Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni 9788820757847, 9788820757854

Dalla storia della fondazione di una celebre basilica nasce un'inchiesta che tocca aspetti centrali della società m

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Italian Pages 223 [254] Year 2013

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INDICE
PREMESSA
INTRODUZIONE
I – LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI
II – IL MOMENTO STORICO
III – CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE
IV – LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI
V – LA BASILICA E IL DUOMO
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
ILLUSTRAZIONI
Quarta di copertina
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Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni
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Nuovo Medioevo 93 Collana diretta da Massimo Oldoni

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Silvia Silvestro

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Santi, reliquie e sacri furti San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni

Liguori Editore

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Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2013 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Maggio 2013 Silvestro, Silvia: Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni/Silvia Silvestro Nuovo Medioevo Napoli: Liguori, 2013 ISBN- 978 - 88 - 207 - 5784 - 7 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 5785 - 4 (eBook) 1. Storia dell’arte medievale 2. Storia medievale I. Titolo II. Collana III. Serie Ristampe: ————————————————————————————————————————— 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

1

Premessa

3

Introduzione

7

Capitolo primo La basilica di S. Nicola a Bari 1. Considerazioni preliminari 7; 2. Il culto del santo Nicola 18; 3. Bari e la sua basilica 25; 4. Studi sulla fondazione della basilica 33.

45

Capitolo secondo Il momento storico 1. L’antefatto 45; 2. L’abate Desiderio 47; 3. Politica ecclesiastica a Bari 51; 4. La rinuncia di Desiderio 55; 5. Desiderio, papa di maggio 58; 6. Urbano II 62.

65

Capitolo terzo Culto dei santi e culto delle reliquie 1. Santi, reliquie e sacri furti 65; 2. Racconti di sacri furti e traslazioni 68; 3. La Translatio sancti Marci e la Translatio sancti Nicolai 73; 4. Culto delle reliquie e promozione artistica nell’età dei Normanni 81; 5. Il contributo di Montecassino 83.

87

Capitolo quarto Le Translationes sancti Nicolai 1. Le fonti 87; 2. La Translatio dell’arcidiacono Giovanni 92; 2.a. Traduzione della Translatio dell’arcidiacono Giovanni 102; 3. La Translatio di Niceforo 113; 3a. Traduzione della Translatio di Niceforo 124; 4. La fortuna delle Translationes 137; 5. Stato degli studi 141; 6. Analisi comparata e manoscritti 142.

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viii

159

INDICE

Capitolo quinto La basilica e il duomo 1. Inde translatus Elia ad novum S. Nicolai monasterium 159; 2. La Inventio sancti Sabini 176; 3. S. Nicola basilica palatina? 179; 4. Le questioni giurisdizionali col duomo e i documenti 197.

201

Conclusioni

209

Bibliografia

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Fonti 211; Fonti manoscritte 213; Documenti d’archivio 213; Letteratura critica 213.

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A mio padre Alberto

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PREMESSA

Questo volume è una rielaborazione della dissertazione presentata per il conseguimento del dottorato di ricerca all’Università di Basilea. Il libro è imperniato sul contesto in cui avvenne la fondazione della basilica di S. Nicola di Bari. Partendo da una rilettura delle fonti scritte sono state evidenziate le incongruenze delle tesi dominanti e sono state avanzate ipotesi nuove. La traslazione delle reliquie di san Nicola da Myra a Bari nel 1087 e l’erezione del santuario in suo onore vengono interpretate come l’esito di una strategia volta a riaffermare i diritti della Chiesa di Roma nella città che nel 1071 i Normanni avevano sottratto a Bisanzio. L’esegesi testuale ha restituito valore alla Translatio sancti Nicolai dell’arcidiacono Giovanni, contenuta nel manoscritto Reg.lat.477, e al documento del duca normanno Ruggero Borsa, attestante che la proprietà del suolo su cui sorge la basilica spettava all’episcopio. Si propongono nuovi spunti di riflessione sulla figura di papa Vittore III, si riesuma una teoria dimenticata di Jean Mabillon che considerava la basilica nicolaiana un monastero benedettino e, attraverso la documentazione d’archivio, si riportano in luce tematiche antiche curiosamente cadute in oblio. La chiesa era palatina? L’analisi approfondita della tradizione letteraria, sia quella vergata nel Medioevo sia quella prodotta a stampa dagli eruditi dei secoli passati, si pone inoltre come un’utile base di partenza per un’edizione integrale delle fonti. Sono molto obbligata al Prof. Beat Brenk con cui ho avuto l’onore di collaborare in una fase importante della mia formazione. Senza la guida di un grande maestro non sarei pervenuta a queste né ad altre riflessioni. Nella stesura del testo ho cercato di mettere a frutto i suoi preziosi insegnamenti. Gli errori e le lacune sono imputabili

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PREMESSA

alla mia persona. I miei studi sul Meridione italiano erano stati già impostati dal Prof. Valentino Pace e dal Prof. Mario D’Onofrio, che mi hanno introdotto in ambiente accademico. Giunga loro la mia riconoscenza affettuosa. Per le consulenze che hanno voluto concedermi, un vivo ringraziamento alla Prof.ssa Vera von Falkenhausen, al Prof. Santo Lucà, al Prof. Paolo Delogu, alla Prof.ssa Luisa Miglio e alla Prof.ssa Sofia Boesch Gajano. Sono profondamente grata a Padre Gerardo Cioffari O.P., a Don Gaetano Barracane e a Don Gaetano Coviello, per aver fornito informazioni e permessi. Grazie a Padre Stefano Titta S. J., a Don Laureato Maio della Biblioteca Capitolare di Benevento e a Don Massimo Lapponi della Biblioteca del Monumento Nazionale di Farfa, per aver agevolato le mie ricerche. La fruizione del materiale iconografico della Soprintendenza di Bari è dovuta alla cortesia del Soprintendente Salvatore Abita. Valido supporto mi è derivato dai colloqui con il Dr. Matteo Villani della Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II di Roma, con il Dr. Giuseppe Bianchi e con la Dott.ssa Virginia Leonardis. Una particolare gratitudine infine al Prof. Massimo Oldoni per aver accordato fiducia all’opera, accogliendola nella sua Collana prestigiosa, per aver dispensato illuminanti consigli e prestato autorevole attenzione.

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INTRODUZIONE

Il trafugamento delle ossa di san Nicola non fu l’opera spontanea – io credo – di un drappello di marinai baresi. Probabilmente la traslazione del 1087 fu il frutto di una sinergia tra le élites religiose e politiche che subentrarono in Italia meridionale alla fine dell’XI secolo, nel periodo coincidente con l’avvento dei Normanni e la riforma della Chiesa. Diversamente da quanto riferito dalla Translatio sancti Nicolai di Niceforo, unica fonte presa in considerazione dalla storiografia corrente, la basilica di S. Nicola, che sorge su un terreno statale corrispondente all’area del vecchio insediamento catepanale, non fu fondata per arbitrio dei trafugatori e contro il volere dell’arcivescovo, il quale intendeva sottrarre le reliquie per deporle in cattedrale. Nella Translatio sancti Nicolai dell’arcidiacono Giovanni, fonte trascurata dalla storiografia recente, viene presentata un’altra versione dei fatti, secondo la quale i fedeli si rivolsero all’arcivescovo per chiedergli il permesso di costruire la chiesa in quell’area (che era appunto statale, ovvero ex catepanale), fatto che lascia intendere che in quel momento i diritti su tale particella spettavano all’episcopio. All’Archivio del Capitolo Metropolitano esiste inoltre un documento (perg. 33, giugno 1087) attestante la donazione del suolo all’arcivescovo, effettuata nel 1087 dai duchi normanni, affinché colà fosse eretta la chiesa intitolata al santo. Contrariamente a quanto diffuso dalla letteratura tradizionale, la Translatio sancti Nicolai di Giovanni conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana (Reg.lat.477) è l’unica fra le fonti note a poter essere considerata coeva alla traslazione. Essa, risalente alla fine dell’XI secolo, risulta più antica dei manoscritti conosciuti di Niceforo, che sono tutti databili a partire dal XII inoltrato. Le informazioni inesatte al riguardo sono state tramandate da una storiografia distorta che, sebbene mostri di non aver consultato il manoscritto originale dell’arcidiacono bensì le sue versioni a stampa e

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INTRODUZIONE

ignori il catalogo della Biblioteca Vaticana che ne fissa la datazione all’XI-XII secolo, è tuttavia l’unica a essere accreditata. La stessa storiografia nega pure autenticità al documento relativo alla donazione del suolo statale/ex catepanale all’episcopio da parte dei duchi normanni, benché esso sia ritenuto ingiustamente sospettato di falso da un esperto di diplomatica normanna e sia giudicato autentico da numerosi eruditi. La medesima storiografia trascura anche una tesi di Mabillon e una menzione di Ughelli, secondo le quali il complesso nicolaiano fu fondato come monastero benedettino. A parer mio tali imprecisioni potrebbero non essere casuali. Esse sono tali e tante da alimentare il dubbio che siano state create ad hoc al fine di ribadire che il terreno ove crebbe S. Nicola era statale a tutti gli effetti, conditio sine qua non per ottenere il riconoscimento della palatinità della basilica. Mossi da questa esigenza, gli studiosi sembrano aver agito in più direzioni, reinterpretando la storia sulla scorta di Niceforo, smentendo il documento in favore dell’episcopio e tacendo sulle affermazioni di Mabillon. È lecito rimanere scettici di fronte a simili interpretazioni e sentirsi incoraggiati a cercarne di nuove. A me pare plausibile che la basilica sia stata edificata con il beneplacito dell’arcivescovo sull’ex terreno statale/catepanale, appartenente all’episcopio dal 1087, in virtù della cessione dei duchi normanni. È possibile che inizialmente il complesso abbia avuto funzione di monastero. A ciò conducono vari indizi, quali ad esempio la circostanza che alla sua guida vi fosse un abate e che esso sia stato incluso da Mabillon in un elenco di monasteri benedettini. Da un punto di vista urbanistico appare inoltre più logico individuare nei due poli religiosi, affiancati nell’ambito di poche centinaia di metri, il duomo e il monastero, piuttosto che due chiese concepite per essere rivali. Ho impostato il mio lavoro conducendo indagini parallele sulla basilica di S. Nicola e sul duomo di Bari. L’Archivio Centrale dello Stato di Roma custodisce molte carte riguardanti le lotte giurisdizionali, le dispute, le diatribe intercorse nei secoli fra il duomo e la basilica. Conserva, inoltre, numerosi fogli sui privilegi di S. Nicola, in quanto basilica palatina. È possibile scorgere un fil rouge che leghi le omissioni di certa storiografia nel presupposto a favore della palatinità originaria? Da ciò potrebbe essere scaturita la necessità di considerare falso il diploma del duca normanno conferente le prerogative del suolo all’arcivescovo,

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INTRODUZIONE

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di affidare le ricostruzioni alla Translatio di Niceforo che avvalora la statalità del terreno e smentire Giovanni che ventila il contrario, di ignorare o comunque tacere in merito alla tesi di Mabillon, secondo cui S. Nicola venne fondata come monastero benedettino. Nell’analisi della documentazione merita particolare rilievo l’atto di donazione dell’area catepanale all’arcivescovo Ursone da parte del duca normanno Ruggero Borsa. Stabilire se tale documento sia autentico e comprovante che la particella su cui insiste la basilica fosse di proprietà dell’episcopio o, viceversa come vuole la consuetudine, il complesso sia stato edificato per volere dei trafugatori e del popolo in rivolta senza l’approvazione dell’arcivescovo, è utile per definire lo statuto della basilica e i rapporti tra le due chiese più importanti di Bari.

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I.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

1. Considerazioni preliminari La consuetudine orale e scritta ha attribuito la traslazione del corpo di san Nicola da Myra a Bari, avvenuta il 9 maggio del 1087, all’iniziativa di un manipolo di marinai/mercanti ed ecclesiastici baresi. Analogamente si è sempre ritenuto che la costruzione della basilica di S. Nicola sia dovuta all’opera del benedettino Elia, già abate del monastero di S. Benedetto e poi primo abate della nuova basilica nicolaiana, supportato nell’arduo compito da alcuni cittadini baresi. Secondo la tesi dominante, la messa in opera della basilica sarebbe avvenuta in aperto contrasto con l’episcopio e con il suo titolare, l’arcivescovo Ursone, il quale, vi vel dolis, avrebbe voluto impadronirsi delle reliquie per trasferirle in cattedrale. L’esito del mio lavoro suggerisce una versione diversa da quella accreditata. Sin qui gli studiosi hanno ricostruito il contesto in cui avvenne la fondazione della basilica basandosi sulla versione dei fatti riferita dalla Translatio sancti Nicolai redatta da Niceforo. Le loro tesi sono state formulate sulla scia del testo di Niceforo ritenuto – a torto – la fonte più attendibile. Ma il risultato di queste indagini a senso unico è uno scenario da operetta che chiarisce nulla in merito ai committenti, alla destinazione, al significato storico della basilica nicolaiana, che viene presentata come il frutto casuale dei contrasti tra l’arcivescovo, beffardo e intrigante, e il devoto popolo barese. Al riguardo sono stati commessi diversi errori di valutazione. In primo luogo si è, più o meno scientemente, trascurato di con-

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

siderare la Translatio sancti Nicolai scritta dall’arcidiacono Giovanni, ritenuta – arbitrariamente – una fonte inattendibile. Si tratta di un equivoco di fondo perché il manoscritto che contiene la Translatio dell’arcidiacono (Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg.lat.477, della fine dell’XI secolo) è più antico di quelli noti di Niceforo (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat.lat.6074, prima metà XII secolo; Biblioteca Capitolare di Benevento, Benevento 1, seconda metà XII secolo), non pare affatto alterato e, inoltre, sembra avere le carte in regola per essere considerato il testo liturgico ufficiale, commissionato allo scopo di commemorare la traslazione di san Nicola. Ancora oggi, l’arcivescovo di Bari, che a maggio officia il rito annuale in ricordo della traslazione, dà lettura della Translatio di Giovanni ai fedeli che si riuniscono in città per festeggiarne la ricorrenza. Giovanni adombra che i diritti sul terreno ex catepanale ove sorse la basilica spettavano all’arcivescovo. A suo dire la costruzione di S. Nicola avvenne infatti mediante il previo permesso di Ursone, il quale si limitò ad assecondare le richieste della popolazione. In secondo luogo si è travisata la natura della Translatio di Niceforo considerandola un documento storico a tutti gli effetti, dal quale attingere informazioni che propriamente storiche non sono. Studi specialistici hanno messo in luce la funzione di questi testi liturgici che venivano utilizzati durante le festività in onore dei santi e che rispondevano a regole proprie. Essi vanno considerati come scritti agiografici e non come documenti suscettibili di interpretazione letterale. Le ipotesi che intendo avanzare sono le seguenti: la traslazione di san Nicola non fu un episodio casuale sortito dall’azione spontanea di prodi marinai diretti ad Antiochia per commercio. Il trafugamento delle reliquie del santo e la fondazione del santuario che doveva custodirle sono invece l’esito di una pianificazione che spetta ai Benedettini e ai Normanni, negli anni del pontificato di Vittore III. Nel momento storico segnato dall’avvento dei Normanni e dall’affermazione della riforma della Chiesa, le gerarchie ecclesiastiche e politiche che avevano preso in mano le sorti dell’Italia meridionale e avevano a cuore la propagazione degli ideali gregoriani, compresero quanta importanza avesse, per Bari, la presenza in città delle reliquie di un santo universalmente venerato. Promotori ne furono gli stessi personaggi che aderivano ai circoli riformati laici ed ecclesiastici: i Benedettini (l’abate Desiderio di Montecassino, poi papa Vittore III, e l’abate Elia), i duchi normanni (Roberto il Guiscardo e i suoi successori, in particolare Ruggero Borsa) e plausibilmente anche l’arcivescovo Ursone.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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Diversamente da quanto finora stimato, io credo che la fondazione della basilica di S. Nicola sia avvenuta in un clima di concordia con la cattedrale e con il suo titolare. L’antagonismo fra le due chiese non sorse nel periodo iniziale ma subentrò in un secondo momento, con l’evolversi del quadro storico. Nelle intenzioni dei committenti vi era il proposito di erigere un nuovo grande monastero benedettino urbano, una costruzione più in linea con i tempi di quanto non fosse il vecchio monastero di S. Benedetto, creato nel X secolo, dal quale per l’appunto proveniva il benedettino Elia, che poi diventò il primo abate della basilica nicolaiana. Tale affermazione si basa sull’analisi della documentazione che evidenzia la consistenza di una problematica benedettina connessa alle dinamiche del potere spirituale e temporale dell’epoca. L’inserimento di una chiesa di quelle dimensioni e di quella retorica, per di più contro il volere del vescovo, in un’area ristretta già segnata dalla presenza del duomo, sembra inconcepibile. Si deve quindi ritenere che i due luoghi di culto, il vecchio e il nuovo, svolgessero funzioni diverse, chiesa metropolitana una, monastero l’altro. Questa ipotesi trova supporto in un’affermazione di Jean Mabillon che dà per scontata la funzione monasteriale di S. Nicola: “translatus Elia ad novum S. Nicolai monasterium”1. Contro la tesi di Mabillon, che è stata respinta con veemenza dagli storici del passato appartenenti al capitolo di S. Nicola, sono stati fatti scorrere fiumi di inchiostro2. Inspiegabilmente questa massa di scritti dedicati alla costituzione della chiesa e del suo clero viene ignorata dagli studiosi moderni, che evitano pure di considerare un pronunciamento di Ughelli: Dopo di lui fu abate Eustachio, e alla sua morte questa chiesa cominciò a essere collegiata sotto un priore di canonici secolari e lasciato il titolo di abbazia…3.

1 MABILLON J., O. S. B., Annales ordinis S. Benedicti, V, Luteciae Parisiorum MDCCXIII, pp. 239-240. 2 Per le reazioni polemiche agli scritti di Mabillon e il contraddittorio sul tema dell’origine benedettina della chiesa cfr. capitolo V, § 1. Inde translatus Elia ad novum S. Nicolai monasterium. 3 UGHELLI F., Italia sacra, Venetiis MDCCXXI, coll. 611-612: “Post ipsum Abbas fuit Eustachius, eoque defuncto cepit Ecclesia hæc esse collegiata sæcularium Canonicorum sub Priore, & relicto Abbatiæ titulo redditibus…”. Per il silenzio della storiografia moderna sull’argomento si veda Monasticon Italiae, III, Puglia e Basilicata, a cura di LUNARDI G., HUBERT H., SPINELLI G., Cesena 1986, pp. 31-36; HOUBEN H., I benedettini in città: il caso di Bari (sec. X-XIII), in “Nicolaus Studi Storici”, II (1991), pp. 71-99.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

L’interpretazione storica sembra essere stata inficiata da interessi di parte e da una letteratura distorta, forse tendenziosa e faziosa. La confusione potrebbe essere scaturita dall’esigenza di salvaguardare i diritti di S. Nicola in quanto chiesa palatina ab antiquo. Per ottenere l’esenzione dalla giurisdizione vescovile, requisito fondamentale per il riconoscimento della palatinità nativa, si è giunti a dichiarare falso il documento del 10874 con cui il duca di Puglia, Ruggero Borsa, cedette all’arcivescovo Ursone il terreno anticamente appartenuto ai catepani bizantini, con la facoltà di erigervi il tempio. Nel tentativo di dimostrare la fondazione e la dotazione della chiesa a opera privata del sovrano, altro requisito indispensabile per rivendicare la palatinità iniziale, si è affermato che S. Nicola sarebbe stata legata ai duchi normanni o addirittura da essi fondata, senza però mai indicare con chiarezza a quale personaggio della corte debba riferirsi la committenza. Ci si è valsi poi della Translatio di Niceforo, che attribuisce l’erezione del santuario al benedettino Elia il quale, d’intesa con i traslatori e i cittadini, autonomamente e senza l’esplicito intervento dei Normanni, avrebbe innalzato l’edificio nella corte statale, que dicitur catapani. Ma il risultato è una teoria ibrida che, nel momento stesso in cui pretende di asserire la palatinità originaria, non esita a screditare il documento attestante la donazione del locus edificatorio da parte del duca normanno, lasciando irrisolta la questione relativa alla particella statale sulla quale fu costruita la chiesa. Se si sgombera il campo da pregiudizi ingannevoli e da ottiche miopi, la situazione appare più chiara. Come recita il documento di Ruggero Borsa del 1087, giudicato autentico da Ménager e da altri, la chiesa fu eretta in un luogo pubblico donato all’arcivescovo Ursone dal 4 Codice diplomatico barese, I, Le pergamene del duomo di Bari (925-1264), a cura di NITTO DE ROSSI G.B., NITTI DI VITO F., Bari 1897, n. 32, pp. 59-61. L’autenticità del documento, messa in discussione dagli eruditi ecclesiastici usciti dal capitolo di S. Nicola e da alcuni storici laici contemporanei, è invece sostenuta da MÉNAGER L.R. (Recueil des Actes des Ducs Normands d’Italie (1046-1127). I. Les premiers Ducs (1046-1087), Società di Storia Patria per la Puglia (Documenti e Monografie, 45), Bari 1981, pp. 215-219. A favore dell’autenticità del documento si è schierato nel passato l’arcidiacono della Chiesa di Bari GARRUBA M., Serie critica de’ sacri pastori baresi, Bari 1844, rist. anastatica, Bologna 1979, pp. 132, 232. Implicitamente lo considera valido pure Errico Cuozzo (CUOZZO E., Notai e scrittura alla corte dei duchi normanni di Puglia, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo”, 107 (2005), pp. 194-197, in part. p. 195 e nota 17), il quale non si pronuncia direttamente sul diploma ducale n. 33 dell’Archivio del Capitolo Metropolitano ma conduce un’analisi su documenti redatti dallo stesso notaio Grimoaldo. La segnalazione del contributo di Cuozzo è dovuta alla gentilezza della prof.ssa Vera von Falkenhausen, la quale mi ha riferito verbalmente di stimare autentico il documento. Per il testo del documento cfr. p. 30 e nota 51 di questo capitolo.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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figlio di Roberto il Guiscardo. L’operazione fu patrocinata dai Benedettini e dai Normanni senza ledere le prerogative del vescovo in quanto S. Nicola nasceva come chiesa abbaziale di un monastero benedettino, circostanza che non creava rivalità con la vicina cattedrale. Nel 1105 la morte del benedettino Elia, che oltre a essere il superiore di S. Nicola era divenuto nel 1089 anche arcivescovo di Bari, determinò la rottura dell’equilibrio e l’inasprimento dei rapporti tra i due capitoli. A parte qualche nuova intuizione, non ho fatto altro che collegare i dati forniti dalla storia. Come spesso accade, occorreva smontare vecchie credenze, rimuovere antichi luoghi comuni e sistematizzare spunti già emersi in studi precedenti. Per quanto riguarda le contraddizioni insite nelle teorie tradizionali basate sulla Translatio di Niceforo, ho tenuto presente il metodo di Pina Belli D’Elia, che aveva già indicato la necessità di un approccio critico alle fonti e una contestualizzazione storica degli eventi artistici nell’ambito della conflittualità tra gli abati di S. Nicola e l’episcopio. Dalla sua interpretazione, la cattedra dell’abate Elia5, la più celebre 5 BELLI D’ELIA P., La cattedra dell’abate Elia. Precisazioni sul romanico pugliese, in “Bollettino d’Arte”, LIX (1974), pp. 1-17; EADEM, Dai Bizantini ai Normanni, in Storia di Bari. Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, diretta da TATEO F., Bari 1990, pp. 277-342, in part. p. 306. Cfr. LOMBARDI F., Compendio cronologico delle vite degli arcivescovi baresi, Napoli 1697, p. 43; SCHULZ H.W., Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, I, Dresden 1860, p. 47; BARTOLINI D., Su l’antica basilica di S. Nicola in Bari nella Puglia, Roma 1882, p. 24; HUILLARD-BRÈHOLLES A., Recherches sur les monuments et l’histoire des Normands et de la Maison de Souabe dans l’Italie méridionale, Paris 1884, p. 41, tav. IX; SCHUBRING P., Bischofsstühle und Ambonen in Apulien, in “Zeitschrift für christliche Kunst”, Düsseldorf 1900, cc. 197-199; BERTAUX E., L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903, pp. 445 e ss.; WACKERNAGEL M., Die Plastik des XII. Jahrhunderts in Apulien, Leipzig 1911, pp. 40 e ss.; PORTER A.K., Bari, Modena and St.-Gilles, in “The Burlington Magazine”, XLIII (1923), pp. 58-67; TOESCA P., Storia dell’Arte Italiana, I, Il Medioevo, Torino 1927, p. 83 e nota 62; DE FRANCOVICH G., Wiligelmo da Modena e gli inizi della scultura romanica in Francia e in Spagna, in “Rivista del R. Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte”, XVIII (1940), pp. 225-294, in part. pp. 252-258; GRABAR A., Trônes épiscopaux du XIème et XIIème siècle en Italie méridionale, in “Wallraf-Richartz-Jahrbuch”, XVI (1954), pp. 7-52; SALVINI R., in Enciclopedia Universale dell’Arte, XI, Venezia-Roma 1963, c. 787; SCHETTINI F., La basilica di S. Nicola di Bari, Bari 1967, pp. 65-72; SCHWEDELM S., Die Kathedrale San Nicola Pellegrino in Trani und ihre Vorgängerkirchen. Studien zur Geschichte des «Romanico Pugliese», (Diss.), Tübingen 1972, p. 95; D’ELIA P., M., Aggiunte tranesi al Maestro della cattedra di Elia. Nuove precisazioni sul romanico pugliese, in Studi e ricerche di storia dell’arte in memoria di Luigi Mallè, Torino 1981, pp. 49-60; SCHÄFER-SCHUCHARDT H., La sedia vescovile e la basilica di S. Nicola di Bari, in “Una è l’umanità” (1982), pp. 15-28; BELLI D’ELIA P., L’officina barese: scultori a Bari nella seconda metà del XII secolo, in “Bollettino d’arte”, LXIX (1984), pp. 13-48; CIOFFARI G., Storia della basilica di S. Nicola di Bari, Bari 1984, pp. 105 ss.; BELLI D’ELIA P., La basilica di S. Nicola di Bari, Galatina 1985, p. 101; SCHÄFER-SCHUCHARDT H., Die figürliche Steinplastik des 11.-13. Jahrhunderts in Apulien, Bari 1987, pp. 72-73; ACETO F., Pittura e scultura dal Tardoantico al Trecento, in Storia del

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di una serie di seggi fra i quali ricordiamo quello di Canosa e quello di Monte Sant’Angelo, emerge non solo come straordinario pezzo di scultura ma anche come oggetto simbolico del prestigio dell’abate, desideroso di affermare i propri diritti nei confronti del vescovo6. Credo che il suo ragionamento sia valido e convincente. La cattedra barese, ricavata in un unico blocco di marmo assieme alle figure che fungono da basamento, è considerata la più importante e forse la più enigmatica opera scultorea del romanico pugliese7. Attualmente è collocata su un disco di marmo al centro del presbiterio della basilica. L’iscrizione che corre nel bordo inferiore fa riferimento alla figura di Elia che morì nel 1105: In questo seggio siede l’illustre e buono patrono Elia / titolare di Bari e Canosa8.

Vi è inoltre un noto passo della cronaca detta di Lupo Protospata, relativo al concilio del 1098 presieduto da Urbano II in S. Nicola, in cui si menziona un seggio da taluni identificato con la cattedra di Elia: Venne papa Urbano con molti Arcivescovi, […] entrarono in Bari e sono accolti con grande riverenza e preparò per il nostro Arcivescovo Signore Elia una ammirevole sede dentro la chiesa del beatissimo Nicola9.

Mezzogiorno, XIV, a cura di GALASSO G., ROMEO R., Napoli 1993, p. 334; KAPPEL K., S. Nicola in Bari und seine architektonische Nachfolge. Ein Bautypus des 11.-17. Jahrhunderts in Unteritalien und Dalmatien, (Römische Studien der Bibliotheca Hertziana, 13), Worms am Rhein 1996, p. 121; ABBATE F., Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Dai Longobardi agli Svevi, Roma 1997, p. 177; POESCHKE J., Die Skulptur des Mittelaters in Italien, Romanik, München 1998, pp. 102-104, tavv. 74-75. 6 Affine a questi seggi va considerato anche quello smembrato al Museo Diocesano di Trani, i cui resti sono a mio parere attribuibili allo stesso maestro Romualdo artefice del seggio di Canosa. Per la cattedra di Trani cfr. Corpus della scultura altomedievale, XV, Le diocesi della Puglia centro-settentrionale, a cura di BERTELLI G., Spoleto 2002, p. 389, n. 488, tav. CLVI. 7 Lo schienale a cuspide della cattedra di Bari mi pare richiami il modello della cattedra donata da Carlo il Calvo alla basilica vaticana. In generale sulle cattedre, i prototipi e i significati reconditi cfr. gli studi di Francesco Gandolfo fra cui: GANDOLFO F., La cattedra di Pasquale I, in S. Maria Maggiore, in Roma e l’età carolingia, Atti delle Giornate di studio, Roma 1976, pp. 55-67; IDEM, Simbolismo antiquario e potere papale, in “Studi Romani”, IXXX, 1981, pp. 9-28; IDEM, La cattedra “gregoriana” di Salerno, in “Bollettino storico di Salerno e Principato Citra”, II (1984), pp. 5-29. 8 “INCLITUS ATQUE BONUS SEDET HAC IN SEDE PATRONUS / PRESUL BARINUS HELIAS ET CANUSINUS”. 9 Il brano della cronaca detta di Lupo Protospata è stato tratto da BELLI D’ELIA, La cattedra dell’abate Elia, cit., p. 1: “venit papa Urbanus cum plures Archiepiscopi […] intraverunt in Bari et suscepti sunt cum magna reverentia et præparavit domino nostro Helia nostro Archiepiscopo mirificam sedem intus in ecclesia Beatissimi Nicolai”.

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I dati documentari indurrebbero a ricondurre la cattedra se non all’epoca del concilio del 1098 quanto meno al 1105, anno della scomparsa di Elia, ciò che è in apparente contrasto con lo stile delle sculture improntate a un plasticismo, a un realismo, a una espressività che rimandano a una fase più avanzata del romanico, non solo in terra di Puglia. Ma la Belli D’Elia ha smontato la validità della documentazione. La sua analisi si è dapprima soffermata sulle anomalie del latino usato dal cronista nel brano relativo al seggio, che sono state interpretate come la conseguenza di una tarda interpolazione di un copista, che nulla avrebbe a che fare con il testo originario. Il suo interesse si è successivamente concentrato sull’epigrafe del trono che non andrebbe interpretata in senso letterale bensì commemorativo. Non attesterebbe l’esecuzione della cattedra entro la data di morte del presule, nel 1105, ma sarebbe l’esito di un’operazione svolta dal capitolo per evocare il mitico abate/arcivescovo al fine di ribadire le prerogative del titolare della basilica nei confronti del duomo. A suo parere il periodo di realizzazione del trono può essere individuato nell’arco temporale in cui la sede vescovile barese rimase vacante, dopo la demolizione della cattedrale per mano di Guglielmo il Malo nel 1156, e prima dell’elezione, nel 1171, di un nuovo vescovo, Rainaldo. Probabilmente il seggio fu scolpito tra il 1166 e il 1170 allo scopo di esigere il riconoscimento, in nome di Elia, del diritto della basilica a svolgere le funzioni di sede vescovile, prima della riedificazione del duomo per volere di Rainaldo (1171-1188). Svincolato dai limiti cronologici imposti dalla cronaca e dalla scritta, il trono marmoreo può reperire analogie nell’ambito della produzione scultorea locale, come il capitello con schiavi e maschere e il torso virile ora alla Pinacoteca di Bari; un capitello della cosiddetta iconostasi e le protomi degli esaforati meridionali di S. Nicola; la maschera mostruosa della finestra absidale della cattedrale. L’artefice del trono sarebbe un maestro operoso, tra il cantiere di S. Nicola e quello della cattedrale, nella seconda metà del XII secolo. Più di recente, la Belli D’Elia ha in parte modificato l’inquadramento della cattedra, senza tuttavia stravolgere il suo ragionamento di fondo. La studiosa ha riscontrato affinità fra le decorazioni a incrostazioni tracciate nelle modanature della cattedra e quelle a mastici policromi realizzati sui gradini di accesso al presbiterio della basilica che, per la presenza di un’iscrizione elogiativa dei lavori di abbellimento intrapresi dall’abate Eustasio, vengono ricondotti al suo governo:

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La salita verso l’alto è negata a questi passi orgogliosi / a questi passi blandi è possibile cercare di ottenere cose eccelse / perciò non temere tu che desideri salire in alto sii umile / supplice chiaro e sarai innalzato / come il padre Elia che per primo eresse questo tempio / che ora padre Eustasio regge facendolo decorare in questo modo10.

Questi elementi hanno convinto la studiosa a retrodatare l’esecuzione della cattedra all’epoca dell’abate Eustasio e a fissarne la datazione ai primi decenni del XII secolo11. Una svolta rispetto alla bibliografia specialistica e alla storiografia sui Normanni, già ampiamente consultate, è intervenuta con l’acquisizione degli studi di Patrick J. Geary e di Herbert Edward John Cowdrey, che mi ha permesso di analizzare la questione con una visuale più ampia12. Furta Sacra di Geary mi ha fornito gli strumenti per leggere l’episodio con lenti diverse, non fisse su Bari. Vi si mostra come, anche in altri casi, le vicende descritte dalle translationes furtive non siano sempre veritiere. I racconti di trafugamenti di sacre spoglie sono poemetti agiografici privi del valore storico che gli hanno voluto attribuire gli studiosi per ricostruire i fatti nel dettaglio. Ciò consente di supporre che, al di là del pretesto letterario della crociata dei marinai, fra i propugnatori dell’impresa possano esservi stati altri personaggi. Il volume di Cowdrey sull’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino è giunto al termine dei miei ragionamenti. Le mie premesse coincidevano con le situazioni storiche e i personaggi che animavano le pagine dello studioso. Ha così riacquistato valore quanto avevo appreso già negli anni della formazione universitaria a proposito della 10

L’iscrizione è stata tratta da BELLI D’ELIA, Dai Bizantini ai Normanni, in Storia di Bari. Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, cit., p. 296: «HIS GRADIBUS TUMIDIS ASCENSUS AD ALTA / NEGATUR HIS GRADIBUS BLAN / DIS QUERERE CELSA DATUR / ERGO NE TIMEAS QUI SURSUS SCANDERE QUERIS SIS HUMILIS / SUPPLEX PLANUS ET ALTUS ERIS / UT PATER HELIAS HOC TEMPLUM Q. PRIMUS EGIT / QUOD PATER EUSTASIUS SIC DECORANDO REGIT». Per il testo dell’iscrizione cfr. UGHELLI, cit., col. 612; MAGISTRALE F., Forme e funzioni delle scritte esposte nella Puglia Normanna, Firenze MCMXCIII, nota 7, p. 8. 11 La studiosa è tornata sul tema con ulteriori argomentazioni in BELLI D’ELIA P., La stagione romanica (secoli XI-XII), in Arte in Puglia dal Medioevo al Settecento. Il Medioevo, catalogo della mostra (Foggia, Bari, Trani, Lecce 2010) a cura di ABATE F., Roma 2010, pp. 115-120, in part. p. 17. 12 GEARY P. J., Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo (secoli IX-XI), Milano 2000, (tit. orig. Furta sacra. Thefts of relics in the central Middle Ages, Princeton NJ 1990); COWDREY H.E.J., L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino. Riforma della Chiesa e politica nell’XI secolo, Milano 1986, (tit. orig. The Age of Abbot Desiderius. Montecassino, the Papacy and the Normans in the Eleventh and Early Twelfth Centuries, Oxford 1983).

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produzione artistico-architettonica nel Mezzogiorno, sulla scorta del primato di Montecassino e del sodalizio fra Benedettini e Normanni. Gli studi sulle chiese campano-abruzzesi di Giovanni Carbonara, Mario D’Onofrio e Valentino Pace mi hanno indicato le categorie per interpretare il Meridione italiano tra XI e XII secolo13. Successivamente, la partecipazione a eventi e a pubblicazioni sulla Puglia di età normanna mi ha offerto una panoramica su le tematiche più aggiornate e la storiografia più recente14. Aveva ragione Richard Krautheimer quando affermava che, storicamente, alla penetrazione dei Normanni in Puglia segue una “missione benedettina”. Ai duchi normanni, fedeli sostenitori del seggio romano, si unì il monaco benedettino Elia formando il più valido baluardo spirituale per Roma. Sulla scia dei Normanni egli portò con sé il tipo della basilica benedettina di Montecassino. Non è un caso se le nuove e grandi fondazioni pugliesi siano state tutte iniziate poco dopo la conquista delle città da parte dei Normanni. E ha un senso che il fondatore della basilica nicolaiana, Elia, al pari dell’arcivescovo Ursone, fosse sotto la protezione della corte normanna. Egli proveniva da Cava e conosceva gli esempi campani. Da quei chiostri, grazie alla protezione normanna, spazzò via Bisanzio dalla Puglia. Dalla fine dell’XI secolo la regione appartiene al mondo occidentale15. La provenienza di Elia da Cava non è certa ma la ritengo ininfluente, visto che il singolo monaco agiva in conformità alle regole dell’ordine. Anche la dipendenza troppo stretta sul piano artistico della basilica di S. Nicola da quella desideriana di Montecassino non è condivisibile, poiché oltre alle riprese occorre mettere in rilievo le soluzioni originali della basilica pugliese rispetto al “modello” cassinese. Ma l’idea di Krautheimer è sostanzialmente corretta. Negare validità a questi studi equivarrebbe a cancellare decenni di acquisizioni in campo scientifico. Significherebbe isolare la Pu13

CARBONARA G., Iussu Desiderii Montecassino e l’architettura campano-abruzzese nell’XI secolo, Roma 1979; D’ONOFRIO M., PACE V., La Campania, (Italia Romanica, 4), Milano 1981. 14 SILVESTRO S., Il portale del duomo di Trani. Alcune considerazioni sul programma decorativo, in Mezzogiorno-Federico II-Mezzogiorno, a cura di FONSECA C.D., Atti del Convegno internazionale di studio promosso dall’Istituto Internazionale di Studi Federiciani. Consiglio Nazionale delle Ricerche (Potenza-Avigliano-Castel Lagopesole-Melfi 1994), Roma 1999, pp. 825-847; EADEM, La Puglia, in La scultura d’età normanna tra Inghilterra e Terrasanta. Questioni storiografiche, a cura di D’ONOFRIO M., Atti del Congresso Internazionale di studi storico-artistici (Ariano Irpino 1988), Bari 2001, pp. 105-138. 15 KRAUTHEIMER R., S. Nicola in Bari und die apulische Architektur des 12. Jahrhunderts, in “Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”, IX (1934), pp. 5-42, in part. 19-20.

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glia da problematiche che riguardano l’Italia meridionale allo scorcio dell’XI secolo, all’epoca dei Normanni, della riforma della Chiesa e dell’influenza esercitata dall’abate Desiderio su temi religiosi-artistici. L’evento di Bari mostra caratteristiche che sono proprie di quella congiuntura storica e non possono essere ricondotte a un gruppo ristretto di personaggi, siano essi l’arcivescovo Ursone piuttosto che i cittadini baresi. L’istanza era più universale. In quell’epoca il culto dei santi – anche dei santi patroni che potessero forgiare un orgoglio civico – e delle loro reliquie era ovunque molto avvertito. È un pullulare di inventiones e translationes. Limitandosi all’Italia meridionale, sono noti alcuni esempi maturati in contesti analoghi: si pensi alla riesumazione delle tombe di san Benedetto e santa Scolastica avvenuta nel 1066 durante la ricostruzione della chiesa abbaziale di Montecassino; al rinvenimento delle spoglie del beato Canio ad Acerenza nel 1080 da parte dell’arcivescovo che cominciò a costruire un nuovo episcopio che è la basilica di S. Maria; alla inventio di san Matteo e alla costruzione della cattedrale di Salerno nel 1085; alla traslazione delle reliquie di san Menna nel 1094, realizzata col favore di un abate e dei sovrani normanni, a maggior prestigio della cattedrale di Caiazzo. In tutti questi casi, tenuto conto delle varianti, si rileva la presenza di Benedettini, abati, vescovi e Normanni, talora con il documentato beneplacito del papa, come nel caso di Salerno di cui rimane testimonianza in una lettera inviata da papa Gregorio VII all’arcivescovo Alfano, affinché nella costruzione del duomo cittadino fosse coinvolto Roberto il Guiscardo. La moda del tempo imponeva di reperire santi prestigiosi cui intitolare templi che suscitassero stupore e meraviglia e veicolassero l’orgoglio civico e il lustro comunale. In quei tempi le chiese non erano solo i luoghi deputati al benessere delle anime ma anche poli ove poter fruire dell’arte. Le comunità urbane gareggiavano nel tentativo di ostentare un santo venerato e una chiesa che fosse il più possibile grandiosa e allo stesso tempo leggiadra. Nelle immediate vicinanze di Bari, appena pochi anni dopo l’acquisizione del corpo di san Nicola e l’avvio della maestosa basilica in suo onore, si verificò a Trani la morte di Nicola Pellegrino. Nel 1094 il giovanetto greco, proveniente dall’Epiro, concluse la sua esistenza terrena nella città pugliese. Nel breve volgere di quattro o cinque anni si provvide alacremente a canonizzarlo e a innalzare, sulle sponde del mare, la splendida cattedrale cittadina che in quanto a fascino e so-

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lennità non impallidisce al confronto con l’imponente basilica barese. Nel concilio romano del 1099 papa Urbano II conferì all’arcivescovo Bisanzio il permesso di includere il giovane nel catalogo dei santi. Appena tornato a Trani, senza alcun indugio, il presule mise in moto il cantiere della cattedrale che nel nome ricorda il santo pellegrino. Il fervore era tale che risultava difficile non adeguarsi allo standard. Per chiese di recente ristrutturazione o riedificazione era imperativo detenere reliquie rinomate. A Ortona, in Abruzzo, nel 1080 l’antica cattedrale fu distrutta dai Normani. Ricostruita, fu dedicata a santa Maria nel 1127. Per arricchirne la dotazione sacra, nel 1258, vi furono trasportati i resti di san Tommaso Apostolo, trafugati dall’isola di Chio nell’Egeo da tre galee ortonesi che facevano parte della flotta del principe Manfredi. Da allora, la cattedrale reca l’intitolazione al discepolo di Cristo. Le situazioni descritte da Cowdrey mettono in risalto la consapevolezza propria alla cerchia di Desiderio e dei Normanni su questioni poste ai confini tra estetica, teologia e politica: valorizzare il culto dei santi mediante la costruzione di santuari depositari di venerande reliquie. Prendo in prestito un brano di Cowdrey per illustrare il metodo che ha guidato la mia ricerca: Quel che più è importante è forse che l’interazione tra Montecassino come grande centro monastico e gli altri luoghi che guardavano a esso dovrebbe essere studiata come un tutto. È necessario unire quello che le chiese e le case religiose locali stavano cercando in un’epoca in cui la vita religiosa stava germogliando dal livello locale con tutto ciò che Montecassino aveva da offrire. Ciò deve essere studiato complessivamente e non secondo le moderne discipline di ricerca separate: agiografia, liturgia, architettura e arti decorative, diritto canonico, produzione manoscritta, come anche amicizie e contatti personali, si adattano insieme come parte di un singolo complesso di diffusione spirituale e culturale. Ma ripagherà ulteriori studi sia di storici dell’arte che della letteratura come centro di trasmissione culturale, sia dal mondo antico a quello medievale che dall’Oriente medievale all’Occidente medievale16.

Se si ridarà voce all’arcidiacono Giovanni si avranno elementi per avanzare nuove riflessioni e una più convincente restituzione del quadro in cui avvenne la creazione della basilica dedicata a san Nicola.

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COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., pp. 29-30.

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2. Il culto del santo Nicola Non disponiamo di notizie esaurienti su san Nicola. Si assume che un vescovo di questo nome sia vissuto nel IV secolo a Myra, località attualmente denominata Demre, vicino Antalya, nella regione turca della Licia. Pare che un altro Nicola, vescovo e abate del monastero di Sion sempre in Licia, sia vissuto nel VI secolo17. Le notizie sul primo, leggendario personaggio sono assai confuse. Il mito gli attribuisce la partecipazione al Concilio di Nicea (325), la prima assise ecumenica indetta ai tempi dell’imperatore Costantino e del papa Silvestro per dirimere le controversie teologiche poste dalle teorie dell’eretico Ario. Si tramanda che il santo vescovo Nicola, confessore e taumaturgo, sia stato sepolto in un santuario a Myra, dal quale le sue spoglie furono prelevate nel 1087 per essere traslate a Bari. Presso il suo sepolcro si verificava un evento miracoloso che si è conservato anche dopo il suo trasferimento in Puglia: dalle sue ossa stilla la manna o myron, un liquido dotato di effetti prodigiosi18. Le imprese di Nicola di Sion, fondatore nei pressi di Myra di un importante monastero, vennero riferite da un ignoto biografo, autore della Vitae Nicolai Sionitae, redatta forse dopo il 564, anno della morte dell’abate. È quindi nel VI secolo che san Nicola diventa accertabile19.

17 ŠEVcˇENKO N.P., s.v. Nicola, santo, in Enciclopedia dell’arte medievale, VIII, 1997, pp. 679-681; EADEM, The life of Saint Nicholas in Bizantine art, Torino 1983; EADEM, San Nicola nell’arte bizantina, in San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, catalogo della mostra (Bari 2006-2007), a cura di BACCI M., Milano 2006, pp. 61-70; CIOFFARI G., La vita, in San Nicola di Bari e la sua basilica. Culto, arte e tradizione, a cura di OTRANTO G., Milano 1987, pp. 20-36; IDEM, San Nicola nelle fonti letterarie dal V all’VIII secolo, in San Nicola di Bari e la sua basilica. Culto, arte e tradizione, cit., pp. 31-34. Cfr. LEIB. B., Rome, Kiev et Byzance à la fin du XIe siècle. Rapports religieux des Latins et des Gréco-Russes sous le pontificat d’Urbain II (1088-1099), Paris 1924; Bibliotheca sanctorum, s. v. Nicola di Mira, IX, Roma 1967, pp. 923-948; JONES C.W., San Nicola. Biografia di una leggenda, Bari 1983, (tit. orig. Saint Nicholas of Myra, Bari and Manhattan. Biography of a Legend, Chicago 1978). 18 Risulta curiosa la coincidenza lessicale tra Myra, il nome della città dell’Asia Minore in cui il santo fu vescovo, e il vocabolo myron usato per indicare appunto la mira o manna, una gommoresina che si ricava da alcuni alberi del continente africano e dell’Arabia. La sostanza, dotata di fragranza piacevole, trova uso in profumeria e in cosmetica, come astringente e antisettico. Nell’antichità veniva anche adoperata per l’imbalsamazione delle salme. Si sarebbe tentati di pensare che da ciò sia derivato il fatto che il santo fosse considerato taumaturgo. Egli era chiamato così per il potere “mira”-coloso della sua manna e non perché derivasse da Myra nell’Asia Minore? 19 ŠEVcˇENKO, s.v. Nicola, santo, cit., p. 679; ANRICH G., Hagios Nikolaos. Der Heilige Nikolaos in der Griechischen Kirche, II, Leipzig-Berlin 1917, p. 441.

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Nel corso dei secoli le due figure si sovrapposero. Al principio del X secolo, gli agiografi costantinopolitani stralciarono dalle gesta di Nicola di Sion alcuni miracoli che attribuirono al glorioso santo di Myra20. Tale operazione non fu forse esente dalla volontà di nobilitare la figura del santo recente mediante l’evocazione del mitico santo vissuto nel IV secolo, che poteva rimandare all’epoca dell’imperatore Costantino e del cristianesimo primitivo. Da un’indagine sull’onomastica risulta che il nome Nicola non è frequente nel IV secolo fra i cristiani di Licia, mentre se ne trovano alcuni dal V al VII secolo. Ciò potrebbe indicare che in questo periodo Nicola sia diventato un santo popolare della Licia, sebbene giovi ricordare che nello stesso arco di tempo sono stati rintracciati molti altri vescovi omonimi che potrebbero aver influito sulla diffusione del nome in quella regione21. Il culto di san Nicola è attestato a Costantinopoli nel IX secolo, quando è oggetto di attenzione da parte di numerosi agiografi e innografi. Il suo culto aveva cominciato a diffondersi oltre i confini della Licia a partire dall’VIII secolo. All’epoca di Giustiniano era stata edificata a Bisanzio una chiesa intitolata ai santi Prisco e Nicola, che tuttavia non è sicuramente identificabile con il taumaturgo di Myra22. Questi è comunque stato incluso tardi nel pantheon greco. Prima di lui avevano goduto di grande venerazione i Quaranta di Sebaste, Teodoro e Sergio, conosciuti e festeggiati ovunque. San Nicola si afferma solo in un secondo momento ma dalla fine del IX secolo assurge a una devozione particolare che lo affianca ai santi di primo piano e alla madre di Dio23. Pare che le più antiche raffigurazioni di un santo di quel nome siano rintracciabili su alcuni sigilli dell’Asia Minore e su un’icona del Monte Sinai, forse risalente già al VII, VIII secolo24. Nel tardo IX secolo Nicola viene ritratto in un mosaico di S. Sofia a Costantinopoli, ora perduto. Nel secolo XI ricorre in icone e absidi di chiese, associato a eminenti santi e Padri della Chiesa25. 20 21 22 23 24 25

ŠEVcˇENKO, s.v. Nicola, santo, cit., p. 679. ANRICH, Hagios Nikolaos, II, cit., pp. 450-451. ŠEVcˇENKO, s.v. Nicola, santo, cit., p. 679. ANRICH, Hagios Nikolaos, II, cit., p. 441. San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 180-189. ŠEVcˇENKO, s.v. Nicola, santo, cit., p. 679.

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Sul suolo italiano il culto di san Nicola deve aver avuto i suoi centri propulsori a Roma, a Ravenna, a Napoli, nella Calabria bizantina e nei monasteri benedettini cassinesi. Si ha menzione della presenza di sue reliquie a Roma, in S. Angelo in Pescheria nella seconda metà dell’VIII secolo, di una cappella in suo onore nella chiesa di S. Nicola in Carcere e di una effigie in S. Maria Antiqua26. Una delle più antiche testimonianze letterarie relative a Nicola dovrebbe rintracciarsi nel passionario romano dell’inizio del IX secolo (cod. Augiensis XXXII)27. A Roma già sotto il pontificato di Leone IV (847-855) furono innalzati due oratori in suo onore, uno iuxta basilicam sancti Laurentii martyris al Verano e l’altro nella chiesa dei SS. Quattro Coronati. Di lì a poco Niccolò I (856-867) eresse un oratorium in honore sancti martyris Christi Nicolai in S. Maria in Cosmedin28. Nell’880 circa, il napoletano Giovanni diacono tradusse da testi greci in latino la biografia del santo di Myra. Sempre a Napoli, il giorno di san Nicola compare in un calendario marmoreo risalente al IX secolo29. Sembra che una funzione del tutto particolare per la propagazione del culto di san Nicola sia stata assunta dai Benedettini di Montecassino. Nei pressi dell’abbazia cassinese si individuano diversi luoghi sacri intitolati al santo: in Valle Sorana una ecclesia S. Nicolai (949-986); un monasterium S. Nicolai de Trutimo (1004); due chiese S. Nicolai nelle vicinanze di Montecassino (1006); una ecclesia S. Nicolai de Sambuceta (1007). Si ha menzione anche di un monasterium S. Nicolai in comitatu Camerino (1015) e, a Montebello, di un monastero dedicato ai santi Nicola e Benedetto (1022). Nel 1037 l’abbazia benedettina di Cava ebbe in dono da Gisulfo II la chiesa di S. Nicola di Serramezzana. Nelle vicinanze di Venosa, il monastero di S. Nicola di Morbano, 982-985, è un altro centro di culto riferibile al santo30. 26 PERTUSI A., Ai confini tra religione e politica. La contesa per le reliquie di S. Nicola tra Bari, Venezia e Genova, in “Quaderni Medievali”, V (1978), pp. 6-56, in part. pp. 9-10. Cfr. MEISEN K., Nikolauskult und Nikolausbrauch im Abendlande, Düsseldorf 1931; POLLIO G., Il culto e l’iconografia di San Nicola a Roma, in San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 137-144. 27 CIOFFARI G., San Nicola nelle fonti letterarie dal V all’VIII secolo, in San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, cit., pp. 31-34, in part. p. 33. 28 Liber Pontificalis, a cura di DUCHESNE L., II, Paris 1981, pp. 112, 116, 161. 29 ANRICH, Hagios Nikolaos, II, cit., p. 477. Cfr. FALLA CASTELFRANCHI, s.v. Nicola, santo, in Enciclopedia dell’arte medievale, cit., pp. 681-683. 30 PERTUSI, Ai confini tra religione e politica, cit., pp. 10-11.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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La devozione portata a Nicola dai monaci cassinesi trova una significativa rispondenza nella dedicazione al santo di uno dei cinque altari posti all’interno della basilica desideriana di Montecassino e degli edifici sacri a essa circostanti. È noto quale grande venerazione fosse riservata alle reliquie in quella sede. L’abate Desiderio dotò la sua chiesa abbaziale e quelle connesse di uno straordinario corredo di resti sacri. La Cronaca di Montecassino fornisce un inventario dettagliato delle reliquie e dei siti ove esse erano riposte. Si scopre che san Nicola rientrava nella cerchia dei santi preminenti ai quali erano consacrati gli altari all’interno del complesso monastico: altare di san Benedetto, posto nel presbiterio della basilica superiormente alle tombe del santo e di sua sorella Scolastica; altare di san Giovanni Battista nell’emiciclo dell’abside maggiore; altare della Vergine Maria nella curva dell’abside settentrionale; altare di san Gregorio Magno nell’abside meridionale; altare di san Nicola nell’abside della chiesa di S. Bartolomeo, disposta lungo il fianco della navata settentrionale della basilica: Nell’altare di san Nicola vi sono le reliquie dei santi martiri Cornelio e Cipriano, Sebastiano, Nicandro e Marciano, Cirino e Massimo, del vescovo Foce, di Eutizio e dei quaranta santi e di capelli del santo vescovo Remigio.

Fra le chiese e le cappelle che sorgevano intorno alla basilica desideriana, la chiesa di S. Bartolomeo fu la prima a essere consacrata. Il 3 gennaio del 1075 essa fu dedicata da Giovanni vescovo di Sora, che era stato monaco a Cassino ed era zio di Leone Marsicano31. Nella letteratura agiografica prodotta dal cenacolo di uomini di fede e cultura ruotante intorno a Montecassino si presta attenzione alla figura di san Nicola. Lo stesso Desiderio redasse un’opera, l’unica che ci sia pervenuta, i Dialogi de miraculis sancti Benedicti stesi dall’abate tra il 1076 e il 1079, forse nell’anno 1078. Il componimento, che è concepito come un’esaltazione degli atti taumaturgici verificatasi in ambito cassinese, riporta fra i tanti anche un miracolo di cui fu protagonista Nicola. Si narra di un contadino residente in un castello posto nei pressi del monastero di Montecassino che, come sempre, si 31 CITARELLA A. O., WILLARD H. M., Le reliquie e la loro disposizione nelle chiese di Montecassino nell’età di Desiderio e Oderisio I, in L’età dell’abate Desiderio III, I. Storia, arte e cultura, Atti del IV Convegno di Studi sul Medioevo Meridionale (Montecassino-Cassino 1987), a cura di AVAGLIANO F., PECERE O., Montecassino 1992, pp. 441-466, citazione a p. 453: “In altare sancti Nycolai habentur reliquie sanctorum martyrum Cornelii et Cipriani, Sebastiani, Nicandri et Marciani, Cyrini et Maximi, Foce episcopi, Euticii et sanctorum quadraginta et de capillis sancti Remigii episcopi”.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

era recato in compagnia della moglie e del figlioletto in una basilica consacrata a san Nicola, dove ogni anno si tenevano riti solenni per i fedeli che desideravano partecipare alla ricorrenza del santo. Dopo aver assistito devotamente alla liturgia festiva del patrono e aver ricevuto la comunione del corpo e del sangue di Cristo, la famigliola fece ritorno verso casa. Accadde però che il bimbo, contravvenendo alle raccomandazioni paterne, decise di avviarsi verso la campagna. Qui gli si parò dinnanzi il demonio che intendeva possederlo e ucciderlo. Solo la ripetuta visione di un venerabile vecchio, coronato di mitra e paludato in una stola candida, che venne interpretato come san Nicola, poté infine trarlo in salvo32. Anche nei versi composti da un amico fraterno di Desiderio, l’arcivescovo Alfano I di Salerno, che era stato in precedenza monaco a Cassino, si rinvengono allusioni al santo confessore, al quale vengono dedicati due inni: De sancto Nicolao e In sancti Nicolai Episcopi Hymnes 33. Il culto di Nicola è attestato in Puglia prima dell’acquisizione delle sue reliquie. Entro la metà dell’XI secolo a Bari vengono menzionate almeno cinque fondazioni che nel titolo ricordano il santo: S. Nicola “de Monte”, S. Nicola “in Turre Musarra”, SS. Basilio e Nicola in loco Prandulo, “Curtis S. Nicolai de ipsa posterla”, S. Nicola “super porta Vetere”34. Un clipeo con l’immagine di san Nicola, accompagnato da un’iscrizione greca, si trova nella fascia decorativa dell’Exultet 1 di Bari, prodotto in città, forse nello scriptorium della cattedrale o nel monastero di S. Benedetto, entro la metà dell’XI secolo, probabilmente all’inizio del secondo quarto35. La devozione a san Nicola era viva anche presso le popolazioni normanne. Come narra l’Historia ecclesiastica di Orderico Vitale, per proteggere la provincia di Normandia dai pericoli derivanti dai nemici Inglesi e dai Danesi loro alleati, durante la notte del 6 dicembre:

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DESIDERIO DI MONTECASSINO, Dialoghi sui miracoli di san Benedetto, a cura di GARBINI P., AVAGLIANO A., (Schola Salernitana, Studi e Testi, 3), Cava de’ Tirreni 2000, pp. 119-123. Cfr. GRÉGOIRE R., I dialoghi di Desiderio abate di Montecassino († 1087), in L’età dell’abate Desiderio, III, cit., pp. 216-234. 33 I Carmi di Alfano I arcivescovo di Salerno, a cura di LENTINI A., AVAGLIANO F., (Miscellanea Cassinese, 38), Montecassino 1974, pp. 20-22, 94-96, 222-224. 34 CIOFFARI G., Storia della basilica di S. Nicola di Bari. I. L’epoca normanno sveva, Centro Studi Nicolaiani, Bari 1984, p. 38; Monasticon Italiae, cit., pp. 33-34. 35 Exultet, Rotoli liturgici del medioevo meridionale, Roma 1994, pp. 129-141.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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Già l’aria invernale agitava moltissimo il mare ma la chiesa di Dio celebrava la solennità del santo vescovo Nicola di Mirra e fedelmente pregava per il principe devoto in Normandia36.

Un’effigie di san Nicola è stata rappresentata al fianco di Cristo in trono, insieme a san Clemente, san Michele e san Gabriele nel terzo registro del pilastro dedicato alle storie di sant’Alessio, nell’antica basilica di S. Clemente a Roma. L’immagine, attualmente decurtata della parte superiore, fa parte di un ciclo di affreschi agiografici che rivestirono alcune strutture murarie edificate allo scorcio dell’XI secolo, forse allo scopo di conferire maggiore staticità alla costruzione del IV secolo, che poteva aver risentito delle distruzioni causate dal sacco dei Normanni di Roberto il Guiscardo nel 108437. Le pitture murali, che presentano anche un episodio relativo alla Traslazione delle reliquie di san Clemente a Roma, si sono prestate a una lettura, non sempre condivisa, in linea con gli ideali della riforma della Chiesa. Hélène Toubert38 fa notare che nella Leggenda Italica, scritta da Leone di Ostia qualche anno dopo l’esecuzione degli affreschi a partire da un manoscritto conservato a Montecassino, si legge la recita della traslazione delle reliquie di san Clemente. La studiosa, che ha riscontrato rapporti tra gli affreschi di S. Clemente e l’arte di Montecassino, ha supposto che il ciclo, sebbene sia stato finanziato dal ricco committente laico Beno de Rapiza, fu artisticamente promosso dal cardinale prete titolare del titolo di S. Clemente, Raniero di Bieda. Costui, che era stato nominato cardinale da Gregorio VII che ne aveva fatto anche uno dei suoi più prossimi consiglieri, era inoltre abate di S. Lorenzo fuori le mura. Nel 1099 diventò papa col nome di Pasquale II. Il Liber Pontificalis riporta un numero consistente di chiese da lui restaurate e consacrate. Viene considerato un personaggio dinamico, appartenente a un gruppo di esponenti dell’alto clero, abati e cardinali riformatori, attivi anche sul piano artistico al fine di tradurre visivamente i loro ideali politico-religiosi. Egli, che manteneva

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ORDERICO VITALE, Historia ecclesiastica, ed. CHIBNALL M., The ecclesiastic History of Orderic Vitalis, 6 voll., Oxford 1956-1975, II, libro IV, p. 208: “Iam aura hiemalis mare seuissimum efficiebat sed sancti Nicholai Mirreorum praesulis solennitatem Aecclesia Dei celebrat, et in Normannia pro deuoto principe fideliter orabat”. 37 GUIDOBALDI F., San Clemente. Gli edifici romani, la basilica paleocristiana e le fasi altomedievali, Roma 1992, pp. 231 e ss.; POLLIO, Il culto e l’iconografia di S. Nicola a Roma, cit., pp. 138-139. 38 TOUBERT H., «Rome et le Mont-Cassin»: nouvelles remarques sur les fresques de l’église inférieure de Saint-Clément de Rome, in “Dumbarton Oaks Papers”, XXX (1976), pp. 3-33.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

stretti rapporti con papa Gregorio VII ed era un profondo conoscitore dell’arte benedettino-cassinese, deve aver intrapreso più volte il tragitto Roma-Montecassino insieme all’abate Desiderio, futuro papa Vittore III. La questione critica relativa all’arte della riforma ha conosciuto un grosso seguito ma anche numerosi distinguo39. Nell’ottica di questo studio è doveroso segnalare le relazioni tra la figura di Raniero di Bieda e la basilica di S. Nicola di Bari. Proprio Pasquale II, infatti, intervenne a regolamentare i diritti del clero di S. Nicola, emanando la bolla del 1105 (1106) che ne stabiliva l’affrancamento dalla giurisdizione vescovile. A Roma, nella prima metà del XII secolo, papa Callisto II (11191124) edificò un oratorio intitolato a san Nicola nell’antico palazzo del Laterano. La cappella, demolita sotto Clemente XII, era stata affrescata al tempo di Anacleto II (1130-1138) con un ciclo di pitture dedicate ai papi che si erano distinti nella lotta per le investiture. Nell’emiciclo superiore del catino absidale troneggiava la Vergine Regina. Ai suoi piedi erano inginocchiati i due pontefici fondatori, Callisto II e Anacleto II. Nella nicchia centrale del registro inferiore campeggiava il santo titolare – SCS NICOLAUS EPS – cui forse Callisto II si era avvicinato durante una visita a Bari nel 1120. Accanto a lui v’erano due papi gloriosi dell’antichità, san Leone Magno e san Gregorio Magno. Ai lati era disposta una teoria di pontefici raffigurati come santi, muniti di aureola e dell’iscrizione sanctus. Sulla destra erano effigiati Urbano II, Pasquale II e Gelasio II. Sul fianco sinistro figuravano Alessandro II, Gregorio VII e Vittore III. Erano i sei papi riformatori che avevano governato prima di Callisto II, dal 1061 al 1119. Essi venivano presentati come trionfatori e ripristinatori della genuina tradizione cristiana e nell’aura di santità venivano accomunati agli illustri campioni del cristianesimo primitivo, di cui i sei erano considerati legittimi eredi. Tale iconografia, che è stata definita come “l’apoteosi del papato riformatore”, esprime la percezione eroica che si aveva dei papi della riforma all’epoca di Anacleto II40. 39 Per un inquadramento storiografico PACE V., La Riforma e i suoi programmi figurativi: il caso romano, fra realtà storica e mito storiografico, in Roma e la Riforma gregoriana. Tradizioni e innovazioni artistiche (XI-XII secolo), a cura di ROMANO S., ENCKELL JULLIARD J., Roma 2007, pp. 49-59. 40 LADNER G.B., I ritratti dei papi nell’Antichità e nel Medioevo, Città del Vaticano 1941, pp. 202-218; cfr. COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 11; HERKLOTZ I., Gli eredi di Costantino: il papato, il Laterano e la propaganda visiva nel XII secolo, Roma 2000, pp. 111-112.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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Il grande taumaturgo di Myra è particolarmente caro alla gente di mare che gli riserva una venerazione universale. Altrettanto profonda è la devozione prestatagli dai mercanti, che peraltro nel Medioevo erano anch’essi naviganti o comunque nutrivano interesse a propiziarsi i favori del santo per proteggere le merci che trasportavano via mare. Ma la sfera della sua virtù taumaturgica è molto ampia e comprende anche i viaggiatori e gli artigiani. Inoltre, con riferimento ad alcuni episodi molto noti della sua leggenda biografica – fra gli altri gli si attribuiscono miracoli relativi alla salvezza di tre generali condannati a morte; alla redenzione di tre giovani donne dalla prostituzione, grazie al dono di una borsa d’oro al genitore per costituire la loro dote; alla resurrezione di tre bimbi squartati e messi in salamoia – egli viene ritenuto patrono rispettivamente dei prigionieri, delle donne nubili e dell’infanzia.

3. Bari e la sua basilica Forse meno rilevante nell’antichità di altre città pugliesi, Bari si impose grazie ai vantaggi derivanti dalla sua collocazione geografica che consentiva il controllo del basso Adriatico, della Sicilia e costituiva una punta avanzata verso Oriente. Lodata da Plinio per il suo mare pescoso, l’attività preminente di Bari dovette essere soprattutto legata alla sua funzione di collegamento e di transito. Essa era un nodo stradale fra la via Traiana, la via costiera adriatica, la diramazione per Taranto e il suo porto svolgeva un ruolo importante nel tratto litoraneo della Traiana41. Dall’847 all’871 i Saraceni, che la strapparono al gastaldato longobardo di Benevento, vi impiantarono un piccolo emirato arabo. Conquistata nell’871 dall’imperatore franco Ludovico II, fu per un breve periodo reintegrata nel principato di Benevento, ma già nell’876 si consegnò spontaneamente a Bisanzio. Nell’893 divenne centro della nuova provincia, il thema di Longobardia, sede di uno stratega con funzioni militari, e poi dal 975 capitale del catepanato d’Italia, organismo guidato da un governatore con giurisdizione anche civile.

41 Archeologia di una città. Bari dalle origini al X secolo, a cura di ANDREASSI G., RENDINA F., catalogo della mostra (Bari 1988), Bari 1988, pp. 374-375.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Secondo un’opinione diffusa risale probabilmente a questa epoca

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(...) il riconoscimento della sede vescovile barese, forse già esistente in antico, ma non documentata fino al X secolo. I vescovi portano il doppio titolo di Bari e di Canosa (distrutta nel IX secolo), con l’aggiunta saltuaria di altri titoli, come quelli delle chiese di Trani e Brindisi (...) la dignità vescovile sarebbe stata conferita alla città dai Bizantini e i vescovi titolari avrebbero amministrato contemporaneamente e temporaneamente anche altre sedi, risiedendo ora a Bari, ora a Canosa42.

Nel 1025 il pontefice Giovanni XIX avrebbe concesso a Bisanzio il titolo di arcivescovo di Bari e Canosa. Nicola e Andrea, successori di Bisanzio, avrebbero avuto conferma dei loro diritti da papa Alessandro II. Dissente da questa visione Alessandro Pratesi, il quale precisa: perdura una certa confusione, anche tra gli studiosi più accreditati, tra unione delle due sedi e trasferimento della cattedra dall’una all’altra (…) occorre tener presente che almeno dalla metà del secolo X e fino al 1085 non esiste una cattedra vescovile di Bari: nella principale città dell’Apulia, nella sede del catepano bizantino, ha bensì la propria residenza un presule, ma il suo titolo è sempre e soltanto quello di Canosa. (…) Soltanto con l’arcivescovo Elia (1089), quindi il titolo di Bari comincia a figurare ufficialmente accanto a quello di Canosa, anche se nella tradizione locale la costante presenza di un presule, la vitalità del clero capitolare che gli faceva corona, l’esistenza stessa di un episcopio e di una chiesa cattedrale che l’arcivescovo Bisanzio aveva iniziato a costruire sulle rovine della vecchia sede vescovile, avevano già legato inscindibilmente alla cattedra barese la figura del pastore che ivi risiedeva43.

Nel 1011 il catepano Basilio Mesardonite intraprese lavori al Castello Domnico44. L’intervento del governatore bizantino è celebrato in versi da un’iscrizione in caratteri greci. Secondo la traduzione del testo 42

BELLI D’ELIA P., Alle sorgenti del Romanico. Puglia XI secolo, II ed., Bari 1987, p.

305. 43 PRATESI A., Alcune diocesi di Puglia nell’età di Roberto il Guiscardo: Trani, Bari e Canosa tra Greci e Normanni, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Prime Giornate normanno-sveve (Bari 1973), Centro di Studi Normanno-Svevi, Università degli Studi di Bari, I, Roma 1975, pp. 241-260, cit. a pp. 241-242, 246. 44 ANONIMO BARESE, Chronicon, ed. MURATORI L.A., Rerum Italicarum Scriptores, V, Milano 1724, p. 148: “Mill. XI. Mesardoniti laboravit Castello Domnico”. Traduzione in CIOFFARI G., LUPOLI TATEO R., Antiche cronache di Terra di Bari, in “Nicolaus Studi Storici” I (1990), p. 223.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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proposta da André Guillou, l’attività costruttiva riguardò la rimessa a nuovo del praitorion in mattoni, probabilmente la muraglia del praitorion, l’erezione di un vestibolo e del santuario di S. Demetrio.

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Centro militare, giudiziario e fiscale, residenza del catepano, l’asti praitorion di Bari comprendeva la dimora del catepano, alcuni uffici, un alloggiamento per la guardia se non per la guarnigione della città, una prigione senza dubbio, chiese e cappelle, San Basilio, Santa Sofia, Sant’Eustrazio, San Demetrio ma anche terre coltivabili all’interno della sua cinta, come ce ne erano all’esterno45.

