al sostegno finanziario di enti, istituzioni, associazioni, organismi e imprese operanti nei settori delle attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante nonché alla promozione e al sostegno di manifestazioni e iniziative di carattere e rilevanza nazionali, da svolgere in Italia o all’estero. Tale Fondo è gestito nei termini illustrati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (art. 1): il Fus è ripartito annualmente tra i diversi settori in ragione di quote non inferiori al 45 per cento per le attività musicali e di danze, al 25 per cento per quelle cinematografiche, al 15 per cento per quelle del teatro di prosa e all’1 per cento per quelle circensi e dello spettacolo viaggiante. La residua quota del fondo è riservata per far fronte agli oneri relaitivi a eventuali interventi integrativi in base alle esigenze dei singoli settori7. Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali in base alle proposte formulate dal Consiglio Nazionale dello Spettacolo comunica prima dell’inizio dell’esercizio finanziario il piano di reparto della quota del Fus al Ministro dell’Economia, che provvede con i proprio decreti alle occorrenti variazioni di bilancio (art. 2). Il Consiglio Nazionale dello Spettacolo elabora le proposte per la formulazione del programma triennale di sostegno e incentivazione finanziaria per le attività dello spettacolo. Nelle proposte sono indicate le previsioni 6. 7. 28
Cfr. E. Fisicaro, op. cit., p. 81. Cfr. A. Miccichè, op. cit. ELEONORA RAIMONDO
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del fabbisogno per il triennio in relazione alle disponibilità del fondo nei diversi settori dello spettacolo, nonché sull’andamento complessivo dello spettacolo, nonché sulle forme di sostegno e incentivazione più idonee alla diffusione e allo sviluppo dei singoli settori (art. 4). Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali presenta al Parlamento ogni anno una documentazione conoscitiva e una descrizione analitica sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo, nonché sull’andamento complessivo dello spettacolo (art. 6). Il nuovo Fondo Unico, coerentemente con le finalità e l’intero impianto normativo è destinato8: - al finanziamento degli investimenti promossi dalla imprese cinematografiche per la produzione di opere filmiche, anche con riferimento alla realizzazione di colonne sonore, e per lo sviluppo di sceneggiature originali di particolare rilievo culturale e sociale; - alla corresponsione di contributi a favore di imprese di distribuzione ed esportazione, anche per la realizzazione di versioni dei film riconosciuti di interesse culturale in lingua diversa da quella della ripresa sonora diretta; - alla corresponsione di contributi sugli interessi dei mutui ed alla concessione di contributi in conto capitale a favore delle imprese di esercizio di nuove sale o per ripristino di sale inattive, nonché per l’adeguamento delle strutture e per il rinnovo delle apparecchiature, con particolare riguardo all’introduzione di impianti automatizzati o di nuove tecnologie; - alla concessione di mutui decennali a tasso agevolato o contributi sugli interessi a favore delle industrie tecniche cinematografiche, per la realizzazione, la ristrutturazione, la trasformazione o l’adeguamento strutturale e tecnologico di teatri di posa, di stabilimenti di sviluppo e stampa, di sincronizzazione, di post produzione; - alla corresponsione di contributi destinati a ulteriori esigenze del settore delle attività cinematografiche, salvo diversa determinazione del Ministro su proposta del Direttore generale. Entro il 31 dicembre di ogni anno, secondo le modalità indicate sul sito internet della Direzione Generale per il Cinema, si possono presentare le istanze di sovvenzioni. Tali istanze saranno valutate dalla sottocommissione per la promozione sulla base delle indicazioni del programma triennale 8.
E. Fisicaro, op. cit., p. 83. IL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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della Consulta territoriale (art. 4 del d.lgs. 28/2004). Si osserva che la formula legislativa illustrata si attua secondo questi parametri obbligatori: - rilevanza dell’iniziativa nella sua globalità; - riconoscimento e sostegno anche finanziario di privati e/o enti locali e/o organismi europei o internazionali; - consistenza della struttura organizzativa in relazione all’iniziativa proposta; - tradizione culturale e cinematografica dell’iniziativa; - tradizione culturale e cinematografica dell’ente promotore; - capacità di promuovere la cultura cinematografica e/o il prodotto cinematografico in aree scarsamente servite. Concludendo è opportuno segnalare che a tutte le iniziative sovvenzionate è concesso il patrocinio della Direzione Generale per il Cinema, pertanto il logo dovrà essere riprodotto sui manifesti, sulle locandine e su qualunque altra pubblicazione dell’iniziativa sovvenzionata. Inoltre, unitamente al logo deve essere inserita l’indicazione «iniziativa realizzata con il contributo ed il patrocinio della Direzione Generale per il cinema e Ministero per i beni e le attività culturali». È necessario, innanzitutto, definire il significato che la legge di riferimento attribuisce ad alcuni termini linguistici che verranno ripetutamente utilizzati. In particolare all’art. 2 del d.lgs. 228/04 (definizione) è stabilito quanto segue: - per film si intende lo spettacolo realizzato su supporti di qualsiasi natura anche digitale con contenuto narrativo o documentaristico purché opera dell’ingegno ai sensi della disciplina del diritto d’autore (l. 22 aprile 1941, n. 633), destinato al pubblico prioritariamente nella sala cinematografica, dal titolare dei diritti di utilizzazione; - per lungometraggio si intende un film di durata superione ai 75 minuti; - per cortometraggio si intende un film di durata inferiore a 75 minuti a eccezione di quelli con finalità esclusivamente pubblicitarie. Per «film di interesse culturale» si intende, inoltre, il film che corrisponde a un interesse culturale nazionale in quanto oltre ad adeguati requisiti di idoneità tecnica presenta significative qualità culturali, o artistiche, o eccezionali qualità spettacolari, nonché i seguenti requisiti: - regista italiano; - autore del soggetto italiano, o autori a maggioranza italiani; 30
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- sceneggiatore italiano, o sceneggiatori a maggioranza italiana; - interpreti principali a maggioranza italiani, interpreti secondari per ¾ italiani; - ripresa sonora diretta in lingua italiana; - troupe italiana; - riprese e uso di teatri di posa in Italia; - utilizzo di industrie tecniche italiane; - effettuazione in Italia di almeno il 30 per cento della spesa complessiva del film con riferimento a troupe, riprese e uso dei teatri di posa, all’utilizzo di industrie tecniche italiane nonché agli oneri sociali. Inoltre, è richiesta la presenza di almeno 4 su 5 dei seguenti requisiti: - autore della fotografia cinematografica italiano; - montatore italiano; - autore della musica italiano; - scenografo italiano; - costumista italiano. La medesima norma dispone che: - per film d’essai si intende il film individuato dalla commissione per la cinematografica istituita presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che contribuisca alla diffusione della cultura cinematografica e alla conoscenza di correnti e tecniche di espressione sperimentali; - per film d’animazione si intende il lungometraggio o cortometraggio con immagini realizzate graficamente e animate per mezzo di ogni tipo di tecnica e di supporto. Venendo invece alle definizioni, contenute nel medesimo testo normativo, riguardo all’esercizio si intende: - per sala cinematografica qualunque spazio, chiuso o all’aperto, adibito a pubblico spettacolo cinematografico; - per sala d’essai, la sala cinematografica il cui titolare, con propria dichiarazione, si impegna per un periodo non inferiore a due anni a proiettare film d’essai, equipollenti per almeno il 70 per cento dei giorni di effettiva programmazione cinematografica annuale (o il 50 per cento in caso di sale con meno di 5 schermi ubicati in comuni con popolazione inferiore a 40.000 abitanti); - per «sala della comunità ecclesiastica o religiosa» la sala cinematografica, di cui sia proprietario un’istituzione religiosa o ente ecclesiastico, diIL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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pendente dall’autorità ecclesiale competente in campo nazionale e riconosciuto dallo Stato. Inoltre, la richiamata normativa di riferimento considera condizione necessaria ai fini dell’ammissione ai benefici e alle sovvenzioni di cui trattasi in favore di ogni settore della catena creativa e produttiva cinematografica, il riconoscimento della nazionalità italiana del film prodotto o da prodursi. A proposito, l’art. 5 d.lgs. 28/04 stabilisce che può essere riconosciuta la nazionalità italiana ai film che presentano tutti i seguenti componenti: - regista italiano; - autore del soggetto italiano, o autori in maggioranza italiani; - sceneggiatore italiano o sceneggiatori in maggioranza italiani; - riprese sonora diretta in lingua italiana; - troupe italiana; - effettuazione in Italia di almeno il 30 per cento della spesa complessiva del film, con riferimento alla troupe, alle riprese e all’uso di teatri di posa in Italia, all’utilizzo di industrie tecniche italiane nonché agli oneri sociali. Devono essere presenti inoltre: - almeno 3 delle seguenti componenti 1) interpreti principali in maggioranza italiana; 2) interpreti secondari per ¾ italiani; 3) autore della fotografia cinematografica italiano; 4) montatore italiano. - almeno 2 delle seguenti componenti 1) autore della musica italiano; 2) scenografo italiano; 3) costumista italiano. - almeno una delle seguenti componenti 1) riprese e uso di teatri di posa italiani; 2) utilizzo di industrie tecniche italiane. Miccichè sottolinea che merita di essere rilevato, ai fini del riconoscimento dei requisiti soggettivi individuabili da quelli sopra elencati (ad esempio: regista italiano, interpreti principali italiani, ecc.), come i cittadini dei Paesi membri dell’Unione Europea siano equiparati ai cittadini italiani. Inoltre in deroga all’art. 5 del d.lgs. 28/04, possono essere riconosciuti nazionali i lungometraggi e i cortometraggi realizzati in coproduzione con imprese estere 32
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in base a speciali accordi internazionali di reciprocità, se ricorrono i requisiti indicati all’art. 6 dello stesso d.lgs.9. L’impresa di produzione che intenda ottenere il riconoscimento della nazionalità italiana del film prodotto, deve seguire il procedimento qui sinteticamente riportato e descritto: - a inizio lavorazione del film deve presentare «domanda di riconoscimento» provvisoria della nazionalità italiana; - tale «domanda di riconoscimento» o «istanza» deve essere indirizzata al Ministero per i Beni e le Attività Culturali – presso la Direzione Generale per il Cinema – e deve contenere i seguenti elementi: 1. copia della «denuncia di inizio lavorazione del film», vale a dire apposita dichiarazione inoltrata alla Direzione Generale per il Cinema almeno un giorno prima dell’inizio delle riprese, nella quale devono essere indicati, oltre al nome dell’impresa di produzione, anche il nome del regista, degli autori del soggetto e del trattamento del sceneggiatura e il direttore del montaggio; 2. la dichiarazione che l’impresa è titolare dei diritti di sfruttamento del film; 3. la dichiarazione che il film è destinato al pubblico, prioritariamente nella sala cinematografica; 4. il piano di lavorazione; 5. l’elenco del personale tecnico impiegato, con rispettive mansioni e nazionalità, e quello del personale artistico; 6. la dichiarazione di sussistenza dei requisiti richiesti per il riconoscimento della nazionalità italiana del film (si veda sopra). Quindi, ricevuta l’istanza di cui sopra, il Direttore generale per il Cinema presso il Mibac entro 60 giorni dalla presentazione e previo esito favorevole dell’istruttoria, adotta il provvedimento di riconoscimento provvisorio della nazionalità italiana del film. Inoltre a lavorazione ultimata, entro 30 giorni dalla data di presentazione della copia campione del film, l’impresa di produzione può presentare, sempre alla Direzione Generale per il Cinema presso il Ministero, istanza di riconoscimento definitivo della nazionalità italiana del film. Il Direttore generale in caso di esito positivo deve provvedere entro i 60 giorni successivi alla presentazione della domanda, all’iscrizione del film nell’apposito elenco informatico costituito presso il Ministero stesso. Infine 9.
Cfr. A. Miccichè, op. cit. IL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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è richiesto dalla normativa vigente, quale condizione necessaria per accedere ai benefici e alle sovvenzioni di legge, che le imprese di produzione, di distribuzione, di esportazione, di esercizio, e di industria tecnica abbiano sede legale e domicilio fiscale in Italia, previa relativa istanza. Anche le imprese che presentano tali caratteristiche sono iscritte in appostiti elenchi informatici costituiti presso il Ministero. L’iscrizione in detti elenchi è appunto requisito essenziale, alla pari della riconosciuta nazionalità italiana del film, per l’ammissione ai benefici statali10. La legge finanziaria 2008 (art. 1, commi da 328 a 335) elenca una serie di disposizioni comuni alle agevolazioni precedentemente esposte. L’art. 1, comma 329 specifica i «crediti d’imposta» in favore delle imprese che operano fuori dal settore cinematografico, che apportano capitale per la realizzazione di opere cinematografiche riconosciute di nazionalità italiana (art. 1, comma 325) e che i crediti d’imposta per le imprese che operano all’interno dell’ambito cinematografico spettano relativamente al «periodo d’imposta successivo» a quello in corso al 31 dicembre 2007, e per i due periodi d’imposta successivi (2008, 2009, 2010 soggetti con esercizio coincidente con l’anno solare). La legge finanziaria all’art. 1, commi 330-331 dispone due ulteriori condizioni per la fruizione dei crediti d’imposta per il settore cinematografico: La prima è contenuta nel comma 330 è legata agli apporti di capitale conferiti e stabilisce che: - gli apporti effettuati dai soggetti precedentemente elencati non possono, in ogni caso, superare complessivamente il limite del 49 per cento del costo di produzione della «copia campione» dell’opera filmica; - la partecipazione complessiva agli utili degli associati non può superare il 70 per cento degli utili derivanti dall’opera filmica. La seconda, contenuta nel comma 331, è relativa agli adempimenti amministrativi. Infatti i soggetti indicati possono beneficiare di crediti d’imposta in oggetto: - a partire dalla data di rilascio del «nulla osta» di proiezione al pubblico dell’opera cinematografica; - previa attestazione rilasciata dall’impresa di produzione cinematografica del rispetto delle norme previste per l’apporto di capitale.
10. F. Perretti, G. Negro, Economia del cinema: principi economici e variabili strategiche del settore cinematografico, Etas, Milano 2003, pp. 91-99. 34
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Tale credito può essere utilizzato esclusivamente in compensazione e non rileva ai fini della determinazione delle imposte sui redditi e dell’Irap, e del rapporto degli interessi passivi (di cui agli artt. 96 e 109, comma 5, Tuir). Il generale, per «tax shelter», letteralmente «rifugio fiscale», si intende uno schema che utilizza un incentivo fiscale. I tax shelter sono metodi di riduzione del reddito imponibile consistenti in una riduzione dei pagamenti dovuti all’Erario. La metodologia varia da Paese a Paese, a seconda delle norme fiscali nazionali e internazionali. Negli Stati Uniti, un tax shelter è qualsiasi metodo che recupera più di 1 dollaro di tasse per ogni dollaro speso, in quattro anni. In campo cinematografico, negli Usa gli investitori versano denaro per la produzione o la distribuzione cinematografica in cambio di deduzioni fiscali e di profitti potenziali nei film. Nel corso degli anni, i tax shelter statunitensi sono stati progressivamente ridotti, come risultato di leggi fiscali e pronunce giurisprudenziali che hanno limitato i benefici dello strumento11. Ci sono vari tipi di tax shelter, di cui alcuni controversi, altri illegali e altri legittimi. Questi ultimi sono creati dai governi per promuovere determinati comportamenti (in genere investimenti a lungo termine) diretti ad aiutare l’economia. In cambio si generano entrate fiscali più alte. Insomma, un tax shelter è un qualsiasi programma organizzato al quale molti individui, indipendentemente dalla loro ricchezza, partecipano per ridurre il loro carico fiscale12. La forma di credito d’imposta ha carattere agevolativo e rientra in una vasta categoria che vede come beneficiari diversi settori. Tecnicamente, i crediti di imposta sono i crediti di restituzione, di cui sia titolare il contribuente, non derivanti da pagamento indebito e fatti valere mediante compensazione con il debito d’imposta in sede di dichiarazione (credito in senso stretto) o mediante rimborso (formula non usata nella fattispecie dei crediti d’imposta destinati al cinema)13. In altri termini il risultato dell’agevolazione si traduce dal lato dei contribuenti in un risparmio d’imposta, mentre dal lato dello Stato consiste nell’incentivare gli investimenti, l’uso di fattori produttivi, il rafforzamento del comparto economico. Tra i vari strumenti alternativi per garantire un risparmio d’imposta, abbiamo citato la concessione di un credito d’imposta, ossia di un credito che il contribuente può far valere in sede di regolazione periodica dei propri rapporti tributari, al quale possiamo aggiungere, a titolo di confronto, il riconoscimento di una
11. Cfr. G. Carlucci, W. Bordon, Il mercante e l’artista, Spirali, Milano 2008, p. 213. 12. Ibidem. 13. Ivi, p. 212. IL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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deduzione «amplificata» di particolari tipologie di spesa, come ad esempio gli investimenti. Nel caso di detassazione degli investimenti, il contributo è ammesso a ridurre il proprio reddito imponibile di un importo correlato alla spesa che il Fisco intende incoraggiare. L’effetto finanziario sarà una riduzione delle tasse dovute sul reddito prodotto dal contribuente. In estrema sintesi la differenza d’approccio tra queste due filosofie è che: - con la detassazione il beneficio sarà fruito se e in quanto ci saranno redditi imponibili da ridurre o azzerare; - con il credito d’imposta, attesa la sua utilizzabilità più ampia, l’effetto finanziario dell’agevolazione si manifesta con maggiore facilità. Per il settore cinematografico, il credito d’imposta risulta il meccanismo agevolativo più appetibile e in Italia è esistente per gli esercenti di sale cinematografiche indipendentemente dai risultati reddituali, le società del settore hanno comunque costanti rapporti di debito verso l’Erario, che vanno al di là dell’imposta sul reddito. Il credito d’imposta funziona «in compensazione» e pertanto non è necessario che si formi un reddito imponibile perché il credito diventi un’opzione attraente. Fondamentalmente ci devono essere benefici su cui il contribuente deve poter contare e devono essere il più possibile semplici nella loro quantificazione14. La nostra industria cinematografica rappresenta da sempre uno dei cardini dell’industria culturale, segnandone profondamente l’identità. Tuttavia negli ultimi anni, le distorsioni del mercato cinematografico hanno messo sempre più a rischio la specificità culturale del cinema italiano, mortificandone la forza creativa, impoverendone la capacità produttiva e limitandone la diffusione sul territorio nazionale e in Europa. La polverizzazione delle imprese cinematografiche italiane, unita a una forte presenza delle major americane, ha determinato una forte presenza di film commerciali ad alto budget, di origine per lo più statunitense. In Italia, negli anni, si è configurato un mercato del cinema incapace di sostenere i prodotti filmici a matrice culturale, caratterizzati da una domanda non sufficientemente ampia ed esposti a un processo generalizzato e continuo di costi di produzione crescenti. Al fine di proteggere e valorizzare le potenzialità culturali dell’industria cinematografica viene introdotto in Italia un meccanismo di sostegno pubblico individuato nella forma di agevolazione fiscale riconducibile al credito d’imposta, ampiamente uti14. Cfr. G. Carlucci, W. Bordon, op. cit., pp. 216-218. 36
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lizzato anche in altri Paesi europei. Attraverso la concessione di un tax credit si intende incentivare: - l’investimento di risorse nell’industria cinematografica da parte di persone giuridiche e/o fisiche estranee al settore; - l’investimento diretto di risorse aziendali delle imprese facenti parte della filiera. Si deduce che il beneficio fiscale coinvolge sia imprese interne alla filiera cinematografica sia imprese esterne alla cinematografia; si parla quindi rispettivamente di «tax credit interno» e «tax credit esterno». In riferimento a quest’ultimo, il beneficio spetta con riferimento agli apporti in denaro effettuati a fronte di contratti stipulati con il produttore di film riconosciuti di interesse culturale ovvero che abbiano i requisiti per ottenere la nazionalità italiana. I soggetti esterni, in sostanza, devono associarsi ai produttori assumendo, in quota parte, il rischio d’impresa correlato alla produzione e allo sfruttamento economico dell’opera cinematografica. Nell’ipotesi di operatori del settore, invece, il beneficio compete sia alle imprese di produzione sia a quelle imprese che distribuiscono e programmano una tipologia di prodotto che si connota per il carattere culturale o alle imprese d’esercizio che decidono di ammodernare i propri impianti per le nuove tecnologie di proiezione digitale. Specificamente, il credito d’imposta è commisurato alle spese di produzione sostenute (legge finanziaria 2008, comma 327, lettera a) per le imprese di produzione. Mentre per le imprese di distribuzione oltre al beneficio correlato alle spese sostenute per la distribuzione di film di interesse culturale, oppure di lingua originale italiana, è previsto anche un beneficio commisurato all’apporto in denaro versato a fronte di contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza stipulati con il produttore per la produzione di opere cinematografiche di interesse culturale nazionale (legge finanziaria 2008, comma 327, lettera b). In ultima analisi anche per le imprese di esercizio cinematografico è previsto un beneficio commisurato all’apporto in denaro versato a fronte di contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza con il produttore per la realizzazione di film di interesse culturale nazionale. Inoltre l’esercizio gode del beneficio correlato a determinati investimenti innovativi nelle sale cinematografiche (legge finanziaria 2008, comma 327, lettera c). Viene favorita quindi, almeno in teoria, la nascita e lo sviluppo di sinergie tra gli operatori del settore per la produzione di film di interesse culturale nazionale. IL SOSTEGNO ECONOMICO AL CINEMA ITALIANO
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Figura 1 - Schema di sintesi: legge finanziaria 2008 (G. Carlucci, W. Bordon, Il mercante e lʼartista, cit. p. 231)
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Legge Finanziaria 2008: uno schema di sintesi
Credito d’imposta per imprese che realizzano opere filmiche di nazionalità italiana
Finanziaria 2008
Incentivi fiscali per il cinema
Imprese cinematografiche italiane che realizzano film su commissione di imprese estere
Ulteriori agevolazioni
Per concludere, in questo primo decennio del nuovo secolo l’assetto economico a favore dell’industria cinematografica è drasticamente cambiato. In peggio. Di fronte alla vasta crisi, il comparto spettacolo, vistosi tagliare ulteriormente il Fondo Unico per lo Spettacolo e visto l’altalenante funzionamento dei tax shelter, si è mobilitato nel 2010 in una grande manifestazione. Sotto la guida organizzativa del comitato «Tutti a Casa» e l’associazione «Cento Autori» il 28 ottobre di quell’anno vi è stata l’occupazione simbolica del red carpet durante il Festival internazionale del Cinema di Roma, con la presenza di attori, tecnici, registi, sceneggiatori, scenografi, musicisti, maestranze famose e non, tutti scesi in piazza per protesta contro uno stato delle cose che deprime l’arte e che, per ciò che ci riguarda, deprime e reprime la creatività dell’arte cinematografica. In generale, la cultura sta vivendo un pessimo momento nel nostro Paese. La speranza è che tutto ciò venga preso seriamente in considerazione dalle istituzioni, le quali devono porre rimedio affinché non continui questo scempio in Italia, che per antonomasia è l’emblema e la culla della Cultura.
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Il cinema digitale italiano tra alta e bassa definizione CHRISTIAN UVA
La nuova tecnologia irrompe nell’orizzonte filmico italiano alla fine degli anni ’90, configurandosi immediatamente come «nuova via» aperta a tutti coloro i quali, non potendo contare su budget solidi e non ricevendo sufficiente attenzione da parte dei principali soggetti produttivi, decidono di incamminarsi ugualmente nel territorio del lungometraggio armati di buona ma soprattutto «autarchica» volontà. Il 1999 è, ad esempio, l’anno che segna per un film girato in digitale l’approdo al Lido di Venezia dove Questo è il giardino di Giovanni Davide Maderna, realizzato interamente con camcorder DVcam del tipo Sony PD100, ottiene il premio per l’opera prima alla Mostra del Cinema. Con l’avvento del nuovo millennio la ripresa numerica diventa un’opzione sempre più praticata mentre molto meno frequentata è l’articolazione informatica della nuova tecnologia, ossia il suo impiego in qualità di visual effect, in ragione della sostanziale assenza nel nostro panorama produttivo di generi cinematografici che ne richiedano organicamente l’utilizzazione (come avviene nel caso della fantascienza, del filone fantasy e, più in generale, di tutta una certa produzione spettacolare). Di fatto, la principale motivazione che induce i produttori italiani a sondare l’ipotesi del digitale è la possibilità di risparmiare, soprattutto nei casi in cui il nuovo modo di produzione si lega all’adozione di supporti leggeri. Nei primi anni Duemila si verifica, così, un rapidissimo incremento di opere indipendenti e di debutti il cui comune denominatore è proprio l’adozione del formato numerico, al punto che, come rileva Gianni Canova, «a dispetto delle lamentose e ricorrenti querimonie sulla crisi irreversibile del cinema italiano, nel periodo compreso fra il 2000 e il 2006 il numero degli esordi assoluti è stato tutt’altro che trascurabile (24 opere prime solo nella
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stagione 2004-2005 [...]: il 35 per cento di tutta la produzione nazionale dell’anno)»1. Il cinema digitale degli anni Duemila è insomma, in prima analisi, un low cinema sia nel senso della sua caratterizzazione in termini di low budget sia in ragione dell’adozione di un regime estetico e visivo lo-fi (low fidelity). L’uno, del resto, è anche conseguenza dell’altro visto che le ristrettezze finanziarie, sul piano produttivo, non possono che determinare l’adozione di standard di ripresa economici, e dunque non particolarmente evoluti sul piano della risoluzione dell’immagine. La bassa definizione, dunque, è una necessità di cui tuttavia si riesce «a fare virtù» laddove, lungi dall’entrare in concorrenza con la pellicola, i nuovi film digitali abbracciano un regime visivo in cui i difetti connaturati al mezzo tendono a diventare specificità su cui costruire i punti di forza di un’estetica tutta da ripensare e, forse, anche da rifondare. Si pensi ad esempio all’esperienza di Salvatore Piscicelli con Quartetto (2001), film nel quale il regista napoletano decide di confrontarsi, almeno parzialmente2, con il Dogma nordeuropeo. Sulla scorta di quanto proposto dai modelli scandinavi di Lars Von Trier e compagni, il registro di quest’opera è senz’altro impostato su una tonalità «sporca» contraddistinta non solo da una bassa definizione dell’immagine in sé, ma soprattutto dall’impiego delle tre videocamere Sony DVcam PD150 rigorosamente a mano, anzi nel «palmo della mano», coerentemente con un progetto registico in cui l’improvvisazione degli attori e l’estemporaneità dei continui movimenti di macchina procedono paralleli al servizio, non già di una vera e propria sceneggiatura, ma di un semplice canovaccio drammaturgico. Dello stesso anno è anche l’opera di un artista come Giacomo Verde, il quale con Solo limoni realizza una «documentazione video-poetica» in 13 episodi sull’anti-G8 di Genova3. Trascendendo il dato testimoniale delle riprese, l’autore intende qui «enfatizzare il lavoro stilistico sull’immagine e sul 1. G. Canova, Eppur si muove, Innovazione, rottura, discontinuità, in V. Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù. Nuovo cinema italiano 2000-2006, Marsilio, Venezia 2006, p. 36. 2. Per stessa ammissione di Piscicelli, il suo film trasgredisce alcune norme del decalogo di Von Trier e colleghi, per esempio nel momento in cui, malgrado il veto imposto nei confronti dei film di genere, la sua opera si pone dichiaratamente come un melodramma. Un’altra violazione del «voto di castità» riguarda l’uso, senza remore, di effetti speciali, quali ad esempio il sangue finto. Il primo e unico film italiano a ottenere il marchio Dogma è, invece, Diapason (2001) di Antonio Domenici. 3. Su tale evento esiste una serie di opere realizzate in digitale molto ampia che va da Bella ciao (Marco Giusti, Roberto Torelli, Carlo Freccero, 2001) a Carlo Giuliani, ragazzo (Francesca Comencini, 2002), da Genova. Per noi (Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate, Francesco Ranieri Martinotti, 2001) a Le strade di Genova (Davide Ferrario, 2002). 40
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suono»4, offrendo un’interpretazione dei fatti antiufficiale e antitelevisiva finalizzata a «raccontare quello che i mezzi di informazione non riescono a mostrare perché imprigionati nelle regole della comunicazione-spettacolo e dello scoop»5. È tuttavia L’amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci che, nel medesimo anno, segnala un’interpretazione del tutto originale della nuova tecnologia, la quale viene vissuta dal regista come occasione preziosa per stabilire una dialettica con la «vecchia» pellicola (qui Super 16 mm), organica alla narrazione di una storia incentrata sul nevralgico tema del rapporto tra finzione e realtà. In particolare, Bertolucci realizza con L’amore probabilmente un film che sceglie come materiale narrativo privilegiato il dispositivo stesso della rappresentazione incarnato da una strumentazione digitale leggera (quella delle piccole Sony DVcam PD100) utilizzata per abbattere la messinscena tradizionale, producendo una serie di squarci di «verità» finalizzati a denunciare il meccanismo che presiede alla finzione filmica. Ecco allora palesarsi l’attore aldilà del personaggio impegnato nelle prove «a tavolino» con il regista e, allo stesso modo, gli strumenti stessi del fare cinema (i mezzi di ripresa e di cattura del suono) in quello che appare come una sorta di intrusione del backstage all’interno della narrazione. L’opera di Bertolucci, recuperando criticamente la lezione di certo cinema moderno, intende così offrirsi come sorta di work in progress o «semilavorato», piuttosto che quale oggetto finito, assumendo la forma del «film allo specchio»6, dell’opera-saggio dedicata all’analisi delle potenzialità della nuova tecnologia quale strumento cui affidare la decostruzione della tradizionale progettualità di regia in favore di un’ininterrotta «presa diretta» sul mondo come nuovo set possibile. Sempre del 2001 è anche Quello che cerchi di Marco Simon Puccioni, film che, confermando l’urgenza da parte della produzione italiana di questi anni di «prendere le misure» della nuova tecnologia, si segnala quale sorta di laboratorio in cui trovano applicazione molte delle declinazioni del digitale, dalla bassa definizione dello standard MiniDV a una prima sperimentazione dell’HD, passando per il DVcam e il Betacam digitale. Un anno più tardi, nel 2002, mentre Nello Correale conquista la palma del «primo regista a misurarsi con la nuova telecamera ad alta definizione 4. G. Verde, Presentazione del video SOLO LIMONI, in http://www.verdegiac.org/sololimoni/ 5. Ibidem. 6. G. Bertolucci, Videocamera, amore mio! Perché il digitale, in http://www.rai.it/RAInet/common/articolo/raiPopUpPrint?id_obj=1452&canale=cinema&colore=990000. IL CINEMA DIGITALE ITALIANO TRA ALTA E BASSA DEFINIZIONE
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della Sony»7, la Cinealta F900 utilizzata per le riprese della sua commedia grottesca Sotto gli occhi di tutti, la low definition diventa in Paz! di Renato De Maria non soltanto lo strumento conseguente alle ristrettezze del budget quanto soprattutto l’opzione estetica che, incarnata dall’impiego del formato DVcam, meglio sembra rispondere al «compito di restituire una precisa immagine, di ritrovare una “pasta”, “un sapore” che era quello della fine degli anni ’70»8 e, soprattutto, quello dell’universo visionario di Andrea Pazienza, fumettista alla cui opera il film è ispirato. Va del resto rimarcato che la tendenza verso la bassa definizione, intesa soprattutto in termini di linguaggio e non necessariamente in senso strettamente legato alla qualità fotografica dell’immagine, connota anche quelle pratiche cinematografiche in cui, pur potendo contare su standard di ripresa più sofisticati, si preferisce comunque optare per un uso libero, «leggero», magari anche «sporco», del mezzo di ripresa. È il caso di Gente di Roma (2003), nel quale è un esponente della «vecchia guardia» come Ettore Scola ad appassionarsi alle potenzialità della nuova strumentazione di ripresa quale mezzo ideale per dare vita a una incessante flânerie per le strade della capitale. Sono tre Sony Cinealta F900 e una piccola DVcam Sony PD150 i dispositivi di high e low definition la cui azione integrata restituisce allo spettatore la visione immersiva e riccamente percettiva di una Roma ispezionata topograficamente e soprattutto socioantropologicamente; è, in particolare, la versatilità dei mezzi digitali a rendere possibile il dinamismo di un’esperienza urbana raccontata in «punta di penna», o meglio di caméra-stylo, per riprendere il noto concetto di Alexandre Astruc9, che nel nuovo orizzonte tecnologico sembra ritrovare linfa e attualità. Non si dimentichi, d’altronde, che il regista e critico francese evidenziava come fossero proprio le tecniche leggere (all’epoca quelle del 16 mm e della televisione) a interpretare un ruolo decisivo nel processo finalizzato a rendere il cinema progressivamente un equivalente della scrittura saggistica. Ecco allora che, oggi ancor più di ieri, lo strumento di ripresa tende a farsi «mezzo di scrittura flessibile e sottile al pari del linguaggio scritto»10, come 7. M. Greco, Il digitale nel cinema italiano. Estetica, produzione, linguaggio, Lindau, Torino 2002, p. 51. 8. C. Uva, Il digitale nella regia. Con le testimonianze di professionisti dall’Italia e dal mondo, Audino, Roma 2010, p. 83. 9. Cfr. A. Astruc, Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo, in «L’Écran français», n. 144, 1948; trad. it. in A. Barbera, R. Turigliatto (a cura di), Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, p. 313. 10. Ibidem. 42
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confermano nel 2004 due opere diversissime quanto a forma, contenuto e tecnologia adottata eppure connotate dalla comune volontà di mettere in pratica il dettato teorico astrucchiano. Da un lato si segnala, così, Dopo mezzanotte di Davide Ferrario, affettuoso omaggio al cinema ed ai suoi dispositivi in cui è nuovamente l’HD della Sony Cinealta lo standard che il regista piega ai propri scopi espressivi, rivendicandone le potenzialità creative contro chi è convinto che «più ci si avvicina alla definizione assoluta, alla perfezione realistica dell’immagine, più si perde la sua forza di illusione». Dall’altro si colloca invece Private (Pardo d’Oro come miglior film al Festival di Locarno del 2004), esordio nel lungometraggio di Saverio Costanzo nel quale il dispositivo di ripresa DVcam viene posto al servizio di una regia «nervosa» e di una «pasta» visiva deliberatamente sporca, ora bruciata nelle alte luci ora «pixelata» in quelle basse. L’intento è del resto quello di raccontare un conflitto altrettanto «sporco», quello tra israeliani e palestinesi, gettando lo sguardo nel mezzo della paradossale convivenza tra un manipolo di soldati e una famiglia di civili costretta a subire l’invadenza dei primi. In tale occasione è soprattutto la leggera videocamera, impiegata rigorosamente a mano, a farsi video-penna capace di mettersi al servizio di un linguaggio sgrammaticato (ricco in montaggio di jump cut) funzionale a rifuggire i riti canonici della drammaturgia tradizionale. Ugualmente legato a una concezione del mezzo di ripresa quale strumento di una «scrittura» audiovisiva che si incarica, in questo caso letteralmente, di rendersi il corrispettivo di una scrittura letteraria è anche Gabriele Salvatores, che nel 2005 testa l’alta definizione, unitamente allo standard HDV, per il suo Quo vadis, baby?. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Verasani pubblicato dall’allora neonata divisione editoriale della Colorado Film, la Colorado Noir, è in effetti un’opera stratificata nella quale il digitale, grazie alla sua connaturata proteiformità, diventa il dispositivo ideale per interpretare visivamente i diversi livelli narrativi su cui si articola il flusso di coscienza del testo d’origine. Ecco allora che a fare da contrappunto a una fotografia patinata e dai toni saturi – in cui si incarna il presente della protagonista – sono i livelli visivi lo-fi che ricreano, ora l’estetica dell’arcaico VHS (cui si affidano le video-memorie di uno dei personaggi principali), ora quella dell’«ancestrale» pellicola Super 8, sgranata, anticata, dai colori forti e dalle luci «bruciate», in cui si radica un vissuto calato in un tempo ancora più lontano. È così che tale patchwork iconico configura una serie di regimi visivi i quali risultano i corrispettivi di ciò che IL CINEMA DIGITALE ITALIANO TRA ALTA E BASSA DEFINIZIONE
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William Hope definisce «il senso frammentato delle relazioni interpersonali nella società moderna»11. Nel medesimo 2005 si impone, poi, il caso di un piccolo film realizzato con budget e tecnologia estremamente «light» come Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, opera nella quale è proprio il digitale a incaricarsi di configurare l’ambiguo territorio in cui la fiction si ibrida con il documentario in ragione dell’impiego di molti attori non professionisti e di riprese on location atte a esaltare «lo splendore del vero» della valli occitane del Piemonte. Accanto a questa produzione connotata da un piglio più dichiaratamente autoriale si pone poi, intorno alla metà dello stesso decennio, tutta una serie di film che utilizzano tecnologie di ripresa amatoriali o semiprofessionali insieme a narrazioni di genere che virano dal noir all’horror. Si faccia ad esempio riferimento a Piano 17 (2005), crime movie dei fratelli Antonio e Marco Manetti, oppure al mockumentary Il mistero di Lovecraft. Road to L. (2005) di Federico Greco e Roberto Leggio, ma soprattutto si ricordi il caso de Il bosco fuori (2007) di Gabriele Albanesi, horror girato con tecnologia HDV che ha avuto il merito di varcare le frontiere di Paesi come il Giappone, la Russia, la Spagna e soprattutto gli Stati Uniti, dove è stato distribuito in home video dalla Ghost House Underground di Sam Raimi in associazione con Lions Gate. Esempi a parte in tale scenario, poiché sostenuti da modi di produzione più solidi e perché legati a nomi maggiormente affermati nel panorama cinematografico italiano, sono quelli di AD Project (2006) di Eros Puglielli, che sviluppa un prodotto di genere a metà tra fantascienza e horror, e H2Odio (2006), opera terza di Alex Infascelli realizzata con tecnologia HDV e uscita direttamente in DVD senza passare per la sala. Negli ultimi anni la tecnologia digitale resta in molti casi lo strumento ideale per scardinare un sistema produttivo asfittico, consentendo a diversi giovani autori, pur in una condizione di semi-invisibilità12, di attirarsi le attenzioni della critica e, con il tempo, di fette cospicue di pubblico, come accade ad esempio a Cover Boy. L’ultima rivoluzione (2006) di Carmine Amoroso e ad Un altro pianeta (2008) di Stefano Tummolini, opere accomunate dalla trattazione di tematiche gay in cui l’opzione del digitale leg11. W. Hope, Gabriele Salvatore’s Quo Vadis, Baby? Investigating the State, the Individual, and Institutionalized Crime, in M. Jansen, Y. Khamal (a cura di), Memoria in Noir. Un’indagine pluridisciplinare, P.I.E. Peter Lang, Bruxelles 2010, p. 241 (trad. mia). 12. Per una disamina di tale nozione applicata al panorama del cinema italiano contemporaneo rimando a: V. Zagarrio (a cura di), Gli invisibili. Esordi italiani del nuovo millennio, Kaplan, Torino 2009. 44
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gero (nello specifico, lo standard HDV) è nuovamente la conseguenza di un’urgenza di totale libertà narrativa e stilistica. Nel periodo più recente, grazie alla disponibilità di tecnologie estremamente sofisticate a costi sempre più ridotti (si veda, per tutti, l’esempio del sistema Red Digital Camera), i casi di produzioni che adottano l’alta definizione e, più in generale, il digitale come strumento di ripresa si moltiplicano a dismisura. A meno che non venga correlata all’impiego dei nuovi sistemi per il 3D13, la nuova tecnologia non è più un’eccezione ma ormai una norma che tuttavia continua in molte occasioni a costituire oggetto di riflessione e di sperimentazione. Ecco allora un film come Valzer (2007) di Salvatore Maira, il quale, riprendendo la sfida lanciata nel 2002 da Aleksandr Sokurov con l’Arca russa, utilizza l’HD per un piano sequenza integrale organico a «una lettura metadiscorsiva della teatralità in quanto origine e termine del cinema»14. Consapevole del valore aggiunto che l’adozione dello standard digitale può apportare alla realizzazione di un’opera filmica è anche Noi credevamo di Mario Martone (2010), ampio e raggelato affresco sulle contraddizioni e i lati oscuri del Risorgimento in cui il direttore della fotografia Renato Berta (David di Donatello 2011 per questo film) impiega la macchina Red One al servizio di un’intensa e articolata resa estetica fondata su riferimenti pittorici del tempo ma anche su rimandi filmici a opere come Il Gattopardo, Senso, Viva l’Italia!. Una pari consapevolezza delle potenzialità dello strumento digitale è anche quella che connota l’opera seconda del già citato Giorgio Diritti, L’uomo che verrà (2009); qui l’HD è nuovamente funzionale al tratteggio di un drammatico scorcio storico teso a epicizzare, attraverso il ricorso a immagini ispirate a certa pittura impressionista (con particolare riferimento a Camille Pissarro) e alle foto d’epoca delle campagne Toscane15, il sacrificio dei martiri della serie di stragi naziste compiute tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nel territorio di Marzabotto e nelle colline di Monte Sole. È il caso poi di menzionare l’avvento anche in Italia di una nuova forma di cinema fondata sull’utilizzo di dispositivi “anticonvenzionali”, ossia di
13. Si ricordino, tra gli altri, il progetto di Italo Moscati Venezia Carnevale in 3D (2011), prodotto dalla Rai-Direzione Strategie Tecnologiche, il Dracula 3D (2012) di Dario Argento e Paura 3D (2012) dei fratelli Manetti. 14. G.D. Fragapane, Forma del movimento. Valzer. Il piano-film di Salvatore Maira, Bulzoni, Roma 2009, p. 15. 15. Cfr. P. Russo, Intervista a Roberto Cimatti, in http://www.ripresaprofessionale.it/shotpress/maestrideldcinema/intervista-a-roberto-cimatti/, 27 novembre 2010. IL CINEMA DIGITALE ITALIANO TRA ALTA E BASSA DEFINIZIONE
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strumenti i quali, benché concepiti originariamente con funzionalità diverse da quelle della ripresa video o cinematografica, ultimamente si stanno imponendo per le inedite potenzialità espresse proprio in questo campo: il riferimento va, da un lato, alle videoreflex, cioè alle fotocamere digitali dette in gergo DSLR (Digital Single Lens Reflex), capaci di produrre riprese con definizione paragonabile a quella della pellicola 35 mm; dall’altra, ai videofonini, ossia ai telefoni cellulari impiegati come camcorder la cui peculiarità, come ricorda Roger Odin, è quella di essere allo stesso tempo dispositivi di ripresa, di ricezione e di diffusione16. Nel primo ambito si segnalano almeno due recenti film realizzati integralmente con fotocamere digitali reflex del tipo Canon EOS 7D – la commedia malinconica Se sei così ti dico sì (2011) di Eugenio Cappuccio e il coraggioso quanto rischioso esempio di “fantascienza all’italiana” L’arrivo di Wang (2011) dei fratelli Manetti – mentre nel secondo deve essere ricordato il phone-film di Pippo Delbono La paura, presentato fuori competizione al Festival di Locarno del 2009, una delle opere di maggiore interesse nell’ambito della sperimentazione “militante” della bassa definizione digitale (di recente Delbono è tornato ad avvalersi parzialmente del videocellulare, in associazione con una handycam, in Amore Carne, in concorso nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia del 2011). L’elemento di interesse di quest’opera a metà tra documentario e videoarte risiede nella capacità dello strumento, utilizzato «selvaggiamente» dall’autore, di farsi veicolo di «una graffiante poesia»17 sullo stato generale in cui versa l’Italia e la sua cultura politica alla fine del primo decennio degli anni 2000. Quel che ne deriva è una sorta di manifesto di un cinema che qui espande le proprie potenzialità grazie all’impiego eversivo di quello che per antonomasia è l’oggetto “trendy” della contemporaneità. Nelle mani del regista, infatti, il videocellulare si fa strumento con cui rappresentare il mondo senza fronzoli né artifici «perché la materia prima del film è la verità, la realtà tangibile e dimostrabile, catturata e montata dall’artista, il quale riesce a trasformare in strumento di liberazione quell’oggetto che ognuno di noi ha in tasca»18.
16. Cfr. R. Odin, È giunta l’era del linguaggio cinematografico, in «Bianco e Nero», n. 568, settembre-dicembre 2010, p. 8. 17. Dalle note di regia in http://www.pippodelbono.it/films-pippo-del-bono/item/12-la-paura. html. 18. Ibidem. 46
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Si vuole dedicare la conclusione di questo saggio menzionando una recente esperienza di produzione digitale la cui particolarità è quella di aver messo alla prova della nuova tecnologia (in particolare, quella della menzionata Red One) una storica coppia di maestri del cinema italiano: il riferimento va a Cesare deve morire (2012) dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, film prodotto in maniera indipendente e inizialmente rifiutato da molte distribuzioni che, dopo aver vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, è stato candidato a rappresentare l’Italia per le nomination al Premio Oscar del 2013. Partendo dall’autentica rappresentazione teatrale del Giulio Cesare di Shakespeare realizzata dal regista Fabio Cavalli nel carcere romano di Rebibbia con l’ausilio dei veri detenuti, l’ultima opera dei Taviani si configura come un’ulteriore variazione, di stampo prettamente brechtiano, sul tema realtà-finzione, come testimonia anche l’impiego dialettico del bianco e nero e del colore. In tale contesto il dispositivo digitale di ripresa viene sfruttato per intervenire con discrezione nel microcosmo raccontato, garantendo al contempo una limpidezza della visione in cui spicca il contrasto tra gli interni carcerari e l’abbacinante luce proveniente dal mondo fuori dalle sbarre «Film geneticamente politico» nel suo intento di rintracciare «coraggiosamente l’umanità nel rimosso più inabissato della nostra società [cercando] ancora imperterrito di “cambiare le cose”»19, Cesare deve morire appare insomma la limpida testimonianza di come anche il cinema di “una volta”, quello dei Maestri, riconosca nella nuova tecnologia un’occasione irrinunciabile per produrre non solo una scossa in un contesto produttivo divenuto asfittico, ma anche un nuovo impulso a rinnovare, e in parte rifondare, il rapporto stesso tra il cinema e la realtà.
19. P. Masciullo, “Cesare deve morire”, di Paolo e Vittorio Taviani, in http://www.sentieriselvaggi.it/ 307/45648/Cesare_deve_morire,_di_Paolo_e_Vittorio_Taviani.htm, 2 marzo 2012. IL CINEMA DIGITALE ITALIANO TRA ALTA E BASSA DEFINIZIONE
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Generi e Autorialità
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Il genere nel nuovo cinema italiano VITO ZAGARRIO
Il «genere» è sempre stato presente nel cinema italiano. Ne ha caratterizzato gli esordi, quando il cinema muto metteva in quadro la caduta di Pompei, prefigurando i futuri pepla; è stato il succo del cinema degli anni Trenta, con la commedia cameriniana o i film in costume blasettiani; è stato il pilastro dell’industria cinematografica del dopoguerra nelle sue innumerevoli tipologie (dal melodramma d’appendice al varietà, dal film opera al film canzonetta, dal western spaghetti alla commedia macaroni); ha caratterizzato certi periodi atipici ma affascinanti (l’horror, la fantascienza italiani, tutto il cosiddetto – impropriamente – B movie) di autori come Lenzi e Castellari, Margheriti, D’Amato o Crispino, di tutto quell’ampio serbatoio dell’immaginario popolare e un po’ «cult» adorato da registi come Tarantino. Ma l’elemento «di genere» ha sempre attraversato anche il cinema d’autore, che a sua volta, da alcuni studiosi, è stato analizzato come un (seppur atipico) «genere» (una sorta di «auteur genre»). Si pensi ai codici «generici» presenti nel neorealismo: gli elementi di commedia rintracciabili in Roma città aperta (la famosa padellata di don Pietro che ha fatto dire a Monicelli che stanno lì i prodromi della futura commedia all’italiana), i codici gangster e western esibiti nel cinema di De Santis (in Caccia tragica, Riso amaro e in Non c’è pace tra gli ulivi), il diffuso tono da melodramma di molti film (la morte di Pina in Roma città aperta, l’episodio fiorentino di Paisà, le situazioni patetiche dei film di De Sica e Zavattini, dal finale di Ladri di biciclette al tentato suicidio di Umberto D, per non parlare di tutto il Visconti «neorealista», Ossessione in primis ma anche l’archetipico La terra trema), persino il prison movie alla Warner Bros di Sciuscià. La stessa nozione di genere viene spesso abusata: qualcuno parla ad esempio di «neorealismo» come genere, quando è invece un «movimento»
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o ancora meglio un «momento» del cinema italiano; ma lo stesso neorealismo può diventare genere quando diventa stereotipo, modello, quando «degenera» in sequel e si contamina con tipologie industriali (il «neorealismo d’appendice», il «neorealismo rosa», ecc.). Una riflessione sul genere nel cinema contemporaneo impone quindi una seria meditazione sul significato stesso di genere e sui suoi codici; su quando un film si possa definire di genere e quando ne possieda solo alcuni elementi; se queste presenze siano consce o inconsce, dichiarate o sottilmente nascoste; se siano messi in gioco parodie, echi, rimanipolazioni, prestiti, contaminazioni, ecc. Di certo, il cinema italiano di quest’ultimo ventennio ha fatto fortemente emergere il genere, che viene trattato in coscienti strategie autoriali o è sparso nei vari prodotti, e che diventa una novità interessante soprattutto alla svolta del nuovo secolo. Dopo l’inizio della grande crisi del cinema italiano, a metà degli anni Settanta, i generi erano, infatti, scomparsi dalla produzione nazionale, seguendo fatalmente il declino delle sale e di un cinema «di profondità». Dopo una lunga assenza, alcuni di loro sono timidamente ricomparsi nel panorama produttivo, ritrovando una perduta legittimazione. In parte si sono trasferiti, trovando lì una nuova linfa vitale, nella fiction televisiva; in parte sono stati riadottati da una nuova generazione di filmmaker nutriti di una cultura e di un’educazione all’immagine diverse. Non è un caso che i due eventi filmici di Cannes 2008 che hanno riportato in auge il cinema italiano siano diretti da autori, Garrone e Sorrentino, che civettano volentieri coi generi: Gomorra è un grande omaggio a generi come il juvenile delinquency movie, al film di mafia e di camorra, ma anche al cinema «civile» italiano (come Primo amore era un giallo-noir altamente metaforico), lo stesso Il divo fa il verso alle biopics americane. Ma è soprattutto Le conseguenze dell’amore che usa il gangster movie per un discorso più simbolico sullo sguardo contemporaneo. Basti pensare al bellissimo finale in cui Titta Di Girolamo (e con lui lo spettatore) ripensa in flash-back al momento in cui ha recuperato la valigia col denaro uccidendo i due mafiosi; si tratta di un momento di cinema altissimo, che adotta con perizia i codici del genere d’azione (Servillo che toglie la corrente all’ascensore, poi la corsa per le scale a precedere gli sgherri, e la sparatoria improvvisa e letale). A dimostrazione di come l’action movie, quello tipico del mainstream hollywoodiano, sia entrato dentro la pelle dei registi più giovani.
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VITO ZAGARRIO
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Generi all’italiana Alcuni cineasti infatti, appartenenti soprattutto alla nuova generazione di esordienti della fine degli anni Novanta e dei Duemila, hanno scelto il genere come loro cavallo di battaglia, come cifra stilistica e come provocatoria carta culturale. Penso ad Alex Infascelli (Almost Blue, Il siero della vanità, H2Odio; era già precocemente partecipe del film, provocatorio manifesto generazionale, DeGenerazione), Eros Puglielli (Tutta la conoscenza del mondo), Alessandro Valori (Radio West), Federico Greco (Il mistero di Lovecraft), Gionata Zarantonello (Medley. Brandelli di scuola) e a molti registi di cortometraggi che hanno fatto di generi meno frequentati in Italia (come horror, thriller, fantascienza, guerra) la loro bandiera estetica e generazionale. Tengo volutamente a latere da questa riflessione sui generi il macro-genere tradizionale, la commedia, il genere che, anche per ragioni produttive, è il più frequentato da molti esponenti della nuova leva di cineasti. Penso ai molti giovani registi usciti in questi anni dal Centro Sperimentale: Claudio Cupellini con Lezioni di cioccolato, Francesco Lagi, Rohan Johnson, Michele Carrillo e lo stesso Cupellini con 4-4-2. Il gioco più bello del mondo, ecc. Penso in generale a una generazione «invitata» a pensare all’opera prima in termini di commedia pur di avere una certa visibilità. Ma il panorama della nuova commedia italiana è troppo vasto per essere analizzato qui e soprattutto per essere ridotto a «genere», quando è invece un fenomeno culturale molto più vasto, un modo di essere della nostra (nel caso della commedia ancora superstite) «industria». La commedia rappresenta un’identità di Paese, quella che in suo saggio Maurizio Grande ha associato ai «caratteri nazionali», ed è comunque un modo per sopravvivere, per aver visibilità e circolazione. È spesso l’unico modo per stare nel «mercato». La commedia italiana degli anni Duemila offre comunque un panorama di tipologie con sfumature differenti: a) quella dei «comici» anni Ottanta/Novanta, registi e interpreti (Verdone, Pieraccioni, Salemme, Panariello, ecc.); b) quella di registi legati alla prima tipologia ma non interpreti (ad esempio Veronesi con Manuale d’amore e il suo lavoro di sceneggiatura per Pieraccioni – che con lui si imbarca nell’operazione, non risucita ma coraggiosa nelle intenzioni, di ibridazione tra commedia e western classico de Il mio west); c) la commedia «d’autore» tradizionale seppur con esiti alterni (ad esempio Cristina Comencini con Matrimoni e con Bianco e nero, oppure il D’Alatri «leggero» di Commediasexy); d) gli eredi della «commedia all’italiana», soprattutto Paolo Virzì cui Furio Scarpelli ha direttamente passato il testimone generazionale; e) la commedia generazionale esplosa IL GENERE NEL NUOVO CINEMA ITALIANO
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con gli adattamenti dai romanzi di Moccia (da Tre metri sopra il cielo in poi) ed identificatasi con l’irruzione nell’immaginario giovanile di una serie di nuove star e di nuovi sex symbol (Scamarcio, Vaporidis, Chiatti, ecc.); f) una commedia più «eccentrica», che innesta modelli della vecchia Hollywood alla modernità italiana: ancora D’Alatri con La febbre, o Soldini quando decide incursioni nella commedia – Pane e tulipani, Agata e la tempesta – sino al fresco d’uscita Il comandante e la cicogna; ma soprattutto Giulio Manfredonia, con il capriano Se fossi in te, il surreale È già ieri e il bizzarro-sentimentale Si può fare. Tra gli esempi più recenti di una screwball comedy adattata alle tipologie ed alle ideologie italiane (un po’ come aveva fatto il Virzì di Ferie d’agosto) voglio citare Diverso da chi? di Umberto Carteni, una commedia ben scritta, che vale alla fine molto di più di quel che promette l’operazione commerciale. I sottogeneri e le tipologie potrebbero continuare ancora, ma non è questa l’occasione. Accanto alla commedia, va messo un po’ da parte anche il melodramma o comunque l’elemento mélo che, come ho detto, appartiene alla tradizione italiana, anche in pieno neorealismo. Tra gli esperti frequentatori del genere citerei Ferzan Özpetek (soprattutto Cuore sacro), Pupi Avati (Il papà di Giovanna), Marco Tullio Giordana che spesso coniuga indagine storico-sociologica a codici melodrammatici (Quando sei nato non puoi più nasconderti, Sanguepazzo, e lo stesso fortunato caso de La meglio gioventù). Si tratta di un melodramma che spesso confina con il dramma puro (il Moretti de La stanza del figlio), ma che viene anche stemperato da toni di commedia (ancora Avati), come se i due generi nazional-popolari fossero in qualche modo costretti ad avvilupparsi. Insisto su Avati perché mi sembra che il regista bolognese sia tra gli autori italiani «maturi» quello che più lucidamente frequenta i codici generici ed è capace di sfruttare gli stereotipi di tipologie che non sono soltanto i macrogeneri nazionali. Ha cominciato già negli anni Sessanta-Settanta con Balsamus e La casa dalle finestre che ridono, e ha proseguito sino ai tempi più recenti con L’arcano incantatore e Il nascondiglio, avventurandosi temerariamente nell’horror e nel fantasy. Ha anche spinto all’esordio nel genere giovani registi che si sono poi affermati come professionisti del cinema e della fiction tv come Maurizio Zaccaro (la sua opera prima, Dove comincia la notte, del ’91, è un horror girato negli Stati Uniti sotto l’ala protettrice di Avati). In particolare Il nascondiglio è un mistery inquietante, coraggioso perché atipico – anche rispetto alla produzione corrente del regista – che Avati decide non a caso di ambientare nella patria dei generi, l’America del Mito ma anche delle tipologie industriali eredi dello studio system. 54
VITO ZAGARRIO
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Tra gli anni Novanta e Duemila si sono poi diffusi elementi di film noir, quasi sempre contaminati con altre tradizioni e influenze. Penso soprattutto a Carlo Mazzacurati, il cui film d’esordio (Notte italiana, prima produzione della Sacher) era già permeato di atmosfere «gialle» e «nere», e che ha continuato volentieri un esercizio sul genere: bello soprattutto Un’altra vita, con il memorabile finale del malavitoso Amendola ucciso dalla protagonista, una intensa Adrianna Biedrzyńska; ma interessanti anche le atmosfere inquietanti de La giusta distanza, in cui Mazzacurati torna a coniugare, come nella sua opera prima, il paesaggio delle sue radici con i toni e gli umori del noir. Un paesaggio e un progetto estetico che riecheggiano il Visconti di Ossessione. Certo è che il noir è diventato terreno di esercizio per varie generazioni; sia quella di registi già esperti (e di esperienze che non sono solo il cinema) come Roberto Andò, che in Sotto falso nome (con Daniel Auteuil e Greta Scacchi) sposa culture e tradizioni diverse; sia la leva più giovane, o comunque – al di là dell’anagrafe, non sempre chiarificatrice – quella che ha esordito nei Duemila: Andrea Molaioli con La ragazza del lago, Roberto Dordit con Apnea, Francesco Munzi con Il resto della notte, Toni Trupia con L’uomo giusto, Andrea Porporati con Sole negli occhi, ecc. Certo, si tratta quasi sempre di casi in cui gli elementi noir sono spruzzati nella trama, innestati come un omaggio ad un certo cinema visto e introiettato dagli autori, senza però un vero rispetto di codici e di strutture del genere. È come se si sentisse il bisogno di un aggancio forte, di una zavorra strutturale, senza però il coraggio o il desiderio di abbandonarsi a delle precise «regole». Ed è – anche – come se gli «autori» (quelli più giovani e quelli della generazione ormai affermata) avessero ancora qualche residuo pregiudizio verso leggi sedimentate del genere, che possono forse rappresentare un pericolo di inquinamento «commerciale» dell’opera e delle possibilità espressive. Solo pochi, come dicevo prima, si buttano sul genere tout court con entusiasmo e col dichiarato intento di rispettarne i codici, scegliendo tra l’altro le tipologie meno nazional-popolari e più legate ad altri modelli culturali: l’horror, appunto, o la fantascienza, il thriller o il film di guerra. Dario Argento gioca ovviamente un ruolo a sé, caso piuttosto isolato e coerente nella sua pluriennale ricerca tra thriller, horror e fantasy (vedi i suoi più recenti Giallo, sfortunato negli esiti commerciali, La terza madre, che è un forte manifesto ideologico e una lettura in chiave di genere dei conflitti dell’Italia di oggi; e infine Dracula, presentato a Cannes 2012, in cui il Maestro civetta con le nuove sirene del 3D). Sul solco di Argento si pone il cineasta più esperto di genere nella generazione ormai «di mezzo», Michele Soavi, un filmmaker apprezzato persino IL GENERE NEL NUOVO CINEMA ITALIANO
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da Quentin Tarantino. Deliria, La chiesa, La setta, Dellamorte Dellamore sono un biglietto da visita inattaccabile per un regista amante dell’horror (contaminato magari dal fantasy e dal fumetto); ma Soavi ha dimostrato di sapere maneggiare anche altri generi, come il poliziesco (vedi Ultimo, Uno bianca) che lo ha fatto diventare uno dei professionisti più apprezzati della fiction. Accanto a lui (stessa generazione, stesse fonti) metterei Claudio Fragasso, che ha iniziato proprio con l’horror (ha cominciato scrivendo per D’Amato e Fulci per Zombi 3, è conosciuto tra i fan del genere con lo pseudonimo di Clyde Anderson – Murder Boy, After Death), prima del successo con l’action e il mafia movie (Milano Palermo solo andata, e poi, a distanza di anni, Milano-Palermo: il ritorno). Un teorico del film d’azione, pentito del cinema d’autore ombelicale italiano, è Fabio Segatori, che dopo una carriera di cineasta sperimentale, di cortista antisistema, ha esordito con Terra bruciata, film di contaminazioni intelligenti (action, commedia grottesca, gangster, noir) e proseguito poi con Hollywood Flies. Più recentemente ha vestito i panni del produttore per Legami di sangue di Paola Columba, un film d’autore che presenta però interessanti elementi di genere: è infatti una sorta di “dramma corso”, una storia di conflitti familiari in un inedito paesaggio meridionale. Ma è forse Alex Infascelli il filmmaker della nuova generazione più coraggioso e provocatorio, con prodotti atipici nel cinema italiano, in qualche caso anche nel senso della veicolazione alternativa (vedi H2Odio distribuito direttamente in DVD e in edicola). Dopo Almost Blue, sospeso tra detective story e film noir, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Lucarelli e interpretato da un’inconsueta detective femminile, la brava Lorenza Indovina, Infascelli firma anche Il siero della vanità, film bizzarro ma inconsueto nel panorama del cinema italiano e, a dimostrazione di essere un innovatore, Nel nome del male, un film in due puntate prodotto da Sky e girato con la nuova, mitica telecamera Red; mini-serie in cui Infascelli può sbizzarrirsi in una grammatica filmica piuttosto inedita per la tv. Interessante anche il lavoro dei Manetti Bros., prima con una parodia dei film sui vampiri sponsorizzata da Verdone (Zora la vampira), poi con un thriller, contaminato anch’esso con la commedia, girato in digitale e interpretato da attori non conosciutissimi (tra i protagonisti Elisabetta Rocchetti), Piano 17. Apprezzabili i tentativi di Alessandro Valori, col sopracitato Radio West, il film d’esordio interpretato, oltre a una allora ancora poco conosciuta Kasia Smutniak, dal Taricone ancora fresco dei successi del Grande Fratello e dal figlio di Marco Bellocchio, Pier Giorgio, a sua volta regista ed 56
VITO ZAGARRIO
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esperto di digitale, votato anch’egli al basso costo e alle nuove tecnologie (è stato tra i titolari di Digital Desk).
