Ragione, verità, storia


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Ragione, verità, storia

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il Saggiatore

ECONOMICI

Hilary Putnam

, RAGIONE, VERITA E STORIA La natura della ver ità, una concezione plau sib il e dell a razionali tà, un idea del bene, il sen o del mutamento nel tempo delle nostre visioni del mondo, sono alcune delle grandi questioni della filosofia trattate da Putnam in un libro che è un elogio della nostra, runana ragione. E d alu:onde, in che co 'altro dovrebbe consistere l attività della filosofia? ■

Hilary Putnam

Ragione, verità e storia edizione italiana a cura di Salvatore Veca

il Saggiatore

© Cambridge U niversity Press 1981 e il Saggiatore, Milano 19 8 5 Titolo originale: Reason, Truth and History Traduzione di Alessandro Nicolò Radicati di Brozolo Prima edizione: maggio 1985

Sommario

p. VII

Premessa di Salvatore V eca Ragione, verità e storia

3

Prefazione

7

I.

Cervelli in una vasca

29

II.

Un problema sul riferimento

57

III.

Due prospettive filosofiche

83

IV.

Mente e corpo

113

v. Due concezioni della razionalità

1 39

VI.

16 3

VII.

18 9

VIII.· L'impatto della scienza sulle concezioni moderne della razionalità

21 7

IX.

2 33

Appendice

Fatto e valore Ragione e storia

Valori, fatti e conoscenza

Premessa

Questo libro è un saggio sulla natura della nostra, umana, ragione. L'idea principale di Hilary Putnam è che la nostra concezione della verità presuppone quella della razionalità e che questa, a sua volta, presuppone un'idea del bene o un qualche insieme di valori. Se vogliamo dare un resoconto plausibile e sensato del nostro essere razionali, questi sembrano essere i nessi appropriati fra ccverith e ccragione)). Per quanto riguarda la ccstoria)J, i crited di accettabilità o giustificazione razionale non sono una sorta di canone fisso e invariabile, scolpito da qualche parte nel mondo, nelle menti o nei discorsi sul metodo: essi mutano nel tempo. Riconoscere ciò e gettar luce sul nostro essere razionali, sui modi della ragione, coincide con un argomento di natura ccconcettuale>J che riformula, in una versione più debole, il celebre argomento trascendentale di Kant. • Putnam sostiene che una soddisfacente concezione della razionalità richiede un'indagine sulle precondizioni del nostro essere e riconoscerci come parlanti e pensanti. In fondo, ci impegnamo a credere in un qualche tipo di razionalità solo perché prendiamo sul serio e non riteniamo futile il fatto che ci accade di discutere. Potremmo certo immaginare una forma di vita in cui esseri apparentemente simili a noi - automi perfezionati e generati da automi progettati da nipoti di samurai giapponesi - non riuscissero a dare importanza al fatto che accadano cose buffe come discussioni fra parlanti. Questa forma di vita sarebbe certo una storia interessante e attraente (e, per altro, fisicamente e logicamente possibile: dopo tutto gli automi funzionano perfettamente). Essa, tuttavia, non sarebbe per noi concettualmente possibile: sarebbe una finzione, non una storia ccvera)). Come ha osservato Wittgenstein - un filosofo che con Kant sembra avere un ruolo di primo piano in questo libro di Putnam - vi sono condizioni per cui è possibile un qualsivoglia uso significativo del linguaggio o sistema di comunicazione. Una storia ccvera)J è quella che un essere razionale accetterebbe se avesse una sufficiente esperienza del tipo che è effettivamente

VIII

Premessa

possibile che abbiano esseri della nostra natura, con la nostra cultura e la nostra biologia. Per buona parte, l'indagine sulla razionalità di Putnam è formulata nei termini di una prospettiva fùosofica di ccrealismo interno)) a proposito della verità. Questa prospettiva, cui Putnam giunge dopo una lunga e complessa elaborazione della teoria del riferimento, si contrappone al realismo metafisico o ccesterno)) e alla connessa idea della verità come corrispondenza. Il realista metafisico adotta il punto di vista dell'occhio di Dio: il mondo consiste di una totalità fissa di oggetti indipendenti dalla mente. Esiste una sola descrizione vera di come il mondo è. La verità implica una corrispondenza. Il realista interno, dopo Kant e Wittgenstein, obietta che non c'è qualcosa come il punto di vista dell'occhio di Dio: di nuovo, non sarebbe per noi riconoscibile da che punto di vista verrebbero raccontate storie ccvere)) sul mondo e sulla parte che hanno in esse le nostre credenze e azioni. Chiedersi di quali oggetti consista il mondo ha senso solo alt'interno di una data teoria o descrizione o versione del mondo, per usare un termine di Nelson Goodman (la cui ricerca, come del resto quella di Quin,e, ha una marcata influenza sugli esiti di Ragione, verità e storia). Vi è più di una descrizione ccvera)) (o versione ccgiusta)1) del mondo. La verità risulta così una sorta di idealizzazione dell'accettabilità razionale, alla Peirce. (Putnam mantiene l'intuizione realista per cui la verità è indipendente dalla giustificazione o accettazione qui e ora, anche se non è indipendente da qualsiasi giustificazione: dopo tutto è ccinterno)), ma ccrealismo)1 !) . .Un resoconto plausibile del nostro essere razionali sembra perciò indurci a rinunciare al punto di vis~a dell'occhio di Dio. Ciò che vi è, si presenta piuttosto come una varietà di punti di vista di persone reali, nel tempo, che riflettono una varietà essenziale di interessi e scopi, sottesi alle loro descrizioni, versioni, teorie. (Per questo, con buona pace di JeanFrançois Lyotard, è un fatto che noi impieghiamo il linguaggio per una varietà di scopi.) Putnam mantiene così l'impegno cui allude la metafora filosofica conclusiva del suo precedente libro del '78, Meaning and Mora! Sciences (Verità e etica). La metafora consiste in una modificazione dell'immagine di Kant della nostra conoscenza del mondo (ccUna specie di commedia; l'autore è l' io)1): cc Gli autori ( al plurale, la mia immagine della conoscenza è sociale) non scrivono semplicemente una storia: ne scrivono molte versioni. E gli autori nelle storie sono gli autori reali. Il che sarebbe "'irragionevole" se queste storie fossero finzioni. Un personaggio della fantasia non può essere anche un autore reale. Ma queste sono storie vere)1.