Nel 1071, dopo un lungo assedio durato quattro anni, Bari fu espugnata da Roberto il Guiscardo. Nel 1087, nella polis normanna, nell’area ove sorgeva il praitorion bizantino, fu avviata la costruzione della basilica che doveva contenere le preziose reliquie del santo di Myra46. La fabbrica durò molti decenni e l’edificio fu il risultato di lavori che si protrassero a lungo nel tempo. Ma già dalla posa delle fondamenta fu facile intuire la retorica del monumento, che in quanto 45 GUILLOU A., Aspetti della civiltà bizantina in Italia, Bari 1976, pp. 187-205, citazione a pp. 201-202: la traduzione dell’epigrafe è la seguente: “A prezzo di grande fatica e con molta saggezza il potentissimo Basilio Mesardonita, primo dei notabili, di razza imperiale, ha innalzato l’asti con tecnica consumata rimettendolo a nuovo, con mattoni duri quanto la pietra avendo (così) costruito una nuova arca fortificata; egli ha costruito anche il vestibolo per liberare dalle loro paure i soldati del campo, e per la gloria e la finezza del Palazzo. D’altra parte, spinto da una sincera devozione, egli ha eretto la santa chiesa del glorioso Demetrio costruita in pietra affinché, simile ad un faro, essa brilli chiaramente nella sua gloria onnipossente per tutti coloro che abitano e coloro che qui verranno ad abitare”. Cfr. CIOFFARI G. in Cittadella Nicolaiana. Un progetto verso il 2000, catalogo della mostra (Bari 1995-1996), coordinamento D’ELIA M., a cura di MILELLA N., PUGLIESE V., Bari 1995, p. 165; LAVERMICOCCA N., La polis bizantina, in Archeologia di una città. Bari dalle origini al X secolo, cit., pp. 531-533. 46 SCHETTINI, La basilica, cit., ipotizzò che le strutture della vecchia sede degli strateghi bizantini non fossero state completamente rase al suolo e usate come cava di materiale di risulta da reimpiegare nella nuova basilica, ma fossero state inglobate nella nuova costruzione chiesastica. Sulle preesistenze nell’area occupata dalla basilica di S. Nicola si veda Archeologia medievale a Bari, a cura di LAVERMICOCCA N., in “Nicolaus Studi Storici”, II (1991), pp. 101-128: le ricerche archeologiche iniziate nel 1986 nel cortile dell’abate Elia, nell’area prospiciente il fianco meridionale della basilica, ove secondo la consuetudine era collocata la chiesa di S. Eustazio, hanno fatto affiorare alcune strutture murarie che avvalorano i dati tramandati dalle testimonianze storiche ed epigrafiche. Le indagini hanno portato alla luce “resti di un insediamento abitato all’interno del Kastron, consistente in alcuni vani di case ed opifici e nei muri di fondazione di una qualche fortificazione (a blocchetti di calcare ben connessi) e, forse, dei resti di un piccolo edificio di culto altomedievale, intorno al quale erano scavate dodici tombe, di forma antropoide” (citazione: Ivi, p. 104). La datazione dei reperti è fornita dalla presenza nella stratigrafia di una serie di monete bizantine comprese fra l’imperatore Teofilo (829-842), Basilio I (867-886), Costantino VII (913-959), Michele IV (1034-1041) e i primi Comneni.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

a dimensioni e soluzioni ingegnose rappresentava un’assoluta novità nel panorama artistico-architettonico pugliese. Una mente geniale e altamente creativa, in grado di trasfondere nel progetto soluzioni originali e spunti derivati da tradizioni culturali diverse, era stata preposta all’elaborazione di una pianta e di un alzato che di lì a poco divennero normativi per le numerosissime chiese sorte nel territorio47. La chiesa è orientata a est, ha tre navate, un transetto poco sporgente rispetto al corpo longitudinale, tre absidi impostate su una linea retta che vengono occultate all’esterno da una parete creante un corpo a più piani, nel cui spessore sono stati ricavati spazi adibiti all’uso ecclesiastico e al camminamento. A un livello sottostante si estende una cripta a oratorio conclusa da tre absidi, la cui planimetria ricalca quella del presbiterio soprastante. Le pareti perimetrali sud e nord della confessione collimano esternamente con le testate del transetto, le tre absidi seminterrate coincidono con le absidi della chiesa superiore e analoga risulta la disposizione della zona retroabsidale, con qualche variante nelle misure e nella funzionalità dei vani tracciati a questa quota. L’interno voluminoso è amplificato da ariosi matronei. Antichi marmi preziosi, cavati da augusti monumenti, sono stati utilizzati nelle colonne e nei capitelli delle navate, nelle arcatelle e in alcuni sostegni della cripta, secondo una tendenza in voga in alcune chiese dell’epoca. Le zone più sacre della chiesa sono state impreziosite da variopinti mosaici pavimentali. Dalla scala posta nella torre nord ovest si accede alle gallerie e un complesso sistema di ballatoi e di passaggi assicura la percorribilità di tutti gli ambienti ubicati ai livelli superiori. Dalla controfacciata si passa alle gallerie, da queste agli esaforati che sono collegati alle torri della terminazione ovest e a quelle del corpo orientale. Una cupola di crociera prevista in origine non è stata mai portata a termine. Il prospetto absidale esterno, insolito nel suo genere, è concepito come la facciata di un palazzo. Le ampie bifore e il loro allineamento su uno stesso piano simulano la presenza di grandi saloni di rappresentanza. La forma cubica, stereometrica dell’impianto poteva vagheggiare soluzioni care all’architettura palaziale normanna. La fac47 Sulla basilica cfr. SCHETTINI, La basilica, cit.; La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente, Milano 1980; BELLI D’ELIA, La basilica di S. Nicola a Bari, cit.; EADEM, La Puglia, (Italia Romanica, 8), Milano 1987; San Nicola di Bari e la sua basilica, cit.; Cittadella Nicolaiana, cit.; KAPPEL, S. Nicola in Bari und seine architektonische Nachfolge, cit.; BELLI D’ELIA P., Puglia romanica, Milano 2003.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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ciata occidentale, spartita da due lesene, rivela all’esterno la natura ecclesiastica dell’edificio suddiviso in tre navate. Due colonne antiche di granito bigio con capitelli di spoglio, sulle quali erano probabilmente collocate delle statue, rappresentano l’ideale proiezione del colonnato interno della chiesa. I portali hanno forma e decorazioni – cornici a mosaico (ora perdute) e a rilievi – tipiche di molte chiese erette a partire dall’XI secolo. Due portici progettati per essere voltati sopra agli ingressi occidentali delle navate laterali non furono mai realizzati. Di essi sopravvivono gli archi d’imposta. Nuove per il panorama pugliese erano le dimensioni grandiose e la verticalità delle strutture svettanti verso il cielo48. Le torri angolari (quelle orientali sono state resecate nel XVII secolo) contribuivano a conferire all’edificio l’aspetto di una grandiosa magione fortificata. Gli esaforati sono alti e irraggiungibili ma sono concepiti come terrazzi affacciati sulla città. Il gusto dell’amenità e della ricercatezza dei particolari associato alla solidità delle strutture poteva evocare i castelli normanni. Questo stile poteva risultare gradito a committenti laici ed ecclesiastici, uniti nel desiderio di esprimere il prestigio ma anche la possanza della casa religiosa, in un periodo in cui il clero si appropria di forme esteriori del potere signorile, con il quale compete per la difesa dei diritti ma con il quale viceversa si allea in vista di obiettivi comuni, di promozione politica e religiosa. Intorno alla basilica, nella cosiddetta “cittadella nicolaiana”, crebbero gli ambienti destinati alla comunità religiosa: il palazzo del priore e – stando alla convenzione – gli alloggi dei chierici e dei monaci. La presenza di un ospedale è documentata almeno dal 110149. 48

KAPPEL, S. Nicola in Bari und seine architektonische Nachfolge, cit., p. 122, fig. 24: le misure con l’asterisco possono variare a seconda dei punti di riferimento considerati. Lunghezza totale / larghezza totale: 64,25 m* / 43,69 m* comprese le torri ovest. Larghezza facciata occidentale / facciata orientale: 25,85 m* (senza torri) e 43,69 m* (comprese le torri) / 33,41 m*. Altezza totale facciata orientale: 25,95 m* (compreso il parapetto del terrazzo). Altezza massima della copertura del corpo longitudinale: 30,62 m* - 36,40 m* (a seconda della posizione). Altezza massima copertura transetto: 31,85 m* - 37,40 m* (a seconda della posizione). Altezza massima del transetto della cripta: 3,95 m*, 3,97 m*, 4,00 m*, 4,10 m* (a seconda della posizione). Larghezza interna / lunghezza del corpo longitudinale: 25,45 m (ovest); 25,81 m (centro); 25,90 m* (est) / 41,00 m* (navatella nord); 40,30 m (navatella sud). Larghezza interna dei matronei / gallerie esaforate: 5,95 - 6,14 m (matroneo nord, crescente verso est); 6,03 - 6,31 m (matroneo sud, crescente verso est) / 2,05 m* - 2,46 m (esaforato nord, crescente a est); 2,06-2,10 m (esaforato sud, decrescente verso est). Larghezza interna / lunghezza del transetto della cripta: 30,57 m / 12,20 m (senza absidi). Larghezza interna / profondità del transetto: 31,07 m / 12,52 m (senza absidi). Apertura massima / profondità dell’abside maggiore 10,00 m* / 3,65 m*. 49 Codice diplomatico barese, V, Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo normanno (1075-

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Nulla di simile esisteva nell’evo medio in Puglia prima di S. Nicola. Secondo la tradizione, la traslazione delle ossa di san Nicola avvenne nel 1087: il 20 aprile il corpo fu prelevato nella città di Myra dal tempio dedicato al santo e il 9 maggio giunse a Bari. Myra, una località costiera della Licia, precedentemente nella sfera d’influenza dell’impero bizantino, era stata occupata dai Turchi. Il giorno liturgico di san Nicola cade il 6 dicembre, ma tra aprile e maggio50 a Bari si celebra in pompa magna la rievocazione dell’evento che è alla base della costruzione della basilica nicolaiana nonché della fortuna della città, che da quel momento in poi, in quanto sede di un santuario universalmente conosciuto, fu immessa nei grandi circuiti internazionali dei pellegrinaggi, con una vantaggiosa ricaduta sulla prosperità locale. Un diploma del duca di Puglia, Ruggero Borsa, dichiara che il terreno corrispondente all’area della ex corte catepanale fu concesso nel giugno 1087 dal duca normanno all’arcivescovo Ursone, con la facoltà di erigervi la chiesa in onore del santo: Concediamo e doniamo in tutta la sua grandezza e integrità, nell’arcivescovado di questa città di Bari a noi concessa da Dio, a cui per grazia divina presiede il dom Ursone, la corte che viene chiamata del Catepano, che appartiene al nostro bene pubblico. Di conseguenza concediamo e doniamo e confermiamo al predetto arcivescovo questa corte con tutte le sue pertinenze interne ed esterne. Il predetto arcivescovo e i suoi successori e parte dell’arcivescovado abbiano licenza di fare di essa ciò che vorranno e di costruirvi una chiesa in onore del santissimo Nicola. La predetta corte e la chiesa lì costruita e qualunque altro edificio siano sempre di proprietà dell’arcivescovado, del predetto arcivescovo e dei suoi successori ed essi non abbiano mai, in qualsiasi tempo, alcuna contrarietà né da noi né dai nostri nipoti né dai nostri giudici del trumarchis del catepanato né da qualunque funzionario del nostro stato o da qualunque uomo. Ma per sempre abbiano tutto come è stato scritto e qindi facciano ciò che vorranno51. 1194), a cura di NITTI DI VITO F., Bari 1902, n. 34: donazione di Boamundus all’ospitalium di S. Nicola di Bari. 50 Secondo NITTI DI VITO F., La ripresa gregoriana di Bari (1087-1105) e i suoi riflessi sul mondo contemporaneo politico e religioso, Trani 1942, pp. 191, 386, la Chiesa di Costantinopoli ignora la festa della traslazione al 9 maggio. Essa fu invece introdotta nel calendario russo nel 1091, due anni dopo la deposizione delle ossa del santo nella basilica nicolaiana. 51 Codice diplomatico barese, I, cit. n. 32 p. 59-61: “concedimus atque donamus in archiepiscopio hujus nobis a Deo concesse Barine civitatis, cui dominus Urso gratia Dei archiepiscopus preest, totam et integram curtem que vocatur de Catepano, que nobis nostreque reipublice pertinet.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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La basilica fu costruita grazie alle ricche elargizioni di Ruggero Borsa e Boemondo, nonché ai contributi forniti dal ceto medio cittadino52. Le donazioni da parte dei grandi e piccoli esponenti della nobiltà normanna, come Riccardo Senescalco figlio del conte Drogone e Roberto conte di Conversano, desiderosi di emulare l’esempio lasciato dai figli del Guiscardo, proseguirono anche negli anni successivi53. Alla morte dell’arcivescovo Ursone (1089), venne eletto al seggio episcopale l’abate Elia. La sua solenne consacrazione alla carica arcivescovile fu officiata nel 1089 da papa Urbano II, sceso appositamente a Bari per insignirlo del pallio vescovile e per deporre le reliquie di san Nicola nell’altare della basilica. Fino alla sua scomparsa (1105), Elia detenne le due cariche, quella di rettore della basilica di S. Nicola e quella di titolare dell’episcopio. Nel 1091, nel corso di una ricognizione voluta dall’arcivescovo Elia, furono rinvenute nella cattedrale di Bari le ossa di san Sabino, vescovo di Canosa nel VI secolo e personaggio più illustre del cristianesimo delle origini in Puglia. Nell’ottobre del 1098, papa Urbano II celebrò un solenne concilio nella basilica di S. Nicola allo scopo di sanare i contrasti interni alla chiesa anglicana e dirimere le controversie con la Chiesa orientale. Dopo la morte di Elia i due incarichi, quello di abate di S. Nicola e quello di primate della diocesi, vennero definitivamente disgiunti. Alla reggenza della chiesa di S. Nicola, Elia stesso aveva designato a succedergli Eustasio (1105-1123), benedettino e abate del monastero di Ognissanti di Cuti, presso Valenzano. L’arcivescovado invece rimase vacante fino all’elezione di Riso, avvenuta nel 1112. All’abate Eustasio papa Pasquale II nel 1105 (1106) concesse una bolla in cui si dichiarava che la basilica di S. Nicola, ancora in via di costruzione, era posta sotto la tutela della santa sede: Concedimus igitur atque donamus et confirmamus ipsam curtem cum omnibus suis pertinentiis intus et exterius predicto archiepiscopio et prefatus archiepiscopus ejusque successores et pars archiepiscopii licentiam habeant facere de ea quod voluerint et ecclesiam in honore beatissimi Nicolay ibi edificare et predicta curtis et ecclesia in ea constructa et alia quecumque edificia sempre sint in potestate archiepiscopii et archiepiscopi prefati ejusque successorum et neque a nobis aut a nostris heredibus neque a nostris iudicibus catepanis trumarchis neque a quibuscumque auctoribus nostre reipublice aut a quibuscumque hominibus habeant ipse archiepiscopus eiusque successore et pars ipsius ecclesie quolibet tempore de ea aliquam contrarietatem. Sed in perpetuum omnia ut suprascriptum est habeant et quod voluerunt inde faciant.” Cfr. nota 4 di questo capitolo. 52 MUSCA G., CORSI P., Da Melo al regno normanno, in Storia di Bari. Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, cit., pp. 5-55, in part. pp. 50-51. 53 NITTI DI VITO F., Le questioni giurisdizionali tra la basilica di S. Nicola e il duomo di Bari (1087-1929), parte prima dal 1087 al 1579, Bari 1933, p. 11.

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Si dice dunque che allora fu chiesto e concesso che nello stesso luogo s’innalzasse subito la basilica del beato Nicola, specialmente sotto la tutela della sede apostolica54.

Boemondo e Ruggero Borsa perirono entrambi nel marzo del 1111. A essi succedettero i rispettivi figli minorenni sotto la reggenza delle proprie madri: a Guglielmo, unico discendente legittimo di Ruggero Borsa, andò il ducato di Puglia, al cugino Boemondo II spettò l’eredità del padre, tra cui la città di Bari55. L’assenza di un forte potere centrale favorì sia la conflittualità tra i membri della nuova aristocrazia normanna sia l’aspirazione all’autonomia di Bari, dilaniata da due opposte fazioni. Nei torbidi cittadini venne coinvolto perfino il nuovo arcivescovo Riso, il quale schieratosi con Grimoaldo Alferanite contro il partito guidato da Argiro e Pietro di Giovannicio, nel settembre del 1118, cadde ucciso in un’imboscata tesagli da Argiro56. La supremazia di Grimoaldo Alferanite, affermatosi intorno al 1118, durò circa un decennio e non fu efficacemente contrastata dai Normanni di Puglia. In questo periodo Grimoaldo si appoggiò ai partiti locali, particolarmente a quello di S. Nicola che grazie alla sua benevolenza prevalse sugli avversari. L’inetto duca Guglielmo morì nel 1127, mentre Boemondo II nel 1126 si era trasferito ad Antiochia, dove il padre aveva creato un principato. Nel 1127 il conte Ruggero II di Sicilia, in nome della parentela con il defunto Guglielmo, rivendicò l’eredità del ducato di Puglia senza godere dell’appoggio della Chiesa di Roma e dei suoi alleati che paventavano l’ascesa di un signore troppo potente. Tra il 1128 e il 1129 Ruggero sconfisse i nemici e conquistò la Puglia. Nel 1130 egli fu riconosciuto re di Sicilia dai rappresentanti convenuti a Salerno57. Il 22 giugno 1132, dopo un periodo ricco di contrasti politici e bellici, Ruggero II stipulò un accordo con la nobiltà pugliese. I conflitti riemersero di lì a poco e Ruggero si vide costretto a fronteggiare uno schieramento che annoverava, oltre al pontefice Innocenzo II e all’imperatore Lotario II, anche la nobiltà normanna pugliese e le città di Capua, Napoli e Genova. Ruggero fu scomunicato 54 Ivi, pp. 101-102: “Petitum igitur tunc et concessum dicitur ut beati Nykolai basilica in eodem loco edificanda specialiter sub tutela mox sedis apostolice servaretur”. Codice diplomatico barese, V, cit., n. 44, pp. 79-80. Per il testo della bolla cfr. capitolo V, § 3. S. Nicola basilica palatina?, nota n. 34. 55 MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., pp. 40 e ss. 56 GARRUBA, Serie critica de’ sacri pastori baresi, cit., p. 153. 57 MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., pp. 44-45.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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nel 1139. Infine il sovrano riuscì a ottenere dal papa la revoca della scomunica e il riconoscimento come re di Sicilia e del Mezzogiorno. Bari, che aveva resistito ed era stata assediata, dovette arrendersi: Ruggero sfogò la sua rabbia facendo giustiziare i capi del partito avversario. Tuttavia i cittadini di Bari, rimasti sempre ostili ai sovrani siciliani, nel 1156 giunsero a demolire il castello normanno. Il re Guglielmo I si vendicò occupando la città e facendola radere al suolo. Un destino diverso fu riservato alle due maggiori chiese baresi: il duomo seguì la sorte dell’abitato e venne distrutto, la basilica di S. Nicola venne invece salvaguardata58. Nell’età di Guglielmo II, per iniziativa dell’arcivescovo Rainaldo (1171-1188), si provvide a ricostruire il duomo, prendendo a modello la basilica di S. Nicola. Per la difesa dei diritti giurisdizionali, fra la basilica di S. Nicola e la cattedrale di Bari vi furono lotte asperrime, che si protrassero per secoli e finirono anche all’attenzione della Camera dei deputati del regno d’Italia. In discussione v’era la questione riguardante l’autonomia della basilica nicolaiana dall’ordinario locale e la sua diretta dipendenza dalla Santa Sede. Le prime avvisaglie dei dissidi apparvero già all’epoca dell’arcivescovo Riso. I contrasti continuarono poi per secoli, con intermittenze di estrema violenza, fino a far entrare nel 1897 la “questione della palatinità” negli Atti parlamentari59. Le dispute riguardarono anche l’interpretazione delle fonti documentarie che vennero giudicate in relazione al punto di vista che si intendeva perorare. Le medesime fonti vennero pertanto considerate autentiche o contraffatte, a seconda che l’esaminatore propendesse per la basilica piuttosto che per il duomo. Tutto ciò ha consegnato alla storia l’immagine delle due maggiori chiese cittadine, la cattedrale e S. Nicola, costituenti due poli antitetici. Mostrare come tale contrapposizione non fosse prevista all’origine ma sia subentrata solo successivamente con l’evolversi del quadro storico è il compito che mi prefiggo nelle pagine seguenti.

4. Studi sulla fondazione della basilica Una menzione a parte fra quanti si sono occupati dell’argomento spetta a Francesco Nitti Di Vito, arcidiacono della basilica di S. Nicola 58 IORIO R., LICINIO R., MUSCA G., Sotto la monarchia normanno-sveva, in Storia di Bari, cit., pp. 59 ss. 59 NITTI DI VITO, La ripresa gregoriana di Bari, cit., p. 566.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

e curatore del Codice Diplomatico Barese, il quale già nel 1942 aveva messo in collegamento i fatti di Bari con il contemporaneo movimento di riforma della Chiesa. Nitti Di Vito aveva giustamente stimato che il periodo di storia barese racchiuso tra il 1087 e il 1105 è veramente storia universale.

A suo giudizio, gli storici pugliesi lo hanno studiato con gli occhi puramente rivolti ai fatti provinciali e solo raramente al di là degli avvenimenti regionali.

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Egli aveva colto il significato non solo universale ma gregoriano della traslazione di san Nicola a Bari60.

L’analisi dettagliata degli eventi che si succedono in quel giro di anni costituisce una fonte ricca di informazioni da cui conviene partire anche per contestare ciò che non risulta condivisibile. La sua ricostruzione dell’ambiente civile ed ecclesiastico barese, influenzata dalla storiografia dell’epoca e forse da qualche interesse di parte, presenta alcune incongruenze che stravolgono il piano storico e il profilo dei personaggi. Non è sostenibile, e in parte è stata anche superata dalla critica, la lettura che egli dà della situazione in cui versava la cattedrale, ove a suo parere si verificavano gravi irregolarità, con la presenza contemporanea di più arcivescovi e con la figura dell’arcivescovo Ursone scismatico e seguace dell’antipapa Clemente III (già Viberto, arcivescovo di Ravenna). Nella città eretica, macchiata di vibertismo, il benedettino Elia è, secondo Nitti Di Vito, colui che prepara i borghesi filonormanni alla traslazione di san Nicola intesa quale crociata cittadina dei baresi gregoriani, avventuratisi col premeditato consiglio di dare effetto all’antichissima aspirazione dei loro padri di possedere a ogni costo le reliquie del santo.

Fu dunque una crociata civica, non altrimenti di quanto avevano fatto i Veneziani con l’evangelista san Marco 60

Ivi, p. 6.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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ed ebbe luogo indipendentemente dalle armi normanne, indipendentemente dal favore di Roma, ma solo entro l’ambito della romanissima idea gregoriana locale, fatta di fede cattolica e di audacia cittadina (…) all’insaputa quindi del vescovo scismatico e della sua aristocrazia61. L’impresa fu organizzata all’insaputa degli scismatici della cattedrale e la partenza delle navi fu fatta passare sotto finzione di un consueto viaggio di commercio62.

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Organizzatori, finanziatori ed esecutori ne furono i laici, i cittadini gregoriani che agirono con propri mezzi finanziari, per propria privata deliberazione, in cui l’arcivescovo, il suo clero e i suoi aderenti non solo non erano entrati ma anzi ne erano stati programmaticamente esclusi63.

Nitti Di Vito riscontra la coesistenza antagonistica a Bari di due partiti: il cosiddetto aristocratico, facente capo alla cattedrale, fiancheggiatore dell’esoso e imbelle governo bizantino, e il partito borghese emergente, di carattere prettamente comunale, che si appoggiava alla basilica di S. Nicola ed era incline ai Normanni, in favore dei quali si era pronunciato anche il benedettino Elia.

Molto rapidamente Nitti Di Vito accenna anche al fatto che dietro a Elia e ai suoi borghesi gregoriani sta il riflesso preciso ed esatto del nuovo indirizzo dei pontefici in pro della realtà storica normanna, a differenza dei pontefici precedenti64.

Del tutto fuorviante è la convinzione che l’arcivescovo Ursone, intimo del Guiscardo e fedele al papa di Roma fino alla morte del duca normanno, abbia in seguito, seppur per un breve periodo, manifestato simpatia per Viberto arcivescovo di Ravenna, divenuto antipapa col nome di Clemente III65. Nitti Di Vito ritiene che l’arcivescovo Urso61

Ivi, pp. 129-130. Ivi, p. 238. 63 Ivi, p. 272. 64 Ivi, pp. 7-8. 65 Ivi, p. 24, Nitti Di Vito scrive che Viberto, già arcivescovo di Ravenna, eletto antipapa a Bressanone il 25 giugno del 1080 per volere dell’imperatore Enrico IV in opposizione a papa Gregorio VII, ricevette la consacrazione in Laterano il 24 marzo del 1084 e creò difficoltà al papato fino alla sua morte, sopraggiunta l’8 settembre del 1100. 62

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

ne, abituato ai privilegi che gli derivavano dall’essere uomo di fiducia e messaggero personale del Guiscardo, dopo la scomparsa di questi, avrebbe abbandonato per fini utilitaristici l’ortodossia e favorito l’antipapa, l’unico in grado in quel frangente storico di garantirgli una posizione di prestigio. Poco convincente appare il ritratto di questo arcivescovo che, secondo Nitti Di Vito, è affetto da vibertismo per circa due anni, dal decesso del Guiscardo (luglio 1085) fino al 1088, data in cui egli avrebbe maturato la conversione al ritorno da un viaggio a Gerusalemme. Nitti Di Vito rileva inoltre che l’arcivescovo Ursone fu in seguito delegato da papa Urbano II ad assistere alla consacrazione della cattedrale di Otranto, fatto che sarebbe stato impedito se egli fosse stato ancora in odore di eresia. Del tutto macchinoso appare inoltre il pensiero di Nitti Di Vito quando distingue fra il vibertismo personale dell’arcivescovo Ursone, che come abbiamo visto cesserebbe nel 1088, e quello della città di Bari che permarrebbe invece nell’eresia fino al 1089. Dopo la morte dell’arcivescovo Ursone (14 febbraio 1089), la solenne consacrazione dell’abate Elia alla carica arcivescovile e la reposizione delle ossa di san Nicola nella cripta nicolaiana, per mano di papa Urbano II (settembre-ottobre 1089), avrebbero riconsegnato la città all’ortodossia gregoriana. L’indizione del concilio del 1098 nella stessa basilica nicolaiana, con il quale papa Urbano II si proponeva la ricomposizione del dissidio con la chiesa orientale, dopo lo scisma del 1054, poneva il suggello alla ritrovata gregorianità. L’esame accurato dei dati storici, al quale lo studioso scrupoloso non si sottrae, cozza con l’impostazione del suo discorso, facendolo incorrere in evidenti contraddizioni. Per l’autore, il comportamento dell’arcivescovo nella traslazione del santo, contrariamente alla consueta descrizione fattane sinora, è ineccepibile66.

Giunti a Bari, i cittadini negarono la consegna delle reliquie all’arcivescovo Ursone a motivo della sua scismaticità. Subito dopo però Ursone, comprendendo la delicatezza della situazione e intuendo che il suo diniego avrebbe potuto essere interpretato come segno di antigregorianesimo, ritenne opportuno riconoscere Elia nella veste conferitagli dal popolo. Pertanto acconsentì a che Elia, il quale aveva ricevuto il permesso dal duca normanno per la costruzione della cripta

66

Ivi, p. 8.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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nicolaiana entro l’area della corte domenica, cominciasse i lavori. Nitti Di Vito è consapevole che l’affidamento a Elia, da parte di Ursone, del corpo del santo e del compito di costruire la nuova chiesa avrebbe potuto far apparire l’abate un gregario del vescovo e quindi il duomo avrebbe potuto vantare sulla basilica alcuni diritti in virtù dell’atto di piena giurisdizione compiuto dall’arcivescovo. Tale concessione difatti, secondo Nitti Di Vito, fu impiegata più tardi dalla cattedrale per rivendicare il suo potere nei confronti della basilica di S. Nicola. Ma l’erezione di una nuova chiesa in quel posto, senza il beneplacito, spontaneo o forzato, della suprema autorità ecclesiastica locale, avrebbe conferito alla futura basilica nicolaiana l’aspetto di una di quelle chiese private, in pieno contrasto con i principi più severi del papato riformatore, che tendeva appunto ad eliminarle e a proibirle67.

A parere dello studioso, il consenso dell’arcivescovo non comprometteva l’acquisizione di un profilo giurisdizionale autonomo della basilica che fu concesso direttamente da Urbano II nel 1089, secondo quanto dichiarato dalla bolla di papa Pasquale II del 1105. Per Nitti Di Vito, il duomo avrebbe preparato e diffuso falsa documentazione allo scopo di regolare questioni giurisdizionali non solo fra la cattedrale di Bari e la basilica di S. Nicola ma anche fra Bari e Canosa, Bari e Trani, Bari e Melfi. Soprattutto per confutare la palatinità della basilica nicolaiana fin dalle origini, il duomo si sarebbe dato da fare per intaccare, alterare, deformare dapprima le sacre “leggende” nicolaiane, ossia le Translationes sancti Nicolai, e poi nei secoli XIV e XV i documenti fino a giungere a una vera e propria fabbrica di falsificazioni nei secoli XVIII e XIX68. È un merito di Nitti Di Vito aver sottolineato l’appartenenza all’ordine benedettino dei due protagonisti della ripresa gregoriana di Bari, l’abate Elia e il papa Urbano II, che si sarebbero conosciuti nell’abbazia di Cava, ritenuto il centro più importante dell’Italia meridionale, superiore per certi riguardi allo stesso Montecassino. Nitti Di Vito però si limita a individuare un programma gregoriano che sarebbe stato attuato grazie all’amicizia personale dei due religiosi senza tener conto delle problematiche storiche di più vasta portata69. 67

Ivi, p. 288. NITTI DI VITO F., La traslazione delle reliquie di San Nicola, in “Iapigia” VIII (1937), pp. 295-411, in part. pp. 313 e 318. 69 Per Norbert Kamp (KAMP N., Vescovi e diocesi dell’Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo stato normanno, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel 68

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

In linea con la storiografia dell’epoca, Nitti Di Vito esprime poi un giudizio riduttivo su Vittore III che, sebbene colto e devoto, non era uomo in grado di governare la Chiesa in quegli ostici frangenti, in cui agivano un imperatore astuto e volitivo, come Enrico IV, e un antipapa scaltro e caparbio, come Clemente III. Il brevissimo pontificato di Vittore III viene considerato

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una insignificante parentesi tra i due papi dinamici Gregorio VII e Urbano II

il quale ebbe il dovere increscioso di sanare l’infelice impressione lasciata alla cristianità dal suo predecessore70. Gli studiosi delle generazioni successive hanno ricondotto l’intera questione all’interno dei confini cittadini. Vera von Falkenhausen ha interpretato la traslazione di san Nicola come un atto di consapevolezza civica maturato nel momento critico del passaggio dal dominio bizantino al potentato normanno. L’estinzione del catepanato avrebbe privato Bari del prestigio di cui godeva in quanto sede del rappresentante bizantino in Italia. Il profilarsi del declino avrebbe indotto i cittadini baresi a procacciarsi le agognate reliquie nel tentativo di recuperare una posizione di rilievo71. È d’accordo con questa tesi anche Hubert Houben72. Agostino Pertusi ha evidenziato le analogie che rimandano alle inventiones delle spoglie di san Matteo a Salerno e di san Sabino nella stessa Bari. Poiché si trattava di un’operazione di politica ecclesiastica, lo studioso ha escluso che vi sia stata l’influenza politica dei duchi normanni. Coloro che si fecero promotori della translatio di san Nicola si prefiggevano uno scopo ben preciso: era necessario stabilire su basi più solide l’avvenuto trasferimento della sede episcopale da Canosa a Bari, ponendola sotto un santo più universale di san Sabimedioevo, a cura di ROSSETTI G., Bologna 1977, pp. 379-397, in part. p. 394) poco si sa della formazione di Elia che comunque era benedettino in un monastero orientato verso Montecassino. Secondo Vera von Falkenhausen (FALKENHAUSEN VON V., Bari bizantina: profilo di un capoluogo di provincia (secoli IX-XI), in Spazio, società, potere nell’Italia dei Comuni, a cura di ROSSETTI G., Napoli 1986, pp. 195-227, in part. p. 225 e nota 227), l’abate Elia era barese mentre non esiste alcun indizio a conferma della tesi che egli fosse stato monaco a Cava. 70 NITTI DI VITO, La ripresa gregoriana di Bari, cit., p. 41. 71 FALKENHAUSEN VON, Bari bizantina: profilo di un capoluogo di provincia (secoli IX-XI), cit., in part. pp. 224-226. Per una panoramica storica vedi pure EADEM, I ceti dirigenti prenormanni al tempo della costituzione degli stati normanni nell’Italia meridionale e in Sicilia, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel medioevo, cit., pp. 321-377. 72 HOUBEN, I benedettini in città: il caso di Bari (sec. X-XIII), cit.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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no. A suo parere la questione mostra analogie con la problematica relativa alla sede di Grado (Rialto) per Venezia, per affermare i diritti della quale venne compiuta la translatio delle spoglie di san Marco, a insaputa, anche in questo caso, del patriarca Venerio. Secondo Pertusi i traslatori ritenevano

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la loro operazione una cosa del tutto privata (quasi un acquisto commerciale e il frutto di un investimento di capitale), compiuta da un gruppo di privati, i cui interessi però coincidevano con quelli delle autorità politiche del momento. Il consenso dei due principi normanni sarebbe avvenuto solo a traslazione compiuta73.

Giustamente Pertusi ritiene che non vi sia alcun indizio che faccia supporre che l’arcivescovo Ursone simpatizzasse per l’antipapa Clemente III. L’unica testimonianza del vibertismo di Bari è offerta da un’affermazione di Lupo Protospata secondo cui Vittore III assurse al soglio pontificio al tempo di papa Clemente. Tale congettura suggerita da Holtzmann e ripresa da Praga è derivata da un’affermazione di Protospata, il quale, dopo aver ricordato la translatio di san Nicola del 1087, precisa: In quest’anno l’abate Desiderio di S. Benedetto di Montecassino, con l’appoggio di alcuni nobili romani, fu fatto papa romano mentre ancora viveva l’antipapa Clemente, già vescovo di Ravenna74

e ancora, all’anno 1089, ricordando la depositio delle reliquie, dice: papa Urbano venne a Bari e vi consacrò la confessione di S. Nicola e l’arcivescovo Elia, mentre ancora viveva il suddetto Clemente antipapa75.

73

PERTUSI, Ai confini tra religione e politica, cit., p. 46. Ivi, citazione pp. 31-32: “Hoc anno abbas Desiderius, sancti Benedicti Montis Casini, consensu quorundam nobilium Romanorum, factus est papa Romanus vivente adhuc Clemente papa, qui fuerat Ravenne archiepiscopus”. Cfr. HOLTZMANN W., Studien zur Orientpolitik des Reformpapsttums und zur Entstehung des ersten Kreuzzuges, in “Historische Vierteljahrschrift”, XXII (1924-25), pp. 167-199, in part. pp. 183-184; PRAGA G., La traslazione di S. Niccolò e i primordi delle guerre normanne in Adriatico, in “Archivio storico per la Dalmazia”, VI (1931), pp. 62-75. È d’accordo con Pertusi anche Cowdrey, secondo il quale l’affermazione di Lupo Protospata offre solo testimonianza di “pallidissime colorature vibertine nelle pagine di un singolo annalista” ma non rispecchia le simpatie delle gerarchie ecclesiastiche di Bari: COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., pp. 310-311. 75 PERTUSI, Ai confini tra religione e politica, cit., citazione p. 32: “papa Urbanus nomine venit in civitatem Bari et consecravit illic confessionem sancti Nicolai et Heliam archiepiscopum vivente adhuc predicto papa Clemente”. 74

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Smentendo le interpretazioni della storiografia precedente, Pertusi chiarisce bene la questione:

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anche ammettendo che nei due passi il cronista abbia voluto contrapporre Clemente III a Vittore III e a Urbano II, riconoscendolo legittimo, non ne deriva affatto che tale fosse anche l’opinione del clero e dell’arcivescovo di Bari, tanto più che tale aggiunta: “vivente (…) Clemente papa”, non si ritrova in nessun’altra cronaca (…). Ma c’è di peggio: nel Vat. Urb. lat. 983, al secondo passo si legge, al posto di “vivente (…) Clemente papa”, la frase: “qui [scil. Helia] venerat cum predicto papa Clemente” ciò che farebbe di Elia (non di Ursone!) un amico dell’antipapa, e quindi uno scismatico, un “vibertino”! (…) In ogni caso, la frase di Lupo non sembra minimamente coinvolgere la città di Bari e il suo arcivescovo Ursone nello scisma vibertino76.

Pertusi nega inoltre che vi fossero dei contrasti fra il benedettino Elia e l’arcivescovo Ursone. I conflitti, semmai, sorsero fra Ursone e i laici promotori dell’impresa, che non erano disposti a riconoscerne l’autorità. Nel volume sull’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, H.E.J. Cowdrey scrive: Le fonti non ci permettono di dire altro sugli importanti avvenimenti del 1086. Non è chiaro se Desiderio e il suo circolo presero parte ai preparativi di quell’anno per i trionfi del 1087, preparativi che si sarebbero dimostrati di buon auspicio per il papato gregoriano: il trasporto delle reliquie di san Nicola da Myra a Bari, e il sacco della città di Mahdia, in Africa settentrionale, da parte di forze pisane e genovesi aiutate da romani e amalfitani. Non si ha la certezza che la traslazione di Nicola fosse premeditata da una fazione cittadina anti-vibertina; con ogni probabilità non lo fu77.

Cowdrey nota che nella bolla data da papa Pasquale II nel 1105 all’abate Eustasio di S. Nicola, viene espressamente dichiarato che le reliquie del santo furono traslate a Bari nel giorno esatto della consacrazione di papa Vittore III. Poi lo storico prosegue: Due anni dopo, nell’ottobre 1089, papa Urbano II legò per sempre il culto di san Nicola alla causa gregoriana consacrando personalmente l’altare del santo a Bari e, allontanandosi dalla consuetudine, consacrando l’arcivescovo Elia di Bari nella sua stessa cattedrale. (…) I successi di Bari e Mahdia – due tra gli avvenimenti del breve pontificato di Vittore 76 77

Ibidem. COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 237.

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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III – coronarono il papato gregoriano degli allori della vittoria (…) Non c’è testimonianza che nel 1087 i contemporanei legassero queste imprese al nome di Vittore III78.

Significativamente l’autore torna sull’argomento nelle pagine d’appendice, scrivendo che i fatti di Bari e i conflitti dei suoi abitanti pongono problemi di non facile soluzione che chiedono di essere completamente riconsiderati. Ragionando sulla letteratura che aveva a disposizione, soprattutto le teorie di Nitti Di Vito sui partiti cittadini e sul vibertismo dei Baresi, egli afferma:

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La chiave degli avvenimenti a Bari va cercata all’interno della città – forse in un movimento verso qualcosa di simile a un comune – non tanto nel più generale conflitto tra gregoriani e vibertini.

E poi, a proposito di papa Urbano II, aggiunge: Egli usò dell’ondata di zelo religioso e di orgoglio civico che seguirono all’arrivo delle reliquie per conquistare Bari alla causa gregoriana. In questo senso, fu un trionfo per il papato della riforma. Ma questo trionfo sembra essere stato il frutto della fortuita acquisizione di eccezionali reliquie, non tanto la ben preparata riconquista di una città che con Urso si era in gran parte unita e con Elia se ne staccò79.

Giosuè Musca sostiene che: Nel 1087, in occasione della traslazione delle reliquie attribuite a San Nicola da Mira, scoppiano contrasti tra le fazioni cittadine: l’arcivescovo Ursone esige che esse siano custodite nella cattedrale, ma l’abate Elia le prende in custodia in vista dell’erezione di un nuovo tempio dedicato al santo80.

Per Pasquale Corsi: Nel 1087, tra gli inizi di marzo e il 9 maggio, ebbe luogo un evento di eccezionale e duratura importanza per la vita di Bari, cioè la traslazione delle reliquie di san Nicola da Mira (…) Il culto del santo era da tempo assai diffuso, anche al di fuori dell’impero bizantino, soprattutto negli ambienti delle città marinare; alcune di loro (come Venezia e Genova, ma anche Benevento) aspiravano ad averlo come patrono. Si può ben comprendere quindi perché la spedizione mercantile barese, costituita 78 79 80

Ivi, pp. 249-250. Ivi, pp. 311-312. MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., p. 50.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

da un convoglio di tre navi cariche di grano per il mercato di Antiochia, abbia colto al volo l’occasione propizia e, precedendo i Veneziani, si sia impadronita delle tanto agognate reliquie (…) Raggiunto il porto di Bari (…) si pose subito un problema di rilevante incidenza politica e religiosa: i traslatori infatti, che erano tutti uniti in proposito da un solenne giuramento, volevano che fosse costruito ex novo un tempio in onore del santo e delle sue reliquie. Questa imposizione, che trovava però il consenso della maggioranza della popolazione, risultava oggettivamente uno scavalcamento dei poteri spettanti alla massima autorità religiosa locale, cioè all’arcivescovo Ursone. Questi, che era quasi sempre assente dalla sua sede per impegni di corte, si trovava in quel momento a Canosa o a Trani; appresa la notizia, si affrettò a rientrare a Bari. Intanto le reliquie venivano momentaneamente affidate a un personaggio di grande prestigio a Bari, l’abate Elia, che le depose (in attesa di ulteriori decisioni) nella sua chiesa di S. Benedetto, sotto la scorta armata dei traslatori e dei loro partigiani. C’era infatti il timore, tutt’altro che infondato, che l’arcivescovo Ursone e i suoi seguaci (…) tentassero, anche con il ricorso alla forza, di portare il sacro corpo nell’episcopio, a maggior lustro della cattedrale e del suo vescovo. Così per l’appunto si andava profilando sempre più nettamente uno sbocco violento del contrasto, essendo andate a vuoto le interposte mediazioni. Si ebbero perciò delle zuffe e si pose mano alle armi, sicché ci furono dei morti da entrambe le parti (…). Alla fine l’arcivescovo dovette rendersi conto che non era possibile né prudente continuare a opporsi alla volontà dei traslatori, appoggiati dalla stragrande maggioranza della popolazione, e acconsentì a far costruire un nuovo grande tempio per il santo di Mira. L’edificio doveva dunque sorgere all’interno della corte del catepano (…) La tradizione vuole, sulla scorta di un diploma di dubbia autenticità, che tutta l’area sarebbe stata concessa dal duca Ruggero all’arcivescovo Ursone nel giugno del 1087 (…). Ai lavori (…) fu preposto per scelta dello stesso Ursone (ma certamente con il gradimento dei traslatori) l’abate Elia (…). Sui motivi di fondo del dissidio tra l’arcivescovo e i traslatori molto è stato scritto, a volte senza accorgersi di cadere in clamorose contraddizioni o in ricostruzioni tanto romanzesche quanto infondate. In sintesi i dati offerti dalle fonti lasciano intendere nella sostanza le motivazioni di entrambe le parti, ma di quella prevalente è incontestabile il maggior respiro e la lungimiranza politica. Se infatti le reliquie di san Nicola fossero state deposte nella cattedrale, ove ancora mancava la tutela di un illustre patrono, l’arcivescovo ne avrebbe detenuto il pieno controllo e, contemporaneamente, la sua sede barese (ma ancora con il titolo di Canosa) avrebbe consolidato la propria posizione. A questi fini di ambito circoscritto i traslatori sovrapponevano, in maniera più o meno consapevole, una prospettiva di ampio raggio, ai confini tra religione e politica. Durante i lunghi giorni di navigazione essi si erano evidentemente persuasi che la presenza di quelle reliquie, tanto diffusamente venerate, poteva essere per Bari una straordinaria occasione per il recupero di un prestigio politico, inevitabilmente offuscato (se

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LA BASILICA DI S. NICOLA A BARI

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non proprio tramontato) dopo la fine del catepanato d’Italia. Perciò era opportuno ricercare una collocazione non riduttivamente municipale, ma piuttosto allusiva a ruoli di antica e ora rinnovata supremazia. Quale luogo poteva essere dunque più idoneo dell’imperial corte catepanale? (…) I lavori procedettero subito con grande alacrità, sotto la direzione di Elia81.

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Una voce fuori dal coro è stata recentemente espressa da Padre Bova, Rettore della Basilica di S. Nicola, il quale nella Prefazione al volume di Nino Lavermicocca insinua il sospetto che, dietro l’operazione che determinò la trasformazione della corte del catepano da centro politico laico a polo religioso mediante la reposizione delle ossa di san Nicola, potesse esservi un complotto: Ciò che sorprende nella narrazione delle diverse versioni della traslazione è l’assenza assoluta dei Signori normanni, che pure avevano il dominio della città. Ma ciò che rende ancor più sconcertante un pur minimo accenno ai Normanni è sapere quale profonda devozione avevano essi per san Nicola, tale da privilegiarlo ormai a san Michele dopo le numerose campagne condotte in Calabria, dove gli avevano dedicato anche la cattedrale di Mileto, scelta come loro capitale del sud prima di Palermo. A quale corpo appartenevano gli armati che difendevano le reliquie del santo e la Corte del Catapano dalle incursioni dei partigiani del vescovo Ursone? Elia per chi parteggiava? L’arcivescovo che voleva le reliquie per la cattedrale come mai concesse addirittura la Corte del Catapano? Il complotto potrebbe essere proprio questo: che siano stati i Normanni a pilotare il furto delle reliquie e a sostenere, senza apparire, i marinai, il popolo e l’abate Elia. Bari, scelta come loro prima capitale, con la presenza delle reliquie di un grande santo e di un maestoso e splendido santuario, sarebbe diventata una grande città82.

81

MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., pp. 33-35. BOVA D., La storia nelle strade, Introduzione al volume di LAVERMICOCCA N., Bari bizantina 1071-1156: il declino, Bari 2006, p. 8. 82

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II.

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IL MOMENTO STORICO

1. L’antefatto Dopo il burrascoso avvio nei decenni iniziali della conquista normanna, i rapporti fra il papato e gli invasori erano divenuti più fecondi, sebbene mai indenni da crisi e ripensamenti. Erano ormai lontani i tempi della battaglia di Civitate (1053) in cui papa Leone IX si era fatto promotore di una lega antinormanna1. Lo scontro aveva sancito la sconfitta dell’esercito papale e consolidato il prestigio dei tre capi che l’avevano inflitta: Unfredo d’Altavilla, Roberto il Guiscardo e Riccardo d’Aversa2. Da questo momento in poi, il Guiscardo seguì due linee d’azione. Da un lato si adoperò per creare un unico dominio solido e compatto risultante dall’unione delle numerose signorie che i Normanni avevano istituito nell’Italia meridionale. Quindi, a differenza dei suoi fratelli, ritenne utile ottenere il riconoscimento della legittimità del suo potere dalla suprema autorità del pontefice romano. L’inversione di rotta nei rapporti tra il dinasta normanno e i pontefici fu reso possibile grazie al contemporaneo capovolgimento di strategia politica perseguita dal seggio di Roma, dove il partito della riforma propagandava la necessità

1

LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, ed. MURATORI L.A., Rerum Italicarum Scriptores, V, Milano 1724, pp. 37-49, cit., p. 44, “Anno 1053. in fer. 6. mense Junii, Normanni fecerunt bellum cum Alemannis, quos Papa Leo adduxerat, & vicerunt” (Anno 1053 feria VI. A Giugno i Normanni guerreggiarono con gli Alemanni che papa Leone aveva condotto, e vinsero); trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 144. Cfr. D’ALESSANDRO V., Storiografia e politica nell’Italia normanna, Napoli 1978. 2 DELOGU P., La committenza degli Altavilla: produzione monumentale e propaganda politica, in I Normanni popolo d’Europa 1030-1200, catalogo della mostra (Roma 1994), a cura di D’ONOFRIO M., Venezia 1994, pp. 182-192.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

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di abbandonare l’azione di contrasto nei confronti dei Normanni, che venivano altresì considerati alleati del papa in funzione antimperiale3. Si giunse così ai patti siglati nel castello di Melfi nell’agosto del 1059, in cui, sotto gli auspici dell’abate Desiderio di Montecassino, il Guiscardo ottenne da papa Niccolò II la nomina a duca di Puglia, di Calabria e duca futuro di Sicilia4. Il testo del giuramento recita: Io, Roberto, per grazia di Dio e di san Pietro, duca di Puglia, di Calabria, e, con l’aiuto di entrambi, futuro duca di Sicilia, da questo momento in avanti sarò fedele alla santa Chiesa romana, alla Sede apostolica e a te, mio signore, papa Niccolò: non parteciperò a trame o fatti per cui tu debba perdere vita o membra o essere catturato di mala cattura. Non rivelerò volontariamente in tuo danno nessuna notizia che tu mi abbia confidato vietandomi di rivelarla. Con tutte le forze e ovunque presterò aiuto alla santa Sede romana, perché mantenga e recuperi i diritti di san Pietro ed i suoi possedimenti, contro qualunque persona. E ti aiuterò a tenere sicuramente e onorevolmente il papato romano. Non cercherò di invadere o conquistare la terra di san Pietro né i principati e neppure mi azzarderò a darvi il sacco, senza certa licenza tua e dei tuoi successori che si succederanno ad onore di san Pietro, tranne quella che tu o i tuoi successori mi concederete. Con dritta fede curerò che ogni anno la santa Sede riceva i redditi della terra di san Pietro che tengo o terrò per accordo. Porrò in tua potestà tutte le chiese che si trovano nel mio dominio insieme ai loro possessi, e ne sarò difensore nella fedeltà alla santa Chiesa, e non giurerò fedeltà ad alcuno se non riservando la fedeltà per la santa Chiesa romana. E se tu o i tuoi successori lascerete questa vita prima di me, aiuterò a fare eleggere e consacrare il papa ad onore di san Pietro secondo le indicazioni che riceverò dai migliori cardinali, chierici romani e laici. Tutto quel che è scritto qui sopra l’osserverò con dritta fede a te e alla santa Chiesa romana e manterrò questa fedeltà anche ai tuoi successori ordinati a onore di san Pietro che mi concederanno l’investitura da te concessami5.

Il Guiscardo si impegnava inoltre a versare ogni anno alla Chiesa un tributo di dodici denari di moneta pavese per ogni giogo di buoi su ogni terra sotto il suo dominio6. L’Italia meridionale era ritenu3 CUOZZO E., L’organizzazione sociopolitica, in I Normanni popolo d’Europa, cit., pp. 177181. 4 GUGLIELMO APULO, Historicum poema de rebus Normannorum, ed. MURATORI L.A., Rerum Italicarum Scriptores, pp. 253-277, cit. a p. 262: “Finita Synodo, multorum Papa rogatu Robertum donat Nicolaus honore ducali”. Cfr. AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni, ed. DE BARTHOLOMAEIS V., Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Fonti per la Storia d’Italia, Roma 1935, pp. 184-185. 5 DELOGU P., I Normanni in Italia. Cronache della conquista e del regno, Napoli 1984, pp. 61-62. 6 Ibidem.

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IL MOMENTO STORICO

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ta territorio soggetto alla potestà papale. Il pontefice ne investiva il Guiscardo, che grazie al giuramento di fedeltà veniva reso vassallo di S. Pietro e riconosciuto legittimo sovrano delle terre già occupate e di quelle che avrebbe conquistato7. I patti suggellavano l’alleanza tra i pontefici e i Normanni che assumevano il ruolo di garanti delle prerogative papali contro le ingerenze degli imperatori, d’Oriente e d’Occidente, e si impegnavano a lasciare nella potestà della Santa Sede tutte le chiese esistenti nei territori di loro pertinenza. L’intesa di Melfi era stata caldeggiata soprattutto dall’abate Desiderio di Montecassino, il quale intendeva porre le condizioni per ampliare l’area d’influenza del proprio monastero, relegato in un ambito modesto dalla dirigenza longobarda. Desiderio resse l’abbazia per trenta anni. In tale periodo la prosperità del complesso monastico aumentò enormemente grazie alle munifiche donazioni di terre elargite soprattutto dai nuovi dinasti normanni oltre che dai Longobardi al termine della loro supremazia. Egli svolse un ruolo politico di primo piano nell’Italia meridionale in una fase storica caratterizzata dall’emersione di nuove potenze e dall’affermazione di pressanti istanze culturali. Il declino dei Longobardi, l’avanzata dei Normanni e le problematiche connesse con la riforma della Chiesa stavano mettendo in crisi gli assetti politici tradizionali. Desiderio agì attivamente in questo scenario in rapida evoluzione. Probabilmente egli fu il più convinto ed efficace assertore di una nuova linea politica favorevole a una convergenza fra Normanni e papato dalla quale potevano scaturire vantaggi per entrambe le parti: I primi ambivano a ottenere una legittimazione nel Mezzogiorno tale da superare la dimensione dei potentati locali e attingere ai più alti gradi della gerarchia delle potestà terrene, i secondi avvertivano l’esigenza di un sostegno materiale e militare per portare a compimento gli obiettivi della riforma e nel contempo rilanciare le secolari aspirazioni a un’egemonia della chiesa di Roma nell’Italia meridionale8.

2. L’abate Desiderio Desiderio, al secolo Dauferio, nacque intorno al 1027 da un ramo dei principi Longobardi di Benevento. In disaccordo con la sua famiglia 7

Ibidem; CUOZZO, L’organizzazione sociopolitica, cit., pp. 177-181. Enciclopedia dei Papi, s.v. Vittore III, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 217221. 8

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

decise di vestire l’abito monastico. Nel 1048-1049 egli entrò dapprima nel chiostro di Cava per poi fare ritorno a Benevento, fra i monaci di S. Sofia. Nel 1047 i Normanni uccisero il padre di Desiderio. Con un certo tempismo, poiché all’epoca la situazione non si presentava affatto scontata, egli avvertì precocemente che la casa dominante non era più in grado di proteggere Benevento e che la fiducia andava ora riposta nel papato e nelle milizie Normanne. E qualunque ne fossero le motivazioni più profonde, egli entrò presto nelle fila dei riformatori9. Desiderio fu un personaggio eclettico. Oltre a essere un uomo di chiesa, possedeva doti di abilità politica e di diplomazia, disponeva di vasta cultura e, versato anche nell’arte, si interessò all’attività architettonica, alla scrittura e alla bibliofilia10. Il suo lascito alla cultura del tempo va individuato nell’interesse per la renovatio della chiesa costantiniana e dell’arte imperiale romana che l’aveva preceduta11. Il cosiddetto estetismo di Desiderio che si espresse nelle architetture, nei mosaici, negli affreschi (…) non va inteso – come pur è accaduto – secondo i canoni dell’estetica moderna che rivendica l’autonomia dell’arte: le creazioni di Desiderio sono anch’esse funzionali alla Riforma, con la ricostruzione anche materiale delle chiese (…) attraverso le immagini si propagavano le idee12.

Occorreva provvedere al ripristino di tante chiese dell’Italia meridionale che erano andate distrutte durante le incursioni saracene e le lotte fra i potentati locali. L’orientamento dei vescovi delle diocesi meridionali presenti ai sinodi di Benevento e di Siponto era favorevole a che la ricostruzione degli edifici non avvenisse in maniera fedele alla primitiva ma a che esse fossero munite di locali destinati alla comunità clericale. Il 6 marzo del 1059 papa Niccolò II aveva elevato l’abate cassinese al titolo di cardinale presbitero di S. Cecilia in Trastevere, lo aveva introdotto nel Collegio Cardinalizio e lo aveva investito della carica 9

COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., pp. 154-155. Cfr. BRENK B., Das Lektionar des Desiderius von Montecassino. Ein Meisterwerk italienischer Buchmalerei des 11. Jahrhunderts, Zürich 1987; IDEM, Il significato storico del Lezionario di Desiderio Vat. Lat. 1202, in L’età dell’abate Desiderio. II. La decorazione libraria, Atti della Tavola rotonda a cura di CAVALLO G., (Montecassino 1987), Montecassino 1989, pp. 25-39. 11 Cfr. BLOCH H., Monte Cassino in the Middle Ages, I, Cambridge, Massachussetts 1986. 12 CILENTO N., L’opera di Desiderio abate cassinese e pontefice per il rinnovamento della chiesa dell’Italia meridionale nell’età gregoriana, in L’età dell’abate Desiderio. III, cit., pp. 153-168, in part. pp. 164-165. 10

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IL MOMENTO STORICO

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di vicario papale per l’Italia meridionale, affidandogli il compito di sovrintendere ai monasteri siti nei Principati di Salerno e Benevento, nella Puglia e nella Calabria:

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per la correzione di tutti i monasteri (…) affinché in essi vi sia il capitolo e al suo posto con l’aiuto dei vescovi li corregga e vi ponga rimedio13.

Fra i numerosi convenuti alla solenne dedicazione della grandiosa chiesa abbaziale di Montecassino (1 ottobre 1071) v’erano i rappresentanti degli episcopati di Puglia, numerosi monaci con i loro abati e i Normanni, tra i quali risultava assente il Guiscardo che era impegnato con il figlio Ruggero nell’assedio di Palermo. La dedicazione presentò Montecassino come il presidio più affidabile del papato riformatore e della Chiesa romana nell’Italia meridionale. Dal canto loro i Normanni erano destinati a diventare i più strenui difensori del cenobio benedettino. Come scrisse Leone di Ostia, essi ebbero caro e protessero Montecassino più di tutti gli uomini di quel tempo e furono straordinariamente amichevoli, leali e fedeli a Desiderio per l’intera sua vita14.

Tra il 1071 e il 1080 molte difficoltà pregiudicarono l’avvio di collaborazione che era parso prefigurarsi alla dedicazione di Montecassino. Il peggioramento dei rapporti tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV incrinò il sistema di alleanze per il quale Desiderio si era speso. Nel Sinodo di Worms del 1076 Enrico IV fece dichiarare indegno della tiara il pontefice che a sua volta reagì con un provvedimento inaudito, scomunicando e interdicendo l’imperatore. Anche le relazioni del papato coi Normanni si fecero critiche e il Guiscardo ricevette tre anatemi. Il quadro fu reso ancora più torbido dalle divisioni sorte in seno ai Normanni di Puglia e di Capua che impedirono a Desiderio il sereno mantenimento dei contatti con essi. Le cose peggiorarono ulteriormente negli anni successivi al 1080. L’imposizione della seconda scomunica di Enrico da parte di Gregorio VII rappresentava una seria minaccia agli equilibri dell’Italia meridionale. Enrico replicò

13 Ivi, citazione p. 162: “ad correctionem omnium monasteriorum … ut capitulum in eis habeat et vice sua cum adiutorio episcoporum ea corrigat et emendet”. Cfr. Enciclopedia dei papi, s.v. Vittore III, cit.; DE LACHENAL L., I Normanni e l’antico: per una ridefinizione dell’abbaziale incompiuta di Venosa in terra lucana, Roma 1996, p. 7/2. 14 COWDREY, Desiderio abate di Montecassino, in L’età dell’abate Desiderio, cit., pp. 17-32, cit., pp. 18-20; IDEM, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 156.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

con una nuova deposizione del papa e nel sinodo di Bressanone del 1080 pose le premesse per la situazione che sfociò nel 1084 con la dipartita di Gregorio da Roma, l’insediamento dell’antipapa Clemente III e la sua incoronazione imperiale. Sullo scenario incombeva inoltre la minaccia di uno scisma. Vi era tuttavia un elemento positivo. Nel giugno del 1080 Giordano di Capua e Roberto il Guiscardo avevano giurato fedeltà a Gregorio VII a Ceprano, a conclusione dei negoziati ai quali aveva partecipato anche l’abate di Montecassino, nel tentativo di ricostituire la cooperazione che Desiderio aveva sempre caldeggiato fra papato, Montecassino e nuovi dominatori. Ma i vantaggi per Montecassino furono notevolmente ridimensionati dagli interessi del Guiscardo per le sorti dell’impero bizantino e dai dissidi frequenti che insorgevano spesso tra i signori normanni15. Gli ultimi due anni di vita di Desiderio, dalla scomparsa di papa Gregorio VII nel 1085, fino alla sua morte avvenuta nel 1087, rappresentano il periodo di più complessa comprensione. La valutazione del suo operato è stata condizionata dal parere quasi univoco espresso dalla storiografia allineata sulle posizioni di Augustin Fliche, che nel 1924 formulò un giudizio negativo sull’abate cassinese, ritenuto indifferente ai grandi problemi che si ponevano dinanzi al papato riformatore di fine secolo. Fliche insinuò che Desiderio avesse agito nell’interesse del proprio monastero cercando l’appoggio delle armi normanne che si rivelarono determinanti per la sua elezione inattesa. Desiderio non esitò a stringere alleanza con i Normanni, definiti empi predatori da papa Leone IX, e a scendere con essi a compromessi che papa Gregorio VII avrebbe disapprovato. Nell’esercizio del mandato papale egli si dimostrò inoltre incerto e incapace di proseguire l’opera riformatrice del suo predecessore16. Al contrario Cowdrey ritiene che il parere sugli estremi anni di Desiderio debba essere profondamente rivisto. Egli non ravvisa contraddizioni nelle ultime azioni di Desiderio, che nel 1085 si impegnò alacremente per mettere in atto quanto Gregorio VII aveva disposto in punto di morte. La sua contrastata nomina al seggio petrino fu il frutto delle divergenze esistenti nel clero romano riformato in merito allo svolgimento delle elezioni papali. Il rifiuto della tiara fu portato avanti da Desiderio fino a quando egli non ebbe la certezza di poter

15

COWDREY, Desiderio abate di Montecassino, cit., pp. 21, 25-26. FLICHE A., Le pontificat de Victor III (1086-1087), in “Revue d’Histoire Ecclésiastique”, 1924, rist. Nendeln/Liechtenstein 1967, pp. 387-412. 16

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IL MOMENTO STORICO

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contare sul sostegno di quegli esponenti ecclesiastici e politici, soprattutto i Normanni, che gli rendessero possibile espletare la sua azione di governo. Infine, nonostante gli impedimenti derivanti dalla salute malferma, dopo la consacrazione egli riuscì a esercitare il suo mandato, saldando il divario fra l’illustre antecessore e il dinamico erede. Non c’è dubbio che giudizi del XIX e XX secolo travisarono il contributo di Desiderio durante il suo breve possesso dell’ufficio papale. (…) Soltanto quando si giungerà ad una soluzione noi saremo in grado di fare di più di una ricostruzione provvisoria del pontificato di Vittore. Ma noi possiamo essere onestamente certi che il risultato finale renderà onore a Vittore come un vero anello tra il suo predecessore papa Gegorio VII e il suo successore Urbano II, e mostrerà che l’attività di Desiderio abate di Montecassino e di papa Vittore III è stata la stessa17.

3. Politica ecclesiastica a Bari Correva l’anno 1058. Papa Stefano IX, anch’egli membro della comunità cassinese, che aveva come stretti collaboratori Pier Damiani, Ildebrando di Soana, Anselmo da Baggio e Desiderio, incaricò quest’ultimo di recarsi in missione a Costantinopoli. Gli argomenti da trattare in quella sede riguardavano la problematica relativa allo scisma cerulario e il reperimento delle risorse da destinare alla causa della libertà della Chiesa. Desiderio fece tappa a Bari. Qui fu ospitato nell’abbazia di S. Benedetto, retta dall’abate Leucio, ove si trattenne in attesa delle condizioni propizie per affrontare il viaggio in mare. In questa circostanza ebbe modo di illustrare ai monaci del cenobio barese gli sviluppi del movimento riformatore. Alcuni eventi modificarono però il suo programma. Il 7 aprile egli apprese che Stefano IX era morto ed era stato eletto illegittimamente l’antipapa Benedetto X. Desiderio fu urgentemente convocato a Montecassino18. Già dal 1057 papa Stefano IX, seriamente ammalato, aveva chiesto ai monaci di Montecassino di eleggere un abate designato che sarebbe subentrato in carica in occasione del suo decesso. I monaci scelsero Desiderio. Alla morte di Stefano, avvenuta il 29 marzo 1058, Desiderio fu elevato alla carica abbaziale di Montecassino19. 17

COWDREY, Desiderio abate di Montecassino, cit., pp. 31-32. NITTI DI VITO, La ripresa gregoriana, cit., pp. 42-43; cfr. COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 151. 19 COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 155. 18

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Nel monastero di S. Benedetto, il più importante di Bari e fra i principali della Puglia, aveva fatto “carriera” il benedettino Elia, prima di affermarsi come assoluto protagonista degli eventi futuri connessi all’arrivo delle reliquie di san Nicola a Bari. In un primo momento egli era stato abate di S. Maria, un complesso benedettino o forse una semplice chiesa monastica di cui sono andate perdute le tracce20. Nel marzo del 1071, quando ancora infuriava l’assedio del Guiscardo alla città, Elia fu accolto nel cenobio di S. Benedetto, in qualità di successore del vecchio superiore, Leucio. Le modalità con cui avvenne la “promozione” di Elia ad abate sono assai significative. Lo stesso Leucio invitò Elia a sostituirlo nella carica abbaziale: Quindi mi distesi nella sopraddetta chiesa di santa Maria e cominciai a pregare il predetto Elia abate della stessa chiesa affinché per amore di dio venisse in aiuto della vecchiaia e dell’imbecillità e prendesse il governo del nostro cenobio21.

Per volere di Leucio fu stilato un documento che fu siglato sia dai suoi monaci sia dalle autorità legittime che erano ancora bizantine22. Elia venne dunque insignito del titolo abbaziale nel marzo del 1071, circa un mese prima che Guiscardo espugnasse la città. Dopo un lungo assedio che si protraeva dal 1068, il Normanno riuscì a entrare a Bari il 15 o il 16 aprile del 107123. La nomina di Elia a guida del monastero di S. Benedetto avvenne proprio nel momento di passaggio tra il vecchio ordinamento bizantino e il nuovo esecutivo normanno. A parer mio si può supporre che tale circostanza non fu casuale. Probabilmente si trattò di una nomina concordata tra i vertici ecclesiastici e i nuovi signori. Tenuto conto degli eventi passati e futuri, può 20

Monasticon Italiae, cit., p. 33. Codice diplomatico barese, IV, Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo greco (939-1071), a cura di NITTI DI VITO F., Bari 1900, n. 45, pp. 89-92: “Deinde porrexi in supranominata ecclesia sancte Marie predictumque Heliam ipsius ecclesie abbatem cepi rogare ut dei pro amore mei subveniret senectuti et imbecillitati cunctique nostri cenobii susciperet regimen”; Monasticon Italiae, cit., p. 33. 22 NITTI DI VITO, La ripresa gregoriana, cit., p. 56. 23 LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., p. 44; trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 147: “Anno 1069. mense Septembris prædictus Dux obsedit Barum (…) Anno 1071. (…) fecit fieri pontem in mari, quantus concluderet portum prædictum urbis Bari (…) 15. die Aprilis cepit Robertus Dux civitatem Bari.” (Anno 1069 A settembre il duca assediò Bari (…). Anno 1071 (…) fece costruire un ponte sul mare, tanto grande da chiudere il porto della città di Bari. (…) Il 15 aprile il duca Roberto prese la città di Bari). Cfr. MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., p. 30. 21

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indicare una linea politica coerente, all’insegna della collaborazione tra le gerarchie politiche e religiose che di lì a poco avrebbero preso le redini della città: i Normanni e i Benedettini. È mia intima convinzione che dopo la presa di Bari, Roberto il Guiscardo abbia ideato un piano volto alla riqualificazione della città. In tal senso va interpretata la decisione presa dal duca normanno, alla fine del giugno 1079, di intercedere presso papa Gregorio VII affinché Ursone, già vescovo di Rapolla, fosse traslato nella sede di Canosa e Bari. In questo modo il Guiscardo intendeva forse creare le condizioni per una ristrutturazione degli assetti politico-religiosi di Bari in considerazione dell’importanza che la città aveva assunto sul piano strategico. L’insediamento di Ursone nella sede barese avvenne però solo il 3 agosto del 1080, dopo che fu sedata la ribellione capeggiata da Argirizzo24. Dalle fonti apprendiamo che Ursone era intimo del Guiscardo: Ai tempi dell’arcivescovo Ursone che prima era stato vescovo di Rapolla, e poi per il volere e l’autorità del duca Roberto fu ordinato arcivescovo dal papa Gregorio, detto anche Ildebrando, e trasferito alla Chiesa Barese (…). [Ursone] infatti era intimo e partecipe di quasi tutti i maggiori affari e consigli di stato del duca Roberto, poiché questi lo aveva trovato fedelissimo nelle sue iniziative diplomatiche e lo aveva impiegato come Apocrisario in qualche ambasceria. Infatti spesso lo aveva delegato presso il predetto papa, e lo aveva mandato in Spagna quando aveva dato in moglie sua figlia al conte di Barcellona. Egli, con molto seguito e sontuoso apparato, aveva accompagnato quest’ultimo per confermare le nozze, fino a questa città che era sotto il dominio del duca. Inoltre, nel corso di quasi tutto l’anno, a cavallo, accompagnava il duca ovunque andasse, poiché, per le cose fin qui riportate, come per altre, il duca voleva che gli stesse vicino, desiderava, come abbiamo notato, averlo partecipe nei suoi affari. Perciò molto raramente veniva al suo episcopio: in occasione della Pasqua o nella festività del Natale del Signore, o in alcuni brevi periodi dell’anno, senza però fermarsi a lungo, ma solo per tre o quattro giorni o al massimo per una settimana. In tal modo, col passare del tempo, affaticato e inquieto, come egli stesso ci riferì, aveva vissuto quasi ininterrottamente con l’impegno di molti lavori e viaggi, come doveva chi voleva servire e riuscir gradito ad un così gran duca. Finalmente, per pregare, era partito alla volta di Gerusalemme per venerare il sepolcro del Signore, e nello stesso anno [1089] tornò a Bari, e trascorso un po’ di tempo andò a Canosa, ove

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ANONIMO BARESE, Chronicon, cit., p. 153: “Mill. LXXX. Ind. III.(…) Urso Archiepiscopus intran. in sede Barina die III. intrante mense Augusti” (1080 ind. III. (…) L’arcivescovo Ursone entrò nella sede barese il 3 di agosto); trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., pp. 236-237. Cfr. MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., p. 32.

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ammalatosi morì e fu sepolto il 14 febbraio. Come arcivescovo di Bari qui visse nove anni e otto mesi25

Il sodalizio fra la famiglia ducale e il prelato non venne meno neanche dopo la morte del Guiscardo. I suoi figli Boemondo e Ruggero e la sua seconda moglie Sikelgaita furono sempre prodighi di doni e privilegi nei confronti di Ursone e del suo episcopio26. Poco convincente appare dunque il ruolo convenzionalmente attribuito all’arcivescovo Ursone, il quale avrebbe voluto, vi vel dolis, appropriarsi delle reliquie di san Nicola, tanto da rendere necessaria la scorta armata del partito dei traslatori per evitare una sottrazione illecita delle medesime. Tale pregiudizio deriva dalla versione dei fatti riferita dalla Translatio di Niceforo e dalle sue derivate, mentre è del tutto assente nella Translatio dell’arcidiacono Giovanni e in quella di Kiev. Si è già accennato alle ragioni che sconsigliano di considerare la Translatio di Niceforo un resoconto attendibile. Esse sono due. La prima è di carattere generale e investe la natura stessa delle translationes che ricerche specialistiche hanno dimostrato essere piuttosto dei testi agiografici, costruiti a scopo liturgico, che venivano modellati secondo stereotipi di “genere”27. La seconda riguarda il caso specifico, poiché è lecito sospettare che la Translatio di Niceforo sia 25 IOANNE ARCHIDIAC. BARENSI, Historia Inventionis s. Sabini Episc. Canusini, in AA. SS., Februarius II, pp. 329-331: “Temporibus Ursonis Archiepiscopi, qui prius fuerat apud Rapollam episcopus, sed postea per potentiam et voluntatem Ducis Roberti a Papa Gregorio, qui et Ildebrandus dictus, ad Ecclesiam Barensem traductus fuerat Archiepiscopus ordinatus est (…) [Urso] erat namque maiorum causarum fere omnium Ducis Roberti et consiliorum intimus et particeps, quia et fidelissimus sibi suis in negotiis iam et probatum habebat aliqua in legatione Apocrisarium. Nam et frequenter ad prædictum Papam legaverat, et in Hispaniam illum miserat, quando filiam suam Comiti Barzellonensi nuptui dederat. Quem de suæ provinciæ regno pro nuptiis confirmandis usque in terram istam, quæ sub eius erat dominio, cum multo comitatu et apparatu sumptuoso conduxerat. Præterea eodem Duce quocumque ibat, equitabat, fere totius anni per spatium, quoniam pro his quæ retulimus et aliis prope se illum volebat degere, suisque in negotiis, ut prænotavimus, habere participem. Rarissime igitur suum ad Episcopatum veniebat, aut in Pascha, aut in Solemnitate natalis Domini, aut in quibusdam paucis anni partibus, non tamen diu morabatur, sed tantum quatuor diebus, aut ad summum per septimanam. Hoc itaque modo transeunti per tempora, fatigatus et inquietus, sicut ipse nobis retulerat, sæpe multis bis sub laboribus et itineribus et sollicitudinibus, utpote qui tanto Duci servire ac perplacere volebat, vixerat. Tandem autem Hierosolymam, causa orationis, ad sepulchrum Domini profectus est, et in eodem anno exinde Barum redidit, et aliquanto transacto tempore, ivit Canusium, ibique infirmatus obiit, et sepultus est XVI Kalend. Martij. Hic vixit in archiepiscopatu Bariensi annis novem et mensibus octo”; trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache di Terra di Bari, cit., pp. 257-260. 26 MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., p. 32. 27 GEARY, Furta sacra, cit.

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più tarda di quella dell’arcidiacono Giovanni e non sia contestuale all’evento narrato. L’opinione sull’operato dell’arcivescovo Ursone è stata anche inficiata dal suo presunto vibertismo che, come studi più recenti hanno illustrato, sembra un pretesto del tutto inconsistente e privo di ragion d’essere. Tale interpretazione storiografica, basata su due affermazioni di Lupo Protospata il quale, contrapponendo Vittore III e Urbano II all’antipapa Clemente III, avrebbe dato l’impressione di riconoscere quest’ultimo come legittimo, è stata energicamente rifiutata da Pertusi con convincenti argomentazioni28. Dopo aver sgomberato il campo da false questioni, sembrerebbe logico interpretare i fatti di Bari come il risultato di una strategia. La traslazione di san Nicola non fu un fatto isolato. In quel periodo il valore attribuito alle inventiones, alle translationes dei campioni della fede e alle imprese artistico-architettoniche ivi connesse rientrava in una problematica attestata su larga scala. Non si trattò di uno scontro fra il vescovo, i traslatori e i ceti cittadini ma di un accordo preso dalle autorità politiche e religiose in vista di finalità condivise: la riorganizzazione della diocesi di Bari. Era interesse di tutti, dei Normanni, della cerchia papale, dell’arcivescovo, dei Benedettini e dunque anche di Elia, inaugurare un nuovo corso. Bari era ora la sede di un nuovo potentato e di un arcivescovado che volevano rinsaldare la fedeltà alla Chiesa di Roma. Dietro questi eventi si può scorgere l’interesse della corte papale a estendere il controllo nei territori che Guiscardo aveva sottratto ai Bizantini.