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Rivoluzioni di generi e tecnologie Le nuove tecnologie sono tra i fattori determinanti per una trasformazione dei generi tra fine del vecchio secolo e nuovo millennio. Il digitale, con i suoi bassi costi, con la possibilità di girare e di montare persino in casa, con la gamma di effetti speciali che offre, ha influenzato i generi e le scelte dei filmmaker. Sono, dunque, i generi che hanno più bisogno di effetti ad avvantaggiarsi della «rivoluzione digitale», fantascienza, fantasy e horror in primis. Tra i cineasti più noti, cito di nuovo Eros Puglielli, che fonda sul green screen e sugli effetti elettronici la scena madre del suo Tutta la conoscenza del mondo (l’incontro con un alieno). Tra i più giovani, mi viene in mente, come caso emblematico di una tendenza culturale, Mariano Equizzi, un ex allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia da sempre votato al genere; la sua opera prima è un horror/thriller (The Mark), ma già da studente si cimentava in film science fiction/fantasy prodotti nel laboratorio casalingo, con macchine digitali semiprofessionali. Ex allievo del Csc è anche Edo Tagliavini, altro giovane filmmaker di talento che si è sempre opposto alla nozione corrente di «autore», e che ha lavorato a lungo su un progetto di vampiri. Sempre dal Csc – a conferma di una mutata percezione dell’autore e del ruolo del regista – proviene Gregory Jason Rossi, produttore di un horror a basso costo, uscito però nelle sale e persino premiato con la denominazione d’essai, Il bosco fuori di Gabriele Albanesi. È un terreno minato, quello dell’horror low budget, con inevitabili rimandi parodici e citatori, in cui si sono avventurati altri giovani cineasti: ricordo, ormai molti anni fa, l’Andrea Marfori prodotto da Agnese Fontana de Il Bosco (Evil Clutch), diventato ormai un cult. Non sempre è andata bene, ma Marfori è stato coraggioso, anche nell’uso, in epoca pre-digitale, di effetti tradizionali del profilmico nel solco della tradizione del B movie. Tra i «novissimi» cito Filippo Sozzi, che nel lungometraggio Il metodo Orfeo si esercita con buona capacità a creare i «brividi» necessari nel film di fantasmi; mentre sono tanti gli autori recenti di corti: 32 di Michele Pastrello, eco-horror con Eleonora Bolla (storia di uno stupro che vorrebbe essere la metafora della violenza praticata contro la natura dalla nuova civiltà del cemento), Fame di Mario Alves Rebehy, Moebius: chi bussa alla mia porIL GENERE NEL NUOVO CINEMA ITALIANO
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ta? di Donatello Della Pepa, Il mondo dei cattivi di Alberto Donati, Alma (gotica) di Luciano Rocco, Lèmuri, il bacio di Lilith di Gianni Virgadaula. Tutti questi titoli sono stati presentati al Roma 3 Film Festival del 2009 (una sezione organizzata dagli «esperti» De Sanctis, Del Grosso e Meale), a dimostrazione di come esista una linea horror fortemente praticata dai giovani registi e incoraggiata dalla nuovissima generazione di critici. Le nuove tecnologie elettroniche e digitali influenzano anche la generazione dei registii più maturi, che introducono, legittimandolo, il genere nel loro cinema “d’autore”. Si prenda Gabriele Salvatores, sempre capace di intuire le novità teoriche e di cavalcarle con un suo stile. Il suo Quo vadis, baby? sposa con intelligenza il noir con la tecnica della ripresa digitale, ma anche con una più profonda riflessione sul metalinguaggio (l’interazione con i VHS-diari lasciati dal personaggio interpretato dalla brava Claudia Zanella). Denti usa con lucida consapevolezza gli effetti speciali, ma anche Io non ho paura fa i conti con gli effetti speciali invisibili ricreando un paesaggio falsamente realistico ai limiti della fantascienza. Quella fantascienza contaminata, e forse appesantita, dalla solita commedia del sodale Abatantuono, che Salvatores ha peraltro temerariamente tentato di praticare in Nirvana. Gioca con gli effetti speciali anche Daniele Vicari, che ricostruisce lo sfondo dei fatti di Genova nel suo Diaz grazie al green screen; in un film che se da un lato si inserisce alla grande nel filone storico del film “civile”, civetta anche un po’ con l’action movie. Se si prendono i film più recenti, del resto, diciamo quelli del 2011, troviamo molti elementi di genere: in A.C.A.B., per esempio, opera prima di Stefano Sollima (già noto però per la sua regia di serie come La squadra, Romanzo criminale - la serie e Crimini 2), un film che racconta come un film d’azione il punto di vista dei poliziotti della “Celere”. Oppure in This Must be the Place di Sorrentino, dramma familiare e politico ibridato col travel film classico americano; in Magnifica presenza di Ozpetek, pensato all’insegna del fantasy e del ghost movie; in Una vita tranquilla di Claudio Capellini, che usa i codici del gangster e del film di camorra per raccontare un dramma psicologico nel contesto dell’emigrazione. O in La fisica dell’acqua di Felice Farina, tornato dopo anni di assenza a cimentarsi con un fosco “giallo”. Come si vede, un discorso sui generi in Italia è piuttosto complesso ed è difficile valutare le sfumature: film di genere, film influenzati da un genere o che ne respirano le atmosfere, parodie o riflessioni su un genere, generi «classici» e variazioni made in Italy, ecc. Facile, in questa mappatura, dimenticare un film o un autore. Tanto più che il genere filmico nasce tradi58
VITO ZAGARRIO
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zionalmente in un’industria forte, come quella hollywoodiana dello studio system, è legato a regole e tipologie di mercato oltre che a sedimentate tradizioni letterarie (nasce prima la detective story letteraria che il film noir, per intenderci). In Italia tutto questo non c’è. Non c’è un’industria basata tradizionalmente sulla differenziazione dei prodotti, non c’è un’industria tout court, e solo da pochi anni è nata una letteratura appositamente creata in funzione della produzione filmica (si veda il fenomeno dei libri Colorado Noir da cui è stato tratto il già citato Quo vadis, baby? di Salvatores). All’inizio degli anni Novanta la rivista «Script» di Dino Audino e il gruppo che vi lavorava attorno (tra gli altri Chiara Tozzi, Silvia Napolitano, Roberta Mazzoni) teorizzava il ricorso al genere contro un cinema d’autore che rischiava di diventare autoreferenziale e «ombelicale». Quel progetto non si è mai realizzato, per vari motivi: forse perché era fatto troppo a tavolino senza tener conto del contesto politico-culturale italiano di quegli anni, ma di certo perché non esisteva un’industria capace di programmare una produzione di genere. Se quella produzione c’è stata, si è realizzata – in parte – nella fiction televisiva, che ha effettivamente ragionato su target, filoni, fette di mercato, codificazioni e tipologie. Il poliziottesco degli anni Settanta si è trasferito nel crime tv movie in tutte le sue sfumature, alte e basse, da Montalbano ai molti commissari e carabinieri minori; il film di mafia e camorra nelle tante serie e mini-serie tv; il film varietà e il film canzonetta degli anni Cinquanta e Sessanta nei vari The X Factor e Amici; la commedia popolare nella situation comedy e in parte ormai nei reality show, insieme al melodramma d’appendice; il film in costume e di cappa e spada in Elisa di Rivombrosa e sequel; lo stesso fantasy in Fantaghirò. Mancano all’appello i western e i pepla, però non si gira più cinema a Cinecittà, dove si fa invece un surrogato di cinema che è la fiction/reality tv. Dunque non si può affrontare correttamente un discorso sui generi senza affrontare una trasformazione dell’immaginario collettivo e della produzione di tale immaginario. In questo magma post-postmoderno, al cinema restano polverizzazioni di generi: il film storico e «civile» (da Emidio Greco a Giordana, da Scimeca a Chiesa, a Vicari), il dramma familiare (Kim Rossi Stuart) o sociale (Salvatores), il cinema tratto dalla letteratura (Faenza, Luchetti, Ferrario, Chiesa, Bertolucci e ancora Salvatores tra i tanti) e poi filoni, come quello sull’immigrazione (da Marra a Munzi) o sulla prostituta che viene dell’est (da Tornatore a Trupia), certo neo-neorealismo del cinema più giovane; generi anch’essi, in qualche modo, o sottogeneri, tipologie e codificazioni del gusto nell’Italia della crisi. IL GENERE NEL NUOVO CINEMA ITALIANO
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Ma i neogeneri nazionali (e popolari) si fanno altrove. «Mi sembra di vedere un film!» continuava a ripetere, metalinguisticamente, Alessia Marcuzzi, l’anchorwoman del Grande Fratello 9, e Ferdi, immigrato montenegrino, arrivato su un gommone e vincitore del nuovo «sogno italiano». Mi sembra di vedere un film… Un film dove si piange e si ride, ci si spia e ci si eccita, si ama e si odia, si parteggia per i buoni e i cattivi. Un film che si conclude con il fermo immagine di Ferdi che urla al pubblico, come in un film di Frank Capra, «Non arrendetevi mai!»… Ecco dove sono finiti i generi.
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VITO ZAGARRIO
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Il vero genere è il cinema d’autore PIERO SPILA
Il cinema italiano ha sempre preso poco sul serio il genere cinematografico. È stato ed è, invece, un cinema di movimenti (anche grandi, in passato), di filoni (fortunati), soprattutto di autori (gelosi della propria autorialità); non è un caso che il nostro Paese sia l’unico al mondo in cui i nomi di alcuni registi siano stati trasformati in aggettivi (rosselliniano, felliniano, pasoliniano) per definire uno stile, un modo di girare così personale e innovativo da non poter essere assimilato a una formula precostituita. Per il genere, nato e codificato a Hollywood con lo studio system, è necessario invece un sistema produttivo ferreo (budget, regole, controlli), team artistici collaudati e fedeli (registi, sceneggiatori, attori), una linea di produzione costantemente in funzione, un immaginario che duri nel tempo, un pubblico affezionato da coltivare e rispettare. Tutte cose che in Italia non ci sono mai state: da una parte il grande cinema d’autore, dall’altra la commedia, macrocontenitore declinato a vari livelli (dai capolavori di Risi, Monicelli e Comencini, ai filoni popolari e astuti come Pane amore e… o Poveri ma belli o Don Camillo e l’onorevole Peppone, ai film comici declinati in sequel sulla personalità di Totò, Peppino e Fabrizi) o, più di recente, su temi e cast imposti dalla popolarità del momento (le Notti prima degli esami, i Manuali d’amore, i Maschi contro femmine e viceversa, ecc.). In quest’ambito il cinema di genere è nato quasi sempre in maniera occasionale, all’inizio tra l’incredulità dei produttori e la sorpresa per la risposta positiva del pubblico, successivamente con uno sfruttamento a tappeto e senza regole, fino allo stremo, alla consunzione, al rigetto. Nel genere bisogna crederci, per farlo crescere e consolidare nel tempo, per formare una scuola, creare proseliti ed esegeti, possibilmente anche all’estero; in Italia, invece, dopo i primi trionfi (Le fatiche di Ercole di Piero Francisci, campione di incassi nel 1958, per il peplum; Per un pugno di dollari di Sergio Leone, 1964, per il western), c’è stata so-
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prattutto l’imitazione selvaggia e nel giro di pochi anni si è arrivati all’esagerazione e alla macchietta, con Totò che sfidava Maciste nella valle dei re o faceva innamorare Cleopatra (Magali Noël fresca reduce da La dolce vita), con Ciccio e Franco che ripetevano le loro farse in chiave western, e Bud Spencer e Terence Hill che menavano sganassoni. Sempre di fretta e a bassissimo costo, che nel migliore dei casi significa estro e genialità artigianale (Riccardo Freda in Maciste alla corte del Gran Khan, 1961, gira il terremoto che distrugge Pechino in un solo giorno e servendosi di un modellino costruito in casa), ma nella normalità è solo cinismo e voglia di guadagnare il più possibile per passare ad altro. Caratteristiche tipiche da cinema di serie B, non del genere cinematografico nobilmente inteso; non progetto e pianificazione ma scommessa e azzardo, non una strategia di mercato ma il procedere ondivago e il fiato corto. La cosa sorprendente è che anche quei pochi autori che in Italia hanno affrontato il genere con serietà, elevandolo con i loro film a livelli qualitativi altissimi e apprezzati nel mondo, lo hanno in realtà utilizzato per una rivisitazione anomala e personale, che è una specie di contraddizione in termini per un modello di cinema che punta su stereotipi e cifre stilistiche e narrative rigide e collaudate. Agli inizi degli anni Sessanta mentre il genere più avventuroso e popolare del cinema, il western, vive negli Usa la sua crisi definitiva, Sergio Leone gira nella valle di Almeria, in Spagna, Per un pugno di dollari, un western parodia (un po’ di fumetto alla Tex Willer, un po’ di samurai alla Kurosawa) che si rivelerà inaspettatamente un clamoroso successo commerciale (2 miliardi di lire in meno di un anno) e darà l’avvio alla più incredibile stagione del cinema italiano, spregiativamente chiamata dagli americani westernspaghetti, anche se poi saranno proprio le star di Hollywood (Henry Fonda, James Coburn, Charles Bronson) a venire a lavorare in Italia con Leone e i suoi epigoni. Quello che a Hollywood non si riesce più a fare, dalle parti di Cinecittà sembra riuscire benissimo, ma le ragioni di quel successo, probabilmente, stanno proprio nel fatto che si andava oltre il genere e si inventava qualcosa di diverso, che genere non sarebbe mai diventato. Leone si divertiva a dire con Bernardo Bertolucci che lui era l’unico regista western «capace di far vedere il culo dei cavalli». Scherzava, ma non tanto. Nel western-spaghetti i cavalli, i costumi, le location, gli indiani (pochi) erano solo una cornice, elementi figurativi e narrativi che non costituivano il genere ma la parodia o il suo prolungamento politico (il terzomondismo, la voglia di rivoluzione). Nel western italiano non si raccontava l’epica dell’uomo americano di frontiera (e dunque un valore nazionale), ma si rappresentava la vita grama di chi a quel mito cercava faticosamente di sopravvivere e 62
PIERO SPILA
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ne rovesciava, con uno sgorbio di violenza e sadismo, l’estetica e l’ideologia. Così è stato anche per il peplum (qualche anno prima del western) o per l’horror (qualche anno dopo). Con il peplum non si raccontavano i fasti dei kolossal hollywoodiani né si celebravano le conquiste dell’impero romano, ma si mettevano in campo la maestria e l’estro delle botteghe artigianali, si facevano miracoli con la cartapesta e si inventava addirittura un nuovo divismo (i culturisti come Steve Reeves e compagni); e con gli horror di Bava, Freda, Sequi, venati sempre con un’aggiunta di gotico, si davano quasi per scontati l’intreccio e la credibilità dell’insieme, per rappresentare la paranoia, l’insicurezza e le angosce della metropoli contemporanea. In questo fare e disfare, bravissimo è stato Dario Argento, uno dei pochissimi autori di genere ancora attivi in Italia, che però ha fatto film via via sempre più astratti e visionari, provocatoriamente «senza sceneggiatura» o con plot narrativi esilissimi e confusi, dedicando la massima attenzione all’esuberanza iconografica delle immagini e al parossismo dei colpi di scena. Autore anche lui, prima che maestro di un genere. Un atteggiamento tipico, il suo, che permea un po’ tutto il cinema italiano, che forse trova le radici nella storia e nella natura nazionali (l’individualismo, l’originalità, l’inventiva, il gusto del prototipo e la scarsa attitudine alla routine) e che arriva fino ai giorni nostri, in cui anche il nuovo cinema italiano è ricco di intenzioni autoriali (da Sorrentino a Garrone, da Archibugi a Ferrario, da Vicari a Costanzo, ecc.) e ha scarsa disponibilità per le regole e gli standard del genere. Oggi gli autori italiani effettivamente e significativamente impegnati in questo tipo di cinema si contano sulle dita di una mano: Paolo Virzì, che si rifà apertamente e con successo alla grande commedia all’italiana (mischiando, in omaggio al modello, comicità e attualità sociali anche durissime); ancora Dario Argento; Gabriele Salvatores e Michele Placido con le loro rapide escursioni nel thriller o nel poliziesco (e con un occhio rivolto alla televisione); Pupi Avati che ogni tanto torna a cimentarsi con l’horror, l’ultima volta con Il nascondiglio (2007), va malissimo e torna di corsa sui suoi passi; qualche giovane ancora in cerca di definizione (Infascelli, Puglielli) e poco altro. Dal 2000 a oggi, tenendo presenti solo quelli usciti nelle sale, sono stati realizzati 31 film tra horror e thriller polizieschi¹: in media meno di tre al1. 2000: Almost Blue di Alex Infascelli, Non ho sonno di Dario Argento; 2001: Voci di Franco Giraldi; 2002: Il gioco di Ripley di Liliana Cavani; 2003: Il siero della vanità di Alex Infascelli, Non sono io di Gabriele Iacovone; 2004: Il cartaio di Dario Argento, Il mistero di Lovecraft di Federico Greco, Occhi di cristallo di Eros Puglielli, Evilenko di David Grieco; 2005: Piano 17 dei fratelli Manetti, Quo Vadis, Baby? di Gabriele Salvatores, Taxi Lovers di Luigi Stefano e Maria Di Fiore; 2006: Ghost Son di Lamberto Bava, H2Odio di Alex Infascelli, Il bosco fuori di Gabriele Albanesi, La notte del mio priIL VERO GENERE È IL CINEMA D’AUTORE
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l’anno. Considerando che l’horror e il thriller sono i generi più spettacolari e potenzialmente più apprezzati dal pubblico giovanile, e che oggi in Italia c’è una notevole fioritura di scrittori attivi nel genere (Lucarelli, De Cataldo, Carofiglio, Costantini, ecc.), le cifre sono assolutamente deludenti. Interessante il caso di un film uscito qualche anno fa e che merita una riflessione particolare: si tratta di La ragazza del lago (2007) di Andrea Molaioli, salutato giustamente come un piccolo miracolo, perché affrontava il genere con misura e senza complessi di inferiorità, con uno sguardo alla Chabrol su una provincia del profondo nord ancora poco frequentato dal cinema italiano. Eppure anche Molaioli, in quel film per molti aspetti esemplare, aggiunge al plot narrativo e al tema dell’investigazione poliziesca una cifra che va al di là del genere e lo arricchisce (la vita privata del commissario, la sua malinconia segreta, il complesso rapporto con la figlia, la malattia della moglie). Quasi una voglia di mischiare, contaminare, stratificare materiali e registri stilistici diversi, che è una predisposizione d’autore tipicamente italiana, e che troverà puntuale conferma nell’opera seconda di Molaioli: Il gioiellino, film su un tema civile di attualità, a metà tra denuncia e approfondimento sociale, certamente lontano da qualsiasi standard di genere. La ragazza del lago, premiato come opera prima alla Mostra di Venezia, è stato a suo tempo apprezzato dalla critica e dal pubblico come film di genere, ma è stata forse l’eccezione che conferma una regola. Non è il genere come tale a contare, semmai il filone veloce e mirato. E spesso apprezzato. Negli ultimi anni il cinema italiano ha «tenuto» al botteghino e a volte ha scalato le classifiche degli incassi: si è cominciato con il fenomeno del cosiddetto cinema giovanilistico, esploso con Tre metri sopra il cielo (2004) di Luca Lucini e, soprattutto, con Notte prima degli esami (2006) di Fausto Brizzi, e poi si è proseguito con film fortunati come quelli di Giovanni Veronesi, o con autentici exploit come Benvenuti al Sud (2010) o Che bella giornata (2011). Anche qui non si tratta di un «genere», ma solo l’aggiornamento intelligente di un’antica abitudine: cogliere l’opportunità e sfruttare la moda fin quando è possibile, come è sempre stato, dai «sapori di mare» alle «vacanze in crociera». Il genere tradizionale, invece, vive oggi soprattutto in televisione, l’unico luogo in cui sembra esserci disponibilità ad accoglierlo e a farlo svilupmo amore di Alessandro Pambianco, Paranoid di Giuseppe Amodio e M. Deborah Farina; 2007: Il lupo di Stefano Calvagna, Il nascondiglio di Pupi Avati, La ragazza del lago di Andrea Molaioli, La terza madre di Dario Argento; 2008: Miss Take di Filippo Cipriano, Se chiudi gli occhi di Lisa Romano; 2009: Imago mortis di Stefano Bessoni, Trappola d’autore di Franco Salvia; 2010: Sono viva di Dino e Filippo Gentili; 2011: Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata di Carlo Vanzina, Un giorno senza fine di Cosimo Alemà, Hypnosis di Davide Tartarini e Simone Cerri Goldstein, 6 giorni sulla Terra di Varo Venturi. 64
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pare, dove vige la regola della serialità e del riconoscimento rassicurante da parte del pubblico, dove c’è una committenza e un sistema di produzione (sia pure mediocri) e un controllo inappellabile dato dall’indice di ascolto. È in televisione che si è ormai formato il nuovo immaginario popolare, recuperando temi e generi della tradizione italiana, come ad esempio la mafia (dal grande successo internazionale di La piovra alle biografie edulcorate e indolori dedicate a Falcone, Borsellino e Toto Riina), o la criminalità organizzata (un caso abbastanza eccezionale è stato Romanzo criminale di Sky, remake seriale del film di Placido), o il giallo poliziesco (con i vari distretti di polizia, commissari e marescialli). Oppure inventando e copiando format e generi nuovi, come il «sanitario» (con medici in famiglia, corsie d’ospedale e reparti di pronto intervento), o le biografie dedicate a santi, preti, martiri ed eroi civili. Una massiccia messa in pratica del genere, banalizzata e senza pretese, tenace e senza riserve, che però di sicuro è cosa diversa rispetto alla vecchia ideologia del genere hollywoodiano, che inventava un immaginario, impiegava grandi autori e coltivava un suo pubblico; qui si lavora invece, tranne rare ed encomiabili eccezioni, sulla pigrizia, il pressapochismo e la distrazione, il conformismo e la banalità. Una situazione che potrebbe anche diventare un’opportunità produttiva. Se in televisione si vede necessariamente di meno (semplificazione, moralismo, superficialità), al cinema si potrebbe invece vedere di più e meglio (profondità, anomalia, eccesso, sorpresa), ma ci vorrebbero per farlo degli autori (e produttori) disponibili e il cerchio ancora una volta si chiude. In Italia il genere più in auge rimane sempre il cinema d’autore, e il fatto che oggi ci siano pochi autori è uno dei problemi (forse il problema) del cinema italiano.
IL VERO GENERE È IL CINEMA D’AUTORE
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Sorrentino e Garrone, nuovo cinema ibrido CRISTIANA PATERNÒ
In Italia, dove non si ragiona certo in termini di studio system, la definizione teorica di «cinema di genere» appare sfumata e controversa, soggetta piuttosto a una sorta di intuitiva regola del gusto, legata alla ripetizione di schemi, plot e personaggi, alla prevedibilità di certi stratagemmi narrativi, alla riconoscibilità del materiale visivo e sonoro. Riusciamo tuttavia convenzionalmente a riconoscere alcune macrocategorie (giallo, noir, western, fantascienza, horror, film bellico, musical) che non si possono più applicare tout court, date le straordinarie trasformazioni del sistema – sia artigianale che dell’industria – ai singoli film, mentre, contemporaneamente e viceversa, critici e storici hanno via via rivalutato il cinema commerciale, la commedia italiana (o all’italiana), il B movie, e via dicendo. Esempio più eclatante di tale tendenza le importanti retrospettive che la Mostra del Cinema di Venezia ha dedicato a questo tipo di produzione negli ultimi anni, dallo spaghetti western nei vari capitoli della Storia segreta del cinema italiano (Italian Kings of the Bs, Questi fantasmi). Una progressiva riscoperta che ha conquistato entusiasti sostenitori, tra cui proprio il massimo cantore contemporaneo della serie B, l’americano Quentin Tarantino, diventato un testimonial sempre un po’ sopra le righe di queste operazioni. Che magari lasciano anche qualche perplessità, ma appaiono tuttavia inevitabili e tutto sommato capaci di gettare semi inattesi nello sguardo degli autori (e degli spettatori) contemporanei. Ben pochi si sognano, oggi, di rispolverare il cinema di genere sic et simpliciter, senza la smaliziata consapevolezza del cinefilo avvertito, il senno di poi dell’autore formato in qualche scuola di cinema o Dams. Ma credo che l’aspetto più interessante di questa rivoluzione di costumi e modalità, dovuta anche alla radicale trasformazione del sistema produttivo e dei criteri di finanziamento pubblico e selezione dei progetti, stia proprio nell’ibrida-
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zione che appartiene agli autori veri e più interessanti, quelli di cui sentiremo parlare nei prossimi decenni. Autori di cui, a nostro modo di vedere, Paolo Sorrentino e Matteo Garrone sono i perfetti rappresentanti. Punta dell’iceberg di un nuovo cinema che prende le sue idee migliori con grande libertà dove può e dove vuole. Bisogna pensare – e nei saggi che compongono questo volume non mancano gli spunti in questo senso – al cinema che trae ispirazione dal giallo d’atmosfera, e di cui La ragazza del lago di Andrea Molaioli è, se non il migliore, certo il più fortunato e noto esempio. Del resto viene da una factory, quella di Indigo Film, che ha prodotto anche Il Divo e che prosegue su una linea produttiva molto coerente e riconoscibile. Ma vorrei sottolineare anche, ad esempio, gli elementi di western innestati in vario modo nella narrazione contemporanea. Il tema della frontiera sembra ad esempio far capolino, sorprendentemente, nel cinema fortemente politico e innestato nel reale di Daniele Vicari e in particolare nel suo secondo lungometraggio, L’orizzonte degli eventi. C’è una sensibilità western (forse anche per motivi geografici) nelle opere dei pugliesi Sergio Rubini e Edoardo Winspeare, per non dire di una singolare opera prima come Legami di sangue di Paola Columba, storia di un’aspra faida familiare che trasforma i paesaggi isolati e arcaici del Molise in un Far West a un’ora di macchina da Roma: un film rimasto a lungo nel cassetto e ora da poco distribuito seppure in pochissime copie. Infine ha un ruolo marginale ma di grande fascino, e speriamo in futuri sviluppi, il musical, che riemerge qua e là come un fiume carsico di sicuro effetto. Si vedano i due esempi più eclatanti degli ultimi tempi, le incursioni trash che costellano Il caimano di Nanni Moretti, con una convincente e inedita Margherita Buy, magari preludio al famoso musical sul pasticcere comunista a lungo ventilato dal regista romano, e l’ultimo film di Davide Ferrario, Tutta colpa di Giuda, che è invece una vera e propria commedia musicale girata nel carcere di Torino con attori detenuti e musicisti perfettamente mimetizzati nel contesto. Volutamente si tace completamente, in questo breve excursus, della commedia. Perché la commedia, nel cinema italiano, è un elemento del patrimonio genetico della nostra produzione alta e bassa, autoriale e seriale, commerciale e di nicchia. La commedia in qualche misura c’entra sempre, persino dove la narrazione si fa più drammatica o addirittura melodrammatica. Basti per tutti l’esempio del veterano Pupi Avati. Tuttavia vorremmo concentrarci in particolare su due film: Il Divo e Gomorra. Si tratta, a nostro avviso, di due film che hanno segnato uno spartiacque. Premiati entrambi a Cannes (non succedeva dal ’72 di mettere a segno una simile doppietta per il cinema italiano), vincitori di molti 68
CRISTIANA PATERNÒ
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David di Donatello (sette ciascuno; i più prestigiosi – miglior film e miglior regia – vanno a Gomorra), venduti all’estero e per mesi all’onore delle cronache, non solo cinematografiche, sono due film d’autore con forti elementi di genere in cui si direbbe che proprio il genere sia l’impalcatura solida eppure mai rigida, sempre rimessa in discussione, in grado di consentire ai due registi di variare, molto liberamente e con esiti sorprendenti, proprio a partire da un’ossatura riconoscibile anche a un pubblico non italiano. Con tutte le differenze che presentano, condividono però l’identità di cinema ibrido, dove l’aggettivo va inteso nel migliore e più ricco dei sensi. Paolo Sorrentino, forse il più dotato tra i registi della nuova generazione, ha sempre bordeggiato il noir – in questo caso il noir politico – con un piede negli anni ’60 e nel cinema d’impegno civile italiano e l’altro nell’America vischiosa e sulfurea di un Tarantino, ma senza la sua verbosità, o meglio ancora dei fratelli Coen, come ha dimostrato ulteriormente, se ce ne fosse stato bisogno, il successivo This Must Be the Place (2011). Una mescolanza di alto e basso, di stilemi cinematografici e invenzioni improvvise, originale eppure inscritto in un solco preciso che i cinefili fiutano e riconoscono, amandolo fin dall’opera prima: il sorprendente L’uomo in più con la sua cifra già così visionaria. Sangue noir scorre anche nelle vene di Matteo Garrone, che una formazione al cortometraggio e una sensibilità da documentarista rendono più intimista e soffuso, ma anche maggiormente ancorato alla realtà. Gomorra, il suo film più compiuto e maturo e anche il più «scritto», è una gangster story e contemporaneamente non lo è. Violenza, cronaca, riflessione, via crucis, letteratura, visioni, persino squarci di fantascienza, con quella strage iniziale alla luce bluastra dei lettini solari, come ebbe modo di notare Fabio Ferzetti nella sua recensione pubblicata sul quotidiano «Il Messaggero». Cinema con un tratto autoriale forte, immediatamente riconoscibile, ma anche cinema che cita cinema e che non ha timore di riallacciare un patto con il pubblico a lungo disatteso negli anni che precedono la svolta del secolo. Una figura indecifrabile che riflette, in chiaroscuro, un intero Paese dominato da trame, delitti e cricche incollate alla poltrona, poteri occulti e pacchi di pasta donati agli elettori: Il Divo Andreotti bordeggia così il sottile confine tra l’uomo politico e la maschera, tra la cronaca politica e un surrealismo che affonda le sue radici in Fellini e nella pop art. Dietro al film, scritto con la consulenza del giornalista Giuseppe D’Avanzo, c’è un mostruoso lavoro di documentazione, un anno per comporre il quadro, e poi per scomporlo con uno stile iperrealista, pieno di creatività, con l’attenzione a inventare e contemporaneamente stare dentro i fatti e le SORRENTINO E GARRONE, NUOVO CINEMA IBRIDO
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citazioni. Giulio Andreotti è un pezzo di storia d’Italia, un enigma vivente, ancora insoluto, eterizzato, trasformato in un monumento funebre a se stesso. A volte quasi non più umano, con quel collo e quel volto da tartaruga, appare come un Nosferatu catacombale e velenoso. Un E.T. votato al male. E ancora eccoci a pensare alla fantascienza, così poco praticata dal cinema italiano, anche quello di genere, ma spesso riemersa dai fondali a tratti e per suggestioni. Dalla maschera apocalittica del Divo alla maschera tragicomica di Cheyenne, la rockstar in disarmo dell’ultimo film, This Must Be the Place, road movie post Olocausto che ancor più svela il gusto per la citazione, anche musicale, del cineasta napoletano. Qui Sorrentino sembra aver affrontato il confronto con il genere americano par excellence quasi in apnea. Come spiegava in un’intervista che ci ha rilasciato a Cannes, dove era in competizione: «L’America è il luogo cinematografico per eccellenza. Per me, che non c’ero mai andato prima dei sopralluoghi, resta un Paese complesso e misterioso, su cui non ho risposte ma solo domande. Del resto avere delle risposte sarebbe davvero presuntuoso. Ho conservato l’eccitazione di un bambino che va alla scoperta di un mondo». Mappa geopolitica è anche quella disegnata da Matteo Garrone in Gomorra. Che così delinea la genesi drammaturgica del suo film tratto dal best seller di Roberto Saviano in un’intervista di Anna Barison apparsa sulla rivista «Cinecritica» (ottobre-dicembre 2008): La mia proposta iniziale a Domenico Procacci è stata di costruire dieci storie da un’ora. In questa maniera si poteva fare un film per la televisione, per dare un’ampiezza al tema che il libro in qualche modo suggeriva. In verità di storie se ne potevano estrarre e sviluppare molte di più, ma pensavo che dieci fosse il numero giusto per avere un respiro maggiore, piuttosto che costruirne cinque da venti minuti come poi è avvenuto. Procacci però aveva intenzione di fare questo film per il cinema e di conseguenza ha costretto me e gli altri sceneggiatori a fare delle scelte. Abbiamo quindi cercato di affrontare delle vicende che ci sembravano rappresentare i temi più importanti. I personaggi del libro consentivano di riprendere delle tematiche che erano universali e anche di descrivere un immaginario insolito, legato al cinema di mafia, un immaginario che di solito si racconta sempre dall’alto, cioè attraverso i personaggi legati ai vertici, ai boss, invece in questo caso abbiamo voluto fare un film sugli «schiavi» mentre gli «imperatori» rimangono nell’ombra. Ci interessava l’originalità dei personaggi e anche mettere in rapporto il loro conflitto emotivo all’interno del Sistema e le conseguenze delle loro scelte. L’idea era di far vedere come la vita di tante persone in quel territorio è condizionata dalla camorra: quanto sia facile 70
CRISTIANA PATERNÒ
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entrare in essa e poi facilmente essere schiacciati da certi meccanismi e ingranaggi.
Ecco dunque emergere in queste parole la consapevolezza di aver utilizzato il film di mafia e l’immaginario corrispondente, ben radicato nello spettatore contemporaneo, non solo italiano chiaramente, ma con un ribaltamento del punto di vista, ovvero mettendo l’attenzione sui marginali e i perdenti, tratto che da sempre caratterizza il cinema di Garrone (Estate romana, L’imbalsamatore, Primo amore), e naturalmente con una commistione di finzione, visionarietà e realismo documentaristico. Ancora una volta, dunque, ibridazione tra il genere e il proprio universo di riferimento. Vorremmo allargare anche noi la prospettiva con la netta sensazione che dopo la drammatica crisi d’identità e di botteghino attraversata dal cinema italiano negli anni ’80 e proseguita fino ai ’90 inoltrati, si sia in qualche modo ricomposto, o si vada ricomponendo, quel patto con lo spettatore che da sempre deve caratterizzare il cinema come arte dalle forti connotazioni industriali. Il giallo e il nero, anche grazie al significativo apporto di scrittori nutriti a loro volta dallo stile e dal passo della narrazione cinematografica con brevi scene, dissolvenze, descrizioni succinte e ficcanti (Ammaniti, Carofiglio, Lucarelli, De Cataldo per fare qualche nome, i primi che vengono in mente) sono un po’ i grandi protagonisti, se non in termini quantitativi almeno quanto a percezione dello spettatore (un po’ come la temperatura percepita spesso differisce sostanzialmente da quella reale, ma ci dice come e quanto vestirci). Ecco allora che da Salvatores, l’esempio più compiuto e maturo di uso del noir per costruire un universo narrativo e di senso che vada ben oltre il genere, si arriva ai più giovani e acerbi, Infascelli e Puglielli, o ancora a Munzi e Patierno o Porporati per osmosi e discendenza diretta. Un discorso aperto, to be continued…
SORRENTINO E GARRONE, NUOVO CINEMA IBRIDO
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Gomorra: l’apocalisse fuori dal genere PIERPAOLO DE SANCTIS
Dopo aver mappato in una trilogia dal sapore autarchico (Terra di mezzo, Ospiti, Estate romana, tutti prodotti dalla sua Archimede) la geografia romana degli emarginati, degli immigrati e degli artisti dimenticati dal Giubileo, Matteo Garrone approda alla Fandango per la realizzazione del suo quarto film. Più che per le risorse tecniche finalmente disponibili (fino a ora carrelli, dolly e teatri di posa non avevano mai incrociato il suo cammino), il cambiamento produttivo si fa sentire anche e prima di tutto per quanto riguarda la nuova aspirazione narrativa. Da questo momento, il futuro autore di Gomorra viene messo in grado di misurarsi con una dimensione drammaturgica più complessa e accattivante, con plot che pescano a piene mani dal serbatoio pulp della cronaca nera, plasmando materiali caratteristici del cinema di genere: il morboso triangolo d’amore de L’imbalsamatore (2002) viene dritto dai grandi noir americani del cinema classico; la «passione» patologica raccontata in Primo amore (2004) è alla base di un possibile melodramma thriller-horror, mentre gli intrecci criminosi descritti in Gomorra (2008) sono la piattaforma di un gangster movie popolare e sanguigno. Eppure, se la semantica gioca con elementi di genere, la particolare sintassi di Garrone fa continuamente slittare il suo cinema da qualunque dimensione di racconto di per sé codificata, evidenziando al contrario una personalità stilistica decisamente irriducibile a ogni tentativo di canonizzazione. Le pagine di cronaca da cui prendono le mosse i suoi ultimi tre film (in Gomorra, a loro volta, mediate dalla penna testimoniale di Roberto Saviano) parrebbero prestarsi in modo esemplare all’edificazione di plot «neri» e violenti, ma ogni volta la sensibilità di Garrone, immancabilmente critico nei confronti di qualsiasi convenzione narrativa, riesce a rielaborarle in
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qualcosa di nuovo e inaspettato: la sua pratica di regia, del resto, opera continuamente attraverso procedimenti di sottrazione, lavorando a eliminare quanto di retorico, di enfatico o di già visto possa annidarsi in una storia, a favore di un’autenticità estetica ed etica al tempo stesso (o meglio: etica in quanto estetica). Di fronte alla «storia vera» (il «nano della stazione Termini» ne L’imbalsamatore, il cacciatore di anoressiche in Primo amore o la radiografia sociocriminale di Gomorra), Garrone e i suoi sceneggiatori sacrificano ogni cronachismo e psicologismo per dare risalto all’umanità dei personaggi e alla veridicità delle situazioni e degli ambienti, rifiutando ogni residuo di spettacolarizzazione, «ogni effettismo, sensazionalismo e pruderie»1. Il risultato è un cinema segnato dallo scorrere carsico della presenza – direbbe Metz – di un certo qual numero di «istanti di verità»2, nell’adozione di uno sguardo tipicamente fenomenologico, situato al punto di incrocio tra documentario e finzione, tra presa diretta della realtà e sua limpida reinterpretazione. Estraneo ad ogni facile didascalismo o moralismo, Garrone non compone mai film a tesi, e alle strutture blindate del film di genere preferisce la continua messa in discussione dello script, la permanente apertura del set alle variabili e agli imprevisti che possono modificare in qualsiasi momento un pensiero dato o una visione già stabilita3. Cosicché, alle tentazioni dimostrative tipiche di tanto cinema che si direbbe «impegnato», egli oppone una narrazione decisamente più «mostrativa»: in Gomorra, più che denunciare uno stato di cose, come fa il romanzo (e come un tempo avrebbero fatto Rosi, Montaldo o Damiani con il loro cinema politico-civile), «Garrone sceglie di descrivere uno spazio»4, «una “psicogeografia” sociale che inchioda i personaggi al loro destino»5. 1. G. Fofi, Matteo Garrone, nato nel ’68, in L. Furxhi (a cura di), Matteo Garrone, 14° Premio Aiace Trevignano – Cinema d’essai, Torino 2002, p. 5. 2. Cfr. C. Metz, Il cinema moderno e la narratività, in Id., Semiologia del cinema: saggi sulla significazione del cinema, Garzanti, Milano 1972, pp. 253-303. 3. È così che il finale originario di Primo amore, che prevedeva la morte della ragazza per mano di Vittorio, è stato modificato durante le riprese, a una settimana dalla fine della lavorazione. Girando in «cronologico», la visione del regista si è modificata contemporaneamente alla maturazione sul set del rapporto con gli attori e all’evoluzione drammaturgica dei loro personaggi. Per approfondimenti cfr. P. De Sanctis, L’uomo delle storie. Conversazione con Massimo Gaudioso, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), Non solo Gomorra. Tutto il cinema di Matteo Garrone, Edizioni Sabinae, Rieti 2008, pp. 97-128. 4. R. Ronconi, L’Italia di «Gomorra» pronta ad attaccare Cannes, in «Liberazione», 14 maggio 2008. 5. C. Carabba, Ciak! E comincia la mattanza. Garrone dà il via a «Gomorra» con una sparatoria in provincia. Parte così il movie sul libro di Saviano, in «Corriere della Sera Magazine», 29 gennaio 2008. 74
PIERPAOLO DE SANCTIS
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La scelta di non raccontare le vite dei boss, che pure sono dettagliate nel best seller di Saviano, prelevando invece dalle sue pagine cinque storie tra le più marginali, esprime immediatamente la posizione etica di Garrone, marcando al contempo l’enorme distanza che lo separa dall’universo del gangster movie classico. A partire dallo stesso testo letterario, qualsiasi altro cineasta avrebbe probabilmente raccontato la fisionomia di chi muove i fili, i vertici dirigenziali del Sistema, sposandone magari il punto di vista (sul modello di Goodfellas di Martin Scorsese), con il rischio di dare una rappresentazione «epica», o peggio glamour, delle loro parabole malavitose, con tanto di pentimento finale (esattamente come accade per i banditi della Magliana in Romanzo criminale). Garrone, al contrario, sceglie consapevolmente di descrivere l’umanità disperata dei personaggi più umili, monitorando gli effetti socioantropologici del Sistema sulla pelle di coloro che ne subiscono le decisioni essendone «biologicamente» invischiati. Un tale atteggiamento porta immediatamente a riscattare il materiale da crime story su cui poggia il film dal luogo comune iconografico sulla malavita campana: la faida tra scissionisti e camorristi, gli agguati, i regolamenti di conti, lo spaccio, le bravate di Marco e Ciro – i due ragazzi che vivono avendo assimilato fino al midollo il verbo ambizioso di Scarface («il mondo è tuo») – sono trattate stilisticamente in modo antispettacolare, ma sempre altamente coinvolgente, grazie all’assunzione di un punto di vista il più possibile oggettivo e privo di mediazioni (al contrario del punto di vista soggettivo, anzi, autobiografico, del Roberto testimone nel romanzo); risultato di un’immersione antropologica totale e penetrante, perseguita attraverso una lucidità di sguardo e un contatto prolungato con le location dal vero degni di un etnologo. Mediante l’utilizzo sistematico dei piani sequenza e della camera a spalla guidata dallo stesso regista (una figura che, come nota Francesco Crispino, caratterizza un buon 60 per cento delle inquadrature del film6), Garrone ci catapulta direttamente al centro della scena, all’interno del racconto. La macchina da presa in movimento e in continuità è il segno più evidente di uno stile da reportage che circonda gli attori da tutti i lati possibili, intrappolandoli praticamente nell’ambiente opprimente e soverchiante in cui sono ripresi. La tecnica è simile a quella dei war movie come Full Metal Jacket (1987), e non è un caso se Garrone ha più volte dichiarato nelle interviste, durante 6.
Cfr. F. Crispino, Gomorra, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 49. GOMORRA: L’APOCALISSE FUORI DAL GENERE
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la presentazione a Cannes, di aver fatto «un film di guerra ambientato nel 2007 a 150 km da Roma». L’adozione di questo linguaggio particolarmente concreto ci cattura immancabilmente a un livello prima di tutto sensoriale, suggerito sia dalla tattilità della macchina da presa, nel pedinamento accerchiante attorno ai vari personaggi, sia dalla straordinaria tessitura del paesaggio sonoro, estremamente corposo e sofisticato rispetto alla media della produzione italiana7. Si tratta, ancora una volta, di un disegno formale particolarmente anomalo per un mafia movie: laddove il découpage avrebbe richiesto un incremento del ritmo e del numero di inquadrature (ad esempio nelle sequenze più apertamente d’azione), Garrone compie ancora una volta una scelta «contro il genere», decidendo di restare nella scena, «dentro le cose», senza staccare freneticamente, interrompendo l’azione con troppi tagli di montaggio e punti di vista ridondanti. Anche nei momenti più crudi, i colpi di pistola sembrano esplodere «in diretta», secondo una visione il più possibile immediata e neutrale, nel rispetto della verosimiglianza delle situazioni. Per risultato si hanno delle immagini incredibilmente vive e potenti, che colpiscono proprio per la loro «fisiologia». Basti pensare alla scena – in camera a spalla e scarni jump cut – dei due ragazzi che, in mutande e scarpe da ginnastica sulle rive di un fiume, provano la potenza di fuoco delle armi appena prelevate al clan: una visione che condensa splendidamente sul piano figurativo il nucleo simbolico del film, dicendoci qualcosa dell’ottusa ferinità del Sistema e dei suoi schiavi, altrimenti inspiegabile a parole. Del resto, l’eccentricità di Gomorra rispetto al genere di riferimento e la capacità del suo autore di reinventare il dato reale attraverso lampi di cinema quasi visionari, è dichiarata programmaticamente sin dal suo incipit, con la scelta di ambientare il classico regolamento di conti tra i neon bluastri di un centro estetico, mentre la musica intradiegetica del neomelodico Raffaello sale in over ad affogare la scritta a caratteri cubitali del titolo. Un’opzione che, nuovamente, segnala lo scarto tra lo sguardo di Garrone e il gangster movie tradizionale, dove una scena analoga si sarebbe risolta, probabilmente, nel negozio di un barbiere. Nulla di più logico che i nuovi camorristi, nella Napoli postmoderna dei rifiuti, coltivino il culto della bellezza esteriore, dedicandosi al make-up del
7. Per ottenere gli effetti desiderati, oltre a una meticolosa fase di registrazione compiuta da Maricetta Lombardo direttamente on location, Garrone vola a New York per la post-produzione audio, affidandosi all’esperto Leslie Shatz, celebre per il suo lavoro con Gus Van Sant. 76
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proprio corpo nel tentativo di occultarne lo squallore interiore con lampade abbronzanti e manicure. Allo stesso tempo, la medesima sequenza inaugurale del film – in particolare la primissima inquadratura diegetica – sembra evocare in qualche modo un clima da fantascienza: il suono di una turbina che si accende, mentre dal buio emerge progressivamente il mezzobusto di un uomo illuminato da un cromatismo blu accecante, sembra suggerire un immaginario spaziale di tipo iperreale, subito incrinato dall’esplosione sorda della pioggia di proiettili che dà avvio alla faida. Tra i tanti possibili, quello della fantascienza è forse un sottotesto che varrebbe la pena d’approfondire8, richiamato esplicitamente anche da un altro momento del film: sulla banchina del porto, l’uscita dal container di Franco e Roberto, completamente avvolti nelle loro tute protettive, fa pensare al ritorno di due astronauti sulla Terra dopo una missione spaziale; un’impressione rafforzata dalla gelida geometria della macchina da presa, che si avvicina ai due con un lento carrello diagonale, e soprattutto dall’artificio retorico che ci fa udire unicamente, in primo piano sonoro, il respiro di entrambi all’interno dei rispettivi respiratori artificiali. Il rumore d’ambiente, invece, comincia a filtrare lentamente solo dopo la «decompressione», quando le teste vengono liberate dalle rispettive tute e i due possono tornare a inalare l’aria circostante. Proprio l’episodio dello stakeholder, a ben vedere, è peraltro continuamente attraversato da una cifra visiva di taglio apocalittico: i campi lunghi sulla pompa di benzina abbandonata o sulla cava gigantesca pronta a ospitare nuovi cumuli di rifiuti tossici, persino i campi avvelenati ripresi dal ciglio della strada provinciale, sembrano tanti paesaggi postatomici di un mondo radioattivo fotografato sull’orlo di una morte per intossicazione. Semplici suggestioni, ovviamente, che non bastano in alcun modo a inscrivere il film di Garrone entro l’ombrello denominativo di una data etichetta di genere. Dopo tutto, la liaison più attinente tra Gomorra e il cinema di genere ci viene offerta, neanche tanto paradossalmente, dal trailer approntato per la distribuzione americana, attorno al quale vale la pena raccogliere le nostre conclusioni. Rispetto al teaser italiano, che punta sull’autorialità di Garrone e, soprattutto, sulla popolarità dell’ascendenza letteraria («il libro che tutti 8. Qualcuno l’ha già notato: vedi F. Ferzetti, Romanzi criminali, in «Il Messaggero», 13 maggio 2008 e M. Gervasini, Cinema e Gomorre, in «Carmilla», 9 giugno 2008. GOMORRA: L’APOCALISSE FUORI DAL GENERE
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hanno letto / ora è un film»), quello americano gioca con un montaggio molto più incalzante, sottolineando i momenti di maggior tensione e dinamismo (agguati, sparatorie, corse, dialoghi rivelatori), mentre la musica dei Massive Attack – la stessa usata nella versione italiana – aumenta considerevolmente di volume. Nel frattempo, le scritte bianche su sfondo nero rafforzano ulteriormente il posizionamento del film come action movie apocalittico: le didascalie insistono sulle isotopie del crimine («imagine a city / built by crime»), della paura («imagine its people / ruled by fear»), della corruzione («imagine a system / poisoned by corruption»), della colpevolezza («nobody is innocent»), del pericolo («nowhere is safe / no one is spared»); frasi che richiamano, di volta in volta, scenari da noir, poliziesco, o persino da horror. Negata dal testo, l’appartenenza di Gomorra al cinema di genere viene contrabbandata direttamente dal suo paratesto: ma si tratta, evidentemente, di un espediente promozionale per introdurre e vendere sul mercato statunitense un film che difficilmente il pubblico d’oltreoceano sarebbe andato a vedere. Eppure, nonostante la manipolazione arbitraria delle sostanze testuali, riconcatenate secondo un preciso orientamento pragmatico, il trailer dell’edizione americana non fa che operare attraverso una serie mirata di prelievi dal film: segno che le armi, i conflitti e i personaggi in bilico tra la vita e la morte, pur essendo descritti da Garrone con uno stile assolutamente personale, sono comunque elementi consustanziali di uno stesso orizzonte semantico e patemico, intimamente associato all’universo dei generi.