Premessa·

IX

Ora, se la verità presuppone criteri di accettabilità razionale e ha senso parlarne entro le nostre descrizioni o versioni o teorie, il collasso dell'idea di un'unica descrizione di come il mondo è, ci lascia inesorabilmente in balia del relativismo? Se il positivismo logico non funziona, dobbiamo trasformarci, come Zelig, in fanatici dell'anarchismo metodologico? Il resoconto di Putnam del nostro essere razionali nel tempo - e quindi della storia dei nostri criteri di accettabilità o di giustificazione - non implica che sia inevitabile adottare la prospettiva di Feyerabend (o di Foucault). Considero la confutazione del relativismo, sia nella versione ccmoderata)) della tesi della incommensurabilità sia nella versione ccestrema)) del solipsismo metodologico, uno degli argomenti filosoficamente più attraenti di questo libro. (Le pagine di Putnam hanno il fascino intellettuale che emana, per esempio, dalla ricostruzione di Saul Kripke dell'argomento di Wittgenstein su ccseguire una regola)); a me sembra, come accennerò, che vi sia un nesso significativo fra questi due esiti maturi della filosofia analitica.) L'idea centrale è che le tesi del relativista e del solipsista metodologico sono in un qualche senso tesi che si confutano da sé (il lettore o la lettrice seguiranno con passione e suspence il caso paradigmatico di autoconfutazione, incontrando la storia fantascientifica dei cccervelli in una vasca))). Sostenere, come fa Putnam, che tesi di quel tipo sono autoconfutanti, equivale a rendere concettualmente profonda la constatazione banale che è maledettamente difficile convivere con lo scetticismo, visto che come sapeva David Hume - abbiamo tutti un'esperienza schizofrenica a seconda se siamo filosofi scettici a tavolino nel nostro studio o se usciamo e andiamo al ristorante, all'università, in ufficio o in fabbrica, alla stazione, o ci troviamo in un tete-à-téte con il nostro amore. Accettare la tesi dell'incommensurabilità (ben nota ai filosofi della scienza, almeno a partire da Kuhn) vuol dire non rendere conto della nostra, umana, capacità di fare decenti traduzioni ( e di migliorarle, se è il caso) e impegnarsi a trattare noi (o le sezioni cc contemporanee)) di noi) come pensanti e parlanti ma non gli altri cui è accaduta la sorte di vivere in un mondo passato (i loro suoni, p.e. ccmassa)J, ccelettroneJJ, ccgiustizia)J, ccbellezza)J, ecc. sono così incommensurabili da non essere, per noi, che semplici suoni). D'altra parte, accettare la tesi del solipsismo metodologico significa sostenere qualcosa come un principio di ccverificazione)J nei termini del linguaggio privato di ciascuno di noi: ccè vero che sto scrivendo questa premessa al libro di Putnam)) dipende da qualche esperienza privata di Salvatore per cui è ccvero~per Salvatore» che sto scrivendo questa premessa e è ccvero-per Nicoletta)) che sto scrivendo questa premessa in quanto ciò dipende da qual-

X

Premessa

che esperienza privata di Nicoletta. Accettare questa tesi vuol dire impegnarsi a non trattare neppure se stessi come parlanti e pensanti. Nel senso che evaporerebbe la differenza, per noi, fra avere ragione e credere di avere ragione (qui vi è una intersezione con l'argomento di Wittgenstein su cc seguire una regola,,, nella versione di Kripke ). Se il solispista o la solipsista sono coerenti, essi sono tenuti a una sorta di suicidio mentale. Una concezione plausibile del nostro essere razionali rende conto del nostro ricorrente interesse per la storia. Vi è quindi un nesso significativo fra il nostro essere e riconoscerci come pensanti e parlanti e il nostro trattarci come persone, fra le nostre ragioni e le nostre pratiche in un mondo umano (un'eco dell'idea di Clarence I. Lewis di ccmondo condiviso>) e della cccooperazione» per fini umani?). Ciò può suonare bizzarro o patetico, per una tradizione di pensiero abitùata e addestrata a convivere con una chiara e netta distinzione tra fatti (il modo in cui il mondo è, indipendentemente dalle menti) e valori (le nostre idiosincrasie su come esso dovrebbe essere). Tuttavia, le cose cambiano e possiamo forse vederle in un'altra luce se rifiutiamo, con Putnam, di dare un credito eccessivo alle due grandi dicotomie implicite nelle nostre osservazioni: quella fra concezior e oggettiva e concezione soggettiva della verità e quella fra concezione assoluta e concezione relativa dei canoni o crited di razionalità. La deferenza verso l'immagine di un mondo diviso tra fatti e valori ha importanti radici nella nostra cultura, ma non è così inesorabile né irrevocabile - come del resto non lo è quasi alcuna deferenza verso istituzioni culturali e esperti. Pensare al mondo come un mondo diviso tra fatti e valori, tra fatti ccneutri» e pregiudizi ccarbitrari,, è qualcosa di molto affine all'idea di un'unica descrizione vera del mondo (contrapposta a una pluralità selvaggia e incommensurabile di versioni di esso) e a quella, connessa, di un canone di razionalità (qui opera forse il feticismo epistemologico del metodo scientifico) e del relativismo del cctutto va bene». Se le prime due dicotomie perdono un po' della loro ferrea presa sui nostri modi di pensare, anche la terza può essere rivista, una volta che si prenda sul serio l'idea di un resoconto umano e plausibile del nostro essere razionali. Qualsiasi fat. to appare allora permeato di w:i. qualche valore; e un valore è comunque presupposto perché si possa parlare di un mondo di ccfatti». Non nel senso banale che ogni versione del mondo presuppone un qualche valore, ma nel senso più interessante per cui ciò che conta come mondo per noi, implica un qualche valore, la scelta di uno schema concettuale per un qualche interesse e per le sue virtù cognitive. Siamo così indotti in modo piano e naturale a ridescrivere il Mobilio

. Premessa

XI

del mondo e il catalogo appropriato sembra dover includere tanto farri empirici quanto fatti di valore. L'argomento sull'etica e sulla ragione pratica (che Putnam aveva abbozzato nel libro del '78) presenta aspetti di grande interesse per la filosofia morale. Esso si basa sull'idea che vi sia una connessione fra il fatto di impiegare uno schema concettuale per descrivere i fatti moralmente rilevanti e il fatto di avere certi tipi generali di scopi anziché altri. Ciò implica un resoconto più plausibile della nostra capacità di giustificare, accettare, discutere e rifiutare (se è il caso) argomenti a proposito degli ideali dello sviluppo e della fioritura dei beni umani. Naturalmente, ciò ha luogo entro una tradizione, che è la nostra. Come per il punto di vista dell'occhio di Dio, non è il caso di assumere la prospettiva di un'etica della creazione, per dirla con John Rawls. Una concezione migliore della razionalità e del bene si può ottenere entro la nostra tradizione cc con tutta l'eco che viene dall'agorà greca, da Newton e così via, nel caso della razionalità, e con tutta l'eco che viene dalle sacre scritture, dai filosofi, dalle rivoluzioni democratiche e così via, nel caso della moralità>>. Tutto ciò non vuol dire che le concezioni che abbiamo attualmente siano completamente accettabili e ragionevoli. Vuol dire semplicemente che esse sono migliori di altre, nel tempo; e che, per questo, possiamo migliorarle e possiamo riconoscere questo come uno scopo razionale e degno di essere perseguito. Ragione, verità e storia sembra quindi essere qualcosa come un elogio della nostra, umana, ragione. E d'altronde, alla fine, in che cos'altro dovrebbe consistere l'attività della filosofia? Salvatore Veca

Ragione, verità e storia

ARuthAnna

Prefazione

Lo scopo che mi sono proposto in questo libro è quello di spezzare la ferrea presa che un certo numero di dicotomie sembra avere sul pensiero sia dei filosofi sia dei profani. La principale fra esse è la dicotomia tra le concezioni oggettiva e soggettiva della verità e della ragione. Il fenomeno cui mi riferisco è il seguente: una volta che una dicotomia come quella tra ccoggettiVO)) e ccsoggettivo)) è stata accettata, accettata non come una semplice coppia di categorie, quanto piuttosto come una caratterizzazione di tipi di concezioni e stili di pensiero, i filosofi cominciano a considerare i termini della dicotomia quasi come altrettante etichette ideologiche. Molti filosofi, forse addirittura la maggior parte di essi, accettano una qualche versione della teoria della verità come cccopia)), cioè quella concezione secondo cui un'asserzione è vera se essa cccorrisponde ai fatti (indipendenti dalla mente))) e per i filosofi di questa schiera l'unica alternativa è data dalla negazione dell'oggettività della verità, che costituirebbe una resa di fronte all'idea che tutti gli schemi di pensiero e tutti i punti di vista sono disperatamente soggettivi. C'è naturalmente una audace minoranza di filosofi (per esempio Kuhn, almeno in alcuni suoi momenti, Feyerabend e alcuni importanti filosofi continentali come Foucault) che si schierano sotto l'etichetta opposta. Essi concordano sul fatto che l'unica alternativa a una concezione ingenua della verità come copia, consiste nel considerare soggettivi i sistemi di pensiero, le ideologie e persino (secondo Kuhn e Feyerabend) le teorie scientifiche e quindi propongono in maniera vigorosa una visione relativistica e soggettivistica. Il fatto che tale controversia filosofica assuma quasi la forma di una disputa ideologica non è, di per sé, necessariamente un male: le nuove idee, persino nelle scienze più esatte, vengono spesso sostenute e attaccate con vigore partigiano. Anche in politica, una polarizzazione e un fervore ideologico sono talvolta necessari per infondere serietà morale alla discussione di un dato problema. Con il tempo, tuttavia, sia in filosofia sia in politica, le idee nuove diventano vecchie. Ciò che prima era rivoluzionario di-

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Prefazione

viene scontato e noioso e ciò che in precedenza serviva per concentrare l'attenzione dove essa era necessaria diviene in seguito un ostacolo che impedisce di vedere nuove alternative. Questo si sta ora verificando nel dibattito tra le concezioni della verità come corrispondenza e le concezioni soggettivistiche. Nei primi tre capitoli di questo libro tenterò di presentare ima concezione della verità che unisce componenti oggettive e com-· ponenti soggettive. Tale concezione, almeno nello spirito, si rifà alle idee di Immanuel Kant: essa sostiene che è possibile rifiutare una semplice concezione della verità come cccopia,, senza dover necessariamente sostenere che è tutto una questione di Zeitgeist, di cambiamenti di Gestalt o, semplicemente, di ideologia. La teoria che esporrò sostiene, per dirla in maniera approssimativa, ,.he esiste un nesso molto stretto tra le nozioni di verità e di razionalità e che, molto schematicamente, l'unico criterio per decidere che cosa sia un fatto è quanto è razionale accettare (intendo questo in senso strettamente letterale e generalizzando: così, ad esempio, se può essere razionale accettare il fatto che un quadro è bello, sarà allora un fatto che il quadro sia bello). In questa teoria ci possono essere fatti di valore, ma la relazione tra accettabilità razionale e verità è una relazione tra due diverse nozioni. Un'asserzione può essere accettabile razionalmente ma, al tempo stesso, non vera: questa intuizione realista sarà mantenuta nella mia esposizione. Tuttavia, non credo che la razionalità sia definita da un insieme di cccanoni,, o ccprinciph, invariabili: i principi metodologici sono intrecciati con la nostra visione del mondo, in cui è inclusa la nostra concezione di noi stessi come parte del mondo, e tali principi cambiano nel tempo. Perciò, sono d'accordo con i filosofi soggettivisti quando affermano che non esiste alcun organon fisso e astorico che definisce che cosa significhi essere razionale: ma dal fatto che le nostre concezioni della ragione evolvono nella storia non traggo, però, la conclusione che la ragione stessa possa essere (o diventare) qualsiasi cosa e neppure, come fanno i filosofi francesi, giungo a qualche strana mescolanza di relativismo culturale e di ccstrutturalismo,,. La dicotomia tra canoni invariabili e astorici della razionalità e relativismo culturale è una dicotomia che considero sorpassata. Un'altra caratteristica della teoria è che la razionalità non si limita a una scienza sperimentale, ma non si differenzia in maniera fondamentale da una scienza sperimentale, né è completamente estranea a essa: La concezione opposta mi sembra un'eredità del positivismo: essa si basa sull'idea che il mondo scientifico sia in qualche modo costruito a partire da ccdati sensoriali,, e sull'idea che i termini nelle scienze sperimentali siano ccdefiniti in modo operazionale,,. Non perderò molto tempo a criticare le

Prefazione

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concezioni operazioniste e positiviste della scienza, poiché esse sono già state ampiamente criticate nel corso degli ultimi vent'anni. L'idea empirista secondo la quale i dati sensibili costituiscono una sorta di ccpiano terreno oggettivo,, per almeno una parte _della nostra conoscenza sarà riesaminata nel terzo capitolo alla luce di quello che avremo detto sulla verità e la razionalità. In breve, proporrò una tesi per la quale la mente non cccopia,, semplicemente un mo~do che può essere descritto da un'Unica teoria vera. La mia tesi, però, non sostiene neppure che la mente costruisce il mondo (né lo costruisce sottomessa a vincoli imposti da cccanoni metodologici,) e da cc dati sensoriali,) indipendenti dalla mente). Volendo usare un linguaggio metaforico, diremmo che la mente e il mondo costruiscono insieme la mente e il mondo (o per rendere la metafora ancor più hegeliana, l'Universo costruisce l'Universo, con le menti che, collettivamente, svolgono un ruolo particolare nella costruzione). Un'ulteriore caratteristica del mio resoconto della razionalità è la seguente: tenterò di mostrare che la nostra nozione di razionalità non è, in fondo, che una parte della nostra concezione della fioritura umana, ossia della nostra idea del bene. La verità dipende profondamente da quelli che sono stati recentemente chiamati «valori,) (cfr. cap. 6). Ciò che ho detto in precedenza sulla razionalità e la storia si può applicare ugualmente al valore e alla storia: non esiste, infatti, alcun insieme dato astorico di ccprincipì morali)) che definiscano una volta per tutte in che cosa consista la fioritura umana, ma ciò non significa tuttavia che tutto sia soltanto relativo e dipendente dalla cultura. Poiché, a mio avviso, lo stadio attuale della teoria della verità - la dicotomia tra le teorie della verità come copia e le spiegazioni soggettive della verità - è responsabile, per lo meno in parte, della famosa dicotomia ccfatto /valore)), soltanto se si scaverà molto in profondità e si correggeranno le nostre stesse idee di razionalità e verità si potrà superare la dicotomia fatto/ valore (una dicotomia che, nel senso in cui viene generalmente compresa, ci impegna virtualmente a una qualche forma di relativismo). L'immagine che si ha attualmente della verità è un'immagine alienata: essa infatti fa sì che si perda una parte o un'altra di noi stessi e del mondo e che si consideri il mondo formato semplicemente di particelle elementari che si muovono nel vuoto (questa è l'immagine ccfisicalistaJJ, secondo la quale la descrizione scientifica convergerebbe nell'Unica teoria vera), o che si consideri il mondo formato semplicemente di cc dati sensoriali reali e possibili)) (questa è la teoria empirista, che è più antica della precedente), oppure addirittura che si neghi l' esistenza stessa del mondo, in opposizione a tutta una serie di storie che si

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Prefazione

sarebbero inventate per varie ragioni (soprattutto inconsce). Lo scopo che mi sono prefisso in quest'opera è di delineare le idee principali di una concezione non alienata. · Alcuni concetti che esporrò in questa sede li ho già proposti nella lezione Herbert Spencer Philosophers and Human Understanding, che ho tenuto all'Università di Oxford nel 1979 e che si basava su studi non ancora ultimati, e nell'articolo 'Si Dieu est mort, alors tout est permis' ... (reflexions sur la philosophie du langage), apparso in ccCritique,,, 1980. Fondi concessimi dalla N ational Science Foundation hanno finanziato ricerche condotte negli anni 197 8-80, sulle quali si basa questo libro: ringrazio tale. ente per la sua collaborazione. Thomas Kuhn e Ruth Anna Putnam hanno studiato le versioni successive di quest'opera e mi sono avvalso delle loro critiche e dei loro validi suggerimenti. Inoltre, mi sono stati molto utili i consigli datimi da molti amici, tra i quali Ned Block, David Helman e Justin Leiber, e dagli studenti che hanno assistito alle mie numerose lezioni e ai seminari che ho tenuto a Harvard. Alcuni capitoli di questo libro mi sono serviti come testo per lezioni che ho tenuto a Lima nella primavera del 1980, durante un soggiorno finanziato dalla Fulbright Commission e nel corso del quale ho portato a compimento il secondo capitolo. In quel periodo ho avuto interessanti colloqui con Leopoldo Chiappa, Alberto Cordero Lecca, Henrique Fernandez, Francisco Miro Quesada e Jorge Secada. L'intero libro è servito da testo (in una versione non ancora definitiva) per un ciclo di lezioni tenute all'Università di Francoforte nell'estate del 1980. Voglio esprimere qui la mia gratitudine ai colleghi di quell'università (in particolare a Wilhelm Essler e a Rainer T rapp ), allo stimolante gruppo di studenti e a molti altri amici che ho in Germania (specialmente a Dieter Henrich, Manon Fassbinder e Wolfgang Stegmiiller) per il loro incoraggiamento e per le interessanti discussioni avute con loro. Dovrei anche ringraziare uno per uno i miei colleghi del dipartimento di filosofia di Harvard. Nelson Goodman e io abbiamo notato che le nostre idee stanno convergendo con il passare del tempo e, mentre la prima versione di quest'opera è stata scritta prima che io avessi l'opportunità di leggere il suo libro W ays of W orldmak_ing, la lettura di quel libro e le discussioni che ho avuto con lui sui temi delle nostre opere sono state importanti per le versioni successive. Infine, sono molto grato a Jeremy Mynott per il suo incoraggiamento e per i consigli che mi ha dato nella sua veste di redattore.

1.

Cervelli in una vasca

Una formica cammina su una spiaggia di sabbia e, camminando, traccia una linea sulla sabbia. Per caso, la linea da essa tracciata fa una curva a un certo punto e, tornando indietro, incrocia se stessa parecchie volte, sino a divenire una caricatura riconoscibile di Winston Churchill. La formica ha tracciato un'immagine di Winston Churchill, un'immagine che fo rappresenta? . . . · La maggìor parte della gente, dopo una breve riflessione, risponderebbe di no a tale domanda. In effetti, la formica non aveva mai visto Churchill, e neppure una fotografia di Churchill, e non aveva alcuna intenzione di disegnarne l'immagine: essa ha semplicemente tracciato una linea (perfino questo atto era, d'altronde, inintenzionale), una linea che noi possiamo cc vedere come,) un'immagine di Churchill. Possiamo ·esprimere questo concetto dicendo che la linea non è. in ccse stessa)) una rappresentazione 1 di una cosa piuttosto che di qualsiasi altra. La rassomiglianza (di ·un tipo molto complicato) con le fattezze di Winston Churchilfnon è sufficiente perché qualcosa rappresenti Churchill o si riferisca a lui. Del resto, la rassomiglianza non è neppure necessaria: nella nostra comunità l'immagine stampata di Winston Churchill, le parole stesse cc Winston Churchill), e molte altre cose sono usate per rappresentare Churchill (sebbene non in maniera pittorica), ma non hanno quel tipo di rassomigli~nza con Churchill che ha un'immagine - o anche solo uno 1 In questo libro i termini «rappresentazione» e «riferimento» si riferiscono sempre a un~_relazjone tra una parola (o un altro tipo di segno, simbolo o rappresentazioneL: qualche cosa che realmente esiste (ossia ·non soltanto un «QggTit_o_ del ~s_ie.!_o» ). Vi è un senso di «riferirsi» per cui io posso «riferirmi» a qualcosa che non esiste; non è questo il senso in cui «riferirsi» è usato qui. Un termine più vecchio per designare quello che qui chiamerò «rappresentazione» o «riferimento» è denotazione. Inoltre, seguendo l'uso dei logici moderni, userò il termine «esistere» per indicare «esistere nel passato, nel presente o nel futuro»: perciò, Winston Churchill cc esiste» e lo si può rappresentare o ci si può riferire sebbene egli non sia più in vita.

8

Ragione, verità e storia

schizzo disegnato. Se la rassomiglianz,a non è necessaria né sufficiente pe.r far sì che qualcosa rappresenti qualcos'altro, come può una qualche cosa_ essere necessaria o sufficiente per tale scopo? Come può una cosa rappresentare una cosa differente (o cc stare per>) essa)? . La risposta può sembrare facile. Supponiamo che la formica abbia visto Winston Churchill e supponiamo inoltre che essa abbia l'intelligenza e le capacità che le permettano di disegnarne un'immagine. Supponiamo che essa abbia fatto intenzionalmente la caricatura: in questo caso potremo dire che il disegno rappresenta Chure::hill. Si supponga ora invece che il disegno abbia la forma WINSTON CHURCHILL e si supponga che questo sia un puro caso (trascurando l'improbabilità della situazione): in questo caso, allora, l' ccimmagine stampata)) WINSTON CHURCHILL non rappresenta Churchill, sebbene quella forma stampata rappresenti Churchill quando essa occorre in un qualsiasi libro oggi. Potrà dunque sembrare che quello che è necessario per la rappresentazione, o almeno quello che è soprattutto necessario per la rappresentazione, sia l'intenzione. Tuttavia, per avere l'intenzione per cui una cosa qualsiasi, persino un linguaggio pri-v.ato (come le parole ccWinston Churchill)) dette soltanto tra me e ~e e non ad alta voce) possa rappresentare Churchill, si dovrà essere stati in grado, in primo luogo, di pensare a_ Churchill. S~ linee tracciate sulla sabbia, rumori e così yia non possono in se stessi rappresentare alcunché, come possono delle forme pensate rappreseni:aré in se stesse qualcosa? O lo possono? Come può il pensiero percepire e ccafferrare)) ciò che è esterno? In passato, alcuni filosofi mossero da questo tipo di considerazioni per giungere alla conclusione che essi ritenevano essere una dimostrazione del fatto che la mente è di natura essenzialmente non fisica. Il ragionamento è semplice: ciò che abbiamo detto della linea tracciata dalla formica si può applicare ugualmente a qualsiasi oggetto fisico. Nessun oggetto fisico può, di per se stesso, riferirsi a una cosa piuttosto che a un'altra; eppure i · pensieri nella men~~ rt~scono evidentemente a riferirsi a una cosa piuttosto che a un'altra. Perciò, i pensieri (e quindi anche la mente) sono di una natura intrinsecamente diversa da quella degli oggetti fisici. I pensieri hanno la caratteristica dell'intenzionalità, ossia si possono riferire a qualcos'altro: al contrario, niente di fisico ha ccintenzionalith, se non quell'intenzionalità che le deriva da un qualche uso di quella data cosa fisica a opera della mente, o per lo meno ciò è quello che si pretende. Questo ci sembra troppo sbrigativo: il semplice fatto di postulare dei poteri misteriosi della

1.

Cervelli in una vasca

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· mente non risolve nulla: Tuttavia, il problema è effettivo. Come è possibile l'intenzionalità, il .riferimento?

Teorie magiche del riferimento Abbiamo visto che la ccfigura)) tracciata dalla formica non ha alcun legame necessario con Winston Churchill. Il semplice fatto che «l'immagine)> ha una «rassomiglianza)> con Churchill non basta per fare di essa un'autentica figura, né fa di essa una rappresentazione di Churchill. Se la formica non è intelligente (e non lo è) e non sa nulla di Churchill ( e effettivamente non sa nulla), la linea da essa tracciata non è un'immagine, né una rappresentazione, di alcunché. Alcuni popoli primitivi credono che alcune rappresentazioni - in particolare 1 nomi-=--abbiano un legame necessario coriTforo f,-ortafuri-eclie-conoscere'ilccvero nome)> di qualcuno o di qualche cosa dia poteri speciali su di essi. Tale potere deriva ~al lega~e}nagico-esìsfrnte tra ih1òme e il siio pòrtatore: una volta che ci si rende conto -del fatto chéifiioine ha soltanto un legame contestuale, contingente e· co~veiizìoiiale· coii)f~~-9~portai:ore;-dfvent:i difficile comprendere la ragione per.. éi.u conoscenza dél nome stesso dovrebbe avere un qualche significato ·mistico. E importante comprendere che ciò che è valido per le figure fisiche è valido anche per le immagini mentali e per le rappresentazioni mentali in genere: le rappresentazioni mentali, infatti, non hanno un legame necessario con ciò che rappresentane/più.di qùanto lo abbiano le rappresentazioni fisiche. La credenza opposta è una sopravvivenza del pensiero magico. Forse il punto è più facile da cogliere nel caso ·delle immagini mentali. (Forse il primo filosofo che ha capito l'enorme importanza di questo punto fu Wittgenstein, anche se non fu, in effetti, il primo a averlo proposto). Supponiamo che vi sia, chissà dove, un pianeta sul quale si siano prodotti degli esseri umani (o si supponga che essi siano stati depositati da una navicella spaziale, o che siano lì per qualsiasi altra ragione) e supponiamo che essi, sebbene per tutto il resto siano uguali a noi, non abbiano mai visto alberi e che non abbiano neppure mai immaginato alberi (sul loro pianeta potrà anche esistere una vita vegetale, ma soltanto sotto forma di muffe). Supponiamo, poi, che un giorno un'immagine di un albero venga depositata, per caso, sul loro pianeta da una navicella spaziale che passa e che non abbia altri contatti con gli abitanti del pianeta. Figuratevi quegli esseri intenti a scrutare quell'immagine e a chiedersi che cosa mai possa essere. Si presenteranno alla loro mente idee di ogni sorta: si chiederanno se si tratti di un palazzo, di un baldacchino, persino di un qualche tipo di

la

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Ragione, verità e storia

animale. Supponiamo che non riescano assolutamente a avvicinarsi alla verità. Per noi la figura è una rappresentazione di un albero, ma per quegli esseri umani essa rappresenta soltanto un oggetto strano di cui sono ignote la natura e le funzioni. Supponiamo che uno di essi abbia un'immagine mentale che sia esattamente uguale a una delle mie immagini di albero come esito di averne visto l'immagine. L'immagine mentale di quell'uomo non è una rappresentazione di un albero, ma è solo la rappresentazione di uno strano oggetto (quale che sia) rappresentato dall'immagine misteriosa. Eppure, qualcuno potrà dire che l'immagine mentale è di fatto una rappresentazione di un albero, se non altro perché la figura che ha provocato questa immagine mentale era, in partenza, una rappresentazione di un albero. C'è quindi una· catena causalé che porta dagli alberi reali all'immagine mentale, anche se è una catena molto strana. Si può, tuttavia, supporre che anche questa catena causale non esista effettivamente. Supponiamo che la ccfigura dell'albero)) depositata dall'astronave non fosse effettivamente la figura di un albero, ma il risultato accidentale provocato dal rovesciarsi di alcuni barattoli di vernice. Sebbene essa sembrasse esattamente la figura di un albero, essa non era, in realtà, la figura di un albero più di quanto la cccaricatura)) di Churchill fatta dalla formica fosse un'immagine di Churchill. Potremmo addirittura immaginare che la navicella spaziale che ha depositato la «figura)) dell'albero venisse in effetti da un pianeta che ignorasse anch'esso gli alberi: in tal caso gli esseri umani avrebbero comunque delle immagini mentali qualitativamente identiche all'immagine che abbiamo noi degli alberi, ma non sarebbero, però, immagini che rappresentano un albero piuttosto che qualsiasi altra cosa. La stessa cosa è altrettanto vera dell~parole.\ Un discorso scritto potrà sembrare una perfetta descrizione degli alberi, ma se esso fosse stato scritto da scimmie che per milioni di anni avessero battuto a caso i tasti di una macchina per scrivere le parole che lo compongono non si riferirebbero a _ niente ~ ci fosse una persona che imparasse a memoria tutte quelle parole e le 1,petesse mentalmente senza capirne il significato, esse non si riferirebbero a niente neppure quando fossero pensate nella mente. Supponiamo che la persona che sta dicendo queste parole nella sua mente sia stata ipnotizzata. Si supponga, inoltre, che queste parole siano in giapponese, e che la pers_ona che le dice sia stata convinta che comprende il giapponese. Si supponga ancora che mentre pensa quelle parole egli abbia la «sensazione di capirle)) (sebbene, se qualcuno interrompesse il filo del suo pensiero per chiedergli il significato di quelle parole, egli scoprireb-

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Cervelli in una vasca

. be di non essere in grado di spiegarlo). Supponiamo addirittura che l'illusione fosse talmente perfetta che quella persona riuscirebbe persino a confondere un giapponese! Se però non è in grado di usare le parole nel giusto contesto, di rispondere alle domande su quello che ccpensava>> e così via, non le avrà capite. Combinando queste storie di fantascienza che ho narrato, si può creare il caso di una persona che pensa delle parole che sono, in effetti, la descrizione di alberi in una qualche lingua e, al tempo stesso, ha le corrispondenti immagini mentali, ma né comprende il significato delle parole, né sa che cosa sia un albero. Si potrà addirittura immaginare che le immagini mentali siano state causate dalle macchie provocate dalla vernice versata (sebbene quella persona sia stata ipnotizzata e pensi, perciò, che si tratti di immagini di qualche cosa che sia legata all'oggetto del suo pensiero - tuttavia, se qualcuno glielo chiedesse, egli non saprebbe dire di che cosa siano l'immagine). Possiamo poi immaginare che il linguaggio in cui quella persona pensa sia sconosciuto sia all'ipnotizzatore, sia all'ipnotizzato, e che sia soltanto per un caso fortuito che questi «enunciati privi di senso>>, come li considera l'ipnotizzatore, siano una descrizione di alberi in giapponese. In breve, tutto ciò che si presenta alla mente di quella persona potrebbe essere qualitativamente 1dentico a quello che potrebbe passare per la mente di un parlante giapponese che pensasse realmente a alberi - ma niente di quello si riferirebbe a alberi. Naturalmente, tutto ciò è impossibile, come è impossibile che delle scimmie possano, per caso, scrivere a macchina una copia dell'Amleto. Le probabilità contrarie, cioè, sono talmente alte che ciò non potrà mai accadere (o, almeno, così si pensa): tuttavia, ciò non è impossibile dal punto di vista logico, e neppure da un punto di vista fisico e potrebbe succedere (compatibilmente con le leggi fisiche e, forse, compatibilmente anche con le condizioni effettive dell'Universo, se ci sono molti esseri intelligenti su altri pianeti). Se ciò succedesse, si tratterebbe di una sorprendente dimostrazione di un'importante verità concettuale, ossia del fatto che persino un sistema ampio e complesso di rappresentazioni, sia verbali sia visuali, non ha neppure esso un legame magico intrinseco con ciò che rappresenta - un legame indipendente da come fu provocato e dalle J.isposizioni di colui che le dice, o pensa, e ciò è altr_ettanto vero sia che il sistema di rappresentazioni (parole e immagini, nel caso del nostro esempio) sia realizzato fisicamente - ossia le parole siano scritte o dette e le figure siano figure fisiche - sia che tale sistema sia soltanto realizzato nella mente. Le · parole del pensiero e le figure mentali non rappresentano intrinsecamente ciò su cui vertono.

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Il caso di cervelli in una vasca Questa è una possibilità fantascientifica discussa dai filosofi: si immagini che un essere umano (potrete immaginare di essere voi stessi questo personaggio) sia stato sottoposto a una operazione da uno scienziato crudele. Il suo cervello ( o il vostro) è stato distaccato dal resto del corpo e posto in una vasca piena di sostanze nutrienti che lo mantengono in vita. I terminali nervosi sono stati collegati a un computer super-scientifico che fa sì che la persona di cui quello è il cervello abbia l'illusione che tutto sia perfettamente normale. Gli sembrerà che vi siano persone, oggetti, il cielo e così via, ma, in realtà, tutto ciò che quella persona sente non è che il risultato degli impulsi elettronici trasmessi dal computer ai terminali nervosi. Il computer è così perfezionato che, se la persona cercherà di alzare una mano, gli impulsi trasmessi dal computer faranno sì che egli ccveda)> e ccsenta» la mano che si alza. Inoltre, cambiando il programma del computer, lo scienziato crudele potrà far sì che la vittima ccprovi» (anche come allucinazione) qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato vorrà fargli provare. Lo scienziato potrà anche cancellare il ricordo dell'operazione al cervello, cosicché la vittima crederà di aver sempre vissuto in questo ambiente. Alla vittima potrà persino sembrare di essere comodamente seduto a leggere queste stesse parole che raccontano del caso ipotetico, divertente ma assurdo, di uno scienziato crudele che distacca dal resto del corpo il cervello delle sue vittime per metterlo in una vasca piena di sostanze nutrienti che lo mantengono in vita. Egli si sentirà invitato a immaginare èhe i terminali nervosi siano stati collegati a un computer super-scientifico che fa sì che la persona di cui quello è il cervello abbia l'illusione che ... Se una possibilità di questo tipo viene citata nel corso di una lezione sulla Teoria della conoscenza, lo scopo è, naturalmente, quello di porre in un modo moderno il class1c9iE!:_Qblema deITo scetticismo;(come fai a sapere che non ti trovi realmente in questa situazione ?f,ma questa situazione è anche un modo utile per sollevare il problema dei rapporti tra la mente e il mondo. Invece di un solo cervello in una vasca, si potrebbe immaginare che tutti gli esseri umani (e forse tutti gli esseri senzienti) non siano altro che cervelli in una vasca (o sistemi nervosi in una vasca, se si vogliono considerare esseri senzienti anche quelli che hanno appena un sistema nervoso minimo). Naturalmente, 1o scienziato crudele dovrebbe essere al di fuori della vasca - oppure no, potrebbe anche non esserci alcuno scienziato crudele e (benché ciò sia assurdo) potrebbe darsi semplicemente il caso che l'Uni-. verso sia un macchinario automatico che governa una vasca piena di cervelli e di sistemi nervosi.

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Supponiamo ora che il macchinario automatico in questione sia programmato in maniera da darci un'allucinazione collettiva, anziché una serie di allucinazioni separate e indipendenti. Così, quando a me sembra di parlare a te, a te sembra di sentire le mie parole: naturalmente, non è coni.e se io ti stessi parlando realmente, poiché tu non hai delle (vere) orecchie, né, d'altronde, io ho una vera bocca e una vera lingua. Piuttosto, quando io pronuncio le mie parole, avviene che gli impulsi che da esse emanano passano dal mio cervello al computer, e questo al tempo stesso fa sì che da una parte io ccsentaJJ la mia stessa voce che pronuncia quelle parole e ccsentaJJ la lingua che si muove e così via, e, dall'altra, tu ccsentiJJ le mie parole e ccvedi)J che sto parlando, e così via. In questo caso siamo, in un certo senso, !effettivamente in comunicazione tra noi: io non mi sbaglio a proposito della tua reale esistenza (ma soltanto a proposito dell'esistenza del tuo corpo e élel ccmondo esternOJJ, tranne che i cervelli). Da un certo punto di vista, non importa neppure il fatto che il ccmondo interOJJ sia un'allucinazione collettiva, poiché, dopo tutto, tu senti realmente le mie parole quando io ti parlo, sebbene il meccanismo non sia quello che noi supponiamo sia. (Naturalmente, se fossimo, invece, due amanti intenti a fare l'amore, invece di due persone che parlano tra loro, la possibilità che si tratti semplicemente di due cervelli in una vasca potrebbe non essere così tranquilla.) Voglio ora fare una domanda che potrà apparire alquanto sciocca e scontata (per lo meno a alcuni, tra i quali dei filosofi molto sofisticati), ma che ci condurrà velocemente a reali profondità filosofiche. Supponiamo che tutta questa storia fosse effettivamente vera: saremmo in grado, se fossimo cervelli in una vasca nelle condizioni descritte, di dire o di pensare che lo siamo? Cercherò ora di dimostrare che la risposta a tale domanda è ceno, non _saremmo in gradOJ). Dimostrerò addirittura che la supposizione che noi siamo effettivamente soltanto cervelli in una vasca, sebbene non sia in contrasto con alcuna legge fisica e sia in accordo con tutto ciò che abbiamo esperito, non può assolutamente essere vera. Essa non può assolutamente essere vera proprio perché, in un certo modo, si confuta da sola. L'argomento che presenterò ora è assai inabituale e sono occorsi parecchi anni perché potessi convincere me stesso della Slla validità. Esso è comunque un argomento corretto e ciò che lo fa apparire così strano è il fatto che esso si ricollega a alcuni dei problemi più profondi della filosofia (questo argomento mi venne in mente per la prima volta quando stavo pensando a un teorema della logica moderna, ossia il teorema di Skolem e Lowenheim, e improvvisamente intravidi un legame tra tale teorema e al-

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cuni argomenti delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein). Un'ipotesi che si confuta da sola è un'ipotesi la cui verità implica in sé la sua stessa falsità. Per esempio, consideriamo la tesi che tutte le asserzioni generali siano false: questa tesi è un'asserzione generale, per cui se essa è vera deve essere falsa. Quindi, è falsa. Talvolta si dice che una tesi si confuta da sola se l'ipotesi che la tesi stessa sia sostenuta o enunciata ne implica la sua falsità. Per esempio, la tesi ccio non esistO)J si confuta da sola se a pensarla sono io (ciò è valido per qualunque cciO)) ), cosicché si può essere sicuri che qualcuno esiste per il semplice fatto che qualcuno pensa intorno a qualcuno (secondo l'argomento di Cartesio). Dimostrerò ora che l'ipotesi che noi siamo cervelli in una vasca è anch'essa auto-confutante. Se, infatti, possiamo considerare se essa sia vera o falsa, allora essa non è vera (come mostrerò). Quindi essa non è vera. Prima di presentare l'argomento, analizziamo le ragioni per le quali sembra così strano (per lo meno agli occhi dei filosofi che sottoscrivono la concezione della verità come cccopian) il fatto che un tale argomento possa essere presentato. