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GUIBERTO DI NOGENT LE RELIQUIE DEI SANTI
CORPVS CHRISTIANORVM IN TRANSLATION
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CORPVS CHRISTIANORVM Continuatio Mediaeualis CXXVII
GUITBERTI ABBATIS SANCTAE MARIAE NOVIGENTI DE SANCTIS ET EORUM PIGNERIBUS
Édition critique par R. B. C. Huygens
TURNHOUT
FHG
GUIBERTO DI NOGENT LE RELIQUIE DEI SANTI
Introduzione, traduzione e note a cura di Matteo SALAROLI
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F
Supervisione accademica Paolo Chiesa e Rossana Guglielmetti
©2015, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without the prior permission of the publisher.
D/2015/0095/91 ISBN 978–2–503–55584–3 Printed on acid-free paper.
INDICE GENERALE
Introduzione Vita e opere Il De pigneribus sanctorum Problemi testuali Questioni di lingua e stile
7 7 13 20 30
Bibliografia
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Le reliquie dei santi Prefazione I – I santi e le loro reliquie II – Il corpo bipartito del signore, principale e mistico III – Contro i monaci di Saint-Médard che affermano di possedere il dente del Salvatore IV – Il mondo interiore
39 41 48 79 115 140
Indici Indice scritturistico Indice delle opere non bibliche Indice dei nomi e delle cose notevoli
165 167 172 175
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INTRODUZIONE
Vita e opere La maggior parte delle notizie che possediamo su Guiberto di Nogent si ricava dalle sue opere, ed in particolare dalla sua autobiografia, dal titolo emblematico di Monodiae1, cioè “canti ad una voce”. Nato nei pressi di Beauvais intorno al 1055 da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà, a dodici anni entrò come oblato, insieme alla madre, nel monastero di Saint-Germer de Fly, dove fu istruito e si dedicò con grande passione, oltre che allo studio della Bibbia e dei grandi autori cristiani, alla scoperta degli storici romani e dei poeti classici. L’attività letteraria del monaco ebbe inizio proprio in questo contesto: tale fu l’influenza delle sue letture, che Guiberto prese a sua volta a comporre scritti in prosa e in versi (a noi non pervenuti) emulando Virgilio ed Ovidio, mentre parallelamente esercitava il proprio senso critico nella lettura e nel confronto tra i padri della Chiesa. La sua famiglia, intanto, cercava di ottenere per lui dei benefici ecclesiastici, facendo valere la propria influenza; è Guiberto stesso a confessare di aver dato il proprio assenso, spinto dall’ambizione e dalle lusinghe dei parenti, all’acquisto di un canonicato, affare che poi non andò in porto. Del fallimento della trattativa, come dichiara, fu sollevato, pur continuando poi a provare vergogna e rimorso. Fu la frequentazione Guibert de Nogent, Histoire de sa vie: 1053-1124 – ed. G. Bourgin, Paris, 1907 – trad. it. in Sogni e memorie di un abate medioevale. La “Mia vita” di Guiberto di Nogent, a cura di Franco Cardini e Nadia Truci Cappelletti, Novara, 1986. 1
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Introduzione
con Anselmo d’Aosta, allora priore di Bec, a riportarlo sulla retta via; sotto l’influenza del padre della scolastica, pensatore tra i più grandi del suo tempo e uomo dal grande carisma e di austera moralità, imparò a curare “l’uomo interiore”2, approfondendo la meditazione sulla Bibbia e sugli scritti di Gregorio Magno, ed apprese i rudimenti della filosofia e della teologia. Nel 1104 fu scelto, regolarmente, come abate della piccola abbazia di Notre-Dame di Nogent-sous-Coucy (oggi Coucy-le-Château-Auffrique), ruolo che ricoprì fino alla morte, avvenuta probabilmente intorno al 1125. Il prestigio di tale carica, per quanto esercitata in una comunità piccola e marginale, gli diede modo di incontrare personalità importanti, come papa Pasquale II e re Luigi VI, e di vivere in prima persona eventi storici di cui si fece cronista nelle proprie opere: celebre ed importante, tra tutte, la sua testimonianza sulla sanguinosa nascita del comune di Laon3. Fu in questi vent’anni che videro la luce i suoi scritti considerati più importanti, quelli di interesse storico: Dei gesta per Francos e Monodiae. Il primo, composto tra il 1107 ed il 1108, è un racconto della prima crociata basato su una cronaca anonima precedente: il testo, in forma di prosimetro, contiene «una sorta di teologia della crociata, vista come una tappa della storia della salvezza, voluta da Dio ed annunciata dai profeti» (H. Platelle)4. Il De vita sua, sive monodiarum libri III, meglio conosciuto come Monodiae, fu composto intorno al 1115 sul modello delle Confessiones di Agostino, ed è concepito come un libro di memorie da inserire quale tassello nella storia della sua abbazia e della diocesi di Laon; si tratta di un testo al confine tra autobiografia e cronaca monastica, che non si inquadra perfettamente nella moderna suddivisione dei generi. La sua attività di esegeta, connotata da un particolare interesse per il significato morale delle scritture, fu costante fin dai tempi di Saint-Germer de Fly: a questo periodo si devono un trattato di omiletica intitolato Quo ordine sermo fieri debeat (1083/1086 circa), Cfr. Monod. 1, 17. Cfr. Monod. 3, 7-9. 4 Henri Platelle, ‘Guibert de Nogent et le De pignoribus sanctorum. Richesses et limites d’une critique médiévale des reliques’, in Présence de l'au-delà. Une vision médiévale du monde, Villeneuve d’Ascq, 2004, p. 123-136, p. 124. 2 3
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Introduzione
la prima versione dei Moralia Geneseos, composti tra il 1083 ed il 1086 e rivisti definitivamente intorno al 1113, e una prima bozza delle due serie di Tropologiae in prophetis, che completò negli ultimi anni di vita, tra il 1121 ed il 1124. Fu autore, inoltre, di due opere di argomento mariano. Il De virginitate, suo primo scritto, gli venne imposto come esercizio di penitenza per i suoi scarsi rigori giovanili; fu composto intorno al 1075/1080 e rielaborato tra il 1113 ed il 1119. Agli stessi anni di questa revisione risale probabilmente la composizione del De laude sanctae Mariae, trattato in lode della Vergine, il cui culto presentava ancora alcune problematiche dottrinali. Produttiva fu anche la sua vena polemica, che generò il trattato Contra Iudaizantem et Iudeos (1110 circa) ed il De pigneribus sanctorum (scritto tra il 1115 ed il 1119). L’opuscolo De bucella Iudae data et de veritate Dominici corporis (1119 circa) si occupa invece di problemi teologici riguardanti la questione eucaristica. Se dovessimo inserire Guiberto di Nogent in un’antologia potremmo contestualizzarlo tra le testimonianze precoci della cosiddetta “rinascita del XII secolo”. Egli riassume nel proprio operato di autore le contraddizioni e le tensioni interiori di quest’epoca di transizione e di cambiamento, vivendo in prima persona e raccontando fenomeni epocali (come la Riforma gregoriana, la prima crociata, la nascita dei primi comuni) dalla prospettiva consapevole di uomo di cultura. Nel monaco-scrittore vediamo i prodromi dell’atteggiamento critico che sarà alla base delle grandi conquiste della scolastica del secolo XII e XIII, e il seme di un nuovo rapporto coi classici: Guiberto cita apertamente Orazio, Terenzio, Virgilio, Cicerone, Seneca, Ovidio ed altri, che apprezza non solo come modello di eloquenza, ma anche come fonte di insegnamenti morali. Al primo contatto con questi auctores, avvenuto in età adolescenziale – età in cui visse il contrasto travagliato tra le proprie pulsioni sensuali ed il rigore della scelta monastica – si innamorò della poesia a tal punto da comporre egli stesso carmi di stampo ovidiano5, dedicandovisi più che allo studio delle Scritture; i componimenti, tuttavia, sono andati persi a causa della censura che subì da parte 5
Monod. 1, 17.
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Introduzione
dei suoi superiori, che stigmatizzarono tale libertà giovanile creando in lui un duraturo senso di colpa. Pur riconoscendo formalmente la superiore verità delle Scritture, come si conveniva ad un uomo di chiesa, Guiberto non smise mai di attingere da questi autori: è questo il segno del contrasto tra una nuova generazione, destinata a fiorire, desiderosa di riscoprire il contatto coi classici, e quella vecchia che li considerava un potenziale pericolo per l’anima. Il contatto con Anselmo di Bec, dal quale apprese i rudimenti del pensiero filosofico, creò in lui una nuova coscienza di monaco e di intellettuale, improntata alla scoperta del valore dell’io ed all’applicazione del proprio senso critico a fini morali. Se è vero che nel XII, citando Verger6, «l’etica si riorganizza intorno alla nozione di intenzione», cosa che comporta in ambito ecclesiastico lo slittamento del concetto di peccato dall’azione in sé alla volontà7, è proprio in questa nuova tendenza che andrà inserito l’impegno di Guiberto come autore: la nuova riflessione sull’individuo ispirò non solo la sua attività di predicazione e di esegesi biblica, ma anche le forti prese di posizione sul tema della religiosità popolare contenute nel De pigneribus sanctorum. Ciò che appare evidente nell’abate di Nogent è infatti un’alta coscienza del proprio ruolo di intellettuale e di guida spirituale: oltre ai moniti contro l’avarizia, la corruzione dei costumi e l’eresia, propri del suo impegno pastorale, alle invettive esplicite e coraggiose contro signori sanguinari e vescovi indegni, alle note di biasimo, non rare ed in linea con lo spirito di rinnovamento della recente Riforma gregoriana, contro la simonia ed il concubinato dei sacerdoti, egli sentì il dovere di dare il proprio contributo non solo su fenomeni di grande portata che interessavano la religiosità popolare come il culto dei santi e delle loro reliquie, ma addirittura sull’elevata questione teologica riguardante la dottrina eucaristica, che andava delineandosi proprio in quegli anni. Le difficoltà argomentative del libro II del De pigneribus sanctorum e le conJacques Verger, Il rinascimento del XII secolo, Milano, 1997. Proprio nella prima metà del XII secolo Pietro Abelardo teorizzò il nuovo pensiero nella sua Ethica seu scito te ipsum. 6 7
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Introduzione
vinzioni espresse nel De bucella Iudae data et de veritate Dominici corporis testimoniano come, più di trent’anni dopo la condanna delle tesi di Berengario di Tours e l’affermazione del dogma della transustanziazione, la ricezione di queste risoluzioni fosse ancora problematica. È importante non dimenticare che le finalità con cui Guiberto si assunse il proprio impegno di autore sono quelle proprie di un religioso, anche quelle che lo portarono a diventare cronista del suo tempo e biografo di sé stesso; il valore storico della sua testimonianza, tuttavia, è sicuramente superiore all’apporto concreto che egli dovette portare ai propri tempi nel campo della fede. La sua statura di esegeta, che pur gli procurò quel poco di fama, non raggiunse quella di altre grandi personalità del tempo, e le sue velleità di teologo ebbero esiti modesti; egli fu una voce rispettata ma marginale, divenuta forse ai giorni nostri, dopo la sua riscoperta, più forte di quanto non fosse stata in vita. L’abate non raggiunse grande notorietà al suo tempo ed i suoi scritti, a quanto pare, non circolarono molto, come dimostra l’assenza pressoché totale di riferimenti e citazioni da parte di altri autori. La sua scoperta avvenne nel XVII secolo, nel quale si colloca la prima edizione completa delle sue opere da parte di Luc d’Achery8, un monaco benedettino della congregazione di San Mauro; fu studiato a partire dalla seconda metà del XVII secolo soprattutto come fonte storica, e d’altro canto opere come le Monodiae, il Dei gesta per Francos ed il De pigneribus costituiscono un grande giacimento di aneddoti ed informazioni sulla sua epoca. Il Novecento ha forse sopravvalutato il suo razionalismo, tanto che Abel Lefranc lo ha dipinto come un antesignano di Voltaire, capace di uno scetticismo in ambito religioso di stampo quasi illuministico9, e Bernard Monod dopo di lui ne ha esaltato le qualità di
8 Venerabilis Guiberti, abbatis B. Mariae de Novigento Opera omnia – ed. L. D’Achery, Paris, 1651. 9 Abel Lefranc, ‘Le traité des reliques de Guibert de Nogent et les commencements de la critique historique au moyen âge’, in Études d' histoire du moyen âge dediées à Gabriel Monod, Paris, 1896, p. 285-306, p. 304.
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Introduzione
storico enfatizzandone la predilezione per le testimonianze oculari e rivendicandone l’oggettività e l’imparzialità10. Gli studi recenti di John Benton11, Jonatan Khantor12 e M. D. Coupe13 hanno cercato di analizzare la personalità dell’abate di Nogent alla luce del paradigma freudiano, sondando le sue opere con lo strumento della psicanalisi e cercando di individuare i moventi profondi alla base del suo operato di scrittore. Gli scritti di Guiberto di Nogent ci trasmettono in effetti l’immagine di «una personalità medievale pienamente sviluppata e pienamente riconoscibile» (J. Rubenstein)14, e di un intellettuale che, pur non avendo avuto un grande impatto culturale sul suo mondo, si dimostra capace a volte – particolarmente nel De pigneribus – di prese di posizione decise e talvolta in anticipo sui tempi. Non possiamo però trascurare, sebbene colpisca meno il nostro interesse, la mole dei suoi trattati di teologia e delle sue opere di commento alla Bibbia e non da ultimo il fatto che, come ha sottolineato Jacques Chaurand, anche nel Dei gesta per Francos e nelle parti storiche delle Monodiae Guiberto «non scrive che per dare una giustificazione morale, fornire degli esempi»15 – e testimoniare l’attuazione del disegno divino. Guiberto di Nogent fu prima di tutto un monaco del suo tempo: nel suo autentico spirito medievale l’importanza della sua testimonianza, nella personalità dell’uomo che vive e racconta con partecipazione e spirito critico – e non di rado con una certa ironia – la propria realtà, il suo fascino diretto ed immediato. Bernard Monod, Le moine Guibert et son temps, Paris, 1905, p. 253-339. John F. Benton, Self and Society in Medieval France: The Memoirs of Abbot Guibert of Nogent, New York, 1970; ‘The personality of Guibert of Nogent’, Psychoanalytic Review, 57 (1970/1971), p. 563-586. 12 Jonathan Kantor, ‘A Psychohistorical Source: the Memoirs of Guibert of Nogent’, Journal of Medieval History, 2 (1976), p. 281-303. 13 M. D. Coupe, ‘The Personality of Guibert de Nogent Reconsidered’, Journal of Medieval History, 9 (1983), p. 317-329. 14 Jay Rubenstein, Guibert of Nogent: Portrait of a Medieval Mind, New York-London, 2002, p. 1. 15 Jacques Chaurand, ‘Guibert de Nogent, chroniqueur laonnois’, in Mémoires de la Fédération des Sociétés d'Histoire et d'Archéologie de l’Aisne, 12 (1966), p. 122-131, p. 128. 10 11
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Introduzione
Il De pigneribus sanctorum Nella successione delle opere di Guiberto di Nogent il De pigneribus sanctorum16 va collocato dopo Dei gesta per Francos e Monodiae, verosimilmente tra il 1115 ed il 1119; sicuramente poco conosciuto nel medioevo, ci è stato tramandato da un solo manoscritto antico, in gran parte autografo, vergato nel primo quarto del XII secolo e proveniente dall’abbazia di Notre-Dame di Nogent17, ossia dalla stessa fondazione di Guiberto. Il trattato fu scritto per contestare la rivendicazione da parte dei monaci dell’abbazia di Saint-Médard, nella vicina diocesi di Soissons, del possesso di uno dei denti da latte di Cristo. La diretta invettiva nei loro confronti, condita da accuse esplicite di blasfemia, avidità e cialtroneria, può essere considerata, per i tempi, molto coraggiosa. Saint-Médard era infatti un’istituzione antica ed importante, teatro di diversi fatti storici: fondata da Clotario I nel 557, essa fu sede dell’incoronazione di Pipino il Breve nel 751 e nell’833 della prigionia di Ludovico il Pio, deposto dai figli; in seguito essa acquisì un vero e proprio ruolo di “riformatorio” monastico, tanto che nel 1121 vi fu confinato Pietro Abelardo in seguito alla condanna dei suoi scritti trinitari nel concilio di Soissons (al quale Guiberto, in tarda età, potrebbe aver partecipato). Tale, infatti, è l’immagine che di Saint-Médard traspare dalla Vita beati Gosvini, edita da Gibbons18: si tratta di un testo agiografico sulla vita di Gosvino d’Anchin, cui il nuovo abate di Saint-Médard Geoffroy Coucerf affidò la carica di priore claustrale intorno al 1120/1121. Nel capitolo 18 del I libro, che parla dell’arrivo di Gosvino a Saint-Médard, si legge: mittebatur illuc indocti ut erudirentur, dissoluti ut corrigerentur, cervicosi ut domarentur […] («Vi veniva16 Per la traduzione ci si è basati su: Guibert de Nogent, Quo ordine sermo fieri debeat; De bucella Iudae data et de veritate Dominici corporis; De sanctis et eorum pigneribus – ed. R. B. C. Huygens (CCCM 127), Turnhout, 1993. 17 Per un discorso dettagliato sulla tradizione, consultare l’introduzione di Huygens, ibid. p. 13-31. e: R. B. C. Huygens, La tradition manuscrite de Guibert de Nogent, The Hague, 1991. 18 Beati Gosvini Vita, celeberrimi Aquicinctensis monasterii abbatis septimi, a duobus diversis ejusdem coenobii monachis separatim exarata – ed. R. Gibbons, Douai, 1620.
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Introduzione
no mandati gli ignoranti per ricevere un’istruzione, i dissoluti per essere corretti, i ribelli per essere domati»). Siamo portati a ritenere che all’epoca del De pigneribus l’influenza di questa fondazione fosse ancora molto più rilevante di quella della piccola Notre-Dame di Nogent. L’autore doveva percepire l’urgenza di un intervento nell’ambito del culto di santi e reliquie, pratiche non codificate, attinenti alla devozione popolare, che in quell’epoca di forte rilancio della Chiesa e di incremento della religiosità proliferavano soprattutto tra il popolo minuto ed incolto. Quello che Guiberto critica non è certo il culto dei santi in sé o la fede nei miracoli operati dalle loro reliquie – le già citate Monodiae contengono diversi capitoli dedicati a tali miracoli, narrati con fede assoluta nella loro veridicità – ma l’ingresso in quelle pratiche di interessi economici, che esponevano il “volgo profano” – come Guiberto lo definisce, conscio della propria superiorità, citando Orazio –, a rischi per l’anima oltre che per le proprie borse. Si tratta dell’intervento di un pastore in difesa del proprio gregge, attraverso gli argomenti sia della ragione che della fede. L’opera, priva di titolo, si compone di quattro libri, preceduti da un’epistola dedicatoria all’abate Oddone di Saint-Symphorién, che funge da prefazione. In questo “prologo” Guiberto racconta la genesi del trattato: per prima cosa ne traccia le linee guida, dal libro I al libro III, rivelando anche di aver dovuto rispondere in corso d’opera ad una serie di obiezioni sollevate in seguito ad una prima circolazione del testo; segue la dedica all’amico, dopo la quale Guiberto discute del IV libro, che, come ricorda, contiene la risposta ad altre critiche ricevute in presenza del destinatario su questioni riguardanti l’aldilà. Il libro I, di carattere generale, è considerato da molti il più importante dei quattro per via del contenuto, ed è sicuramente quello che maggiormente interessa il lettore di oggi. L’incipit, che mira a configurare l’affermazione dei monaci di Saint-Médard come contraria al dogma della resurrezione di Cristo, introduce l’esposizione, tramite ragionamenti sillogistici ed a fortiori, dei principali argomenti del monaco in merito al culto dei santi e delle reliquie, e riguardo ai miracoli che si crede ne scaturiscano.
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Introduzione
L’autore condanna nel contempo la credulità del popolo, spinto tramite miracoli falsi o artefatti alla venerazione di santi di fama oscura, derivata da leggende prive di fondamento e biografie poco attendibili, e la rapace avidità di coloro che, considerando “la pietà come fonte di guadagno”, fomentano tali culti contro ogni senso religioso pur di arricchirsi o di accrescere il prestigio delle proprie chiese, commettendo un peccato, quindi, affine alla simonia. Egli si indigna di fronte alla fabbricazione di prodigi, ed in particolare davanti a quella che ritiene la causa prima del fenomeno: la macabra mancanza di rispetto con cui i corpi vengono strappati alla terra per essere portati in processione o fatti a pezzi e sparsi per il mondo, rinchiusi nello sfarzo innaturale e blasfemo di teche e sarcofaghi d’oro. Di fronte a tali aberrazioni Guiberto sostiene la necessità di onorare solo santi dalla fama certa ed appurata, ricordando ai vescovi che è loro compito fare in modo che il proprio gregge non pecchi, ed auspicando di fatto un maggiore controllo da parte dell’autorità ecclesiastica tramite la verifica delle prove testimoniali, una procedura che dalla metà del XII secolo sarà alla base della canonizzazione19. Rilevante in questo primo libro è anche il sottotesto etico-morale, contenente il richiamo ad una fede sobria ed interiore: come la consapevolezza di chi sia il santo che si venera protegge il fedele dal pericolo di adorare uomini empi, rischiando così la dannazione a propria volta, sincerità della fede e purezza dell’intenzione salvano dal peccato nel caso in cui vengano adorate erroneamente le ossa di un santo credendole quelle di un altro, poiché Dio “legge direttamente nel cuore”. Il libro II, intitolato De corpore domini bipertito, è particolarmente ostico per il lettore. Guiberto parte dal presupposto che affermare l’esistenza di parti del corpo di Cristo sulla terra 19 Una prima forma di canonizzazione risale all’età carolingia: essa prevedeva l’attestazione del miracolo o del martirio, la stesura della Vita, la sua presentazione all’autorità vescovile e la successiva approvazione. Già nell’XI secolo alcuni papi avevano sollecitato la verifica delle prove testimoniale in aggiunta a tali requisiti, ma il procedimento mediante il quale i vescovi arrivavano ad attribuire la santità rimaneva a dir poco sommario – come Guiberto testimonia. Solo papa Alessandro III (1159-1181) inserì definitivamente i processi di canonizzazione tra le causae maiores Ecclesiae, norma poi confermata da Gregorio IX nel 1234 ed inserita successivamente nel Corpus Iuris Canonici.
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equivalga a negare l’utilità del sacrificio: l’autore sostiene che l’Eucaristia, “corpo mistico” del Signore, sia l’unica ad assicurarne la presenza in questo mondo, e su tali basi mira a confutare la pretesa di qualsiasi chiesa di possedere parti del corpo fisico di Cristo, come il dente, il cordone ombelicale o il prepuzio. Egli definisce il sacramento “vicario” del corpo di Cristo in terra, distinguendo tra il corpo “principale” (o storico) di Cristo, cioè la veritas anteriore, ed il corpo mistico, cioè la figura posteriore costituita dall’ostia. Posto che il sacramento serve a rinnovare il ricordo del Signore e ad esercitare la fede, è ovvio che se esistessero parti fisiche di quel corpo che i fedeli potessero adorare tale sacrificio diverrebbe superfluo. Dopo una digressione su cosa succeda alle ostie ed al vino presenti sull’altare durante la consacrazione ma che sfuggono all’attenzione (e quindi all’intenzione) del celebrante – da non ritenersi consacrate, secondo l’autore –, egli specifica che il sacramento equivale ad entrambe le nature di Cristo, ed infine arriva ad affrontare il problema di cosa accada quando esso viene ingerito da un empio, dichiarando che chi lo assume indegnamente si danna, mentre il sacramento non subisce alcun disonore. A questo punto Guiberto introduce un lungo discorso “dalla prospettiva di uno che la pensi in maniera diversa”; circa un terzo del libro II è occupato da questa accorata disquisizione eterodossa, in cui si sostiene che per gli indegni il sacramento cessa di essere tale, e che essi non ne ottengono la res, la “realtà” eucaristica comprensiva della grazia che reca. A sostegno della propria posizione, l’io narrante cita i casi in cui l’ostia viene assunta senza alcuna consapevolezza di fede da un bambino o da un matto, o addirittura da topi e cani, affermando che non è concepibile che il sacramento sia tale anche per loro. Nel parlare di questo, egli sfiora anche il tema, assai attuale al tempo della Riforma gregoriana, della validità dei sacramenti impartiti da vescovi indegni, affermando che in questo caso la grazia è concessa comunque da Dio in ragione della fede del ricevente, dato che l’efficacia del mistero, pur amministrato dai sacerdoti, risale comunque a Cristo. Sintetizzando in poche parole il punto di vista dell’aliter sentiens, chi assume l’eucaristia con fede ottiene il sacramento, chi la assume senza fede ottiene solo del pane, compiendo un sacrilegio che gli procura la dannazione.
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Introduzione
Segue la confutazione da parte di Guiberto di queste affermazioni, basata sul fatto che attribuire mutevolezza alla sostanza del sacramento subordinandola alla dignità del ricevente sia a sua volta sacrilego. Questa convinzione sarebbe, a detta dell’autore, potenzialmente molto dannosa, poiché porterebbe gli empi, consci di assumere solo del comune pane, a non avere riguardo per il sacramento stesso, e creerebbe incertezza nella sua validità in tutti gli altri, dato che nessuno in cuor suo è sicuro di meritarlo. La conclusione è che il sacramento va sempre considerato tale, ma che agli indegni non porta nessun beneficio, e solo Dio, in ultima analisi, sa a chi spetti la grazia. Cambiato argomento, Guiberto respinge un’altra potenziale eresia, sostenuta da un amicus che non nomina: l’idea che ogni sacrificio eucaristico equivalga ad una reiterata crocifissione di Cristo. L’autore confuta questa convinzione, che reputa un’assurdità, ricordando come il suo sacrificio sia unico e volontario, dato che egli era senza peccato. Divenne, insomma, “passibile” solo per scelta, ma la sua natura rimane immortale ed incorruttibile: la sostanza del sacramento è la stessa del suo corpo “principale”, che è il medesimo che si trova glorificato alla destra del Padre. Pensarla diversamente equivarrebbe a dire che Cristo ha due corpi diversi. Affermare che Dio debba soffrire continuamente per la nostra edificazione, dice Guiberto, equivale inoltre a sminuirne la potenza; Cristo si sacrificò una volta sola a redenzione del peccato, ed ogni sofferenza successiva alla sua glorificazione, oltre che insensata, sarebbe inutile. Terminata anche questa digressione, l’abate si appresta finalmente ad affrontare la questione del dente alla luce delle considerazioni precedenti. Cristo, sostiene, deve aver eliminato del tutto la propria presenza fisica perché il rituale mistico a cui ha affidato la propria memoria abbia senso: l’eucaristia, infatti, conduce il fedele, come attraverso dei gradini, dalla visione esteriore alla contemplazione interiore del divino. Sostenere che esistano pezzi di lui sulla terra, equivarrebbe a dire che ha tre corpi: quello generato dalla Vergine, quello figurale, e quello glorificato. Ponendo fine a questa sezione, Guiberto esorta il lettore ad armarsi contro le blasfemie dei monaci di Saint-Médard.
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Introduzione
Nel III libro, finalmente, l’autore si rivolge ai destinatari della polemica, e lo fa con i toni dell’invettiva, conditi da una tagliente ironia: additandoli come falsari li accusa di menzogna e blasfemia, mirando a dimostrare con argomenti razionali e teologici che continuare a proclamarsi possessori di un dente di Cristo li renderebbe addirittura eretici rispetto alla fede cattolica. L’abate di Nogent biasima apertamente i propri vicini, rei di mirare soltanto ad esaltare la condizione della loro chiesa e ad incrementare l’afflusso di pellegrini, per ricavarne fama e ricchezze. La loro propaganda senza vergogna, priva di ogni fondamento razionale, fa presa sugli ignoranti e sui rustici, costituendo un trappola per gli incauti che l’autore sente di dover disinnescare. Sostenere l’esistenza di parti residue di Cristo in terra andrebbe, infatti, a minare la speranza stessa dei fedeli nella resurrezione; come potrà Cristo far risorgere i credenti, se non è riuscito a fare lo stesso col proprio corpo? Per evidenziare l’assurdità di queste pretese, l’autore dipinge l’immagine, paradossale e tanto audace quanto sarcastica, di un Cristo sdentato che attende la fine dei tempi per riaccogliere nella mandibola fessa il proprio dente vagante, perché anche questa sua parte ottenga la gloria che le spetta. Anche in questo caso, come nel libro precedente, per meglio confutare le asserzioni dei monaci di Saint-Médard Guiberto ne adotta temporaneamente il punto di vista in prima persona, per poi controbatterlo punto per punto. Dopo aver attaccato le tesi avversarie sul piano teologico, egli conclude che l’argomento più forte contro l’esistenza di tale reliquia corporea di Cristo è che nessuno avrebbe potuto conservare all’epoca quel dente, visto che Cristo, agli occhi di tutti, non era che un bambino come gli altri; nemmeno la Vergine stessa ne avrebbe avuto il tempo, ed in più questo avrebbe significato dare inizio ad una pratica mai vista prima, con una volontà autocelebrativa non in linea con la sua umiltà. Nell’ultima sezione del libro III, l’autore definisce sciocchi e assurdi i miracoli che la comunità di Saint-Médard attribuiva a quel dente, il cui resoconto era contenuto in un libellus sui prodigi dei santi del luogo oggi perduto, uno scritto a suo dire inattendibile; conclude infine la trattazione denunciando l’esigenza di una maggiore cautela e di maggior controllo in materia di santità, e
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Introduzione
muove ai Sanctimedardenses un monito diretto a valutare le conseguenze della propria avidità. Il IV libro, De interiori mundo, tratta principalmente questioni di ordine teologico-mistico, sostenendo la distinzione tra mondo materiale e mondo spirituale, distinzione «molto diversa dalla ”visione medievale” abituale, che tendeva a mescolare i due mondi in un tutto continuo» (H. Platelle)20. L’intervento dell’autore nasce dalla constatazione che le visioni profetiche tramandate dalla Bibbia e dalle auctoritates cristiane, così come tutte le esperienze mistiche individuali di cui si aveva testimonianza ai tempi, si servivano di un linguaggio fisico fatto di immagini corporee. Guiberto mira a chiarire che la causa di ciò sono i limiti dell’intelletto umano, unico a poter sondare il mondo interiore, ma abituato a ragionare per analogia con ciò che conosce, e obbligato a farlo dalla natura ineffabile della sfera spirituale. Il ricorso ad immagini corporee riscontrabile nelle profezie e nelle visioni dell’aldilà ha quindi valenza simbolica. Il monaco prosegue discutendo del destino dei dannati all’inferno, a cui applica queste conclusioni: le loro sofferenze, simili nelle descrizioni ai supplizi dei criminali in terra, sono in realtà spirituali. Guiberto approfondisce la questione asserendo che all’inferno non c’è pentimento, ma che la frustrazione per l’impossibilità di peccare ulteriormente inasprisce la tortura di chi vi è confinato. L’ultima parte del libro IV riguarda, infine, le fattezze dell’anima: l’autore mette in guardia dal prendere per vera la classica rappresentazione antropomorfa, ripetendo che il mondo spirituale va indagato con criteri spirituali, e conclude che la ragione e l’intelletto, liberi dall’interferenza dei sensi, sono gli unici strumenti in grado di accedervi. Abel Lefranc apre il suo saggio Le traité des reliques Guibert de Nogent et les commencements de la critique historique au moyen age con queste parole: «Esiste nella storia della letteratura del XII secolo un’opera assolutamente unica tanto per il soggetto che tratta quanto per lo spirito che la anima, opera eminentemente personale ed originale, le cui tendenze critiche contrastano in maniera singolare con quelle a cui si ispirano tutte le altre opere dell’epoca, 20
Guibert de Nogent et le De pignoribus sanctorum, cit., p. 126.
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e che segna una data veramente importante nella storia dell’evoluzione intellettuale del medioevo»21. Questa descrizione esagera probabilmente l’aspetto dell’originalità, che pur costituisce il punto di maggior interesse del trattato; ma la lucida analisi di Guiberto della venerazione dei santi e delle reliquie, di cui testimonia e stigmatizza la deriva, costituisce in effetti un documento unico e fondamentale su uno dei fenomeni più affascinanti del medioevo cristiano. Lo sdegno per l’empio commercio di cose sacre e per il proliferare di finti patroni ed il messaggio morale e spirituale alla base di tale decisa condanna – che in nessun luogo, lo ricordiamo, colpisce il fenomeno in sé, mai stigmatizza in toto il culto dei santi come forma di superstizione – possono sembrare addirittura scontati per un uomo di Chiesa del suo tempo; si rimane colpiti, tuttavia, dalle concrete intenzioni riformatrici della polemica, e non da ultimo dal carattere aperto e diretto della critica a membri della Chiesa stessa.
Problemi testuali Il De pigneribus sanctorum è giunto a noi grazie ad un unico testimone, e buona parte delle problematiche del testo è giocoforza collegata a quelle del suo unico veicolo, il codice Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 290022. Si tratta di un manoscritto membranaceo (223 × 154 mm) formato da settantadue fogli23, confezionato a partire da materiali di seconda scelta ma con cura tale da denotare la volontà di conferirgli una forma-libro; esso Le traité des reliques de Guibert de Nogent, cit., p. 286. Da questo manoscritto furono tratte due copie nel corso del XVII secolo, prive di valore autonomo ai fini della ricostruzione del testo: una, parziale e limitata ad alcuni estratti, da Pierre Dupuy, allora sovrintendente della Biblioteca Reale (contenuta all’interno di una raccolta di brani di storia ecclesiastica, il ms. Paris, BnF, Collection Dupuy 571), ed una completa da parte dall’erudito gesuita Jacques Sirmond (il ms. Phillipps 1717 di Berlino). 23 Le pagine (così come i fascicoli) che compongono il manoscritto sono state numerate una ad una dai suoi primi studiosi nel XVII secolo, a partire dal verso del primo foglio di pergamena. Il foglio di guardia cartaceo ed il recto del primo foglio sono segnati rispettivamente I e II. 21
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contiene alle p. 1-122 l’opuscolo De Pigneribus sanctorum24, e alle p. 123-139 il trattatello De bucella Iudae data et de veritate Dominici corporis, preceduti dalle rispettive epistole dedicatorie – la prima rivolta ad Oddone abate di Saint-Symphorien, la seconda a Sigfrido abate di Saint-Vincent. A p. 2, una nota di possesso recita: hunc librum dedit ecclesie Sancte Marie Novigenti Guibertus abbas. Qui eum abstulerit, anathema sit. L’analisi dei caratteri paleografici e codicologici conferma che il codice risale al XII secolo, che probabilmente è in larga parte autografo, e che di conseguenza deve essere stato confezionato proprio a Nogent e per volontà di Guiberto stesso, per poi essere conservato nella biblioteca dell’abbazia. La questione dell’autografia, in realtà, costituisce il primo problema che investe, insieme, il manoscritto e il testo che contiene. Una lunga querelle sul tema ha diviso i due studiosi che più a fondo si sono occupati del codice, cioè Monique-Cécile Garand25, che la sostiene, e Robert B. C. Huygens26, che la nega. Senza addentrarci nel dibattito, ci limitiamo ad accogliere la tesi della Garand perché basata su prove fisiche convincenti, al confronto delle quali gli argomenti filologici dell’editore critico paiono deboli. Va rilevato che la convinzione che il Parigino Lat. 2900 non sia autografo ha giustificato per Huygens il ricorso all’emendatio anche in passi in cui non era necessaria, e questo ci ha spinto in un caso particolare a discostarci dal testo critico. Il passo in questione è il seguente: III, 609-615 Et certe videmus gemmulis ac pernulis peregrinorum littorum undecunque ornatum ex antiquitatis [in origine antiquitate, poi modificato dalla mano dell’autore] dentis memoriam non 24 Guiberto non si riferisce mai all’opera con un titolo esplicito; De pigneribus sanctorum è il nome convenzionalmente attribuito dalla comunità accademica al testo che comprende l’epistola dedicatoria all’abate Oddone di Saint-Symphorien ed i successivi quattro libri, provvisti di una rubrica con l’indicazione del numero e dei rispettivi titoli. 25 Monique-Cécile Garand, ‘Le scriptorium de Guibert de Nogent’, Scriptorium, 31 (1977), p. 3-29; successivamente in: Guibert de Nogent et ses secrétaires, Turnhout, 1995. 26 Guibert. Nov., pign. sanct. – ed. R. B. C. Huygens, p. 13-31.
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dentem esse traditione susceptum et quid intra idem philacterium lateat non esperimenti presentium sed sibi succedentium sola relatione probatum. Venerantur ergo ipsi bifariam illa quae nesciunt: dum eos prorsus latet quod auro illo ac lapide clauditur, et nullo modo constare prevalet quod continere theca ipsa putatur.
Il testo riportato è quello del manoscritto; nell’edizione critica, Huygens ripristina antiquitate annullando la correzione antiquitatis, ed espunge dentis memoriam non, considerandolo una specie di commento (dentis memoriam, non dentem esse) scivolato nel corpo del testo. In questo caso abbiamo ritenuto opportuno, invece, mantenere antiquitatis, lezione che crediamo vada attribuita a ragione all’autore stesso, in quanto rilevante adeguamento stilistico volto a creare una traiectio verborum con traditione, marca stilistica tipica dell’abate di Nogent. Quanto all’espunzione di dentis memoriam non, crediamo sia errato ritenerla un commento superfluo, dato che invece costituisce il nocciolo della questione: per l’abate di Nogent i monaci di Saint-Médard non adorano un dente in quanto tale, ma il memoriale di un dente (senza sapere cosa in quel reliquiario sia realmente contenuto). Ne abbiamo perciò tenuto conto all’interno della traduzione. Il manoscritto in effetti non è privo di piccoli errori grammaticali, banali sviste prontamente corrette dall’editore. In aggiunta alle correzioni di Huygens, ne abbiamo proposte altre due: telariorum per telarum (I, 465), frutto di aplografia o della dimenticanza di un titulus, e visibilia per invisibilia (III, 262), che invece crea un’incongruenza concettuale. La seconda questione relativa al Parigino lat. 2900 è costituita dalla datazione del codice e del testo, cui si lega un terzo problema, quello del rapporto del libro IV col resto dell’opera. Il De pigneribus può essere datato con buona approssimazione incrociando dati contenutistici e materiali. Una prima indicazione cronologica si ricava dalla funzione del destinatario, Oddone, un tempo monaco di Saint-Germer de Fly (dove forse divenne amico di Guiberto), e qui indicato come abate di Saint-Symphorien, carica che ricoprì tra il 1114 ed il 1126. L’elemento oggettivo determinante è però interno al testo, e si tratta del rinvio contenuto nel libro I a
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Monodiae27, che gli studiosi concordano nel datare attorno al 1115; questo permette di stabilire verosimilmente il 1115 come termine ante quem non. Quanto al termine ante quem, come sottolineato da Garand, il dato utile è contenuto nella dedica del De bucella, indirizzato a Sigfrido, priore di Saint-Nicolas di Bois fino al 1119 e abate di Saint-Vincent di Laon dal 1120. Nel manoscritto l’indirizzo Nicolai priori viene eraso e modificato in Vincentii abati; come ha dimostrato Huygens, l’intera tradizione del De bucella presenta la dicitura Nicolai priori, ed è quindi probabile che derivi da questo manoscritto prima che la funzione del destinatario fosse aggiornata. Sulla base di queste considerazioni, il codice deve essere stato confezionato ed utilizzato come antigrafo entro il 1119, e di conseguenza anche il De pigneribus deve essere stato scritto entro quella data. Arriviamo al libro IV, intitolato De interiori mundo. Su di esso è stata avanzata l’ipotesi, a lungo condivisa da molti studiosi, che possa essere stato composto prima degli altri, e che, citando ancora Platelle28, funga «da coronamento all’opera». La differenza di contenuto tra il libro IV ed i precedenti ha portato alcuni, come Abel Lefranc29, ad ipotizzare che esso sia stato inserito in seguito per attenuare il tono della polemica: è, infatti, totalmente alieno dall’invettiva dei precedenti tre, ed il suo argomento esula dalle questioni trattate in precedenza senza contenere alcun richiamo ad esse. Questa sezione pare del tutto scollegata dal resto dell’opera, tanto da farci credere che si tratti in realtà di un testo concepito dall’autore come autonomo rispetto al trattato sulle reliquie. Anche Garand30 lo ritiene un libretto a sé stante composto in un momento precedente, sulla base di motivazioni di ordine codicologico: all’interno del manoscritto il libro IV comincia a p. 98 in apertura di fascicolo, ed è preceduto da una rubrica che lo identifica: Liber quartus. De interiori mundo. Nelle ultime righe 27 A proposito degli eretici di Soissons: Super quibus in libris Monodiarum mearum laciniosius dixi (I, 439-440). 28 Guibert de Nogent et le De pignoribus sanctorum, cit., p. 125. 29 Le traité des reliques de Guibert de Nogent, cit., p. 304. 30 Le scriptorium de Guibert de Nogent, cit. (1977).
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di p. 97, il modulo dei caratteri si ingrandisce fino a raddoppiare, per permettere al libro III di terminare a fine pagina, unendosi al seguente senza soluzione di continuità. Ciò denoterebbe la consapevolezza da parte dello scriba che il libro IV fosse già pronto su un fascicolo separato. Huygens si è detto contrario a questa tesi sulla base di elementi interni al testo, che la Garand ha poi accolto31 arrivando a sostenere che l’ultimo libro fosse stato composto mentre i primi circolavano, come conclusione di tono spirituale e conciliante all’opera. Ad onor del vero il quarto libro, di carattere speculativo, potrebbe in effetti fare il paio col secondo rispetto al primo e al terzo, più polemici, creando una certa, pur imperfetta, simmetria; la riflessione sulla distinzione tra mondo spirituale e mondo fisico sarebbe poi affine al tema stesso della polemica, le reliquie, al confine tra natura materiale e valore religioso. Questa affinità, però, non costituisce un collegamento stringente, ma denota semplicemente coerenza di pensiero da parte dell’autore. Va rilevato che i presupposti della teoria di Huygens non sono del tutto condivisibili. Egli ha notato all’interno di una lunga aggiunta a margine a p. 115 l’indicazione cronologica hoc anno, in riferimento ad un tentativo di suicidio a cui Guiberto aveva assistito: IV, 398-401 Vidi hoc anno quendam qui timore paupertatis laqueum sibi, nisi a suis erueretur, iniecerat: de circunstantia ergo sua secundum beatum papam spiritus habet unde crucietur.
Di questo tema Guiberto parla anche qualche riga dopo, a p. 118, all’interno del corpo del testo: IV, 484-488 Si apostolo teste tristicia huius seculi appellatur ‘mortem operans’, dum ex concepto rancore et nimietate doloris manus sibi quis inferre compellitur, quam irremotae mortis acerbitatem mentium illarum atrocitas fovet, quae ne momenti quidem unius otium sustinet?
Huygens pensa che i due passaggi siano in stretto rapporto, ed interpreta l’aggiunta come una precisazione rispetto a IV, 484-48832. Guibert de Nogent et ses secrétaires, cit. (1995). Huygens, che non considera autografo il ms. Paris, BnF, lat. 2900, la ritiene erroneamente dettata dall’autore ad un copista. 31
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Convinto che i due passi facciano riferimento al medesimo suicidio, lo studioso sostiene che l’integrazione marginale sia necessariamente avvenuta a distanza di qualche mese, e non di più; se il libro IV fosse stato scritto per primo, l’intera opera ed il codice che la contiene avrebbero quindi dovuto quindi pervenire alla fase della revisione entro l’anno. Il filologo giudica troppo breve questo periodo, e propone perciò di spostare la composizione del De interiori mundo dopo quella dei primi tre libri. Noi riteniamo che l’espressione hoc anno da sola non permetta di trarre questa conclusione, poiché i due passi sono lontani e indipendenti l’uno dall’altro, e il riferimento cronologico potrebbe riguardare semplicemente il momento dell’aggiunta. Crediamo sia opportuno cercare elementi utili a chiarire il rapporto del libro IV coi precedenti nelle parole di Guiberto stesso. La lettura dell’epistola prefatoria, scritta sicuramente a conclusione dell’opera, fornisce l’impressione di una parziale autonomia del IV libro rispetto all’opuscolo polemico che occupa senza soluzione di continuità i fascicoli precedenti. In primo luogo, infatti, rileviamo che Guiberto fa seguire con un netto stacco la dedica dell’opera ad Oddone (Huius ergo opusculi te iudicem […] ex ingenita tibi humilitate didicerim) alla descrizione esplicita della genesi consequenziale di primo, secondo e terzo libro33: essa precede di fatto la menzione del De interiori mundo. A questo punto Guiberto afferma di ricordare di aver risposto in questo libro, del quale cita il titolo, alle accuse mossegli da un detrattore in presenza del dedicatario riguardo alle sue opinioni sulle pene dei dannati. Per quale motivo avrebbe dovuto “ricordare” di aver già risposto ad esse, se non perché si trattava di un pamphlet che aveva già scritto? Anche il libro IV sembra quindi legato ad una polemica, avulsa però dalle questioni trattate nei libri precedenti. Pare dunque che nell’inviare ad Oddone l’opuscolo contro i monaci di Saint-Médard, Guiberto abbia colto l’occasione per togliersi un altro sassolino dalla scarpa. Il fatto che De interiori mundo non risulti affatto polemico, e che l’unico accenno ad un’obiezione sia Praef., 12-17: excudi primum […]libellulum […] in sequenti totum quod loqui […] ceperamus excidit. […] tandem in tertio conatum meum exercui. 33
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contenuto nell’aggiunta marginale di cui si è discusso sopra34, non fa che provare che si trattava di materiale preesistente rispetto alle accuse subite: in questo libro Guiberto aveva casualmente trattato proprio quelle questioni sulle quali veniva pungolato, ed ora gli tornava utile per difendere la propria posizione. Un’ipotesi plausibile è quindi che a legare il libro IV ai precedenti sia in realtà il dedicatario. Guiberto doveva aver discusso dei temi elencati nel prologo con Oddone, amico di vecchia data (fin dai tempi del noviziato a Saint-Germer), per il quale avrebbe in seguito apprestato un codice contenente due testi: la redazione finale di un opuscolo polemico in tre libri contro i monaci di Saint-Médard, che aveva composto e fatto circolare recentemente sollevando non poche critiche, ed un trattatello mistico, scritto tempo prima senza alcun intento polemico, che rispondeva casualmente alle obiezioni di un suo detrattore. Un ultimo aspetto problematico del De pigneribus, che lega il suo contenuto e la sua forma fisica, è relativo al libro II, intitolato De corpore Domini bipertito, principali scilicet ac mistico. Già ad una prima lettura, notiamo una certa difficoltà da parte dell’autore nel mantenere la coerenza tra titolo e contenuto. Il titolo, infatti, si riferisce all’opposizione tra il corpo storico di Cristo, quello che nacque dalla Vergine e subì la passione, e quello mistico o “vicario”, ovvero il sacramento che si riceve sull’altare. Ad un certo punto della riflessione, però, ai primi due si aggiunge il corpo impassibile e glorificato che siede alla destra del Padre, dando l’impressione che l’autore sia passato ad una tripartizione, finché Guiberto non chiarisce che il corpo che ha subito la passione e quello glorificato sono il medesimo. Questo è un primo dato straniante, ma a disorientare del tutto il lettore interviene quanto segue. Giunto a trattare il problema di cosa accada al sacramento se il comunicante è indegno, Guiberto assume in prima persona il punto di vista di una persona convinta che in bocca a tali indiviDe pigneribus IV, 391-410: Quodsi quis michi obicit beatum Gregorium quod corporeo dicat animas igni puniri, advertat […] 34
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dui il sacramento cessi di essere tale, cui fa pronunciare una lunga dissertazione (che occupa dieci pagine delle trentacinque dedicate al libro nel codice) piuttosto persuasiva. Più si procede e più si rimane confusi; sembra infatti che gli argomenti portati a sostegno di questa tesi attingano propriamente ai principi di ordine morale che animano Guiberto ed ispirano la sua attività di esegeta e di scrittore, tanto da pensare che li condivida. A questa disquisizione segue, però, una ripresa del discorso da parte dell’autore ed una totale confutatio, basata sul principio teologico che non è possibile far dipendere l’esistenza o l’efficacia del sacramento dalla virtù dei singoli. Analizzando il manoscritto, ci accorgiamo che il libro II è quello che presenta la maggior parte degli interventi di revisione: vi si concentrano ben due grandi aggiunte marginali, oltre ad una serie di correzioni e rasure di modesta entità. Ad attirare l’attenzione sono però due rasure particolari, dell’ampiezza di diverse righe, proprio in corrispondenza dell’inizio e della fine del cambio di prospettiva. Jay Rubenstein35, il primo studioso ad analizzare a fondo questa porzione del manoscritto ed a trarne delle conclusioni, ha messo in luce alcuni elementi molto significativi. La prima grande rasura è situata a p. 46. Questa pagina in origine era stata rigata per ventisei linee, come quasi tutte le altre, ma ne contiene ventotto. La rasura interessa metà del rigo venticinquesimo e tutto il successivo; Guiberto ha poi aggiunto di proprio pugno due righe per ripristinare la transizione con la pagina seguente. Sulla porzione erasa è scritto: Sed nemo egre ferat si ex persona cuiusdam aliter sentientis paulo longius videar disputare. Pro fide, inquam, aut perfidia suscipientium constare putatur aut quasi deficere sacra(-mentum). Per Rubenstein in origine il testo non conteneva alcuna indicazione che Guiberto avesse adottato una prospettiva contraria alla propria, e questo risulterebbe osservando altre anomalie.