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PIERPAOLO DE SANCTIS
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«L’elemento che sfugge»: Dario Argento MARIO MAZZETTI
Il ruolo di Dario Argento (Roma, 7 settembre 1940) nel cinema sfiora il paradosso: essere riconosciuto come il maestro del giallo/horror italiano, capofila dall’impronta inconfondibile che vanta innumerevoli tentativi di imitazione da cineasti di tutto il mondo, lo fa assurgere automaticamente al rango di autore, per quanto specializzato in un genere. E poi, mentre al culmine della carriera è stato bistrattato, se non addirittura ignorato dalla critica, da qualche anno in qua, pur continuando a ripercorrere temi e stilemi del passato nel vano tentativo di rinverdirne i fasti, viene celebrato da retrospettive organizzate da festival prestigiosi, proiezioni di copie restaurate, omaggi e l’onore di monografie critiche, fino alla proiezione di mezzanotte del più recente Dracula 3D fuori concorso al Festival di Cannes 2012. Insomma, una vera e propria consacrazione per una carriera internazionale coronata da un buon successo di pubblico finanche in Giappone e negli Usa, con un’attenzione peraltro perdurante: se la produzione italo-americana Giallo (2009) è stata funestata da traversie di ogni tipo (forfait di attori, lite col produttore Usa, la decisione di farlo uscire in Italia direttamente in DVD, nonostante i protagonisti fossero il premio Oscar Adrien Brody ed Emmanuelle Seigner), il menzionato Dracula 3D è stato venduto in molti mercati esteri prima ancora che in quello italiano, mentre dagli Usa è annunciato per il 2013 un remake di Suspiria diretto da David Gordon Green. Il padre produttore, la madre fotografa delle dive, il nonno distributore: quanto basta per appassionarsi al cinema sin da giovanissimo, dapprima come collaboratore del «Giornale dello Spettacolo» e dell’«Araldo dello Spettacolo», poi come critico per «Paese Sera», infine come soggettista e sceneggiatore, attività culminata nel soggetto, scritto con Bernardo Bertolucci, di C’era una volta il West di Sergio Leone. Siamo nel 1968 e, dopo aver cofirmato Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, i tempi sono ma-
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turi per esordire in prima persona: nasce L’uccello dalle piume di cristallo (1970), girato in sole sei settimane e uscito il 19 febbraio dapprima in sordina, poi con crescente successo fino a diventare un vero e proprio caso, oltre che uno dei principali successi dell’anno; è il primo film della cosiddetta «trilogia degli animali», insieme a Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio (entrambi del 1971), ma segna anche la nascita di un fenomeno cinematografico che soppianta lo spaghetti western dando vita in trequattro anni a oltre una dozzina di titoli «argentiani»: da 5 bambole per la luna d’agosto a La tarantola dal ventre nero, da Una farfalla con le ali insanguinate a La morte negli occhi del gatto, diretti di volta in volta da registi-artigiani come Mario Bava (peraltro un suo modello ispiratore), Antonio Margheriti, Duccio Tessari, Umberto Lenzi, i «decani» Lucio Fulci (con cui lavorerà come produttore) e Riccardo Freda. È insomma nato un nuovo filone della cinematografia italiana e con esso un autore che si dimostrerà autentico innovatore e manipolatore del genere, capace – almeno negli anni ’70 – di sperimentare sulla scia insanguinata del film d’esordio, la storia dello scrittore americano (Tony Musante) che a Roma assiste a un tentato omicidio ai danni di una gallerista d’arte e si ritrova invischiato in un’indagine rischiosissima tra i sospetti della polizia e le minacce dell’assassino. L’uccello dalle piume di cristallo impone immediatamente le principali caratteristiche del cinema di Dario Argento: una violenza a tratti morbosa, la straordinaria capacità di creare atmosfere di suspense giocando col buio, l’attesa dell’irreparabile, la cura maniacale del dettaglio, una dose inquietante di sadismo efferato; la spiazzante abilità di inserire momenti di ironia che stemperano la tensione; la scelta «di mercato» di girare rigorosamente in inglese ricorrendo spesso a interpreti stranieri (nonostante ciò, le versioni originali sono state largamente assenti dalle prime edizioni dei DVD); un rapporto con gli interpreti che ricalca quello del «mostro sacro» Sir Alfred Hitchcock, non improntato a una particolare ammirazione – la direzione degli attori non è mai stata il forte del regista romano, in tal senso il frequente impiego della figlia Asia sembra rappresentare un punto d’arrivo dopo le molteplici collaborazioni con l’ex compagna Daria Nicolodi (madre di Asia). Ulteriore tratto distintivo della sua filmografia, lo sguardo personalissimo che ricrea la realtà da angolazioni ardite, con ampio uso di soggettive (dell’assassino) e una composizione dell’immagine ultramoderna e originalissima, dal piano lungo al primissimo piano, merito anche delle collaborazioni di altissimo livello: da Vittorio Storaro (L’uccello dalle piume di cristallo) a Giuseppe Rotunno (La sindrome di Stendhal, 1996) passando per Luciano Tovoli (Suspiria, 1977, per il quale utilizza tra gli ultimi il sistema Te80
MARIO MAZZETTI
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chnicolor a tre matrici dando vita a una tavolozza cromatica purissima e intensa, e Tenebre, 1982, che impiega in una sequenza la gru telecomandata «Louma»). Da menzionare anche i manichini realizzati da Carlo Rambaldi per Profondo rosso (il fantoccio che distrae Glauco Mauri; la ricostruzione dei volti martoriati di Macha Méril e di Clara Calamai nella conclusiva, impressionante sequenza dell’ascensore) e di Sergio Stivaletti, che da Phenomena (1985) si occupa in quasi tutti i film (a eccezione di quelli girati negli Stati Uniti, affidati alle sapienti mani di Tom Savini) di trucchi ed effetti speciali; per non parlare della straordinaria scenografia liberty di Giuseppe Bassan nel capolavoro Suspiria. Ma non si può analizzare il cinema di Argento senza considerare l’apporto fondamentale delle colonne sonore, temi indimenticabili che amplificano la tensione, sottolineano i momenti più cupi e contribuiscono alla riuscita complessiva dell’insieme: dapprima Ennio Morricone per la trilogia citata (il suo tema del film d’esordio è stato ripreso da Quentin Tarantino nel recente Kill Bill, in una scena che è un evidente omaggio ad Argento) e in seguito per La sindrome di Stendhal e Il fantasma dell’opera (1998); poi i Goblin che hanno firmato i temi immortali di Profondo rosso (1975) – rielaborando temi del pianista e compositore jazz Giorgio Gaslini, a sua volta artefice della rilettura di arie di Verdi, Rossini e Bach nell’unica incursione del regista in un genere diverso, lo storico Le cinque giornate (1973) – e di Suspiria e successivamente, in formazione completa, parziale o solistica con Claudio Simonetti, fino al recente La terza madre (2007); senza dimenticare Pino Donaggio che ha musicato l’episodio Il gatto nero di Due occhi diabolici (1990, prima incursione negli Usa del regista) e il successivo Trauma (1993). Un connubio immagini-musiche unico nel suo genere, che rappresenta l’atout del cinema di Argento, uno degli ingredienti di base della narrazione; allo score di Suspiria, con le sue atmosfere gotiche esasperate, il regista ha peraltro collaborato personalmente. Dal punto di vista più strettamente contenutistico, trait d’union di gran parte della filmografia di Argento è «l’elemento che sfugge», decisivo per la soluzione del mistero e disponibile sin dalle prime scene in forma visiva o sonora per il protagonista-testimone, ma che tuttavia risulta difficile da ricostruire per la mancanza di un tassello fondamentale utile a ricostruire la concatenazione degli eventi: Tony Musante è convinto di aver visto un maniaco accoltellare la vittima, ma in realtà davanti ai suoi occhi è avvenuto esattamente il contrario, e soltanto alla fine del percorso, che include lo strano verso di un uccello raro e un quadro naïf che ha scatenato la furia omicida, emergerà la verità; una visione «imperfetta» è anche alla base di «L’ELEMENTO CHE SFUGGE»: DARIO ARGENTO
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Profondo rosso, con la celeberrima scena del corridoio con i quadri espressionisti sulle pareti, uno dei quali sembra essere stato asportato mentre invece, come scoprirà naturalmente un attimo prima del redde rationem il pianista interpretato da David Hemmings, si trattava di uno specchio che rifletteva il volto dell’omicida; nel successivo Suspiria è meno decisivo quello che la protagonista Jessica Harper sente pronunciare dalla ragazza in fuga, al suo arrivo all’accademia di danza in una notte buia e tempestosa, ma le servirà per scoprire il passaggio segreto verso il covo delle streghe nel finale apocalittico; analogamente, in Trauma, un dettaglio legato all’iniziale decapitazione dei genitori della protagonista, la ragazza anoressica interpretata da Asia Argento, svelerà il volto dell’omicida, con un ribaltamento delle prospettive che ricalca quello dell’opera d’esordio; anche Non ho sonno (2001) cela lo scioglimento (piuttosto prevedibile, nonostante l’apporto di Carlo Lucarelli alla sceneggiatura) del mistero in un suono la cui natura verrà identificata solo nel finale (da molti spettatori un po’ prima), con una concatenazione dei delitti che a sua volta richiama Tenebre. La percezione distorta della realtà, fino alle incursioni nell’esoterico di Profondo rosso e della «Trilogia delle streghe» composta da Suspiria, Inferno (1980) e La terza madre – quest’ultimo uno dei più clamorosi passi falsi nella carriera di Argento assieme alla rilettura de Il fantasma dell’opera di Gaston Leroux (1998) – si accompagna a una non inedita ma affascinante elaborazione del tema della visione e dell’occhio: dalla cecità dell’enigmista de Il gatto a nove code interpretato da Karl Malden e del pianista Flavio Bucci in Suspiria ai primi piani della pupilla dell’assassino in molti film, il più celebre Profondo rosso; dall’immagine delle mosche impressa sulla retina della vittima in Quattro mosche di velluto grigio – l’ultima visione prima di morire, una trovata che rimanda direttamente a Peeping Tom (L’occhio che uccide, 1960) di Michael Powell – agli occhi felini che dall’esterno compaiono nel buio alla ragazza che fugge dalla scuola di danza nel morbosissimo avvio del più volte citato Suspiria, fino agli spilli negli occhi, pratica sabbatica che rivela il «cadavere ambulante» di Stefania Casini nello stesso film, alla tortura della visione forzata inflitta sempre con gli spilli a Cristina Marsillach in Opera (1987), alla pallottola riservata a Daria Nicolodi nello stesso film per aver guardato dallo spioncino, e infine agli occhi strappati a uno dei numerosi morti ammazzati di Inferno (da un certo punto in poi ogni sequenza si conclude con un omicidio), interpretato da Leopoldo Mastelloni, e al commissario-assassino di Opera, cui presta il volto Urbano Barberini. Nello stesso film, una delle soggettive è addirittura affidata ai corvi che infestano il teatro, ma ciò non deve stupire nel cinema di Argento, come sa chi ha visto la rilet82
MARIO MAZZETTI
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tura del classico di Edgar Allan Poe in Due occhi diabolici (l’altro episodio è affidato a George A. Romero), nel quale la cinepresa è posizionata a un certo punto ad altezza della lama collegata alla macchina di morte che taglia in due la malcapitata di turno: alti e bassi della visione, quasi una metafora della filmografia del regista. Argento ha anche lasciato una traccia apprezzabile in televisione: dalla serie La porta sul buio del 1973 (quattro telefilm prodotti dalla Rai e presentati da Argento, tra cui Il tram diretto sotto pseudonimo e Testimone oculare, alla cui regia è subentrato in un secondo momento) ai 9 brevi «incubi» da egli stesso realizzati ed ai 15 episodi di un quarto d’ora ciascuno, che ha solo prodotto, per il programma Giallo condotto nell’autunno 1987 da Enzo Tortora; fino a Ti piace Hitchcock? (sempre prodotto dalla Rai nel 2005, ormai relegato alle programmazioni di Fuori orario) ed ai due episodi della serie statunitense Masters of Horror, l’apprezzato Jenifer del 2005 e l’orrido Pelts dell’anno successivo, il cui protagonista si strappa nel finale una «canottiera» di pelle umana. Audace cantore delle psicosi, Argento ha creato nelle sue trame l’antesignano della figura del serial killer, elemento costante di tanto cinema contemporaneo, impiegando tra le cause scatenanti per lo più traumi mai rimossi, a volte assunti (fanta)scientifici quali la scoperta del fattore genetico che predispone al crimine (Il gatto a nove code). Il regista è partito dal giallo tradizionale, genere che ha scardinato con una regia nervosa, attenta al dettaglio ed alla creazione della suspense più che alla canonica ricostruzione degli eventi, per poi superarlo nel successivo slittamento verso il parapsicologico, l’horror gotico che utilizza elementi fiabeschi (la casa maledetta, le streghe, la seduzione del male, mostri deformi come in Phenomena, 1985) con il culmine creativo alla metà degli anni ’70: Profondo rosso e Suspiria sono i suoi capolavori perché l’arditezza stilistica, gli apporti tecnici e le «trappole» tese dalla sceneggiatura riescono a fare paura come raramente accade al cinema, a generare un senso di profonda inquietudine facendo convivere nella stessa sequenza elementi di quotidianità impazzita, timori ancestrali e una dose di irrazionalità che culmina nella perversione dell’assassino. Valga come esempio, sempre in Profondo rosso, la scena dell’omicidio della scrittrice interpretata da Giuliana Calandra, che abita in una casa di campagna naturalmente isolata: il bambolotto impiccato, la luce staccata, il sacrificio dei pennuti in gabbia fino alla furia omicida e all’orrenda morte nell’acqua bollente; ma non finisce qui: la vittima ha il tempo di scrivere il nome del colpevole utilizzando il vapore sulla parete del bagno, e troverà un «lettore» attento... Con Tenebre il regista cerca di riappropriarsi del giallo tradizionale e in effetti il connubio tra il canonico whodunit e lo «L’ELEMENTO CHE SFUGGE»: DARIO ARGENTO
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stile visionario che gli è consono riesce a creare una tensione non sminuita dalle scene di efferata violenza (il braccio mozzato alla femme fatale interpretata dalla ex first lady Veronica Lario; la sorte ria che tocca alla povera Lara Wendel, che passa da un aggressivo dobermann alla villa dell’assassino), anche se iniziano qui le slabbrature e le cadute di stile che accompagneranno i successivi film: Argento sembra aver smarrito da tempo l’anelito visionario, il coraggio di sperimentare, lo smalto delle prime opere finendo con il riciclare temi e trovate degli anni d’oro, ritrovando solo a tratti la fluidità narrativa, come nella prima parte de La sindrome di Stendhal ambientata agli Uffizi di Firenze. Altre immersioni nel giallo classico sono in tempi più recenti Non ho sonno e il più originale Il cartaio (2004), ma quanto è difficile far quadrare il plot e al tempo stesso sorprendere un pubblico ormai smaliziato! La stessa «passione» per la costruzione dei delitti (è risaputo che la mano dell’assassino che si vede sullo schermo è quella di Argento) è ormai venuta meno: è dai tempi della sequenza del treno in Non ho sonno che non ci sorprendiamo più. Dario Argento, sorretto da un subconscio affastellato da visioni inquietanti e con un addensante vincente come la cinefilia, ha prodotto incubi a 35mm che hanno fatto breccia a livello planetario. Con numerosi tentativi di imitazione: sebbene sia indubbio il debito verso maestri come Hitchcock e Roger Corman (tra gli omaggi tributati, la scena della piscina in Suspiria rimanda a Cat people di Jacques Tourneur, 1942), il processo si è svolto anche in senso inverso; ormai non sembra giungere horror o thriller da Hollywood che non paghi tributo, sotto forma di omaggio, citazione o saccheggio, al cinema di Argento – si veda tra gli ultimi il finale di Disturbia (D.J. Caruso, 2007), così simile a Phenomena; per limitarsi a modelli più «alti», basti citare Brian De Palma, gli amici Carpenter e Romero e i non pochi momenti de La nona porta (Roman Polanski, 1999) che richiamano Inferno. Se insomma gli ultimi esemplari della cinematografia di Argento non hanno prodotto se non la reiterazione di temi ricorrenti, il rimpianto per capolavori ormai remoti è prevalente, e non basta rievocare il Conte della Transilvania (ricreata nei paesaggi del biellese) per esorcizzare un evidente appannamento. Resta però fermo che siamo in presenza di un autore di riferimento, imprescindibile nel suo genere, oggetto di un’attenzione costante a ogni sua uscita, nel bene e nel male, con un seguito di appassionati che non accenna a scemare.
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MARIO MAZZETTI
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Paranoid androids. Per una teoria del film italiano «di genere» PAOLO RUSSO
La prospettiva storica sulla produzione cinematografica contemporanea del nostro Paese, quella del post-crisi per intenderci, fa ormai apparire forzose distinzioni tra «giovane», «nuovo» e «nuovo-nuovo» cinema italiano, sia dal punto di vista politico-produttivo, che da quello poetico o anche semplicemente generazionale. Ciò vale anche e soprattutto per la rinnovata evidente attenzione al film di genere, non localizzabile in un determinato gruppo di cineasti ma diffusa trasversalmente in termini anagrafici e di provenienza professionale: se è infatti vero che col genere si cimentano sia la prima (Garrone, Infascelli, Segatori) che la seconda ondata (Costantini, Franchi, Grieco, Puglielli, Sigon, Sorrentino) delle leve più giovani, le prove più convincenti – in termini di pertinenza a un discorso sui generi ma non per questo necessariamente innovative – vengono da nomi di rilevanza internazionale e da tempo affermati (Salvatores, Tornatore)1. Partendo dalla convinzione che una delle loro peculiarità maggiormente apprezzabili risieda in un territorio di ambiguità significativa che, pur nella loro eterogeneità, i film di questi registi sem-
1. Per evitare l’aleatorietà e la confusione cui spesso si va incontro quando lo si utilizza, il termine «genere» va qui inteso come referente di regole e convenzioni tradizionalmente accettate da chi produce e da chi fruisce un testo filmico (consci delle limitazioni che tale griglia interpretativa impone): il film «di genere» dunque – ovvero il noir, il thriller, l’horror e via dicendo – e non le modalità aristoteliche che distinguono i macrogeneri commedia e tragedia. Un approccio che esclude pertanto in questa sede la trattazione della commedia, che semmai meriterebbe un debito approfondimento delle sue innumerevoli declinazioni. Un’eccezione andrebbe in realtà concessa, ed è doveroso quanto meno citare il caso di Aldo, Giovanni e Giacomo i quali, attraverso il registro della commedia, filtrano il road movie (Tre uomini e una gamba) per poi imperniare su una consapevole parodia dei codici tipici del prison movie, del pulp, dell’horror e del gangster movie sia l’impianto narrativo che l’assetto visivo dei successivi Così è la vita e La leggenda di Al, John e Jack. Il fantasy dell’episodio Falsi prigionieri in Il cosmo sul comò si limita invece a citare/sfruttare l’idea dei «quadri viventi» della saga di Harry Potter come spunto comico-narrativo.
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brano condividere, mi propongo di verificare su di essi l’applicabilità di un approccio semantico/sintattico/pragmatico, sentiero poco battuto nonostante i richiami alla necessità di alternative teoriche moltiplicatisi negli ultimi anni nell’ambito dello studio dei generi cinematografici. Detto questo, l’obiettivo non è passare al setaccio titoli e cineasti classificandoli all’interno di questo o quel genere, bensì quello di evincere alcuni spunti di riflessione per eventuali ulteriori apprendimenti2.
L’aspetto pragmatico e il fattore d’uso L’approccio sintattico/semantico/pragmatico è stato proposto da Rick Altman come alternativa ai modelli tradizionali3. Questi ultimi si sono spesso limitati a contrapporre i primi due aspetti. Per superare questa impasse, Altman parte da un postulato che sembra addirittura ovvio: l’aspetto semantico e quello sintattico non vanno considerati come livelli testuali distinti ma come due categorie complementari4. In passato, due principali filoni teorico-critici si sono contrapposti su questo campo. Da un lato, l’analisi testuale poneva l’accento sulla pre-esistenza dei generi (e le relative organizzazioni semantico-sintattiche) che, quindi, determinano a priori e guidano l’attività 2. Sebbene limitata al periodo 2000-2006, una prima mappatura di per sé già esemplificativa del cinema italiano di genere è per altro desumibile confrontando e sovrapponendo gli apporti di Vito Zagarrio, Franco Montini, Gianni Canova ed Emanuela Martini nel volume La meglio gioventù. Nuovo Cinema Italiano 2000-2006 (Marsilio, Venezia 2006), curato dallo stesso Zagarrio in occasione della Mostra di Pesaro 2006. 3. In uno sguardo retrospettivo sull’evoluzione dei genre studies, Altman sottolinea criticamente l’eccessivo retaggio di strumenti, metodi, parametri e inclinazioni tassonomiche ereditato dalla critica dei generi letterari. A supporto di tale constatazione, ai nomi che ormai definiscono a livello internazionale i maggiori contributi accademici in questo ambito (Dudley Andrew, Leo Braudy, Ed Buscombe, John Cawelti, Frank McConnell, Steve Neale, Thomas Schatz, Andrew Tudor, Will Wright, per citare solo i più noti) Altman accosta provocatoriamente i rispettivi padri putativi: da Johnson a Dryden, da Wellek a Frye, da Propp a Barthes a Todorov, senza tralasciare l’immancabile Aristotele. Cfr. R. Altman, Film/Genre, Bfi, London 1999, pp. 13 e ss. 4. Entrambi di chiara derivazione semiotico-strutturalista, il livello semantico definisce i tratti comuni all’interno di ciascun genere (ad esempio, tipologie archetipiche dei personaggi, stile delle inquadrature, ambientazioni, caratteristiche dell’illuminazione) mentre quello sintattico si sofferma sui rapporti attraverso cui tali unità si strutturano testualmente e attivano dialettiche intra ed extra testuali. Considerandoli separatamente, il primo finisce per garantire una vasta applicabilità al corpus di film ascrivibili a un determinato genere contribuendo però minimamente a livello interpretativo; il secondo, consente di fare luce sulle strutture significative extra-filmiche senza però assicurarne l’esportabilità a tutto il corpus. Al contrario, la loro eventuale complementarietà implica l’altrettanto ovvia conseguenza che gli stessi elementi semantici – per quanto solitamente stabili se riferiti a un genere – possono dar luogo a diversi significati e interpretazioni in base alla loro organizzazione sintattica e all’eventuale propensione a sperimentare con quest’ultima. 86
PAOLO RUSSO
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spettatoriale5. In base a questo presupposto, sono le necessità e le logiche produttivo-distributive dell’industria cinematografica a definire i generi in base a criteri di «riconoscibilità» da parte del pubblico (considerato evidentemente come massa e non come insieme di individui). Per soddisfare tali criteri, i generi presenterebbero dunque tratti ben distinti e codificati. Punto, questo, facilmente opinabile, almeno in parte, sulla base della tendenza a mescolarsi tra loro che da sempre i generi (anche letterari) hanno dimostrato, o delle numerose sfumature e varianti che essi possono assumere: si veda il caso eclatante del noir, che per definizione sfugge a classificazioni nette e categoriche. Sul versante opposto, i fautori dei reception studies negano l’assunto della pre-determinazione testuale sostenendo che sia invece l’attività spettatoriale a produrre il significato finale di qualsiasi testo in un modello teorico che si configura in base alla linearità del processo studiato e che si può riassumere nello schema seguente: segnali semantici ý aspettative sintattiche ý fruizione spettatoriale ý significato þ testi precedenti (tradizione genere)
L’approccio pragmatico ritiene tale linearità frutto di convenzioni che non tengono conto del cosiddetto fattore d’uso. Pur citando Wittgenstein solamente en passant, e non dichiarando l’evidente ispirazione post-derridiana del suo modello, Altman palesa l’influsso della linguistica contemporanea, che rigetta la staticità della teoresi saussuriana in favore della variazione linguistica che ammette la dispersione (virtualmente infinita) del significato in base agli «utenti» coinvolti nel processo comunicativo6. Mentre le convenzioni sociali e culturali limitano tale dispersione per garantire il fine ultimo 5. A questo proposito, Altman riduce quasi a banali ovvietà alcuni assunti fondamentali nella tradizione dei film genre studies quali il «triangolo artista/film/pubblico» postulato da Neale (via Ryall), mediato e garantito dalle pratiche di un’industria che risponde a precisi bisogni sociali, nell’ottica economica (ma non solo) dettata dalla legge domanda/offerta, come sottolineato da Andrew. Tali assunti troverebbero conferma e giustificazione storica, ad esempio, nelle esigenze cui il cinema si è trovato a dover far fronte nel primo decennio del xx secolo, quando esso ha cominciato a darsi un vero assetto industriale per soddisfare una domanda tale da dover ricorrere alla letteratura al fine di assicurarsi un serbatoio di soggetti narrativi e, conseguentemente, di generi facilmente identificabili e riconoscibili, riuscendo in questo modo anche a razionalizzare i processi realizzativi. Cfr. S. Neale, Genre, Bfi, London 1980; e D. Andrew, Concepts in Film Theory, Oxford University Press, New York 1984. 6. Per quanto inusuale, non ritengo così sorprendente il connubio tra la scuola analitica di stampo anglosassone e la tradizione della filosofia continentale, cronicamente in contrasto tra loro. PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
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della comunicazione (significati stabili e chiarezza comunicativa condivisi dagli utenti coinvolti), lo stesso non vale per le pratiche rappresentative (tra cui il cinema)7. Alla linearità diacronica del modello linguistico l’analisi pragmatica sostituisce allora la compartecipazione sincronica dei molteplici attori coinvolti nel processo di significazione, «non solo i vari gruppi spettatoriali, ma produttori, distributori, esercenti, enti culturali e molti altri» riconoscendo che «alcuni schemi familiari, come i generi, devono la loro esistenza a tale molteplicità»8. Considerare tale copresenza di utenti implica la dipendenza del processo significativo dalle condizioni di utilizzo di un testo (nel nostro caso, un testo appartenente a un determinato genere) che possono variare da caso a caso. Da un modello che partendo da codici predeterminati (il genere) produce i suoi testi (i film) per un destinatario preciso (un gruppo spettatoriale con aspettative note), si passa dunque a un processo in fieri nel quale ogni fattore in causa opera una sorta di feedback che, potenzialmente, ridefinisce il genere. Passando dall’assunto teorico alla prospettiva critica, il dato che mi sembra accomunare molti dei cineasti italiani che si confrontano con il film di genere è una marcata consapevolezza di tali meccanismi di cortocircuitazione – magari, paradossalmente, acquisita in maniera inconscia perché, anche solo anagraficamente, molti di loro si sono formati in un’epoca dominata dalla frantumazione delle narrazioni – che finiscono per amplificare e alterare i segnali semantici e le aspettative sintattiche, finendo per configurarsi come il vero possibile motore di quel «rinnovamento dall’interno» rilevato da Montini9. Non potendo in questa sede considerare anali7. Altman elabora il suo modello semantico/sintattico/pragmatico in fasi successive in un arco di tempo piuttosto esteso: mentre l’articolo A semantic/syntactic approach to film genre – apparso originariamente in «Cinema Journal» (n. 23, 1984, pp. 6-18), e successivamente nelle varie edizioni di Film Genre Reader a cura di Barry Keith Grant (University of Texas Press, Austin 1986, 1995 e 2003), oltre che in Film Theory and Criticism: Introductory Readings curato da Leo Braudy e Marshall Cohen (Oxford University Press, New York 1998, 1999 e 2004) – ha avviato un vivace dibattito sulle esigenze di rinnovamento nel campo degli studi dei generi cinematografici, il capitolo A semantic/syntactic/pragmatic approach to genre con cui conclude il volume Film/Genre, non sembra finora aver prodotto significativi sviluppi come lo stesso Altman auspicava, estendendone la validità a una teoria «generale» del significato, ben al di là dello studio dei generi cinematografici. Cfr. R. Altman, Film/Genre, cit., pp. 207-215. 8. Ivi, p. 210. La valenza pragmatica di questo approccio suggerisce due osservazioni: da un lato, il terreno esplorativo del critico dei generi diventa improvvisamente un terreno minato, in cui sembra quasi impossibile tenere conto di tutte le componenti in gioco – un gioco all’indeterminatezza del significato che giustifica da almeno due decenni certa diffusa ansia da poststrutturalismo; dall’altro, le argomentazioni di Altman difettano di esempi concreti (spunti analitici di film di genere, per intenderci) che corroborino le istanze teoriche avanzate. 9. Cfr. F. Montini, Una nuova generazione, in V. Zagarrio, op. cit., pp. 27-28. 88
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ticamente i «molteplici utenti» di ciascun singolo film, sarà allora utile individuare una serie di indicatori d’uso ricorrenti, i quali meglio descrivono questa attitudine verso il film di genere, che è anche, ma non si traduce solo ed esclusivamente in una consapevolezza autoriflessiva (metafilmica) che espone il mezzo per interrogare i meccanismi di produzione del genere e/o del singolo testo; quanto piuttosto nella messa in scena e nella riflessione sugli aspetti metapercettivi e metacognitivi – vale a dire, la ricezione e l’elaborazione degli elementi testuali e culturali pertinenti al genere – ad esempio nel ricorso alle rappresentazioni del corpo e alle sue diverse presentazioni in rapporto all’uso della tecnologia.
Trans-genre? Modelli estetici e produttivi a confronto Sull’interpretazione e l’accettazione dei processi sopra descritti si è naturalmente ben lontani da posizioni comuni. Gli stessi teorici e critici che sposano l’uno o l’altro approccio non paiono farlo con unità di intenti. È evidente nella considerazione di quelle che fino a qualche tempo fa venivano ritenute due caratteristiche tipiche dei generi: i loro attributi trans-storici e trans-geografici (o trans-nazionali). Se nessuno sembra ormai più avallare la stabilità degli elementi di genere nel corso del tempo, la maggior parte dei contributi sembra deporre a favore di una loro evoluzione per unità discrete: ovvero, a una fase di canonizzazione segue un certo periodo di rinnovamento che finisce per portare a un nuovo periodo di relativa stabilità, un processo che giustifica le frequenti prospettive sui generi in termini di «cicli» storici e culturali, con un vocabolario dal vago sapore keynesiano, e trova applicabilità nel cinema americano contemporaneo. Dopo la ventata rivoluzionaria della New Hollywood, negli ultimi tre decenni il cinema d’oltreoceano è riuscito infatti a rifondare un’industria solidissima grazie al recupero e alla trasformazione che ha saputo imprimere ai generi. Nell’epoca della globalizzazione, inoltre, i generi si prestano per loro stessa natura e funzione a superare i confini nazionali e ad essere esportati e inseriti in altri contesti di fruizione. In anni recenti, si sono moltiplicati gli studi sul crescente successo del cosiddetto neo-noir (o global noir) e del neo-neo-noir sull’onda di un proficuo e continuo rapporto di scambi tra cinema made in Hollywood e del sud-est asiatico10.
10. Si vedano in proposito i vari di studi di Peter Stanfield e, in particolare, il citatissimo saggio di David Desser Global Noir: Genre Film in the Age of Transnationalism in Barry Keith Grant, op. cit., pp. 516-536. PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
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I recenti film italiani di genere costituiscono senz’altro un’eccezione a queste regole: da un lato, perché solo in parte si rapportano alla tradizione dei generi, ovvero ai precedenti cicli nella storia del nostro cinema; ma soprattutto perché l’approccio alle dinamiche e alle modalità espressive, innovativo o meno, risponde più a esigenze autoriali – magari con tratti comuni – che a progettualità e schemi produttivi. A tal fine, può risultare utile un raffronto con il cinema americano, esaminando in quest’ultimo la conversione che in anni recenti ha subito l’action-adventure per la cospicua iniezione di fumetti e videogiochi. Parlo di conversione e non di adattamento perché, non casualmente, l’invasione di supereroi Marvel e di shooter o fantasy games si è quantitativamente distinta nel momento in cui le stesse tecnologie adottate per sviluppare i software di questi ultimi hanno iniziato a trovare largo impiego anche in ambito cinematografico, in tutte le fasi realizzative. Nel momento in cui percepisce la diffusione globale di nuove o rinnovate forme di consumo di certa cultura popolare di massa, Hollywood intuisce un nuovo bacino di utenza e crea i presupposti per cortocircuitare nuove esigenze e aspettative in una rielaborazione (un upgrade, verrebbe da dire) di un genere tradizionale. Fatto sta che, una volta esaurita la meraviglia per le soluzioni visive dell’ennesimo capitolo di Final Fantasy, e con l’eccezione di pochi casi degni di nota (Dick Tracy, i Batman di Burton e il Dark Knight di Nolan, il Sin City di Rodríguez), tutta questa innovazione – in relazione al concetto di genere – si fatica a individuarla. Fumetto e videogiochi, d’altronde, fanno della serialità narrativa un loro punto di forza lasciando alle innovazioni tecnologiche (motori grafici, software, ecc.) i motivi di richiamo per la comunità dei gamers11. Probabilmente, gli unici esempi italiani che adottano un approccio analogo sono anche i primi veri titoli a sperimentare il 3D, forse non a caso tutti horror che affidano alla tecnologia di ripresa e (almeno in parte) di proiezione i propri motivi di originalità. Il 3D stereoscopico del Dracula di Dario Argento espande elementi scenografici e fotografici in un trionfo di atmosfere gotiche, proponendo però l’ennesima pedissequa riduzione del romanzo di Stoker. In Paura i Manetti Bros. sfruttano consapevolmente – secondo un meccanismo tipicamente exploitative da loro collaudato nei precedenti cortometraggi e in Cavie – il cliché narrativo di un gruppo di giovani rinchiusi, prima volontariamente poi loro malgrado, in una spazio
11. Per citare solo due tra gli esempi probabilmente più popolari, apprese le dinamiche di gioco di Half-Life, si conoscono gli elementi di tutti gli altri shooter; una buona familiarità con Dungeons & Dragons consente di approcciare qualsiasi Fantasy RPG. 90
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relativamente ristretto che riserva loro macabre sorprese. Analoga caccia notturna alla vittima predestinata coinvolge la protagonista prigioniera del parcheggio sotterraneo di Parking Lot di Francesco Gasperoni. Notiamo invece differenze sostanziali sia sul piano quantitativo (il numero di film che si cimenta con queste cifre espressive è davvero limitato) che qualitativo laddove troviamo opere che si ispirano a fumetti o videogiochi poiché non si tratta di adattamenti diretti ma di modelli ispirativi che guardano alle rispettive dinamiche e meccanismi di comunicazione riflettendo un’operazione di tipo culturale o estetico. È il caso, ad esempio, di Paz! di Renato De Maria, che si ispira ai personaggi di Andrea Pazienza e li trasforma sullo schermo mescolando video, musica e graffiti in una combinazione che ha l’evidente obiettivo di ricreare l’atmosfera di un’epoca (la seconda metà degli anni ’70) e le aspettative di un’intera generazione più che di tradurre in immagini e suoni le strisce e i libri del fumettista: niente supereroi, niente action-adventure12. Il contrario di At the End of the Day – Un giorno senza fine, film d’esordio di Cosimo Alemà e raro esempio italiano di narrazione basata quasi interamente sulle regole di un vero gioco di simulazione bellica (il SoftAir), esplicitate fin dall’incipit, che ne determinano struttura e snodi principali, fino al loro inaspettato ribaltamento che piomba i personaggi in una caccia all’uomo archetipica di tanti videogame. Il film che invece si cimenta apertamente con questi aspetti è senz’altro Nirvana di Salvatores. Affermare che sia un film di fantascienza non è però corretto: è anzi importante sottolineare come Salvatores si confronti sistematicamente con tutti gli stilemi e gli archetipi narrativi del cyberpunk, genere letterario e poi cinematografico squisitamente e quasi esclusivamente (nord)americano. In un saggio che sviluppa le teorie dei miti di Frye, Alison Muri evidenzia come la maggior parte delle opere ascrivibili al cyberpunk segua un impianto molto tradizionale legato al simbolismo cristiano e al mito della rinascita/rigenerazione della tradizione biblica ed epica: l’eroe guida una comunità minacciata da un nemico mostruoso solitamente associato a immagini legate all’inverno, all’oscurità e alla sterilità – il Minotauro della mitologia greca, il Leviatano biblico, i draghi delle mitologie nordiche o una qualsiasi forma aberrante di tecnologie di vario tipo nel caso del cyberpunk – e dopo uno scontro, spesso mortale, risorge e sconfigge 12. Ricordo, in proposito, l’illuminante intervento La tecnologia digitale tra cinema, romanzo e fumetto di Christian Uva alla conferenza Narrative Synergies: Cinema and Literature in Contemporary Italy, Magdalen College, University of Oxford, 20 gennaio 2006. Unica eccezione alla regola è il poco noto Capitan Basilico di Massimo Morini (a Il primo supereroe ligure si è recentemente aggiunto I Fantastici 4+4, entrambi realizzati a scopo benefico). PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
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il mostro riportando la luce, l’ordine e la fertilità13. Lo schema vale ad esempio per la trilogia di William Gibson e per le short stories di Bruce Sterling come per il cyberpunk al femminile di Pat Cadigan, ma anche per le storie apparse sul grande schermo, dal Johnny Mnemonic di Longo ai Matrix dei fratelli Wachowski. Nirvana, pur seguendo inizialmente una simile parabola narrativa, se ne allontana progressivamente: nessuna rigenerazione e nessun riconoscimento finale, nessun eroe a riportare la luce. Mentre nel tipico schema narrativo cyberpunk il leviatano tecnologico si pone, paradossalmente, sia come il mostro che minaccia la vita dell’eroe che come il mezzo in grado di garantirgli l’immortalità (anche se spesso solo in un mondo virtuale), il protagonista di Nirvana – un creatore di videogiochi che sfrutta la tecnologia ed al contempo ne rimane vittima – decide di cancellare (letteralmente) la sua creazione. La conclusione pessimistica non deve indurre a una visione neo-luddista della tecnologia: piuttosto, il meccanismo del videogioco serve a innescare una serie di interrogativi, anche inquietanti, sulla nostra interazione con le tecnologie e con la crescente virtualità dei rapporti e delle azioni (e relative conseguenze nella realtà fenomenica); oltre a una serie di interrogativi filosofici, di natura ontologica ed epistemologica, sull’esistenza e sulla natura umana in sé in virtù della cyborgizzazione del nostro corpo e di BCI (Brain-Computer Interfaces) in una prospettiva comunque ben lontana da posizioni estropiche. Argomenti e interrogativi, questi, che col senno di poi possono apparire addirittura ovvi ma che non lo erano un quindicennio fa, quando Nirvana li proponeva ben prima degli allarmi heideggeriani di eXistenZ o dello scetticismo cartesiano visivamente ineccepibile ma pur sempre in pillole del primo Matrix. Il caso di Salvatores è emblematico perché decidendo di cimentarsi programmaticamente con un genere ben definito, egli ha scelto di realizzarlo ricreando le condizioni produttive con cui Hollywood confeziona i propri prodotti e che nel panorama italiano sono invece insolite: budget rilevante, set ricostruiti in studio alle porte di Milano, largo impiego degli effetti digitali. Il caso di Nirvana, come è noto, è rimasto isolato ma consente di rilevare una fondamentale differenza: l’assetto industriale hollywoodiano basa su precisi meccanismi legati alla produzione di film di genere la creazione di determinate aspettative, mentre in Italia l’industria cinematografica (o quel che ne resta) non pratica sistematicamente una politica produttiva che pos13. Cfr. A. Muri, Of Shit and the Soul: Tropes of Cybernetics Disembodiment in Contemporary Cultures, in «Body & Society», n. 9, 2003, pp. 73-92. 92
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sa in qualche modo richiamare i fasti del cinema di genere del periodo compreso tra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli ’80, e quindi la scelta di cimentarsi con un dato genere è da ricercarsi nella volontà e nella propensione del singolo cineasta o gruppo produttivo. Anzi, alcuni casi recenti dimostrano come la scelta pervicace di percorrere questa strada porti addirittura alla necessità di trovare canali di circuitazione alternativi (DVD, download) come è accaduto per H2Odio di Infascelli – che, come riportato nella homepage del sito web, nel 2006 era visibile «dal 3 maggio in nessun cinema» – e Il mistero di Lovecraft. Road to L. di Federico Greco e Roberto Leggio, o per i fantascientifici AD Project di Puglielli e L’ultimo terrestre del fumettista Gian Alfonso Pacinotti. Il caso di quest’ultimo, nonostante la coproduzione Fandango-Rai Cinema sostenuta dal fondo Mibac per le opere prime e la presentazione a Venezia, dimostra per l’ennesima volta una certa idiosincrasia e diffidenza del mercato e del pubblico italiani per le nostrane invasioni di alieni sul grande schermo, tanto da puntare quasi subito sull’uscita online e in DVD e Blu-ray14. Un altro caso eclatante di come il contesto geografico-realizzativo funga da discriminate estetica piuttosto che confermare il supposto carattere transnazionale dei generi è quello di Dario Argento. Dopo aver fornito una serie di prove sostanzialmente opache che per vari motivi hanno mancato l’obiettivo – Argento ha più volte lamentato un certo accanimento censorio che avrebbe compromesso i suoi titoli italiani più recenti – egli è stato chiamato negli USA per firmare la regia di due episodi della serie tv Masters of 14. Dopo Nirvana, alcuni corti e mediometraggi meno ambiziosi ma pur sempre di genere fantascientifico sono stati realizzati in digitale e con impiego di effetti in CGA. Ovviamente, hanno stentato a trovare una distribuzione tradizionale e si sono dovuti «accontentare» di festival, web e canali satellitari. Vale la pena di citarli: E:D:E:N di Fabio Resinaro e Fabio Guaglione; Evangelisti R.A.C.H.E. di Mariano Equizzi; SKArR di Alex G. Raccuglia; Space Off di Tino Franco; InvaXön – Alieni in Liguria di Massimo Morini ed Enzo Pirrone. In anni più recenti sono stati realizzati anche mediometraggi e lungometraggi con micro, se non zero budget, a cui è toccata in massima parte analoga sorte distributiva: Apollo 54 di Giordano Giulivi, girato in MiniDV nell’arco di tre anni e montato in Adobe Premiere; il postapocalittico Soli al fronte di Giorgio Bruno, a cui è possibile accostare il recente Mia di Fulvio Ottaviano, non esente da echi mccarthiani (The Road); 6 giorni sulla terra di Varo Venturi. Interessante il citato caso di Morini, che gira in HD e monta in Final Cut Pro Capitan Basilico: il primo supereroe ligure, coinvolgendo regione, provincia, numerosi comuni e una schiera di volti noti (attori e cantanti) in parti cameo nell’ambito di un progetto a fini benefici. A prescindere dall’esito qualitativo, queste produzioni di genere mostrano come anche in Italia in questi ultimi anni, la politica del basso budget si accompagni sempre più all’utilizzo di nuove tecnologie, non high-end ma proprio per questo motivo facilmente accessibili, sia in fase di ripresa che di postproduzione. Un ulteriore esempio, che si rifà però per ambientazioni e atmosfere a certo horror/thriller anni ’70, è il recente La casa nel vento dei morti di Francesco Campanini e Francesco Barilli, girato in Full HD con una Canon 5D, ormai diventata quasi una scelta di tendenza tra i cineasti alle prese con opere prime e budget spesso inesistenti. PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
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Horror15. Sia Jenifer che Pelts propongono un horror molto convenzionale: una ragazza dal volto sfigurato (il Mostro, l’Altro), la tipica provincia americana, l’unità familiare compromessa, il contrasto uomo/natura, l’antropofagia, la repulsione/attrazione per il diverso, l’energia sessuale repressa e improvvisamente violentemente liberata (ma deviante), maledizioni e credenze popolari legate a un vecchio cimitero. La regia di Argento è impeccabile e surclassa di gran lunga quella di altri nomi di spicco come Carpenter, Dante, Hooper o Landis che firmano altri episodi della serie, ma lo stile dell’uno pare indistinguibile da quello degli altri. Come a dire che determinate condizioni produttivo-distributive consentono di raggiungere il risultato sperato da un lato ma pongono dei limiti (le convenzioni da rispettare) dall’altro.
Paranoid androids: i generi del corpo in un territorio indistinto L’horror è naturalmente il genere che più di altri ha concentrato sul corpo le proprie ossessioni. Le letture tradizionali si basano su un dualismo di stampo platonico-cartesiano che individuano nel corpo del Mostro il luogo del male, della minaccia da debellare fisicamente grazie all’intervento provvidenziale dei fautori dell’ordine e del Bene (spesso associato all’attività mentale). Lo schema, fa notare Tudor, va in tilt a partire dagli anni ’70, quando l’intervento umano o delle autorità non riesce a restaurare l’ordine, quando la minaccia inizia a non essere più facilmente riconoscibile e circoscrivibile e diventa diffusa e indefinibile, non rappresenta più qualcosa di straordinario ma rientra nell’ordinario quotidiano, quando i confini tra normalità e anormalità si fanno sempre più labili; quando, soprattutto, la minaccia da esterna diventa interna, non solo al gruppo sociale coinvolto, ma interna al corpo e alla mente16. L’horror, insomma, perde quanto aveva di rassicurante e inizia a raccontare le paranoie della società contemporanea: riconoscendo gli antesignani nell’Hitchcock di Psycho e Gli uccelli, Tudor ravvisa nel primo episodio della saga di Halloween l’avvio di questa nuova discorsività del genere, mancando colpevolmente di riconoscere come Argento avesse iniziato a percorrere la strada già un anno prima con Suspiria. 15. Il già citato Dracula 3D, presentato nel 2012 a Cannes, rappresenta il tentativo più recente in questa direzione, girato in inglese, con una grossa coproduzione europea alle spalle e un cast internazionale di rilievo nei ruoli principali. 16. Cfr. A. Tudor, From Paranoia to Postmodernism? The Horror Movie in Late Modern Society, in S. Neale (a cura di), Genre and Contemporary Hollywood, Bfi, London 2002, pp. 105-116. 94
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Se Argento ha avuto pochi compagni di strada (Fulci, Lamberto Bava) in quella che è stata seppur brevemente l’epoca d’oro dell’horror italiano, il cinema italiano degli ultimi anni ha intrapreso di nuovo un percorso che, attraverso il corpo, rimette in gioco il concetto di paranoia, convincendo forse lo stesso Argento a tornare sui suoi passi con La terza madre. Pur affidandosi all’impianto tradizionale del thriller, Almost Blue di Alex Infascelli gioca sul rapporto tra il corpo e le nuove tecnologie le sue carte più originali. I corpi sono quelli «inadeguati» di Simone e di Alessio, potenziale vittima e carnefice, entrambi insufficienti a esprimere efficacemente la soggettività dei due protagonisti. La cecità di Simone offre a Infascelli la possibilità di lavorare sull’elemento acustico, affidando le percezioni sensoriali del personaggio al surrogato tecnologico che ne amplifica il senso aurale; nonostante la cifra cromatica enfatizzata dal romanzo di Lucarelli e i complicati processi di elaborazione/manipolazione del colore a cui Infascelli e Arnaldo Catinari hanno sottoposto la pellicola, il regista ha imparato la lezione hitchcockiana e costruisce il suo teorema sulla costante e progressiva sottrazione visiva cui fa da contrappeso l’accumulazione acustica sul piano sonoro. L’inaffidabilità della vista è ribadita anche dalle mutazioni che il corpo di Alessio subisce per diventare di volta in volta una copia che si sostituisce agli originali cui sfigura il volto (le vittime) o nella decisione finale di accecarsi (come Simone). Con il successivo Il siero della vanità, Almost Blue condivide il trattamento riservato al corpo maschile (vittima e Mostro) e a quello femminile, quasi desessualizzato nei personaggi di Grazia Negro (Lorenza Indovina) e Lucia Allasco (Margherita Buy) cui viene affidato il compito, in realtà non essenziale ai veri fini della risoluzione narrativa, di scoprire la verità sui delitti compiuti, solitamente affidato a un investigatore maschio. Tutto al femminile è l’ultimo lungometraggio di Infascelli, H2Odio, che passa decisamente all’horror paranormale scatenato da un’anomalia nel corpo di Olivia: il dente della gemella mai nata che, un po’ come la terza (empiricamente) inconcepibile dentizione di Antonio (Sergio Rubini) in Denti di Salvatores, rappresenta il subconscio represso che riemerge e si manifesta attraverso mutazioni altrimenti inspiegabili del corpo. Il rito di purificazione con l’acqua organizzato da Olivia e dalle sue amiche viene vanificato dal sangue e dalla carne, così come in Denti – che certo non è un horror – il dolore fisico e gli eccessi corporei prendono il posto della patologia mentale. I corpi sono anche quelli inautentici e imperfetti di L’imbalsamatore di Garrone: rifatto quello di Deborah, eccessivi quelli di Peppino (troppo piccolo) e di Valerio (troppo grosso). Troppo magro quello anoressico di Sonia PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
«DI GENERE»
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(Michela Cescon) in Primo amore – sempre di Garrone – che, per il suo stato patologico, se suscita l’interesse di Vittorio (Vitaliano Trevisan) sfocia necessariamente nel morboso e nella devianza. Come morboso e deviante è il corpo di Sarah in Ingannevole è il cuore più di ogni cosa di Asia Argento. Oppure mutilato, come quelli delle vittime in Occhi di cristallo di Puglielli; quelli massacrati della madre e della sorella dello psicotico protagonista di Taglionetto di Federico Rizzo; drogati e sadicamente torturati dal serial killer di Visions di Luigi Cecinelli; o ancora i 50 corpi maciullati e divorati dal serial killer di Evilenko di Grieco, e quelli macellati nella seconda parte di In the Market di Lorenzo Lombardi, la cui psicopatologia richiama echi sociopolitici e culturali; allo stesso modo dell’ingombrante e ambigua doppiezza del corpo di Sandrone (Bisio) in La cura del gorilla di Sigon, che declina l’aspetto patologico già nel titolo del romanzo di Dazieri da cui è adattato ma nasconde anche il portato di denuncia di certo razzismo. Fino ad arrivare all’apologo di un corpo che non ha più nemmeno bisogno di cibarsi poiché si nutre ormai del cinismo smisurato di una società dominata dal denaro e dal profitto, come nel caso del protagonista di Il lercio, mediometraggio girato in MiniDV da Lucas Pavetto. Ma sono anche corpi che devono sparire, come quello di Toni Servillo nel finale di Le conseguenze dell’amore; un corpo che in realtà sparisce come logica conseguenza non dell’infatuazione per Sofia (Olivia Magnani) bensì dell’assenza di identità, di sentimenti, di una vera vita per un personaggio che ha trascorso anni in un non-luogo simbolico (l’hotel, la Svizzera) metafora della sua condizione esistenziale; e come quello di Andrea, in Il mistero di Lovecraft. Road to L., o dei protagonisti di Smile, opera prima di Francesco Gasperoni, entrambi mockumentary puntualmente associati (per tipologia di genere e dinamiche di circuitazione e fruizione) alla nota operazione di The Blair Witch Project, senza che peraltro sia mai stata riconosciuta la filiazione più che palese di quest’ultimo da Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, e che si inseriscono nel recente filone internazionale del «first-person» horror, in buona parte basato sui meccanismi del found footage e su come questo inneschi determinati schemi percettivi a livello psicologico17. Oppure, al contrario, sono corpi da ostentare a tutti i costi come quelli «caricati» dal webmaster di siti porno in AD Project o di Nina (Elisabetta Cavallotti), protagonista di Guardami di Davide Ferrario, prima esibi-
17. Un’ampia ed esauriente trattazione di tali meccanismi viene condotta in prospettiva cognitivista da Peter Wuss in Cinematic Narration and Its Psychological Impact: Functions of Cognition, Emotion and Play, Cambridge Scholars, Newcastle 2009. 96
PAOLO RUSSO
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to nei porno che interpreta e poi attraverso le tecnologie medicali che le diagnosticano il cancro. E, infine, quelli in cui la visione resta impressa per sempre attraverso il thanatoscopio, inquietante e letale antenato del pre-cinema che permette a Imago mortis di Stefano Bessoni di spaziare nel citazionismo dall’espressionismo tedesco ad Arancia meccanica. A ben guardare, i titoli appena citati hanno iniziato a condurci dall’horror sempre più verso il thriller e il noir, fino al melodramma e alla fantascienza. Quella che spesso viene descritta come una certa tendenza all’ibridazione, in realtà è una zona fluttuante di intersezioni tra diversi generi; la «geometria variabile» di cui parla Canova non è da cercarsi all’interno del singolo genere o nella sua eventuale rivisitazione, quanto nelle possibili sovrapposizioni tra vari generi18. E quelli che più si prestano a questo tipo di operazione sono senza dubbio l’horror, il noir (con l’aggiunta del thriller) e il melodramma. In un noto saggio, Linda Williams confrontava horror, melodramma e pornografia in quanto generi che per antonomasia si fondano su tipiche strutture rappresentative e percettive legate al corpo. Benché ciascuno di essi sia basato su perversioni associate al piacere della visione (sadismo per la pornografia, sadomasochismo per l’horror, masochismo per il melodramma) e sulla rappresentazione di eccessi corporei (sesso nel porno, violenza nell’horror, emozioni nel melodramma) la ricerca di tali perversioni e la reiterazione di tali eccessi non è mai considerata gratuita, ma addirittura una «forma culturale di problem solving», laddove i problemi riguardano la sfera delle nostre identità culturali e sessuali19. Film come Le conseguenze dell’amore, L’imbalsamatore, Primo amore, Occhi di cristallo, La sconosciuta, Denti, Quo vadis, baby?, La fisica dell’acqua, Una vita tranquilla, Henry imbastiscono le loro storie sulla falsariga del noir, ma poi procedono per scarti, cortocircuitando le aspettative in altre direzioni, facendo convergere gli eccessi e le perversioni sopra descritti in una zona grigia, un territorio indistinto che scivola via via verso il melodramma o l’horror, magari non conformandosi mai pienamente alle esigenze di alcuno di questi generi ma sfruttando le potenzialità espressive e i meccanismi percettivicognitivi di ciascuno. Questi meccanismi sono particolarmente evidenti in Quo vadis, baby? nella scelta di trasformare le lettere della sorella di Giorgia – elemento portante della narrazione nel romanzo di Grazia Verasani – in registrazioni su
18. G. Canova, Eppur si muove. Innovazione, rottura, discontinuità, in V. Zagarrio, op. cit., p. 33. 19. Cfr. L. Williams, Film Bodies: Gender, Genre, and Excess, in «Film Quarterly», n. 44/4, estate 1991, pp. 2-13. PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
«DI GENERE»
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VHS. Specificità dei due media a parte, la presenza del VHS consente a Salvatores di aggiungere un secondo livello (sia spaziale che temporale) nella rappresentazione visiva che non solo accresce l’ironia drammatica per lo scarto di informazioni fornite allo spettatore rispetto alla protagonista, ma che ne richiede anche la partecipazione attiva nel processo di significazione che culmina nel lungo piano sequenza finale. Tale coinvolgimento viene intensificato dagli sviluppi narrativi tipici del noir: la protagonista (Angela Baraldi) è una detective di professione, le cui fotografie si aggiungono alle immagini video in VHS attivando una rapporto scopofilico con l’oggetto stesso delle sue indagini. Nel noir classico teorici e critici pongono lo sguardo maschile in una posizione di controllo rispetto al corpo dei personaggi femminili. In questo caso, l’evoluzione del personaggio di Giorgia suggerisce tuttavia un’inversione dei ruoli tutta singolare: visibilmente mascolinizzata e frigida all’inizio della storia, assume un surrogato di sguardo maschile quando comincia a indagare sul passato della sorella Ada (Claudia Zanella), sottoponendosi volontariamente a un processo di scoperta tutto masochistico che, se da un lato le consente di svelare la verità circa la morte di Ada (il corpo-oggetto femminile), dall’altra la relega a sua volta a oggetto dello sguardo dell’apparato filmico. Tale processo, per quanto doloroso, la porta comunque a recuperare una soggettività finora decisamente repressa da un rapporto padre/figlie freudianamente causa di traumi ed evidenti castrazioni. Inoltre, il livello metalinguistico del film affronta un argomento delicato come la morte – tanto più drammatico in quanto causata da un drammatico suicidio – in modo originale in quanto i video di Ada ne negano la morte come assenza dal punto di vista visivo e ne risuscitano elettronicamente il corpo, rendendolo addirittura il principale agente della narrazione e di svelamento della verità20. Un’evoluzione interessante lungo l’asse dei generi è quella di Federico Zampaglione. L’esordio nel lungometraggio con Nero bifamiliare fallisce nel suo intento di calare la commedia nera in un vortice di erotismo, mistero, ossessioni e vendette perché troppo sbilanciato verso gli stereotipi della commedia e infarcito di personaggi secondari che debordano nella macchietta, cascando sistematicamente nella tipica trappola di sceneggiatura: fornire esposizione ed elementi della cosiddetta back story ai protagonisti e, 20. Quo vadis, baby? ha successivamente fatto da apripista per l’utilizzo del genere come serbatoio di una interessante filiera romanzo/film/serie tv inaugurata da Colorado Film, il cui modello è stato immediatamente riproposto da Sky con il grande successo internazionale di Romanzo criminale. In sostanza, il romanzo fornisce il materiale narrativo di partenza, mentre il film funge da ideale pilot di lungo formato per la serie tv. 98
PAOLO RUSSO
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ovviamente, al pubblico, per riempire gap e snodi narrativi che altrimenti non risulterebbero funzionali all’intreccio. Il successivo Shadow si pone all’estremo opposto: cattivissimo thriller da incubo in cui ogni minimo aspetto della narrazione e dell’ambientazione, dalle location agli elementi della natura, contribuisce a personificare e ad accanire sul corpo dei protagonisti i fantasmi di un passato recente (gli orrori della guerra in Iraq) che non possono essere eliminati. Se da un lato questi film attivano paure, paranoie, angosce (horror, noir) che si vogliono tipiche della contemporaneità e che motiverebbero l’endemica frammentazione delle narrazioni, dall’altro inseguono il desiderio di riunione, di recupero di ciò che si è perduto, che non si risolve in un atteggiamento nostalgico ma nella necessità di colmare un’assenza (melodramma), liberi poi di interpretare tale desiderio in termini psicoanalitici – il recupero di una sessualità pre-genitale e di riunione col materno in opposizione alla paura edipica della castrazione – o in prospettiva socio-culturale associandola alla crisi di identità, della sessualità, dei rapporti e via dicendo21. Sono, questi, film in cui il Mostro non è più confinato nell’horror, nell’Altro, nel diverso, nel mondo esterno: nemmeno, ma forse a maggior ragione, in quei film in cui il genere, spesso il noir, viene utilizzato, a livello stilistico o di intreccio narrativo, per metterci a confronto con le molte realtà delle migrazioni, come nel citato La sconosciuta o in Hai paura del buio di Massimo Coppola, Sette opere di misericordia dei fratelli De Serio e La doppia ora di Giuseppe Capotondi. Lo si trova invece nelle nevrosi, nelle psicosi, nelle frustrazioni, nelle insoddisfazioni che dipingono un quadro senza dubbio patologico, spesso (ma non sempre) senza le tinte di spettacolarità di altre cinematografie – si pensi non soltanto al cinema hollywoodiano, ma alla capacità di fascinazione di certi durissimi noir francesi del nuovo millennio, come 36 Quai des Orfèvres o I fiumi di porpora – ma che, questa volta sì come in qualsiasi cinema di genere, superano barriere e confini geografici e temporali, portando in scena quel surplus di repressioni e insoddisfazioni costituenti la vera patologia che attraversa, senza soluzione di continuità, la «normalità» della nostra epoca.
21. Si confronti in proposito il citato saggio di Linda Williams con lo studio dei generi proposto da Gaylyn Studlar in Masochism and the Perverse Pleasures of the Cinema, in Bill Nichols (a cura di), Movies and Methods, University of California Press, Berkeley 1985, vol. 2, pp. 602-621. PARANOID ANDROIDS. PER UNA TEORIA DEL FILM ITALIANO
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Viaggio al termine della notte. Lo sguardo sul genere di Salvatores FRANCESCO CRISPINO
L’unico scopo dell’esistenza umana è di accendere una luce nell’oscurità dell’essere.