4. La rinuncia di Desiderio Nel periodo successivo alla dipartita di papa Gregorio VII, avvenuta a Salerno il 25 maggio del 1085, Roma e l’Italia presentavano un quadro di instabilità politica. In Italia meridionale il Guiscardo lasciava una successione difficile. Alla sua morte, nel luglio del 1085, scoppiò un dissidio profondo tra i suoi eredi29. I due contendenti erano Boemondo, il primogenito gene28

Cfr. capitolo I, § 4. Studi sulla fondazione della basilica di S. Nicola. LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., p. 46, trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 152: “Anno 1085 (…) mense Maji prædictus Papa Gregorius dum Salerni moraretur, diem clausit extremum (…) Mense Iulii dum jam dictus Dux (…) ob quandam civitatem capiendam in Cephalonia moraretur Insula, ipse autem in prædicto loco cum parte exercitus 29

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rato dalle nozze con Alberada di Buonalbergo, e Ruggero Borsa, avuto dalla seconda moglie Sikelgaita. Costei, che era nata a Salerno dal principe Guaimario IV della dinastia dei Longobardi spoletini, si era unita in matrimonio al Guiscardo dopo il ripudio della prima consorte di stirpe normanna. Sikelgaita, che tra l’altro era molto devota a san Nicola, mantenne sempre vivi i legami con i papi, i vescovi e l’abate Desiderio, al quale era legata da vincoli di parentela e di familiarità30. Per sua espressa volontà fu sepolta nell’abbazia di Montecassino. Come successore alla carica ducale fu designato il figlio minore Ruggero, che all’epoca aveva venticinque anni. Ma questi dovette fronteggiare le rivendicazioni del fratellastro Boemondo. Seguì un periodo di incertezza in Puglia. Nel marzo del 1086 si pervenne infine a un patteggiamento in base al quale Ruggero Borsa cedeva in signoria a Boemondo un’area centro-meridionale della regione che successivamente andò a confluire nel principato di Taranto31. In questo tempo Bari rimase sotto il controllo del duca Ruggero Borsa sebbene alcuni documenti emessi nel marzo del 1086 rechino indizi della reggenza de facto esercitata da Sikelgaita dux nelle veci del figlio fino al maggio del 1086 quando, sulla base di un accordo siglato con Boemondo, la madre si trasse in disparte e Ruggero assunse il governo. Verso la fine dell’estate del 1087 Boemondo ingaggiò una nuova sfida mediante la quale riuscì, nel 1089, a subentrare alla guida di Bari che resse fino alla morte, avvenuta nel marzo del 1111, nonostante gli eventi che lo videro protagonista sulla scia delle crociate lo tenessero spesso lontano dalla città. La precarietà degli equilibri politici non mancava di produrre effetti inquietanti sulle aspettative papali. La situazione era resa critica dal fatto che Ruggero Borsa aveva trovato un alleato nello zio, il conte Ruggero I di Sicilia, che non godeva di buone relazioni col papato e avrebbe potuto esercitare un condizionamento negativo sul comportamento del nipote. L’instabilità in Puglia fu aggravata da una nuova resideret, præparans se qualiter cum grandi apparatu navium, & militum innumera multitudine ad Regiam tenderet navigio civitatem (…) extinctus est”. (Anno 1085 (...) A maggio di questo anno papa Gregorio, mentre dimorava a Salerno, concluse il suo estremo giorno (…) Nel mese di luglio, mentre (…) il suo esercito dimorava nell’isola di Cefalonia per conquistare una città, e lui stesso si era fermato in quel luogo con parte dell’esercito, preparandosi con un enorme contingente di navi e soldati ad assediare la città regia [Costantinopoli], il duca morì). Cfr. ANONIMO BARESE, Chronicon, in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 238; GUGLIELMO APULO, Historicum poema, cit., p. 277. 30 MEMORI APICELLA D., Sichelgaita tra Longobardi e Normanni, Salerno 1997. 31 MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., p. 33; cfr. COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 218.

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frattura nel fronte normanno. Nel 1085 Boemondo aveva invocato l’aiuto di Giordano di Capua contro le pretese di Ruggero Borsa. Giordano era divenuto il più potente dei principi della penisola ma le sue credenziali presso il papato non erano scevre da alcune ambiguità32. Anche le vicende che riguardarono l’elezione di Desiderio alla cattedra di S. Pietro furono assai travagliate. Dal punto di vista del papato romano, la successione al pontificato di Gregorio VII avveniva in una fase storica movimentata. Erano ancora vivi i segni della lotta accanita tra Gregorio VII ed Enrico IV che aveva portato all’elezione del vescovo di Ravenna, Viberto, come antipapa col nome di Clemente III. Lo scisma vibertino non accennava ancora a spegnersi e a Roma si contavano diversi seguaci di Viberto, soprattutto nelle fila dei cardinali presbiteri. Sempre a Roma, il partito del papa poteva invece fare affidamento sulla lealtà del prefetto Cencio e della sua famiglia, i Frangipane, e di gran parte dei cardinali vescovi. Sembra che, in punto di morte, il papa avesse indicato tra i probabili successori il vescovo Anselmo II di Lucca, il vescovo Odo di Ostia e l’arcivescovo Ugo di Lione. La notizia che anche Desiderio fosse incluso nella rosa dei candidati viene ritenuta poco attendibile. Ma nel marzo del 1086 scompariva Anselmo II, considerato il personaggio più idoneo a rivestire la carica papale. Il 24 maggio del 1086, dopo una riunione concitata, Desiderio di Montecassino fu eletto papa col nome di Vittore III. Le ragioni di questa scelta possono essere individuate nell’impegno profuso dall’abate a sostegno della causa gregoriana, che fin dai tempi di Niccolò II gli era valso la nomina a cardinale presbitero di S. Cecilia in Trastevere e a delegato papale per la sovrintendenza ai monasteri dei principati di Salerno e Benevento, della Puglia e della Calabria. Il clero e la nobiltà romana fedeli al partito gregoriano dovettero inoltre valutare, quali strumenti utili alle sfide che si ponevano dinanzi al papato riformatore, l’ingente patrimonio di Montecassino e le aderenze di Desiderio nel ceto normanno. Comunque Desiderio non accettò l’investitura, rifiutò le vesti papali, lasciò Roma, si trasferì a Montecassino e giunse persino a proporre candidature alternative alla propria. Egli temeva forse di dover fronteggiare l’astio degli ultragregoriani, guidati da Ugo di Lione, che non avevano apprezzato le sue passate relazioni con Enrico IV. Desiderio era inoltre consapevole di non poter fare affidamento su un 32

COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 218.

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valido sostegno militare, dal momento che il duca di Puglia, Ruggero Borsa, adirato per la mancata nomina del suo raccomandato alla carica vescovile di Salerno, stava mettendo in crisi la tradizionale fedeltà normanna alla causa papale33.

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5. Desiderio, papa di maggio La situazione si avviò a una soluzione nel marzo del 1087, in occasione di un concilio tenutosi a Capua, al quale convennero Vittore III, illustri membri del partito gregoriano di Roma, il prefetto romano Cencio, il principe Giordano di Capua e il duca di Puglia Ruggero Borsa. Secondo la Cronaca di Montecassino, al termine dell’adunanza venne risollevata la questione relativa alla nomina papale. La domenica delle palme del 1087, dopo aver indugiato per due giorni, Vittore III si mostrò infine propenso a confermare l’elezione del maggio 1086 e ad assumere di nuovo le insegne papali34. Diversi elementi indussero Vittore III a prendere questa decisione. Una circostanza era rappresentata dal rinnovato dinamismo degli scismatici che minacciavano il ritorno di Viberto a Roma. Un’altra dal fatto che si registrava una minore compattezza nello schieramento ultragregoriano, dove alcuni transfughi, come Odo di Ostia, erano confluiti nella coalizione contraria. Non ultima v’era la considerazione del mutato equilibrio del fronte normanno che ora poteva garantire un sostegno militare adeguato, poiché Ruggero Borsa era stato finalmente soddisfatto per l’elezione del suo protetto alla sede di Salerno35. La situazione relativa agli anni 1086-1087 viene descritta in modo magistrale da Cowdrey. La sua trattazione non si limita a registrare le vicende a fatti avvenuti ma, dismessi solo apparentemente i panni dello storico, si cala nei panni del cronista. La digressione che egli dedica alle sessioni non ufficiali del concilio di Capua, in particolare ai colloqui privati intercorsi tra Desiderio e Ruggero di Puglia durante la notte che precedette l’accettazione del mandato papale sono, a parer mio, illuminanti. Solo se non si avranno remore (alias pregiudiziali e rigidità accademiche) a interpretare le motivazioni più recondite dei

33 34 35

Enciclopedia dei papi, s. v. Vittore III, cit., pp. 217-221. Ibidem. Ibidem.

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protagonisti si può sperare di comprendere le ragioni che convinsero Desiderio ad accettare l’investitura papale. È mia intima convinzione che dai patteggiamenti e dagli scambi di opinioni tra Desiderio e Ruggero Borsa sia scaturito anche il proposito di promuovere la traslazione di san Nicola da Myra a Bari. Ruggero Borsa e Sikelgaita non vedevano di buon occhio l’ascesa del principe Giordano di Capua, reo di aver prestato sostegno al fratellastro Boemondo e di godere di grande considerazione presso il partito gregoriano36. Essi non gradivano neppure il prestigio acquisito presso i riformatori dal loro avversario e consanguineo Gisolfo di Salerno. La conflittualità esplose nel 1086 a proposito della sede vescovile di Salerno. Alla successione della carica ricoperta fino all’8 ottobre del 1085 da Alfano I, Ruggero e Sikelgaita sostennero l’omonimo custos della chiesa di S. Massimo a Salerno. Ma alla candidatura di tale Alfano era contrario il principe Gisolfo di Salerno. Cosicché quando i cardinali romani, assecondando le pretese di quest’ultimo, negarono la consacrazione ad Alfano, Ruggero Borsa e Sikelgaita per vendicare lo smacco rimisero in libertà il prefetto imperiale Wezilo. A costui, che era stato catturato dal Guiscardo nel 1084, fu restituita la facoltà di battersi a vantaggio della fazione vibertina nell’Urbe, fino a che non lo colse la morte in battaglia tre anni dopo. In gioco v’era la tradizionale fedeltà dei Normanni alla causa gregoriana. La defezione dei duchi pugliesi e lo sgretolamento dell’asse normanno avrebbe comportato seri problemi al papato, come già era accaduto in passato durante il pontificato di Gregorio VII. Con mezzi illeciti, Wezilo riuscì a compattare una fronda contraria a Desiderio. Questi, probabilmente quattro giorni dopo la data della sua elezione (27 maggio), fu obbligato ad abbandonare Roma per dirigersi alla volta di Ardea e poi di Terracina. Pare che a questo punto, dopo aver rifiutato le insegne papali, egli abbia deciso di ritirarsi a Montecassino. Secondo Cowdrey questo resoconto è utile a chiarire le motivazioni che spinsero Desiderio a rifiutare l’investitura papale, che non paiono imputabili a bizzarria o a pavidità ma ai rivolgimenti dei Normanni di Puglia. Diversi fattori dovettero contribuire a rendere la situazione scabrosa per Desiderio che come sempre mirava a ottenere l’appoggio dei Normanni di Capua e di Puglia. In quel momento Ruggero Borsa si trovava a Palermo alla corte del conte Ruggero I che era stato uno dei suoi principali sostenitori alla morte del Guiscardo. 36

COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., pp. 231 e ss.

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Egli era inoltre assai amareggiato per la questione della successione alla sede salernitana. Occorre considerare che nell’XI secolo i papi, a fronte di impedimenti presenti a Roma, non erano ancora avvezzi a svolgere le loro mansioni da lontano, cosa che diverrà più consona nel secolo successivo. Probabilmente Desiderio, conscio di non poter contare sulla lealtà dei Romani e dei Normanni e di non poter disporre di un efficace sostegno contro le rivendicazioni dei Vibertini, valutò che fosse più producente alla causa gregoriana agire da Montecassino fino a quando non fosse stato possibile imporre la sua supremazia a Roma. Le fonti principali sul Concilio di Capua sono due e presentano differenze vistose: due missive scritte dall’arcivescovo Ugo di Lione alla contessa Matilde di Canossa e la Cronaca di Montecassino. Per la Cronaca di Montecassino il concilio di Capua si tenne a metà Quaresima, cioè verso il 7 marzo. Vi partecipò il principe Giordano e si ottenne anche l’intervento del duca di Puglia, Ruggero Borsa, con grande stuolo di seguaci. Le due fonti convergono sul fatto che Desiderio accettò l’investitura papale la domenica delle Palme. Ma sul tappeto restava ancora la controversia relativa al seggio vescovile di Salerno. Il principe Gisolfo si era dichiarato categoricamente contrario alla consacrazione di Alfano, favorito da Ruggero Borsa e Sikelgaita. Di parere avverso erano pure Ugo di Lione e Odo di Ostia, futuro papa Urbano II. Ugo di Lione riferisce che, alla vigilia della domenica delle Palme, Desiderio aveva accondisceso ad accettare la dignità pontificale. Doveva però ancora far fronte alla caparbia inimicizia dimostratagli da Ugo, dai suoi amici francesi e, nella fase iniziale, anche da altri fra cui Odo di Ostia. La situazione mosse Desiderio a opporre una nuova rinuncia. Dopo di che la seduta fu tolta e si formarono piccoli crocchi. Volgeva sera inoltrata. Ugo racconta che di lì in seguito i nodi più importanti furono sciolti in modo contrario ai suoi desideri in negoziati segreti. Per prima cosa, Ugo e coloro che la pensavano come lui furono esclusi da ogni altra discussione; ma Desiderio tenne accanto a sé il duca Ruggero di Puglia e anche la figura chiave di Odo di Ostia, insieme a quelle di altri vescovi e cardinali romani. Poi fu risolta la questione dell’arcivescovo Alfano di Salerno. Malgrado le forti obiezioni di Odo di Ostia, Desiderio durante la notte negoziò privatamente con il duca Ruggero. Egli acconsentì a che Alfano fosse consacrato l’indomani (domenica

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delle Palme), in cambio il duca accettò di sostenere la sua candidatura. Questo permise a Desiderio di avere il sostegno del duca di Puglia e del principe di Capua. Fortificato dall’unità normanna che fu sempre centrale nel suo pensiero politico, Desiderio poteva finalmente accettare l’incarico papale37. La Cronaca di Montecassino riporta che, affrontate le problematiche più importanti, con l’appoggio dei Normanni ora coesi, Vittore III poté fare ritorno a Montecassino per trascorrervi la Pasqua (28 marzo 1087). Di lì a poco egli si recò a Roma, forte della scorta prestatagli da Giordano di Capua e Gisolfo di Salerno. Non ci è dato sapere se questi avesse accettato la consacrazione di Alfano senza grandi affanni oppure, come Odo, avesse fatto buon viso a cattiva sorte. Vittore III varcò il Tevere nei pressi di Ostia e, nonostante fosse gravemente malato, piantò l’accampamento fuori della città leonina che era presidiata dai fautori dell’antipapa Viberto. Dopo che i Normanni suoi alleati ebbero strappato S. Pietro ai Vibertini, il 9 maggio del 1087, la domenica successiva all’Ascensione, nello stesso giorno in cui giunsero le ossa di san Nicola da Myra a Bari, Vittore III fu consacrato papa da Odo di Ostia e da altri tre vescovi. Secondo la Cronaca di Montecassino Vittore III rimase a Roma all’incirca per otto giorni, poi ritornò a Montecassino38. Successivamente il papa decise di rientrare a Roma che lasciò probabilmente dopo la metà di luglio. Sulla via per l’abbazia egli consacrò la chiesa della dipendenza cassinese di S. Nicola in Pica. Verso la fine di agosto si recò a Benevento dove tenne un concilio a cui intervennero vescovi di Puglia, di Calabria e del Principato. Durante i lavori del concilio le sue condizioni di salute precipitarono. Tre giorni dopo la chiusura dell’adunanza egli fece urgente ritorno a Montecassino dove il 16 settembre del 1087 esalò l’ultimo respiro. La Cronaca di Montecassino narra che Vittore III, in punto di morte, fece il nome di Odo di Ostia come colui sul quale i gregoriani potevano far conto affinché fosse portato avanti quanto da lui intrapreso39. Il pontificato di Vittore III era l’anello fra quello di Gregorio VII e quello di Urbano II.

37 38 39

Ivi, p. 242. Ivi, p. 243. Ivi, p. 250.

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6. Urbano II Eudes, Oddone, Oddo, Odo, poi papa Urbano II, nacque nella castellania di Châtillon-sur-Marne intorno al 1035. Dopo aver compiuto gli studi ecclesiastici presso la cattedrale di Reims e averla servita in qualità di canonico e arcidiacono, decise, intorno al 1070, di entrare a Cluny, dove rivestì la carica di gran priore sotto la reggenza dell’abate Ugo di Semur. Tra il 1070 e il 1080, Odo fu inviato a Roma dall’abate Ugo, al quale papa Gregorio VII aveva richiesto “uomini saggi” che potessero affiancarlo nell’opera di riforma della Chiesa. Nel 1080 il pontefice lo fece cardinale vescovo di Ostia. Sembra che Odo facesse parte della cerchia dei consiglieri più stretti di Gregorio VII. Alla morte di questi, Odo era uno dei candidati alla successione papale ma i cardinali designarono Desiderio abate di Montecassino. Non è del tutto chiara la condotta tenuta da Odo nelle vicende che riguardarono l’assunzione del mandato papale da parte di Desiderio. Nonostante il dissenso manifestato da Odo su varie questioni, Desiderio lo tenne vicino a sé durante alcuni passaggi delle trattative con Ruggero Borsa che si mostrarono risolutive per motivarlo ad accettare l’incarico papale. Odo fu uno dei quattro cardinali che il 9 maggio del 1087 consacrarono Desiderio papa col nome di Vittore III. Questi spirò il 16 settembre dello stesso anno indicando Odo come suo successore. Il 12 marzo del 1088, a Terracina, Odo fu eletto papa all’unanimità. Per sostenere il confronto con Enrico IV, consacrato imperatore a Roma dall’antipapa Clemente III nel marzo del 1084, Urbano II dovette ricorrere al sostegno del fronte normanno. Perciò scelse come piattaforma strategica il Meridione ove risiedette a lungo e compì diversi viaggi (quattro)40. Nel corso del primo viaggio il pontefice tenne un concilio nel settembre del 1089: A Melfi si tenne un sinodo di tutti i vescovi di Puglia, della Calabria e del Bruzio. Qui giunse anche il duca Ruggero con tutti i conti della Puglia e Calabria e delle altre province. E nel corso di questo sinodo fu stabilito che si osservasse la santa tregua di Dio da parte di tutti i vassalli. In quest’anno morì Ursone, arcivescovo di Bari e il papa Urbano venne a Bari ed ivi consacrò la confessione di san Nicola e l’arcivescovo 40

Enciclopedia dei papi, s. v. Urbano II, cit., pp. 222-227.

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IL MOMENTO STORICO

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Elia, mentre ancora viveva il suddetto Clemente antipapa; papa Urbano consacrò la cattedrale di Brindisi41.

A Melfi, Urbano II iniziò a esaminare la questione greca. La maggior parte del clero greco meridionale fu disponibile ad accettare l’autorità del pontefice in cambio del mantenimento del rito greco. Furono anche riattivati i contatti con Bisanzio42. Dopo aver riconciliato a Melfi i Normanni tra di loro e con la sede apostolica, Urbano II si recò a Bari per confermare i suoi sostenitori dell’Italia del sud. Al concilio di Clermont, nel novembre del 1095, Urbano II si fece interprete dell’appello che gli giungeva da parte dell’imperatore Alessio I Comneno, il quale invocava aiuto nella lotta contro i Turchi selgiuchidi. Il discorso che il pontefice pronunciò nel corso della riunione viene convenzionalmente considerato l’indizione della prima crociata. Taluni ritengono tuttavia che non fosse nelle intenzioni del papa bandire la crociata quanto piuttosto sensibilizzare i presenti sulle difficoltà in cui versavano i cristiani d’Oriente. In Urbano II fu costante il desiderio di riavvicinare le Chiese cristiane d’Occidente e d’Oriente43. Durante il suo ultimo viaggio nell’Italia meridionale, nel settembre del 1098, Urbano II tenne un concilio nella basilica di S. Nicola di Bari. Vi presero parte 185 vescovi, fra i quali Anselmo d’Aosta arcivescovo di Canterbury e Guglielmo di Malmesbury. Non si possiedono gli atti, ma alcune informazioni si desumono dalle descrizioni di Eadmer, segretario di Anselmo d’Aosta, di Guglielmo e da cenni che si ricavano da altre fonti, come l’Historia Ecclesiastica di Orderico Vitale. I temi principali della discussione verterono sulla questione inglese, lo scontro fra Guglielmo il Rosso e l’arcivescovo di Canterbury, e sulla questione greca, ovvero la possibilità di sanare lo scisma del 105444. 41 LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., pp. 46-47: “Anno 1089. facta est Synodus omnium Apuliensium, Calabrorum, ac Brutiorum Episcoporum in civitate Melfiæ, ubi affuit etiam Dux Rogerius cum universis Comitibus Apuliæ, ac Calabriæ, & aliarum Provinciarum, in qua statutum est, ut Sancta Trevia retineretur ab omnibus subjectis (102). Hoc anno obiit Ursus Barensis Archiepiscopus, & Papa Urbanus nomine, venit in civitatem Barum, & consecravit illic confessionem Sancti Nicolai, & Heliam Archiepiscopum, vivente adhuc prædicto Antipapa Clemente, & consecravit Brundusinam Ecclesiam prædictus Papa Urbanus”; trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 153; ANONIMO BARESE, Chronicon, cit., in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., pp. 238-239. 42 Enciclopedia dei papi, s. v. Urbano II, cit. 43 Ibidem. 44 LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., p. 48: “Urbanus congregavit universam synodum in civitate Bari, in qua fuerunt 185 episcopi”, cfr. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p.156; ANONIMO BARESE, Chronicon, cit., p. 155: “venit papa Urbanus cum

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Nitti Di Vito fa notare che la scelta di Bari come sede del concilio era giustificata da diversi fattori funzionali sia alla restaurazione del pontefice romano nel Mezzogiorno sia alla riunificazione delle due Chiese. A tal fine Urbano, basandosi anche sull’esempio del suo predecessore, cercò di valersi della collaborazione dei Normanni di Bari. La basilica di S. Nicola assumeva in quest’ottica un significato particolare. Per il possesso delle reliquie di un santo venerato anche in ambito bizantino, poteva accomunare il culto dei cristiani latini e orientali. Secondo lo studioso, Urbano II fu il primo pontefice che, dopo la scissione del 1054, prese a cuore la questione greca e la riconciliazione delle due Chiese. L’indizione della crociata e la convocazione del concilio di Bari sono consequenziali al medesimo presupposto: l’ausilio concesso dall’Occidente latino gregoriano all’Oriente greco antilatino. La ricomposizione dello scisma cerulario non ebbe buon esito45.

plures archiepiscopi et episcopi, abbatibus et commitibus intraverunt in Bari, et suscepti sunt cum magna reverentia, et praeparavit domino Helia nostro archiepiscopo mirificam sedem intus in ecclesia beatissimi Nicolay confessoris Christi. Et fecit ibi synodum per unam ebdomada” (Venne papa Urbano con numerosi vescovi, arcivescovi e abati e conti. Entrarono in Bari e furono accolti con grande deferenza; ed Elia, nostro arcivescovo, preparò una cattedra meravigliosa nella chiesa del beatissimo Nicola, confessore di Cristo. E tenne qui il sinodo per una settimana), trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 241. Cfr. MUSCA, CORSI, Da Melo al regno normanno, cit., p. 50. 45 NITTI DI VITO, La ripresa gregoriana di Bari, cit., pp. 371 e ss., 404-406.

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III.

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CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE

1. Santi, reliquie e sacri furti Il culto dei santi ebbe un ruolo centrale nelle coscienze degli uomini del Medioevo. Essi rappresentavano il perno della devozione religiosa che, come è noto, costituiva un aspetto primario della civiltà medioevale. Ma in quanto figure carismatiche assolvevano anche alle più svariate funzioni. Come catalizzatori dei sentimenti, delle aspirazioni, delle emozioni dei singoli e della collettività potevano favorire il processo di acquisizione di una identità comunitaria. Tutto ciò risultava propizio alle attività umane che ricevevano impulsi nella sfera politica, economica, culturale, delle relazioni sociali. Le spoglie mortali dei santi venivano considerate la loro personificazione immanente. Grazie ai loro resti essi erano sempre presenti nella comunità, alla quale assicuravano protezione e influssi benefici. La venerazione dei fedeli si riversò sulle reliquie che rimandavano alla Vita e alla Passione di Cristo, alla Vergine e al pantheon evangelico. Il culto delle reliquie divenne un fenomeno globalizzante, in grado di investire ogni aspetto della vita umana. Esse costituivano uno scudo protettivo dei membri della società nei confronti dei nemici e difendevano il loro benessere nella carne e nello spirito. Erano ricercate per il potere taumaturgico e per le virtù che venivano loro attribuite di proteggere, di intercedere, di operare miracoli, di convalidare giuramenti, di recare pace e di consacrare gli altari. Negli edifici ecclesiastici erano indispensabili come dotazione obbligatoria degli altari1, nelle

1 GEARY, Furta sacra, cit., p. 22, in epoca carolingia fu ripristinato il canone item placuit del V Concilio di Cartagine (401) che imponeva che tutti gli altari custodissero reliquie.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

chiese e nei tribunali venivano adoperate per la pratica dei giuramenti2 che assumevano valore se effettuati al di sopra di esse, in battaglia propiziavano la vittoria. Tale fu la rilevanza assunta dalle sacre reliquie che le traslazioni divennero un mezzo molto praticato per acquisirle. Il fenomeno non poté essere ignorato dai legislatori. La legge funeraria romana, la prima che si era occupata della questione e aveva improntato la giurisprudenza successiva, vietava il trasferimento dei corpi dei martiri. Ma nello stesso tempo, nelle località ove esse risultavano assenti si bramava di venirne in possesso. Ne seguì una crescita esponenziale di traslazioni con tutte le conseguenze negative connesse, come violenze, truffe e furti. Gregorio Magno, vescovo e protettore di Roma, vietò la traslazione non autorizzata dall’Urbe dei resti dei testimoni della fede. Anche Gregorio di Tours si oppose a tale mercimonio3. Il clero carolingio aveva preso coscienza dell’importanza dei santi nel consorzio civile e ne aveva incoraggiato il culto allo scopo di compattare e motivare la comunità. Aveva dato corso alle traslazioni di reliquie, soprattutto quelle provenienti dall’Italia, che venivano indirizzate verso la Francia e le altre regioni del dominio franco4. Benché il fenomeno relativo alle traslazioni sia stato piuttosto diffuso nel cristianesimo delle origini, esso crebbe a dismisura soltanto verso la fine dell’VIII secolo, quale esito dei mutamenti verificatisi nella società e nella religione franca. Ne derivò la volontà da parte della Chiesa carolingia di regolarizzare e dare disposizioni riguardo ai mezzi con cui rimuovere le reliquie. La legislazione relativa, in particolare il canone del Concilio di Magonza dell’813, che prevedeva che nessuna traslazione sarebbe dovuta avvenire senza l’autorizzazione del principe e/o del vescovo e il nullaosta del Santo Sinodo, tentò di stabilire le corrette procedure di controllo sulle traslazioni5. In teoria, dal IX secolo si differenziarono due modi, uno acconsentito e uno scorretto, di entrare in possesso di reliquie. In età carolingia, la valorizzazione delle reliquie assunse carattere programmatico. In unità d’intenti, i sovrani franchi e i grandi funzionari ecclesiastici, consapevoli dell’alto potenziale intrinseco alle 2 CITARELLA, WILLARD, Le reliquie e la loro disposizione nelle chiese di Montecassino, cit., p. 442 nota 4, la pratica di giurare sulle reliquie era già abituale quando Carlo Magno la prescrisse nelle leggi del Regno. 3 GEARY, Furta sacra, cit., 117-118. 4 Ivi, p. 34. 5 Ivi, p. 45.

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CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE

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reliquie, se ne servirono quali strumenti di propaganda politica. Carlo Magno si dedicò alacremente alla riforma del culto delle reliquie che, analogamente alla liturgia, all’educazione e alla revisione dell’istituto monastico, considerava una voce importante dell’esercizio del proprio potere. Forte di questo convincimento egli non deprecò le pratiche inerenti la venerazione di reliquie ma si adoperò scientemente affinché esse fossero ricondotte sotto l’egida del potere centrale e agissero quali leve di coesione spirituale e materiale. Egli si mosse in questa direzione allo scopo di rinsaldare la recente conversione degli Avari. La fede dei cristiani novelli poteva trarre alimento dagli spettacolari rituali relativi ai trasferimenti e alle deposizioni di reliquie. In questo senso l’imperatore carolingio mostrava di aver fatto proprio il monito di papa Gregorio Magno, il quale aveva predicato di porre sacre reliquie all’interno dei templi pagani da poco tramutati in chiese cristiane6. Con queste premesse si capisce perché nell’Europa carolingia fosse diventato fondamentale per ciascun monastero possedere reliquie. Erano necessarie per gli altari, per i giuramenti e per rinvigorire la devozione religiosa. Soltanto esse potevano garantire l’afflusso di torme di pellegrini e la pietà popolare7. Considerate dei veri e propri status symbol, decretavano il successo di una fondazione, alla quale conferivano autorevolezza in campo spirituale, prestigio, gloria e naturalmente vantaggi sul piano materiale. Il possesso di reliquie era dunque una necessità impellente e i mezzi per impadronirsene erano l’acquisto, il donativo, il rinvenimento e il furto8. Dalle testimonianze repertoriate emerge che, fino al declino dell’impero carolingio, i clienti abituali dei ladri di professione erano i grandi amministratori laici ed ecclesiastici: gli imperatori, i sovrani e gli alti prelati. Successivamente però la fisionomia dell’acquirente medio che faceva richiesta di reliquie rubate era destinata a mutare. Nell’XI e nel XII secolo la struttura dell’Europa era a carattere eminentemente rurale e il fulcro della vita religiosa non gravitava intorno alle cattedrali o ai palazzi del potere bensì ai monasteri di campagna. Numerosi monasteri europei si trovarono alle prese con le stesse esigenze. In questo senso, i casi rappresentati da poche e precoci città italiane – ad

6 7 8

Ivi, pp. 40-42. Ivi, p. 47. Ivi, p. 62.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

esempio Venezia e Bari – costituiscono per Geary un’anomalia nella problematica generale9. In conclusione si può affermare che i furti di reliquie, veri o presunti che fossero, erano dettati dal verificarsi di una o più circostanze concomitanti. La questione si imponeva in modo prioritario per le nuove istituzioni religiose. Se si considerano però le evoluzioni cui tali strutture erano sottoposte a seguito dei mutamenti della società – crescita demografica e rivolgimenti di altro tipo – si comprende come l’esigenza rimaneva di fatto persistente. Le rivalità in campo religioso ed economico potevano costituire ostacoli da superare mediante l’appropriazione di sacre spoglie, fonti apportatrici di potere e benessere. L’introduzione di un nuovo culto di un santo patrono implicava necessariamente l’acquisizione dei suoi resti. Tale operazione poteva incidere sul destino di un monastero, decretandone l’oblio o viceversa la vita futura. Una sacra reliquia poteva essere un efficace antidoto alle più svariate difficoltà10. In fatto di sacre spoglie vigevano gusti disparati. Nel IX secolo i Carolingi prediligevano i martiri da Roma e dall’Italia. I re anglosassoni ambivano a possedere resti di divinità derivate dal continente, dalla Bretagna e dalla Normandia. Nell’XI e nel XII secolo in Francia era decaduta la moda delle reliquie dei martiri di schiatta romana a vantaggio di quelle di divinità franche o di quanti avessero avuto contatti con i Galli romani o merovingi. Questo orientamento, che può essere messo in relazione col lievitare del sentimento di identità locale e con l’esigenza di istituire un vincolo tra la patria d’origine e le divinità apostoliche, iniziò con san Dionigi, che per tutta l’età di mezzo fu considerato allievo di san Paolo. Dopo il Mille, a diversi santi della chiesa primitiva fu assegnata una presenza nei territori della Gallia: tra di essi v’erano pure Lazzaro, Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea11.

2. Racconti di sacri furti e traslazioni Nel IX secolo un monaco del monastero di Conques si impossessò della salma di santa Fede, vergine e martire di Agen, conservata nella

9 10 11

Ivi, p. 61. Ivi, pp. 137-139, 94, 62, 63. Ivi, pp. 50, 81-82.

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CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE

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chiesa locale. Due redazioni della Translatio Sanctae Fidei datate all’XI secolo riferiscono che i monaci di Conques, avuta notizia del potere taumaturgico della santa, decisero di acquisirne i resti. L’appropriazione fu preparata con molta cura dai religiosi. Intorno all’855 essi commissionarono a un membro della comunità, Arinisdo, l’incarico di sottrarre le spoglie della santa per arricchire il proprio cenobio di un sacro patrimonio che avrebbe attratto molti devoti a danno del vicino monastero di Figeac, oggetto di grande attenzione da parte dei fedeli. Arinisdo si camuffò da prete secolare e riuscì a introdursi nel clero della chiesa di Agen dove erano custodite le reliquie. Vi rimase dieci anni in attesa del momento propizio. Il suo benemerito comportamento gli guadagnò la fiducia della comunità religiosa che gli affidò la sorveglianza del tesoro della chiesa ove si trovava il sepolcro di santa Fede. Una notte in cui era rimasto solo in chiesa, approfittò dell’occasione per violare la sepoltura. Appena venne in possesso della salma si precipitò a Conques, dove fu trionfalmente ricevuto12. Nel 1058 il corpo di santa Lewinna fu asportato da una chiesa ignota sul litorale del sud est dell’Inghilterra dal monaco Balgero proveniente dal monastero di Bergues-Saint-Winnoc. A differenza del furto precedente, che fu approntato con paziente meticolosità da Arinisdo e dai suoi compagni di fede, questo fu il risultato casuale di un viaggio avventuroso narratoci da Drogone di Bergues nella sua Translatio Sanctae Lewinnae, scritta nel 1060 circa. La nave ingovernabile fu costretta a prendere terra nel Sussex. Era la vigilia di Pasqua. Balgero, desideroso di celebrare la messa della ricorrenza festiva, cercò una chiesa. Giunse nel monastero di S. Andrea e apprese che ivi era custodita la salma di Lewinna. Il racconto dei miracoli compiuti dalla santa lo spinsero ad acquistare i venerabili resti per trasferirli alla sua abbazia. L’offerta fu respinta. Balgero decise allora di impadronirsene furtivamente. Dopo diversi tentativi vanificati prodigiosamente da Lewinna che non gradiva di esser portata via, a seguito di molte preghiere, egli poté finalmente convincerla. Il viaggio di ritorno fu però travagliato perché Balgero non fu in grado di imbarcarsi sulla nave dove aveva caricato di nascosto i resti della santa. Intanto i bagagli di Balgero con le spoglie di Lewinna erano stati consegnati dai mercanti a un marinaio che li trasferì nella propria dimora. Quando il monaco riuscì a rintracciare l’abitazione del marinaio questi non era presente. Balgero, tuttavia, persuase la moglie dell’uomo di mare a restituirgli le 12

Ivi, pp. 63-64.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

reliquie che portò con sé a Bergues. Dopo aver accertato l’autenticità delle medesime, i religiosi e la cittadinanza festeggiarono la nuova santa protettrice13. Nella Historia translationis S. Faustae si narra che, nel 969, a seguito della distruzione da parte dei Normanni del monastero di Solignac, il duca Arnaldo di Aquitania dette incarico a suo nipote Gotfried e a un prete del monastero di reperire reliquie nella Francia meridionale, devastata dai saccheggiatori venuti dal Nord. Dopo molte peregrinazioni i due messi arrivarono nei pressi di Vic Fésenzac, dove era stata incendiata una chiesa intitolata a santa Fausta. Di notte, il nipote del duca e il prete Aldario si introdussero furtivamente nella chiesa e riuscirono a individuare il sepolcro di santa Fausta, vergine martire di Aquitania. Lo scoprirono e ne emanò una fragranza soave che li stordì. Superato lo smarrimento, essi involarono il corpo della santa e tornarono in fretta a Brivezac, prioria dipendente da Solignac. Qui, nella chiesa, deposero i resti di santa Fausta che nel corso del viaggio aveva compiuto numerosi miracoli14. Le traslazioni furtive repertoriate da Geary rappresentano un filone importante della produzione agiografica medievale. Lo studioso fa notare che si tratta di una secolare tradizione di racconti di furta sacra, molti dei quali presentano una straordinaria somiglianza (…) dal regno di Carlo Magno fino alle crociate, possediamo quasi un centinaio di racconti di trafugazioni di reliquie (…) Tali storie a una prima lettura risultano insolite: monaci che si introducono nella chiesa di un paese vicino per aprire una tomba e fuggire con la salma di un santo; mercanti che approdano in terre lontane, armati di tutto punto per espugnare una chiesa e obbligare i guardiani a rivelare il luogo in cui è sepolto il patrono (...) Le trafugazioni, comunque, erano ben più che episodi casuali o racconti avvincenti (…) Esse venivano diffuse (o, più spesso, prodotte) dai membri delle comunità religiose o secolari in momenti particolari di crisi, come pianificati mezzi di intervento (…) le descrizione coeve rivelano la consapevolezza posseduta dagli autori di scrivere nell’ambito di una particolare tradizione agiografica, quella dei furta sacra, con i limiti, i topoi e le forme a essa propri. Il riconoscimento di questa tradizione, e più particolarmente di una somiglianza strutturale soggiacente ai più disparati racconti di trafugazioni solleva alcune questioni che non possono venire risolte dalla sola indagine storica tradizionale15.

13 14 15

Ivi, pp. 68-70. Ivi, pp. 149-153. Ivi, pp. 3-5.

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CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE

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I racconti di furta sacra erano spesso legati tra loro dal punto di vista formale e con richiami reciproci sia testuali sia tramite i resoconti orali di altre traslazioni. Tuttavia, ciascuno era costruito attorno a specifiche circostanze e all’interno di precisi contesti sociali, politici ed economici16.

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Le difficoltà connesse all’uso di materiale agiografico per la ricostruzione storica sono risapute. Ciò è vero in modo particolare per le vitae (…) Sfortunatamente per lo storico, le translationes non sono in alcun modo uniformi per precisione o fedeltà ai fatti. Come altri generi agiografici, esse appartengono a una tradizione letteraria che ne modella tanto il contenuto quanto la forma (…) Benché molte translationes siano state scritte per raccontare la modalità di acquisizione di una certa reliquia, ciò non implica l’accettazione di questi racconti come fonti di dati storici. Spesso risalgono ad anni o addirittura a secoli dopo l’acquisizione delle reliquie, e la loro origine potrebbe essere stata oscura persino per l’autore. Oppure (…) la translatio può essere stata scritta per conferire credibilità a una particolare reliquia o per giustificare la presenza del corpo di un santo in un monastero sperduto con cui egli non ebbe mai alcuna relazione. Quindi il racconto potrebbe essere del tutto fittizio e l’autore potrebbe aver usato lo stesso genere di topoi rinvenibile nelle vitae per spiegare l’acquisizione delle reliquie. Un ulteriore ostacolo al corretto utilizzo delle translationes come fonti storiche nasce dalla considerazione della loro funzione originaria all’interno delle comunità in cui venivano scritte. Esse erano composte per commemorare un evento e, nella maggioranza dei casi, questa commemorazione era pubblica, comunitaria e ritualistica: la celebrazione liturgica dell’anniversario della traslazione. Storici e agiologi spesso dimenticano che le vere translationes spesso erano parte della liturgia festiva ed erano divise in lezioni da leggersi seguendo la liturgia delle ore. In quanto parti della preghiera pubblica della comunità, non sorprende che esse tendessero alla schematizzazione e alla stilizzazione caratteristiche della liturgia. Ne consegue che spesso è impossibile distinguere un racconto veritiero da uno contenente solo un nucleo di verità o completamente artefatto, in particolare quando si tratta di racconti di trafugazioni, i quali potrebbero allontanarsi dalla verità in vari modi17.

Il ruolo riservato alle translationes all’interno della liturgia pubblica ne comportò l’assimilazione da parte dell’intera collettività e contribuì in modo non irrilevante a forgiarne una memoria collettiva18.

16 17 18

Ivi, p. IX. Ivi, pp. 13-18. Ivi, p. 131.

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Le translationes erano strettamente connesse al ricordo della dedicazione di una chiesa o ad altre forme di processioni religiose o civili. Così nella migliore delle ipotesi, in virtù dell’attenzione posta su uno specifico evento storico di grande importanza nella vita di una certa chiesa o di un monastero, le translationes offrono una panoramica sulle attività di una comunità religiosa in un momento significativo19.

Geary si sofferma su alcuni aspetti di venerabili rapine perpetrate in paesi remoti dal luogo di conservazione della refurtiva. Innanzitutto nel caso in cui la sottrazione fosse avvenuta in contesti esotici e misteriosi, la cosa conferiva alla trama il fascino dei racconti d’avventura. Inoltre, poiché i centri religiosi fra loro distanti difficilmente mantenevano contatti reciproci, era scarsamente credibile o pressoché irrealizzabile che le vittime o presunte tali avanzassero pretese nei confronti dei rapitori. Un presupposto necessario era costituito dalla mancanza di cura riservata al sepolcro del santo, un altro dalle visioni in sogno. Se poi il santo voleva essere portato via, nessuno poteva impedirlo20. Il mercante inglese di reliquie Eletto potrebbe non essere mai esistito; e la presunta trafugazione dei resti di Maria Maddalena non ebbe mai luogo. Data la limitatezza delle nostre fonti, non saremo mai abbastanza certi se una trafugazione sia davvero avvenuta e lo siamo ancor meno circa come il trafugatore, se mai sia esistito, possa aver considerato o giustificato le proprie azioni21.

Le spiegazioni addotte nelle translationes circa il motivo per cui avvenne il sacro ratto sono evidentemente dei topoi che poco hanno a che fare con la situazione reale in cui si verificò la trafugazione. Difficilmente raccontano qualcosa sul motivo per cui veramente avvenne il furto o si affermava che trafugazioni fittizie fossero accadute realmente22.

A un esame comparato, le translationes furtive manifestano un’ossatura suddivisa in tre parti. La prima riguarda la prassi del trafugamento che di solito accade di notte e prevede l’uso di modi brutali, quali l’effrazione del sepolcro. Nella seconda tranche ricorrono le circostanze in cui il rapito e il/i rapitore/i devono affrontare pericoli 19 20 21 22

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

pp. 15-16. pp. 68, 140. p. 115. p. 124.

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CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE

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concreti, ad esempio le calamità naturali, come le tempeste marine e i conseguenti naufragi. L’ultima sezione è dedicata all’introduzione dei sacri resti nella futura comunità religiosa. Tradizionalmente l’accoglienza si attua mediante un cerimoniale. Normalmente il santo e il suo rapitore vengono ricevuti dall’accolita dei nuovi fedeli in una località posta a qualche distanza dalla città o dal monastero. Gruppi di devoti festanti si raccolgono in preghiera e formano una processione che scorta trionfalmente il santo nella residenza novella. Talvolta si decide di allestire un apposito reliquiario per le venerande spoglie: forse più maestoso, certamente adatto al rango superiore della condizione acquisita. Emergono anche affinità di situazioni. Pure qui ci troviamo di fronte a una terna di mutazioni cui vengono sottoposti i personaggi trafugati. La prima riguarda il passaggio da una località a un’altra più o meno distante. In prevalenza da un centro di mediocre importanza si passa a un livello più elevato. La seconda concerne il miglioramento delle condizioni di conservazione delle reliquie: da una situazione inadeguata alla santità del rapito (edifici mal tenuti o destinati alla demolizione; mancanza di cure verso i venerabili resti) si passa a uno stato più confacente alla dignità del santo. L’ultima è legata alla promozione del trafugato alla carica di patrono della “patria” recente. Questo passaggio lo innalza da un’attenzione limitata o localizzata a un ossequio eccezionale e diffuso in tutto il territorio di pertinenza, destinato a volte a diventare anche meta di pellegrini bramosi di ricevere benefici23.

3. La Translatio sancti Marci e la Translatio sancti Nicolai Una leggenda già diffusa verso la fine dell’VIII secolo narra che l’evangelista Marco, dopo aver creato il vescovato di Aquileia su mandato di Pietro e avervi posto Ermagora come vescovo, avrebbe proseguito il suo cammino verso Alessandria d’Egitto, dove avrebbe fondato il patriarcato e sarebbe morto come martire. Tale leggenda assunse importanza nell’827-828, nell’ambito delle controversie sorte fra i patriarchi di Aquileia e Grado, che si contendevano la legittima successione al vescovato di Aquileia, originariamente unito a quello di Grado. Durante il sinodo indetto a Mantova per comporre il dissidio tra le due città, Aquileia si adoperò affinché venisse sancita la pro23

Ivi, pp. 134-135.

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pria supremazia e le fosse riconosciuta la subordinazione della sede di Grado, in considerazione del fatto che solo il suo patriarca, il cui titolo rimandava all’operato di san Marco, era il vero successore dell’evangelista. Grado era invece una qualunque comunità subordinata ad Aquileia. Il sinodo decretò la preminenza di Aquileia e stabilì che la sede di Grado, comprendente anche Venezia, dovesse sottomettersi all’antica città romana. Ma l’attuazione della sentenza, che avrebbe comportato la fine dell’indipendenza veneziana dalla Terraferma, fu ostacolata. Quasi contemporaneamente le ossa di san Marco vennero provvidenzialmente trasferite da Alessandria a Venezia24. Il possesso delle reliquie dell’apostolo legittimava la sede di Grado in quanto sede apostolica e la metteva al riparo dalle pretese di Aquileia. Geary evidenzia il ruolo svolto dal doge e dalle gerarchie religiose nelle vicende relative alla Translatio sancti Marci: per eludere le sanzioni sinodali, il doge Giustiniano Particiaco e i suoi ecclesiastici avevano ritenuto opportuno ricorrere all’acquisizione delle ossa di san Marco25. Il corpo di un apostolo conferiva preminenza alla chiesa che lo ospitava e in questo senso Venezia si omologava a una consuetudine affermata. Città apostolica per eccellenza risultava Roma che deteneva le tombe di Pietro e Paolo. Ma nelle città italiane del nord v’era penuria di chiese a carattere apostolico. Sicché a partire dal V secolo, nell’età di sant’Ambrogio, per ottemperare a esigenze di natura politica e religiosa, i centri urbani che non potevano esibire sedi fondate da apostoli, si diedero da fare per reperire spoglie di discepoli di Cristo. Sant’Ambrogio in persona inaugurò questa tendenza: il vescovo di Milano depose alcune reliquie di apostoli nella sua chiesa e altre ne distribuì nei templi di Concordia, Aquileia, Lodi e Brescia. In età esarcale Ravenna ottenne diversi resti mortali di apostoli, fra i quali anche quelli di san Pietro e san Paolo. Nell’intento di potenziare la sede di Ravenna rispetto a quelle di Milano, Roma e Aquileia, alla metà del VI secolo, l’archiepiscopus Massimiano destinò alla città le reliquie di Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Tommaso e Andrea, patrono di Costantinopoli, le cui spoglie erano state offerte al presule dallo stesso imperatore Giustiniano26. 24 PEYER H.C., Città e santi patroni nell’Italia medievale, a cura di BENVENUTI A., Firenze 1988, pp. 46 e ss., (tit. orig. Stadt und Stadtpatron im mittelalterlichen Italien, Zürich 1955). 25 GEARY, Furta sacra, cit., pp. 94-100, in part. p. 96. 26 Ivi, p. 97; FARIOLI CAMPANATI R., La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia dal

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La Translatio sancti Marci racconta di due mercanti veneziani in navigazione nel Mediterraneo centrale che furono colti da una tempesta. Per salvarsi furono costretti a prendere terra in Alessandria, porto il cui accesso era stato vietato loro dal doge. Inoltratisi nell’interno, giunsero alla chiesa dove erano conservate le reliquie di Marco evangelista. Vennero a sapere che il califfo aveva deciso di demolire quel tempio per ricavarne materiale da costruzione. Dopo avere a lungo insistito riuscirono a persuadere i due preti a seguirli a Venezia con le ossa di san Marco, promettendo loro che, per conservare i sacri resti, avrebbero fatto costruire una chiesa dove essi sarebbero stati accolti e onorati. Per l’opera di convinzione fu determinante riferire ai custodi che si trattava di portare in salvo le ossa dell’evangelista, impresa alla quale i Veneziani, in quanto figli primogeniti (per la missione di Marco ad Aquileia), erano particolarmente adatti. Di notte, al posto di san Marco calarono nel sacello il corpo di santa Claudia che era tumulata accanto. Poi la rivestirono con gli abiti di Marco curando che i sigilli apparissero intatti. Il profumo soave che sprigionava dal corpo di san Marco si diffuse per la città. La cosa mise in allarme una moltitudine di abitanti che, venuta a controllare la tomba e avendo creduto che il corpo presente nel sepolcro fosse quello di san Marco, si allontanò rassicurata. Per evitare di correre rischi alla dogana, i trafugatori celarono le reliquie con carne di maiale. I musulmani, sollevato il coperchio del cassone, lo rimisero subito a posto disgustati dalla carne suina e fecero passare i preti e i mercanti, che poterono così imbarcarsi sulla propria nave. Salpati da Alessandria, riuscirono ad arrivare a Venezia, scampando più volte al naufragio grazie alla protezione del santo. Giunte in laguna le venerande reliquie ebbero un’accoglienza trionfale. Alla presenza del vescovo di Olivolo e di tutti i ministri del culto dei diversi ordini esse furono poi condotte al palazzo del doge. Accolto il corpo santo, il dux lo ripose “in cenaculi loco qui apud eius palatium” (nel luogo del cenacolo vicino al suo palazzo). Era ancora in carica il doge Giustiniano che avrebbe desiderato costruire “supra beatum corpus ecclesiam” (una chiesa sopra il beato corpo) ma la morte glielo impedì. Suo fratello Giovanni eresse vicino al palazzo una chiesa di forma elegantissima, simile a quella che aveva visto sopra il tumulo del signore gerosolimitano27. VI all’XI secolo, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 165 e ss. 27 MCCLEARY N., Note storiche e archeologiche sul testo della Translatio Sancti Marci, in

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Le sacre spoglie non vennero quindi trasferite a Grado per essere riposte in una chiesa confacente né vennero allogate in alcuna chiesa cittadina, bensì furono deposte dal doge in un cenacolo presso il palazzo governativo. Già dall’811 il duca filobizantino Agnello Parteciaco aveva disposto la sua residenza a Rialto. Qui i suoi successori impiantarono il palazzo e la cappella ducale (830), che costituirono il primo e antico nucleo di quello che poi diverrà il complesso marciano28. Nell’XI secolo Venezia conobbe un notevole incremento in campo commerciale, economico, militare e politico. Nel sinodo Romano del 1053 papa Leone IX varò il trasferimento della dignità metropolitica da Aquileia a Grado, in pratica a Venezia, dove fin dal X secolo soleva risiedere il patriarca di Grado29. In questa fase di grande prestigio cittadino si pensò di rinnovare il santuario dedicato all’evangelista, che da cappella ducale assunse il ruolo di chiesa patriarcale di stato. Un semplice intervento di restauro all’edificio sacro era stato in passato intrapreso dal doge Pietro Orseolo I per rimediare ai danni dell’incendio del 976. Nel 1063 il doge Domenico Contarini avviò la ricostruzione della grandiosa basilica in onore di san Marco. I lavori progredirono sotto il dogato di Domenico Selvo e furono conclusi da Vitale Falier nel 109430. Al momento di deporre le ossa di Marco, queste risultarono irreperibili. Allora si verificò il primo grande miracolo operato dall’evangelista dall’epoca del suo arrivo in laguna nel IX secolo: l’apparitio sancti Marci, una sorta di miracolo di stato31. Pare che il corpo del santo venisse anticamente custodito in una colonna del tempio. Ma dopo che l’edificio fu rimaneggiato in seguito al famoso incendio successivo alla rivolta di Pietro Candiano se ne erano perdute le tracce. I fedeli osservarono il digiuno per tre giorni e tributarono al santo preghiere corali. Finalmente si aprirono i marmi di una colonna e venne prodigiosamente rinvenuto il corpo dell’evangelista32. Il culto di san Marco, attestato già all’epoca del suo trasferimento nella città lagunare, conobbe una straordinaria diffusione nell’XI “Memorie storiche forogiuliesi”, XXVII-IX (1931-1933), in part. pp. 238-264, cit., pp. 260-262: “iuxta palatium elegantissime forme basilicam, ad eam similitudinem, quam supra domini tumulum hierusolimis viderat”; cfr. PEYER, Città e santi patroni, cit., pp. 51 e ss. 28 FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia, cit., p. 295. 29 PERTUSI A., Venezia e Bisanzio nel secolo XI, in La Venezia del Mille, Firenze 1964, pp. 117-160, in part. p. 122. 30 FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia, cit., p. 309. 31 PEYER, Città e santi patroni, cit., p. 53. 32 MCCLEARY, Note storiche e archeologiche, cit., pp. 223-264, p. 263, nota 3.

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secolo, al tempo in cui Venezia stava espandendo il proprio potere sulla costa orientale adriatica, rafforzando la sua flotta militare, potenziando il commercio marittimo e affermando la sua indipendenza nei confronti di Bisanzio. L’ossequio rivolto all’evangelista si incrementò vistosamente solo in relazione all’ascesa dello “stato”, iniziata attorno al Mille. Contemporaneamente la sua figura acquistò una valenza civica ed ebbe un coinvolgimento in tutti gli aspetti della vita della comunità cittadina33. Egli non solo era il nume tutelare ma anche la guida e il simbolo della città. Col trascorrere del tempo, san Marco si impose definitivamente come patrono di Venezia finendo per sostituire la figura di san Teodoro, guerriero bizantino, che fu avviata a un lento e inesorabile declino34. Dall’XI secolo sia le azioni di guerra sia l’insediamento del doge furono completamente sotto il segno dell’evangelista. Egli era il capo e condottiero dei Veneziani ed il doge, in un certo senso, era il suo vassallo, così come anche in Francia e in Spagna si era formato uno stretto rapporto di protezione tra santi e sovrani35.

Sia Peyer sia McCleary ritengono, non senza qualche sfasamento, che la Translatio sancti Marci sia stata redatta nell’XI secolo. Sulla base dell’analisi testuale McCleary arriva alla supposizione che il testo debba essere stato compilato anteriormente all’inventio sancti Marci del 1094, avvenimento troppo rilevante per poter essere stato omesso dall’autore della Translatio. Altri indizi di carattere storico suggeriscono una datazione di poco successiva al 1050. Ma McCleary è convinto che il testo attuale sia stato elaborato su un archetipo più antico, perduto e molto vicino all’epoca del trafugamento, forse risalente all’82836. Peyer invece opina che, nonostante la narrazione risulti puntuale e stringente ai fatti evocati, tanto da far sorgere il dubbio che essa sia derivata da un racconto veritiero e cronologicamente vicino al trafugamento, a un vaglio più approfondito ciò risulta poco convincente: Niente quindi ci riporta con sicurezza al IX secolo, mentre molti elementi, di contro, indicano l’XI come il secolo in cui la leggenda venne 33 PEYER, Città e santi patroni, cit., p. 53; cfr. PERTUSI, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, cit.; FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia, cit., p. 296. 34 GEARY, Furta sacra, cit., p. 97. 35 PEYER, Città e santi patroni, cit., p. 51. 36 MCCLEARY, Note storiche e archeologiche, cit., pp. 223-264.

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trascritta; dobbiamo quindi attribuirla a quest’epoca, tanto per la sua forma che per il suo contenuto37.

Sulla scia di McCleary sembra muoversi Geary il quale insiste molto sul background del IX secolo38:

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Come l’Europa feudale aveva prodotto una tradizione particolare, localizzata di furta sacra, così anche le città italiane, che durante il Medioevo centrale si volsero verso l’Oriente, ne produssero una propria. Al di là delle Alpi sovente erano i monaci a compiere le traslazioni a beneficio dei loro monasteri; in Italia, invece, gli agenti impegnati ad acquisire patroni per le loro città erano laici. Le vittime delle trafugazioni erano i cristiani dell’Est, in particolare greci, per i quali gli italiani nutrivano un sentimento ambiguo di invidia e di sfiducia39.

Gli espropri più rilevanti compiuti da città furono appunto quelli di san Marco da Alessandria e di san Nicola da Myra. Nonostante essi siano avvenuti a più di duecento anni l’uno dall’altro, mostrano affinità sia nei particolari sia nelle vicende che condussero alla narrazione dei fatti. Il loro interesse risiede nella peculiarità di testimonianze relative a insediamenti di mercanti italiani assai diverse da quelle delle coeve popolazioni rurali transalpine. Mentre le sottrazioni attuate in contesto monastico venivano per lo più portate avanti da due soli uomini, i rapimenti in ambiente urbano erano realizzati da insiemi di cittadini. Un’altra differenza riguarda le motivazioni. Per i monasteri al di là delle Alpi, i furta sacra erano mezzi di difesa contro i monasteri rivali o le ingerenze dei laici. Le città italiane invece vi ricorsero per difendere la propria autonomia minacciata dall’impero bizantino, dai Carolingi nel IX secolo e dai Normanni nell’XI40. Secondo Geary, a prescindere dalla fedeltà storica del testo marciano, l’epopea veneziana ebbe certamente buon esito. Venezia, supportata dal nuovo patrono, conseguì l’obiettivo che si era preposta: affermare la propria indipendenza contro i vescovi Carolingi che nel sinodo di Mantova avevano favorito Aquileia, ligia all’imperatore franco, a danno della bizantina Grado, e contemporaneamente ottenere il primato nell’Adriatico settentrionale e l’autonomia da Bisanzio. Queste furono le modalità con cui Venezia risolse la sua crisi nell’827. Il testo

37 38 39 40

PEYER, Città e santi patroni, cit., pp. 52-53. GEARY, Furta sacra, cit., pp. 94-100. Ivi, p. 93. Ibidem.

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della Translatio, che è il documento letterario che riflette tale crisi e la soluzione che essa stessa si dette per raggiungere l’emancipazione, è indicativo della società veneziana del IX secolo, progredita e multiculturale. Per lo studioso è significativo che il trafugamento di san Marco sia stato realizzato da mercanti e non da monaci. L’orgoglio civico che traspare dal componimento è inoltre sintomatico di una temperie culturale diversa da quella delle omologhe translationes furtive delle contemporanee popolazioni d’Oltralpe. A suo parere, a distanza di più di due secoli, quando Bari ebbe raggiunto pari livelli di sofisticazione, decise di rifarsi all’esempio veneziano – le analogie nelle due traslationes non sono affatto casuali – per risolvere la crisi economica in cui era precipitata alla fine dell’XI secolo. Alla base delle motivazioni che condussero alla traslazione di san Nicola vi è una ragione socio-economico di politica estera: la rivalità commerciale tra Bari e Venezia. La traslazione di san Nicola fu compiuta da marinai/mercanti baresi, bramosi di impadronirsi del corpo del santo per evitare che questo cadesse in mano ai Veneziani, che erano determinati a portare a compimento la medesima impresa. La conquista di Bari da parte dei Normanni (1071) e i frequenti conflitti con Bisanzio sfavorivano l’economia della città pugliese, mettendo a repentaglio i tradizionali scambi commerciali vigenti tra Bari e l’Oriente, e giovavano a Venezia, i cui mercanti erano in concorrenza con quelli di Bari per il trasporto e la vendita del grano di Puglia. Impossibilitata a gareggiare con Venezia sul piano dell’attività economica, Bari si industriò per acquisire prestigio in un diverso tipo di risorse: il pellegrinaggio. Il furto di Myra significò per i Baresi la possibilità di vantare una divinità che in Oriente godeva della stessa importanza che san Marco aveva per Venezia. L’azione dei Baresi fu coronata da successo e l’appropriazione del santo si risolse in un grande trionfo. La stessa Venezia, che con l’inventio sancti Marci del 1094 aveva dimostrato di voler rinsaldare i legami col proprio patrono, spinta da rivalità giunse al principio del XII secolo a rivendicare il possesso di alcune reliquie di san Nicola oltre al corpo dello zio del medesimo santo. Pretese similari furono accampate anche da Benevento alla fine dell’XI secolo41. L’approccio di Geary ai furta sacra è assai interessante. Il suo contributo è imprescindibile per la comprensione del fenomeno. Tuttavia mi sembra di riscontrare alcuni scarti passando dal metodo al merito. Forse la cosa dipende dal fatto che, una volta definita la problematica, 41

Ivi, pp. 100-109, in part. pp. 107 e ss.

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occorrerebbe poi approfondire i singoli casi e scendere dal generale al particolare. Un conto è repertoriare, un altro è calarsi nel contesto specifico. Le sue considerazioni sull’interpretazione delle traslazioni furtive possono essere sviluppate coerentemente se portate fino in fondo. Se si postula l’“allegoricità” dei racconti di furta sacra, sulla base della loro pertinenza a un genere devozionale piuttosto che rigorosamente storico, ciò deve poter valere anche per Venezia e Bari. Se si afferma che i racconti dei monaci che prima del Mille razziavano reliquie erano commissionati dalle comunità ecclesiastiche come mezzi programmatici di intervento, ciò potrebbe essere applicabile anche alle traslazioni furtive di san Marco e san Nicola. Cambiano le condizioni storiche ma non mutano le premesse. Se coloro i quali venivano presentati come gli artefici del piano non corrispondevano necessariamente agli autori materiali e forse neppure agli ideatori, poiché il racconto era in realtà un pretesto narrativo volto all’edificazione della collettività, ciò deve essere tenuto presente anche per i contesti urbani dell’XI secolo. Non credo pertanto che sia utile concentrarsi sui mercanti in quanto agenti della spedizione religiosa ma in quanto destinatari delle letture liturgiche. Nel nome del santo si cercava di forgiare il senso di appartenenza e l’orgoglio civico di una comunità urbana fatta di mercanti e marinai. Come pare di capire, poiché la situazione riguardo alla genesi e alla datazione della Translatio sancti Marci in verità appare parecchio oscura, quest’ultima potrebbe risalire in pieno all’XI secolo. A questo periodo appartengono le ragioni storiche, ideologiche sociologiche, religiose, politiche, economiche sottese alla produzione del testo letterario. Senza escludere la possibilità che sia effettivamente esistito un documento più antico, forse coevo al trafugamento da Alessandria a Venezia, il racconto attuale sembra riconducibile piuttosto alla civiltà veneziana dell’XI secolo. Esso riflette la situazione di particolare sicurezza creatasi in città a seguito della crescente prosperità, del trasferimento nel 1053 della sede metropolitica da Aquileia a Venezia, del riconoscimento di san Marco come patrono cittadino e della conseguente erezione nel 1063 della basilica a lui dedicata. In via del tutto teorica sembrerebbe dunque logico riferire la stesura della Translatio sancti Marci a questi avvenimenti e fissarne la data all’epoca della ricostruzione della basilica, nel terzo quarto del secolo. La rievocazione del trafugamento aveva lo scopo di nobilitare il presente con la riesumazione dei fasti passati. Ci si riappropriava delle mitiche origini e si esibivano augusti natali. La

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prospezione cronologica si muoveva su due piani. Il rimando ai tempi gloriosi dell’acquisizione del corpo dell’evangelista, nel IX secolo, implicava anche il riferimento alle gesta del santo ambientate in età apostolica. Se gli estensori della Translatio sancti Nicolai si ispirarono davvero al prototipo veneziano – il condizionale è d’obbligo viste le incertezze della datazione del brano marciano oscillante tra metà XI e 1094 – essi non si rifecero, come vuole Geary, a un archetipo di due secoli prima. Il modello era molto più attuale e vicino nel tempo. Era anteriore solo di qualche decennio e rifletteva la medesima temperie culturale: l’esaltazione del santo e delle opere a lui riconducibili, vissute come veicolo di dignità e prestigio cittadino.

4. Culto delle reliquie e promozione artistica nell’età dei Normanni Nel 1080 fu trovato il corpo del beato Canio dall’arcivescovo Arnaldo in Acerenza, e lo stesso arcivescovo cominciò a costruire un nuovo episcopio che è la basilica di Santa Maria42.

Con la presa di Salerno (1077), sede di un principato longobardo, il Guiscardo si era impadronito di tutti i centri di potere dell’Italia del sud. In quegli anni l’arcivescovo Alfano aveva rinvenuto le reliquie di molti santi che aveva riposto nella cattedrale o in chiese a essa collegate. Nel 1080, lo stesso Alfano fu il fortunato artefice del reperimento delle reliquie di san Matteo, evangelista e martire, che erano state portate in città nel 954 per ordine di Gisulfo I e avevano trovato accoglienza in cattedrale. Successivamente però se ne erano perse le tracce. Non parve degno riporre le preziose reliquie dell’apostolo nella cattedrale esistente, intitolata dal 954 a santa Maria e a san Matteo. Alfano, esortato anche da papa Gregorio VII, ritenne opportuno de-

42

LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., p. 45: “Inventum est corpus B. Canionis in Acherontia ab Arnaldo Archiepiscopo, & idem Archiepiscopus construere coepit novum Episcopium, idest Ecclesiam Sanctae dei Matris Mariae” . Trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 149.

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molire il vecchio tempio e avviare la costruzione di un nuovo edificio sullo stesso sito.

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L’importanza delle reliquie di san Matteo imponeva, nella nuova coscienza architettonica e sacrale formata da Desiderio, una dimora adeguata a tanto santo, quale non erano la vecchia cattedrale e neanche la nuova cripta43.

Papa Gregorio VII consigliò all’arcivescovo Alfano di far partecipare al progetto Roberto il Guiscardo44. Il duca, che in passato aveva conteso a Gisulfo il possesso di un dente del santo evangelista45, la sola reliquia allora esistente in città, si mostrò subito pronto a cogliere l’opportunità che si presentava di dare basi sacre al suo nuovo dominio. Roberto confermò ed estese gli antichi privilegi in favore della chiesa arcivescovile. Assistette alla deposizione dei sacri resti nella cripta e finanziò la nuova costruzione con beni personali. Il duca volle lasciare memoria del suo patronato in tre iscrizioni poste in bella evidenza: sull’architrave dell’ingresso principale al duomo, sull’architrave che immette nel quadriportico antistante la basilica, sotto il timpano della facciata. Ciò che Alfano aveva intrapreso come rinnovata espressione della grandezza di Salerno, Roberto lo concludeva come opera di devozione e prestigio personali46.

Come ha illustrato Amalia Galdi, la diffusione del culto di san Matteo, le cui reliquie erano già presenti in città dal 954, assunse dimensioni importanti solo a partire dalla conquista normanna: Un legame profondo tra il santo e la città pare realizzarsi solo con la dominazione dei Normanni, quando Roberto il Guiscardo individuerà nel progetto di costruzione di una grande ecclesia dedicata all’apostolo, la possibilità di consolidare il suo potere e consegnarlo alla storia47. 43

DELOGU P., Mito di una città meridionale (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli 1977, p.

184. 44

GREGORIO VII, Registro, ed. CASPAR E., Das Register Gregors VII, Berlin 1955, pp. 526-527. Cfr. GUGLIELMO APULO, Historicum poema, cit., p. 275. 45 AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni, cit., p. 370. 46 DELOGU, Mito di una città meridionale, cit., pp. 188-190. DELOGU, La committenza degli Altavilla, cit., p. 191. 47 GALDI A., La diffusione del culto del santo patrono: l’esempio di s. Matteo di Salerno, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno Medievale, a cura di VITOLO G., Napoli 1999, pp. 181-191, in part. p. 182; EADEM, Santi, territori, poteri e uomini nella Campania medievale (secc. XI-XII), Salerno 2004.

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La consapevolezza del valore delle spoglie dei santi in quanto elementi di prestigio e ricchezza materiale, religiosa, politica ed economica apparteneva alle élites religiose e politiche che subentrarono nell’Italia meridionale strappata ai potentati longobardi e all’impero di Bisanzio.

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5. Il contributo di Montecassino L’attività architettonica varata dall’abate Desiderio a Montecassino e il rinvenimento delle reliquie di san Benedetto non furono fenomeni sporadici. Le comunità secolari (città) ed ecclesiastiche (diocesi, monasteri, chiese) intrapresero la raccolta delle reliquie e delle relative testimonianze agiografiche, storiche e culturali. Tale azione va interpretata come un segno dell’aspirazione di affermare la propria individualità. I monaci cassinesi prestarono la loro efficace collaborazione a quanti erano animati da un simile desiderio. Ovunque, in Italia, le collettività urbane favorivano la raccolta delle reliquie dei santi patroni e delle relative testimonianze agiografiche, storiche e cultuali allo scopo di definire la propria individualità. I monaci cassinesi si impegnarono attivamente in quest’opera mettendosi a disposizione di quanti – non solo monasteri ma anche diocesi e città – avessero avuto intenzione di elaborare una devozione e un orgoglio civico. La loro azione non fu rivolta esclusivamente a sostegno di san Benedetto e dei santi locali ma le loro energie furono spese per alimentare i culti urbani. In campo religioso l’abbazia cassinese operò in modo tale da trasmettere i suoi ideali alla chiesa monastica e alla chiesa secolare. Montecassino esercitò dunque una funzione rigeneratrice in tutta la chiesa dell’Italia meridionale, sia diocesana che monastica48.

Esemplari furono alcuni interventi condotti dai monaci cassinesi per incoraggiare il culto dei patroni cittadini a Chieti, a Salerno e a Caiazzo. Durante un soggiorno a Chieti, Desiderio stimolò il vescovo e il clero locale nell’ossequio a san Felice, un monaco di Montecassino precedentemente trasferito in quella città come vescovo, presso la cui sepoltura si verificavano miracoli. 48

COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 79.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

La presa di Salerno da parte del Guiscardo favorì il culto dell’apostolo Matteo, le cui reliquie erano state reperite nel 954 a Paestum e trasferite in città. Il duca normanno contribuì alla riedificazione della cattedrale voluta dall’arcivescovo Alfano in unità d’intenti con l’amico Desiderio. Nel 1094, su indicazione di Madelmo, abate di S. Sofia di Benevento, le reliquie di san Menna, un eremita del Sannio della fine del VI secolo, furono rinvenute a Monte Taburno e portate nella cattedrale di Caiazzo. Il duomo era stato ricostruito per volere del conte Rainolfo di Alife e di suo figlio Roberto, i quali, desiderosi di procurare all’edificio reliquie adeguate, mostrarono apprezzamento per l’iniziativa. Essi si rivolsero all’abate Oderisio I di Montecassino e gli commissionarono una Vita del santo. L’abate affidò il compito a Leone di Ostia che compilò un testo adatto a essere letto pubblicamente ai cittadini di Caiazzo nella ricorrenza festiva del santo. L’aggiunta di inni rese l’opera ancora più popolare. All’inizio del componimento Leone dichiarò che il conte committente aveva avanzato a Montecassino la richiesta di una Vita che fosse facilmente assimilabile per gli abitanti del centro urbano. Anni dopo un altro monaco aggiornò il testo di Leone con le notizie relative al trasferimento, avvenuto prima del 4 settembre 1110 e sempre su mandato del conte Roberto, delle reliquie di san Menna nella cappella di S. Agata dei Goti. All’opera venne aggiunta la narrazione di alcuni miracoli49. Un aspetto dell’influenza del monastero sulla religiosità dei territori circostanti è rappresentato dalle numerose Vite di santi compilate dai suoi monaci. Tali opere erano volte all’edificazione del culto dei patroni, alla devozione in genere e all’uso educativo di comunità religiose (cattedrali, monasteri e chiese locali). Del monaco Alberico ricordiamo le Vite di san Modesto di Benevento, san Domenico di Sora e san Cesareo di Terracina50. Desiderio auspicava il rinnovamento della Chiesa mediante la riproposizione dei campioni di vita cristiana e monastica delle origini, da Costantino a san Benedetto e a papa Gregorio Magno. A tal fine egli era disposto a investire le risorse che derivavano dalla Chiesa 49 Ivi, cit., pp. 79 ss.; cfr. LOUD G. A., The norman counts of Caiazzo and the abbey of Montecassino, rist. in Montecassino and Benevento in the Middle Ages, Aldershot-Burlington USA-Singapore-Sydney 2000, pp. 199-217; DE GAIFFIER B., Translations et miracles de S. Mennas par Léon d’Ostie et Pierre de Mont Cassin, in “Analecta Bollandiana”, LXII, (1944), pp. 5-32. 50 COWDREY, Desiderio abate di Montecassino, cit., p. 23.

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CULTO DEI SANTI E CULTO DELLE RELIQUIE

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Occidentale e Orientale. In campo culturale l’unica opera importante di Desiderio pervenutaci sono i Dialogi, risalenti al periodo compreso tra il 1076 e il 107951. Un lungo rapporto d’amicizia fraterna e di condivisione di fede unì l’abate di Montecassino all’arcivescovo di Salerno, Alfano I, discendente da una nobile famiglia legata alla dinastia longobarda dei principi di Salerno e monaco benedettino della congregazione cassinese. Anche molte delle poesie composte da Alfano sono dedicate a santi patroni. Esse furono redatte in forma di inni da recitarsi a scopo edificatorio nelle celebrazioni liturgiche a vantaggio di clero e laici52. A Salerno come più tardi a Caiazzo, Montecassino fece la sua parte come alleata dei sovrani normanni per edificare il culto di un patrono della città, favorendo in tal modo la riforma morale e spirituale della popolazione locale53.

L’influsso di Montecassino sui governanti dell’Italia meridionale, specialmente su quelli più recenti come i Normanni, fu grandissimo.

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DESIDERIO DI MONTECASSINO, Dialoghi sui miracoli di san Benedetto, cit.; cfr. GRÉGOIRE, I dialoghi di Desiderio, cit. 52 COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., p. 81. 53 Ibidem.

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IV.

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

1. Le fonti La traslazione di san Nicola è evocata da alcune Cronache, Annali, documenti vari e testi agiografici. La maggior parte delle fonti cronachistiche riporta la notizia della Translatio sancti Nicolai insieme all’annuncio di un altro evento che si verificò nello stesso giorno, stesso mese e stesso anno: l’ascesa al soglio pontificio dell’abate Desiderio divenuto papa col nome di Vittore III. Il Chronicon di Montecassino, al 9 maggio del 1087, parlando a proposito della consacrazione di Vittore III, annuncia: Fu consacrato e posto nella sede apostolica nel settimo delle idi di maggio. In quello stesso giorno anche il corpo del santo confessore di Cristo Nicola dalla città di Mira, dove riposava da settecentocinquanta anni, fu traslato a Bari1.

Gli Annales Cavenses: 1087 L’abate Desiderio viene ordinato papa nel settimo delle idi di marzo, nel qual giorno il corpo di san Nicola venne a Bari2.

1 Chronica Monasterii Casinensis, III, ed. HOFFMANN H., in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XXXIV, Hannover 1980, pp. 450-451: “consecratus et in apostolicam sedem locatus est septimo idus Magi. Quo etiam die corpus sancti confessoris Christi Nicolay a civitate Mirensi, in qua per annos septigentos septuaginta quinque quieverat, Barim delatum est”. 2 Annales Cavenses, ed. PERTZ G.H., in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, III, Hannoverae 1839, p. 190: “1087 Desiderius abbas in papam Victorem ordinatur 7. Idus Maias, quo die sancti Nicolai corpus Varin devenit”.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Gli Annali Beneventani: 1087 Il corpo di san Nicola viene traslato a Bari, nel sesto delle idi di maggio è ordinato Desiderio, il quale è detto anche papa Vittore, e morì il 15 delle calende d’ottobre3.

Il Chronicon di Lupo Protospata:

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Anno 1087, nel mese di maggio il corpo del beatissimo Nicola arcivescovo di Mira, trafugato da alcuni baresi dalla suddetta città di Mira, fu portato a Bari, capitale della Puglia. In quest’anno l’abate Desiderio di S. Benedetto di Montecassino, con l’appoggio di alcuni nobili romani, fu fatto papa romano mentre ancora viveva l’antipapa Clemente, già vescovo di Ravenna4.

L’Anonimo Barese si limita a diffondere la notizia delle reliquie giunte a Bari: 1087, ind. X. Il 9 maggio i nostri baresi portarono il corpo del beatissimo san Nicola5.

Nella bolla conferita nel 1105 (1106) da papa Pasquale II all’abate Eustasio di S. Nicola si ricorda che la traslazione del corpo di san Nicola a Bari avvenne sotto il suo predecessore, Vittore III: Quasi tutti sanno che, ai tempi del nostro predecessore Vittore III di santa memoria, il corpo del beato Nicola dai porti greci al di là del mare fu trasportato nella città di Bari6.

3

Annales Beneventani, ed. PERTZ G.H., in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, III, Hannoverae 1839, p. 182: “1087 Translatum est corpus sancti Nicolai in Varum. Sexto Idus Magi ordinatus est Desiderius, qui et Victor papa dictus est, et obiit 15. Kalendas Octobris”. 4 LUPO PROTOSPATA, Breve chronicon, cit., p. 46; trad. in CIOFFARI, LUPOLI, TATEO, Antiche cronache, cit., pp. 152-153: “Anno 1087 mense maji corpus Beatissimi Nicolai Mirensis Archiepiscopi à quibusdam Barensibus à prædicta Mirea ablatum, in Barum devectum, caput civitatum Apuliæ. Hoc anno Abbas Desiderius Sancti Benedicti Montis Cassini, consensu quorumdam Nobilium Romanorum factus est Papa Romanus, vivente adhuc Clemente Antipapa, qui fuerat Ravennæ Episcopus”. 5 ANONIMO BARESE, Chronicon, cit., p. 154: “Mill. LXXXVII. Ind. X. Nono die intrante Magii adduxerunt nostri Barenses Beatissimi S. Nicolai corpus”; trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 238. 6 Codice diplomatico barese, V, cit., n. 44, pp. 79-80; NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 101-102: “Predecessoris nostris (sic) sancte memorie Victoris tertii temporibus beati Nykolai corpus ex grecorum partibus transmarinis in barisanam urbem advectum totus pene orbis agnoscit”. Per il testo della bolla cfr. capitolo V, § 3. S. Nicola basilica palatina?, nota 34.

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

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Vi sono inoltre diverse Translationes sancti Nicolai. Una Translatio è attribuita all’arcidiacono Giovanni. Un’altra è assegnata a Niceforo e si ritiene che di essa esistano diverse “recensioni”: la vaticana, la beneventana, la gerosolimitana e la greca. Infine v’è un testo russo, comunemente chiamato Leggenda di Kiev. Alcuni manoscritti contenenti tali Translationes sono noti al pubblico e agli studiosi per essere stati diffusi a mezzo stampa e per essere stati oggetto di discussione critica. Esistono tuttavia altri codici, poco o affatto studiati, che riportano il testo delle varie versioni della Translatio. Un elenco di alcuni di essi conservati in biblioteche di Francia e Belgio è stato stilato dai Padri Bollandisti7. La Translatio dell’arcidiacono Giovanni fu redatta su commissione dell’arcivescovo Ursone. Lo stesso autore, alcuni anni dopo, nel 1091, compilò anche la Historia inventionis sancti Sabini episcopi Canusini concernente il ritrovamento del corpo del santo vescovo Sabino nella cattedrale di Bari8. Della Translatio dell’arcidiacono Giovanni si conserva una versione frammentaria, composta da alcuni fogli superstiti (ff. 29-38) di un poemetto interamente dedicato alla traslazione del santo. Il fascicolo contenente la Translatio dell’arcidiacono Giovanni costituisce la quinta unità del codice composito vaticano Reg.lat.477. Le carte, vergate in minuscola carolina, sono state datate dal cura-

7 “Analecta Bollandiana”, I (1882), Paris-Bruxelles, p. 507, Catalogus codicum hagiographicorum bibliothecae publicae civitatis Namurcensis, di seguito si riporta la pagina di riferimento e la segnatura dei codici censiti: p. 505, cod. 53, XII sec., n. 9° Translatio s. Nicholai episcopi Edita apud Nic. Carminium Falconium. Catalogus codicum hagiographicorum Bibliothecae Regiae Bruxellensis, Hagiographi Bollandiani, Bruxellis 1886-1889, di seguito si riporta per ciascun tomo la pagina di riferimento e la segnatura dei codici censiti: I) p. 206 cod. 380-82, sec. XV; p 315, cod. 1960-62; p. 381, cod. 3391-99, del 1480; II), p. 17 cod. 7461; p. 75 cod. 7487-91 fine XIII sec; p. 195, cod. 8059, palinsesto sec. XV; p. 280, cod. 9120; p. 293, cod. 9289 (3), XII sec.; p. 317, cod. 9291 XIV sec.; p. 412, cod. 14775-76, sec. XII ineunte; p. 439 cod. 324, 327, sec. XII. Catalogus codicum hagiographicorum latinorum antiquiorum saeculo XVI qui asservantur in Bibliotheca Nationali Parisiensi, Hagiographi Bollandiani, Bruxellis 1889-1893, di seguito si riporta per ciascun tomo la pagina di riferimento e la segnatura dei codici censiti: I) p. 90, cod. 1864, sec. XIV ed. apud Surium; p. 502, cod. 5284, exaratus sec. XIII ed. apud Surium; p. 524, cod. 5290, sec. XII apud Surium; II) p. 273, cod. 5345, sec. XII ed. apud Surium; p. 384, cod. 5365, sec. XII ed. apud Surium. Add. Ed. Cat. Brux. I p. 524-26; p. 404, cod. 5368 sec. XIV; p. 574 cod. 9736, sec. XII ed. apud Surium; III) pp. 126-127, cod. 12600, exaratus diversis manibus sec. XI, n. 19° Translatio sancti Nicholai (fol. 256r-263v) Convenit cum lectione codicis Namurc. 53 (Anal. Boll., tom. I, p. 507, 9°); p. 265 cod. 14651, sec. XV; p. 301, cod. 15135, sec. XIII, XIV, XV; p. 336 cod. 16329, sec. XII. 8 IOANNE ARCHIDIAC. BARENSI, Historia Inventionis S. Sabini Episc. Canusini, cit., pp. 310-339, in part. pp. 329-331.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

tore del catalogo della Biblioteca Vaticana all’XI-XII secolo9, ma la data può essere plausibilmente anticipata alla fine dell’XI secolo10. La Translatio dell’arcidiacono Giovanni fu pubblicata nel 1579 da Lorenzo Surio che non si peritò di specificare da quale manoscritto l’avesse tratta11. La Translatio stesa da Niceforo è rinvenibile nel codice Vat. lat.6074, un passionario attribuito al XII secolo dal curatore del catalogo della Biblioteca Vaticana, da Pertusi e da Carlo Bertelli, secondo il quale il codice è stato realizzato dallo stesso atelier della Bibbia del Pantheon12. Il componimento di Niceforo consiste di un brano inserito nel passionario liturgico insieme a tante altre vitae e passiones di santi. Il testo della Translatio di Niceforo, tratto dal codice vaticano e identificato come Niceforo Vaticano o recensione vaticana, fu pubblicato nel 1751 da Niccolò Carmine Falcone13. La variante beneventana della Translatio di Niceforo (nota come Niceforo Beneventano o recensione beneventana14) è desumibile da un lezionario agiografico per l’ufficio monastico della Biblioteca Capitolare di Benevento (Benevento 1, ff. 251r-266v). Il codice, vergato 9

Codices Reginenses Latini. II, a cura di WILMART A., Città del Vaticano MDCCCCXLV, n. 477, pp. 647-648. 10 La cronologia alla fine dell’XI secolo è stata ritenuta ragionevole dalla Prof. Luisa Miglio alla quale esprimo la mia più profonda gratitudine per la consulenza sulla fonte di Giovanni e per altri preziosissimi suggerimenti. 11 SURIUS F. L., De probatis sanctorum historiis, partim ex tomis Aloysii Lipomani, doctissimi episcopi, partim etiam ex egregiis manuscriptis codicibus, quarum permultae antehàc nunquàm in lucem prodiêre, optima fide collectis, & nunc recèns recognitis, atque aliquot Vitarum accessione auctis per F. Laurentium Surium Carthusianum, III, Maii et Iunii, Coloniae Agrippinae MDLXXIX, pp. 172-181. 12 BUONOCORE M., Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1968-1980), Città del Vaticano 1986, (Studi e testi, 319), pp.1198-1199; IDEM, Bibliografia retrospettiva dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana. I, Città del Vaticano 1994, (Studi e testi, 361), p. 506; CERESA M., Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1986-1990), Città del Vaticano 1998, p. 523; PERTUSI, Ai confini tra religione e politica, cit., p. 21 e nota 39: per PERTUSI (Ai confini tra religione e politica., cit., p. 25, nota 50) il Niceforo Vaticano si trova anche in Paris. lat. 12607, 13768, 13772, 18303, dei secoli XII e XIII; Vat.Reg. lat.529, secolo XII; Bruxell. lat. 380-82, secolo XV; Bruxell. lat. 3391-99 dell’anno 1480 (cat. Bruxell. p. 381, 385); BERTELLI C., Miniatura e pittura. Dal monaco al professionista, in Dall’eremo al cenobio, Milano 1987, pp. 579-644, tav. 432. 13 FALCONE N. C., Sancti Confessoris Pontificis et celeberrimi Thaumaturgi Nicolai acta primigenia & eruta ex unico & veteri codice membranaceo vaticano, Neapoli MDCCLI, pp. 131-139. 14 Fra il Niceforo vaticano e quello beneventano non ho riscontrato varianti significative nei contenuti testuali (tranne l’utilizzo di qualche sinonimo diverso) che autorizzino a pensare all’esistenza di due diverse “recensioni”. Per esigenza di chiarezza ho ritenuto però opportuno mantenere la nomenclatura tradizionale di “recensione vaticana” e “recensione beneventana”.

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

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in scrittura beneventana, è stato assegnato al XII secolo exeunte da Pertusi, dai curatori del catalogo dei manoscritti beneventani, Mallet e Thibaut, e dalla Brown15. Anche in questo caso il resoconto di Niceforo è un passo incluso in un libro liturgico contenente numerose altre storie di santi. Il codice beneventano fu scoperto alla metà del XVIII secolo da Stefano Borgia e fu pubblicato nel 1771 da Niccolò Putignani16. La recensione gerosolimitana, redatta da un autore che dichiara di chiamarsi Niceforo, viene così nominata per il riferimento, oltre che all’imperatore Alessio, a un patriarca di Gerusalemme Anania. Fu stampata dai padri Bollandisti nel 1885, ex codice 289 (St. G. 662) De Translatione s. Nicolai della seconda metà del XII secolo17. Da alcuni studiosi viene preferibilmente designata come l’opera di un ignoto “Compilatore franco”18. La recensione greca viene considerata una sorta di traduzione della Translatio di Niceforo19. Essa è reperibile in due manoscritti che furono pubblicati da Gustav Anrich nel 1913-1917: il Cryptensis Gr. B (Gr. 276) della Biblioteca dell’Abbazia di Grottaferrata, ascrivibile al pieno XII secolo, e l’Ottoboniano-Vaticanus 393 del secolo XIII-XIV20. 15 PERTUSI, Ai confini tra religione e politica, cit., p. 20 e nota 34; MALLET J. THIBAUT A., Les manuscrits en écriture bénéventaine de la Bibliothèque Capitulaire de Bénévent, I, Paris 1984, n. 4, pp. 140-141; II, Paris-Turnhout 1997, pp. 62, 72, 77, 85; LOWE E. A., Beneventan Script, Oxford 1914, pp. 52-53, 67-69, 335. Cfr. LOWE E.A., The Beneventan script. A History of the south Italian Minuscole, 2 ed., a cura di BROWN V., Roma 1980; BROWN V., Terra sancti Benedicti. Studies in the paleography, history and liturgy of medieval southern Italy, Roma 2005, p. 686; Bibliografia dei manoscritti in scrittura beneventana, Università di Cassino, Roma 2006, p. 13. 16 PUTIGNANI N., Istoria della vita, de’ miracoli e della Traslazione del gran Taumaturgo s. Niccolò arcivescovo di Myra, Neapoli MDCCLXXI. 17 “Analecta Bollandiana”, IV (1885), Paris-Bruxelles, pp. 169-192. Per PERTUSI (Ai confini tra religione e politica, cit., nota 50 p. 27) la recensione gerosolimitana si trova pure in Paris. Lat. 5278 e 5287, del secolo XIII, e il Paris. Lat. 803, del secolo XIV. 18 CORSI, La traslazione di san Nicola. Le fonti, cit., p. 8. 19 PERTUSI, Ai confini tra religione e politica., cit., p. 21. 20 ANRICH G., Hagios Nikolaos. Der heilige Nikolaos in der griechischen Kirche, LeipzigBerlin 1913-1917, I, pp. 434-449, II, pp. 170-173. Il codice Cryptensis Gr. B. . IV (attuale Gr. 276) della Biblioteca dell’Abbazia di Grottaferrata veniva anticamente assegnato al XIV secolo: cfr. ROCCHI A, Codices Cryptenses seu Abbatie Cryptae Ferratae, Tuscolani 1883, pp. 143-145; ANRICH, Hagios Nikolaos, cit., I, p. 434. Sono infinitamente grata al Prof. Santo Lucà, al quale esprimo un vivo ringraziamento, per la preziosissima consulenza sul codice greco dell’Abbazia di Grottaferrata. Il codice, contenente testi agiografici e liturgici in onore di san Nicola e di santo Stefano (ff. 154v156v), risulta vergato da due mani coeve: A) ff. 1-109v; B) ff. 110-154v lin. 10. Ad altra

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Il testo russo della Translatio sancti Nicolai viene per lo più ritenuto indipendente dalle altre Translationes. Esso è citato come Leggenda di Kiev perché anticamente era attribuito a un monaco Efrem, poi metropolita di Kiev. Fu scritto certamente dopo il 1089, perché vi si parla della deposizione delle reliquie di san Nicola nell’altare della chiesa inferiore della basilica nicolaiana, avvenuta il 30 settembre di quell’anno a opera di papa Urbano II. Un manoscritto del secolo XVI contenente questa relazione fu pubblicato nel 1862 dal metropolita di Mosca Makarij Bulgàkov. Due codici più antichi, il codice Sacharov del XIII-XIV secolo e il codice Troickij del XIV secolo, furono editi nel 1881 da Il’jà Šljapkin21.

2. La Translatio dell’arcidiacono Giovanni dal codice Reg.lat.477 Universis christi ecclesiis litteris nostris cognoscenda significamus que miranda laudanda et veneranda nostris in temporibus Nycholai beatissimi sui famuli meritis pro sanctissimis omnipotens dominus mortalibus insinuare dignatus est videlicet qualiter de mirea metropoli barensibus per pontum mano, grosso modo contemporanea, spetta l’esecuzione dei ff. 154v lin. 11-156v. Più tarda è l’aggiunta dei ff. 157-158. Oltre alla Translatio delle reliquie di san Nicola da Myra a Bari (ff. 128v-154v lin. 10), il manoscritto è latore di sticheri (f. 115v ss.) sulla stessa Translatio: apò tvn Murvn epì thn Barin. Il codice è databile al pieno XII secolo, non oltre l’ultimo quarto del secolo e il primo del XIII, e localizzabile in ambito apulo-lucano (cfr. LUCÀ S., Su origine e datazione del Crypt. B. b. VI (ff. 1-9). Appunti sulla collezione manoscritta greca di Grottaferrata, in Tra Oriente e Occidente. Scritture e libri greci fra le regioni orientali di Bisanzio e l’Italia, a cura di PERRIA L., Roma 2003 (Testi e studi bizantino-neoellenici, 14), p. 202. La scrittura delle due mani mostra infatti patenti analogie con quelle di altri testimoni di quell’area databili fra la seconda metà del secolo XI e il XII. Per quest’ultime cfr. LUCÀ S., Su due sinassari della famiglia C*: il CRYPT. Δ.α.XIV (ff. 291-292) e il ROMAN. VALLIC. C 34 III (ff. 9-16), in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, LXVI (1999), pp. 51 ss.; IDEM, I copisti Luca xtamalos e Paolo tapeinos, in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, LXVIII (2001), p.149 ss. Il codice è pervenuto a Grottaferrata verso il 1735: esso infatti presenta la segnatura in cifre romane, cfr: f. 110r (era il foglio iniziale prima del restauro) - XLVI. Sulla problematica cfr. LUCÀ S., Su origine e datazione, cit., pp. 145224, 159-161, 185-196. È verosimile che esso sia stato in possesso del monastero lucano di S. Elia di Carbone o del monastero del Patir di Rossano Calabro. Il volume è palinsesto e utilizza le membrane derivate da tre diversi codici antichi: CRISCI E., I palinsesti greci di Grottaferrata. Studio codicologico e paleografico, Napoli 1990, pp. 25, 93-97, 311, il codicecontenitore (cioè il manoscritto attuale, sec. XIII ex., XIV in.) membranaceo, è costituito dall’unione di due codici, vergati da mani diverse ma molto simili – rispettivamente ff. 1109 e 110-154 – cui è stato aggiunto, in epoca più recente, un bifoglio (ff. 157-158). Sono palinsesti solo i ff. 1-156. I testi su san Nicola si trovano ai ff. 1-154v e 157-158. 21 CIOFFARI G., La leggenda di Kiev, Bari 1980.

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

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transferentibus illius artus sacratissimi barum sunt asportati. Ubi sunt etiam innumere ostense virtutes et stupenda miracula que non solum generationi presenti vel voce vel scripto notificare curamus sed etiam nostra post tempora generi venturo memoria et relationibus digna diligenter relinquere laboramus. Nos etenim certissime novimus omnis quoque totum per orbem diffusa frequentibus argumentis est experta fidelis ecclesia quoniam licet maiestas omnis aliorum sanctorum pro meritis apta et gratissima beneficia suis christicolis dignatur concedere maxime tamen pro huius sepissime largiri non distulit quecumque appetuntur suffragia illius invocato pro nomine. Et idcirco subito vocabulo plures per omnes nationes et provincias ubi christus dominus colitur quam aliorum sanctorum consecrate inveniuntur basilice et mortales plures sunt qui sancti huius solemnia celebrant quam qui aliorum. Pro quo enim tam celeriter aliquis aliquo in periculo positus sensit celitus adiutorium. Neque enim hoc proferimus ut sanctis derogemus aliis vel animadversione illorum merita minuamus sed istius virtutes predicamus viteque continenciam et constanciam miramur et mirando conlaudamus quantum apud deum hac in vita et post hanc optinuit et optinet gratiam. Quamobrem nec minori leticia et celebritate ista que est in translatione debet a fidelibus honorari festivitas quam illa que sua de dormitione celebratur sollempnitas. Virtutum enim signa et tunc et modo manifesta claruerunt æqualia et innumerabilia. At fortassis festivitatem istam non omnis equaliter celebrature sunt ecclesie barum tamen tota cum apulia laudibus dignissimis precibusque humillimis quotannis magnificare non neggliget. Hoc et enim maxime tanto thesauro ditatum tantaque dignitate illustratum videtur. Istud autem omnibus de aliis nequaquam ambigimus fidelibus verum nichil ominus asseverare volumus quod certissime novimus quoniam mirandum venerandumque habetur et habebitur ab omnibus quod omnium conditori hac in tempestate mortalibus ostendere ut predictum est placuit. Quod ego iohannes barine archidiaconus ecclesie per iussionem domini mei et patris ursonis barensis et canusine archiepiscopi ecclesie qualiter sit actum breviter et liquide seriatim quoque pandere non morabor.

Principiu translationis istorie Postquam beati Nicholay substancia incorporea et invisibilis a corporea visibilique fuerit substancia separata et ab spiritibus uranicis preparata in requie collocata multi imperatores multique potentes mortales artus illius sacratissimos de urna qua manebant recondita summo conamine temptaverunt abripere propriamque ad patriam transportare. Namque unus de pa-

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

latinis magnatibus hoc pro auferendo et afferendo thesauro suo ab imperatore legatus cuius mirea tellus parebat imperio ecclesiam ubi sanctum iacebat corpus advenit. Qui cernens propter quod venerat non posse perficere beatum Nicholaum flagitare cepit humiliter ut qui se loco ab illo transmutari non permitteret vel aliquam videndam sibimet particulam dignaretur concedere quam osculari valeret. Cuius postulationi sanctus Nicholaus non defuit sed quod rogaverat adimplevit. Nam ubi de liquore urne cum peniculo sicut solitus erat extraxisset ecclesie minister dens unus statim cum illo extractus apparuit. Quem maxima cum leticia suscipiens ille deo eiusque famulo Nicholao gratias agere et oscula figere frequentissime cepit. Quem aurea capsellula mox inclusit et super altari quod ibi aderat posuit. Cumque post paululum aspexisset manare oleum illa de capsellula multum vidit. Involvit ergo eam pallio putans hoc posse modo illum intus perstringere ne foras amplius exiret liquorem. Sed frustra. Nam quanto plus circumligabat tanto liquor ipse circumligata pallia madefaciens potius emanabat. Ergo desperare cepit quia non posset in occulto sicut optaverat domino manifestante cognovit. Ipsi etiam beatus Nicholaus in sompnii visione fertur apparuisse dentemque supradictum premanibus tenens et ostendens dixisse. Ecce postulationi tue satisfeci ferre autem tecum ut voluisti non poteris quoniam separari ab aliis membris meis vel minimam particulam non permitto. Ille autem evigilans et animadvertens tantummodo imaginationem sompni fuisse dentem ubi posuerat non invenit. Hoc enim in grecis voluminibus significatum invenimus. Quod idcirco nostre relationi prenotavimus quoniam omnipotens dominus sui famuli corpus exinde ubi fuerat hactenus per tot curricula temporis non permisit transmutari. Nam sicut in vera grecorum reperitur istoria iste sanctissimus pontifex in sinodo nicena fuisse legitur oppido iam senex in qua presidente beato papa silvestro magnoque principe constantino arriana heresis suis cum fautoribus condempnata est. Qui videlicet beatus Nicholaus paucis post modum supervivens diebus celo spiritum reddidit corpusque tradidit solo. A quo scilicet tempore usque ad eiusdem sancti corporis translationem secundum eorundem grecorum calculationem ducentarum fere olimpiadum curricula transierunt. Denique vero secundum nostram subputacionem ex quo verbum dei caro factum est et habitavit in nobis anno millensimo et octogenario septimo indictione decima quidam barenses tribus cum navibus antiochiam negocii pro causa proficisci disposuerunt. Quibus suspensis velis regna super neptunia volantibus naute predicti quasi divina inspiratione commoniti mutuam sermocinationem de tanto rapiendo thesauro proferre ceperunt. Quorum alii ad temptandum suadebant et posse hoc divino perfici adiutorio veluti iam scirent certissime costanter asserebant. Aiebant enim ecclesiam solitariam clero po-

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puloque vacantem et iccirco neminem nobis inveniemus obstantem. Alii autem hoc temptari dissuadebant et tam clarissimum factum et difficillimum posse fieri desperabant. Ut autem mirream letantes accesserunt ad territorium. Anchora de prora iacitur stant litore pupes. Habito statim inter se ipsos consilio peregrinum quendam quem privatum secum vehebant premiserunt exploraturum qui rediens in castro quo sancti corporis erat basilica turcos non paucos renuntiavit adesse. Ille et enim qui castro eidem preerat ibidem defunctus iacebat et ideo ad exequias funeris convenerunt. Quo audito expansis carbasis ilico versus antiochiam proras ratium direxerunt paucisque diebus secundo curso civitatem predictam adierunt. Ubi navem veneticorum invenientes de uno et alio ut mos est percontari ceperunt. Erant enim quidam de nostris quibusdam veneticis noti et amici qui de corpore beati Nycholai alternatim confabulari ceperunt. Venetici vero quod dudum conceperant animis edere verbis nequaquam dubitaverunt. Nam et palos ferreos et malleos preparatos se habere confessi sunt et quia temptare deberent consilium habitum illis pandere non distulerunt. Quod cum nostri barenses audissent ad hoc incipiendum et perficiendum maiori desiderio sunt accensi et non tam sui pro gloria et honore tociusque nostre patrie magnitudine audatiores et ardentiores esse ceperunt quam pro dedecore et vituperatione quam se sperarent habere. Quapropter maturaverunt negotium propter quod ierant explere et inde quantocius remeare. Quo expleto cum iam remearent et prospero austro velis turgidis undas æquoreas carine sulcarent mirreumque ad litus appropinquarent transire ultraque tendere voluerunt quia iam defervuerant et velud tepidi ex priori facti erant ardore. Ambigere enim ceperant quia difficillimum noverant quod incipere proposuerant cursum etiam velocissimum habere videbantur. Ergo ipsi dimiserant quod prius consuluerant. Ceterum divina dispositio que hoc perficiendum disposuerat non dimisit. Nam imperante potencia creatoris. Ad sua mox rediens siluit loca turbidus auster. Et nimius gelidis boreas est missus ab antris. Ergo inviti steterunt qui modo spontanei noluerunt. Exploratores deinde premiserunt qui redeuntes nuntiaverunt ecclesiam esse solitariam clero et plebe vacuam tribus tantummodo custodientibus monachis neminem impedientem nullumque illic esse resistentem. Indigenarum namque pro meritis exigentibus desolatio ista et devastacio iusto dei iuditio in regionem istam subsecuta est quam gens infidelis invaserat suoque dominio subdiderat et iccirco deserta remanserat. Hoc audito arma continuo conprehenderunt paucisque relictis qui rates interim custodirent acie facta muniti et providi veluti hostibus obviarent ire ceperunt. Metuebant quippe qui terra illa genti infideli subdita erat longeque a litore usque illo quo ibant quasi spatium trium miliarorum esse videbatur. Adeuntes autem claustrumque ecclesie introeuntes arma deposuerunt edem-

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que sanctam humiliter suppliciterque subierunt sanctumque flagitare ceperunt. Singulis vero precibus singulorum finitis prenotatos custodes sancto de corpore percontandi nulla fuit illis dilatio et ubi iaceret requirendi. Quibus illi et hic locus inquiunt sicut a nostris accepimus predecessoribus ubi sine ambiguitate iacere credimus et his locum dictis ostenderunt. Post hec vero sancto de liquore more solito extrahentes illis tribuere de quo per sua cum quidam susciperent vascula presbiter unus barensis illorum collega lupus nomine similiter vitrea de illo parvula suscepit ampullula que loco in alto interim dum loquerentur ut pote secure ibi servaretur posita casu improviso pavimentum super marmoreum cecidit suaque de integritate nequaquam minuta est sed solida ut prius fuerat non sine ammiratione omnium qui aderat eodem de pavimento levata. Porro ceperunt predictis cum monachis quasi temptantes colloqui dicentes: Volumus hinc sanctum corpus tollere nostram ad patriam transportare. Hac enim pro causa romano missi a pontifice venimus tribus advecti navibus si consentire nobis hoc volueritis dabimus vobis de unaquaque pupi centum aureos solidos. Quod illi audientes stupefacti statim sunt effecti et pavidi; Et quomodo inquiunt istud audemus incipere et perficere. Cum nullus mortalis hactenus hoc valuerit impune temptare. Quis autem temerarius tanti commercii esse poterit vel emptor vel venditor vel qui tam preciosa res et ammirabilis tanto thesauro comparabitur aurumne argentumne equabilur vel lapides preciosi si domini terrarum non temerarie sed precibus et supplicationibus istud idem nequaquam inchoare temptaverint quis autem nos valebitis operari. Sinite ergo amplius persequi tantum nephas quia divine non est placitum maiestati tamen probate ecce locus. Hoc autem dixerunt nullo modo putantes posse fieri quo dilli volebant. Quippe cursibus tot transactis solaribus mortalem neminem noverant qui illud occulte furari vel manifeste viribus rapere vel a domino precibus valuit hactenus impetrare. His et aliis de eodem alternatim sermocinationibus habitis confortari se ad invicem et ut auderent statimque inciperent consilium habere ceperunt. Namque non erat illis oportunum aut idoneum differre ulterius sed oppido sinistrum et inconveniens. Phebea enim lampade ad occasum vergente iam advesperascebat res etiam ipsa et locus extraneus reditusque ad naves dilationem ac securitatem illos habere non sinebant. His ergo convenienter prudenterque provisis sepe nominatos monachos primo comprehendunt et tenent deinde speculatores ex illis incommodum accidat. Stabant quoque hinc et inde cum armis divisi per tramites quatinus aliquos fortuitu advenientes caperent et quos tenebant abire non sinerent nec adeo pavidi licet non erat maior. Armatorum manus quadraginta et quatuor iuvenibus audacissimis tamen quamquam dupplicibus fortiter obsisterent hostibus nec verterent terga vel traderent manus. His

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autem cauteforis et prudenter ordinatis intus presbiter ille quem prenominavimus alterque consodalis grimoaldus onomate cum paucis aliis in ecclesia stantes preces inchoant que letanie usualiter vocantur. Sed timore pariter et tremore corropti et veluti dementes effecti lingue instrumento impedito quod inchoaverant clarius expromere non poterant. Interea matheus unus ex nautis ferreo arrepto malleo pavimentum marmoreum percussit et fregit sub quo cementum reperiunt quo diminuto et eiecto urne dorsum marmoree confestim apparuit. Hinc ergo exorta leticia magis et magis infodere veteremque iuncturam calcis imposite quadam cum asciola rumpere ac dissipare fragmentaque eicere non tardabant. Quibus eiectis forisque piramide detecta predictoque aiuvene malleo percussa unoque in latere fracta flagrantissimus subito ac suavissimus odor exit qui mira eos qui aderant delectacione suavitatis implevit. Idem vero iuvenis quem prenotavimus immittens manum primo liquorem adtingens sensit adesse nimium quo urna eadem que non parva erat plena quasi usque ad medium esse videbatur. Deinde immergens dexteram thesaurum preciosissimum quem ineffabili desiderio querebat invenit inveniens celeriter impavidus extrahebat. Nam sicut ipse nobis retulit verbis credibilibus fidem faciens numquam se tam securum tamque interritum stetisse fatebatur. Unde quis ambigat tanta in actione tunc fuisse illum ne formidaret angelico iuvamine confortatum. Expositis quidem membris ceteris confuse ac temere caput adhuc deerat quo nondum reperto tristes aliquantulum sunt effecti. Quapropter inclinatus non ut prius solis manibus immersis cepit infra multitudinem liquoris inquirere verum etiam audacia temeraria pedibus ingrediens sic enim necessitas ammonebat sanctumque capud hinc inde requirens et inveniens egressus salutifero de latice vestibus et toto corpore madefactus. Hoc autem actum est duodecimo kalendas maii. Interea de nautis qui circumstabant sanctis de reliquiis minimis clanculum auferentes occuluerunt. Sed inaniter. Nam qualiter ceteris artubus illas confitentes restituerunt suo in loco post modum in sequentibus ostendemus. His ita consummatis loculus illis deerat ubi sancta illa omnipotentis dei concluderent munera. Inopina enim et improvisa istud actione illis evenerat et iccirco tale aliquid ad accipiendum honesteque componendum nichil secum preparatum adtulerant. Sed tamen alterius quem prenominavimus presbyteri exuta quam induerat tunica quod paludamentum alio vocatur nomine prout poterant involuerunt. Et statim subeunte lupo presbytero quem prescripsimus humeris guttulis odoriferis decurrentibus madefactis onus levissimum nulla terreni ponderis gravitate defertum omnes armis accincti fulgentibus predam sanctissimam non de hostibus ferentes quam ceperant sed dominico de gazophilatio divina gratia largiente sumentes et thesaurum venerabilem de archa sanctissima furtum laudabile non ut putamus sine

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comitatu angelico exultantibus animis cum laudibus altisonis qualiter ut pote laici sciebant ad litora cursibus maturantibus remeabant. Sed etiam urne de marmore quam ruperant non quidam neglexerunt frusta que poterant tollere ex quibus perminutas divisis particulas a multis pontificibus per Italiam multa sunt altaria tabuleque itinerarie consacrate. Similiter actum est et de panno eodem quo artus venerandos involverant nimium madefacto. Quippe utrumque sanctificatum est et ob hoc valde venerandum locisque in talibus honorifice recondendum. Ut autem ponti advenere confinia sanctasque deposuere reliquias orta est inter illos contencio colloquentes que turba vel cuius navis illud ferret onus desiderabile. Obtabat enim unum quodque sodalitium in suo portare navigio. Quis enim nollet servare ac tantum custodire patronum cum ipse ab illo se potius servandum et custodiendum omnibusque adversis eripiendum non desperaret. Omnibus denique complacuit dimissa eadem contencione que orta est quatinus illa navis societas secum veheret in qua navita istius audacissimus operatorum operis esse videbatur si tamen prius aliquod ius iurandum facerent conditione huiusmodi ut ipsi absque omnibus sancto de corpore nichil agerent vel constituerent. Quod ita ut determinavere actum est. Concordia igitur inter illos hoc modo composita ratem ascendunt et alio involventes panno candido et novo priore ablato ligneo vasculo recondunt in quo vel laticem vel temetum naute servare solent. Interea fama pernicibus alis volitans incolis mirrei castri quod non longius miliario uno eadem ab ecclesia monticulo in quodam situm est auresque multorum tristi voce percutiens hoc quod actum est nuntiavit. Concurrentes igitur undique cursibus velocissimis irati nimium ac tristissimi tendebant ad litora raptoque de pastore dominoque lugentes amarissime crines et barbas evellere diutissime non cessabant vocibusque lugubris conclamantes quasi corpus exanime alicuius propinqui carissimi libitina ferentes aiebant Tempore quid miseris heu nobis accidit isto Quo patrie nostre dedecus aspicimus? Munera tanta dei multos servata per annos Tam facili raptu perdidimus subito. Hactenus hocfuerat Licie ditata superno Thesauro tellus ac decorata nimis Laudibus eximiis totum celebrata per orbem Et munita patris magnanimi meritis Infelix mirrea tuis spoliata manebis Cultibus et donis mestaque semper eris. O Nycolae pater toto venerabilis orbe. Cur patriam nostram deseris immo tuam? Hic genitus fueras sanctisque parentibus altus

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Hic puer et iuvenis virque senexque pius Hic pater et dominus pastor custosque benignus Hactenus hac patria vivus et examinis Quelibet hanc miseram quotiens adversa premebant Auxilium petije mox pater alme tuum Rebus in adversis aderas spes una salutis Munimen tribuens supplicibus populis Quorum tu precibus presens venerande favebas Votaque suscipiens queque rogata dabas Undique currebant cunctis e partibus orbis Ad sacrum tumulum sepe salutiferum Noverit heu vacuum simul ac quem turba fidelis Omnis cessabit cultus et omnis honor Munera quippe dei deerunt et gratia prima Istorie solum nomen erat veteris Pastor oves proprias cuinos committis alendas ? Te linquente gregem mox lupus adveniet Virtus solamen nostrum decus omne levamen Tu spes una salus causaque leticie Ve nobis miseris hec omnia perdimus at nos Hinc subit et luctus perpetuusque dolor Heu cui tale nefas fuit hec permissa potestas Efficere et tantum sic violare locum ? Et male tractavit cuius temeraria dextra Fecit et hoc furtum quis modo sacrilegus ? Sed fortunati qui predam fertis opimam Nos infelices occupat omne malum.

Hec et alia tristicia et dolore iraque cogente conclamabant lugentes et ad propria mestissimi lacrimisque madefacti remeabant. Cum autem remearent frequenter vultus convertebant ad litora navesque respiciebant. Eorum quippe tociusque patrie decus et gaudia ferebantur in illis. Interdum vero inhiantes et veluti dementes effecti restabant et quasi torve leene fete tigridesque asperrime fremebant. Illis denique merore consocio abeuntibus lentisque gressibus arenas calcantibus isti comitante leticia exultantibus animis rudentes celeriter exolvunt a littore suaque assidentes per transtra remigare ceperunt alacriter. Nam quanta inerat illis non absque animi stupore leticia nec voce proferre nec litteris esplicare sed neque animadversione comprehendere valeo. Navigantes autem insulam nocte illa que caccavum dicitur adierunt quam postmodum reliquentes laborante remigio magestras ad insulas hoc enim proprio nominantur vocabulo sunt profecti. Hinc vero discendentes nimia cum fatigatione remorum ad loca ubi macri dicitur applicuerunt. Nam tribus his noctibus geminisque diebus boream flantem nimium contrarium habuerunt. Unde quidam mutuo colloquentes dubitantibus animis et turba-

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tis aiebant. Quare nobis flaminis huius adversitas est opposita ne quiescit? Forsitan aliud nobiscum vehimus non autem illud quod autumamus aut si veraciter beati Nycholai corpus gerimus fortassis non sibi placuit ideoque portare ulterius non valemus? Quorum unus eustasius nomine nocte illa que diei succedebat eidem fertur vera sompnii visione vidisse immo huiusmodi passionem sensisse. Irundines enim linguam illius morsibus continere maleque tractare atque cruentare putabantur. Hac itaque visione perterritus et expergefactus de cubiculo surgens nequaquam quod viderat sub corde retinuit verum consotiis omnibus metu nondum recedente de pectore patefecit et quod vere sint Nycholai membra sanctissimi sibique bene complacuisse non ulterius dubitavit. Preterea de predicti venti obstaculo ceperunt ad invicem amplius conqueri et cur illis hoc adversarium accidat percontari. Quamobrem quidam illorum quasi veridici vates existerent talia proferebant. Hec que nostrum impedit iter spiraminis huius minime cessabit ut putamus sed tamdiu durabit adversitas quam diu artubus ceteris particule ille que separate sunt coniugantur. Revera enim quidam e nostris occulte de sanctis abstulere reliquiis et absconditas habent. Sed si leti cupimus omnes nostram remeare ad patriam sancto recondatur corpori quidquid quisque occultat. Iusurandum etiam quisque nostram faciat quod de eo nichil occultum habeat quatinus ab omnibus scrupolosa erpellatur cogitacio. His autem dictis faventibus omnibus singuli singulas quas abstulerant coram ostendere particulas. Quorum unus romoaldus nomine duos de dentibus et minutis articulis quos occultos habuerat manifestavit. Alter etiam quidam ut ipse referebat sancto de liquore totum madidum marsuppium ubi servaverat quod furtim abstulerat se invenisse confessus est. Restitutis denique particulis ablatis ceteris artubus unus quisque coram omnibus libro evangelii posito iuramento satisfecit huiusmodi quod sancti de reliquiis Nycholai nichil haberet absconditum et quis haberet nesciret. His ab omnibus ita peractis unanimiter iam minime senserunt ulterius adversa ventorum spiramina et quid inconsulte prius egerant quid post modum bene consuluerant aperte cognoverunt. Flante igitur prospero flamine latumque carinis equor sulcantibus domino collaudantes magnalia letissimi cursu vehebantur citissimo et sicut postea iam peracto itinere sunt experti quod illis predictum fuerat valde mirabile. Namque uni ex nautis cuius nomen erat disigius cum quies soporifera membra tenebat apparens imago viri venerabilis fertur dixisse: nolite timere sed constantes estote quia vobiscum ero. Et ille quis tu inquit es domine? Cui sic responsum venerandus reddidit heros. Sum Nycholaus ego vobiscum qui modo dego et ut me verum experiamini dicere die vicesimo a quo meum corpus abstulistis barinum portum intrabitis. Hec ubi imago illa locuta est ab occulis illius evanuit. Hoc autem ille evigilans enarrare omnibus non tardavit. Quod ita

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demum evenisse ut prenotatum est constat. Hinc ergo tanto confisi oraculo minime iam pelagi minas exhorrebant nec impetus ventorum rabidos ut per pavidi naute solent expectabant nec tempestatem ponticam contra se futuram metuebant. Quippe illum per quem tempestates terribiles quievere sepissime secum per pelagus securi portabant. Quibus gaudentibus medio pelago carinis currentibus avicula quedam ex improviso apparuit que huc illucque infra navem nunc volitans nunc pedibus inter nautas ambulans quasi mansueta capabilis atque domestica ibat et redibat ascendebat et descendebat. Quam aspicientes vultu ilari mirabantur non solum de mansuetudine illius et circuitione sed etiam de adventu. In medio enim equore ventosis alis volantibus navibus ab insulis et tellure longissimo intervallo separati videbantur et idcirco unde predicta volucris advenisset animadvertentes leticiam simul et ammirationem conceperunt. Que aliquantulum hac illacque infra ratem deambulans ab occulis omnium est ablata et nusquam amplius visa. Leti sunt igitur ex hoc effecti quod visu corporeo viderant quem aliud preter volucrem inspecie illa fuisse interiori speculatione credebant. Sed ampliori cotidie leticia implebantur. Plurimis namque vicibus inter lucem et tenebras odorem suavissimum mirabilem et incognitam aspirantem flagrantiam sentiebant. His omnibus merito letificati successibus portum sancti georgii paucis diebus advenerunt. Qui locus barinis amenibus quasi quinque abest miliariis. Hic autem illo de vasculo quod prenotavimus sanctas extrahentes reliquias lignea in capsella quam in itinere preparaverant digna prius veneratione osculantes honorifice quantum quiverant concluserunt et pallia de forum stricte contexerunt. Sed premiserunt interea quosdam de suis barensem ad clerum et populum nuntios quibus nuntiantibus confestim civitas tota gaudio novo et mirabili est repleta omnique mox dilatione remota uterque sexus et omnis aetas infirmi etiam ad litora convenerunt. Nam fere viri omnes et mulieres senes et iuvenes anus et iuvencule pueri et adolescentule infantuli et infantule naves sepe dictas tantam baro cuncteque leticiam afferentes italie intentis obtutibus venientes et letissimis mentibus expectabant. Ut autem iuxta portum amplicuerunt cui viro ecclesiastico et religioso tantum thesaurum porrigerent et committerent ipsi qui attulerant ignorabant. Nam urso barinorum archiepiscopus vir religiosus deo dignus dominisque italicis notissimus ac familiaris amicus aberat. Erat enim apud tranum cum quo & nos illo in die qui illic navis preparata stabat quam post diem alterum intrase (?) disposuerat, causa orationis hierosolimam proficisci. Legatus ergo statim, cum litteris a civibus barensibus ad illum festinus advenit, que omnipotentem dominum tanta dona mirifica illius ecclesie suo in tempore concessise significabant. Dimisso igitur ille quod incepit itinere, immensa repletus letitia, barum nequaquam […] properare. Naute vero predicti helie

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abbati [cenobi sancti] benedicti quod supra portum situm est […] reliquiis capsellam eandem […] vit quam ille suscipiens in eandem beati benedicti ecclesiam deposuit nono die intrante mense maio in quo translationis eius est costituta sollem […] celebrari tribusque diebus et noctibus suis cum fratribus diligenter et caute custodivit. Nam inde postea fuit ablata & ad curiam que dicitur catepani portata. Inter cives namque barenses civilis dissensio & seditio exoriens geminas est in parte divisa, una et enim pars in hac civitatis parte, altera vero in altera sanctum collocare nitebatur. Denique vero eodem veniente archiepiscopo naute civesque flagitaverunt illum quatinus eandem infra curiam ipso favente sineretur quia locus …

2a. Traduzione della Translatio dell’arcidiacono Giovanni dal codice Reg.lat.477 Con nostre lettere comunichiamo a tutte le chiese di Cristo quali cose da conoscere, ammirare, lodare e venerare l’onnipotente Dio per i meriti del suo servitore il beatissimo Nicola si sia degnato di presentare ai mortali nei tempi presenti: cioè in che maniera dalla città di Mira le sue membra sacrissime da cittadini Baresi siano state traslate a Bari, dove si sono mostrati anche numerosi prodigi e miracoli stupendi: i quali intendiamo comunicare con la voce o con gli scritti ai nostri contemporanei ma anche di lasciare in eredità – come cose degne di ricordo e di narrazione – alle generazioni che ci seguiranno. Infatti noi sappiamo senza alcun dubbio, e pure tutta la fedele Chiesa sparsa nel mondo intero lo ha constatato in innumerevoli modi, perché la Maestà divina è disposta ad assegnare ai suoi fedeli in Cristo privilegi appropriati e sicuramente graditi per i meriti degli altri santi, tuttavia soprattutto e spessissimo non ha trascurato di elargirli per i meriti di lui, qualunque siano le grazie richieste invocando il suo nome. Di conseguenza in tutte le nazioni e province, dove è onorato Cristo Signore, si trovano basiliche consacrate al suo nome in numero maggiore che agli altri santi; e i mortali che celebrano le sue feste solenni sono molti di più di quelli devoti ad altri santi. Infatti perché se taluno è esposto a qualche pericolo avverte tanto presto l’aiuto del Cielo? Ci esprimiamo in questo modo non per allontanarci dagli altri santi, o per diminuire ostilmente i loro pregi: ma perché esaltiamo le sue virtù, apprezziamo la costanza e la continenza di vita, e con nostra ammirazione lodiamo pubblicamente colui che, vicino a Dio, ha ottenuto grazie durante e dopo questa vita, e ancora ne riceve. Per la qual cosa questa festa della

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traslazione deve essere onorata con affluenza di popolo e letizia non minori di quelle della solennità della sua morte. Infatti i contrassegni delle sue virtù oggi come allora sono apparsi ugualmente evidenti e senza numero. Ma forse non tutte le chiese sono disposte a celebrarle in ugual modo. Tuttavia Bari con tutta la Puglia non trascurerà di rendergli onore ogni anno con gli elogi più appropriati e le preghiere più umili. Soprattutto questa città, veramente, si è arricchita di un tesoro tanto grande e si è resa così illustre per la presenza di questa grande dignità. Non intendiamo per nulla di prendere ciò a pretesto per creare contrasti con tutti gli altri fedeli. Ciononostante vogliamo affermare la verità, che noi conosciamo con piena certezza: poiché si ritiene e si riterrà da tutti ammirevole e venerando ciò che il creatore di tutte le cose volle mostrare ai mortali in questa circostanza, come prima è stato detto. Pertanto io Giovanni arcidiacono della Chiesa di Bari per volere di Ursone mio signore e padre, arcivescovo della Chiesa di Bari e Canosa, non esiterò a rivelare, brevemente chiaramente e anche seriamente come il tutto sia successo.

Inizio della storia della traslazione Dopo che la materia incorporea e invisibile del beato Nicola fu separata da quella visibile e corporea, preparata e collocata in pace dagli spiriti celesti, molti imperatori e molti potenti mortali cercarono con grandissimo impegno di sottrarre i suoi resti dal sepolcro per portarli nella loro patria. E infatti uno dei grandi palatini incaricato dal suo imperatore, alla cui sovranità la terra di Mira era soggetta, di sottrarre e portar via quel tesoro, venne alla chiesa dove il santo corpo riposava. Costui, comprendendo di non essere capace di compiere l’azione per cui era venuto, iniziò a sollecitare umilmente il beato Nicola, che se non fosse stato d’accordo ad essere traslocato da quel posto, gli concedesse di mostrargli qualche piccola reliquia che potesse baciare. San Nicola non deluse la sua richiesta ma soddisfece ciò che egli implorava. Infatti là dove il ministro della chiesa soleva estrarre il liquore dall’urna con un pannicello, all’improvviso apparve un dente tirato fuori con quello. Lo afferrò con somma letizia e cominciò a ringraziare Dio e il suo servitore Nicola e a coprirlo di tantissimi baci. Subito lo chiuse in una cassetta aurea e la poggiò sull’altare che era lì. Dopo che lo ebbe osservato per un po’, vide fuoriuscire da quella cassetta dell’olio. Perciò la ricoprì col mantello, pensando che così potesse mantenere

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dentro quell’olio e che il liquore non uscisse più all’esterno, ma invano. Infatti quanto più l’avvolgeva col mantello, tanto più lo stesso liquore fuorusciva e inzuppava il mantello legato attorno alla cassetta. Allora cominciò a disperare di riuscire a tenere celato l’accaduto, come aveva desiderato, e capì che il Signore lo rivelava. Si dice anche che il beato Nicola gli apparisse in sogno, e tenendo in mano il dente e mostrandolo, dicesse:

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Ecco io ho soddisfatto la tua richiesta. Ma non potrai portarlo via con te, come avresti voluto, perché io non tollero che la più piccola parte del mio corpo venga separata dalle altre mie membra.

Allora colui si sveglia, e sapendo che si era trattato soltanto di una immaginazione provocata dal sogno, non riuscì a trovare dove fosse il dente. In verità questo fatto lo troviamo scritto in libri greci, e perciò l’abbiamo posto avanti al nostro racconto, poiché il Signore onnipotente non permise che il corpo del suo servo fosse traslato da dove era stato fino ad allora nel corso di tanto tempo. Infatti come si trova scritto in una veritiera storia dei Greci, questo santissimo pontefice ormai vecchio è stato presente al concilio di Nicea nel quale, essendo presidenti il beato papa Silvestro e il grande imperatore Costantino, viene condannata l’eresia di Ario e dei suoi fautori. Dopo la fine del concilio, il qual beato Nicola senza dubbio sopravvisse pochi giorni, poi rese l’anima al cielo e lasciò il corpo alla terra. Naturalmente da allora fino alla traslazione delle sante reliquie, secondo i calcoli di quei greci, trascorse un intervallo di tempo pari a duecento gare olimpiche. E invece, secondo i nostri calcoli, nella indizione decima, anno mille e ottantasette da quando il verbo di Dio si è fatto carne e venne ad abitare in noi, alcuni baresi vollero partire con tre navi diretti ad Antiochia per scopi commerciali. Quando a vele spiegate volavano sopra i regni di Nettuno, i predetti marinai quasi avvertiti da una ispirazione divina, iniziarono a trattare tra loro del rapimento di un tesoro così importante. Alcuni di essi cercarono di persuadere gli altri a tentare l’impresa, e asserivano fermamente come se ne fossero del tutto convinti, che essa potesse essere compiuta con l’aiuto divino. Dicevano infatti che la chiesa era lontana dall’abitato, senza sacerdoti e gente del popolo, di conseguenza non troveremo nessuno che ci si opponga. Altri invece si adopravano per convincerli a non tentare questa azione perché era tanto chiaro che sarebbe stato difficilissimo compierla. Appena giunti felicemente a Mira, dato fondo all’ancora a prora, le poppe stavano verso il lido. Tenuta subito tra

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di loro un’assemblea, si fecero precedere, con funzione di esploratore, da un pellegrino che portavano seco. Costui, al suo ritorno, riferì che nella città, dove era la basilica del santo corpo, erano presenti non pochi Turchi. Infatti colui che era a capo di quella città giaceva lì morto, e perciò vi si erano raccolti per le sue esequie. Udito ciò, sciolte le vele, volsero le prore verso Antiochia e dopo pochi giorni con navigazione propizia in poco tempo arrivarono alla città predetta. Avendovi incontrato una nave di Veneziani, come d’abitudine cominciarono a parlare del più e del meno. Alcuni Veneziani, che a turno cominciarono a confabulare del corpo del beato Nicola, erano amici o conoscenti di parte dei baresi. In verità i Veneziani, parlando, non ebbero alcuna esitazione nel rivelare ciò che avevano appena concepito. Infatti confessarono di avere preparato sbarre di ferro e mazze, e dato che si erano riuniti per decidere di effettuare il tentativo, non esitarono di svelarlo agli altri. Quando i nostri Baresi ascoltarono ciò, accesi maggiormente dal desiderio di dare inizio all’impresa e di portarla a compimento, cominciarono a essere più audaci e più animosi, non tanto per la loro gloria e per il loro onore, quanto per il timore di essere esposti a disonore e vergogna. Per questo motivo anticiparono la conclusione degli affari per i quali s’erano mossi, allo scopo di tornare il prima possibile. Conclusi gli affari, quando già avevano intrapreso il viaggio per casa con le vele gonfie del propizio vento meridionale si avvicinarono al lido di Mira e avrebbero voluto proseguire oltre perché, ormai, dopo il primo entusiasmo, già si erano come intiepiditi. Infatti avevano cominciato a discutere perché si erano resi conto delle grandissime difficoltà di compiere quanto avevano deciso di fare e credevano di navigare troppo velocemente. Pertanto essi stessi rinunciarono a mettere in atto quanto avevano prima concordato di eseguire. La disposizione divina, però, non rinunciò a quanto aveva stabilito di compiere. Infatti per la potenza sovrana del creatore, poco dopo, mentre il torbido austro si calmò e ritornò nei suoi luoghi, la bora sfrenata fu liberata dalle gelide grotte. Perciò essi, che prima non avevano voluto farlo spontaneamente, contro la loro volontà si fermarono. Quindi inviarono degli esploratori che, tornati, dissero che la chiesa era in un luogo appartato, senza sacerdoti e popolani, sorvegliata soltanto da tre monaci custodi e che nessuno lì avrebbe potuto porre impedimenti o fare resistenza. Infatti per punire le colpe degli abitanti, a seguito di una giusta decisione divina, erano sopraggiunte tale desolazione e tale devastazione in questa regione che era stata invasa da gente infedele. Messe da parte le proprie cose, che nel

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frattempo qualcuno avrebbe custodito, fatta una squadra, armati e in guardia contro eventuali incontri coi nemici, cominciarono ad avanzare. Infatti temevano perché quella terra era soggetta a gente infedele e sembrava che, dal lido fino al luogo che dovevano raggiungere, ci fosse una distanza di almeno tre miglia. Andati avanti ed entrati nel chiostro della chiesa, umili e supplici s’introdussero nel sacro luogo e cominciarono a cercare il santo corpo. Finito di pregare, non persero tempo e iniziarono a interrogare i predetti custodi a proposito del santo corpo. E quelli replicano ad essi:

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È questo il posto: crediamo che senza dubbio egli riposi qui, come apprendemmo dai nostri predecessori

e indicarono il sito. Successivamente estraendo nel modo abituale il santo liquore lo dettero a loro. Alcuni ne raccolsero una parte in vasetti di vetro. Un loro collega, il prete barese chiamato Lupo, ne fece riempire un’ampollina di vetro. Mentre parlavano la pose in alto per conservarla al sicuro. Per un caso imprevisto l’ampollina cadde sul pavimento di marmo e la sua integrità non fu per nulla danneggiata ma, intatta come prima, fu sollevata dal pavimento tra lo stupore generale. Allora cominciarono a parlare con i monaci sopradetti dicendo: Vogliamo togliere da qua il santo corpo e trasportarlo nella nostra patria. Infatti per questa causa siamo stati mandati dal pontefice romano, siamo venuti con tre navi e se ci permetteste di fare ciò, daremo a ciascuno di voi cento soldi d’oro per ognuna delle nostre barche.

Quelli, ascoltando tali parole, rimangono subito meravigliati e impauriti e dicono: In qual modo oseremmo noi tentare e mettere in atto ciò che nessuno, fino a oggi, ha mai osato senza essere punito? E poi chi potrebbe essere o compratore o venditore in una transazione tanto importante o quale cosa tanto preziosa e meravigliosa potrebbe essere messa a paragone con un tesoro di tanto valore che non può essere confrontato né con l’oro né con l’argento o con le pietre preziose? Se i signori della terra giammai hanno temerariamente tentato una simile azione e nemmeno con preghiere né con suppliche in che modo potreste voi realizzare un cosiffatto progetto? Cessate dunque di mandare avanti un programma tanto criminale, perché non è accettabile per la maestà divina. Tuttavia provate, se proprio volete: ecco qui il posto.

Ciò dissero allora, pensando che in nessun modo potesse accadere quanto essi volevano. Infatti in tanti anni che erano trascorsi non

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avevano conosciuto alcun mortale che fino a quel momento fosse riuscito a rubarlo celatamente, o ad appropriarsene violentemente e manifestamente o a riceverlo da Dio grazie alle preghiere. Dopo essersi scambiati questi e altri pensieri, cominciarono a incoraggiarsi reciprocamente e a incitarsi a osare e a cominciare subito. Non era infatti opportuno e conveniente per loro rimandare ancora l’impresa ma, per la città, sarebbe stato funesto e vergognoso. Infatti il sole era prossimo al tramonto e già si approssimava il crepuscolo. L’azione in se stessa e la lontananza del sito e il ritorno alle navi non consentivano loro di accettare ritardi a danno della sicurezza. Messisi d’accordo convenientemente e prudentemente su questi argomenti, dapprima prendono prigionieri i predetti monaci e li immobilizzano; quindi tra di loro scelgono delle vedette che possano scoprire chi venisse da qualunque direzione, affinché improvvisamente non accada nulla che essi non avrebbero gradito. Si erano collocati qua e là, armati, sparsi sulle vie di accesso per impadronirsi di chi fosse comparso accidentalmente e per non far fuggire i prigionieri. Davvero non erano timorosi, anche se gli armati non erano più di quarantaquattro individui, seppure giovani e coraggiosissimi, e tuttavia se avessero dovuto contrastare valorosamente una quantità doppia di nemici non avrebbero voltato le spalle e non si sarebbero arresi. Dunque avendo disposto questi all’esterno con prudenza e cautela, quel prete che prima abbiamo menzionato, e un suo sodale chiamato Grimoaldo, all’interno stando in piedi con pochi altri nella chiesa cominciano a recitare quelle preghiere che abitualmente sono chiamate litanie. Ma, colti sia dalla paura sia da tremiti in tutto il corpo e resi quasi dementi, con la lingua bloccata, non potevano esprimere più chiaramente quelle preghiere che avevano cominciato a recitare. Nel frattempo uno dei marinai, Matteo, afferrò una mazza di ferro, percosse il pavimento marmoreo e lo fracassò. Sotto ad esso trovò uno strato di cemento che spaccò e, gettatine via i frammenti, immediatamente apparve il coperchio di un’urna di marmo. Felici per questa ragione, scavarono ancora di più e con una piccola scure infransero una vecchia giuntura di calce e non tardarono a rompere e spargere frammenti e a gettarli. Rimossi i detriti ed estratta l’urna piramidale, questa venne rotta da un lato quando fu percossa dalla mazza del giovane. Improvvisamente ne fuoruscì un odore fragrantissimo e soavissimo che riempì i presenti di un piacere meraviglioso e dolce. In verità lo stesso giovane già nominato per prima cosa introdusse la mano nell’urna, toccò il liquore e notò che ve n’era una gran quantità in quel recipiente di non piccole dimensioni

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apparentemente colmo per metà. Quindi v’immerse la mano destra e trovò ciò che cercava con malcelata brama. L’intrepido tirò subito fuori ciò che aveva trovato. Infatti, come egli stesso ci ha raccontato, ispirando fede con parole credibili, ammetteva che mai egli si era sentito tanto fiducioso e tanto audace. Perciò chi oserebbe mettere in dubbio che egli in quell’azione così ardua non sia stato confortato da un angelico aiuto per evitare di essere preso dalla paura? Esposte alla cieca e disordinatamente tutte le membra raccolte, si accorsero che mancava il cranio. Non riuscendo ancora a trovarlo si rattristarono alquanto. Perciò quel giovane si chinò e si mise a cercarlo nell’abbondante liquore non con le sole mani, come prima, ma con audacia tenne immersi i piedi (così infatti imponeva la necessità). Dopo aver cercato qua e là e aver poi trovato il santo capo, venne fuori dall’urna con il corpo e con i vestiti zuppi del lattice salutifero. In effetti ciò avvenne il dodicesimo giorno delle calende di maggio. Intanto alcuni marinai che stavano lì vicino di nascosto rubarono alcune piccolissime parti delle sante reliquie e le nascosero. Ma inutilmente. Infatti più avanti narreremo come essi confessarono la colpa e restituirono quelle particelle da unire alle altre membra. Terminata l’impresa, mancava loro un involucro dove conservare quei santi doni di Dio onnipotente. E infatti le cose erano andate in modo inaspettato e imprevisto ed essi non avevano portato seco nulla per accogliere le reliquie e comporle onorevolmente. Tuttavia le ricoprirono il meglio possibile con la tunica che uno di quei preti citati si era messo e poi si era tolto e che si può anche chiamare paludamento. Subito il prete Lupo si pose sulle spalle quel fardello leggerissimo senza alcun peso terreno, dal quale scorrevano gocciole profumate che gli bagnavano le spalle. Provvisti di armi rilucenti, portando una preda santissima che non avevano sottratto in veste di nemici, ma elargita da Domenico di Gazophilatio per grazia divina, e avendo preso lodevolmente ma di nascosto il tesoro venerabile dalla santissima arca, in compagnia degli angeli, come crediamo, con gli animi esultanti, con lodi altisonanti che dei laici potevano sapere e non, se ne tornavano in fretta alla spiaggia. Ma ci fu chi non trascurò di raccogliere anche tutti i frammenti che poté dell’urna di marmo con i quali, suddivisi in piccole parti, in tutta Italia da molti vescovi sono stati consacrati numerosi altari e tavole portatili. Similmente ci si è comportati con il panno zuppo di liquido con cui era stato avvolto il santo corpo. Naturalmente tutti gli oggetti furono santificati, cosicché sono molto venerati e custoditi con tutti gli onori in tali luoghi. Come arrivarono alla riva del mare e poggiarono le sante

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reliquie, tra loro nacque una contesa a proposito di quale gente e di quale nave dovesse portare quel peso tanto desiderato. Infatti ogni equipaggio ambiva portarlo sulla propria nave. E chi mai non avrebbe desiderato di conservare e custodire un patrono così importante che avrebbe potuto renderlo immune da tutte le avversità? Infine fra tutti fu concordato che, cessata la rivalità che era sorta, lo trasportasse la nave su cui era imbarcato quel marinaio audacissimo che sembrava essere stato l’artefice dell’impresa, a patto che prima si giurasse di prendere di comune accordo tutte le decisioni a proposito del santo corpo. Fu fatto ciò che così determinarono. Raggiunta in questo modo la concordia tra loro, salgono a bordo e, toltolo dal vecchio mantello, lo avvolgono in un altro panno candido e nuovo, che mettono a posto in un involucro di legno di quelli che i marinai usano per conservare l’acqua e il vino. Intanto la fama, svolazzando qua e là con ali veloci, riferisce cosa era accaduto agli abitanti di Mira, città posta su una collina a meno di un miglio da quella chiesa, colpendo con voce triste le orecchie di molte persone. Allora, correndo velocissimi verso la spiaggia, piangenti e amareggiati moltissimo per il loro pastore e signore che era stato rapito, senza cessare di strapparsi i capelli e le barbe, e strillando con voce lugubre, come se stessero portando alla sepoltura il corpo esanime di un parente carissimo dicevano: Ahi a noi miseri cosa è accaduto in questo tempo in cui vediamo la vergogna della nostra patria? Preziosi doni divini conservati per tanti anni perdemmo all’improvviso per un furto facile. Fino a ora la terra di Licia dotata di un superno tesoro, decorata moltissimo da lodi esimie, celebrata per tutto il mondo, e difesa dai meriti di un padre magnanimo. Mira infelice, resterai spogliata dei tuoi culti e dei tuoi doni e sarai sempre mesta. O Nicola, padre venerabile in tutto il mondo, perché abbandoni la nostra patria, anzi la tua? Qui fosti messo al mondo e allevato dai tuoi santi genitori, qui sei stato fanciullo, giovane, uomo e pio vecchio, qui padre e signore, pastore e custode benigno. Fino a ora in questa patria, vivo o esanime, ogni volta che una qualunque avversità opprimesse questa misera subito riceveva il tuo aiuto padre almo presente nelle avversità come unica speranza di salvezza, fornendo difesa ai popoli supplici alle cui preghiere, venerando e presente, replicavi favorevolmente. Accettando i voti, esaudivi qualsiasi domanda. Da ogni dove e da tutte le parti del mondo correvano

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al tuo santo sepolcro spesso salutifero. Ahi, appena la moltitudine dei fedeli lo saprà vuoto cesserà ogni culto e ogni onore. Certamente verranno meno i doni del dio e la grazia originaria. Rimarrà solo il nome di una storia antica. Pastore a chi affidi le tue pecore per portarle al pascolo? In tua assenza, subito, il lupo assalirà il gregge. O virtù, nostra consolazione, decoro di ogni genere, tu, unica speranza, unica salvezza e causa di letizia. Guai a noi miseri, tutte queste cose abbiamo perduto anzi di qui cadranno lutto e dolore perpetuo. Ahi, a chi fu concessa questa nefanda potestà di commettere un sacrilegio così grave e di violare in tale maniera questo luogo? Di chi era la destra temeraria che agì malvagiamente, e quale uomo sacrilego effettuò questo furto? Ma fortunati voi, che portate la ricca preda! Ogni male invade noi infelici.

Queste e altre cose con tristezza e con dolore, sotto la spinta dell’ira, gridavano piangenti e tornavano alle loro case zuppi di lacrime. Mentre camminavano assai mesti spesso volgevano la testa verso la spiaggia e guardavano le navi di quelli perché su di loro si trasportavano l’onore e la gioia della patria. A volte, in verità, rimanevano con la bocca spalancata come se fossero divenuti dementi e strepitavano come feroci leonesse gravide e tigri ferocissime. Infine, mentre questi procedevano uniti nel loro dolore, costoro colmi di gioia, velocemente ritirano le gomene dal lido e sedendosi sui banchi dei rematori cominciano a vogare alacremente. Non sono in grado di esporre a voce né di spiegare per iscritto, ma anche di comprendere con lo sguardo, quanta gioia non priva di meraviglia essi allora provassero. Navigando tutta la notte, giunsero all’isola detta di Caccavo e, dopo averla superata a forza di remi, arrivarono alle isole Magestra, chiamate così col proprio nome. Invero, partiti da lì con eccessiva fatica dei rematori, approdarono in un’isola detta Macri. Navigarono in effetti per tre notti e due giorni ed ebbero sempre contraria una bora di forza crescente. Ragion per cui parlando tra loro si dissero con spirito dubbioso e turbato: Perché mai l’avversità di questo vento ci si oppone e non diminuisce? Forse portiamo con noi qualcosa diversa da quella che pensiamo? O, se veramente portiamo il corpo del beato Nicola, forse a lui non è piaciuto ciò che abbiamo fatto e perciò non riusciamo ad andare avanti?

Si riferisce pure che uno di loro, di nome Eustasio, la notte appresso a quel giorno ebbe una visione autentica nel sonno e abbia

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visto, e anzi che abbia sofferto un patimento di questa specie, credeva infatti che delle sanguisughe, afferrata la sua lingua, la maltrattassero e la facessero sanguinare. Spaventato da questo incubo, e spostatosi qua e là, alzandosi dal giaciglio non si astenne dal raccontare ciò che aveva visto, ma lo manifestò a tutti i compagni, senza avere ancora cacciato via dal petto la paura. Non ebbe più motivo di dubitare che quelle membra non fossero del santissimo Nicola e non ebbe più dubbio che egli avesse apprezzato ciò che avevano fatto. Ricominciarono a lamentarsi dell’avversità del vento contrario e a domandarsi a propria volta e più intensamente perché proprio a loro dovesse accadere d’incontrare tali contrarietà. Per questa ragione alcuni di essi, come se fossero profeti veridici affermavano: Riteniamo che questo accanirsi del vento che ostacola il nostro cammino non avrà fine sino a quando non saranno ricongiunte alle membra quelle particelle che ne sono state staccate. In effetti qualcuno dei nostri di nascosto le ha sottratte dalle sante reliquie e le tiene celate: ora, con giuramento, facciamo in modo che non abbiamo addosso qualcosa da nascondere, affinché nessuno di noi possa essere sospettato.

Uno di loro, di nome Romualdo, mostrò due denti e minuscoli pezzetti che aveva messo da parte. Un altro confessò di aver trovato completamente madido del santo liquore il marsupio nel quale aveva conservato ciò che aveva sottratto di nascosto. Restituiti questi frammenti al resto delle membra, ciascuno davanti a tutti prestò giuramento sul libro del Vangelo di non aver nascosto nulla delle sante reliquie di san Nicola e di ignorare che altri ne avesse. Fatte da tutti queste cose, subito non sentirono più i venti soffiare contro di loro e si resero conto di ciò che prima avevano compiuto sconsideratamente, e di ciò che dopo avevano palesemente deliberato. Col vento che soffiava a favore e con le navi che solcavano il vasto mare, mentre elogiavano le grandi imprese del Signore, erano trasportati ad alta velocità lietissimi perché erano a conoscenza che, una volta completato il viaggio di ritorno, era stato predetto loro qualcosa di meraviglioso. Infatti a un marinaio, il cui nome era Disigio, mentre una quieta sonnolenza invadeva le sue membra, era apparsa l’immagine di un uomo venerabile che gli aveva detto: Non abbiate paura, perché io sarò con voi.

Ed egli: Chi sei tu, Signore?

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disse. E a lui il venerando eroe rispose:

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Io sono Nicola, che vivo soltanto con voi, e affinché tu abbia certezza che io dico la verità, nel ventesimo giorno da quando prendeste il mio corpo, entrerete nel porto di Bari.

Subito dopo aver parlato così, l’immagine sparì dai suoi occhi. Quindi, una volta sveglio, non tardò a raccontare l’accaduto a tutti. Alla fine risulta che accadde ciò che era stato preannunciato. Per questa ragione fiduciosi in una profezia tanto importante, non avevano per niente paura delle minacce del mare, né della furia dei venti rabbiosi, come succede spesso ai naviganti impressionabili, e neppure temevano che le tempeste del mare potessero scatenarsi contro di loro. Infatti portavano seco colui per il cui potere spessissimo si quietavano tempeste terribili. Erano perciò felici di solcare le onde marine quando, improvvisamente, apparve un uccellino che, ora svolazzando qua e là, ora zampettando tra i piedi dei marinai, come se fosse mansueto e addomesticato, andava e tornava, saliva e scendeva. Mentre essi lo guardavano sorridenti, si meravigliavano non solo della sua mansuetudine e del suo girare intorno, ma anche della sua venuta. Infatti, in mezzo al mare, con le navi volanti per le vele gonfie di vento, credevano di essere molto distanti dalle isole e dalla terraferma. Per tal motivo, consapevoli da quanto lontano potesse essere venuto, allo stesso tempo erano meravigliati e felici. Il volatile, dopo aver passeggiato qua e là per un po’ di tempo, scomparve dalla vista di tutti e non fu più visibile. Lieti dunque per questo avvenimento, che avevano seguito con i loro occhi perché, ragionandoci sopra, si erano convinti che ci fosse un’altra cosa sotto la forma di quell’uccello. Ma ogni giorno si accresceva la loro gioia. Molte volte infatti, tra la luce e le tenebre, percepivano un odore soavissimo, meraviglioso che diffondeva una fragranza sconosciuta. Lieti per tutti questi fatti, dopo pochi giorni giunsero al porto di S. Giorgio, che dista meno di cinque miglia dalle mura di Bari. Qui dunque tolsero dal vaso che già abbiamo nominato le sante reliquie, baciatele prima teneramente e con dignitosa venerazione, le posero nella cassa di legno che avevano preparato strada facendo e poi con tutti gli onori possibili le chiusero e intorno vi strinsero strettamente un manto. Intanto mandarono subito avanti qualcuno di loro come messaggero al clero e ai cittadini di Bari. Tutta la città si riempì di una gioia nuova e meravigliosa, e immediatamente senza alcun indugio gente di entrambi i sessi e di tutte le età, compresi gl’infermi, venne alla spiaggia. E infatti quasi tutti, uomini e donne,

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anziani e giovani, vecchi e fanciulli, bambini e adolescenti, bimbi e bimbetti, aspettavano felicissimi le navi già dette che portavano una enorme gioia a Bari e a tutta l’Italia. Quando poi arrivarono al porto, quelli che lo portavano ignoravano a quale ecclesiastico o religioso avrebbero dovuto porgere e affidare un tesoro così grande. Ursone arcivescovo di Bari, uomo religioso, degno di Dio, amico ben noto e intimo dei signori d’Italia, era assente, era infatti vicino a Trani e quel giorno noi [Giovanni] eravamo insieme a lui. Infatti lì era pronta una nave sulla quale aveva deciso di imbarcarsi entro due giorni, per andare a pregare a Gerusalemme. Allora giunse da lui in fretta un inviato dei cittadini di Bari con delle lettere in cui si facava conoscere qual dono meraviglioso l’onnipotente Signore avesse concesso in quei giorni alla sua chiesa. Messo dunque da parte il viaggio progettato, egli, colmo d’immensa letizia per niente trattenuto da impedimenti, decise di andare in fretta a Bari. Intanto i predetti marinai avevano consegnato la cassetta contenente le reliquie a Elia, abate del cenobio di S. Benedetto, situato sopra il porto. Egli, avendola presa dopo averla ricevuta il nove del mese di maggio, la depose nella stessa chiesa del beato Benedetto, nel quale giorno fu deciso di celebrare la festa della Traslazione, e per tre giorni e per tre notti Elia e i suoi confratelli la custodirono diligentemente e con circospezione. Quindi, in effetti, fu presa e portata nella curia detta del Catepano. Però tra i cittadini di Bari, essendo scoppiate una divergenza e una sedizione, la città è divisa in due parti. L’una intendeva porre il corpo del santo in una zona della città, l’altra in una zona diversa. In verità essendo infine giunto l’arcivescovo i marinai e i cittadini gli chiesero insistentemente che con il suo consenso venisse posata quella [cassetta] all’interno della curia perché il luogo…

3. La Translatio di Niceforo dal codice Vat.lat.6074 Incipit prologus quem nikeforus clericorum omnium minimus composuit in translatione sancti Nicolai confessoris. Sicut manus scriptoris perita est ad dilucidandam suæ indaginis thoraclam ita strenua ad propalandam quali in sexu conditionis enucleet. Cuius figmentum sicut durum est in veritatis comparatione animari sensuumque discretione connecti, sic durum fore diiudicatur infirmis fisice ethice loiceque rimari differentias. Quas illos insulare ad enucleandas decet qui secundum cathegorias activæ contemplativæque censuras vitae nectarea ancii camena boare norunt quique sensum sensui

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verbum verbo sophistico peripateticorum dogmate vicatim indere currant. Eque quidem ego nikeforus barentium omnium ultimus ineptus arte incultusque lucifluo sermone ad formandos huius confessoris dei clandestinos mores tam feramque vitam quamquam immeritus eius suffragatus amminiculo aggrediar sue translationis textum stili sub brevitate angere. Quam domnus curcorius lucidissimus arbiter ceterique barentium pretores immo sanctarum ecclesiarum rectores summo cum nisu cogentes me dilucidare rogarunt. Quorum precatibus parens propter eiusdem sancti amorem eorumdem fidem fultus interventibus quamquam inscius cernor ad tam lucifluum opus annisus sum exarare. Ideoque sophos flagito lectores catosque liberalium artium calculatores ut aplestia sopita invidia apologeticum in hoc conferant sermonem.

Explicit prologus Igitur dum omnipotens deus suo propentiori atque archano censuisset consilio qualiter barensem urbem cunctamque apuliam regionem serenissimo ac perpetuo visitaret immo decoraret splendore. Actum est eius divina providentia ut quidam barentium sagaces atque illustres viri cum suis ratibus oneratis frumento ceterisque mercibus pergerent antiochiam. Qui dum ceptum agerent iter in flammati divina inspiratione consiliati sunt qualiter sive euntes vel redeuntes deo favente tollerent a mirea urbe corpus beatissimi nicolai confessoris christi se suaque dantes pro tali desiderio conspirarunt omni cum nisu implere illud. Quod deo volente applicuissent suaque negotia agere cepissent accidit nutu dei ut intelligerent id quod meditati sunt velle patrari a venetianis qui eo tempore similiter causa mercationis illuc precesserant. Quod dum barenses veraciter agnovissent scrutantes facta illorum compererunt eos habere parata ferrea instrumenta cum quibus idem venetiani si preire possent in miream ingredientes beatissimi nicolai confessoris ecclesiam furtim eiusdem frangerent pavimenta sacrumque deportarent corpus. Consiliis quorum in luce patefactis spoponderunt barenses si dominus opitularetur taliter se id acturos ut et veneticis immo omnibus in mirea manentibus foret absconsum. Deinde studentes venundare sua emebant quæ eis oportuna esse videbantur. Citiusque finitis utrisque negotiis festinanter miream venerunt ad urbem. Cuius portum tenentes solito more suas munierunt rates. Deinde direxerunt duos peregrinos hierosolimitanos ab antiochia secum allatos quorum unus greciæ alter vero francis genere extabat gentis qui curiosius illas explorarent partes propter turcos qui nefandissime eas exterminarunt. Qui dum usque ad sanctum accessissent corpus et eorum agnovissent absentiam velociter remeantes ad suos nuntiarunt quod securis-

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sime suas possent implere voluntates. Statimque salubri accepto consilio quadraginta et septem eis suis stipati armis devotissime ad sanctum festinavere corpus. Ceteri vero non dissimiliter suis muniti armis remanserunt easdem ad custodiendas naves propter metum eorumdem turcorum qui illam invaserant regionem crudeliter depopulantes. Qui sic sagaciter in duabus divisi partibus statuerunt fortiter dilectum implere opus. Illi namque XL et VII ad sanctam devenientes edem pii confessoris quattuor tantum ibi repertis custodibus humiliter devotam intrarunt aulam sanctam adorantes aram. Tunc nimium sancto ferventes desiderio sic eisdem aiunt custodibus. Ostendite nobis fratres quo in loco sancti manet conditum confessoris corpus. Qui putantes quod causa orationis sive oblationis ista inquirerent ostendunt prius locum unde cum peniculo sanctum trahebant liquorem. Deinde ostendunt qualiter in loco eodem sanctum delitescebat corpus. Tamen quia basilica sancta sequestrata erat ab incolatu hominum idem custodes stimulati in corde ne sanctum corpus inde tolleretur ab eis sollicite eosdem inquirunt barenses dicentes. Cur talia inquiritis? Forsitan sanctum tollere vultis sciatis nos hoc minime consentire vobis. Immo ante posse mori quam permittere eum tolli. Quibus responderunt. Veraciter scitote nos proprie propter id vestris advenisse finibus ideoque rogamus ut verum nobis ostandatis locum et noster labor non remaneat vacuus. Custodes vero videntes eos dubios de ostensione loci omnimodo renuunt pandere dicentes. Penitet nos liquoris sacri et corporis patefecisse vobis indicia. Tamen utrum ipse sit locus an non sanctus dei confessor nequaquam permittet vos contingere se. Ideoque recedite ante quam hæc civium percutiant aures. Barenses autem cernentes eos precibus non posse molliri ad callida se vertunt argumenta fingentes sancti ingenii verba ex quibus minime culpandi esse videntur dicente scriptura bona est fraus que nemini nocet. Aiunt enim. Sciatis quoniam papa urbis rome venit in barim civitatem nostram cum multis archiepiscopis multoque clero et populo et ipse misit nos in partibus istis ut transferamus illi hoc sacrum corpus eo quod idem dei confessor in somnis apparens ei precepit se nostri transvehi regionibus. Rati etiam quod promissionibus possent deflecti item aiunt. Si placet parati sumus prebere vobis quantumcumque pretii queritis pro tali thesauro ut in pacem possimus sequestrari accepta benedictione. Quod dum aiunt custodes videntes eos paratos ad destruendum ecclesie pavimentum corpusque tollendum penitus elingues efficiuntur. Fugerat ore color sanguisque reliquerat artus. Plangunt et vestres scindant e pectore sacras. Cum barba crines vellunt ex vertice tristes. Et melius cupiunt ista discedere vita. Quam tradant carum sibi tot per secula sanctum. Quid dicam? Aurum quasi stercus abicitur blandimenta locutionum quasi viperea venena caventur. Et omnimodo nituntur se dedere fugæ quo panderent hæc

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omnia civibus. Quorum velle dum barenses aspiciunt sagaciter ordinarunt ut aliqui ex ipsis tenerent custodes ipsos alii qui custodirent ianuas basilice eiusdem et plateas et vias ut nulli accolarum regionis illius possent eorum addiscere facta sed tam diu tenerent quousque ceptum implerent opus. Post hæc vero unus e duobus presbiteris eorum qui istis intererant actibus suas inter manus teneris unum lecitum vitreum quem sancto impleverant liquore suis ad oram illam sociis in tanto cupiens suffragari negotio. Posuit eum in vertice unius columne non multum alte que stabat in vestibolo altaris commixtusque suis inter varias collocutiones qualiter agerent dum tenderent moras. Res valde obstupenda eventi eis quoniam lecitus ipse e vestigio lapsus e summitate illa cum grandi fragore percussit marmor illud sub quo sanctus accrescebat liquor. Ad cuius in pulsionem unanimiter currentes et repperientes eum totum salvum mirati sunt summum laudantes dominum. Tunc quidem veraciter agnoverunt quod idem dei confessor per illum sonum improperaret eis ac diceret. Cur tam pigri estis istud ad perficiendum opus? Mea est voluntas hinc proficisci vobiscum. Et locus in quo per multa annorum curricula delitesco hic est. Considerate miraculum istud et meum sumentes corpus abite quia barenses omnes mea sub protectione letantes perpetuo sub mea iocundabimini ditione. Preterea quidam audacissimus iuvenis ex eis anxius ad illud perficiendum opus ferociter irruit super unum custodum cum evaginato ense et nisi ostendat sancti corporis tumbam minatur se illum protinus eodem interimere gladio. Quem dum quidam ex custodibus ipsis prudentior ac sanctior ceteris vidit sic furentem accessit cominus et indignantis animum istis mulcet alloquiis. Cur inquit sic in dei famulum sevis? Ecce locus a quo sanctus edicitur liquor corpus vero sancti in eodem latitat loco. Sed hoc quidem scimus per veterum relationem virorum simulque per nostrorum memoriam temporum quoniam multi imperatores alique potentes in hoc eodem desudarunt studio sed minime eis concessum est nolente sancto dei. Forsitan eveniet vobis illud quod idem dei confessor preterito anno per visionem comminatus est nobis ut eius incolatio alias transeat. Quod cum barenses audissent diligenter hunc interrogant custodem de auspicio visionis. Quibus respondit. Integer iam transactus est annus ut dei famulus nicolaus tribus suis innotuit mansionariis per visionem precipiens ut notificarent habitatoribus civitatis huius mireæ qui pro metu turcorum hinc aufugerant in montem absentem quasi ad XII stadia ut aut redirent ad habitandam et custodiendam hanc civitatem aut omnino scirent cum alias migraturum. Quod nunc sicut cernimus veris ostenditur indiciis. Ideoque cesset gladius sopi antur iurgia acriores mine procul sequestrentur. Et si permissum est vobis ut dei confessor vestri conveniat actibus sine nostra turbatione nostraque lesione pacati abite. Sed quam vis culpabiles intuemur

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nosmet eius sanctis preceptis credimus deo volente quod non sic facile proprios deseret servulos. Tandem idem præfatus iuvenis his cui nomen matheo acquiscens alloquiis cum sociis suis recondito gladio acceptoque malleo ferreo viriliter percutiens marmoream tabulam pavimenta sancto superstratam corpori penitus eam parva redegit in frusta. Qui non dum multum foderat in profundum cum socii eiusdem insistentes labori reppererunt tumbam marmoream valde candidissimam quam detegentes usque ad medium valde pavebant percutere eam ne aliquid molestiæ eveniret eis. Mox ille ceteris audiacior iam ulterius non valuit suæ mentis tolerare fervorem sed pro nichilo duxit quicquid mali ei adveniret qui fortiter eius feriens coopertorium minitatim fregit. Quo aperto usque ad umbilicum sancti corporis inventa est eadem tumba plena sancto liquore ibi astantibus ambobus presbiteris qui eum ferire iusserunt et quodam ex naucleriis ceterisque sociorum qui cunctis inter erant factis. Preterea tanta odoris flagrantia subito secuta est ut omnes putarent se in dei paradiso consistere que non tantum presentibus verum etiam congruis spirantibus auris usque ad mare fere tria miliaria sepositum ceteris sociis dilapsa est. Ex qua re spirati ex templo omni iocundantur letitia. Agnoscuntque quod sanctus christi confessor suis consenserit sociis. Post hec temerarius ille totum audacter ingerens se sancto nichilque ut dictum est titubans indutus caligatus ardenter sacram defendet in tumbam. Qui ingressus submergens suas in liquore palmas repperit reliquias sanctas natantes aromatum omnium suavitatem quas insatiabiliter deosculans venerabilibus porrigebat presbiteris. Ex quibus datur intelligi quod veridicus christi confessor libenter se anectebat barensibus. Quod videntes custodes amarissime plorabant dicentes. Vester est sanctus nam numquam aliquibus talia consensit. Heu pro dolor quam grande malum nostra accidit patriæ. Ex sancto flebiliter dicebant Domine noster pater santissime cur nos deseris afflictos in multis miseriis alienigenis extas pius alumnis impius. Ecce ut videmus pro nichilo ducis cuncta nostre servitutis obsequia quæ tuæ glorie impensa sunt a pro genitoribus et nobis. Talia tuis rependis premia accolis? Heu quam fucis obnubilas cunctam Liciam regionem tenebris Domine! Cur non prius morti tuos adiudicasti famulos quam tuam a nobis videremus divisionem. Et ex miti patre immitis probaris vitricus et dilectos natos quasi pessimos abicis privignos. Heu quam plorabiles ducemos cunctos nostræ vite dies dum nostrosque filiolos simul et res videbimus pessime exterminari. Amodo quo fugiemus? Quis nos defendet ab incursibus inimicæorum gentium vel quis pro nostris intercedere ratibus? Interea idem ipse iuvenis diligenter sanctissimi perquiretis corporis reliquias omnes invenit illibatas quas alter presbiter cui nomen dopo est in bombicino novo indumento sui corporis recepit satis fideliter. Ceteri vero sociorum cupiebant tollere inde unam miri-

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ficam iconam veterem ad similitudinem sancti nicolai depictam sed nullo modo eis concessum est. De qua datur intellegi quia velox christi confessor nequaquam funditus illas voluit dimettere partes barenses autem gavisi subito arreptis armis simulque sancto corpore illo priore presbitero baiulante illud super suos humeros suas repedarunt ad naves magnalia dei laudantes. Soci vero eorum audientes voces laudum quas reddebant deo in itinere pro donato pastore letanter obviarunt eis immensoque gratulantes tripudio in comune laudarunt omnipotentem deum qui tam magno exenio coronavit barenses. Certe plurimas ibi fuderunt lacrimas in illo die scientes se indignos tanta bonitate. Preterea omnia ista nota fiunt civibus ab his qui a barensibus retenti fuerant libera ab eundi accepta facultate. Quid moror? Fit repente concursus virorum ac mulierum diversarum etatum innumeris usque ad mare omnesque gravi detenti merore flebiliter se suosque deflebant posteros tanta bonitate vacuatos. Aiunt itaque nostris barentibus. Qui estis ut vel unde huc adventistis talia ausi in pertinentiis committere nostris? Unde in vobis tanta talisque orta est temeritas ut auderetis nostra contingere sancta ex antiquo sancto reposita loco. Ecce secundum nostram eolicam notitiam septingenti et septuaginta quinque anni transacti sunt in quibus nulli aliquando imperatorum vel quorumcumque hominum talia commiserunt. Satis grandissimam rem consensit vobis altitonans dominus eiusque confessor beatissimus nicolaus qui nos relinquit orbatos vosque omnino ignotos renovat in filios. Et nullo modo se continentes induti et calciati in mare mergebantur. Et plorantes capiebant temones navium et remos dicentes. Reddite patrem nostrum et dominum nostrum tutorem et nutritorem nostrum qui nos omni modo sua protectione tutabat a visibilibus inimicis. Et si totum vel partem ex eo premete nobis ut non penitus tanto frustemus patrono. Quorum eiulatibus barenses compatientes dulcia prestant colloquia. Aiunt enim: Sciatis nos ex apulie partibus oriundos esse et ex barensi urbe huc advenisse per revelationem ad hoc sanctum corpus tollendum. Cur tantis calamitatibus irrationabiliter affligimini sicut vos dicitis quia a tempore quo sanctus dei confessor obiit septingenti et septuaginta quinque anni preteriti sunt satis est eius habuisse beneficia tam vos quam et progenitores vestros. Nunc quidem eius est voluntas proficisci hinc ut alias mundi illustret partes. Sane habundanter consolari potestis eo quod eius habetis monumentum sancto plenum liquore quod vobis relictum est. Immo et iconam de qua multa sensistis beneficia. Iustum namque est ut tam grandis et illustris civitas ut baris est tanto fungator patrono. Interea idem indigene ibi vident assistere deflentem quendam e paramonariis illius orbatæ ac desolatæ ecclesiæ quem capientes dum affligerent in multis verberibus opponebant quod idem ipse per pecunia sanctum tradidisset corpus cum sociis suis. Sed beatissimo christi confessore

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mirifice eum liberante ab illorum ictibus stupefacti remanserunt. Agnoveruntque quod inculpabilis esset. Deinde sancto corpore honorifice recondito in una parvula beiete et phebo discendente ad undas proprioque flante vento idem barenses pacatum navigare ceperunt per equor. Tunc quidem accole illi videntes se tanti patroni divisione humiliari et barenses relinquere portum novosque deo et sancto reddere stichos item in magnos conversi luctus implebant litora simul et aera gravibus singultibus. Testantibus eisdem barensibus quod ad duo pene miliaria rumores ululatuum eorum sonarent. Immo quod pauci essent ex eis qui vix se illis continerent fletibus compatientes eorum miseriis. Quique per currentes multæ longitudinis iter nocte illa qui everunt in loco qui dicitur caccavus. Deinde transeuntes locum maiestram post quam ad profundas devenerunt aquas maris valde impediri ceperunt eius fluctibus et vento qui dicitur aquilo obiciente se eis usque ad pateram civitatem unde idem dei confessor oriundus extitit. In qua cum grandi periculo declinantes putarunt quod idem dei sanctus nequaquam voluisset ire cum eis neque dimittere eos ultra progredi donec redderent eum. Sed cogentes se supra modum suarum virtutum quasi ad viginti quattuor miliaria et nec valente procedere ultra inviti suum declinant iter in locum qui dicitur perdikca defectis viribus. Qui descendentes ad litus videbant mare quietum ventum cupitum et nec valentes ambulare calumniabantur inter se ne quiscumque ex eis furatus esset de reliquis sanctis. Repente decretum est a naucleriis ut parato evangeliorum libro vicissim iurarent omnes naute quod nullus eorum furatus esset ex eis. Quod si ausi fuissent facere consiliarentur qualiter e sancto agerent corpore ut ad propria redire valerent. Tunc vero quinque ex nautis ipsis manifestarunt se habuisse de reliquiis sanctis. Quibus redditis repositisque cum ceteris tam hi quam omnes iurarunt dicentes ut nullus eorum amplius haberet de reliquiis sanctis. De quo facto nullus ambigere debet quia ex dei voluntate hoc actum est ut tam diu demorarentur donec omnes sancti corporis reliquie indivise conderentur. Unde datur intellegi quod idem dei confessor nequaquam vult ut sue aliquando partiantur reliquiæ. O mirabilis deus quam ineffabilis tua est potentia cum non per vocem alicuius angeli nec per revelationem quorumlibet sanctorum neque per eundem sanctissimum nicolaum qui in hoc magisque viget. Immo nec per portitorum quorum somnia ista pandere promisisti sed muta elementa tam diu eos dissimulasti quousque sancto redderent sua. Denique post factum sacramentum quiescentibus ventis prostratoque tumore maris liquentes litora velificantibus ratibus in commune gaudentes venerunt in locum qui markiano vocatur. Deinde dum preterirent culfum trachee accidit ut quidam nautarum obdormiens graviter premeretur somno. In quo apparens ei sanctus nicolaus dixit: Nolite pavere Ego enim vobiscum sum et ad vi-

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ginti dierum numerum pariter perveniemus in barim civitatem. Qui dum pergefactus fuisset et que vidisset suis narrasset sociis omnes immenso iocundantes gaudio venerunt in ceresanum. Ubi dum comedissent indeque sumsissent aquam cum veloci cursu velificantes per spatia duorum dierum uniusque noctis transcursis quingentis miliariis applicuerunt in insulam milum ibi quietari nocte illa. Albescente autem aurora aggressi sunt iter suum. Qualiter vero una miranda res eis acciderit non pretermittam sicut qui viderunt narraverunt michi. Nam dum tenerent pelagus venit una parva avis allaude simili et sedit in dextro temone navis in qua sanctum ducebatur corpus. Et deambulans super eum ceu ab ipsis nutrita foret mansuete ascendit manum cuiusdam naute qui tunc temonem regebat eundem. Indeque mota perrexit ubi sanctum quiescebat corpus et modica voce canens cum rostro suo leniter tangebat begetem illam in qua sancte delitescebant reliquiæ. Benigni fratres o quam laudandus est omni tenens deus qui non tantum homines verum etiam muta animantia in laudationem et venerationem sui sancti confessoris dirigebat. Nam cantus avis laudatio fuit tactus vero rostri osculum intelligitur quod fideliter sancto offerebat corpori. Quæ canendo circuiens unamquamque ratem simul et homines visa est omnibus dare beatitudinis laudem eo quod tam magnificum mirabilemque gestabant pastorem. Quæ reddito sue oboedientiæ obsequio evolans amplius ab eis visa non est. Nec multo post venerunt in insulam quæ eolice dicitur staphnu latine vero bona polla. Deinde venerunt in nobilissimum portum qui dicitur gereca. Indeque modo letabundi intrarunt monobasiam civitatem. Qua relicta post aliquantum spatium applicuerunt in methonem ubi emerunt vinum et quæ necessaria erant. Deinde venerunt in sukeam ubi paululum quiescentes in nullum iam declinaverunt locum sancto confessore christi letificante eos. Igitur ut ventum est in portum sancti georgii martyris christi quattuor distantes miliariis a bariense urbe construerunt clepsidam in qua sanctum ordinarunt corpus amoventes cum a beiate illa. Cui urbe quante doxe conexe sunt prout samaritanus prestiterit in paucis pandere curabo. O baris celicole sociata ierusalem cum omnibus tecum manentibus innumeris exultans favoribus gaude. Gaude baris omnis a modo plena iocunditate. Gaude baris innumeris farta preconiis. Gaude baris in te excipiens novum legatum salutis. Gaude quæ cunctis apuliæ arcibus laudabilior probaris. Gaude quæ triumphali victoria coronaris. Nam nicolaos grece latine victoria resonat populorum. Qui vere vicit cum barenses apulosque omnes sub sua protectione acquisivit a possessione infirmitatum liberans. Gaude que per beatissimum nicolaum inter angelorum choros tuos agnoscis ascriptos nutricios. Gaude quæ celebre fama pro totius mundi climata disseminaris. O quam suaviter suæ subegit benignitati. O quam claro te irradiavit sui aspectus lumine cum

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te sanctis commendavit angelis protegendam. O quam vigilis custodia die ac nocte horis atque momentis summo super te invigilant studio. Nempe non per te que multis molibus peccatorum gravaris sed per beatissimum suum confessorem nicolaum cum quo legiones advenerunt angelorum. Fratres dilectissimi resipiscamus omnes et omni cum nisu convertamur ad dominum qui nosmet namis pie decoravit etherea margarita deornans. Nam si toto ex corde ad eundem conversi fuerimus dominum non tantum hoc eximio letabimur dono quantum ipso donante futuro cælestique remunerabimur bono. Sint nobis testes licia regio mirea simul et patera civitates eiusdem quæ si huius confessoris dei antiqua precepta presentesque virtutes fideli sequerentur tramite nullatenus eas idem sineret gubernator. Ideoque omnimodo separentur e nobis adulteria periuria homicidia furta hodia falsitates malignitates lites detractiones superbiæ et quæcumque in nobis nostram obnubilant fidem quibus obiciamus almificas virtutes nostram iustificantes fidelitatem. Immo omnibus pro deo suique confessoris amore undecumque huc venientibus ad oblationes solvendas nullus nostrorum aliquid contradictionis vel molestationis apponat nec negotia exerceat fincta. Quia si idem dei sanctus nos proprios servulos taliter malis amaricatos bonisque redimitos aspexerit non solum in nos solitas ostendet virtutes sed et per suum interventum regni celestis efficiet possessores. Igitur post quam barenses super portum propriæ civitatis applicuerunt parentibus illorum cum raticulus obviantibus eis relatum est quatenus secum translatum esset beatissimi confessoris corpus. Quod dum quidam ex eis veraciter agnoverunt velocius remeantes ad litus magnis cum vocibus acclamarunt hoc ibi astantibus quod fama ubique divulgante per urbem omnes catervatim concurrunt ad tam mirum amandumque spectaculum. Clerici vero barenses sacratis induti vestibus celestibusque intenti favoribus rapidis cum passibus descenderunt ad portum expectantes sanctum suscipere corpus. Interea nauclerii simul et naute per legationis officium suis nuntiaverunt civibus dicentes: quando nos sacrum tulimus corpus tunc promisimus ut pariter nobiscum conderemus ei dignam æcclesiam in curte domnica quæ dicitur catepani petimus ut nostris assentiatis promissis. Ex quo dicto grandis inter omnes orta est dissentio. Quorum alii qui plures videbantur laudarunt illorum sponsiones alii vero nequaquam sed cupiebant ut sanctus dei confessor fereretur in episcopium. Quibus ex utrisque partibus litigantibus factum est ut domnus helias venerabilis abbas monasterii sancti benedicti civitatis ipsius ascenderet naves illas et post libata oscula sancta rectoribus dixit illarum: Huc adii sophi petiturus pectere vestra. Fratres quo sanctum mihi vos cedatis amandum. Cui nos veraces studeamus reddere grates. Donec vobiscum vulgus consenserit illud. Quod promisistis sancto populoque petistis. Domnica quo curtis

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nicolao sit domus almo. Cuius dilecte petitioni omnes fideliter assenserunt sanctum prebentes corpus. Deinde iussum est æcclesiarum omnium sonare campanas propter eiusdem sancti honorem deponentesque lipsanum sanctum summa cum cautela posuerunt illud super altare eiusdem sancti benedicti omnibus ex partibus dispositis armatis navium ne aliquam paterentur vim a quacumque parte civitatis. Tunc vero missum est festinanter ad domnum ursum barensem archiepiscopum ut ad tam mirificam excellentissimamque rem quam totius festinaret. Qui eo scilicet tempore aberat canusiæ pro causa sanctitatis implenda. Quo audito dum cito citius barim repedaret ad urbem sonipes eius non tantum suis cursitabat gradibus quantum ipsius animi ardor festinare anhelabat. Ingredientisque civitatem festinus ad sanctum declinavit corpus. Cui debitam reddens venerationem tanto gavisus munere ad propriam remeavit sedem disponens ut reverenter illud ad sanctum gestarent episcopium. Quod audientes nauclerii cum sociis suis immo et populi qui eorum consenserant velle, omnes eque concurrunt ad resistendum. Quod dum idem presul audisset ab illa profectione suum retaxit pedem. Tunc missi sunt ei legati nobilissimi ac sagacissimi barensium viri deprecantes ut eorum consentiret voluntati. Postquam vero legati reversi sunt ad suos sine cupita responsione graviter inter se tumultuari ceperunt eo quod presul ipse meditaretur vi vel dolis sanctum corpus auferre. Igitur dum ex utrisque partibus subito areptis armis commiserunt pugnam accidit ut ex ambabus turmis morerentur duo adulescentes quorum animas veraciter credimus atque firmamus in perpeti beatitudine fore locandas summo favente domino eo quod uterque propter desiderabilem appetitum sancti corporis obierit. Quibus adhuc dimicantibus sanctum corpus e vestigio sublatum est ab ipso monasterio cum grandissimo honore armatorum aliorumque populorum clamantium kyrieleyson ceterasque canentium laudes. Qui enudatis capitibus educentes illud per pusterulam eiusdem monasterii a parte maris detulerunt in prefatam curtem ad æcclesiam sancti eustratii martiris christi. Qua eversa post aliquot dies cum aliorum sanctorum æcclesis usque ad solum constructa est in eis cum alio spatio eiusdem curtis splendidissima ac magnifica æcclesia ab eisdem barensibus ad honorem beatissimi nicolai ipsorumque sanctorum disponente eam a fundamine eodem domno helia abbate cum barensium nobilibus qui preerat custodie eiusdem sancti corporis rogatus ab eodem archiepiscopo cunctisque civibus. Quod ne invaderetur ab aliquibus per vim ad tollendum custodiebatur die ac nocte a diversis falangibus armatorum donec honorifice locaretur in eadem æcclesia. Sublatum est autem corpus sacratissimum sancti nicolai confessoris ihesu christi de mirea civitate undecimo die aprilis iam tendentis ad exitum et nono die maii iam habentis principium transactis ab incarnatione domini mille octoginta

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et septem annis sub indictione decima. Nunc etiam si dominus adiuverit referam qualiter prius advectio sancti exteris innotesceret egri diversis languoribus possessi quos ex omnibus partibus civitatis concurrentes populi cum magnis devotionibus in idem monasterium secum detulerant sanitati sunt restituti. Ex quibus nocte illa et feria secunda sani facti sunt XL et VII homines diversi sexus et etatis. Inter quos sanus factus est quidam nobilissimus barensium et quidam armenius cum sinistro latere toto arido lunatici tres. Et quidam homo surdus et mutus manci duo duo infantes gimbosi ceci tres et quidam homo de genere pisanorum cum brachio arido et manu pedibusque claudis et alii quos longum ducimus enarrare qui omnes erant habitatores eiusdem barensis civitatis. In tertia vero feria ex multitudine populorum concurrentium ex villis et oppidis atque civitatibus circumquaque positis in ipso monasterio curati sunt infirmi novem usque in quartam horam ipsius feriæ. Per idem unus infantulus cum brachio et manu arida et oculo maculato et quedam mulier mendicans surda et ambobus pedibus clauda et alter infantulus demoniacus et quædam infantula armoenia demoniaca et una mulier invenatiensis tota arida et alia mulier gravi possessa egritudine et quædam mulier lunatica et paralitica et quidam peregrinus cum sinistra manu arida oculisque cecis. Postquam vero ipsa feria portavimus idem sanctum corpus in eandem curtem curati sunt quattuordecim infirmi quos item dinumerare longum est. In quarta quoque feria curati sunt viginti et novem infirmi. Primum quedam mulier tota arida de villa que dicitur telizzus et quædam puella de civitate betunto. Et quidam demoniacus de civitate asculo et quædam mulier demoniaca de civitate taranto. Lunatici tres ceci duo et alia mulier gimbo pressa. Et quædam mulier de oppido sancti viti quod est sub castro montis scagiosi que cottidie per plures vices cadebat graviter anxiata usque ad exitum anime. Hec diligenter inquisita a me quid vidisset quando sanata est dixit venisse super se unum magnum accipitrem et stetisse super pectus suum et expansis alis cooperuisse se. Quo recedente subito subsecutus esset tam suavis odor ut estimaret se fore in paradisi amoenitate quod et alii ex curatis similiter testati sunt. De quo indubitanter credendum est ut sit eiusdem sancti confessoris angelus qui sanctum cotidie custodit corpus. Immo sanata est quædam puella barensis nimio dolore genuum fatigata et alii quos longum duximus narrare. In quinta quoque feria idem dei confessor revelavit se super visionem quidam venerabili monacho precipiens ut omnibus diceret populis ne desperarentur e sanitatibus eoquod nutum omnipotentis domini in partes pergeret grecie. Tamen priusquam pergeret viderent magnum miraculum esse patratum. Quod ita factum est quem quoniam ipsa feria ante solis ortum sanus factum est quidam iuvenis per quinque annos possessus demone surdo et muto ac

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ceco. Preterea in sexta feria ernulfus episcopus betontinus venit ad sanctum corpus cum magna processione deprecans dominum sanctumque confessorem nicolaum. Ea namque feria episcopus barensis cum guidonio orientano archiepiscopo et Leone episcopo cupersano et aliis tribus episcopis atque cum omni suo clero et populo infinito pacatus omnibus humiliter item ad adorandum sanctum accessit corpus Sabbati quoque die hora nona sancto adveniente nicolao undecim infirmi amissam receperunt sanitatem. Karissimi fratres quam sancte pieque talem tantumque debemus diligere deum et dominum eiusque sequi precepta qui post brevem incolatum huius vite suos efficit sanctos cælestinus possessores. Immo eorum reliquias tam magnis clarisque miraculorum dilucidat donis. Ihesus christus deus et dominus noster qui cum deo patre sanctoque flamine vivit et regnat per infinita seculorum secula amen. Explicit tractatus de translatione sancti nicolai confessoris et episcopi.

3a. Traduzione della Translatio di Niceforo dal codice Vat.lat.6074 Inizia il prologo che Niceforo, ultimo di tutti i chierici, compose sulla traslazione di san Nicola confessore. Come la mano dello scrittore è esperta nel delineare la figura del suo personaggio, è anche in grado di sviscerare a quale tipo d’interpretazione sia da collegare la sua creazione. In effetti è difficile creare un’immagine tratta dalla realtà e collegarla con le differenze dei sensi. Si capisce così come sarebbe arduo che gente inesperta esplorasse armoniosamente la diversità dei sensi secondo le regole della fisica, dell’etica e della logica. Per spiegare quelle differenze è opportuno che vi si dedichi chi, secondo le categorie e i criteri della vita attiva e contemplativa, abbia imparato a riprodurre i dolci canti delle muse e chi, sebbene indegno, proceda senza intoppi sulla via di porre in relazione il sentimento e la parola secondo la regola sofistica dei peripatetici, impiegando gli strumenti della retorica. Io Niceforo, ultimo di tutti i Baresi, inetto nell’arte dello scrivere, e sprovvisto del linguaggio luminoso adatto a rappresentare le virtù sconosciute di questo confessore di Dio e la sua vita tanto eremitica, sebbene indegno, spronato dal suo sostegno comincerò a esporre brevemente le sue imprese miracolose e l’intreccio della sua traslazione. Il signor Curcorio, giudice brillantissimo, e gli altri pretori dei Baresi, insieme ai prelati delle sante chiese, mi hanno costretto a stendere questa narrazione. Ubbidendo alle loro esortazioni, per amore del santo e sorretto dalla loro fiducia, sebbene mi ritenga incapace di

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compilare un’opera splendida, mi sono sforzato di scriverla. Perciò prego i saggi lettori e gli accorti maestri delle arti liberali, affinché messa da parte l’insaziabile invidia, dedichino un commento favorevole a questo mio lavoro.

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Fine del prologo Dunque, quando l’onnipotente Iddio nella sua più benevola e nascosta volontà ebbe stabilito in qual modo la città di Bari e tutta la regione di Puglia fossero visitate, dirò meglio decorate da un serenissimo e perpetuo splendore, ciò fu fatto grazie alla divina provvidenza quando alcuni dei Baresi, uomini saggi e illustri, con le loro navi cariche di frumento e di altre merci si spinsero in Antiochia. Al termine del loro viaggio, infiammati da un’ispirazione divina, tengono consiglio sul modo in cui all’andata o al ritorno, col favore divino potessero portar via dalla città di Mira il corpo del beatissimo Nicola confessore di Cristo, pronti a offrire se stessi e i propri beni a favore di questo ambito progetto, concordarono un piano da realizzare con ogni sforzo. Con l’aiuto di Dio, mentre si applicavano a concludere i loro affari, per volontà divina accadde che venissero a conoscenza di ciò che pensavano di attuare i Veneziani che in quel momento per motivi di commercio erano anch’essi ugualmente diretti in quel porto. Quando i Baresi compresero ciò esattamente, osservando cosa quelli facevano, si resero conto che i Veneziani avevano preparato degli attrezzi di ferro con i quali, se fosse stato loro possibile di arrivare per primi, avrebbero potuto introdursi nella chiesa di Mira, frantumare il pavimento e portar via il corpo del beatissimo Nicola. Messi in luce i loro progetti, i Baresi s’impegnarono ad agire, se il Signore li avesse aiutati in modo che fosse rimasto segreto ai Veneziani e a tutti gli abitanti di Mira ciò che stavano per fare. Quindi vendendo le loro mercanzie compravano ciò che ritenevano opportuno. Completate abbastanza presto ambedue le operazioni giunsero in fretta alla città di Mira. Arrivando in quel porto ormeggiarono le loro navi nella maniera abituale. Dopo di ciò diressero due pellegrini di Gerusalemme che avevano portato seco da Antiochia, uno greco e l’altro invece di origine francese, che esplorassero accuratamente quelle parti nelle vicinanze dei Turchi, che le avevano devastate in modo nefando. Quando costoro ebbero accesso al santo corpo e si accertarono della loro assenza [dei Turchi], ritornando velocemente

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dai loro compagni riferirono che avrebbero potuto compiere l’impresa in sicurezza. Ricevuta la favorevole notizia, subito quarantasette di loro armati di tutto punto si affrettarono con molta devozione verso il santo corpo. Gli altri, invece, armati allo stesso modo, rimasero a sorvegliare le navi per timore di quei Turchi che avevano invaso la regione e l’avevano crudelmente spopolata. Saggiamente divisi in due gruppi, con decisione stabilirono di portare a termine l’operazione tanto desiderata. E infatti, quei quarantasette giunti al sacro tempio del pio confessore e, trovati solo quattro custodi, umilmente entrarono nella chiesa per adorare la santa sepoltura. Allora, animati da fervido desiderio, così si rivolgono ai custodi: Fratelli, mostrateci in qual posto celato riposa il corpo del santo confessore.

Questi, ritenendo che chiedessero ciò per potere pregare o per offrire devotamente qualcosa, mostrano dapprima il luogo da dove con un pannicello estraevano il santo liquore. Quindi mostrano come, nello stesso luogo, riposava il santo corpo. Tuttavia, poiché la santa basilica era distante dalle abitazioni degli uomini, gli stessi custodi preoccupati che il santo corpo fosse portato via di lì da quella gente, si rivolgono ai Baresi e dicono: Perché chiedete queste cose? Forse volete portare via il santo, sappiate che non ve lo permetteremo affatto. Anzi noi scegliamo di morire piuttosto che permettervi che lui sia portato via.

A loro risposero: In verità sappiate che noi proprio per questo motivo siamo venuti nel vostro territorio. Perciò vi supplichiamo che ci mostriate l’esatta posizione affinché il nostro lavoro non vada perduto.

Allora i custodi, vedendoli dubbiosi sulla esibizione del luogo, recisamente negano di rivelarlo e dicono: Ci pentiamo di avervi dato indizi del sacro liquore e del corpo. Tuttavia, che questo sia o non sia il posto, il santo confessore di Dio giammai vi permetterà di toccarlo. Perciò recedete prima che giunga alle orecchie degli abitanti.

Allora i Baresi, resisi conto che era impossibile convincerli con preghiere, si affidano a discorsi astuti in quanto la Scrittura dice che

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è buona quella frode che non danneggia nessuno. Dicono infatti: Sappiate che il papa della città di Roma venne a Bari, la nostra città, con molti arcivescovi, con molto clero e popolo ed egli stesso ci mandò in questi posti allo scopo di trasportare là questo sacro corpo, tanto più che il medesimo confessore di Dio gli apparve in sogno e gli comandò di portarlo nelle nostre regioni.

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Convinti pure che quelli potrebbero essere piegati da promesse, così dicono: Se vi piacesse, siamo preparati a pagarvi qualunque prezzo possiate chiedere per un tesoro tanto grande così che possiamo separarci con la vostra benedizione.

Mentre parlano in questo modo, i custodi, vedendoli pronti a distruggere il pavimento della chiesa per asportare il corpo, restano quasi impacciati nel parlare. Il colore sparisce dal viso e il sangue abbandona le membra. Piangono e si tolgono le sacre vesti dal petto. Affranti si strappano dalla testa i capelli e la barba. E desiderano andarsene da questa vita piuttosto che consegnare il santo a loro caro per tanti secoli. Che dire? L’oro viene gettato via come se fosse sterco, i blandimenti delle parole sono temuti come i veleni delle vipere. E con ogni mezzo cercano di fuggire per rivelare tutto ciò ai cittadini. Quando i Baresi si accorgono delle loro intenzioni saggiamente ordinarono ad alcuni di loro che sorvegliassero i custodi, mentre altri custodivano le porte di quella basilica e le piazze e le vie, affinché nessuno degli abitanti di quella regione potesse rendersi conto di ciò che stavano facendo. Comunque li avrebbero trattenuti tanto a lungo finché non avessero compiuto l’opera iniziata. Dopo questi eventi, uno dei due loro preti che partecipavano all’azione, colui che teneva nelle sue mani un’ampolla vitrea che aveva colmato del santo liquore, desideroso di suffragare i soci in un’azione tanto importante, lo posò sul vertice di una colonna non molto alta che stava nel vestibolo dell’altare e s’intromise nei discorsi degli altri a proposito di quanto si doveva fare, mentre il tempo passava. Allora accadde un fatto veramente meraviglioso poiché la stessa ampolla cadde dalla sommità e percosse con grande fragore il marmo sotto al quale il santo faceva crescere il livello del liquore. All’urto tutti insieme accorsero e trovandola intatta rimasero meravigliati e lodarono il sommo signore. Allora essi veramente compresero che lo stesso confessore di Dio voleva rimproverarli con quel rumore e dire loro:

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Perché siete tanto pigri nel completare questa opera? La mia volontà è di partire da qui con voi. Questo è il luogo dove ho riposato nel corso di molti anni. Considerate questo un miracolo e prendendo il mio corpo partite affinché tutti i Baresi siano lieti in perpetuo sotto la mia protezione apportatrice di gioia.

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Allora un giovane di loro, audacissimo, ansioso di completare l’opera balzò ferocemente su uno dei custodi con la spada sguainata e minacciò di ucciderlo immediatamente con quello stesso gladio se non gli avesse mostrato la tomba del santo corpo. Quando uno dei custodi, più prudente e santo degli altri, lo vide così furente gli si avvicinò faccia a faccia e con queste allocuzioni cerca di addolcire l’animo dell’indignato. Perché

dice infierisci così contro un servo del Signore? Ecco il luogo dal quale sgorga il santo liquore, in verità il corpo del santo è nascosto in questo stesso posto. Ma sappiamo anche, attraverso le narrazioni degli uomini antichi e anche per le memorie del nostro tempo, che molti imperatori e altri potenti hanno sudato molto per questa stessa impresa ma ad essi nulla fu concesso essendo contrario il santo di Dio. Forse avverrà a voi quello che lo stesso confessore di Dio l’anno passato ci rivelò in una visione, che la sua abitazione sarebbe migrata altrove.

Quando i Baresi ascoltarono ciò, interrogano diligentemente questo custode sul significato della visione. Ad essi risponde: È già trascorso un intero anno da quando Nicola famulo di Dio, apparve in visione a tre suoi mansionari e impose loro di notificare agli abitanti di questa città di Mira, che per paura dei Turchi erano fuggiti su un monte lontano circa dodici stadi, che o tornavano per abitare e custodire questa città o sapessero che egli sarebbe assolutamente migrato altrove. La qual cosa, come ora vediamo, è dimostrata da prove innegabili. Pertanto, deposta la spada, siano sopite le contese, siano messe da parte le minacce più aspre. E se a voi è permesso che il confessore di Dio accetti le vostre azioni, potete andarvene in pace e senza ira e senza contrasti da parte nostra. Ma sebbene ci sentiamo colpevoli sulla base dei suoi santi precetti, crediamo che, per volontà divina, non abbandonerà così facilmente i suoi schiavetti.

Allora quel predetto giovane di nome Matteo con i suoi soci approvò queste parole, rinfoderata la spada e afferrata una mazza di ferro,

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percuotendo virilmente la tavola marmorea del pavimento sovrastante il santo corpo la ridusse del tutto in minuti frammenti. Quando i suoi soci iniziarono a lavorare egli non aveva ancora raggiunto la profondità necessaria, trovarono una tomba marmorea candidissima, che scoprirono per una metà circa perché paventavano assai che nel percuoterla potesse essere danneggiata. Allora quello, il più audace di tutti, non accettò di trattenere ancora a lungo il suo fervore e tenendo in nessun conto che potesse succedere qualcosa di nefasto ridusse il coperchio a pezzetti. Quella tomba, una volta scoperchiata alla presenza di entrambi quei sacerdoti che avevano comandato di aprirla, di uno dei nocchieri e degli altri colleghi che avevano presenziato a tutti gli eventi, fu trovata piena del santo liquore fino all’ombelico del sacro corpo. Per di più subito sopravvenne una eccezionale fragranza di profumo, che tutti credettero di stare nel paradiso divino, e che deliziò non soltanto coloro che erano lì, ma anche, grazie ai venti propizi, giunse fino al mare distante quasi tre miglia, dove erano gli altri soci. Animati da quanto accaduto, nel tempio tutti si abbandonarono alla letizia. Riconoscono anche che il santo confessore di Cristo aveva espresso il suo consenso ai soci. Dopo di che, lo stesso temerario si mise audacemente davanti al santo e senza alcuna esitazione, completamente calzato, scende ardentemente nella sacra tomba. Una volta dentro, immerse le proprie mani nel liquore, rintracciò le sante reliquie galleggianti, aspirando la soavità di tutti i profumi e baciandole insaziabilmente le porgeva ai venerabili presbiteri. Da ciò è dato capire che il verace confessore di Cristo si univa volentieri ai Baresi. I custodi, alla vista di queste cose, piangevano addolorati e dicevano: Il santo è vostro, infatti egli non ha mai permesso ad alcuno azioni di tal genere. Oh, quale dolore, quale grande male colpì la nostra patria!.

E al santo flebilmente dicevano: Nostro signore, santissimo padre, perché ci lasci afflitti in tanta miseria, sei pio con gli stranieri, senza pietà con i tuoi pupilli. Ecco, come vediamo, non tieni in alcun conto gli ossequi della nostra soggezione, che per la tua gloria sono stati offerti dai nostri padri e da noi. In compenso ai tuoi vicini dai premi così fatti? Ah, come copri con tenebre scure tutta la regione della Licia, o Signore! Perché prima non hai condannato a morte i tuoi famuli anziché farci assistere al tuo distacco da noi? E, da padre mite, ti dimostrasti patrigno spietato e allontani i figli diletti come figliastri pessimi. Ahi, come passeremo in dolore tutti i giorni della nostra vita finché non vedremo accomunato il nostro sterminio a

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quello dei nostri figli e delle nostre cose. D’ora in poi dove fuggiremo? Chi ci difenderà dalle incursioni delle genti nemiche e chi intercederà in nostro favore?

Intanto, lo stesso giovane, controllando diligentemente i resti del santissimo corpo, trovò intatte tutte le reliquie, e un altro prete di nome Dopone le raccolse fedelmente in un nuovo indumento di seta del suo corpo. Invero gli altri soci desideravano togliere da lì una meravigliosa antica icona, dipinta a similitudine di san Nicola, ma non fu in alcun modo possibile. Da qui è dato capire che il veloce Confessore di Cristo non intendeva affatto lasciare definitivamente e completamente quella località ma i Baresi, felici, afferrarono subito le armi insieme al santo corpo posto sulle spalle di quel prete, e tornarono alle navi inneggiando alla grandezza di Dio. Ma gli altri soci nell’udire, durante il cammino, le lodi del Signore per ringraziarlo del dono del santo pastore, lietamente andarono loro incontro rendendo grazie con immensa gioia e, uniti, resero grazie all’onnipotente che aveva coronato i Baresi con un così grande regalo. Lì, in quel giorno, sicuramente profusero lacrime coscienti di essere indegni di tanta bontà. Inoltre, tutte queste notizie sono riferite ai cittadini da quelli che erano stati presi prigionieri dai Baresi e avevano avuto la possibilità di andare via. Perché indugiare? Tutt’a un tratto una massa innumerevole di uomini e di donne di diverse età si riunì nella spiaggia e tutti mossi da un profondo tormento flebilmente compiangono se stessi e i propri posteri, privati di una presenza tanto importante. Pertanto parlano così ai nostri Baresi: Chi siete? E come e da dove siete venuti osando commettere nelle nostre terre cose di tal genere? Una così grande e così fatta temerarietà per quale causa è sorta in voi, per spingervi a sottrarre le nostre cose sante deposte da tanto in un luogo santo? Ecco, secondo le nostre notizie eoliche, sono trascorsi settecento e settantacinque anni nel corso dei quali né uno degli imperatori di allora né alcun uomo di qualunque specie ha commesso cose del genere. Il signore altitonante, e con lui il santo confessore beatissimo Nicola, vi ha consentito di compiere questa straordinaria azione che ci lascia orfani, e considera voi, ignoti sotto ogni aspetto, come suoi figli.

E, incapaci di contenersi si buttavano in mare con scarpe e vestiti addosso. E, lacrimando, afferravano i timoni e i remi delle navi dicendo: Ridateci il nostro padre e signore, il nostro tutore che ci dà di che nutrirci, che in ogni tempo ci difendeva dai nemici visibili. E se non tutto

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dateci perlomeno una parte di lui, per non rimanere del tutto privi di un così grande patrono.

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I Baresi, commossi dai loro lamenti, rispondono dolcemente. Infatti dicono: Dovete sapere che noi siamo oriundi della Puglia e che siamo venuti qui dalla città barese per togliere questo santo corpo a causa di una rivelazione. Perché irragionevolmente vi affliggete per disgrazie così grandi, come voi dite, da quando il santo confessore di Dio morì sono trascorsi settecento e settantacinque anni. È sufficiente che tanto voi quanto i vostri antenati abbiate goduto dei suoi benefici. Ora è per sua volontà che egli parta per rendere illustri altri luoghi del mondo. Voi potrete consolarvi davvero poiché avete il suo monumento colmo del santo liquore che vi è stato lasciato. E, per di più, anche un’icona, dalla quale avete ricavato tanti benefici. È perciò giusto che una città tanto grande e illustre, come è Bari, goda di un così grande patrono.

Nel frattempo quegli stessi cittadini vedono tra i presenti uno dei custodi di quella chiesa, che è vuota e desolata, lo afferrano e mentre lo colpivano con delle verghe, lo accusavano insieme ai suoi soci, di aver consegnato il sacro corpo in cambio di denaro. Ma, avendolo miracolosamente sottratto ai loro colpi il beatissimo confessore di Cristo, essi rimasero stupefatti e capirono che egli era innocente. Poi il santo corpo fu onorevolmente collocato in una piccola botte, al calar del sole nelle onde i Baresi iniziarono a navigare nel mare calmo e con vento propizio. Alcuni cittadini, allora, resisi conto di essere stati umiliati per la sottrazione di un patrono così importante, quando i Baresi abbandonavano il porto e alzavano inni a Dio, e al santo, afflitti da così grave lutto riempivano simultaneamente il cielo e la spiaggia di forti singulti tanto che, come poterono attestare gli stessi Baresi, gli ululati e i rumori da loro prodotti si udivano fino a quasi due miglia di distanza. Più precisamente nel loro gruppo furono pochi capaci di trattenere le lacrime mentre commiseravano le proprie sventure. I Baresi, avendo compiuto un percorso molto lungo, quella notte sostarono in un luogo chiamato Caccavo. Oltrepassato un sito chiamato Maiestra, dopo il quale arrivarono in acque profonde, cominciarono ad essere molto contrastati dalle onde del mare e dal vento detto Aquilone, che li gettò fino alla città di Patera, della quale quel confessore di Dio era oriundo. Essendosi spostati con grande rischio fino a questa città, ritennero che quel santo confessore non volesse affatto andare con loro né consentire che essi andassero avanti fino a quando non lo avessero restituito. Ma, sforzandosi ben oltre alle proprie forze per

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circa ventiquattro miglia, non riuscendo ad avanzare, deviano la rotta verso un posto chiamato Perdicea. Scendendo sulla spiaggia essi vedevano il mare calmo e il vento propizio e, non riuscendo a procedere, si accusavano reciprocamente di aver trafugato parte delle sante reliquie. Immediatamente dai nocchieri fu decretato che, preparato un libro del Vangelo, ogni marinaio a turno giurasse di non aver rubato. Ma che, se qualcuno avesse osato farlo, si sarebbero consultati come regolarsi con il santo corpo per poter tornare a casa. Allora cinque marinai rivelarono di essere in possesso di parte delle sante reliquie. A proposito di questo fatto, nessuno deve nutrire dubbi perché ciò avvenne per volontà di Dio, e tanto a lungo sarebbero rimasti fermi finché resti del santo corpo rimanessero separati. Da ciò è dato comprendere che lo stesso confessore di Dio non vuole affatto che le sue reliquie in qualche modo siano divise. O Dio ammirevole, quanto è indicibile la tua potenza poiché né mediante la voce di qualche angelo né grazie alla rivelazione di un santo qualunque né per mezzo dello stesso santissimo Nicola che in questo evento ancor più si distingue, e nemmeno per mezzo dei sogni di quei marinai facesti sperare di svelare queste cose ma per mezzo di elementi muti ti sei celato a loro fino a che non avessero restituito al santo le sue parti. Di poi, dopo la celebrazione del sacramento, essendosi acquietati i venti e calmato il moto ondoso, lasciato il lido e a vele spiegate felici giunsero in un luogo chiamato Marciano. Dopo, mentre attraversavano il golfo di Trachea accadde che uno dei marinai addormentandosi pesantemente fosse preso da un sogno. Nel quale il santo Nicola, apparendo gli disse: Non abbiate paura. Infatti io sono con voi e al ventesimo giorno arriveremo insieme nella città di Bari.

Quando costui, svegliatosi, mentre narrava ciò che aveva visto ai suoi soci, tutti felici per la immensa gioia ricevuta, arrivarono a Ceresano. Lì dopo aver consumato il pasto e caricato acqua, veleggiando per due giorni e una notte, percorsero cinquecento miglia e arrivarono nell’isola di Milo, dove quella notte dormirono. All’alba riprendono il cammino. In verità non tralascerò in qual modo accadde loro una cosa meravigliosa, come mi è stato narrato da chi l’ha vista. Infatti, mentre erano in mare, un piccolo uccello simile a un’allodola venne a posarsi sul timone destro della nave sulla quale era trasportato il santo corpo. Dopo essersi mosso sul timone, come se fosse stato allevato da quelli dell’equipaggio, salì tranquillamente nella mano di chi allora teneva il timone. Quindi, spostatosi, andò dove giaceva il corpo santo e

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cinguettando moderatamente col suo becco toccava dolcemente quella botte dove giacevano le sante reliquie. Fratelli cari, oh quanto si deve lodare il Signore onnipotente, che invitava all’elogio e alla venerazione del suo santo confessore non soltanto gli uomini ma anche gli animali privi di parola. Infatti il canto dell’uccello fu una lode. Il tocco del becco va inteso come un bacio che fedelmente offriva al santo corpo. Mentre cantava si spostava intorno agli uomini e a ogni nave, come se volesse elogiare e benedire tutti perché trasportavano un pastore tanto magnifico e ammirevole. Reso lì l’ossequio della sua obbedienza volando più oltre fu perso di vista da loro. Non molto tempo dopo giunsero in un’isola che in greco è detta Staphun e in latino Bonapolla. Quindi arrivarono in un porto molto celebre detto Gereca. Di lì pieni di gioia entrarono nella città di Monobasia. Lasciata questa, poco dopo approdarono a Metone, dove comprarono vino e altre cose che erano necessarie. Poi arrivarono a Sukea dove riposarono un po’ e non cambiarono itinerario perché il santo confessore di Cristo li allietava. Infine quando si arrivò nel porto di san Giorgio martire di Cristo, distante quattro miglia dalla città barese, costruirono una cassa nella quale disposero il santo corpo dopo averlo tolto da quella botticella. Cercherò di far conoscere brevemente, come il buon Samaritano, quante glorie sono connesse a questa città. O Bari, collegata alla Gerusalemme celeste, esultante per numerosi favori godi insieme a tutti coloro che abitano in te. Godi, o Bari, piena di elogi! Godi, o Bari, colma di gioie senza fine! Godi, o Bari, che accogli in te un nuovo lascito di salvezza. Esulta, tu che tra tutte le città della Puglia sei considerata la più meritevole di elogi! Esulta, tu che sei cinta della corona trionfale! Infatti Nicola in greco, in latino significa vittoria dei cittadini. Egli ha veramente vinto quando ha messo sotto la sua protezione i Baresi e tutti i Pugliesi, affrancandoli dalla sottomissione alle malattie. Esulta, tu che grazie al beatissimo Nicola riconosci i tuoi precettori ascritti tra i cori degli angeli. Esulta, tu che per la tua fama sei celebre in tutti gli angoli del mondo. Oh, quanto soavemente l’Onnipotente ti sottomise alla sua bontà. Con quale splendida luce del suo aspetto ti ha irraggiato quando ti ha raccomandato alla protezione degli angeli santi. Con quale attenta cura di giorno e di notte in ogni ora e in ogni momento veglia su te con grandissimo zelo. Certamente non per merito tuo, che sei gravata da una massa di molti peccati, ma per merito del suo beatissimo confessore Nicola, con il quale giunsero le legioni degli angeli. Fratelli dilettissimi, pentiamoci tutti e con grandi sforzi rivolgiamoci al nostro Signore che piamente ci ha

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abbellito e ci ha cinto con una perla celeste. Infatti, se ci rivolgeremo al Signore con tutto il cuore, non soltanto ci rallegreremo di questi doni fuori del comune ma ancora di più saremo ricompensati con la salvezza futura nei cieli. Siano testimoni per noi la regione Licia e, insieme, le sue città di Mira e di Patera. Se queste avessero osservato fedelmente gli antichi precetti e le attuali virtù di questo confessore di Dio, in nessun modo egli le avrebbe abbandonate, come governatore. Perciò siano assolutamente tenuti separati da noi gli adulteri, gli spergiuri, gli assassini, i furti, gli odi, le menzogne, le malignità, le liti, le calunnie, la superbia e qualunque altra cosa annebbi in noi la nostra fede. A queste opponiamo le virtù proprie dell’anima che rafforzano la nostra fedeltà. Anzi, quando noi tutti veniamo qui da qualsiasi parte per recare le nostre offerte in onore del Signore e per amore del suo confessore, nessuno di noi avanzi obiezioni o fastidi né agisca ipocritamente. Poiché se quel santo di Dio vedrà noi, suoi poveri servi, infastiditi dal male e redenti dal bene, non solo ci mostrerà le sue solite virtù ma, grazie al suo intervento, ci metterà in possesso del regno celeste. Dunque, dopo che i Baresi si volsero al porto della loro città, i loro parenti si mossero su barche per incontrarli e fu loro riferito che avevano traslato con sé il corpo del beatissimo confessore. Quando appresero da essi che ciò era vero, alcuni ritornarono frettolosamente al lido e lo proclamarono ad alta voce agli astanti secondo quanto si diffondeva per la città. Tutti accorrono in massa verso questo spettacolo tanto meraviglioso e desiderato. Inoltre i chierici Baresi, vestiti dei sacri indumenti e assorti nel rendere grazie per i favori del cielo, rapidamente scesero verso il porto ad aspettare il sacro corpo. Frattanto i comandanti delle navi insieme ai marinai, con una loro delegazione annunciarono ai concittadini che quando noi prendemmo il sacro corpo, allora facemmo una promessa, di costruirgli, insieme a voi, una chiesa degna di lui, nella corte statale detta del catepano. Chiediamo che voi esprimiate consenso alla nostra promessa.

In conseguenza di queste parole sorge una grande contesa tra tutti. Alcuni di essi, che sembravano far parte della maggioranza, approvano le loro promesse ma non altri che, in effetti, non sono affatto d’accordo perché desideravano che il santo confessore di Dio fosse trasportato nell’episcopio. Mentre da una parte e dall’altra ci si accapigliava, accadde che il signor Elia venerabile abate del monastero di S. Benedetto di questa stessa città, salisse su quelle navi e, dopo

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avere scambiato santi baci, dicesse ai loro capitani:

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Sono venuto qui a chiedere il vostro assenso, o saggi fratelli, affinché mi cediate il santo degno d’amore. Al quale noi desideriamo rendere ringraziamenti sinceri. Fino a quando il popolo non sarà d’accordo su quello che voi avete promesso al santo e avete chiesto al popolo, la corte statale sia la casa del santo Nicola.

Alla sua richiesta, apprezzata, tutti amorevolmente espressero consenso e consegnarono il santo corpo. Allora fu dato l’ordine che le campane di tutte le chiese suonassero in onore di quel santo. E le sacre reliquie furono deposte con somma cautela sull’altare di quello stesso S. Benedetto. Uomini armati di tutte le navi furono disposti da ogni parte affinché non venisse esercitata violenza da qualsiasi fazione dei cittadini. Allora, invero, fu in fretta mandato un messo al signor Ursone, arcivescovo barese, affinché accorresse per assistere all’avvenimento più meraviglioso e più eccellente d’ogni altra cosa. A quel tempo egli si trovava a Canosa per trattare una causa di santità. Udito ciò, subito, il più celermente possibile, si diresse a Bari ma il suo cavallo non correva così velocemente come anelava l’ardore del suo animo. Entrato in città, si diresse sollecito verso il santo corpo. Resagli la dovuta venerazione, felice per quel dono tanto grande, tornò alla sua dimora ordinando che fosse condotto nel santo episcopio. Nell’udire ciò i comandanti delle navi e i loro soci e soprattutto quelli del popolo che erano d’accordo con loro, tutti insieme concorrono a resistere. Ma quando il presule udì ciò, rinunciò al suo proposito. Allora, furono inviati a lui come legati uomini nobilissimi e sagacissimi baresi per chiedergli di acconsentire alla loro volontà. In effetti, dopo che i delegati tornarono dai loro sostenitori senza la risposta desiderata cominciarono a tumultuare violentemente nel timore che il presule meditasse d’impadronirsi del santo corpo con la violenza o con l’inganno. Dunque, mentre da tutt’e due le parti, prese subito le armi, si cominciò la battaglia, accadde che in entrambi gli schieramenti morissero due adolescenti, le cui anime, per grazia di Dio, saranno poste nella beatitudine eterna, perché entrambi morirono per l’ardente desiderio del santo corpo. Mentre quelli ancora combattevano, il santo corpo fu prelevato dal sito in quello stesso monastero con grandissimo onore dagli armati e altri gruppi di persone che recitavano il Kyrie eleyson e cantavano altri inni. Costoro, a capo scoperto, conducendolo attraverso una porta secondaria dello stesso monastero dalla parte del mare, lo trasportarono nella predetta corte nella chiesa di S. Eustrazio martire

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di Cristo. Dopo alcuni giorni, rasa al suolo questa, con chiese di altri santi, su di esse con altro spazio della medesima corte, fu costruita dai Baresi una splendidissima e magnifica chiesa in onore del beatissimo Nicola e di quei santi, dando disposizioni fin dalle fondamenta lo stesso signor abate Elia con l’aiuto dei nobili baresi, colui che si occupava della custodia del suo santo corpo su richiesta dello stesso arcivescovo e di tutti i cittadini. Affinché il luogo non fosse invaso da qualcuno per portarlo via con violenza, questo veniva sorvegliato notte e giorno da diverse squadre di gente armata, in attesa che fosse collocato con tutti gli onori nella chiesa stessa. Il corpo sacrissimo del santo Nicola confessore di Gesù Cristo fu portato via dalla città di Mira nel tardo pomeriggio del giorno 20 aprile e il giorno 9 maggio [fu traslato in Bari] essendo trascorsi dall’incarnazione del Signore mille e ottanta sette anni sotto la decima indizione. Ora, se il Signore mi aiuterà, riferirò come, appena il trasporto del santo fu noto, furono risanate persone affette da differenti malattie, che da tutte le parti della città il popolo accorrente con grandi manifestazioni di devozione aveva portato in quel monastero. Tra costoro, in quella notte e il giorno successivo, furono guariti quarantasette individui di sesso e di età diversi. Tra questi fu risanato un uomo nobilissimo dei Baresi, un armeno con il fianco sinistro completamente paralizzato e tre lunatici. E un sordomuto, due monchi, due fanciulli gobbi, tre ciechi, un uomo originario di Pisa con un braccio e una mano paralizzati e i piedi zoppi, e altri che sarebbe troppo lungo ricordare e che erano tutti abitanti di questa città barese. Invero, nella terza feria, tra la moltitudine di popolani accorsi dai villaggi, dai paesi e dalle città poste nelle vicinanze, in questo monastero furono curati nove malati fino all’ora quarta della stessa feria. Grazie allo stesso, un infante con braccio e mano paralizzati e con occhio macchiato, una donna mendicante sorda e zoppa a tutti e due i piedi, e un altro fanciullo indemoniato e una fanciulla armena indemoniata, e una donna di Giovinazzo completamente paralizzata e un’altra donna gravemente malata e una donna lunatica e paralitica e un pellegrino con la mano sinistra paralizzata e cieco a entrambi gli occhi. Dopo che in quello stesso giorno in verità portammo il santo corpo nella stessa corte sono stati guariti quattordici infermi, che è anche troppo lungo elencare. Nella quarta feria, sono stati curati ventinove infermi. Per prima una donna completamente paralizzata del villaggio chiamato Terlizzi, e una ragazza della città di Bitonto. E anche un indemoniato della città di Ascoli e una donna indemoniata della città di Taranto. Tre lunatici, due ciechi e una donna gravata

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da una gobba. E una donna della città di S. Vito, che è sottostante al castro di monte Scaglioso, che ogni giorno cadeva in punto di morte a causa di una grave oppressione. Costei, diligentemente interrogata da me su cosa avesse visto nel momento della guarigione, disse che sopra di lei era venuto un falco e si era posato sul suo petto e l’aveva coperta con le sue ali. Quando l’uccello volò via, subito si diffuse un odore così soave da far pensare di essere nella felicità del paradiso e altri tre dei curati si sono espressi in modo simile. A proposito di ciò, si deve credere che fosse l’angelo del santo confessore che tutti i giorni custodiva il santo corpo. Inoltre è sanata una certa fanciulla barese con eccessivo dolore delle ginocchia e altri che sarebbe troppo lungo elencare. Nella quinta feria, lo stesso confessore di Dio si rivelò in visione a un venerabile monaco per ordinargli di dire a tutti i popoli di non cadere nella disperazione di non poter essere guariti e che egli, per volontà del Signore onnipotente, si recava nelle regioni greche. Tuttavia, prima di partire, avrebbe fatto vedere un grande miracolo, come precisamente avvenne. Infatti in quella stessa feria prima del sorgere del sole fu risanato un giovane cieco, sordo muto e posseduto dal demonio per cinque anni. Inoltre nella sesta feria, Ernulfo vescovo bitontino, venne al santo corpo con una grande processione, pregando il santo Signore e il confessore Nicola. In quella stessa feria, inoltre, il vescovo barese con Guidone vescovo di Oria e il vescovo Leone di Conversano e altri tre vescovi e con tutto il suo clero e un popolo infinito pacificamente e umilmente vennero ad adorare il corpo. Anche sabato, all’ora nona, al ritorno di san Nicola, undici infermi recuperarono la salute compromessa. Carissimi fratelli, con quanta santità e devozione dobbiamo amare Dio e Signore e seguire i suoi precetti, il quale dopo il breve soggiorno in questa vita, è in grado di rendere i suoi santi possessori dei beni celesti. Anzi, di rendere illustri le loro reliquie con doni di miracoli tanto straordinari e famosi. Gesù Cristo, Dio e Signore nostro, che con Dio Padre e lo Spirito Santo vive e regna per gli infiniti secoli dei secoli. Amen. Finisce il trattato sulla Traslazione di san Nicola confessore e vescovo.

4. La fortuna delle Translationes La Translatio dell’arcidiacono Giovanni era già nota nella prima metà del XII secolo e per molto tempo, fino alla metà del XVIII, rimase la prima e l’unica Translatio sancti Nicolai a essere pubblicata.

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Non oltre il quarto decennio del 1100 fu epitomata nella Historia ecclesiastica di Orderico Vitale (1075-1142 c.), monaco benedettino di origine inglese vissuto nell’abbazia normanna di Saint-Évroult. L’epitome si trova nel libro VII della Historia ecclesiastica, terminata da Orderico intorno al 1141. Secondo Marjorie Chibnall, il libro VII è databile fra il 1130-1131 e il 1133, tuttavia, l’epitome può essere stata composta in qualsiasi momento e inserita nel posto cronologicamente corretto22. Nel XIII secolo Vincenzo di Beauvais considera autore della Translatio solo Giovanni23. Nel 1568 Giovanni Molano (Jan Vermeulen) oltre a Giovanni menziona anche Niceforo24. Nel 1579, dopo la chiusura del Concilio di Trento (1563), la Translatio dell’arcidiacono Giovanni fu edita da Lorenzo Surio, in una raccolta di storie di santi25. Nel 1620 il padre barese Antonio Beatillo, della Compagnia di Gesù, nella sua voluminosa opera su san Nicola dedica ampio spazio alle narrazioni agiografiche: Gli scrittori poi, che di questa sacra Traslazione hanno scritto a lungo, sono due, cioè Giovanni Archidiacono di Bari, e Niceforo Barese monaco di San Benedetto, l’uno, e l’altro de’ quali viveano in quei giorni medesimi, e si trovarono presenti alla maggior parte delle cose, che scrissero. Onde sono degni ambedue di quel credito, e fede, che a testimonij di vita communemente suol darsi. Il primo di essi, cioè l’Archidiacono Giovanni cominciò la sua historia in tal modo: Postquam Beati Nicolai substantia incorporea, & invisibilis a corporea, visibilique fuerat substantia separata; e l’inserì per lettioni del matutino nell’officio particolare, che da quel tempo infino ad hoggi continuamente è stato solito dirsi nella chiesa Barese con approvatione de’ Superiori nel giorno proprio, e per tutta l’ottava della Traslazione del Santo.

22

ORDERICO VITALE, Historia ecclesiastica, cit., I, Oxford 1980, p. 47. L’epitome si trova nel vol. VI, Oxford 1973, pp. 54-75, appendix, pp. 353-354. 23 VINCENZO DI BEAUVAIS, Bibliotheca mundi. Seu speculi maioris Vincentij Burgundi Praesulis Bellouacensis, IV, ed. Theologorum Benedictinorum, Duaci MDCXXIV, libro 25, cap. 83, p. 1031: “Huius translationem scripsit Ioannes Archidiaconus Barinae ecclesiae, iubente Ursione Barensis, & Canisinae ecclesiae Archiepiscopo”. 24 GIOVANNI MOLANO, Usuardi Martyrologium Ioannis Molani Lovaniensis, Lovanii 1568, C Vij. Idus Maj. 9: “Nicolai translationem scripsit Ioannes Archidiaconus Barinae ecclesiae iubente Ursione Barensis & Canusine Ecclesiae archiepiscopo. Eandem conscripsit Nicephorus Varensis, aut ut alii libri habent Nicephorus Barensis. MS. Lova apud Regulares S. Martini & in Bethlehem”. 25 SURIUS, De probatis sanctorum historiis, cit.

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Ultimamente di più il molto Reverendo fra Lorenzo Surio dell’ordine dei Certosini a consolatione de’ fedeli l’hà data alle stampe nel settimo tomo delle sue vite de’ Santi à nove di maggio, non già come la troviamo ancora nelle historie di Vincenzo Belluacense, che molto prima del Surio l’inserì compendiatamente nel libro ventesimo quinto del suo specchio historiale al Capitolo ottantesimo terzo, ma alla distesa, come la lasciò scritta l’auttore istesso in molti manoscritti di varie chiese di Bari. Il secondo poi, cioè Niceforo Barese monaco di San Benedetto, scrisse ancor esso la sua historia, e le diede principio con sì fatte parole: Gloriosa sanctorum merita dum pio, ac frequenti studio recoluntur à fidelibus, ille procul dubio glorificatur in eorum operibus, qui in sanctis suis prædicatur gloriosus, & mirabilis Deus. E se bene infin’ad hoggi non è stata tale historia posta ancora in istampa (…) e questa da un libro scritto à penna nella città di Francofurt, dove il molto Reverendo Padre Francesco Rapedio della nostra Compagnia di Giesù Rettore del Collegio di Mogonza l’hà fatto a mia richiesta copiare dal quarto volume della Tavola Mogontina, la quale, conforme alle cose accennate più volte di sopra, si conserva manuscritta nel Monasterio di San Bartolomeo di Francofurt 26.

Nel 1630 Cesare Baronio cita sia Giovanni sia Niceforo: Traslazione di san Nicola Vescovo. L’arcidiacono Giovanni scrisse la storia delle sue vicende al Vescovo Barese Ursione, come attesta Vincenzo di Beauvais libro 25 capitolo 83. La recensisce Surio tomo 7 in corrispondenza di quel giorno. Sopra la stessa storia ha scritto Niceforo Barese, e il manoscritto è smarrito, riferisce Molano27.

Nel 1751, Niccolò Carmine Falcone, metropolita di S. Severina ne’ Bruzi (Catanzaro), fu il primo a pubblicare la Translatio di Niceforo, traendola dal Vat.lat.6074. Si ebbe così la prima edizione a

26 BEATILLO A., Historia della vita, miracoli traslazione e gloria dell’illustrissimo Confessore di Cristo S. Nicolò, Arcivescovo di Mira e patrono della città di Bari, Napoli 1620, pp. 634-635. Il manoscritto del monastero di S. Bartolomeo di Francoforte (Ms. Barth. 5, Stadt-und Universitätsbibliothek Frankfurt am Main) contenente la Translatio Barium BHL 61876188 è datato al 1356: cfr. Die Handschriften des Bartholomaeusstifts und des Karmeliterklosters in Frankfurt am Main, beschrieben von POWITZ G., BUCK H., Frankfurt am Main 1974, pp. 4-18, in part. p. 17; Die datierten Handschriften der Stadt-und Universitätsbibliothek Frankfurt am Main, bearbaitet von POWITZ G., Stuttgart 1984, p. 28; “Analecta Bollandiana”, XVII (1898), pp. 209-210; Bibliotheca Hagiographica Latina, Bruxellis 1900-1901, BHL 6187, p. 896. 27 CESARE BARONIO, Martyrologium Romanum, Venetiis MDCXXX, p. 278: “(9 maggio) Translatio Sancti Nicolai Episcopi. Huius rei gestae historiam scripsit Ioannes archidiaconus ad Ursionem Barensem Episcopum, ut testatur Vinc. lib. 25. cap. 83. Recenset eam: Sur. tom. 7. hac die. Scripsisse insuper eamdem historiam Nicephorum Barensem, adhucq. in manuscrip. latitare, tradit Molanus”.

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stampa della Translatio di Niceforo, la cosiddetta recensione vaticana o Niceforo vaticano28. Nel 1753 Niccolò Putignani, canonico Regalis Ecclesiae S. Nicolai Bariensis e vicario generale del Regio Priorato della città di Bari, allegò al suo volume Vindiciae vitae et gestorum S. Thaumaturgi Nicolai, archiepiscopi Myrensis la Translatio dell’arcidiacono Giovanni che aveva desunto da Surio29. Nel 1771 lo stesso Putignani compose un altro libro, Istoria della vita, de’ miracoli e della Traslazione del gran Taumaturgo s. Niccolò arcivescovo di Myra, contenente la traduzione della Translatio di Niceforo, derivata dal codice della Biblioteca Capitolare di Benevento30. Si ebbe così la prima divulgazione della cosiddetta recensione beneventana o Niceforo beneventano. Nel testo Putignani dichiarò che la Translatio di Niceforo gli era stata donata da Stefano Borgia, segretario della Congregazione delle Indulgenze e delle Reliquie e autore dell’Adventus sancti Nycolai in Beneventum31. Borgia rinvenne il codice con la Translatio di Niceforo nella Biblioteca Capitolare di Benevento. Nel 1762 Borgia si recò a Bari e incontrò Putignani al quale fece dono di una copia degli atti che per uso personale aveva estratto nel 1762 da detto codice. Putignani valutò che il codice del Niceforo beneventano fosse più esaustivo del Niceforo vaticano pubblicato da Falcone. Alla fine dell’Istoria della vita di san Nicola, Putignani decise quindi di riportare la Translatio di Niceforo secondo il codice beneventano. Egli dedicò il libro a monsignor Borgia, segretario di Propaganda. Sulla scorta del Niceforo beneventano, ritenuto più veridico dell’arcidiacono Giovanni, Putignani ripercorse la storia della traslazione di san Nicola e della fondazione della basilica. Le tesi di Giovanni vennero accuratamente confutate. Da questo momento in poi la Translatio di Niceforo, forse perché più ricca di particolari o perché si prestava meglio a interessi di parte, fu la fonte maggiormente considerata32. Su di essa si basano le ricostruzioni storiche più recenti33. La Translatio di Giovanni fu invece trascurata e avviata all’oblio. 28

FALCONE, Sancti Confessoris Pontificis, cit., pp. 131-139. PUTIGNANI, Vindiciae, cit. pp. 117- 252. 30 PUTIGNANI, Istoria della vita, cit. 31 BORGIA S., Memorie istoriche della pontificia città di Benevento dal secolo VIII al secolo XVIII, II, Roma MDCCLXIV, pp. 362-388. 32 Cfr. KEHR P.F., Regesta pontificum romanorum. Italia pontificia, IX, Samnium-ApuliaLucania, ed. HOLTZMANN W., Berolini MCMLXII, p. 325. 33 Cfr. Capitolo I, § 4. Studi sulla fondazione della basilica. 29

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5. Stato degli studi

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Per quanto riguarda la storia degli studi recenti sulle Translationes sancti Nicolai, Nitti Di Vito giudicò sospette sia la Translatio di Giovanni sia quella di Niceforo. Nell’ambito delle dispute giurisdizionali che insorsero nel XII secolo tra la basilica e la cattedrale, al fine di confutare la palatinità della basilica ab antiquo, a suo avviso il duomo avrebbe provveduto a stravolgere le Translationes sancti Nicolai: In questo ambiente fu alterata e amplificata, con premeditate interpolazioni, la Leggenda di Niceforo monaco, e creata la Leggenda di Giovanni, arcidiacono dell’arcivescovo Ursone34. (...) La leggenda di Niceforo e l’intera leggenda dell’Arcidiacono Giovanni furono una conseguenza diretta e una reazione alla bolla di Pasquale II del 110535.

Pertusi si dilunga sulle fonti agiografiche, offrendo alla discussione spunti assai interessanti accanto ad altri meno condivisibili. A parer suo: Mentre abbiamo buone edizioni della recensione gerosolimitana di Niceforo, data dai Bollandisti nel 1885, della Translatio Barim graece, data dall’Anrich (…) e del discorso in russo attribuito a Efrem (…) non altrettanto possiamo dire per le altre recensioni del testo di Niceforo e per il testo di Giovanni arcidiacono. (…) Si tratta dunque di edizioni di cui bisogna diffidare in massimo grado.

E ancora: le due relazioni più importanti, quella di Niceforo (…) e quella di Giovanni (…), non ci sono giunte nelle loro redazioni originarie, ma sia l’una che l’altra in recensioni più o meno interpolate (…) Se le relazioni originali di Niceforo e di Giovanni sono da ritenersi anteriori al 1089 (…) non si può dire altrettanto delle recensioni che ci sono giunte di esse, specialmente per il Tractatus de translatione sancti Nicolai confessoris et episcopi di Niceforo.

La Translatio dell’arcidiacono Giovanni si presenta: contraffatta ma in modo diverso dal Tractatus di Niceforo. (…) La contraffazione non riguarda tanto il contenuto in sé, che non mostra interpolazioni simili a quelle che si riscontrano per il testo di Niceforo, quanto

34 35

NITTI DI VITO, La traslazione delle reliquie di san Nicola, cit., p. 313. Ivi, p. 327.

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lo stile della narratio, abbastanza diverso da quello che lo stesso Giovanni ha usato nell’Inventio sancti Sabini. Potrebbe trattarsi di una variatio di stile (…) ma potrebbe trattarsi anche di una retractactio retorica (…) del testo originale di Giovanni, più scarno e più essenziale, operato (…) tra la fine del secolo XI e la seconda metà del secolo XII36.

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6. Analisi comparata e manoscritti Allo stato attuale delle ricerche è impossibile orientarsi nell’intricata questione delle fonti agiografiche. Come si è visto, esistono numerose Translationes sancti Nicolai. Di queste vi sono diverse recensioni, contenute in svariati codici che sono stati pubblicati in varie edizioni. Vi sono inoltre problemi di interpolazioni relativi alle singole relazioni e di influenze e di reciprocità fra le medesime. La questione è destinata a rimanere aperta fino a quando non verrà eseguita un’edizione critica di tutte le fonti, edite e inedite. Fra le due principali Translationes sancti Nicolai, quella di Giovanni e quella di Niceforo, sussistono talune discrepanze. Potrebbe trattarsi di semplici varianti ma ho il dubbio che siano differenze sostanziali, forse intenzionali. Nell’esordio del racconto, Giovanni esorta i fedeli a festeggiare la ricorrenza della traslazione di san Nicola. È un esplicito richiamo alle rituali festività celebrate in ricordo del trasferimento del santo e all’uso liturgico delle Translationes. Nel brano relativo al trafugamento del corpo di Nicola, Niceforo descrive alcuni dettagli che vengono omessi dall’arcidiacono. Si accenna a un’icona con l’immagine di san Nicola che non fu possibile per i Baresi prelevare da Myra. Vi sono poi delle dicotomie sull’individuazione delle chiese, collocate all’interno della corte del catepano, dove vennero portate le reliquie. Giovanni cita la chiesa di S. Stefano mentre Niceforo menziona quella di S. Eustrazio. Ma le discordanze più significative riguardano le notizie sulle quali ci si è basati per l’interpretazione degli eventi inerenti alla fondazione della basilica. 36 PERTUSI, Ai confini tra religione e politica, cit., pp. 19-26. Anche per CORSI P., La traslazione delle reliquie, in San Nicola di Bari e la sua basilica, cit., p. 37: “Entrambi (Niceforo e Giovanni), non ci sono pervenuti nella loro redazione originaria, ma solo in recensioni più tarde e variamente interpolate”. Lo stesso concetto è ribadito dall’autore in CORSI P., La traslazione di san Nicola da Myra a Bari, in San Nicola. Splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, cit., p. 90.

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La Translatio di Niceforo (vaticana, beneventana) e le sue derivate (gerosolimitana37 e greca38) divergono da quella di Giovanni per 37 “Analecta Bollandiana”, IV (1885), cit., p. 185:“naucleri missa legatione mandaverunt civibus, voto communi apud Myrream metropolim seipsos obligasse: scilicet ut, si beatus Nicolaus Deo annuente seipsum transferendum eis permitteret, quod in domnica curia extra civitatem templum aedificare deberent, in eo loco ubi katapan, (…) consueverat palatium habere. Hujus sponsionis relatione audita, vario assensu divisa est populi sententia: potentioribus eum episcopio inferendum judicantibus, pluribus vero in praefata curia tumulandum conclamantibus. In hoc utrisque adhuc dissentientibus, domnus Helias, venerabilis abbas monasterii beati Benedicti civitatis ipsius, cum monachis suis descendit ad navem quae sanctum continebat corpus; (…) obtinuit ut sibi sanctae reliquiae servandae in suo monasterio credederunt, donec redeunte ipsius civitatis domno Urscione archiepiscopo, ejus consilio locus conveniens eis procuraretur. (…) igitur cum maximo cleri plebisque tripudio, (…) infra moenia deductus (…) ad Sancti Benedicti monasterium, quod in eadem urbe situm est (…), et eo usque venientes domnum Heliam, monasterii illius abbatem, sacri scrinii custodem statuunt (…) Interea ad domnum Urscionem archiepiscopum legatio dirigitur: qui tempore illo apud Canusinam et Tranum civitates morabatur (quarum pontificatu una cum Barrensi archiepiscopio fungebatur) (…) Audito itaque tantae novitatis nuntio, renuntiavit continuo intentioni Hierosolyman progrediendi (…) Et veniens ad eam, versus monasterium Sancti Benedicti, (…) cum Johanne, archidiacono suo (…) ordinabat quomodo cum laude et gloria coelestem illam margaritam ad suum deferret episcopium. Quam illius ordinationem naucleri audientes, congregaverunt ad se de civitate sponsionis suae fautores, statimque ad sua convolantes arma non pigritantur exire episcopio obviam in praelium (…) Erat autem sententia episcopi vel vi vel dolo tollere corpus sibi beati Nicolai (…) ortaque seditione tumultus popularis coepit nimium ingravari, adeo ut arreptis armis invaderent satellites episcopi, duobusque juvenibus altrinsecus interfectis discordia suscitaretur inexorabilis. Sub ipso autem discidio sanctum corpus sublatum est a multitudine virorum armatorum (…) et eductum per portam ipsius monasterii a parte maris (…) translatum est ad locum qui dicitur katapan, ubi erat in domnica curia praefecti. Erat autem idem locus in quo eum naucleri praefata sponsione locandum devoverant, immo eum divina dispositio per revelationem tumulandum signaverat. Nam praesens ibi quidam religiosae vitae monachus, divinitus sibi revelatum fuisse fatebatur, antequam piissimus et Deo amabilis pontifex Nicolaus ab urbe Myrrea transferretur, scilicet quemdam potentissimum regem, universae, terrae imperantem, unum katapan de suis magnis et primis ducibus destinasse (…) et in eadem curia sibi statuens mansionem. (…) Ergo domnus Helias abbas cum omnibus Barrensium nobilibus, electo loco, qui aedificandae ecclesiae aptior videbatur, dejecerunt, quae in eadem curia habebatur, ecclesiam beatissimi protomartyris Stephani (…) ecclesiam quoque Eustachii (…); et fundamenta aedificandi templi jacientes, eorundem sanctorum memoriam restituerunt solemnius infra ambitum ecclesiae illius. Interea multitudo copiosa plebis cum gladiis et fustibus et armis multis custodiam die ac nocte diligenter adhibeat artubus sacris, donec in eadem ecclesia fieret crypta, ubi mansionem sibi a Deo paratam carissimus et desideratissimus hospes hic sanctus acciperet Nicholaus. (…) et VII° idus Maii (…) exceptum est in urbe Barrensi et a domno Helia abbate, credente sibi clero et populo, in basilica sancti Benedicti depositum” (I padroni delle barche con una apposita ambasciata mandarono a dire ai cittadini che per comune decisione s’impegnavano a recarsi presso Mirra. Ovviamente, se il beato Nicola con il consenso di Dio permettesse a loro di trasferirlo, essi avrebbero dovuto costruire in un’area pubblica al di fuori della città un tempio, in quel sito dove il catepano (…) era abituato ad avere dimora. Ascoltata la relazione su questa impresa l’opinione del popolo fu espressa in modo diverso: i più importanti ritenevano che egli dovesse essere consegnato al vescovato, ma la maggioranza riteneva che egli dovesse essere sepolto nella corte predetta. Mentre essi erano ancora in discussione dom. Elia, venerabile abate del monastero di S. Benedetto della stessa città, con i suoi monaci si dirige alla nave che conteneva il santo corpo (…) e ottenne che i cittadini gli affidassero il compito di custodire le sante reliquie nel suo monastero, fino al momento in cui, tornato l’arcivescovo Ursone in quella città,

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quanto riguarda la cronaca dei momenti cruciali, quelli relativi alla gestione delle reliquie e all’erezione della chiesa.38. su suo consiglio fosse individuato un sito a lui conveniente (…). Quindi con grandissima gioia del clero e del popolo (…) portato dentro le mura (…) nel monastero di S. Benedetto della stessa città. E i convenuti fino a quel punto decidono di scegliere dom. Elia abate di quel monastero come custode del sacro scrigno (…). Nel frattempo un’ambasciata si reca dall’arcivescovo Ursone, che a quel tempo dimorava vicino alle città di Canosa e Trani (delle quali, insieme a Bari, fungeva come arcivescovo). Udito pertanto l’annuncio di una novità tanto importante, rinunciò alla sua intenzione nutrita da lungo tempo di recarsi a Gerusalemme (…). E venendo verso la città verso il monastero di S. Benedetto con Giovanni suo arcidiacono, ordinava in qual modo con lode e gloria celeste si dovesse portare quella cassa preziosa al suo arcivescovato. I padroni delle barche, ascoltando quella sua disposizione, radunarono al loro fianco i cittadini sostenitori della loro impresa e subito, correndo alle armi, non tardarono a uscire dalla chiesa per combattere (…). D’altra parte era intenzione del vescovo d’impadronirsi del corpo del beato Nicola con la forza o con l’inganno (…) e, sorta la discordia, il tumulto popolare cominciò ad aggravarsi troppo, fino al punto che, afferrate le armi, attaccarono le guardie del vescovo e uccisi due giovani da entrambe le parti, la lotta crebbe inesorabilmente. Durante questo scontro tuttavia il sacro corpo viene sollevato e portato via attraverso una porta del monastero dalla parte del mare (…) e trasportato nel luogo chiamato catepano. Che era nella curia domenica del prefetto. D’altra parte era lo stesso luogo nel quale i padroni delle barche avevano votato con la predetta decisione che egli fosse collocato ma, in verità, una disposizione divina aveva rivelato in quale sito dovesse essere tumulato. Infatti essendo lì presente un monaco di vita religiosa, dichiarava come per volere divino gli fosse stato rivelato, prima ancora che il piissimo e gradito a Dio pontefice Nicola fosse traslato dalla città di Mira. Ovvero come un re potentissimo, imperatore di tutta la terra, avesse destinato un catepano scelto tra i migliori suoi condottieri (…) stabilendo egli la sua dimora nella medesima curia. Perciò l’abate dom. Elia con tutti i nobili baresi, scelto il luogo che sembrava più adatto alla chiesa da costruire, fece abbattere il tempio del santissimo protomartire Stefano, che si trovava in quella stessa curia (…) e anche la chiesa di Eustachio (…) e gettando le fondamenta del tempio in corso di costruzione, imposero solennemente ricordo di quei santi all’interno del nuovo tempio (…) Nel frattempo una cospicua massa del popolo con molte spade e bastoni e armi diligentemente di giorno e di notte si dedica alla guardia delle sacre spoglie fino al completamento della cripta in quella chiesa dove il carissimo e desideratissimo santo ospite Nicola possa iniziare la funzione preparatagli da Dio (…) e il 7 delle idi di marzo è accolto nella città barese e dall’abate dom. Elia, con l’approvazione del clero e della popolazione, deposto nella basilica di S. Benedetto). 38 ANRICH, Hagios Nikolaos, I, cit., p. 445-446: “Ί υ , φ , , π α α α α π М , υ α α α π π υ πα , α α π α υ π .Ά υ α υ α π α π α α π , α Ο , α ’α π π π α . (…) υ α π α α , α α α π υ α π π Κα υ . , α αα α, π α α , π . π π π υ α , π υ α α π υ α. υ α α α υ, α , υ α α . , α α α α , π α α α α α υ απ α , π . Bα , α “Μ π ,π , π π α α. πα π , π υ α υ α α α ,α , πα ’α π α α α , υ

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Secondo il Niceforo vaticano (Vat.lat.6074, ff. 9r-X), appena giunsero al porto i traslatori informarono i concittadini di un giuramento che avevano assunto nell’atto stesso del trafugamento:

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quando noi prendemmo il sacro corpo, allora facemmo una promessa, di costruirgli, insieme a voi, una chiesa degna di lui, nella corte statale detta del Catepano. Chiediamo che voi esprimiate consenso alla nostra promessa.

Tale annuncio determinò una sollevazione popolare: la città si divise in due fazioni, una favorevole ai traslatori, l’altra determinata a trasportare le reliquie nell’episcopio. A pacificare gli animi, si fece avanti Elia, abate del monastero di S. Benedetto, al quale vennero affidate in custodia le reliquie che furono poste sull’altare del santo eponimo di quel monastero. Fu ripristinata la calma. A questo punto si provvide a informare l’arcivescovo Ursone dell’arrivo delle reliquie in città. Il prelato, che si trovava a Canosa, fece immediato ritorno a Bari. Qui giunto, Ursone pretese che le reliquie fossero trasferite nell’episcopio. I marinai e i loro sostenitori si ribellarono.

α α α . α α υ π π , α , . π , υ π αα , α π , α υ α α α α α α α ”. (Ebbene, fratelli, ascoltate. A voi è noto che quando le sacre reliquie partirono da Myra, allora si concordò unanimemente di costruire un tempio augustissimo del santo nostro patrono, nel pretorio reale del castro del nostro governatore [catepano]. Pensiamo che dobbiate essere ascoltati per quanto riguarda tale accordo comune e la promessa che facemmo. I Baresi, udite queste cose, dissero: “Certamente sappiamo ciò: che il santo sia posto nel luogo di tutti”. Altri allora dissero che il governatore lo sapeva. Subito si mandò la notizia all’arcivescovo Urso, che a quel tempo presiedeva il seggio del sommo sacerdote di Bari. Venne in fretta prima di giorno perché doveva tornare a Canosa al castro. Ma tuttavia il gran sacerdote, ascoltate queste cose, decise di rimanere a Bari per lungo tempo, ritenendo di esercitare il potere su questa città. Entrato dunque in trionfo in città con molta fretta giunse alle divine e sacre reliquie e dapprima le venerò, quindi le tenne in pugno con molta venerazione. Allora i marinai e quelli della città, avendo visto ciò, concordemente corsero per salvaguardare le reliquie del santo. In ogni caso il gran sacerdote, uditi i gridi e i mormorii, non si rallegrò del fatto. Ma i Baresi si spostarono cautamente e intelligentemente da quell’uomo che stringeva i resti dicendo: “Non farlo, padre, ma è meglio che ti affretti a soddisfare la volontà dei tuoi figli, perché se ti comporterai da padre, eseguirai bene la volontà degli spiriti della tua prole. Tu stesso piegati alle parole di pace di questi e non prendere le armi, ma se ritenessi illegittima la loro volontà e se ti armassi con questo e con quello, desidereresti tirannicamente che le preziose spoglie siano sottratte”. Da una parte la schiera di quelli disposti a fuggire senza far nulla e dall’altra quelli del sommo sacerdote ben disposti visibilmente a tutto: questi, imbracciate le armi, iniziarono a combattere. Successe che caddero due uomini di quelli del vescovo, e uno dei cittadini, i cui corpi furono disposti nel cortile del tribunale). α

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Ma quando il presule udì ciò, rinunciò al suo proposito. Allora, furono inviati a lui come legati uomini nobilissimi e sagacissimi baresi per chiedergli di acconsentire alla loro volontà. In effetti, dopo che i delegati tornarono dai loro sostenitori senza la risposta desiderata cominciarono a tumultuare violentemente nel timore che il presule meditasse d’impadronirsi del santo corpo con la violenza o con l’inganno.

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Scoppiarono altri tafferugli. Si venne alle armi. Morirono due giovani di entrambi gli schieramenti. Durante gli scontri le reliquie furono traslate dal monastero di S. Benedetto alla chiesa di S. Eustrazio nella corte del catepano. Dopo alcuni giorni, rasa al suolo questa [chiesa di S. Eustrazio], con chiese di altri santi, su di esse con altro spazio della medesima corte, fu costruita dai Baresi una splendidissima e magnifica chiesa in onore del beatissimo Nicola e di quei santi, dando disposizioni fin dalle fondamenta lo stesso signor abate Elia con l’aiuto dei nobili baresi, colui che si occupava della custodia del suo santo corpo su richiesta dello stesso arcivescovo e di tutti i cittadini: Interea nauclerii simul et naute per legationis officium suis nuntiaverunt civibus dicentes: quando nos sacrum tulimus corpus tunc promisimus ut pariter nobiscum conderemus ei dignam æcclesiam in curte domnica quæ dicitur catepani petimus ut nostris assentiatis promissis. Ex quo dicto grandis inter omnes orta est dissentio. Quorum alii qui plures videbantur laudarunt illorum sponsiones alii vero nequaquam sed cupiebant ut sanctus dei confessor fereretur in episcopium. Quibus ex utrisque partibus litigantibus factum est ut domnus helias venerabilis abbas monasterii sancti benedicti civitatis ipsius ascenderet naves illas et post libata oscula sancta rectoribus dixit illarum: Huc adii sophi petiturus pectere vestra. Fratres quo sanctum mihi vos cedatis amandum. Cui nos veraces studeamus reddere grates. Donec vobiscum vulgus consenserit illud. Quod promisistis sancto populoque petistis. Domnica quo curtis nicolao sit domus almo. Cuius dilecte petitioni omnes fideliter assenserunt sanctum prebentes corpus. Deinde iussum est æcclesiarum omnium sonare campanas propter eiusdem sancti honorem deponentesque lipsanum sanctum summa cum cautela posuerunt illud super altare eiusdem sancti benedicti omnibus ex partibus dispositis armatis navium ne aliquam paterentur vim a quacumque parte civitatis. Tunc vero missum est festinanter ad domnum ursum barensem archiepiscopum ut ad tam mirificam excellentissimamque rem quam totius festinaret. Qui eo scilicet tempore aberat canusiæ pro causa sanctitatis implenda. Quo audito dum cito citius barim repedaret ad urbem sonipes eius non tantum suis cursitabat gradibus quantum ipsius animi ardor festinare anhelabat. Ingredientisque civitatem festinus ad sanctum declinavit corpus. Cui debitam reddens venerationem tanto gavisus munere ad propriam remeavit sedem disponens ut reverenter illud ad sanctum gestarent episcopium. Quod audientes nauclerii cum sociis suis immo et populi qui eorum consenserant velle, omnes

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

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eque concurrunt ad resistendum. Quod dum idem presul audisset ab illa profectione suum retaxit pedem. Tunc missi sunt ei legati nobilissimi ac sagacissimi barensium viri deprecantes ut eorum consentiret voluntati. Postquam vero legati reversi sunt ad suos sine cupita responsione graviter inter se tumultuari ceperunt eo quod presul ipse meditaretur vi vel dolis sanctum corpus auferre. Igitur dum ex utrisque partibus subito areptis armis commiserunt pugnam accidit ut ex ambabus turmis morerentur duo adulescentes quorum animas veraciter credimus atque firmamus in perpeti beatitudine fore locandas summo favente domino eo quod uterque propter desiderabilem appetitum sancti corporis obierit. Quibus adhuc dimicantibus sanctum corpus e vestigio sublatum est ab ipso monasterio cum grandissimo honore armatorum aliorumque populorum clamantium kyrieleyson ceterasque canentium laudes. Qui enudatis capitibus educentes illud per pusterulam eiusdem monasterii a parte maris detulerunt in prefatam curtem ad æcclesiam sancti eustratii martiris christi. Qua eversa post aliquot dies cum aliorum sanctorum æcclesis usque ad solum constructa est in eis cum alio spatio eiusdem curtis splendidissima ac magnifica æcclesia ab eisdem barensibus ad honorem beatissimi nicolai ipsorumque sanctorum disponente eam a fundamine eodem domno helia abbate cum barensium nobilibus qui preerat custodie eiusdem sancti corporis rogatus ab eodem archiepiscopo cunctisque civibus. Quod ne invaderetur ab aliquibus per vim ad tollendum custodiebatur die ac nocte a diversis falangibus armatorum donec honorifice locaretur in eadem æcclesia39.

Nel racconto di Giovanni si asserisce che la città si divise in due partiti in lotta per la scelta del luogo destinato ad accogliere le reliquie. Tuttavia i disordini, sorti per moto spontaneo e non a causa del comportamento sospetto di Ursone, non sfociarono nei tumulti sanguinosi di cui parla Niceforo. L’arcivescovo viene invece presentato come persona pacifica che agisce in sintonia con la popolazione e non trama di impossessarsi delle reliquie. L’arcidiacono riferisce che, nel momento in cui i traslatori approdarono al porto di Bari, Ursone era assente dalla città. Egli si trovava a Trani, in compagnia dello stesso Giovanni, in attesa di imbarcarsi su una nave per compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme. Nel frattempo i marinai avevano consegnato la cassetta con le spoglie all’abate Elia che la custodì, vegliando insieme ai suoi religiosi, per tre giorni. Dopodiché la cassetta venne trasferita nella corte del Catepano. Tra i Baresi erano però emersi dei contrasti e la cittadinanza si era scissa in due schieramenti intenzionati a porre le reliquie in siti diversi. Occorre precisare che la Translatio di Giovanni contenuta nel manoscritto Reg.lat.477 è attualmente mutila. La 39 Per la traduzione di questo brano del Vat.lat.6074 vedi in questo capitolo § 3a., pp. 133-135. La Translatio di Niceforo beneventano (Biblioteca Capitolare di Benevento, Benevento 1) è corrispondente al Niceforo vaticano tranne l’impiego di qualche sinonimo.

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fine dell’ultima pagina superstite del poemetto (f. 38v) si interrompe proprio nel punto cruciale in cui i marinai e i cittadini si rivolsero all’arcivescovo chiedendogli il permesso di porre le reliquie in curiam ipso favente perché colà lo spazio era (…). Per apprendere le fasi successive della storia ci si può rifare alle edizioni a stampa. Nelle edizioni curate da Surio (1579) e da Putignani (1753) si dice che il presule acconsentì alle richieste dei cittadini perché il luogo era più ampio e adatto, e recandosi processionalmente insieme al clero e alla popolazione prelevò le reliquie dal centro della corte e le depose nella chiesa di S. Stefano. Successivamente si cominciò a riflettere a chi delegare la custodia di un tale tesoro con il compito di occuparsi del necessario per provvedere alla costruzione della basilica. L’abate Elia fu giudicato il più idoneo. Quindi l’arcivescovo con l’accordo di tutte le parti consegnò la cassa con le reliquie a Elia e volle che fosse lui a sovrintendere a quanto v’era da fare. Nel Reg.lat.477, f. 38v, si narra che: Nam Urso, Barinorum archiepscopus, vir religiosus Deo dignus, dominisque italicis notissimus ac familiaris amicus, aberat. Erat enim apud Tranum cum quo & nos illo in die qui illic navis preparata stabat, quam post diem alterum intrase (?) disposuerat, causa orationis Hierosolimam proficisci. Legatus ergo statim, cum litteris a civibus barensibus, ad illum festinus advenit, que omnipotentem Dominum tanta dona mirifica illius ecclesie suo in tempore concessisse significabant. Dimisso igitur ille quod incepit itinere, immensa repletus letitia, Barum nequaquam […] properare. Naute vero predicti Helie abbati [cenobi sancti] Benedicti quod supra portum situm est […] reliquiis capsellam eandem […] vit quam ille suscipiens in eandem beati Benedicti ecclesiam deposuit nono die intrante mense maio in quo translationis eius est constituta sollem […] celebrari tribusque diebus et noctibus suis cum fratribus diligenter et caute custodivit. Nam inde postea fuit ablata & ad curiam que dicitur Catepani portata. Inter cives namque barenses civilis dissensio & seditio exoriens geminas est in partes divisa, una et enim pars in hac civitatis parte, altera vero in altera sanctum collocare nitebatur. Denique vero eodem veniente archiepiscopo naute civesque flagitaverunt illum quatinus eandem infra curiam ipso favente sineretur quia locus…40.

L’edizione Surio (1579) prosegue: (…) esset aptus & amplius, ibique propria ecclesia construeretur. Quorum ille postulationis consensum praebuit: & mox cum episcopis & clericis omnique 40 Sono profondamente grata alla Prof.ssa Luisa Miglio per avermi chiarito l’interpretazione di questo brano. Per la traduzione vedi nello stesso capitolo § 2a., p. 113.

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populo civitatis nudis pedibus illuc pergens, de medio curiae abstulit, & in ecclesia beati protomartyris Stephani, quae paucis mensibus ante annos tres fabricata fuerat, deposuit. Deinde solicite cogitare coeperunt, cui viro idoneo, digno & fideli tantum thesaurus fideliter custodiendum committerent, qui & oblationes fidelium susciperet, fideliterque ad necessaria basilicae opera servaret, omnibusque præesset utilitatibus providus dispensator. Sed neminem alium tantae rei magis idoneum hac tempestate reperire potuerunt, quam ante dictum Eliam abbatem. Itaque omnium consensu & favore Archiepiscopus loculum corporis & cætera supra memorata illi commisit, agendisque omnibus cum præpositum esse voluit” 41.

A giudicare dal racconto di Giovanni, l’intenzione dei cittadini, o almeno di una parte di essi, era quella di costruire il santuario nella corte del catepano. Essi chiesero all’arcivescovo il permesso di deporre le reliquie nella curia, fatto che starebbe a indicare che i diritti su quell’appezzamento spettavano all’episcopio. Ciò sarebbe coerente con il documento del 1087 in cui si dichiara che Ruggero Borsa cedette all’arcivescovo la ex corte catepanale con la facoltà di erigervi il tempio dedicato a san Nicola. Nella Translatio di Niceforo invece si indica esclusivamente come in curte domnica quæ dicitur catepani il luogo prescelto dal partito dei traslatori ove deporre i sacri resti e costruire la basilica. Credo che questo passaggio costituisca il punto fondamentale sul quale è stata imperniata la controversia dei secoli successivi. 41 SURIO (1579), pp. 178-179. Riporto il brano dell’edizione SURIO (1579), p. 178, che precede “esset aptus” per colmare le lacune del Reg.lat.477 e agevolarne la comprensione. È interessante osservare che la frase evidenziata di seguito in grassetto è assente nel cod. Reg.lat.477. Si tratta certamente di un’interpolazione della Translatio originaria di Giovanni con la quale si intese colmare la discrepanza con la Translatio di Niceforo che riferisce degli scontri sanguinosi occorsi fra le orde cittadine: “Urso enim Barinorum Archiepiscopus, vir religiosus, Deoque dignus, & dominis Italicis notissimus & familiaris amicus erat tum apud Tranum, cum quo & nos illo die eramus. Navis enim illic praeparata stabat, quam post diem alterum ingredi statuerat, causa orationis Hierosolymam profecturus. Porro legatus ad eum festinus venit civium Barensium cum literis, quae omnipotentem Dominum tam mirifica dona ecclesiae Barensi ipsius tempore concessisse significabant. Omisso ergo ille coepto itinere, immensa replectus laetitia, Barum sibi propere petendum existimavit. Interim nautae Eliae abbati coenobij S. Benedicti, quod supra portum situm est, capsellam sacras reliquas continentem commandarunt quam ille suscipiens, in eadem beati Benedicti ecclesia nono die mensis Maij, in quo translationis est costituta celebrari solennitas, tribus diebus & noctibus cum fratribus suis diligenter & caute custodivit. Nam inde postea fuit ablata, & ad curiam, quae dicitur Catepani, deportata. Inter cives nanque Barenses civilis dissensio & seditio exoriens, in duas est partes divisa. Alij enim in hac civitatis parte, alij in altera Sanctum collocare nitebantur. Quid autem inter illos evenerit, per notas vocum nolumus nostris moerendum relinquere posteris: sed malumus silentio sempiterno teneri, & oblivione ignorari. Tandem vero adveniente Archiepiscopo, nautae & cives rogaverut illu, ut capsellam illam intra curiam suam sineret reponi, quod locus illic esset aptus & amplius, ibique propria ecclesia construeretur”.

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Effettivamente nel testo di Surio si nota una enfatizzazione dei diritti di proprietà arcivescovile sulla curiam mediante l’uso dell’aggettivo suam42. D’altro canto la vis polemica di Putignani e le ragioni addotte per sostenere l’attendibilità di Niceforo e l’infondatezza di Giovanni sono eloquenti: Scrive Giovanni che ’l Corpo di S. Niccolò dopo essere stato nella Chiesa di S. Benedetto per tre giorni, e tre notti ben custodito dà Monaci, fu indi trasferito nella Corte del Catapano; che essendo nata tra Baresi civile dissenzione, e sedizione, si divisero in due parti: chi volendo, che si collocasse in un luogo, chi in un altro. (…) E che venuto l’arcivescovo Ursone da Trani, i Baresi lo pregarono, che permettesse riporsi la Cassa delle Reliquie nella sua Curia, cioè dell’Arcivescovo, come luogo atto, ed amplo per costruirvi la nuova Chiesa. Quella che prima avea Giovanni chiamata Corte del Catapano più sotto come abbiam veduto, appella Corte dell’Arcivescovo Ursone. (…) È dunque un punto di non poca importanza il sapere, se questo luogo, in cui fu edificata la magnifica Chiesa a S. Niccolò, apparteneva allora al Duca Ruggeri, ovvero all’Arcivescovo Ursone43.

Poi Putignani prosegue il suo ragionamento scrivendo che nella vexata quaestio è decisiva la bolla di Pasquale II del 1105 in cui si dichiara espressamente che la chiesa fu edificata in un luogo di pubblico diritto concesso con suo chirografo dal duca Ruggero. Per Putignani ciò decide contro Giovanni, poiché risulta inoppugnabile che la chiesa sia stata eretta nella corte del catepano44. Più avanti l’autore precisa che la chiesa di S. Stefano cui fa riferimento Giovanni non era quella che si trova all’interno della corte domenica, che invece è chiesa omonima ma più tarda!45 La Translatio di Kiev omette sia il riferimento alle zuffe cittadine sia la contesa con l’arcivescovo per la collocazione delle reliquie: Partirono dalla città di Myra nel mese di aprile, il giorno 11. Arrivarono nella città di Bari il mese di maggio, il giorno 9, di domenica verso l’ora del vespro. Videro i Baresi che stavano arrivando con le reliquie di S. Nicola da Myra, e tutti i cittadini uscirono per andargli incontro, uomini e donne, dai piccini ai grandi, con candele e incensieri, e le 42

Cfr. nota precedente. PUTIGNANI, Istoria della vita, cit., pp. 67-68. 44 Ibidem. 45 Sulla ubicazione della chiesa di S. Stefano cfr. bizantina nell’Italia meridionale, cit., p. 152. 43

VON

FALKENHAUSEN, La dominazione

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accolsero con gioia e onore grande; e le posero nella chiesa di S. Giovanni il Precursore presso il mare. (…) E gli costruirono una chiesa meravigliosa, che è grande e bella, dedicata al nome del santo uomo di Dio e padre Nicola46.

Resta comunque un dato di fatto. Il codice Reg.lat.477 (fine XI secolo) riportante la Translatio di Giovanni è anteriore rispetto a quelli del Niceforo Vaticano (prima metà del XII secolo) e del Niceforo Beneventano (seconda metà del XII secolo). A tutt’oggi esso appare il più antico di tutti i manoscritti conosciuti relativi alle Translationes sancti Nicolai. Fra i manoscritti francesi e belgi repertoriati dai Bollandisti ve n’è uno, il Latin 12600 della Biblioteca nazionale di Parigi, contenente una Translatio di Niceforo, che poteva porre alcuni dubbi in proposito47. Esso era stato infatti datato dai Bollandisti all’XI secolo48. In realtà, esaminato con attenzione il contenuto del manoscritto, ho potuto rilevare che la Translatio sancti Nicolai è vergata su alcuni fogli (ff. 256r-263v) del XII secolo che sono stati aggiunti a un codice primitivo con Vitae sanctorum risalente all’XI secolo, proveniente da uno scrittorio di Angers. Essa è certamente posteriore al Reg.lat.47749. Ricapitoliamo. La Translatio di Giovanni del codice Reg.lat.477 è la più antica di tutte quelle finora divulgate. La sua datazione alla fine dell’XI secolo è coerente con la cronologia degli eventi narrati. L’arcidiacono è un personaggio accertabile. È noto che egli scriveva per conto dell’arcivescovo Ursone, si possiede anche un altro suo scritto, l’Historia Inventionis sancti Sabini, e i particolari storici che riferisce possono essere provati. Di Niceforo, invece, oltre ai cenni autobiografici desumibili dal suo componimento dove si dichiara 46 CIOFFARI G, Appendice II. La leggenda russa sulla traslazione, traduzione, in CORSI, La traslazione di san Nicola: le fonti, cit., p. 121. 47 Bibliothèque Nationale de France, Microfilm con segnatura MF 16458. 48 Catalogus codicum hagiographicorum latinorum antiquiorum saeculo XVI qui asservantur in Bibliotheca Nationali Parisiensi, III, cit., pp. 126-127. Cfr. in questo testo nota n. 7 del IV capitolo, § 1 Le fonti. 49 La plausibile datazione al XII secolo dei ff. 256r-263v con la Translatio sancti Nicolai del Latin 12600 e la loro indiscussa posteriorità rispetto alla Translatio dell’arcidiacono Giovanni del Reg.lat.477 è stata confermata dalla Prof. Luisa Miglio, che ringrazio sentitamente. Per VEZIN J., Les scriptoria d’Angers au XIe siècle, (Bibliothèque de l’École des Hautes Études), Paris 1974, pp. 82-84, 253-255, il Latin 12600 è un manoscritto angiovino di composizione fortemente complessa che risulta vergato da mani diverse. Alcuni fogli sono stati aggiunti al volume primitivo. È evidente che i ff. 242-263v sono stati cuciti alla fine del manoscritto primitivo perché hanno un formato diverso dal resto del volume. Vezin descrive solo le sezioni che a suo parere facevano parte del manoscritto all’origine.

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“ultimo di tutti i chierici” abbiamo scarse e incerte notizie: forse era un monaco dell’ordine di S. Benedetto50. La Translatio di Giovanni era certamente nota nel Medioevo entro il 1141 c., poiché fu excerpta nella Historia Ecclesiastica di Orderico Vitale e per lungo tempo rimase la fonte agiografica di riferimento sulla traslazione, nota anche a Vincenzo di Beauvais nel XIII secolo. Essa fu stampata (ed. SURIO, 1579) prima della Translatio di Niceforo. Le prime pubblicazioni della Translatio di Niceforo apparvero solo alla metà del XVIII secolo: per avere edizioni a stampa occorre attendere gli studi di FALCONE (1753) e di PUTIGNANI (1771). Considerazioni di natura logica mi inducono perciò a ipotizzare che la Translatio del codice Reg.lat.477 sia non solo la relazione originale dell’arcidiacono Giovanni ma anche il testo “ufficiale” dell’evento51. V’è infatti un’altra circostanza di cui occorre tener conto. Se si consultano i codici antichi ci si rende conto della natura diversa delle fonti in esame. La Translatio di Giovanni costituisce un’opera a sé stante: un opuscolo di cui rimangono alcuni fogli inseriti nel codice miscellaneo vaticano Reg.lat.477. Le due Translationes di Niceforo invece non sono componimenti a sé stanti ma brani di libri liturgici al pari di tante altre vitae e passiones di santi. A parer mio questo fattore va analizzato nel modo seguente: poiché le due Translationes di Niceforo furono riportate in libri liturgici, non possono essere considerate relazioni originarie dell’autore, bensì trascrizioni di questa. Mi pare anche ragionevole ipotizzare che, seppur vi sia stata una relazione di Niceforo copiata nei due 50

Cfr. BEATILLO, Historia della vita, cit., p. 634; Repertorium fontium historiae medii aevi, VIII/2, Fontes N, Romae MCMXCVIII, p. 182. 51 Le conseguenze della mia ipotesi andrebbero valutate in relazione a quanto descritto da Francesco Magistrale, il quale ritiene che “Nella fase iniziale del periodo normanno, comunque, sia in àmbito librario sia in quello documentario continuò ad essere adoperata la scrittura beneventana (…). Solo a partire dalla prima metà del secolo XII il panorama grafico dei territori pugliesi cominciò a conoscere, recepire e utilizzare il modello scrittorio carolino di origine francese. Tale innovazione si verificò immediatamente e pienamente nel campo della documentazione cancelleresca normanna”. E poi aggiunge: “nella città di Bari, in un panorama grafico latino dominato dalla scrittura beneventana, negli ambienti culturali più aperti al rapporto con i Normanni, come quello della basilica nicolaiana, almeno a cominciare dalla prima metà del secolo XII circolarono esemplari di codici vergati nella scrittura di origine francese” (MAGISTRALE F., Scritture, libri e biblioteche dai Normanni agli Angioini, in Storia di Bari. Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, cit., pp. 449, 452). Cfr. IDEM, Cultura grafica a Bari fra IX e XI secolo, in Storia di Bari. Dalla preistoria al Mille, diretta da TATEO F., Bari 1989, pp. 441-443; IDEM, Forme e funzioni delle scritte esposte nella Puglia normanna, Firenze MCMXCIII.

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libri liturgici del XII secolo, essa attualmente non sia stata ancora individuata52. Non riesco quindi a capire le argomentazioni di Pertusi e di quanti condividono la sua opinione quando affermano che né la fonte di Giovanni né la fonte di Niceforo ci sono giunte nelle loro redazioni originarie ma in recensioni più o meno interpolate53. A mio modo di vedere, la Translatio di Giovanni del Reg.lat.477, essendo più antica di quelle di Niceforo e possedendo le caratteristiche che ho illustrato, può avere le carte in regola per essere considerata la relazione originaria di Giovanni e forse anche quella “ufficiale”. Con questo non intendo asserire che essa sia fededegna e che riporti le vicende in modo oggettivo. Sostengo solo che forse era la versione “ufficiale”, certamente di parte ma, quello che ai fini del mio studio interessa dimostrare, della parte committente. Il problema non è stabilire quale delle due fonti sia espressione della verità e quale esponga oggettivamente i fatti. Probabilmente nessuna delle due! Se si vuole dar credito a Geary occorre tenere presente che le translationes non sono documenti storici ma opere agiografiche che potrebbero essere parzialmente o interamente fittizie: Esse erano composte per commemorare un evento e, nella maggioranza dei casi, questa commemorazione era pubblica, comunitaria e ritualistica: la celebrazione liturgica dell’anniversario della traslazione. Storici e agiologi spesso dimenticano che le vere translationes spesso erano parte della liturgia festiva ed erano divise in lezioni da leggersi seguendo la liturgia delle ore. In quanto parti della preghiera pubblica della comunità, non sorprende che esse tendessero alla schematizzazione e alla stilizzazione caratteristiche della liturgia. Ne consegue che spesso è impossibile distinguere un racconto veritiero da uno contenente solo

52

Cfr. Repertorium fontium historiae medii aevi, VIII/2, Fontes N, cit., p. 182. Gli studiosi che in epoca recente si sono occupati delle Translationes sancti Nicolai latine si sono basati sul contenuto del testo preso dalle opere a stampa. Essi hanno formulato le proprie tesi sulla base del racconto così come questo veniva presentato nelle suddette edizioni (a esempio FALCONE 1751; PUTIGNANI 1753 e 1771; NITTI DI VITO), tralasciando di analizzare le fonti originarie, cioè i tre manoscritti contenenti rispettivamente la Translatio di Giovanni (Reg.lat.477) e le due Translationes di Niceforo della Biblioteca Vaticana (Vat. lat.6074) e della Capitolare di Benevento (Benevento 1). Confesso che in alcuni casi sono stata sfiorata dal dubbio che essi non abbiano consultato tutti i codici originari, soprattutto quello di Giovanni. Non si sottrae a questa impressione neanche l’eccellente Pertusi (non descrive il Reg.lat.477, non conosce il catalogo della Biblioteca Vaticana che ne riporta la datazione e per le sue osservazioni si affida alle redazioni di Putignani, Falcone e Nitti di Vito), che pure si mostra prodigo di informazioni riguardo a numerosi codici inediti con Translationes sancti Nicolai. Cfr. pure il recentissimo CORSI, La traslazione di san Nicola da Myra a Bari, cit., pp. 89-96. 53

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un nucleo di verità o completamente artefatto, in particolare quando si tratta di racconti di trafugazioni54.

È dunque importante individuare quale dei due scritti abbia maggiore probabilità di essere quello che fu richiesto ad hoc come testo commemorativo a uso liturgico dagli stessi personaggi che, mossi dall’opportunità di acquisire le reliquie del santo e di dedicargli un tempio, presumibilmente furono anche i patrocinatori dell’intera vicenda. Ritengo che la versione di Niceforo vada comunque presa in considerazione. Tuttavia, non essendo coeva all’evento, è improbabile che essa sia quella dei “committenti”. È perciò inutile per ricostruire la genesi della basilica nicolaiana. In altre parole il popolo barese, della cui vitalità abbiamo diverse attestazioni, fu certamente un soggetto in grado di condizionare il corso degli avvenimenti, magari quelli successivi, come le controversie per l’affermazione dei diritti giurisdizionali della basilica, lo svincolo di essa dall’autorità vescovile, le rivalità che sorsero in un secondo momento tra le componenti cittadine e i fermenti del libero comune. Non credo invece che il popolo intervenne nella fase decisionale precedente il trafugamento. Gli ideatori, coloro che caldeggiarono il “piano”, furono altri: forse Desiderio-Vittore III, i Benedettini, Elia, gli eredi del Guiscardo e l’arcivescovo Ursone che, contrariamente a quanto tramandato da una critica inadeguata, non agì da antagonista bensì da collaboratore. Non ho dimenticato di considerare il popolo di Bari. Al contrario sono partita proprio da lì. Il ruolo svolto dai cives e dalle loro agguerrite fazioni è il vero Leitmotiv che accomuna tutta la storiografia barese, dalla saggistica alla divulgazione. Dopo aver esaminato una pila di studi, locali e non, nei quali il ritornello veniva adoperato con determinismo acritico per spiegare il corso della storia, ho creduto opportuno svolgere ricerche più accurate. Ho avviato alcune indagini partendo dalle fonti settecentesche, a esempio il Putignani, canonico della basilica nicolaiana e studioso di san Nicola, il quale dedica all’argomento pagine talmente accorate da risultare sospette. Andando a ritroso, ho potuto constatare che il topos delle fazioni cittadine e delle liti cruente che causarono la morte di alcuni giovani è riportato unicamente nella Translatio di Niceforo (recensione vaticana, beneventana) e nelle sue derivate (gerosolimitana 54

GEARY, Furta sacra, cit., p. 17.

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

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e greca) mentre nelle altre (Translationes di Giovanni e di Kiev) è del tutto assente o solamente accennato, non gli si attribuisce cioè un ruolo decisivo nella faccenda. Tanto per avere un’idea di come la storiografia settecentesca della basilica si schierò a favore di Niceforo, ecco la versione dell’accaduto data da Putignani sulla base del Niceforo beneventano: (...) con essi non vi era l’arcivescovo di Bari, chiamato Ursone, che si trovava insieme col suo arcidiacono Giovanni, scrittore illustre della storia di questa celebre traslazione, si trovava, dico, nella città di Trani, distante ventiquattro miglia da Bari, per imbarcarsi sopra una nave, già pronta a far vela nel giorno veggente, e portarsi in Gerusalemme a venerare i santi luoghi. Ma egli ciò nonostante pervenutagli la notizia per un corriere, che in Bari era stato felicemente trasferito il venerabil corpo di san Niccolò di Mira: tralasciato il premeditato viaggio con immensa allegrezza in vece di montar sulla nave, ritornò speditamente da Trani in Bari, dove pur troppo era necessaria la sua presenza in un affare di momento così grande, come le cose indi avvenute assai chiaro lo dimostrarono. Mentre dunque stavano pronti i chierici per ricevere il santo corpo, i nocchieri, e marinai inviarono un messia ai baresi, facendo loro sapere, che quando essi avean tolto il corpo di san Niccolò da Mira si erano insieme con promessa obbligati di edificare una chiesa degna d’un tal santo nella corte del catapano: si contentassero perciò di permetter loro, che una risoluzione così solennemente da essi presa rimanesse nel suo vigore, e fosse interamente eseguita, con erigersi una nuova, e magnifica chiesa in quel luogo, che avevano fin dalla Licia disegnato. Una ambasciata di tal natura vari produsse gli effetti nell’animo de’ baresi. Perciocché alcuni, ed era la maggior parte, esaminata perfettamente la promessa fatta da’ nocchieri e marinari non lasciarono di commentarla: altri poi non la riputarono degna di lode, e bramavano più tosto, che ’l sacro corpo si collocasse nella chiesa cattedrale. Questa contesa niente convenendo in una occasione di tanta allegrezza e di onore distinto per la città: fece prendere ad Elia, pio e religioso abate del monistero di S. Benedetto, la prudente risoluzione di montar sulla nave baciar con riverenza il sacro corpo e venerarlo ed indi rivolto ai nocchieri e marinari esortarli con efficaci parole che non era quello il tempo di contrastar fra loro ma più tosto di portar nella città colla dovuta venerazione il corpo di san Niccolò. Che se dubitavano che non fosse adempiuta la promessa da essi fatta a lui lo consegnassero per tenerlo custodito infino a tanto, che tutti concordemente avessero consentito, che fosse collocato nella nuova chiesa, che fabbricar voleano, perché egli l’avrebbe fra tanto tenuto come in deposito nella sua chiesa, e poi fedelmente consegnato a quegli stessi, da cui l’avrebbe ricevuto. Il concetto, in cui era tenuto l’abate Elia per la sua nota probità, calmò interamente gli animi fra loro discordi, e consegnato a lui il sacro corpo, fu onorevolmente trasferito nella chiesa

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

de’ padri benedettini, e collocato sopra l’altare di S. Benedetto, ponendovi i nocchieri né luoghi opportuni delle guardie armate, perché non fosse fatta violenza alcuna, e trasportato il venerabil corpo nella chiesa cattedrale, siccome la fazione contraria istantaneamente pretendea, per risarcir l’onta fatta ai preti della medesima chiesa, i quali dopo aversi preso l’incomodo di portarsi al porto in abito sacro per ricevere così raro tesoro, dovettero vacui con loro scorno ritornarsene alla chiesa. Avvenne tutto ciò il 9 maggio del 1087 giorno di domenica che è appunto il dì in cui si celebra la traslazione di san Niccolò. In questo mezzo giunse in Bari l’arcivescovo Ursone, e in diligenza si portò nella chiesa di S. Benedetto a venerare il sacro corpo, sentendo in se stesso un sommo gaudio per questo celeste tesoro, ed indi s’inviò per la sua cattedrale. E perché egli andava disponendo o per forza o per ingegno di trasferire il venerabil corpo nella sua chiesa: ciò saputosi da i nocchieri e loro compagni, e dal popolo, che era dello stesso sentimento, si accinsero immantinente per resistere a qualunque violenza, che dall’arcivescovo Ursone venisse lor fatta. La qual cosa osservato avendo quel prelato, e considerando, che difficilmente avrebbe potuto eseguire il suo pensiero, si astenne dall’impresa. I baresi all’incontro consideravano ottenere il loro intento con buona grazia d’Ursone, volendo in ogni conto sfuggire le discordie e le risse che niente eran proprie in un affare ch’esigeva pace piuttosto ed unanime concordia ne’ cittadini. Per la qual cosa inviarono prudentemente ad Ursone i più nobili e circospetti fra baresi a supplicarlo, acciocché consentisse alla loro volontà e non impedisse l’esecuzione di ciò, che avevano promesso con tanta solennità: ma invano se ne lusingarono, perché quei nobili se ne ritornarono senza la bramata risposta. Scoprirono inoltre, che l’arcivescovo meditava ancora con artifici o con aperta forza di trasferire nella sua chiesa le sacre reliquie, il che in vece di calmar gli animi pur troppo commossi, gli accese maggiormente sì e per tal modo, che armandosi le due fazioni, si venne finalmente ad una pugna, in cui vi perirono infelicemente due giovani dell’uno, e dell’altro partito. Mentre però stavano fra loro i baresi a combattere tumultuosamente avanti la chiesa di S. Benedetto, quei che temevano non avesse in fine Ursone lor rapito quel troppo raro tesoro, che ad essi costava tanti pericoli e fatiche, con sollecitudine eguale alla perdita, che far poteano, preso il sacro corpo ed usciti di nascoso dalla porta di dietro del monastero, che corrispondeva alla parte del mare, con quella maggior riverenza, e venerazione, che poterono usarvi, e con gran concorso di gente armata, e del popolo, che a capo scoperto l’accompagnavano, cantando inni sacri e devote laudi, lo trasportarono nella corte del catapano, la quale come luogo appartenente al duca Ruggieri, era sicura da ogni ostile sorpresa, e la collocarono nella chiesa di S. Eustrazio martire, situata nella stessa corte. Avvenne ciò nel martedì verso l’ora quarta dopo essere stato il sacro corpo nella chiesa di S. Benedetto dalla domenica antecedente infino a quell’ora. Trasferito in tal modo il corpo di san Niccolò, e conoscendo l’arcivescovo la difficoltà di poterlo più avere per la sua cattedrale: si quietò

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LE TRANSLATIONES SANCTI NICOLAI

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finalmente, e lasciò in libertà i baresi di erigere al santo il promesso tempio in quel luogo, che loro più piaceva55.

Considerate nel contesto, le disparità nei racconti di Giovanni e di Niceforo mi hanno fatto sorgere il dubbio che l’argomento delle fazioni cittadine, che hanno la meglio sull’arcivescovo, fosse un luogo comune trapassato da Niceforo alla storiografia settecentesca della basilica e oltre, fino ai giorni nostri. A me sembra sensato trarre alcune conclusioni in proposito. Forse l’operazione non fu del tutto casuale ma fu mirata allo scopo di diffondere una versione dei fatti che risultasse favorevole ai sostenitori della basilica. Sottolineando il ruolo dei partiti cittadini, che si battevano affinché le reliquie fossero destinate al nuovo santuario da erigersi nella corte del catepano, contro il volere dell’arcivescovo che, vi vel dolis, le pretendeva per la cattedrale, si voleva affermare la pertinenza statale ab antiquo della basilica, premessa necessaria per ottenere l’esenzione dalla giurisdizione episcopale. Non so se Niceforo fu l’artefice consapevole di una versione di parte oppure era sua intenzione esprimere soltanto la verità popolare. Quello che mi sembra probabile è che la sua Translatio ben si prestava alle pretese di quanti avevano interesse a screditare la figura dell’arcivescovo per affermare i diritti del capitolo di S. Nicola. A mio avviso la problematica rimase sempre attuale e, vista la mai sopita questione sulle prerogative di S. Nicola, venne riproposta nei secoli successivi in tutte le occasioni in cui si rese necessario perorare i diritti della Chiesa Palatina. Per concludere, le ricostruzioni storiche finora accreditate non appaiono corrette perché, a meno che non si mostri di aver utilizzato una relazione di Niceforo coeva ai fatti, ci si è serviti di un testo scritto qualche anno più tardi, in un contesto mutato. La conflittualità col vescovo e la sedizione civica potrebbero essere ascrivibili a motivi divenuti attuali in un secondo momento, ad esempio quello delle lotte per la difesa dei diritti della basilica o quello del libero comune. Ai fautori delle teorie dominanti si può obiettare di aver omesso di considerare la fonte di Giovanni; di aver meccanicamente, sulla base della tradizione, riproposto un’interpretazione dei fatti basandosi unicamente su Niceforo; di non essersi posti il dubbio che le discrepanze tra Giovanni e Niceforo in merito all’operato dell’arcivescovo e dei partiti cittadini andavano analizzate in sede critica. 55

Ed. PUTIGNANI (1771), Istoria della vita, cit., pp. 358-361.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Riabilitare Giovanni è funzionale al mio ragionamento perché permette di ipotizzare una diversa dinamica dell’evento, alla quale ero pervenuta sulla scia di altre riflessioni. Il suo racconto è in linea con la mia intuizione. Esso evidenzia che l’arcivescovo Ursone fu un protagonista pacifico dell’operazione e non il sovvertitore dell’ordine cittadino. Cosa che sarebbe più coerente con il quadro generale delle fonti che riferiscono dell’armonia esistente tra Ursone, Guiscardo e i suoi eredi, e anche in considerazione del fatto che sembra improbabile costruire una chiesa di quella mole in disaccordo con l’episcopio. Nutro il sospetto che la Translatio di Niceforo sia stata compilata in un momento successivo a quella di Giovanni, dopo la morte di Elia. Ciò potrebbe avere avuto un’origine casuale oppure strumentale, allo scopo di diffondere una versione dei fatti diversa da quella canonica, che potesse risultare utile ai fini delle controversie sorte fra la basilica e la cattedrale. Nel discredito della figura dell’arcivescovo e nella insistenza sulla pertinenza statale della corte può esservi un’eco delle lotte che si disputavano in sede di diritto. Messa così, la faccenda si prestava bene alle pretese di quanti rivendicavano la palatinità ab antiquo della basilica e lo svincolo del capitolo dalla giurisdizione episcopale.

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V.

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LA BASILICA E IL DUOMO

1. Inde translatus Elia ad novum S. Nicolai monasterium In quel periodo a Bari v’erano diverse chiese. Perché si decise di destinare le reliquie di san Nicola a un edificio da costruire ex novo piuttosto che deporle nella cattedrale cittadina? La collocazione dei resti di Nicola in un tempio di nuova edificazione anziché nella cattedrale o in una delle chiese presenti in città merita un’attenta riflessione. Secondo alcuni autori, le prime notizie sull’esistenza in Bari di una cattedrale o di un episcopio si possono desumere dalla presenza del vescovo Concordio tra i firmatari del concilio romano indetto da papa Ilaro I nel 465. Sulla base di indagini archeologiche condotte nell’ambito del duomo odierno, taluni ritengono che l’edificio fosse attivo almeno dal VI secolo. Le strutture murarie individuate appartengono a una basilica paleocristiana a tre navate, con una sola abside, con pastoforia, con un’ampiezza della navata maggiore pari circa al doppio delle navate laterali, con pavimento a mosaico e, forse, coperture in legno. Tale tipologia rimanda a un modello chiesastico presente nel versante adriatico tra il V e il VI secolo1. Dal 1028 i documenti menzionano una chiesa intitolata a santa Maria che fungeva da episcopio nel quale risiedeva l’arcivescovo2. 1 BERTELLI G., S. Maria que est episcopio, La cattedrale di Bari dalle origini al 1034, Bari 1994, pp. 10-11, 15-42. 2 Codice diplomatico barese, I, cit., n. 15, p. 25: “ecclesia beate et gloriose semperque virginis Dei genitricis et virginis Marie qui est episcopio (…) in ipso episcopio istius civitatis Bari, ubi residevat dominus Bisantio archiepiscopo” (La chiesa della beata e sempre Vergine genitrice di Dio la Vergina Maria che è l’episcopio (…) nello stesso episcopio di questa città di Bari, dove risiedeva il signor arcivescovo Bisanzio). MUSCA G., L’espansione urbana di Bari nel secolo XI, in “Quaderni medievali” II (1976), p. 57.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Questa chiesa dedicata alla Vergine venne demolita e poi riedificata nel 1034 dall’arcivescovo Bisanzio3. L’edificio voluto da Bisanzio è la chiesa che esisteva nel momento in cui giunsero a Bari le ossa di san Nicola. La decisione di non riporre le reliquie nell’episcopio ma di costruire un nuovo tempio che potesse accoglierle degnamente fu, a mio avviso, consapevole e non fu determinata dagli scontri tra i traslatori, i cittadini e l’arcivescovo Ursone. È ragionevole supporre che questi fosse informato di tale progetto e che lo approvasse. La volontà dei committenti era quella di accrescere i centri di culto non di ridurli, ma di diversificarli rispetto alla funzione. Certamente si volle creare un edificio rispondente a criteri estetici differenti, capace di veicolare nuovi assetti di potere, piuttosto che riconfigurare un tempio intitolato alla Vergine e con connotati simbolici non più attuali. La retorica del vecchio duomo di Bari non era adatta a rappresentare le pretese dei tempi moderni e dei nuovi detentori del potere temporale e spirituale. È stato anche notato che più che riferirsi alla basilica ad corpus, più che rifarsi alle procedure rituali della inventio, la chiesa nicolaiana sembra pensata nel rito della translatio4. A parte considerazioni di questo tipo, ritengo che la chiave per comprendere appieno il significato della basilica di S. Nicola vada ricercata nel tipo di istituzione che si intendeva fondare. Il vecchio cenobio di S. Benedetto di Bari, dal quale proveniva l’abate Elia, risaliva alla fine del X secolo5. Era ubicato fuori dalle mura cittadine, in un sito isolato che tuttavia permetteva di controllare le vie che si dipartivano in direzione sud est: La posizione del monastero è significativa: esso rappresenta, prima della conquista normanna della città, la punta avanzata di una politica di latinizzazione caldeggiata dal papato riformatore ispirato da Ildebrando di Soana (il futuro Gregorio VII). L’abate benedettino sarà infatti, verso la fine del secolo, il braccio di una complessa operazione religiosa-po3

ANONIMO BARESE, Chronicon, cit., in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 227: “1034, ind. II L’arcivescovo Bisanzio demolì l’episcopio barese e cominciò i lavori di costruzione”. Cfr. LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon cit., p. 42: “Mill. XXXIV. Ind. II. Bisantius Archiepiscopus dirupavit Episcopum Barinum, & coepit laborare” (…) “anno 1035 obiit Constantinopoli Byzantius Episcopus Barensis (…) primariae Ecclesiae Barensis Fundator”. 4 AMBROSI A., La basilica di San Nicola. Sito e architettura, in Cittadella Nicolaiana, cit., pp. 33-46. 5 LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., p.148: “DCCCCLXXVIII. Ind. VI. Inchoatum est Monasterium Sancti Benedicti in Bari à Dom. Hieronymo Abb”.

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LA BASILICA E IL DUOMO

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litica-economica condotta da una alleanza tra papato, classe dirigente normanna ed un attivo ceto mercantile che vede nella nuova situazione e nella svolta radicale che essa comporta la base di fecondi sviluppi. Intanto il monastero, con le sue proprietà agricole, svolge tra l’altro la funzione di legame tra il centro urbano e l’entroterra6.

Io credo che alla fine dell’XI secolo si sia avvertita l’esigenza di fondare un nuovo grande monastero benedettino urbano, che potesse accomunare tutte le parti coinvolte nella diffusione del primato della Chiesa di Roma: i monaci benedettini e i feudatari normanni. Mi riferisco a un modello di istituzione religiosa attestato in quegli anni su scala internazionale entro i confini del dominio normanno. Penso a esempi quali l’abbazia benedettina di Saint-Évroult in Normandia, creata dai membri di due casati normanni, i Giroie e i Grandmesnil, i cui discendenti andarono a combattere in Puglia. I due ceppi familiari si erano uniti in matrimoni tra di loro e con gli Altavilla emigrati nell’Italia del sud. I Giroie raggiunsero l’apice della loro ricchezza alla metà del Mille. L’abbazia di Saint-Évroult poteva contare sulla protezione del duca di Normandia. I suoi monaci rimasero sempre in stretto contatto con i signori locali per quanto riguarda gli affari spirituali, feudali, informali e legali. Orderico Vitale, vissuto tra il 1075 e il 1142 c., fu ospitato a Saint-Évroult quando l’abbazia era profondamente inserita nel contesto feudale normanno7. Da quanto ci è stato tramandato, i personaggi – signori laici e monaci benedettini – che gravitavano nell’orbita dei potentati normanni sembravano costituire una koiné transnazionale dislocata sul suolo normanno e unita dalla fedeltà alla causa della Chiesa di Roma. L’interesse del Guiscardo per le fondazioni monastiche dell’Italia del sud è noto8. Orderico Vitale afferma che egli affidò a Roberto di Grandmesnil, abate proveniente proprio dall’abbazia di Saint-Évroult, la chiesa di S. Eufemia in Calabria (Catanzaro), dove fondò un monastero intitolato a S. Maria. Il monastero ricevette cospicue donazioni da parte del Guiscardo e di altri suoi conna-

6

MUSCA, L’espansione urbana di Bari nel secolo XI, cit., pp. 61-62. ORDERICO VITALE, Historia ecclesiastica, cit., I, pp. 2 ss. 8 MÉNAGER L.R., Les fondations monastiques de Robert Guiscard, duc de Pouille et de Calabre, in Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, Band XXXIX, Tübingen 1959, pp. 1-116; cfr. HOUBEN H., Medioevo monastico meridionale, Napoli 1987, pp. 109 ss; IDEM, Roberto il Guiscardo e il monachesimo, in Roberto il Guiscardo tra Europa, Oriente e Mezzogiorno, Atti del Convegno Internazionale (Potenza-Melfi-Venosa 1985), Galatina 1990, pp. 223-242. 7

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

zionali9. Sempre a Roberto di Grandmesnil, il Normanno assegnò anche altri due monasteri dell’Italia meridionale: quello della SS. Trinità di Venosa, ai confini fra la Basilicata e la Puglia, e quello di Mileto (Catanzaro), eretto dal fratello minore, Ruggero I conte di Sicilia. Nel 1065 Roberto il Guiscardo, insieme alla seconda moglie Sikelgaita, dette vita al monastero calabrese di S. Maria di Matina (Cosenza). Allo stesso Guiscardo è dovuta probabilmente anche l’istituzione di un altro cenobio calabrese, S. Maria di Camigliano (Cosenza); mentre l’impianto del complesso siciliano di S. Bartolomeo di Lipari (Messina) scaturì da una iniziativa comune del Guiscardo e Ruggero I. Nel ricordare i tre monasteri dell’Italia meridionale affidati dal Guiscardo ai suoi compatrioti, Orderico Vitale concede più spazio alle vicende di Venosa piuttosto che a S. Eufemia e Mileto. Il cenobio venosino ricevette un cospicuo numero di donazioni da parte dei Normanni, in particolare da Roberto il Guiscardo. Verso il 1069 quest’ultimo aveva fatto raccogliere nell’abbazia, dove nel 1057 era stato sepolto Unfredo, suo fratello e predecessore nella dignità di conte di Puglia, le spoglie di altri fratelli defunti: Guglielmo Bracciodiferro († 1046) e Drogone († 1051). Anche altri membri degli Altavilla furono successivamente tumulati a Venosa: nel 1080 Guglielmo conte di Principato, uno dei fratelli minori; poi, nel 1085, Roberto stesso per volere di Sikelgaita, che invece sceglierà di essere seppellita nell’abbazia di Montecassino; e infine, ma la data non è nota, Alberada, la prima moglie di stirpe normanna. La generosità dei Normanni verso le grandi abbazie benedettine come Cava e Montecassino, e soprattutto verso quelle affidate a monaci normanni come S. Eufemia, Venosa e Mileto, è stata interpretata da Léon Robert Ménager come l’espressione di una politica ecclesiastica antibizantina dei Normanni nel Mezzogiorno d’Italia10. Opinione condivisibile. In questa fase i monasteri di nuova fondazione sembrano essere concentrati nella zona calabro lucana e assenti nelle regioni più meridionali della Puglia. Alcuni di essi, a esempio Venosa, S. Eufemia e Mileto erano contraddistinti da dimensioni monumentali, come S. Nicola di Bari.

9 10

HOUBEN, Medioevo monastico meridionale, cit., pp. 121-123. Ibidem.

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LA BASILICA E IL DUOMO

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L’ipotesi della originaria destinazione di S. Nicola a monastero benedettino è sostenuta da alcune fonti. Nella Italia Sacra di Ferdinando Ughelli si rinviene un breve e non meglio precisato riferimento: Il ritrovamento avvenne nel decimo giorno di dicembre, secondo la narrazione dell’arcidiacono Giovanni nella storia sopra riportata nell’anno 1091. In verità le sacre reliquie furono collocate in una nuova cassetta marmorea nel mese di febbraio del successivo anno Indizione 15. Dopo il ritrovamento di san Sabino, il buon arcivescovo Elia iniziò la nuova chiesa di S. Nicola, della quale egli fu riconosciuto primo fondatore e Abate; a completare grazie alla pia generosità dei Baresi, e a dotarla di innumerevoli rendite, e la resse fino alla morte, uso che è precipuo dell’arcivescovo del titolo barese, e dell’abate di S. Nicola. Dopo di lui fu abate Eustachio, e alla sua morte questa chiesa cominciò a essere collegiata sotto un priore di canonici secolari e lasciato il titolo di abbazia e dotata di rendite e fondi rustici per particolare munificenza da parte di re, principi e altri uomini illustri, per cui a giusto titolo tra le chiese del regno di Napoli è annoverata nobilissima e con titolo regio, e decorata con le reliquie del grande e santissimo Nicola di Myra11.

Qualche anno prima gli scritti di Jean Mabillon, presbitero e monaco dell’ordine di S. Benedetto e della congregazione di S. Mauro, vissuto fra il 1632 e il 1707, avevano sollevato un’accesa polemica: È costante parere di tutti gli autori che il corpo di san Nicola in quest’anno (1087) sia stato traslato dalla città di Mira (…) in Bari ossia Bari di Puglia (…). L’arcidiacono Giovanni barese scrisse la storia di questa traslazione e Ursone, allora arcivescovo di Bari, la intitolò (…). Quando finalmente l’arcivescovo Ursone sopraggiunse, [a Bari] fu da tutti condiviso che le sacre reliquie venissero depositate nella chiesa del protomartire Stefano, che era stata costruita nella curia circa tre anni prima e che la loro custodia fosse affidata all’abate Elia, fino a quando non fosse costruita la nuova chiesa a san Nicola. Questo Elia era stato trasferito dall’abbazia di Cava per reggere il predetto monastero di S. Benedetto, che già dall’inizio del nono secolo esisteva sotto l’egida di 11 UGHELLI, Italia Sacra, cit., coll. 611-612: “Post sancti Sabini inventio fuit die decima Decembris, ut narrat Joannes Archidiaconus in istoria supra allata anno 1091. collocata verò fuerunt sacra lipsana in nova marmorea capsa mense Februario sequentis anni Indict. 15. Post sancti Sabini inventionem, cepit bonus Archipræsul Helias novam Ecclesiam S. Nicolai quæ primum suum fundatorem, Abbatemq; illum agnovit, ex Barensium pia liberalitate perficere, ac donis, & redditibus innumeris ditare, quamque rexit ad mortem usque, ususque est Archiepiscopi titulo Barensis, & Abbatis sancti Nicolai. Post ipsum Abbas fuit Eustachius, eoque defuncto cepit Ecclesia hæc esse collegiata sæcularium Canonicorum sub Priore, & relicto Abbatiæ titulo redditibus, & prædiis locupletata non paucis ex Regum, Principum, aliorumque virorum illustrium singolari munificentia, & devotione, unde jure merito inter Regni Neapolitani Ecclesias censetur nobilissima, religioque titulo, magnique Nicolai Myrensis santissimi Præsulis reliquiis decorata.”

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

Cassino. Trasferito poi Elia al nuovo monastero di S. Nicola nel 1099 fu fatto finalmente arcivescovo di Bari dopo il già lodato Ursone. Nella prefettura del monastero a Elia successe Eustachio, prima abate del monastero, che l’arcivescovo Andrea predecessore di Ursone aveva fondato in onore di tutti i santi. Pasquale II, con lettera ufficiale che inviò a Elia abate di S. Nicola, costituisce insigne testimonianza di questa traslazione, e la dice costruita al tempo del suo santo predecessore Vittore III di santa memoria, conosciuto da quasi la totalità del mondo; e il sacro corpo del beato Nicola fu nascosto da Urbano II nella cripta inferiore, dove allora si conservava, e sopra a quella fu costruito un altare mentre nello stesso luogo si costruiva la basilica, che a richiesta di Boemondo, figlio del duca Ruggero, dallo stesso pontefice Pasquale è stata posta sotto l’assoluta tutela della sede apostolica. All’abate Eustachio nella guida di quel monastero fu eletto Melo già priore di Tutti i Santi, e alla sua morte questa basilica fu trasformata in collegiata. Molto tempo prima fu costruita la chiesa di S. Nicola vicino a Bari, di cui sopra si è trattato12.

Contro l’opinione di Mabillon si è scagliato Putignani, l’erudito canonico della basilica nicolaiana: P. Mabillon ritenne che, all’inizio, la chiesa di S. Nicola fosse monastero dei monaci dell’ordine di S. Benedetto. In verità, infatti, ciò che Mabillon dice che Elia fu trasferito dal cenobio barese di S. Benedetto al nuovo Monastero di S. Nicola, sembra che indichi chiaramente che la chiesa di S. Nicola fosse un monastero dell’ordine di S. Benedetto, ciò che egli scrive anche dopo, quando riferisce che all’abate Eustachio 12 MABILLON, Annales ordinis S. Benedicti, cit., pp. 239-240: “Constans omnium auctorum sententia est, corpus sancti Nicolai hoc anno (1087) ex urbe Myra (…) Barium seu Barim in Apuliae translatum fuisse (…). Huius translationis historiam scripsit Johannes Barensis archidiaconus, eamque Urso tunc temporis Barensi archiepiscopo inscripsit. (…) Ubi archiepiscopus Barim advenit, omnibus demum visum est, ut sacrae reliquiae in ecclesia beati Stephani protomartyris, quae ante tres fere annos intra curiam fabricata erat, reponeretur, eiusque custodia, Eliae abbati commiteretur, dum nova sancto Nicolao ecclesia construeretur. Hic Helias e Cavensi monasterio assumptus fuerat ad regendum praedictum sancti Benedicti coenobium, quod iam ab ineunte saeculo nono exstabat sub ditione Casinensis. Inde translatus Elia ad novum S. Nicolai monasterium demum factus est anno MLXXXIX Barensis archiepiscopus post Ursum mox laudatum. Eliae in abbatiae praefectura successit eodem anno Eustachius, prius abbas in monasterio, quod in honorem Sanctorum omnium condiderat Andreas archiepiscopus, Ursi antecessor. Paschalis II in diplomate, quod Eliae sancti Nicolai abbati concessit, insigne de hac translatione testimonium perhibet, eamque factam dicit temporibus antecessoris sui sancte memorie Victoris III quod totus paene orbis agnoscit; sacrumque beati Nicolai corpus in crypta inferiori, ubi tunc servabatur, ab Urbano II reconditum fuisse, & super illud altare consecratum, dum basilica eodem in loco exstrueretur: quae absoluta sub tutela sedis apostolicae, postulante Boamundo, Rogerii ducis filio, ab ipso Paschali pontifice suscepta est. Eustachio abbati in redimine illius monasterii subrogatus fuit Melus ex priore Omnium-Sanctorum; eoque morto haec basilica in collegiatam conversa. Longe ante id tempus extructa fuit prope Barim Sancti Nicolai ecclesia, de qua superius actum est”.

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mentre era al governo di quel monastero, certamente S. Nicola, fosse sostituito Melo priore di Tutti i Santi e che, morto costui, la basilica fu trasformata in collegiata. Ma argomenti incontrovertibili convincono che queste cose sono lontane dalla verità, con i quali si può dimostrare in modo eccellente, e fortemente lo tenterò, che la chiesa di S. Nicola di Bari non sia stata giammai un monastero di monaci, ma un collegio di chierici secolari. Mentre tenteremo di manifestare ciò secondo la nostra forza, per questo non faremo quello che crediamo essere vergognoso per noi, che l’origine di questa chiesa risalga ai monaci dell’ordine di S. Benedetto; infatti a nostra gloria diremo chiaramente che l’abate di S. Benedetto posò le prime fondamenta, e che fu il suo primo presule, e che la fondò con vigilanza, con le usanze e la rese famosa e illustre; ma che la chiesa di S. Nicola fosse monastero di monaci, ciò è lontano dalla verità, alla quale soltanto desideriamo offrire sacrifici, e non mancano documenti dai quali risulta apertamente il contrario. Se P. Mabillon avesse avuto a disposizione documenti, non può esservi alcun dubbio, che il dottissimo uomo non avrebbe attribuito all’illustre ordine dei Benedettini questo monastero. Si confuta P. Mabillon e si portano documenti del secolo XI in cui non v’è alcuna menzione del monastero. Non essendosi giovato P. Mabillon di alcun documento per i suoi giudizi, da ciò si può chiaramente conoscere che non si preoccupò di addurre alcun documento; è perciò mio diritto che giudichi lecito di appropriarmi di quelle parole che lo stesso dottissimo uomo elegantemente scrisse contro Carlo Coinzio, affinché, le sue fossero protette: “A me sarebbe tanto facile sostenere ciò negando quanto Coinzio non provando”. Contro queste cose non faremo a meno di documenti, con i quali sarà facile che, anche chi sia di carattere ostinato, possa persuadersi del tutto che mai la chiesa di S. Nicola di Bari sia stata monastero. E che si tratti di una cosa vera, chiaramente risulta a chiunque le legga, dalle pergamene che si conservano nell’archivio della stessa chiesa, che mai in esse si fa menzione di monastero. Nella carta del duca Ruggero dell’anno 1089, mese di febbraio, leggiamo: “Perciò concediamo nella chiesa del santissimo Nicola confessore e vescovo della città di Bari”13.

13 PUTIGNANI, Vindiciae, cit., pp. 310-311: “P. Mabillonius putavit Ecclesiam S. Nicolai initio fuisse Monasterium Monachorum Ordinis S. Benedicti. Enim vero quod ait Mabillonius Eliam translatum a Coenobio S. Benedicti Bariensis ad novum S. Nicolai Monasterium, it videtur non obscure indicare Ecclesiam S. Nicolai fuisse Monasterium Ordinis S. Benedicti, id quod etiam infra scribit, dum Abbati Eustachio in regimine illius Monasterii, S. Nicolai nimirum, Melum Priorem omnium Sanctorum fuisse subrogatum tradit, eoque mortuo Basilicam eamdem in Collegiatam fuisse conversam. Sed longe haec a vero abesse, argumenta non contemnenda evincunt, quibus luculente, aut ego vehementer fallor, demonstrari potest, Ecclesiam S. Nicolai Bariensis numquam fuisse Monachorum Monasterium, sed Clericorum Saecularium collegium. Quod dum ostendere pro viribus conabimur, non eo id perficiemus, quod dedecori nobis esse credamus, ejusdem Ecclesiae primordia a Monachis Ordinis S. Benedicti repetere; gloriae enim nobis ducere aperte profitemur, S. Benedicti Abbatem prima ejusdem Ecclesiae fondamenta posuisse, primumque ejus fuisse Praesulem, atque eamdem qua vigilantia, qua moribus, qua demum muneribus, ornamen-

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Di seguito: Si espongono argomenti che possono essere favorevoli a P. Mabillon. Tuttavia, per non nascondere nulla, a prima vista due cose potrebbero essere favorevoli al sig. Mabillon. La prima, in un certo codice membranaceo della chiesa metropolitana di Bari, a proposito dell’arcivescovo Elia si possono leggere queste cose: “L’arcivescovo Elia … a cui fu dato per consenso di tutti i cittadini il corpo di san Nicola da custodire questi cominciò, lavorando dalle fondamenta, a costruire una sontuosa chiesa dello stesso san Nicola e, concluso lodevolmente il lavoro, per i monaci completò molte celle belle e adorne, e palazzi per sé e per i chierici; la dotò con vestimenti ecclesiastici per la stessa, e con vasi d’oro e d’argento per il servizio all’altare e anche con molti libri, olio d’oliva, e vini per i monaci, e li divise dai chierici, e con molte altre cose. Anche nella chiesa di santa Maria del nostro episcopato due grandi palazzi”, ecc. Il secondo è in una pergamena dell’anno 1105, mese di giugno, conservata nella chiesa di S. Nicola, vi si possono leggere queste parole: “Io Leone Pilillo figlio … della città di Bari, dichiaro alla presenza del signor giudice Grifone della città di Kyitis, e del notaio Giovanni sottoscrittori dei testimoni che io fui uno dei marinai che tolsero il corpo di san Nicola dalla città di Myra, e lo portammo in questa città di Bari, nella quale a causa di Elia arcivescovo delle chiese di Bari e di Canosa per dono divino il quale fece a me insieme ai miei compagni una concessione, ossia poi mi consegnò una scrittura singolare di questo privilegio, ossia di avere sepoltura fuori della chiesa vicino alle mura della stessa, e se volessi fabbricare una volta sopra il medesimo sepolcro, e all’interno della chiesa concesse a me un sedile e un altro per mia moglie. E se avessi voluto condurre vita clericale, sarei stato ricevuto dai rettori della stessa chiesa senza dono e mi sarebbe stato dato un beneficio, allo stesso modo che si dà ai chierici che servono in chiesa. E similmente fece concessione ai miei eredi. O se, abbandonato il vestito secolare, avessi desiderato rimanere nella chiesa: sarei ugualtis, atque reditibus fundasse, atque claram illustremque reddidisse: sed quod alienum a veritate; cui unice litare cupimus, omnino sit, Ecclesiam S. Nicolai Monachorum fuisse Monasterium, ac monumenta non desint, ex quibus contrarium aperte constat. Quae certe monumenta si P. Mabillonius ad manus habuisset, nulli dubium esse potest, quin illustrem Benedictinorum Ordinem uno hoc Monasterio Vir doctissimus multasset. Rejicitur P. Mabillonius, atque afferuntur monumenta saec. XI. in quibus nulla Monasterii mentio habetur. Profecto nulla P. Mabillonio favere pro sua sententia monumenta ex eo aperte cognosci potest, quod nulla afferre curaverit; adeo ut jure mihi licere heic existimem ea usurpare verba, quae idem met doctissimus vir adversus Carolum Cointium, ut sua tutaretur, eleganter scripsit: “Haec mihi tam facile fuerit negando, quam Cointio non probando adferre”. Contra ea monumentis non destituimur, quibus facile persuaderi quis animo licet pervicax omnino possit, Ecclesiam S. Nicolai Bariensis Monasterium Benedictinorum non fuisse. Et re quidem vera ex pergamenis, quae in tabulario ejusdem Ecclesiae asservantur, cuilibet eas legenti manifeste patet, numquam in iis Monasterii mentionem fieri. In charta Rogerii Ducis ann. MLXXXIX. Mens. Febr. legimus: “Idcirco concedimus in Ecclesia beatissimi nikolai confessoris et episcopi ex civitate Vari”.

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mente stato ricevuto dai rettori della stessa chiesa senza pagar nulla o dare doni e sarei vissuto dei beni della chiesa, come l’uno e l’altro dei migliori fratelli”, ecc. Queste due carte, dico, sembrano favorevoli a P. Mabillon. Infatti, se Elia “completò molte celle belle e adorne per i monaci”, se Leone Pilillo, “lasciato l’abito secolare” doveva vivere “dei beni della chiesa come l’uno e l’altro dei migliori fratelli”: sembra che si possa ritenere chiaramente che in verità la chiesa di S. Nicola fosse monastero di monaci. Alle quali cose è da aggiungere quest’altra che scrisse P. Beatillo: “Di qui è, che alle volte, troviamo in varie storie farsi menzione del monastero di S. Nicola di Bari”, ecc.14.

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E ancora: Collegio dei canonici e insieme di monaci nella stessa chiesa. Sebbene queste cose appaiano essere prossime alla verità, tuttavia esse non valgono nulla per persuadermi che la chiesa di S. Nicola di Bari fosse invece un monastero di monaci. E per quanto attiene al codice membranaceo della chiesa metropolitana, anche supposto che vi si narrino cose vere, per la citazione che si fa di monaci, la chiesa secolare non diventa monastero. Se infatti qualcuno volesse porre sotto esame più 14 Ivi, pp. 320-324: “Exponuntur argumenta, quae P. Mabillonio favere possunt. Ut nihil tamen dissimulem, duo prima facie Dn. Mabillonio favere videntur. Primum, in quodam Codice membraneo Ecclesiae Metropolitanae Bariensis de Elia Archiepiscopo haec legi: “Helias Archiepiscopus … huic fuit concessum corpus sancti Nicolay a custodiendum consensum omnium civium, hic cepit a fundamentum laborare sumptuoso edificare ecclesiam ejusdem sancti Nicolay, et laude consumatum, cellas etiam multas, pulcras, et ornatas perfecit monachis, et palazia sibi et clericis; ecclesiasticis eamdem vestimentis, et vasis aureis, et argenteis ad altaris ministerium, libris quoque plurimis, olivis, et vineis monachis, et clericis divisit, multisque rebus eam ditavit. In ecclesia quoque sanctae Marie nostris Archiepiscopatus duo magna palazia”, cet. Alterum est, in pergamena anni MCV. mens. Jun. in tabulario Ecclesiae S. Nicolai asservata, haec scripta legi: “Ego Leo pilillus filius … de civitate bari, declaro ante presentiam domini grifonis barensium Kyitis judicis, et johannis notarii testium subscriptorum quoniam unus fui ego de marinaris qui tulimus corpus sancti nycolai de civitate mirea, et adduximus illud in hac civitate bari qua pro causa helias munere divino barensis et canusine ecclesiæ archiepiscopus fecit michi et sociis meis communiter quamdam concessionem, quam continet scriptum quod inde factum est. Postea vero concessit michi habere singulare scriptum huius concessionis, scilicet ut haberem sepulturam extra ecclesiam juxta parietem ecclesiae, et si volerem fabricarem cameram supra eamdem sepulturam et intus in ipsa ecclesia concessit mihi sedile pro me et aliud pro uxore mea. Et si voluero clericalem vitam ducere recipiar ab ejusdem rectoribus ecclesiæ absque munere et beneficium detur michi, quemadmodum datur clericis qui serviunt in ecclesia. Similiter et heredibus meis concessit. Vel si relicto seculari habitu in ecclesia manere voluero: recipiar similiter ab ejusdem rectoribus ecclesiæ absque pretio, vel munere, et vivam de bonis ecclesie, ut unus et alter de melioribus fratribus”, cet. Haec, inquam, duo favere P. Mabillonio videntur. Si enim Elias “cellas multas pulcras et ornatas perfecit monachis”; si Leo Pilillus “relicto seculari habitu” vivere debebat “de bonis Ecclesiæ ut unus et alter de melioribus fratribus”: non obscure inferri posse apparet, vere Ecclesiam S. Nicolai Monachorum fuisse Monasterium. Quibus et illud addendum, P. Beatillum scripsisse: “Di qui è, che alle volte troviamo in varie historie farsi menzione del Monistero di S. Niccolò di Bari, cet.”.

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attentamente le parole, cioè queste: e concluso lodevolmente il lavoro completò per i monaci “molte celle belle e adorne, e palazzi per sé e per i chierici… con molti libri, olio d’oliva, e vini per i chierici e i monaci divisi”, ecc. Occorre che si dica non soltanto monaci, ma anche i chierici che servivano nella chiesa. Ciò che certamente non sembra in contrasto con la disciplina ecclesiastica dell’XI secolo: “Vi erano a volte” dice P. Thomassinus “capitoli bipartiti di monaci e chierici. Nella chiesa di S. Ambrogio in Milano vi erano due collegi; uno di monaci, l’altro di chierici, che nella stessa chiesa assolvevano le ore canoniche dell’ufficio divino non insieme, ma in tempi diversi. Ragion per cui si litigava a proposito delle ore, e la cosa fu riferita a Innocenzo III, che nell’anno 1201 pronunciò che in quella chiesa vi erano due antichissimi collegi creati tanto tempo addietro; che non vi era motivo per cui l’uno soggiacesse all’altro, e qualunque parte dell’ufficio canonico fosse allora officiata dai monaci, i canonici allora dovevano esentarsi da quella”. È chiaro che ciò deriva dalla sentenza data dal vescovo di Vercelli B. Alberto e da Pietro Leocedio, abate dell’ordine cistercense, delegato d’Innocenzo, della cui sentenza sono da sottolineare queste parole: “d’altra parte sopra questi capitoli sono state portate avanti molte testimonianze, sono stati mostrati molti privilegi e altri documenti, si è disputato sufficientemente dell’antico e del nuovo diritto d’entrambi i collegi. Esaminate diligentemente tutte queste cose, ascoltato il parere di uomini saggi, vagliate per quanto possibile le ragioni dell’una e dell’altra parte, abbiamo accertato che ambedue i collegi, di monaci e di canonici, da lunghissimo tempo prima del nostro furono nella chiesa di S. Ambrogio divisi sopra la diversità dell’ordine rispettivo, sia per le proprietà sia per l’abitazione né è possibile per noi chiarire come una parte debba soggiacere all’altra: ma ognuna delle due sembra appoggiata sulle proprie basi per quanto spetta a ciascuno dei due”, ecc. In verità per quanto riguarda la carta di Leone Pilillo, ci si rifà allo stesso parere. Infatti ciò dimostrano con evidenza le parole trascritte: “e se volessi condurre vita clericale sarò ricevuto da entrambi i rettori della chiesa… e mi sia dato uno qualunque dei benefici che spettano ai chierici che servono in chiesa… o se abbandonato l’abito secolare volessi restare nella chiesa… Vivrò dei beni della chiesa come l’uno e l’altro dei migliori fratelli”. Dunque da questi monumenti si può dedurre che alla chiesa di S. Nicola fossero addetti chierici e monaci. Per questa ragione sarebbe lontano dal vero ciò che scrive Dn. Mabillon: “All’abate Eustasio nel governo di quel monastero fu sostituito Melo già priore di Tutti i Santi e, morto costui, questa chiesa fu trasformata in collegiata” (Conf. num. 1). Infatti, come vedemmo, non soltanto i monaci servivano nella chiesa, ma insieme chierici e monaci, e di conseguenza non fu la chiesa convertita in collegiata dopo il priorato di Melo, ma allontanati altrove i monaci, soltanto i chierici tennero quella chiesa15. 15

Ivi, pp. 324-326: “Collegia Canonicorum simul et Monachorum in eadem Ecclesia. Sed

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Della vita comune dei canonici secolari nella stessa chiesa. Ma se consideriamo a fondo l’argomento, confido che chiunque si possa convincere che i monaci non costituirono nessun collegio nella chiesa di S. Nicola di Bari. Ciò invero, come può comprendersi chiaramente, vorrei che ciascuno possa ricordarsi, che sotto l’impero di Carlo Magno i canonici conducevano vita comune con i monaci dove ci fosse reddito e fertilità dei terreni, e i già detti collegi dei canonici già furono detti monasteri e agli stessi fu data da osservare una regola da parte di Crodogando vescovo Metense. Ciò appare dalle parole del can. IX del Concilio Moguntino dell’anno 813, secondo Thomassinus: “In tutto, dunque, dice il concilio” per quanto lo consente la fragilità umana, decretammo che i chierici canonici vivano canonicamente, osservando la dottrina della Sacra Scrittura e i documenti dei Padri, che insieme mangino e dormano, e mostrino obbedienza ai loro maestri secondo i canoni”, ecc.

licet haec non longe a vero abesse videantur: non ejus tamen sunt ponderis, ut mihi persuasum habeam, Ecclesiam S. Nicolai Bariensis revera Monachorum fuisse Monasterium. Et quidem quod ad Codicem membraneum Ecclesiæ Metropolitanæ attinet, posito etiam, vera in eo narrari, non illico ob monachorum mentionem Ecclesia sæcularis Monasterium evadet. Si enim Codicis verba attentius ad examen revocare quis voluerit, ea scilicet “Cellas etiam multas pulcras et ornatas perfecit monachis et palatia sibi et Clericis ... libris quoque plurimis, olivis et vineis monachis et clericis divisit”, cet. fateatur oportet, non Monachos tantum, sed & Clericos quoque eidem inservisse Eccleisæ. Quod certe alienum ab Ecclesiastica Saeculi XI. disciplina esse non videtur: “Erant et aliquando”, inquit P. Thomassinus, “bipertita ex Clericis Monachisque Capitula. In Ecclesia S. Ambrosii Mediolani duo erant Collegia, alterum Canonicorum, alterum Monachorum, quae in eadem Ecclesia canonicas persolvebant divini officii horas non simul, sed alio et alio tempore. Unde et de horis jurgatum aliquando est et res ad Innocentium III. relata, qui anno 1201. pronunciavit, vetustissima esse duo haec collegia in ea Ecclesia a longissimis retro temporibus; nichil esse causae quamobrem alterum alteri subjiceretur, et unamquamque canonici officii partem tunc ordiendam esse Monachis cum ab ea Canonici desissent”. Patet id ex sententia lata a B. Alberto Vercellensi Episcopo, atque a Petro de Leocedio Abbate Ordinis Cisterciensis, Innocentii Delegatis cuius sententiae haec animadvertenda sunt verba: “super his autem Capitulis producti sunt hinc inde plurimi testes, privilegia multa et alia documenta prolata, disputatum sufficienter de jure antiquo et novo utriusque Collegii. Quibus omnibus diligenter inspectis, et consilio prudentum virorum adhibito, quantum desuper datum est justitiae statera libratis, invenimus utrumque Collegium, Monachorum et Canonicorum a longissimis retro temporibus fuisse in Ecclesia B. Ambrosii sicut varietate ordinis diversum ab invicem, sic possessionibus et habitatione divisum, nec patere potuit nobis unde alterum subjacere debeat alteri: sed unumquodque propriis basibus inniti videtur quantum ad alterutrum pertinet”, cet. Quod vero ad chartam Leonis Pililli, idem ferendum est judicium. Id enim satis manifeste demonstrant allata verba: “et si voluero clericalem Vitam ducere recipiar ab eiusdem rectoribus ecclesie … et beneficium detur michi quemadmodum datur Clericis qui serviunt in ecclesia … vel si relicto seculari habitu in ecclesia manere voluero, recipiar similiter ab ejusdem rectoribus ecclesie … et vivam de bonis ecclesie et unus et alter de melioribus fratribus”, cet. Ex his igitur monumentis id certe prima facie inferri potest, & Clericos et Monachos Ecclesiae S. Nicolai fuisse addictos. Quare alienum a vero erit quod scribit Dn. Mabillonius: “Eustasio Abbati in regimine illius Monasterii subrogatus fuit Melus ex Priore omnium Sanctorum, eoque mortuo haec Basilica in Collegiatam conversa” (Conf. num. 1) Non enim ut vidimus, soli Monachi primum Ecclesiae inservierunt, sed Clerici simul et Monachi; proindeque non fuit post Melum Priorem in Collegiatam conversa, sed Monachis alio profectis, soli Clerici eam Ecclesiam tenuerunt”.

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Dal Can. XXI dello stesso concilio, risulta anche che gli stessi preposti dei canonici fossero chiamati col nome di abati: “Il vescovo sappia, per quanto riguarda ogni singolo monastero, quanti canonici ogni abate abbia nel suo monastero. E a ciò provvedano entrambi interamente: se volessero farsi monaci, vivano regolarmente, invece, se non, vivano del tutto canonicamente”. In verità queste regole non valgono per i canonici regolari di S. Agostino. Il lodato autore Porro dimostra eccellentemente che oltre ai cenobi di monaci vi fossero capitoli di canonici di doppio genere, il che si può agevolmente comprendere dalle parole del Concilio di Turone dell’anno 813. Infatti dapprima leggiamo il Can. 23. “I canonici e i chierici delle città, che dimorano negli episcopati, abbiamo considerato che quelli dimoranti tutti insieme in luoghi chiusi dormano in un solo dormitorio, e mangino insieme in un solo refettorio, in modo che possano affrettarsi a celebrare le ore canoniche e della loro vita e della loro conversazione siano ammoniti ed edotti, ricevano vitto e vestiti secondo le disponibilità del vescovo, e in caso siano in stato di povertà non siano costretti a vagare per strade diverse”, ecc.

Quindi il Can. 24. “In modo simile gli abati dei monasteri, nei quali fin dall’antichità v’era vita canonica, ora si vede che provvedono sollecitamente ai loro canonici, affinché abbiano luoghi chiusi e dormitori, nei quali dormano insieme, mangino insieme, rispettino le ore canoniche, abbiano vitto e vestiti secondo le disponibilità dell’abate, di modo che possano essere costretti al servizio di Dio più facilmente, e gli abati per loro siano guide e precettori” ecc.

Finalmente Can. 25. “Monasteri di Monaci nei quali un tempo si osservava la regola di Padre Benedetto”, ecc. In tre collegi, due certamente di canonici sotto il vescovo e l’abate, il terzo veramente di monaci, che professano le Regole di S. Benedetto. E che ciò valesse anche all’inizio del secolo X chiaramente appare dal libro II, cap. IX, dai miracoli dell’abate S. Bertino, di autore anonimo citato dallo stesso Mabillon dove leggiamo: “Alcuni cavalieri sacrificanti a Dio si affrettavano verso una località naturalmente protetta; naturalmente devotissimi a S. Bertino protettore dei suoi e prontissimo liberatore di monasteri dei monaci”. Nel qual luogo P. Mabillon osserva: “Nota il vocabolo, infatti allora v’erano monasteri di monaci e di canonici”. E alla fine di quel capitolo: “Invero col favore di Dio nessuno dei nostri arrischiava vivamente la vita nello spazio esteso dell’arena se non solo un frate dell’ordine monastico, che una freccia infilatasi tra due tavole del bastione colpì al disotto dell’inguine: egli si ristabilì”.

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Dove lo stesso P. Mabillon dice “E anche i frati anche allora erano chiamati chierici e canonici: da cui questi frati di ordine monastico dunque come termine di discriminazione”. Della stessa vita in comune anche nel secolo XI. Porro, nel caso in cui questa vita comune dei canonici si distaccasse dalla sua prima istituzione, non senza pericolo della disciplina ecclesiastica: Nicola II papa, nel Concilio romano di centotredici vescovi, anno MLIX. Can. IV. decretò: “E stabiliamo in anticipo, che quelli dei predetti ordini” (dei sacerdoti senza dubbio, dei diaconi e dei suddiaconi, dei quali parla il Can. III) “che, obbedendo a quel nostro predecessore conservarono la castità nelle chiese, dove sono ordinati, come conviene a chierici religiosi, insieme mangino e dormano, qualunque cosa a loro venga dalle chiese lo tengano in comune. E ammoniamo coloro che chiedono, che con ogni sforzo s’impegnino per giungere alla vita apostolica in comune, naturalmente”16. 16 Ivi, pp. 326-328: “De vita communi Canonicorum Saecularium ubi de vocibus Monasterium, et Frater. Sed si rem penitus inspiciamus, quemlibet id sibi persuasum habiturum confido, ne Monachos quidem Collegium in Ecclesia S. Nicolai Bariensis constituisse. Hoc autem ut liquido constare possit, quisque id secum recolat velim, sub imperio Caroli Magni Canonicos non secus ac Monachos vitam communem egisse ubi agrorum redituumque ubertas suppeteret, ipsorumque Canonicorum Collegia Monasteria jam dicta fuisse, ipsisque Crodogandi Episcopi Metensis Regulam observandam fuisse traditam. Patet id ex Concilii Moguntini ann. DCCCXIII. verbis can. IX. apud Thomassinum: “In omnibus”, inquit Concilium, “igitur, quantum humana fragilitas permittit, decrevimus, ut Canonici Clerici canonice vivant, observantes divinae Scripturae doctrinam, et documenta Patrum, et ut simul manducent et dormiant, ubi his facultas id faciendi suppetit, vel qui de rebus Ecclesiasticis stipendia accipiunt, et in suo claustro maneant, et obedientiam secundum Canones suis magistris exhibeant”, cet. Ipsos etiam Canonicorum Praepositos Abbatis nomine fuisse vocitatos ex ejusdem Concilii Can. XXI. apparet: “Episcopus sciat per singula Monasteria quantos quisque Abbas Canonicos habeat in Monasterio suo. Et hoc omnino ambo pariter provideant, ut si monachi fieri voluerint, regulariter vivant: sin autem canonice vivant omnino”. Haec autem ad Canonicos Regulares S. Augustini non pertinere tradit idem Thomassinus. Porro laudatus Auctor luculente demonstrat praeter Coenobia Monachorum fuisse Capitula Canonicorum duplicis generis, quemadmodum ex Concilii Turonensis ann. DCCCXIII. verbis aperte inferri potest. Primum enim legimus Can. 23. “Canonici et Clerici Civitatum, qui in episcopiis conversantur consideravimus, ut in claustris habitantes simul omnes in uno dormitorio dormiant, simulque in uno reficiantur refectorio, quo facilius possint ad horas canonicas celebrandas accurrere, ac de vita et conversatione sua admoneri et doceri: victum ac vestimentum juxta facultatem Episcopi accipiant, ne paupertatis occasione per diversa vagari cogantur”, cet. Deinde Can. 24. “Simili modo et Abbates Monasteriorum, in quibus Canonica Vita antiquitus fuit, vel nunc videtur esse solicite suis provideant Canonicis, ut habeant claustra et dormitoria, in quibus simul dormiant, simul reficiantur, horas Canonicas custodiant, victum et vestitum, juxta quod poterit Abbas habeant, quo facilius ad Dei servitium possint constringi: sintque Abbates sibi subditis bene vivendo Duces et previi”, cet. Demum Can. 25. “Monasteria Monachorum, in quibus olim regula Patris Benedicti conservabatur”, cet. En tria Collegia, duo nimirum Canonicorum sub Episcopo, & Abbate, tertium vero Monachorum qui S. Benedicti Regulam profitebantur. Idque etiam viguisse initio Saeculi X. luculente apparet

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Alcuni anni dopo, Putignani torna sull’argomento: La chiesa di San Niccolò di Bari fu dal suo principio servita da’ preti secolari, i quali parte vivevano in comune, parte nelle loro proprie case. È vero, che ’l dottissimo P. Mabillon celebre letterato benedettino è stato d’opinione, anzi ha tenuto come cosa certa, che tal chiesa nella sua fondazione fosse stata servita da’ monaci, e conta perciò un monasterio di più sotto il nome di san Niccolò ne’ suoi Annali: tutta volta, nonostante una origine così nobile, che questo illustre scrittore vuol darle, noi per solo amore della verità abbiam fatto vedere altrove, che in ciò si è ingannato quel valentuomo (…). Egli è fuor d’ogni controversia, che tanto Niccolò II, quanto Alessandro II, Sommi Pontefici negli anni 1059 e 1063, per far ritornare nel primiero lustro il clero secolare, che in quei tempi era pur troppo sregolato e licenzioso, ordinarono ne’ due Concilii celebrati in Roma, che i chierici continenti abitassero insieme vicino alle chiese per le quali erano ordinati, e mangiassero insieme ed insieme dormissero, procurando di praticare la vita comune che avevano menata gli Apostoli. Questi canoni trent’anni prima in circa pubblicati nella Chiesa fecero molta impressione in Elia, il quale era stato religioso, ed abate di San Benedetto di esatta disciplina: e stimò suo dovere, che fossero con ogni diligenza osservati in una nuova chiesa, nella quale si dovevano collocare le sacre reliquie d’un santo così celebre (…). Quindi egli innalzato nel 1089 al grado di arcivescovo e di capo superiore e custode del sacro corpo di san Niccolò, vicino alla chiesa di questo santo edificò alcuni palazzi per se, e per gli chierici, oltre di altri due ben grandi, che furono dal medesimo eretti vicino alla cattedrale, tenendo così insieme uniti in vita comune i chierici, che doveano a quel santuario servire. Oltre di questi chierici, che insieme viveano, altri ancora vi erano, i quali pur servivano alla medesima chiesa, ma non abitavano cogli altri nelle case ex lib. II. cap. IX. miraculorum S. Bertini Abbatis, auctore Anonymo apud Mabillonium ipsum, ubi legimus: “Equites quidem Deo tribuente properabant ad locum naturaliter munitum, scilicet S. Bertini piissimi suorum protectoris ac promtissimi maximis in necessitatibus liberatoris monasticum monasterium”. Ad quem locum P. Mabillonius: “Nota”, inquit, “vocabulum, nam erant tum temporis monasteria Monachorum, et Canonicorum”. Et in fine ejusdem capitis: “Deo autem propitio nulli ex nostris vitam prolixo scammatis (…) spatio magnopere periclitabantur, nisi tantum unus Frater monastici ordinis ictu sagittae inter duo tabulata propugnaculi ubi stabat, percussus est sub inguina: qui et ipse convaluit”. Ubi idem P. Mabillonius: “Et Fratres etiam”, inquit, “etiam tum dicebantur Clerici et Canonici; unde hic Frater monastici ordinis discriminis ergo”. De eadem vita communi etiam Saeculo XI. Porro quum haec communis Canonicorum vita a primaeva sua institutione non sine Ecclesiasticae disciplinae detrimento descivisset: Nicolaus Papa II. in Concilio Romano centum & tredecim Episcoporum anno MLIX. Can. IV. decrevit: “Et praecipientes statuimus, ut ii praedictorum ordinum” (Sacerdotum nimirum, Diaconorum, & Subdiaconorum, de quibus loquitur Can. III.) “qui eidem praedecessori nostro obedientes castitatem servaverunt, juxta Ecclesias, quibus ordinati sunt, sicut oportet religiosos Clericos, simul manducent, et dormiant: et quidquid eis ab Ecclesiis venit, communiter habeant. Et rogantes monemus, ut ad Apostolicam, communem scilicet vitam, summopere pervenire studeant”.

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fabbricate vicino ad essa da Elia, ma bensì nelle proprie abitazioni (…) vi erano chierici, i quali servivano la chiesa di San Niccolò, ma in quella non vi dimoravano, contenti soltanto di quel beneficio, che loro somministrar potesse un convenevole sostentamento. Vi erano all’incontro altri chierici, i quali dimoravano nella chiesa, e viveano vita comune, e uniformamente, come giova credere, vestivano, e in una maniera tutta diversa da i laici. Questi ultimi erano propriamente canonici, non già monaci, perché avendo l’arcivescovo fatto edificare de’ palazzi vicino alla chiesa di San Niccolò per se, e per gli chierici: se i primi stavano nelle proprie abitazioni, convien dire, che i secondi chierici, non i monaci in tal palazzi abitassero, il che è proprio della vita comune dei canonici17.

E poi aggiunge: Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Fra le altre cose degne di eterna lode, che fece Elia primo prelato della Real chiesa, ed arcivescovo di Bari, fu certamente l’aver eretto uno spedale, in cui fossero i pellegrini, che in gran numero in Bari venivano a venerare il Gran Taumaturgo (…). Noi abbiamo sopra narrato che ’l principe Boamondo prima del 1096, o nello stesso anno avea donata una possessione di olivi a questo spedale, e ciò basta per avere una prova evidente, che in quel tempo un tal luogo vi era, siccome vi è ancor oggi. E qui cade in acconcio il mettere nella sua veduta l’origine dell’abbaglio preso dal celebre P. Mabillon in volere, che la chiesa di San Niccolò fosse monastero de’ padri benedettini. Avea l’arcivescovo Elia fabbricato non solo i palazzi per se, e per gli canonici, coi quali vivea in comune: ma inoltre alcune celle per gli monaci, de’ quali dové senza verun dubbio averne gran bisogno in quel primo tempo del nascente santuario, per non potere, come giova credere, aver numero sufficiente di chierici, che servissero per lo monisterio della chiesa insieme, e per la cura de’ pellegrini, i quali in numero troppo grande vi concorrevano. Stimò dunque che i monaci ai quali in quei tempi, e prima ancora, si davano a reggere di simili luoghi, fossero a parte delle fatiche de’ chierici, e d’aiuto in un bisogno così premuroso. Or l’arcivescovo Elia per averli pronti per un tale religioso impiego fece per essi edificare delle celle, nelle quali potessero vivere secondo lo spirito di loro religione, e adempiere il loro dovere18.

Anche Nitti Di Vito si esprime sul tema19. Secondo lo studioso, Elia come arcivescovo e rettore di S. Nicola era intento a mantenere la pace anche nel suo clero ch’era di due specie: quello usuale e antico della cattedrale e quello nuovo, da lui concentrato attorno alla nuovissima “ecclesia sancti 17 18 19

PUTIGNANI, Istoria della vita, cit., pp. 423-425, 433. Ibidem. NITTI DI VITO, La ripresa gregoriana di Bari, cit., pp. 497-502.

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Nicolai”, distinto dal diocesano (…). Per quanto riguarda il clero di S. Nicola (...) esso ebbe un’esistenza e una regola diverse dal clero della cattedrale”. Leo Pilillo, nella già tante volte ricordata testimonianza del 1105, nella specifica del terzo privilegio dice: “beneficium detur michi (…si voluero clericalem vitam ducere…) quemadmodum datur clericis, qui serviunt in ecclesia”20 [sancti Nicolai]. Il che significa senz’altro, che fin dal primo suo momento, appena gettate le fondamenta della cripta, dato l’affluire dei lasciti e delle donazioni, necessariamente accompagnate da parte della “ecclesia” di S. Nicola da doveri di riconoscenza, concretate in preci, messe e funzioni propiziatorie, Elia attribuì (“addixit”) a S. Nicola un clero proprio, con propri speciali “beneficia” (…). Ma abbiamo visto nella specifica dello stesso Leo Pilillo al quarto privilegio, che al clero di S. Nicola si dà il nome di “fratres”: si relicto seculari habitu in ecclesia manere voluero, recipiar et vivam de bonis ecclesie ut unus et alter de melioribus fratribus 21. Questa voce ci induce a credere: a) che il clero di S. Nicola abbia compreso anche qualche monaco, nel caso nostro dell’ordine benedettino; b) che per disposizione di Elia i chierici di S. Nicola abbiano fatto vita comune. Sia per il fatto che Elia, anche quale arcivescovo, rimase sempre un benedettino, e sia perché anche nel Mezzogiorno d’Italia s’era in breve tempo diffusa la regola di vita comune del clero, particolarmente di quello addetto ai santuari (...). Elia poté benissimo avere imposto al suo clero nicolaiano la vita in comune (…). Va quindi sottoscritto quanto dice il Putignani, il cui criterio, sempre sulla base del tenore del privilegio III concesso da Elia ai traslatori, il Petroni così compendia: “da ciò si raccoglie, che una parte de’ chierici, che dovevano al Santuario servire, fu da Elia ordinata a vita comune in alcuni palazzi murati intorno alla basilica (…) [Elia] innalzava palagi intorno ad essa basilica, ove potessero vivere vita comune, sì forse i suoi monaci, che avrà dovuto chiamare in quei primi bisogni al servizio divino, e sì i chierici, che a comunanza di vita egli pure esortava per la consuetudine sua propria e per le prescrizioni della Chiesa. E sono davvero “le molte stanze magnifiche per abitazione dei chierici, ampollosamente ricordate dal Beatillo”22,

il quale, sulla base del privilegio elargito ai traslatori, aveva concluso che una parte dei chierici destinati al servizio del santuario fu ordinata da Elia a vita comune in alcuni palazzi murati intorno alla basilica. Elia aveva innalzato palazzi ove potessero vivere in comune sia i monaci sia i chierici. Quindi una combinazione tra la vita clericale e la regola monastica, come spesso si incontrava in quel tempo. Viene portato 20 Mi sia dato il beneficio (se volessi condurre vita clericale) allo stesso modo che si dà ai chierici, che servono nella chiesa. 21 Se abbandonato l’abito secolare volessi rimanere nella chiesa che io sia ricevuto e viva dei beni della chiesa come l’uno e l’altro dei migliori fratelli. 22 Ivi, p. 498-500.

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l’esempio di S. Maria in Trastevere, i cui canonici, per volontà di Gregorio IV, vivevano monasticamente in fabbricato limitrofo alla basilica, come a S. Nicola di Bari, tanto che vennero chiamati “monachi canonici”. A S. Nicola

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ci troviamo di fronte a una specie di capitolo non ancora del tutto ben formato, di un ente ecclesiastico nuovo, in cui la volontà del rettore – monaco – aveva un campo di libera azione” (…). Anche per il duomo l’arcivescovo Elia potrà aver benissimo esemplato il capitolo alla vita e alla mensa in comune, di cui per S. Nicola la frase ora vista di Leo Pilillo dà una certa non labile prova. Tuttavia per il duomo non possediamo prove scritte23.

In conclusione le ragioni addotte da Putignani e da Nitti Di Vito per smentire la tesi di Mabillon sono le seguenti: all’inizio il clero di S. Nicola era misto e annoverava sia monaci sia chierici; le celle costruite intorno alla basilica erano destinate alla vita comune di monaci e chierici; in S. Nicola vigeva una combinazione tra la vita clericale e la regola monastica, come accadeva in S. Maria in Trastevere a Roma; i primi due abati di S. Nicola, Elia e Eustasio, erano “rettorimonaci”. A me sembra logico pensare che, poiché Elia ed Eustasio erano benedettini e abati, il loro compito era quello di governare un complesso monastico. Ignoro invece se sia normale che degli abati fossero rettori di chiese non abbaziali. Ho cercato riscontro nei documenti editi del fatto che S. Nicola non venga esplicitamente appellata come chiesa abbaziale o entità monasteriale. Ho però potuto appurare che anche in altri casi di monasteri rinomati, come quello di Ognissanti di Cuti presso Valenzano, ci si esprime usando il termine generico di chiesa, senza alcun riferimento alla funzione abbaziale24. Padre Gerardo Cioffari, direttore dell’Archivio di S. Nicola e storico di riferimento della basilica, ha stilato una Serie cronologica dei priori di S. Nicola in cui, egli afferma, sono inclusi anche i rettori e i gran priori: Elia abate 1087-1105; Eustazio abate 1105-1123; Maione 1133-1136; Silvestro 1138; Stefano Camelo 1163-1164, ecc.25. In un’altra pubblicazione lo stesso Cioffari scrive: 23

Ivi, pp. 500-502. Cfr. NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 113-114. 25 CIOFFARI G., Serie cronologica dei Priori di S. Nicola, in L’archivio della Basilica di S. Nicola a Bari. Fondo cartaceo, a cura di PORCARO MASSAFRA D., Bari 1988, pp. XXXVXXXVIII, in part. p. XXXV. 24

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Nel periodo normanno i primi due rettori della Basilica (Elia ed Eustazio) ebbero il titolo di abate, titolo che effettivamente avevano nell’ordine benedettino al momento dell’assunzione del governo della chiesa di S. Nicola. Dopo Eustazio i rettori si chiamarono priori, e pare che nulla avesse a che fare questo titolo con l’omonima carica nell’ordine benedettino. Il momento del passaggio dagli “abati” ai “priori” è poco conosciuto, per cui è difficile intuire le motivazioni di tale mutamento. L’abate Eustazio morì tra il 1123 (ultimo documento che lo menziona vivo) e il 1125 (anno in cui rappresentante della chiesa, non come priore, è un certo dominus Johannes). Inoltre non si ha notizia di priori fino al 1133 allorché è indicato priore Maione. Forse fu un decennio di interregno e di assestamento26.

La mia impressione è che vi sia qualche reticenza a discutere della problematica benedettina. Forse una volta accantonata l’esperienza del monastero benedettino, al capitolo di S. Nicola risultò più opportuno perorare i propri diritti in quanto basilica di fondazione regia.

2. La Inventio sancti Sabini Canosa è una delle prime e certamente la più prestigiosa sede episcopale della Puglia paleocristiana27. Spettacolari monumenti superstiti testimoniano ancora il suo glorioso passato. San Sabino, vescovo di Canosa nella prima metà del VI secolo, è il personaggio più illustre del cristianesimo antico di Puglia. Durante il suo episcopato, fissato dalla tradizione tra il 514 e il 566, la chiesa canosina visse il periodo di massimo fulgore. Dal papa di Roma, presso cui godeva di ampia considerazione, Sabino fu inviato nel 535 a Costantinopoli a capo di una delegazione di vescovi. L’anno successivo prese parte a un Concilio convocato a Costantinopoli. Nei Dialogi di Gregorio Magno il vescovo canosino viene più volte citato per l’amicizia che lo legava a san Benedetto28. Suoi predecessori nella stessa sede furono i santi vescovi Rufino (attestato tra il 494 e il 499) e Memore (presente ai concili romani del 501-504). 26 CIOFFARI G., Dalle origini a Bona Sforza, in San Nicola di Bari e la sua basilica, cit., pp. 140-173, in part. p. 147. 27 Cfr. Cronotassi, iconografia e araldica dell’episcopato pugliese, Unione regionale dei centri di ricerche storico artistiche archeologiche e speleologiche di Puglia, Bari 1986; KAMP, Vescovi e diocesi dell’Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo stato normanno, cit. 28 OTRANTO, in S. Maria que est episcopio, cit., p. 33.

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Il rinvenimento delle ossa di san Sabino è riportato dalla Historia inventionis sancti Sabini episcopi Canusini scritta nel 1091 dall’arcidiacono Giovanni che, qualche anno prima, su commissione dell’arcivescovo Ursone, aveva composto anche la Translatio sancti Nicolai29. Nel 1091 Elia, da poco eletto arcivescovo, fu l’artefice del rinvenimento delle reliquie di san Sabino nella cattedrale di Bari. Egli, convinto che in un altare ubicato nella confessione della cattedrale fossero conservate le reliquie dei santi vescovi Memore e Rufino, ordinò di demolirlo. Ma nella sepoltura furono invece trovate delle ossa che in base a delle iscrizioni furono riconosciute come quelle appartenenti al santo vescovo Sabino. Le scritte recitavano Angelarius episcopus attulit corpus s. Sabini: le ossa di san Sabino sarebbero state portate dal vescovo Angelario da Canosa a Bari30. L’arcidiacono Giovanni narra che: Ai tempi di Ursone, che prima era stato vescovo nella sede di Rapolla, ma in seguito, per autorità e volontà del duca Roberto fu trasferito da papa Gregorio alla chiesa barese e nominato arcivescovo (…). Tuttavia, in verità, a proposito dell’altare della confessione si dibatteva da quale pontefice fosse stato consacrato o di qual santo fossero le supposte reliquie. D’altra parte dai suoi predecessori si era avuta notizia che in un luogo ignoto erano conservati i corpi dei santi confessori Memore e Ruffino, che una volta erano stati pontefici della chiesa di Canosa. L’arcivescovo Elia (prima era stato monaco nel monastero di Cava come afferma Beatillo e poi fatto abate di Bari), eletto all’arcivescovato di Bari per volontà e consenso del duca Ruggero, figlio del duca Roberto, con lui raggiungemmo papa Urbano a Melfi. Non c’era alcuna notizia del corpo di san Sabino, e nemmeno dei predetti confessori né risalente al tempo del citato arcivescovo Elia, né dell’arcivescovo Ursone. In effetti si riteneva che le sue sante reliquie fossero state conservate nella chiesa di Canosa, cosa che più tardi la realtà provò che era falso. Ebbene, l’arcivescovo Elia cominciò subito a cercare accuratamente i corpi dei confessori Memore e Ruffino nell’altare già detto e per essere sicuro di tutto: non stette in ozio o si dette all’oblio, come a suo tempo aveva fatto l’arcivescovo Ursone, ma comandò di demolire l’altare. Dopo la sua distruzione apparvero delle ossa nella parte anteriore dell’altare, conservate in un certo pannicello (…) infatti i suoi piccoli frammenti cadevano da quelle che prima erano ossa, disfatte e già putrefatte. Inol29 IOANNE ARCHIDIAC. BARENSI, Historia Inventionis s. Sabini Epis. Canusini, cit., pp. 310339; trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., pp. 257-260. 30 Cfr. BERTELLI, S. Maria que est episcopio, cit., p. 36 e nota 22. Cfr. BARRACANE G., Gli interventi degli anni 1994-1999, in La tradizione barese di S. Sabino di Canosa, a cura di PALESE S., Bari 2001, pp. 9-11; CAMPIONE A., Sabino di Canosa tra storia e leggenda, in La tradizione barese di s. Sabino di Canosa, cit., pp. 23-46.

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tre nel sopradetto panno sono visibili lettere che dicevano “Il vescovo Angelario portò il corpo di san Sabino”. Una analoga scrittura è stata rinvenuta anche su una tavola di marmo che allora fu trovata là31.

Dopo il 1091 la cattedrale dedicata alla Vergine, venne intitolata a san Sabino e a santa Maria. Nel momento in cui vengono rinvenute le ossa di san Sabino non v’è motivo di interpretare gli eventi come una contesa tra la basilica e la cattedrale. L’inventio di san Sabino, seguita alla translatio di san Nicola, va intesa nel senso della consequenzialità e non della contraddizione. Si auspicava la legittimazione della sede barese in virtù della presenza di reliquie importanti ospitate in un santuario e nell’episcopio. Bari possedeva spoglie di santi appartenenti all’ecumene cristiana: nella basilica il santo vescovo confessore e taumaturgo che rimandava ai tempi gloriosi di papa Silvestro e dell’imperatore Costantino, nella cattedrale il santo vescovo Sabino, amico di san Benedetto e personalità più importante del cristianesimo primitivo di Puglia32. Si può presumere che in epoca normanna si sia avvertita l’esigenza di sanare una situazione incongruente e dare a Bari, capitale di

31 IOANNE ARCHIDIAC. BARENSI, Historia Inventionis s. Sabini Episc. Canusini, cit., pp. 310339 (trad. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., pp. 257-260): “Temporibus Ursonis qui prius fuerat apud Rapollam Episcopus sed postea per potentiam & voluntatem Ducis Roberti a papa Gregorio, ad ecclesiam barensem traductus fuerat Archiepiscopus ordinatus est (…) Verum tamen de altari praedictae Confessionis intenti erant a quo fuerat Pontifice consecratum, vel cuius Sancti reliquiae suppositae. A suis autem praedecessoribus relatum memoria retinebant, sanctorum Confessorum Memoris & Rufini, qui olim Ecclesiae Canusinae Pontifices fuerant, corpora recondita conservari. Elias archiepiscopus qui prius abbas fuerat (hic in monasterio Cavensi antea monachus fuerat, ut testatur Beatillus, deinde Barij Abbas factus). Hoc autem electo in archiepiscopum, voluntate atque consensu Ducis Rogerij, filij Ducis Roberti, Melfiam papam Urbanum adivimus. Nam de corpore s. Sabini mentio nulla erat, sed de praedictis Confessoribus neque temporibus praedicti Eliae Archiepiscopi, neque Archiepiscopi Ursoni: extimabatur enim quod apud Ecclesiam Canusinam illius sanctae reliquiae reconditae fuissent, quod probavit postea rei veritas fuisse mendacium. Nam Elias archiepuscopus coepit statim sollicitus esse de requirendis corporibus Confessorum Memoris & Rufini in altari iam dicto, ut certus esset de re tota: nec quievit, vel oblivioni tradidit, quem admodum Urso fecit Archiepiscopus, sed iussit altare destrui; quo dirupto apparuerunt ossa in anteriori altaris facie, veluti sub quadam spelunculam vel sepolturam condita, quodam contecta pannicol (…) particulae enim illius ab illa, qua prius fuerant, integritate corruptae & iam putrefactae cadebant. Praedicto autem panno modo supradicto invento littere sunt visae atque dicebant: ANGELARIUS EPISCOPUS ATTULIT CORPUS S. SABINI. Huismodi etiam scriptura inventa est in tabulam unam marmoream, quae ibidem tunc reperta est”. 32 Cfr. GOLINELLI P., Città e culto dei santi nel Medioevo italiano, Bologna 1996, p. 68: “All’unicità e perennità del santo patrono del primo millennio, l’epoca comunale vede l’affacciarsi di una pluralità di culti urbani, alcuni dei quali si avvicendano da un secolo all’altro, o, più spesso si accompagnano ai più antichi nella posizione di “compatrono”: al santo tradizionale, generalmente legato alla chiesa vescovile, si associa il nuovo culto, voluto da una parte della città, dai laici, a volte dal comune stesso”.

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un organismo politico, il riconoscimento come sede arcivescovile. La presenza delle reliquie di Sabino conferiva legittimità alla sede barese e chiudeva le contraddizioni con la contitolare Canosa. Fra le due città le polemiche non furono mai sopite. Ancora oggi gli abitanti di Canosa, devoti a san Sabino, sono animati dal proposito di dimostrare la presenza in città delle reliquie del loro venerabile vescovo e la falsità delle pretese dei Baresi.

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3. S. Nicola basilica palatina? Fra i requisiti fondamentali della palatinità si ricordano la fondazione e la dotazione a opera del sovrano, con beni propri e in un luogo di sua pertinenza, il diritto di collazione del clero, l’esenzione dalla giurisdizione vescovile. In Puglia sorgevano quattro basiliche palatine che hanno goduto di prerogative particolari e privilegi straordinari grazie a concessioni di sovrani e papi: S. Nicola di Bari e quelle di Acquaviva delle Fonti, Altamura e Monte Sant’Angelo sul Gargano. Il concordato sottoscritto nel 1929 fra il regno d’Italia e il Vaticano ha relegato alla storia le questioni giurisdizionali che afflissero i rapporti fra le due maggiori chiese di Bari. Ma la lotta per la difesa dei diritti di S. Nicola e la sua esenzione dall’ordinario locale, sulla base della palatinità connaturata all’atto stesso della fondazione, è stata asperrima. Essa si è protratta nei secoli ed è rimasta attuale fino a epoca recente33. Nel 1105, con la scomparsa dell’abate Elia si infrange la concordia tra la basilica e il duomo. L’abate Eustasio successore di Elia alla guida di S. Nicola, grazie all’intercessione di Boemondo, ottiene nel 1105 da papa Pasquale II la bolla che sancisce l’immediata soggezione della chiesa alla S. Sede e lo svincolo dalla subordinazione arcivescovile. Nel testo si ricorda che S. Nicola era stata eretta in un luogo pubblico, concesso con chirografo dal duca Ruggero. Urbano II vi aveva personalmente collocato il corpo del santo e aveva consacrato l’altare posto sulla tomba. Di questa bolla esistono almeno tre diverse versioni, una pubblicata nel Bullarium Romanum e le altre due edite da Nitti di Vito, 33 Ricco materiale in proposito, concernente anche l’eco che la questione ebbe sui quotidiani dell’epoca, è raccolto all’ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Ministero dell’Interno. D. G. Divisione Autorizzazione e tutela, bb. 624, 626.

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inizialmente nel Codice Diplomatico Barese e quindi ne Le questioni giurisdizionali del 1933 e nell’articolo apparso in Iapigia nel 193734. A 34 Bullarum diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum taurinensis editio, II, Augustae Taurinorum MDCCCLIX, pp. 245-246. Bolla XXVIII del 18 novembre 1106; Codice diplomatico barese, V, cit., n. 44, pp. 79-80; NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 101-102; NITTI DI VITO, La traslazione delle reliquie di san Nicola, cit., pp. 295-411, in part. pp. 313-315. Si riporta il testo della versione di NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 101-102: “Paschalis episcopus servus servorum dei. dilecto in christo filio Eustathio abbati ecclesiae sancti Nicolai salutem et apostolicam benedictionem. Predecessoris nostris sancte memorie Victoris tertii temporibus beati Nykolai corpus ex grecorum partibus transmarinis in barisanam urbem advectum totus pene orbis agnoscit. Quod videlicet corpus predecessor noster Urbanus secundus loco quo nunc reverentia digna servatur in cripta inferiori summa cum veneratione recondit. et altare desuper in honore domini consecravit. Petitum igitur tunc et concessum dicitur ut beati Nykolai basilica in eodem loco edificanda specialiter sub tutela mox sedis apostolice servaretur. Quia igitur largiente domino basilica eadem congrua iam edificatione perfecta est. in loco videlicet iuris publici per ducis Roggerii cyrographum dato. Nos eandem domum auctore deo mox futuram ecclesiam postulante filio nostro eiusdem ducis germano Boamundo barensis nunc civitatis domino sub tutelam apostolice sedis excipimus. Per presentis igitur privilegii paginam apostolica auctoritate sancimus. ut quecumque predia. quecumque bona vel a predicto glorioso filio nostro Roggerio per beati Petri et nostram gratiam Apulie. Calabrie. et Sicilie. Duce. vel a prenominato fratre eius nunc anthiocheno principe Boamundo. seu a ceteris fidelibus supradicti sancti Nykolai ecclesie de suo iure iam donata sunt. aut in futurum donari offerrive contigerit firma semper. Quieta. et illibata permaneant. Decernimus ergo ut nulli omnino hominum liceat eandem ecclesiam temere perturbare. aut eius res auferre. vel ablatas retinere. Minuere. vel temerariis vexationibus faticare. sed omnia integra conserventur clericorum et pauperum usibus profutura. Tibi itaque tuisque successoribus facultatem concedimus. clericorum culpas absque episcopi contradictione debita caritate ac severitate corrigere. Si qua vero in vos gravior querela emerserit nostre seu successorum nostrorum audientie reservetur. Nulli autem vel archiepiscopo vel episcopo licere volumus ut ecclesiam ipsam vel ipsius abbatem sine romani pontificis conscientia vel excommunicatione vel interdicto cohibeat. quatinus idem venerabilis locus tanti confessoris corpore insignis sicut per romanum pontificem prima consecrationis suscepit exordia. sic sub romani pontificis tutela et protectione persistat. Siquis sane in crastinum archiepiscopus aut episcopus. Imperator aut Rex. Princeps aut dux. Comes vicecomes. Catapan. Stratigo. Iudex. Castaldio. aut quelibet ecclesiastica secularisve persona. hanc nostre constitutionis paginam sciens contra eam temere venire temptaverit. secundo tertiove commonita si non satisfactione congrua emendaverit potestatis honorisque sui dignitate careat. reamque se divino iudicio existere de perpetrata iniquitate cognoscat. et a sacratissimo corpore ac sanguine dei et domini redemptoris nostri iesu christi aliena fiat. atque in extremo examine districte ultioni subiaceat. Cunctis autem eidem loco iusta servantibus sit pax domini nostri iesu christi. Quatinus et hic fructum bone actionis percipiant et apud discrictum iudicem premia eterne pacis inveniant (...)”. Pasquale vescovo servo dei servi di Dio, salute e benedizione a Eustasio figlio diletto in Cristo abate della chiesa di S. Nicola. Quasi tutti sanno che, ai tempi del nostro predecessore Vittore III di santa memoria, il corpo del beato Nicola dai porti greci al di là del mare fu trasportato nella città di Bari. Il nostro predecessore Urbano II naturalmente con somma devozione pose quel corpo in un luogo dove è conservato con la dovuta riverenza, nella cripta inferiore, e in onore del signore consacrò un altare costruito ivi sopra. Si dice dunque che allora fu chiesto e concesso che nello stesso luogo s’innalzasse subito la basilica del beato Nicola, specialmente sotto la tutela della sede apostolica. Dunque grazie alla generosità del signore questa basilica è giunta già alla dovuta edificazione, naturalmente in un luogo di diritto pubblico concesso dal duca Ruggero con chirografo. Noi prendemmo subito sotto la tutela apostolica la stessa casa, presto futura basilica per intervento divino, a richiesta di Boemondo, ora signore di Bari, figlio nostro e fratello dello stesso duca. Quindi con

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parte alcune differenze di carattere secondario, la variante più significativa rinvenibile nelle tre redazioni, si riferisce alla frase che decreta l’esenzione della basilica dall’autorità dell’arcivescovo. Nel Bullarium la frase è interpretata nel modo seguente: “petitumque est, et concessum dicitur, ut Beati Nicolai basilica in eodem loco aedificanda specialiter sub tutela mox Sedis Apostolicae servaretur”. Nel Codice Diplomatico Barese: “Petitum igitur te et concessum dare ut beati Nykolai basilica in eodem loco edificando specialiter sub tutela mox sedis apostolice servaretur”. Più convincente sembra la versione data ne le Questioni Giurisdizionali e in Iapigia: “Petitum igitur tunc et concessum dicitur ut beati Nykolai basilica in eodem loco edificanda specialiter sub tutela mox sedis apostolice servaretur”. Per Nitti Di Vito la palatinità nativa della basilica sarebbe negata da quattro documenti che egli ritiene falsi: i diplomi di Roberto il Guiscardo del 1084 e di Ruggero Borsa del 1087 che cedono all’arcivescovo Ursone la corte del catepano per la costruzione della chiesa, un diploma di Costanza che conferma quella donazione all’arcivescovo Riso e un diploma di Federico II del 124335. Una prova della considerazione nutrita dalla dinastia normanna verso la chiesa di S. Nicola è fornita dal testo dei Patti giurati del 1132 l’autorità apostolica sanzioniamo con il foglio del presente privilegio che poderi (e) qualsiasi bene che sono donati di proprio diritto o dal predetto nostro figlio glorioso Ruggero duca di Puglia, Calabria e Sicilia per grazia del beato Pietro e nostra, o dal predetto suo fratello Boemondo ora principe di Antiochia o da altri fedeli della chiesa del predetto san Nicola o in futuro potranno essere sempre offerti e donati. In pace e intatti rimangano. Decidiamo dunque che a nessun uomo sia assolutamente permesso di turbare questa chiesa, o sottrarre sue cose o mantenere cose sottratte. Diminuire, o gravare con temerarie vessazioni, ma tutte siano conservate integralmente per gli usi dei chierici e dei poveri. Concediamo pertanto a te e ai tuoi successori facoltà di punire con la dovuta carità e severità le colpe dei chierici senza opposizione del vescovo. Se in verità tra di voi emergesse contrasto più grave, venga riservata a una nostra audizione o dei nostri successori. Vogliamo tuttavia che a nessun arcivescovo o vescovo sia permesso di punire o scomunicare o interdire la stessa chiesa o il suo abate senza informare il romano pontefice. Finché lo stesso venerabile luogo insigne per il corpo del confessore così importante come ebbe dai romani pontefici i primi esordi della consacrazione, così rimanga sempre sotto la tutela e la protezione del pontefice romano. Se qualcuno in futuro (arcivescovo o vescovo, imperatore o re, principe o duca, conte o visconte, catepano, stratega, giudice, castaldo o comunque individuo sia ecclesiastico sia secolare) conoscendo questa pagina della nostra disposizione tentasse di contravvenire a essa, se per la seconda o terza volta non si correggesse sia privato del suo potere e della sua dignità, e si riconosca colpevole e si presenti a giudizio divino per l’iniquità perpetrata e sia escluso dal santissimo corpo e sangue di Dio e del nostro signore redentore Gesù Cristo. E nel giudizio finale soggiaccia rigorosamente al castigo. Invece con tutti coloro che rispettano quanto espresso in quel luogo sia la pace di Gesù Cristo nostro signore. E ricevano questo frutto adeguato della buona azione e trovino i premi della buona azione presso il giudice supremo (…). 35 Cfr. in questo capitolo: § 4. Le questioni giurisdizionali col duomo e i documenti.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

con il quale Ruggero II si impegna a rispettare le reliquie del santo, i beni e i diritti della chiesa36. Secondo taluni un’altra attestazione della palatinità della chiesa risiede nel fatto che, nella lapide murata a destra del portale principale della basilica, in cui si rievoca la dedicazione del tempio celebrata nel 1197, non vi sono riferimenti all’intervento del vescovo e al suo consenso, elementi che vengono giudicati imprescindibili ove si tratti di chiesa sottoposta alla giurisdizione vescovile37. Nel 1215 Federico II, in un documento elargito su richiesta del priore e del clero di S. Nicola, que nostra specialis est Capella, distribuisce e conferma alla chiesa una serie di privilegi38. Durante l’epoca sveva, dopo un periodo di apparente tranquillità, dovuto all’equilibrio degli arcivescovi Doferio, Berardo e Andrea, che agiscono prudentemente evitando di ledere gli interessi di S. Nicola senza trascurare i propri, esplode la prima vera contesa giurisdizionale. La fase di aperto dissidio si manifesta nel 1225 all’epoca in cui, come successore di Andrea, il pontefice Onorio impone Marino Filangieri, scartando le candidature che erano state espresse dal capitolo della cattedrale, fra le quali figurava anche quella di Blandimiro che, oltre a essere priore di S. Nicola, era anche canonico della cattedrale39. Le ostilità conducono alla scomunica con cui l’arcivescovo Marino Filangieri investe il clero di S. Nicola (1231). Grazie alla benevolenza dell’arcivescovo Enrico Filangieri, nipote di Marino, si decide di porre rimedio ai dissapori e si perviene a una convenzione o concordia, firmata dai rappresentanti delle due chiese nella quale vengono enunciate alcune consuetudini cui attenersi nell’espletamento del cerimoniale: Per il fatto che tra il venerabile signore fratello Dom. Enrico arcivescovo delle nostre sedi barese e canosina da una parte e il capitolo della chiesa di S. Nicola dall’altra, del cui patto, ossia convenzione, esiste una redazione fatta solennemente (…) per il fatto che detto capitolo ci preceda sia in forma professionale, sia ci segua nello stesso modo, sia in altre forme di ossequio o di qualunque riverenza o alcuni proscioglimenti dal rispetto della normativa episcopale attestato in qualsiasi modo o nella città di Bari, o fuori, o in qualunque altro posto fuori

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NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 17, 107. Ivi, pp. 22- 23. 38 Codice diplomatico barese, VI, Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo svevo (11951266), a cura di NITTI DI VITO F., Bari 1906, n. 33, pp. 53-55. 39 Cfr. CIOFFARI, Dalle origini a Bona Sforza, cit., pp. 154, 155. 37

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servizio sia ci costringa a celebrare nella suddetta chiesa qualunque divino ufficio diurno e parimenti notturno sia ci costringa a essere ospitati sia a mangiare o dimorare nelle case o nelle sale di quella chiesa, sia costringa per mezzo nostro o di alcuni nostri collaboratori o mettere in regola alcune norme del predetto capitolato a favore di qualsiasi ordine Ecclesiastico (…)40.

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Questa sorta di tregua riceve conferma sotto l’arcivescovo Giovanni, nel 1278, e rimane valida per circa due secoli41: Se in verità qualcuno mette in contatto i predetti chierici di S. Nicola con noi o col nostro capitolo a favore di qualsiasi ecclesiastico a proposito di quelle norme che sono contenute nella detta convenzione o di farne sospendere altre da iniziare prossimamente, o di gravare essi in qualsiasi modo, non sia apportato alcun pregiudizio al diritto della chiesa di S. Nicola e dei chierici della stessa, ma i loro privilegi, immunità e diritti si mantengano inalterati. Così infatti tra l’una e l’altra parte si è d’accordo che i diritti di entrambe le parti rimangono nel loro stato, e senza predisporre alcun danno a causa di quelle convenzioni che in questo momento vengono fatte, o si pensi che siano fatte in futuro42.

In epoca angioina i papi e i principi elargiscono benefici temporali e spirituali a S. Nicola, che dai pontefici viene riconosciuta nullo medio dipendente dalla sede romana e dalla casa angioina è considerata specialis capella. Clemente IV è il primo pontefice, dopo Pasquale II nel 1105, a emanare bolle a conferma di diritti e privilegi al priore e al capitolo di S. Nicola43. 40

NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 35-36: “Quod dudum inter venerabilem virum Dominum Fratrem Henricum dicte nostre Barine et Canusine Sedis Archiepiscopum ex una parte, et Capitulum ecclesie Sancti Nicolai ex altera, cuiusdam conventionis, seu concordie forma sollempniter facta extitit” (...) “quod sive dictum Capitulum processionaliter nobis occurrat, sive processionaliter nos sequatur, sive in aliis obsequiis vel quibuslibet reverentiis aut aliquibus absolutionibus respectu Iuris episcopalis quomodolibet attemptati, aut negotii nobis assistat, aut intus in Civitate Barensi, vel extra vel alibi ubicumque, tam in officio, quam extra Officium sive contingat nos celebrare quodcumque divinum officium diurnum pariter, aut nocturnum in ecclesia supradicta, sive contingat nos hospitari sive comedere aut morari in domibus aut salis ipsius ecclesie, sive contingat per nos vel aliquem suffraganeum nostrum ordinare aliquos de predicto Capitulo ad quoslibet Ecclesiasticos ordines (…)”. 41 CIOFFARI, Dalle origini a Bona Sforza, cit., p. 155. 42 NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 37-38: “Si qua vero contingat clericos prefati Sancti Nicolai nobis vel capitulo nostro de hiis, que continentur in dicta conventione vel aliis noviter faciendis facere impendere, vel eos modo quolibet honerare, nullum preiudicium Iuri Ecclesie Beati Nicolai et clericorum ipsius quomodolibet inferatur, set ipsorum privilegia, immunitates et Iura penitus serventur intacta. Sic enim inter utramque partem convenit, ut utriusque partis Iura in suo statu remaneant, nullo preiudicio preparando ex hiis, que hinc facta sunt, vel continget fieri in futurum”. 43 Ivi, pp. 38, 110 ss.

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I sovrani angioini, devoti a Nicola, pongono sotto la loro protezione la chiesa. Con la bolla del 9 febbraio 1268, il papa, conformemente agli accordi presi col re Carlo I d’Angiò, dà mandato al suo legato, il vescovo di Albano, di curare la restituzione dei beni mobili e immobili che erano stati sottratti a S. Nicola: Per quanto riguarda la restituzione delle chiese del regno di Sicilia in accordo con le convenzioni stabilite tra la chiesa romana e Carlo re di Sicilia, carissimo figlio nostro in Cristo, al momento della concessione di quel regno a suo favore. Di conseguenza mediante lettere apostoliche comandiamo alla tua fraternità affinché proceda con pronta sollecitudine ed esatta diligenza alla restituzione di S. Nicola di Bari, per nessun motivo pertinente alla chiesa romana, che si dice da te e da altri privata di vari beni sia mobili sia immobili44.

Con una seconda bolla emessa il 28 febbraio dello stesso anno, il pontefice ribadisce a S. Nicola le prerogative date dai suoi predecessori e i privilegi di carattere temporali conferiti dalle autorità laiche e dai privati: Clemente vescovo servo dei servi di Dio ai diletti figli il priore e il capitolo della chiesa secolare di S. Nicola di Bari, salute e benedizione apostolica. Quando da noi si chiese ciò che è giusto e onesto, sia in forza della equità sia della giustizia sia l’ordine della ragione esige che per sollecitudine del nostro ufficio si giunga all’effetto dovuto. Per tale motivo con il concorrente assenso del diletto a Dio vostro figlio, tutte le libertà e immunità concesse alla vostra chiesa dai nostri predecessori e anche le libertà ed esenzioni dalle esazioni profane imposte da re e da principi e da altri fedeli di Cristo con l’autorità apostolica della chiesa confermiamo che siano a voi razionalmente concesse come tutte quelle cose che giustamente e pacificamente otterrete per voi stessi e col patrocinio della presente lettera45. 44 Ivi, pp. 108-109: “Circa restitutionem ecclesiarum Regni Sicilie iuxta conventiones inter Romanam ecclesiam et Carissimum in christo filium nostrum Carolum Sicilie Regem Illustrem in concessione Regni eiusdem sibi factam habitas, faciendam certa tibi fuit a sede apostolica forma concessa. Quocirca fraternitati tue per apostolica scripta mandamus, quatenus ad restitutionem ecclesie beati Nicolai Barensis ad Romanam ecclesiam nullo medio pertinentis, que variis bonis tam mobilibus quam immobilibus dicitur destituita per te vel per alium auctoritate nostra prompta sollicitudine ac diligentia exacta procedas”. 45 Ivi, p. 112: “Clemens episcopus servus servorum dei. Dilectis filiis Priori, et Capitulo secularis ecclesie beati Nicolai Barensis, Salutem et apostolicam benedictionem. Cum a nobis petitur quod iustum est et honestum tam vigor equitatis quam ordo exigit rationis ut id per sollicitudinem officii nostri ad debitum perducatur effectum. Eapropter dilecti in domino filii vestris iustis postulationibus grato concurrentes assensu, omnes libertates et immunitates a predecessoribus nostris Romanis Pontificibus ecclesie vestre concessas necnon libertates et exemptiones secularium exactionum a Regibus et Principibus et aliis christi fidelibus rationabiliter vobis indultas sicut ea omnia iuste ac

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Grande munificenza si riversa su S. Nicola da parte di Carlo II d’Angiò col consenso di Bonifacio VIII e Clemente V. Bonifacio VIII, con la bolla dell’11 luglio 1295, dispone che alla rinunzia o alla morte dell’arcivescovo di S. Severina, il monastero d’Ognissanti di Cuti, ad Romanam ecclesiam nullo medio pertinentem, sia annesso alla chiesa di S. Nicola: Stabilendo con l’autorità dei presenti, come il cedente o cessante venerabile nostro fratello arcivescovo di Santa Severina a cui la predetta chiesa di tutti i santi della Chiesa Romana, fu concessa che solo un rettore esista nella basilica e nella chiesa sopradetta, che nella cura sia spirituale sia temporale ottenga la giurisdizione e l’amministrazione e con il nome di rettore di S. Nicola per sempre la governi, la diriga e la difenda46.

Con la bolla del 23 luglio 1296, il medesimo pontefice, su richiesta del re angioino, concede a S. Nicola la potestà di aggregare canonicamente alcune chiese e cappelle di collazione regia, sulle quali eserciterebbe il plenum ius: Pertanto quando da parte regia fu fatto presente a noi che la venerabile chiesa di S. Nicola di Bari, che non riguarda per alcun conto la chiesa Romana, e che non ha abbondanti redditi, per la speciale devozione che nella stessa chiesa presti per riverenza divina e dello stesso santo confessore di Cristo desidereresti ottenere l’unione canonica con altre chiese e godere delle loro risorse e di conseguenza essere accresciuta nel culto del nome divino. Noi intendiamo condividere con favore le tue speranze sotto questo aspetto, affinché quelle chiese o cappelle spettanti alla tua imposizione tributaria delle quali vorresti fare a meno, tu riesca ad annetterle e unire alla stessa chiesa di S. Nicola, così naturalmente per l’unione di questo genere alla medesima chiesa di S. Nicola appartengano liberamente in pieno diritto, a te con l’autorità dei presenti decidemmo di concedere47. pacifice obtinetis vobis et per vos eidem ecclesie auctoritate apostolica confirmamus, et presentis scripti patrocinio communimus”. 46 Ivi, pp. 113-114: “Statuentes auctoritate presentium, ut cedente vel decedente Venerabili fratre nostro Archiepiscopo sancte Severine cui predicta ecclesia omnium sanctorum per Romanam ecclesiam extitit commendata, unus tantum Rector in basilica et ecclesia supradictis existat, qui in utrisque spiritualiter et temporaliter curam, iurisdictionem et administrationem obtineat et sub nomine Rectoris sancti Nicolai eas perpetuo gubernet, dirigat et defendat”. 47 Ivi, p. 116: “Cum itaque sicut ex parte Regia fuit propositum coram nobis, venerabilem ecclesiam sancti Nicolai Barensis ad Romanam ecclesiam nullo medio pertinentem, et que in redditibus non habundat, ob specialem devotionem quam ad ecclesiam ipsam geris pro divina et eiusdem sancti christi confessoris reverentia desideres per unionem canonicam de aliquibus aliis ecclesiis ei faciendam in suis facultatibus et per consequens in cultu divini nominis augmentari. Nos votis tuis in hac parte favorabiliter annuere intendentes, ut illas [ecclesias seu cape]llas ad tuam

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La prodigalità di Carlo II ha inizio col diploma del 15 aprile 1296 con cui il re dota la chiesa di paramenti sacri e suppellettili che costituiscono il primo, prezioso nucleo del Tesoro: A Pietro di Angeriaco tesoriere della detta chiesa da custodire e conservare per il tesoro e in nome del tesoro nella stessa chiesa o nella nostra cappella, e da designare d’ora in avanti come Cappella Regia48.

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Del donativo fanno parte anche numerosi codici liturgici per l’introduzione nella chiesa del rito ad usum parisiensem49. Nel 1300 con dichiarazione solenne, l’arcivescovo Romoaldo Grisone afferma di non avere alcuna giurisdizione sulla chiesa di S. Nicola: riconosciamo e testimoniamo che, dopo che fummo eletti arcivescovo e pastore della nostra maggiore chiesa barese, la venerabile chiesa del santo pontefice e confessore Nicola di Bari, che con tutti i membri, clero e suo personale sappiamo essere in effetti assolutamente per nulla soggetta a noi o alla maggiore chiesa barese ma da ogni giurisdizione sua e nostra visita, soggezione potestà, conoscenza, correzione o altro diritto di dominio sia libera ed esente50.

Nel 1306 lo stesso arcivescovo, per ingraziarsi Carlo II al quale è legato da rapporti amichevoli, cede a S. Nicola la chiesa di S. Gregorio che sorge sul terreno prospiciente la basilica, cum iurisdictione spirituali vel temporali51. Sulla base delle prerogative in campo spirituale e temporale che gli sono state concesse dal pontefice, Carlo II con un diploma del 2 collationem spectantes de quibus expedire videris, eidem ecclesie [sancti Nicolai unire seu adnec]tere valeas, ita quidam per unionem huiusmodi eodem ecclesie seu [capelle ad dictam ecclesiam sancti Nicolai] libere pertineant pleno iure, auctoritate tibi presentium duximus concedendum”. 48 Codice diplomatico barese, XIII, Le pergamene di S. Nicola di Bari, Periodo Angioino (12661309), n. 72, pp. 100-101: “Petro de Angeriaco Thesaurario Ecclesie memorate custodiendas et conservandas pro Thesauro, et nomine Thesauri in eadem Ecclesia veluti in Capella nostra, et nominanda ex nunc in antea Capella Regia”. 49 Cfr. BUX, N., I codici liturgici miniati dell’Archivio di S. Nicola, Bari 1983. Molto probabilmente Carlo II destinò alla chiesa di S. Nicola anche alcune importanti reliquie (CIOFFARI G., La riforma di Carlo II d’Angiò e i codici liturgici di S. Nicola, in I codici liturgici in Puglia, a cura di CIOFFARI G., DIBENEDETTO G., Bari 1986, p. 37). 50 NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., p. 41: “recognoscimus, et testamur, quod postquam fuimus Ecclesie maioris nostre Barensis profeti in Archiepiscopum et pastorem, ad Venerabilem Ecclesiam beati pontificis, et Confessoris Nicolai in Baro, quam revera scimus cum omnibus membris, clero et personis eius, in nullo penitus nobi, aut eidem maiori Ecclesie Barensi suppositam seu subiectam, set ab omni eius et nostra iurisdiccione, visitatione, subiectione, potestate, cognitione, correctione, aliove Iure dominii liberam et exemptatam”. 51 Ivi, p. 42.

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dicembre 1301 assegna devocionis affectio specialis, ad Ecclesiam beati Nicolai confessoris in Baro la chiesa di Altamura, la Trinità di Lecce e S. Maria di Gaserano:

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Pertanto con la stessa autorità apostolica, a noi concessa, dal santissimo padre in Cristo e signore dom Bonifacio ottavo, sommo padre, fra le sottonotate chiese spettanti alla nostra imposizione con i diritti, redditi, proventi, persone e le sue pertinenze sotto distinte dignità personali nella stessa chiesa del Confessore, ossia dell’arcivescovato e dell’arcipresbiterato, la chiesa Tesoriera di Altamura ossia con dignità di tesoriere la chiesa di Santa Trinità di Lecce, cantoria e la chiesa di S. Maria di Gaserano, la cantoria della chiesa sopradetta con piena consapevolezza e deliberato consiglio, da ora e per sempre incorporiamo, annettiamo e uniamo52.

L’anno 1304 segna il momento di maggiore benevolenza di Carlo II d’Angiò. Oltre a ingenti donativi in denaro53, il sovrano, con diploma del 20 luglio 1304, promulga la costituzione della chiesa. In base a tale statuto il re si assume il diritto di nominare il clero del santuario e ne fissa l’organico e il ruolo: Certamente alla celebre chiesa del beato pontefice Nicola degnissimo confessore in Bari, che assolutamente ci appartiene di pieno diritto (…) cento chierici senza contare il priore, la cui nomina naturalmente spetta a noi, dei quali quarantadue sono canonici e uno di essi è il tesoriere, un altro cantore e un altro sottocantore54.

Il 1° novembre successivo, il sovrano concede inoltre alla chiesa il castello di S. Nicandro e metà del castello di Rutigliano, il castello di Grumo e alcuni beni in Trani55. Con bolla dell’11 agosto 1308 Clemente V conferma Priori et Capitulo ecclesie sancti Nicolai Barensis le rendite, le donazioni, le co52 Ivi, pp. 117-118. Codice diplomatico barese, XIII, cit., n. 118, p. 178: “Igitur ex ipsa per sanctissimum in christo patrem et dominum, dominum Bonifacium octavum, Summum Pontificem, auctoritate apostolica data nobis, infrascriptas ecclesias ad collacionem nostram spectantes, cum iuribus, redditibus, proventibus, hominibus et pertinenciis suis sub distinctis dignitatibus, seu personatibus in eadem Ecclesia confessoris, videlicet, Archipresbiteratum, et Archipresbiteratus ecclesiam Altamure Thesaurarie seu Thesaurarii dignitati. Ecclesiam sancte Trinitatis de Licio, Cantorie. et Ecclesiam sancte Marie de Gaserano, Subcantorie Ecclesie supradicte, de certa nostra sciencia, et deliberato consilio, ex nunc et in perpetuum incorporamus, annectimus et unimus”. 53 Codice diplomatico barese, XIII, cit., nn. 131-132, pp. 193-196. 54 Ivi, n. 133, pp. 196-201: “Sane ad ecclesiam celebrem Beati Pontificis Nicolai christi dignissimi Confessoris in Baro, que utique ad Nos pertinet pleno Iure (…) centum clerici numero non computato Priore, cuius quidem Institutio ad nos spectat, de quibus sint quadraginta duo canonici, ex quibus unus Thesaurarius, alius Cantor et alius Subcantor (…)”. 55 Ivi, n. 135, pp. 205-209.

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stituzioni e le immunità già elargite da Carlo II:

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Veramente la richiesta che ci avete avanzato conteneva che il nostro carissimo figlio in Cristo Carlo illustre re di Sicilia che mostra un sentimento di speciale devozione verso la vostra chiesa di S. Nicola di Bari e volendo accrescere i redditi di questa chiesa per accrescere il culto del divino nome (…). A voi e alla stessa chiesa di S. Nicola concesse e graziosamente donò vari privilegi e immunità, diritti e giurisdizioni nella misura che risulta dai privilegi e dalle lettere patenti di questo re concernenti queste concessioni, dove tutte queste cose sono contenute ed esplicitate più chiaramente. Pertanto noi, ben disposti verso le vostre suppliche, premesso che le cose fatte dal citato re piamente e liberamente sono note e meritevoli di gratitudine, con questa autorità apostolica con piena coscienza confermiamo56.

Nel 1309, con la scomparsa di Carlo II, si esaurisce la fase più feconda della storia della chiesa, ma gli Angioini continuano a proteggerla e a favorirla con ingenti donazioni fino al termine della loro sovranità (1435)57. Con bolla del 21 maggio 1343, Clemente VI, su richiesta Priori et Capitulo Secularis ecclesie Sancti Nicolai, conferma tutte le libertà, le prerogative e le esenzioni in campo spirituale concesse dai suoi predecessori, oltre che dai re e dai principi: Perciò concordiamo con le giuste richieste di vostro figlio diletto al Signore e con l’autorità apostolica confermiamo tutte le libertà e immunità concesse a voi e a questa vostra chiesa dai romani pontefici nostri predecessori sia con privilegi sia per altre indulgenze poiché le otteneste giustamente e pacificamente58.

Gli attriti risorgono sotto la dominazione aragonese. Nel 1472, con l’elezione dell’arcivescovo Antonio de Ajello esplode un’altra fase 56 NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., p.119: “Sane petitio vestra nobis exhibita continebat quod Carissimus in cristo filius noster Carolus Rex Siciliae Illustris gerens ad ecclesiam vestram sancti Nicolai Barensis specialis devotionis affectum et volens pro ampliando ibidem cultu divini nominis redditus eiusdem ecclesie augmentare (...) Nonnullas in super libertates et immunitates iura et iurisdictiones vobis et ipsi ecclesie sancti Nicolai ac ministris eiusdem concessit atque gratiose donavit prout in privilegiis ac patentibus litteris dicti Regis super hiis confectis hec omnia dicuntur plenius et seriosius contineri. Nos itaque vestris supplicationibus inclinati predicta que a predicto Rege sic pie et liberaliter facta sunt rata et grata habentes, ea auctoritate apostolica ex certa scientia confirmamus (…)”. 57 Ivi, p. 43. 58 Ivi, pp. 44, 120: “Eapropter dilecti in domino filii vestris iustis postulationibus grato concurrentes assensu omnes libertates et immunitates a predecessoribus nostris Romanis Pontificibus sive per privilegia seu alias indulgentias vobis et ecclesie vestra concessas sicut ea iuste, et pacifice obtinetis, vobis et per vos eidem ecclesie auctoritate apostolica confirmamus”.

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critica nei rapporti tra i due capitoli. Il pretesto per riportare in auge le antiche rivalità è offerto dall’uso che il priore intende fare nella chiesa di S. Nicola delle sue insegne prelatizie. Il Concordato del 1478 pone fine alle turbative stabilendo alcune modalità da rispettare in merito al cerimoniale: A lode di Dio onnipotente e per accrescere il culto e per conservare la pace e la concordia tra il capitolo della veneranda chiesa madre barese e il capitolo della celeberrima regia cappella dell’ammirevole S. Nicola di Bari affinché d’ora in poi tra gli stessi capitoli e i loro dignitari non possano verificarsi errori in processioni e in congregazioni, poiché si asserisce che in altri tempi ciò avvenisse, dal momento che gli stessi capitoli hanno nulla in comune tra loro e sono assolutamente divisi: la stessa chiesa e la cappella di S. Nicola anche il priore, il clero (…) dato che sono assolutamente e profondamente esenti in tutto e per tutto dalla diocesi arcivescovile e dalla [sua] giurisdizione perché [già] lo sono del tutto completamente e per tutte le cose59.

Nel 1483 il cardinale Giovanni d’Aragona, figlio del re Ferrante e da lui istituito arbitro in materia, pronunzia una sentenza con la quale, tra l’altro, si autorizza il priore a indossare la cappa caudata, a titolo di dignità ma non di giurisdizione. L’olio santo per il clero di S. Nicola deve essere invece preso dal duomo: Con questa nostra sentenza arbitrale dichiariamo che è stato ed è lecito al predetto arcivescovo Francesco di Brindisi che la coda della sua cappa indichi con evidenza non la sua preminenza ma l’importanza del percorso, e la concordanza della mente, si faccia portare per la città e la diocesi di Bari, in quanto è lecito ai prelati passare fuori della propria provincia con le relative insegne, indicanti non la superiorità ma la dignità della persona; astenendosi tuttavia dalla ostentazione della coda della cappa pontificale, che i prelati sono abituati a indossare nelle proprie chiese e diocesi, e non al di fuori di esse, sebbene fossero abituati a ostentare la loro superiorità, e di conseguenza non era lecito, e non è lecito, allo stesso arcivescovo brindisino percorrendo le vie cittadine fare o impartire la benedizione solenne o semplice o giurisdizionale alla popolazione e alla plebe di questa città e diocesi di Bari. E invece, allo stesso arcivescovo brindisino, priore della sua esente e regia chiesa di 59 Ivi, p. 47: “Ad Omnipotentis Dei laudem, et cultum augendum, et inter Capitulum Venerande Matris Ecclesie Barensis, et Capitulum Celeberrime Regie Cappelle, Mirifici Sancti Nicolai Barensis pacem, concordiamque servandam, ne deinceps inter ipsa Capitula, et Dignitates eorum, erroris materia in Processionibus, et Congregationibus evenire possit, sicut alias evenisse asseritur, quandoquidem ipsa Capitula inter se nihil commune habeant, sintque prorsus divisa: ipsaque Ecclesia, et Cappella Sancti Nicolai, Prior quoque, Clerus (…) ab Archiepiscopali Dioecesi, et Iurisdictione sint, prout sunt penitus, et omnino, ac in omnibus, et per omnia exempta”.

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SANTI, RELIQUIE E SACRI FURTI

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S. Nicola che gli appartiene in pieno diritto di Priorato, è stato lecito, e lo è, dopo la solennità delle messe e le lodi vespertine e mattutine, impartire anche la benedizione solenne al popolo e lo stesso priore di S. Nicola è designato a ricevere dall’arcivescovo di Bari, nella cui diocesi si trova, il crisma e l’olio da conservare e da nessun altro a meno che non gli venga negato maliziosamente dallo stesso arcivescovo di Bari, lodiamo e sentenziamo60.

Questo pronunciamento, parzialmente favorevole al duomo, rappresenta un primo passo verso l’affermazione della sede vescovile che verrà sancita dalle sentenze del Concilio del 1579 e della S. Ruota del 1613. Si ritiene che esso sia scaturito dall’intenzione della Casa Aragonese di favorire per motivi politici l’arcivescovo de Ajello61. Nel 1537 viene presentata alla S. Ruota la causa che si concluderà definitivamente con la sentenza del 161362. Con bolla del 26 aprile 1539, il pontefice Paolo III, due anni dopo l’introduzione della causa alla S. Ruota, conferma tutte le concessioni fino ad allora accordate alla chiesa e alle sue annesse Priori et Capitulo secularis et Collegiate ecclesie sancti Nicolai Barensis: Perciò concordiamo con le giuste richieste di vostro figlio diletto al Signore e con l’autorità apostolica confermiamo tutte le libertà e immunità a voi concesse e a questa vostra chiesa dai romani pontefici nostri predecessori sia con privilegi sia per altre indulgenze concesse a voi e alla vostra chiesa e alle sue dipendenze fino a oggi concesse in qualsiasi modo e anche le libertà e le esenzioni dalle esazioni secolari concesse dai re e dai principi e da altri fedeli di Cristo a voi e a questa chiesa e alle sue dipendenze in questo modo ragionevolmente ottenute poiché le

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Ivi, pp. 47-49: “per hanc nostram arbitralem sententiam declaramus licuisse, et licere prefato Francisco Archiepiscopo Brundusino Caudam cuiusvis Cappe non superioritatem scilicet indicandam, itineris gravitatem, et mentis compositionem denotantem, sibi portari facere per Civitatem, et Dioecesem Barensem, cum liceat Prelatis extra suam Provinciam muti huiusmodi insigniis, non superioritatem, sed Dignitatem in persona insigna demonstrantibus; abstinendo tamen se a delatione Caude Cappe Pontificalis, quam Prelati in propriis Ecclesiis, et Dioecibus suis, et non extra, quamlibet superioritatem ostendentem gestare consueverunt; et consequenter non licuisse, neque licere eidem Archiepiscopo Brundusino, itinerando per vias, Populis, et Plebibus eiusdem Civitatis, et Dioecesis Barensis Benedictionem solemnem, seu simplicem, velut iurisdictionalem facere, aut impartiri. Et contra, eidem Archiepiscopo Brundusino Priori in sua exempta et Regia Ecclesia S. Nicolai que ad eum suo officii Prioratus pleno iure pertinent, licuisse, et licere post Missarum solemnia, et Vespertinas, ac matutinas Laudes Benedictionem etiam solemnem super populum elargiri, Chrisma autem, et Oleum teneri recipere eumdem Priorem S. Nicolai ab Archiepiscopo Barensi, in cuius Diocesi permanet, et non ab alio nisi malitiose ab eodem Archiepiscopo Barensi negaretur, laudamus, et sententiamus”. 61 Ivi, p. 50. 62 Ivi, p. 52.

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LA BASILICA E IL DUOMO

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possedete giustamente e pacificamente per voi e per la vostra chiesa e le sue dipendenze predette e con autorità apostolica le confermiamo63.

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Dello stesso tenore è la bolla di Pio V del 21 giugno 156664. Al tempo dell’arcivescovato di Giacomo Puteo, nel 1559, la trattazione della causa giunge in terza istanza. Inizialmente pare che il nuovo arcivescovo, Antonio Puteo, sia intenzionato a dirimere le controversie. Nel 1571 egli rilascia una solenne dichiarazione con la quale conferma i privilegi e le esenzioni conferiti dai suoi predecessori a S. Nicola, comunicando inoltre di rinunciare alla causa pendente sin dal 1537 a Roma alla S. Ruota: Questa chiesa, il priore, il capitolo e il clero per nessun patto sono stati o sono sottoposti alla nostra chiesa ma da ogni giurisdizione essa ed essi sono esente ed esenti65.

Successivamente però egli muta indirizzo e decide di fare ricorso alla S. Congregazione del Concilio che nel 1579 proclama assolto dallo spergiuro l’arcivescovo di Bari, concedendogli di opporsi al Gran Priore a proposito di cinque punti controversi, quasi tutti lesivi dei diritti spirituali di S. Nicola. Nitti Di Vito nutre dubbi sulla correttezza delle procedure e delle motivazioni che portano alla sentenza del 1579 e riferisce quanto scritto in proposito dal priore di S. Nicola alla metà del Settecento: Real Santuario di S. Niccolò di Bari fin dal suo nascimento godé tutte le prerogative di Real Cappella, libera ed esente da qualunque Giurisdizione Ordinaria o delegata dell’arcivescovo di Bari, consacrata da Urbano II ed esentata da Pasquale secondo, Sommi Pontefici, come quella che appartiene pleno iure ai Serenissimi Sovrani di questo Regno e da essi fondata edificata e dotata, e per conseguenza il Priore della medesima, che come Luogotenente del Re fa le sue veci ed esercitar deve tutta l’Ordinaria Giurisdizione, ha le prerogative di Ordinario inviolabilmente osservate fino all’anno 1579 (…). Ma dopo il detto anno 1579, sia 63 Ivi, p. 121: “Eapropter dilecti in domino filii vestris iustis postulationibus grato concurrentes assensu omnes libertates et immunitates a predecessoribus nostris Romanis Pontificibus sive per privilegia vel alia indulta vobis et ecclesie vestre et illi annexis hactenus quomodolibet concessas necnon libertates et exemptiones secularium exactionum a Regibus et Principibus ac aliis christifidelibus vobis et dicte ecclesie ac illi annexis huiusmodi rationabiliter indultas sicut eas iuste et pacifice possidetis vobis et per vos ecclesie et annexis predictis auctoritate apostolica confirmamus (...)”. 64 Ivi, p. 122. 65 Ivi, p. 54, 122-123: “dictam ecclesiam, priorem Capitulum et Clerum nullo pacto nobis et nostre archiepiscopali ecclesie suppositam et suppositos fuisse aut esse, sed ab omni nostra iurisdictione esse exemptam et exemptos”.

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stato per la debolezza de’ Priori e per li maneggi degli Arcivescovi, che dopo il Concilio di Trento si resero onnipotenti, sia stato per la lontananza allora dei Sovrani da questo florido Regno, e per la connivenza o meticolosità del Capitolo e Clero di questo R. Santuario, li quali non sostennero, come dovevano, che li Decreti di Disciplina del S. Concilio di Trento non abbracciavano li Regii Patronati, si vide spogliata co’ decreti di Roma la Real Basilica, il Priore, il Capitolo e il Clero delli più speciosi diritti di esenzione che le appartengono, come a Cappella Regia, e per conseguenza V. R. M. che gode il supremo Diritto di Collazione e di Legislazione risente anche il massimo pregiudizio; e reca meraviglia e stupore a chiunque il considerare che le altre Reali Cappelle di questo florido Regno, anzi di questa medesima Provincia godano della totale dovuta esenzione, come Altamura, Canosa, Acquaviva ed altre; ed il celebre gran Santuario di Bari, che è la primogenita delle Reali Cappelle, sia stata ingiustamente privata delle sue antiche originarie prerogative, splendido pregevol dono de’ Sovrani, che ne furono l’illustri Fondatori, e che l’arricchirono di beni, di privilegi e di onori, fino a voler essere considerati come Canonici della medesima66.

Nel 1607 gli screzi fra il capitolo nicolaiano e l’arcivescovo Diego Caracciolo Rosso causano un incidente sulla delicata questione del patronato esercitato da san Nicola e da san Sabino, destinata a riproporsi negli anni a venire67. I rapporti vengono ulteriormente deteriorati dalle decisioni della Sacra Congregazione del Concilio, che nel 1609 vieta al priore di S. Nicola, Fabio Grisone, di effettuare le visite pastorali nella propria chiesa68. Una sentenza della S. Ruota Romana coram Verospio del 20 maggio 1613 non riconosce fondata l’esenzione del priore e del clero nicolaiano dall’autorità dell’arcivescovo. Ciò provoca il ricorso del priore al potere laico, che chiede e ottiene che sia rifiutato l’exequatur alla decisione rotale. Nel 1625, il rettore della diocesi di Bari, Ascanio Gesualdo, resosi conto che la decisione coram Verospio era rimasta inapplicata, concorda col priore di S. Nicola, Francesco Saluzzi, una convenzione transattiva che riconosce alcune prerogative al priore e al capitolo69. Nel 1630 sorge un’altra controversia a proposito del patronato cittadino poiché, nella lista dei protettori, il nome di san Nicola è stato posposto a quello di san Sabino. La questione viene risolta davanti al 66

Ivi, pp. 56-57. MELCHIORRE V. A., Da Bona Sforza ai gorni nostri, in San Nicola di Bari e la sua basilica, cit., pp. 174-209, in part. p. 179. 68 Ivi, p. 179. 69 Ibidem. 67

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regio tribunale che sentenzia che la precedenza spetta a san Nicola, la cui immagine appare nello stemma della città e il cui pastorale è raffigurato nell’emblema provinciale70. Fra il 1683 e il 1684, i contrasti scaturiscono dal provvedimento del priore Pallavicino di collocare nel coro di S. Nicola un seggio simile alla cattedra episcopale del duomo, atto che viene recepito come una pretesa da parte del priore di godere del prestigio e delle funzioni proprie dell’arcivescovo71. L’avvento del primo re delle Due Sicilie, Carlo III di Borbone, apporta dei benefici a S. Nicola, da lui visitata nel marzo del 1741. Su intercessione del sovrano, papa Benedetto XIV con bolle del 24 e 31 gennaio 1741 concede al priore l’uso della mitra, del pastorale e delle altre insegne pontificali, autorizzandolo ad impartire la benedizione solenne al popolo, entro la chiesa di S. Nicola72.

Grazie alla benevolenza del re e alle buone relazioni vigenti fra il priore di S. Nicola Carafa e l’arcivescovo Gaeta, si giunge a una fase distensiva dei rapporti tra i due cleri cittadini. Carafa rinuncia al trono installato dal Pallavicino, che viene soppiantato da un seggio più modesto dal dorsale acuminato73. Con bolla o costituzione del 6 luglio 1741, Benedetto XIV ratifica l’antichissima consuetudine esistente in Bari, secondo la quale la basilica di S. Nicola in campo spirituale dipende dal Cappellano Maggiore in carica al momento nel Regno Napoletano e non dall’Ordinario Locale74. Nel 1785 un motivo di lite è costituito dalla pubblicazione dei calendari liturgici curata dall’episcopio, dove la festa di san Sabino viene estesa a tutta la provincia mentre quella di san Nicola è ridotta a una comune festa della sola città di Bari. L’episodio si conclude con il riconoscimento di san Nicola come patrono principale della città75. Nell’occasione, il dotto canonico di S. Nicola, Niccolò Putignani, il 70

Ivi, pp. 180-182. Ivi, p. 189. 72 Ivi, p. 191. 73 Ibidem. 74 Bullarum diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum neapolitana editio taurinensis continuatio ac supplementum..., series secunda, V, Neapoli MDCCCLXXXV, pp. 75-83. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Ministero dell’Interno. D.G. Affari di Culto. Divisione Autorizzazione e tutela, b. 624. 75 MELCHIORRE, Da Bona Sforza ai giorni nostri, cit., p. 193. 71

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quale aveva già pubblicato diversi volumi su Nicola, nel 1788 redige uno studio sul patronato del santo. Nel 1793 la Sacra Congregazione dei Riti dichiara Sabino e Nicola patroni aeque principales di Bari76. In epoca napoleonica viene emanata la legge del 13 febbraio 1807 che sopprime tutti gli ordini benedettini77. In Terra di Bari la legge è applicata con estremo rigore e suscita vivaci rimostranze da parte del clero78. Con bolla del 22 dicembre 1835 Gregorio XVI conferma e amplia le disposizioni di Benedetto XIV. La situazione di fatto e di diritto così stabilita rimane inalterata fino al 1861 quando il Regno delle due Sicilie viene assorbito dal Regno Sabaudo79. La rivalità fra i due capitoli riguarda anche il rituale dell’accompagnamento dei morti al cimitero. L’episcopio contesta a S. Nicola l’esercizio di tale diritto ma i reali rescritti del 1844 e del 1846 riconoscono al capitolo nicolaiano la legittimità di adempiere al rito80. Dopo l’Unità d’Italia i canonici di S. Nicola, che si compiacevano di essere “regi cappellani e familiari del re”, sostituiscono nello stemma del capitolo la croce sabauda al giglio borbonico81. A causa della dicotomia esistente tra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio, il Cappellano Maggiore, fedele a Pio IX, si dimette e viene sostituito con Decreto Governativo da altro vescovo. Questi è minacciato di scomunica dal papa. Con Breve del 19 dicembre 1862, Pio IX decreta che le chiese palatine finora indipendenti dall’Ordinario, da quel momento in poi devono essere assoggettate al vescovo locale. Questo Breve non viene riconosciuto dal Governo Regio che continua a nominare i sacerdoti come in passato. La disposizione riguarda tutte le chiese o cappelle palatine ma è particolarmente diretta a regolamentare la basilica di S. Nicola di Bari “fondata dai duchi normanni e dotata nel 1304 da Carlo II d’Angiò”82. 76

Ibidem. Ivi, p. 195. 78 Cfr. ARCHIVIO DI STATO DI BARI, Intendenza, b. 3: Il ministro dell’Interno impose di proseguire l’opera con la “più esatta, regolare, e moderata esecuzione delle soppressione che restano a farsi”, poiché lo stesso re, Giuseppe Bonaparte, “con pena e con sorpresa del suo Real animo ha inteso di essersene l’esecuzione convertita in vessazione degl’individui, allontanandosi tanto dallo spirito del governo da cui dovea unicamente esser diretta”. 79 ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Ministero dell’Interno. D.G. Affari di Culto. Divisione Autorizzazione e tutela, b. 624. 80 MELCHIORRE, Da Bona Sforza ai giorni nostri, cit., p. 197. 81 Ivi, p. 198. 82 ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Ministero dell’Interno. D.G. Affari di Culto. Divisione Autorizzazione e tutela, b. 624. 77

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LA BASILICA E IL DUOMO

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Con le leggi eversive dei beni ecclesiastici del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867 il regio demanio impone l’incameramento dei beni della Chiesa. L’eccezionalità dei benefici e l’enorme consistenza del patrimonio delle basiliche palatine persuadono il clero delle medesime a contrastare in tribunale il demanio. La causa dura per anni. Una sentenza del 18 dicembre 1869 riconosce che

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la basilica di S. Nicola di Bari fosse una vera Chiesa Palatina per se stessa indipendente dall’ordinaria autorità ecclesiastica e che esclusivamente appartiene di pieno diritto a S. M. il Re83.

Non è pertanto soggetta alle leggi eversive. Il 3 febbraio del 1870 il Consiglio di Stato conferma la sentenza. Le chiese palatine di Puglia sono infine esentate da quelle leggi e riconosciute direttamente dipendenti dalla Casa Regnante. Di conseguenza la Corona avvia un’inchiesta sulla correttezza delle procedure amministrative delle basiliche palatine. Vengono riscontrate numerose irregolarità e inadempienze e viene nominata una Regia Delegazione, che avoca a sé la gestione e la cura amministrativa dei beni. Le controversie fra la basilica e il duomo riprendono vigore con la nomina, il 14 marzo del 1887, del nuovo arcivescovo di Bari, Ernesto Mazzella, con l’approvazione del Regio Decreto del 26 giugno 1887 e la concessione dell’exequatur sulla Bolla di Istituzione canonica di Pio IX. Nella lettera pastorale del 19 ottobre dello stesso anno il prelato afferma: siamo risoluti di rispettare i privilegi relativi all’amministrazione, collazione di benefici nella Reale Basilica di S. Nicola e sue dipendenze; ma è nostro dovere visitarla; giacché i privilegi non ledono la giurisdizione, che è nostra, come è sempre stata dei nostri antecessori84.

Il clero palatino protesta e ne nasce una controversia. Poiché analoghi contrasti erano sorti anche per altre chiese palatine, Monte Sant’Angelo, Acquaviva delle Fonti e Altamura, il Governo cerca di mediare e investe della questione un regio commissario. Vengono emanati diversi decreti. Intanto nel febbraio del 1890 il Gran Priore di S. Nicola è chiamato a Roma da Papa Leone XIII che gli impone di sottomettersi all’arcivescovo, pena la deposizione solenne. Nel maggio il Gran Priore si dimette, ma contemporaneamente il Governo sostiene 83 84

Idem. Idem.

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le ragioni del capitolo nicolaiano e si oppone alle pretese dell’arcivescovo. I dissidi non cessano perché interviene come protagonista la Congregazione del Concilio. La conflittualità esistente tra S. Sede e Regno d’Italia ha ripercussioni pure sulle vicende tra S. Nicola e la chiesa metropolitana. Questa viene costantemente favorita dalle Autorità Vaticane, la basilica invece non trova valido sostegno negli organi governativi del Regno, tendenzialmente anticlericali. Tutte le richieste presentate dal capitolo nicolaiano vengono bocciate da una sentenza della Sacra Congregazione del Concilio nel 1887. Con la bolla Inter preclara emanata nel 1890 da Leone XIII viene ribadita la subordinazione del Gran Priore di S. Nicola all’arcivescovo. In base a regio decreto del 9 maggio del 1890 il patrimonio della basilica è sequestrato e parte di esso è utilizzato nella costruzione della Reale Scuola d’Arti e Mestieri Umberto I85. Il 6 dicembre 1919, Papa Benedetto XV con un decreto della Sacra Congregazione Concistoriale stabilisce che la basilica sarà immediatamente soggetta alla S. Sede, e sarà esente dalla visita e dalla giurisdizione dell’Ordinario locale, per tutto ciò che riguarda l’interno ordinamento per il servizio del culto e per la sua amministrazione temporale86.

Con il concordato del 1929, lo Stato rinuncia ai privilegi delle chiese e cappelle palatine non più dipendenti dalla casa regnante e si pone termine a ogni controversia tra la basilica e il duomo. Si crea una commissione per dotare la chiesa delle necessarie risorse e il capitolo è privato di molte prerogative e dell’autonomia giurisdizionale. L’ultima riunione dei canonici si tiene il 1° maggio del 1951. La costituzione apostolica promulgata da Pio XII il 1 maggio dello stesso anno, concede in perpetuo honoris causa, il titolo di Gran Priore all’arcivescovo in carica di Bari. Il superiore della comunità religiosa riceve tutti i diritti, le principali riconoscenze e le facoltà proprie del Gran Priore. L’arcivescovo è autorizzato a pontificare solennemente in S. Nicola in occasione di una delle ricorrenze più rilevanti dell’anno, ad indire nella chiesa le riunioni e i convegni più importanti 85

MELCHIORRE, Da Bona Sforza ai giorni nostri, cit., p. 201. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Ministero dell’Interno, D.G. Affari di Culto. Divisione Autorizzazione e tutela, b. 626. 86

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della diocesi nonché ad assumere la presidenza del comitato delle feste patronali. Il 5 agosto il papa emana la costituzione apostolica Sacris in aedibus che assegna all’Ordine dei Padri Predicatori la cura della basilica e conferma la soggezione immediata del santuario alla Sede Apostolica, già introdotta dal decreto della Sacra Congregazione Concistoriale del 6 dicembre 191987. La bolla Basilicae Nicolaitanae, emessa l’11 febbraio 1968 da Paolo VI, dichiara S. Nicola direttamente soggetta alla Sede Apostolica, insieme al suo clero, e le riconosce lo stato di Basilica Pontificia. L’arcivescovo di Bari è preposto come delegato pontificio alla cura della basilica, il titolo di Gran Priore viene abolito e il superiore della comunità domenicana è appellato rettore della chiesa, come in passato88.

4. Le questioni giurisdizionali col duomo e i documenti Nella lunghissima controversia che oppose la basilica al duomo, i sostenitori di quest’ultimo fondarono le proprie ragioni su un materiale documentario che può essere distinto in due tipologie: i documenti pubblici (diplomi e bolle) e le “leggende” sacre ossia le translationes. Secondo Nitti Di Vito nel duomo era stata creata una “vera fucina di documenti falsi”, sia per sostenere i diritti sulla basilica sia per accampare altri tipi di privilegi, talvolta inerenti a temi di natura economica e temporale. Generalmente le contraffazioni del duomo non sono costituite da documentazione creata integralmente ex novo ma da manomissioni di documenti autentici mediante l’aggiunta o l’alterazione di parole89. Nitti Di Vito ha dedicato ampio spazio nelle sue opere all’analisi delle Translationes. Innanzitutto egli distingue fra la narrazione dell’evento religioso, da ritenersi autentico, e le parti del racconto che invece sono riferibili a interessi di parte e che a suo dire risulterebbero false. In questa categoria egli inserisce la “leggenda” del prete Gregorio, compilata nell’892 ed edita per la prima volta nel 1834, sulla traslazione dell’immagine di Maria SS. di Costantinopoli nella

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MELCHIORRE, Da Bona Sforza ai giorni nostri, cit., pp. 202-203. Ibidem. NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 61 ss.

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cattedrale di Bari, e la “leggenda” dell’arcidiacono Giovanni sulla traslazione di san Nicola da Myra a Bari90. Per quanto riguarda quest’ultima, egli sostiene che il testo pubblicato da Surio non sia il resoconto autentico di Giovanni ma una manomissione del vero testo dell’arcidiacono operata da un falsario allo scopo di sostenere le pretese giurisdizionali dell’arcivescovato. Il suo ragionamento si basa sul fatto che, nella stampa di Surio, Giovanni afferma che la corte ove sorse la basilica era di proprietà dell’arcivescovo. Il riferimento alla pertinenza arcivescovile del terreno, elemento di importanza capitale nella diatriba, è invece assente nell’epitome della Translatio di Giovanni realizzata da Orderico Vitale nella sua Storia Ecclesiastica intorno al 1140. Secondo Nitti di Vito è impossibile pensare che Orderico abbia omesso di riferire un particolare di così grande rilevanza. Egli conclude perciò che il testo di Giovanni pubblicato da Surio doveva aver subito interpolazioni e rimaneggiamenti utili per asseverare le rivendicazioni dell’episcopio nei confronti della basilica nicolaiana.91 Nella serie dei documenti favorevoli al duomo rientrano quattro diplomi che attesterebbero la sua giurisdizione originaria sulla basilica. Si tratta di quattro esemplari emanati rispettivamente da Roberto il Guiscardo nel 1084, dal duca Ruggero Borsa nel 1087, dalla duchessa Costanza nel 1117 e da Federico II nel 1243. Non conviene attardarsi molto sul diploma del Guiscardo del 1084 che comproverebbe il diritto giurisdizionale nativo dell’arcivescovado sulla basilica grazie alla donazione del locus edificatorio in tempi addirittura anteriori alla traslazione. Del diploma infatti pare che non esista l’originale e che esso sia stato desunto da un processo del XVIII secolo92. Di fondamentale importanza è invece il famoso diploma del 1087 con cui Ruggero Borsa dona all’arcivescovo Ursone la corte del catepano, con il diritto di costruirvi la chiesa in onore di san Nicola. La donazione riguarda anche terreni posti nella località Canale, la chiesa di S. Angelo in monte Ioannacii e la potestà sugli Ebrei e sulla Giudecca. Vi si ribadiscono inoltre alcune concessioni già rilasciate dal Guiscardo relativamente a Bitritto, a Cassano e ad alcune decime. 90 Ivi, p. 62. Sull’immagine di Maria SS. di Costantinopoli cfr. Icone di Puglia e Basilicata dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Bari 1988), a cura di BELLI D’ELIA P., Milano 1988. 91 NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 65-67. 92 Ivi, pp. 70-76.

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Il documento, vergato in scrittura minuscola, è ritenuto da Nitti Di Vito paleograficamente falso e infondato sul piano storico93. Su tale opinione, largamente condivisa dalla critica, sono state fondate le tesi dominanti, nonostante Ménager abbia più di recente giudicato lo stesso atto injustement suspecté 94. Con un documento emesso nel 1117 la duchessa Costanza, moglie di Boemondo principe di Antiochia, in nome del figlio minorenne Boemondo, dà seguito alle richieste dell’arcivescovo Riso, rinnovandogli la donazione di Ruggero Borsa del 1087: Pertanto dichiaro che in passato il duca Ruggero fratello del signore Boemondo mio marito, che prima di lui aveva signoreggiato Bari, fece uno scritto a Ursone venerabile arcivescovo barese. Nel quale offrì a lui e ai suoi successori la corte del catepano con tutte le pertinenze e gli edifici ivi costruiti o da costruire. Pertanto in riverenza del beato Nicola, la cui chiesa è stata poi lì costruita, e per le tue preghiere, signor Riso arcivescovo barese, al posto del mio carissimo figlio Boemondo con la presente lettera lodo e confermo lo scritto di mio cognato il duca Ruggero95.

Con un atto del 1243 l’imperatore Federico II, in segno di gratitudine nei confronti dell’arcivescovo Marino Filangieri, dichiara che i privilegi elargiti al priore e al capitolo di S. Nicola non debbono essere intesi come deroga ai diritti parrocchiali del duomo e alla soggezione della basilica all’arcivescovo: A causa di ciò quando noi negli scorsi anni concedemmo alcuni privilegi al venerabile priore e alla chiesa di S. Nicola di Bari, che da noi è stata riconosciuta nostra cappella, da noi costruita e fu posta sotto la protezione speciale dei re di Sicilia, ciò è stato fatto dato che gli stessi priori e i chierici di nuovo fecero molti attacchi contro i diritti parrocchiali e la dovuta soggezione che la chiesa barese fin dall’antichità si riconosce che sempre ebbe sotto i duchi di Puglia e i re di Sicilia. Noi dunque rispettosi della norma della giustizia ecclesiastica e volendo conservare gli antichi diritti e consuetudini ecclesiastiche e rispettare inoltre i mol-

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Ivi, pp. 76-84. Codice diplomatico barese, I, cit., n. 32, p. 59. MÉNAGER, Recueil des actes des Ducs Normands, cit., p. 216. 95 Ivi, pp. 85-87; Codice diplomatico barese, V, cit., n. 64, p. 111: “Declaro itaque quod preteritis temporibus Rogerius dux frater domini Boamundi viri mei qui ante eum Barum tenuerat; Urso venerabili archiepiscopo barino; scriptum fecit. In quo ei et successoribus suis omnibus et ecclesie archiepiscopali; curtem catepani cum omnibus pertinentiis suis et edificiis ibi constructis vel construendis obtulit. Igitur pro reverentia beati Nicolai cuius ecclesia ibi postea constructa est; et propter preces tuas domine Riso archiepiscope barensis; vice carissimi filii mei Boamundi; scriptum cognati mei Rogerii ducis; presentibus litteris laudo et confirmo (...)”. 94

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tissimi e continui servizi e la lodevole devozione del venerabile arcivescovo barese e canosino ed egregio maestro del sacro ospizio Germanico, nostro carissimo e fedele familiare, che fedelmente e lodevolmente non abbandonandoci alle nostre tentazioni in ogni luogo e dimorando con noi in Germania con pericolo della sua persona, subì molti danni e ingenti spese, seguendo i lodevoli esempi di Doferio, Berardo e Andrea, arcivescovi baresi suoi predecessori, espressamente dichiariamo che a quei priore e chierici furono concessi privilegi senza che nulla fosse cambiato, diminuito o sottratto ai diritti parrocchiali e alla dovuta soggezione che compete alla chiesa arcivescovile di Bari e all’arcivescovo di Bari in quanto abate di S. Nicola secondo la prescrizione di re Ruggero per consenso dei baresi giustamente si deve in quella chiesa di S. Nicola, riservando a noi soltanto il diritto di speciale protezione e della nostra cappella, la provvidenza del priorato e tutte le ragioni dei redditi nelle quali cose è certo che gli arcivescovi non abbiano avuto alcun diritto o canone96.

Secondo Nitti Di Vito l’originale del documento non esiste ma ciascun capitolo nel proprio archivio ne conserva copie autenticate risalenti al XVIII secolo. Egli lo ritiene un falso rimaneggiato nella seconda metà del Settecento perché viaggiasse alla fine del secolo in compagnia de’ falsi diplomi di Roberto del 1084, di Ruggiero del 1087 e di Costanza del 1117, a sostenere le pretese giurisdizionali del Duomo contro la basilica di S. Nicola nel clamoroso processo dell’arcivescovo Guevara (…), dopo esser tutti serviti nel 1788 a promuovere dalla R. Camera di S. Chiara la sentenza di Regio Patronato in favore della Cattedrale barese97.

96

NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., pp. 88-92: “Inde est quod cum nos preteritis annis nonnulla privilegia concesserimus venerabili Priori et clericis Ecclesie Sancti Nicolai de Baro, que a nobis nostra Capella facta est, et sub Regum Sicilie speciali protectione fuit, idcirco factum est ut iidem Prior et clerici multa de novo attemptaverint contra iura parrocchialia, et debite subiectionis, que Ecclesia Barensis antiquitus semper in ea habuisse dignoscitur sub Ducibus Apulie, et Regibus Sicile. Nos igitur attendentes Ecclesiastice iustitie normam, et antiqua iura et consuetudines ecclesiasticas in omnibus servari volentes et attendentes preterea plurima et continua servitia et devotionem laudabilem Marini Venerabilis Archiepiscopi Barensis et Canusini et egregii sacri hospitii Theotonici magistri, dilecti familiaris et fidelis nostri carissimi, qui fideliter et laudabiliter nos in temptationibus nostris in omnibus locis non deserens et nobiscum in Theotonia morans sub persone sue pericolo, damna multa et magnas expensas sustinuit, Doferii, Berardi, et Andree antecessorum suorum Barensium Archiepiscoporum laudabilia exempla sectando declaramus expresse privilegiis illis Priori et clericis dicte Ecclesie Sancti Nicolai de Baro concessis nihil fuisse et esse derogatum, imminutum vel sublatum iuribus Parochialibus, et congrue subiectioni, que Archiepiscopali Ecclesie Barensi competunt et Archiepiscopo Barensi tanquam Abbati Sancti Nicolai secundum Rogerii Regis preceptum ex Barensium consensu iuste debentur in eadem ecclesia sancti Nicolai, reservantes Tantum nobis iure protectionis specialis, et Capelle nostre, Prioratus providentiam et reddituum omnes rationes quibus in rebus nullum ius vel canonem Archiepiscopos Barenses habuisse certum est”; Codice diplomatico barese, VI, cit., n. 80, p. 121. 97 NITTI DI VITO, Le questioni giurisdizionali, cit., p. 92.

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CONCLUSIONI

Probabilmente nelle vicende che determinarono la scelta del luogo e le modalità dell’intervento, il ruolo dei Normanni e della Sede di Roma fu più determinante di quanto finora ritenuto. Vittore III morì nel settembre del 1087, pochi mesi dopo il trasferimento delle ossa di san Nicola a Bari. Guiscardo era deceduto nel 1085 e Bari, rimasta ostile ai nuovi Signori, non era diventata un centro politico normanno. I suoi figli, i fratellastri Boemondo e Ruggero, o perché impegnati nella contesa dell’eredità paterna e in imprese guerresche su vari fronti, o perché non all’altezza dello scaltro genitore, si lasciarono forse sfuggire l’opportunità di legare il proprio nome a un monumento rappresentativo privo di iscrizioni dedicatorie. È per questi motivi che il merito del trafugamento del corpo di san Nicola fu attribuito ai cittadini baresi così come la costruzione della basilica fu assegnata all’abate Elia? Le ragioni di questo disinteresse possono forse essere ricondotte alla situazione descritta da Paolo Delogu: Il regno nacque su trasformazioni radicali avvenute nei decenni che corsero tra la morte dei grandi principi (1078 Riccardo di Capua; 1085 Roberto Guiscardo; 1101 Ruggero I) e l’assunzione del potere da parte di Ruggero II nel 1127. Quel periodo fu caratterizzato dal venir meno delle grandi personalità catalizzatrici dell’attività e dell’attenzione politica, dalla crisi dei principati col restringersi dell’autorità dei successori e il risorgere ad intraprendenza politica di signori, famiglie e città già sottomessi. È difficile trovare un filo conduttore in quel periodo e perciò esso è frequentemente accantonato come passaggio oscuro verso Ruggero II, con cui si ritrova il protagonista e la direzione degli eventi. Pure durante quei decenni, forse proprio a causa dell’arresto della conquista e della crisi delle personalità d’eccezione, si consolidò un fenomeno singolare e fondamentale: la denormanizzazione del potere; la rinuncia alla connotazione straniera da parte dei discendenti dei conquistatori. La stessa vicenda biologica andava in quel senso: i Normanni della terza

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generazione erano nati in Italia e molti da donne locali. La pratica dei matrimoni misti era stata subito perseguita dagli stessi capi come mezzo di inserimento nella società meridionale, a consolidamento della nuda supremazia militare, ed ebbe come conseguenza l’avvicinamento dei Normanni alle realtà locali, il loro inserimento negli orizzonti tradizionali. Alla fine del secolo questo fu l’atteggiamento comune di piccoli e grandi signori. (…) Senza rinunziare al primato che traeva origine dalla conquista, (…) essi ebbero sempre meno bisogno di risalire alle origini per giustificare il loro ruolo. Così se Goffredo Malaterra distingueva ancora tra i “suoi” Normanni e la “perfidissima” stirpe dei Longobardi, doveva anche registrare il nuovo orientamento perfino nel duca Ruggero Borsa, figlio di Roberto Guiscardo e di una principessa longobarda, che attribuiva comandi militari a Longobardi e Normanni, contando sulla fedeltà di entrambi in grazia della sua doppia origine. Alla fine del secolo gli stessi Altavilla cercavano titolo al potere più nella tradizione familiare che nell’origine etnica98.

La documentazione a disposizione, le risultanze archeologiche e la conoscenza del monumento non permettono di dare risposte esaurienti. Possiamo solamente porre interrogativi e fare congetture per individuare nuovi filoni di ricerche. Come giustamente osserva Vera von Falkenhausen occorre stabilire quanta parte dell’edificio fosse effettivamente in piedi alla fine dell’XI secolo e quanto invece non sia stato costruito più tardi con i proventi delle Crociate99. Il terreno scelto si prestava bene alla costruzione del santuario. Intanto l’area catepanale era espressione del vecchio potere bizantino e innalzarvi un tempio in onore di un santo caro ai cristiani poteva assumere valore di testimonianza. In questo senso si agiva nel solco di un’illustre tradizione che rimandava agli esempi di papa Gregorio Magno e dell’imperatore Carlo Magno i quali, mediante la reposizione di sacre spoglie, avevano voluto imprimere una connotazione cristiana a luoghi precedentemente destinati ad altri culti. La collocazione in prossimità del mare era inoltre vantaggiosa sotto diversi aspetti. L’amenità del luogo era molto gradita alle stirpi nordiche. Non a caso molte chiese pugliesi di età normanna sorgono in zone prospicienti la riva marina (Trani, Barletta, ecc.). Il fatto poi che l’edificio fosse immediatamente percepibile dal mare era un 98

DELOGU, I Normanni in Italia, cit., pp. 21-22. Devo questa e altre riflessioni a una conversazione con la Professoressa Vera von Falkenhausen, alla quale esprimo la mia più profonda gratitudine, che mi ha indotto a rivedere alcune considerazioni espresse in una precedente stesura del testo. 99

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elemento importante per una città portuale e per la venerazione che i marinai nutrivano per il patrono. Plausibilmente la decisione di porre le reliquie nella nuova chiesa piuttosto che nella cattedrale fu dettata da motivi programmatici e non fu l’esito di situazioni contingenti, come vorrebbe una inadeguata valutazione delle fonti. Per attenersi ai fatti, occorre ragionare sui pochi dati certi attualmente a disposizione: la traslazione avvenne dopo la conquista della città da parte dei Normanni, esiste un documento che stabilisce che il duca normanno concesse il terreno statale/ex catepanale all’arcivescovo affinché vi fosse innalzata la chiesa in onore del santo, sussiste un testo della Translatio sancti Nicolai redatto dall’arcidiacono Giovanni che è riferibile alla fine dell’XI secolo. Questo è quanto possediamo per la fase contestuale alla traslazione e alla fondazione. Altre sono le questioni relative alle fasi successive dell’edificio e della sua storia. A mio parere la vicenda andò nel modo seguente. All’epoca in cui venne fondata la chiesa di S. Nicola, lo scenario era tale che v’era alleanza tra il papa benedettino, i Normanni e l’arcivescovo Ursone, fra i quali vigevano rapporti di amicizia personali e d’interessi politico-militari. Con l’accordo di tutte le parti, sul terreno messo a disposizione dai duchi normanni, si intraprese la costruzione di un edificio che avrebbe dovuto funzionare come monastero benedettino, in sostituzione o a potenziamento del vecchio cenobio di S. Benedetto. Ciò è coerente con il documento del 1087 con il quale il duca Ruggero Borsa dona il locus su cui verrà edificato il complesso architettonico e non contraddice il testo, sempre che sia autentico, del patto del 1059 con il quale Guiscardo giurava fedeltà a papa Niccolò II, assicurando che avrebbe rimesso nella sua potestà tutte le chiese esistenti nel suo dominio. Abbiamo poi una Translatio, quella di Giovanni, che verosimilmente era utilizzata a scopo commemorativo durante la liturgia festiva. Chi vuole è libero di credere quanto viene narrato nel testo e cioè che la traslazione di san Nicola da Myra a Bari fu un atto provvidenziale compiuto da un drappello di arditi marinai. Altri, come chi scrive, sono liberi di pensare che il testo poteva essere fittizio e che l’evocazione dell’impresa, che seguiva un genere letterario consolidato, era stata congegnata per far presa sui fedeli e stimolarne la devozione. L’evento fu, comunque, predisposto da uomini che la sapevano lunga in fatto d’arte, di politica e di religione.

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Fin qui tutto fila liscio. Nella fase delle origini non v’era rivalità con la vicina cattedrale. L’armonia resse fino a quando fu in vita Elia (1105), che oltre a essere abate del complesso nicolaiano, nel 1089 era divenuto anche arcivescovo. Nel 1091 egli fu il fortunato artefice dell’Inventio di san Sabino nella cattedrale. I problemi sorsero in un secondo momento. Il clima di concordia del periodo iniziale si ruppe e i rapporti tra i due capitoli si fecero tesi e all’insegna della rivalità reciproca. Mutamenti significativi si registrano già con il successore di Elia, l’abate Eustasio, benedettino proveniente dal monastero di Ognissanti di Cuti. Egli non ricoprì la carica arcivescovile che nel 1112 fu assegnata a Riso. Inoltre nel novembre del 1105, pochi mesi dopo il suo insediamento avvenuto nel giugno dello stesso anno, Eustasio, forte dell’appoggio di Boemondo, riuscì a ottenere da papa Pasquale II la bolla che sanciva l’esenzione di S. Nicola dalla giurisdizione episcopale. Provo a immaginare le ragioni che possono aver concorso a determinare questo stato di cose. Nella fase della concordia erano tutti favorevoli all’erezione di un complesso monasteriale di quella mole e quella retorica in un’area a ridosso della cattedrale, in onore di un santo assai venerato. Poi la scomparsa delle personalità fondatrici, Ursone, Elia, Vittore III, deve aver giocato un ruolo decisivo nel processo di irrigidimento dei rapporti. Il prestigio di S. Nicola era destinato a crescere insieme al suo potere di attrazione di fedeli, pellegrini, lasciti e donazioni. Gli interessi in gioco erano di notevole entità e l’abate/ priore di S. Nicola disponeva di un immenso patrimonio. Tutto ciò poteva suscitare invidie e gelosie da parte di chi era responsabile della guida, non solo spirituale, dei fedeli. D’altro canto l’arcivescovo poteva sempre appellarsi al documento di Ruggero Borsa del 1087 in cui si dichiarava che la proprietà del terreno donato dal duca spettava all’episcopio. Forse a questo punto ai sostenitori della basilica parve opportuno mettere in circolazione voci infamanti e ragionamenti contorti: il documento del duca Ruggero è un falso ed esiste una Translatio, quella di Niceforo, che riferisce cose atroci, un vescovo che vuole rubare le reliquie, cittadini armati che difendono il sacro bottino, cittadini inferociti che si uccidono a vicenda. Infine si costruisce una basilica che in sostanza è il frutto di un tira e molla. Tra i tanti litiganti vince il più prepotente: il vescovo è scalzato via e il popolo esulta, la basilica verrà innalzata nella corte statale detta del catepano. Non ho preclusioni a ritenere plausibile che Desiderio/Vittore III, i Benedettini e i Normanni si fecero interpreti a Bari di una istanza

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che era largamente diffusa. Quello che invece mi pare opinabile è che un evento di tale portata sia scaturito dall’iniziativa di un gruppo di marinai, inoltratisi verso Levante allo scopo di commercio e tornati in patria carichi di onore e ambite reliquie. Probabilmente il popolo venne coinvolto nell’impresa ma propendo a credere che la guida fosse impartita dai capi. Mediante l’acquisizione delle spoglie di Nicola, le gerarchie religiose e politiche si mostrarono lungimiranti nell’ufficializzare il culto di un santo che godeva di ampia venerazione universale. Gli alti ranghi ratificavano un culto già largamente diffuso tra i fedeli. La decisione veniva attuata dall’alto ma rendeva legittimo ciò che era sentire comune e ciò che era stato già espresso dalla pietà popolare. La presenza a Bari delle ossa di un santo ovunque adorato poteva costituire un incentivo al rinvigorimento della Chiesa latina nel Mezzogiorno e rappresentare un ponte verso le civiltà d’Oltremare. San Nicola, il cui culto aveva radici orientali, ma era già oggetto di rilevante ossequio in Europa prima dell’avvento delle sue reliquie, venne guadagnato alla causa della Chiesa occidentale. Egli poteva accomunare ceti cittadini fatti di mercanti, marinai, signori normanni, Chiesa di Roma e monaci di Montecassino. Presupposto ne erano la notorietà e la devozione universali100. Chi fu il mentore di questa operazione posta ai confini tra estetica, teologia e politica? La presenza di sacri resti conferiva significato ai monumenti che venivano concepiti come strumenti di esaltazione degli aspetti fondamentali della cultura del tempo. Desiderio ne aveva le credenziali. Oltre a essere una delle menti più illuminate fra gli uomini di chiesa del tempo ed essere dotato di grande abilità, rivestiva la carica di supervisore dei monasteri del Mezzogiorno. È mia intima convinzione che la consapevolezza dei vantaggi derivanti dalla traslazione di san Nicola sia maturata contestualmente alla decisione presa da Vittore III, durante lo svolgimento del Concilio di Capua, di onorare il mandato papale. È fin troppo allettante, seppur indimostrabile, immaginare che il momento propizio si sia presentato durante i colloqui privati intercorsi fra Vittore III e Ruggero Borsa, quando vennero riallacciati i rapporti tra le parti al termine di un lungo periodo di freddezza. Dopo l’incontro di Capua e il ristabilimento dei

100 Cfr. VILLANI M., Il contributo dell’onomastica e della toponomastica alla storia delle devozioni, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno Medievale, a cura di VITOLO G., Napoli 1999, pp. 249-266, in part. p. 256.

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contatti coi Normanni, Vittore III, col consenso del duca di Puglia, poté forse dar corso al “piano”. Certo non esiste documentazione al riguardo, sebbene occorra tenere presente che non possediamo il carteggio di Desiderio e disponiamo di esigue attestazioni di quanto avvenne nell’Italia del sud e a Montecassino nel decennio critico del 1080101. E certo non si può stabilire una connessione casuale solo sulla base di riscontri cronologici. Tuttavia essi sono numerosi e apparentemente significativi. Stando alle fonti, il corpo del santo fu prelevato da Myra il 20 aprile del 1087 e giunse a Bari il 9 maggio dello stesso anno. La realizzazione dell’impresa avvenne quindi nell’arco di tempo intercorso tra i colloqui di Desiderio e Ruggero al Concilio di Capua (marzo 1087) e la consacrazione di Desiderio al papato (9 maggio 1087). Vi sono anche altre coincidenze relative a movimenti e a scambi nelle gerarchie ecclesiastiche che lasciano la possibilità di intravedere l’esistenza di una linea politico-ecclesiastica affatto casuale. Curiosa appare la circostanza della nomina alla guida del monastero di S. Benedetto di Elia – lo stesso personaggio che poi sarà il custode delle reliquie di san Nicola, il “costruttore” della basilica, il suo primo abate e un reverendo arcivescovo – che avvenne pochi giorni prima della presa di Bari da parte del Guiscardo. Il trasferimento del santo a Bari rientrava in una fase storica segnata dall’avvento dei Normanni e dalla riorganizzazione della Chiesa di Roma nel Meridione italiano. Il Loud smussa le tesi di Cowdrey sulla figura di Desiderio/Vittore III e riporta in auge la questione del particolarismo del personaggio che avrebbe agito per tutelare gli interessi del proprio monastero piuttosto che sposare le grandi problematiche della Chiesa102. Ai fini del mio studio, il giudizio morale o moralistico sull’operato di Desiderio è tutto sommato irrilevante. Spetterà ad altri trarre conclusioni in merito. La mia teoria non è fondata su nuovi documenti ma su una rilettura delle fonti. Talvolta il compito dello studioso è anche quello di interpretare la documentazione esistente, evidenziare collegamenti e istituire connessioni. Questo punto investe anche la questione della committenza. Chi poteva essere il committente di un tempio tanto prestigioso e preten-

101

COWDREY, L’abate Desiderio e lo splendore di Montecassino, cit., pp. 7, 245. LOUD G. A., Church and Society in the Norman Principality of Capua, 1058-1197, Oxford 1985, pp. 81-85. 102

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zioso? Non vi sono documenti al riguardo. La costruzione dell’edificio da parte dell’abate Elia con il supporto del popolo facinoroso e ostile all’arcivescovo è un’ipotesi basata sulla Translatio di Niceforo. I propugnatori della tesi tradizionale non hanno però chiarito le questioni utili a comprendere il significato della basilica nicolaiana. Esiste totale confusione in merito ai committenti e alla destinazione dell’edificio che, sulla base di Niceforo, viene presentato come il frutto più o meno casuale dell’audacia cittadina e delle lotte tra i baresi, i traslatori e l’arcivescovo. Volendo giustamente accogliere il benedettino Elia nel circolo dei promotori, credo che occorra individuare anche qualche altro patrono di rango più elevato. Un’impresa di simili proporzioni potrebbe essere riconducibile alla cerchia dei Normanni, dei Benedettini e forse dello stesso papa. Altro punto da me sostenuto riguarda il proposito di destinare il complesso nicolaiano a un nuovo grande monastero benedettino urbano che accomunasse tutte le parti (Desiderio/Vittore III, i suoi Benedettini, i feudatari Normanni) e che agisse come cellula per la propagazione nel Mezzogiorno degli ideali della Chiesa riformata. La tesi di Mabillon è stata rifiutata dagli storici afferenti al capitolo nicolaiano ed è stata trascurata dalla critica moderna che tace al riguardo103. Ancorché si intenda respingere tale supposizione, si stima doverosa la discussione. Fu dunque, come vuole l’opinione corrente, un accordo dei traslatori con il benedettino Elia in vista di obiettivi locali, cittadini ossia lo scavalcamento del potere dell’arcivescovo e la costruzione di un polo alternativo all’episcopio? Come ho cercato di dimostrare, credo invece che dietro al trasferimento del santo a Bari e all’erezione di un santuario in suo onore vi fosse una progettualità diversa, che rispondeva alle esigenze dei Normanni e della Chiesa di Roma. Appare improbabile ritenere la traslazione di san Nicola il frutto di una spedizione, più o meno improvvisata, messa a punto da ardite frange cittadine. Più probabilmente fu l’esito di una pianificazione complessa, elaborata dalle élites politiche e religiose al fine di dare nuove basi alla diocesi di Bari, avamposto dei Normanni nonché del papato riformatore nelle terre di recente sottratte all’autorità di Bisanzio. Essa non fu la risposta alla crisi che si andava materializzando nel momento in cui la città 103 Cfr. Monasticon Italiae, cit., pp. 31-36; HOUBEN, I benedettini in città: il caso di Bari (sec. X-XIII), cit.

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perdeva il suo ruolo di capitale del catepanato d’Italia. Al contrario fu un’azione premeditata che si poneva all’inizio di una nuova fase storica segnata dall’avvento dei Normanni e dalla riorganizzazione della Chiesa di Roma. I nuovi assetti istituzionali riconfermarono l’importanza strategica di Bari, prima grande città del sud a cadere sotto l’egida del Guiscardo. Oltre ad avere un ruolo rappresentativo, in quanto ex capitale dei Bizantini in Italia, essa assumeva rilevanza in relazione alla conquista della Sicilia104, alle comunicazioni con la sponda orientale dell’Adriatico e alle azioni offensive contro Bisanzio. In continuità con il suo passato di capitale dell’emirato arabo, del thema di Longobardia e del catepanato d’Italia, a Bari fu assegnata una posizione di primo piano nell’economia dei nuovi domini. Gli eventi impedirono poi a Bari di diventare una città normanna a tutti gli effetti. Ma questa è un’altra storia. A mio parere, la traslazione di san Nicola possiede caratteristiche comuni ad altre operazioni messe a segno nella seconda metà dell’XI secolo in alcune città da poco confluite nell’orbita normanna. Sembra rientrare in un tipo di prassi espressa, già negli anni Sessanta/Ottanta di quel secolo, in diversi centri dell’Italia meridionale. Se si prescinde dall’esame dei particolari contingenti, si noterà che medesimo è il contesto storico in cui assumono significato le opere d’arte, e medesima è l’ideologia che anima la committenza: promuovere monumenti a esaltazione del culto dei santi.

104 LUPO PROTOSPATA, Breve Chronicon, cit., p. 44, traduz. in CIOFFARI, LUPOLI TATEO, Antiche cronache, cit., p. 147: “Anno 1069. mense Septembris prædictus Dux obsedit Barum (…). Anno 1071. (…) fecit fieri pontem in mari, quantus concluderet portum prædictum urbis Bari. (…) 15. die. Aprilis cepit Robertus Dux civitatem Bari, & mense Julii Dux prædictus transmeavit Adriatici maris pelagum, perrexitque Siciliam cum 58. navibus. Anno 1072. mense Junii die 10. intravit Robertus Dux Panhormum in Sicilia”. (Anno 1069. A settembre il predetto duca assediò Bari (…). Anno 1071 (…) fece costruire un ponte sul mare, tanto grande da chiudere il porto della città di Bari. (…) Il 15 aprile il duca Roberto prese la città di Bari e a luglio passò il mare Adriatico e con 58 navi raggiunse la Sicilia. Anno 1072 10 giugno: il duca Roberto entrò a Palermo).

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BIBLIOGRAFIA

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ILLUSTRAZIONI

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Mappa approssimativa di Bari intorno alla metà del secolo XI, con la localizzazione della Corte del catepano, dell’Episcopio di S. Maria e del monastero di S. Benedetto. Fonte: da Musca, L’espansione urbana di Bari nel secolo XI.

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Cittadella Nicolaiana, Soprintendenza di Bari.

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Grafico degli scavi archeologici eseguiti nella Cittadella Nicolaiana. Fonte: da Cittadella Nicolaiana.

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Scavo archeologico eseguito nella Cittadella Nicolaiana. Fonte: da Archeologia medievale a Bari.

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S. Nicola, pianta, Soprintendenza di Bari.

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S. Nicola, facciata occidentale.

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S. Nicola, prospetto laterale.

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S. Nicola, abside.

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S. Nicola, cripta e tomba del santo.

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S. Nicola, tomba del santo.

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S. Nicola, cattedra dell’abate Elia.

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Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg.lat.477, f. 29r, Translatio sancti Nicolai dell’arcidiacono Giovanni.

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Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg.lat.477, f. 38v, Translatio sancti Nicolai dell’arcidiacono Giovanni.

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Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat.lat.6074, f. 5v, Translatio sancti Nicolai di Niceforo (recensione vaticana).

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Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat.lat.6074, f. 9v, Translatio sancti Nicolai di Niceforo (recensione vaticana).

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Biblioteca Capitolare di Benevento, Benevento 1, f. 251r, Translatio sancti Nicolai di Niceforo (recensione beneventana).

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Nuovo Medioevo

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Collana diretta da Massimo Oldoni

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J. Heers, Il clan familiare nel Medioevo P. Delogu, Mito di una città meridionale: Salerno (secc. VIII-XI) V. D’Alessandro, Storiografia e politica nell’Italia normanna Libro de los Engaños..., ed. a c. di E. Vuolo D. Knowles, Thomas Becket Vita e pensiero nell’alto Medioevo, a c. di R. Hoyt M. Oldoni, Gerberto e il suo fantasma. Tecniche della fantasia e della letteratura nel Medioevo B. Smalley, Storici nel Medioevo Virgilio Marone Grammatico, Epitomi ed Epistole, ed. a c. di G. PolaraL. Caruso C. Morris, La scoperta dell’Individuo (1050-1200) M. Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo A. P. Kazhdan, La produzione intellettuale a Bisanzio G. S. Kirk, Il mito. Significato e funzioni nella cultura antica e nelle culture altre G. Vinay, Alto Medioevo latino. Conversazioni e no A. Ducellier, Il dramma di Bisanzio V. Moleta, Guittone cortese J. J. Murphy, La retorica nel Medioevo C. Erickson, La visione del Medioevo. Saggi su storia e percezione V. Hyatt-J. W. Charles, Il Libro dei demoni G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia S. Peloso, Medioevo nel sertaõ M. Angold, L’impero bizantino (1025-1204) A. A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana (secoli X-XIII) A. M. Chiavacci Leonardi, ‘La guerra de la pietate’. Saggio per una interpretazione dell’Inferno di Dante G. de Francovich, Persia, Siria, Bisanzio e il Medioevo artistico europeo I. Pagani, La teoria linguistica di Dante A. Leone, Profili economici della Campania aragonese M. Tangheroni, La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo P. Brezzi, Paesaggi urbani e spirituali dell’uomo medievale U. R. Blumenthal, La lotta per le investiture G. d’Onofrio, «Fons Scientiae». La dialettica nell’Occidente tardo-antico H. Houben, Medioevo monastico meridionale W. Berschin, Medioevo greco-latino B. Bolton, Lo spirito di riforma nel Medioevo A. Cortonesi, Terre e signori nel Lazio medievale E. Massa, L’eremo, la Bibbia e il Medioevo G. Meloni-A. Dessì Fulgheri, Mondo rurale e Sardegna del XII secolo E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani tra Otto- e Novecento P. Corrao, Governare un regno. Potere, società e istituzioni in Sicilia fra Trecento e Quattrocento

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Mistiche e devote nell’Italia tardomedievale, a c. di D. Bornstein-R. Rusconi M. Reuter, Metodi illustrativi nel Medioevo, a c. di P. Guerrini G. Fornasari, Medioevo riformato del secolo XI. Pier Damiani e Gregorio VII L. De Anna, Il mito del Nord. Tradizioni classiche e medievali G. Tabacco, Spiritualità e cultura nel Medioevo R. Bordone, Lo specchio di Shalott Filippo da Novara, Guerra di Federico II in Oriente (1223-1242), ed. a c. di S. Melani R. Bonfil, Tra due mondi. Cultura ebraica e cultura cristiana nel Medioevo D. von der Nahmer, Agiografia altomedievale e uso della Bibbia J. Heers, L’esilio, la società, la vita politica nel Medioevo M. D’Onofrio, Roma e Aquisgrana P. Guerrini, Propaganda politica e profezie figurate nel tardo Medioevo H. Houben, Mezzogiorno normanno-svevo G. Cherubini, Il lavoro, la taverna, la strada G. M. Cantarella, Pasquale II e il suo tempo Gregorio di Tours, Storia dei Franchi. I Dieci Libri delle Storie, ed. e trad. a c. di M. Oldoni (2 voll.) V. Pace, Arte a Roma nel Medioevo. Committenza, ideologia e cultura figurativa in monumenti e libri F. Bertini, Interpreti medievali di Fedro Uomini, libri e immagini. Per una storia del libro illustrato dal tardo Antico al Medioevo, a c. di L. Speciale Cronaca del Templare di Tiro, ed. a c. di L. Minervini I. Herklotz, «Sepulcra» e «Monumenta» del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia S. Pittaluga, La scena interdetta. Teatro e letteratura fra Medioevo e Umanesimo A. Barbero, Valle d’Aosta medievale I. Mirazita, Trecento siciliano da Corleone a Palermo G. Musca, Intorno al Medioevo M. Bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D’Annunzio, fascismo e dopoguerra A. Caffaro, Scrivere in oro. Ricettari medievali d’arte e artigianato (secoli IX-XI) M. R. Lo Forte Scirpo, C’era una volta una regina... Due donne per un regno: Maria d’Aragona e Bianca di Navarra Erasmo da Rotterdam, Il Galateo dei ragazzi, a c. di L. Gualdo Rosa E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo V. Pace, Arte medievale in Italia meridionale. I: Campania G. Piccinni-L. Travaini, Il Libro del pellegrino (Siena, 1382-1446). Affari, uomini, monete nell’Ospedale di Santa Maria della Scala G. Cherubini, Pellegrini, pellegrinaggi, giubileo nel Medioevo G. Gandino, Contemplare l’ordine. Intellettuali e potenti dell’alto Medioevo S. Fulloni, L’abbazia dimenticata. La SS. Trinità sul Gargano tra Normanni e Svevi N. D’Acunto, L’età dell’obbedienza. Papato, Impero e poteri locali nel secolo XI L. Hadda, Nella Tunisia medievale. Architettura e decorazione islamica (IX-XVI secolo) F. de’ Maffei, Bisanzio e l’ideologia delle immagini G.E. Lessing, Osservazioni sparse sull’epigramma, a c. di S. Carusi Basilicata medievale. La cultura, a c. di E. D’Angelo N. Borsellino, Paradisi perduti. Paesaggi rinascimentali dell’utopia C. Spila, Mostri da salotto. I nani fra Medioevo e Rinascimento

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G. Sergi, Antidoti all’abuso della storia. Medioevo, medievisti, smentite G. Fornasari, Viaggio al centro del Medioevo. Questioni, luoghi e personaggi A. Bisanti, La poesia d’amore nei Carmina Burana R. Bonfil, Rabbini e comunità ebraiche nell’Italia del Rinascimento M. Oldoni, L’ingannevole Medioevo. Nella storia d’Europa letterature ‘teatri’ simboli culture (2 voll.) F.G. Nuvolone, Il numero e la croce. L’homo novus da Aurillac Liber monstrorum. Introduzione, edizione critica, traduzione, note e commento a c. di F. Porsia T. Saffioti, Il Medioevo dei giullari. Lo spettacolo, il pubblico, i testi C. Spila, Animalia tantum. Animali nella letteratura dall’Antichità al Medioevo R. Bragantini, Ingressi laterali al Trecento maggiore. Dante, Petrarca, Boccaccio S. Morelli, Per conservare la pace. I Giustizieri nel Regno di Sicilia S. Silvestro, Santi, reliquie e sacri furti. San Nicola di Bari fra Montecassino e Normanni

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storia della - zione di una celebre basilica nasce un'inchiesta che tocca aspetti centrali della società medievale, così sensibile al culto delle reliquie e all'esaltazione dei santi. Si delinea, intanto, la lotta tra due poteri, quello della Chiesa di Roma e quello dei Nonnanni, vissuta sulle terre del Mezzogiomo d'Italia, incrocio di prevalenze politiche ma eredi anche dell'illustre presenza di Montecassino. Un libro dove analisi storica e ricostruzione di eventi urbanistici danno finalmente luce ad una grande tradizione di testi e documenti per fare d'una basilica un 'oggetto' protagonista di contese e consensi.

NUOVO MEDIOEVO

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