Guibert de Nogent: Portait of a Medieval Mind, cit. La questione è discussa meticolosamente nel capitolo intititolato, non a caso, The Eucharistic Disaster. 35
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Anche le p. 56-57, autografe, contengono un numero di righe superiore al normale, essendo rigate per ventotto linee al posto delle ventisei consuete. Rubenstein ipotizza che si tratti di un foglio indipendente36 aggiunto da Guiberto per rafforzare le proprie affermazioni (in origine puramente proprie, non della persona aliter sentiens) con un nuovo argomento – che si esaurisce in queste due pagine, a suggerire un’impressione di autonomia del blocco – riguardante ciò che capita quando il sacramento viene ingerito da topi e cani o quando si consuma o si logora per cause accidentali37. La p. 57, anche se rigata per ventotto righe, ne contiene ventinove; lo scriba, cioè Guiberto stesso, ha eraso le ultime parole a partire da metà della riga ventiseiesima, e vi ha scritto sopra, aggiungendo un rigo: “Contra haec minus temperanter asserta breviori, quia temperantiori, ratiocinatione respondeam. Verissimum quidem est quod”38. Il testo che segue contiene la confutazione delle teorie esposte dall’ipotetico avversario, e procede fino a p. 70 per mano di due diversi segretari, su fogli che secondo Rubenstein sarebbero stati inseriti in una fase successiva. Questo proverebbe che Guiberto avrebbe ritrattato quelle che in principio erano le sue stesse idee.39 La tesi di Rubenstein, affascinante e ben argomentata, è che le prime teorie dell’abate non abbiano passato il vaglio teologico dei lettori e che egli si sia trovato a dover inserire la persona ipotetica per poterle condannare riaffermando la propria ortodossia; non sappiamo se sia andata così, ma sicuramente il libro II ha subito una serie di interventi volti a ricalibrare il tono delle affermazioni che contiene. Un’altra interessante intuizione di Rubenstein riguarda la possibile ricezione del trattato. Il gran numero di interventi sul codice Le pagine, lo ricordiamo, sono numerate a partire dal verso del primo foglio, quindi le dispari sono a sinistra. 37 L’idea ribadita è che cessi di essere tale. 38 Nella pagina successiva: eucaristia proprie proprium verae fidei sit alimentum. Sed contra illud quod indignis non modo res sacramenti, sed non esse sacramentum dicitur, non solum auctoritate sed etiam, si ipsa desse, plurima ratione renitimur. 39 In merito alla discussione eucaristica, rinviamo a Rubenstein (Guibert of Nogent: Portrait of a Medieval Mind, cit.) e a L. Terrier Aliferis, La doctrine de l'eucharistie de Guibert de Nogent. Avec le texte et la traduction du De pigneribus Livre II, Paris, 2013. 36
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sarebbero prova di quanto sia stata problematica. Oltre a constatare la scarsa fortuna dell’opera, sconosciuta fino alla riscoperta dell’unico manoscritto che la tramanda nel XVII secolo, lo studioso rileva anche che per la prima volta nella sua carriera Guiberto è costretto a cercare appoggio al di fuori della diocesi di Laon e lontano da Soissons40. La vera misura del suo fallimento, però, andrebbe ricercata – dice – nella dedica dell’ultima opera da lui scritta, la seconda serie di Tropologiae in prophetis (1123/1124). Guiberto la inviò a due persone: ad Alardo di Florennes, abate cui è attribuito un breve testo intitolato Miracula sancti Theodorici, rassegna di prodigi operati dal patrono della sua chiesa, e niente di meno che all’abate di Soissons, Geoffroy Coucerf. Fu questo, forse, un atto di riconciliazione con quella comunità? Un atto di riparazione nei confronti di chi aveva offeso? Una “ingloriosa ritirata intellettuale”41? Posto che non è noto quali fossero i rapporti tra Guiberto ed Alardo di Florennes (che svolgeva normalmente il suo ufficio a duecentocinquanta chilometri di distanza da Nogent e non era esattamente un vicino che potesse sentirsi direttamente offeso), di Geoffroy sappiamo invece che fu trasferito a Saint-Médard intorno al 1120 per il volere congiunto di papa Callisto II e del re Luigi VI, che lo avevano conosciuto nel 1119 al concilio tenutosi a Reims, cui aveva partecipato in qualità di abate di Saint-Thierry. Non era quindi lui l’abate in carica al tempo degli attacchi di Guiberto, ma il suo predecessore. Anche in questo caso non possiamo dire quali rapporti intercorressero realmente tra loro. Da un lato è perfettamente plausibile che l’attacco di Guiberto ai monaci di Saint-Médard possa aver creato una tensione duratura, mettendolo nella posizione di dover fare ammenda; l’avvento di Geoffroy, tuttavia, sembra aver aperto un nuovo ciclo: e se l’ammonizione Ibid., p. 172. Tra i dedicatari delle sue opere troviamo infatti Lisiardo, vescovo di Soissons; Bernardo, decano di Soissons; Barthélemy de Jur, vescovo di Laon; Sigfrido, abate di Saint-Vincent di Laon; Norberto, abate di Prémontré; Geoffroy Coucerf, abate di Saint-Médard di Soissons. Se Laon distava solo quaranta chilometri da Nogent, e Soissons appena venti, l’abbazia dell’amico Oddone era a ben cento chilometri, la giusta distanza dalle dinamiche politiche locali. 41 Ibid. p. 172. 40
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del vecchio e reverendo abate di Nogent fosse stata colta da qualcuno, causando invece imbarazzo a Saint-Médard? Può la questione del dente aver giocato un ruolo nel cambio di vertice dell’importante abbazia di Soissons? Nella già citata Vita Gosvini (I, 17), l’anonimo autore dice di Geoffroy Coucerf e dell’abbazia: Abbas Sancti Medardi Gaufridus […] ad erectionem sui monasterii colligebat idoneos adiutores, pro eo quod ipsum quoque multae confusionis horror invasisset, deperisset ordo, subsidia defluxissent, et tanto plures opinio turpitudinis eius offendebat quanto maior erat intuentium multitudo, cioè: «l’abate di Saint-Médard Geoffroy […] raccoglieva validi aiutanti per sollevare il proprio monastero, dato che l’agitazione di un grande imbarazzo l’aveva invaso, l’ordine era venuto meno, i sussidi erano diminuiti, e la fama della sua turpitudine offendeva tante più persone quanto più il numero degli osservatori cresceva». Questa testimonianza offre l’immagine di una decadenza; è questo solo un topos tipico della Riforma gregoriana o può forse trattarsi di un riferimento allo scandalo creato dalla questione del dente? Forse la risposta a tali interrogativi è legata proprio al libellus miraculorum del quale i monaci Saint-Médard si servivano per pubblicizzare le proprie reliquie: il fatto che esso sia sparito nel nulla senza lasciare traccia potrebbe suggerire che i moniti di Guiberto non siano andati a vuoto.
Questioni di lingua e stile Lo stile di Guiberto di Nogent42 risulta piuttosto involuto, talora oscuro, impreziosito da un lessico raro e ricercato e da una sintassi a tratti molto complessa, in particolare nel De pigneribus. Questa complessità è frutto di una scelta espressiva matura, coerente e consapevole, dettata in parte dal tenore della riflessione teologica,
Per tutte le considerazioni sullo stile di Guiberto il riferimento è: Eitan Burstein. ‘Quelques remarques sur le vocabulaire de Guibert de Nogent’, Cahiers de civilisation médiévale, 21 (1978), p. 247-264. 42
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in parte da un vero e proprio gusto retorico per il jeu de mots e il richiamo semantico, non alieno da suggestioni sonore. Nel tradurre questo testo, si è cercato di preservare alcune marche stilistiche rilevanti. Un primo aspetto particolare e talvolta problematico del De pigneribus è l’uso dei modi e dei tempi verbali, soprattutto nelle sezioni diegetiche, caratterizzate da un’alternanza che crea repentine variazioni di ritmo. Abbiamo cercato di salvaguardare questa varietà all’interno del testo, anche se i suoi esiti, in italiano come già in latino, sono talvolta poco eleganti o farraginosi. Come abbiamo già accennato, il monaco si serve di un lessico molto ricco, che comprende talvolta termini inusitati e neologismi. Abbiamo segnalato in nota alcuni vocaboli che spiccano nel dettato latino: essi appaiono tanto singolari ed espressivi – quasi metaforici – da far pensare che Guiberto li abbia mutuati da qualche fonte precisa. D’altra parte era cosa normale per un autore medievale che scriveva in latino (lingua appresa artificialmente, non ingenua) espandere il proprio vocabolario a partire dalle proprie letture: in Guiberto spicca la tendenza a fare propri i termini più ricercati, carichi del peso di un’auctoritas di riferimento. In un caso particolare ed interessante il nostro abate segue il proprio modello, nella fattispecie Girolamo, fino al punto di riportare una lezione in realtà priva di significato: Quorum tanta nebulonitate concutimur, tanta divinorum adulteratione ferimur, ut iuxta prefatum doctorem scurras, elluones et catellanos ligurriendo exuperent, corvos ac picas importuna garrulitate precedant.
La parola catellanus non esiste in nessun vocabolario: Blaise43 e Du Cange44 riportano rispettivamente “catellaneus = petit chat” e “= catillo, onis, id est golosus”, ma le due definizioni si basano unicamente su congetture dei lessicografi sul testo di Guiberto, senza alcuna altra attestazione. Si tratta di un errore di tradizione: 43 Albert Blaise, Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens, Turnhout, 1954-1967 – ed. P. Tombeur (2005). 44 Charles du Fresne Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis – ed. L. Favre, Paris, 1883-1887.
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l’epistola 147 di Girolamo, a cui l’autore si riferisce indirettamente, recita in realtà: facinus quod nec mimus fingere nec scurra ludere nec Atellanus possit effari
cioè “un’empietà che né un mimo potrebbe pronunciare per finta, né un buffone per scherzo, e nemmeno un attore dell’Atellana potrebbe affermare”; nell’apparato critico di Isidore Hilberg45 è registrata proprio una variante catellanus, segno che probabilmente Guiberto si basò su di un manoscritto che la riportava, fidandosi della propria fonte e forse interpretando il termine in base al contesto. Si è scelto di tradurre, secondo il suggerimento del DuCange, come “golosi”, che pare il significato più affine al verbo ligurrio ed agli altri due termini, scurras (“parassiti”) ed elluones (“ghiottoni, ingordi”). La medesima frase fornisce un esempio prezioso di un aspetto singolare della prosa di Guiberto, ben evidenziato da Burstein: la creazione di neologismi, in questo caso nebulonitate. Esso compare nel ms Paris, BnF, lat. 2900, come correzione autografa a nebulositate (da nebulositas), che invece è un sostantivo non privo di attestazioni. Nebulonitate mostra le due caratteristiche, rilevate già da Burstein, tipiche di queste creazioni: la derivazione da altri sostantivi – in questo caso nebulo, onis = “persona vacua o falsa” – e la suffissazione in -itas tipica del lessico astratto, frequentissimo in tutte le opere di Guiberto. Per tradurre questa parola ci si è basati sul contesto e sul significato del termine di partenza: abbiamo scelto “ciarlataneria”, perché ben si addice al tono quasi satirico e caricaturale con cui condanna l’uso esasperato dell’eloquio da parte dei ciarlatani che lucrano sull’ostensione di false reliquie. Questo passo del testo costituisce anche un esempio di sermo comicus, registro che Guiberto sfrutta con andamento desultorio. Egli non solo alterna il discorso teologico ed elevato a segmenti narrativi, ma talvolta fa ricorso ad un lessico fortemente realistico e ad immagini basse, a tratti volgari o rivoltanti, come quando nel libro I descrive il cilicio pieno di vermi di Erlebaldo, o quando 45
5, CSEL 56, p. 320-321.
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equipara i guadagni ricavati dalle frodi sulle reliquie ad excrementa che riempiono le borse dei truffatori, oppure ancora come quando, nel libro III, domanda sarcasticamente ai suoi avversari se dalle piaghe del Cristo risorto, mentre pranzava coi discepoli di Emmaus, scorressero liquidi purulenti. Esternazioni repentine di sdegno compaiono frequenti a coronamento retorico del discorso, cariche di provocatoria ironia, spesso in forma interrogativa. Oltre a queste esternazioni dirette e verbalmente forti, appartengono al ricorso ad uno stile basso e d’impatto anche i vividi schizzi pittorici della credulità popolare che si trovano nel libro I, come le folle di vecchie, donne e bambini che “convolano” in massa al pozzo dove la giovane incestuosa è caduta, per la pura curiosità di trovarcela viva, quelle di “soli contadini” (ovviamente, sottolinea, nullorum procerum!) che recano doni sulla tomba del giovane di Arras morto il Venerdì Santo, o le anziane tessitrici che si ergono a difesa dei propri falsi patroni imprecando ed impugnando le spole con fare minaccioso. Guiberto utilizza quindi in maniera sapiente i registri espressivi, in un testo che in verità – soprattutto nel libro II, di argomento teologico – si mantiene su un livello generalmente alto e retorico. D’altra parte a queste volontarie “cadute” si alternano picchi di stile particolarmente alti e dall’effetto poetico, spesso culminanti in citazioni classiche, come l’espressione ovidiana sanguine cretus nel libro II o l’eco virgiliana phalarico iactu nel III. Un’altra caratteristica ricorrente della prosa di Guiberto è il gusto per aforismi e sentenze dal sapore proverbiale: sottolineiamo in particolare il detto boeziano, ripetuto per ben due volte nel corso del trattato, insanus iudicarer si contra insanos altercarer/loqui intenderem46 (I, 418-419; III, 225-226), la citazione dall’Ars poetica di Orazio cur nescire pudens prave quam discere malo?47 (III, 165-166) o ancora la citazione esplicita, ma libera, del De beneficiis di Seneca: qui vicem alienae largitati restituit mercatoribus exaequatur, qui autem gratuito impendit Deum imitatur48 (I, 229-231). «Se mi mettessi a discutere con gli stolti sarei considerato stolto a mia volta» «Perché preferisco ignorare per distorto pudore, piuttosto che imparare?» 48 «Chi rende qualcosa in cambio della generosità altrui si comporta come i mercanti, chi invece dona in maniera disinteressata agisce ad imitazione di Dio». 46 47
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Introduzione
Questi detti non sono gli unici a comparire nel testo, in cui si rilevano anche alcune forme proverbiali di matrice popolare. Il tratto stilistico più difficile da preservare è, però, quello che corrisponde al gusto dell’autore per il suono e la rima: questo, che è decisamente la cifra principale del suo stile – fatto di omoteleuti, allitterazioni, figure etimologiche, giochi di parole – per forza di cose andrà quasi del tutto perso nella traduzione, ma è assai rilevante e molto appariscente per chi legge il testo in latino. In alcuni passaggi si riscontrano veri e propri giochi di parole, come in questi esempi: – non facta sed ficta – oblationum illatione – haec hostia, sive ad salutem fidelium sumpta sive a peccatoribus et indignis presumpta – qui […] ecclesiastico verbo communicat in quo tantae personalitati non defert, nosse velim quid sacri […] ab altari refert – si ergo tria haec causa videntur […] vices inibi Christus omnino cassas habere putatur – magis autenticus pontificis […] videatur introitus […] quam […] Salvatoris interitus – privatorum gloria suorum privilegiorum maiestate privari – auro et niveis obrutilat […] obrutis reliquis – ab ara in aere volucritat Il testo latino è reso denso e difficile da questa trama continua di rimandi sonori e semantici, che non riguardano solamente le parti narrative, anche se quelle prettamente argomentative presentano una struttura più rigorosa e meno, per così dire, “artistica”. L’attenzione per i legami semantici tra le parole è forse sintomo dell’influenza sull’autore del principio nomina sunt consequentia rerum, l’idea che esista un legame tra il nome e l’essenza dell’oggetto che indica: d’altra parte Guiberto azzarda spesso nel testo delle paraetimologie sul modello di quelle di Isidoro di Siviglia, come le seguenti: – mater ipsa est quae materiam essendi mortalibus dedit – corrumpitur dens ille […] dum a suo corpore abrumpitur – salandrae autem naves dicuntur, a saliendo vocatae
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Introduzione
Oltre alle particolarità elencate fino ad ora, a determinare l’oscurità del De pigneribus è la già citata propensione a periodi lunghi e dominati dall’ipotassi, di cui l’autore sembra a volte perdere il controllo generando qualche incongruenza nel dettato latino; ciò non accade di frequente, ma a volte ci ha costretti a sanare l’anacoluto, come in questo passo del libro III: Sane si obedientiae nomine dubitatur, audiat apostolum de ipso filio Dei […]
In partenza Guiberto aveva dato una struttura impersonale alla frase, ma sviato, forse, dalla propria logica la termina in terza persona; come è chiaro, si dubitatur vale si quis dubitat. Un discorso a parte va riservato al lessico tecnico teologico che Guiberto adotta nel corso del libro II. Per species e figura, concetti che Guiberto deriva da quel poco che conosce della filosofia platonica e aristotelica, abbiamo mantenuto l’opposizione “apparenza”-“figura”. Il termine veritas, quasi intraducibile, è usato nel testo per indicare il corpo fisico e storico di Cristo, la realtà che precede e fornisce i presupposti alla figura costituita dal sacramento; si è adottata per esso una traduzione letterale virgolettata, ad indicare il valore tecnico che l’autore conferisce nella trattazione ad un termine approssimativo (Guiberto era certo un ottimo esegeta, ma il suo approccio alla teologia è, per così dire, amatoriale). L’espressione “realtà del sacramento” è stata invece usato per tradurre res sacramenti, la realtà eucaristica comprensiva della salvezza che reca. Con proprietas Guiberto intende ciò che è proprio di Cristo in relazione ad entrambe le sue nature di Dio e di uomo: si è scelto di tradurlo con “individualità”. Segnaliamo, infine, la decisione di usare la lettera maiuscola per tutti i pronomi riferiti a Dio e Cristo, accorgimento che l’edizione di Huygens non presenta; tale risoluzione è stata dettata dal fine pratico di semplificare la lettura di un testo in cui i passi di carattere teologico sono talvolta particolarmente intricati.
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LE RELIQUIE DEI SANTI
PREFAZIONE
Guiberto, ministro e servo della madre di Dio, augura al suo signore e padre Oddone, abate di Saint-Symphoriena, di proseguire felicemente nel servizio di Dio. Poiché intorno a me strepitavano moltissime domande sul dente del Salvatore che i monaci di Saint-Médardb, nostri vicini, affermano di possedere, dato che loro si erano affannati a dirlo ad alcuni a viva voce, io ho deciso di trattare brevemente per iscritto l’argomento, e di dichiarare apertamente, visto che gli altri stavano zitti, quale fosse la mia opinione a riguardo. Mentre, dunque, mi accingevo ad affrontare la questione proprio all’inizio del libretto, e mi sforzavo con difficoltà di scrivere ciò che avevo concepito in una pagina intera, mi venne in mente una quantità così grande di cose da dire a riguardo che presto ho lasciato in sospeso l’argomento che avevo cominciato, e mentre inseguivo questioni diverse – ma per niente estranee a questo contesto – ho forgiato un primo libricino, lasciando incompleto il discorso che avevo intrapreso.
a Oddone, abate di Saint-Symphorien di Beauvais, menzionato a partire dal dicembre 1114(- ca. 1126). b L’abbazia di Saint-Médard, nella diocesi di Soissons, era un’istituzione antica ed importante, teatro di diversi fatti storici: fondata da Clotario I nel 557, essa fu sede dell’incoronazione di Pipino il Breve nel 751, e nell’833 della prigionia di Ludovico il Pio, deposto dai figli. In seguito essa acquisì un vero e proprio ruolo di “riformatorio” monastico, tanto che nel 1121 vi fu confinato Pietro Abelardo in seguito alla condanna dei suoi scritti trinitari nel concilio di Soissons.
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Nella sezione seguente, dopo aver già sfiorato l’argomento di cui mi ero ripromesso di parlare, in concomitanza col presentarsi del discorso sul corpo di Cristo tutto quel che avevamo cominciato a dire fino a quel momento riguardo al dente è passato in secondo piano. A quel punto, dopo aver esaurito discutendole le questioni che erano sopraggiunte, finalmente ho indirizzato i miei sforzi sul terzo libro, ma non so se ho portato a termine un’opera che sia all’altezza di un sapiente. Del resto, quel che ho creduto l’ho manifestato per fede sentita e con la piena sicurezza della fede; se qualcuno avesse un’opinione migliore, ne sarei lieto. Tuttavia uno tra i miei benevoli lettori ha notato che nel secondo libro ho definito il sacramento del pane e del vino “vicario del corpo di Cristo”, cosa che gli è parsa detta in maniera inopportuna, poiché ciò che viene definito un “vicario” talvolta è ritenuto inferiore a ciò di cui fa le veci. Se avesse prestato attenzione alle mie parole, in cui più volte è espressa precisamente un’identità “personale”, che deriva dalla Vergine, e di significato, che consiste nel pane e nel calice, ogni suo dubbio cesserebbe immediatamente, e visto che le stesse parole del Signore, che vengono subito in mente a questo punto, senz’altro comandano che ciò sia fatto in memoria di Lui, mai potrebbe sorgere un dibattito riguardo alla loro reciprocità. Chi infatti può dubitare che sia un “vicario” di qualcuno col compito di rappresentarlo ciò che rinnova la memoria di colui che è rappresentato? Tanto più sembra deporre a favore di questo il fatto che lo Spirito Santo è detto pegno (Ephes. 1, 14), perché il Figlio stesso è chiamato irradiazione della Sua gloria ed impronta della Sua sostanza (Hebr. 1, 3), ed in altri passi immagine di Dio (2 Cor. 4, 4). Sicuramente non vedo che cosa impedisca di definire “vicario” ciò che anche Cristo stesso chiama quotidiano, come se suggerisse che bisogna servirsene nella vita presente – quando si dice “oggi”a – cosicché ci guidi a godere in eterno di Colui che siede alla destra del Padre: il fatto che raccomanda di farlo in questa vita intendendo che non avrà più bisogno di essere fatto nei secoli dei secoli, quando saremo giunti al cospetto dell’Origine di tale consuetua
Luc. 11, 3: Panem nostrum cotidianum da nobis hodie.
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Prefazione
dine, non posso concepirlo senza che questa stessa verità, benché universale, rechi opportunamente una sorta di immagine vicariaa. Ho deciso dunque di nominarti giudice della mia umile opera, mio carissimo amico, che non solo l’energia di un intelletto sempre attivo ha reso esperto nell’esaminare la veste di un testo, ma la propensione assidua alla riflessione ha anche abituato ad indagare, per così dire, lo spirito della lettera stessab. Dunque avrei scelto di sicuro te, avendo constatato che non ti spingi a correggere nemmeno gli errori infausti se non guidato dalla tua innata umiltà. Inoltre, quanto a ciò che un tale ***oc, facile all’eloquio quanto basta ma non tanto avveduto da rendersi conto delle sciocchezze che aveva blaterato, mi ha rinfacciato in tua presenza, ovvero che avrei dichiarato che coloro che si trovano all’inferno o che sono destinati ad andarvi non provano pentimento in cuore né ne proveranno, contraddicendo il libro della Sapienza, dove si legge chiaramente: pentìti, diranno fra di loro, gemendo nello spirito tormentato: "Ecco coloro che un tempo abbiamo deriso" (Sap. 5, 3) e via dicendo, chiuderò il discorso – a meno che non mi sbagli – con l’argomentazione che segue. Ricordo di aver dimostrato debitamente che la mente di costoro è sprofondata nel furore diabolico e nell’ostinazione in quel libro che ho intitolato “Il mondo interiore”d – se non in altro luoIl senso di questa precisazione va colto nell’ottica del dibattito, di memoria recente, tra Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia sulla natura dell’eucaristia. La tesi di Berengario negava la transustanziazione, sostenendo che pane e vino fossero solo simboli del corpo e del sangue di Cristo, ed aveva causato l’insurrezione di buona parte della Chiesa, fino alla definitiva condanna e ritrattazione avvenuta durante il concilio di Bordeaux del 1080. Comprensibile, quindi, che Guiberto cerchi di allontanare da sé ogni sospetto di eterodossia. b Allusione a 2 Cor. 3, 6: […] non littera sed spiritu: littera enim occidit, spiritus autem vivificat. c Le prime pagine del ms. Paris, BnF, lat. 2900 hanno subito alcuni guasti materiali: il testo in questo punto è danneggiato, e rimane leggibile solamente una desinenza -us. Huygens rileva con rammarico l’impossibilità di effettuare una congettura valida sulla base di un elemento così generico. Possiamo solo immaginare che qui si trovasse un epiteto riservato da Guiberto al suo detrattore, ma non si può neanche escludere del tutto che si trattasse di un generico monachus, o addirittura di un nome proprio. d Si tratta del libro IV del De Pigneribus. Questo accenno nel prologo, simile ad un ricordo impreciso, unito alla diversità tematica e all’assenza totale di cola
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go – con questo unico paragone inverso: ho concluso che come Cristo unisce ed incorpora a Sé in cielo i propri fedeli come sue membra con la benevolenza, così il diavolo inviscera coloro di cui diventa la testa dopo averli resi simili a sé con una rabbia pari e contraria.a Nessuno mette in dubbio che sia completamente assurdo e dissonante da ogni principio razionale che chi se ne va da questo mondo da malvagio riacquisti nell’aldilà quella grazia che qui, mentre è in vita, non si cura di avere; altrimenti risulta priva di senso la massima di Salomone, che afferma che un albero abbattuto, sia che cada a Sud sia che cada a Nord, rimarrà immobile dovunque sia cadutob: l’uno o l’altro, buono o malvagio, non rimarrebbe immobile se si staccasse da colui che è la propria testa. Ma dal momento che allontanarsi dal senso di un testo tanto autorevole è considerata un’assoluta empietà, discutiamo del loro pentimento così da non negare la loro perpetua impenitenza. Possiamo infatti affermare che essi si pentano, benché il frutto del loro pentimento sia interamente vano, solamente in relazione al fatto che tra le sofferenze dei loro supplizi disprezzano i peccati per i quali sono puniti, cosicché improvvisamente, quando si rendono conto dell’inutilità delle loro così grandi sofferenze – cosa che non può essere mutata in alcun modo –, il furore della disperazione sconvolge occasionalmente i loro cuori ed odiano tanto la loro condizione che si pentono di non aver peccato meno e non essere stati meno sfrenati nei loro vizi mentre erano in vita. Concorda con ciò quel passo di Isaia che dice: E solo il terrore darà la comprensione all'udito (Is. 28, 19). Quella che nel libro della Sapienza è definita “penitenza” in Isaia è chiamata “comprensione”. legamenti con i tre libri precedenti, porta ad ipotizzare che fosse stato composto autonomamente prima del trattato, e accorpato ad esso in un secondo momento. Per un discorso approfondito sulla questione, si veda il capitolo dell’introduzione riservato ai problemi testuali. a I termini commembres ed inviscerat sono rari e molto espressivi, probabilmente mutuati direttamente da Agostino (commebres si trova due volte nelle Epistulae ed una in Contra mendacium 2, 2; inviscerare è attestato una volta nelle Confessiones, e diverse in Epistulae e Sermones). b Eccle. 11, 3: Si ceciderit lignum ad austrum aut aquilonem, in quocumque loco ceciderit, ibi erit.
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Sebbene in Salomone si dica che presso i dannati non vi saranno né sapienza né scienzaa, è risaputo, tuttavia, che non sono privi di comprensione quanto al fatto che hanno sempre presente il motivo per cui soffrono, ma nel loro soffrire, poiché il loro discernimento non dà alcun frutto, scivolano nuovamente nella follia dell’ostinazione e del disprezzo. Da qui viene quel passo di Giobbe, quando descriveva la terra della miseria e delle tenebre, dove, dice, risiede l'ombra della morte e non c' è alcun ordine, ma solo l'eterno orrore (Iob 10, 22). Chiaramente vi sarebbe un “ordine” se colui che si pentisse si svincolasse dalla condizione e dalla sofferenza causate dall’azione di cui si pente; perciò lì c’è “assenza di ordine”, dal momento che da un lato, tormentato in proporzione al male compiuto, se ne pente, dall’altro arde furente e disperato per brama del male stesso. E quell’”orrore eterno” indica proprio questo furore, che divampa smisuratamente nelle anime crudeli a causa dell’abbandono di ogni speranza. Tutto ciò si ravvisa assai chiaramente nella vicenda del traditore Giuda: anche se egli da un lato si pente del tradimento perpetrato, tuttavia non trattiene in alcun modo le mani dalla propria rovina mettendosi d’impegno per rimediare alla colpab. Certamente, se quello che mi ha voluto impegnare con tale questione da nulla fosse qui, gli domanderei – e molto più a ragione di quanto non abbia domandato lui – quale sia la sua opinione riguardo alla parabola delle vergini stolte nel Vangelo, che chiedono a quelle sagge di prestar loro dell’olio ed allo sposo di aprir loro la porta ormai chiusac, dal momento che è indubbio che a nessuno, sia che sia destinato ad essere salvato, sia che sia già perduto, è lasciata in quel passo alcuna incertezza riguardo alla propria condizione dopo la resurrezione, a cui si allude in maniera evidente in quella parabola. Poiché dunque il giorno della morte di ciascuno viene talvolta chiamato nella Bibbia “giorno del giudizio” – infatti nell’attimo della nostra fine riceviamo la sentenza della nostra salvezza o della nostra dannazione – non può sfuggire a nessuno Eccle. 9, 10: nec opus nec ratio nec sapientia nec scientia erunt apud inferos. Matth. 27, 4-5. c Matth. 25, 1-11. a
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quale eredità gli tocchi in seguito, quando, una volta che lo spirito ha abbandonato l’involucro del corpo, si dirada completamente la nebbia che impedisce la visione dell’eternità, buona o cattiva che sia. Pertanto, se a chi è appena uscito dal corpo non sfugge nulla delle proprie sorti e la condizione della vita seguente si manifesta molto più chiaramente attraverso l’esperienza del corpo e dell’anima dopo la resurrezione, quando falsa devozione ed adulazione non dico non ottengono alcun effetto, ma non possono più sussistere, come possono reggersi di fronte a quella Verità queste parole, che se appena si pronuncino davanti ad una persona intelligente non stanno in piedi neanche nella vacuità di questo mondo? Chi infatti in questa vita potrebbe testimoniare per la coscienza di un altro se abbia senno, che non sia in grado di testimoniare per la propria se abbia giudizio?a Chi dunque, potrebbe fare la sciocchezza di chiedere qualcosa a Dio in quel frangente, o pretenderla da un uomo, se non è in grado di giudicare sé stesso in questa vita? Non potranno infatti nascondersi dietro ad una bugia dinnanzi a Lui, per il cui giudizio ogni cosa apparirà come nuda. Che dire di quanto si legge in un altro passo: molti diranno: Dio, non abbiamo forse profetato, scacciato demoni, e compiuto molti miracoli nel tuo nome? (Matth. 7, 22) Forse durante quel supremo esame cercheranno di discutere con Dio, che vede nei cuori, con dei balbettii puerili, come se non sapessero ciò che spetta loro? Quando la lettera tende all’assurdo, bisogna badare a quale senso in essa si manifesti. Di conseguenza non vi sarà nulla che in quell’occasione uno spirito sagace possa dire o escogitare, ma le cose che può pensare un uomo stupefatto dalle grandi “virtù” – tali sono ritenute – dei bugiardi in questa vita, possono crederle persino i bugiardi stessi, accecati dalla lode carpita dagli uomini, i quali sono convinti che gli aspetti che di loro sono celebrati dalla gente valgano qualcosa di fronte a Dio. Per cui guai a coloro che attendono il giorno del Signore (Amos 5, 18): è cieco infatti chi spera in una ricompensa di cui si ritiene degno per le false adulazioni di miserabili. a
2 Cor. 1, 12: testimonium conscientiae nostrae.
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Così dunque coloro che si trovano all’inferno fanno penitenza dentro di sé ogni volta che attraverso la riflessione sulla loro condizione ed il loro esempio di dannazione, considerata l’eccellenza dei santi, spingono altri a pentirsi. Infatti, se crediamo che coloro che vengono puniti all’inferno provino pena perché il sole della giustiziaa non ha brillato per loro, copriamo con un’interpretazione distorta le parole del sapiente: da parte di un morto viene meno la confessione (Eccli. 17, 26) e del salmo: e negli inferi chi mai Ti professerà, e: non vi è nella morte chi si ricordi di Te (Ps. 6, 6), ed ancora l'empio, giunto al fondo della malvagità, diviene sprezzante (Prov. 18, 3). Dove, infatti, i santi rimangono saldi nella propria grande costanza se non di fronte alle avversità di questa vita? Dinnanzi a quelle stesse difficoltà gli empi hanno cessato i propri sforzi, mentre hanno detto di aver tanto sofferto in nome di Dio inutilmente. In conclusione, facciamo in modo di avere opinioni condivise nell’ambito delle Scritture, altrimenti emergeranno un gran numero di interpretazioni discordanti le une dalle altre.
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Malach. 4, 2: sol iustitiae; Sap. 5, 6: inustitiae lumen non luxit nobis.
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Se è male avere un’opinione errata riguardo alla resurrezione generale di tutti gli uomini, togliere qualcosa alla resurrezione del Signore stesso, la Testa di tuttia, è addirittura perverso. Dal momento che il realizzarsi di questa speranza dipende completamente dal Suo stesso esempio, senza dubbio ogni effetto di questa promessa è reso vano se vacilla la convinzione che colui che se ne è assunto l’impegno possa adempierla, o se qualche parte di ciò che è stato promesso viene meno in qualche modo. Infatti, quando chi fa una promessa non la mantiene viene accusato di menzogna, o comunque dà prova agli altri di non essere in grado di realizzare ciò che aveva detto che avrebbe procurato loro. Ora, poiché è terribile anche solo sfiorare il pensierob di sminuirec la potenza di Dio o attribuirGli il marchio di chi non mantiene la parola data, nessuno si permetta di dire con pretese di religiosità ciò che risulta empio per la ragione di tutti in maniera facilmente dimostrabile, e tale da corrispondere ad un oltraggio nei confronti dell’universo dei credenti. Se alcuni si permettono di farlo a bene1 Cor. 11, 3: omnis viri caput Christus est. Per il verbo succogitari mancano attestazioni: potrebbe trattarsi di una creazione di Guiberto, frutto di un tratto tipico del suo stile, ovvero la predilezione per i verbi composti. c Dequoquere è espressione singolare di stampo classico: significa “restringere con la cottura” o in gergo tecnico economico “fare bancarotta”, ma qui è usata col significato traslato di “sminuire”. a
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ficio del prestigio delle proprie chiese – facendo così venir meno del tutto i principi della nostra fede – questo onore, che è fonte di diminuzione e perdita della speranza per tutti, deve essere considerato assolutamente spregevole: se carichi tanto di oro la mano destra da fiaccare con tale ornamento le energie di tutto il corpo, una bellezza di questo tipo, che rechi danno al tutto per metterne in risalto una parte, sarà molto nociva; allo stesso modo, quando le fronde spuntando si fanno troppo fitte il ramo si secca, ed anzi l’intero albero muore. Si aggiunga anche che, come è noto, si è sviluppata fino ad ora una tale moderazione riguardo alle cose che si osservano e si insegnano nell’ambito della Chiesa, che nessuno osa promulgare nulla se non ciò che ad un controllo molto scrupoloso risulta consono sia nella teoria che nella pratica alla fede Cattolica. Ci sono in realtà alcune consuetudini che sono osservate ma non vengono insegnate, come i vari usi nel digiunare o nel cantare i salmi, che, benché siano diversi quanto alla pratica, non sono in nessun modo in contraddizione con lo spirito della fede; chi non si distingue nell’intenzione da chi digiuna o canta in maniera differente non può essere accusato solo perché lo fa in un modo diverso: altrimenti chi in conformità con la fede difendesse altre pratiche ascetiche e liturgiche si potrebbe – e giustamente – definire “scismatico” per la singolarità delle proprie prerogative. Se, dunque, canti e digiuni in una maniera diversa, ciò non ti autorizza a predicare ed imporre sfacciatamente il tuo metodo ad altri che seguono pratiche altrettanto valide. Ascolta l’apostolo: Chi mangia, mangia per il Signore, ed anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore (Rom. 14, 6): si fa in fretta a dare il medesimo giudizio su questioni simili. Vi sono poi consuetudini che si osservano, come i sacramenti del battesimo e della comunione, che sono tanto comuni alla cristianità che senza di loro la nostra fede non potrebbe sussistere, e perciò sono mantenute sempre identiche ed ovunque immutabili in via autoritativa cosicché sempre ed ovunque vi si accompagni, le preceda e le segua una dottrina uniforme. Per “uniforme” intendo in modo che l’insegnamento proceda di pari passo con ciò che viene proclamato pubblicamente. Tra questi due sacramenti, però,
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c’è differenza: senza il battesimo dell’acqua o del sanguea uno non può essere cristiano, ma senza l’eucaristia invece sì, purché rimanga saldo nella sua fede con costanza. Questo può essere riscontrato in molti martiri o eremiti, di cui alcuni non hanno mai ricevuto l’eucaristia, altri una volta sola o molto raramente, ma sono poi diventati santi rivivendola nel proprio corpo con pia fatica per mezzo di un lungo romitaggio. La stessa cosa si ritrova nei precetti per insegnare che la fede deve essere considerata sufficiente alla salvezza anche in mancanza di tutto il resto, per cui l’apostolo dice: A chi invece non lavora, la fede viene accreditata come giustizia (Rom. 4, 5). Ancora maggiore importanza, tuttavia, viene attribuita alla carità, dal momento che essa è posta al di sopra della fede e della speranzab, che è la sola a valere per tutte ed è l’unica ad essere definita opera quasi per antonomasia; dice il Salmo: e governa Tu in noi le opere delle nostre mani, in riferimento al comune esercizio di qualsiasi buona professione, e: e dirigi l’opera delle nostre mani (Ps. 89, 17), cioè: mostraci i doni spirituali più importanti, ovvero la via più elevata. Queste dottrine vengono insegnate presso di noi perché sono osservate, e continuano ad essere osservate grazie all’insegnamento. Ci sono, inoltre, alcune pratiche che benché non figurino tra quelle assolutamente indispensabili alla nostra salvezza, di cui abbiamo parlato, senza le quali non si può vivere rettamente, tuttavia vengono osservate e sono oggetto di predicazione all’interno delle chiese, senza il cui impiego e la cui presenza molti hanno vissuto e continuano a vivere bene: è il caso dei corpi dei santi e delle reliquie che furono in loro possesso. Queste sono per noi oggetto di venerazione e di culto, in relazione all’esempio ed alla protezione che offrono; senza dubbio in questi casi l’unico criterio valido da utilizzare sarebbe definire santo solo colui la cui santità non si basa su un’opinione, ma sulla solida tradizione dei tempi antichi o di scrittori affidabili. Come pensi che possa essere, per così dire, Letteralmente: “senza l’acqua o il sangue”; si è scelto di rendere esplicita l’allusione al “battesimo del sangue”, cioè il martirio. b 1 Cor. 13, 13: fides, spes, caritas, tria haec: maior autem horum est caritas. a
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“santificato”a colui del quale non si conosce alcuna testimonianza degna di credito, né tanto meno qualche notizia che sia confermata dalla presenza di scritti o dall’esperienza manifesta di miracoli? Per “scritti” intendo testi che siano in grado di corroborarli! Ci sono veramente tanti racconti su ciascuno dei santi che avrebbero l’effetto di rendere empia agli occhi dei non credenti la loro lode piuttosto che darle lustro in alcun modo; in questi racconti anche le cose vere sono presentate, anzi abbaiate sguaiatamente, con un linguaggio talmente povero, dimesso e che, per usare una metafora poetica, “striscia per terra” b, da indurre a considerarle del tutto false, mentre invece non lo sono per niente. E come potrà il modo di esprimersi di questi autori, che con la sua indecorosa rozzezza rende dubbia perfino la verità, non servire ad abbellire la falsità dei contenuti? Chi possiamo ritenere risparmiato dallo scempio di questa macchia, quando le Vite di alcuni apostoli sono tanto nere di fuliggine da sembrare più delle filastrocche? Quale messaggio edificante potrebbe recare ai devoti lo stridìo delle ruote di queste storielle, peggiore di quello di tutto il carroc, che fornisce, anzi, un incentivo alla blasfemia degli empi? Come si potrebbe chiamare la Storia di Tommaso, a cui Agostino si oppone non una volta sola ma in numerosi passid, se non rumore per le orecchie? Forse Dio o i santi necessitavano, parafrasando a In latino c’è un fine il rimando etimologico che collega sancitur (da sancire, verbo che da solo significa semplicemente “approvare”) al sostantivo sanctus. Il gusto per il jeu de mots è un tratto tipico dello stile di Guiberto. b Qui l’autore esibisce la citazione di un verso di Orazio (Ars Poetica 28: serpit humi tutus nimium timidusque procellae). c La metafora del carro, incastonata nella frase, costituisce un modo di dire proverbiale. Detti simili sono attestati in Hans Walther, Proverbia sententiaeque latinitatis medii aevi = lateinische Sprichwörter und Sentenzen des Mittelalters in alphabetischer Anordnung 6 vols., Göttingen, 1964: Deterior plaustri stridula sepe rota est (no. 5514); deterior toto plus personat orbita plaustro (no. 5516); Est rota deterior garrulitate prior (no. 7872); Peior rota carri semper clamat (no. 21142); Stridet maiori sonitu pars pessima plaustri (no. 30370). Il proverbio “la più cattiva ruota del carro sempre cigola” figura ancora in alcuni dizionari di lingua italiana del secolo XVIII e XIX (tra cui: Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1724; Dizionario della Lingua Italiana a cura dell’Accademia della Crusca, 1827). d Agostino, De sermone domini in monte 1, 20, 65; Contra Adimantum 17 e Contra Faustum 22, 79.
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Giobbe, della loro menzogna, che parlassero con l’inganno in Suo favorea! Se i santi apostoli stessi, che furono attaccati a Cristo come i capelli o la barba lo sono alla testa, non ebbero mai bisogno di intrighi di questo tipo – e se le nostre informazioni non derivassero direttamente dai Vangeli o dai loro stessi Atti, le bugie di costoro avrebbero turbato gli animi di alcuni –, che dire di quelli che hanno acquisito buona luce senza testimonianze provenienti da altre fonti, e sono avvolti nell’oscurità proprio per il fatto che si ritiene opportuno celebrarli con scritti di ogni sorta? Che dire su coloro della cui vita non sono noti a nessuno né la nascita né la maturità, e la morte, in cui è cantata ogni lodeb, si ignora completamente? Chi potrebbe pregare per il loro aiuto, non sapendo se abbiano o no qualche merito presso Dio? Non incorre forse in un grave errore la coscienza di un uomo che presenta a Dio come intercessore in proprio favore uno verso cui non nutre grandi aspettative? Non indebolisce forse l’efficacia della propria preghiera, anzi della propria intenzione, chi non sa se colui al quale si rivolge abbia qualcosa in comune con Dio? Ho visto taluni che, dopo aver considerato per moltissimo tempo confessore un tizio a loro dire santo, portato dalla Bretagna, cambiata improvvisamente opinione presero a venerarlo come martire: pur avendogli io chiesto più volte il perché, non seppero dire nulla di più plausibile sul martirio di quell’uomo di quanto avessero saputo dire sulla sua desueta qualifica di confessore. Nella Vita di Sansone, santo celeberrimo presso i Franchi ed i Bretoni, ho letto – chiamo Dio a testimone – e riletto con estrema ripugnanza a coloro che erano con me, di un certo abate che quella lettura chiama San Pirone; mentre leggendo diligentemente cercavo notizie della sua morte, che immaginavo beata, ho scoperto l’apice della sua santità: l’uomo, evidentemente ubriaco fradicio, era caduto in un pozzo, e così annegato. Né mi sfugge che Lanfranco di Canterbury, vescovo presso gli Angli, pone ad Anselmo, al tempo abate di Bec ed in seguito suo Iob 13, 7. Come evidenziato in nota da Huygens (p. 88), si tratta di una formula proverbiale. Cfr. H. Walther, Proverbia sententiaeque, cit., n° 20239. a
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successorea, una questione su un suo predecessore, che, gettato in prigione, fu ucciso perché si rifiutò di pagare il proprio riscatto. Che dire di quei santi la cui morte avviene apertamente nel peccato o non si sa se sia buona o cattiva, o se si è in dubbio tra le due cose? O pio Gesù, che genere di santo è colui la cui morte risulta ambigua! Prima di poterlo pregare, dunque, bisogna che io metta in discussione la certezza della sua santità. Oserò definire un’empietà il fatto che persone di cui l’epoca, la nascita e la vita, e persino il giorno ed il modo delle rispettive morti non trovano posto nella memoria di alcun uomo vivente occupino i troni più alti dietro i sacrari degli altari, come fossero i seggi celesti. Benché i fedeli li onorino in virtù della loro fama di santità, sbagliano – sia detto in buona pace loro – i sacerdoti che non rimproverano e non correggono la plebe portata qua e là dal vento della propria illusione.b Se, infatti, nessuno è innalzato legittimamente ai sommi ranghi senza testimonianze, saranno nobilitati con titoli sconsideratamente falsi, anzi sacrileghi, e a tal fine presentati in modo che si elevino al di sopra di tutti i mortali, uomini forse relegati nel purgatorio o condotti alla rovina nel Tartaro, che se sapessero che gli gioverebbe e ne avessero la facoltà supplicherebbero loro i mortali di aiutarli, insieme a quel famoso riccoc? Sia compito dei vescovi, dei custodi del popolo di Dio assicurarsi di prendersi cura dei propri fedeli affinché, se hanno zelo per Dio, gli sia concesso di averne solamente con criteriod, perché non pecchino se presentano offerte nel modo giusto ma non le dividono correttamentee. Se secondo il profeta guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene (Is. 5, 20), quale perversione maggiore che introdurre I due, importantissimi teologi e filosofi attivi nel secolo XI, sono noti in Italia anche come Lanfranco di Pavia (1005-1089) ed Anselmo d’Aosta (1033-1109). b Ephes. 4, 14: ut iam […] non circumferamur omni vento doctrinae. c Cfr. Luc. 16, 19-25. Guiberto si sofferma molto su questo passo evangelico nel libro IV (cfr. libro IV, nota d, p. 155). d Rom. 10, 2: aemulationem dei habent, sed non secundum scientiam. e Anche Huygens dimostra qualche difficoltà nel cogliere il riferimento preciso, e rinvia genericamente a Matth. 12, 7 (in nota a p. 89): in realtà esso è probabilmente da ricercare nei primi tre capitoli del Levitico, contenenti precetti riguardanti la pratica del sacrificio a Dio e la divisione in parti delle vittime immolate. a
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nei sacri altari individui che forse conveniva addirittura bandire dalle chiese stesse? Se coloro dai cui corpi dopo la morte scaturirono dei miracoli non furono liberi da supplizi nell’anima, come leggiamo – abbiamo appreso per esperienza, infatti, che il giusto si salva a stentoa –, che cosa sarà lecito aspettarsi da quelli alla cui fama non contribuirono né la visione, né l’udito, né testimonianze scritte né miracoli? Certamente si sarebbe dovuto credere assai difficilmente ai miracoli, fuorché a quelli compiuti da chi aveva mantenuto una buona condotta dall’inizio alla fine della propria vita. Questi casi infatti sono considerati così – per così dire – ambiguib che si dice attribuiscano glorie tanto a destra quanto a sinistra: infatti Colui che divise il Mar Rosso per i figli di Israelec, per Alessandro Magno divise il Mare Panfilicod; leggi in Svetonio in che modo Vespasiano fece alzare uno zoppo toccandolo con l’allucee; è evidente a chiunque che dei miracoli hanno preceduto l’ascesa di grandi principi, come quella del suddetto Alessandro, di Giulio Cesare, di Ottaviano ma anche di altri, e che Carlo e suo figlio Ludovico ebbero dei presagi della loro mortef. Abbiamo ravvisato anche al nostro tempo che alla morte dei nostri re e di quelli di Lotaringia o Anglia, e nel momento del cambio di regno sono comparse molto spesso delle comete. Che dire del fatto che vediamo il nostro signore, re Luigig, compiere prodigi abitualmente? Ho visto di persona questi che soffrono di scrofola intorno alla gola o in qualche parte del corpo affollarsi in massa per ricevere 1 Petr. 4, 18: si iustus vix salvabitur, impius et peccator ubi parebunt? Il termine usato dall’autore, amphibola, è un grecismo attestato varie volte in Boezio, nel De Divisione e nella sua traduzione degli Elenchi Sofistici di Aristotele. c Ps. 135, 13-14. d L’evento, quasi miracoloso, è da annoverare tra le leggende che circolavano nel medioevo su Alessandro Magno, personaggio storico al quale erano attribuite le caratteristiche di un semidio o di un eroe classico. Sull’argomento, si veda G. CaryD. J. A. Ross, The Medieval Alexander, Cambridge, 1956, p. 126-127. e Svetonio, Vitae Caesarum 8, 7. f Per quanto riguarda Carlo il riferimento è ad Eginardo, Vita Karoli 32; quanto a Ludovico, la fonte di Guiberto potrebbe essere stata l’anonimo detto l’Astronomo, Vita Hludovici imperatoris 62. g Luigi VI (1108-1137). Questo passo è tra le prime importanti testimonianze di tale pratica; per approfondimenti sull’argomento: M. Bloch, Les rois thaumaturges, Paris-Strasbourg, 1924. a
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il suo tocco seguito dal segno della croce, mentre io gli facevo da scudo e cercavo addirittura di allontanarlo, ma lui, per innata generosità, li segnava con mano serena chinandosi umilissimamente verso di loro. Anche suo padre Filippoa amministrava instancabilmente questo glorioso miracolo, ma ne perse la capacità per effetto di non so quali colpe. Soprassiedo su come si comportino altri re a questo proposito, ma so per certo che il re degli Angli non osa mai cimentarsi in tali pratiche. Pertanto bisogna sapere che i doni dei miracoli sono distribuiti in vari modi. Vi sono infatti alcuni uomini attraverso i quali tali prodigi passano come attraverso canali, e mentre contribuiscono tramite questi al bene altrui, personalmente non risultano coinvolti da ciò che accade per mezzo di loro. E per questa ragione il profetare di Balaam e Caifa, senza dubbio, si può paragonare alla loquela dell’asina ed alla visione dell’angelo, perché le parole che pronunciarono esteriormente furono completamente aliene da lorob. Dato che assistiamo a molte profezie sul futuro anche da parte di uomini in punto di morte di qualsiasi qualità e li vediamo annunciare molte cose riguardo a quel che accadrà nel tempo a venire, di conseguenza allo stesso modo siamo soliti dare valore anche alle parole di bambini del tutto innocenti: infatti essi sono soliti proferire parole piene di preveggenza su eventi che riguardano loro stessi e gli altri, quasi in virtù della loro inconsapevolezza. Questo sarà chiaro grazie all’esempio seguente. Pochissimo tempo fa, cioè la scorsa Pasqua, nello stesso giorno in cui questa festività si celebrava, nella vicina città di Soissons una donna aveva portato il proprio bambino in chiesa per ricevere Filippo I (1060-1108). L’episodio della loquela dell’asina di Balaam si trova in Num. 22: l’asina vede l’angelo inviato da Dio per fermare Balaam, e cerca di evitarlo cambiando strada; Balaam, che non lo può vedere, la percuote per la sua disobbedienza, ma Dio le infonde la capacità di parlare per poter ammonire il padrone, che finalmente nota l’angelo. Balaam a sua volta profetizza per ispirazione divina in Num. 23-24, mentre la profezia di Caifa si trova in Ioh. 11, 49-52. Guiberto cita l’esempio umano di Balaam e Caifa, che profetando al di fuori delle loro intuizioni divennero veicoli del messaggio divino, paragonandoli all’asina e l’angelo, il cui ruolo di “mezzi” è invece da sé evidente (l’uno è messaggero di Dio, l’altra una bestia priva della parola e della volontà). a
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la comunione; mentre si avvicinava il momento di compiere l’eucaristia ed il fanciullo, fino ad allora ignaro di ogni cosa, stava in piedi davanti alla madre alle spalle del sacerdote, vide che in mezzo all’altare, mentre veniva celebrata la liturgia, veniva innalzato tra le mani del sacerdote un bambino di straordinaria bellezza. Osservando rapito questo spettacolo, per quella curiosità puerile che non permette che si taccia ciò che si è visto, esclama rivolto alla madre, con tutta la chiesa ad udirlo: “Mamma, mamma, non vedi che bel bimbo regge il prete sull’altare?” Ma la madre, pur guardando e riguardando, non aveva colto niente di questa visione. Dopo un po’, però, intanto che il sacerdote dopo l’elevazione riponeva l’ostia e la copriva con un telo di lino, di nuovo prende a gridare: “Ecco, lo avvolge in un panno bianco!a“. Mentre ripeteva davanti a tutti i presenti queste precise parole, i più intelligenti si resero conto che l’innocenza puerile fissava quel bel fanciullo con certi occhi, mentre con altri si vedeva il velo materiale dal quale l’oggetto intellettuale era avvolto e coperto. Ecco, colui che ha avuto questa visione è allevato per una vita secolare, e non c’è motivo di credere che abbia migliori aspettative per la vita seguente, dato che si capisce senza ombra di dubbio che questa visione non genera merito né aumenta la gloria di chi vi ha assistito, ma accresce la fede di coloro che la ascoltano. E come si potrebbe dire che abbia visto ciò soltanto per il proprio bene o la propria gloria, lui che – si capisce – una volta tornato nei limiti delle normali percezioni stenta a ricordare o non ricorda per niente cosa ha visto in precedenza? Si trovano poi anche altri ai quali questo genere di visioni non accade a causa di meriti precedenti, né tocca secondo un criterio razionale, ma tale gloria capita a dispetto di ogni impegno e di ogni fatica, e quasi di ogni giustizia. Ciò risulta perspicuo nel caso dei santi Innocenti, che pur avendo subito il martirio senza porre mente a Dio o alla prospettiva di un premio, ottennero in premio tutto ciò che è di Diob: è proprio del potere del vasaio, infatti, fare un vaso per uso nobile o farlo per uso Cfr. Luc. 2, 7: peperit filium suum primogenitum et pannis eum involvit. Si tratta dei bambini uccisi per ordine di Erode durante il massacro degli innocenti. a
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volgarea. È Lui stesso, appunto, che obietta: Non mi è lecito fare ciò che voglio fare? (Matth. 20, 15) Egli infatti usa misericordia con chi vuole e tempra chi vuole (Rom. 9, 18). Su questo l’esempio fornito dall’età moderna non è differente. Nei dintorni della città di Saint Quentin un giovinetto era stato aggregato al clero per scelta dei genitori, e, se non erro, era già salito al grado di accolito. Durante un giorno di celebrazione, al momento dell’offertorio egli aveva preso posizione di fronte all’abside, tra l’altare e l’abside, per svolgere il proprio compito, e portava la patena contenente l’ostia che doveva essere offerta; dalla parte frontale del cancello sporgeva una statua in gesso con le sembianze del Cristo crocifisso, che non era molto distante dalla tomba di San Quintino. Avvicinandosi alla statua con in mano le offerte, con un modo di esprimersi ed un pensiero ugualmente infantili disse rivolgendosi ad essa: “Signore, volete il mio pane?” Ed Egli si degna di rispondergli manifestamente: “Molto presto ti darò io il pane mio”. Il fanciullo, dopo aver udito queste parole, viene colpito da una malattia ed entro pochi giorni, spogliato di quel suo corpicino di uomo che aveva per breve tempo abitato, è elevato ad indossare la tunica celeste, e viene seppellito davanti alla statua che gli aveva fatto questa promessa. Ho appreso queste cose dal racconto del clero di quella stessa chiesa, e dal momento che la presenza della tomba le conferma, ho visto ed ho creduto; così come il primo miracolo che ho riferito l’ho sentito dal mio signore Rodolfo, arcivescovo di Reimsb, e lo attestano anche la gente di Soissons ed il clero e il popolo di Laon. Dice Seneca nei suoi libri Sui Benefici che chi rende qualcosa in cambio della generosità altrui si comporta come i mercanti, chi invece dona in maniera disinteressata agisce ad imitazione di Dioc. Dirò sicuro e con certezza che è molto più naturale per Dio elargire una grazia, piuttosto che contraccambiare il merito di qualcuno. Vi sono alcuni, inoltre, la cui fede si guadagna molto merito da parte della misericordia divina, al punto che Colui il cui cibo Cfr. Rom. 9, 21. Rodolfo fu arcivescovo di Reims dal 1108 al 1124. c Seneca, De beneficiis 3, 15, 4: qui dat beneficia deos imitatur, qui repetit, feneratores. a
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è fare la volontà del Padre Suoa assegna in particolar modo a loro la realizzazione della propria stessa salvezza, avendoli trovati più zelanti nel reclamare ciò che con la fede avevano conquistato. Per questo è familiare a molti la Sua parola: la tua fede ti rese salvo (Marc. 10, 52). Il che vale a dire: apprezzo così tanto l’insistenza della vostra fede, che invece che da me la vostra integrità dipende da voi. E ciò lo ha mostrato Lui stesso con un esempio singolare ai nostri tempi. Nella zona di confine tra la provincia di Cambrai e quella di Arras, se non erro, un giovane ed una fanciulla, legati da una strettissima parentela di sangue, abitavano sotto lo stesso tetto in un villaggio di campagna. Dal momento che l’assiduità della coabitazione offriva intimità, e l’intimità l’ardire di un pensiero folle, presto uno scandaloso incesto corruppe la loro incauta vicinanza. Ben presto, quando la giovinetta si accorse che quella lussuria aveva portato ad un concepimento, i due presero a dolersi l’uno con l’altra bisbigliando ininterrottamente, non senza lacrime, a paventare il disonore dei propri genitori ed a temere gli sguardi. Decidono quindi di allontanarsi dal paese natale, ma la fanciulla, molto timorosa del proprio peccato, corre dal prete e gli confida con atroce dolore la sua colpa. Fatto ciò, di notte partono entrambi da quel villaggio, come con l’intenzione di migrare in una regione straniera. Procedendo non lontano oltre quei campi, si trovarono davanti al margine di un pozzo abbandonato ormai da un pezzo. Dice il giovane: “Sediamoci qui, perché tu possa alleviare il peso del tuo grembo sostando sull’orlo del pozzo”. Quella credette allo stratagemma, ed una volta che si fu seduta di fronte al folle giovane, l’infame la gettò nel pozzo spingendola all’indietro. Dopo un po’, mentre lei, ripresi i sensi, si lamentava per il dolore dovuto all’altissima caduta, lui prese a gridarle se fosse viva, quasi con una nota di biasimo. Così, percepito il mormorio della sua voce lamentosa, rendendosi conto che era sopravvissuta, comincia gradualmente a gettar pietre verso di lei. Subito la giovane donna si ranicchiò tacendo in un angolo Cfr. Ioh. 4, 34: Dicit eis Iesus: meus cibus est ut faciam voluntatem eius qui misit me. a
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adiacente del pozzo, non tanto per adagiarsi, quanto per sfuggire a quella pioggia di sassia; dal momento che lo scellerato non udiva né un respiro né un lamento, la ritenne morta non meno per la caduta che per le sassate. Così si allontanò, e tornò a casa propria tutto contento per il delitto. Della fanciulla non se ne parlò quasi piùb, salvo dire che si era allontanata da sola. Posta in seno a quella cavità, dunque, quando persa ogni speranza non si aspettava del nutrimento nemmeno da Dio stesso, si accorse che da quella zolla erbosa che le stava sopra la testa cadeva abbastanza di frequente una goccia d’acqua, e mettendoci sotto la bocca era talmente ristorata da quel così piccolo sorso, che per lei eguagliava le ricchezze di Sardanapalo.c Ma perché farla lunga? Aveva trascorso lì dentro circa quaranta giornid, senza essere alimentata da altro sostentamento che quello derivato dalla goccia di cui dicevamo. Nel frattempo, intorno al quarantesimo giorno, dei porcai e dei pastori di pecoree stavano conducendo da ogni parte greggi e mandrie attraverso i campi adibiti a pascolo comune in prossimità del pozzo, e mentre vi transitavano ecco che sentono dal profondo un suono di grugniti proprio in quel punto; facendo sporgere le teste dalla cima del pozzo, intuiscono dalla voce che lì dentro era caduto un essere umano, e dopo averlo chiamato a squarciagola, si accorgono che si tratta di una donna. Le chiedono ripetutamente chi mai fosse, e lei tuonò con forza chi era e da quale paese veniva, erompendo in un forte grido. Udito questo, i pastori si recano nel villaggio più vicino con la prontezza di Pegasof, e dichiarano di aver trovato quella che tutti pensavano fosse morta tragicamente o se ne fosse andata in esilio. Senza indugio si precipita là una folla di campagnoli, il popolo femminile vi si reca volando; la tenera età non trattenne i pargoli, a L’espressione saxeos imbres, dal tono classicheggiante, potrebbe rimandare a Stazio, Theb. 7, 408: nunc sanguineus, nunc saxeus imber. b Le parole che Guiberto usa in latino, fabula rara fuit, ricalcano lo stilema ovidiano fabula nulla fuit (Trist. 4, 10, 68; Am. 1, 9, 40). c Leggendario re Assiro, dalla ricchezza proverbiale. d Numero biblico che simboleggia il tempo della penitenza. e Virgilio, Eclog. 10, 19: Venit et opilio, tardi venere subulci. f Il famoso destriero alato della mitologia greca, nato dal sangue di Medusa e cavalcato da Bellerofonte, la cui velocità era proverbiale.
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l’indolenza non ostacolò le vecchie abbastanza da impedire che persino i più pigri accorressero. Viene poi calato uno che tiri fuori la ragazza sprofondata con delle funi, e la porti al cospetto della folla in attesa; una volta che fu davanti a loro ed ebbe raccontato i fatti relativi a quel salvataggio tanto incredibile, la fama del miracolo non si mantenne entro i confini del medesimo villaggio, ma questo prodigio, del tutto inusuale al nostro tempo, si diffuse in regioni remote. Ecco a cosa è valsa la fede nella penitenza, a cosa è valsa la perseveranza nell’intento di redimersi. Ha fede nella penitenza colui che dopo la grazia della confessione, per la certezza di essere stato emendato, non dispera mai del perdono. Questa è dunque quella fede che l’Apostolo loda in quasi tutti i patriarchi precedenti, con tanta frequenza da elencare insieme a loro anche Raab e Ieftea, che hanno motivi molto più oscuri rispetto agli altri per cui se ne celebri così tanto la fede. D’altra parte è proprio di questa, che mi sembra la fede tipica di una donnicciola, il ricorso fiducioso e ciecob a Dio nel momento del bisogno; eppure essa vale così tanto presso Dio che la pietà celeste non può negare aiuto neanche a coloro di cui non seguirà affatto la redenzione. Per questo i profeti spesso si rivolgono a Lui dicendo: agisci senza indugio per amore di te stesso, e liberaci per l’onore del tuo nome (Daniel 9, 19; Ps. 78, 9). Di conseguenza, dirò
Hebr. 11, 31-34; Raab è infatti una prostituta (si veda Ios. 2, 1-23 e 6, 23-25), mentre Iefte un giudice di Israele che pur di vincere una battaglia fece voto a Dio di sacrificargli al suo ritorno chiunque per primo gli fosse venuto incontro, e dovette offrire in olocausto la sua unica figlia per mantenere la promessa (si veda Iud. 11). Questo comportamento secondo Guiberto è indice di una fede praecipua mulierculae, come dirà subito dopo, ed ecco perché i due personaggi, seppur così diversi, sono presi ad esempio insieme. b Il termine latino irreverberatus, che reca il peso dell’auctoritas di Gregorio Magno (Moralia 9, 32; Hom. In Hiezech. 1, 4, 2), è molto difficile da tradurre: è usato principalmente in riferimento all’aquila, animale che si credeva fissasse il sole irreverberatis oculis o irreverberata acie, cioè senza socchiudere gli occhi, senza distogliere lo sguardo. Oltre a simboleggiare il Figlio che guarda apertamente il Padre, essendo l’unico a sostenerne la vista, tale caratteristica prefigura la contemplazione della luce divina da parte dell’intelletto. Si è scelto di interpretarlo nel senso di un completo abbandono a Dio. a
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con assoluta certezzaa che Dio, che è pietà, non può rinnegare Sé stesso in modo da non prestare soccorso anche a coloro che sono destinati ad essere banditi da Lui, perfino più prontamente che ai giusti, dal momento che i giusti li mette alla prova per il loro bene, mentre a quelli dispensa più in fretta ciò che chiedono determinando il proprio giudizio di loro. Ci sono, infine, anche altri che si rendono meritevoli delle glorie odierne e sopracelesti non nell’immediato per sola fede, ma attraverso una pia sofferenza molto prolungata. Nella cattedrale di Cambrai circa due anni fa ci fu un decano di nome Erlebaldob, che era stato anche sommo custode del Tempio, il quale nelle molte prediche che faceva al popolo per tutto il territorio circostante riportava lo stesso esempio che ho riferito poco fa, per mostrare il frutto della sincera confessione. Egli, che avviliva il proprio corpo col pesante fardello della penitenza, deperì a causa del perenne sudiciume del cilicio, che pulì raramente o mai, dentro al quale si formò una tale colonia di vermi che brulicavano come acqua bollente, da ritenere eccezionale come la carne umana fosse in grado di sopportarlo; ma lui non se ne privava nemmeno mentre dormiva: non utilizzava mai alcun cuscino, usava come giaciglio una sorta di panca senza l’appoggio di alcuna copertura, non si coricava mai nudo. Avvicinandosi alla fine della propria vita, egli cominciò ad essere gravemente tormentato nello spirito da dei demoni, e a sentirsi come trascinato da loro nel sudiciume; dato che coloro che lo andavano a trovare si domandavano le cause di questa sofferenza, spiegò che ciò gli era cagionato dai diavoli, soprattutto per il fatto che aveva omesso di correggere pienamente il clero che gli era stato affidato. Una volta morto, apparve a molti con un bell’aspetto, ed in particolare al vescovo: quando questi gli chiese che ne fosse a Quanto all’espressione certo certius, Huygens evidenzia in nota (p. 95) che si tratta di uno stilema plautino; risale infatti a Captivi, la commedia di Plauto meno licenziosa e l’unica priva di vicende amorose. Difficile, tuttavia, che sia un riferimento diretto e consapevole e non, piuttosto, mediato, anche se termini di ascendenza plautina compaiono in altri passi. b Henri Platelle (Guibert de Nogent et le “De Pignoribus sanctorum”, cit.) sostiene si tratti molto probabilmente del medesimo Erlebaldo, decano di Cambrai, attestato tra il 1112 ed il 1117.
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di lui, rispose in questo modo: “Nei trenta giorni trascorsi”, disse, “sono stato castigato ogni giorno a colpi di frusta”. Il vescovo gli disse: “Perfino tu, mio signore? Per quale motivo?” E lui rispose: “Mi sorprende questa domanda, perché sai che un uomo, benché santo, volente o nolente è soggetto a tanti errori dovuti alle proprie debolezze. Ma avresti dovuto meditare sulle cose che hai confessato a Dio ed a me, per correggerti come mi avevi promesso. Perciò non tardare a redimerti, perché ti conviene farlo”. Infatti gli era toccato in sorte morire nel giorno del Natale del Signore. In seguito questa visione ed altre capitate ad altri uomini divennero note a tutti, e mentre ormai si credeva di lui ogni genere di cosa con buona speranza, in relazione alla serie di quelle apparizioni ed alla religiosità della sua vita, si era arrivati poco dopo la festa di Pasqua. Ed ecco che nel monastero di Bourbourg, che è dimora di sante monache dalla grande devozione, c’erano state due ragazzine di indole assai brillante, una delle quali, mentre giaceva morente il giorno prima della Resurrezione del Signore, ricevette visita da parte dell’amica e, con molte suppliche, fu convinta a prendere l’impegno di tornare da lei una volta abbandonato il proprio corpo, se al suo spirito fosse stato lecito col permesso di Dio, e di rivelarle che cosa le capitasse di bene o di male: infatti si erano molto legate in un vincolo di affetto reciproco, e loro che nella vita avevano sempre saputo tutto l’una dell’altra non volevano smettere di farlo morendo. Così, dopo qualche giorno dalla morte della fanciulla e dalla festa della Pasqua, quando la giovinetta rimasta in vita si era recata nel dormitorio per fare non so cosa, ecco che improvvisamente le si parò davanti la sua amatissima compagna, che non aveva un aspetto né funereo né orribile ma brillava nel modo che più poteva apparire gradevole ai sensi. Quella viene presa da infinito stupore, e con bocca tuttavia esitante le chiede che ne fosse di lei. “Io sono felice”, disse; “infatti nel giorno della santa Resurrezione da poco passato, il venerabile Erlebaldo, decano di Cambrai, ed io con lui, siamo stati accolti al cospetto di Dio onnipotente, con immensa letizia della folla celeste”. Detto questo se ne andò, sprofondando in un grande dolore l’amica così presto abbandonata. D’altra parte costui fu un uomo sia dotato di dignità sacerdotale, nella quale brillava, sia colto nella
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conoscenza delle Scritture e molto legato a me da un rapporto di amicizia, a cui possa io d’ora in avanti risultare gradito, siccome gioisco, come devo, del suo onore supremo. Questo meritò una fede operosa, che tramite la pratica costante di una pia sofferenza gli aveva reso Dio debitore. Alle cose che avevo udito da Bartolomeo, il monsignor vescovo di Laon, sono seguite così tante testimonianze su questo sant’uomo da parte degli abitanti della provincia, assolutamente consonanti riguardo alla vicenda, che non sono più stato in grado di tenerle a mente tutte. Ma poiché abbiamo riportato questi miracoli non tanto per la loro singolarità quanto per rendere conto della diversità delle loro cause, ritengo di dover aggiungere che come quelli che sono evidenti e certi vanno accolti di cuore, così quelli che non sono “fatti” ma “artefatti” per mezzo di qualche trucco vanno puniti con castighi severi. Infatti chi attribuisce a Dio quel che non ha nemmeno pensato, fa mentire forzatamente Dio al posto proprio. Se qualcuno avesse accusato me, semplice uomo, di qualche inganno, o mi rinfacciasse di aver fatto ciò che non ho fatto, lo avrei molto in spregio ed in odio. Cosa c’è infatti di più funesto, di più senza speranza, di più dannato di chi disonora Dio stesso, fonte di tutto ciò che è puro, con la sola ambizione del proprio ignobile proposito? Ho visto di persona, e mi vergogno a raccontarlo, che un giovane popolano, a detta di alcuni scudiero di un cavaliere, era morto il Venerdì Santo, due giorni prima di Pasqua, in un villaggio vicino a Beauvais. L’accaduto riguardava la giurisdizione di un abate molto rinomato. Si prese ad attribuire a quel morto una santità priva di fondamento, per via di quel sacro giorno in cui era deceduto, ed una volta che i contadini, avidi di novità, ebbero divulgato la cosa, subito vengono portate offerte e ceri sulla sua tomba da tutti gli abitanti delle campagne e dei borghi delle vicinanze. Insomma: il sepolcro viene ampliato, quel luogo viene cinto completamente da un edificio in piena regola; fin dai confini della Bretagna vi si recavano schiere di pellegrini, ma solo contadini, nessun nobilea. È opportuno rilevare la costante attenzione di Guiberto per la gente semplice ed illetterata, che ignoranza e credulità rendono vittima dei raggiri legati al culto di falsi santi e false reliquie. a
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Vedeva queste cose quel sapientissimo abate insieme ai suoi religiosi monaci, ed allettato dall’affluenza dei doni che venivano portati dava il proprio supporto alla fabbricazione di miracoli falsi. Anche se nei cuori avidi del volgo profanoa hanno potuto trovare spazio false sordità, pretese follie, dita rattrappite ad arte, piedi contorti sotto le natiche, come fa un uomo onesto e saggio, che ostenta propositi di santità, a farsi promotore di tali iniziative? Vediamo di frequente che questi culti sono rovinati dal pettegolezzo, resi ridicoli dall’uso di portare feretri in processione, ed ogni giorno ci accorgiamo che il fondo del borsello altrui viene svuotato dalle menzogne di coloro che Girolamo chiama “forsennati” per la frenesia del loro eloquiob. Siamo turbati a tal punto dalla loro ciarlataneriac, feriti da una tale falsificazione delle cose divine che, secondo il dottore sopra citato, si leccano i baffid più di scrocconi, ghiottoni e golosie, gracchiano fastidiosamente più di corvi e gazze. Ma perché lanciare l’accusa nel mucchio senza presentare qualche caso particolare per condannare meglio l’errore? Una chiesa famosissima operava raggiri di questo generef, e raccoglieva fondi Orazio, Carm. 3, 1, 1: Odi profanum vulgus et arceo. Cfr. Girolamo, Apologia contra Rufinum 1, 15. c La parola nebulonitate è un neologismo coniato da Guiberto, formato sul termine nebulo, onis, “adulatore, persona falsa” (= leccator, quia vanus est ut nebula et cito vanescit, Le Talleur). d Guiberto adopera qui l’espressione in ligurriendo. Ligurrio è verbo di matrice comica, raro ed arcaico, (attestato in Plauto e Terenzio, ma usato anche da Agostino) legato originariamente all’attività del parassita. e Il termine corrispettivo nel testo latino è catellanos. Come chiarito in nota da Huygens (p. 97), “questo termine – traduciamo liberamente – di per sé non significa nulla, nemmeno catellaneus = gattino (Blaise) o catillones id est gulosos (DuCange). Si tratta infatti di un riferimento all’epistola 147 di San Girolamo: facinus quod nec mimus fingere nec scurra ludere nec Atellanus possit effari; l’apparato critico di Isidore Hilberg registra una lezione catellanus, lezione che Guiberto deve aver utilizzato come sua fonte senza poterne indovinare il significato”. Il termine catillo, onis, piuttosto diffuso, era probabilmente il più vicino al significato che Guiberto – che in realtà non poteva che fidarsi della sua fonte – doveva aver attribuito alla parola. f Probabilmente la cattedrale di Laon, che subì un incendio nel 1112, durante la rivolta popolare contro il vescovo Gaudry che portò alla fondazione del comune, di cui Guiberto racconta in Monod. 3, 8-9. La ricostruzione delle parti danneggiate a
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per la riparazione di un proprio danno servendosi di un portavoce: mentre costui tirava in lungo il discorso sulle proprie reliquie, dopo aver mostrato una teca disse – proprio davanti al sottoscritto – : “Sappiate che dentro questa cassetta è contenuto di quel pane che il Signore masticò coi propri denti. E se non ci credete, ecco: questo campionea“ – si riferiva a me – “che voi sapete essere molto colto, se sarà necessario si ergerà a testimone di quel che dico”. Confesso, quando ho udito queste parole sono diventato rosso dalla vergogna, e se non mi fossi sentito in soggezione per la presenza di quelli che sembravano essere suoi sostenitori – sia detto con buona pace di loro più che di colui che parlava –, avrei dovuto additarlo come truffatore. Che dire? Neppure i monaci e tanto meno i sacerdoti si astengono da questo profitto disonesto, tanto da pronunciare eresie sulla nostra fede persino davanti a me. Del resto, secondo l’autorevole parere di Boezio, sarei giustamente considerato pazzo se mi mettessi a discutere coi pazzib. Ma per riuscire a comprendere più chiaramente la questione che abbiamo per le mani, bisogna trattare per prima cosa di coloro che sono chiamati “santi”. Mentre riteniamo certamente santi gli apostoli e coloro che la chiesa ha approvato con sicurezza come martiri, sui confessori si può fare un discorso più approfondito. Anche se gli scritti tacciono, basta la prerogativa del sangue a si protrasse fino al 1114, e fu realizzata coi proventi di tali circumlationes: rappresentative ufficiali della cattedrale girarono per la Francia e l’Inghilterra, e durante questi tours si verificò apparentemente un gran numero di miracoli, come narrato dal cronista benedettino Ermanno di Tournai nel Miracula s. Mariae Laudunensis (scritto intorno al 1146); curiosamente, la maggior parte dei prodigi citati sono del tipo di quelli che Guiberto afferma essere maggiormente soggetti a falsificazione ( ficticiae surditates, affectatae vesaniae, digiti reciprocati ad volam, vestigia contorta sub clunibus). a Il termine usato dall’imbonitore è hęros, un grecismo altisonante, che crea un’evidente stonatura nel discorso del predicatore ed è pronunciato chiaramente per impressionare la folla. Potrebbe essere un riferimento al duello ordalico o “duello di Dio”, forma di iudicium dei diffusa nel medioevo soprattutto tra le popolazioni del ceppo germanico; tale pratica si basava sulla convinzione che, una volta scelti due campioni che si scontrassero a nome delle parti in causa, il Signore avrebbe sicuramente concesso la vittoria a quello dei due che fosse nel giusto. b Cfr. Boezio, Contra Eutychen, praef.: iure viderer insanus, si sanus inter furiosos haberi contenderem.
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rendere chiaramente martiri, e di un martire non ci si chiede quale sia stata la sua vita precedente, dal momento che lo stesso sangue versato è sufficiente a purificare anche dalle colpe più antiche. O buon Gesù, perché non dovrebbe, visto che ha anche il potere di conferire tutto il necessario per raggiungere la gloria, eliminati i peccati? Infatti questa pena cancella tanto le colpe precedenti al battesimo quanto quelle successive al battesimo ed è equivalente ad un lavacro di salvezza, anzi è artefice di certissima glorificazione; per “pena” intendo quella che è derivata da una giustissima causa. Di conseguenza nelle leggi è prescritto che nel caso in cui qualcuno venga scoperto nell’atto di distruggere degli idoli e per tale crimine accada che sia giustiziato, per questo tipo di morte non sia considerato un martire. Certamente in questo caso la buona causa è evidente, ma come ignorare il fatto che l’intenzione della causa talvolta è corrottaa? I Donatistib hanno sofferto pene non inferiori a quelle dei martiri, e poiché furono banditi dalla Carità, patirono in vano. Una volta le reliquie di alcuni Manichei arsero per lo zelo per Dio del popolo di Soissons, ma essi, privi di una giusta causa, recarono solamente danno a sé stessi, dato che i loro corpi erano dannati. Su questi argomenti ho parlato più diffusamente nei libri delle mie Monodiec. Pertanto, se sulla qualifica di martire ci si pronuncia con così grande incertezza, quale approccio critico bisogna adottare ria Il valore cruciale dell’intenzione nel determinare se un’azione sia positiva o negativa è un Leitmotiv di Guiberto, e si lega alla ricorrente citazione biblica di Rom. 10, 2; importante doveva essere stata l’influenza delle teorie sulla volontà e sul libero arbitrio di Anselmo d’Aosta, che l’autore racconta nelle sue Monodie di aver avuto come maestro, e dal quale dice di aver imparato ad interpretare le scritture e ad “educare il proprio uomo interiore” (qualiter interiorem meum hominem agerem). b Il Donatismo (dal nome dal suo ispiratore, il vescovo Donato di Cartagine) è una corrente scismatica, originatasi nel IV secolo in Africa settentrionale, che sosteneva l’invalidità dei sacramenti se amministrati da sacerdoti indegni. c Monod. 3, 17; nell’episodio in questione si racconta che due manichei, imprigionati per ordine dell’autorità vescovile, furono trascinati a forza fuori dalle mura dalla città dal popolo in rivolta, desideroso di farsi giustizia da sé, e messi al rogo. Dunque non si tratta di “reliquie” propriamente intese, ma “resti umani”. Guiberto, tuttavia, di sicuro considera quest’atto cosa buona, concludendo così: quorum ne propagaretur carcinos, iustum erga eos zelum habuit dei populus.
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guardo ai confessori, le cui circostanze di morte talvolta non hanno nulla di certo? Se su Martino, Remigio ed altri come loro l’opinione di tutta la Chiesa procede concorde, cosa potrei dire di coloro che ogni giorno il volgo elegge gareggiando a loro imitazione per villaggi e borghi? Alcuni, notando che altri avevano patroni eccellenti, vollero poterne avere anche loro di simili e si crearono i propri. Così, dopo che i poeti ebbero pubblicato per primi nobili opere, in seguito tutti gli inetti, spinti dalla volontà di emularli, scrissero poemi, come dice Orazio, sia gli indotti che i dotti, senza distinzionea. Gli antichi innalzarono al rango di dei e dee gli inventori delle arti, e coloro che ai propri tempi diedero inizio all’età dell’oro; gli uomini della generazione intermedia accumularono un numero così grande di divinità che quelli dell’ultima generazione, dopo averne eliminati alcuni, ne selezionarono certi e li chiamarono “scelti”. I Samaritani, una volta esiliati i Giudei in Babilonia, si creano degli dei: ciascuna nazione si fabbricò il proprio dio, gli uomini di Babilonia si fecero Succot-Benot, gli uomini di Cuta Nergalb, e via dicendo. Secondo il beato Gregorio è evidente che quando si invia per intercedere una persona non gradita, l'animo di colui che è in collera è provocato al peggioc. Ma tutti negano di essersi scelti patroni tali da risultare sgraditi. Mi dicano dunque in che modo ritengono che possa patrocinarli quel santo di cui ignorano tutto ciò che c’è da sapere: non troverai da nessuna parte qualcosa di scritto su di lui, al di là del nome. Del resto, senza che il clero dica nulla, vecchie e stuoli di vili donnicciole canticchiano dietro i subbi ed i liccid le storie immaginarie di tali patroni, e se qualcuno confuta i loro racconti, insorgono in loro difesa non solo con gli insulti, ma impugnando le spole dei telaie. Orazio, Ep. 2, 1, 117 (scribimus). 4 Reg. 17, 29 e 30. c Gregorio Magno, Regula Pastoralis 1, 10. d Il subbio ed il liccio sono parti del telaio. e Il ms. Paris, BnF, lat. 2900 ha telarum, lezione che Huygens non emenda. Tuttavia, si tratta probabilmente di un’aplografia per telariorum, dato che chiaramente la spola è parte del telaio, non della tela. Ci discostiamo quindi, nella traduzione, dal testo dell’editore critico. a
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Chi, pertanto, se non uno completamente pazzo, può chiamare a perorare la propria causa questi, dei quali non sopravvive nemmeno una traccia su che tipo di uomini siano stati? E che cosa vale quella preghiera, quando la completa incertezza su colui che presenta a Dio a proprio sostegno tormenta l’animo dell’orante? A che giova, dico io, una preghiera che non è affatto senza peccato? Se infatti preghi uno che non sai se sia santo o no, pecchi nello stesso momento in cui avresti dovuto ottenere il perdono, perché pur presentando offerte nel modo giusto non le dividi correttamente. Certamente pregando uno su cui nutri dei dubbi non ti riappacifichi con Dio ma lo irriti, dal momento che non hai fiducia nella tua richiesta: ed infatti mandare a qualcuno come avvocato difensore uno che non conosce equivale ad un’ingiuria nei suoi confronti. E come potrebbe parlare in tua difesa uno che consideri sospetto? E se non hai una buona opinione di lui, quale merito credi di poter ottenere da lui? Dice Ambrogio in un passaggio: Quello a cui ho intenzione di affidarmi deve essere al di sopra di mea. Dunque non è forse proprio di una testa completamente matta rivolgersi ad un tale della cui condizione dubiti totalmente? E per quale motivo chiedi ad uno che non sai se sia migliore di te o meno di rappresentarti presso Dio? Considera che Dio premia la fede fino a spostare le montagneb, e proibisce apertamente l’esitazione del cuore. Come se dicesse: se vi proponete qualcosa di grande, per quanto grande sia, alla benché minima esitazione perdete tutto. Ed è molto più accettabile che ciascuno nutra dubbi sul proprio merito, piuttosto che disperare di colui dal quale dipende la tua speranza presso Dio, cioè il tuo patrono: perché infatti non la affidi a te stesso, ma ti servi di lui, e certamente sai che se il tuo mediatore viene accusato di falsità, perderai tutto quello che avresti potuto ottenere. Ma perché mi dilungo su queste cose, dal momento che c’è tanta pudicizia nella bocca di tutta la Santa Chiesa che non osa nemmeno affermare che il corpo della madre di Dio abbia ricea b
Ambrogio, De Officiis 2, 12, 62. 1 Cor. 13, 2.
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vuto la gloria della resurrezione, per il fatto che non è in grado di provarlo con argomenti incontrovertibili? E benché sia empio credere che abbia abbandonato senza ricompensa e senza onore all’esperienza materiale della corruzione quel vaso, più splendido di ogni creatura dopo il Figlio, che ha portato in grembo il Dio universale della maestà – cosa che non fu mai permessa ad alcuno, neppure agli angeli –, principalmente perché è vincolato a rendere al corpo di Sua madre, grazie al quale è ciò che è, ciò che ha riservato alla glorificazione del Proprio, non osiamo dire in nessun modo che sia resuscitato, e sicuramente per non altro motivo che il fatto che non possiamo sostenerlo con prove accettabili. Anche se in altri casi la ragione riesce talvolta a comprendere da sola il testo sacro, e d’altra parte gli esempi di cui si avvalgono le Scritture contengono al loro interno la propria logica, tuttavia in questo frangente, benché la ragione fornisca argomenti molto opportuni da qualsiasi prospettiva a sostegno del fatto che lei sia stata esaltata per intero tramite la resurrezione del corpo, invece, poiché non ci sono elementi di prova evidenti, possiamo certamente credere riguardo a lei, anche se tacitamente, quanto vi è di più glorificato, ma non siamo in grado di provarlo in nessun modo. Senza dubbio, appare un ragionamento apertamente evidente questo: dal momento che si crede che molti corpi di santi qualsiasi siano risorti insieme a suo Figlio, lei, la cui carne non è diversa da quella del Figlio, e che soprattutto non conobbe alcun contributo da parte di un padre nel Suo concepimento fuorché quello dello Spirito Santo, in che modo avrebbe potuto rimanere nella polvere della terra sottostando alle leggi dell’antica maledizionea, lei che, singolarmente eletta, generò l’artefice della benedizione? Ciò non può non andare a scapito – oserei dire – della carne del Figlio, se Egli ha abbandonato la carne della madre alla sorte comune ed ha concesso a quella di estranei il privilegio che ha negato alla madre, alla Sua stessa carne. Certamente nessuno ci vieta di pensarlo di
La maledizione di Dio ad Adamo ed Eva, puniti con il dolore e la mortalità per il peccato originale. Cfr. Gen. 3, 19. a
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nascosto, però ci è proibito sostenerlo, perché non ci sono testimonianze.a Se riguardo a lei, la cui gloria nessuna creatura è in grado di misurare, non possiamo predicare quanto si è appena detto, cosa dobbiamo imporre riguardo a coloro la cui salvezza o la cui perdizione sono incerte, se non il silenzio eterno? Ci sono poi alcuni scritti su certi santi di gran lunga peggiori di filastrocche e canzonette, che non dovrebbero raggiungere nemmeno le orecchie dei porcari. In ogni caso, dal momento che molti attribuiscono ai propri santi la massima antichità, esigono che nel presente vengano scritte le loro Vite. Questa richiesta mi è stata fatta davvero spesso, ma io mi sbaglio su quel che mi accade sotto gli occhi, e cosa posso dichiarare di vero su ciò che nessuno ha mai visto? Se riferissi quello che ho sentito dire – e mi è stato chiesto anche di tessere le lodi di individui talmente ignobili… e perfino di declamarle di fronte al popolo! – sia io, se raccontassi le cose che mi sono state domandate, sia quelli che mi consigliavano di raccontare tali storie, saremmo degni di essere marchiati a fuoco pubblicamente. Ma lasciando perdere quelli a cui la propria oscurità stessa toglie credito, occupiamoci di coloro che la certezza della fede accompagna fino alla fine. Certamente anche su costoro c’è una quantità infinita di opinioni errate, dal momento che alcuni asseriscono di avere lo stesso santo che altri affermano di possedere. Per esempio, mentre gli abitanti di Costantinopoli dicono di avere la testa del Battista del Signore, i monaci di Angély giurano di possedere la stessa testa: pertanto cosa di più ridicolo si potrebbe predicare su un uomo di tale importanza che dire gli uni e gli altri che abbia due teste? Ma lasciamo stare gli scherzi ed occupiamoci di cose serie. Dato che, dunque, è evidente che non possono possea Guiberto, pur dissimulandola tra le pieghe della dialettica, lascia trasparire in maniera surrettizia la sua adesione all’idea dell’assunzione corporale della Vergine; il passo sembra riecheggiare nei suoi toni cauti l’introduzione alla IX epistola dello Pseudo-Girolamo Cogitis me, oggi ritenuta un’omelia di Pascasio Radberto (Pascasio Radberto, De partu Virginis. De assuntione sanctae Mariae Virginis – ed. E. A. Matter, A. Ripberger [CCCM 56C], Turnhout, 1985), che molto probabilmente l’autore aveva letto attribuendola a Girolamo stesso. La questione, viva ed aperta al tempo dell’autore, è stata risolta ufficialmente a livello dottrinale solo nel 1950, con la proclamazione del dogma dell’Assunzione da parte di papa Pio XII.
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derla entrambi, perché non avrebbe mai potuto sdoppiarsi, è manifesto che o gli uni o gli altri scivolano in una grandissima falsità: e se in questa materia, che milita interamente sotto le insegne della devozione, lottano gli uni contro gli altri con reciprocaa arroganza e mentendosi a vicenda, operano propositi diabolici anziché divini. Così sia coloro che ingannano che coloro che sono ingannati onorano certo ingiustamente colui del quale si vantano: se da loro viene venerato qualcosa di indegno, ecco a quale rischio si espone tutto il seguito dei devoti; e se poi non è la testa di Giovanni Battista, ma è quella di qualche santo, tuttavia il male della menzogna rimane di non poco conto. Perché discuto della testa di Giovanni, io che ogni giorno sento storie simili su innumerevoli corpi di santi? Il vescovo di Amiens, mio predecessoreb, quando fece trasferire quello che riteneva il corpo di Firmino martire da una teca ad un’altra non trovò al suo interno alcuna nota, neppure una singola lettera che testimoniasse chi vi giaceva: ho sentito quello che riferisco dal vescovo di Arras, e dallo stesso vescovo di Amiens. Per questo motivo, il vescovo della città subito dopo fece iscrivere su una placca di piombo che lì dentro era custodito Firmino martire, vescovo di Amiens. Non passa molto che nel monastero di Saint-Denis succede lo stesso: l’abate ha fatto preparare per un martire una cassa più preziosa, e mentre viene estratto dalla precedente e la testa viene esaminata insieme alle membra, nelle sue narici viene trovato un frammento di pergamena sul quale è scritto che sarebbe Firmino martire di Amiens. Pertanto, dal momento che nulla in questa faccenda così spinosa depone a favore dei chierici di Amiens mentre, per contro, a favore degli altri ci sono almeno testimonianze scritte, per quanto piccole, a sostegno di quella orale, la ragione di ciascuno – ve ne prego – salga sul seggio per emettere la sentenza. Qualsiasi cosa sia stata fatta incidere dal signor vescovo sulla placca di piombo, non sarà forse giustamente rigettata, dato che non c’è la benché minima prova a sostegno di quell’iscrizione? E certamente quelli a In questo punto Guiberto usa l’insolito stilema ad se versum, che potrebbe aver trovato in Sallustio, Bellum Iugurth. 58, 4. b Goffredo di Amiens, abate di Nogent fino al 1104, quando gli succedette proprio Guiberto.
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di Saint-Denis devono pur lamentarsi in qualche modo, loro che comunque sono sostenuti almeno da qualche riga scritta. Perciò coloro che venerano ciò che non conoscono, benché sia qualcosa di santo, tuttavia non sono mai a riparo da un grande pericolo; se è altrimenti, cadono in pieno in un enorme sacrilegio. Cos’è più sacrilego, infatti, che onorare come divino ciò che divino non è? Senz’altro sono divine le cose che sono legate a Dio, e che cosa c’è di più saldamente legato a Dio di coloro che sono uniti a Lui in un unico corpoa? Ho sentito una storia che può far luce sulle nostre preoccupazioni e risultare decisiva riguardo alle questioni che sono state presentate. Un certo Oddoneb, vescovo di Bayeux, figliastro del conte normanno Roberto e dunque fratellastro di Guglielmo il Vecchio re degli Angli, desiderava ardentemente Sant’Esuperio, suo predecessore, oggetto di somma venerazione nel borgo di Corbeilc. Ricompensato il guardiano della chiesa in cui era custodito con cento libbre di denari affinché costui gli procurasse il corpo del santo, quello, scaltro e disonesto, dopo essere andato a caccia della tomba di un contadino qualsiasi di nome Esuperio, lo dissotterrò e lo portò al vescovo. Il vescovo gli chiede se quelli che aveva procurato fossero o meno i resti di Sant’Esuperio, anzi esige da parte sua un solenne giuramento: “Ti garantirò sulla mia parola che è il corpo di Esuperio, ma quanto alla santità non giurerò mai, poiché questo titolo viene attribuito a molti la cui reputazione è ben lontana da quella di un santo”. Così il vescovo, ingannato dal furfante con questa affermazione equivoca, fu soddisfatto. Gli abitanti del borgo, però, vennero a sapere del commercio che il custode aveva fatto del loro patrono, ed egli, interpellato da loro, rispose: “Guardate Cfr. Rom. 12, 5: multi unum corpus sumus in Christo. Oddone (1030 ca.-1097), nominato vescovo di Bayeux, giovanissimo, nel 1049. L’autore fornisce su di lui indicazioni genealogiche piuttosto precise, seppur in parte errate. Guiberto, infatti, definisce Oddone filius naturalis di Roberto, il duca di Normandia: egli era però figlio di Erluino di Conteville e di Herleva di Falaise, mentre il fratellastro Guglielmo era nato da una precedente relazione extraconiugale tra Herleva e Roberto, tanto che tra i vari soprannomi con cui è conosciuto c’è anche “il bastardo”. c Corbeil-Essonnes. Le reliquie del santo, primo vescovo di Bayeux (fine IV secolo), vi erano state traslate nel 957 in occasione della fondazione della cattedrale. a
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meglio i sigilli del suo feretro: se non li vedrete intatti, pagherò il fio”. Ecco a quanto disonore dell’intera religione è valso l’acquisto del vescovo, dal momento che, promosso in maniera così profana il contadino Esuperio, ha avuto accesso al sacro altare di Dio, nel quale costui è stato introdotto, una contaminazione che forse non se ne andrà mai. Mi sovvengono alla memoria così tanti fatti svoltisi nella stessa maniera in qualsiasi luogo, che mi mancano il tempo e le energie per riferirli, poiché le frodi messe in atto sui loro corpi interi non sono tante quante quelle che riguardano le loro membra e piccole parti di esse, dato che fanno a pezzi ossa di persone comuni per venderle come reliquie di santi. Questo accade ad opera di coloro che, secondo l’apostolo, considerano la pietà come fonte di guadagno (1 Tim. 6, 5), dal momento che trasformano quello che se usassero il buon senso tornerebbe utile alla salvezza delle loro anime in escrementi di cui riempiono i loro borselli. Ma tutti questi effetti scaturiscono dalla corruzione della radice, che non è altro che il fatto che a loro viene negato quel che l’umanità nel suo insieme avrebbe dovuto meritare secondo la sorte comune. Dato che infatti l’uomo ha sicuramente avuto origine dalla terra, ed una volta pagato il debito della morte ripiomba nella terra secondo le leggi del peccato originale, ed a lui in particolare è stato detto: terra sei e nella terra ritornerai (Gen. 3, 19), Dio con quelle parole non disse ad alcun uomo, presente o futuro: “oro o argento sei, e oro o argento ritornerai”. Per quale motivo, di grazia, l’uomo si svincola dalla sua natura e persino dall’autorità di Dio per infilarsi dentro scrigni d’oro e d’argento, condizione che non si addice a nessuno? Se il sapiente conoscesse altri ricettacoli per i corpi degli uomini oltre alla terra, non direbbe che un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della nascita dal grembo della loro madre al giorno del ritorno alla madre comune (Eccli. 40, 1). Nota con quale simmetria abbia detto “loro madre” e “madre comune”. Se definisco “madre” colei la quale mi ha offerto il piccolo spazio del suo ventre – spazio questo immutabile e tale da non poter essere cambiato – di conseguenza è madre allo stesso
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modo colei che ha fornito ai mortali la materiaa del loro essere: e certamente è più che una madre, perché ci accoglie una seconda volta, cosa che alle madri in secondo grado non è lecita. Infatti con qualsiasi tipo di sarcofago tu abbia cercato di allontanare da te il contatto con la terra, volente o nolente terra diventi. E quale onore c’è nel farsi rinchiudere nell’oro e nell’argento, mentre il Figlio di Dio è seppellito dietro una pietra di nessunissimo valore? E questo fin dall’inizio dei tempi non risulta consueto neppure ai re più superbi, né mi viene in mente un solo esempio, e benché facessero interrare nelle proprie tombe infinite quantità di tesori, non ricordo di aver mai letto che sostituissero con casse d’oro e d’argento i semplici marmib: quale forma scriteriata di zelo per Dio è che la fede, senza portare alcun frutto ma in modo da partorire anzi una grande indecenza, mediti al nostro tempo ciò che vediamo non essere mai stato concesso dal mondo ad alcuna religione, ad alcuna ricchezza in alcun luogo?c Certamente se i corpi dei santi fossero rimasti al posto che spettava loro per natura, cioè nei sepolcri, questo tipo di aberrazioni che ho descritto non avrebbero avuto luogo per niente. Ed infatti proprio perché sono tirati fuori dalle tombe vengono trasportati di qua e di là a pezzi, e una volta che il pretesto della pietà è divenuto occasione per portarli in giro, subentrando la malafede, la rettitudine dell’intenzione ha cominciato a venire distorta, tanto che la cupidigia generale ha quasi corrotto usanze che si erano tradizionalmente svolte con spirito genuino. Se a Tobia la sepoltura dei morti è ascritta a merito tanto grande che tra tutte le altre buone azioni dell’umanità la testimonianza di Raffaele la colma di lodi in via assolutamente eccezionale, dicendo che era stata presentata agli occhi di Dio con Suo sommo gradimentod, quale empietà e quale colpa riteniamo che abbia colui che, sottraendo i corpi al destino che gli spetta per natura, li scomoda in qualsiasi sciocca circostanza?
Notare nel testo latino il gioco etimologico mater/materiam. Forse un riferimento ad Orazio, Carm. 1, 19, 6: marmore purius. c Questo passo un po’ farraginoso riprende in forma condensata le considerazioni delle righe precedenti, con la consueta enfasi retorica. d Tob. 12, 6-15. a
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E quale circostanza è non dico più sciocca, ma più inopportuna del fatto che il discepolo venga posto al di sopra del maestroa? Che questo sia messo nella pietra, e quello chiuso nell’oro; che questo sia coperto – e neanche per intero – da un sottile telo di lino, mentre quello sia avvolto da mantelli, stoffe pregiate e perfino da un drappo aureo? Secondo il magnifico papa Gregorio, coloro che involontariamente videro i corpi dell’apostolo Paolo e di Lorenzo martire furono puniti molto severamenteb: che giudizio si darà di coloro per i quali è questione di pura avidità, e che fanno sì che i corpi dei santi siano dispersi violandone il riposo, o anzi, per così dire, siano persino esibiti ogni giorno solo per imporre delle offerte? Sono soliti coprire le ossa nude dei santi con pissidi d’avorio o di argento, e scoprirle al momento opportuno dietro compenso. Lo spirito di Samuele, che anche in forma spirituale manteneva la sua naturale vivacità, si lamenta di essere disturbato dalla negromante, perché veniva evocatoc: e quelle ossa materiali, che si vedono sparpagliare di qua e di là a seguito della propria dispersione, se potessero farlo non si lamenterebbero a buon diritto? Giacobbe e Giuseppe danno precise raccomandazioni riguardo alla loro sepoltura e tutti i santi predispongono per sé stessi le proprie tombed, si danno da fare affinché le proprie ossa siano riportate al suolo natio, nella propria casa, – cioè in famiglia, vale a dire tra i propri parenti –, temono di non essere seppelliti quasi quanto temono la dannazione: che altro appare chiaro, se non che ritengono importante che i corpi giungano immutati in tutti i modi alla gloria della resurrezione? Se nessuno – cioè nessuno che si comporti razionalmente – ebbe in odio la propria carne (Ephes. 5, 29) tanto da non fornirle cibo ed acqua in relazione al fabbisogno quotidiano, quanto più uno deve predisporre quell’evento, in cui nessuna intemperanza può entrare in relazione con l’esigenza del caso, come è solito capitare talvolta nel gustare gli alimenti? E quanto più di cuore, benché nell’ambito dispendioso Cfr. Matth. 10, 24 (Luc. 6, 40): Non est discipulus super magistrum. Gregorio Magno, Ep. 4, 30. c 1 Reg. 28, 7-15. d Gen. 47, 29-39 e 50, 23-24. a
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di questo “triste ministero”, come lo definisce il poetaa, nutrendo la speranza di condizioni di vita migliori, deve predisporre il luogo dove aspettare, immune dall’inverno del mondo e al sicuro dalla pioggia dei turbamenti presenti, la voce dell’arcangelo che ordina di alzarsi?b Se l’apostolo li chiama “dormienti”, io ritengo che sia nefando disturbare tali uomini, specialmente dal momento che in questo loro sonno non attendono nessun’altro che li solleciti a svegliarsi se non Colui che da morti li faccia tornare in vita. Ciascuno dica pure ciò che pensa: io affermerò con sicurezza che non è mai stata cosa gradita a Dio o ai santi stessi che si sia dovuto aprire il sepolcro di uno qualsiasi di loro, o fare a pezzettini anche la minima parte del loro corpo. Presso i pagani, per rispetto della natura umana, anche ai più poveri si prestavano cure mortuarie e sepoltura e si dava una comune bara – e certamente nel momento in cui moriva il corpo moriva pure la loro speranza – e noi invece abbiamo scavato le loro tombe e diviso le loro membra, pur sapendo per certo che questa rimozione provoca la loro ira? Gregorio, quando Augusta, figlia – se non erro – di Tiberioc, gli chiese la testa dell’apostolo Paolo, le rispose apertamente che non avrebbe assolutamente osato acconsentire, adducendo come motivazione quella pena toccata a coloro che l’avevano rinvenuta, che ho citato poco sopra. Esiste presso gli Angli un Edmondod, re e martire di fama non ignobile, il cui zelo nella protezione del proprio corpo vorrei che l’avessero emulato gli altri santi: egli è rimasto fino ad ora in uno stato del tutto simile a quello di un dormiente, e nessuno si ritiene degno di guardarlo o toccarlo. Ai giorni nostri, infatti, tralasciando ciò che si legge nella sua Passione, un abate di quel luogo, desideroso più del giusto di sapere se, secondo la leggenda che si era diffusa, la sua testa dopo la decapitazione si fosse riunita al corpo, dopo aver compiuto dei digiuni preventivi con un suo monaco, saggiò Virgilio, Aen. 6, 223: triste ministerium. Cfr. 1 Thess. 4, 16 e 13-15. c Costantina Imperatrice (ca. 560-ca. 605), figlia di Tiberio II Costantino. La fonte è sempre Gregorio Magno, Ep. 4, 30. d Si tratta di Edmondo (840 ca.-869 ca.), re dell'Anglia Orientale ucciso dai Vichinghi. L’avvenimento è narrato in maniera quasi identica anche in Monod. 3, 20. a
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con l’aiuto di quel monaco se il collo aderisse alle scapole: ma subito punì quella tentazione una malattia così grave, che entrambi da allora in poi persero completamente l’uso delle mani. Se fosse permesso a ciascun santo di restare così tranquillo nella propria tomba, l’intera diatriba sullo spostamento e la compravendita dei corpi o delle reliquie sacre cesserebbe, né alcuni affermerebbero di essere in possesso dello stesso corpo che dichiarano di avere altri se i sepolcri di tutti i santi rimanessero intonsi, come sarebbe giusto; se riposassero tutti nel lembo di terra a loro destinato, le frodi a cui abbiamo accennato prima sulla loro molteplice spartizione non accadrebbero, né gli indegni occuperebbero i posti dei degni. Alcuni si domandano anche se devono ritenere o meno che le loro reliquie, quando alcune vengono venerate al posto di altre e qualora non appartengano a colui del quale si ritiene che siano, causino qualche danno a quelli che le venerano. Io ritengo di no. Infatti dal momento che il Signore dice di loro: perché siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola (Ioh. 17, 22), dato che la totalità di loro è sotto Cristo, la testa, come in uno stesso corpo, e lo spirito di colui che aderisce a Lui diviene uno con Dio, non vi è errore tra le ossa di coloro che sono santi nel caso in cui alcune siano venerate al posto di altre che si considerano insieme membra nel corpo del loro Creatore. Non sembra discrepare da questo pensiero il fatto che la festività dei Quattro Coronati si celebra sotto i nomi di altri cinque martiri per decisione dell’autorità di Roma.a Ma a questo punto, forse, qualcuno potrebbe chiedere se Dio esaudisca tutti i fedeli ingenui quando lo si invoca attraverso coloro che in realtà non sono santi. A costui bisogna rispondere che come chi si appella ad uno sul cui conto è incerto irrita Dio, così Lo placa se prega con fede, credendolo santo, uno che santo non è. Per esempio, immaginiamoci uno che ritenga che l’elemosina costituisca peccato. Qualora dunque costui faccia l’elemosina Si tratta di quattro soldati romani martirizzati sotto l’imperatore Diocleziano: Severo, Severino, Carpoforo, Vittoriano; la loro festa fu fissata insieme a quella di cinque altri martiri: Claudio, Castore, Nicostrato, Sinforiano e Simplicio, che subirono il martirio due anni dopo. Di quei quattro, tuttavia, si ignorava ancora il nome, e papa Melchiade volle fossero chiamati i Quattro Coronati; quando più tardi i loro nomi divennero noti, per abitudine si continuò a chiamarli così. a
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scientemente, senza dubbio pecca di fatto dal punto di vista della sua consapevolezza, benché, al contrario, ciò che fa sia in sé cosa buona. Così, chiaramente, nel caso in cui qualcuno ritenga santo uno di cui senta dire che è santo davvero mentre in realtà non lo è, se si rivolge a lui di cuore e secondo fede, presso Dio, che è al contempo motivo e frutto della preghiera, l’intenzione dell’orante va completamente a segno, per quanto l’animo risulti commettere per ingenuità un errore riguardo al proprio intercessore: l’onore reso nella speranza del bene non manca mai di essere ricompensato con il bene. Se tu, infatti, accogli un profeta come profeta, cioè chi, senza esserlo, esibisca solamente il nome di giusto o di profeta, ricevi in dote il merito ed il premio del profeta o del giusto di cui viene privato quel giusto e quel profeta che di qualsiasi dei due mostra solamente il nome e l’abitoa. E di sicuro molti fedeli poco istruiti nelle proprie preghiere mentono spessissimo, ma l’orecchio di Dio valuta le intenzioni più che le parole. Se infatti dici absit nobis, domine, virtus Spiritus Sancti mentre devi dire assit b, se preghi col singhiozzo, ciò non ti reca dannoc. Dio non si interessa di grammatica: nessun vocabolo fa breccia in lui, ma legge nel cuore.
a Cfr. Matth. 10, 41: Qui recipit prophetam in nomine prophetae mercedem prophetae accipiet, et qui recipit iustum in nomine iusti mercedem iusti acciepiet. b Si è ritenuto opportuno lasciare la formula liturgica in latino: il lapsus preso ad esempio è molto più fine di quanto si possa rendere in italiano, e d’altro canto errori del genere, comuni tra gli illitterati, sono generati proprio dalla scarsa dimestichezza con una lingua diversa da quella parlata. Per chiarezza, sarebbe come dire “Dio togli a noi la forza dello Spirito Santo” al posto che “Dio concedi a noi la forza dello Spirito Santo”. c Huygens in nota (p. 109) rimanda opportunamente alle considerazioni di Agostino in De Doctrina Cristiana 2, 13, 19 e 20: Utrum enim “ inter homines” an “ inter hominibus” dicatur ad rerum non pertinet cognito rem […] Utrum autem “ ignoscere”producta an correpta tertia sillaba dicatur, non multum curat qui peccatis suis deum ut ignoscat petit, quolibet modo illud verbum sonare potuerit; ed ancora alla lettera di papa Zaccaria a Bonifacio su di un prete che amministrava il battesimo in nomine patria et filia et spiritus sancti (MGH, Ep. selectae 1, 1955, no. 68, p. 140-142).
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Dunque, dopo aver esaurito questi argomenti quasi a proemio della nostra futura dissertazione, aggiungiamo alle fondamenta che abbiamo gettato all’inizio le pietre preziose del discorso di fedea, e cerchiamo di raggiungere il nocciolo della questione, assai difficoltosa e propostami da molti, facendoci largo con le unghie e con i denti. Proprio per questo abbiamo smaltito, per così dire, le scorie fittissime della trattazione precedente, per poter lavorare più liberamente intorno al nodo, che ci auguriamo con l’aiuto di Dio di poter sciogliere. Pur avendo detto fin qui che cosa si debba pensare e cosa si debba fare riguardo alle reliquie dei santi, il discorso ha completamente sorvolato ciò di cui volevamo parlare: il fatto che alcuni nel nostro vicinato sostengono con forza di possedere un dente del Salvatore, che potrebbe forse aver perso a nove anni per cause naturali. Né mancano altri che affermano di possedere il residuo del cordone ombelicale che viene reciso ai neonati, e alcuni addirittura il prepuzio circonciso del Signore stesso – su questo il grande Origene dice: Vi furono certi che non si vergognarono
Cfr. 3 Reg. 5, 31: Praecipitque rex ut tollerent lapides grandes, lapides pretiosos in fundamentum templi […]; Apoc. 21, 19: Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata […] a
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nemmeno di scrivere libri sulla circoncisione del Signorea. Tralasciando i due seguenti, atteniamoci al primo argomento, che ci preme più da vicino: una volta eliminato questo, infatti, si svuoteranno di consistenza più agevolmente anche i rimanenti. Anche se può essere giudicato accettabile che questo sia rimasto in terra dalla sua stessa carne, mi meraviglio che abbia voluto lasciare l’importante compito di fare per noi le Sue veci ad un corpo figuratob; dico “figurato” perché è un’ombra così simile all’apparenzac che non le manca alcuna forza rispetto alla “verità” che la preceded. D’altra parte ciò che la precede è la “verità” personale stessa, alla quale si riconduce e in cui si identifica il significato: infatti ciò che Egli prescrisse di fare in memoria di Lui rievoca l’indubbia presenza della Sua individualitàe. Ma se tale presenza qui fosse cosa diversa dall’individualità stessa non avrebbe più valore della funzione dell’anello nuziale in possesso della moglie: per la memoria della moglie l’anello diventerebbe infatti vicario del marito. Pertanto, così come la nascita dalla Vergine precedette di qualche tempo la sofferenza sulla croce, una cosa ha fornito i presupposti all’altra, che è subentrata ad esempio di Lui come una sorta, per così dire, di Sua identità vicaria. Quindi definisco essenzialmente “verità” quel principio da cui scaturirono questi sacramenti che compiamo, per noi tangibili, poiché qualsiasi “verità” riceva ciò a Il riferimento non è identificabile; forse si tratta di uno Pseudo-Origene, o forse di un errore di Guiberto, che affidandosi alla propria memoria attribuisce a Origene un passo letto altrove. b Guiberto basa la propria discussione su una sorta di linguaggio tecnico, affiancando al lessico proprio della teologia eucaristica termini in parte mutuati dalla tradizione platonica e aristotelica – con cui dimostra poca dimestichezza – e in parte originali. Benché questa scelta denoti una ricerca di precisione e scientificità, il discorso non sempre risulta chiaro e coerente. c L’autore si serve dell’opposizione aristotelica tra species, cioè l’apparenza esteriore, e substantia, ovvero l’essenza. d La distinzione operata da Guiberto tra veritas anteriore e figura posteriore serve a chiarire il rapporto che intercorre tra il corpo storico di Cristo ed il sacramento, che ne viene definito “vicario”. e Il termine proprietas viene qui utilizzato dall’autore in senso filosofico per designare ciò che è proprio di Cristo, a significare l’apporto della sua stessa natura al sacramento.
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che discende dal principio sotto forma di figura, è, tuttavia, “vero” in primo luogo il principio che fornisce il presupposto a ciò che da esso è derivatoa. Senza dubbio, infatti, è e può essere definito “verità” principale ciò in cui non si cela altro se non quello che tanto i sensi quanto l’intelletto di chi osserva e tocca con mano riescono a comprendereb. Nell’altro Nell’altro caso, invece, benché si debba considerare che ci sia “verità” in tutto e per tutto, non si tratta tuttavia di quella principale, perché ciò che è deriva dalla principale, e per necessità ritorna sempre a ciò di cui è immagine e a cui è relativo. Con “immagine”, però, non intendo una partizione, ma la forma che il consueto aspetto esteriore presenta, perché questo è tutto ciò che la precede. Di conseguenza anche nel salmo il Padre è chiamato spirito principalec, non perché secondo l’Essenza Divina sia “principe” rispetto al Figlio ed allo Spirito Santo, ma perché il Figlio e lo Spirito Santo traggono origine da Lui. Per questo Colui che nel salmo è definito “principale” è tuttavia nominato per ultimo tra le Persone, benché dalla bocca del Figlio stesso fra le tre parole sia collocato in prima seded, perché il Profeta vuole indicare evidentemente che in quella natura nulla va ritenuto predominante o secondario – sebbene la leggerezza grecae mediti addirittura di porre al di sotto delle sostanze una sorta di causa prima, le “subsostanze”. È chiaro, infatti, che nell’essenza divina non si può cogliere né cosa venga prima né cosa venga dopo, e di sola essenza si ritiene più conveniente parlare quando ci occupiamo di cose divine. Infatti benché la “subsostanza” sia definita da alcuni l’origine della sostanza, chi è ben attento valuti come si adattino a Dio “sottostare” Si intenda: per quanto l’essenza della figura posteriore corrisponda a quella della veritas anteriore, quest’ultima costituisce comunque il presupposto della sua esistenza. b La precisazione mira a distinguere chiaramente la veritas dalla figura, definita poco prima un’ombra che rimanda ad altro. c Ps. 50, 14. d Riferimento alla formula liturgica: in nomine patris et filii et spiritus sancti (Matth. 28, 19). e L’espressione latina Greca levitas è mutuata da Cicerone, De finibus bonorum et malorum 2, 25, 80, forse però attraverso un passo di Agostino (Contra Academicos 3, 8) in cui Cicerone viene esplicitamente ripreso. a
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e “sussistere”, dal momento che le capacità dell’umano ingegno e la facoltà della lingua umana non sono in grado di dire nulla di Dio oltre l’essenza. Conclusa questa digressione, rivolgiamoci nuovamente alle questioni che abbiamo lasciato indietro. Se, dunque, quel corpo principale che fornì la materia ai sacramenti da esso derivati, abbandonò in terra un residuo di sé una volta innalzato al cielo il resto, che bisogno c’era che noi ci vincolassimo in questa vita al mistero di una sorta di altro corpo, visto che bastava solamente gioire del residuo della Sua propria carne? E certo, senza che servisse chissà quale acume intellettivo o capacità contemplativa, la possibilità di vedere i frammenti della carne del Signore di cui ho parlato prima e di toccarli con le dita stava lì davanti ai nostri occhi, alla nostra portata, e non era necessario esercitare la sostanza della nostra fede, secondo l’apostolo, attraverso la materia del pane e del vino, cioè di cose visibili. Infatti l’animo compie un enorme esercizio ed esce come dalle mura della propria dimora quando a partire dall’osservazione delle cose visibili gli viene insegnato ad esplorare quelle invisibili. È certo cosa gradita e da perseguire con tutto l’ardore dei desideri avere direttamente davanti agli occhi la cosa da venerare, senza simboli, senza la copertura di figure, divampare per essa nel petto, stringerla a sé con le braccia del cuore. E poiché a Dio non sfugge che l’amore per le cose che si vedono e sono alla portata dei sensi trova sede e permane nel giudizio degli uomini con maggiore efficacia, non è per niente opportuno che noi, che possiamo sempre godere di ciò che Gli è propriamente proprio, ci facciamo tormentare da una sottigliezza impenetrabile a molti piuttosto che gioire di ciò che appare. Se infatti bastasse quel tantino di residuo – se tuttavia si può definire “tantino” ciò che ha un peso maggiore del mondo intero – alla continuità della gioia universale e della fede, perché il Signore Gesù dà ai mortali la propria carne come garanzia in un reiterato sacrificio figurato? Dirò con la massima sicurezza che Egli ha lasciato invano un corpo vicario a propria memoria se ha abbandonato sulla terra il dono di tanti pezzi quanto basta a fare menzione di Sé. Tutte le volte che farete ciò, disse, lo farete in memoria di me: vorrei sapere quale memoria
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di Sé pretende che si abbia e perché fornisca altro per cui essere celebrato ancora di più tra i suoi fedeli, quando non dico tanti e tali pezzi, ma addirittura una sola particella del Suo corpo, che la Vergine concepì per opera dello Spirito Santo, delle dimensioni di un atomo è sufficiente perché accorra il mondo intero. A me sembra, invece, che equivalga a dire: dato che non è rimasto nulla sulla terra a partire da cui la mia memoria sia ravvivata presso di voi – lì, infatti, nulla fornisce ai vostri sensi cosa che riveli, rinnovandola, la mia presenza al vostro intelletto – conviene che io crei per voi qualcosa con cui rappresentarmi a voi al posto mio, in modo da non privarvi in nulla della mia presenza presso di voi, che avete amato e che ancora desiderate. Che altro sembrerà significare la frase accennata prima, se la ascolti con attenzione? Saranno dunque due i corpi predisposti ad inculcarci questo ricordo? Non dice Egli forse agli apostoli, ma controbattendo al solo Giuda: i poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avrete me (Ioh. 12, 8)? Ma perché ciò non sia considerato contrario a quella promessa: ecco, io sono con voi tutti i vostri giorni, fino alla fine del mondo (Matth. 28, 20), bisogna tenere ben presente che questa frase va intesa in riferimento alla tutela spirituale, in quanto è Dio, mentre la precedente in riferimento alla permanenza fisica. Se poi si prende in considerazione questo tipo di presenza, sicuramente chi si attribuisce un Suo dente, o il cordone ombelicale o ancora, come si legge, il prepuzio, mente del tutto: quel “me” che dice abbraccia tutto ciò che Egli fu mai sotto l’aspetto umano. E se sostieni che quelle particelle non siano Lui, forse ignori che una parte può essere intesa per il tutto, e che non solo le Scritture si esprimono proprio per sineddoche, ma anche tutti gli incolti e i popolani si servono di questa forma di espressione, come nessuno ignora. Se infatti per caso ti ferisci il piede o la mano o l’estremità di un’unghia e ti viene chiesto che cos’hai, non rispondi subito: “mi sono fatto male”? E che parte minuscola è un’unghia rispetto al tutto? Se non puoi negare di esserti fatto male “tu” quando anche la più piccola particella del tuo corpo subisce un colpo, quel “me”, che si dice che gli apostoli non potranno avere sempre, andrà inteso in ugual senso. Se siamo soliti chiamare gli amici “la
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metà delle nostre anime”a ed i parenti di sangue “la nostra carne” b, quando riferendoci a noi soli diciamo “me” che altro intendiamo se non tutto ciò che è in noi e che proviene da noi? Mettiamo che tu ti prelevi del sangue, ti rada un capello, ti tagli un’unghia: se qualcuno ti chiedesse di chi fossero queste cose, risponderesti certo o che sono tue o che derivano da te. Se da un campo o da una superficie venisse ricavato un appezzamento, nessuno, se non un pazzo, affermerà che non sia parte del campo o della superficie che ha subito la scissione. Ascolta ancora, prima che passiamo ad argomenti più stringenti contro di tec, una prova tale da schiacciare la tua posizione. Proprio il Signore stesso dice in altra occasione: chi mangia me, vive grazie a me (Ioh. 6, 58). Ecco, come più su abbiamo detto che “io sono con voi” e “non sempre avrete me” suonano in maniera diversa, così quel primo “me” significa altro rispetto al secondo. Equivale infatti a dire: chi si ciba della mia componente esteriore, ovvero la carne ed il sangue, vive proprio di ciò che vivifica l’uomo interiore illuminandolo. Anche se non può accadere letteralmente che qualcuno Lo mangi per intero, a meno che non si accetti una parte per il tutto, secondo la percezione interiore ciò avviene senza alcuna difficoltà, specialmente perché la fede nel Corpo prevede che ciò che viene offerto un pezzo alla volta sia considerato intero nei suoi pezzi. Infatti, come nell’Esodo si legge riguardo alla manna che chi ne aveva raccolta di più non ne ebbe in quantità maggiore, e chi se ne era procurata di meno non ebbe niente di meno, ma ciascuno ne consumò a seconda di quanto poteva mangiared, così questo tipo di sacramento diminuisce o aumenta a seconda di quanto l’intelletto di ciascuno può comprendere: diminuisce quanto più l’intelligenza della propria fede è oscura – caso in cui, tuttavia, l’utilità del sacramento stesso non è minore – mentre aumenta in base alla capacità dell’ingegno del fedele, per il quale il valore del a L’espressione deriva da Orazio Carm. 1, 3, 8: animae dimidium meae, ma è ripresa anche da Agostino in Conf. 4, 6, 11. b Cfr. Gen. 2, 23. c Guiberto si rivolge direttamente ad un ipotetico monaco di Saint-Médard. d Ex. 16, 18.
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Sacro Cibo ai fini della salvezza rimane lo stesso che per i semplici; per tutti, conformemente all’entità della grazia concessa da Dio, quel dono così grande basta, senza alcuna mancanza. D’altra parte in ogni cosa materiale si distinguono per questo una maggioranza e una minoranza, perché non è possibile che le dimensioni di tutti i singoli corpi in tutte le singole forme abbiano grandezze equivalenti, e ciò che è contenuto nell’enorme grossezza delle moli maggiori non verrebbe compreso in alcun modo nell’esilità di quelle minori. Nel rituale mistico di questo sacrificio, però, il criterio è di gran lunga diverso, specialmente perché in quella spartizione, benché vi sia una disparità non dissimile tra le diverse quantità, secondo la stima dell’occhio interiore non porta di più indietro dall’altare colui che vi ingerisce tutto quello che c’é che colui che ne assume una porzioncina del tutto insignificante. Se dunque poni sull’altare molti pani, pensi che ogni singolo pane valga come un singolo corpo del Signore e non, piuttosto, che il gran numero delle ostie, quale che sia, riconduca ad un’unica immagine dalla contemplazione interiore? A questo proposito bisogna anche prendere nota, sebbene sia meno pertinente al discorso, che ho saputo che alcuni hanno commesso un errore addirittura in questo, poiché un tale ha dimenticato quei pani atti al sacramento sull’altare all’interno della pisside, durante la funzione eucaristica,,senza che il sacerdote se ne accorgesse, e una volta concluso l’ufficio divino si é accorto che erano rimasti lì. L’incidente, sottoposto al giudizio del clero che prestava servizio in quella chiesa, si risolse con questa decisione, ovvero che tutto ciò che c’era all’interno della pisside che si trovava sull’altare durante la consacrazione fosse considerato sacramento compiuto ed offerto ai comunicandi come eucaristia. Chi dubita che sia stata una totale assurdità, è ottuso. Dove non c’é intenzione da parte dell’orante, anzi neppure ombra di pensiero o cognizione, secondo quale criterio si dovrebbe credere che si possa operare una consacrazione? Certamente se anche solo una goccia scivolasse sotto il corporale all’insaputa del sacerdote, o ci si accorgesse dopo la conclusione del rito che in una qualsiasi parte del calice è colata una goccia in più rispetto a quanto lui stesso si era proposto, di sicuro
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una persona saggia non avvertirebbe in quelle circostanze nulla di pertinente al sacramento: lì infatti non accade nulla, se non entro l'ambito della fede di chi compie l’invocazione, né arriva da altre fonti nulla che diventi sacro, se non ciò a cui si unisce la parola del Signore, l’unica a poter compiere un sacramento. Quel che fa un non credente o un catecumeno in chiesa dopo il Vangelo, questo fa il pane collocato in maniera disattenta o una stilla che gocciola per caso in qualche parte del calice durante la consacrazionea. Tuttavia, messe da parte tali questioni, bisogna che io torni al discorso che avevo incominciato. Chi mangia me vive grazie a me, disse Cristo. Qualora dunque tu intenda “mangiare Cristo” in modo da credere che in quella spartizione per membra e sezioni di membra scompaia nella bocca di coloro che lo ricevono – per esempio che questo riceva un dito, quell’altro un pezzo del dito e così via per ogni singola parte e frammento di parte –, sicuramente la parola di Cristo non si accorda con questa interpretazione. Il “me” che dice sta proprio a significare l’interezza della sostanza che era allora, o meglio ciò che era in base ad entrambe le sue nature. Come se dicesse: chi si nutre di me in quanto uomo, vive grazie a me in quanto Dio. Ed infatti, poiché è Dio in duplice natura e per duplice natura, grazie all’una vivifica la nostra componente mortale, grazie all’altra illumina quella vitale. Ecco perché concede il proprio corpo ed il proprio sangue, e perché lo fa singolarmente, per infondere ciò che serviva a sottrarre l’umile condizione del nostro corpo ai suoi naturali affanni attraverso il Suo corpo, offerto a nostro beneficio, e secondo quanto si legge nel Levitico: l’anima di ogni carne sta nel sangue (Lev. 7, 14), per purificare attraverso il Suo sangue l’interno delle nostre anime. E questo lo dimostra in maniera più chiara della luce quando durante l’ostensione del corpo non dice altro che questo é il mio corpo, che sarà offerto per voi (1 Cor. 11, 24) – il che, però, è anch’essa un’aggiunta dell’apostolo Paolo –, mentre si sofferma a Ai catecumeni, coloro che ancora non avevano ricevuto il battesimo, non era permesso restare in chiesa durante la celebrazione eucaristica; la loro presenza in tale circostanza era inutile e superflua, perché essi erano esclusi dal sacramento – come il pane e il vino sfuggiti al sacerdote durante la consacrazione.
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tanto più diffusamente sul sangue quanto ritiene l’anima più preziosa del corpoa: infatti afferma che questo sarebbe stato versato sia per coloro a cui parlava, sia per molti, in remissione dei peccati (Matth. 26, 28). Se il sangue, dunque, viene offerto per detergere le anime dai loro peccati, senza dubbio si dimostra con evidenza che nelle anime non è insito alcun peccato, se non quello che viene compiuto per inclinazione e col consenso delle anime stesse: come, infatti, l’impugnatura non combina nulla senza la lamab, così il corpo, escludendo il peccato originale, senza la volontà dell’anima non pecca. Se insisti nel chiedere ancora esempi, eccone subito di assai simili. Giovanni, dopo aver detto che tra i Giudei molti credettero in lui, aggiunse: Gesù invece non si fidava di loro (Ioh. 2, 23-24); ed infatti secondo il beato Agostinoc non si fida di loro perché non concede l’eucaristia del Suo corpo a nessuno, anche se credente, a meno che non sia stato battezzato. Dice anche in altra occasione: chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato (Ioh. 6, 54), ed ancora in un’altra: se non avrete mangiato la carne del figlio dell’uomo e bevuto il suo sangue (Ioh. 6, 60). Poiché dunque abbiamo cominciato a parlare del corpo bipartito del signore, ovvero per la precisione di quello che più su abbiamo definito “principale”, da cui scaturirono successivamente questi sacramenti, e di quello mistico, che sopra abbiamo chiamato “figurato”, nel quale si compie la verità più limpida di ogni luce sotto l’ombra del pane e del vino, prima di accingerci a trattare del dente e delle reliquie del Salvatore, vogliamo almeno discutere le questioni che sono solite sorgere da lì sulla base delle testimonianze che abbiamo allegato in precedenza, anche se non so se saremo in grado di arrivare ad una definizione conclusiva. Cfr. Act. 20, 24: nec facio animam meam pretiosiorem quam me. Riferimento a Deut. 19, 4-5: Haec erit lex homicidae fugientis, cuius vita servanda est: qui percusserit proximum suum nesciens […] in succisione lignorum securis fugerit manu, ferrumque lapsum de manubrio amicum eius percusserit et occiderit […]; Guiberto ribadisce anche in questo caso l’importanza dell’intenzione, senza la quale non può esserci né crimine né peccato. c Agostino, Tract. in Ioh. 11, 2-4. a
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Si pone la questione se quel corpo che si prende dall’altare rappresenti il Signore da vivo o da morto. Sappiamo d’altra parte che finché fu in vita ebbe sempre Dio che coabitava in Lui quanto alla persona, ma che nemmeno da morto perse il nome di figlio di Dio, ed insieme al nome la realtà stessa di quella condizione. Quando afferma che ci si deve cibare di Lui, dunque, sembra mostrare chiaramente l’indivisibile composizione della propria persona. Quanto alla persona, d’altra parte, é insieme Dio e uomo: quale mente razionale, perciò, accetterà che Lui possa diventare commestibile sia come Dio che come uomo? In quel discorso dove si dice “chi mangia me” risulta evidente che si debba intendere necessariamente così (ma lì bisogna fare più attenzione): chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me (Ioh. 6, 57). Quale disputa, quindi, può mai scaturire da questo concetto tra persone sane di mente? Se l’anima di Cristo ebbe in sé Dio come abitante, chi oserà dire che quel mistero di una semplice creatura, di cui ci si avvale puramente durante i sacri uffici, non abbia Dio come vivificatore? Lui, infatti, che nato dallo Spirito Santo e dal sanguea della Vergine mostrò di avere una persona indivisibile di Dio e di Uomo, non avrebbe dovuto incorporare nella sostanza del pane e del vino, per rappresentare sé stesso a noi, il più abbondante afflusso di tutta la propria divinità? Se l’acqua del battesimo si definisce non solo “vivificata dallo Spirito” ma “vivificante”, si potrà attribuire a quella sostanza, che si trasfonde totalmente nel divino, lo svuotamento dalla presenza celeste, della perfetta permanenza di Dio? Quella, destinata a scorrere nelle fogne, fecondata dallo Spirito acquisisce il potere temporaneo, anzi addirittura momentaneo, di cancellare i peccati, mentre quest’ostia, sia che sia stata assunta per la salvezza dei fedeli sia che sia stata presa indebitamente da peccatori ed indegni, ritorna sempre al trono della gloria, si eleva senza venire mai meno, e – lo dico con fede nel corpo di Colui dal quale trasse origine – si riceve senza che raccolga mai su di sé alcuna indegnità, alcuna forma di indegna umiliazione da parte degli improbi.
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Lo stilema classico sanguine cretus è una citazione di Ovidio, Met. 13, 31.
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Se infatti viene ricevuta da una persona qualsiasi in maniera degna, che altro accade se non che egli diviene immediatamente commembre a coloro che aderiscono a quella somma Testa per effetto della Sua stessa carne? In che modo, infatti, uno può entrare a far parte del corpo di Gesù più che immergendosi in questa carne ed in questo sangue con la comunione? Qualora poi tu, improbo, la riceva, ti condanni da solo all’istante, poiché assumi ciò che è sacro in maniera sacrilega, e non riconoscendo il corpo del signore, lo offendi e lo disonori per quanto è in tuo potere, ma un’impenetrabile immunità protegge in ogni occasione quella somma eccellenza dalle tue ingiurie. Ma nessuno se ne abbia a male se mi sembra opportuno discuterne un po’ più diffusamente dalla prospettiva di uno che la pensi in maniera diversa.a «A seconda della fede o della malafede di quanti lo ricevono, dicob, si considera che il sacramento sia valido o quasi privo di efficacia per chi lo assume senza fede o tenendolo in spregio, in quanto non ne ha rispetto e non gli rende onore se è un fedele, in quanto qualora sia un infedele non ci crede e rifiuta con la mente il corpo del Signore. «Io, per come la penso, non vedo in che modo esso si possa adattare alle anime o ai corpi di tali individui. Se infatti nel canone del sacramento si prega solo per coloro che sono ortodossi, che sono cultori della fede cattolica, ed in particolare per coloro che sono servi e serve di Dio – che a buon diritto sarebbe una motivazione sufficiente, a maggior ragione dato che vi si aggiunge: la loro Questo passaggio nel codice Paris, BnF, lat. 2900 è scritto su rasura; secondo Jay Rubenstein (Guibert de Nogent, cit. p. 132-175) gli argomenti che seguono costituirebbero l’opinione originaria di Guiberto stesso, costretto in un secondo momento dalle obiezioni dei suoi lettori a ritrattare, attribuendo le affermazioni, potenzialmente eterodosse, ad un ipotetico avversario, ed aggiungendo altre pagine al trattato in cui esse venivano confutate. Sicuramente da questo punto in poi, data la delicatezza della questione, l’autore ha dovuto effettuare numerose modifiche ed aggiunte in corso d’opera, operazione di cui è rimasta traccia nel manoscritto. b L’io che parla, da questo punto in poi, è un individuo ipotetico che sostiene, contro la corretta dottrina, che il sacramento cessi di essere tale quando viene assunto dagli indegni o va incontro a corruzione. a
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fede è da te conosciuta, ben nota è a te la loro devozionea – che ha a che fare qui un non credente, un cristiano reprobo? «Se “per voi”, o apostoli ed altri santi discepoli, “e per molti é versato” quel sangue “in remissione dei peccati”, dove “molti” non indica altri che gli eletti, i malvagi hanno tutti ogni facoltà, anche se a proprio grave danno, di assumere il sacramento in maniera esteriore, ma non ne possiedono la realtà. Essi infatti assumono ciò che è solo visibile, ma per loro, che da quel sacramento non traggono per niente il nutrimento necessario alla vita perpetua, ciò che é invisibile ed utile si vanifica. Ed in che modo un beneficio così grande, che viene concesso a coloro che lo ricevono in vista della vita eterna, può adattarsi ad un uomo se egli si predispone irrecuperabilmente alle fiamme della Gehenna? Se ad un catecumeno di buona fede si ordina di astenersi dai sacrifici divini poiché non è ancora stato battezzato, a chi a questi riti accede senza fede e con impudenza, in che modo ciò potrà giovare, se non addirittura essere d’ostacolo al coronamento della dannazione? «Quando agli evangelizzatori venne detto di dire a coloro che li avrebbero ospitati: Pace a questa casa, segue: Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti tornerà su di voi (Luc. 10, 5-6). Se il beneficio proprio del predicatore, elargito ai reprobi infruttuosamente, ritorna a colui di cui è legittimo possesso, credi che un dono tanto grande possa essere rinchiuso nel corpo di chi lo accoglie in maniera inopportuna ed irragionevole, nell’anima di chi lo impiega ignobilmente – un carcere così turpe - pur non essendo destinato a luoghi tanto squallidi? «Se lo Spirito Santo rifugge la finzione della disciplina e non dimora in un corpo soggetto ai peccati, anzi viene addirittura scacciato dal sopraggiungere dell’iniquitàb, questa sostanza divina, che diventa corpo del Figlio di Dio attraverso la pienezza del Suo Spirito e l’identificazione con la persona del Figlio, in che modo potrà entrare in quel cuore lurido, di cui quello Spirito Santo non riesce a sopportare il sudiciume non tollerando di risiedervi?
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Canon missae 3 (Memento, domine), 32-35. Sap. 1, 4-5.
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«Qualcuno, però, obietta: se dunque non è un sacramento, e chiunque riceve tale cosa non ottiene la realtà del sacramento, per quale motivo egli é soggetto a dannazione? Al che risponderò: se quel pane non avesse in sé nulla di sacro rispetto al pane comune, ma colui che lo assume lo ritenesse essere il corpo del Signore e si facesse avanti a riceverlo in maniera impudente, senza ombra di dubbio cadrebbe preda del giudizio divino non meno che se quello fosse il corpo di Gesù vero ed autentico. Mi sembra infatti sacrilego pensare che una dignità tanto grande, che non porta alcun utile dove non è dovuto ed anzi fornisce a questo nefando tradimento ragioni di esecrazione totale, sia condannata ad un’intrusione così disdicevole: non ha nulla a che fare con il suo onore se questa grazia, che é nutrice di totale purezza, sia cancellata dagli influssi di una turpe coscienza ed il pover’uomo colpevole di questa impropria assunzione venga punito. «Pensi forse che se lo ricevesse un infedele continuerebbe ad essere il corpo del Signore? E come può essere il corpo del Signore per uno che lo riceve senza rispetto o senza consapevolezza, che non ha alcuna fede in questo mistero? E qualora venga preso indebitamente da un bambino o da un dissennato che non sia in grado di distinguere se sia un sacramento o meno, questo tale va forse accusato di aver accolto il corpo del Signore in maniera insolente? Non sono per niente d’accordo. Dirò, ma senza pretendere di avere il parere migliore, che non si deve imputare a nessuno di aver assunto questo corpo bene o male, se non a chi abbia potuto per prima cosa riconoscere almeno in parte la fede in esso. Certamente nessuno osa imputare a motivo di dannazione a coloro che sono stupidi per natura e a quanti cadono nella follia i peccati – anche i più gravi – che commettono a causa di pazzia e stupidità, né alcuno deve accusare di peccato chi non compia il male con cognizione di causa. «È del tutto indubbio che siano esistiti innumerevoli uomini appartenenti all’ordine episcopale e a quello sacerdotale che amministravano al popolo questi sacramenti e non avevano alcuna fede nella verità intrinseca dei sacramenti stessi. Pensi dunque che, quando espletavano questi riti e non davano il giusto valore ai gesti che esteriormente apparivano compiere, facessero qualcosa di
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celeste? Per niente, né la sostanza del pane e del vino in mano loro mutavaa, poiché nessuna fede mentale nelle parole del Signore, tramite le quali si portano a compimento i riti sacri, accompagna i loro gesti esteriori; essa sola ottiene, come proprio effetto specifico, di realizzare l’arcano della trasformazione spirituale. Ma in tali riti – cosa in cui spicca particolarmente il potere di Dio – questa grazia che sfugge ai finti sacerdoti non abbandona le schiere dei fedeli per i quali essi vengono espletati, dato che lo stesso Corpo, che non è Corpo presso coloro che lo amministrano senza avere fede, è sacramento e realtà del sacramento per coloro che, benché di fronte ad un infedele, assistono tuttavia con fede. «Per esempio, qualora un Giudeo si sottoponga al battesimo, cosa che capita spesso, con intenzioni perfide al fine di arricchirsi, consegue forse l’immunità dai peccati? A chi si accosta ad una cosa così pura con falsità e malignità nemmeno lo Spirito Santo stesso, alla cui potenza spettò santificare il battesimo, è mai valso in alcun modo a condonare il benché minimo peccato. E se anche avesse potuto, senza dubbio sarebbe stata non certo una forma di potenza, ma di impotenza, e per giunta ingiusta: mi sembra che condonare una colpa ad un individuo completamente dissennato ed impenitente non sia nient’altro che fare un favore maligno a criminali e superbi, assecondandoli. «E che Dio sarà, se rimette impunemente i loro peccati a quanti perseverano in essi? Sicuramente il Giudeo si è sottoposto al battesimo fingendo, e certo ciò che lo Spirito Santo all’invocazione di qualsiasi sacerdote ha indubbiamente impregnato e reso efficace, lui lo ha trovato inefficace, essendosi presentato con falsità. Ecco che diventa evidente in maniera più chiara della luce che dove non c’è fede, anche il sacramento diviene privo di potere. E nessuno mi contesti che anche il pagano e l’eretico battezzano, poiché c’è un’autorità diversa nel concedere la professione del nome di Dio In questo punto l’ipotetico oratore sfiora pericolosamente il Donatismo (cfr. nota b, p. 66). Dottrine del genere sono diffuse per tutto il corso del Medioevo: rilanciate dai patarini e dalle polemiche anti-simoniache della Riforma gregoriana, tornano di moda proprio tra i movimenti ereticali dell’epoca (Cfr. Grado Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medievali, Bologna, 1989). Guiberto si muove dunque su un terreno doppiamente minato. a
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che nel riceverla. Infatti il rito è ascritto al celebrante che amministra esteriormente la consacrazione, mentre la sua efficacia risale a Cristo, al quale è riferito, perché è Lui di cui si dice: questi è colui che battezza (Ioh. 1, 33), ed anche che è il solo a sacrificarea. Dato che l’autorità di Cristo – singolare, poiché l’ha tenuta per sé – avalla i celebranti, cioè i sacerdoti, nel discernere in via assoluta i confessori finché ci troviamo a questo mondo, risulta esservi un grande dubbio. Per questo il Salmo disse: fermò le acque come un otre (Ps. 77, 33). Se le acque, di cui in altro luogo si dice: il fiume di Dio è gonfio di acque (Ps. 64, 10), sono i doni spirituali, come anche lo stesso battesimo, Dio questi li infonde a chi vuole, li preclude a chi vuole, li proibisce e li concede a seconda dell’intenzione e del merito di chi vi accede. «C’è anche una questione che potrà risultare dipendente da queste considerazioni non meno degli argomenti sopra citati. Sappiamo e sosteniamo in base ad un numeroso insieme di canoni che sia i vescovi sia i preti ordinati in maniera simoniaca non ricevono nulla dal proprio ordinatore, e che anzi se abbiano ordinato o amministrato sacramenti ad altri a loro volta, non sono in grado di fare o di concedere ciò che non hanno acquisito da nessunob. «A questo pericolo tanto gravoso, tuttavia, si frappone la condizione divina che se si assume qualche sacramento per mano loro non sapendo che sono simoniaci, grazie alla fede di chi lo accetta ignorando quella piaga, il veleno di tutta quell’eresia si svuota, cosicché ciò che il simoniaco stesso non possiede – anche quando sarà chiaro che ha fornito qualcosa che non aveva – risulta reso valido dalla sola fede del ricevente. Immaginiamo anche, per contro, un santo, del tutto ignaro del flagello della simonia, a cui i suoi sottoposti, vale a dire arcidiaconi o decani, convinti col denaro in modo simoniaco, presentino delle persone da ordinare: di sicuro Hebr. 10, 12. Queste risoluzioni in materia di simonia sono frutto della recente Riforma gregoriana, il cui clima di rinnovamento ispira l’intero testo di Guiberto di Nogent, tanto l’attacco a Saint-Médard e la denuncia del “business” legato alla venerazione dei santi e delle loro reliquie, quanto il contributo dell’autore alla riflessione eucaristica, oggetto in quegli anni di un acceso dibattito dottrinale. a
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da quel santo, per quanto santo e legittimo sia il sacramento che concede, non ricevono nulla, bensì, come sbigottiti di fronte al sole, non vedono e non sentono. «Se queste cose, minuscole a confronto del sacrificio divino, vengono concesse o sottratte a causa dell’enormità di un singolo peccato ed i giudizi di Dio mutano in base alla grazia di chi le riceve, in quel sacrosanto mistero nessuno, seppur giusto, si distingue dai dannati? Io so solo – e su questo argomento non mi mostro contrario al beato dottore delle genti, che dice: chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condannaa – che vorrei capire che cosa di sacro o di utile si porta via dall’altare chi non dubita della “verità” fisica del corpo del Signore e, per dirla con un termine di chiesa, ne fa comunione con la disonestà propria di un animo crudele e scellerato, non portando rispetto a cotanta Persona. E sia: ecco pure il sacramento, anche se non tanto assunto quanto preso indebitamente con arroganza e stoltezza. Benché questo venga certamente concesso, tuttavia non si vede come del sacramento egli possa portarsi via da lì la realtà: ché se manca la realtà del sacramento, a che giova averlo ricevuto? D’altra parte il sacramento si divide in tre aspetti: si presenta infatti sotto forma di giuramento, si suole poi annunciarlo sotto forma di consacrazione, e si accetta sotto forma di mistero. Sia dunque cosa sacra e sia mistero, tutto ciò, tolta la realtà del sacramento, per chi non né è degno diventa una sentenza. «Diremo pertanto che la maestà di questo così grande dono, che il cielo e la terra devono adorare, si immerga volentieri nel petto marcissimo di qualche scellerato, evidentemente solo per consumare col suo fuoco il misero cuore di un uomo destinato alla dannazione? Lungi dalla piissima anima del buon Gesù! Credo col cuore e professo con la boccab che chi si avvicina a queste cose sacre col proposito di appropriarsene indebitamente venga punito in maniera del tutto meritata, ma non oserei in alcun modo sostenere che la dignità di quella materia tanto preziosa possa essere contenuta in luoghi infami. Dice l’apostolo: se anche abbiamo a b
1 Cor. 11, 29. Cfr. Rom. 10, 10.
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conosciuto Gesù secondo la carne, ora non lo conosciamo più così (2 Cor. 5, 16): tornerà dunque di nuovo, ormai elevatosi a sedere al fianco del Padre come suo pari, a sopportare ingiurie tanto da essere costretto ora, Lui che un tempo non ebbe dove posare il capoa, ad invecchiare in un alloggio corrotto? «Mi azzardo a dire – e sono in buona fede nei confronti di Dio, perciò lo faccio con maggiore sicurezza – che il Signore Gesù riuscì a portare la croce più facilmente di quanto riesca a tollerare uomini che perseverano in una turpe condotta. A ciò quindi lo condurrebbe una reiterata sventura, a tornare nuovamente, malvolentieri, a farsi carico degli errori della nostra stirpe? Forse si è stancato della propria impassibilità, e patendo la quiete non vede l’ora di rinunciarvi per tornare agli affanni del corpo che era solito avere un tempo! Vorrei che qualcuno mi spiegasse cosa voglia dire: chi mangia me, vive grazie a me. Che vuol dire “mangiare”, che vuol dire “me”? è un concetto ambiguo, e si può mangiare bene o male: il Signore intende in senso assoluto, l’apostolo in senso relativo. Ma che cosa si mangia? Il pane che io darò – dice – è la mia carne (Ioh. 6, 52), e recita il salmo: l'uomo mangiò il pane degli angeli (Ps. 77, 25). “Mangiare” non mi sembra significhi altro che fare della vita di Gesù un esempio per sé stessi, ed è questo il motivo per cui dice “me”, come se intendesse: non mangia me chi non diventa parte dello stesso corpo unendosi a me. Non mi si creda a meno che non sia assodato che le parole del Signore sono in armonia con le mie. «Egli dice: Dacci oggi il nostro pane quotidiano (Luc. 11, 3). Dal punto di vista di chi dice ciò? Chiaramente di coloro che dicono e possono dire: Padre nostro, che sei nei cieli (Matth. 6, 9). Di chi pensi che sia Padre? Senz’altro degli eletti che ai precetti di Dio Padre aspirano ad adeguarsi. Siate santi - dice - così come io sono santo (Levit. 11, 44): questi figli, aggiungo, invocano il “nostro pane” come se dicessero: ti riconosciamo come “padre nostro” coi fatti e nella verità (Ioh. 3, 18), dai a noi il pane, non quello di estranei, ma quello che è propriamente “nostro”. Di chi è questa preghiera? Indubbiamente di coloro che saranno salvati; dicono a
Luc. 9, 58: Filius […] hominis non habet ubi caput reclinet.
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infatti: venga il tuo regno (Matth. 6, 10), cioè si riunisca la Santa Chiesa, che è il regno speciale di Dioa, che altrove dice non essere di questo mondo: se fosse di questo mondo, infatti, il mondo amerebbe ciò che è suob. Perciò questo pane, che è anche detto “degli angeli”, chi potrebbe avere l’ardire di affermare che spetti a qualcuno tra i reprobi? Viene quindi concesso in sorte solamente agli eletti. Pertanto: Chi mangia me vive grazie a me, cioè: “nessuno entra in comunione con la mia carne e col mio sangue, se non colui che il mio soffio interiore vivifica”. «Pensaci, per favore: cosa ha a che fare qui un uomo destinato alla dannazione, che il diavolo mortifica nutrendolo di vizi per portarlo con sé nella Gehenna? Ebbene, non vedo in alcun modo come un uomo del genere – cosa che comunque spetta a Dio solo giudicare – possa partecipare degnamente anche solo una volta nella vita a quei riti sacri, dato che è stato predisposto alla morte. È assolutamente evidente, infatti, che costui non può diventare parte di un unico corpo con quel pane che viene donato per la vita eterna e che viene definito pegno di salvezza eterna, lui che è tanto inadatto, io ritengo, a ricevere in alcun modo il vero sacramento in questo mondo, quanto in futuro si dimostrerà bandito dalla realtà del sacramento stesso. «Io dico, dunque, – e nessuno che abbia senno potrà contraddirmi – che chiunque l’abbia ricevuto degnamente una volta, non sarà in alcun modo escluso dalla salvezza eterna, di cui esso è garanzia autentica. Vedi quindi all’utilità di chi, in tutto e per tutto, spetti questo cibo. «Se c’è ancora qualche dubbio che tormenta il tuo animo arrogante, leggi l’opera del beato Cipriano I lapsic: lì, se non erro, Ioh. 18, 36. Cfr. Ioh. 15, 19: Si de mundo fuissetis, mundus quod suum erat diligeret. c Guiberto cita a memoria i capitoli 25 e 26, ma come egli stesso sospetta il suo ricordo è impreciso. Nel passo in questione, Cipriano racconta di una bambina che all’insaputa della madre viene consegnata ai giudici e costretta a partecipare ad un rito pagano, e che condotta in seguito da lui, vescovo di Cartagine, per ricevere l’eucaristia, la rigurgita perché indegna; parla poi di una lapsa che ha cercato di conservare l’ostia in uno scrigno, ma non riesce a consumarla perché quando lo apre essa si riduce in fiamme, e del caso di un uomo che mentre tenta di assumere di nascosto il sacramento se lo trova ridotto in cenere tra le mani. A commento di quest’ultimo a
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scoprirai che alcuni di loro, che erano incorsi nella persecuzione ed avevano assaggiato il sangue versato di un sacrificio, al tempo in cui fu concessa la pace si mescolarono alle comunità dei fedeli come innocenti, e ricevettero al pari degli altri il medesimo sacramento del corpo del Signore; alcuni, non so se maschi o femmine, lo portarono a casa avvolto in panni di lino bianco, com’era uso a quel tempo, e lo misero nei propri scrigni per conservarlo. Non appena tornarono a controllarlo con l’intenzione di assumerlo, lo trovarono ridotto in faville e cenere, e perfino i ragazzini che venivano condotti in braccio alle loro madri a ricevere l’eucarestia, dopo averla accolta in bocca dalla mano del sacerdote la rigettavano tossendo, se anche loro, però, avevano bevuto qualche goccia del sangue versato dell’immolazione. Perché dunque il corpo del Signore in faville? Che motivo aveva Egli di punire il proprio corpo, quando avrebbe dovuto vendicarsi piuttosto di coloro che dal Suo corpo si erano separati? Certamente Lui, che al proprio corpo ha affidato il compito così grande di dispensare onore altrove e di proteggere gli uomini, mai - se del Suo corpo si trattasse - avrebbe permesso che fosse ridotto in cenere. «Dimmi, chiunque tu sia, perché il Signore, mentre era in procinto di lasciare il mondo, ha creato per noi un corpo vicario di cui fruissimo temporaneamente. Concluderò senza dubbio: per la consolazione comune ed in ricordo di Sé, ed anche per stimolare la fede. Se dunque queste tre cose sono il motivo, quando è dimostrato che mancano proprio queste si suppone che le veci di Cristo siano del tutto vane; specialmente quando non c’è consolazione per nessuno, quando la memoria viene a mancare e quando non c’è fede da parte di coloro la cui fede debba, anzi voglia, essere esercitata. Questo non lo osserviamo solo nei pagani, ma anche nei cristiani che si sono allontanati da Dio, che l’apostolo definisce peggiori degli infedelia. Dove, infatti, non c’è fede che venga alimentata e devozione che lo reclami, in queste circostanze non so cosa possa fare le veci del corpo di Cristo. Vedi dunque come aneddoto, Cipriano afferma che il sacramento, fuggito il sacro e mutata la grazia in cenere, viene negato e non è utile ai fini della salvezza per chi non lo merita. a 1 Tim. 5, 8.
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questo mistero riguardi solo i fedeli, e solo quelli che appartengono alla parte destinata alla salvezza. Del resto chi se ne appropria con insolenza – facoltà questa che abbonda talvolta sia nei buoni che nei cattivi – non so se riceva comunque o meno il sacramento stesso, ma so che per il fatto che lo ritiene essere un sacramento si danna. «Abbiamo sentito che è stato ingerito da topi e cani, che per negligenza dei custodi si è ridotto ad imputridire o ammuffire, che è esposto alle sorti più svariate, e che viene addirittura bruciato… Che dire? Sarà forse ammissibile per un corpo sacrosanto che i topi l’abbiano roso, che i cani l’abbiano leccato, così che ciò che la magnanimità della nostra fede si guadagna a stento a beneficio dell’anima più che del corpo venga offerto senza motivo al ventre di topi e cani? Diremo quindi che i denti di vili bestiole masticano per puro caso ciò che con tanta commozione e tante lacrime i vescovi cristiani, sotto il pontificato, prima ancora, di Cristo, immolano insieme alle loro pie greggi? Questo, per carità, sparisca completamente da ogni santo pensiero! «Più su risulta essere stato provato in ogni modo che questo tipo di dono è stato concesso da Dio a sostegno della vera fede, e poiché viene dato in premio alla sola fede, nessuna creatura ne trae nutrimento se non chi ha fede davvero. E poiché la vera fede di ciascuno è alimentata da questo unico cibo, non risulta essere in alcun modo un sacramento, né tantomeno fornire la realtà del sacramento, dopo essere finito in mano ad empie anime e animali bruti. Ché se si dice questo del mistero della nostra redenzione, la sostanza del nostro credo si rivela assai ridicola per i suoi avversari. Se infatti coloro che polemizzano volentieri sul corpo del Signore e ritengono che esso sia simbolico e non reale possono canzonarci ribattendoa che è comune a bestie e uomini, ci soggiogheranno con una facile argomentazione e facendo leva sulla sola vergogna dimostreranno vittoriosamente la nostra stupidità, a Il verbo adoperato in questo punto da Guiberto, occentare, è di ascendenza plautina e poco attestato anche tra gli autori classici, tanto raro e difficile che Guiberto stesso lo glossa a beneficio dei propri lettori (id est contracantare quod est affirmare). Il lemma è adoperato una volta da Agostino in De civitate Dei 2, 9, ma Guiberto poteva averlo trovato in qualche glossario.
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dicendo che i nostri sacramenti sono comuni sia agli uomini che alle bestie. «Di fronte alla fede, ovunque essa si trovi, si creda nella realtà del sacramento, di fronte ad incidenti causati da bestie o disgrazie dovute a qualsiasi altro rischio, dato che non c’è fede a cui rimanga saldamente legato, lo si ritenga la sostanza che era stata prima invece di imprimere a fuoco la macchia di una tale turpitudine su quella purezza unica. Se infatti si mantiene ovunque nella stessa maestà, mentre brucia, mentre va in putrefazione, mentre viene rosa e leccata, una tale gloria, sottoposta ad ogni genere di svilimento, diminuisce fino a scomparire. E benché sembri esposta a questi rischi, non sono tuttavia immuni da gravi rovine per le proprie anime coloro che dovrebbero essere preposti alla custodia di un bene tanto prezioso, e quanti lo privano del dovuto riguardo tradiscono davvero il corpo del Signore: intendiamoci, non è sacramento mentre muta in foraggio materiale, ma per coloro ai quali era stata affidata la custodia di questo bene costituisce un tradimento del vero mistero nella sua interezza, ed un crimine di orribile abbandono. «Una volta trattati questi argomenti divagando più di quanto avevamo immaginato, si aggiunga dunque ai nostri discorsi su questa sostanza la conclusione: non si creda che questo cibo, in quanto è detto “supersustanziale”, possa divenire alimento per alcuna creatura umana, anzi terrestre, se non di coloro che sono davvero fedeli e predestinati alla vita eterna. Se lo diventerà, lo si ritenga essere nient’altro che pane puro e semplice, e non mi pento di ripetere quel che ho detto: in caso vi acceda un infedele o una persona del tutto indegna, per il fatto che si intromette con impudenza in cose che non lo riguardano, si dà alle fiamme. Non è lecito credere, d’altra parte, che una così grande dignità si adatti ad una dimora tanto ignobile, ma come il battesimo è santo e rende santi i buoni, così per i malvagi, oltre ad incriminarli per il loro reato, non ha altro effetto che quello della comune acqua. Dico queste cose secondo la mia intelligenza e le dico conformemente alla fede, Dio mi è testimone: in caso qualcuno abbia un’altra opinione, veda di aver senno».
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Contro queste asserzioni prive di misura, risponderei con un ragionamento più breve, perché più misuratoa. È certamente verissimo che l’eucaristia sia alimento propriamente proprio della vera fede. Ma contro ciò che viene detto, che per chi non la merita non soltanto non sia realtà del sacramento, ma nemmeno un sacramento, ci opponiamo non solo secondo l’autorità ma, se essa dovesse mancare, per numerose ragioni. Prima di tutto, perché è molto sconveniente attribuire a misteri così sacri mutevolezza ed alternanza, implicando che ciò che è stato per Pietro sia sacramento che realtà del sacramento non sia stato per Giuda nella medesima occasione nessuna delle due cose, e che l’acqua del battesimo, la quale a sacramento compiuto, una volta mescolatasi alle falde sotterranee, non ha ormai più nulla di diverso dalle acque comuni, non sembri ad esse superiore sotto nessun aspetto, come se ciò che per l’uno è qualcosa quasi in base al suo esserne degno, per un altro in base alla sua indegnità all’improvviso diventasse niente e la malvagità di un misero omuncolo spodestasse di colpo l’eccellenza di tanta maestà. Egli infatti, che quando visse a questo mondo si mostrò affabile non meno a Giuda ed ai propri persecutori che a Maria e ai propri compagni, Lui che accolse cortesemente al proprio discepolato anche quelli che sarebbero poi tornati indietrob, che anche ora regnando al fianco del Padre concede il proprio sole ai buoni tanto quanto ai cattivic, che secondo il libro di Daniele assegnò addirittura un angelo custode come ai fedeli così agli infedeli, cosa che dimostrò in Michele, principe degli Ebrei, al quale si opponeva il principe dei Grecid, mai e poi mai si deve credere che in questo tempo estrometta qualcuno dai suoi sacramenti, specialmente Questa frase nel Parigino lat. 2900 è scritta su rasura. Le pagine che seguono sono scritte su fogli di pergamena aggiunti in seguito, dalla mano di due segretari; come evidenziato da Rubenstein (Cfr. sopra nota a, p. 89), Guiberto ha forse inserito la confutazione delle idee precedentemente esposte in un secondo momento, o ampliato il proprio discorso per rispondere alle obiezioni dei suoi primi lettori. b Ioh. 6, 67: Ex hoc multi discipulorum eius abierunt retro. c Matth. 5, 45: solem suum oriri facit super bonos et malos et pluit super iustos et iniustos. d Riferimento un po’ confuso a Daniel 10, 12-21 (dove si parla, però, del principe di Persia). a
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perché è il tempo della misericordiaa in cui non esclude nessuno dalla propria generosità. Se ora li rendesse privi di questo dono, cosa potrebbe pretendere nel momento del giudizio da loro, a cui non avrebbe consegnato nulla oltre a questa grazia nella vita presente? Anche se nel caso degli ingiusti questa affermazione potesse essere valida, che cioè la loro iniquità annullerebbe i sacramenti, invano la loro mente avrebbe timore della propria turpitudine se fosse convinta che il corpo del Signore, a causa della loro malvagità, ritornasse alla sostanza che era prima. Ecco, io per esempio, conscio della mia debolezza, non so se sarò degno d’odio o di amoreb quando accederò a quei sacramenti: quale speranza, quale frutto potrò credere che sarò in grado di trarne, se verrò a sapere per la mia disperazione che a causa dei miei peccati quel bene così prezioso si annulla? E chi, quando ancora è nella carne, non dubita di tanto in tanto di essere un eletto? Quindi ogni volta che mi assalirà il pensiero della mia misera condizione umana mentre partecipo alla messa domenicale, il corpo del Signore non sarà per me né sacramento né realtà del sacramento? Chi è saggio consideri quindi quante incongruenze siano generate da quest’opinione, e creda fermissimamente senza alcuna interpretazione distorta che, secondo l’apostolo, chi mangia quel medesimo corpo indegnamente, mangia per certo la propria condanna. Messe dunque da parte elucubrazioni pessime e che sono causa di infinita incertezza, si pensi solo questo: è sacramento e realtà del sacramento per i degni, semplice sacramento senza la realtà del sacramento per gli indegni. In quale condizione si trovi negli animi e nei corpi degli indegni, però, lo sa solo Colui la cui sostanza, ovunque essa venga distribuita e qualsiasi cosa ne accada di conseguenza, è tale da non poter né perire né logorarsi in nessun caso. A ciò si adatta piuttosto a proposito quel proverbio di Salomone: le sorti vengono messe in seno, ma sono stabilite da Dio (Prov. 16, 33). Queste sorti non si possono intendere meglio che come le a b
Ps. 101, 14. Eccle. 9, 1: nescit homo utrum amore an odio dignus sit.
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partizioni di questo dono note a Dio solo. Sono dunque nascoste in seno perché si mantengono inaccessibili, vicendevolmente coperte dai divini misteri. Per questo motivo si dice che sono stabilite attentamente e bene da Dio, perché si ritiene che le ricevano senza la realtà del sacramento molti che invece, quando Dio provvede alla loro correzione, ne ricavano il nutrimento per la vita eterna, visto che nell’arbitrio di Dio risiede ben altro che ciò che pensa la sconsideratezza degli uomini, poiché probi inizi vengono ribaltati da una fine improba o buoni inizi vengono sminuiti da una conclusione ignobile. È perciò la pietà celeste a stabilire quello che non teme di giudicare, anzi di giudicare anzitempo, una severità poco ponderata anche verso sé stessa. Perciò le sorti vengono messe in seno, poiché essa plasma ad uno ad uno i cuori degli uominia, ma dopo che saremo entrati nel santuario di Diob farà in modo che l’operato dei singoli divenga distinguibile all’intelletto. Ne deriva che lo Spirito Santo coopera non solo con quanti amano Dio, ma anche con coloro che prima o poi lo ameranno, qualsiasi sia la colpa in cui sono attualmente invischiati, affinché pervengano al bene nei loro esiti, anche nel ricevere il dono di questa eucaristiac. Mi rinfacci chi vuole la questione delle ceneri in Cipriano che mi ha sollevato contro quel polemico, e le visioni di quel vecchio del quale si legge nei Gesta Seniorum, che vedeva un angelo dar da mangiare dei carboni agli indegni mentre il sacramento tornava all’altared, poiché su questo argomento la mia fede non potrà mai vacillare. Oltre a questo, se si discute di topi o di bestie o del fatto che in qualche caso sembra essere soggetto a logoramento accidenPs. 32, 15: qui finxit sigillatim corda eorum, qui intelligit omnia opera eorum. Ps. 72, 17: donec intrem in sanctuarium dei. c Questo capoverso corrisponde nel ms. Parigino Lat. 2900 ad una lunga aggiunta a margine; Guiberto probabilmente ha sentito in un secondo momento l’esigenza di espandere e rafforzare il discorso, forse in risposta ad un’obiezione nata dopo aver fatto circolare il testo. d Huygens (nota a p. 128) segnala che molto probabilmente Guiberto ha ripreso questo aneddoto dal De corporis et sanguinis Christi veritate in eucharistia di Guitmondo di Aversa, uno dei trattati sulla transustanziazione più diffusi, scritto intorno al 1075. Guitmondo racconta una storia molto simile, citando come fonte le Vitae Patrum; evidentemente Guiberto si affida ancora alla propria debole memoria. a
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tale, noi non osiamo affermare nient’altro se non che per nessun motivo crediamo che la sostanza attribuita da Dio a quella specie possa essere rimossa. Alcuni scrissero che i nostri occhi si ingannano riguardo all’apparente corruzione di un mistero tanto grande, ed adducono che per un breve momento gli occhi di Cleofa e di Maria Maddalena sono stati trattenuti dal riconoscere il Signorea, argomentazioni che non so se saranno mai abbastanza per me e per molti altrib. Tuttavia sappiamo questo: che per la parte per la quale è apparenza si ritiene soggetto ad accidenti di questo tipo, mentre per quella per la quale è realtà, saldamente innestato nel proprio corpo principale che siede alla destra del padre, non è danneggiato da alcun detrimento. A partire da questi accidenti, che presso gli infedeli paiono chiaramente occasione di critica dei nostri misteri e che non si riescono a giustificare basandosi sulle autorità, quelli che non vaneggiano sostengano questo parere: questo residuo – come parlandone dal punto di vista dell’apparenza – lo lascino al fuococ, e ritengano Lui resuscitato dai morti, in modo da considerare che qualunque cosa appartenga a Lui non si trovi altrove che nel Suo corpo glorificato, e non temano i ventri dei topi più delle menti degli scellerati, che irritano maggiormente Dio, poiché ovunque lo si butti esso è protetto da ogni torto mentre ritorna al proprio principio. Se uno esprime un parere un po’ più liberamenLuc. 24, 18; Ioh. 20, 1-2 e 13. Anche questo è un riferimento diretto ad un’argomentazione di Guitmondo di Aversa: nel trattato De corporis et sanguinis Christi veritate in eucharistia egli afferma che così come Cristo mutò in questo episodio la propria species, il sacramento può mutare esteriormente in cenere senza che la sua substantia subisca alterazioni. Guiberto, evidentemente, accoglie il ragionamento con qualche perplessità, ma perviene alla stessa soluzione. Per Jay Rubenstein (Guibert de Nogent, cit., p. 169-170) sarebbero state proprio le tesi di Guitmondo di Aversa, portate alla sua attenzione da un lettore, a costringere Guiberto a ritrattare le proprie convinzioni iniziali e a metterle in bocca ad un ipotetico individuo aliter sentiens. Questo è senz’altro verosimile. Quello che possiamo dire con certezza è che gli interventi di Guiberto dimostrano che molto probabilmente prima di iniziare a scrivere non era a conoscenza del testo in questione, o che per lo meno non lo aveva preso in considerazione: l’esigenza di confrontarsi con esso deve averlo spinto ad ampliare questa sezione del libro II. c Ex. 12, 10: si quid residuum fuerit, igne comburetis. a
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te del giusto in difesa di una cosa tanto importante affinché non le siano attribuite condizioni spregevoli, non bisogna considerarlo un eretico.a Ma poiché prima abbiamo sfiorato il tema della composizione di questo corpo che si consuma sulla sacra mensa, dobbiamo dare una definizione completamente adatta di quel corpo che regna ormai al fianco del Padre, immortale ed incorruttibileb. Ed in questo nessuno mi obietti che mentre il Signore Dio medesimo tramandava questi misteri ha detto: questo è il mio corpo che viene offerto per voi e questo è il sangue che è versato per voi e per molti, come ad insegnare che quello che offriva fosse da definire secondo lo stato che aveva in quel momento; ritenga, invece, che questo sia falso, poiché Lui che per effetto dell’unione con la divinità fu sempre immortale – infatti non subì la morte per dovere, ma la scelse di proposito – tramandò queste stesse cose in uno stato incorrotto, stato che mostrò sul monte a Pietro, Giovanni e Giacomoc. Ma dato che ho sentito uno dei miei amici, un dotto di prima categoria, discostarsi moltissimo da questo parere, tanto da dire che il mistero del Suo corpo, che viene compiuto sull’altare con la fede del sacerdote e del popolo, preceduto dalla parola di Dio, reca in sé la figura della carne di Cristo passibile e mortale, mi sembra opportuno trattarne mediante una discussione un po’ più ampiad, e dimostrare che egli ha un’opinione assai meno competente ed accorta su un argomento di tale importanza rispetto a quanto competerebbe ad un uomo di tale erudizione. Se considerasse Sottolineiamo queste parole: se Guiberto si fosse trovato davvero a dover ritrattare le proprie idee perché eterodosse, questa suonerebbe come un’aperta autogiustificazione. b Da questo momento in poi l’autore sembra perdere la coerenza col titolo: oltre al corpo storico di Cristo (principale) ed al suo corpo figurato (mistico), introduce infatti nella riflessione un terzo corpo, quello glorificato, incorruttibile ed impassibile che siede alla destra del Padre, creando un po’ di confusione nel lettore. In realtà Guiberto chiarirà in seguito che il corpo storico e quello glorificato sono il medesimo. c Matth. 17, 1-2. d La parte che segue costituisce un’altra aggiunta successiva al testo primitivo: si tratta della confutazione delle idee di un conoscente di Guiberto, convinto che il sacramento simboleggi il corpo fisico di Cristo, quello che ha subito la passione, e che ogni volta che si compie l’eucaristia Cristo venga crocifisso sull’altare. a
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attentamente quanto ho detto in breve più su, infatti, andrebbe dicendo ben altre cose della passibilità o della mortalità di Gesù nostro signore. Senza dubbio, infatti, se analizzasse con la dovuta minuzia quello che viene detto dal Salvatore stesso: nessuno mi toglie la mia anima, ma sono io che la lascio (Ioh. 10, 18), mai imprimerebbe al Signore il marchio della passione e della morte così incautamente. Certo che è possibile che l’anima venga “tolta” ad un uomo, a cui può capitare di patire e di morire a qualsiasi ora ed in qualsiasi momento; ma Lui, del quale spesso si racconta che ancora non era giunta la Sua oraa, al quale senza dubbio sottostanno immutabilmente l’avvento delle ore e le ore degli eventi, “lascia” l’anima, poiché, avendola presa da sé ed avendola da sé creata, la getta via quando vuole e come vuole. Agli uomini, infatti, viene strappata, mentre Lui, che tutto ciò che è lo è da sé ed a cui nulla accade se non ciò che è volontario, come spontaneamente l’ha presa spontaneamente la libera. Quale necessitàb di morire, infatti, avrebbe Lui, sempre accompagnato nella sua seconda nascita dalla libertà dello Spirito Santo nel grembo della genitricec? Per questo si dice che ha restituito ciò che non ha sottrattod: Egli fu il solo, libero tra i mortie, a scontare le pene di peccati da Lui non commessi. Se la necessità di peccare contratta da noi con la corruzione della nostra natura, determina per noi di conseguenza la necessità di morire, Lui, che non è stato macchiato né dal peccato originale, poiché è nato dallo Spirito e dalla santa Vergine, né da peccato attivo, che non aveva sommato al precedente, da quale contratto col peccatof avrebbe potuto essere sollecitato, e da quale condanna sarebbe stato obbligato a scontare il debito di Ioh. 2, 4 (7, 6; 7, 8; 7, 30; 8, 20): nondum venit hora mea. Il termine è da intendere, ovviamente, in senso filosofico. c Riferimento a Ioh. 3, 3-8. La seconda nascita, secondo il passo dell’evangelista, è la rinascita dello spirito ottenuta attraverso il battesimo, mentre la prima è quella della carne. Guiberto intende che Cristo non è macchiato dal peccato originale e quindi fin dal concepimento nel grembo della madre è libero, e non sottoposto alla condizione di dover morire. d Ps. 68, 5: quae non rapui, tunc exsolvebam. e Ps. 87, 6: inter mortuos liber. f Rom. 7, 23 e 8, 2: lege peccati. a
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una natura peccatrice? Dove, perciò, mancano la colpa originale e quella attiva, quali tributi possono riscuotere la morte e la passibilità? Se infatti attraverso il peccato la morte viene introdotta nella nostra natura umanaa, dove non c’è peccato è ovvio che l’efficacia della morte si annulla, perché senza dubbio non si può dubitare in alcun modo che la sottrazione della causa provochi l’annullamento dell’effetto. Se nella condizione iniziale del primo uomo non fosse sopraggiunto l’evento di un certo peccato, sicuramente non gli sarebbe capitato di imbattersi nella sofferenza o nella morte, e nella diffusione dei nati della sua discendenza non avrebbe avuto accesso alcun tipo di vecchiaia, se l’atroce atto di disobbedienza causato dal desiderio non logorasse l’animob. Cosa può esserci di nuovo, infatti, cosa di lieto, cosa di integro lì dove l’ansia del rimorso di coscienza rode dentro? Secondo Salomone, infatti, un animo gioioso rende l'età florida (Prov. 17, 22): è questo, si intende, il paradiso che il Signore ha piantato dal principio, ossia quello che dal primo momento ha seminato negli animi intellettuali degli angeli e degli uominic. Egli, però, ha fornito a molti degli angeli ma alla natura umana nel suo insieme dei luoghi di sosta provvisori ma destinati ad essere presto lasciati, tanto che in nessun modo qualcuno può rallegrarsi dell’impassibilità continua della propria mente e del proprio corpo. Cosa bisogna pensare, allora, della mente e del corpo del figlio di Dio, nella cui identità personale non è compreso fisicamente solo l’uomo, ma anche la pienezza della divinitàd, se anche di un uomo puro e che non ha imparato a vivere senza peccato, si dice che la sua vita, quasi come fosse il regno di Dio, è pace anche in questo mondo e gioia nello Spirito Santoe?
Rom. 5, 12: per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit et per peccatum mors. b Si tratta dell’innato senso di colpa dovuto al peccato originale. c Gen. 2, 8. d Coloss. 2, 9: in ipso habitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter. e Rom. 14, 17: Non est enim regnum dei esca et potus, sed iustitia et pax et gaudium in Spiritu Sancto. a
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Il primo uomoa, intendo dire, prima del peccato – se posso avere l’ardire di affermarlo – fu insieme passibile ed impassibile, ed anche mortale ed immortale, poiché attraverso il peccato, abusando del proprio – ma non libero – arbitrio poté scivolare verso le sofferenze e la morte, e se avesse voluto mantenersi nei confini della vera libertà non peccando, senza dubbio rimanendo impassibile non avrebbe potuto in alcun modo morire. Il secondo uomo, cioè il Signore Gesù, gli succedette in qualche modo in forma quasi uguale, dotato di una natura tanto più impassibile quanto più libera, anzi di natali tanto più ineffabili, simultaneamente di Dio e di uomo. In base a cosa, infatti, si potrebbe definire passibile lui, a cui l’eliminazione totale del peccato sia in origine che nell’azione non permetterebbe in alcun modo di affrontare una pena, cioè la passione e la morte? Dato che il primo uomo avrebbe potuto essere impassibile ed immortale grazie all’astinenza dal peccato, il figlio di Dio non avrebbe dovuto rendere la sostanza della nostra fragilità, che ha unito a sé, molto più impassibile e, per così dire, più immortale? Egli è dunque venuto al mondo senza lussuria, formatosi nel grembo della vergine per opera del solo Spirito Santo, per natura impassibile ed immortale. Tanto impassibile ed immortale, aggiungo, che, come quel primo uomo con un atto di disobbedienza si consegnò spontaneamente alle sofferenze ed alla morte, così anche questo secondo uomo, per ripristinare la giustizia, abbandonò volontariamente sé stesso a sopportare i dolori e la morte, cose alle quali non era per niente tenuto: se infatti non avesse scontato per gli uomini pene che non aveva meritato, non avrebbe liberato in alcun modo coloro che le meritavano ed erano passibili di quei supplizi. Voglio dunque che tu creda che sia passibile e mortale per questo solo motivo, perché volle patire e morire per la redenzione dell’uomo, e non perché abbia contratto per tramite del primo progenitore un debito di natura che consiste nel patire e nel morire. Perciò ha sofferto ed è morto perché lo ha voluto, non poiché abbia dovuto per la legge di Adamo. Quale immagine di un Cristo a
Ovvero Adamo.
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passibile e mortale vuoi dunque imporre al sacrificio del corpo e del sangue del Signore? Avresti dovuto sapere dalle parole sicure uscite dalla sua stessa bocca che Egli è immortale ed impassibile! Nessuno, disse, ascende al cielo se non il figlio dell’uomo che sta in cielo (Ioh. 3, 13), e altrove: io sono nel Padre, e il Padre è in me (Ioh. 14, 10) e molte cose simili a queste prima di andarsene da questo mondo, sottolineando la propria consustanzialità al Padre. Se il Figlio dell’uomo è in cielo e lì è tutt’uno con il Padre – dice infatti in un altro momento: io sono dei superni (Ioh. 8, 23), che non è altro che se dicesse: io sono nello spirito principale, cioè il Padre –, quale passibilità, quale mortalità perfino tenti di attribuire a Lui, che nei punti delle scritture dove si trova chiamato passibile e mortale, è definito tale senza dubbio solo perché per arbitrio della sua volontà si pose in balia della morte, e non perché sottostette a qualche necessità? Non c’è quindi alcunché di passibile e di mortale in Cristo che tu debba paragonare a quei sacramenti vivifici, dato che, se valutassi con intenzione fedele e non ostinata, non troveresti in lui proprio nulla che non sia incorruttibile ed immortale, tranne il fatto che scelse spontaneamente di morire: infatti una cosa è ciò che facciamo volontariamente e di buon grado, un’altra ciò che siamo obbligati a compiere con la forza e come incalzati dai doveri. Ma su questo a chi ha senno basti quanto detto. Mi è stato, inoltre, riferito da certi congiunti di quel mio amico che non solo mentre discute o conferisce, come al solito, coi suoi compagni dotti ma anche mentre disserta apertamente, cioè in mezzo a folle di uomini del tutto ignoranti e rozzi, è solito dire che quando si consuma l’ostia della salvezza il Signore Gesù viene crocifisso quotidianamente sull’altare, cosa che a noi, cattolici e tutti devotamente ragionevoli, conviene esecrare con tanto biasimo quanta è la fermezza con cui bisogna purificare il nostro stesso Signore da simili idee di somma impotenza o di eterna sofferenza. Cosa pensare su Dio, infatti, di più indegno e più miserabile del fatto che Dio si faccia eterno sciagurato a vantaggio della nostra beatitudine? Cosa imputare a Dio di più contrario alla sua potenza del fatto che necessitiamo dei suoi tormenti quotidiani a sostegno incessante della nostra riparazione? Certo, se le cose stes-
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sero in modo tale che l’atrocità di un’esecuzione quotidiana trucidasse il Creatore della vita non ci sarebbe nulla nel premio celeste di tanto felice o tanto glorioso da non perdere valore al pensiero della sventura così durevole toccata a Cristo, garante di questa ricompensa. E chi non accuserebbe di grande inutilità quella morte che continuasse a ripetersi a cicli non solo numerosi ma ineffabilmente infiniti giorno dopo giorno? E che dire del fatto che ogni giorno in ogni singola chiesa, anzi addirittura su ogni altare, si compiono più sacrifici? Perciò si dovrà dire che quell’impotentissimoa – se è così – Salvatore venga inchiodato a tante croci quante messe risultino essere state celebrate su qualsiasi altare. Certo anche se non fosse disponibile alcun sostegno da parte delle Scritture, la ragione seppellirebbe completamente tutta questa follia. Benché infatti non si dubiti che il gesto stesso dell’istituzione ecclesiastica che viene compiuto durante il sacrificio alluda ad un’analogia con la passione del Signore e si creda che venga compiuto in ricordo di nostro Signore, è tuttavia empio dire che per questo Egli venga crocifisso ogni volta che si compie. Anche se talvolta dei significanti sono preposti ai significati, tuttavia le cose che preannunciano in modo velato e quelle che seguono nella realtà non sono le stesse. Ad esempio nel battesimo l’immersione per tre volte allude alla sepoltura di tre giorni del Signore, eppure non diciamo che tutte le volte che qualcuno riceve il battesimo in qualche posto Cristo viene seppellito lì dove capita. Sebbene certamente quell’ostia rinfreschi la nostra memoria tramite il ricorso quotidiano alla sua presenza fisica, tuttavia non infligge affatto un’offesa ripetuta a Dio, che non è assolutamente destinato a morire di conseguenza, ad immagine della passione: Cristo certo resuscitando dai morti non muore più, la morte non avrà più potere su di lui: quanto al fatto che è morto al peccato, è morto una volta sola, quanto al fatto che ora vive, vive per Dio (Rom. 6, 9-10). Ma se “resuscitando non muore” e, tuttavia, stando a quanto dici viene crocifisso ogni giorno su tutti gli altari, vorrei capire come la tua saggezza interpreta quell’“una volta sola” usato Il termine impotentissimus è un ironico ribaltamento dell’attributo divino omnipotens. a
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dall’apostolo, col quale si indica che muore il peccato (cioè Cristo, divenuto vittima sacrificale a redenzione del peccato). E in che modo “vive per Dio” chi viene tormentato così mille voltea, appeso ripetutamente in ogni angolo della terra? Se secondo l’apostolo Pietro che discute di queste stesse parole Cristo è morto una volta sola in redenzione dei nostri peccati, per presentarci a Dio (1 Petr. 3, 18), lui che è stato messo in balia delle sventure di così tante sofferenze, come può innalzare qualcuno presentandolo a Dio? Se muore una volta sola e per questo ci recupera alla salvezza eterna, è in tutto degno ed appropriato alla divinità il mistero che celebra, se invece, una volta morto, dopo essere risorto tortura sé stesso, per così dire, facendosi crocifiggere continuamente, sciagurato com’è diventato, chiaramente non può procurare a nessuno la beatitudine che non possiede. Gesù infatti – dice l’apostolo – non entrò in un santuario costruito da mani umane, raffigurazione di quelli veri, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire sé stesso più volte, nel modo in cui il sacerdote entra nel santuario ogni anno col sangue altrui: altrimenti avrebbe dovuto soffrire frequentemente fin dall'origine del mondo, mentre è apparso ora, al compimento dei tempi, per annullare il peccato mediante il proprio sacrificio. E come è stato stabilito per gli uomini che muoiano una volta sola e dopo ciò venga il giudizio, così anche Cristo è stato offerto una volta sola per estinguere i peccati di molti (Hebr. 9, 2428). Ecco; vedi in maniera limpida, a meno che si scopra che la vista della tua mente è accecata dal peccato, come la parola dell’Apostolo suoni contraria ai tuoi errori. Ma vorrei chiederti se dai più peso al nuovo testamento rispetto al vecchio o più al vecchio rispetto al nuovo. Non dubito che tu mi risponda “al nuovo”. Se pensi che prevalga il nuovo, perché svaluti tanto l’importanza della morte di Cristo con questa storia delle sue crocifissioni quotidiane, da far sembrare molto più importante l’ingresso annuale del sacerdote
L’espressione milies repetitis è forse un’eco di Orazio, Ars Poetica 365: deciens repetita. a
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nel santuario per la sua straordinarietà del decessoa del nostro Salvatore, giorno dopo giorno interminabile? Se infatti secondo le scritture ritenessi efficace il supplizio della Sua passione originale, mai estenderesti l’oltraggio che ha subito a tuo beneficio – se hai senno – a crocifissioni addirittura coeve al nostro tempo. Che il medesimo sacrificio venga replicato con iterazioni quotidiane, però, non è riferito al fatto che la sua crocifissione è destinata a ripetersi a scopo punitivo giorno dopo giorno, ma al fatto che il male di ogni giorno, nella varietà delle sue trasgressioni, è lavato dalla quotidiana rappresentazione di un tale mistero. Infatti non tormentiamo Colui che ha portato a termine una volta per tutte quest’opera rimodellandola sempre da capo, ma richiamiamo alla mente il ricordo mutevole, per rinnovarlo dall’origine, di ciò che sappiamo essere stato fatto un tempo per la salvezza di tutti, senza alcun bisogno che sia ripetutob. Ritengo anche che ti si debba domandare se quel corpo, che come dici viene crocifisso costantemente, sia il medesimo che risulta essere nato dalla Vergine e che sarebbe stato appeso sulla croce. So che mi risponderai “il medesimo”. Se dunque lo si ritiene essere il medesimo e si ritiene che quello che si consuma sull’altare, come tu vai insegnando, debba essere conforme a questo, passibile e mortale, vorrei mi fosse insegnato se quello passibile e mortale di cui parli sia il medesimo corpo oppure un altro rispetto a quello che, come noto, ha preso ormai posto, impassibile ed immortale, alla destra del Padre. Se rispondi che non è il medesimo, certo è come attribuire due corpi al signore Gesù: uno infatti sarà quello che risulterà essere soggetto alla passione ed alla morte, un altro quello che ha ormai raggiunto il solido stato dell’incorruttibilità. Quando perciò il mistero del sacro pane e del sacro calice diventa il semplice simbolo di una carne corruttibile, si scinde perversamente in due parti l’indivisibile unità della sostanza del È opportuno notare l’ironia creata in latino dal fine gioco di parole tra introitus e interitus (ingresso/decesso), che per forza di cose non si può rendere pienamente nella traduzione. b Anche questo paragrafo costituisce un’aggiunta marginale, un ultimo ritocco dell’autore che conclude il ragionamento sul rapporto tra passione ed eucaristia indicando, dopo la confutazione dell’errore, la via del giusto pensiero. a
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Salvatore. Se poi ti vergogni di dire questo ed asserisci che sia un solo corpo, cioè passibile sull’altare e che sieda accanto al padre nella gloria celeste, vedi, secondo il suddetto apostolo, di non crocifiggere di nuovo Cristo, diventato incorruttibile ed immortale, e farne scempioc, o piuttosto – cosa che si sa essere più conforme alla verità – di non renderti ridicolo agli occhi di tutti coloro che hanno idee appropriate su Dio. Queste argomentazioni che abbiamo esposto credo ti bastino, se volgi l’animo a correzione; se invece sceglierai di insistere riderai di queste cose, forse non improbabili per i fedeli, come fossero favole. Smettano dunque quanti soppesano con la bilancia gli stati del Signore di indagare se questo sacramento che si compie tra noi si adatti ad un Cristo passibile oppure impassibile, morto oppure vivente. Il risultato del loro ponderare, infatti, è che per nessuna ragione bisogna intendere altro se non che vada accolto in quella condizione in cui si trovava mentre offriva da mangiare ai discepoli quello stesso corpo. Se infatti, dicono, avesse dato questi ordini precisi durante i pasti che tenne insieme a loro dopo la resurrezione ed avesse detto “questo è il mio corpo”, giustamente nessuno avrebbe pensato ad un corpo diverso da quale era stato quando aveva detto questo; si ricorda, anzi, che mentre cenava ha detto che non avrebbe bevuto dal frutto della vite finché non fosse giunto il momento di berne nel suo regno insieme a loro, regno che non è altro che la glorificazione del corpo che già ha subito la passione. Perciò si dice: lo Spirito non era ancora stato concesso, poiché Gesù non era stato ancora glorificato (Ioh. 7, 39). Quale dunque Egli era allora, mentre diceva tali cose: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e chi mangia me, vive grazie a me, tale ritengono essere la sostanza stessa che dall’altare fornisce il nutrimento vitale. Ma è vano disputare sulla corrispondenza dell’ostia con Gesù morto, poiché lui, che è morto, persino nella sua propria morte non è altro che il figlio di Dio. Di Lui infatti, si dice che è stato ucciso fin dall’origine del mondo (Apoc. 13, 8), prima di nascere nella dimensione temporale, e si legge che ha guidato gli atti compiuti c
Hebr. 6, 6: rursum crucifigentes sibimetipsis filium dei et ostentui habentes.
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insieme ai padri: come è esistito – per così dire – prima di essere, così da morto è stato sempre lo stesso che fu da vivo, motivo per il quale non c’è mai stato alcun bisogno di distinguere tra lui da vivo e lui da morto. Proprio Lui, secondo l’apostolo Giudaa, condusse felicemente il popolo fuori dall’Egitto, e Paolo dice che Cristo fu tentato nel deserto dagli Israelitib; d’altra parte, se non per altre ragioni, almeno il canone del sacramento stesso dimostra con evidenza che quei misteri sono vivificati dall’influsso completo della divinità, poiché recita: santifichi, vivifichi, benedici e offri a noi per mezzo di esso con la sua onnipotenza li rende efficaci. Mettiamo quindi da parte questi discorsi, e riprendiamo quello che era stato interrotto sul dente e sul cordone ombelicale del Salvatore. Nel farlo bisogna osservare per prima cosa che come dello Spirito Santo si dice: è bene per voi che io me ne vada: se infatti non me ne andrò, non verrà il Consolatorec (Ioh. 16, 7), così coloro che si attribuiscono queste reliquie confutano, a me sembra, le parole della Verità. Che significa infatti “se non me ne andrò”? Chiaramente “se non farò svanire la mia presenza corporale”. Il Consolatore perciò non viene a meno che questa venga eliminata, perché a meno che qualsiasi cosa corporea propria di lui non venga fatta svanire dalla memoria, l’animo non si solleva in alcun modo alla fede della contemplazione. Più su è stato detto che per mettere alla prova la nostra fede nostro Signore ha voluto indirizzarci da un corpo principale ad uno mistico, e successivamente, come attraverso dei gradini, ammaestrarci alla comprensione della sottigliezza divina. Perciò, in un certo senso, ci ha elevato dalla densità della visione esteriore allo sguardo più sottile dell’immaginazione come dalla canapa al lino, poiché ci ha spinto avanti dalla sua apparenza corporea alla cognizione di questo mistero, per forgiare un’immagine diversa che promettesse a noi qualcos’altro, anzi lo contenesse in sé, ridestandoci dalla tangibile carnalità. Iudae 5. 1 Cor. 10, 9. c Paracleto (o Paraclito) è un epiteto dello Spirito Santo, dal greco paráklētos, “chiamato presso, invocato”, e quindi “consolatore”. a
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Quando, infatti, un individuo rozzo, ignaro delle forme allegoriche osserva quelle due sostanze materiali (cioè il pane ed il vino) poste sull’altare e gli viene insegnato a pensare che in quelle si trovano il corpo ed il sangue di Cristo, a quale grado di comprensione della generosità divina crediamo venga elevato? Se Dio ha raccomandato che quest’opera così impegnativa fosse compiuta, ma in maniera che il mondo non fosse privo di parte del corpo originale, allora Dio ha tre corpi. Ci sarà in primo luogo il corpo concepito dalla Vergine, in secondo luogo quello che è contenuto sotto forma di figura nel pane e nel calice, in terzo luogo quello che ormai siede impassibile, anzi glorificato, alla destra del Padre. Chiunque voglia opporsi a questo parere, dicendo che quello nato dalla Vergine ed appeso alla croce e quello incorruttibile innalzato alla dignità paterna sono il medesimo corpo, si sbaglia, poiché, anche se sussiste la medesima individualità della persona, l’essenza si scopre di gran lunga dissimile nelle qualità delle diverse nature: una volta glorificato, infatti, non potrà poi essere dominato in alcun modo dal potere della morte o della passione. Ma ponendo fine a questo libretto con una conclusione ormai opportuna, avviamo l’inizio di un altro e riprendendo proprio gli argomenti che abbiamo tralasciato in questo contesto insieme ad altri, che siamo sicuri aggiungeremo con l’ispirazione di Dio, armiamoci contro le loro non “reliquie”, ma blasfemie.
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III CONTRO I MONACI DI SAINT‑MÉDARD CHE AFFERMANO DI POSSEDERE IL DENTE DEL SALVATORE
La devozione nei confronti di Dio e dei suoi santi è da approvarsi sotto ogni aspetto, ma quando la devozione si arroga tanto quanto la dottrina della religione non concede minimamente, ciò da cui qualsiasi pio cultore delle cose divine avrebbe potuto aspettarsi un premio diventa qualcosa di miserabile, tanto che a causa di esso egli attira su di sé la punizione per un orrendo peccato. Quando infatti si venera o si dice qualcosa su Dio tale da essere indubbiamente in contrasto con le testimonianze della verità stessa, accade per forza che la mente si dimostri sbandare in maniera tanto deteriore quanto più incorreggibile, mentre pecca sotto l’apparenza della devozione. Non c’è infatti nulla di peggio che fare cose cattive e prendere queste azioni, che si compiono sconsideratamente, per l’esercizio di un’opera buona. Perciò, dunque, quando verrà corretto questo errore, che non solo non è creduto un errore ma è addirittura ritenuto la prelazione del favore di Dio? Persuadono l’animo di chi sbaglia alla correzione di ogni peccato o il timore o la vergogna: il timore o dell’ostilità di Dio o del castigo estremo; la vergogna o della colpa, che genera rimorso nella coscienza, o degli occhi bassi di fronte agli uomini a causa delle chiacchiere del volgo. Dove infatti l’animo non è turbato dall’an-
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goscia dei pensieri ed il viso non arrossisce alla vista di qualcuno, certo non viene fornita alcuna materia per ravvedersi. Che dire del fatto che qualcosa di vergognoso e perfino pieno di estraniazione da Dio e del tutto contrario alle autorità ecclesiastiche, ostentato come se fosse degno di lode e descritto come il privilegio di una circostanza eccezionale, non viene mai punito in alcun modo secondo i principi del retto zelo? Finché, infatti, il timore di un qualche castigo tormenta i recessi dell’anima, rimangono numerose speranze di correzione; quando invece si usa come pretesto il culto della santità, ma in questo la tensione della mente è distolta dall’equilibrio della giusta credulità, essa non ambisce mai al traguardo di correggersi. Questo è il motivo per cui i monaci di Saint-Médard, nostri vicini, si sono conquistati i cuori degli ignoranti con un’antica menzogna, attribuendosi bugie sul dente del Salvatore, che avrebbe perso a nove anni per cause naturali, con le quali abbattono il culmine ed il fastigio della speranza universale come con un tiro di falaricaa e, smaniando di autocelebrarsi, mandano a rotoli i capisaldi principali della fede comune. Ed infatti se a qualcuno dopo il riconoscimento della fede si annienta il vigore della speranza, che altro si fa se non troncargli la radice di ogni inclinazione e pratica positiva? Anche se avrò la linfa di una fede incorrotta e butterò da ogni parte le infiorescenze di azioni sante, inariditasi la radice della speranza dalla quale traggono nutrimento il tronco ed i ramoscelli, non mi aspetterò nulla in tutto l’organismo dell’albero che procuri diletto o giovamento: se semini bene, se la crescita dei semi ha buon esito, ma poi la grandine dissipa tutto, quando getti la falceb che raccolto ne ricavi? Vorrei sapere da voi che cosa mai pensiate della resurrezione. Lasciando stare ciò che capiterà alla fine del mondo, voi non potete negare in alcun modo che il Signore, il cui dente andate dicendo d’avere tra le mani, sia risorto. Ma se è risorto, vi chiedo, è risorto parzialmente o è risorto intero? Se dichiarate che è risorto intero, dove saranno le parti che vi attribuite? Se rispondete “in parte”, a b
Cfr. Virgilio, Aen. 9, 705 Marc. 4, 29: statim mittit falcem.
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le promesse che aveva pronunciato sulla nostra futura resurrezione a che gioveranno? Certo se potrà essere provato che non abbia adempiuto in Sé stesso alle promesse che aveva fatto a noi su di noi, ciò evidentemente porterà un’incertezza non piccola alle nostre speranze. Qualcuno penserà di doverne trarre delle conclusioni, come da una premessa logica, dicendo: “Che farà agli altri che lo seguono, lui che non tiene fede alle proprie parole su sé stesso? Aveva detto che neanche un capello sarebbe caduto dalla nostra testaa, e Lui invece, facendo come una spartizione del proprio corpo, affida alla terra dei pezzetti e, portando in cielo ciò che rimane, annuncia di essere risorto? Lui che chiaramente non è in grado di mantenere queste promesse con sé stesso, che diventa incapace di tenere insieme i suoi stessi pezzi, in che modo terrà insieme le nostre membra, disperse di qua e di là per l’incuria degli uomini?” Nel tentativo di esaltare la vostra chiesa con ricchezze donate dai pellegrini e di ostentare apparenze di gran lunga più nobili e più eccellenti degli altri riguardo alla vostra condizione, ve ne siete venuti fuori con questa estrema follia, arrivando all’apice del vostro empio intelletto, tanto da non voler accusare di menzogna solo le parole dei profeti – cosa nefanda a dirsi, ma che vale la pena dire –, ma addirittura il Signore Gesù. Se il profeta dice: né lascerai che il tuo santo veda la corruzione (Ps. 15, 10), certamente si può a buon diritto accusare quel profeta di avere mentito, perché senza dubbio il dente in questione è destinato ad una continua corruzione. E cosa c’è di più esposto alla corruzione senza speranza di recupero che quel dente, che risulta escluso dalla gloria e dall’incorruttibilità della resurrezione? Dio mio, che disgrazia è toccata a quel dente: mai dichiarerò che è stato procreato nel ventre della vergine per opera dello Spirito Santo, ma dirò che arrivando da un altro luogo si è attaccato alle mandiboleb del Signore, come l’innesto dal germoglio di una pianta estranea! Quel dente, quindi, si corrompe, poiché – per ricavare il senso del termine dal termine stesso – quando viene rotto e sepaa b
Luc. 21, 18. Cfr. Virgilio, Aen. 2, 774 e 3, 48: vox faucibus haesit.
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rato dal suo corpoa, una volta che quello è stato glorificato viene sia abbandonato sulla terra, sia condannato alla miseria eterna, dato che, se non gli capita altro, alla fine del mondo verrà comunque arso insieme al cielo ed alla terra. Vi accuserò, perciò, o di arroganza o di menzogna, e non di una menzogna qualsiasi, ma di una menzogna tale da rendervi blasfemi nei confronti del Divino, e, se vi opponeste con troppa ostinazione, eretici rispetto alla dottrina cattolica. Viene dunque offerta a noi una speranza maggiore che al padre ed artefice della nostra speranza, il Signore Gesù, visto che noi crediamo di essere rimessi insieme dopo la distruzione dei nostri corpi dalla stessa persona nella quale vediamo il corpo soggetto alla decomposizione? Ecco, per grazia vostra qui noi valiamo più di Gesù!b A noi infatti è riservata la rigenerazione totale, mentre per Gesù è resa tanto parziale da rimanere sospesa senza compiersi mai per l’eternità, oppure fino al momento di compiersi con la resurrezione comune: allora forse Gesù farà spazio per il dente in arrivo, o con la mandibola ancora bucata riaccoglierà allora il dente fino a quel momento vagante, e così avverrà la reiterata glorificazione del dente e del cordone ombelicale, e di altre cose se ce ne sono, come un tempo ci fu la seconda circoncisionec. Guardate, falsificatori, come questo vostro piccolo fuoco consuma tanto del verde della verità cristiana! Se anche non esistesse alcuna testimonianza oltre alla frase del profeta che abbiamo premesso, a voi, messi così alle strette, converrebbe molto rispondere, almeno su questo argomento, specialmente considerando che il beatissimo Pietro stesso l’ha prodotta contro i Giudei come asserzione della resurrezione del Signored. Dato che infatti è proprio da pazzi furiosi contraddire un profeta tanto egregio e un apostolo di tale primario ruolo, mi stupisco di come osiate dire cose per le quali finite in contraddizione in maniera evidentissima con autorità così grandi. Certo se vi venissero Gioco paraetimologico di gusto isidoriano: cor(pore ab)rumpitur. Il tono sarcastico è amplificato dall’eco biblica di Matth. 12, 41 e Luc. 11, 32: et ecce plus quam Ionas hic, e Matth. 12, 42 e Luc. 11, 31: et ecce plus quam Solomon hic. c Ios. 5, 2 e 4: circumcide secundo filios Israel […] Haec autem causa est secundae circumcisionis. d Act. 2, 27. a
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in aiuto svariate altre ragioni, che in qualunque modo servissero anche momentaneamente a sostenere ciò, le vostre coscienze, che contro certi uomini dalla gloria di gran lunga inferiore su questa faccenda non potrebbero neanche aver ragione di mugugnare, dovrebbero comunque inorridire parecchio all’idea di provarci. Ché se dite che non ci sia corruzione, chiaramente, benché non sia ancora corrotto, è giocoforza che si corrompa. E quale modo peggiore di corrompersi che essere abbandonato allo squallore della disperazione eterna mentre il corpo viene glorificato interamente? E come osate asserire una cosa tanto sciocca? Visto che non negate che Lui sia risorto, com’è che gli è capitato di lasciare da parte il proprio dente per una sorta di dimenticanza? E se gli è passato di mente o lo ha respinto volontariamente, che farà al momento della resurrezione, quando, mentre riunirà le membra degli altri, Lui se ne andrà invece privo di una propria parte? Ora, facciamo finta che voi possiate essere ricchi di un dono tanto prezioso. Vorrei quindi che vi degnaste di rispondermi: in quale corpo credete che il dente e tutte le altre cose passeranno di diritto al momento della resurrezione? Stiamo trattando, infatti, non meno del cordone ombelicale e delle altre cose che si dicono essere state Sue, che del dente: chiaramente ciò che si dice di una cosa si applica alle restanti. Dove si riuniranno quindi le parti che si conservano del Signore e Salvatore quando quell’ultimo giorno piomberà su di noi? Se sono destinate a tornare al corpo di prima, in cui saranno riaccolte, che spazi si apriranno per riaccoglierle? Forse il Salvatore glorificato è rimasto sdentato fino ad ora, per lasciare un posto al dente che sarebbe sopraggiunto? E certo non ci sarebbe un posto adatto nella bocca di uomo adulto – vale a dire del Signore – per un dente così piccolo! Sarà. Ma dove si andrà a sistemare il cordone ombelicale, mi chiedo? Forse si celebrano due glorificazioni per lo stesso corpo? È una cosa che non si legge da nessuna parte, che non è comprovata da alcuna testimonianza: che avete dunque da ribattere, nel rendervi conto che tutto quel che ruota intorno alla vostra affermazione viene confutato e ridicolizzato? Perché poi, lasciando stare i profeti, imprimete a fuoco su Dio stesso il marchio di una tale eresia? Se aveste Lui davan-
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ti, sentireste le stesse parole che sentirono da Lui i Giudei, e non meno giustamente: chi tra voi mi accusa di peccato? (Ioh. 8, 46) Lui ha fatto sì che quanto di più fragile e quanto di più insignificante c’è nell’uomo fosse in noi in condizione di non perire, e voi nella vostra saggezza che avete fatto? Vi siete attribuiti un residuo così importante, non dei capelli ma della Sua carne e delle Sue ossa, generando imbarazzo in Lui e diffidenza in noi tutti! In questa diffidenza tuttavia emerge scarso riguardo in entrambi i sensi, poiché pensarla così, dire così, da un lato contraddice apertamente la fede nelle parole divine, dall’altro offusca l’occhio di qualche persona dalla vista vacillante con un turbine di pensieri non da poco, dato che tutti temono che in loro possa non compiersi la promessa di Dio, che sono indotti a intendere che non abbia in alcun modo cominciato ad adempiere neanche in sé stesso. Qualora, infatti tu prometta a chiunque l’abbondanza quando tu stesso non puoi rimediare alla tua indigenza, è certo che la fiducia nei tuoi confronti di quello a cui hai promesso si affievolisce. Dico che questo talvolta potrebbe nuocere alle indoli deboli o mutevoli, ma se per misericordia di Dio non vediamo attorno a noi non dico aguzzarsi, ma piuttosto accecarsi l’astuziaa di nessuno alla vista di simili cose, ciò non si dovrà alla vostra prudenza, che non teme, secondo il divieto della legge, di scavare una cisterna dalla profondità tanto malefica, dentro la quale si spalanca l’abisso per ogni creatura brutab. Certo, anche se per opera di Dio e grazie al mancato apprezzamento della nostra epoca per questo insegnamentoc non viene permesso che sia danneggiato nessuno, Va perduto, per forza di cose, il gioco di parole tra versipellibus e versutiam. Cfr. Ex. 21, 33: Si quis aperuerit cisternam et foderit et non operuerit eam, cecederitque bos aut asinus in eam […]. Il senso di questa frase piuttosto oscura, che abbiamo tradotto con un po’ di libertà, è il seguente: “grazie a Dio sembra che nessuno vi dia retta o peggio si faccia ingannare da voi, ma se qualche asino o qualche bue non cade nella trappola che avete teso, non è certo merito vostro.” c Il senso dell’espressione è dubbio. Il termine doctrina è però richiamato successivamente dalle parole in evidentia omnium docere soleatis; si tratta quindi di un riferimento alle tesi dei monaci di Soissons, e non alla “legge” di cui si parla sopra. Si dovrà quindi intendere: “grazie al fatto che nessuno al giorno d’oggi presta ascolto alle vostre teorie” a
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tuttavia a carico della vostra impudenza pende un crimine non minore, dal momento che fornite occasione continua di pericolo per gli incauti. In ciò vi si rimprovera soprattutto questo: visto che siete soliti insegnare queste cose sotto gli occhi di tutti, anche se sono come un bersaglio per la contraddizionea che suscita – lo sentite – l’opposizione generale di persone ogni giorno più sagge, mai tuttavia, mai dico, avete cercato il giudizio di un parere migliore né vi siete curati di quanto ciò fosse discordante dalle Scritture. Se infatti aveste messo alla prova anche appena un po’ quelle affermazioni sulla condizione della Sua e della nostra resurrezione, senza indugio la scintilla di quella verità di cui parliamo avrebbe brillato con evidenza. E cosa c’è di più folle che divulgare alle orecchie della Chiesa una cosa che non può basarsi sulle conclusioni di alcun dibattito? Paolo sale a Gerusalemme e confronta con Pietro e gli altri il suo vangelo per non rischiare di lanciarsi o di essersi lanciato nel vuotob, e la vostra sapienza si vergogna di comprendere le cose su cui è in dubbio? Prestate attenzione a quella massima di Orazio: perché preferisco ignorare, per distorto pudore, piuttosto che imparare?c E sì che di vostro non siete neanche tanto stupidi da non poter comprendere appieno che una parte migra al soglio del Padre, l’altra, destinata a corrompersi, rimane come esule da quel corpo di tale importanza. Quale intelletto potrebbe tollerare che una tale gloria attenda una parte, e l’altra parte se la prenda l’infelicità eterna? Anche se nessuna autorità fornisse sostegno alle nostre parole, sarebbe sufficiente il divario, così intollerabile nella maestà di un corpo tanto sacrosanto, tra le sue parti. Se infatti al momento della resurrezione, quando ci trasformeremo, nei nostri corpi di semplici uomini ci sarà un’uniformità tale che, glorificata la totalità delle membra, in nessuno rimanga neppure un atomo dell’indegnità della vile condizione precedente, quale demenza ci farà credere che ci sia qualche cosa di sconveniente in Lui, che quanto alla persona è Guiberto gioca con ambiguità su Luc. 2, 34: signum cui contradicetur. Gal. 1, 18 e 2, 1-2. c Orazio, Ars Poetica 88. a
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sia dio che uomo, tanto da pensare che qualcosa in Lui sia degno, qualcosa sia bandito da ciò che è degnoa? Per bocca del Dottore delle genti, nella quale parla Cristo, ci viene promesso che Lui ricostituirà il corpo della nostra piccolezza conformato al corpo della sua gloria (2 Cor. 13, 3): Lui, che ha abbandonato parte del suo corpo in una condizione inutilmente umile senza alcun pretesto razionale, come potrà elevare la deprecabilità della corruzione umana alla conformità con la propria gloria, se si è mostrato apparentemente incapace di riprendersi ciò che è stato Suo? State attenti quindi, quando vi attribuite con arroganza le membra di Dio come una sorta di onore, genio tutelare e prerogativa singolare della vostra chiesa, per il fatto che nel dire ciò voi credete di battervi per il vostro onore, a non umiliare Dio, del cui dente vi vantate, trascinandolo, per così dire, fino in terra. Se quello che cercate è un onore derivante da Dio, che tipo di Dio, mi chiedo, potrete pensare che sia quello che, si vede subito, accusate di falsità? Se il vostro onore sfocia nell’infamia di colui dal quale bramate di ricevere onore, quale ringraziamento restituite in cambio dell’onore ricevuto? Ed in che modo il vostro omaggio è ragionevole, se venerate e offrite da venerare agli altri una cosa che nessun argomento di fede supporta? L’apostolo definisce proprio omaggio ragionevole (Rom. 12, 1) quello in cui l’animo si impegna liberamente non senza una motivazione totalmente veritiera. Infatti quando qualcuno venera e predica chiunque e ignora la causa della venerazione e di ciò che predica, molto facilmente vacilla o zoppica. E certo benché la fama di questa vanteria si diffonda presso tutti, assai raramente, tuttavia, la credulità di qualche sapiente si presta a questa diceria: dato che la ragione su questa vostra affermazione è incerta sotto ogni aspetto, a stento si trova qualcuno, se non rozzo ed ignorante, che essa ammaestri a crederci, e dove la diffidenza di ogni mente acuta si oppone, chi può saltar fuori a divulgare una trattazione di questo tipo se non uno impudente e perverso? La sola vergogna Si intenda: se noi, semplici uomini, saremo glorificati completamente, senza che nulla in noi rimanga legato alla sfera terrena, perché dovremmo pensare che parti di Lui, che è insieme Dio e uomo, siano bandite dalla gloria celeste? a
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avrebbe dovuto inibire questa garrulità, perché chiunque sia accorto non attribuisca ciò che insegnate, che chiaramente non può essere approvato da menti sane, a idiozia. E se le ragioni presentate non soddisfano per niente qualche intelletto, ecco: io sono pronto, prendendo le vostre parti, a sforzarmi di opporre a me stesso difese che possano sostenere il vostro dogma, ed in seguito a controbattere, senza accampare alcuna scusa ed in più con totale trasparenza. Così, quindi, si suppone che la vostra voce si esprima, o piuttosto ciò che affermate sembra emergere da tali argomentazioni – non che abbia mai udito da voi qualche ragionamento simile, ma giusto quello che per mia congettura ho ritenuto potesse essere detto, anzi latrato, da chiunque contro questa mia piccola dissertazione: da voi infatti non ho mai sentito nulla che fosse degno di essere ascoltato da una persona perbene. Ho saputo che solitamente rispondete questo a chi vi interroga: “Non ha forse perso i denti a nove anni naturalmente come succede da piccoli?”. Su questo, lo ammetto, sono d’accordo, ma intervengono molte altre ragioni che sostengono cose di gran lunga diverse da quelle che sostenete voi. Dicendo questo non oserò agitare il mare della questione, tenendo a mente quel detto di Boezio: sarei giustamente considerato pazzo, se tentassi di discutere coi pazzia. Quando uno ha in mente solo di ottenere ciò che vuole, non si preoccupa molto di rispondere con criterio; solo questo ha in cuore, catturare l’attenzione della parte avversa con un chiasso ostinato. Sembra infatti cosa proba agli improbi tuonare talmente tanto una cosa per l’altra, senza nessun senso, da riuscire almeno ad ottenere – visto che non riescono ad avere la meglio col ragionamento – di avvicinarsi alla vittoria gridando continuamente. Forza quindi, e la nostra eloquenza si dia da fare per voi. «Se dicib che Dio il Signore nostro ha lasciato a propria memoria sia ai suoi che ai seguaci dei suoi il mistero che avviene sulla Cfr. libro I, nota b, p. 65. Da questo momento in poi, Guiberto fa parlare in prima persona un ipotetico monaco di Saint-Médard, usando il medesimo espediente letterario utilizzato in precedenza nel libro II. a
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sua mensa, per fornire in propria assenza con un dono vicario la consolazione che vivere insieme a Lui procurava ai suoi, noi non lo intendiamo nel senso che a fronte dell’offerta provvisoria di un mistero per il coronamento della gioia universale, date porzioni, per così dire, superflue del suo corpo debbano essere assenti; perciò potremmo assolutamente definire “provvisorio” il sacramento in questo senso, poiché anche Egli stesso chiama il pane “quotidiano”, cioè solamente finché secondo l’apostolo è indicato come necessario “oggi”. Si dice, quindi, che esso viene celebrato in memoria di Lui, così che la ragione per osservare tali consuetudini non venga in alcun modo negata, poiché anche se è utilità comune unirsi al corpo di Cristo attraverso il sacramento, non bisogna tuttavia privare la gloria dei singoli della maestà delle loro prerogative individuali: come, infatti, le prerogative dei singoli non possono fare una legge comune, così una glorificazione comune non sottrae in alcun modo il proprio splendore ad alcun singoloa. «Se la memoria visibile del sacramento, che tuttavia è figura perspicua solo per i sapienti, rimanda a Cristo che ha sofferto per il mondo, perché Dio non potrebbe aver permesso che esistessero per la loro consolazione questi frammenti della sua carne caduchi, quasi eccedenze del suo corpo? Se il sangue e l’acqua che sgorgavano dal fianco di Lui in croce forse hanno toccato la terra o un sasso, se è capitato che ciò che è stato assorbito o fregato via in qualche modo si annullasse, come fai ad essere convinto che le cose che più su hai chiamato “spartizioni”, non possano essere state lasciate come garanzie per rinnovare la nostra fede, da venerare sotto un onore superiore?b Quei sacramenti dunque servono a noi, secondo i riti, a memoria di Lui, poiché ci procurano un’unione con Gesù Cristo nell’accoglierlo, mentre queste forniscono agli animi dall’intelletto inferiore i rudimenti visibili di una fede, per così dire, tangibile. Passo un po’ contorto e complicato. L’ipotetico monaco di Saint-Médard sta dicendo che siccome il sacramento è utile alla gloria comune, i singoli sacramenti non possono essere privi di quella gloria. In breve, che ogni parte di Cristo partecipa della gloria del tutto. b Argomento a fortiori: se al sangue di Cristo è toccata questa sorte, essa può essere toccata ad altre parti; anzi, possono averne avuta una migliore. a
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«Vi sono perciò dei gradini che portano a conoscere questa “verità”: quel dente e quel cordone ombelicale, visibili e tangibili, istruiscono i semplici; il mistero che avviene sull’altare stimola le immaginazioni; la contemplazione si acuisce fino a condurre quasi al terzo cieloa, a colui che siede alla destra del padre. Poiché dunque la carne ed il sangue non potevano essere adatti al nutrimento comune, vengono mutati dal Signore in un sacramento idoneo all’utilizzo umano. Pertanto il sacramento stesso pare mostrare qualcosa di diverso rispetto alla carne o al dente, che si presenta come un residuo di Lui risorto. Tali residui, infatti, suggeriscono la “verità” della carne un tempo mostrata, mentre il mistero che simboleggia la carne ha effetto su coloro i quali attraverso la sua pratica si incorporano alla carne divina e vivono. Il dente ed il cordone ombelicale sono dunque il segno sperimentabile ai giorni nostri del dono un tempo ricevuto, ed il sacramento si batte per la salvezza generale delle anime. «Se si ritiene oggetto di controversia il fatto che esista quel residuo dopo la resurrezione, allo stesso modo conta come oggetto di controversia il battesimo dopo il battesimob. Certo il battesimo che Cristo ricevette avrebbe potuto sembrare più glorioso del seguente, benché esso abbia avuto un esito di gran lunga migliore del precedentec. Così se anche Cristo, quando è resuscitato, ha poi lasciato a ricordo per la nostra mente incostante qualcosa che gli apparteneva, non potrà, destinato a diventare più glorioso dopo il giudizio, far rientrare in sé questi elementi dopo averli glorificati? Diciamo infatti che anche se è risorto, non ha innalzato il corpo resuscitato a quel glorioso stato di immutabilità che dopo il giudizio esso è destinato ad avere. E se infatti fosse stato elevato allo splendore per intero, il fianco che mostrò a Tommasod non sarebbe rimasto aperto, né avrebbero dovuto rimanere visibili fino a questo punto le ferite dei piedi e delle mani, che conserva dopo averle portate sul seggio a fianco del Padre, in modo da mostrarle nel 2 Cor. 12, 2: raptus […] usque ad tertium caelum. Matth. 3, 13-17. c Cfr. Matth. 3, 11 (Act. 1, 5). d Ioh. 20, 27. a
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giorno del giudizio, conservate, sia a quanti lo hanno tormentatoa che a tutti i reprobi. Se, dunque, la ferita non si cicatrizza, al corpo, per così dire, semitrasformato, non si applica per niente una glorificazione perfetta, e se non c’è ancora un ripristino di ciò che si è corrotto, ciò che in esso stesso non risulta compiuto va in qualche modo completato. Come potrei, d’altra parte, discutere di completamento, quando addirittura la condizione di servob, che al momento del suo giudizio sarà manifesta egualmente ai giusti ed ai reprobi, dopo il giudizio si trasfonderà totalmente in una condizione divina? Per questo è scritto: e passando li servirà (Luc. 12, 37); con questo “passaggio” non dobbiamo intendere altro se non che tutto il servizio prestato come uomo, che si rivela in Lui, sarà ricondotto alla condizione della sua maestà divina, anzi al suo dominio. In questo “passaggio” è a servizio della vista dei Suoi eletti, e permette loro di contemplarLo a sazietà, senza che mai possano stancarsene. «Se perciò è destinata ad accadere una transizione dalla condizione di servo ad una specie divina, se è destinata a sopraggiungere la cicatrizzazione delle ferite mediante una trasformazione legittima, cosa esitiamo a dire che sia destinato a seguire immediatamente il recupero del residuo che noi crediamo di avere? Dato che certamente la cavità delle ferite, appianatasi la superficie, torna a livello, che c’è da meravigliarsi se risulta che ciò che è stato affidato a noi temporaneamente a sollievo della nostra fede si riconnette al corpo da cui è derivato? Certo, se per Dio può esserci qualcosa di più grande o di più piccolo, non si può credere che per lui chiudere le fenditure delle proprie ferite sia cosa più grande che riunire le reliquie, assegnate all’affetto umano per decisione dell’ingenita provvidenza, con la stretta invisibile mediante la quale ricollega a sé le parti disperse. «Lo stesso figlio di Dio testimonia che il Padre gli ha indicato riguardo ai Giudei suoi nemici: non ucciderli, perché non si dimentichino del mio popolo (Ps. 58, 12), dato che la presenza del popolo Giudaico, che abbiamo davanti agli occhi, ravviva in noi il ricordo a b
Apoc. 1, 7: videbit eum omnis oculus, et qui eum pupugerunt. Philip. 2, 7: formam servi accipiens.
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di Cristo crocifisso e rende gli antichi libri che sono stati scritti su di loro e per loro, considerate le loro stesse disgrazie – preannunciate in quei libri – ed i buoni esiti delle nostre sorti, ancora più autentici. Chi potrà, dunque, gettare ombra sul nostro parere riguardo a quel dente, chi parimenti riguardo al cordone ombelicale, senza che si capisca, come si distingue che quel corpo mistico è stato creato per unire Lui a noi, che tutto ciò che di residuo da quello che chiamiamo “principale” (non perché venga prima in ordine di dignità, ma di tempo) si dice si trovi in terra serve a dimostrare l’incarico eccezionale che Lui ha ricevuto ed a consolidare la fede degli incostanti?» Davanti a queste argomentazioni potremo affermare: se si crede che sia rimasto qualcosa del suo corpo principale, quasi a prova che un tempo si è fatto uomo, si sconvolge quasi totalmente la virtù della fede cattolica. Se infatti la fede è sostanza delle cose da sperare, e segno di quelle non apparenti (Hebr. 11, 1), come fanno a sussistere o sottostare cose da sperare nel cuore di un credente qualsiasi, se l’oggetto intellettuale dei suoi pensieri torna indietro dalle cose invisibili a quelle visibili? Come fa uno a sperare in ciò che vede (Rom. 8, 24)? Se fede e speranza stanno in piedi solo grazie alla tensione alla comprensione intellettuale, come dallo sguardo interiore sono alimentate e vengono a crescere, così per l’abitudine alla corporeità e per la brama dei sensi rammollendosi vengono meno. La fede, quindi, deve essere una sorta di fondamento nell’animo di una persona, in modo che ciò che si contempla nello spirito sia tenuto nella mente come qualcosa di solido. Dove si rivolge, dunque, l’acume della fede? Cosa c’è da sperare, anzi cosa c’è da credere dove ciò che si spera, ciò che si crede pende fisicamente davanti a chi guarda? Quale esercizio dell’animo potrà aver luogo lì, dove la meditazione si esercita su quello che sta davanti agli occhi? Perché Egli dichiara che il Consolatore non verrà a meno che prima non sottragga Sé stesso, se poi lascia in terra delle reliquie di Sé per poter far penetrare più a fondo nei cuori degli uomini la fiducia nella Sua incarnazione? Lui che per questo dice ai discepoli che toglierà loro la propria presenza fisica, acciocché la Sua essenza spirituale si mostri più abbondante all’in-
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telletto, non bisogna per niente credere che abbia inteso smentire in qualche modo le proprie parole, quanto al fatto, cioè, che secondo voi avrebbe voluto creare in terra un residuo di Sé. Chiaramente avrebbe senza dubbio contraddetto i propri discorsi se, dopo aver detto che il Consolatorea non sarebbe venuto a meno che Lui non se ne fosse andato, avesse lasciato tra noi parte di quel corpo, a cui la mente umana potesse volgersi di nuovo. Effettivamente fare questo significherebbe niente di meno che, per così dire, annullare ciò che è stato fatto, se ci sottraesse il proprio corpo per costringerci a badare alle cose spirituali, e ne lasciasse una parte dopo averci sottratto l’altra: nelle parole del Signore non si trova nulla di contraddittorio, nulla di discordante, tutto il complesso dei detti evangelici è sempre rivestito di immutabile unanimità. Perciò se si discute del sangue e dell’acqua e viene mossa l’obiezione che in terra si siano cancellate, certo non si risponderà diversamente che riguardo ai capelli dei bambini, che cadono man mano che il corpicino si fa grande: quanto a dove questi siano andati a finire o in che cosa si siano trasformati, come su quel flusso di acqua e sangue a cui abbiamo accennato prima, nessuno ha un parere certo. Ritieni dunque che siano andati perduti? Se il tuo dente, quello che tu ti attribuisci, fino ad ora sussiste e non è finito in malora, gli altri denti, che come noto Lui ha perso altrettanto naturalmente, per quale incuria ritieni si crederà che siano stati sparpagliati di qua e di là? Al tuo dente, quello che possiedi, ha sorriso una sorte più favorevole, poiché mentre agli altri, come consegue da ciò che dici, è toccato un putrido disfacimento, esso splende ornato d’oro e di pietre candide come neve: è strano che, dato che ne ha persi diversi e che a tutti è dovuto lo stesso rispetto, spariti i restanti, tu sia l’unico a potersi vantare di possedere quest’unico dente! Qualora dunque i capelli, i denti, il flusso di acqua e sangue, il sangue versato delle quattro ferite, che senza dubbio avrebbe potuto gocciolare fino a terra, si siano depositati alla fine su detriti Ioh. 16, 7: expedit vos ut ego vadam: si enim non abiero, Paraclitus non veniet ad vos; si autem abiero, mittam eum ad vos. a
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terreni, destinati a corrompersi, non vedo come la condizione della resurrezione umana e la promessa uscita dalla bocca del Signore, che accada di noi in conformità e somiglianza con quel che è stato di Lui, possa stare in piedi senza un enorme errore. E dico fermamente, con molta più sicurezza che stoltezza, che se uno si discosta sotto qualche aspetto dalle proprie promesse, diventa di colpo dubbio che adempia rettamente a quel che ha promesso sul resto, e se anche solo si concede che il corpo di Lui, che è autore della promessa, andrà incontro a corruzione, si potrà annullare con una facile piccola critica tutto ciò che si afferma sia capitato a lui o debba accadere di noi. Se infatti grazie alla percezione dei doni presenti è sicura l’aspettativa di quelli futuri, e chi sbaglia nelle premesse del proprio discorso via via che la trama del discorso procede viene preso sempre meno sul serio, bisogna valutare senza dubbio che se Egli ha realizzato quello che ha promesso coerentemente nel ripristinare il Suo stesso corpo, ha vincolato ad aver fede senza esitazione nelle Sue parole tutti coloro ai quali si è presentato come garante; se si riconosce che tituba nella sincerità delle proprie promesse, tutto ciò che nell’altezza delle Sue parole eccelle viene sommerso completamente da un fiume di esagerazione. Ma soprattutto basterebbe addurre questa motivazione, anche se non ci fosse nulla che si potesse rispondere a questi argomenti: sicuramente al tempo della fanciullezza del signore Gesù non c’era nessuno che desiderasse raccogliere ciò che di simile cadeva dalla sua sacrosanta testolina, tanto più a quel tempo nessuno aveva per lui una considerazione maggiore di quella riservata a qualsiasi altro suo coetaneo di allora. E chi allora poteva trattare di reliquie di natura umana, dato che per gli Ebrei era una cosa assolutamente sacrilega aver conservato qualcosa del corpo di qualcuno dopo la sua morte? E cosa c’era per loro di più impuro che toccare le ossa di un uomo morto, dato che viene loro imposto ad ogni singolo contatto di vegliare per un po’ fuori dal villaggio e di portare l’acqua per espiazionea? Oltre alle tavole del testamento, all’urna d’oro e alla verga di Aronneb, non si conosce ci sia mai stato nessun a b
Num. 19, 9 e 31, 23. Hebr. 9, 4.
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ricordo che avessero ereditato dagli antichi. E chi poteva pensare che ciò che riguardava quel bambino andasse conservato, se non vedeva in lui nulla di più speciale rispetto all’ordinario? E se si obietta che la beata Vergine Madre avrebbe potuto e voluto conservarlo e tramandarlo alla venerazione dei posteri quasi per superstizione, ciò si accoglierà così come la diceria che a Laon, vicino a noi, è conservato ancora oggi il latte di quella benedetta, in una colomba di cristallo. Quanto ciò sia lontano dal vero ed anche dal verosimile è limpido come l’acqua per una semplice ragione: poiché lei non avrebbe potuto conservarlo. Durante l’infanzia di Gesù lei non ebbe tanto tempo libero e tanta tranquillità da poter dare un tale peso alla memoria di sé, per preoccuparsi della conservazione del proprio latte nei secoli a venire, lei che riusciva appena a nascondersi all’interno del territorio natio, a cui allora era appena lecito vivere. E chi potrebbe mai trovare la minima traccia di una tale arroganza nei suoi costumi benedetti, nella sua condotta degna di adorazione? Nella sua bocca non risuonò mai nulla se non l’umiltà propria di un’ancellaa! Questa sostanza poi tanto meno avrebbe potuto mantenersi, comunque la custodisse, non dico per diverse epoche, ma anche solo per alcuni anni, quanto più il latte coagulato va sempre a male, per la sua naturale deperibilità. Ma sia pure. Quali esempi dell’antichità erano alla portata di quella mente, del tutto matura e non avida di lode, sul culto di tali reliquie, perché per prima desse inizio, a immagine tangibile di una sua vanità, ad una pratica che mai aveva visto accadere né aveva sentito che fosse accaduto fino a quel momento? E se non poteva non sapere dal medesimo Spirito, per opera del quale aveva concepitob, che colui che aveva generato per fede avrebbe riempito il mondo intero del suo dono, perché il dentino, il cordone ombelicale e infine tutto il resto, avrebbero dovuto essere custoditi, dato che pensava che, se per qualche antica consuetudine potessero essere conservati, sarebbero valsi alla gloria tanto grande del figlio non più di quanto valga una lucerna sotto il sole di mezzogiorno? a b
Luc. 1, 38: Dixit autem Maria: ecce ancilla domini […] Matth. 1, 18: inventa est in utero habens de Spiritu sancto.
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Perciò sapremo con la massima certezza che la signora dei secoli non ha mai dato retta a tali fandonie: sarebbero certo fandonie se lui, che si proclamava dio e uomo al mondo con prodigi pieni di fede, desiderasse essere celebrato con frammenti e particelle di questo tipo del tutto buoni a nulla. Se non l’ha fatto lei, chi potrebbe averlo fatto, dunque, dato che a quel tempo non esistette nessuno che potesse dare valore a quelle cose, né tantomeno potesse tenersele strettea per un qualche legame affettivo? Ma messe un poco da parte queste cose, torniamo al nostro proposito. Se dunque dite che il corpo del Signore dopo la resurrezione non si è ancora trasformato per intero, che non è ancora stato glorificato pienamente perché Egli non avrebbe richiuso le aperture delle proprie ferite, senza dubbio mostrate proprio in questo, dichiaro, l’ottusità delle vostre idee. Se quindi non è stato glorificato per intero perché non le ha richiuse, allora non dirò per intero, ma non è stato trasformato né glorificato neppure un pochino, Lui che dopo la resurrezione non ha mostrato ai discepoli alcun segno della propria trasformazione o della propria glorificazione: apparve loro, infatti, in nulla diverso dall’aspetto che erano soliti vedere prima. Perciò, poiché una volta resuscitato non mostrò loro nessun segno della nuova gloria, qualcuno può dire che alla resurrezione non ottenne dal Padre nulla di più di quanto non apparisse prima. Certo non mostrò alcuna differenza evidente neanche nel momento in cui salì al cielo, tanto che anche mentre dichiarava di essere risorto non si presentò diverso dalla stessa persona che era stato prima di morire. Se infatti, scintillando, esibisse un aspetto straordinario, mai si crederebbe che la carne fosse destinata a resuscitare, ma piuttosto, come hanno sospettatob, che fosse un altro oppure uno spirito. Per questo dice: Sono io, non abbiate timore (Ioh. 6, 20), e uno spirito non ha carne ed ossa come vedete che le ho io (Luc. 24, 39). Fu perciò opportuno che apparisse ancora a quegli a Il termine latino usato in questo punto, appectoraret, inusuale e rarissimo, è attestato unicamente, in riferimento al modo di nutrirsi degli orsi, in Solino 26, 5: Carnes pauxillulas edunt, has […] adpectoratas fovent («Mangiano brandelli di carne, e se ne nutrono stringendoli al petto»). b Luc. 24, 37: Conturbati […] et conterriti existimabant se spiritum videre.
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incolti semplicemente, nella forma alla quale erano abituati, per non sviare gli animi dei meno intelligenti inducendoli all’errore di un’impressione superficiale con un insolito splendore. Dato che Lui, quindi, apparve in un sembiante in un certo modo oscuro, quasi scelto spontaneamente, già sminuito quanto alla gloria, che c’è da stupirsi se mostrò loro i buchi dei chiodi non ancora richiusi? Ma a chi? Ovviamente prima agli apostoli e poi a Tommaso, questo in entrambi i casi perché erano esitanti, e comunque una sola voltaa. Guarda se ai due che andavano ad Emmaus, guarda se durante i frequentissimi conviti nel corso di quaranta giornib ha mostrato qualcosa da presentare come prova! Guarda se è apparso alle donne che gli cingevano i piedic, a qualcuno in qualche altro luogo con la prova manifesta della passione! Perché porgere ai dubbiosi i fori delle ferite da toccare, se non per dimostrare di essere la stessa persona non con l’aspetto consueto ma coi segni più recenti della propria morte? A che servirebbero quelle ferite conservate dopo la resurrezione, se rimanessero anche fino ad ora? Forse a ricordare per mezzo di quelle al Padre, come fosse uno smemorato, dell’incarico eccezionale intrapreso per gli uomini? Sarà: certo, però, a rinfrescare la memoria al Padre, che si occupa d’altro, basterebbe da sola la carne che siede alla sua destra, senza ferite! Ma controbatti che almeno nel giorno del giudizio i reprobi e gli empi rivedranno Lui, cioè quello che tormentarono. Non ha detto, chiaramente, che avrebbero visto o il fianco insanguinato o le mani o i piedi insanguinati, ma solo “quello che tormentarono”. Se dovessi vedere uno a cui ricordi di aver recato un’offesa senza alcun segno visibile dell’offesa che hai arrecato, non rammenteresti forse subito, solo vedendolo, del torto che gli hai fatto? E a che servirà allora il fianco squarciato, a che serviranno le ferite dei chiodi nelle mani e nei piedi, quando apparirà il segno del Figlio dell’uomod? Come potrà confarsi al trono della sua gloria l’orrore Ioh. 20, 24-28. Act. 1, 3: quibus et praeubuit seipsum vivum post passionem suam in multis argumentis per dies quadraginta apparens ei set loquens de regno dei. c Matth. 28, 9. d Matth. 24, 30: et tunc parebit signum filii hominis in caelo. a
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della quintuplice feritaa? E certo mentre mangiava e beveva insieme ai discepoli toccava le cibarie con le manib: forse allora scorreva del liquido purulento dalla piaga aperta? Assurdità smisurata! Lui che a testimonianza della vera carne che aveva riacquistato mangiò ripetutamente coi suoi, non per necessità ma per concessione eccezionale, che a porte chiuse riuscì ad entrare e raggiungerlic per sola potenza, non per natura (infatti il fardello della carne e le ossa non passano attraverso gli interstizi delle pareti, e per natura una tale corporeità non può tollerare una residenza eterea: questo si attribuisce interamente al potere della resurrezione), Lui che fa come se dovesse andare più lontano mentre i due suddetti discepoli lo esortano a restared, non avrebbe potuto in un istante mostrare a chiunque dubitasse i segni della passione da poco affrontata, dando così prova tanto della propria natura che della propria persona? Quella trasfigurazione sul monte di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni, non fu forse provvisoria, per dar prova della condizione che assunse dopo la resurrezione, che tuttavia rinunciò a mostrare com’era, dopo essere risorto, per l’inadeguatezza degli spettatori? Come se dicesse: poiché a voi non giova che io, risorto, vi mostri lo splendore del mio corpo trasformato – non avete infatti l’intelligenza adatta per comprenderlo –, io vi faccio vedere questa trasfigurazione ora, da vivo, perché impariate a meditarci e ripensarci sopra quando avrò celato l’eccellenza della mia natura glorificata sotto un abito più umile, perché più oscuro. Inoltre, quanto al passaggio dalla condizione di servo a quella divina, se intendi che Egli cambi aspetto e che allora con la cicatrizzazione delle ferite il dente e quel cordone ombelicale e, se c’è, qualsiasi altro residuo vengano innestati come un ramoscello su un vecchio tronco, affermiamo chiaramente che, se la cosa funziona così, ci saranno due resurrezioni di Cristo, ed Egli si trasformerà due volte. Se un’incertezza così grande si sviluppa sulla Testa, cosa potrà credere uno della resurrezione delle membra? Due sulle mani, due sui piedi ed una nel fianco. Luc. 24, 30 e 43; Ioh. 21, 13. c Ioh. 20, 26. d Luc. 24, 28. a
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Con quel passaggio di Cristo da una condizione ad un’altra non intendiamo nient’altro che questo: ingoiata la morte per la vittoriaa, scacciato l’empio e la sua empietàb, allontanatolo cioè dall’ira del suo voltoc, il suo cuore si è avvicinato, ovvero: tolto di mezzo l’empio perché non veda la sua gloriad, solo gli eletti sono ammessi a vedere la gloria della divina visione di Lui. Ecco perché proprio quando Giuda esce Cristo dice: ora il figlio dell'uomo è stato glorificato (Ioh. 13, 31). Egli passa a questo stato di splendore proprio nel momento in cui fa passare noi – beninteso: solo gli eletti – dalla condizione di servi, comune ai giusti ed agli ingiusti, alla sua eterna visione. In questa transizione “passa a servirli”e, perché, ripudiati i reprobi, sazia gli eletti con il proprio volto. Cristo, quindi, passa di stato quando dopo il giorno del giudizio esclude dalla contemplazione dei reprobi anche il proprio aspetto di servo, e si manifesta agli occhi degli eletti perché Lo vedano, anzi li conduce alla visione di Sé. Dette queste cose sugli esecutori di questa sentenza, volgiamoci al fatto che nella chiesa di Saint-Médard vanno proclamando miracoli di grande valore su quel dente. Il primo, se non sbaglio, e quello che viene in mente in particolare è questo. Tra i cappellani dell’imperatore Ludovico il Piof si discuteva di questo dente in sua stessa presenza. Mentre loro prendevano decisamente le distanze dal parere dei monaci, sostenendo che niente del corpo che l’utero della vergine forgiò fosse rimasto in terra, si giunse alla funzione eucaristica. Si dice che lì durante la consacrazione il reliquiario si sia sollevato dall’altare rimanendo sospeso, cosa che dicono 1 Cor. 15, 54: absorta est mors in victoria. Ezech. 33, 19: cum recesserit impius ab impietate sua; Sap. 14, 9: impius et impietas eius. c Ps. 54, 22: divisi sunt ab ira vulnus eius et appropinqua bit illius. (Salterio Gallicano) d Is. 26, 10: miseramur impio […] in terra sanctorum iniqua gessit et non videbit gloriam domini. e Luc. 12, 37: et transiens ministrabit illis. f Ludovico il Pio (778-840), figlio di Carlo Magno, fu temporaneamente imprigionato proprio a Saint-Médard di Soissons nell’833, dopo essere stato deposto dai figli. Possiamo ipotizzare che il fantomatico miracolo sia avvenuto proprio in quell’occasione. a
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sia valsa come prova per loro stessi e per alcuni che lo videro. Ma, chiedo, quale prova? Quale voce celeste, mi chiedo, quale angelo, di grazia, proclamò che questo fosse il dente del Salvatore, che avrebbe perso in tenera età? Ma a che mi serve un angelo, a che una voce? Se anche i troni e le dominazionia affermassero ciò, nessun animo di chi ha davvero fede ma ha anche comprensione della fede dovrebbe in alcun modo essere d’accordo! Come abbiamo detto sopra e crediamo che vada ripetuto mille volte, dato che Cristo afferma che nemmeno un capello cadrà dalla nostra testa, se resta qualche Suo residuo in terra questo spinge coloro che credono in Lui a dubitare del suo esempio più che a credere nei suoi insegnamenti. E certo non rimetterà mai insieme le ceneri né le ossa dei martiri sparse per tutto il mondo, Lui che lascia che le proprie dopo la resurrezione vadano in putrefazione qua e là. Ma è bene riflettere su che stupido miracolo sia stato questo, dato che non si riesce a capire che scopo abbia avuto quella sospensione: ciò che infatti vola in aria dall’ara, innalzandosi, per così dire, da quel che è sacro a quel che sacro non è, mostra come di mal tollerare la santità dell’altare. E a voler considerare il termine stesso, cioè “sospensione”, ciò che appare “sospeso” è ritenuto ambiguob. Ma che dico ambiguo, visto che “ambiguo” significa propriamente una cosa che può essere e può non essere, mentre questo non può essere per niente, a meno che Dio, che è verità, non voglia smentire sé stesso? Ma un miracolo di una tale sciocca assurdità non può neanche servire granché a dimostrare questa cosa; come è stato stupido scriverloc, è ancora più stupido stare a riparlarne. a Coloss. 1, 16: sive throni sive dominationes; Troni e dominazioni sono due tra le più alte delle nove gerarchie angeliche (angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni, cherubini e serafini). b Riemerge sporadicamente in queste pagine il gusto, tutto medievale, per il significato intrinseco dei nomi, capace di svelare la natura delle cose secondo il principio nomina sunt consequentia rerum; in questo caso il miracolo della “sospensione” in aria della reliquia rivelerebbe all’uomo saggio, che sa leggere la realtà per integumentum, la propria stessa ambiguità, poiché ciò che è “sospeso” è “incerto”. c Guiberto si riferisce, come apparirà chiaro tra qualche riga, ad un libellus miraculorum di Saint-Médard, una raccolta di miracoli attribuiti alle reliquie possedute dall’importante abbazia ed ai santi del luogo, di cui si sono perse totalmente le tracce.
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Ne seguono anche altri non meno dubbi, che per questo ho definito dubbi, poiché non dicono assolutamente nulla che possa confermare ciòa. Infatti questo fenomeno, a cui si attribuisce il miracolo, può derivare la propria santità da altre fonti, ma quanto si dice non può esserlo, e, se anche lo fosse, sulla base della testimonianza di benefici del genere non si potrebbe dimostrare che si tratti del dente del Signore. Si potrebbe credere che quel dente appartenga a qualche santo al cui merito forse sia concessa una cosa del genere; e se di sicuro non appartenesse a nessun santo, la fede dei credenti reclamerebbe comunque di ottenere quanto sperato: molte cose, infatti, possono accadere non tanto per merito di colui per intercessione del quale si prega, quanto di colui al quale il beneficio viene concessob. Si sa che proprio questo è capitato nella città di Lunic alcuni anni or sono. In quel luogo la popolazione, piena di fede, stava festeggiando la vigilia del Natale del Signore. Nel frattempo una flotta di pirati si insinuava nel porto, detto di Venered, per saccheggiare la città con incursioni repentine mentre la divina ricorrenza era in corso, durante la notte. Intanto, mentre i rostri dei veloci vascellie solcavano rapidi i flutti in radaf, nella chiesa cattedrale un Il fatto che quello sia davvero il dente di Cristo. Guiberto riprende un argomento già trattato nel libro I, a lui evidentemente molto caro: la purezza della fede del credente gli permette di ottenere quanto sperato anche se, pregando Dio, si affida all’intercessione di falsi santi o false reliquie. c La città di Luni, nata come colonia romana nel II secolo a.C., è stata a più riprese nel corso della sua storia un centro portuale florido ed importante, teatro di diverse invasioni, distruzioni e successive rinascite; nel corso dell’XI secolo fu bersaglio di numerose incursioni saracene, che ne causarono la rovina costringendo la popolazione ad abbandonarla definitivamente nel 1058. Al tempo in cui Guiberto scrisse alla città era rimasto legato solo il titolo vescovile, che mantenne fino al 1204. d Anche la località di Portovenere, situata a breve distanza dall’antica Luni nel golfo di La Spezia, subì numerose incursioni da parte dei pirati saraceni tra i secoli VIII e XI; impossibile dire a quale di queste incursioni Guiberto si riferisca. e L’inusuale termine myoparo, che colpisce il lettore, è di origine classica: compare reiteratamente nella seconda Verrina di Cicerone, ma anche in Sallustio, Seneca, Livio, fino ad arrivare ad autori cristiani come Orosio e Girolamo, e non a caso è spesso accompagnato dall’aggettivo piraticus: si tratta della parola letteraria che designa la nave pirata per eccellenza. f Il passo ha una evidente coloritura poetica: il termine salum usato per indicare il mare è raro e aulico, e il soggetto rostra è una metonimia di stampo classico. a
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ragazzino salì sul pulpito per leggere non so se la prima o la seconda lettura del primo Notturno. Quando, ricevuta la benedizione, cominciò a leggere: Consolatevi, consolatevi, popolo mio (Is. 40, 1), improvvisamente dalla sua bocca lo Spirito Santo, inserendo un incisoa, aggiunse: “delle salandre si avvicinano a Portovenere!” (Le salandre sono delle navi, il cui nome deriva da “assalire” b). Anche se tutti gli ordinavano di ricominciare e di leggere correttamente, non bisbigliando ma gridando, il ragazzino ripeté molte volte la stessa cosa. Subito il decano della chiesa, capito il senso delle sue parole, incita la popolazione alle armi, ed ordina di dirigersi a Portovenere. Lì la folla, paratasi contro la grande flotta che approdava sulle coste, oppone resistenza, ed armata da Dio, messi in fuga i nemici, riuscì a difendere la città che di lì a poco sarebbe stata invasa. Perciò, come questo fenomeno non fu per niente ascrivibile al merito del ragazzino che diede l’avvertimento, così molte volte il beneficio non accade per mezzo di colui dal quale si ritiene sia procurato, ma il suo frutto si manifesta in chi merita di riceverlo. Al contrario, l’attendibilità di quei miracoli mi pare assai debole, anzi l’indegnità di quello scritto si dimostra assai vile. Nel loro libello, infatti, che tratta di questo dente e dei miracoli dei santi del luogo, si racconta di un monaco che pare fosse solito abusare dei servizi di una prostituta di donnac; mentre di notte andava da lei si trovò a dover per forza attraversare a nuoto un fiume vicino, e durante quell’attraversamento il peso dei suoi peccati lo fece L’autore adopera in latino la parola subdistinguendo. Il termine subdistinctio indicava in gergo tecnico una pausa lieve, analoga a quella che oggi si rappresenta con una virgola. La curiosa notazione metaletteraria fa sì che sembri che lo Spirito Santo abbia fatto parlare il bambino nella realtà proprio come Guiberto lo fa parlare sulla pagina. b Il termine salandra (nelle varianti chelandium, chelandrium, scelandrium e, per metaplasmo di declinazione, salandria, chelandra e simili) è la resa nel latino medievale dell’Europa occidentale del termine greco chelándion, indicante in origine un tipo di imbarcazione in uso all’esercito bizantino. Anche gli arabi importarono questo termine nella forma shalandī (plurale shalandiyyāt), applicandolo ad un tipo di vascello. Guiberto, che non conosceva l’origine della parola, indicante il tipo di nave agile e veloce utilizzata dai pirati saraceni per le loro incursioni, suggerisce una paraetimologia, ricollegandola al verbo latino salio, “assaltare, assalire”. c In latino scorto mulieris: questo raro uso espressivo del genitivo potrebbe avere un modello in Terenzio, Hecyra 4, 4, 21-22: quid mulieris uxorem habes? a
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annegare tra le onde. Questo monaco per decisione dell’abate fu considerato bandito dal cimitero dei frati. Ma all’abate, come riferisce quel libro, apparve allora non so quale tra i santi di lì – così si dice –, e gli disse (così si dice…)a: “Mettilo insieme agli altri, poiché è morto nella tua obbedienza”. In quale obbedienza, mi chiedo? Forse l’abate gli aveva comandato di correre a fornicare con la sgualdrina, esponendosi al pericolo del fiume? Certo in qualsiasi modo avesse obbedito all’abate fino ad allora su altre questioni, in questo sicuramente non si può dire che gli abbia obbedito, poiché non si può intendere l’obbedienza in nessun modo se non in senso buono, a meno di abusare del termineb. In quale obbedienza, dunque, è morto? Se si hanno dubbi pure sul termine “obbedienza”, si ascolti quel che dice l’apostolo sul Figlio di Dio stesso: imparò l'obbedienza dalle cose che patì (Hebr. 5, 8). Si può quindi dedurre che le motivazioni a cui tali avvenimenti sono stati legati, oltre il limite di qualsiasi ragione, sono del tutto indegne di fede e, per questo motivo, di essere accettate. E ben vediamo che quello, ornato da tutte le parti di gemme e perle di lidi stranieri, è riconosciuto da un’antica tradizione come memoriale di un dente e nonc come dente, e cosa sia contenuto in quel reliquiario è testimoniato non dall’esperienza dei contemporanei, ma solo dal racconto delle generazioni successive. Venerano quindi essi stessi cose che non conoscono, in due modi: primo perché non hanno proprio idea di ciò che è racchiuso in quell’oro e tra quelle pietre preziose, e secondo perché è impossibile che esista ciò che si pensa che quella teca contenga. Si imputerà dunque a Maria che lei sola avrebbe potuto conservare le cose che si dice si trovino in loro possesso? Dunque se Lei ha saputo da Dio la condizione che il proprio Figlio avrebbe assunto in futuro, al di sopra di ogni natura umana ed angelica, se proprio lo Spirito Santo ha infuso lei, seconda solo al Figlio, la conoscenza Con la ripetizione l’autore insiste nel ribadire sarcasticamente l’assurdità del contenuto del libellus. b Quintiliano, 3, 3, 9: per abusionem posita. c Rispetto al testo critico di Huygens abbiamo reintegrato in traduzione l’espressione dentis memoriam non, da lui espunta. Rimandiamo al capitolo dell’introduzione riguardante i problemi testuali. a
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di ogni cosa esistente, come avrebbe potuto essere all’oscuro della resurrezione? Se infatti ne fosse stata all’oscuro, sarebbe stato opportuno, certamente, che Cristo per suscitare la fede nella propria resurrezione apparisse la prima volta a lei. Ma perché apparire a lei, che senza dubbio seppe che sarebbe risorto prima che fosse evidente e che risorgesse? Si sa che le fu detto: una spada trafiggerà la tua stessa anima (Luc. 2, 35). Per cui, conservandole, meditava nel suo cuore le parole su ciò che sarebbe avvenuto e su di Luia: non avendo nessuno di fidato a cui confidare una cosa di tale importanza, non era assolutamente sconveniente che nascondesse in sé ciò che pensava e che provava. Dato che dunque che né lei, non all’oscuro della futura condizione di Lui, né alcuno che Lo distinguesse dalla massa comune degli uomini potrebbe aver conservato per i posteri queste reliquie, sia considerato completamente inconsistente tutto ciò che uno si sia indebitamente attribuito di un corpo tanto importante. Resta valido, infatti, presso di noi il giudizio tanto breve quanto deciso dell’apostolo: che quel corpo è stato annunciato dagli angeli, predicato nel mondo, assunto nella gloriab. Per concludere, quanto al resto stabiliamo – perché, infatti, se nei canoni è stato prescritto che quando uno viene ucciso mentre distrugge degli idoli non venga annoverato tra i martiri, forse questo sbaglio deriva da un altro errorec – che nessuno, benché esibisca un aspetto all’apparenza onesto, sia facilmente preso per un santo, a meno che si dimostri tale in qualche modo grazie ad una rivelazione divina. Ma imparate quanto sia sacrilego ricavare proventi dalle processioni dei santi o dall’ostensione delle loro ossa, se volete dare il giusto prezzo sia ai santi che all’avidità!
Luc. 2, 19: Maria […] conservabat omnia verba haec conferens in corde suo. 1 Tim. 3, 16: pietatis sacramentum quod manifestum est in carne, iustificatum est in spiritu, apparuit angelis, predicatum est in gentibus, creditum est in mundo, adsumptum est in gloria. c Il tema è già stato toccato da Guiberto nel libro I. Il senso dell’inciso, poco chiaro, è che se c’è stato bisogno di prescrivere nei canoni di non annoverare tra i martiri chi viene ucciso mentre distrugge degli idoli, è perché lo sbaglio di considerare santi anche questi individui è causato da un errore a monte: la santità si attribuisce troppo facilmente. a
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Lo stato del mondo interiore, che lo sguardo esteriore non afferra e nessuna capacità immaginativa può concepire, lo raggiunge solo la virtù della contemplazione. Dove non si trova niente di materiale né che sia alla portata dei sensi, si penetra chiaramente col solo acume della facoltà intellettuale, proprio con quel solo sguardo, con quel solo capello del proprio collo, cioè con quella tensione e concentrazione dei pensieri unica e indivisibile per la quale, come noto, la sposa nel Cantico dei Canticia piace in particolar modo allo sposo. Come non possiamo ottenere la vista di tale stato nelle cose tangibili, così nel contemplarlo non siamo in grado di concepire in alcun modo la corporeità degli spazi e gli spazi dei corpi, così come quando osservi su un foglio scritto una frase teorica con degli occhi guardi le lettere che contengono la frase, e con degli altri contempli il significato che può essere raccolto dalla sola ragione. Per raggiungerlo, però, la capacità dell’immaginazione non serve a nulla, perché dato che né la contingenza né alcuna materia soggetta alla contingenza possono entrare nella mente, essa non ammette in sé nulla di visto o che si possa vedere esteriormente: l’immaginazione, che accoglie solo le apparenze ed ha familiarità solo con ciò che è corruttibile, sempre incapace di sottigliezza,
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tui.
Cant. 4, 9: vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum et in uno crine colli
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diviene grossolanaa a causa del ricordo delle solite cose. In caso voglia poi sforzarsi di vedere qualcosa di fine, può mirare a comprendere le cose intellettuali solamente se ha allontanato da sé la consuetudine della vista esteriore: per questo ci viene ordinato di pregare il Padre a porta chiusab, questo è il primo, il secondo ed il terzo cielo di cui parla l’apostoloc. In questo modo dunque, quando la spiritualità avanza verso – per così dire – un cielo etereo sola e senza la compagnia di tutte le cose terrene, valuta specificatamente le cose spirituali secondo criteri spirituali, mentre esamina quelle visioni incorporee del mondo interiore con la sottigliezza dell’intelletto. Tuttavia, le storie delle visioni sacre nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, che dopo essersi elevate a quello stato riportano solamente apparizioni di immagini corporee, sembrano ostacolare molto ciò che diciamo. Considerando infatti che Ezechiele nella visione di Dio vedeva un uragano e il settentrione, una nube grande ed un turbinio di fuoco, una luce tutto intorno, quattro animali con un quadruplice aspettod, ed anche un edificio sopra un monte che veniva misuratoe, che altro scorse dunque se non le effigi di oggetti corporei? In quella visione c’erano soglie, porte, atri e finestre, c’era un uomo che pareva di bronzo, c’erano una canna ed una cordicella per misurare. Che dire di più? Nella sua visione si possono osservare o cose corporee, o le immagini di cose corporee e non si vede alcunché d’altro che non riproduca sotto ogni aspetto l’apparenza di cose esistenti. Il verbo usato da Guiberto, grossescit, è raro ed attestato in Gregorio Magno: in Reg. Past. 1, 11 e col medesimo senso traslato in Ep. 9, 147 e Mor. in Job 5, 61; in questo passo, in particolare, Gregorio discute di come l’uomo non possa pensare se non mediante immagini corporee, dato che a causa del peccato originale è diventato completamente carnale, e non può quindi sapere nulla se non ciò che conosce fisicamente mediante gli occhi e toccando con mano. Nel concentrarsi su cose corporee, mens […] ab internae intelligentiae subtilitate grossescit, cioè diviene grossolana rispetto alla sottigliezza della comprensione interiore; non è improbabile che si tratti di una reminiscenza di questo passaggio. b Matth. 6, 6. c 2 Cor. 12, 2; cfr. Apoc. 21, 1: et vidi caelum novum et terram novam: primum enim caelum et prima terra abiit. d Ezech. 1, 4-6. e Ezech. 40, 2-5. a
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Isaia, Geremia, Daniele e tutti gli altri ai quali Dio si è mostrato visibile, esprimono questo non con la verità, ma attraverso segni e figure, proclamando di aver visto il trono di Dio e comparando l’aspetto del trono allo zaffiro ed al crisolitoa. Anche se quindi paragonano l’aspetto di Dio al fuocob o gli conferiscono un ordine simile a quello del corpo umano secondo una struttura fatta di singole membra, non si trova nelle loro descrizioni nulla che sia detto sulla vera semplicitàc di Dio onnipotente, per quanto si pensi che qualsiasi cosa si dica di quell’infinito possa essere racchiusa nell’angusto involucro di immagini corporee: non vi è nulla, infatti, che nei loro racconti rispecchi la purezza dell’eterna essenza, ma solo affermazioni talmente condensate dentro figure e simboli che non viene affermato niente che sia proprio della Sua natura, ma solo ciò che attiene allegoricamente alle sue membra. Dunque, dato che tutto quello che è stato detto consiste in segni e figure e negli autori dell’Antico Testamento non si riesce a trovare nulla che di Dio possa essere ritenuto essenziale, tranne quel passo: Io sono colui che sono e Colui che è mi mandò a voi (Ex. 3, 14), tutte le restanti cose che vengono riferite di Lui riecheggiano tanto detti o fatti propri del modo di esprimersi umano da assecondare le nostre emozioni e le nostre abitudini, in ogni affezione tranne che nel peccato. Questo vale per gli antichi, presso i quali sappiamo che quasi tutto è capitato in maniera figurale, e di ciò abbiamo come testimone l’apostolod; ma anche nel Nuovo Testamento le cose non sono comunque molto diverse, visto che tutto quel che viene detto nell’Apocalisse non sembra distanziarsi sotto alcun aspetto da forme esteriori. Guarda quindi quale visione ha avuto Giovanni nel giorno del Signoree, e quali ne siano stati, per così dire, i limiti. Ma devi prestare massima attenzione a quanto viene detto: io fui in spirito (Apoc. 1, 10). Che significa “fui in spirito”? Vuol dire nella contemplazione delle cose spirituali: non sarebbe stato, Apoc. 21, 19-20. Cfr. Deut. 4, 24: dominus deus tuus ignis consumens est. c Cfr. 2 Cor. 11, 3: ne excidant a simplicitate quae est in Christo. d 1 Cor. 10, 11: Haec […] omnia in figura contingebant illis. e Apoc. 1, 10: Fui in spiritu in dominica die. a
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infatti, “in spirito” se non fosse stato per lui visibile ciò che è spirituale. Se dunque per lui non fu visibile niente se non ciò che è spirituale, com’è che non poté descrivere se non forme corporeea, che solo quelle ebbe davanti agli occhi? Fai caso quindi alla maniera puramente umana di descrivere Dio, fai caso alla spada a doppio taglio, ai candelieri ed alle stelle e, per tornare al corpo, ai capelli di lana bianca, ai piedi fatti di oricalcob. Svolgi così l’intero rotolo: non troverai da nessuna parte altro se non espressioni umane, da nessuna parte viene detto qualcosa lì non dico della sostanza, ma dell’essenza di Dio, e se qualcosa risulta detto in quel luogo, è ricoperto da un fitto velo di allegorie. Anche tutto ciò che è profetizzato lì sullo stato della santa Chiesa è offuscato da discorsi coloriti, e benché egli si definisca colui che vide “in spirito”, qualsiasi sia il significato spirituale che si nasconda nelle sue parole, niente ne traspare se non immagini corporee e dall’apparenza corruttibile. Perciò, dato che coloro che migrano dalla vista delle cose presenti alla visione di quelle interiori non riferiscono nient’altro che quello che erano soliti vedere nel mondo, uno potrebbe pensare che nella sfera spirituale ci siano le stesse forme che paiono esserci presso quelli che ne stanno al di sopra, anzi al di sotto, che siamo noi. E se è così, se c’è questa uniformità di apparenze – cosa che non bisogna credere in alcun modo – dunque tra il corpo e lo spirito non vi è alcuna distanza né diversità, anzi, per riassumere il tutto in breve, certamente non esiste una sfera spirituale di per sé. Se non c’è alcun divario tra i due livelli, se si passa dall’uno all’altro come di corpo in corpo, non si può passare mai da questo bene presente, quale che sia, in meglio: buone sono infatti le cose create da Dio, ma immaginarie, e ci serviamo di loro finché non ci venga dato di godere di quelle che rispetto alla caducitàc di queste sono chiamate “eterne”. Sembra sostenere questa idea perfino il fatto che presso il beato papa Gregorio tutti quelli che venivano rapiti da questo mondo esteriore verso quello interiore per poi fare ritorno ricordarono di Agostino, Conf. 4, 15, 24: ibat animus meus per formas corporeas. Apoc. 1, 12-16 (19, 15) e 2, 18. c Il termine usato da Guiberto, transibilitas, è un neologismo che l’autore ha già utilizzato una prima volta in Monod. 1, 2. a
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aver visto soltanto cose simili a quelle che erano abituati a vedere qui. Se infatti hanno raccontato di ponti, fiumi, fetori sulfurei, e ancora di prati ameni, di case costruite con mattoni d’oro, questo certamente l’hanno affermato per analogia con lo stato presentea. E non credere che queste cose siano apparse ad alcuni solo secondo quanto raccontano i Dialogi, e non piuttosto per tutte quelle visioni che non dico di aver letto, ma anche che ricordo di aver udito. Che dire, dunque, del fatto che Beda nelle Gesta degli Angli, nel narrare le rivelazioni manifestatesi un tempo alla sua gente, da una parte piene di paura, da una parte di gloria, non dice nulla che non corrisponda del tutto a quello a cui siamo abituatib? Là, infatti, ci sono monti e castelli, l’asprezza delle intemperie, le casse di piombo dei dannati, le gambe spezzate dei condannati ai supplizi, certi luoghi che puzzavano di marcio predisposti per la tortura di quanti venivano puniti, i genitali di un principe rosicchiati ogni giorno dal morso di non so quale animale, ed anche montagne di denaro, mantelli e vesti di seta, panni sontuosamente intessuti, oggetti vari da presentare come prova della loro corruzione a coloro in quella moltitudine che accettano volentieri dei donic per ribaltare le proprie sentenzed. E non mancano esempi moderni, dato che se anche capita di avere qualche visione sulla condizione delle anime ancora oggi, non c’è alcuna differenza rispetto alla modalità di cui abbiamo parlato. Ma sopra tutte queste cose, cosa sembra minacciare il signore Gesù stesso se non un supplizio materiale? Quando infatti comanda che siano loro legati mani e piedi ed ordina che siano gettati fuori nell’oscurità, ed avverte che lì ci saranno insieme pianto e stridore di dentie, che altro prospetta se non sofferenze per noi consuete? E certo se crediamo che le anime criminali o colpevoli a I Dialogi di Gregorio Magno, a cui l’autore si riferisce, contengono diversi resoconti di visioni; in particolare cfr. Dial. 4, 36. b Riferimento all’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile, forse in special modo ai capitoli 12-14 del libro V, contenenti il resoconto di alcune visioni sull’aldilà. c Iob 15, 34: qui munera libenter accipiunt. d Gli elementi elencati costituiscono un sunto generico dei capitoli 6-12 della Visio Wettini di Attone di Basilea. e Matth. 22, 13.
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di peccati più leggeri siano afflitte dallo stesso supplizio materiale dei corpi, non valutiamo correttamente, secondo l’apostolo, le cose spirituali con criteri spiritualia, ma di questo diamo sufficiente conferma proponendo un esempio. Vedi che un uomo, prigioniero di un’infinita brama di lucro, si vota con bramosia a pene cruentissime per ottenere ciò che desidera; quanta fame patirà, quante veglie insonni e quanti sudori, tanti che uno sicuramente porrebbe fine alla propria vita con una morte veloce se questo fardello gli si avvinghiasse addosso controvoglia. Trarre queste conclusioni dalla sofferenza dei prigionieri che vengono martoriati per il denaro, è cosa ovvia. Infatti li vediamo straziati con sofferenze tanto atroci: sono appesi per i pollici ed i genitali, vengono loro strappati i denti con la tenaglia, spappolate le unghie con una morsa di legno, i loro calcagni cosparsi di sale e fatti leccare dalle capreb, ed essi sopportano tutti questi supplizi con tanta serenità, anzi tanta contentezza d’animo, che potresti immaginare che il loro animo provi sollievo per la speranza di un tesoro in serboc, esultando nel profondo. Certo abbiamo constatato per esperienza che un tale era solito spegnere del tutto con la propria lingua umida un tizzone incandescente di straordinaria grandezzad, ed in cambio di questa fatica chiedeva solamente una moneta. Se dunque, pur essendo il corpo vessato da tanti patimenti, l’animo inebriato dalla gioia di una speranza segreta riesce a trovar pace da quella tortura, è un attimo accorgersi che come la carne subisce dei tormenti anche se l’anima rimane lontana da tali tempeste, così anche se il corpo non subisce alcuna molestia l’anima è colpita molto spesso dalla semplice concezione della tristezza. Valutando le cose fisiche secondo criteri fisici e lo spirito secondo criteri spirituali, come abbiamo premesso, ci accorgiamo che entrambe le sfere, l’una indipendentemente dall’altra, sopportano le proprie croci, a seconda del contesto e del momento. Questo risulta dimostrato in maniera evidente nel 1 Cor. 2, 13: in doctrina spiritus spiritualibus spiritualia comparantes. La tortura della capra era in uso fino dall’epoca romana; il solletico incessante causato dalla lingua dell’animale provocava al prigioniero dolorosi spasmi. c Si tratta di un’eco scritturale. Cfr. Iudith. 12, 1; Iob 19, 27; Coloss. 1, 5. d Il prodigioso evento altro non è che l’esibizione di un saltimbanco. a
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caso dei santi martiri, in cui l’uomo interiore gioisce per i dolori dell’uomo esteriore, mentre dall’altra parte riguardo a quelli consumati dall’amarezza della malinconia è ben visibile da quante angosce sia dilaniato il cuore lacero, anche se il corpo esternamente sembra perfettamente tranquillo. Negli ipocriti vedi digiuni, tolleranza del freddo, immobilità che durano tutto il giorno e a stento cessano di notte, veglie notturne di preghiera quasi insonne, ed a questi atti privi di sostanza li porta l’avidità di una gloria inane; allo stesso modo anche nelle menti dei santi la dolcezza dell’aspettativa celeste rende brevi e momentanee le mortificazioni quotidiane delle loro carni. Si consideri quindi assodato che come la pena esteriore rende notoriamente cadaverici i nostri piccoli corpi, così l’entusiasmo spirituale nutre la nostra interiorità, oppure la colpa segreta della mente la tormenta. Una volta analizzati questi argomenti con questa distinzione, arriviamo a toccare allo stesso tempo in che modo i supplizi delle anime siano da ritenersi diversi dai tormenti del corpo e perché il Signore stesso e tutti i santi abbiano non dico percepito e pensato, ma parlato di quello stato in un termini così fisici. Se infatti si discute della loro percezione, le loro percezioni profetiche, per seguire l’ordine di quanto detto in precedenza, furono molto più spirituali di quanto loro stessi non abbiano non dico potuto, ma dovuto insinuare nei propri ascoltatori. Dirò invece, e questo lo affermerò senza dubbio, che non hanno né potuto né dovuto farlo. Se avessero potuto, avrebbero rivelato pubblicamente le cose che in parte avevano saputo della futura nascita di Gesù e dei misteri della Chiesa; l’avrebbero fatto se avessero avuto il permesso di esprimere quelle cose, che erano loro chiare solo parzialmente. Per questo la voce del Salmista dice: hai manifestato a me le cose incerte e segrete della tua sapienza (Ps. 58, 8). Se erano incerte addirittura per luia, dal cui seme sarebbe nato Gesù, a che sarebbe servito riportare pareri dubbi? Inoltre se sono “segrete”, tanto meno vanno manifestate in considerazione della loro incertezza: infatti quanto più una cosa è segreta, tanto più, se ci si mette di mezzo l’incertezza, è pericoloso rivelarla. Sapena
Il salmista, Davide.
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do, quindi, che quelle cose erano state manifestate a lui, ma erano incerte ed occulte per tutti gli altri, con una scelta assolutamente meritevole aveva deciso di tacerle. Per questo l’apostolo dice: Ho udito parole arcane, che non è permesso dire ad un uomo (2 Cor. 12, 4). Questa frase possiamo intenderla in due modi, e vale a dire: non è lecito di per sé per un uomo dire tali cose – e certo quando scriviamo non parliamo con nessuno –, né “dirle ad un uomo”, cioè spiegarle a qualcun altro. Perciò non hanno potuto, perché non dovevano. Se infatti lo spirito dei profetia non li avesse trattenuti, come si trattiene un cavallo col freno, il mistero che avevano concepito con la mente non sarebbe stato un mistero. Certo non potevano rivelare ciò che avevano custodito sotto il sigillo di un ispiratore del genere: se infatti non è proprio dell’umana volontà o della capacità umana contemplare Dio o la sacra Scrittura quando vuole, così a loro non poté essere permesso in nessun modo di comprendere quanto volevano dei misteri futuri, anzi nemmeno di avere completa consapevolezza di quello che dicevano. Proprio come nelle visioni che vengono da Dio molte volte veniamo informati su eventi che ci riguardano, ma non siamo in grado di ricavare da esse come o quando questi siano destinati ad accadere, così i loro cuori sono stati toccati in maniera tanto leggera che essi non avevano alcun potere di spiegare ciò che avevano visto. La loro impotenza, però, altro non è che un divieto. Per questo si dice del Signore che non poté fare alcun miracolo a Cafarnaob. Per “non poté” intendi “non doveva”; era cosa indebita, infatti, che concedesse il beneficio dei miracoli a coloro che non era riuscito a congiungere alla propria fede. Per questo vietò anche che le perle fossero messe davanti ai porcic, perché il candore della parola di Dio non è adatto a menti luride. Per ritornare al discorso, perciò, qualsiasi cosa sia stato non tanto percepito quanto riferito dai profeti su Dio in termini fisi1 Cor. 14, 32: spiritus prophetarum. Guiberto si riferisce a Marc. 6, 1-5, ma affidandosi alla propria memoria confonde Nazareth con Cafarnao. Nell’episodio Gesù, tornato Nazareth, sperimenta la diffidenza dei propri conterranei ed osserva che i profeti sono disprezzati in patria; per questi motivi, compie lì solo alcune guarigioni, ma nessun miracolo. c Matth. 7, 6. a
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ci, risulta abbassato al livello dell’intelligenza umana, poiché essi da un lato non riuscirono a trovare parole che abbracciassero la forma dell’essenza divina, e nessuno dall’altro avrebbe avuto un animo capace di cogliere le cose che sarebbero state dette – se mai avessero potuto essere dette da qualcuno. E loro dunque, che non potevano parlare o ascoltare, giustamente tacevano sulla natura di Dio. D’altra parte se non avessero detto ciò che era necessario dire con i modi consueti del discorso umano, sia sarebbero stati incapaci loro di esprimersi, come i matti, sia, se avessero parlato di cose al di sopra di sé stessi, come essi stessi non avrebbero compreso le proprie parole, così non avrebbero mai trovato chi potesse capirle: per questo di tanto in tanto attribuiscono a Dio paragoni e similitudini indegne, come quando lo definiscono un carro carico di fienoa o un prode ubriaco di vinob. Loro che non erano stati in grado di cogliere queste cose non potevano riferirle se non in termini fisici e familiari alle nostre abitudini, e non avevano la minima vergogna persino ad attribuire a Dio cose che parevano non confarsi a persone per bene, al fine di dimostrare, per il fatto stesso di paragonare alla somma maestà cose indegne, che tutto ciò che può essere presso di noi più grande e più degno, è invece del tutto indegno di Dio, se viene comparato a Lui. Per questo a Ezechiele sono mostrati i corpi identici ed i volti – più straordinari di quello di Gianoc, perché quadruplici! – di quattro animali mostruosid, per indicare grazie ad un’immagine per noi fuori dalla norma come ci si debba appellare solo alla facoltà intellettuale. Se infatti il Signore fa dei venti i suoi angeli (Ps. 104, 4) e ci sono solamente creature spirituali nei cieli, è cosa assai indegna credere che in qualcuno degli esseri superni si possano trovare tali sembianze corporee. Dato che gli angeli hanno certaAmos 2, 13: Ecce ego stridebo subter vos sicut stridet plaustrum onustum faeno. Ps. 77, 65: excitatus est tanquam dormiens dominus, tanquam potens crapulatus a vino. c Giano era l’antica divinità romana protettrice degli inizi e dei passaggi. Egli veniva rappresentato con due visi rivolti in direzioni opposte, a simboleggiare il passato e il futuro e l’interno e l’esterno di una soglia, e per tale ragione al nome era spesso associato l’epiteto bifrons, “bifronte”. d Ezech. 1, 5-6. a
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mente un aspetto molto piacevole per la magnificenza della loro gloria, mentre queste creature appaiono spiacevoli per l’orrore delle loro sembianze troppo repellenti, quando una spiegazione letterale non basta, non resta che chiedersi cosa stiano a significare. Gli uomini, dunque, parlano agli altri uomini solo di cose fisiche, poiché se anche hanno percepito qualcosa del mondo intellettuale, non sono stati in grado, tuttavia, di esprimere le proprie percezioni. Da qui anche la necessità di ascoltare con giudizio quanti migrano verso la condizione interiore di quel mondo per poi fare ritorno tra noi, dato che non possono vedere altro che cose che sono fisicamente consuete per i vivi, affinché sotto l’immagine di realtà terrene brillino per noi alcuni deboli raggi di quelle eterne. Se infatti fossero in grado di comprendere così, come se non fossero destinati a fare ritorno in questo mondo, essendo comunque ancora posti in questa carne, non solo le parole, ma anche i loro sensi che prima al di fuori della carne erano sottili ed acuti diverrebbero deboli, e le cose viste andrebbero perdute dentro di loro, né tantomeno potrebbero spiegare agli altri cose incomprensibili a loro stessi. Quando tornano dal mondo interiore, perciò, possono solo parlare agli uomini in termini simili a quanto erano soliti vedere fuori, perché per tutti i santi non è mai stato possibile esprimere con la parola o per iscritto ciò che hanno potuto scorgere di tanto in tanto, anche per un istante, mentre contemplavano Dio. Quando in una visione sulla gloria dei santi, pertanto, avvertono degli odori o sentono cori cantare innia o avvistano dei bagliori, tutte queste cose avvengono non secondo la realtà della natura spirituale, ma in conformità alle caratteristiche del mondo visibile, a cui sono abituati: infatti le cose che sono più belle, o più preziose o più dilettevoli tra gli uomini, queste ci vengono mostrate tramite visioni interiori, affinché noi traiamo dalle cose che siamo soliti apprezzare in special modo presso di noi le prove della gloria concessa ai santi. Per questo nell’Apocalisse si dice che sono avvolti in panni candidi e tengono in mano, come simboli della vittoria,
L’espressione latina hymnidicos choros è forse una reminiscenza di Gregorio Magno, Ep. 13, 40: ab hymnidicis angelorum choris. a
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foglie di palma, e che hanno in testa corone d’oro, prerogativa dei rea. Le cose che si dicono sulle bellezze, sui luoghi pieni di fiori, sullo splendore degli abiti, dunque, non avvalorano le filastrocche di quegli eretici, chiamati Chiliastib, che promettono mille anni nei piaceri carnali dopo la resurrezionec, bensì queste cose, che sono solite procurare diletto agli uomini, i racconti delle visioni le rivelano per dimostrare la gloria di coloro che sono stati salvati. Le stesse cose che diciamo sulla rivelazione di quanti sono stati glorificati, inoltre, le pensiamo della dannazione di quanti sono stati puniti. Quando secondo le scritture, infatti, si vede che spesso le anime bruciano nel fuoco, sono sottoposte alla flagellazione, vengono sommerse in acque puzzolenti, e che accade quanto descritto dai dottori Gregorio e Beda, tali castighi non sono altro che quelli che si suole infliggere fisicamente ai criminali; esse subiscono questa tortura spiritualmente, e noi, ai quali ciò viene raccontato, non crederemmo che i dannati subiscano il tormento di tali sofferenze, se non perché conosciamo quelle pene, a cui siamo abituati ad assistere continuamente. Dato che, quindi, non possiamo sentire quella lingua spirituale grazie alla quale le creature spirituali comunicano con gli spiriti, dalla conoscenza della realtà fisica spremiamo, per così dire, i succhi della facoltà intellettuale, e ci rendiamo conto che le anime vengono oppresse dagli stessi castighi che affliggono i corpi. Perciò, dato che non crediamo che le anime pure possano essere castigate con supplizi corporali, osserviamo da quali pene possano e debbano essere afflitte. Più su ho detto, citando l’apostolo, che le Apoc. 7, 9 e 4, 4. I Chiliasti (che prendono il nome dalla dottrina, sviluppatasi nel corso del medioevo, denominata Chiliasmo o Millenarismo) predicavano, basandosi su un’interpretazione letterale di Apoc. 20, 1-6, l’avvento del regno di Cristo in terra, in seguito al quale i santi ed i giusti sarebbero tornati in vita ed avrebbero regnato al Suo fianco per mille anni. A seguito di questa prima resurrezione e dei mille anni, Satana sarebbe stato liberato dal suo carcere e sarebbero tornati in vita anche i dannati; sconfitto il diavolo, il giudizio universale avrebbe determinato l’attribuzione di ricompense e castighi eterni. c Isidoro, Etym. 8, 5, 8: mille annos post resurrectionem in voluptate carnis futuros praedicant. Unde et Graece Chiliastae […] sunt appellati. a
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cose spirituali vanno valutate con criteri spirituali, ed è molto singolare che si dica che l’anima, non tangibile, possa essere afflitta da tormenti tangibili. Per prima cosa, però, bisognerebbe parlare di quello che – così come l’apostolo dice ai pagani: voi che venite chiamati “prepuzio” per quella pratica chiamata “circoncisione” (Ephes. 2, 11) – per distinguerlo da questo mondo esteriore viene chiamato “interiore”. Come infatti nel mio corpo, che è alla portata di tutti, all’interno si trova un’anima invisibile, così sotto questa creazione materiale, che è visibile sia alle nature razionali che a quelle irrazionali, si cela un altro organismo, che risulta visibile ed accessibile solo a quelle razionali, ed una volta uscite da questa condizione mortale. Il suo stato nessuna mente occupata dalle immagini delle cose visibili è in grado di misurarlo, è alla portata soltanto degli occhi dell’animo, liberi dalla cispa del mondo. Come, per l’appunto, definiamo parola “spirituale” quella che si crea con lo spirito, con la lingua e con i denti – per questo l’apostolo dice: pregherò con lo spirito (1 Cor. 14, 15) –, ed anche parola, per così dire, “mentale” quella che viene solamente pensata, mentre le labbra tacciono, e persino parola “intellettuale” quella che senza alcun ordine verbale interiore consiste nella pura contemplazione, così questo mondo in cui viviamo può essere definito visibile ed immaginario, sia perché è sotto ai nostri occhi, sia perché il suo aspetto corporeo può essere rievocato nella mente anche quando non è alla portata della vista; quello interiore, invece, si penetra tanto più difficilmente quanto più niente lì può essere circoscritto in corpi, spazi e tempi, niente vi accade, e quanto più è diverso da ciò a cui siamo abituati noi, che quasi mai puntiamo lo sguardo della mente su altro che queste solite cose, tanto più per scrutare quel mondo interiore infrangiamo con tutte le nostre forze le nebbie della nostra visuale. A questo punto si pone la questione se si ritenga generalmente che questo mondo sia abitabile per il diavolo ed i suoi angelia, dato che il Signore lo chiama principe di questo mondo (Ioh. 12, 31), nel quale viviamo, e l’apostolo principe di quest’aria (Ephes. 2, 2) ed anche principe di queste tenebre, gli spiriti del male che abitano a
Matth. 25, 41: (ignem aeternum, qui paratus est) diabolo et angelis eius.
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nei cieli (Ephes. 6, 12). La questione, dunque, è se colui che per il fatto di risiedere in quest’aria è chiamato “aereo”, e che vaga invisibilmente tra di noi, si ritenga o meno prossimo a quel dato mondo. A tale questione si risponde, per prima cosa, che per quanto quel mondo possa essere degno e puro, non oso affermare che non possa essere comune sia a creature buone che a creature malvagie. Visto che la natura dei demoni, infatti, è assai acuta per la sua innata vivacità, così grazie alla propria perspicacia, anzi alla vitalità del proprio potere spirituale, per quanto possa vagare nel mondo esteriore, tanto più essa mantiene una sede appropriata in quello interiore quanto più risulta avere grande comunanza di natura con quello. Se infatti il mondo è spirituale ed il diavolo non risulta avere una corporeità più densaa, nel caso in cui si distingua, una volta stabilito un criterio ragionevole, identità di sostanze in entrambi, l’uno non può allontanarsi dall’altro. Prima del giorno del giudizio, dunque, quel mondo interiore è attraversabile per il diavolo, poiché per quel lasso di tempo si occupa per incarico e al servizio di Dio di precipitare le anime nel supplizio eterno, ed alla sua crudeltà viene concessa la licenza di portare a termine questo compito finché, una volta distinto il grano dalla pulab, non si giudichi di dovergliene togliere il poterec. E certamente ritengo che l’inferno stesso, con il suo funesto esercito, siano abitanti di questo mondo. Perché no, visto che coloro che sono relegati nelle carceri a scontare la propria pena sono tanto distanti dalla situazione del mondo presente che il beato Giobbe dice che ignorano se i loro figli siano nobili o ignobilid? Quell’altro mondo, però, differisce da questo per il fatto che in questo buoni e cattivi sono mescolati, mentre lì i celestie ed i dannati sono eternamente distinti gli uni dagli altri. Cfr. Agostino, De Genesi ad litteram 1, 12: propter crassiorem corpulentiam. L’espressione proverbiale rimanda a Luc. 3, 17, quando Giovanni Battista durante la propria predicazione afferma che colui che verrà dopo di lui, cioè il Cristo, avrà in mano il ventilabro per raccogliere il grano e pulire la propria aia, e brucerà la pula. Si tratta di un’immagine apocalittica che prefigura il giudizio universale. c Cfr. Daniel 7, 14: potestas eius potestas aeterna, quae non auferetur. d Iob 14, 21: Sive nobiles fuerint filii eius sive ignobiles, non intelliget. e In latino Guiberto usa la parola caelibes, letteralmente “celibi, non sposati”. Questa scelta lessicale (e con essa la nostra traduzione) può essere compresa se si a
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Dopo il giorno finale, perciò, il diavolo stesso, condiviso il supplizio coi propri complici, non potrà più avere campo libero per portare la rovina di prima, ed il mondo diverrà tanto più uniforme nella sua salda purezza, quanto più nessun essere corrotto sarà in grado di transitarvi oltre. È per questo che, rinnovatisi il cielo e la terra, sia il mondo interiore che quello esteriore saranno accessibili ed abitabili per i santi. Infatti, dopo che i santi saranno stati tanto purificati dal fuocoa quanto elevati dal sacro mutamento dei loro corpi ed il mondo, anzi l’universo stesso sarà stato ripulito con le fiamme dall’antico sudiciume e restaurato ad uno stato incorruttibile, le condizioni dell’abitazione e degli abitanti diverranno adeguate sotto ogni aspetto, e una volta fatta pulizia sia il residente che la residenza diverranno fiorenti allo stesso tempo. E come sia il corpo che l’anima nei santi giubileranno nella gloria di un’unica beatitudine, così il mondo esteriore ed interiore, riportati ad un’unica purezza dalla distruzione nel fuoco di uno dei due, forniranno splendide vie prive di ostacoli per i santi, che trionferanno da ogni parte. Torniamo dunque al discorso che era stato cominciato. Se vogliamo determinare se quelle pene, che sosteniamo essere inflitte ai reprobi in quel mondo più recondito, siano corporee o incorporee, possiamo farcene un’idea migliore a partire dall’opposto. Per prima cosa, infatti, bisogna chiedersi se gli eletti ottengono nel regno celeste glorie corporee o incorporee. Se pensiamo che ottengano delle glorie corporee, che cioè si dedichino ai piaceri, alla gola ed ai banchetti, non risolviamo nulla, anzi andiamo contro le Scritture: non gioite degli spiriti che si sottomettono a voi, ma gioite del fatto che i vostri nomi sono scritti in cielo (Luc. 10, 20). Gli stessi apostoli, ancora ignoranti, rispondono con sicurezza al Signore: O Signore, mostraci il Padre, e ci basta (Ioh. 14, 8). E c’è anche quel passo: io vi vedrò di nuovo, ed il vostro cuore gioirà (Ioh. 16, 22). Se la gloria degli abitanti del cielo risiede in queste cose, cosa si va cerconsidera ciò che del termine dice Isidoro in Etym. 10, 34: Caelebs, connubii expers, qualia sunt numina in caelo, quae absque coniugiis sunt. Et caelebs dictus quasi caelo beatus. Ovvero: «“celibe” significa non sposato, come sono i numi in cielo, che non hanno coniugi. E la parola celibe vale a dire “beato in cielo”». a Cfr. Num. 31, 23: […] igne purgabitur.
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cando qui di terreno? Quale gioia fisica si potrebbe credere che ci sia nella visione di Dio padre? Che dire di quel che recita il salmo: cosa c' è infatti per me in cielo, e cosa ho voluto sulla terra a parte te? Dio del mio cuore, – dice – mia eredità (Ps. 72, 25-26). Se dunque chi vede il Figlio e crede in lui ottiene la vita eterna (Ioh. 6, 40), e non cerca nulla in cielo né in terra se non la presenza di Dio, mi chiedo: che posto si dà per i piaceri fisici? Dato che infatti non c’è il sostegno di alcun esempio per cui uno possa ritenere che ci sia qualcosa di carnale in cielo, sarebbe strano che uno pensasse altrimenti, come se cercasse una menzogna nella Verità stessaa. Se dunque quello che c’è nella ricompensa di Dio è tutto spirituale, ne consegue, a me sembra, che anche ciò che nel mondo spirituale viene compiuto dagli spiriti, benché maligni, e quindi anche ciò che riguarda la punizione degli spiriti dei malvagi, si considera spirituale. Come infatti non crediamo che gli angeli provino fastidio per il fetore umano, così sosteniamo che le anime non possono essere vessate da pene corporali. Come ho detto più su, però, possiamo affrontare meglio l’argomento a partire dal suo opposto. Se secondo l’apostolo il regno di Dio non è cibo e bevanda, ma pace e gioia nello Spirito Santo (Rom. 14, 17), vediamo all’opposto quanto sia diverso ciò che vige all’inferno, cioè confusione eterna, tumulto perpetuo, e tristezza. Ci sarà lì, dice il Signore, pianto e stridore di denti (Matth. 22, 13). Cos’è il pianto delle anime, se non la loro tristezza accorata ed interiore? Il pianto infatti, che viene emesso solamente da creature corporee, e lo stridore, che si attribuisce di consueto ad esseri dotati di denti, si riferisce al dolore di quelle anime incorporee, alla loro pazzia ed alla loro furia: “stridere”, infatti, quando detto di un uomo, è proprio dei furiosi. C’è quindi dolore per il tormento che hanno subito e che sono destinati a subire in eterno, e c’è anche stridore quando l’anima, commembre al diavolo, già piena di disprezzo per tutte le cose divine, comincia a rammaricarsi di non aver commesso delitti peggiori di quelli che ha compiuto. Per questo: l'empio, giunto al fondo della malvagità, diviene sprezzante (Prov. 18, 3). Ogni albero che non fa buon frutto – dice a
Cfr. Ioh. 2, 21: omne mendacium ex veritate non est.
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– verrà estirpato e gettato nel fuoco (Matth. 3, 10). Viene estirpato, cioè, dal potere di peccare, che equivale a dire: legate loro mani e piedi. Essere gettato nel fuoco, invece, vuol dire essere arso dall’eterna brama di compiere il male; da questo la frase: piovve fuoco e non videro il sole (Ps. 57, 9). Se infatti è vero – ed è veramente così – che in quel mondo interiore provano desiderio, timore, gioia e dolorea, anche se agli empi non conviene per niente gioire, le altre tre emozioni, tuttavia, non possono abbandonarli neanche per un momento; non dirò che sono vincolati alle stesse passioni a cui soggiacevano un tempo, ma che lo sono in maniera tanto più rabbiosa quanto più spirituale, tanto che in loro tutte le passioni, non di un tipo solo ma di ogni genere, non sono altro che un fuoco che non cessa mai ed arde costantemente. E se qualcuno mi rinfaccia che il beato Gregorio dice che le anime vengono punite con un fuoco corporeo, presti attenzione a ciò che viene detto in quel passo: diciamo che lo spirito è imprigionato dal fuoco, nel senso che sta nel tormento del fuoco vedendolo e sentendolo. Infatti soffre il fuoco per il fatto stesso che lo vede, e poiché ha l' impressione di essere bruciato, bruciab. Tutto questo significa: dato che uno si vede dannato, viene logorato da una insanabile esasperazione dell’animo. Considera un uomo relegato ad una reclusione eterna: è tormentato da una tristezza mortale. Ho visto quest’anno un tale che per timore di diventare povero aveva cercato di impiccarsi, se non fosse stato salvato dai suoi parenti: dalla propria situazione, quindi, secondo il beato papa, lo spirito trae i presupposti della propria sofferenza. E se la pena del riccoc mi viene rinfacciata in quanto fuoco corporeo, chiederei assai volentieri al santo papa, se fosse qui: se quel fuoco viene ritenuto corporeo – come egli dice – anche la goccia e il dito e la lingua andranno intese allo stesso modo in senso fisicod? Dunque, dato che riteniamo Probabilmente Guiberto in questo passo cita a memoria, in maniera imperfetta o non letterale, Virgilio Aen. 6, 733: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque. b Gregorio Magno, Dial. 4, 29. c Luc. 16, 22-24. d Guiberto fa riferimento alla parabola del ricco e Lazzaro: una volta morto, il ricco finisce all’inferno e da lontano vede Lazzaro, il mendicante che in vita giaceva a
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esecrabile non essere d’accordo con un maestro di questo calibro e non siamo in grado in quel mondo completamente interiore di mescolare cose corporee a quelle spirituali, lasciamo a Dio ciò che non ci è ancora capitato di sperimentare: non vogliamo, infatti, dare contro a nessuno, semplicemente diciamo quel che pensiamo secondo la nostra comprensionea. È noto perciò che così come la volontà di bene dei santi, quando essi pervengono alla visione di Dio, cresce costantemente per l’inestimabile dolcezza, così le anime dei reprobi, unite alla loro testa, il diavolo, ardono tanto più intensamente dal desiderio di peccare, non senza un tormento atroce, quanto più non discordano per nulla nelle loro intenzioni da colui il cui cibo è suggerire peccati. E come i santi si rammaricano, una volta vista la gloria di Dio, di non aver faticato ancora di più per raggiungerla, così gli empi si dolgono assai tristemente di non aver assecondato di più, per arrivare a quei supplizi, le proprie volontà malvagie. Perché no? Dell’empio da vivo, si dice: sotto la sua lingua, fatica e dolore (Ps. 10, 7): fatica, cioè, perché si affanna per lo zelo di fare il male, dolore poiché non riesce a perpetrare i crimini che voleva compiere. E cosa si potrà dire di colui che si unisce in un unico corpo a Satana, quanto grande sarà in lui la forza di questa pessima inclinazione? Se i santi fervono per l’ardore eterno nei confronti di Dio, gli improbi strillano per i loro perpetui deliri. Rispecchia questa nostra opinione quel capitolo del Vangelo sul ricco e Lazzarob, nel quale, se si analizza bene, lo stato del mondo interiore si svela in gran parte. In questo passo, se valuti innanzitutto che voglia dire il fatto che il ricco chiede che Lazzaro, e alla sua porta, accanto ad Abramo; chiede dunque ad Abramo di mandare Lazzaro ad intingere un dito nell’acqua per bagnargli la lingua ed alleviare la sua sofferenza, ma il patriarca gli ricorda che tra i beati ed i dannati c’è un abisso incolmabile, e che ognuno nell’aldilà riceve quello che ha meritato in vita. Il ricco chiede allora che Lazzaro venga inviato ad avvisare i suoi cinque fratelli, perché loro non vadano incontro al suo stesso destino, ma riceve un altro rifiuto. a Nel ms. Paris, BnF, lat. 2900, questo capoverso costituisce una corposa aggiunta a margine attribuibile alla mano che si ritiene dell’autore; per un discorso approfondito sulla determinazione di tempo hoc anno rinviamo al capitolo dell’introduzione relativo ai problemi testuali. b Guiberto si riferisce ancora a Luc. 16, 22-24.
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non lui stesso, sia resuscitato e mandato a casa del padrea, scoprirai che lui, uscito da questa vita con una volontà molto malvagia, anche se fosse resuscitato e tornato nel mondo, non aveva alcuna volontà di correggersi: la stessa perversità di cui non riusciva a fare a meno neanche nel tormento, infatti, sapeva certamente che non l’avrebbe abbandonata in nessun modo. E d’altro canto non gli sfuggiva certo che se fosse stato rimesso nella condizione precedente nel mondo e non avesse tenuto comportamenti più corretti delle sue precedenti inclinazioni, alla fine sarebbe ricaduto in quegli stessi supplizi, finendo in una dannazione cento volte peggiore. Per questo, senza correre rischi, supplica che sia Lazzaro ad essere resuscitato, nient’altro aspettandosi se non che lui, che prima di fare esperienza della gloria aveva vissuto da uomo pio nella malattia e nella povertàb, tornato in vita potesse diventare, da buono che era, soltanto migliore. Si aggiunge al nostro parere anche questa considerazione: perché lui, – che secondo Salomone presso gli inferi non aveva né sapienza, né scienza, né ragionec – naturalmente guidato dal furore di un’intenzione diabolica, avanzava richieste a favore dei propri fratelli, in maniera così benevola, affinché non fossero a loro volta perduti? Se la benevolenza è un bene ed è presente addirittura sotto supplizio, certamente in quel caso ci sono sia la sapienza sia la scienza ed anche la ragione, contrariamente a quanto il sapiente appena citato dice; ma poiché lo Spirito Santo che parla in Salomone non può mentire, è un attimo rendersi conto di quanto questa richiesta sia in realtà inutile. Più su è stato detto che i reprobi all’inferno sono destinati non solo a non essere privi di passioni carnali, ma anche ad ardere di amori perversi. Quel ricco considera queste cose, quando teme che arrivino anche i fratelli: egli sa infatti che in ciascuno dei fratelli il suo supplizio raddoppia, e, dato che nella devozione e nell’affetto che prova per loro si è staccato dall’amore divino, nella loro dannazione, che ha davanti agli occhi, arde ed impazzisce in egual Luc. 16, 27. Luc. 16, 20-21. c Eccle. 9, 10. a
b
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misura. Temendo quindi che la Gehenna per lui – per così dire – si quintuplichia, implora che i fratelli, grazie all’insegnamento di Lazzaro, evitino di riunirsi con lui. Qualcuno, però, può obiettare che quella pena non poteva essere evitata senza una buona azione, e quindi lui, che desiderava che essi tenessero comportamenti più corretti, non era privo di benevolenza. A questo replichiamo: ci sono molte cose che sembra che noi vogliamo, ma si capisce che evidentemente non vogliamo. Mettiamo infatti che tu soffra di una malattia incurabile ad un dito ed il chirurgo ti ordini di tagliarlo: tu dici che preferisci che ti sia tagliato, piuttosto che perdere l’uso dell’intera mano con l’avanzare del morbo. Dici di preferire questa soluzione a quella, mentre certissimamente non vuoi né l’una né l’altra cosa. La volontà nel ricco fu tale che non volle volendo e volle non volendo, piuttosto che subire un inasprimento della propria punizione. Perciò tutti coloro che gli empi avevano amato contro Dio, per un giusto giudizio li vedono straziarsi di fronte a sé, e rivivono sempre in sé stessi le pene di quelli. Quale tipo di corpi possano avere le anime, tuttavia, io non lo so; quel che penso, principalmente, è che ciò che viene detto per bocca del Signore vada inteso in senso tipologico: il loro verme non morirà e il loro fuoco non si spegnerà (Is. 66, 24). Se il beato Giobbe, marcio e putrefattob, diceva giustamente: quelli che mi mangiano non dormono (Iob 30, 17), non vedo come ciò possa riferirsi allo spirito, poiché non si è ancora sentito che i vermi nascano dallo spirito o che i vermi mordano lo spirito. Visto che questo discorda dal senso letterale, confiniamo il “verme spirituale”, cioè la spina dell’inquietudine perpetua ed il pentimento sempre infruttuoso, all’interno dell’anima: il suo fuoco mai e poi mai si spegne, perché al culmine di tutta la disperata sofferenza, essa viene consumata da un’angoscia eterna. Se ritieni che coloro che si trovano all’inferno provino poca afflizione e poco strazio, cosa credi ci sia di peggiore che venire abbrutiti da una rabbia incessante, ed uniformarsi sotto ogni aspetto a b
Cfr. Luc. 16, 28: habeo enim quinque fratres. Cfr. Iob 2, 7-8.
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della propria follia al diavolo e ai suoi angeli? E la loro pazzia è evidentemente giustificata, poiché a loro, per i quali la mancanza di speranza in ogni conforto rimane eterna nei secoli dei secoli, cos’altro rimane se non una rabbia sempre nuova? Se la tristezza di questo mondo, testimone l’apostolo, viene definita “operatrice di morte”a, dato che qualcuno per l’astio che prova e per l’eccesso di dolore sente l’impulso di fare violenza a sé stesso, quale amaro desiderio di una morte irremovibile possono covare quelle menti efferate, che non trovano neanche il sostegno di un solo momento di pausa? Anche se ogni tanto l’animo in questa vita viene lenito da false speranze, là vige una severità talmente profonda, senza alcun vano pensiero incoraggiante, che nessuna illusione tale da dare sollievo agli sciagurati anche per un solo momento può sottrarli alla loro pena. Infine, se di quelli che furono strappati dall’inferno alla resurrezione del Signore si dice che fossero immersi nelle tenebre – benché lì non patissero alcuna tenebra, se non quella della sola insoddisfazione, che aumentava ogni giorno a causa delle perenni privazioni della visione di Dio, anche se però non erano privati in alcun modo della speranza di poterla un giorno raggiungere – cosa c’è di più oscuro non dico dei loro occhi, ma dei loro cuori, annebbiati dalla fitta coltre di una tale disperazione? Gli altri dicano pure “il fuoco”, controbattano “lo zolfo”, aggiungano allo stesso modo “il vento tempestoso” b: io esprimo con certezza il parere che per i dannati non ci sia nessun baratro peggiore, nessuna fine più crudele – tormento più duro di qualsiasi carnefice – del fatto che sono destinati a perdere senza alcuna speranza un Signore così pio, così sereno, che, al colmo dell’infelicità e della miseria, sono destinati a non vedere mai e poi mai: infatti non sarebbero mai e poi mai immersi nelle tenebre se trovassero tregua da qualche parte. Se infatti chi vede il Figlio e crede in lui ottiene la vita eterna (Ioh. 6, 40) e questa è la vita eterna, che conoscano te, Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Ioh. 17, 3), tanto che alla beatitudine dei 2 Cor. 7, 10: saeculi […] tristitia mortem operatur. Cfr. Ps. 10, 7: Pluet super peccatores laqueos, ignis et sulphur et spiritus procellarum pars calicis eorum. a
b
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santi basta da sola la visione eterna di Dio, chi oserebbe addirittura opporsi con un parere contrario all’idea che la causa principale, anzi quella specifica della rovina dei dannati sia che sono eternamente banditi dalla contemplazione di Dio? Non sembra assurdo a nessuno, anzi è una verità assodata ed una cosa del tutto verosimile: ciò che fornisce vita ai santi, come gli occhi forniscono luce al corpo, causa ai reprobi la morte, come il venir meno del giorno causa la notte. Alcuni, inoltre, discutono dell’aspetto delle anime affibbiando loro fattezze umane, idea che come non condivido, così nemmeno capisco. Se infatti attribuisci loro orecchie, occhi, narici, labbra, petto e ventre, reni e cosce, piedi e gambe, certamente le fai essere corporee. E se sono corporee, come fanno a stare dentro il corpo? E se ci stanno così come dei vasi più piccoli sono contenuti in vasi più grandi, vorrei sapere come fanno due corpi ad essere racchiusi l’uno dentro l’altro in uno spazio così ristretto (queste cose le dico non contro, ma piuttosto secondo le parole di coloro che hanno scritto che le anime hanno le fattezze dei rispettivi corpi: sono infatti autorità tali che ritengo sconsiderato smentirlea). Se dunque un corpo è inserito in un altro corpo, bisogna che si adatti ad esso in modo che bocca combaci con bocca, mano con mano, ciascuna parte alla parte corrispondente, e che se, come spesso capita, succede che venga mutilato, subiscano l’amputazione due membra al posto di una. Di conseguenza, anche se credi che abbiano queste fattezze, bisogna che tu le circoscriva in posti certi e determinati, e che tu tolga loro tutto ciò per cui sono e sono chiamate “spirito”. E poi quale grandezza avranno? Quale vitalità? Saranno esse maggiori di quelle del corpo? Se si assume come prova il fatto che le anime nelle visioni appaiono con l’aspetto di corpi, questo argomento si demolisce facilmente, poiché quella che si
Si tratta forse di un riferimento a Tertulliano, De anima 9, oppure di un rimando generico a fonti bibliche e patristiche. Guiberto, cautamente, si premura di precisare che è lungi dall’accusare di menzogna chi ha parlato dell’anima in termini fisici, perché quello è l’unico modo in cui essa può essere descritta; contraddire quelle autorità, infatti, comporterebbe il rischio di incappare in accuse di eterodossia. a
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vede in tale circostanza non è né un corpo né un’anima, ma viene ricondotta all’animo solo l’immagine di quel che si è visto. Pensino pure di trovare appoggio nel fatto che il ricco all’inferno aveva una lingua, e Lazzaro un ditoa. Ma vorrei controbattere domandando loro se in quel mondo spirituale c’erano delle acque. Se c’erano, dunque i suoi abitanti necessitavano di queste risorse materiali. Sia pure. E come avrebbero potuto addirittura estinguere il fuoco della Gehenna? Dio mio, a che sarebbe servita una goccia lì, quando invano si sarebbero riversati su quella lingua il Gange e l’Indob? Comprendiamo quindi che a portare la goccia sia la punta del dito di Lazzaro, dato che attraverso quel pur minimo sforzo verrebbe concesso al ricco il dono di una qualche piccolissima indulgenza. Questo è il mignolo che i farisei e gli scribi, dopo aver imposto carichi pesanti ed insopportabili sulle spalle degli uomini, non vogliono alzare per sollevarlic. E se si difende ancora l’immagine umana, cosa ci farà Germano in una sfera di fuoco, secondo il beato Gregorio? Da che parte si recherà Scolastica, trasformata in colombad? Questa intera controversia, perciò, si riduca ad un’unica soluzione: non imputiamo loro né un aspetto umano, né quello di un fuoco né quello di una colomba, ma spogliamo le loro forme da ogni somiglianza con oggetti corporei, e passiamo di manoe tutta la questione alla sottigliezza intellettuale; è infatti sconveniente dire che un’abitazione spirituale abbia degli abitanti corporei. Se le parole del Ancora Luc. 16, 24: Pater Abraham, miserere mei et mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma. b Per Guiberto questi erano fiumi “letterari”, nomi leggendari ed evocativi a prescindere dalla loro reale estensione. Huygens propone un confronto con Solino 52, 6: Maximi in ea (=India) amnes Ganges et Indus. c Matth. 23, 4. d Gregorio Magno, Dial. 2, 34-35. Si tratta di due aneddoti della vita di San Benedetto riguardanti uno l’ascensione al cielo del vescovo Germano da Capua, per l’appunto all’interno di un globo di fuoco, e l’altro quella della sorella Scolastica, sotto forma di colomba. e Il verbo utilizzato dall’autore in latino è singolare: si tratta di mancipo/mancupo, verbo classico che nel lessico tecnico giuridico indicava il trasferimento della proprietà di un bene d’uso, adoperato di frequente, ad esempio, per indicare la cessione di uno schiavo. a
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Signore Gesù, effettivamente, sono: il mio regno non è di questo mondo (Ioh. 18, 36) e non berrò dal frutto della vite finché non lo berrò nuovamente nel mio regno (Matth. 26, 29; Marc. 14, 25) ed ogni giorno si prega che questo regno vengaa, senza dubbio diciamo che il cielo, cioè quella parte superiore della triplice strutturab che per la propria più degna collocazione è detta “seggio di Dio”c, non è nient’altro che questa interiorità spirituale, nella quale il Signore dice di regnare come al di fuori di questo mondo, poiché qui il principe di quest’aria con i suoi seguaci lo contrastano molto, mentre in quello Egli è padrone di ogni cosa in tranquillitàd. Dopo che avrà consegnato questo regno, cioè coloro sui quali ha regnato e regna per mezzo dell’amore, a Dio Padre (1 Cor. 15, 24), allora Dio sarà tutto in tutti (1 Cor. 15, 28). Per questo dice anche al ladrone: oggi sarai con me non “in cielo” ma in paradiso (Luc. 23, 43). Il paradiso infatti è dove si ha la visione perenne di Cristo, cosa che non si trova in nessun posto se non in quel mondo spirituale. Ed Egli infatti non sale al cielo davanti ai propri discepolie per insediarsi nella parte superiore lasciando vacante la parte inferiore, ma come se mostrasse di ottenere un posto più degno, in modo da indicare così ai meno avveduti che egli siede accanto al Padre, dato che presso quel mondo interiore non esiste qualcosa di alto né di basso, né alcuna collocazione, non avendo esso fondamentalmente né tempo né luogo. Come dunque la sfera sensoriale di per sé non dico non aggiunge nulla alla ragione e all’intelletto, ma non vi accede nemmeno – infatti l’essere umano non percepisce le cose di Dio (1 Cor. 2, 14) – mentre la ragione e l’intelletto non solo distinguono queste cose che stanno sotto di loro, ma penetrano anche in quelle divine, così Dio e i santi, come l’intelletto e la ragione,
Riferimento alla preghiera del Padre Nostro. Cfr. Prudenzio, Cathemerinon 9, 14: terra, caelum, fossa ponti, trina rerum machina. c Prudenzio, Peristephanon 5, 521-522. Interessante notare come questa citazione sia probabilmente generata dalla reminiscenza precedente. d Cfr. Luc. 11, 21: (Cum fortis armatus custodit atrium suum,) in pace sunt ea quae possidet. e Act. 1, 9. a
b
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soppesano tutte le cose corporee, ma in modo che niente di corporeo possa toccare né l’Uno, né gli altri. Questi argomenti, percorsi fin qui senza voler precludere opinioni migliori, li difendiamo non con giri di parole, ma con la sola fede.
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INDICI
INDICE SCRITTURISTICO
Genesi 2, 8 2, 23 3, 19 47, 29-39 50, 23-24 Esodo 3, 14 12, 10 16, 18 21, 33
5, 4 6, 23-25
106 84 69 75 75
142 103 84 120
Levitico 1-3 7, 14 11, 44
53 86 95
Numeri 19, 9 22-24 31, 23
129 54, 55 129, 153
Deuteronomio 4, 24 19, 4-5
142 87
Giosuè 2, 1-23 5, 2
60 118
167
118 60
Giudici 11
60
1 Samuele 28, 7-15
75
1 Re 5, 31
79
2 Re 17, 29-30
67
Tobia 12, 6-15
74
Giuditta 12, 1
145
Giobbe 2, 7-8 10, 22 13, 7 14, 21 15, 34 19, 27 30, 17
158 45 52 152 144 145 158
Indice scritturistico
Salmi 6, 6 10, 7 15, 10 32, 15 50, 14 54, 22 57, 9 58, 8 58, 12 64, 10 68, 5 72, 17 72, 25-26 77, 25 77, 33 77, 65 78, 9 87, 6 89, 17 101, 14 104, 4 135, 13-14 Proverbi 16, 33 18, 3 17, 22 Qoèlet 9, 1 9, 10 11, 3
47 156, 159 117 102 81 134 155 146 126 93 105 102 154 95 93 148 60 105 50 101 148 54
101 47, 154 106
140
Sapienza 1, 4-5 5, 3 5, 6 14, 9
90 43 47 134
47 73
Isaia 5, 20 26, 10 28, 19 40, 1 66, 24
53 134 44 137 158
Ezechiele 1, 4-6 33, 19 40, 2-5
141, 148 134 141
Daniele 7, 14 9, 19 10, 12-21
152 60 100
Amos 2, 13 5, 18
148 46
Malachia 4, 2
47
Matteo 1, 18 3, 10 3, 11 3, 13-17 5, 45 6, 6 6, 9 6, 10 7, 6 7, 22 10, 24 10, 41 12, 7 12, 41-42
101 45, 157 44
Cantico dei Cantici 4, 9
Siracide 17, 26 40, 1
168
130 155 125 125 100 141 95 96 147 46 75 78 53 118
Indice scritturistico
17, 1-2 17, 4-5 20, 15 22, 13 23, 4 24, 30 25, 1-11 25, 41 26, 29 26, 28 28, 9 28, 19 28, 20 Marco 4, 29 6, 1-5 10, 52 14, 25 Luca 1, 38 2, 7 2, 19 2, 34 2, 35 3, 17 6, 40 9, 58 10, 5-6 10, 20 11, 3 11, 21 11, 31-32 12, 37 16, 19-25 16, 20-21 16, 22-24 16, 24 16, 27 16, 28 21, 18 23, 43
24, 18 24, 28 24, 30 24, 37 24, 39
104 45 57 144, 154 161 132 45 151 162 87 132 81 83
Giovanni 1, 33 2, 4 2, 21 2, 23-24 3, 3-8 3, 13 3, 18 4, 34 6, 20 6, 40 6, 52 6, 54 6, 57 6, 58 6, 60 6, 67 7, 6 7, 8 7, 30 7, 39 8, 20 8, 23 8, 46 10, 18 11, 49-52 12, 8 12, 31 13, 31 14, 8 14, 10 15, 19 16, 7 16, 22 17, 3 17, 22 18, 36
116 147 58 162
130 56 139 121 139 152 75 95 90 153 42, 95 162 118 126, 134 53 157 155-158 161 157 158 117 162
169
103 133 133 131 131
93 105 154 87 105 108 95 58 131 154, 159 95 87 88 84, 86, 88, 95 87 100 105 105 105 112 105 108 120 105 55 83, 84 151 134 153 108 96 113, 128 153 159 77 96, 162
Indice scritturistico
20, 1-2 20, 24-28 20, 26 20, 27 21, 13 Atti degli Apostoli 1, 3 1, 5 1, 9 2, 27 20, 24 Romani 4, 5 5, 12 6, 9-10 7, 23 8, 2 8, 24 9, 18 9, 21 10, 2 10,10 12, 1 12, 5 14, 6 14, 17 1 Corinzi 2, 13 2, 14 10, 9 10, 11 11, 3 11, 24 11, 29 13, 2 13, 13 14, 15 14, 32 15, 24
103 132 133 125 103, 133
132 125 162 118 87
50 106 109 105 105 127 57 57 53, 66 94 122 72 49 106, 154
145 162 113 142 48 86 94 68 50 151, 154 147 162
15, 28 15, 54
162 134
2 Corinzi 1, 12 3,6 4, 4 5, 16 7, 10 11, 3 11, 29 12, 2 12, 4 13, 3
46 43 42 95 159 142 94 125, 141 147 122
Galati 1, 18 2, 1-2
121 121
Efesini 1, 4 1, 14 2, 2 2, 11 4, 14 5, 29 6, 12
80 42 151 151 53 75 152
Filippesi 2, 7
126
Colossesi 1, 5 1, 16 2, 9
145 135 106
1 Tessalonicesi 4, 13-16 1 Timoteo 3, 16 5, 8 6, 5
170
76
139 97 73
Indice scritturistico
Ebrei 1, 3 5, 8 6, 6 9, 4 9, 24-28 10, 12 11, 1 11, 31-34
42 138 112 129 110 93 127 60
1 Pietro 3, 18 4, 18
110 54
Giuda 5 Apocalisse 1, 7 1, 10 1, 12-16 2, 18 4, 4 7, 9 13, 8 19, 15 20, 1-6 21, 1 21, 19-20
171
113
126 142 143 143 150 150 112 143 150 141 79, 142
INDICE DELLE OPERE NON BIBLICHE
Adalardo di Florennes Miracula sancti Theodorici
Astronomo Vita Hludovici imperatoris 6254
29
Agostino Confessiones 8, 44 4, 6, 11 84 4, 15, 24 143 Contra Academicos 3, 8 81 Contra Adimantum 1751 Contra Faustum 22, 79 51 Contra Mendacium 2, 2 44 De civitate Dei 2, 9 98 De doctrina cristiana 2, 13, 19-20 78 De genesi ad litteram 1, 12 152 De sermone domini in monte 1, 20 51 Epistulae 44 Sermones 44 Tractatus in Iohannis evangelium 11, 2-4 87 Ambrogio De officiis 2, 12, 62
Attone di Basilea Visio Wettini 6-12144 Beda Historia Ecclesiastica gentis Anglorum 5, 12-14 144 Boezio Contra Eutychen Praef. De Divisione De sophisticis elenchis
33, 65, 121 54 54
Cicerone De finibus bonorum et malorum 2, 25, 80
81
Cipriano De Lapsis 25-2696-97 Guiberto di Nogent Contra Iudaizantem et Iudeos 9 De bucella Iudae data et de veritate Dominici corporis 9, 11, 21, 23 De laude sanctae Mariae 9
68
172
Indice delle OPERE NON BIBLICHE
De virginitate 9 Dei gesta per Francos 8, 11, 12 Monodiae 7, 8, 11, 12, 13, 14, 23, 66 1, 2 143 1, 17 8, 9 3, 7-9 8, 64 3, 17 66 3, 20 76 Moralia Geneseos 9 Quo ordine sermo fieri debeat 8 Tropologiae in prophetis 9
Isidoro di Siviglia Etymologiae 8, 5, 8 10, 34
Libellus miraculorum abbatiae Sancti Medardi 18, 30, 135-138 Orazio Ars Poetica 2851 88 33, 121 365110 Carmina 1, 3, 8 84 1, 19, 6 74 3, 1, 1 64
Eginardo Vita Karoli 3254 Ermanno di Tournai Miracula sanctae Mariae Laudunensis Girolamo Apologia contra Rufinum 1, 15 Epistulae 147
150 153
65
Ovidio Amores 1, 9, 40 Metamorphoseon libri 13, 31 Tristia 4, 10, 68
64 32, 64
Gregorio Magno Dialogi 144 2, 34-35 161 4, 29 155 4, 36 144 Epistulae 4, 30 75-76 9, 147 141 13, 40 150 Homiliae in Hiezechielem prophetam 1, 4, 2 60 Moralia in Job 5, 61 141 9, 32 60 Regula Pastoralis 1, 10 67 1, 11 141
58 88 58
Pascasio Radberto De assuntione sanctae Mariae Virginis 70 Passio Eadmundi regis76 Pietro Abelardo Ethica seu Scito te ipsum
10
Plauto Captivi
61
Prudenzio Cathemerinon 9, 14 Peristephanon 5, 521- 522
Guitmondo di Aversa De corporis et sanguinis Christi veritate in eucharistia 102, 103
Quintiliano Institutio oratoria 3, 3, 9
173
162 162
138
Indice delle OPERE NON BIBLICHE
Sallustio Bellum Iugurthinum 58, 4 Seneca De Beneficiis 3, 15, 4
Tertulliano De anima 9160
71
33, 57
Solino Collectanea rerum memorabilium 26, 5 131 52, 6 161 Stazio Thebais 7, 408
59
Svetonio Vitae Cesarum 8, 7
54
Terenzio Hecyra 4, 4, 21-22
136
174
Virgilio Aeneis 2, 774 3, 48 6, 223 6, 733 9, 705 Eclogae 10, 19
117 117 76 155 116
Vita beati Gosvini 1, 17 1, 18
13 30 13
Vita Sansonis
52
Vitae Patrum
102
59
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Bartolomeo, vescovo di Laon: vedi Barthelemy de Jur, vescovo di Laon Battesimo: 49-50, 66, 78, 86, 88, 9293, 99-100, 109, 125 Bayeux: 72 Beauvais: 7, 41, 63 Beda: 144, 150 Bellerofonte: 59 Berengario di Tours: 11, 43 Bernardo, decano di Soissons: 29 Boezio: 54, 65, 123 Boubourg, monastero: 62 Bretagna: 52, 63
Abelardo: vedi Pietro Abelardo Adalardo, abate di Florennes: 29 Adamo: 69, 73, 107 Agiografia: 15, 51, 70 Agostino di Ippona: 8, 44, 51, 64, 78, 81, 84, 87, 98, 143, 152 Aldilà: 14, 19, 44, 144, 156 Alessandro III, papa: 15 Alessandro Magno: 54 Amiens: 71 Angeli: 55, 69, 76, 95, 96, 100, 102, 106, 135, 138, 139, 148, 151, 154, 159 Angély: 70 Angli: 52, 55, 72, 76, 144 Anglia: 52, 54, 76 Anima: 10, 14, 19, 46, 54, 87, 90, 98, 105, 116, 145, 150-154, 158-161 Anselmo di Bec: 8, 10, 52, 53, 66 Antico Testamento: 142 Apparizioni: 61-62, 131-132, 138 Aronne: 129 Arras: 33, 58, 71 Assunzione: 69-70
Cafarnao: 147 Callisto II, papa: 29 Cambrai: 58-62 Canonizzazione: 15 Carlo Magno: 54, 134 Catecumeni: 86, 90 Chiliasmo: 150 Cicerone: 9, 81, 136 Cipriano: 96-97, 102 Cleofa: 103 Clotario I: 13, 41 Comete: 54 Comuni: 8, 9, 64 Concilio di Bordeaux: 43 Concilio di Reims: 29 Concilio di Soissons: 13, 41
Babilonia: 67 Bambini tramite di profezie: 55-57, 136-137 Barthelemy de Jur, vescovo di Laon: 29, 63
175
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Farisei: 161 Filippo I di Francia: 55 Firmino, santo martire: 71
Concubinato: 10 Confessori: 52, 65-67, 93 Consacrazione: 16, 85-86, 93-94, 134 Corbeil-Essonnes: 72 Corpus Iuris Canonici: 15 Costantina Augusta, imperatrice d’Oriente: 76 Costantinopoli: 70 Coucy-le-Château-Auffrique: 8 Cristo, corpo di: 15-16, 26, 42, 97, 119, 124, 139 Cristo, infanzia di: 129-130 Cristo, Passione di: 104-112, 132-133 Cristo, reliquia del cordone ombelicale: 16, 79, 83, 113, 118, 119, 125, 127, 130, 133 Cristo, reliquia del dente: 13, 16-18, 21-22, 30, 41, 79, 83, 87, 113, 116119, 122, 125-128, 133-138 Cristo, reliquia del pane: 65 Cristo, reliquia del prepuzio: 16, 79, 83, 151 Crociate: 8-9 Crocifissione: 17, 104, 108-111
Gange: 161 Gaudry, vescovo di Laon: 64 Gehenna: vedi Inferno Geoffroy Coucerf, abate di SaintMédard di Soissons: 13, 29-30 Geremia: 142 Germano, vescovo di Capua: 161 Gerusalemme: 121 Giacobbe: 75 Giacomo, apostolo: 104, 133 Giano bifronte: 148 Giobbe: 45, 52, 152, 158 Giovanni Battista: 70, 71, 152 Giovanni Battista, reliquia della testa: 70, 71 Giovanni Evangelista: 87, 104, 133, 142 Girolamo: 31-32, 64, 136 Girolamo pseudo: 70 Giuda Iscariota: 45, 83, 100, 134 Giuda Taddeo, apostolo: 113 Giudei: vedi Ebrei Giulio Cesare: 54 Giuseppe: 75 Goffredo di Amiens: 71 Gosvino d’Anchin, santo: 13 Gregorio I Magno, papa: 8, 60, 75, 143-144, 150, 155, 161 Gregorio IX, papa: 15 Guglielmo il Vecchio, re degli Angli: 72 Guitmondo di Aversa: 102, 103
Daniele: 100, 142 Dannati: 19, 45, 66, 94, 144, 150-160 Davide: 146 Demoni: 61, 152 Diavolo: 44, 96, 150-156, 159 Discepoli di Emmaus: 33, 132 Donatismo: 66, 92 Duello ordalico: 65 Ebrei: 67, 87, 92, 100, 118, 120, 126, 129 Edmondo, re degli Angli e santo martire: 76-77 Eginardo: 54 Egitto: 113 Eresia: 18, 23, 66, 92, 104, 118, 150 Eretici: vedi Eresia Erlebaldo, decano di Cambrai: 32, 61-63 Ermanno di Tournai: 65 Esuperio di Bayeux, santo: 72 Eva: 69 Ezechiele: 141, 148
Iefte: 60 Indo: 161 Inferno: 19, 43, 47, 90, 96, 152, 154-161 Innocenti, santi: 56 Isaia: 44, 142 Isidoro di Siviglia: 34, 153 Israeliti: 113
176
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Ottaviano Augusto: 54 Ovidio: 7, 9, 88
Lanfranco di Canterbury (o di Pavia): 43, 52, 53 Laon: 8, 23, 29, 57, 63, 64, 130 Lapsi: 96-97 Lazzaro: 155-158, 161 Lisiardo, vescovo di Soissons: 29 Lorenzo, santo: 75 Lotaringia: 54 Ludovico il Pio: 13, 41, 54, 134 Luigi VI il Grosso: 8, 29, 54 Luni: 136
Pagani: 71, 76, 91, 97, 100, 103, 151 Paolo, apostolo: 75, 76, 86, 113, 121 Paolo apostolo, reliquia della testa: 76 Paradiso: 106, 162 Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 2900: 20-30, 32, 43, 67, 89, 100, 102, 156 Pascasio Radberto: 70 Pasqua: 55 Pasquale II, papa: 8 Patroni: 23, 33, 67 Peccato originale: 69, 105, 106, 141 Pegaso: 59 Pietro, apostolo: 100, 104, 110, 118, 121, 133 Pietro Abelardo: 10, 13, 41 Pipino il Breve: 13, 41 Pirati: 136 Pirone, santo: 52 Plauto: 61, 64 Portovenere: 136, 137 Profezie: 19, 55, 62, 142-144
Manichei: 66 Manna: 84 Mar Rosso: 54 Mare Panfilico: 54 Maria Maddalena: 103 Maria Vergine: 9, 18, 42, 68, 69, 83, 88, 100, 105, 114, 130, 138-139 Maria Vergine, reliquia del latte: 130 Martino, santo: 67 Martirio: 15, 50, 52, 56, 65-66, 139, 146 Medusa: 59 Melchiade, papa: 77 Michele, principe degli Ebrei: 100 Millenarismo: vedi Chiliasmo Miracoli: 14-15, 54- 57, 59, 63-65, 7677, 134-137, 147 Mondo interiore: 19, 43, 140-141, 149, 151-156, 162
Quintino, santo: 57 Raab: 60 Re taumaturghi: 54, 55 Realtà del sacramento: 16, 35, 90-103 Remigio, santo: 67 Riforma gregoriana: 9, 10, 92, 93 Roberto, duca di Normandia: 72 Rodolfo, arcivescovo di Reims: 57
Nazareth: 147 Nogent-sous-Coucy: 8, 21, 29 Norberto di Xanten, abate di Prémontré: 29 Notre-Dame di Nogent, abbazia: 8, 13, 14, 18, 71 Nuovo Testamento: 110, 141, 142
Sacramento: 16-17, 26-28, 35, 42, 80, 84-104, 112-113, 124-125 Saint-Denis, abbazia: 71, 72 Saint-Germer de Fly: 7, 8, 22 Saint-Médard di Soissons: 13, 14, 17, 18, 22, 25, 26, 29, 30, 41, 84, 93, 116, 123, 124, 134, 136 Saint Quentin: 57 Saint-Vincent di Laon: 21, 23, 29 Sallustio: 71, 136 Salomone: 44, 45, 101, 106, 157
Oddone, abate di Saint-Symphorién di Beauvais: 14, 21-22, 25-26, 29, 41 Oddone di Bayeux: 72 Orazio: 9, 14, 33, 121 Origene pseudo: 79-80 Orosio: 136 Ostia: 16, 56-57, 88, 96, 108-109
177
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
Terenzio: 9, 64, 137 Tiberio II Costantino: 76 Tito Livio: 136 Tommaso, apostolo: 51, 125, 132 Transustanziazione: 11, 43, 102 Trasfigurazione: 104, 133
Samaritani: 67 Samuele: 75 Sansone, santo: 52 Santità: 15, 18, 52, 53, 63, 72, 112, 139 Saraceni: 136, 137 Sardanapalo: 59 Satana: vedi Diavolo Scolastica, sorella di Benedetto da Norcia: 161 Scrofola: 54 Seneca: 9, 33, 57, 136 Sepoltura: 74-77, 109 Sigfrido, priore di Saint-Nicolas di Blois, poi abate di Saint-Vincent di Laon: 21, 23, 29 Simonia: 7, 10, 15, 93, 94 Soissons: 13, 23, 29, 30, 41, 55, 57, 66, 120, 134 Spirito Santo: 42, 90, 92, 102, 105107, 137, 157 Suicidio: 24-25, 155, 159
Ultima cena: 112 Vescovi indegni: 91-92 Vespasiano: 54 Virgilio: 7, 9 Visioni profetiche: 19, 141-150, 160 Wynfrith: 78 Zaccaria, papa: 78
178