Carl Gustav Jung La notte segna il tempo e io da tempo ti aspetto al varco mi asciugo e poi mi inondo ti aspetto e non mi hai detto quando quando quando
Angela Baraldi, Respiro
Nero, buio. È solo il primo riflesso luminoso a farci capire che siamo imprigionati dentro la terra. Per questo il lungo e fluido movimento ascensionale che la attraversa, sfiorandone le radici di cui è intrisa, inerpicandosi nell’angusto cunicolo in cui siamo sprofondati, assume subito la forma di un lungo respiro. Un’apnea forzata che s’interrompe nel momento in cui ritroviamo la luce. Importa poco che sia quella di una sala da pranzo agitata da una scossa di terremoto o quella che filtra attraverso le spighe di un assolato campo di grano. Importa che, tra luce e oscurità, ci sia il movimento dello sguardo. È a partire da questo emblematico stilema del cinema di Gabriele Salvatores, infatti, che si può provare a ricostruire il senso della sua enunciazione. Una marca di stile che, non a caso, identifica gli incipit di due dei suoi lungometraggi apparentemente più distanti in quanto a temi e ad aspetti formali. Eppure, o forse proprio per questo, decisivi. Perché entrambi opere-cerniera di una filmografia eclettica e diversificata. Le prime inquadrature di Sud (1993) e di Io non ho paura (2003) infatti, non solo individuano immediatamente alcune delle principali dicotomie su cui si sorregge tutto il
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suo cinema (buio/luce, interno/esterno, basso/alto, invisibile/visibile), ma ci proiettano nel tunnel1. In quella sorta di momento di sospensione spaziotemporale che, assumendo di volta in volta le forme di una galleria, di una porta, di un corridoio o di una fessura organica, mette in comunicazione due mondi opposti, due diverse dimensioni2. Il regno della notte con quello della luce, il presente con il passato, il nord con il sud, il virtuale con il reale, lo yin con lo yang. E il compito della mdp, sembra suggerire il regista, non è tanto illustrare l’attraversamento del confine (geografico, esistenziale, percettivo) tra questi due spazi; non è solo ritrarre la metanoia dei personaggi che vi hanno a che fare, quanto farci sentire il varco. Indicarci la sua presenza, rendercela familiare. Come un respiro. Se è vero che il cinema del regista napoletano-milanese è fatto di dicotomie3, varchi e attraversamenti, si può dunque provare a verificare se tali figure connotino anche il suo lavoro sui generi. Un modo di «lavorarli» che rappresenta un vero e proprio unicum nella recente produzione cinematografica italiana – e che comunque può vantare pochi illustri predecessori anche nel periodo pre-liberalizzazione dell’etere, quando cioè il cinema era il medium di riferimento e i film di genere rappresentavano la principale forma di intrattenimento popolare. Salvatores si è infatti servito di generi eterogenei, utilizzandoli sempre per portare avanti il proprio discorso. Dal musical al comico, dalla commedia al western, dalla fantascienza al giallo, dal noir al Bildungsroman (o, forse meglio, Bildungkino), ha attraversato gli ultimi trent’anni del cinema italiano da protagonista, pur con la volontà di mantenere sempre una posizione eccentrica, isolata come gli spazi protagonisti dei suoi film, rispetto alla centralità produttiva4. E l’ha fatto elaborando uno stile in perfetta simbiosi con il proprio metodo di lavoro, che parte dalle determinazioni dei generi (anche quelli raramente frequentati dal cinema italiano, e quindi apparentemente lontani dalla nostra cultura) per in1. Cfr. L. Malavasi, Gabriele Salvatores, Il castoro cinema, Milano 2005, p. 34. 2. Il passaggio tra due dimensioni, d’altronde, è uno dei temi originari dell’enunciazione del regista. Come spiega lo stesso Salvatores infatti, il Teatro dell’Elfo – che fonda insieme a Ferdinando Bruni nel 1973 – è un evidente omaggio a Shakespeare e ad uno dei suoi temi fondamentali: «il passaggio di alcuni personaggi da una situazione di tranquillità a una in cui accade qualcosa – una tempesta, un viaggio, una morte, etc. – che ti costringe a entrare in una dimensione completamente sconosciuta e opposta a quella di partenza»; ivi, p. 8. 3. Pur essendo nato a Napoli, Salvatores si è trasferito ben presto nel capoluogo lombardo. Anche se è dunque giusto considerarlo appartenente all’aerea culturale milanese, già nella sua biografia è iscritta la prima delle dicotomie (nord/sud) che caratterizzano il suo cinema. 4. Basti pensare al rifiuto di spostarsi a Hollywood dopo l’insperato Oscar a Mediterraneo, per rimanere in Italia e realizzare un film (Sud) con budget minore, più sperimentale e decisamente in controtendenza rispetto ai suoi lavori precedenti . 102
FRANCESCO CRISPINO
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trodurvi modifiche, contaminazioni, prospettive diverse. Uno stile che ha sempre tentato – spesso riuscendoci – di coniugare spinte conservatrici e tendenze innovatrici, entertainment e sperimentazione, la narrazione «forte» del cinema classico con quella «debole» del cinema (post)moderno. Se dunque il genere ha rappresentato il terreno dove questa coniugazione fosse possibile, uno spazio riconoscibile dove organizzare il proprio discorso, provare a ripensare al suo cinema significa (anche) riconsiderare i generi utilizzati come il possibile luogo d’incontro tra pubblico (tra i diversi pubblici) ed elaborazione espressiva. Come possibile aggancio alla società, ma anche come suo inevitabile riflesso. Secondo tale prospettiva penso sia utile suddividere la sua filmografia in quattro periodi. Il primo, quello dei primi anni Ottanta, è caratterizzato dalla dissolvenza incrociata con l’attività teatrale. È il periodo del «cinema impuro»5, quello in cui il rapporto tra i medium (teatro, musica, cinema) e i rispettivi linguaggi utilizzati è in via di definizione, ma anche del rispecchiamento. I due lungometraggi che vi appartengono infatti, sono entrambi film-specchio. Sogno di una notte d’estate è un’illustrazione in chiave audiovisiva di un fortunato allestimento del (quasi) omonimo testo shakespeariano realizzato l’anno precedente al Teatro dell’Elfo; Kamikazen ultima notte a Milano la traduzione cinematografica, con trasposizione nel contesto milanese del primo berlusconismo televisivo, di un altrettanto fortunata mise en scène dell’Elfo, Comedians di Trevor Griffiths. Un musical e un film comico che, nel mantenere una linea di continuità con la ricerca intermediale del regista in una sostanziale discontinuità degli esiti e della ricerca formale, hanno in comune il tentativo di provare un aggancio «cinematografico» con un pubblico ormai risucchiato dallo schermo televisivo. Il rapporto è dunque tra un contesto spettatoriale in mutazione e due generi che fioriscono e si identificano soprattutto con la prima fase del cinema classico americano (pre-New Deal). E che Salvatores prova ad aggiornare contaminandoli con i nuovi linguaggi emergenti dal videoclip e dalla neo-televisione. Già in Kamikazen però, il tentativo di mostrare l’altra faccia del comico, quella che non arriva a Drive In6, si rivela sintomatico del suo metodo di lavoro sul genere e sull’immaginario con cui esso intende dialogare. Il comico è infatti da sempre un genere popolare, peraltro molto in vo5. Cfr. F. Casetti, Gabriele Salvatores, o del cinema impuro, in L. Miccichè (a cura di), Schermi opachi. Il cinema italiano degli anni ’80, Marsilio, Venezia 1998. 6. Drive In fu una trasmissione televisiva di grande successo che andò in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988. È considerata una delle trasmissioni più rappresentative degli anni Ottanta e uno dei programmi che maggiormente ha favorito l’ascesa della televisione commerciale. VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE. LO SGUARDO SUL GENERE DI SALVATORES
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ga negli anni in cui il nostro cinema è in pieno riflusso «malincomico». Salvatores parte dunque da un modello forte, introiettandovi anche il tipico (e vincente) schema televisivo dei monologhi comici in successione, in realtà per provare a focalizzare lo sguardo su qualcos’altro, guardare da un altro punto di vista. Per «radiografare la società dello spettacolo e i suoi fruitori nell’Italia della metà degli anni ottanta, tra cabaret e televisione commerciale»7, ma anche per ritrarre “l’altra” Milano: quella labirintica della Stazione Centrale, quella mal illuminata dei mercati generali e delle squallide sale-giochi, quella che non si riconosce nei paninari o nei primi sussulti della Lega lombarda. La prima fase del suo cinema si chiude insomma con un film che già contiene le indicazioni del metodo. Il secondo periodo va dalla fine degli anni Ottanta fino alla legittimazione internazionale, che avviene nel 1992 con l’oscar a Mediterraneo. Un quinquennio estremamente fecondo, in cui Salvatores realizza quattro film (Marrakech Express, Turné, Mediterraneo e Puerto Escondido) accomunati da molti elementi realizzativi8, oltreché tematici e formali. Forse proprio per questo a lungo causa di un’interpretazione equivoca. Troppo frettolosamente considerata come una «trilogia/tetralogia della fuga» o «del viaggio», in realtà questa fase è caratterizzata sul piano tematico da altrove (spaziali e temporali) e dal rapporto conflittuale che essi generano nei personaggi; sul piano strutturale da una prevalenza della struttura «debole», minimalista (più protagonisti, sostanzialmente passivi, finali aperti), su quella «forte» del cinema classico; e su quello narrativo da una contaminazione tra la commedia all’italiana e quella generazionale modello The Big Chill, innervata nei generi che caratterizzano la fase matura del cinema classico americano (quella post-New Deal): il buddy movie nelle declinazioni western (Marrakech e Puerto Escondido)9, melodramma (Turné) o di guerra (Mediterraneo); il road movie (Marrakech e Turné); il noir (Puerto Escondido). Sono gli anni, d’altronde, in cui la nostra cinematografia cerca di risollevarsi dal «lungo decennio grigio»10, quelli nei quali si inizia a parlare di Italian Renaissance, e che sono sostanzialmente caratterizzati dall’abbandono del ri7. L. Malavasi, op. cit., p. 41. 8. È doveroso sottolineare infatti che Marrakech Express, Turné, Mediterraneo sono gli unici film a non esser stati prodotti dalla Colorado Film, la casa di produzione fondata nel 1986 dallo stesso Salvatores insieme a Maurizio Totti e Diego Abatantuono. A questi va aggiunto anche Sogno di una notte d’estate, la cui realizzazione è però precedente alla fondazione della casa di produzione. 9. Perlopiù il buddy movie viene associato ai film in cui è centrale l’amicizia tra due personaggi (in questo caso solo Turnè rientrerebbe nella categoria); in realtà la sua accezione riguarda anche amicizie di gruppi più estesi (come in Marrakech Express e Mediterraneo). 10. Cfr. L. Miccichè, Il lungo decennio grigio, in Id. (a cura di), Schermi opachi, cit. 104
FRANCESCO CRISPINO
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piegamento riflessivo in favore di un «nuovo» atteggiamento verso lo spettatore, ormai completamente «televisizzato». In questo senso l’operazione cinematografica di Salvatores – recuperare il rapporto con il pubblico a partire da modelli, schemi narrativi, generi riconoscibili, nei quali inserire personaggi-persone con bisogni moderni, raccontati con un linguaggio sostanzialmente classico – appare oggi molto più nitida di quello che sembrò allora. Come il secondo, anche il terzo periodo consta di quattro film (Sud, Nirvana, Denti, Amnèsia), anche se, differentemente dal precedente, il tempo di realizzazione tra un titolo e l’altro è molto più dilatato e copre circa un decennio. È un periodo segnato dall’allargarsi dell’orizzonte spettatoriale post-oscar, con produzioni più ambiziose che guardano oltreconfine11, ma anche dallo sperimentalismo. Uno sperimentalismo che riguarda aspetti tecnici come il montaggio (Sud è il primo film italiano montato interamente con Avid) e la computer graphics (Nirvana il primo con una parte consistente di effetti visivi digitali made in Italy), e linguistici (la mdp è sempre più mobile, frutto di un utilizzo sempre più consistente della steadycam); ma che si riflette inevitabilmente anche nell’affabulazione, sempre più stratificata (con Denti che segna il vertice di questa ricerca), destrutturata, alla ricerca del punto di vista giusto (Amnèsia). Rispetto al precedente, questo è un periodo più dark, in cui prevalgono gli aspetti notturni e vengono smorzati i toni della commedia; e dove i generi presi a prestito sono, non a caso, quelli che aprono la postmodernità: il western politico (Sud), la fantascienza (Nirvana), il thriller psicanalitico (Denti). A cui si aggiunge anche il giallo «black» e «rosa» di Amnèsia che, sorta di «quarto escluso» del periodo, esattamente come Puerto escondido lo è per quello precedente12, completa la serie e la chiude. Consentendo così di leggerla nella sua complessità, ma anche nella sua compattezza di ricerca tecnico-linguistica in chiave paneuropea. Il film ambientato a Ibiza, peraltro, contiene già il tema che diventerà centrale nel quarto periodo. Il rapporto tra genitori-figli caratterizza infatti sia direttamente i tre lungometraggi successivi (Io non ho paura, Quo va11. È da interpretare in questo senso il ricorso a star internazionali (Christopher Lambert ed Emmanuelle Seigner in Nirvana) e il tentativo di assortire cast europei (Amnèsia). 12. Nello schema «del quarto escluso» Reinhard Brandt individua il principio ordinatore della cultura europea: tre dee si sottopongono al giudizio di un quarto, Paride; tre stati (nobiltà, clero, e borghesia) s’inchinano a un quarto, il Re; tre moschettieri presuppongono e contemporaneamente escludono il quarto, D’Artagnan. Cfr. R. Brandt, D’Artagnan und die Urteilstafel, F. Steiner Verlag Wiesbaden, Stuttgart 1991; trad. It.: D’Artagnan o il quarto escluso. Su un principio d’ordine della storia culturale europea 1,2,3/4, Feltrinelli, Milano 1998. VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE. LO SGUARDO SUL GENERE DI SALVATORES
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dis, baby? e Come Dio comanda) e il cortometraggio del 2009 (Stella), sia indirettamente l’ultimo dei lungometraggi realizzati fin qui da Salvatores (Happy Family13). È questa una fase in cui si accentuano ancor di più le connotazioni dark – con parti notturne sempre più estese, cui si affianca una nuova passione per la pioggia (proprio una pioggia notturna assurge a vero e proprio elemento drammaturgico in Come Dio comanda14) – e dove il noir si mescola al Bildungsroman, laddove il primo è preso come pretesto per un’indagine sociale, il secondo per tentare di analizzare il confronto generazionale. Tra storie archetipiche e tensioni sperimentali (l’HD di Quo vadis, baby?), in un’alternanza di ambientazioni urbane ed extraurbane, qui il punto di vista sembra in bilico, sospeso tra l’essere dentro o fuori dalla diegesi, tra latente e manifesto. Quello fin qui caratterizzato dal dittico tratto da – e con la collaborazione di – Niccolò Ammaniti, è però anche il periodo più «teorico» di Salvatores, dove la riflessione sul cinema, sulla sua funzione oggi15, sullo statuto dell’immagine e sulla funzione spettatoriale, sul pirandelliano rapporto tra l’autore e i suoi personaggi nell’epoca dei new media (Happy Family) assume un valore rilevante, talvolta primario (Quo vadis, baby?). Un periodo che non sappiamo ancora dove porterà (sono convinto infatti che il suo prossimo film, Educazione siberiana – in lavorazione al momento in cui scrivo –, apra un nuovo ciclo), ma in cui questa riflessione diventa centrale. Qui infatti l’immagine diventa il punto di raccordo tra le domande dell’individuo e le manifestazioni di una società sempre più nera e indecifrabile, dove il filmare coniuga l’esperienza conoscitiva alla funzione pedagogica. È la fase in cui, in una società sempre più oscura, il cinema rimane il mezzo per farci intravedere l’apertura, può diventare il respiro dell’individuo per non avere più paura. Quattro periodi con molte differenze, ma anche con alcune caratteristiche comuni. Prima, nonché matrice, di tutte è quella che identifica il cinema come esperienza di sintesi. Una sintesi che, inizialmente, unisce musica e teatro, spettatore cinematografico e spettatore televisivo, ma che caratterizza anche il modo di «lavorare» sui generi, tonificandone il «corpo flaccido» (Canova). Generi che sono attraversati nella loro storia e nella loro 13. Come suggerisce il titolo d’altronde, Happy Family mette al centro il rapporto genitoriale su più livelli. Non solo quello familiare tra il protagonista e la bizzarra madre interpretata da Sandra Milo, ma anche quello tra lui stesso come autore e le sue «creazioni». 14. In realtà la pioggia notturna come elemento drammaturgico è già nell’omonimo romanzo da cui il film è tratto. La scrittura di Niccolò Ammaniti, d’altronde, ha un alto tasso di «cinematograficità»; cfr. F. Crispino, Sguardi dal ponte; cfr. infra pp. 204-211. 15. «Credo che oggi il cinema debba spostarsi più verso la poesia e meno verso il romanzo, filmare l’invisibile», intervista a Gabriele Salvatores in L. Malavasi, op. cit., p. 9. 106
FRANCESCO CRISPINO
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evoluzione, cercando sempre un punto di contatto tra grande narrazione americana e sguardo europeo. Nel suo percorso cinematografico infatti il dialogo tra lo schema del genere e l’elaborazione espressiva non è mai sterile, autoreferenziale o fine a se stesso, nemmeno nei suoi esiti meno convincenti. Il suo sembra proprio il caso dell’autore/mediatore in grado di confrontarsi con la nuova spettatorialità partendo dai grandi modelli narrativi16, del problem solver pronto a rapportarsi con un contesto produttivoistituzionale sempre più sfuggente e senza mai rinunciare alla ricerca e alla sperimentazione. Un modello di autore che, oltre a produrre e realizzare i propri film, dialoghi con la realtà pur mantenendo una propria visione sul cinema, e quindi sul mondo. Un cinema-mondo che usa il genere per mostrare il varco. E lo sguardo per attraversarlo.
16. In tal senso faccio mia una delle proposte che vengono da Francesco Casetti e Ruggero Eugeni nell’introduzione al fondamentale libro di Rick Altman sui generi; cfr. R. Altman, Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano 2004. VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE. LO SGUARDO SUL GENERE DI SALVATORES
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Mazzacurati: fra commedia e noir BARBARA CORSI
Carlo Mazzacurati è persona colta e gentile. Di buona famiglia padovana, ha assorbito dalle sue origini una cultura letteraria, figurativa e cinematografica «tranquillamente» sedimentata e rielaborata – mai esibita – e gli umori nebbiosi di una provincia che torna sempre come punto di riferimento nei suoi film. Le passioni di cui si è nutrito il ragazzo Carlo sono lì in evidenza nella sua filmografia – il romanzo d’avventura, il noir, il grande cinema italiano degli anni Sessanta e quello classico americano – ma ogni riferimento ai generi preferiti, letterari e cinematografici, è filtrato attraverso una sensibilità malinconica che ne smussa i contorni e i toni più decisi. Nei suoi film non troverete mai i personaggi tipici che caratterizzano un filone o una tendenza: il cinico senza redenzione, l’eroe privo di macchia o lo humour grottesco e sopra le righe dell’amato cinema slavo, ma piuttosto piccoli uomini inadeguati a raggiungere il loro obiettivo, immersi in atmosfere sospese o surreali che virano spesso nei toni di una ballata dedicata al loser, vera figura centrale del cinema di Mazzacurati. È un perdente Otello di Notte italiana nella sua onesta ricerca della verità; lo sono Saverio di Un’altra vita e Antonio di Vesna va veloce, nel loro impossibile amore per donne di un altro mondo, lo sono più che mai i protagonisti de La lingua del santo e A cavallo della tigre, marginali del crimine che si attirano addosso punizioni più grandi delle loro colpe. A questi losers il regista riserva un posto da protagonisti e un’attenzione alle motivazioni dei loro comportamenti, che non può non tener conto dell’ambiente in cui si muovono. Questo sguardo umanistico e tollerante verso gli sfortunati e i poco dotati di italiche furbizie, è ciò che maggiormente allontana il cinema di Mazzacurati dalla commedia all’italiana, un genere che è comunque alla base della sua formazione professionale, grazie al diretto magistero di Scarpelli, frequentato da studente del Dams con la scusa di una tesi sulla sceneggiatu-
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ra. Personaggi e situazioni di quel particolare modo di rappresentare il Paese che ha segnato il nostro immaginario e l’immagine dell’italiano nel mondo tornano spesso nei suoi film come riferimento consapevole e traslato, mai come semplificata applicazione di uno schema o come vezzo citazionista: un peccato di cui sicuramente – e fortunatamente – Mazzacurati non si è mai macchiato. È impossibile, ad esempio, non pensare alla coppia de Il sorpasso di fronte alla strana alchimia maschile di Saverio e Mauro in Un’altra vita. Il dentista timido e onesto e il capo di una piccola banda di criminali con manie di grandezza, ripetono a trent’anni di distanza le anarchiche scorribande in auto dei loro predecessori, in un percorso che invece di snodarsi lungo il nastro stradale dell’Aurelia, si avvita su se stesso in una metropoli sfigurata nell’urbanistica e nel paesaggio umano. Lontanissimo dalla complicità che la commedia all’italiana classica riserva agli individualisti poco rispettosi delle regole, Mazzacurati mette a nudo le debolezze di Mauro e Saverio come due facce complementari di un identico fallimento morale. Il personaggio catalizzante del film è in realtà una donna, Alia, che rifiuta entrambi gli uomini e i modelli di vita che le offrono. Alia e le sue compagne – Vesna, Mara de La giusta distanza e perfino Antonella di A cavallo della tigre – sono donne che resistono tenacemente a logiche maschili per migliorare la propria vita con ogni mezzo o semplicemente per rimanere se stesse. Ed è paradossale che in un cinema così maschile, spesso basato sulla dinamica della coppia di uomini, come quello di Mazzacurati, sia la figura femminile la forza propulsiva che spinge avanti la storia, e in fondo la vita. Nel caso di Un’altra vita, la presenza – o meglio l’assenza – della donna imprime alla storia una più decisa svolta verso il melodramma, all’interno di una struttura narrativa difficilmente classificabile, che contiene in sé riferimenti al cinema del passato, alla realtà del presente e al più classico schema del triangolo amoroso. Un «sincretismo rischioso» definiva Paolo Vecchi la capacità di Mazzacurati in Notte italiana di fondere insieme codici cinematografici tradizionali e un modo di raccontare che tende all’astrazione1. La definizione si potrebbe estendere a tutto il cinema dell’autore padovano, che confessa la propria poetica quando dichiara che il suo primo mediometraggio Vagabondi «era il tentativo di intrecciare un noir di tipo tradizionale con elementi e personaggi che avessero delle radici nella realtà di questo paese»2. 1. 2. 110
P. Vecchi, Notte Italiana. Gente del Po (e di altri lidi), in «Cineforum», n. 269, novembre 1987. A. Filippi, Carlo Mazzacurati, collana Quaderni del Cinestate, n. 5, San Gimignano 1995. BARBARA CORSI
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In tutta la filmografia di Mazzacurati il riferimento alle «radici» è costante: radici storiche, culturali, o più tragicamente assenza di radici. I personaggi che si muovono nella complessa e contraddittoria realtà di oggi attingono gesti e (in)capacità di relazione col mondo da ciò che è stato appena ieri, dai valori morali o dai disvalori che hanno guidato la ricostruzione dell’Italia negli anni del boom. Lo speculatore compromesso col potere di Notte italiana è una delle piaghe originate da quegli errori, così come Guido e Antonella di A cavallo della tigre sono il prodotto del vuoto mentale e culturale nel quale questo Paese è precipitato quando ha eletto a suo unico obiettivo il successo economico. Per compiere questa radiografia del male presente e metterla a confronto col passato, Mazzacurati trova uno strumento congeniale nel genere noir, studiato e sperimentato fin dagli inizi della carriera. L’autore ha infatti appreso i meccanismi della sceneggiatura scrivendo le trame per una trasmissione televisiva di gialli, e i suoi esordi sono segnati dall’evidente amore per il noir americano. Nell’ideare il personaggio dell’avvocato Morsiani, il regista dice di aver avuto come modello Spencer Tracy, anche se il suo orizzonte, lungi dall’essere metropolitano, è fin dal primo film consapevolmente e fieramente provinciale. «Osservo il mondo da un’angolatura provinciale… Le province sono una specie di unico luogo: è un modo di stare al mondo»3, dice Mazzacurati citando non a caso come esempio a lui vicino il cinema dei fratelli Coen, nel quale sicuramente riconosce lo stesso terreno di cultura di certi suoi personaggi. A parte Un’altra vita, che esprime comunque, per sua stessa ammissione, il disagio di un provinciale verso la grande città, tutti i film di Mazzacurati sono ambientati in provincia, comprendendo nella definizione geografica e umana anche quelle province dell’est europeo che con l’apertura dei confini sono diventate appendici del nostro Paese. Nella provincia di Mazzacurati abita un male ordinario, banale, che permea ambienti e persone e si stende su tutto come una coltre di nebbia. Sarà per la complicità suggestiva di questo agente meteorologico che i suoi due film più propriamente noir sono ambientati nella pianura padana e in particolare sul Delta del Po, un luogo dai confini indefiniti fra mare, terra e fiume. Qui a vent’anni di distanza da Notte italiana, e con uno sguardo più lucido e disperato, Mazzacurati colloca la storia di Mara e del suo assurdo delitto. Tanti dettagli ne La giusta distanza raccontano il mutamento avvenuto in questo lembo del nord-est in due decenni: il benessere esibito con gli sta3.
Intervista di Edoardo Semmola, www.alteredo.org. MAZZACURATI: FRA COMMEDIA E NOIR
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tus symbol di auto e barche, l’immigrazione dalle sue molte facce – la moglie fatta arrivare dall’est, i cinesi schiavi – la sorda ostilità della piccola comunità verso gli «stranieri» di tutti i tipi. Come scrive Mara in una mail, dietro l’apparente accoglienza regna la solitudine. Privata del tradizionale collante culturale, la comunità reagisce a ciò che non riesce a comprendere con elementare istinto di violenza. Vittime predestinate: donne e immigrati. L’arrivo di Mara in paese racconta già tutto, con quell’autobus quasi «incontrato» per caso dalla mdp in volo e seguito fino alla fermata, dove Mara saluta quello che sarà il suo assassino e si incammina sulla via principale osservata da tutti. Se la presentazione della protagonista introduce una tensione erotica che si intuisce fatale, sono molti gli elementi di inquietudine che Mazzacurati dissemina nel racconto per costruire l’atmosfera noir, dal mistero dei cani sgozzati, alla casa isolata nel bosco e assediata da sguardi indiscreti nel buio. L’investigazione è poi affidata a un giornalista, seppur ragazzo: una professione a cui spesso il cinema di genere ha affidato il compito di rivelare la verità. Questa arriva a pochi minuti dalla fine, introdotta da un montaggio che in modo altrettanto classico addensa i sospetti su un – fin troppo – finto colpevole. Ciò che invece induce nello spettatore il sospetto che in fondo a Mazzacurati interessi poco la dinamica del giallo, è il fatto che la soluzione arrivi così veloce e così prevedibile – il classico bravo ragazzo del paese tradito da una telefonata – e che la parte dedicata all’indagine occupi una porzione poco significativa nell’economia del film, sia per la durata (l’omicidio arriva a due terzi del film) che per il peso narrativo. Usando molto liberamente e senza soggezione i codici del noir, il regista non rispetta i tempi e il climax tipici del genere, scegliendo di neutralizzarne le potenzialità drammatiche. Allo stesso modo ammorbidisce i chiaroscuri e i contorni netti del male, senza tuttavia mai annullare la distinzione fra persone mosse da pulsioni di ordinaria rapacità e altre guidate da un’etica e una partecipazione civile, che sono l’esatto contrario della «giusta distanza» cui si riferisce il titolo del suo film più bello. Il suo è uno sguardo morale, espressione di disagio verso un mondo divenuto incomprensibile, verso una modernità priva di umanità.
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BARBARA CORSI
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Romanzo criminale: il poliziesco è morto, viva il poliziesco! LUCA PALLANCH
Prima di procedere a una qualsiasi riflessione sulle contaminazioni fra il cinema italiano contemporaneo e i generi che hanno determinato il successo dell’industria cinematografica nazionale dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta, occorre fare una distinzione all’interno degli stessi generi, per valutarne il grado di perdurante vitalità. Mentre, infatti, il thriller e l’horror hanno conservato un impatto profondo sul pubblico, trovando anche nei decenni successivi nuove forme espressive, generi come il peplum, il western e lo spionistico hanno “ballato” una sola stagione, più o meno lunga, in corrispondenza di fenomeni sociali e politici, la cui influenza sul cinema di genere coevo non è mai stata sufficientemente analizzata. Resistendo qui alla tentazione di scrivere degli appunti per una controstoria del cinema italiano, ovviamente rivisto dal basso, ovvero dall’altezza di una macchina da presa che catturava la realtà di riflesso, non possiamo non osservare che proprio i generi apparentemente meno legati alle situazioni circostanti si sono dissolti o hanno mutato pelle (è il caso del western e delle sue revisioni in chiave politica) non appena si è affacciato all’orizzonte il «fantasma della libertà», ovvero il ’68. Come dire che nell’era del boom si poteva giocare agli Ercole e ai Maciste, agli 007 e agli 008, ai Ringo e ai Sartana, ma quando il gioco si fa duro bisogna rientrare nei ranghi e raccontare la realtà. In una duplice prospettiva: da un lato con l’esplosione di un nuovo cinema d’autore, che non è altro che la consapevolezza di una generazione di giovani registi di raccontarsi e di raccontare quanto accade attorno a loro (tutto il nuovo cinema italiano nato – e morto – attorno al ’68 ha pretese autoriali, se non si ha la capacità di rileggerlo alla luce di un sistema produttivo che favoriva gli esordienti e ne metabolizzava le ansie rivoluzionarie), dall’altro con la grande capacità di una schiera di artigiani di lasciare le praterie e i sogni di cinema per consegnarsi anch’essi alla realtà, tanto aborrita per un decennio (solo
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Sergio Leone continuerà a tenersene lontano). L’esplosione del thriller e poi del poliziesco, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, è il punto di non ritorno: vi abbiamo fatto giocare con le colonne di cartapesta, con le 500 superaccessiorate, modello James Tont, con i duelli e le rese dei conti, adesso la gente si ritrae e ha paura e il cinema di genere deve alimentare e provocare questo stato d’animo. Oppure, in una diversa lettura, registrare e portare alla luce tensioni nascoste nella società utilizzando i modelli forniti dal cinema americano (La notte dei morti viventi di George A. Romero, 1968, Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo di Don Siegel, 1971, Il giustiziere della notte di Michael Winner, 1974). Il cinema di genere è il mezzo per veicolare sentimenti popolari: come in America negli anni Cinquanta l’atmosfera creata dalla guerra fredda è tutt’uno con l’esplosione del cinema di fantascienza (la minaccia che proviene da altri mondi), così l’Italia che scopre la paura si riflette ed è riflessa dal thriller e dal poliziesco. Non si può raccontare la lunga stagione degli anni di piombo se non si tiene conto del modo con cui è stata trasposta sul grande schermo, soprattutto dai registi di genere, in nome e in virtù di quel concetto di cinema popolare che attraversa tutta la storia del cinema italiano (ancor oggi riadattato nelle formule, più o meno vincenti, del cine-panettone). Sono proprio i registi di genere che hanno il polso della situazione, perché nell’ansia di arrivare direttamente al pubblico, senza filtri intellettualoidi, raccontano il loro tempo senza averne la pretesa. Non esiste un film di genere che descriva un fenomeno nella sua interezza, impossibile trovare un corrispondente di un C’eravamo tanto amati (di Ettore Scola, 1974), ogni film, però, aggiunge un piccolo tassello al mosaico che complessivamente si va componendo. Semmai si ripetono le situazioni, gli eventi (le rapine in banca, i sequestri, le violenze), tanto da poter codificare un genere secondo precisi modelli narrativi; gli stessi riferimenti alla realtà, laddove prevale il dato di cronaca, sono disseminati nel racconto. Nessuno persegue la verosimiglianza, anche quando i film rinviano a situazioni reali. Emblematico è il caso de La banda Vallanzasca di Mario Bianchi (1977): nato, forse, come un instant movie (ma la sensazione, vedendolo, è piuttosto di un adattamento di un trattamento preesistente ai fatti di cronaca nera), si trasforma nell’ennesima variazione sul tema del «poliziesco», adombrando nel finale, con l’uccisione del bandito protagonista del film, trame occulte, che, con il senno di poi, si rivelano ben più realistiche dell’intera vicenda narrata. Lo stesso dicasi per l’omologo La belva col mitra di Sergio Grieco (1977), celebrato poi da Quentin Tarantino in Jackie Brown (1997), in una lettura cinefila ben più azzeccata di qualsiasi rilettura realistica. O per i film che evocano il de114
LUCA PALLANCH
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litto del Circeo (I ragazzi della Roma violenta di Renato Savino, 1976; Roma, l’altra faccia della violenza di Franco Martinelli, alias Marino Girolami, 1976; I violenti di Roma bene di Segri & Ferrara, alias Sergio Grieco e Massimo Felisatti, 1976): la realtà nuda e cruda è solo un pretesto cui ancorarsi per sollecitare ancor più la paura dilagante, ma in verità non occorre riprodurre fedelmente la cronaca nera, per renderla cinematografica si può lavorare di fantasia, prendere spunto e accentuare. Senza un disegno unitario, mai con la volontà di andare oltre la singola storia, di raccontare scenari più ampi, di riflettere sulla situazione socio-politica in maniera compiuta: la logica è quella di inseguire la realtà a cui ancorarsi piuttosto che di decifrarla, di raccontarla piuttosto che di analizzarla. Ma del resto registi ben più ambiziosi in quegli anni persero la sfida con il (loro) tempo e, sia pure per brandelli, rivisti oggi, i film polizieschi ci restituiscono l’atmosfera degli anni Settanta: gli stati d’animo della gente, il clima di terrore, l’angoscia contagiosa, il senso di precarietà si sono incollati alla pellicola e possiamo ancora percepirli. Fra le pieghe di una macchina cinema allora ancora attiva e in grado quindi di imporre degli eroi metropolitani in sostituzione dei culturisti, degli agenti segreti e dei (finti) cowboy. I caratteristi (Robert Hundar, Biagio Pelligra, Bruno Corazzari, Adolfo Lastretti, Elio Zamuto, Luciano Catenacci, Enzo Pulcrano, Bruno Di Luia) più degli stessi protagonisti del poliziesco hanno le facce tipiche degli anni Settanta, sono uno spaccato dell’epoca. Torniamo ai nostri giorni proprio partendo da queste facce. Quando si è cominciato a parlare di una trasposizione cinematografica del libro Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo (2002), è stato naturale pensare al vecchio, caro poliziesco. Si era osato sperare che a dirigerlo fosse Umberto Lenzi, regista amato da De Cataldo e quanto mai adatto, visti non solo i precedenti (Roma a mano armata, 1976, è uno dei pochi film che offre una visione multiforme del fenomeno della criminalità negli anni Settanta), ma anche le sue conoscenze e capacità letterarie (poi rivelate dalla serie di romanzi ambientati nel mondo del cinema durante il Ventennio e nel primo dopoguerra). Anche perché Lenzi era stato l’unico che, a posteriori, la banda della Magliana era riuscito quantomeno a evocarla. Non certo con il personaggio del gobbo, che aveva altre e più antiche ascendenze, ma con Luigi Maietto detto il cinese de Il cinico, l’infame e il violento (1977): la scena dell’incontro fra il cinese e l’italo-americano Frank Di Maggio per dividersi Roma in un ritrovo ben poco frequentato (realmente, non solo nella finzione cinematografica) sulle rive del Tevere è un incipit analogo a quello del film Romanzo criminale (2005). Dopo la mattanza iniziale anche lì si pone l’esigenza da parte dei «giovani leoni» della mala di venire a patti con un boss già afferROMANZO CRIMINALE: IL POLIZIESCO È MORTO, VIVA IL POLIZIESCO!
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mato, salvo poi eliminarlo sulla scalinata di Trinità dei Monti. Ma in realtà della famigerata banda della Magliana nel cinema degli anni Settanta e Ottanta non v’è traccia e inevitabilmente, in mancanza di precedenti, la prima operazione compiuta sulle loro gesta criminali è stata una sorta di mitizzazione. Vedendo Romanzo criminale e ripensando al mosaico tessuto dall’intero cinema poliziesco non si può non avvertire un senso di vertigine: perché o il primo mistifica la realtà conferendo alla banda della Magliana un rilievo che nel cuore degli anni Settanta non era poi così determinante (tutta la storia d’Italia di quel periodo sembra ruotare attorno ai tre protagonisti, il Freddo, il Libanese e il Dandi), oppure il cinema poliziesco, a posteriori, ha completamente fallito nel riprodurre o semplicemente evocare la realtà. Romanzo criminale svelerebbe e dimostrerebbe il totale fallimento di un intero genere, l’incapacità di registi e sceneggiatori, ciechi di fronte a un fenomeno di dimensioni così eclatanti. Da una parte Romanzo criminale persegue anch’esso la via delle trame oscure, con cui il poliziesco non ha mancato di confrontarsi (La polizia accusa: il servizio segreto uccide, 1975, e Milano trema: la polizia vuole giustizia, 1973, di Sergio Martino; La polizia ha le mani legate di Luciano Ercoli, 1975; La polizia interviene: ordine di uccidere!, 1975, di Giuseppe Rosati), ma dall’altra fa riferimenti a fatti di cronaca così drammatici da non poter passare sotto silenzio all’epoca. C’è questo apparente contrasto, che ha un suo fascino, specie se si rovescia la questione: da un lato abbiamo film che, bene o male, registravano il disagio diffuso nella società, dall’altro c’è un film (e prima un libro) che fin dal titolo, Romanzo criminale, attesta la propria vocazione romanzesca. Il libro e il film non sono la storia fedele della banda della Magliana, traggono ispirazione da vicende reali e le trasformano in una «ballata», fortemente legata alla dimensione del mito, sia pure maledetto (la scena iniziale del film con i protagonisti da bambini, che si salda con la scena finale, a chiudere il cerchio, citazione-omaggio di C’era una volta in America di Sergio Leone, 1984). Più che la cronaca dettagliata degli accadimenti, persegue quella visione unitaria che era stata evitata (o mancata) dai registi del poliziesco, soprattutto il disegno complessivo, ciò che si celava dietro le rapine e gli omicidi. Tolta la maschera accattivante e di presa sul pubblico (anche Romanzo criminale si inserisce nel cinema popolare, fin dal titolo che richiama Romanzo popolare di Mario Monicelli, 1974, definito, non a caso, da Morando Morandini: «tipico film nazional-popolare nel senso migliore»), siamo in pieno cinema di denuncia, alla Francesco Rosi, alla Elio Petri, alla Damiano Damiani. Non a caso il film doveva essere diretto da Marco Tullio Giordana, erede con I cento passi (2000) di quel cinema, e autore recentemente di un 116
LUCA PALLANCH
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altro romanzo, quello sulla strage di Piazza Fontana, il quale con Pasolini. Un delitto italiano (1995) ci ha regalato la più coinvolgente e nostalgica operazione di casting sui volti anni Settanta. Ed è poi passato a Michele Placido, protagonista, nella parte di un poliziotto, proprio di Romanzo popolare. Il suo Romanzo criminale è cinema (nazional)popolare sì, di genere no, a meno di non voler trovare delle ascendenze con certo cinema francese. Non vi è neppure un gioco cinefilo, postmoderno o tarantiniano che dir si voglia, di rilettura del poliziesco: nessun inseguimento, nessuna rapina con il volto coperto, per non parlare di alfe, alfette, giulie e giuliette (pensiamo invece al mediometraggio Calibro 70 di Alessandro Rota, 2008, vera e propria rielaborazione del poliziesco), poco colore anni Settanta, solo il punto di ritrovo della banda riecheggia i locali dell’epoca, immancabili nei film di genere. L’unico vero legame è il lavoro sui caratteristi, sulle facce, mentre gli stessi protagonisti, per quanto bravissimi (Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria), non sono meno eroici dei divi del poliziesco Maurizio Merli, Tomas Milián e Luc Merenda. Gli uni e gli altri così poco realistici, se confrontati con i veri volti dei criminali dell’epoca, a confermare che i meccanismi che presiedono alla realizzazione dei film sono sempre gli stessi: si parte da esigenze di star system e poi attorno si può osare una ricerca sulla realtà. La sensazione è che proprio la forza imperante di quei meccanismi abbia reso romanzeschi anche i polizieschi e che l’intero genere sia stato prima di tutto un fenomeno produttivo, così come Romanzo criminale è stato un fenomeno editoriale prima, cinematografico poi, televisivo ora, e che da un passaggio all’altro muti solamente la percentuale di romanzesco. Più che di contaminazioni con il cinema di genere (ben più presenti invece ne L’odore della notte di Claudio Caligari, 1998, che rappresenta un tentativo di raccontare negli anni Novanta una storia da poliziesco anni Settanta), siamo in presenza di una scissione della realtà: nel senso che Romanzo criminale e il poliziesco hanno in comune solamente il medesimo periodo storico (e in parte, perché le vicende di Romanzo criminale proseguono fin dopo la caduta del muro di Berlino, legandosi così a scenari internazionali), trattano realtà paradossalmente contigue, ma diverse, come se sotto lo strato evidenziato da decine di polizieschi si nascondesse un fenomeno unitario, addirittura centrale nella storia del nostro Paese, a voler sposare le tesi del film e del libro. Un dilemma da consegnare a qualche storico di buona volontà, perdurando il sospetto che il potere mistificatorio del cinema sia riuscito ancora una volta a piegare la realtà, qualunque essa sia, ai propri interessi. E che in fondo, di cinema si tratti, nell’uno e nell’altro caso. Con buona pace di quanti si interrogano sui gradi di separazione dalla realtà. ROMANZO CRIMINALE: IL POLIZIESCO È MORTO, VIVA IL POLIZIESCO!
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Attori e attrici
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Il volto sulla maschera PIERO SPILA
In Buongiorno, notte di Marco Bellocchio l’Aldo Moro interpretato da Roberto Herlitzka parla con l’accento piemontese, si muove con gesti lenti ma non melliflui, ha un modo di esprimersi asciutto, diretto, mai involuto. Sul volto non ha nessuna traccia di trucco che lo faccia assomigliare alle polaroid dell’uomo politico, vere, pubblicate sui giornali nei giorni del sequestro e visibili in alcune scene del film. Da una parte il personaggio storico, con la sua identità indiscutibile, dall’altra, sullo schermo, un attore che lo impersona senza il bisogno di travestimenti, solo con il suo corpo, la sua voce, la sua verità esemplarmente esibita davanti alla macchina da presa. Se si pensa all’Aldo Moro interpretato quasi come una maschera da Gian Maria Volonté ne Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o ancora di più, dieci anni prima, in Todo Modo (1976) di Elio Petri, si comprende la discontinuità, la vera rivoluzione, operata dal film di Bellocchio, dal punto di vista delle scelte drammaturgiche, della messa in scena e ovviamente della recitazione degli attori. Eppure, nei giorni dell’uscita del film, si è discusso quasi solo di verosimiglianza e attendibilità della ricostruzione politica, o sulla giustezza e l’eticità delle posizioni assunte dal regista, mentre quasi nessuno ha sottolineato l’autentica novità dell’opera, che riguardava appunto il lavoro degli attori. In realtà, Herlitzka, ma anche Luigi Lo Cascio nello stesso film (e in altri), hanno reso in maniera solo più evidente quella che da un po’ di tempo è una realtà del nostro cosiddetto cinema «civile» ed è diventata una modalità espressiva dell’ultima e più rappresentativa generazione di interpreti: Luigi Lo Cascio certo, ma anche Fabrizio Gifuni, Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno, Filippo Timi (con il suo Mussolini di Vincere sempre diretto da Marco Bellocchio) o anche Toni Servillo, nella sua sovraesposta interpretazione di Andreotti in Il divo di Paolo Sorrentino.
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Una discontinuità forte, nel «cinema civile» italiano, che non nasce evidentemente per caso, ma riguarda lo stato del nostro Paese e il modo di guardarlo e raccontarlo. Una discontinuità che coinvolge registi, sceneggiatori, attori, e che ha consentito di chiudere forse per sempre una stagione formidabile (quella dei film di Francesco Rosi, Elio Petri e Gian Maria Volonté) e inaugurarne una nuova, certo dai confini più indefiniti, meno schematica e rassicurante, controversa e quindi discutibile. Per restare a Marco Bellocchio, basterebbe mettere a confronto un suo vecchio film, Marcia trionfale (1976), feroce e veemente pamphlet sull’istituzione militare, con i successivi Buongiorno, notte (2003), analisi introversa, notturna, quasi intimista, della follia brigatista, e Vincere (2009), melodrammatica ed ellittica parabola sul potere, per comprendere come a cambiare radicalmente, in fondo, siano solo il modello rappresentativo e la struttura linguistica adottata, mentre restano quasi immutati il materiale narrativo e la posizione ideologica dell’autore. Infatti, in Marcia trionfale, ma ancora di più in un film «civile» di qualche anno precedente come Nel nome del padre (1972), con l’inutile rivolta dei servi contro i preti-padroni, erano già evidenti certe dinamiche e certi veleni della società italiana: lo scontro sempre sul punto di esplodere tra il desiderio ed il potere, il sogno iconoclasta e la rivolta, la ragione e la follia, e dunque erano presenti anche i presupposti di quello che sarebbe poi accaduto, come nell’Italia del 1922, così nei covi br e in via Fani. A cambiare è soprattutto lo sguardo, il pudore della macchina da presa, il decentramento progressivo dell’io-narrante, sempre più laterale, sempre più esterno, ovvero la fiducia venuta meno nella capacità espressiva del testo e dell’immagine, l’impasse drammaturgica di fronte a una realtà sfuggente, indecifrabile, spesso insostenibile. Quelli che una volta erano tic deleteri, caratteri e atteggiamenti imbelli o protervi, vizi e malesseri nazionali, segnali di una patologia morale da irridere o condannare, oggi, nella pratica quotidiana, sono stati purtroppo assorbiti e metabolizzati, quasi non fanno più scandalo. Per quanto riguarda il cinema, negli anni Sessanta e Settanta si lavorava sull’aderenza, sulla riconoscibilità immediata, sulla documentazione che non ammetteva dubbi, sulla denuncia civile che riscaldava il cuore e dava fiducia. Una rappresentazione della realtà, e dei protagonisti che la incarnavano, anche esasperata, perfino grottesca, basata però sempre su idee forti, su verità schematiche ma indiscutibili. Fortune che non capitano più, avrebbe detto Carmelo Bene. Nello scenario politico dei nostri anni non ci sono più simili certezze, né punti di riferimento affidabili. E quindi anche la verità storica è rappresentata «realisticamente» come entità romanzesca e 122
PIERO SPILA
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quindi precaria. Come nel sogno finale di Buongiorno, notte (la fuga del prigioniero e i brigatisti addormentati dal sonnifero); come avviene, in maniera ancora più esplicita, in Vincere, con la realtà dell’Italia fascista intravista dalle finestre di un manicomio. Di questo diverso modo di intendere un certo tipo di cinema, di questa evoluzione nel rappresentare la realtà politica del Paese, evoluzione linguistica prima che ideologica, sono proprio gli attori i principali, i più evidenti protagonisti. Gian Maria Volonté vestiva di sé i film a cui partecipava. Era una presenza totalizzante, incarnava polimorficamente i suoi personaggi partendo dal loro modo di muoversi, di pensare e parlare, ne ricalcava la fisionomia, il carattere, il modo di vestire, i tic. La sua era un’adesione fisica, costruita meticolosamente con prove interminabili, quasi ossessive, in un processo dove alla fine l’attore era inglobato dentro un personaggio «altro», dotato di vita autonoma e precisa identità sociale: di volta in volta commissario di polizia, giudice, professore, uomo politico, capitano d’industria, metalmeccanico, e poi, Vanzetti, Lucky Luciano, Aldo Moro. Era un modo di vedere il cinema e interpretare la funzione dell’attore basato su una visione e un’applicazione quasi ascetiche, su una fiducia assoluta nella realtà e nella capacità d’interpretarla e metterla in scena. Oggi quella fiducia sarebbe un abbaglio. Trent’anni dopo le grandi performance mimetiche di Volonté, Luigi Lo Cascio per interpretare Peppino Impastato ne I cento passi è stato in Sicilia, ha incontrato la madre e gli amici del giovane sindacalista ucciso dalla mafia, ha letto, si è documentato, ha sfogliato i suoi libri e ascoltato i suoi dischi, ma poi è stato sul set esattamente se stesso, facendo appello alla sua sensibilità e alla sua tecnica. E per impersonare Mario Moretti, l’ambiguo brigatista di Buongiorno, notte che conduce il farneticante processo politico al presidente Dc, lo stesso Lo Cascio esibisce solo un taglio diverso di capelli e un paio di baffi, ma per buona parte delle scene recita addirittura con un cappuccio nero calato sulla testa. E Toni Servillo, ne Il divo, per interpretare l’onorevole Andreotti costruisce un personaggio in cui volto e maschera sono inscindibili. La verità portata sullo schermo non è ricostruita mimeticamente, non c’è bisogno di alcuna trasformazione morfologica, non si inseguono ricalchi filologici, si lavora sempre sul margine del possibile, sull’intuizione prevedibile, sulla zona d’ombra inevitabile, sulla doppia verità dell’inespresso, del non-detto, qualche volta, come nel caso di Sorrentino-Andreotti, del grottesco. Per gli attori è un tipo di recitazione a sottrarre, assolutamente aderente con le scelte di regia. Quello che nei grandi film di Rosi e Petri veniva orgogliosamente denunciato, nei film di BellocIL VOLTO SULLA MASCHERA
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chio e Sorrentino viene quasi sognato, suggerito. Per questo ci vogliono altre facce, altre credibilità. Appunto, nuovi attori. Non eredi di Gassman, Sordi, Tognazzi, Mastroianni, Volonté, lontani da istrionismi ed esuberanze (Giannini, Abatantuono), da ambizioni autoriali spesso discontinue (Placido, Rubini), dai vicoli ciechi (temo) di Lo Verso e Bentivoglio; attori come Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni, Giovanna Mezzogiorno, Maya Sansa, Claudia Pandolfi, Elio Germano, Valerio Mastandrea, Filippo Timi e altri, stanno proponendosi, pur nei diversi itinerari professionali, come una nuova generazione di interpreti, come una realtà del cinema italiano su cui far conto. In loro c’è uno stesso metodo di lavoro, una notevole coerenza nelle scelte (anche quando sfortunate), la stessa disponibilità a mettersi al servizio di film vissuti come progetto. Film come Vincere o Noi credevamo di Mario Martone, ambientati nel passato ma puntati come un fucile sul nostro presente, film spettacolari e severi, anche orgogliosamente intempestivi, possono essere possibili solo con una generazione di attori capaci di interpretare, non banalmente, la stagione forse più difficile e ambigua della nostra storia nazionale, lavorando non più sulla sicurezza (apparente), ma sulla fragilità delle ideologie e dei valori, sull’indefinibilità dei caratteri, rideclinando in chiaroscuro, e con inevitabile problematicità, gli elementi tipici del miglior cinema italiano civile. Attori come Lo Cascio, Gifuni e Timi sono interpreti atipici e duttili, capaci di una gamma estesa di espressioni e modulazioni, non sembrano puntare solo sulla tecnica o solo sull’identificazione, ma lavorano soprattutto nella ricerca del punto di equilibrio possibile tra il personaggio e loro stessi. Superate le rigidità del metodo (Actor’s Studio, Stanislavskij), fuori dalle accademie di teatro, questi attori seguono una strada più personale, pragmatica e nuova. Semmai sembrano ispirarsi al «paradosso di Diderot», tornato curiosamente attuale nello scenario italiano. Vedi il sapiente, quasi filosofico, consiglio dato dal medico a Ida Dalser, protagonista femminile di Vincere: «Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori. Si metta una maschera e taccia». Per passare dall’immedesimazione alla rappresentazione di un ruolo, occorre dall’immedesimazione uscire, governarla dall’esterno: con freddezza, calcolo, tecnica. Appunto con la «insensibilità» descritta da Diderot. Da una parte, la sensibilità di chi emotivamente si coinvolge (nei personaggi, nelle storie), dall’altra l’insensibilità di chi, astraendosi dalle situazioni emotive, riesce innanzitutto a essere se stesso, a puntare essenzialmente sulla ragione dello spettatore. 124
PIERO SPILA
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Da una parte quindi la maschera, come è giusto che sia, dall’altra il volto, il corpo, la voce, il gesto dell’attore, che è bene resistano, si sottraggano alle suggestioni più impellenti, agli inganni della maschera. Che è un modo coraggioso per schierarsi – da attori – contro ogni residua illusione idealistica: essere uno, dieci, cento e nessuno. I nuovi attori italiani, quelli più bravi, percorrono una strada meno appariscente, più difficile e ambiziosa. Mettere il loro volto sulla maschera, essere se stessi per diventare ogni volta diversi.
IL VOLTO SULLA MASCHERA
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Attori e personaggi PAOLO D’AGOSTINI
Tre film di queste stagioni di inizio secolo e inizio millennio mi sembrano particolarmente indicativi come chiave di lettura del nuovo panorama attoriale. Rappresentativi di una generazione emergente di attrici e attori, e al contempo di stagioni che hanno visto prendere forma nuovi profili, figure, sensibilità e personaggi. È così anche se uno solo dei tre titoli si fonda sulla contemporaneità e sull’attualità, mentre gli altri due rivisitano e ripercorrono una storia recente ma pur sempre passata e non patrimonio biografico personale di vita vissuta, o non coscientemente né da protagonisti vissuta, da parte degli attori chiamati a comporre i ricchi cast. Ma non è forse vero che la temperie della commedia all’italiana classica percorreva tutti i film, sia che fossero ambientati nell’oggi (Il sorpasso, I mostri, Divorzio all’italiana) sia che rifacessero la storia italiana del Novecento (La grande guerra, Tutti a casa, Una vita difficile, C’eravamo tanto amati)? La sensibilità, lo spirito, di chi animò quella stagione annulla le distanze e, giganteggiando con gli occhi dei decenni che sono passati, diventa omogenea e coerente interpretazione di uno spirito del tempo, del momento storico e di costume che è stato loro punto di osservazione. È ovviamente presto per dare la stessa valutazione su ciò che ci è ancora cronologicamente troppo prossimo, ma qualcosa della stessa forza nel dare una generale e riconoscibile impronta c’è di sicuro, c’è di nuovo. I tre film in questione sono L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e Romanzo criminale di Michele Placido (senza dimenticare che gli ultimi due – peraltro speculari l’uno all’altro, tanto che il secondo è stato ribattezzato «La peggio gioventù» – portano la stessa firma alla sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano Rulli). Sono così sintomatici, probabilmente, in quanto opere corali. Che valorizzano in pieno, ciascuno, un gruppo di interpreti. Vediamo.
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L’ultimo bacio. Stefano Accorsi è Carlo, il protagonista trentenne prossimo al matrimonio con Giulia (Giovanna Mezzogiorno) e invaghito della ragazzina Francesca (Martina Stella). Intorno a lui un gruppo di amici di cui fanno parte Marco (Pierfrancesco Favino), Paolo (Claudio Santamaria), Adriano (Giorgio Pasotti) sposato con Livia (Sabrina Impacciatore). Il film incontra accoglienze contrastanti. Ma nel bene e nel male è letto come un avvenimento importante, ci si divide e si litiga ma se ne parla molto. Segna, pur tra i tanti dubbi che vengono sollevati nel merito, un punto di svolta. Segna l’affermazione di una generazione. Per Accorsi, che viene da Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Radiofreccia, I piccoli maestri e Ormai è fatta!, il ruolo segna l’avvio di un cammino divistico forse unico nella sua generazione (verrà poi «insidiato» dal più giovane Riccardo Scamarcio) che si conferma attraverso i personaggi di Le fate ignoranti, La stanza del figlio, Santa Maradona, Un viaggio chiamato amore e Ovunque sei di Placido, L’amore ritrovato di Mazzacurati, Provincia meccanica e infine Romanzo criminale. Storia, personaggi e cast formano un insieme coerente e coeso. Gli attori danno volto e voce a una figura sociale emergente: il trentenne di classe media italiano del Duemila. Infantile, intimorito dall’età adulta e dalle responsabilità della prospettiva di una vita adulta, ma anche sicuro dei piaceri cui non vuole rinunciare e cinicamente attaccato ai privilegi sociali, nostalgico di una promessa di vita libera e avventurosa che è un po’ la caricatura delle aspettative giovanili e libertarie dei padri o dei fratelli maggiori. Muccino è accusato di generalizzare abusivamente e arbitrariamente, e gli viene opposto un indignato, ostile non riconoscersi nei parametri da lui rappresentati. Ma proprio tutte queste levate di scudi dicono che ha fatto centro. La sua trasfigurazione non sfigura affatto nell’accostamento che viene spontaneo agli osservatori di fare (e il sottoscritto prende e rivendica la propria parte di responsabilità) con l’esuberanza rampante, con l’euforia cialtrona e vitalistica raccontata quarant’anni prima dai film e dai personaggi di Dino Risi. Chi all’epoca avrebbe gradito l’identificazione con il Bruno Cortona di Vittorio Gassman? È per primo il cantore del boom, del resto, a «investire» il giovane collega della sua eredità. Gli attori, in particolare i maschi perché loro è il ruolo centrale, vestono i rispettivi personaggi con sentita credibilità. Sicuramente perché galvanizzati dall’energia contagiosa del regista, ma anche perché evidentemente «sentono» i personaggi che sono chiamati a interpretare. Ne scaturisce un flusso creativo collettivo: al regista-autore va dato atto di una virtù maieutica non comune, ma gli attori e segnatamente Santamaria, Favino e Pasotti danno un bel contributo a rendere vivo l’affresco. A produrre quello che, lo si gradisca o meno, diventa un film-mani128
PAOLO D’AGOSTINI
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festo. E quindi anche un passaggio chiave per le rispettive carriere, una vetrina di spicco per un gruppo di attori emergenti. Forse non è un film capolavoro (del resto sarebbe prematuro storicizzare il cammino del regista, ancora nel pieno di un’evoluzione che potrebbe riservare sorprese, richiedere ridimensionamenti, imporre ribaltamenti di gerarchia) e tuttavia non è iperbolico considerarlo e definirlo film epocale. Nel senso di specchio e ritratto dei suoi tempi. La meglio gioventù. Un grande impegno creativo e produttivo, come si sa, nato con destinazione televisiva e diventato poi un caso cinematografico grazie alla selezione del Festival di Cannes. Non ha smesso di proseguire la sua strada guadagnando infine grandi apprezzamenti, così rari verso il cinema italiano, anche negli Stati Uniti. È una saga ampia, articolata, ambiziosa. Che richiama quanto gli stessi Rulli e Petraglia avevano già tentato di fare, ma non con lo stesso fortunato esito, nel film televisivo (diretto da Pasquale Pozzessere) La vita che verrà: solo che lì l’arco di tempo investito andava dal dopoguerra agli anni ’60 mentre La meglio gioventù ne è un «seguito»: dal ’66 dell’alluvione di Firenze al 2000. Nel dna dei due sceneggiatori è racchiuso il patrimonio del grande cinema italiano classico, dunque non è da escludere che tra i loro modelli di riferimento vi fossero, in entrambe le imprese, quei film carrellata che hanno illustrato l’itinerario artistico di alcuni dei grandi cineasti della commedia italiana. Dal Risi di Una vita difficile (scritto da Rodolfo Sonego) allo Scola di C’eravamo tanto amati (scritto da Age & Scarpelli). Di fondo i due sceneggiatori, leader incontrastati della generazione cinquanta-sessantenne, rinnovano – in particolare con il film affidato alla regia di Giordana che si basa su una loro idea originale, sulle loro esperienze e idealità giovanili, infine su un testo che somiglia più a un romanzo (sia pur più dialogato che descrittivo) che a un copione – la missione che era stata appunto dei principi della scrittura cinematografica italiana tra dopoguerra e anni ’70: Zavattini, Amidei, Age & Scarpelli, Pinelli, Flaiano, Maccari, Guerra, Vincenzoni, De Concini, Pirro, Benvenuti e De Bernardi e tanti altri. Quella di essere i grandi veri narratori dell’Italia loro contemporanea, gli artefici del vero romanzo popolare del dopoguerra. D’altra parte mi pare possibile più di un accostamento, per esempio, fra la struttura di C’eravamo tanto amati e quella de La meglio gioventù. Più lineare, geometrica, simmetrica quella del film di Scola con la sua triangolazione: Nicola, Gianni e Antonio rappresentano tre strati sociali, tre provenienze geografiche, tre opzioni politiche. E il principale elemento femminile, il personaggio di Stefania Sandrelli, fa da raccordo-contrasto fra i tre. ATTORI E PERSONAGGI
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La meglio gioventù ha un numero superiore di personaggi principali (e un’infinità di minori). Quattro gli uomini: Nicola (Luigi Lo Cascio), suo fratello Matteo (Alessio Boni), gli amici di una vita Carlo (Fabrizio Gifuni; i tre attori appena nominati sono ex compagni di corso all’Accademia d’arte drammatica) e Vitale (Claudio Gioè: una delle più rilevanti new entries dei nostri anni). E tre le donne: Giulia moglie di Nicola (Sonia Bergamasco, nella vita moglie di Gifuni), Mirella che ha una storia con Matteo (Maya Sansa) e Giorgia la ragazza con disturbi mentali (Jasmine Trinca). Ma per esempio i tre maschi che sopravvivono lungo tutta l’avventura – Matteo si suiciderà – ricalcano un po’ la geometria Nicola/Gianni/Antonio di C’eravamo tanto amati anche se i ruoli non sono gli stessi e le premesse – «di sinistra» in ambedue i casi – sono commisurate ai rispettivi tempi e contesti storico-temporali. Vitale (un po’ come l’Antonio di Nino Manfredi) è l’amico immigrato dal sud a Torino che non ha compiuto gli studi ed è rimasto socialmente indietro, va a fare l’operaio, ma si riscatta nella maturità riuscendo a diventare piccolo imprenditore. Carlo (un po’ come il Gianni di Vittorio Gassman) è quello dei tre che fa più carriera arrivando quasi a «passare dall’altra parte»: da buon primo della classe diventa un pezzo grosso della Banca d’Italia e in tempi di terrorismo si troverà esposto come obiettivo sensibile. Nicola è l’ago della bilancia, il personaggio chiave di tutto il film: lungo un itinerario irto di ostacoli, difficoltà e contraddizioni (sua moglie diventa brigatista) è quello che, anche lui un po’ come Antonio/Manfredi (manca del tutto l’estremista velleitario nonché maniacalmente cinefilo: il primo Nicola di Stefano Satta Flores che rappresentava un po’ caricaturalmente la deriva «gruppettara» di una precedente storia social-comunista. Lì la storia si arrestava ai primi anni ’70, qui l’estremismo di sinistra post ’68 e anni ’70 costituisce il punto di partenza per tutti), porta avanti con fatica, tenacia e dignità una visione costruttiva e ottimista della vita e della possibilità di migliorarla. In realtà il cardine intorno al quale la storia parte è una dicotomia, questa sì veramente geometrica, che appare inizialmente in un modo per poi rovesciarsi. È quella che oppone i due fratelli Nicola e Matteo. Quello dei due che ci appare alla ricerca di equilibrio e di ordine, Matteo, che contro ogni possibile previsione diventa poliziotto proprio negli anni in cui i giovani come lui e del suo ambiente vedono nella polizia un simbolo negativo, è destinato a cadere vittima di se stesso. La sua incapacità di esprimere sentimenti e di mettere in atto la sua ansia di ordine lo condanna a un gorgo di solitudine, rabbia, insoddisfazione, impotenza. Il fallimento esistenziale lo perderà, disperato. Mentre il fratello, che ci sembra inizialmente 130
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inconcludente, intento a barcamenarsi tra molteplici richiami – gli studi, la famiglia, la politica, l’amicizia, l’amore, la psichiatria basagliana –, incarnerà quel disordine reale e vitale che dà linfa a un’esistenza piena e fattiva, proiettata verso gli altri, verso la società e il futuro. Fatta di passione ma anche di mediazione, aggiustamenti progressivi, compromesso. Anche qui ci troviamo di fronte alla prova di svolta di un gruppo di attori, per lo più di matrice teatrale e ancora poco o nulla sfruttati dal cinema. Lo Cascio era stato «scoperto» dallo stesso Giordana per il ruolo di Peppino Impastato ne I cento passi. Alessio Boni è al suo debutto. Maya Sansa viene da La balia di Marco Bellocchio. La giovanissima Jasmine Trinca da La stanza del figlio di Nanni Moretti. È un altro cast, come per L’ultimo bacio, destinato a diventare un precedente e un termine di riferimento. Un punto fermo nella maturazione, nell’acquisizione di forze nuove per il cinema italiano del terzo millennio. Non ultimo, grande merito di questo film anomalo e atipico per formato e misura è quello di porsi in sintonia con alcune grandi prove autoriali dei nostri tempi, che hanno dimostrato come la narrazione a destinazione televisiva possa non solo attingere all’alta qualità ma proporsi perfino come terreno di audacia espressiva: dal Bergman di Fanny e Alexander al Fassbinder di Berlin Alexanderplatz, dal Kie lowski di Decalogo al Lars von Trier di Il Regno fino a quello che è forse l’esempio più significativo di tutti, Heimat di Edgar Reitz. Tutte esperienze che, proprio come La meglio gioventù, hanno segnalato, se non addirittura formato, una leva di interpreti. Romanzo criminale. La mano di Petraglia e Rulli si sente, in piena coerenza con le loro precedenti imprese «epocali» e corali (piovre comprese) anche se il soggetto non è loro, ma è fornito dall’omonimo best seller scritto dal giudice Giancarlo De Cataldo, profondo conoscitore per motivi di ufficio delle vicende ricostruite con moderato ricorso alla deformazione fantastica. Qui la galleria è composta da Kim Rossi Stuart (il Freddo), Pierfrancesco Favino (il Libanese), Claudio Santamaria (il Dandi), Stefano Accorsi (il commissario Scialoja, il solo personaggio, assieme a quello della bellissima prostituta nel film affidata alla modella Anna Mouglalis, che il romanzo avesse del tutto inventato), Riccardo Scamarcio (il Nero), Jasmine Trinca (Roberta), Antonello Fassari (Ciro Buffoni), Elio Germano (il Sorcio), Gianmarco Tognazzi (Carenza), Francesco Venditti (il Bufalo). E ci fermiamo qui. Mi sono limitato a citare i personaggi di prima fila e quelli la cui interpretazione mi pare particolarmente indicativa della qualità panoramica e rappresentativa del riuscitissimo cast. Abbondano i ruoli piccoli e piccolissimi e l’abilità della regia di Michele Placido – quella di un regista che ATTORI E PERSONAGGI
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è anche attore e profondamente autore in quanto uomo orchestra – è stata quella di valorizzarli tutti ottenendo un’eccellente risposta da ciascuno degli attori, evidentemente partecipi di un disegno collettivo, delle ragioni di un esito d’insieme che ha messo da parte dosaggi, divismi, vanità, gelosie. Accorsi, forse per la banale ragione che è il solo non romano, è quello che sentiamo leggermente staccato dallo spirito di gruppo che si respira nel film. A proposito di radici e di lingua, che contano nel film anche se il romanesco che i personaggi parlano è astratto e ricercato, antico, colto in un certo senso. Nel senso pasoliniano. La composizione di questo cast è stata sicuramente un enorme richiamo per tutti gli attori italiani della fascia d’età richiesta, e non solo romani. Si sente dire da chi è stato scelto: «Tutti volevano partecipare a questo film». C’è chi può aver sentito la mancanza di Giorgio Tirabassi o di Ricky Memphis (che è ormai la coppia di Distretto di polizia) ma tra le esclusioni penso che sia saltata agli occhi quella di Valerio Mastandrea: se ne sente la mancanza. Kim Rossi Stuart proveniva dall’importante prova di Le chiavi di casa di Gianni Amelio, dove ha dimostrato sensibilità e professionalità, duttilità e umiltà nel mettersi a disposizione di un ragazzo non attore professionista e portatore di handicap; Favino e Santamaria li avevamo ammirati rispettivamente nel secondo film del cantautore Ligabue ed in El Alamein dell’ex sceneggiatore Enzo Monteleone (il primo), e ne Il posto dell’anima (il secondo); un bel film, quello di Riccardo Milani, «alla Ken Loach» e un buon esempio di assortimento di tre attori appartenenti a tre diverse generazioni (Santamaria, Silvio Orlando e Michele Placido). Kim Rossi Stuart, Favino e Santamaria costituiscono, in Romanzo criminale, la pattuglia d’assalto del film. I loro sono i tre personaggi cardine della storia, i tre leader della banda della Magliana, che cominciano da ragazzini uniti come i tre moschettieri e finiscono dilaniati dai sospetti e dalle rivalità. In realtà il film non nomina mai la vicenda reale che l’ha ispirato; ciononostante essa è ben riconoscibile nella storia efferata di un gruppo di giovani piccoli malviventi della periferia romana che nel corso degli anni ’70-’80 ha cambiato le regole della criminalità nella capitale, facendole fare un balzo in avanti organizzativo, di mentalità e di ferocia, intrecciandola più o meno oscuramente con la finanza, la politica, i servizi segreti, il traffico di droga in grande stile, la massoneria, la Chiesa, le mafie. Scamarcio è la promessa che, nei limiti di un ruolo silenzioso e anche marginalizzato più di quanto non fosse già nel romanzo, presenta il suo biglietto da visita per la maturità dopo le brillanti prove nei film fenomeno Tre metri sopra il cielo (dal best seller di Moccia) e L’uomo perfetto, di pari passo all’aver preso par132
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te alla coralità provincial-globale del debutto in cinema (talentoso ma un po’ disarticolato per inesperienza e un pizzico di presunzione) da parte dell’enfant prodige delle scene teatrali Fausto Paravidino. Dal liceale che delinque per noia al simpatico sbruffone della seconda commedia, dal galletto di paese al terrorista nero alleato con la Banda, Scamarcio reincarna con consapevolezza e ironia di oggi il «ribelle» di una tradizione cinematografica (e letteraria) ormai lunga più di mezzo secolo. Interpreta le inquietudini e le ombre ma anche i disarmati sorrisi della condizione giovanile. Quanto agli altri ruoli, tra quelli sacrificati nel passaggio dalla pagina allo schermo e quelli sintetizzati, la galleria è di pregio. Gianmarco Tognazzi inedito, tra i tanti. E infine un secondo nome, dopo quello di Claudio Gioè citato a proposito del cast de La meglio gioventù, sul quale scommetto volentieri. È quello di Elio Germano, in Romanzo criminale il Sorcio: cioè il tossico che fa da «assaggiatore» di eroina per i traffici della banda, cioè quel personaggio che nella realtà «parlò» per primo aprendo così la strada al corso della giustizia. Germano lo avevamo già molto apprezzato in un altro film fenomeno delle stagioni recenti e cioè Che ne sarà di noi, esemplare del nuovo corso scelto da Aurelio De Laurentiis per affrancarsi dal comico-natalizio e reinvestire sulla commedia, attraverso la regia di Giovanni Veronesi. Anche quello un contenitore di giovanissimi attori: Silvio Muccino, Violante Placido, Valeria Solarino. Ma Elio Germano – basti la scena del pestaggio: sembra una sua specialità quella dei personaggi ammaccati, sebbene nel pessimo Melissa P. sostenesse a meraviglia anche quello di rappresentante di una gioventù dorata e corrotta – ha una marcia in più. Ecco, ho scelto solo una campionatura per quanto rappresentativa. La parte per il tutto. Un tutto che sicuramente chiede di annoverare molti altri capitoli. Per esempio i film di Cristina Comencini, di Ferzan Özpetek, di Paolo Virzì, di Michele Placido come importanti occasioni per gli attori, come palestre che li privilegiano e offrono loro la possibilità di mostrare il proprio valore. Due nomi. Quello di Barbora Bobulova (Cuore sacro) e quello di Emilio Solfrizzi (Liberate i pesci). Nuova linfa sembrerebbe riprendere la categoria dei caratteristi: l’ottimo Giuseppe Battiston da Pane e tulipani di Silvio Soldini a La bestia nel cuore della stessa Comencini. O il napoletano Antonino Iuorio (Piano 17 dei Manetti Bros.). O il non ancora abbastanza notato e valorizzato Rolando Ravello (per esempio in Concorrenza sleale di Scola). Ci sono poi anche i registi votati alla scoperta. Lo stesso Virzì (Corrado Fortuna, Edoardo Gabbriellini. Virzì ha scelto proprio Germano come protagonista del suo film tratto dal romanzo di Ernesto Ferrero su Napoleone all’Elba). E con lui Matteo Garrone e Paolo Sorrentino: la Michela CeATTORI E PERSONAGGI
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scon di Primo amore, la Olivia Magnani di Le conseguenze dell’amore. Claudia Gerini, Vanessa Incontrada limitatamente al caso dell’incontro con Marco Ponti (anche lui nella categoria dei «fenomeni»), Luciana Littizzetto, Sandra Ceccarelli, Donatella Finocchiaro sono, con caratteristiche anche molto diverse tra loro, altre presenze femminili crescenti. Ultimo fatto sul quale non si può tacere, l’immissione di attori di provenienza e fama televisiva. Sono molti i tentativi ma i nomi sui quali per un motivo o per un altro mi pare per ora doveroso soffermare l’attenzione sono da una parte quelli di Aldo, Giovanni e Giacomo che hanno rinnovato la comicità ponendosi come il primo fenomeno di grande rilievo dopo la generazione dei nuovi comici di fine ’70 e inizio ’80, e dall’altra quello di Luca Zingaretti, ancora un po’ sospeso, però, nel limbo dell’attesa di una definitiva conferma della sua capacità di trasferire sul grande schermo l’autorità conquistata con Montalbano. In mezzo, la figura anomala e indefinibile di Fabio Volo sulla quale ha saputo coraggiosamente scommettere Alessandro D’Alatri con il suo Casomai, confermato poi da La febbre. In definitiva, considerando nel suo complesso la ricca generazione quaranta-cinquantenne, c’è di che coltivare aspettative ambiziose.
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PAOLO D’AGOSTINI
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Davanti e dietro la macchina da presa: una tentazione inevitabile FRANCO MONTINI
L’eccezione sta diventando la regola; anche in Italia sono sempre più numerosi gli attori e le attrici che, senza rinunciare alla propria primaria attività, si trasformano in registi. Accade spesso sia ad interpreti con celebrate carriere alle spalle, sia ad attori con brevi e marginali esperienze di set. Il fenomeno è in piena espansione, benché anche in passato non siano mancati casi illustri di attori trasformatisi in registi. Qualcuno, un esempio per tutti è Vittorio De Sica, pur continuando a svolgere per tutta la vita un’intensa e raffinata attività di interprete, è più noto e celebrato come regista, considerato un autentico maestro. Altri cineasti, pur dirigendo molti film, come accaduto ad Alberto Sordi, sono rimasti essenzialmente degli attori. I volti più popolari del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, pur saltuariamente, si sono cimentati nella regia. Fra i grandi di quella generazione l’unico a non aver mai tentato l’esperienza, forse per atavica e naturale indolenza, è stato Marcello Mastroianni. Ma una vera ondata di attori/registi esplode solo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta quando si impone alla ribalta il gruppo dei cosiddetti nuovi comici: Verdone, Benigni, Troisi, Nuti, Nichetti. I primi a cimentarsi nella doppia veste di regista/protagonista sono stati Maurizio Nichetti e Carlo Verdone; i rispettivi film d’esordio Ratataplan (1979), e Un sacco bello (1980), oltre a ottenere un significativo successo di pubblico, si sono rivelati gradevoli e originali. Ma a ben guardare sia Nichetti che Verdone non erano dei semplici attori: il primo aveva alle spalle una discreta esperienza in teatro e nel settore dell’animazione e Ratataplan è debitore a entrambi questi linguaggi. Quanto a Verdone, benché l’approdo al cinema sia stato diretta conseguenza del successo televisivo ottenuto con una galleria di stravaganti personaggi, la sua formazione cinematografica è assolutamente professionale, come testimonia il diploma in regia conseguito al Centro Sperimentale di
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cinematografia. Tra l’altro è significativo che per Un sacco bello Verdone inizialmente avrebbe preferito affidarsi a un regista già sperimentato e fu Sergio Leone, in veste di produttore, a insistere affinché assumesse direttamente la responsabilità del film. Non a caso, giudicando il successivo sviluppo delle rispettive carriere, sia Nichetti che Verdone, che pure non hanno mai rinunciato a essere sempre presenti nei loro film, sono gli unici cineasti del gruppo dei cosiddetti nuovi comici che in futuro potrebbero anche dedicarsi esclusivamente alla regia. A Nichetti bisogna dare atto di una certa verve creativa, mentre Verdone si è dimostrato particolarmente capace nella direzione dei colleghi e soprattutto delle colleghe. Si possono ricordare in proposito le ottime prove fornite nei suoi film da Eleonora Giorgi in Borotalco; da Ornella Muti ed Elena Sofia Ricci in Io e mia sorella; da Margherita Buy in Maledetto il giorno che t’ho incontrato; da Claudia Gerini in Viaggi di nozze e in Sono pazzo di Iris Blond; da Micaela Ramazzotti in Posti in piedi in paradiso. Molto convincenti sono risultate anche le interpretazioni nei film corali di Verdone: da Compagni di scuola, a Ma che colpa abbiamo noi. Ma come troppo spesso avviene in Italia, il felice risultato ottenuto dagli esordi di Nichetti e Verdone ha immediatamente convinto i produttori italiani a insistere nell’esperienza, consegnando la responsabilità della regia anche agli altri comici approdati al cinema subito dopo. È il caso di Massimo Troisi che con la sua opera prima, Ricomincio da tre, 1981, film dalla struttura molto tradizionale, basato su un linguaggio cinematografico semplicissimo, ottiene uno straordinario successo. In altre parole in Ricomincio da tre la regia è l’elemento più debole dell’operazione, per altro freschissima e intelligente. Subito dopo diventa regista anche Enzo Decaro, compagno di Troisi nel gruppo «La Smorfia», che esordisce con Prima che sia troppo presto, 1981, un’operina che, al contrario di Ricomincio da tre, non riesce a sfondare. Poco dopo tocca a Roberto Benigni, che successivamente ad alcune prove d’attore, sostenute sotto la direzione di importanti registi da Marco Ferreri a Giuseppe Bertolucci, firma nel 1983 con Tu mi turbi la sua prima regia. Il risultato è un film eccessivamente scombinato, anche se non privo di annotazioni curiose e geniali. La carriera di Benigni attore e regista cresce progressivamente fino ai trionfali esiti di La vita è bella, baciato da uno straordinario successo di pubblico e di critica, culminato con la conquista dell’Oscar nella categoria miglior film straniero nel 1999, cui segue un certo ripiegamento e un progressivo allontanamento dal cinema, a favore di esperienze di spettacolo dal vivo. Per restare al gruppo dei comici anni Ottanta, chi, al contrario, almeno inizialmente si distacca dalla moda imperante è Francesco Nuti, che, dopo 136
FRANCO MONTINI
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l’esordio in Ad ovest di Paperino (1982), realizzato con il suo gruppo di provenienza i «Giancattivi» e affidato alla regia del compagno Alessandro Benvenuti, sciolto il sodalizio, si mette in proprio e prosegue una fortunatissima attività mattatoriale affidandosi a un professionista serio e preparato: Maurizio Ponzi. Del resto la generazione precedente ai comici anni ’80, quella, per intenderci, di Celentano, Villaggio, Pozzetto, Montesano, dominatori del box office nel decennio precedente, salvo rare eccezioni, aveva preferito consegnare la responsabilità della regia ad onesti e capaci professionisti: Pasquale Festa Campanile, Castellano e Pipolo, Nanni Loy, Luciano Salce. Tornando a Nuti, le sue più convincenti prove cinematografiche restano legate al sodalizio con Maurizio Ponzi, un regista capace di metterne in risalto la verve romantico-umoristica. Quando Nuti si mette in proprio i suoi film perdono di misura: emerge una progressiva e fastidiosa tendenza al narcisismo e all’autocelebrazione, che alla lunga indispone anche il pubblico. Un caso a parte è rappresentato dal già citato Alessandro Benvenuti che, contrariamente agli altri comici del gruppo, si afferma al cinema gradualmente, passa, senza mostrare incertezze, da un genere all’altro, si sforza di sperimentare, costruisce i suoi film su un paziente lavoro di squadra. La differenza sostanziale fra Benvenuti e il resto del gruppo è anche rappresentata dalla rinuncia alla maschera in favore di un approfondito lavoro di interprete. Mentre Benigni, Troisi, Nuti sono legati sempre a uno stesso personaggio e Verdone a due-tre stereotipi, Benvenuti, molto attivo anche in teatro, a differenza dei nomi appena citati, non è identificabile in un ruolo e anche per questo è stato spesso utilizzato in film di altri registi, prima di essere ingiustamente emarginato e spinto a rivolgersi all’attività teatrale. In ogni caso lo straordinario successo di pubblico ottenuto dal quartetto Benigni, Troisi, Verdone, Nuti convince definitivamente i produttori italiani dell’opportunità di affidare ai comici la regia dei propri film. Alla lunga i risultati di questa scelta si rivelano contraddittori: quando il comico di turno possiede un proprio mondo espressivo e una comicità personale, gli esiti non sono malvagi. Come accade qualche anno dopo con Antonio Albanese e con il trio Aldo, Giovanni e Giacomo, benché questi ultimi, dapprima sostenuti nel comparto regia dei loro film dalla presenza costante di un quarto responsabile, Massimo Venier, più recentemente hanno rinunciato ad essere anche registi dei loro film. Una scelta condivisa in seguito anche da Albanese, il cui maggior exploit cinematografico Qualunquemente (2011) è firmato da Giulio Manfredonia. In altri casi nonostante il grande successo, è il caso ad esempio di Leonardo Pieraccioni, la regia resta anonima, semplicemente funzionale alla recitazione del protagonista. DAVANTI E DIETRO LA MACCHINA DA PRESA : UNA TENTAZIONE INEVITABILE
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Ma la consuetudine di affidare la regia al comico di turno appare del tutto ingiustificata soprattutto in un discreto numero di operazioni dichiaratamente commerciali che tendono a trasferire sul grande schermo personaggi senza alcuna esperienza di set e portatori di una comicità tipicamente televisiva. Basti ricordare una serie di prove sinceramente imbarazzanti: Si fa presto a dire amore di e con Enrico Brignano; Al momento giusto di e con Giorgio Panariello; Faccia di Picasso di e con Massimo Ceccherini; Andata e ritorno di e con Alessandro Paci; Ogni lasciato è perso di e con Piero Chiambretti. In tutti i casi appena citati si nota una debordante e straripante attenzione dei registi verso se stessi, un insufficiente interesse nei confronti del contorno, un’evidente carenza nelle sceneggiature, una tecnica approssimativa, una preoccupante ignoranza del linguaggio e della sintassi cinematografica. Non a caso la carriera cinematografica di quasi tutti gli attori/registi in questione è nata e morta praticamente con un film. A volte poi si finisce dietro la macchina da presa quasi per caso, come sembra essere avvenuto con Antonello Fassari, regista esordiente in un’altra operazione tutt’altro che memorabile anche da un punto di vista semplicemente commerciale: Il segreto del giaguaro, protagonista Er Piotta. Più convincenti si sono dimostrate le prove da regista di Angelo Orlando, in particolare quelle offerte in piccoli film low budget come Sfiorarsi. Ben più motivati e conseguentemente efficaci risultano i passaggi alla regia di attori d’esperienza che, a un certo punto, avvertono un reale bisogno di esprimersi anche dietro la macchina da presa. È il caso di Michele Placido, arrivato alla regia dopo una lunga e fortunata carriera d’attore e oggi, giustamente, non meno apprezzato come regista che come interprete. Paradossalmente Placido è stato perfino penalizzato dalla sua precedente esperienza d’attore: solo con un discreto ritardo è stato accolto e celebrato come un autentico autore. A dispetto di film sempre molto validi, all’inizio della carriera di regista, iniziata nel 1990 con Pummarò, la critica l’ha generalmente giudicato con colpevole sufficienza. E lo stesso è accaduto, almeno in parte, anche con altri due attori-registi in senso pieno: Ricky Tognazzi e Sergio Rubini. Il primo, legato all’inizio della sua attività dietro la macchina da presa a un cinema di impegno civile, si è progressivamente spostato verso la commedia, passando da Ultrà (1990) e La scorta (1993) a Tutta colpa della musica (2011). Rubini invece è sempre rimasto molto fedele a un cinema insieme antico e modernissimo, legato alle proprie radici geografiche e alle proprie tradizioni culturali, che mescola teatro, magia, famiglia, folclore, come testimoniano il primo film La stazione (1990) e successivamente L’anima gemella (2002), L’amore ritorna (2004), La terra (2006), fino a L’uomo 138
FRANCO MONTINI
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nero (2009). Per capire la differenza con altri attori-registi improvvisati basta riflettere su un «piccolo» particolare: nei loro film Placido, Rubini e Tognazzi spesso si limitano a ruoli di contorno o non compaiono affatto. A nessuno verrebbe in mente di affidare la regia di un film senza Panariello a Panariello. Un altro attore sempre più impegnato come regista è Sergio Castellitto, che dopo l’esordio di Libero Burro, opera assai curiosa, originale, per certi versi sperimentale, anche se non del tutto riuscita, come regista ha variato da un film fortemente drammatico, Non ti muovere, a una commedia scatenata, La bellezza del somaro, e ora, con Venuto al mondo, si è nuovamente impegnato su un romanzo della moglie, la scrittrice Margaret Mazzantini. Fra gli attori-registi c’è poi un nutrito gruppo di cineasti di provenienza teatrale, come è il caso di Francesco Apolloni, Scimone e Sframeli, Ivano De Matteo, Nicola Pistoia, Pino Amendola, Antonio Rezza. Dal teatro proviene anche Vincenzo Salemme, che dopo un’esperienza di interprete nel cinema d’autore, come regista si è cimentato fin dall’esordio, L’amico del cuore (1998) nella commedia popolare, ispirata a modelli già sperimentati in palcoscenico. Nascono invece come attori-registi, maschere di se stessi, secondo un percorso analogo anche se culturalmente e qualitativamente lontano dal caso Moretti (il quale peraltro al suo esordio venne inglobato nel gruppo dei nuovi comici), cineasti come il compianto Corso Salani e Pino Quartullo, che nel prosieguo delle rispettive carriere si sono equamente suddivisi fra l’attività di regista e quella di attore. Ma cosa spinge un attore a sterzare verso la regia? Le motivazioni possono essere varie e molteplici: in alcuni casi c’è il desiderio di riscattare un troppo facile successo come interprete e di dimostrare di valere di più della propria immagine più nota e popolare. Sembra essere il caso di Christian De Sica che da regista, con risultati altalenanti, ha comunque cercato di realizzare film qualitativamente migliori dei cinepanettoni natalizi. In questa chiave c’è da segnalare anche l’esordio in regia di Alessandro Haber, che si è confrontato con un testo, Scacco pazzo, di cui era già stato protagonista in teatro e poi al cinema in un film diretto da Maurizio Zaccaro, intitolato, Cervellini fritti impanati, di cui era rimasto insoddisfatto. In effetti nell’inevitabile confronto fra i due film Haber risulta vincente. Da una certa insoddisfazione o convinzione di non essere stati utilizzati dal cinema nel modo più adeguato è nata probabilmente la propensione per la regia di altri attori come Luca Barbareschi, Claudio Bigagli, Giulio Base, quest’ultimo peraltro sempre più attivo nel campo della fiction televisiva, piuttosto che nel cinema. In altri casi a spingere gli attori verso la regia c’è DAVANTI E DIETRO LA MACCHINA DA PRESA : UNA TENTAZIONE INEVITABILE
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la volontà di riciclarsi in un altro ruolo parallelamente a un certo declino nell’attività di interprete, come sembra essere il caso, ad esempio, di Lino Capolicchio. Più avveduto appare il percorso di quegli attori come Fabrizio Bentivoglio e Giorgio Tirabassi che si stanno spostando verso la regia con prudenza e gradualità: entrambi, prima di lanciarsi nel lungometraggio, hanno iniziato a sperimentare, ed entrambi con buoni risultati, il cortometraggio. Il risultato del primo e finora unico lungometraggio da regista di Bentivoglio Lascia perdere, Johnny! (2007), è assai incoraggiante. Di recente fra i risultati più convincenti sono da segnalare, con due film molto diversi fra loro, le prove di Kim Rossi Stuart e Rocco Papaleo. Con Anche libero va bene (2005), Kim Rossi Stuart ha realizzato un dramma domestico, fortemente emozionante, che ribalta i tradizionali ruoli di padre e madre, mostrando le dolorose conseguenze dello sfaldamento familiare. Il film di Rocco Papaleo Basilicata coast to coast è invece una sorta di road movie in forma di commedia musicale, genere che non vanta grandi tradizioni nella cinematografia italiana. Ispirandosi alle proprie radici e alle proprie passioni, Papaleo ha firmato un film gradevole e originalissimo. Sempre nel genere commedia on the road da segnalare anche il convincente esordio in regia di Edoardo Leo, con Diciotto anni dopo (2009), che nasce da un testo originale scritto dallo stesso regista con un altro collega attore, Marco Bonini. Più naturali, quasi inevitabili, sono stati gli esordi di due attori-registi di teatro, Ascanio Celestini e Fausto Paravidino, approdati al cinema rispettivamente con La pecora nera (2010) e Texas (2005). E sono da segnalare anche i casi, diametralmente opposti, di Libero De Rienzo, regista di un film assolutamente sperimentale Sangue, la morte non esiste (2005) e Silvio Muccino, già regista di due film Parlami d’amore (2008) e Un altro mondo (2010). Il fenomeno è più contenuto sul versante femminile dove sono ancora poche le attrici convertitesi alla regia. L’esperienza più ambiziosa, ma dagli esiti incerti, è stata quella di Asia Argento. La prova più deludente quella di Sabina Guzzanti, divertente a teatro e sul piccolo schermo, ma inguardabile al cinema con Bimba (2001), il cui esito è stato in parte riscattato da Draquila (2010), successiva prova di taglio documentaristico. Si è cimentata in regia, pur dichiarando ufficialmente che sarebbe stata la sua prima e ultima prova in questa veste, anche Stefania Sandrelli con Christine, Cristina (2010), film in costume di taglio proto femminista centrato sulla figura della poetessa Cristina da Pizzano. Non hanno lasciato segni indelebili Film (1998) di Laura Belli e Uomini &, donne, amori & bugie (2003) di Eleonora Giorgi, quest’ultimo eccessivamente ambizioso e assai carente nella sceneggiatura, mentre non è stato distribuito in Italia È più facile per un cammel140
FRANCO MONTINI
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lo... (2003) di Valeria Bruni Tedeschi. Intanto si attende con curiosità l’esordio di Valeria Golino che, dopo una prima esperienza nel corto, Armandino e il Madre, è al lavoro nel lungo Vi perdono dal romanzo di Angela Del Fabbro. Ci sono poi da segnalare i casi di Michela Cescon, Daniela Poggi e Chiara Caselli, finora cimentatesi solo con i corti, e di Francesca D’Aloja, autrice di un film inchiesta sulle carceri. Non si deve considerare un’attrice, benché protagonista del suo film d’esordio, Nina Di Majo, che pare intenzionata a proseguire l’attività cinematografica solo come regista. Intanto è in arrivo una nuova ondata di esordi di attori; oltre al già citato caso della Golino, si sono cimentati nella regia anche Alessandro Gassman e Rolando Ravello, entrambi trasferendo al cinema due propri sperimentati successi teatrali, Luigi Lo Cascio, e stanno per farlo anche Alessandro Siani, Luca Lionello, Claudio Amendola. Una così copiosa fioritura di attori-registi è frutto di una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e di una maggiore preparazione professionale, che ha consentito a tanti interpreti di appropriarsi, nella frequentazione del set, anche degli strumenti tecnologici indispensabili nella pratica registica. In definitiva l’approdo dietro la macchina da presa di tanti attori nasce anche dalla volontà di proteggere, salvaguardare, difendere la propria immagine e di sottolineare il proprio contributo creativo al film, forse dimenticando che si può essere attori-autori continuando a essere semplicemente degli interpreti, sia nel cinema di largo consumo, sia in quello più impegnato: Totò su un versante, Gian Maria Volonté sull’altro l’hanno ampiamente dimostrato. In ogni caso ha perfettamente ragione Luigi Lo Cascio quando ricorda che «non si capisce perché mentre il passaggio alla regia di uno sceneggiatore è ritenuto un evento del tutto normale, quello di un attore viene considerato una sorta di vertiginoso salto mortale. Semmai dovrebbe essere il contrario: rispetto ad uno sceneggiatore, infatti, un attore ha molta più esperienza di set».
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I caratteristi STEVE DELLA CASA
L’ha capito da molto tempo Vinicio Marchioni, uno dei protagonisti della serie televisiva Romanzo criminale. Lui è un attore completo, l’ha dimostrato a teatro prima della serie ed al cinema dopo il grande successo della serie stessa. Quindi tecnicamente non c’è alcun dubbio: Marchioni è un attore, un protagonista, ha vinto molti premi. Ma dal grande pubblico, quello che lo ferma per la strada, è considerato un carattere. Il suo volto è collegato in modo indelebile al Freddo, il suo personaggio nella banda della Magliana. Non ci sono molte incertezze al riguardo. Anche la serie televisiva Boris è stata un grande successo di culto e ha modificato in modo decisivo l’avvenire professionale delle persone che vi hanno preso parte. E anche in questo caso chiunque partecipi a un’apparizione pubblica dei suoi attori sa di che cosa stiamo parlando. In più Boris è anche una serie che parla di spettacolo. Nella sua versione cinematografica, che ha invece conosciuto un immeritato insuccesso, si gioca molto sui codici e sui luoghi comuni: il personaggio del cabarettista malparlante interpretato da Massimiliano Bruno è l’esempio più calzante di quanto stiamo sostenendo. Se fossimo semiologi forse potremmo parlare di metalinguaggio. Siccome però la semiologia è fortunatamente passata di moda, ci limiteremo a dire che è inscindibile al raccontare il mondo dello spettacolo la presenza di qualche personaggio che assuma a chiara fama, o quantomeno a riconoscibilità da parte del pubblico, proprio in virtù del proprio aspetto fisico. E infatti lo spettacolo italiano ha due grandi ascendenze, la commedia dell’arte e la librettistica d’opera. In entrambe il volto dei personaggi minori viene curato e scelto con grande attenzione perché tale decisione può essere determinante per lo spettacolo stesso. E di queste scelte è imbevuta la grande tradizione del cinema italiano. Il regista più visionario di tutti, Federico Fellini, curava personalmente anche la scelta dei figuranti. Ma non si
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fermava al loro aspetto. Li faceva recitare (ma spesso anche gli attori di prima fascia) imponendo di declamare dei numeri, in modo da poter poi arrangiare al montaggio quanto gli serviva. E quasi sempre non si serviva delle loro vere voci. Elio Pandolfi, che dello spettacolo italiano è stato uno dei cardini più importanti, ha prestato le proprie corde vocali ad almeno una ventina di personaggi di La dolce vita. Insomma, Fellini usava caratteristi geneticamente modificati. E del resto la figura del caratterista è anche fondamentale per andare a fondo su un altro dei grandi luoghi comuni del nostro cinema, quello degli «attori presi dalla strada», uno dei biglietti da visita della grande stagione del neorealismo. Che questa fosse soprattutto una strategia di marketing è ben noto, visto che il neorealismo viene battezzato da un film che ha per protagonisti le due vedette più note (e più pagate) dello spettacolo dio varietà: Aldo Fabrizi e Anna Magnani. Poi ci sono stati evidentemente i volti presi dalla folla. Molti di loro non sono andati oltre il primo film, e quelli che hanno invece proseguito la propria carriera si sono rivelati caratteristi a tempo pieno. Ad esempio il soldato negro John Kitzmiller, il rappresentante di medicinali Folco Lulli, la giornalista inglese Harriet White, la fidanzata di Amidei Maria Michi, la popolana Maria Fiore, il derubato di bicicletta Lamberto Maggiorani. Le loro filmografie da questo punto di vista sono esaustive più di qualsiasi commento. Ma non è detto che il caratterista sia una faccia senza carattere e senza storia. Il cameriere sardo Tiberio Murgia che tutte le mattine serviva il caffè sotto casa a Mario Monicelli è poi diventato (paradossalmente) il siciliano per eccellenza della nostra cinematografia. Ma non era un semplice barista, era un dirigente del Pci destinato a fare carriera e aveva anche frequentato la scuola quadri della Frattocchie, un po’ come West Point per gli ufficiali americani di cavalleria. E di storie come questa se ne potrebbero raccontare tante. Un’altra storia che andrebbe raccontata è quella dei caratteristi ignoti che però infiammavano le platee. Ho il ricordo personale di come reagivano i grandi cinema popolari di barriera quando nelle commedie che avevano per protagonisti Lino Banfi ed Edwige Fenech si palesava quel ragazzotto dal lineamenti buffi che già Fellini aveva notato in Amarcord e in Roma. Si tratta ovviamente di Alvaro Vitali, caratterista principe di quella stagione. Il suo passaggio a protagonista è andato come è andato: il primo film ha avuto un successo straordinario, gli altri no; dopo un paio d’anni Vitali era finito. Il suo futuro è stato caratterizzato da parecchi tentativi di ritorno e da una caratterizzazione televisiva come parodia di Jean Todt. Un caso di caratterista che di carattere ne aveva assai poco. 144
STEVE DELLA CASA
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Sempre restando nella sfera dei ricordi, i ragazzi degli anni Sessanta si divertivano molto quando sullo schermo apparivano caratteristi dalla faccia riconoscibile e dalla forza erculea. Anzi, si ricordano con più piacere Nello Pazzafini, Puccio Ceccarelli e Livio Lorenzon che Giovanni Cianfriglia, Pietro Torrisi e Sergio Ciani. E non soltanto perché questi ultimi, divenuti protagonisti, erano diventati Ken Wood, Peter McCoy e Alan Steel, ma proprio perché quelli erano pennellate, sia pure di un certo spessore muscolare. Un po’ quanto è avvenuto nei western quando Fraco Scarciofalo e Pietro Martellanza sono diventati i pistoleri principali: il loro ricordo è reso pallido quando si pensa che il volto più amato, che faceva sobbalzare sulle poltrone, è sicuramente quello di Fernando Sancho, che protagonista non lo è mai diventato. Se torniamo adesso alla contemporaneità, notiamo che le serie televisive citate all’inizio hanno dato il via a un rinnovamento generazionale che fino a un paio di anni fa appariva impraticabile. Il Freddo, Bambi o Biascica sono stati credo decisivi per la flessione del meccanismo tradizionale del cinepanettone (anche se i primi due, come abbiamo detto, non erano caratteristi e soprattutto non interpretavano commedie). Sono stati decisivi perché hanno dimostrato che anche in una società vecchia e statica come quella italiana è possibile un rinnovamento. E c’è da attendersi che tale rinnovamento sarà esponenziale nei prossimi anni, e che l’aspetto del caratterista sarà tutt’altro che secondario. Prendiamo i nuovi protagonisti che non sono visibili né sul grande né sul piccolo schermo, ma che nascono e crescono direttamente sul web. I loro tempi sono concisi, i loro show contratti, le durate di ogni singolo pezzo non superano mai la decina di minuti. Proprio perché il linguaggio è così contratto e sincopato, il volto e la faccia sono fondamentali. Le serie di Maccio Capatonda, ad esempio, sono incentrate sul volto e sulla caratterizzazione. Sinceramente non so come sarà lo spettacolo audiovisivo del futuro, ho letto tante ricerche e tante previsioni che si sono invariabilmente rivelate sbagliate, inesatte, toppate. Ma ho la netta impressione che dal caratterista non si possa prescindere. Qualunque sia il futuro, le radici contano.
I CARATTERISTI
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Tra cinema e teatro MAURIZIO PORRO
A leggere le programmazioni delle ultime stagioni ci si confonde: sarà cinema o teatro? Moltissime le riduzioni dei film in scena (tra le ultime un cult, Colazione da Tiffany e poi Shrek e Kramer contro Kramer) e moltissimi i protagonisti che vengono dal grande schermo: basti citare, tra gli ultimi, il trionfo di Elio Germano in due monologhi eccezionali (Thom Pain e Céline, qui accompagnato dal musicista Teho Theardo), di Fabrizio Gifuni che è riuscito per primo a rendere popolare l’ingegner Gadda alternandolo a Pasolini, e poi Santamaria, Solfrizzi, la Solarino che si è buttata tra le braccia della signorina Julie di Strindberg, la Bergamasco in quelle della Karenina, Scamarcio che ha fatto un Romeo nerd con gli occhiali e del tutto inedito, Isabella Ferrari impegnata in più titoli, eccetera eccetera, senza contare Massimo Ghini nel Vizietto. La commedia all’italiana non esisterebbe senza la beneamata passerella della rivista. Il cinema e il teatro sono due terreni concomitanti e complementari, sceglierne uno solo spesso vuol dire non essere attori completi. Oggi più di ieri e meno di domani molti dei giovani attori sulla rampa di lancio per diventare divi o già insigniti di successo, simpatia, stima e premi anche internazionali (vedi il caso di Toni Servillo che alterna al massimo grado cinema e teatro) palleggiano tranquillamente il cinema al teatro, come si fa in ogni parte civile del mondo (la Kidman a Londra, Pacino a New York, Depardieu, Delon e Belmondo a Parigi e mille altri), dove gli steccati non esistono, neppure con la televisione, il doppiaggio, la rivista e altro. E se andiamo a rovistare nel passato ci sono esempi clamorosi: Mastroianni non ha mai davvero abbandonato il teatro, suo primo amore, così come non l’hanno fatto la Melato, la Vitti, Ferzetti e tanti altri protagonisti della prosa. Anzi, proprio la rivista e l’avanspettacolo e poi il cabaret sono stati la scuola di tutto il cinema, non solo comico, italiano. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalla cosiddetta scuola toscana di Pieraccioni, Pa-
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nariello, Ceccherini, Haber, Hendel, Nuti e Benvenuti, quasi tutti abituati al palco, che hanno in comune un passato, e anche un presente, alla ribalta, di cabaret o one man show, (i veicoli più sicuri, questi ultimi, per arrivare al piccolo o al grande schermo). Un modo di porsi e proporsi al pubblico che comprende lo «sguardo in macchina», nel senso che su un palcoscenico il rapporto è sempre diretto e niente viene condonato, lo show must go on. L’hanno raccontato in vari film Fellini (Luci del varietà, Roma), Salce (Basta guardarla), Steno e Monicelli (Vita da cani), Sordi (Polvere di stelle), Bolognini (Ci troviamo in galleria). Ma non sono solo loro: Giovanna Mezzogiorno, la più quotata e premiata delle nostre figlie d’arte, è arrivata ai trionfi sentimentali degli ultimi baci di Muccino e delle finestre di fronte di Özpetek dopo aver frequentato, complice il padre, il teatro raffinatissimo di Peter Brook a Parigi, per cui è stata niente meno che Ofelia, e ha poi recitato in un monologo agghiacciante della scrittrice suicida inglese Sarah Kane, 4.48 Psychosis. Non c’è differenza, è ovvio. Recitare è un verbo che si coniuga in una sola maniera. E il ragionamento vale anche in flash-back: Chiari e Tognazzi vengono dalla rivista, i De Filippo dall’avanspettacolo, Rascel dal circo, Gassman da Shakespeare, Manfredi dal Rugantino, Verdone, Boldi, Abatantuono dal cabaret, Alessio Boni dalla fiction (e guarda caso è stato anche Walter Chiari), Christian De Sica dalla canzone e dal musical cui è approdato qualche anno fa sulla scia del padre, fine dicitore e interprete a teatro di molte commedie brillanti nel periodo tra le due guerre, quando Totò e la Magnani, gran brillante, facevano coppia fissa nel varietà. Del resto il fatto che oggi il teatro entri e rientri potentemente da quella finestra da cui era stato gettato, lo dimostrano i riusciti tentativi di mettere in scena i loro film, in forma di riassunto e-o deviazione, da parte di due registi innovatori come Nanni Moretti e Gabriele Salvatores, che hanno allestito spettacoli ispirati rispettivamente a Caro diario ed a Io non ho paura, rivendicando un’unica fonte di ispirazione. E non va sottovalutato il fatto che alcuni famosi registi di cinema si concedono ogni tanto una non casuale vacanza teatrale: l’hanno fatto il rimpianto Monicelli e Rosi, cui si devono gli allestimenti di alcuni classici di Eduardo. Ma basti pensare al contributo che la famiglia De Filippo, in testa il grande Peppino, ha dato al nostro cinema. Così come non si può dimenticare la magistrale sintonia di Totò, nato in teatro, e della Magnani, che in rivista furono una coppia eccezionale ma al cinema apparvero insieme una sola volta, nelle Risate di gioia, per merito del grande Monicelli. Molti grandi titoli, anche del passato, anche classici, sono stati in questi anni riallestiti, ridotti, interpretati e trasferiti sul palcoscenico da parte di gruppi giovani: si va da Rocco e i suoi fratelli 148
MAURIZIO PORRO
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di Visconti ad Io e le donne di Woody Allen, da No Man’s Land di Tanovi a Giulietta degli spiriti di Fellini, uno dei primi a essere spesso saccheggiato per riduzioni teatrali, perfino 8½, non solo il balletto di Rota ispirato a La strada ma anche i vari musical ispirati alla Cabiria della Masina, fra cui il film di Fosse con la MacLaine. Sono spesso proposte interessanti, che testimoniano come teatro e cinema siano un’unica famiglia: del resto uno dei non allineati del cinema, Lars von Trier, con Dogville, ha diretto un film geniale e chiaramente ispirato a L’anima buona di Sezuan di Brecht, il film che Giorgio Strehler avrebbe fatto se avesse finalmente avuto l’occasione sempre rimandata del cinema. Ma L’opera da tre soldi l’hanno fatta già i tre. Al teatro epico, con tutte le sue suggestioni, si richiamava anche Cantando dietro i paraventi di Olmi, una magnifica parabola che parte proprio da una struttura di racconto teatrale, elemento sempre presente negli ultimi suoi film. E poi? La lista è infinita. Monica Vitti viene dal teatro serio, ha fatto Dopo la caduta di Miller con Albertazzi, un Amleto di Bacchelli, ma aveva iniziato facendo ridere, finché Monicelli le ha cambiato i connotati con La ragazza con la pistola, lanciandola nella commedia con grande successo. Sabrina Ferilli, diva della fiction, è stata prima donna al Sistina di molti musical di successo, e anche Nancy Brilli, anche lei tra le «commesse», alterna felicemente i due media, come ha fatto in passato la brava Ottavia Piccolo, attrice di Strehler e Ronconi, ma anche di Bolognini. E Orlando, Catania, Bisio vengono tutti dalla scuola del teatro milanese dell’Elfo, dove ha preso le mosse, e promette sempre di tornare, anche Salvatores. Valerio Mastandrea ha vestito per due anni i panni scanzonati dell’eroe della Roma papalina Rugantino, quello di Garinei e Giovannini. Fabrizio Bentivoglio e Massimo Ghini – quest’ultimo nelle armature schillieriane della Maria Stuarda con le rivaleggianti Cortese e Falk (pure loro campionesse di due specialità) – hanno debuttato insieme a teatro, dove tornano appena possono. Michele Placido è regista e attore di cinema ma si rintana nel suo amato teatro appena può, sfidando le tempeste strehleriane, gli Otelli shakespeariani, gli uomini dal fiore in bocca pirandelliani e altro, senza timore. Stefano Accorsi, il divo per eccellenza, ha studiato teatro e oggi addirittura sfida le memorie ronconiane con un nuovo Orlando furioso, così come Sergio Rubini, che ha esordito al cinema proprio con un suo fortunato pezzo teatrale, La stazione, dove recitava con Margherita Buy, anche lei impegnata in scena nella commedia della Comencini Due partite. A volte il teatro arriva come richiamo tardivo, vedi la discussa esperienza pirandelliana della Cardinale con Squitieri, ma Licia Maglietta alterna invece da sempre cinema e teatro con professionale regolarità, producendosi anche in recital di poesie (ultimamente è in scena TRA CINEMA E TEATRO
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con la Valeri), mentre Stefania Rocca ha lavorato con registi internazionali come Lepage, è stata Irma la dolce nel musical diretto da Savary e la storia assicura che continua. Del resto alcuni hanno scoperto anni fa un grande attore come Roberto Herlitzka solo vedendolo nei panni di Moro nel film di Bellocchio. Certo, i registi che hanno frequentato cinema e teatro con uguale passione non sono molti. Visconti è un’eccezione di cui andar fieri perché faceva cinema, prosa e lirica, così come Zeffirelli, i cui allestimenti d’opera fanno ancora discutere, ma se si va all’estero i nomi sono strepitosi, a cominciare da Bergman; oggi, però, un nome solido come quello di Mario Martone alterna tranquillamente stili e stilemi, producendosi con successo anche nell’opera lirica. Sono attratti dalle ombre, dal fascino, dal profumo ligneo del palcoscenico giovani bravissimi come Claudio Santamaria, Filippo Nigro, Pierfrancesco Favino. L’importante è variare, non sedimentare le ispirazioni. Guardate Aldo, Giovanni e Giacomo: loro vengono non solo dal teatro, ma da uno spettacolo circense in cui fu Paolo Rossi a lanciarli, hanno proseguito poi con il memorabile I corti che ebbe una serie infinita di repliche sempre esaurite, in doppio registro di popolarità, e sono scoppiati poi, come tutti, nel cinema comico natalizio. E non è finita: Barbareschi fa cinema, ma preferisce chiaramente il teatro; la Galiena anche, ha fatto compagnia con Luca De Filippo e promette di riprovarci, la Guerritore è più un’attrice di teatro ma il cinema, specie quello audace, a volte le ha spalancato le porte quando era con il marito Gabriele Lavia. E ancora: Luigi Lo Cascio viene dalla scuola di teatro e l’ha frequentata assai e ci è tornato di recente come il suo fratello d’arte Boni de La meglio gioventù; e anche Urbano Barberini, di recente presente sugli schermi, ha un presente teatrale di tutto rispetto, spesso al fianco di Franca Valeri, che offre col suo nome un’altra nobile e lunga testimonianza di quanto può essere felice questa commistione, se si pensa alla storica coppia comica che formò con Sordi e alla dedizione con cui recita oggi, a 92 anni, in palcoscenico, con immutato entusiasmo, scrivendo anche le sue commedie. Il fenomeno il cinema italiano lo conosce bene, fin dai tempi di Alida Valli, star internazionale che poi ha fatto molto teatro, off ma anche Pirandello e Tennessee Williams, e, venendo più avanti negli anni, della fortunata coppia Melato-Giannini, che arriva proprio dal teatro: la Mariangela, diplomata a Milano, attrice di classe insuperabile con Fo, Strehler, Visconti e Ronconi, oltre che protagonista della nostra commedia italiana e non solo, mentre Giannini ha dalla sua perfino il Romeo shakespeariano diretto da Zeffirelli. Ma in passato era la regola: ricordate Mastroianni? Era un grande, l’unico divo internazionale, ma al teatro ritornava umilmente, perché aveva 150
MAURIZIO PORRO
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iniziato con Visconti, aveva fatto echov e Alfieri e Tennessee Williams e con Michaikov ma anche con Ciao Rudy ebbe alcune esaltanti stagioni, chiudendo la sua partita proprio con una memorabile prova, quella delle Ultime lune. Ribadiamolo, una volta era la regola: nel dopoguerra il teatro di rivista ha dato al cinema tutto il suo parco attori, da Manfredi a Fabrizi, da Rascel a Chiari, da Vianello a Tognazzi al grande Sordi dell’avanspettacolo, fino a Gassman, che rappresenta il caso unico di un attore classico per ansiose e frementi platee domenicali femminili, trasformato poi in un colonnello della commedia ridanciana, dalla quale si poteva staccare quando voleva per tornare a Shakespeare, a Melville, a Pasolini, a Manzoni, a Dante e alle poesie. Ma il cosiddetto teatro minore, compreso l’adorato avanspettacolo di una volta e poi il cabaret di Villaggio e Pozzetto e Benigni, ha fatto scritturare dal cinema tutti i suoi eroi, anche le signorine, come Delia Scala, e un numero imprecisato di meravigliosi caratteristi, da Tieri a Carotenuto, da Giuffré, alla schiera dei napoletani (che oggi possiamo solo rimpiangere) e l’ultimo è Rocco Papaleo. Quindi che gli attori di cinema facciano anche teatro non è una novità, ma sarebbe quasi un obbligo se non ci fosse stato un vuoto negli anni ’80 quando il cinema si è identificato solo con un varietà televisivo scadente, mentre oggi insegue la commedia dei telefonini bianchi evitando spesso una realtà che però protesta dietro l’angolo. Un discorso diverso è quello degli attori della prosa seri – star della televisione dell’epoca – che invece il cinema ha ingiustamente smesso di utilizzare negli anni ’60: le apparizioni di grandi come Randone, la Proclemer (magnificata e riscoperta da gente di poca memoria in Magnifica presenza), Ricci e la Magni, De Lullo e la Guarnieri, Buazzelli e Carraro, la Morelli e Stoppa, che venivano utilizzati dal loro Visconti, sono comunque rare e non rendono giustizia del loro talento; e pure Romolo Valli, magnifico attore al cinema ma memorabile primo attore in teatro, e Albertazzi, che ha avuto le sue occasioni a Marienbad e dintorni, non sono mai diventati dei divi anche dello schermo come lo erano in teatro. Due nomi che invece sono riusciti a superare il diaframma sono quelli della citata Alida Valli e di Valentina Cortese, l’ultima divina in turbante, adorata e adorabile con il suo cuoricino liberty, sia con Truffaut che con Chéreau o Strehler.
TRA CINEMA E TEATRO
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Tutti pazzi per la fiction? LAURA DELLI COLLI
Il caso più clamoroso degli ultimi anni è senz’altro quello di Michele Riondino: da Marco Risi e Daniele Vicari al clamoroso exploit del Giovane Montalbano è lui, senza dubbio, il più talentuoso dei giovani attori volati dal cinema al protagonismo (subito andato a segno) di un personaggio non proprio facile da portare sullo schermo, visto il successo del “vecchio” Montalbano di sempre, Luca Zingaretti. Dopo la lunga stagione dei medici e degli avvocati, delle commesse di città e dei parrucchieri di provincia, del resto, la fiction ha finalmente tentato nelle ultime stagioni qualche azzardo televisivo nel segno dei contenuti e della qualità. Sì, sia pure in chiave popolare, il racconto popolare della tv ha rischiato su trasgressione e omosessualità, sulle adozioni e i nuovi matrimoni e, non poco su tutte le reti, su tante nuove famiglie: miste, multietniche, comunque allargate. Insomma: anche in tv eravamo un popolo di santi, poeti, navigatori ma da qualche anno, a sorpresa, certi stereotipi sembrano aver invaso più gli spot (vedi l’irresistibile coppia di casa Garibaldi con i continui bisticci tra madre e figlio) che la fiction tradizionale. Così le nuove star dell’immaginario collettivo, nel tentativo di raccontare comunque, anche in pochi minuti, storie e problemi ordinary people, sono proprio gli eroi-per-caso della quotidianità: oltre i generi, gente comune, oltre la fantasia degli sceneggiatori i problemi di tutti i giorni. Gli ascolti lo dimostrano sempre di più: proprio questi temi, così riconoscibili, sono diventati improvvisamente più importanti, nel gusto del pubblico. E più seguiti: perfino di un’isola persa nei mari televisivi o della casa artificiale del Grande Fratello, comunque il più classico esempio di «televoyeurismo indotto» ormai protagonista di un inequivocabile declino, non solo negli indici di ascolto. È indubbio che proprio la fiction, in misura maggiore del cinema, sia diventata sempre di più, negli ultimi anni, lo specchio, più o meno fedele, del-
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la vita quotidiana ben registrando, molto più del cinema (che invece perde pubblico) i cambiamenti di costume maggiormente indicativi. Ed è sotto gli occhi di tutti che dalla piccola rivoluzione stilistica alla quale stiamo assistendo da un buon decennio a questa parte sia nato anche uno star system, se non alternativo, decisamente complementare a quello del cinema. Tanto che il mercato degli attori di fiction, esauriti gli stereotipi degli utlimi dieci anni, è riuscito a produrre qualche guizzo di originalità in più a ogni casting. Riondino, formazione teatrale e un paio di interpretazioni subito notevoli sullo schermo (il fotografo amico di Alessandro Siani, schiavo dell’eroina in Fortapàsc di Risi, poi, soprattutto, il piccolo boss spregiudicato che porta sulla strada sbagliata Elio Germano in Il passato è una terra straniera di Vicari) proprio lui, tra i nuovi protagonisti è la prova che la fiction cerca con successo di sperimentare, rischiando di tanto in tanto oltre le facce di quella compagnia di giro che entra abitualmente, nelle case degli italiani. Il fatto è che la tv, sembra aver bisogno, sempre di più, nelle ultime stagioni di puntare sul sicuro, portando in tv, in molti casi, non solo le facce ma anche la qualità sperimentata di attori formati dal cinema. E, perché no, capaci di conquistare alle abitudini televisive anche un pubblico (cinematografico) più giovane, merce sempre più rara oggi nell’audience televisiva“generalista”. Se già un decennio fa Vittoria Puccini, oggi sofisticata protagonista del cinema d’autore (dopo Pupi Avati, Magnifica presenza di Ferzan Özpetek) era solo la pallida e tormentata scoperta televisiva di Elisa di Rivombrosa nell’omonima serie tv, un talento naturale come Riondino passa dal grande al piccolo schermo senza troppe scosse. Anzi, conquistando una nuova, più forte, popolarità. E anche un’altra fascia di pubblico. È accaduto, anche se meno clamorosamente, a Luigi Lo Cascio che, dai tempi di La meglio gioventù, ci ha riprovato, da poco, con un’altra fiction decisamente autoriale, correndo come Dorando Petri (Il sogno del maratoneta di Leone Pompucci) tra gli ascolti di Rai 1. E almeno per quest’ultima stagione la fiction degli attori più “cinematografici” ha soppiantato il primato di polizieschi e sparatorie. Con una sola eccezione, guardacaso d’autore: la serie di film televisivi prodotta da Claudia Mori che ha affrontato con alcune importanti regie d’autore (Margarethe von Trotta, Liliana Cavani, Marco Pontecorvo) quattro casi di violenza contro le donne, dei quali sono protagoniste non solo autentiche star della fiction come Antonia Liskova e Massimo Poggio ma proprio alcuni protagonisti cinematografici: come Carolina Crescentini e Francesca Inaudi, Stefania Rocca e Alessio Boni. Boni merita una riflessione a parte: dopo l’exploit televisivo con il Caravaggio fotografato dall’Oscar delle luci, Vittorio Storaro, è tornato sorpren154
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dentemente in tv per raccontare il “suo” Walter Chiari con un ritratto decisamente fedele al personaggio: teso, divertente e glamorous, nella prima parte del racconto, poi disperatamente solo e intristito da una vita molto vissuta (ma anche in parte sprecata), ferito dalla “giustizia” e dal carcere, e da un certo mondo cinematografico. E ancora, scapestrato sciupafemmine (e denaro) come pochi. Anche grazie a un regista soprattutto cinematografico come Enzo Monteleone Boni ha dato, del resto, al suo personaggio una qualità verosimile davvero incredibile sovrapponendo in maniera straordinaria, fino ad una perfetta capacità di identificazione, la sua faccia a quella smaliziata e un po’ guascona di Walter Chiari senza scalfire, però, l’immagine e il ricordo di un’icona apparentemente intoccabile. Certo, quel Walter Chiari è nato, con Boni, dall’esperienza teatrale ancor prima che nel cinema o nella fiction tv. È a volte proprio la fiction, pronta ora a riscoprire anche Domenico Modugno (con Beppe Fiorello in un’interpretazione perfetta) a prendersi qualche rischio in più anche in materia di casting. Offrendo agli attori nuove possibilità di rimettersi in gioco con un pizzico di trasgressione in più. Un esempio perfetto, negli ultimi anni, è nato dalla più sorprendente delle nuove fiction: Tutti pazzi per amore, Con un bagno di novità nello script e nel casting nel quale sono letteralmente annegati, fin dalla prima serie, i più vecchi stereotipi, della sceneggiatura per la tv. E i protagonisti più “classici”, dai camici bianchi ai poliziotti. In realtà, mai come in questo tempo mediatico, più basso che alto, la televisione è uno specchio e insieme una finestra. Magari proprio quella finestra sul cortile che, azzardando un paragone da cinefili, ha reso un autore certo non proprio popolare e sofisticato come Alfred Hitchcock un ispiratore involontario del tele voyeurismo che ha trasformato molta quotidianità televisiva in un continuo reality show… Paragone azzardato, certo, ma in fondo il percorso di cambiamento che ha trasformato la televisione in una specie di buco della serratura aperto sulle vite degli altri è cominciato proprio da una simbolica finestra aperta sulla privacy della casa accanto, raccontando non solo le paure e i sentimenti della gente comune ma, attraverso quello sguardo morboso, le loro curiosità più segrete, fino a un patologico, irresistibile bisogno di guardare, spiare... In una sola parola di “esserci” per far parte di un mondo virtuale sempre più sovrapponibile alla vita vera. Per far parte di un format, insomma. Co-protagonisti di un vero e proprio topos narrativo, produttivo e industriale. Pilastro della programmazione televisiva europea, la fiction è, del resto, per gli ascolti, un prodotto televisivo leader non solo in Italia ma in GermaTUTTI PAZZI PER LA FICTION?
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nia, Gran Bretagna, Francia e Spagna. E proprio in Italia è il genere televisivo sul quale hanno puntato forte negli ultimi anni anche i produttori (e quindi il casting, gli agenti, gli attori stessi) del cinema. Lo affermava, già nel 1998 (una vera e propria profezia, a rileggerla oggi) Eurofiction, il rapporto europeo sull’industria del settore realizzato per Eurofiction dalle équipe universitarie di cinque Paesi, con coordinamento della sociologa Milly Buonanno che registra costantemente attraverso questo strumento le oscillazioni del barometro di ascolto (e anche del gusto e delle tendenze nella fiction che maggiormente circola sulle tv d’Europa). Secondo quello studio, realizzato anche in collaborazione, per l’Italia, con Rai e Mediaset, per cui Buonanno ha registrato regolarmente le oscillazioni del barometro di ascolto (e anche del gusto e delle tendenze) nell’Osservatorio sulla fiction, proprio l’Italia si annunciava strategica per tutta l’industria europea. Ascolti e mercato, anche solo a un colpo d’occhio, lo confermano. Ma fino a quando? Già prima della svolta più recente, registrata con gli anni Duemila, alla fine dei Novanta i titoli italiani avevano fatto registrare, in effetti, un aumento record (dell’ottanta per cento circa) della produzione. E, con questa nuova serialità proprio allora era nata anche la nuova «bottega» degli scrittori, una vera e propria new school di sceneggiatori e registi spesso inediti perché nati prima che nella fiction nel giornalismo d’inchiesta, in grado di realizzare storie più aderenti alla cronaca e alla realtà. Un «filone» molto incrementato da firme come Romagnoli e soprattutto Andrea Purgatori, che sembra aver fatto, già da tempo, la scelta della scrittura, privilegiando fiction e cinema rispetto all’oscuro anche se affascinante mondo della redazione. «Botteghe»: se quella di Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt (TaoDue) negli anni ’80-’90 è stata, in qualche modo, la «palestra» più affollata dove si sono allenati i giornalisti-sceneggiatori proprio il gruppo di lavoro di Purgatori, già cronista e inviato del «Corriere della Sera», oggi grande firma della fiction e leader dei Centoautori, ha portato nella scrittura per la tv un certo un tocco di mélo che nello script per il grande pubblico non può mancare ma, soprattutto, l’esperienza di un cinema d’inchiesta come quello che, con la regia di Marco Risi, aveva prodotto l’esperienza (cinematografica) di film nato dall’inchiesta come Il muro di gomma, su Ustica. L’Italia è sempre di più il Paese leader, del resto, per la fiction ispirata dall’attualità (a partire da Ultimo, con Raul Bova, trasmesso da Canale 5). Più consolidata nel telefilm poliziesco (lo storico Derrick, per citare un titolo) la leadership della Germania, produttrice del genere numero uno in Europa, con circa duemila ore di fiction all’anno, che esporta molto vendendo anche i format e le storie 156
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(vedi la serie del cane Rex popolarissima anche nel lungo remake italiano). Largo poi, con oltre 1.200 ore autoprodotte, alla Gran Bretagna, dov’è stato un caso Casualty, per esempio, un E.R. britannico ambientato nel mitico Holby City Hospital. In Francia, invece, tra giudici, avvocati e poliziotti, come Julie Lescaut, vera e propria Linda francese (senza il brigadiere) o il Commissario Navarro che spopola da oltre dieci anni. Leader in Spagna, infine, la famiglia Martín, ovvero i Martín di Madrid, popolarissimi protagonisti di Médico de familia, cento episodi, dieci milioni di telespettatori a colpo sicuro, che ne hanno fatto il programma più seguito di tutta la tv spagnola e non solo. E così, a quanto pare, tutto il mondo, (o almeno tutta l’Europa) come si dice, nella fiction è paese. Con un distinguo alla voce autori, però: in Italia, accanto ai più grandi sceneggiatori, ci sono molti professionisti nella scrittura per il cinema; si avanza, infatti, una leva interessante di sceneggiatori costruiti ad hoc per sfornare successi popolari. Proprio quegli specialisti della cronaca passati su un altro fronte, come le grandi firme «prestate» alla fiction dal giornalismo: non solo Purgatori ma Pino (Giuseppe) Corrias che di tutti è stato il capofila, cronista d’inchiesta e «mafiologo» tra i più quotati, ha esordito mettendo la penna nel copione di Ultimo. E ha inaugurato un filone d’oro trasformando in veri e propri fabbricanti di audience, grazie all’attualità delle loro sceneggiature, alcuni dei più noti giornalisti pescati nella carta stampata. Corrias ha addirittura cambiato mestiere entrando ufficialmente nell’establishment della produzione: ora è lui che legge, a viale Mazzini, dov’è dirigente nell’area della produzione fiction, i copioni degli altri, nella scia di quella tendenza che ha portato alla tv firme come Saverio Lodato («l’Unità») per il Brusca destinato a Canale 5 o Marco Melega, che aveva seguito da cronista la lunga vicenda della Uno bianca, collaborando poi con Gabriele Romagnoli alla sceneggiatura del film prodotto da Valsecchi per Canale 5. In squadra tra gli sceneggiatori prestati alla fiction dal giornalismo è entrato anche Fabrizio Rondolino, che dalla cronaca aveva già fatto il salto nella politica (è stato anche il portavoce di Massimo D’Alema): a lui la Rai ha affidato all’inizio degli anni Duemila un Kosovo in versione tv, scritto con lo sceneggiatore Graziano Diana. Con il quale, da giornalista più che da sceneggiatore, aveva effettuato anche una full immersion al fronte, spedito sul posto proprio da un ex collega come Corrias. Ma la grande stagione della fiction d’inchiesta e dei legal film formato tv, dopo il successo imperituro di «giudici» come Sebastiano Somma e perfino dei detective di paese come il buon don Matteo, sembra pescare dal cinema, grazie all’impegno dei registi che, finalmente, alternano al grande schermo la fiction senza più resistenze. Ma che, soprattutto, puntano sulla freschezza di TUTTI PAZZI PER LA FICTION?
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una nuova leva di attori nati proprio nel cinema. Riccardo Milani è forse il capofila di tutti: ha firmato ritratti (è sua la Montessori con Paola Cortellesi) e mélo tradizionali per una lunga stagione di successi; con Ivan Cotroneo ha realizzato la serie più innovativa degli ultimi anni, portando perfino un po’ di Bollywood (i balletti, le canzoni, ecc.) tra protagonisti che al cinema, forse, non avrebbero mai tentato un’avventura simile. Così dove ieri c’erano «gli attori degli sceneggiati» o del cinema formato famiglia, che in fondo, anche pedagogicamente, è stata la fiction, oggi c’è un cast in cui spiccano Stefania Rocca, Francesca Inaudi, Sonia Bergamasco. Attrici che sono nate al cinema e in qualche caso (la Bergamasco) a teatro e che volentieri si misurano con un mezzo e un format certamente di grande successo popolare. Qualcosa che ha cambiato, forse, la loro vita professionale. Ma senza dubbio anche il gusto, non solo narrativo, di una fiction meno tradizionale e più aperta anche a qualche sperimentazione. Tutti pazzi per la fiction, anche tra gli attori degli anni Duemila?
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LAURA DELLI COLLI
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Il cinema del reale
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La rivoluzione documentaria VITO ZAGARRIO
L’urgenza del reale Due eventi recenti confermano la forte presenza del documentario italiano nello scenario complessivo del cinema «espanso» (intendendo con questa formula un cinema dove il feature film si ibrida col documentario, col corto, col video, con le arti elettroniche, con i new media – dal cellulare a internet – e con tutta una serie di ibridazioni tipiche del post-postmoderno). Il primo, freschissimo, è il Nastro d’argento collettivo a una serie di documentari prodotti dall’Istituto Luce nel 2012. Al Luce-Cinecittà, infatti, è andato il premio speciale «Documenti e passione cinematografica nel listino 2011-2012», per aver coprodotto e distribuito cinque documentari: Pasta nera di Alessandro Piva, Il corpo del Duce di Fabrizio Laurenti, Il sorriso del capo di Marco Bechis, Case chiuse di Filippo Soldi, Profughi a Cinecittà di Marco Bertozzi. Documentari tutti pensati all’insegna del materiale di repertorio (da qui il premio al Luce e al suo archivio). I premi «ufficiali» 2012 sono andati invece a Tahrir Liberation Square di Stefano Savona, Nastro d’argento per un famoso documentario sulla mobilitazione di piazza che ha fatto emergere a notorietà internazionale, in Egitto, la nuova Primavera araba, e a 148 Stefano. Mostri dell’inerzia di Maurizio Cartolano, dedicato al caso Cucchi, realizzato in coproduzione con «il Fatto Quotidiano» e in collaborazione con Amnesty International e Articolo 21. Il secondo evento è il programma principale della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (edizione 2012) dedicata a «Il cinema documentario oggi: l’Italia allo specchio»; e cioè alle modalità con cui il docu italiano contemporaneo fotografa il nostro Paese. A Pesaro si sono potuti vedere film interessanti del primo decennio dei 2000, discussi con i relativi autori: Musi neri di Filippo Biagianti (2012), Quintosole di Marcellino De Baggis (2004),
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Armando e la politica di Chiara Malta (2008), Grandi speranze di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (2009), Palazzo delle Aquile del citato Stefano Savona con Alessia Porto ed Ester Sparatore (2011), Cadenza d’inganno di Leonardo Di Costanzo (2011), Scuola media di Marco Santarelli (2010), Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene (2008), Magog (o epifania del barbagianni) di Luca Ferri (2012), A Nord Est di Milo Adami e Luca Scivoletto (2010), Land of Joy di Laura Lazzarin (2011), Giallo a Milano di Sergio Basso (2009), Ju Tarramutu di Paolo Pisanelli (2010), Ciao Silvano! di Tekla Taidelli (2011), Noi dobbiamo deciderci di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato (2007), In attesa dell’avvento degli stessi D’Agostino e Lavorato (2011), Ferrhotel di Mariangela Barbanente (2011), Il pranzo di Natale, film collettivo coordinato da Antonietta De Lillo (2011), ThyssenKrupp Blues di Pietro Balla e Monica Repetto (2008), Predappio in Luce del sopracitato Marco Bertozzi (2008), Milano 55,1. Cronaca di una settimana di passioni di vari autori (2011), film collettivo coordinato da Luca Mosso sulla vigilia della chiamata alle urne che ha portato all’elezione di Pisapia a sindaco di Milano, Il passaggio della linea di Pietro Marcello (2007), Scorie in libertà di Gianfranco Pannone (2011-2012). Su quest’ultimo autore conviene aprire una parentesi, perchè l’autore di Piccola America e Latina/Littoria affronta con questo suo ultimo lavoro la questione nucleare italiana, partendo dal caso del suo territorio, cioè Borgo Sabotino, nella periferia di Latina, appunto. Pannone è uscito nello stesso periodo con un libro, Doc Doc. Dieci anni di cinema e altre storie (Atripalda, AV, Cinema Sud, 2012), che raccoglie un decennio di saggi pubblicati sul sito di Doc It. Si tratta insomma di un panorama esauriente del documentario contemporaneo, che rifiuta una differenziazione rispetto al «cinema» narrativo più tradizionalmente inteso, che rivendica l’esistenza di una nuova generazione e di una nuova mentalità di filmmaker, e coglie temi sociali come l’immigrazione (Giallo a Milano, Ferrhotel), il dopo-terremoto (Ju Tarramutu), il nucleare e le sue conseguenze (Scorie in libertà), la battaglia politica (Palazzo delle Aquile, Milano 55,1), le contraddizioni dell’industria (ThyssenKrupp Blues), ecc. Ha approfondito le varie tematiche una tavola rotonda dedicata a «Il documentario sociale dal cinema al web», animata da tutti i registi presenti all’evento pesarese. Un incontro interessante che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che non esiste più un confine tra film e docu. Resta da chiedersi, semmai (ma è solo un commento amichevole), come mai questi filmmaker continuino a definirsi «documentaristi», ricalcando in qualche modo le formule e i ghetti di sempre. 162
VITO ZAGARRIO
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Al festival di Pesaro, tra l’altro, c’era un evento speciale complementare e continuo a quello sul documentario italiano: era la retrospettiva dedicata a Nanni Moretti, la cui filmografia e la cui storia produttiva dimostrano a propria volta l’interesse del regista per il documentario: La cosa (1990) è l’esempio più famoso; ma interessanti anche Il diario del Caimano (2006), sorta di atipico backstage de Il Caimano, The Last Customer (2003), piccolo corto docu sull’ultimo giorno di una farmacia di New York che sta per essere distrutta, Il giorno della prima di Close Up (1995), docu-fiction fortemente metalinguistica. Si aggiungano a questi titoli i vari Diari della Sacher, serie di documentari prodotti dalla società di Moretti, e più generalmente un’«idea documentaria» che il regista contiene sempre nei suoi film, da Aprile a Il Caimano.
Il mio paese Come suggerisce il titolo del festival di Pesaro, il «nuovo documentario» italiano riesce a tastare il polso del Paese reale, l’ex Bel Paese. Biùtiful cauntri, titola infatti ironicamente un documentario realizzato nel 2007 da Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero, che ha fatto molto parlare di sé. Diretto da un team «militante» di cui fa parte la nota montatrice Calabria (che ha ovviamente lavorato anche in questo film), il docu affronta il tema dell’emergenza rifiuti e dell’inquinamento in Campania, focalizzandosi sui problemi delle discariche abusive, dell’ecomafia e delle conseguenze dell’inquinamento sugli allevamenti e sull’agricoltura, oltre a indagare sullo smaltimento illegale dei rifiuti e sulle – scontate ma sempre scioccanti a vederle testimoniate – collusioni tra criminalità organizzata, istituzioni e potere politico. Il lento avvelenamento della popolazione, infatti, che muore pian piano per le conseguenze dei rifiuti tossici, nasconde una rete di connivenze tra camorra, politica locale e governo, che il film mette in luce e denuncia con raccapricciante chiarezza. Le campagne di Acerra, percorse in macchina come in un atipico on the road, sono popolate da rifiuti e da mondezza in fiamme; i bordi delle strade disseminati da cadaveri di pecore (agnelli sacrificali di una in-civiltà postmoderna); all’orizzonte roghi inquietanti che danno minacciosi riflessi ai casermoni della provincia napoletana. Si tratta di un film su uno spaccato di malgoverno locale, dunque, ma che si può espandere a più generale panorama di un Paese che, all’inizio del nuovo millennio, sta vivendo la sua più profonda crisi. Una crisi che è economica e politica, ma anche culturale e morale. LA RIVOLUZIONE DOCUMENTARIA
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Prosegue e si accentua, infatti, negli anni Duemila quell’«anemia di ideali» di cui parlava Alessandro Baricco a proposito del decennio precedente, e che io avevo messo in luce in un volumetto sul cinema italiano degli anni novanta1. Solo che stavolta l’anemia è diventata un virus, un contagio mortale che ha colpito la popolazione intera, e non soltanto il mondo intellettuale. L’Italia è, all’inizio del nuovo secolo, e in particolare dopo l’inizio della grande crisi economica, una nazione senza nerbo e senza entusiasmi, da cui chi può fugge alla ricerca di altri lidi. Eppure si può registrare un grande fervore ideologico, una voglia di uscire dallo stallo, dal circolo vizioso della depressione (economica e morale). Sono soprattutto i documentari, appunto – fenomeno nuovo degli anni 2000, per quantità e qualità, e anche per un’acquisita pari dignità col cinema di finzione –, a riflettere sull’Italia di oggi, a tentare di disegnarne un panorama attendibile, al di là delle tendenze escapiste del peggior cinema commerciale e dei prodotti più o meno rassicuranti o «riconciliati»: penso a documentari sull’oggi come Silvio Forever di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, ma anche a film che riflettono sul passato prossimo e remoto, come Il sol dell’avvenire di Gianfranco Pannone (ripensamento postumo sulla lotta armata) o Predappio in Luce di Marco Bertozzi (che dal paese di Mussolini prende le mosse per un’indagine sul neofascismo), o i bizzarri film di denuncia di Sabina Guzzanti Viva Zapatero! e Draquila. Un esempio importante, sulla linea di Biùtiful Cauntri, è Il mio paese di Daniele Vicari: si tratta di un viaggio attraverso la penisola in senso inverso al percorso compiuto da Joris Ivens nel 1960 per il famoso L’Italia non è un paese povero, spaccato di vita dell’Italia della ricostruzione e all’alba del boom, commissionato dal presidente dell’Eni Enrico Mattei, cui collaborarono i fratelli Taviani. Le drammatiche e bellissime immagini della pellicola in bianco e nero del celebre documentarista (ma il termine è riduttivo) olandese, censurate all’epoca dalla Rai (che mandò in onda a tarda notte una versione depurata del documentario), vengono ri-usate quarant’anni più tardi come fonte e come immagini di confronto nel film di Vicari, e vengono accostate a immagini dell’Italia di oggi. È un Paese filmato attraverso il finestrino di un pullman in corsa: a volte sono squallidi e desolati scenari industriali, ma a volte anche paesaggi bellissimi, che Vicari filma con grande piglio formalista e senso dell’inquadratura. Ne viene fuori, dunque, un filmdocumento, ma anche un esercizio di stile, teso a in-quadrare l’Italia della postmodernità. 1. 164
Cfr. V. Zagarrio, Cinema italiano anni novanta, Venezia, Marsilio 1998 (2001). VITO ZAGARRIO
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È, un po’ come Biùtiful Cauntri, un road movie, con un pullman che viaggia attraverso l’Italia industriale, dalla Sicilia al Veneto. Partendo da Gela e Termini Imerese, e passando per la Basilicata e la Toscana, Vicari approda a Porto Marghera, ultimo residuo dell’industria chimica italiana, lasciando spazio ai volti e alle parole della gente comune. Filma con la partecipazione ideologica che gli è consona «il suo paese», dando voce alle popolazioni locali e raccontando il lavoro nell’Italia del nuovo millennio. Quella Patria attuale, la canzone finale di Massimo Zamboni cantata da Nada, che suona come una grande metafora e apre uno spiraglio di speranza per questa nostra terra «onesta per metà, e per metà per male»2. Altro viaggio, in Cinquecento stavolta invece che in pullman, è quello di Italy, Love It or Leave It, un documentario prodotto da Rai 3 che pone il problema dell’ex Bel Paese e del dilemma se «resistere» amandolo e vivendoci, oppure se abbandonarlo (anche a se stesso). Questo atipico film, borderline tra documentario e finzione, che ha vinto il Milano Film Festival, racconta la storia di Luca e Gustav, una coppia gay di trentenni italiani che hanno visto molti loro coetanei emigrare a Berlino, a Barcellona, o in Nuova Zelanda. I giovani creativi sono costretti a mollare, frustrati dalla politica, dalla disoccupazione, dal carovita e dalla mentalità reazionaria. Approfittando del fatto che sono stati sfrattati, Gustav vorrebbe lasciare l’Italia, Luca invece si intestardisce a restare. Per scegliere che fare, i due decidono di compiere un viaggio in Cinquecento lungo l’Italia. Luca cerca di convincere Gustav della bontà non solo della storia italiana, ma anche delle icone popolari, dalla Vespa a Sofia Loren; Gustav fa invece notare la delocalizzazione, il capitalismo selvaggio che travolge gli operai della Bialetti e della Fiat, i tanti sprechi tipici dell’Italia di ieri e di oggi. Luca ribatte facendo ascoltare la voce di quelli che restano e combattono: tra gli altri, lo scrittore Andrea Camilleri e il testimone di giustizia Ignazio Cutrò, che da più di dieci anni, nell’agrigentino, continua a comprare i camion per la sua ditta, che vengono puntualmente bruciati dal sistema mafioso cui si è ribellato. Alla fine, la decisione dei due protagonisti – e dunque del film – è che vale la pena di restare in questo Paese amato e odiato, ma per cui vale la pena di lottare.
2. Sia Il mio paese che Biùtiful cauntri sono usciti in DVD accompagnati da un volumetto; e i due libri offrono un supporto in più all’analisi che stiamo facendo qui. Cfr. E. Calabria, A. D’Ambrosio, P. Ruggero, Biùtiful Cauntri, con una prefazione di Luigi Ciotti, Milano, Bur 2008; D. Vicari, Il mio paese, Milano, Bur 2007. LA RIVOLUZIONE DOCUMENTARIA
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Un panorama contraddittorio Si tratta, come si vede, di un panorama in sommovimento, e di una vera e propria «rivoluzione culturale». Nonostante ciò, restano le contraddizioni, le insoddisfazioni e i problemi irrisolti. Se ne lamenta, infatti, il sopracitato Marco Bertozzi (storico del documentario ed a sua volta documentarista «militante», come si evince dai suoi titoli e dai suoi premi), che in un volume collettaneo descrive il documentario come un fratello povero del cinema, ancora in cerca di legittimazione, umiliato di fronte agli scenari cinetelevisivi3. Bertozzi attacca il «sistema cinematografico» reo di non dare al documentario la sua giusta riconoscibilità: «Non è sufficiente la passione documentaria di giovani autori o la rinnovata curiosità di qualche “segmento di pubblico”: il documentario resta qualcosa di “polveroso”, insanabile aporia dell’oggettività, collosa aderenza filmica tra segno e referente. In una sottostima costante delle sue qualità cinematografiche, resta fuori dai meccanismi mentali, oltre che distributivi, del circuito mainstream: ignoto agli alfieri del prodotto da vendere, ai critici legati alle storie e agli attori, ai ragionieri degli incassi e alle redazioni dei grandi quotidiani che, secondo la pratica del «crossover», preferiscono dedicare intere pagine al film del comico televisivo di turno […], del cantante famoso […] del figlio o del fratello minore […]. Spesso sono gli stessi che, imbellettati, raggiungono Marzullo per partecipare a “Cinematografo”, il programma televisivo più “autorevole” di critica sulla settima arte, per sostenere che: a) dopo Moore il documentario va ormai di moda e loro non ne possono veramente più!; b) In Italia non esiste un documentarista del valore di Moore... […] Di (docu) afasia – non ha proprio le parole – gode gran parte della critica: da un lato ignora deliberatamente i documentari, dall’altro, quando vincono festival o, all’estero, raggiungono le vette degli incassi (e, pertanto, rientrano in quelle categorie dello “spettacolo” a lei note) ne parla stupita, infarcendo gli articoli di splendide perle in stile “sembra un vero film” o “gli attori recitano benissimo”; ultima possibilità di racconto, qualora il “contenuto” si presti a riflessioni socio-politiche di attualità. Altrimenti quasi nulla, nulla». Bertozzi ha ragione a lamentarsi.Voglio citare infatti, a proposito di preconcetti, una battuta dell’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, che a un incontro sul cinema organizzato da «Reset» all’Università Roma Tre, criticò la scelta della giuria di Cannes 2004 di premiare con la palma d’oro il film di Michael Moo3. Cfr. M. Bertozzi, Percorsi documentari, in V. Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù. Esordi italiani 2000-2006, Venezia, Marsilio 2006. Di Bertozzi vedi anche Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell'altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008. 166
VITO ZAGARRIO
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re Fahrenheit 9/11 «perché non è un film». La battuta – che provocò, mi ricordo, un’alzata di scudi da parte dei critici e dei docenti presenti – è significativa di un modo di rapportarsi all’«idea documentaria», il lapsus di un uomo e un intellettuale che pure è noto per la sua passione cinefila. C’è dunque un gap ancora da superare, una battaglia di legittimazione, di affermazione di esistenza, come ai tempi del muto, quando si discuteva se il cinema avesse la «dignità» dell’arte. D’altra parte, però, questo primo decennio del terzo millennio ha visto il documentario italiano protagonista di un sommovimento estetico e di una serie di iniziative che hanno fatto capire il rinnovato interesse per il «cinema della realtà». Lo stesso Bertozzi non può che citare le tante iniziative, i libri, i convegni, i casi filmici che sono davanti agli occhi di tutti, e ripercorre con la memoria, a ritroso, i tanti eventi dei Duemila4: la presentazione della prima indagine conoscitiva sul mercato del documentario in Italia (febbraio 2006); il rinnovato interesse delle commissioni ministeriali della Direzione Generale per il Cinema nel finanziare opere, anche di lungometraggio, a carattere documentario (nelle sedute del 2005); la firma della convenzione fra Doc/It, l’Associazione dei documentaristi, con il Luce (maggio 2005) per l’utilizzo, a prezzi concordati, del patrimonio dell’Istituto; i primi Stati generali del documentario italiano a Bologna (ottobre 2004); la presentazione alla Mostra di Venezia del libro L’idea documentaria di Marco Bertozzi e del film collettivo Scusi, dov’è il Documentario? (settembre 2003); la nascita di esperienze di distribuzione alternativa (come «Documè», dal 2002) e di servizi di informazione (il sito ildocumentario.it, dal 2001); il generale sviluppo di esperienze didattiche legate al cinema della realtà: oltre a quelle istituzionali, quali la Zelig di Bolzano, i master di Doc/It, a Bologna nel 2001 e a Napoli nel 2002; o quelli del Festival dei Popoli, Docutdes, nel 2004, 2005, 2006 a Firenze. Tra queste esperienze mi piace citare anche il Master “Professioni e linguaggi Cinema, Televisione e Video”, da me coordinato all’Università Roma Tre, che contiene un corso di documentario. Tra i maggiori responsabili di questa nuovo interesse per il docu, e di questa inedita esplosione di prodotti, è senz’altro la «rivoluzione digitale»: infatti, tra la metà degli anni Novanta e i Duemila è avvenuta una mutazione profonda delle tecniche, degli apparati di ripresa, di montaggio e di postproduzione, dello stesso modo di pensare, dell’intero immaginario collettivo. È sotto gli occhi di tutti la profonda rivoluzione tecnologica in atto: una trasformazione che vede i vari mezzi contaminarsi, convergere e fon4.
Ibidem. LA RIVOLUZIONE DOCUMENTARIA
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dersi insieme, pellicola e digitale, film e televisione, cinema ed elettronica, e poi internet, i palmari, i cellulari, le playstation, ecc. Stiamo assistendo a una mutazione genetica a livello planetario: gli adolescenti incarnano un’inedita alfabetizzazione, fatta di computer e di digitale, parlano via e-mail e via chat, sperimentano giovanissimi il loro linguaggio con una telecamera DV o MiniDV, una webcam o con una macchina fotografica digitale le cui immagini inseriscono subito in rete; e, soprattutto, montano con i loro computer casalinghi. La stessa nozione di «sala di montaggio», o di «studio di postproduzione» è andata via via a cadere, perché i montatori – che sono spesso gli stessi filmmaker – montano a casa, o sul portatile ovunque si trovino, pure al mare. Il documentario non poteva non risentire di questa nuova «leggerezza» delle macchine di ripresa e di montaggio: persino troppo facile è, infatti, accendere un telefono cellulare o un Ipad e «documentare» qualsiasi situazione, dalla comunione dei figli (e siamo nell’ambito degli home movie, sulla cui raccolta esiste già un’associazione, la Home Movies appunto)5 alla manifestazione per la pace. Persino troppo facile, dico, ed è infatti anche il difetto, e il possibile pericolo latente, del nuovo documentario: basta accendere una telecamera – o al limite un cellulare – per «documentare», in barba alla grammatica e alla sintassi filmiche. Nonostante i rischi di superficialità e di approssimatività, comunque, non si può non registrare e apprezzare il tremendo cambiamento avvenuto negli scenari pubblici e privati, che io chiamerei la terza rivoluzione industriale (la prima è quella del telaio meccanico, la seconda quella dell’atomica), quella del digitale che ha cambiato la nostra vita quotidiana, oltre che il cinema e la televisione. Una mutazione genetica che io ho spesso definito, «l’immaginario iconico del dopo 11 settembre»6, ma che l’evento mediatico delle torri gemelle ha solo avuto il merito, pur nella catastrofe, di mettere a nudo e portare alla luce nelle sue valenze più profonde. Sembra realizzata la provocatoria immagine evocata da Umberto Eco quando, a proposito dei fatti di Radio Alice, negli anni Settanta – dunque in epoca di analogico puro –, scriveva che «è come se fosse nato un terzo occhio sul dito indice di ogni essere umano». È una metafora che lo scenario attuale, non più futuribile, ha largamente attualizzato: basta pensare alle telecamere-spia dei reportage delle Iene, o alle minitelecamere della Formula 1 o del calcio (quelle 5. Rimando al lavoro che sta facendo da anni Luca Ferro: vedi ad esempio le Giornate del cinema familiare, Siena, Firenze, Pisa, 10-15 novembre 2005. 6. Cfr. V. Zagarrio, L’anello mancante, Teoria e storia del rapporto tra cinema e televisione, Torino, Lindau 2004. 168
VITO ZAGARRIO
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leggerissime poste in angolazioni impossibili, sulla monoposto o dentro la rete), o alla webcam, che mette in comunicazione i corpi, oltre che le parole. La leggerezza, la maneggevolezza e – tema importante – il bassissimo costo dei mezzi causa anche un nuovo approccio alla messa in scena, e un’inevitabile contaminazione di formati: l’emergente Giovanna Taviani, ad esempio, usa la telecamera digitale come una caméra-stylo, uno strumento di appunti per il suo viaggio nel cinema italiano, I nostri trent’anni. E l’equipment leggero le permette anche una certa leggerezza della regia, che fa i conti con i «padri fondatori» del cinema nazionale, ma mette anche insieme, attorno a una tavola pasoliniana, il New-New Italian Cinema di Sorrentino, Marra, Porporati, Vicari, Pellegrini, ecc., che affidano all’occhio della DVcam le loro riflessioni. Michele Carrillo, peraltro, gira il suo Tra due terre – toccante storia di una famiglia italo-argentina che torna in Italia dopo la crisi economica – in DVcam, e può permettersi di riprendere a luce naturale, partendo quindi dall’Italia senza quarzi, stativi, ecc., senza cioè tutto l’armamentario delle luci. Di conseguenza opera solo con una minitroupe: pensiamo alla differenza di costi, viaggio, vitto e alloggio, eventuali diarie… Nella stessa ottica Fabiana Sargentini gira Sono incinta – le difformi reazioni di una settantina di uomini alla fatidica frase pronunciata dalle proprie compagne: «Sono incinta…» appunto – praticamente da sola, piazzando la telecamera su un cavalletto. Essenziale, dunque, è un discorso sul nuovo «modo di produzione» del documentario, sdoganato dai vecchi sistemi industriali – troupe, pellicola, laboratorio, o almeno studio di montaggio analogico, ecc. –, e possibile addirittura come un one man show. O one woman show, visto che un’altra novità del documentario è quella del gender, tante sono le opere firmate da donne. Parlavo anche di contaminazioni: Chiara Malta (una donna, appunto) gira Aspettandoti/En t’attendant, altro documentario sul tema della maternità – l’autrice intervista una serie di personaggi sul futuro del suo «pancione» – in Super 87. Lo stesso, già citato film della Taviani vive sulla contaminazione tra la ripresa in digitale e l’uso degli spezzoni in pellicola: bella, ad esempio, la sequenza in cui la regista gioca con la proiezione su schermo grande di Ecce bombo di Moretti, facendo della stessa coda della pellicola una trovata grafica e una riflessione metalinguistica. 7. Questi ultimi film sono stati a suo tempo proiettati nell’ambito dell’Evento speciale sul cinema italiano La meglio gioventù, Pesaro, 24 giugno-1 luglio 2006. La scelta era proprio quella di sottolineare l’importanza, accanto alle opere prime di finzione, della produzione documentaria e della sua diffusione in ambito giovanile. LA RIVOLUZIONE DOCUMENTARIA
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Grazie anche a queste commistioni possibili, l’ascesa del documentario è diventata uno dei fenomeni più interessanti di questo inizio secolo. Fanno parlare di sé alcuni casi filmici (penso al successo internazionale di Per sempre e Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, o di Appunti romani e Rimini Lampedusa Italia dello stesso Marco Bertozzi), si fa rispettare da vari anni l’associazione Doc/It, che si batte per una legittimazione del documentario, aumentano le manifestazioni, i festival, le rassegne a esso dedicate; vira verso il documentario Bellaria, storico festival dedicato ai corti e all’«altro cinema», che dal 2006 al 2010 Fabrizio Grosoli significativamente vota al film non narrativo. E proliferano i cineasti: voglio segnalare su tutti il già citato Gianfranco Pannone, diventato specialista e «padre fondatore» del nuovo documentario italiano (su tutti Piccola America e Latina/Littoria), ma anche esordiente al film di finzione con Io che amo solo te, e autore di libri sul documentario; Mariangela Barbanente (autrice di un gettonato Sole, sulle braccianti agricole pugliesi); Salvo Cuccia, noto video-maker sperimentale, la cui opera si situa ai confini tra documentario (ha avuto successo il suo Détour De Seta, dedicato appunto al grande maestro del documentario Vittorio De Seta) e video-arte pura (vedi tra le tante opere del prolifico artista siciliano Spectacular Cities in the Northern and Southern Hemispheres e Hortophonìa); Piero Cannizzaro, autore di innumerevoli reportage televisivi e di documentari (ad esempio Storie di dolci, Storie di alici, Ritorno a Kurumuny), nonché direttore di un festival sul documentario a Capalbio; Costanza Quatriglio, esordiente al cinema con L’isola ma già apprezzata autrice di documentari (come Ècosaimale? e ora autrice di un interessante docu tratto dal best seller Terra matta di Rabito); il veterano Stefano Rulli, che esordisce invece alla regia, dopo una gloriosa carriera di sceneggiatore, con un documentario intimo – e questo davvero «familiare» – come Un silenzio particolare (un altro film, presumo, che non sarebbe mai nato se non ci fossero state le nuove tecnologie del digitale). Lo stesso sopracitato Daniele Vicari, folgorante esordiente degli anni Duemila nel cinema di finzione, ma anche apprezzato documentarista: cito Non mi basta mai, film cofirmato con Guido Chiesa, Partigiani, comunisti, e Uomini e lupi, documentario in qualche modo preparatorio al suo secondo lungometraggio L’orizzonte degli eventi. E poi tanti altri, da Emma Rossi Landi (Quaranta giorni), ad Angelo Loy (Tv Slum), da Alessandra Tantillo (Vaccaro’s Italian Pastry Shop) a Marco Amenta (Il fantasma di Corleone, distribuito anche in sala, e Diario di una siciliana ribelle), a Stefano Missio (Gli italiani e gli elettrodomestici), già autore di una sorta di meta-documentario su Joris Ivens. Basta guardare, del resto, i nomi raccolti nella retrospettiva «Il nuovo documentario ita170
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liano», organizzato dall’Académie de France à Rome, a Villa Medici8, curata dal solito Bertozzi insieme a Lili Hinstin. Bisogna notare poi che il cinema che una volta veniva chiamato «non narrativo» si struttura per generi (si vedano lo sviluppo del mokumentary, cioè del falso docu, o del docu-drama, ecc.) e si diffonde nell’università: si insegna Storia del cinema documentario nei vari Dams e al Csc, ma voglio soprattutto citare i video – antropologici, istituzionali, di montaggio, di riflessione sul cinema, sul teatro, sulla tv, sui media – prodotti dal Laboratorio Audiovisivi del Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre9. Si impongono nuove figure professionali: l’organizzatore della minitroupe, il fonico di presa diretta per la troupe digitale, il montatore, che è diventato il vero «signore delle immagini» del documentario, che può essere completamente – e a maggior ragione nel film di finzione – ristrutturato in fase di editing digitale e totalmente manipolato con effetti di postproduzione (colore, velocità, transizioni, trattamento dell’immagine). E naturalmente il direttore di fotografia, che sempre più diventa «specialista» in digitale: cito tra tutti Paolo Ferrari, uno dei responsabili dell’immagine in sede di ripresa tra i più richiesti e apprezzati, collaboratore di Daniele Segre e di Giuseppe Bertolucci (con quest’ultimo in particolare per Ragioni politiche. Incontro con Vittorio Foa, un ritratto prodotto dalla Scuola Nazionale di Cinema e girato con la Sony PD150), ma anche di Alberto D’Onofrio, Daria Menozzi e Mimmo Calopresti. Insomma, il pregiudizio nei confronti del documentario, considerato solo «ancella» del cinema narrativo, comincia a scomparire, e – anche grazie alla rivoluzione digitale – il docu non è nemmeno più (solo) una palestra e un apprendistato per l’agognato film di finzione, punto d’arrivo di tutti i cineasti. Si può fare un documentario anche dopo un lungometraggio di finzione, come si può fare una poesia dopo un romanzo; rappresentano «generi», ispirazioni, urgenze diverse. L’hanno capito gli stessi allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, «autorini» per eccellenza, che ormai scelgono, perché no, di realizzare come saggio di diploma un documentario. 8. Cfr. Il nuovo documentario italiano. 12 appuntamenti per scoprire modi di produzione e forme espressive dei nuovi documentaristi italiani, Villa Medici, 23 febbraio-13 maggio 2006. Tra i film selezionati, oltre ad alcuni già citati qui, Resurrezioni di Laura Lavanda e Francos Farellacci, Il film di Mario di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno, Giustizia nel tempo di guerra di Fabrizio Lazzaretti, Chiusura di Alessandro Rosetti, Nella prospettiva della chiusura lampo di Paolo Pisanelli, Cerimonie del già citato «veterano» Gianfranco Pannone, Il settimo giorno di Achille D’Onofrio, Fine pena mai di Enrica Colusso. 9. Cito ad esempio i lavori di Luca Bellino, tra cui il documentario Mate y Moneda, la serie Roma e le sue città, e un video promozionale per l’Ateneo di Roma Tre. LA RIVOLUZIONE DOCUMENTARIA
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Si tratta di un buon segnale per confermare che il cinema non è più solo quello tradizionale che si vede nella sala cinematografica, ma è fatto di tante cose: corti e mediometraggi, video-arte e arti elettroniche, fiction televisiva e serie tv, e anche un documentario sempre più ibridato tra fotografia della realtà e finzione. In questo senso, mi pare importante una riflessione sugli spezzoni di documentario, di news o di reportage giornalistici contenuti nei film di finzione. Penso ad alcuni dei più bei film italiani di questi ultimi anni: Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, con quegli spezzoni entrati nella memoria collettiva del rapimento Moro; Il Caimano di Nanni Moretti, con quei tragicomici siparietti «interpretati» – ma sono drammaticamente realistici – da Berlusconi al Parlamento europeo e davanti al tribunale (lo stesso Moretti, del resto, come dicevo prima, ha fondato sul mescolamento tra documentario e finzione l’intero suo Aprile). E poi gli ultimi film di Daniele Vicari: Diaz, in cui il regista usa i materiali girati durante il G8 di Genova, confondendo realtà e finzione; e il documentario presentato a Venezia 2012, La nave dolce, che narra, recuperando molte riprese girate allora dalle televisioni locali, la storia della nave che l’8 agosto 1991 portò il suo inquietante carico di ventimila persone.
Film commission e rappresentazione dell’Altro Un forte elemento di novità, in questo scenario del nuovo millennio, è costituito dall’istituzione delle Film commission, grazie alle quali si può pensare di produrre con più continuità dei film anche lontano da Roma. È questo uno dei dati produttivi che ha influenzato l’immaginario del cinema italiano contemporaneo: un giorno gli storici (non solo della settima arte) che analizzeranno il cinema dei Duemila come «fonte» per ricostruire la società che l’ha prodotto, si troveranno di fronte a moltissime apparizioni della Mole Antonelliana. Forse penseranno a una centralità di quel simbolo e della città cui appartiene nella cultura e nell’immaginario iconico del periodo oggetto di studio. Noi sappiamo invece che dipende dall’efficienza della Film commission di Torino e del Piemonte, che ha spesso condizionato le scelte produttive del cinema di questi anni. Ma le Film commission in genere hanno rilegittimato il paesaggio italiano, nella declinazione rurale e in quella provinciale-urbana. Questo vale sia per il cinema di finzione sia, a maggior ragione, per il cinema documentario, che ha spesso alla sua base un aiuto locale, un finanziamento regionale. E pone comunque alle radici di 172
VITO ZAGARRIO
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ogni progetto un interesse per un territorio, per un’area regionale, che viene spesso – nel nuovo secolo – accoppiato a un confronto con lo sguardo degli «altri», le altre etnie, gli immigrati dai molti colori e dalle molte pelli che hanno reso più complesso, ma forse anche più interessante, il vivere nel nostro territorio. Il Leitmotiv dell’alterità ideologica ed etnica si trova per esempio in Ritorni della già citata Giovanna Taviani, particolarmente legata alla Sicilia e al Mediterraneo, che esplora il tema degli emigranti maghrebini che si riimbarcano in Africa portando con sé la cultura acquisita in Italia. Protagonista dell’indagine della Taviani è Karim Hannachi, tunisino, insegnante di arabo in Italia, che torna al suo paese natale, a Nefta. Tutti gli anni, infatti, in estate, sul molo di Trapani centinaia di maghrebini giunti da tutte le parti d’Italia s’imbarcano sulla nave diretta a Tunisi per trascorrere le vacanze con le famiglie d’origine. Sono quelli che ce l’hanno fatta – dice la Taviani – e che ogni anno tornano a casa per raccontare il loro «sogno». Il film racconta i volti, i paesaggi e i silenzi che accompagnano questo lungo viaggio di Karim verso il sud; mentre al nord, in una Parigi assolata, viene data la parola a due importanti personaggi del Maghreb: Assia Djebar, algerina, regista e scrittrice di lingua francese, esule volontaria dall’Algeria, e Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino, appena rientrato da Tangeri, dove ogni estate va a trascorrere due mesi di vacanza. Interesse per lo sguardo «alieno» è quello di Claudio Noce, autore del film di finzione Good Morning Amman, ma anche autore, precedentemente, di un corto e un documentario sullo stesso tema, Adil e Yusuf e Aman e gli altri (2006), il quale insiste in plot che tentano di far comunicare razze diverse, ma che, inevitabilmente, finiscono col fallire: la morte è di frequente il risultato simbolico di questi tentativi. Emblematici di una nuova «incomunicabilità», tra gli esseri umani come tra le etnie ed i popoli, sono non solo i film di finzione di Corso Salani (su tutti Occidente), un cineasta di grande talento morto prematuramente, ma anche i suoi documentari: si veda la serie di Confini d’Europa. E ancora su questi «nuovi alieni» lavora Domenico Distilo, diplomatosi al Csc, il cui Inatteso è un documentario «militante» sul mondo nascosto degli immigrati che hanno chiesto asilo politico in Italia, e ha avuto una buona circolazione nei festival. I profughi «pedinati» da Distilo (che ha scelto di girare un film «non narrativo» in luogo del tradizionale «saggio finale» di finzione del Centro Sperimentale, un fenomeno segnalato sopra) si riuniscono in comunità, costruendo rifugi, occupando edifici abbandonati nei pressi dei luoghi del lavoro agricolo e spostandosi seguendo le stagioni di raccolta; soLA RIVOLUZIONE DOCUMENTARIA
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pravvivono grazie alla loro rete di solidarietà, alle associazioni di volontariato e al lavoro nero, si raccolgono in vaste comunità come quella di Roma, dove hanno occupato gli ex magazzini delle Ferrovie dello Stato vicino alla stazione Tiburtina. Come si vede, non è il cinema narrativo l’unico strumento per indagare la memoria e intervenire sul presente, ma lo è anche il documentario, un «genere» (uso la parola impropriamente) emerso con forza negli anni Duemila come forma capace di guardare alla realtà italiana. In una sequenza di Inatteso, documentario girato in pellicola, irrompe la telecamera digitale nel momento in cui bisogna girare in emergenza l’improvvisa apparizione notturna di un barcone di clandestini. E dunque – ribadisco in conclusione – la rivoluzione digitale, consente, con l’accesso a nuove pratiche di ripresa e di montaggio, una «presa diretta sulla realtà», una registrazione dei fenomeni sociali (e quello dell’immigrazione clandestina è uno dei più drammatici) con una caméra-stylo in grado di prendere immediati appunti «politici». La nuova frontiera del «documentario» (o come lo vorremo chiamare in futuro) sarà dunque sempre di più quella dei new media: da youtube ai telefoni cellulari, da facebook ai blog, per non contare i mille modi in cui l’immagine e il prodotto audiovisivo vengono e verranno sempre più «rilocati» nelle nostre città e nelle nostre esperienze percettive.
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VITO ZAGARRIO
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I «misteri virtuosi» del documentario italiano ALESSANDRO SIGNETTO
Negli ultimi anni il documentario ha conosciuto in Italia una rilevanza e un interesse mediatico sempre più ampi, sui giornali e sul web, soprattutto in occasione di eventi e festival (grazie al fatto che – oltre a quelli specializzati – ormai tutte le rassegne cinematografiche importanti che si svolgono in Italia hanno la loro brava sezione dedicata al documentario, sia internazionale che nazionale); e anche in televisione – intendiamo riferirci principalmente al servizio pubblico radiotelevisivo – la presenza del documentario è aumentata, anche solo per il fatto che alcuni tra i nuovi canali tematici (segnatamente Rai Storia) che sono visibili nel bouquet del digitale terrestre di Rai, in onda dal 2009-2010, dedicano spazi importanti del proprio palinsesto alle opere di carattere documentario; compensando così la relativamente diminuita presenza del genere in questione nel panorama delle reti satellitari della piattaforma Sky (e la pressoché totale assenza nelle reti Mediaset). Tutto bene dunque? Siamo di fronte a una situazione finalmente volta al positivo o addirittura consolidata, e soprattutto fondata su modelli di produzione e diffusione pienamente maturi? Purtroppo la risposta è NO: da un lato – in relazione ai primari elementi portanti che consentono la stabilizzazione e crescita di un vero segmento di mercato – il quadro generale delle politiche di sostegno alla produzione, pubbliche e private, è rimasto immobile, anzi si verifica addirittura un processo di ulteriore recesso dal 2012, rispetto alle annate precedenti 2011 e 2010; dall’altro si assiste al fatto che la produzione indipendente ha considerevolmente aumentato il volume delle opere prodotte, ma la loro circolazione e diffusione continua a restare variamente fragile e frammentaria. Alcune cifre servono a spiegare meglio questo apparente paradosso.
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La produzione Il sito web www.cinemaitaliano.info costituisce oggi il più prezioso e completo database esistente per comprendere la portata economica della nostra industria cinematografica e audiovisiva. Anche per il documentario indipendente questo sito si rivela come il più importante strumento per determinare la dimensione produttiva e le dinamiche evolutive del settore. Nonostante l’accuratezza delle ricerche e l’autorevolezza acquisita dal sito (che viene perciò alimentato costantemente dalle informazioni ricevute direttamente dai realizzatori e produttori stessi), si può presumere che risultano censiti circa l’80-85 per cento dei documentari effettivamente prodotti nell’anno: pertanto le cifre sotto riportate vanno considerate per difetto. Nel 2000 (primo anno delle rilevazioni pubblicate sul sito) risultano realizzati dai produttori indipendenti 70 documentari, e tale volume rimane più o meno della medesima entità fino al 2005, con lievi aumenti successivi (non oltre il 20 per cento tra il 2000 e il 2005). Negli ultimi sei anni la proporzione è la seguente: aumento in% rispetto
aumento in% rispetto
all’anno precedente
all’anno 2005
anno
n. doc. prodotti
2006
170
30%
30%
2007
253
49%
95%
2008
359
42%
174%
2009
377
5%
190%
2010
492
31%
280%
2011
572
16%
345%
Per completare il quadro, nei primi nove mesi del 2012 risultano già completati 356 documentari, mentre di altri 152 risultano in corso le riprese (si ribadisce: dato derivato unicamente dalle auto-segnalazioni ricevute, e che pertanto lascia presagire il verificarsi di numerose omissioni). Quali sono – e sono state – dunque le risorse economiche disponibili all’origine di questo gigantesco sforzo produttivo? Qui si entra in una materia molto opinabile, data l’assoluta mancanza di studi e analisi di mercato relative a questo comparto dell’industria audiovisiva del nostro Paese (già questo è un segnale poco promettente), per cui 176
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non si possono che tentare stime approssimative: l’una realistica, e l’altra – come dire – ancora più realistica. In riferimento alla prima, teniamo come parametro una media di 80.000 euro di costo di produzione per un documentario destinato «idealmente» (è il caso di dirlo, per le ragioni che vedremo dopo) alla programmazione televisiva, della durata convenzionale di circa un’ora, prodotto in Italia; siamo, rispetto alla Francia, alla metà del costo medio, che lì è pari a 161.000 euro per un documentario della medesima durata destinato alla programmazione televisiva (nel 2010 sono state prodotte 2.454 ore di documentari destinati alle reti televisive, per un investimento complessivo di 395,3 milioni di euro), e siamo a meno di un ottavo del costo medio francese di 670.000 euro per i documentari lungometraggi destinati alla sala cinematografica (nel 2010 sono stati prodotti 27 documentari destinata alla distribuzione nelle sale cinematografiche, per un investimento complessivo di 20,2 milioni di euro) [fonte: studio Cnc “Le marché du documentaire en 2010. Télévision et cinéma, production, diffusion, audience”, giugno 2011]. Con i dati indicati per l’Italia saremmo di fronte a un investimento complessivo, nel biennio 2010-2011, pari a circa 90 milioni di euro. Se invece vogliamo essere più realisti del vero (o – a piacere – più pauperistici del lecito), e si conviene che la media del costo di produzione in Italia debba scendere a 60.000 euro per un documentario della durata di un’ora, saremmo di fronte alla pur sempre rispettabile cifra, nel medesimo biennio, di quasi 55 milioni di euro. Comunque la si voglia mettere (si tratta – in mancanza di dati ufficiali – di cifre ugualmente plausibili: un modo eclatante e paradossale per segnalare che una seria analisi del mercato del documentario italiano è davvero necessaria e non più procrastinabile), siamo in ogni modo in presenza di un comparto di fondamentale importanza dell’industria audiovisiva nazionale, e dell’indotto di creatività, competenze artistiche, tecniche, professionali e commerciali che ne costituiscono il sostrato operativo. La Rai, ovvero l’ente che svolge il ruolo di servizio pubblico radiotelevisivo sulla base del «Contratto di Servizio» tra l’azienda e il Ministero dello Sviluppo Economico, che ha la competenza delle Comunicazioni (attualmente in vigenza quello per il periodo 2010-2012, entrato in vigore solo a metà 2011), ha recentemente dichiarato di aver investito nel 2011 per il documentario la somma complessiva di 17,1 milioni di euro. Questa cifra si intende (cfr. art. 16, c. 3, lett. b, del Contratto di Servizio sopra citato) riferita a «gli importi corrisposti a terzi per l’acquisto dei diritti e l’utilizzazione delle opere, i costi per la produzione interna ed esterna e gli specifici costi di promoI
«MISTERI VIRTUOSI» DEL DOCUMENTARIO ITALIANO
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zione e distribuzione, nonché quelli per l’edizione e le spese accessorie direttamente afferenti ai prodotti di cui sopra». Dal che si può dedurre (mancano informazioni dirette sulla precisa ripartizione degli investimenti sulle varie voci di spesa sopra elencate, ma per esempio si conoscono i volumi orari della produzione interna, e la consuetudine Rai di inserire i costi di struttura all’interno dell’investimento sulle singole opere), che non più di 5-6 milioni di euro sono arrivati ai produttori indipendenti, sotto forma di acquisto diritti per opere già completate e di coproduzione. Torna allora la domanda: da dove arrivano i finanziamenti alla produzione di documentari italiani realizzati dai filmmaker e dai produttori indipendenti? Tra le risorse che possiamo definire di fonte formalmente certa e «individuata», dai Fondi regionali (gradatamente dalla loro promulgazione, a partire dalla metà della prima decade del secolo, e fino agli ultimi anni, e segnatamente – per maggiore unitarietà col quadro sopra delineato – nel biennio 2010-2011), si può quantificare un apporto complessivo annuo tra i 5 e i 6 milioni di euro (stima generosa), erogati direttamente dalle amministrazioni (generalmente dall’Assessorato alla Cultura) o attraverso le rispettive Film commission. Alla fine del 2011 fondi regionali che ufficialmente contemplano il sostegno al documentario (in altre parole, possibilità di attribuzione di un contributo sulla base di un meccanismo di selezione dei progetti ricevuti, presentati in conformità alle linee guida di un bando appositamente promulgato) erano presenti nelle regioni: Valle d’Aosta, Piemonte (unico fondo specializzato esclusivamente per il documentario), Provincia Autonoma di Trento, Provincia Autonoma di Bolzano, Regione del Veneto, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Puglia (nelle Regioni Autonome Sicilia e Sardegna, e in Campania, i bandi operativi per un certo periodo ai sensi di specifiche leggi regionali risultano in stato di sospensione, o annullati). Nel 2012 le risorse effettivamente disponibili in queste regioni potrebbero essere ridotte almeno del 50 per cento (sempre volendo ostinarsi a vedere il bicchiere mezzo pieno). Il resto delle risorse proviene da occasionali fondi pubblici (altre amministrazioni locali) oppure da fondi europei (anche diversi dal Programma Media); dagli interventi sporadici di altri broadcaster (per alcuni generi, i canali di documentari di Fox Channels Italy, dentro la piattaforma Sky; oppure il crescente – ma ancora modesto – intervento di La7 o di Tele 2000, o le recentemente rinnovate linee di intervento di Rai Cinema, esclusivamen178
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te in direzione dei documentari lungometraggi destinati alla sala); dai fondi della Legge Cinema (non più di 12/15 contributi all’anno nell’ambito delle misure per il finanziamento alla produzione di cortometraggi, che prevede un importo massimo di 40.000 euro per domanda, oltre a pochissimi casi di finanziamenti a lungometraggi destinati prioritariamente alla sala); dall’applicazione delle agevolazioni fiscali riferibili al riconoscimento del tax credit/credito d’imposta, ai sensi della l. 244/2007 (riguarda i documentari di maggior valore economico o, per altro verso, i progetti a budget ridotto in mano ai produttori più dinamici); da operazioni di mecenatismo da parte di privati e imprese; e principalmente dall’autofinanziamento diretto da parte di filmmaker e produttori (che consiste prevalentemente nella valorizzazione – all’interno del costo di produzione complessivo – delle prestazioni d’opera di associati e collaboratori a vario titolo, dalle ricerche alla scrittura e alla produzione e post-produzione vera e propria). In merito a quest’ultimo elemento, va segnalato un particolare importante (ancora una volta attraverso un dato sommamente empirico, in assenza di ogni tipo di rilevazione in proposito). Almeno 50 società di produzione italiane perseguono stabilmente (ma è ovvio che, analizzando caso per caso, gli esempi potrebbero rivelarsi ben più numerosi) la politica delle coproduzioni internazionali, ottenendo sui mercati europei, e talora extra-europei, l’interesse e l’accordo con altri produttori, o la prevendita dei diritti televisivi direttamente ai principali broadcaster europei (ma anche canadesi, USA, Al Jazeera, ecc.). In Francia, un dato di questo calibro è evidenziato con la massima rilevanza: nel 2010 i finanziamenti provenienti dall’estero (in forma di prevendite televisive e coproduzione diretta) valgono il 4,4 per cento del montante complessivo del movimento finanziario della produzione dell’anno, vale a dire 17 milioni di euro. Forse, proprio in riferimento ai valori assoluti di questo dato, l’Italia non è poi così lontana dalla Francia, considerata la capacità professionale, l’esperienza e l’intraprendenza dei nostri migliori produttori.
La distribuzione In quest’ambito l’unica novità emersa negli ultimi anni è la crescita esponenziale nell’utilizzo delle piattaforme web e dei social network. Rimane infatti del tutto irrisolto il problema della distribuzione nelle sale. Vi sono stati naturalmente esempi di documentari italiani che hanno ottenuto l’uscita nella programmazione corrente della sala cinematografica, ma quelli che I
«MISTERI VIRTUOSI» DEL DOCUMENTARIO ITALIANO
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hanno raggiunto, nell’intero arco di cinque anni, una presenza significativa si possono contare sulle dita delle due mani. Intanto nel 2010 un’esperienza che si era distinta nella distribuzione di documentari in sala, «Documé», è venuta meno e non è stata sostituita da alcunché di analogo, se non per due esperienze territoriali importanti, rispettivamente nella regione Emilia-Romagna (il circuito «Doc in Tour») e in Puglia (il «Circuito d’Autore», la rete di sale coordinate dalla Apulia Film commission, dove però il documentario costituisce solo una parte del programma). Solo lo sviluppo della rete ha pertanto consentito di bypassare, almeno in parte, l’enorme gap che si verifica tra la massa di documentari prodotti e la loro circolazione nel Paese. Basta andare sulle pagine dedicate nel sito www.cinemaitaliano.info per percepire – anche visivamente – la tristissima sequela dei «senza distribuzione», titolo dopo titolo, per quella che io definisco – nei miei interventi pubblici – come «lo Spoon River Cemetery del documentario italiano». È evidente che ci si riferisce sostanzialmente alla distribuzione cinematografica, o all’home video (inteso nel senso di assenza di un editore video del DVD, che non sia il produttore stesso): ma proprio in rete si trovano, ogni giorno con più frequenza, interessanti e sempre più tecnologicamente avanzati esperimenti di streaming o di downloading, che includono ovviamente tecniche di vendita online, e conseguente possibilità di ricavi aggiuntivi, come finanziamento alle produzioni effettuate. Un tentativo inedito e interessante di combinare la tecnologia del web con l’obiettivo dell’uscita in sala è stato realizzato, a partire dal 2010, da Doc/It Associazione Documentaristi Italiani, con la creazione del Doc/It Professional Award. Il premio nasce nel 2010 con un duplice obiettivo: da un lato creare un momento di dibattito e confronto all’interno della categoria stessa, dall’altro offrire nuove occasioni di fruizione e visibilità per opere che difficilmente trovano spazio nei circuiti di diffusione tradizionali. L’esito atteso, e confortato da un lusinghiero successo dopo la fase di avvio, era quello di coinvolgere tutti i professionisti del settore, servendosi della piattaforma online Italiani.it (accessibile da ogni fruitore professionale dotato di username e password, vedi paragrafo successivo), in cui sono stati inseriti – sulla base di una preselezione – i nuovi titoli importanti dell’anno, appositamente segnalati per concorrere al premio. Grazie a questa piattaforma si svolge la prima fase del Premio, offrendo tra luglio e ottobre la possibilità ai professionisti del settore di visio180
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nare direttamente on-line le opere, fino ad arrivare alla cinquina dei più votati. Nella seconda fase, la cinquina dei migliori titoli dell’anno è presentata in un ciclo di proiezioni, che nel 2011 si è tenuto alla Casa del Cinema di Roma per cinque settimane successive tra novembre e dicembre: ogni giovedì sera è stato presentato uno dei cinque film finalisti (alla presenza del regista) e replicato tre volte nei tre giorni successivi (venerdì, sabato e domenica). Infine la manifestazione 2011 si è conclusa venerdì 15 dicembre con la premiazione del migliore documentario italiano dell’anno (quello che ha ottenuto più voti). Il modello di Premio prevede infine che i cinque documentari finalisti (e non solo il film premiato) siano successivamente proposti per la distribuzione nelle sale: e questo è indubbiamente il meccanismo che verrà ulteriormente perfezionato, già a partire dalla prossima edizione.
La promozione Dal punto di vista dell’intervento pubblico, la situazione è semplice da descrivere: tutto il quadro è decisamente peggiorato. In riferimento alla promozione internazionale, la chiusura dell’Ice-Istituto nazionale per il Commercio Estero, decisa dal governo Berlusconi e rimasta tale con l’attuale governo (è pressoché certo che la sostitutiva Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane – attualmente in gestione transitoria – non avrà risorse specifiche da destinare alla promozione del documentario, essendo già ridicolmente infime quelle annunciate per l’intero comparto cinematografico e televisivo) ha significato il brusco stop alle partecipazioni organizzate ai più importanti mercati internazionali del documentario, dove la presenza è ora legata alla scelta di investimento in proprio da parte di ciascuna impresa. Per quanto concerne l’azione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, attraverso la Direzione Generale Cinema, si può tranquillamente affermare che praticamente non sono disponibili risorse per la promozione internazionale del documentario italiano, e tutto si limita alla comunicazione e organizzazione di qualche rassegna all’estero, pagata generalmente dagli sponsor locali, con l’appoggio dell’Istituto Italiano di Cultura dell’area di competenza. Anche in questo caso, l’associazione Doc/It ha pertanto dovuto fare la scelta, consapevole ma pressoché obbligata, di operare con i suoi propri I
«MISTERI VIRTUOSI» DEL DOCUMENTARIO ITALIANO
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mezzi (contando su un sostegno specifico del Ministero dello Sviluppo Economico e della Regione Emilia-Romagna). Si è così giunti alla determinazione – in circa tre anni di lavoro, dall’idea iniziale – di mettere in opera uno strumento tecnologico di eccellenza: la directory on-line Italiandoc.it. In pratica, Italiandoc.it è una piattaforma web, in italiano e inglese, dedicata al mondo del documentario italiano nel suo complesso: – il mondo professionale: autori, produttori, tecnici, istituzioni, organismi collegati, ecc. (a fine settembre 2012 risultano inserite le informazioni relative a 1.570 professionisti e società); – la catalogazione dei documentari italiani prodotti a partire dal 2004, reperibili per anno, per genere, per regista, per produttore, per formato, ecc. A fine settembre 2012 risultano inserite le schede di 1.980 titoli, corredati di tutti i dati tecnici e commerciali necessari; tra essi, per 745 è disponibile la visione del trailer (quasi tutti con sottotitoli in inglese); inoltre, per oltre 250 titoli (dato variabile secondo l’anno) è possibile vedere in streaming – con accesso autorizzato, sia da parte del produttore sia dell’associazione stessa, attraverso username e password – l’intera opera; – l’elenco dei festival dedicati al documentario, sia in Italia che all’estero (quest’ultima opzione è in corso di elaborazione). Al momento unica in Europa, tra tutte le varie iniziative poste in opera dalle associazioni nazionali di categoria, la directory on-line Italiandoc.it – attraverso le sue funzioni basiche (consultare le schede di migliaia di documentari, reperire informazioni sui professionisti e società del settore, visionare in streaming web protetto un’ampia selezione di film documentari) e grazie ad un impianto tecnologico molto avanzato, che consente l’implementazione a costi notevolmente ridotti dei dati accessibili direttamente da parte degli operatori interessati – permette di raggiungere effettivamente il risultato per cui è stata ideata: la promozione del documentario italiano nel mondo. Essa è ormai diventata la piattaforma ideale per offrire a compratori di televisioni internazionali, distributori, esercenti e direttori di festival l’opportunità di visionare a distanza il meglio della produzione nazionale, diventando la principale vetrina di opere italiane per il mercato estero e facilitando la nascita di rassegne e manifestazioni a sostegno del documentario: in definitiva, uno strumento home made per favorire concretamente la crescita del settore. In conclusione, il documentario italiano di produzione indipendente dimostra di essersi attrezzato per affrontare i mari tempestosi e i tempi incer182
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ti, dettati rispettivamente dalla crisi economica che coinvolge anche i broadcaster internazionali, nonché le ataviche disattenzioni e indifferenze dei broadcaster nazionali, e dall’assenza di una vera politica pubblica di sostegno, o del suo progressivo svuotamento. E questo per una ragione sostanziale, e vorrei dire elementare. Semplicemente, il documentario italiano ha raggiunto in questi ultimi anni progressivi e ragguardevoli risultati sul piano della qualità, grazie al talento ed alla capacità professionale di autori, registi e produttori sempre più bravi e coraggiosi, che sempre più frequentemente riscuotono in Italia, ma soprattutto all’estero – nei più prestigiosi festival internazionali, come nelle programmazioni delle reti televisive più importanti – riconoscimenti, onori e premi. «Nemo propheta in patria»: per una volta, si potrebbe affermare, l’antico detto non è solo un’ovvia consolazione per nascondere un’amara realtà, ma va preso come un segno di maturità e grandezza.
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«MISTERI VIRTUOSI» DEL DOCUMENTARIO ITALIANO
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L’altro Paese. Il documentario politico nell’era berlusconiana LAURA BUFFONI
Come una coppia separata in casa, il documentario e la politica in Italia si sono trovati a vivere sotto lo stesso tetto, incontrandosi qualche volta di sfuggita e scambiandosi battute di circostanza, ma vivendo in sostanza nella reciproca indifferenza. I documentaristi si sono occupati molto del “sociale” e poche volte hanno raccontato (a parte i cinegiornali “embedded” nel passato) i volti e gli affari della politica, lasciando i panni sporchi da lavare alla televisione. L’avvento di Berlusconi sembra però aver creato una sorta di mobilitazione, una chiamata alle armi dei documentaristi italiani, che hanno preso a raccontare la politica in maniera più frontale e diretta di quanto fosse accaduto in passato. Dal primo governo Berlusconi fino a ieri, molti sono i documentari che hanno trattato direttamente il tema politico e si sono occupati della sua figura, fino al trionfo di Videocracy (2010), opera del cervello italiano fuggito in Svezia Erik Gandini, che dopo aver raccontato nei suoi film gli inganni delle multinazionali, analizzato la figura-simbolo del Che Guevara, mostrato la follia di Guantanamo, è tornato al suo paese natale per consegnarci un ritratto terrificante e iperrealista di un re nudo all’apogeo della sua potenza, appena prima dell’afflosciamento. Ma torniamo indietro al fatidico 1994, e ricostruiamo attraverso alcuni esempi la storia dei documentari dell’era berlusconiana nel decennio che va dalla prima legislatura (1994) all’arrivo del Governo Prodi (2006). Subito dopo la «discesa in campo» di Berlusconi, da Parigi arriva la prima voce di dissenso: Repubblica Nostra (1995) di Daniele Incalcaterra, prodotto in Francia, è il primo e forse insuperato esempio di un’inchiesta serrata, rigorosa, lucida sulle ultime vicende politiche italiane. Partendo dalla campagna elettorale per le politiche del ’94 fino alla caduta del primo governo Berlusconi, il film intreccia la cronaca giudiziaria dei processi per le tangen-
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ti ai partiti condotti dal pool di Mani pulite alle alterne vicende che portano all’avvento della Seconda Repubblica. Il regista segue in particolare due personaggi nelle loro quotidiane attività politiche, il sondaggista di Forza Italia Gianni Pilo e il candidato del Pds Alvaro Superchi, costruendo un confronto immaginario tra le due Italie che da questo momento storico si verranno sempre più a contrapporre, in seguito alla forza di attrazione-repulsione esercitata dallo straordinario impatto mediatico del leader Berlusconi e del suo «nuovo miracolo italiano». La posizione del regista è marcata da una disponibilità attenta all’ascolto, dal bisogno di comprendere – da «esule» – in cosa credono ancora gli italiani alla vigilia del crollo, come attestano le sequenze, ambientate in un’agenzia di sondaggi telefonici, poste a intervallare il film come punteggiature sospensive, riflessive. Incalcaterra sembra non prendere posizione, ma lavora facendo emergere le contraddizioni di un Paese in pezzi dall’assemblaggio ritmico dei materiali, molti dei quali desunti dai notiziari televisivi, in un crescendo arrabbiato di immagini. Gli spezzoni sono scelti con spietata accuratezza, privilegiando gli elementi ironici e le sfumature comiche fino alle note grottesche dell’inno di Forza Italia e del berlusconiano dito indice puntato dal piccolo schermo di casa nostra. A unire e ordinare le parti il regista pone una voce proveniente da un fuori campo vicino, non assoluto; una voce femminile e pacata che interviene poche volte a far procedere la narrazione marcandola con una soggettività discreta e non complice. Nei film che vedremo in seguito, e di cui Repubblica Nostra è in certa misura il capostipite, tale tendenza alla soggettività dell’in-chiedere subirà una radicale accentuazione, sino alla presenza dell’alter-ego Stille nel film di Marco Turco In un altro Paese e l’esplicito mostrarsi della Guzzanti in Viva Zapatero! e di Marco Amenta ne Il fantasma di Corleone. Altro elemento caratterizzante Repubblica Nostra, che tornerà frequentemente in altri lavori, è l’assunzione dell’andamento investigativo, del sistema processuale come schema strutturale del documentario. L’intrecciarsi di vita politica e iter giudiziario, martirio tutto italiano stigmatizzato in molti film, diviene non solo Leitmotiv tematico, ma costituisce il principio organizzativo dei materiali nella sintassi tipica dell’inchiesta. Il documentario raccoglie prove, offre testimonianze, analizza i capi d’imputazione e li mette a confronto nel montaggio per emettere infine, più o meno esplicitamente, una sentenza di colpevolezza1. 1. Assai simile nelle intenzioni ma certamente non nei risultati Grazie, Berlusconi! (2006) di Fulvia Alberti, un’inchiesta politica condotta tra il 2001 e il 2005 seguendo un gruppo di personaggi, tra i quali un ragazzo legato al movimento no-global, un’esponente di Rifondazione comunista, un militante invecchiato di Democrazia proletaria. Grazie Berlusconi! è un’opera «amatoriale», dove 186
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Nello stesso momento in cui Incalcaterra gira la sua inchiesta, il collega e amico Leonardo Di Costanzo (anch’egli «esule» a Parigi) ne realizza una sorta di controcampo con Viva l’Italia (1994): la vigilia delle elezioni legislative è vissuta non attraverso il punto di vista dei leader di partito o l’immagine offertane dai grandi media, ma dal «basso», tramite gli umori dei napoletani del quartiere Fuorigrotta. Anche nello stile, Di Costanzo è più immediato, sul registro di una voluta rozzezza espressiva che esalta la spontaneità fluviale e giocosa del linguaggio e del gestire partenopei. Il regista raccoglie per strada le opinioni dei passanti, usando la camera come agente stimolante, veicolo di interpellazione diretta che dia la parola a chi non l’ha mai avuta; limitandosi a raccogliere i sentimenti confusi di rabbia, sfiducia, incertezza nel futuro e a dare loro sfogo. L’incredibile forza di questo film sta proprio nella sua virtù maieutica, nell’immediata capacità di sollecitare reazioni, creare un canale di comunicazione tra chi guarda e chi ascolta. È un cinema senza ornamenti, privo di artifici, che non vuole sedurre e si limita all’essenziale: la parola e il gesto, dunque il pensiero, di chi entra in campo:«Non è la solita intervista, mi lasciano parlare e loro registrano», afferma con stupore una delle protagoniste del film, l’anziana donna che ha vissuto il fascismo e che rappresenta l’allarmata memoria storica di un’Italia che riscopre pericolosi rigurgiti estremisti (assistiamo infatti, poco dopo, a un’impressionante sequenza in cui il comizio elettorale di Alessandra Mussolini si conclude con inni fascisti e saluti al Duce). La vera protagonista di Viva l’Italia è però proprio Forza Italia, astro nascente della politica italiana, misteriosa creazione dell’uomo televisivo cui molti guardano con preoccupazione. Ma la Forza Italia del piccolo club a Fuorigrotta, gestito da ragazzi del quartiere più per gioco che per passione, è una realtà stridente con i valori di libera imprenditoria di sé esaltati nelle smaglianti conferenze del Gianni Pilo in doppio petto e sorriso del film Repubblica Nostra. La vera Forza Italia è un disoccupato che – nonostante si professi di sinistra – ha fatto per mesi l’«attacchino» per la Democrazia cristiana in cambio di un l’urgenza ombelicale di raccontarsi non riesce mai a divenire pensiero visivo; il film gira dunque attorno a se stesso, si involge intorno alla personalità della regista, emigrata in Francia che tenta anni dopo di riscoprire le motivazioni del proprio amaro disimpegno. Coincidenza certo non casuale, che merita una riflessione, è il ricorrere della figura dell’esule che torna nel proprio Paese per guardarlo dall’esterno e sul filo dei ricordi personali: Daniele Incalcaterra, Fulvia Alberti, Leonardo Di Costanzo, Marco Amenta sono tra coloro che conducono questo viaggio a ritroso. L’origine estera – anche produttivamente – di un gran numero di questi film (si pensi anche al noto caso di Citizen Berlusconi, 2003, della regista statunitense Susan Gray, ritratto senza veli del leader Berlusconi, censurato e boicottato in Italia) ci dice forse anche qualcosa sulla difficoltà di guardare dall’interno la nostra situazione politica. L’ALTRO PAESE. IL DOCUMENTARIO POLITICO NELL’ERA BERLUSCONIANA
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lavoro e che si ritrova a mani vuote perché il suo referente politico è finito in galera. E che ora vota Berlusconi, nella speranza che uno tra quel milione di posti di lavoro sia proprio il suo. La base elettorale del polo della libertà, nei quartieri poveri napoletani, è fatta di esclusi, disperati che per ricominciare hanno bisogno di miracoli (è un caso che Berlusconi, in comizio a Napoli, si paragoni a san Gennaro?). E quando il miracolo si avvera, e le elezioni si vincono, nel piccolo club non resta che sollevare i bicchieri per l’ultimo brindisi, cantando tutti insieme «Forza Italia, è tempo di credere…». Sulle note amare di questo finale Di Costanzo tornerà alcuni anni dopo, con una nuova incursione di produzione estera nella politica italiana attraverso il filtro del proprio vissuto personale. Ancora nel napoletano, a Ercolano, gira infatti Prove di stato (1998), resoconto narrato in prima persona del difficile operato della sindachessa Luisa Bossa, costretta a gestire una città duramente colpita dall’attività camorrista, in una situazione di assoluta ingovernabilità. A capo di una coalizione di centro-sinistra, il nuovo sindaco tenta di far fronte alla gestione malavitosa di Ercolano, durata molti anni e conclusasi con lo scioglimento del precedente consiglio comunale per infiltrazioni camorriste. Il primo provvedimento è quello di ricevere ogni settimana i cittadini nel proprio ufficio, per ascoltarne lamentele e richieste. La cronaca di Leonardo Di Costanzo segue il duro compito della Bossa nell’arco di tre anni, durante i quali l’iniziale fiducia diviene pessimismo, constatazione di impotenza di fronte all’impossibile risoluzione di problemi come il lavoro nero e l’emergenza degli alloggi. Le incursioni urlate dei cittadini nello studio del sindaco diventano ogni giorno più violente, degenerando in una situazione di totale anarchia. Come un rumore di fondo, la camorra preme non vista nel fuori campo: lo spettro della malavita napoletana aleggia sulla città e miete nuove vittime mentre, dalla finestra alle spalle della sindachessa, un bambino con un fucile di plastica, per gioco, spara sui passanti. Il cinema di Leonardo Di Costanzo, come evidenziano anche i successivi A scuola e Odessa, si accosta al tema politico in maniera assai personale, con un’attitudine dialettica, «dubitativa» e lontana da esigenze di dichiarata militanza. Si potrebbe affermare che Di Costanzo partecipa di una tendenza «autoriale», più attenta all’uomo che all’idea, mentre Incalcaterra è esponente e precursore in Italia di una corrente «militante» che si esprime nell’inchiesta d’attacco, utilizza forme classiche (commento fuori campo e montaggio alternato, consolidati strumenti retorici del documentario politico e di propaganda) e si vicina alla nuova ondata americana ben rappresentata da personalità come Michael Moore o Mark Achbar. 188
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Il più eclatante caso italiano che si inquadra in questo indirizzo internazionale della non-fiction è Viva Zapatero! (2005) di Sabina Guzzanti, esempio sui generis di documentario uscito in sala in numerose copie, accolto con interesse dal pubblico e dai media, onorato con premi e riconoscimenti. Il film della Guzzanti muove da un esplicito risentimento personale, la chiusura della trasmissione satirica Raiot dopo una sola puntata a causa di una minacciata querela alla Rai da parte di Mediaset. Intervallando spezzoni dello spettacolo (la seconda puntata dal vivo all’Auditorium di Roma) con interviste ai protagonisti (politici, membri del consiglio di amministrazione della Rai), a giornalisti ed esponenti del mondo dello spettacolo e dell’informazione vittime di censura (Luttazzi, Biagi, Paolo Rossi), il film della Guzzanti vuole essere un manifesto per la libertà d’espressione che trova stimoli polemici nel confronto spiazzante con le diverse realtà degli altri Paesi. Viva Zapatero! deve il suo interesse alla capacità di inquadrare l’urgenza testimoniale nell’uso assai riuscito del documentario come strumento politico di comunicazione su vasta scala, come attestato dalla dichiarazione che chiude il film: «C’erano tanti testimoni, tra cui adesso pure voi!». Analoghe intenzioni muovono i giornalisti Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani in Quando c’era Silvio (2006, regia di Ruben H. Oliva), controverso film d’accusa che ha trovato un’esigua ma importante circolazione nella vendita in libreria e su internet. La felice intuizione degli autori è quella di raccontare l’impresa berlusconiana – dagli oscuri inizi nell’imprenditoria edile milanese alla conquista delle più alte cariche istituzionali – come una biografia storica, il ritratto di un (anti)eroe vissuto in un’epoca lontana, in un altro Paese. L’esito di questo spostamento spazio-temporale è in primo luogo un sentimento straniante di non appartenenza, esaltato dall’accurata scelta del repertorio in direzione dell’insolito, del grottesco, del fantascientifico: il lungo stralcio dell’intervento al Parlamento Europeo contro il deputato tedesco Schulz, la visita di Mikhail Gorbaciov al Mausoleo di Arcore, l’analisi del corpo mutante grazie agli interventi di chirurgia plastica. Stabilita la distanza, la testimonianza può arricchirsi di dati, indizi di reato, ipotesi documentate di connivenze con la mafia che il film inanella in una catena schiacciante di prove. La spinosa questione dei rapporti tra Stato e criminalità mafiosa è al centro anche di In un altro paese e Il fantasma di Corleone, in cui il tema politico è trattato in maniera apparentemente indiretta ma assai significativa. In un altro paese (2006) di Marco Turco ha avuto una circolazione alternativa ramificata e capillare in piccole sale. Il racconto delle connivenze tra mafia L’ALTRO PAESE. IL DOCUMENTARIO POLITICO NELL’ERA BERLUSCONIANA
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e politica, costruito dal regista a partire dal libro Excellent Cadavers del giornalista statunitense Alexander Stille e da quest’ultimo anche «interpretato» per lo schermo, è una lunga, angosciosa ricostruzione degli eventi mafiosi che hanno scosso l’Italia in anni recenti, centrato principalmente sulle indagini dei giudici della Procura di Palermo Falcone e Borsellino e sulle cause del loro assassinio. Al di là delle significative e documentate accuse mosse dal film allo Stato italiano per le antiche complicità con l’organizzazione mafiosa, che arrivano fino alle più recenti indagini sugli esponenti della Seconda Repubblica e su Berlusconi in particolare, l’interesse del film e la sua forza stanno nella precisa volontà del regista di costituirsi come «testimone oculare» di questi eventi, facendosi carico anche del problema morale che ciò comporta. Marco Turco sceglie la chiarezza, l’immediatezza e la crudezza espressiva, ricostruendo attraverso modellini le esplosioni degli attentati a Falcone e Borsellino e avvalendosi del duro repertorio della fotografa Letizia Battaglia. La rappresentazione incorpora, esplicitandolo, il sentimento doloroso di chi si trova a violare e oltraggiare mostrando in faccia la morte (sentimento esplicitato dalla stessa fotografa, che custodisce la memoria visiva della brutalità mafiosa e dichiara di non aver potuto scattare foto nelle circostanze più cruente) ma giudica questa violenza un atto necessario per favorire una presa di coscienza. Meno riuscito è invece Il fantasma di Corleone (2006), indagine dell’autore-intervistatore Marco Amenta sul caso Provenzano, il boss di Corleone il cui volto e la cui identità rimangono oscuri negli oltre quarant’anni di fantasmatica latitanza. Amenta si propone all’inizio del film come protagonista in prima persona dell’indagine, facendosi carico di ricostruire l’iter mafioso del corleonese partendo dalle misere origini contadine fino al vertice di cosa nostra, per avanzare nel finale l’ipotesi di un coinvolgimento del governo e in particolare del partito di Forza Italia nell’apparente intoccabilità di Provenzano. Il film si avvale di compositi riferimenti, delle testimonianze di esperti, procuratori, carabinieri, psicologi e avvocati a vario titolo coinvolti nelle indagini, ma rimane soffocato dall’ingombrante personalità dell’autore-attore e contaminato da esigenze spettacolari che inquinano il dato con una sovrabbondanza di ricostruzioni, simulazioni, inserti, «action». Accanto alla tendenza rappresentata dall’inchiesta di denuncia e dalla pratica «classica» del documentario come gesto politico di rottura, si registra però in questi anni un nuovo indirizzo, già visibile nei film di Leonardo Di Costanzo. Il documentario non è più atto di militanza, esplicito posizionamento del regista nei confronti del rivale politico sostenuto da un discorso logico e ordinato, soggetto al controllo della parola e alla raziona190
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lità sistematica del montaggio, ma riflessione attenta sugli immaginari contemporanei, sul proprio ruolo di artista «impegnato», e più in generale sulla stessa possibilità testimoniale e di intervento del cinema. Secondo una felice intuizione del filosofo Pietro Montani, i nostri tempi sono caratterizzati dallo spostamento dei parametri tradizionalmente intesi come fondativi del processo artistico (intuizione, creatività, fantasia) in altre sfere come quella del marketing e della pubblicità. Berlusconi, abile stratega della comunicazione, ha utilizzato con raffinatezza l’esperienza maturata nell’attività imprenditoriale per costruire in maniera innovativa la propria immagine pubblica, radicandola in un forte populismo e promuovendo contemporaneamente valori individuali come affermazione di sé, famiglia, sicurezza. L’Italia berlusconiana è l’Italia miracolistica delle soap, è una nazione dove le ideologie politiche e i sentimenti di appartenenza vanno scomparendo. Per chi ama i paradossi, Berlusconi è un grande artista contemporaneo. Ma di fronte agli interrogativi posti dalla clamorosa affermazione di questi valori e queste immagini, qual è il ruolo del cinema, quali i compiti dell’artista? Queste le domande sollevate dal controverso Caimano di Moretti: non film politico, ma film fatto politicamente, per citare un celebre aforisma di Godard. L’atto politico di Moretti non consta infatti nell’aver realizzato un film di propaganda contro Berlusconi, ma nell’aver promosso una riflessione sull’immaginario che questi ha contribuito a produrre in tanti anni di dominio incontrollato dei media (le sequenze oniriche sono una straordinaria summa di magniloquenza visiva di matrice berlusconiana) e sul ruolo di coscienza critica, disvelamento del mito che spetta all’artista. Allo stesso modo negli ultimi anni il documentario d’argomento politico, più che schierarsi esplicitamente, ha cercato di interrogare il proprio fare e la propria operatività politica. In questa interrogazione sempre più emergono il bisogno di confrontarsi con la storia, con un passato che è necessario recuperare, e la questione cruciale dei rapporti tra immagine cinematografica e televisiva. Se la contemporaneità televisiva avvicina i propri soggetti nell’immediatezza del primo piano e della diretta, disgrega il ricordo nel flusso di un presente continuo (il passato è citazione, rimando interno, creazione di una memoria meramente televisiva), il tempo più disteso del cinema consente la pausa, il ritorno, permette di elaborare nuove distanze dal proprio oggetto. «Latina è una produzione Mediaset» dice uno dei protagonisti di Latina/Littoria (2001) di Gianfranco Pannone, film che rappresenta un esempio significativo di questo movimento del documentario in direzione di una ricerca sulla storia e sull’immagine. Latina è ancora Littoria, città fondata da L’ALTRO PAESE. IL DOCUMENTARIO POLITICO NELL’ERA BERLUSCONIANA
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Mussolini dopo la bonifica della palude pontina, nello spirito del sindaco di Alleanza nazionale Aimone Finestra, ex-repubblichino nostalgico. E Latina conserva infatti le tracce di una storia sommersa, rimossa, riposta in un angolo buio come il busto trafitto del Duce nel museo civico della città. Lo scrittore Antonio Pennacchi, ex-fascista convertitosi al credo marxista-leninista, si batte perché Latina torni al nome originario affinché le tracce del passato – anche architettonico – dell’urbe tornino a imporre l’evidenza di una consapevolezza storica necessaria alla rifondazione morale e visiva della città. Rinnovamento però apparentemente impossibile perché la giunta comunale è bloccata da tempo sull’approvazione del nuovo piano regolatore a causa dell’ostracismo della maggioranza di Forza Italia. Il nemico non è allora il sindaco Finestra, arroccato nel romantico attaccamento passatista a un mondo per fortuna scomparso, ma è la nuova Italia nata dalle ceneri della Prima Repubblica e dalla disgregazione delle quiete coscienze centriste, che si riconosce nel dimentico presente televisivo. Latina è una produzione Mediaset. Seguendo due personaggi-chiave, il sindaco Finestra e il divertente scrittore alter-ego del regista, Pannone traccia il ritratto corale di una città nella quale riconosciamo la più vasta immobilità della nostra nazione, costruendo il film nei toni lievi della commedia (quasi mutuando nel documentario le chiavi della migliore commedia all’italiana) per far trasparire, appena al di sotto della superficie leggera, una nota di amarezza e un più generale sentimento di esclusione e impotenza. Una sequenza in particolare rende visibile tale sentimento: si tratta di uno dei momenti di più acceso dibattito in consiglio comunale, quando si verifica una nuova rottura della trattativa per l’approvazione del piano regolatore e la seduta viene sospesa. I membri dei diversi partiti si ritirano nelle stanze adiacenti al consiglio, e la macchina da presa cerca di seguire la discussione per interpretare e comprendere i segni della crisi. Ma le porte ci vengono chiuse in faccia, e alla macchina da presa non resta che rimanere esterna a una situazione incomprensibile, di cui non si coglie il disegno nascosto2. 2. La diffusa tendenza alla riscoperta della storia e del tema civile è ben rappresentata anche dal resto della filmografia di Pannone (Lettere dall’America, Sirena operaia, sino all’ultimissimo I nostri cento anni, realizzato per il centenario della Ggil) ma anche da quella di Vicari, Chiesa, Ferrario (tra gli altri, Partigiani e Non mi basta mai) o Calopresti. Ricordiamo qui inoltre i due lavori di Bellocchio interni al mezzo televisivo: Sogni infranti. Ragionamenti e deliri (1995), che ripercorre gli anni bui del terrorismo e delle brigate rosse attraverso testimonianze e materiali di repertorio, e La religione della storia, realizzato assieme a Francesca Calvelli con materiali d’archivio della Cineteca Rai per la serie «Alfabeto italiano», un cammino straziante e personalissimo nella memoria recente del repertorio televisivo, un de profundis della mitologia che trascina con sé i crudeli dèi ed eroi di un Novecento segnato da immani tragedie e speranze interrotte. 192
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Mentre si recupera la storia, gli eventi contemporanei – ancora non storicizzabili – chiedono nuovi sguardi. La diffusione dei movimenti civili ed eventi come la grande manifestazione mondialista in occasione del vertice genovese del G8 nel 2001 sono l’occasione per riscoprire una nuova militanza, per molti versi analoga a quella dei tardi anni Sessanta. Sembra realizzarsi finalmente l’utopia zavattiniana teorizzata nel ’68 con l’ideazione dei cinegiornali liberi: un cinema continuo, libero, che abbia il ritmo medesimo delle cose, in cui l’autore non esiste ed è sostituito da un collettivo, e in cui lo spettatore diviene corresponsabile. Leggerezza e rapidità degli spostamenti, dal punto di vista realizzativo, e scambio, diffusione capillare, distribuzione alternativa, dal punto di vista fruitivo, trovano apparentemente una nuova attuazione. Ma nonostante la moltiplicazione delle possibilità di produzione di immagini (minuscole telecamere digitali, videotelefoni, webcam) e la diffusione di canali alternativi di fruizione resa possibile dalla rete, le numerose testimonianze sui grandi eventi contemporanei sono assai lontane dalla dimensione ipertestuale e reticolare dell’utopia cinematica di Vertov e di Zavattini, che pure sarebbe inscritta nelle loro dinamiche di produzione e fruizione. Abbiamo visto allora lavori interessanti, come il bel Per favore non calpestate le aiuole di Giacomo Verde, che in modo assai evidente – e violento – ci mostra le barriere che ostacolano un’autentica informazione: il cadavere di Carlo Giuliani è steso per terra, disperatamente protetto da un cordone di poliziotti che ne ostacola la vista. Ma la maggior parte dei film di controinformazione, come il collettivo Un mondo diverso è possibile, appare deformata dall’influsso della comunicazione televisiva, grande contenitore ovattato di immaginari addomesticati in stereotipi retrivi: musiche «al punto giusto», ralenti, rapide interviste saltellanti. La controinformazione, nei casi più felici, rimane (la solita) informazione-contro e si risolve in logorrea ideologica, mozione degli affetti, insopportabile buonismo. Assai più produttivo invece l’approccio del documentarista Paolo Pisanelli a questi eventi. Uno sguardo volutamente parziale, soggettivo, che si snoda sul filo di un’esperienza individuale: quella di Don Vitaliano (2003), il parroco no-global di Sant’Angelo a Scala schierato in prima linea nei movimenti, a dispetto delle minacce di scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche. Don Vitaliano è seguito nell’attività apostolica e nella militanza politica con lo spirito di un’osservazione cauta, affettuosa. Pisanelli non ricorre mai all’intervista, non interviene ma rimane discretamente in un vicino fuori campo anche durante la manifestazione genovese a cui il parroco prende parte attiva schierandosi in prima fila fra i «disobbedienti» che tenL’ALTRO PAESE. IL DOCUMENTARIO POLITICO NELL’ERA BERLUSCONIANA
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teranno di invadere la famigerata zona rossa. Una certa tendenza del documentario di questi anni sembra dunque rinunciare a penetrare gli eventi contemporanei, a manifestare apertamente giudizi e fornire risposte, per realizzare una tensione verso una conoscenza dialettica e opinativa, fuori dall’assolutismo delle ideologie. Anche quando affronta il tema politico, che più di ogni altro sembrerebbe richiedere una solidità strutturale e interpretativa del reale, il documentario pare spesso abbandonare il discorso classico fondato sulla parola e sul principio ordinatore del montaggio per divenire testimonianza, storia di uno sguardo che non ha la radicalità della prova ma si pone piuttosto come indizio. Si manifesta allora una nuova vicinanza all’uomo, un’attenzione alla fisicità umana (volto, gestualità, parola) attraverso la quale interrogare le proprie appartenenze (anche politiche) e il proprio ruolo nella società. È questo, ad esempio, il caso di C’è un posto in Italia (2005) di Corso Salani, ritratto del candidato alla presidenza della Regione Puglia Nichi Vendola3 nei momenti immediatamente precedenti le elezioni amministrative. Salani crea un’immagine inedita del leader politico svuotandola di ogni sovrastruttura divistica e stabilendo una nuova relazione di prossimità che sostituisce alla fredda immediatezza della comunicazione televisiva l’intimità di un’interazione diretta. Al regista non interessa il politico Vendola, ma l’uomo Vendola nel suo relazionarsi con la polis, con i propri collaboratori, con gli elettori che lo attendono in piazza per festeggiare una sofferta quanto imprevedibile vittoria. Nel Paese di Vendola – sembra dire Salani – c’è ancora posto per l’altro, per le differenze. Cinema e politica sono incontro tra diversità, storia di relazioni umane.
3. Oggetto anche del film Nichi di Guianluca Arcopinto. Numerosi sono i documentari realizzati negli ultimi anni sui candidati politici, tra cui anche Comizi e quant’altro di Meneghetti e Pandimiglio su un candidato pugliese alle lezioni comunali; ancora in preparazione i ritratti di Vladimir Luxuria e di altri candidati alle passate elezioni legislative. 194
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Immagini di parole
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Due mondi vicini e lontani FRANCO MONTINI
Interrogato sui rapporti fra cinema e letteratura, come si legge in un articolo pubblicato sul quotidiano «la Repubblica» qualche anno fa, lo scrittore tedesco Peter Schneider, autore del romanzo My Father, diventato un film grazie al regista Egidio Eronico, così scriveva: «Letteratura e cinema sono due forme d’arte che si affascinano e si influenzano a vicenda, ma si esprimono con linguaggi quasi opposti. Le tecniche della letteratura e del cinema, anzi, sono spesso in contraddizione l’una con l’altra. Per questo è così difficile trarre da un libro un buon film che ne renda fedelmente i contenuti e le emozioni. È per esempio impossibile tradurre nell’arte cinematografica monologhi, riflessioni, monologhi interiori e lunghi dialoghi di un romanzo. Nella letteratura, spesso, il grande dramma si svolge nella mente dei protagonisti. Nel cinema ciò è di regola insopportabile. I film con una struttura narrativa molto psicologica risultano spesso noiosi, troppo legati alla letteratura e non cinematografici. Da un film mi aspetto che traduca il dramma in immagini e in azioni». Sembrerebbe di capire che Schneider intenda sottolineare la superiorità del linguaggio letterario nei confronti di quello cinematografico. Ma è proprio così? Non la pensa in questo modo Mario Sesti, che nel suo libro In quel film c’è un segreto scrive: «Il cinema può fare a meno di pronomi perché fa sempre finta di essere una lingua e insieme qualche cosa di più. Un mondo. Il mondo non ha pronomi. È proprio questa capacità del cinema di essere sempre qualche cosa di più di ciò che può essere evocato in un libro, in un quadro, in una forma tradizionale di rappresentazione – qualcosa di più accidentale, spurio, irriducibile – l’essenza del suo mistero». Contrariamente a Schneider, Sesti sembra quasi implicitamente sostenere la superiorità del linguaggio cinematografico rispetto alle altre arti. In ogni caso, comunque la si pensi, entrambe le citazioni mettono in evidenza le difficoltà dei rapporti tra questi due linguaggi.
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E allora è inevitabile domandarsi perché, nonostante questi ostacoli, il cinema italiano dei nostri giorni si rivolga sempre più spesso alla letteratura, con una moltiplicazione di film tratti dai romanzi. Negli ultimi anni, i film nati da romanzi e racconti sono numerosissimi. Solo per citare alcuni esempi, l’elenco comprende tutti i più recenti film di Gianni Amelio: Le chiavi di casa ispirato al romanzo di Giuseppe Pontiggia; La stella che non c’è tratto dal romanzo La dismissione di Ermanno Rea e Il primo uomo dal romanzo incompiuto di Albert Camus. Due film di Paolo Virzì: N (Io e Napoleone) dal volume di N. Ernesto Ferrero e Tutta la vita davanti ispirato a Il mondo deve sapere di Michela Murgia. E ancora Viaggio segreto di Roberto Andò che trasferisce in Sicilia il romanzo della scrittrice irlandese Josephine Hart; Quale amore di Maurizio Sciarra, moderna trasposizione di Sonata a Kreutzer di Tolstoj; Le rose nel deserto di Mario Monicelli ispirato a Il deserto della Libia di Mario Tobino e alcuni racconti bellici di Giancarlo Fusco. Si tratta di operazioni molto diverse fra loro; in alcuni casi, come per Amelio, la matrice letteraria è poco più che un pretesto, ma è indubitabile che tutti i film citati abbiano origine in un testo preesistente. E ancora nascono da fonti letterarie anche: Ho voglia di te di Luis Prieto dal romanzo di Federico Moccia, autore quest’ultimo che è anche regista e che ha spesso trasferito sul grande schermo i suoi best seller. E ancora La masseria delle allodole dei Taviani dal libro di Antonia Arslan; Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi; Piano solo di Riccardo Milani dal libro Il disco del mondo di Walter Veltroni; Noi credevamo di Mario Martone dal volume di Anna Banti. Un altro regista che si è regolarmente applicato nelle trasposizioni letterarie è Roberto Faenza, che, solo per citare alcuni esempi recenti, ha portato al cinema I Vicerè dall’omonimo libro di Federico De Roberto; Il caso dell’infedele Klara da Michal Viewegh e Un giorno questo dolore ti sarà utile dal romanzo dello scrittore americano Peter Cameron. Anche fra i più recenti esordi del cinema italiano non mancano film tratti dalla letteratura: lo sono Cardiofitness di Fabio Tagliavia dal libro di Alessandra Montrucchio; La ragazza del lago di Andrea Molaioli ispirato al romanzo Lo sguardo di uno sconosciuto di Karin Fossum; Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Isotta Toso dall’omonimo libro di Amara Lakhous; Notturno bus di Davide Marengo dall’omonimo libro di Giampiero Rigosi; Il paese delle spose infelici di Pippo Mezzapesa dal romanzo di Mario Desiati. Insomma fra i recenti film letterari c’è di tutto un po’: grandi autori classici, ma soprattutto una prevalenza di scrittori italiani contemporanei, che prosegue una tendenza già emersa di recente con la realizzazione di film 198
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quali L’amore molesto; La leggenda del pianista sull’oceano; Romanzo criminale; La bestia nel cuore; I giorni dell’abbandono; Arrivederci amore, ciao; Melissa P.; Il resto di niente; Quo vadis, baby?; Io non ho paura; Non ti muovere; Certi bambini; Tre metri sopra il cielo; La solitudine dei numeri primi; Caos calmo; Generazione mille euro; Lo spazio bianco; Il passato è una terra straniera; tutti titoli tratti da romanzi di scrittori italiani dei nostri giorni e che complessivamente hanno ottenuto esiti confortanti al botteghino. Le ragioni di questa proliferazione di film tratti dalla letteratura, credo dipendano innanzitutto dal fatto che il romanzo italiano, negli ultimi tempi, si è avviato verso un recupero della narrazione e del romanzesco. Non è un caso che nella letteratura italiana siano riemersi i generi e in particolare una predilezione nei confronti del noir, filone che si presta perfettamente alla trasposizione cinematografica. E infatti fra i film recenti tratti dalla letteratura si possono citare fra gli altri Io non ho paura, Romanzo criminale, Almost Blue, Arrivederci amore, ciao. La ragione dipende anche dal fatto che i romanzi alle spalle dell’opera cinematografica sono caratterizzati da una scrittura molto cinematografica. Nel caso di Io non ho paura in particolare si potrebbe parlare di un testo, che, già nella sua forma letteraria, è molto simile a una sceneggiatura. E non è certo casuale che Niccolò Ammaniti sia uno degli scrittori più saccheggiati dal cinema, perché sono diventati film molti suoi testi: L’ultimo capodanno, Branchie, Come Dio comanda, fino al recentissimo Io e te, altro testo molto cinematografico, trasferito sullo schermo da Bernardo Bertolucci. Contano numerose trasposizioni in cinema anche Sandro Veronesi, di cui sono diventati film La forza del passato, Caos calmo e Gli sfiorati e Giancarlo De Cataldo che ha visto portare sullo schermo i suoi romanzi Nero come il cuore, Il padre e lo straniero, Romanzo criminale. Insomma la letteratura influenza il cinema, ma è a sua volta sempre più influenzata dal linguaggio delle immagini. Non solo nei libri di Niccolò Ammaniti, ma anche in quelli di Carlo Lucarelli, Gianrico Carofiglio e Massimo Carlotto si nota una forte cultura cinematografica, sia nel «montaggio» del testo, sia per i numerosi riferimenti alla cinefilia. La cosa non deve affatto meravigliare: in fondo gli scrittori citati rappresentano la prima generazione di scrittori cresciuti con la televisione. È vero che prima dell’avvento del piccolo schermo c’era già il cinema e molti autori del passato hanno avuto rapporti con il cinema, però la definitiva affermazione della cultura audiovisiva si è registrata con l’esplosione del fenomeno tv. Attraverso questa alfabetizzazione alle immagini, che appartiene al vissuto di molti nuovi scrittori, le distanze fra linguaggio letterario e audiovisivo si sono accorciaDUE MONDI VICINI E LONTANI
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te. Del resto ci sono autori, un esempio per tutti, Cristina Comencini, che svolgono regolarmente sia attività cinematografica che letteraria, con sempre più frequenti intrecci, come dimostra il fatto che due dei suoi libri, La bestia nel cuore e Quando la notte, sono stati da lei stessa successivamente trasferiti al cinema. Nel volume La meglio gioventù. Nuovo cinema italiano 2000-2006, che ha accompagnato l’Evento Speciale della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2006, in un saggio dedicato al film La forza del passato di Piergiorgio Gay, tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, Ronald De Rooy definiva il volume in questione un romanzo filmico, perché caratterizzato da una serie di citazioni cinematografiche, oltre che di figure retoriche tratte dal cinema. In questo senso appare sempre più credibile la previsione di Alessandro Baricco, che in un’intervista di qualche anno fa, sosteneva che in fondo tutti gli scrittori italiani in un futuro più o meno prossimo saranno destinati a diventare anche registi. Nel caso specifico Baricco l’ha già fatto, dirigendo il film Lezione ventuno; la stessa cosa più recentemente è accaduta anche a Ivan Cotroneo, che ha esordito dietro la macchina da presa con La kryptonite nella borsa e a Carlo Lucarelli, che ha trasferito al cinema il suo romanzo L’isola dell’angelo caduto. Qualche anno fa, con esiti in realtà assai modesti, era successo anche a Susanna Tamaro, diventata regista con il film Nel mio amore. A dimostrazione che i rapporti fra cinema e letteratura sono sempre più intrecciati, non è un caso che, mentre aumenta fortemente il numero degli scrittori che vengono impiegati dal cinema come sceneggiatori, stia emergendo anche un fenomeno abbastanza nuovo e curioso, un processo inverso, ovvero il caso di sceneggiatori che esordiscono nella letteratura. È il caso di Franco Bernini, che ha pubblicato per Einaudi La prima volta, racconto politico-sportivo ambientato all’inizio del Novecento sullo sfondo del primo campionato di calcio italiano, e di Umberto Contarello, che, prendendo spunto da una drammatica vicenda personale, ha pubblicato con Feltrinelli Una questione di cuore, poi diventato un film con la regia di Francesca Archibugi. E l’intreccio fra i due mondi è ulteriormente testimoniato anche dall’esperienza Fandango, l’impresa di Domenico Procacci, nata come azienda produttrice di film e negli anni diventata anche una casa editrice a cui fanno capo alcuni scrittori particolarmente coinvolti nel cinema, da Veronesi a Baricco. Un altro elemento che potrebbe spiegare il proliferare dei rapporti tra cinema e letteratura può avere una ragione in negativo: forse si ricorre al cinema per una generalizzata carenza nel settore della sceneggiatura, in 200
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passato uno dei punti di forza del cinema italiano. Nella nostra industria audiovisiva mancano le idee originali e il numero degli sceneggiatori, contrariamente a quanto avviene nel settore della regia e degli attori, è insufficiente rispetto al fabbisogno. Nessuna sorpresa, dunque, che il mercato dei diritti sia in rapida crescita; nel mondo del cinema si sussurra che qualche anno fa Aurelio De Laurentiis abbia dovuto sborsare 500mila euro per assicurarsi di diritti cinematografici di un pezzo pregiato come Io uccido di Giorgio Faletti, la cui trasposizione sullo schermo, almeno finora, non si è mai concretizzata. Forse le cifre relative al best seller di Faletti sono leggende metropolitane, ma è certo che il costo dei diritti letterari, favorito dal successo di film come Non ti muovere, Io non ho paura, Romanzo criminale, La bestia nel cuore, tutte produzioni Cattleya, società specializzatasi proprio nel realizzare film tratti da opere letterarie, stia lievitando anche da noi. Quasi impossibile scoprire le cifre esatte dei singoli contratti, ma la fascia dei successi viaggia ormai fra i 100 e i 150mila euro, proprio perché le richieste si stanno moltiplicando. Non è un caso che siano anche nate specifiche iniziative destinate ad alimentare ulteriormente i rapporti fra il mondo del cinema e quello dell’editoria. All’interno delle Fiera Internazionale del Libro di Torino si svolge da qualche anno il Book Film Bridge (Bfb), un’iniziativa cui partecipano centinaia di società di produzione e di case editrici, durante la quale gli editori presentano ai produttori i propri progetti in vista di una possibile trasposizione in immagini. L’intento è quello di fare conoscere al settore dell’audiovisivo le novità letterarie in pre-produzione, anche per consentire la realizzazione di un film o di una fiction in contemporanea con l’uscita del libro, almeno nella sua versione economica, come accade sempre più spesso nel mercato Usa, nella consapevolezza che film e libro si promuovono e si aiutano a vicenda. Un’analoga iniziativa è stata proposta anche nell’ambito del Festival Internazionale del Cinema di Roma con Industry Books, manifestazione che consente alle case editrici di presentare, attraverso propria agenti, a un auditorio composto da addetti ai lavori (produttori di cinema e dirigenti televisivi) una serie di libri ritenuti particolarmente adatti a una trasposizione in immagini. Infine, a spiegare i rapporti sempre più stretti fra cinema e letteratura, ci sono anche motivi economico-commerciali: in una società sempre più globalizzata, dove i linguaggi si mescolano, avere alle spalle un caso letterario aiuta a montare un film. Gli esempi di best seller letterari diventati film anche in epoca recente sono piuttosto numerosi: per citare qualche esempio basti ricordare Va’ dove ti porta il cuore, Non ti muovere, Tre metri sopra il cielo. Si tratta di libri e film molto diversi fra loro per genere e qualità, ma non c’è dubbio DUE MONDI VICINI E LONTANI
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che in tutte e tre le situazioni il caso letterario abbia aiutato e favorito il successo cinematografico. E lo stesso potrebbe verificarsi con Venuto al mondo, altro romanzo di Margaret Mazzantini, diventato film con la regia di Sergio Castellitto. Sono convinto, ad esempio, che non sia affatto casuale che i film stranieri di maggiore incasso degli ultimi anni siano in gran parte tratti da enormi successi editoriali: Il codice da Vinci, le saghe di Harry Potter, Il signore degli anelli, Twilight. Senza contare, sempre a proposito dei rapporti fra i due media, che accade spesso che il film rilanci il libro; ci sono moltissimi romanzi che vengono nuovamente editati quando il film viene realizzato e sulla copertina dei volumi in questione c’è immancabilmente una fascetta che rimanda al film. Personalmente detesto leggere un libro avendo precedentemente visto il film; ho l’impressione che lo sfruttamento sia ormai del tutto esaurito ed io, come lettore, sia condannato a immaginare un protagonista con il volto dell’attore che ha interpretato quel personaggio, mentre quando leggo un romanzo senza aver visto il film posso inventarmelo io. Infine, a conferma del fatto che gli elementi commerciali hanno un ruolo importante, nel favorire i rapporti fra cinema e letteratura vorrei ricordare le esperienze di Gianni Amelio che come nel caso de Le chiavi di casa e La stella che non c’è parte da un romanzo per costruire un film che ha ben poco dell’originaria matrice letteraria. Perfino nella trama il rapporto spesso è piuttosto inconsistente; insomma libro e film non hanno quasi nulla in comune e allora viene il dubbio che Amelio sia partito dal libro perché vantare un titolo editoriale noto può aiutare a trovare finanziamenti e disponibilità, in altre parole a montare l’operazione cinematografica. In ogni caso mi pare che sia ormai emersa chiaramente in tutti la consapevolezza che letteratura e cinema sono due mondi e due linguaggi indipendenti e autonomi. Oggi credo sarebbe impensabile una querelle come quella esplosa a suo tempo – erano gli anni Settanta – fra Giorgio Bassani e Vittorio De Sica a proposito de Il giardino dei Finzi-Contini. Anzi a conferma dell’assoluta indipendenza fra i due linguaggi è curioso notare che oggi accade più frequentemente che gli autori non partecipino alla sceneggiatura dei film tratti dai loro romanzi anche nel caso di scrittori che abitualmente lavorano nel cinema come sceneggiatori. Mi viene in mente Domenico Starnone che oltre a essere un celebre scrittore è anche apprezzato e ricercato sceneggiatore, il quale, quando Gabriele Salvatores ha trasferito al cinema il suo romanzo Denti, non ha affatto partecipato al lavoro di sceneggiatura, probabilmente proprio per lasciare al regista la massima e più ampia libertà di intervenire, dimostrando in questo modo una grande consapevolezza e maturità. 202
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Sguardi dal ponte FRANCESCO CRISPINO
Due rive dello stesso fiume. Partendo dalla celebre metafora di Cesare Zavattini, si potrebbe guardare all’oggetto-sceneggiatura come il ponte che collega cinema e letteratura. E quindi fare una storia del rapporto tra le due arti immaginandola come una ricognizione architettonica. Una storia di ponti insomma. Ai quali, data per scontata la loro funzionalità, sarebbe certamente più interessante guardare per l’identità che sono stati in grado di esprimere. Sarebbe una ricognizione avventurosa e affascinante, che potrebbe partire dai «ponti di liane» gettati dal movimento surrealista su terreni ancora impervi, i ciné-poème di Apollinaire e Philippe Soupault1, gli scénarios di Desnos e Artaud2, passare per i «ponti in muratura», quella letteratura che si è nutrita dell’esperienza visiva prodotta dal cinema (Dos Passos, il Nouveau roman) o quel cinema che ha adattato fedelmente il romanzo attraverso il proprio codice espressivo (ad esempio Bresson nel Journal d’un curé de campagne, vero e proprio modello di «adattamento» secondo Bazin3), per arrivare al «ponte mobile» pasolinia-
1. Autore di un ciné-poème intitolato La bréhatine (1917), Guillaume Apollinaire attraverso il suo testo L’«Esprit Noveau» et les poètes dette un impulso fondamentale all’utilizzo del linguaggio cinematografico da parte dei poeti; cfr. G. Apollinaire, Oeuvres en prose complètes, vol. 2, Textes établis, présentées et annotés par P. Caizergues et M. Décaudin, Gallimard-Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1991; anche Philippe Soupault, coautore insieme a Breton dell’opera che inaugura il surrealismo, Les champs magnétiques (1919), fu autore di numerosi ciné-poème; cfr. P. Soupault, Écrits de cinéma, Plon, Paris 1979. 2. Cfr. R. Desnos, Follie cinematografiche di un sognatore, a cura di Gabriele Anaclerio, Lindau, Torino 2005; A. Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, a cura di Goffredo Fofi, Minimum fax, Roma 2001. 3. Cfr. A. Bazin, Le «Journal d’un curé de campagne» et la stylistique de Robert Bresson, in «Cahiers du Cinéma», n. 3, giugno 1951. Trad. it. in «Filmcritica», n. 13, marzo-aprile 1952; poi in La pelle e l’anima, a cura di Giovanna Grignaffini, La casa Usher, Firenze 1984, pp. 124 e ss..
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no, la forma-sceneggiatura come «struttura morfologicamente in movimento»4. Dato che però la costruzione di un ponte spesso modifica il corso del fiume sul quale viene edificato, si può provare a guardare a questa relazione anche in un altro modo. Più che delineare quali esperienze cinematografiche abbiano tratto spunti e benefici dalla letteratura, esercizio utile quanto intensamente frequentato, provare a vedere invece se, ed eventualmente in che misura, vi siano esperienze letterarie che abbiano subito mutazioni dopo aver gettato «uno sguardo dal ponte». In altre parole, verificare «se» e «come» l’esperienza di sceneggiatore abbia inciso nell’affabulazione di uno scrittore. Circoscrivendo il campo d’indagine al cinema e alla letteratura italiana degli ultimi anni, sono due i casi che sembrano i più interessanti. Il primo è quello di Massimo Carlotto, e non solo perché dai romanzi dello scrittore padovano il recente cinema italiano è stato spesso direttamente ispirato – ben quattro titoli negli ultimi cinque anni5 – ma anche perché il suo immaginario, che incrocia il noir sociale (talvolta venato di giallo) sullo sfondo della Sardegna o del «nord-est dei vincenti», è sicuramente molto vicino a – se non addirittura indiretto ispiratore di – altri film di un certo interesse (Apnea, 2004, di Roberto Dordit per esempio), realizzati negli ultimi anni in Italia. C’è da dire che, fin dagli esordi, le storie di Carlotto sono dense di riferimenti cinematografici. Le vicende dell’Alligatore, il protagonista «dall’anima blues» dei suoi primi romanzi, ad esempio, oltre a ispirarsi chiaramente all’iconologia hard-boiled, cioè ai romanzi di Chandler filtrati attraverso le trasposizioni di Hawks o Polanski6, sono popolate da «fantasmi» prelevati direttamente da un immaginario cinematografico colto. Basti pensare al personaggio di Marlon Brundu, il malvivente sardo che aiuta l’Alligatore e il suo storico «socio» Beniamimo Rossini nelle indagini sul Mangiabarche7, o alla 4. Cfr. P.P. Pasolini, La sceneggiatura come struttura che vuole essere un’altra struttura, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972. 5. Oltre all’autobiografico Il fuggiasco (2002) diretto da Andrea Manni e di cui Carlotto firma la sceneggiatura, altri tre film sono tratti da suoi romanzi: Arrivederci, amore ciao! (2005) di Michele Soavi, Jimmy della collina (2006) di Enrico Pau e L’oscura immensità di Davide Ferrario (2007). 6. «Le faccio pena? Oppure mi ha preso per il generale Sternwood del Grande sonno?», «D’accordo, avvocato, d’accordo» lo interruppi «Chandler lo abbiamo letto tutti [...]»; «Secondo te, Maurizio, che musica ascoltava Chandler mentre scriveva Il grande sonno nel ’39?»; «Il mio amico sorrise compiaciuto e si lanciò in una imitazione di Bogart: “Andiamo a grattarci questa rogna, socio”»; «Lo salutai avviandomi alla porta, imitando Jack Nicholson nei panni del detective J.J. Gittes». In M. Carlotto, Il mistero di Mangiabarche, e/o edizioni, Roma 1997, pp. 24-25, 51 e 108. 7. Sintomatico è il dialogo con cui Brundu si presenta all’Alligatore («Sono nato nel ’55, l’anno in cui è uscito Il selvaggio. Marlon Brando era il mito di tutti, in particolare dei miei genitori. Alla fine 204
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banda che i tre si trovano a fronteggiare, la cui «struttura» organizzativa si rifà a Napoleon, il kolossal di Abel Gance del 1929 dal quale i componenti mutuano i soprannomi; oppure all’insistenza con cui viene richiamato Violent Streets (1981) di Michael Mann nel terzo capitolo dedicato alla Mafia del Brenta8, o al modo con cui viene descritto Jay Jacovone, uno degli antagonisti del quinto capitolo della saga9. Dopo le prime esperienze come sceneggiatore c’è però da notare come la scrittura di Carlotto, oltre a farsi più incisiva e incalzante grazie al sempre più frequente inserimento di brani puramente visivi, talvolta arricchiti da espressivi effetti luminosi (è il caso ad esempio di una delle pagine più belle di Nordest, quella in cui Filippo si trova davanti alla scultura di cera che raffigura la madre e la cui suggestiva apparizione-sparizione è affidata a un metaforico gioco di luce10) e all’utilizzo di tecniche di racconto cinematografiche (ad esempio il «montaggio alternato» dei punti di vista dei due protagonisti con cui è organizzata la narrazione de L’oscura immensità della morte11), muti considerevolmente nel suo rapporto con la musica. I brani musicali infatti non sono più, come nei primi capitoli della pentalogia dedicata all’Alligatore, evocati per descrivere e connotare il protagonista e il suo mondo, cioè semplicemente inseriti come una playlist che sostiene i momenti di stasi del racconto, ma diventano una vera e propria chiave narrativa, uno strumento attraverso il quale l’autore padovano genera immagini potenti e provocatorie. Il contrappunto audiovisivo diventa infatti una modalità affabulatoria che inizia ad emergere in Arrivederci, amore ciao12, e che, di titolo in titolo, diventa sempre più consapevole. Al punto che, in quello che al momento in cui scrivo è il suo ultimo romanzo, scritto a quattro mani con Francesco Abate13, Carlotto sembra fare un ulteriore passaggio. Per ben 7 volte infatti, il protagonista di Mi fido di te (Gigi Vianello) sospende momentaneamente l’affabulazione ipotizzando un’altra veste formale per il sono cresciuto con la voglia di essere come lui: vestiti, pettinatura [...] Tu, invece, da che film vieni fuori?») e la sua uscita di scena, decisamente «cinematografica»; Ivi, pp. 68 e 190-191. La sottolineatura è mia. 8. Cfr. Id., Nessuna cortesia all’uscita, e/o edizioni, Roma 1999, pp. 81 e 140-141. 9. «Si capiva che era americano da come vestiva. Sembrava la comparsa di un film sulla mafia d’oltreoceano. [...] Si dava arie da boss, gesticolando come Marlon Brando nel Padrino», in Id., Il maestro di nodi, e/o edizioni, Roma 2002, p. 105. 10. M. Carlotto, M. Videtta, Nordest, e/o edizioni, Roma 2005, pp. 170-171. 11. M. Carlotto, L’oscura immensità della morte, e/o edizioni, Roma 2004. 12. Il riferimento è allo spietato omicidio di Roberta, la giovane compagna del protagonista, forse una delle pagine più riuscite dell’intera produzione carlottiana. Cfr. Id., Arrivederci, amore ciao, e/o edizioni, Roma 2000, pp. 168-170. 13. F. Abate, M. Carlotto, Mi fido di te, Einaudi-Stile libero, Torino 2007. SGUARDI DAL PONTE
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suo racconto: una forma audiovisiva da cui però prende immediatamente le distanze. La formula è la stessa e, con piccole variazioni, si ripete in ognuno degli otto capitoli (fa eccezione solo il quinto) da cui è composto il romanzo. È sempre Gigi Vianello a chiamare in causa una sorta di partitura musicale a commento di ciò che sta descrivendo: «Se quello fosse stato un film. Se quella fosse stata la scena di un film ora sarebbe partita la colonna sonora a commentare le immagini...»; una volta suggerito il brano musicale però, la sospensione viene chiusa repentinamente con la medesima frase che non lascia spazio ad alcuna illusione («Ma non era un film e non ci fu nessuna musica»)14. L’insistenza di tale soluzione assume un’ulteriore accentuazione nel capoverso conclusivo: Se la mia vita fosse stata un film. Se quella fosse stata la scena di un film ora sarebbe partita la colonna sonora a chiudere le immagini. Un suono rassicurante, una canzone felice che diceva che quello era un posto «di alberi verdi e rose rosse, di amici che si stringono la mano e ti chiedono “come va?” e si dicono “ti amo”». What a Wonderful World per la voce roca di Louis Armstrong. Ma non era un film e non ci fu nessuna musica. Solo lo strombazzare isterico e assordante di mille clacson15.
La chiusura di Mi fido di te dunque si può prestare ad almeno tre considerazioni. La prima, forse la più scontata, è che evidenzia una certa fascinazione per la possibilità del cinema di mutare il senso del discorso aggregando semplicemente immagini e musica. La seconda invece è sicuramente più interessante, perché mette in gioco una posizione «teorica». Carlotto/Abate sembrano infatti suggerire che il linguaggio audiovisivo ha una potenzialità formale, il contrappunto visivo/sonoro, che invece la letteratura non ha, ma che, proprio dal cinema, ha imparato a utilizzare. Un’ulteriore conferma è data dal gioco di rimandi sulla frase che dà il titolo al
14. È doveroso notare come in ben 6 dei 7 interventi si faccia esplicitamente riferito a David Bowie, vero e proprio artista intermediale e icona transmediatica al quale il personaggio protagonista del romanzo si sente particolarmente vicino per via della eterocromia (la diversità del colore degli occhi). La musica di Bowie è infatti chiamata direttamente in causa nel primo (Starman), nel quinto (dove si cita una strofa di Criminal World), nel sesto (This is not America) e nel settimo capitolo («una canzone di David Bowie Live in Tokyo»); e indirettamente nel secondo, con No Fun di Iggy Pop «in quanto amico di David Bowie», e nel terzo, con Walk on the Wild Side di Lou Reed, «che ha passato un bel periodo quando si faceva produrre canzoni così da David Bowie». L’unico intervento in cui non c’è nessun riferimento al cantante di Brixton è nell’epilogo, dove viene evocata la What a Wonderful World di Louis Armstrong. 15. F. Abate, M. Carlotto, op. cit., p. 175. 206
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romanzo: prima citata evocando la coppia Winslet/DiCaprio sulla prua del Titanic, quindi ritornello dell’omonima canzone di Jovanotti che risuona grottesco sulle sorti del protagonista16. La terza considerazione è che non solo la letteratura utilizza il contrappunto, ma che anzi «l’ha fatto proprio», riuscendo a far coesistere (o a far confliggere?) atmosfere diverse nello spazio di poche righe. Il finale beffardo sulle note di Satchmo fa da contraltare a quello disturbante sul suono dei clacson. L’altro caso è rappresentato da Niccolò Ammaniti. Non solo perché è probabilmente il più «visivo» degli scrittori delle ultime generazioni, come d’altronde ben testimonia la facilità con cui i suoi romanzi vengono trasposti sullo schermo o su tavole a fumetti17; e neppure perché i debiti nei confronti dell’immaginario audiovisivo siano ben noti, peraltro da lui stesso dichiarati fin dagli esordi18, ma soprattutto perché la sua scrittura sembra essere diventata sempre più «cinematografica» dopo l’esperienza come sceneggiatore. Esperienza che, dopo la partecipazione alla stesura dello script per L’ultimo capodanno, avviene definitivamente con la trasposizione per lo schermo di Io non ho paura, la cui idea iniziale (nasce come soggetto cinematografico) è già di per sé sintomatica della natura anfibologica del racconto. Questo passaggio peraltro sembra essere ben testimoniato da Sei il mio tesoro, il racconto che Ammaniti scrive subito dopo, dove addirittura inserisce una pagina di sceneggiatura nel corpo del testo19. Nel leggere il suo quarto e successivo romanzo ci si rende così conto di alcuni aspetti che, rispetto ai primi titoli «cannibali» dove domina l’estetica pulp, sembrano aver reso più matura la scrittura dell’autore romano. Aspetti che fanno di Come Dio comanda un testo dove sembrano più che evidenti le influenze della scrittura per il cinema. A cominciare dalla struttura tripartita, scandita da un prologo e tre atti cui Ammaniti attribuisce altret16. Ivi, pp. 56 e 161. 17. Quattro sono i film già realizzati da romanzi di Ammaniti: L’ultimo capodanno (1998) di M. Risi – tratto da uno dei racconti di Fango –, Branchie (1999) di F.R. Martinotti, Il siero della vanità (2003) di A. Infascelli, Io non ho paura (2003) di G. Salvatores. A questi vanno aggiunti anche gli annunciati Ti prendo e ti porto via, regia di G. Paskaljevic, e Come Dio comanda, regia di G. Salvatores. Tre invece sono le storie a fumetti tratte da altrettanti racconti di Fango. Prima parzialmente edite a puntate su «l’Unità», poi in N. Ammaniti, D. Brolli, D. Fabbri, Fa un po’ male, Einaudi-Stile Libero, Torino 2004. 18. Cfr. C. Lardo, F. Pierangeli (a cura di), L’ultima letteratura italiana, Vecchiarelli, Roma 1999, pp. 35-46. 19. Cfr N. Ammaniti, A. Manzini, Sei il mio tesoro, in Aa.Vv., Crimini, Einaudi-Stile Libero, Torino 2005, pp. 35-36. C’è da dire che Ammaniti non è né il primo né l’unico a inserire una pagina di sceneggiatura nel testo, si veda ad esempio l’uso originale che ne fa Chiara Gamberale nel suo terzo romanzo, in C. Gamberale, Arrivano i pagliacci, Bompiani, Milano 2002, pp. 194-196. SGUARDI DAL PONTE
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tanti titoli significativi («prima», «la notte», «dopo»). Come in una sceneggiatura classica, infatti, il secondo atto contiene gli eventi destinati a modificare l’esistenza dei personaggi, la cui situazione, dopo essere stata presentata nella prima parte, risulta completamente trasformata in quella finale. La «cinematograficità» del romanzo che ha stravinto l’edizione 2007 del Premio Strega, però va ben al di là della sua componente strutturale o del sempre più consapevole utilizzo di una colonna audio in funzione espressiva – caratteristica quest’ultima che appartiene alla scrittura di Ammaniti fin dal suo romanzo d’esordio20, e che, di titolo in titolo, diventa un espediente narrativo sempre più raffinato. Sia per connotare personaggi e situazioni esacerbandone il lato grottesco, sia per rendere sempre più labile il confine tra discorso diretto e libero indiretto utilizzando in modo originale la voce interiore (sempre in corsivo), che infatti entra prepotentemente nel tessuto narrativo scandendo i pensieri dei personaggi21. L’affabulazione di Come Dio comanda è infatti scomposta in numerosi (244), talvolta anche molto brevi, segmenti narrativi, poi messi insieme da un sapiente uso del «montaggio alternato». A volte infatti l’azione viene sospesa per raccontare quella di un altro personaggio che sta agendo nel medesimo tempo ma in uno spazio differente; a volte per riprenderla nel paragrafo successivo ma utilizzando un altro punto di vista; altre ancora tornando leggermente indietro nella narrazione per raccontare lo stesso evento ma da un punto di vista differente22. Tutto ciò naturalmente non solo non fa mai perdere ritmo al racconto ma, anzi, tiene sempre desta l’attenzione su ognuno dei personaggi coinvolti nella vicenda. Utile in tal senso sembra il confronto con L’ultimo capodanno dell’umanità, il racconto che apre Fango e la cui costruzione è quella che più gli si avvicina, dal momento che qui Ammaniti utilizza una sorta di «montaggio alternato parallelo» articolato sui punti di vista dei numerosi personaggi protagonisti della vicenda. Mentre nel romanzo del 2007 il passaggio da un segmento all’altro è sempre funzionale all’incedere della narrazione, addirittura esaltato nei punti in cui ricorre alla «dissolvenza in20. «Avevo le allucinazioni. Credevo di essere uno dei Bee Gees, non so se avete presente quello piccoletto e stempiato, e ho cominciato a cantare Tragedy in falsetto», in N. Ammaniti, Branchie, Ediesse, Roma 1994, p. 71. 21. Tale caratteristica appare già in alcuni dei racconti scritti da Ammaniti subito dopo Branchie, cfr. N. Ammaniti, L. Brancaccio, Seratina, in Gioventù Cannibale, a cura di Davide Brolli, EinaudiStile Libero, Torino 1996; N. Ammaniti, L’ultimo capodanno dell’umanità, in Id., Fango, Mondadori, Milano 1996. 22. Si vedano i passaggi tra i paragrafi 76/78, 79/80, 84/93, 105/106/109, ivi, pp. 214-217, 219-221, 223 e 228, 239 e 242. 208
FRANCESCO CRISPINO
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crociata» (iniziando cioè il paragrafo con lo stesso gesto o la stessa battuta con la quale termina il precedente)23, il racconto del 1996 è invece ancora subordinato al gioco voyeuristico che lo organizza24. Un gioco dove è appunto il ribaltamento del punto di vista a scandire l’azione. Quella dell’autore di Io non ho paura insomma sembra essere diventata una costruzione narrativa dove l’attacco di montaggio ha assunto sempre più una valenza fondamentale. Lo si evince anche dal modo con cui utilizza una tecnica narrativa già di per sé molto cinematografica come il flashback. Tecnica, peraltro, a cui lo scrittore romano fa ricorso spesso e che in Ti prendo e ti porto via, ad esempio, rivela una disfrasia temporale dell’enunciazione: al presente dell’incipit (che, come si sa, è il tempo della sceneggiatura), segue infatti il passato remoto della vicenda che ha il suo epilogo sei anni dopo il prologo. Azionato quasi sempre da gesti, luoghi o oggetti capaci di evocare ricordi, il flash-back in Come Dio Comanda diventa invece un modo per dare informazioni funzionali all’affabulazione attraverso sequenze costituite da «immagini reciproche», che talvolta (come avviene nel caso del flash-back «dentro» il flash-back) mettono insieme tempi e punti di vista diversi25. Modalità che sembra guardare a quella tendenza emersa nel cinema della modernità in grado di utilizzare tale espediente retorico per rivelare una temporalità complessa, verticale, in cui i «cristalli» che la costituiscono sono il prodotto di una stratificazione scopica e di una indiscernibilità tra reale e immaginario, tra attuale e virtuale. È così che, mentre si denota anche una certa influenza della computer graphics, soprattutto nei passaggi in cui l’autore assume un particolare punto di vista «deformante» («Gli alberi si piegavano sulla stradina allungando le mani come se volessero afferrare Fabiana Ponticelli»)26, l’altro aspetto propriamente cinematografico che sembra emergere è il frequente ricorso a descrizioni che simulano dei veri e propri movimenti di macchina da presa. A volte infatti sembra di assistere a dei complessi movimenti combinati (carrello+panoramica) che alternano il punto di vista «su» e «di» un personaggio:
23. Manca testo nota!!!!! 24. In tal senso appare sintomatica una delle battute del racconto: «In quel fottuto “Comprensorio delle Isole” lo sport preferito della gente era curiosare nelle case degli altri. Maledetti guardoni», in N. Ammaniti, L’ultimo capodanno dell’umanità, cit, p. 27. 25. Per la nozione di «immagini reciproche» si veda G. Bachelard, La Terre et les rêveries de la volonté, Corti, Paris 1948, p. 290. Per il particolare utilizzo del flash-back cfr. N. Ammaniti, Come Dio comanda, cit, p. 44. 26. Ivi, p. 225. SGUARDI DAL PONTE
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Mentre i Metallica gli urlavano nei timpani, si guardò intorno e si accese una sigaretta. [...] Di fronte gli si parava una striscia di asfalto dritta come un righello, che si stemperava in un impasto color piombo. A destra i campi di terra zuppa e a sinistra la fila dei capannoni industriali. Quando passò davanti al mobilificio Castardin con i suoi festoni rossi che annunciavano sconti eccezionali si fermò. Il cancello era chiuso e il cane era steso lì, steso a terra, avvolto nella catena27.
Altre volte sembra invece di trovarci di fronte a dei movimenti di camera car, peraltro in taluni casi abilmente sostenuti da intelligenti assolvenze sonore: Fabiana Ponticelli guardò nello specchietto retrovisore. Il faro del Boxer non c’era più. Il barbone aveva cambiato strada. Classica paranoia da canna. Cavoli però che strizza. Intanto davanti a lei la via, frustata dalla pioggia, si allargava e a cento metri si biforcava. [...] Vide davanti a sé un bagliore rosso al centro della strada. Procedendo si accorse che c’era una pozza di luce bianca sull’asfalto. Decelerò e sentì il gorgoglio metallico della marmitta del motorino del pazzo e capì immediatamente che lo scemo si era cappottato sul discesone28.
Altre ancora la descrizione sembra richiamare lunghi movimenti di panoramica che, nell’attraversare l’intera scala dei piani (in alcuni casi addirittura da un campo lungo a un dettaglio), evocano addirittura dei progressivi e complessi cambi di fuoco: Lo sguardo dell’Uomo delle carogne si spostò dal fiume nero ai terrapieni gremiti di ombrelli, da lì scivolò sulla statale completamente ricoperta di macchine ferme e sui poliziotti bagnati, si sollevò verso il cielo dove un elicottero ronzava e infine si posò sulle mani tremanti29.
Insomma, nei romanzi successivi alla loro esperienza come sceneggiatori sono numerosi gli aspetti di entrambi gli autori che rimandano a una forte «cinematograficità» del racconto, anche se tra i due sembra esserci una sostanziale differenza. Mentre la scrittura del romanziere padovano sembra infatti essere influenzata da elementi in bilico tra classicità e modernità, 27. Ivi, p. 50. 28. Ivi, pp. 223-224 e 227-228. 29. Ivi, p. 444. 210
FRANCESCO CRISPINO
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quella dello scrittore romano da quelli tra postmoderno e digitale, aspetti dove insomma sembra molto elevata la qualità percettiva dell’evocazione. In altre parole, il dato comune è che «lo sguardo dal ponte» abbia prodotto una mutazione sia nella scrittura di Carlotto sia in quella di Ammaniti, ma che diversi siano gli atteggiamenti che ne sono derivati: nel primo vengono mutuate tecniche narrative per produrre senso, un senso «sovraevocativo» si potrebbe dire, in grado cioè di andare oltre l’affabulazione stessa; nel secondo invece per produrre sensazioni, cioè per immergere il lettore/spettatore nel flusso del racconto. Due diversi modi di raccontare, due diversi modi di guardare.
SGUARDI DAL PONTE
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Gianni Amelio, la dissimulazione onesta CRISTIANA PATERNÒ
Attingono a fonti letterarie Le chiavi di casa (2004) e La stella che non c’è (2006), così come l’ultimo film di Gianni Amelio Le premier homme da Albert Camus, ma in una forma ellittica e spuria, obliqua e indiretta che molto appartiene all’universo creativo del cineasta calabrese. L’uno si innesta sul racconto autobiografico di Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, l’altro fa scattare la molla della narrazione a partire da un personaggio che si muove tra cronaca e letteratura, il Vincenzo Buonocore (che diventa Buonavolontà) del romanzo di Ermanno Rea La dismissione. È un bel gioco intellettuale – oltre che una strategia produttiva perché è più «semplice», e Amelio l’ha ben spiegato – chiudere un progetto se alla base di quel progetto c’è un libro. Ma davvero sarebbe tutto qui, in una semplificazione produttiva? Noi propendiamo per un’altra ipotesi e cioè che i «tradimenti» di Amelio, la sua disinvoltura nell’allontanarsi dal testo letterario per intraprendere un’avventura morale e un viaggio materiale, nello spazio e nei luoghi, sia il modo migliore di leggere un libro al cinema. A patto, beninteso, di avere qualcosa da dire. Prendiamo Le chiavi di casa. È uno degli ultimi scritti di Pontiggia, scomparso poi nel 2003, Nati due volte, Premio Campiello nel 2001. È una sorta di romanzo familiare, che si addensa nel corpo a corpo tra un padre e un figlio, un ragazzino spastico e un professore di liceo. È la scansione di un rapporto perduto e ritrovato al cospetto di medici e specialisti, logopediste e psicologi, ciascuno con le sue dottrine e le sue convinzioni spesso così distanti dal fattore umano. Appassionato di cinema da quando, a dodici anni, vide Sfida infernale di John Ford (1946) e gli restò impressa indelebilmente la scena dell’ubriaco che recita «Essere o non essere» in un saloon, Pontiggia ha fatto di Nati due volte un libro da leggere in un fiato, perché è già cinema, suddiviso com’è in brevi scene contundenti, scandito da incontri e
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diverbi. Basta scorrerne l’indice per rendersene conto: Dietro il vetro, La prima visita, Istituto d’Arte, Il fratello, Il go-kart, Riunione genitori, I test, La recita. Il padre, un uomo intellettualmente molto sicuro di sé, osserva il figlio, cerca di carpirne il segreto, la saggezza elementare. Il figlio, per esempio, prega ma sa che «la preghiera non è magia». Non almeno quella magia che annulla ciò che siamo, la nostra condizione, le circostanze in cui siamo gettati. Alla domanda profetica e insensata sulla guarigione, chi vede appena un po’ oltre sostituisce una domanda sul senso della guarigione stessa in un orizzonte segnato dalla morte. Non si guarisce mai del tutto, eppure si è dentro la vita per nascere e rinascere. Così le ultime frasi del romanzo sono una sorta di confessione di un mistero quotidiano: «Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. È stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo». C’è molto Amelio in tutto questo: il suo pudore, la sua ossessione per le relazioni in cui s’invertono i ruoli tra chi insegna e chi apprende, lo stupore che ci coglie di fronte al manifestarsi dell’altro. E tuttavia Le chiavi di casa è incommensurabilmente distante da quel testo. Oltretutto un film su commissione, progetto voluto da Rai Cinema che il regista era refrattario ad accettare. «Prima di dire di sì – racconta – ho dovuto immaginare un percorso analogo a quello del narratore, che parlava di suo figlio mettendosi fortemente in gioco, annullando la distanza emotiva prima, per poi riconquistarla alla coscienza critica e autocritica». Bisognava togliersi la maschera e osservare, attraverso gli occhi puri del piccolo spastico inarrestabile, di quel bambino «imperfetto», il mondo dei normali. Titubante il regista ad accettare la sfida, si convinse definitivamente incontrando Andrea Rossi, il futuro protagonista. Un ragazzino di 15 anni che l’ha colpito al cuore come accade al personaggio di Paolo (Kim Rossi Stuart) nella finzione. Paolo non è un padre inadeguato ma comunque pronto a impegnarsi come il padre del libro, è un padre nullo, un padre che ha rifiutato il figlio alla nascita, figlio che non vuole vedere e non vede. Amelio deve forzarlo a cambiare e concentra tutto sui due. Espelle dunque il personaggio della madre, che nel romanzo è un controcanto pragmatico e dissacrante, polemico o rassegnato, e che qui viene appena evocato nella figura della donna incontrata nell’ospedale di Berlino e interpretata da Charlotte Rampling. Padre e figlio, nel film, si trovano per la prima volta nella città tedesca, città estranea all’uomo e familiare al ragazzo, che la conosce tanto bene da guidare il recalcitrante genitore. Tutto è concentrato, teso verso un improbabile scioglimento, con la sola concessione del finale, aperto e luminoso, del viag214
CRISTIANA PATERNÒ
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gio verso nord, perfetto e speculare contraltare al viaggio verso sud del Ladro di bambini. C’è dunque ancora una volta una crescita, una maturazione, un aprire gli occhi che si svolge in forme paradossali. Ma che ne è di Pontiggia e della sua ricostruzione? Di certo, se viene tradita è per assumerla in una forma più alta e distillata, secondo un processo che lo stesso Amelio descrive benissimo in una interessante intervista a cura di Piero Spila e Bruno Torri pubblicata dalla rivista «Cinecritica» (gennaio-marzo 2007): «Io in realtà non tradisco il soggetto, semmai tradisco la sceneggiatura […] non dimentico l’idea primaria del film, quella che m’ha portato a decidere di raccontare questa storia anziché un’altra. Ma non giuro fedeltà ai “fatti”, credo che i fatti siano davvero intercambiabili». Procedimento ancor più evidente nel successivo La stella che non c’è, in concorso a Venezia. La dismissione è un libro di quasi quattrocento pagine che fotografa, attraverso lo smantellamento dell’Ilva di Bagnoli, il processo, drammatico e straordinario, della fine della classe operaia come l’abbiamo conosciuta nel xix e poi nel xx secolo. Il dinosauro morente dell’acciaieria è il cadavere agonizzante vegliato dall’operaio specializzato, ora promosso a tecnico, Vincenzo Buonocore, ossessionato dal luogo dove ha lavorato e vissuto un’intera esistenza. Tuttavia Ermanno Rea, giornalista e scrittore napoletano, non affronta la fine dell’Ilva da un punto di vista sociologico o politico, anche se poi il romanzo è pieno di notazioni e accenti di un’analisi di questo tipo, ma in una prospettiva romantica, come «cronaca di una passione: tra un uomo e una macchina». Lo stesso sentimento accende l’immaginazione di Amelio, che fantastica, a partire dal libro, il viaggio in Cina di Vincenzo (Sergio Castellitto) e sposta drasticamente la prospettiva tanto da partire dalla fine. La fine della dismissione e la fine della classe operaia, con le nuove forme di sfruttamento della manodopera sperimentate in quell’immenso bacino di forza lavoro a basso costo, in totale assenza di regole, senza alcuna tutela dell’ambiente, che è la Cina contemporanea. Ma Amelio compone anche – di nuovo – un road movie di formazione con un personaggio che parte dominato dalle sue personali ossessioni e viene via via spogliato dei suoi pregiudizi, della sua corazza, nell’incontro con la ragazza cinese che all’inizio lui non capisce e anzi non vede, come il padre non vedeva il figlio in Le chiavi di casa. Ma a differenza di quello, Vincenzo, che per Amelio è più «volontà» che «cuore» tanto da cambiargli il nome, ha un suo tracciato profondamente etico, perfino nevroticamente etico, una missione illogica e diremmo donchisciottesca: portare in Cina il giunto difettoso, il decisivo ingranaggio che salverà la grande macchina dell’altoforno dal collasso. Pio desiderio, ingenua illusione: il pezzo di ricambio finirà in una GIANNI AMELIO, LA DISSIMULAZIONE ONESTA
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montagna di ferraglia. Ma al pessimismo dell’intelligenza subito si contrappone l’ottimismo della volontà, in un finale che promette riscatto al «dismesso» Vincenzo e alla reietta Liu Hua. Amelio dunque traditore. O piuttosto dissimulatore. Non sarà una mera coincidenza la frequentazione che ha intrattenuto con Leonardo Sciascia, scrittore molto saccheggiato dal cinema in epoche e con esiti diversi e ben due volte dal cineasta calabrese con I ragazzi di via Panisperna (1988) e soprattutto con Porte aperte (1990). Lo scrittore e il cineasta sembrano infatti condividere il gusto per la dissimulazione che si vorrebbe dire, parafrasando il titolo di un trattato seicentesco, onesta: dissimulazione del senso dietro un realismo solo apparente, di facciata. Il celare una riflessione, morale o anche filosofica, sotto la crosta della cronaca scabra; il dire cose ardue in un linguaggio esteriormente piano. Dove il lavoro del letterato, come quello del regista, consiste nel togliere, nel raschiare il superfluo, nel depurare. Il nucleo narrativo e concettuale dei Ragazzi di via Panisperna, quello del confronto tra il genio che si afferma nel mondo e il genio che dal mondo si ritrae, viene proprio dall’asciutta indagine che Sciascia compie su La scomparsa di Majorana (1975) ma anche da altre mitiche sparizioni di pirandelliana ascendenza raccontate dallo scrittore siciliano; mentre Porte aperte sviluppa più esplicitamente la traccia alquanto ostica dell’apologo sulla giustizia e l’ingiustizia e del loro intrecciarsi per vie segrete. Spiegava Amelio in una conversazione con Bruno Roberti apparsa su «Filmcritica» a proposito di Porte aperte: «Considero un grandissimo errore quello che alcuni critici hanno scritto di una mia presunta infedeltà a Sciascia. Io credo di aver fatto un film che Sciascia avrebbe amato da spettatore, non da autore del libro, proprio respingendo il “romanzesco”, ma forse anche il “romanzo”, cercando di spezzare delle cose ricordandomi sempre che quello che era importante era il “ragionamento” più che l’emozione diretta». Il resto è opera in progress di un autore che certamente continuerà a tradire e tradurre la grande e meno grande letteratura per proseguire il suo personale discorso.
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CRISTIANA PATERNÒ
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Gli eredi di Flaiano: i nuovi romanzieri-sceneggiatori PIERPAOLO DE SANCTIS
Poche cose seducono i produttori come un romanzo di successo. Non è una novità che il grande schermo attinga dalla letteratura per scovare storie efficaci da raccontare o rivestirsi di nobiltà acquisite, vantando discendenze culturali inoppugnabili. Eppure, negli ultimi anni il fenomeno è andato progressivamente ad acutizzarsi fino a innescare nuove dinamiche di confronto tra i linguaggi coinvolti, lungo un itinerario intermediale sempre più friabile e osmotico, che intreccia i tradizionali percorsi e le relative competenze del romanziere e dello sceneggiatore. Al di là dei trapassi lineari dal libro allo schermo, dove lo scrittore si limita ad avallare il trattamento della propria opera da parte di una produzione, un regista e un team di sceneggiatori professionisti incaricati di rendere celluloide la cellulosa, si moltiplicano a dismisura le occasioni di incontro tra mondo del cinema e letterati, incaricati in prima persona della traduzione filmica del proprio testo editoriale. E tra coloro che accettano di confrontarsi col nuovo mezzo, non sono pochi quelli che proseguono più o meno regolarmente la nuova attività di sceneggiatore accanto a quella letteraria d’appartenenza. Si tratta di figure eclettiche, abili nel transitare da un formato all’altro, per le quali il cinema rappresenta prima di tutto uno stimolo creativo e un’occasione di ulteriore maturazione, mentre il film ripaga spesso gli sforzi regalando allo scrittore un surplus di celebrità che si riverbera, in termini di vendite e autorevolezza della firma, su tutta l’opera letteraria precedente e futura1. 1. Si pensi solo a quante ristampe con nuova copertina illustrata da un fotogramma particolarmente emblematico (di solito una posa dell’attore protagonista) affollano gli scaffali delle librerie durante la campagna di lancio del film tratto dal relativo romanzo.
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D’altra parte, il cinema a sua volta contamina la letteratura svecchiandone il linguaggio e portando sulla pagina scritta inediti ritmi di montaggio accanto a soluzioni prettamente visive. Un processo riscontrabile facilmente in quei narratori che, passati almeno una volta per l’adattamento (Brizzi, Stancanelli, Ammaniti, Carlotto…), riportano nel loro stile i segni inconfondibili dell’impatto col nuovo mezzo2. Insomma, ci troviamo a fare i conti con un complesso di spinte che preme da un sistema linguistico a un altro, rimodellando i rispettivi confini, stabilendo nuove reti e sempre più saldi lacci tra cinema e letteratura, mentre le distinzioni tra le diverse professionalità della scrittura risultano sempre più incerte e passibili di sovrapposizione. A dare l’idea del peso raggiunto recentemente dalla figura del romanziere-sceneggiatore, anche in seno al mondo letterario più blasonato, basti pensare che più della metà degli ultimi Premi Strega sono andati proprio a personaggi attivi in entrambi i campi (Domenico Starnone nel 2001, Margaret Mazzantini nel 2002, Sandro Veronesi nel 2006, Niccolò Ammaniti nel 2007, Paolo Giordano nel 2008, Edoardo Nesi nel 2011), mentre quattro di questi, Mazzantini, Veronesi, Ammaniti e Giordano, sono presto diventati film3.
Con i piedi in due staffe Nel ricostruire le strategie di questo multiforme scenario, vale la pena tentare di individuare una mappa, necessariamente lacunosa e parziale, su cui provare a segnalare tendenze e personalità diversamente rappresentative del fenomeno. Indicativo di una temporanea fascinazione cinematografica è il percorso del napoletano Pino Cacucci, narratore dagli anni ’80, il cui Puerto Escondido (Interno giallo, 1990) è stato adattato per lo schermo da Gabriele 2. Si veda, tra l’altro, all’interno di questo stesso volume, il saggio di Francesco Crispino sull’influenza che il cinema ha avuto nella letteratura di Ammaniti e Carlotto, due romanzieri-sceneggiatori tra i più rappresentativi del gruppo. 3. I Premi Strega, nel dettaglio, sono i seguenti: 2001, Domenico Starnone, Via Gemito (Feltrinelli); 2002: Margaret Mazzantini, Non ti muovere (Mondatori); 2006: Sandro Veronesi, Caos calmo (Bompiani); 2007: Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda (Mondadori); 2008: Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi (Mondadori); 2011: Edoardo Nesi, Storie della mia gente (Bompiani). I film a cui si fa riferimento sono ovviamente Non ti muovere (2004, Sergio Castellitto), Caos Calmo (2008, Antonello Grimaldi), Come Dio comanda (2008, Gabriele Salvatores), La solitudine dei numeri primi (2010, Saverio Costanzo). 218
PIERPAOLO DE SANCTIS
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Salvatores senza un suo contributo diretto in fase di sceneggiatura. Ma dietro interessamento dello stesso regista, Cacucci arriva a cimentarsi con gli script di Viva San Isidro! (1995, Alessandro Cappelletti, anch’esso ricavato da un romanzo dello scrittore edito da Granata Press nel 1991) e Nirvana (1997), prima di rientrare nei ranghi peraltro piuttosto prolifici della letteratura. Altrettanto partenopeo e ugualmente legato a Salvatores – che adatta il suo Denti (Feltrinelli, 1994) senza coinvolgerlo nella stesura del progetto – è Domenico Starnone, insegnante di liceo e scrittore, che diversamente da Cacucci trova nel cinema una vera e propria professione-seconda: prima riducendo per Luchetti (La scuola, 1995) e Milani (Auguri professore, 1997) i suoi stessi romanzi sul mondo studentesco, da lui vissuto in prima persona; poi tornando a lavorare con quegli stessi registi per I piccoli maestri (1998, Luchetti, sceneggiato insieme a Rulli e Petraglia), La guerra degli Antò (1999) e Il posto dell’anima (2003, entrambi di Milani). Dopo aver avviato altre due fertili collaborazioni con Placido (Del perduto amore, 1998, Ovunque sei, 2004) e Rubini (Tutto l’amore che c’è, 2000, L’anima gemella, 2002, L’amore ritorna, 2004, L’uomo nero, 2009), il suo nome resta ancora oggi, contemporaneamente al successo editoriale dei nuovi romanzi, tra quelli maggiormente richiesti in ambito di «commedie adulte», come dimostra il suo intervento in La febbre (2005, Alessandro D’Alatri). Anche suo figlio Federico, autore di Più leggero non basta (Feltrinelli, 1996, romanzo autobiografico sull’obiezione di coscienza e l’incontro con la disabilità), compie il salto adattando se stesso per l’omonimo film di Elisabetta Lodoli (1998), scritto assieme al padre e agli infaticabili Rulli e Petraglia. Ma la sua piena maturazione come sceneggiatore, accompagnata da unanimi riconoscimenti, avviene solo recentemente con la partecipazione al copione di Anche libero va bene (2006), acclamato esordio alla regia di Kim Rossi Stuart, scritto assieme a Linda Ferri e allo stesso regista, per il quale il trio ottiene il David di Donatello. Sempre di origini campane, ma attivo a Roma, è Francesco Piccolo, figura di spicco nel panorama che stiamo disegnando: i suoi esordi nella narrativa degli anni ’90 gli procurano da subito l’interesse dei produttori, a cui cede dopo un’iniziale ritrosia scrivendo Paz! (2002, Renato De Maria) insieme a Ivan Cotroneo, e My Name is Tanino (2002, Paolo Virzì), con Francesco Bruni e lo stesso Virzì. Tralasciando il passo falso di Ovunque sei, nel quale era caduto anche Domenico Starnone, Piccolo si afferma definitivamente come uno degli sceneggiatori più interessanti degli ultimi anni lavorando al fianco di Doriana Leondeff in Agata e la tempesta (2004, Silvio GLI EREDI DI FLAIANO: I NUOVI ROMANZIERI-SCENEGGIATORI
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Soldini) e Amatemi (2005, Renato De Maria), prodotti entrambi accattivanti anche se non pienamente riusciti, e soprattutto arrivando a scrivere per (e con) Nanni Moretti, insieme a Federica Pontremoli, opere importanti come Il caimano (2006) e Habemus Papam (2011). Senza tralasciare il terreno della commedia, come dimostra il suo ritorno a Virzì, cui regala una delle sue migliori commedie di sempre (La prima cosa bella, 2010). Quanto al fiorentino Sandro Veronesi, Premio Strega nel 2006 con Caos Calmo (Bompiani, subito trasferito in film dalla Fandango, su sceneggiatura del già citato Francesco Piccolo), i suoi esordi mescolano già cinema e letteratura come due percorsi paralleli e alternabili con una certa disinvoltura. Dopo aver scritto Maramao (1987), con e per il fratello Giovanni, debutta nella narrativa l’anno successivo con Per dove parte questo treno allegro, storia in parte autobiografica pubblicata per Theoria, una piccola e coraggiosa casa editrice romana. Ma al susseguirsi delle sortite editoriali non corrisponde un’altrettanto regolare frequentazione cinematografica, forse compromessa dal modesto successo al botteghino dei film a cui collabora: passa piuttosto inosservato Ultimo respiro (1992, Felice Farina), così come l’interessante Cinque giorni di tempesta (1997, Francesco Calogero), mentre delude su tutta la linea il successivo apporto al cinema del fratello Giovanni, Streghe verso nord (2001). Intanto, mentre ai suoi romanzi capita d’essere trasposti senza un suo diretto coinvolgimento in fase di riscrittura – il pluripremiato La forza del passato (Bompiani, 2000), già pieno di riferimenti cinematografici, diventa nel 2002 un film di e scritto da Piergiorgio Gay insieme a Lara Fremder; stessa sorte tocca a Gli sfiorati, suo secondo romanzo edito da Mondadori nel 1990 e portato sullo schermo nel 2011 da Matteo Rovere, mediato da una sceneggiatura cui contribuisce anche Francesco Piccolo – Veronesi sembra prendere le distanze dal mestiere di sceneggiatore per dedicarsi prevalentemente e con evidenti fortune a quello di romanziere. Dall’universo cinematografico sembra essersi allontanata anche Linda Ferri, scrittrice colta e raffinata, che dopo la pubblicazione con Feltrinelli di un romanzo (Incantesimi, 1997) e di una raccolta di racconti (Il tempo che resta, 2001), sembrava piuttosto inserita nell’alveo dei nuovi sceneggiatori italiani. Dopo l’esordio con La stanza del figlio (2001, Nanni Moretti), scritto in simbiosi col regista e Heidrun Schleef, dove per la prima volta vengono immessi temi e sensibilità nuove nella filmografia dell’autore romano, collabora con Giuseppe Piccioni, prima con lo script non proprio convincente di Luce dei miei occhi (2001, insieme al regista e Umberto Contarello), poi con quello dalla struttura assai più intrigante di La vita che vorrei (2004). 220
PIERPAOLO DE SANCTIS
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Ma è col già citato Anche libero va bene (2006) che la Ferri conferma il proprio talento di sceneggiatrice, coronato tra l’altro dalla vittoria del David di Donatello. Più giovane, ma al lavoro su un tipo di cinema molto più popolare, è Teresa Ciabatti, esordiente nella narrativa con Adelmo, torna da me (2002, Einaudi), il cui brand tipicamente adolescenziale ha attratto Cattleya e Rai Cinema nel progetto L’estate del mio primo bacio (2006, Carlo Virzì), scritto da lei stessa con i fratelli Virzì e Francesco Bruni. Da esperta nel coinvolgere un pubblico teenageriale, alla Ciabatti vengono commissionate anche le sceneggiature dei film tratti dai romanzi di Federico Moccia: Tre metri sopra il cielo (2004, Luca Lucini) e Ho voglia di te (2007, Luis Preto), entrambe scritte con l’autore e costruite a tavolino come fenomeni di culto per tutta una generazione di adolescenti in odore di romanticismo. Si «riscatta» negli ultimi anni scrivendo commedie più sofisticate, ma altrettanto «giovani», come Cosmonauta (2008, Susanna Nicchiarelli) e La donna della mia vita (2010, Luca Lucini), oltre al gustoso teen-thriller di Matteo Rovere, Un gioco da ragazze (2008).
Atti unici Nonostante l’eccezionalità del singolo risultato, l’impatto dei romanzieri col nuovo linguaggio non prelude affatto all’avvio di una professione seconda, ma resta talvolta un’esperienza unica destinata a non ripetersi. Tra i casi più autorevoli di incursione occasionale nei territori della sceneggiatura spicca Margaret Mazzantini, attrice che ha gradualmente abbandonato una carriera già avviata per dedicarsi con successo alla scrittura intorno alla metà degli anni ’90. Il best seller Non ti muovere (Mondadori, 2001), vincitore dello Strega 2002, è stato portato sullo schermo da Castellitto con la sua stessa complicità, trasformandosi in uno dei boom più redditizi dell’annata 2003-2004 (a cui ha fatto seguito, sempre per la regia del marito, gli script per La bellezza del somaro, 2009, e Venuto al mondo, 2012, quest’ultimo nuovamente tratto da un suo romanzo di successo). Al di là dei meriti, l’irruzione della scrittrice nel mondo del cinema (peraltro già avvenuta con la sceneggiatura del precedente lavoro registico del compagno, Libero burro, passato però piuttosto in sordina) rappresenta prima di tutto un investimento di valore in grado di amplificare circolarmente il successo del film e, di riflesso, quello dello stesso romanzo, rafforzando nel prestigio la comune firma dell’autrice. GLI EREDI DI FLAIANO: I NUOVI ROMANZIERI-SCENEGGIATORI
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Anche la fiorentina Elena Stancanelli, narratrice contemporanea tra le più dotate, comincia come attrice frequentando a Roma i corsi della Silvio D’Amico. Dimostra poi una straordinaria sensibilità quando Benzina (Einaudi, 1998), il suo fortunato esordio letterario, diventa un film diretto da Monica Strambini e interpretato da Maya Sansa e Regina Orioli. Nel collaborare alla sceneggiatura, l’autrice si pone al servizio del nuovo mezzo con inusuale apertura e disponibilità al tradimento: «[…] ho detto a Monica fai il tuo film, scegli il tuo marmo da sventrare. Tanto le storie vanno e vengono, il centro è la mano e lo scalpello. […] Ho lavorato con Monica come fossi la complice di una colossale rapina. Le camminavo accanto e le spifferavo qualche segreto, una combinazione, un trucco per arrivare più in fretta a qualcosa. E lei intanto mi insegnava cosa vuol dire Ppp, Int, Est, Fc. Io sapevo da dove venivamo, lei dove saremmo andate. Lei sacrificava spietatamente quello che non serviva, io mi fermavo a seppellire i cadaverini con una strana esaltazione sado-maso»4.
Peccato che l’opera, esperimento visionario e inclassificabile, non abbia ricevuto le attenzioni che avrebbe meritato, massacrata da una distribuzione ridicola e da una critica piuttosto sonnacchiosa. Un altro caso esemplare è quello di Vitaliano Trevisan, che arriva al cinema come folgorante interprete e sceneggiatore di Primo amore (2004, Matteo Garrone) non prima di un’intensa frequentazione letteraria, segnata dall’acclamato I quindicimila passi (Einaudi, 2002). Da allora il romanzo, con l’eccezione di qualche incursione teatrale, resta comunque il suo interesse principale, anche se il cinema continuerà ad allettarlo sia come attore (Questioni di pelle, 2006, di Giorgio Bompieri e Bibi Bozzato e Riparo, 2007, di Marco S. Puccioni) che come scrittore di un piccolo noir indipendente vicentino (Still Life, 2005, di Filippo Cipriano). Pescando tra i vari blitz cinematografici degli scrittori italiani troviamo anche la sceneggiatura che il collettivo Wu Ming – cinque autori responsabili, tra l’altro, del celeberrimo Q (Einaudi, 1999), da loro pubblicato con lo pseudonimo di Luther Blissett – realizza con Guido Chiesa per il suo Lavorare con lentezza (2004); o l’atipico caso di Massimo Lolli, manager con l’hobby della scrittura, che partecipa alla stesura di Volevo solo dormirle addosso (2004, Eugenio Cappuccio), tratto da un suo romanzo omonimo 4. Dichiarazione di Elena Stancanelli del 12/12/2001. In www.kinematrix.net/articoli/benzina_ stancanelli.htm. 222
PIERPAOLO DE SANCTIS
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uscito nel 1998 per i tipi di Limina. E ancora, andrebbero almeno citati i casi di Marco Ferrari, autore di Alla rivoluzione sulla due cavalli (Sellerio, 1995) nonché della sceneggiatura del film omonimo con cui Maurizio Sciarra ha vinto il Pardo d’oro a Locarno 2001; Riccardo Brun, scrittore, giornalista e sceneggiatore di In ascolto (The Listening) (2006), notevole thriller spionistico coprodotto con la Gran Bretagna e diretto dall’esordiente Giacomo Martelli; Massimo Cacciapuoti, infermiere e scrittore napoletano tra i più interessanti della sua generazione, autore del Pater Familias (Castelvecchi, 1998) da cui Francesco Patierno, col suo contributo in fase di sceneggiatura, ha tratto l’omonimo film del 2003; Rossana Campo, coautrice insieme a Doriana Leondeff e Ivan Cotroneo di In principio erano le mutande (1999, Anna Negri), tratto dal suo omonimo esordio letterario (Feltrinelli, 1992). E per finire, gli episodi particolari di due intellettuali non legati alla narrativa: Mario Cereghino, saggista e storico contemporaneo che presta la sua conoscenza a Paolo Benvenuti nelle sceneggiature di Gostanza da Libbiano (2003) e Segreti di Stato (2003), e Giaime Alonge, docente universitario e studioso di cinema che ha invece contribuito alla scrittura dei lavori di Daniele Gaglianone: I nostri anni (2000), Nemmeno il destino (2004), Ruggine (2011). Italia in nero Serbatoio prezioso di storie e talenti narrativi, la nuova letteratura di genere si va sempre più configurando come palestra esemplare dove allenare le capacità affabulatorie di scrittori particolarmente versatili per lo schermo. Precursore di questa tendenza è senz’altro Niccolò Ammaniti, celebratissimo sin dagli anni ’90, quando la critica si innamorò di lui affibbiandogli l’aggettivo «pulp». Tralasciando Branchie (1999, Francesco R. Martinotti, maldestra trasposizione del suo esordio editoriale da cui astiene ogni contributo), più che nell’apporto fornito allo sfortunato L’ultimo capodanno (1998, Marco Risi), tratto da un suo folgorante racconto contenuto in Fango (Mondadori, 1996), i primi veri risultati di Ammaniti come sceneggiatore risalgono a Io non ho paura (2003), adattamento per Salvatores di uno dei suoi romanzi più belli; mentre per Il siero della vanità (2004, Alex Infascelli), lo scrittore si fa aiutare da Antonio Manzini, altro esponente della letteratura dark del periodo, arrivato al romanzo noir dopo anni di praticantato attoriale – suoi i recenti Sangue marcio (Fazi, 2005) e La giostra dei criceti (Einaudi, 2007). Ma è con gli adattamenti di Come Dio comanda (Mondadori, 2006), portato sullo schermo da Salvatores nel GLI EREDI DI FLAIANO: I NUOVI ROMANZIERI-SCENEGGIATORI
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2008, e, soprattutto, di Io e te (Einaudi, 2010), ritorno alla regia di Bernando Bertolucci, che Ammaniti si conferma tra gli scrittori-romanzieri più importanti in Italia. Sulla stessa linea si muove Carlo Lucarelli, fin troppo esperto nell’amministrare la propria immagine di romanziere del mistero agli occhi di un pubblico anche televisivo, conquistato con la fortunata trasmissione Blu notte. Ciò nonostante, se si esclude la partecipazione alla sceneggiatura di Non ho sonno (2001, Dario Argento) e quella al trascurabile Albakiara (2008, Stefano Salvati), il suo rapporto con il cinema è ancora spigoloso e in gran parte sotterraneo. Come ha recentemente dichiarato: Tutti i miei romanzi, per esempio, sono stati «opzionati» dal cinema o dalla televisione e di molti sono stati acquistati definitivamente i diritti. Siccome ho scritto molti romanzi e questi sono stati acquistati più volte direi che mi sono trovato protagonista almeno di una ventina di progetti. La mia filmografia tratta da romanzi, però, si compone attualmente di tre titoli5.
Di Almost Blue (2000), alla cui lavorazione è rimasto estraneo, Lucarelli apprezza comunque la «versione» di Infascelli, mentre del film di Antonello Tibaldi, Lupo mannaro (2000), primo adattamento da un suo libro su cui lo scrittore abbia messo le mani, si dice pronto a sottoscrivere «con soddisfazione ogni fotogramma». Peccato che la pellicola, prodotta da Fandango per Mediaset, giaccia da allora negli archivi di quest’ultima, considerata troppo «forte» per un pubblico televisivo a causa dei suoi marcati contenuti noir. Il giorno del lupo (Einaudi, 1998) ha invece dato origine a una curiosa serie di quattro film per Rai 2: L’Ispettore Coliandro, diretta dai Manetti Bros. che Lucarelli coordina in qualità di story editor, veicolando elementi da commedia all’interno di storie poliziesche ambientate a Bologna. Lo sostengono, tra gli altri, sceneggiatori come Umberto Contarello e Giampiero Rigosi, altro giallista di fama, autore di Notturno Bus (Einaudi, 2000) e del relativo script portato sullo schermo da Davide Marengo. Sempre per la televisione – che si dimostra catalizzatrice di alcune tra le più interessanti correnti creative di questi anni – Lucarelli traspone un altro suo racconto, Rapidamente, che entra così a far parte di una collana di otto film da 100 minuti l’uno prodotti da Rodeo Drive e Rai Cinema. Story editor del progetto è Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore passato alle cronache per aver dato alle stampe Romanzo criminale (Einaudi, 2002), be5. 224
C. Lucarelli, Il “mio” cinema, in «MicroMega», n. 7/2006, p. 151. PIERPAOLO DE SANCTIS
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neficiario – e a sua volta beneficiante – del successo del film di Placido e di quello, ancor più impattante sull’immaginario nazional-popolare, del serial tv di successo diretto da Stefano Sollima. La serie, di nome Crimini (2006), prende le mosse dall’omonima raccolta curata dallo stesso De Cataldo (Einaudi, 2005), di cui raduna nuovamente le firme, tra le migliori in circolazione in fatto di polizieschi, proponendosi come una sorta di laboratorio creativo dove studiare le modalità di passaggio dal racconto al film. Sono loro gli artefici della nuova primavera della nostra letteratura popolare, nonché, anche grazie ai romanzi già pubblicati, della conseguente parziale rinascita del cinema italiano di genere, che proprio dai noir sembra trarre nuova linfa e fonte d’ispirazione. Oltre ai già citati Lucarelli, De Cataldo e Rigosi, Crimini annovera le firme di: Sandrone Dazieri, già autore dell’insolito La cura del gorilla (Einaudi, 2001), da cui trae anche lo script per il film di Carlo A. Sigon prodotto dalla Colorado Film nel 2005, e cosceneggiatore del già citato thrilling di Matteo Rovere, Un gioco da ragazze; Massimo Carlotto, esponente di punta di questa letteratura, i cui romanzi sono stati ridotti già da Enrico Pau (Jimmy della collina, 2006) e Michele Soavi (Arrivederci, amore ciao, 2006), ma che è stato anche sceneggiatore dell’autobiografico Il fuggiasco (2003, Andrea Manni), da un suo stesso romanzo edito nel 1995 da e/o; il salernitano Diego De Silva, avvocato penalista e scrittore, autore del copione di Certi bambini (2004, Andrea e Antonio Frazzi), tratto da un suo libro uscito per Einaudi nel 2001, di Gorbaciof (2010, Stefano Incerti) e Cose dell’altro mondo (2011, Francesco Patierno), nonché dell’episodio italiano di All the Invisibile Children (2005), firmato da Stefano Veneruso; il sardo Marcello Fois, tra i più prolifici narratori della sua generazione, anch’egli cosceneggiatore del film dei fratelli Frazzi, ma anche di Ilaria Alpi. Il più crudele dei giorni (2002, Ferdinando V. Orgnani), sull’omicidio della giornalista italiana e del suo cameraman in Somalia, a sua volta liberamente ispirato a L’esecuzione di Giorgio e Luciana Alpi, Mariangela Gritta Grainer e Maurizio Torrealta (Kaos, 1999). Unico assente dalla versione televisiva risulta Ammaniti, il cui racconto, scritto insieme al già citato Antonio Manzini, è non a caso il più estremo, efferato e visionario del lotto, quasi impossibile da far digerire al pubblico prime time della Rai6.
6. Nel progetto sono coinvolti anche Andrea Camilleri e Giorgio Faletti, anche se quest’ultimo, nel passare dal racconto pubblicato al film televisivo, azzera tutto e riparte da capo con una storia inedita. GLI EREDI DI FLAIANO: I NUOVI ROMANZIERI-SCENEGGIATORI
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Dallo schermo alla carta Se l’industria cinematografica e televisiva, sempre a caccia di storie da raccontare, non smette di corteggiare gli scrittori, invocandone i favori per adattamenti o progetti ex-novo dove impiegare un’originale vis narrativa, è assai facile rintracciare una tendenza, speculare e simmetrica, che vede gli sceneggiatori sempre più attratti dal compiere il salto inverso, esordendo finalmente come romanzieri puri. Richiamati dalle possibilità virtualmente illimitate offerte dalla carta stampata, in molti hanno compiuto il grande passo: tra questi, Umberto Contarello, personaggio chiave della sceneggiatura di qualità anni ’90, membro di uno storico trio padovano con Mazzacurati e Monteleone, calato a Roma nel bel mezzo degli anni ’80 per tentare l’avventura cinematografica. Proprio con Mazzacurati, oltre a Marrakech Express (1989, Gabriele Salvatores) scrive anche i suoi film da regista (Il toro, 1994, Vesna va veloce, 1996, La lingua del santo, 2000, e il recente La passione, 2010). Ma dopo la collaborazione con Maurizio Zaccaro (Il carniere, 1997, Un uomo perbene, 1999) e un copione zoppicante realizzato con Linda Ferri per Piccioni (Luce dei miei occhi, 2001), inciampa insieme a Francesco Piccolo nel vituperato script di Ovunque sei. E prima di ritrovare una certa vitalità con La stella che non c’è (2006, di e scritto con Gianni Amelio) e Lascia perdere, Johnny! (2007, di e scritto con Fabrizio Bentivoglio), forse deluso dalle recenti realizzazioni filmiche dei propri copioni, stupisce un po’ tutti pubblicando il romanzo Una questione di cuore (Feltrinelli, 2005), dove il protagonista, non a caso, è uno sceneggiatore in crisi della sua stessa età. L’adattamento per l’omonimo film di Francesca Archibugi, nel 2009, dà vita a una delle migliori commedie italiane degli ultimi tempi, trasformando al tempo stesso Contarello in uno degli sceneggiatori più richiesti dai grandi autori (Sorrentino, con cui collabora per This Must Be the Place, 2011, e Bertolucci, per il già citato Io e te). Stesso discorso per Franco Bernini, anch’egli affermato sceneggiatore a cavallo tra anni ’80 e ’90, a lavoro per Luchetti, Piccioni, Salvatores e soprattutto Mazzacurati, nonché regista del coraggioso Le mani forti (1997). Subito prima della buona sceneggiatura di A casa nostra (2006, scritta insieme alla regista Francesca Comencini), il 2005 segna anche per lui, come per Contarello, l’esordio nella narrativa (La prima volta, Einaudi). Ma il tuffo nell’editoria sembra accomunare in questi anni i percorsi di molti altri veterani della sceneggiatura, come dimostrano i casi di Francesca Marciano e Anna Pavignano: la prima, già attrice per Pupi Avati negli anni ’70, regista negli ’80 e infine apprezzata sceneggiatrice per i film di Carlo 226
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Verdone (da Maledetto il giorno che t’ho incontrato a Io, loro e Lara), Salvatores (da Turné a Io non ho paura), Cristina Comencini (La bestia nel cuore, con lei anche scritto), Wilma Labate (Signorina Effe, 2007), Alessandro Angelini (Alza la testa, 2009), Valerio Jalongo (La scuola è finita, 2010), per non parlare di Bertolucci (Io e te), e dell’esordio alla regia di Valeria Golino (Vi perdono, 2012), pubblica a carriera ormai inoltrata ben tre romanzi: Cielo scoperto (Mondadori, 1998), Casa rossa (2003) e La fine delle buone maniere (2007), questi ultimi per Longanesi. La seconda, compagna di lunga data nella vita e nei film di Massimo Troisi – tutti, tranne Non ci resta che piangere, da lei cosceneggiati – e scrittrice per D’Alatri (Casomai) e Ferrario (Se devo essere sincera), pubblica per e/o Da domani mi alzo tardi (2007), un sentito omaggio all’attore e regista napoletano, in cui s’immagina che Troisi sia ancora vivo, e In bilico sul mare (2009), che lei stessa adatta per il film di D’Alatri (Sul mare, 2010). Il fenomeno non interessa esclusivamente gli sceneggiatori di lungo corso, ma investe anche tutta una nuova leva di writers in fuga dalle barriere realizzative dell’attuale cinema italiano e sedotta da un mezzo d’espressione più libero e svincolato come la letteratura. È il caso di Andrea Piva, fratello di Alessandro e scrittore dei suoi film (LaCapaGira, Mio cognato), autore dello script di un altro importante film salentino, Galantuomini (Edoardo Winspeare, 2008), nonché soggettista deluso da Roberta Torre per Mare nero (2006), che pubblica nel 2006 il suo primo romanzo: Apocalisse da camera (Einaudi). Eppure, come dichiara in un’intervista, […] è sulla narrativa che sono sempre stato concentrato – non a caso l’idea di LaCapaGira viene da un mio libro. Se mio fratello (il regista del film) non mi avesse quasi costretto a scrivergli un copione da quella mia storia, al cinema non avrei neanche mai pensato, credo. Diciamo che il mio percorso «pubblico» non rispecchia l’andamento di quello privato7.
Anche Ivan Cotroneo, diplomato sceneggiatore al Csc, comincia dal 2003 – anno di pubblicazione di Il re del mondo, seguito due anni dopo dal pregevole Cronaca di un disamore (entrambi Bompiani) – ad affiancare i romanzi alle sceneggiature per il cinema di Corsicato (I vesuviani, Chimera), De Maria (Paz!, insieme a Francesco Piccolo, La prima linea, 2009), Luchet7. www.blackmailmag.com/Intervista_ad_Andrea_Piva.html. Intervista ad Andrea Piva, a cura di Nino G. D’Attis e J.R.D. GLI EREDI DI FLAIANO: I NUOVI ROMANZIERI-SCENEGGIATORI
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ti (Dillo con parole mie, 2003), Milani (Piano, solo, 2007), Guadagnino (Io sono l’amore, 2009), Özpetek (Mine vaganti, 2010), fino ad arrivare all’esordio alla regia con La kriptonite nella borsa (2011). Che ci faccio in Cina? (Dario Flaccovio, 2006) è invece il debutto narrativo semi-autobiografico di Serena Brugnolo, autrice degli script di due tra i più interessanti esordi italiani degli ultimi anni: Saimir (2003, Francesco Munzi) e Apnea (2004, Roberto Dordit), nonché di Voci (2000, Franco Giraldi), tratto dall’omonimo romanzo di Dacia Maraini.
Conclusioni Una volta tracciate le principali linee guida del fenomeno, emergono dunque alcune zone di perfetta alleanza e coesione tra industria editoriale ed audiovisiva; un ampio e permeabile terreno di confronto dove i nostri scrittori di talento possono sperimentare nuove tecniche espressive, misurarsi con i diversi ritmi stilistici dettati dalle esigenze del racconto per immagini, assaggiare un tipo di creazione collettiva a cui partecipare come autore nel gioco complesso che porta alla realizzazione del film. Da una parte la sceneggiatura viene accettata come una forma ibrida e vincolata, tappa pur centrale di un percorso che porta altrove (al set e al tournage, prima di tutto), dall’altra la possibilità di vedere trasformate in immagini le proprie parole continua ad esercitare una fortissima attrattiva nei confronti dei nostri scrittori più dinamici, mentre la libertà offerta dal romanzo, a sua volta, richiama gli sceneggiatori professionisti con le promesse di un potenziale non condizionamento. L’attualità, del resto, tende a mescolare ancor più le carte: se i produttori continuano a puntare moltissimo sulla ricerca del best seller letterario con cui sbancare il botteghino, alcune lungimiranti società cinematografiche aprono interi distaccamenti editoriali al proprio interno, magari con l’intento di coltivare un vivaio di scrittori educati da subito alla possibilità dell’adattamento. È quanto ha fatto la Colorado Film varando la pubblicazione di una collana noir da poter poi, eventualmente, portare sullo schermo (si veda Quo vadis, baby?, che Salvatores ha cavato da Grazia Verasani). Ma la strategia è la stessa di Procacci, che nel 2005 lancia il restyling della Fandango Libri chiamando nel nuovo assetto societario – con il 40 per cento delle quote – Baricco e Lucarelli al fianco di Sandro Veronesi, Edoardo Nesi e Laura Paolucci, mentre Rosaria Carpinelli, in fuga da Rizzoli, prende in mano la direzione editoriale. 228
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Due anni dopo, la sinergia Procacci-Baricco porta dritto al lancio cinematografico in grande stile dello scrittore: prima con i diritti del suo Seta affidati a una coproduzione internazionale (Francia-Canada-UK-Giappone-Italia) da 21 milioni di dollari, per la regia di François Girard (protagonisti Keira Knightley e Micheal Pitt), con Baricco sceneggiatore e Fandango tra le società promotrici; poi con l’uscita nel 2008 di Lezione ventuno, esordio registico dello scrittore prodotto da Fandango e Rai Cinema, girato completamente in inglese – e con cast internazionale – tra il Regno Unito e il Trentino, che non avuto i risultati sperati al botteghino. L’ulteriore conferma dei rapporti di convergenza tra industria cinematografica e mondo editoriale ci è data da altri casi più o meno recenti: i già citati Caos calmo (adattamento di Veronesi targato Fandango, regia di Antonello Grimaldi) e Piano, solo (Rai Cinema, tratto dal romanzo di Walter Veltroni Il disco del mondo, vita breve di Luca Flores, musicista – Rizzoli, 2003 –, regia di Riccardo Milani). Pur onorando entrambi le regole del mainstream, portando sullo schermo romanzi di larghissimo gradimento il cui margine d’insuccesso è prossimo allo zero, ambedue sono scritti con l’apporto di alcuni tra i più abili «eredi di Flaiano» oggi inseriti nell’industria cinematografica: Francesco Piccolo per il film di Grimaldi, sceneggiato insieme a Nanni Moretti e Laura Paolucci; Ivan Cotroneo e Claudio Piersanti (altra figura di romanziere-sceneggiatore significativa, al servizio soprattutto di Mazzacurati) per quello di Milani. A dimostrazione che questa loro professione di narratori a tutto tondo può essere una strada percorribile e altamente riconosciuta, e non solo un’esperienza occasionale dettata da questioni puramente traduttive.
GLI EREDI DI FLAIANO: I NUOVI ROMANZIERI-SCENEGGIATORI
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CINEMA
Franz Kafka/Orson Welles: il processo, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio Pangaro Il portaborse vent’anni dopo, a cura di Italo Moscati Dal cuore della tenebra all’Apocalisse. Francis Ford Coppola legge Joseph Conrad, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio Pangaro Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia, a cura di Christian Uva Giacomo Ravesi, La città delle immagini. Cinema, video, architettura e arti visive Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico Sergio Castellitto. Senza arte né parte, a cura di Enrico Magrelli Così bella così dolce. Dalle pagine di Dostoevskij al film di Bresson, a cura di Francesco Bono, Luigi Cimmino, Giorgio Pangaro Kristin Thompson, Storytelling. Forme del racconto tra cinema e televisione Paola Dalla Torre, Sognando il futuro. Da 2001: Odissea nello spazio a Inception Istantanee sul cinema italiano. Film, volti, idee del nuovo millennio, a cura di Franco Montini e Vito Zagarrio
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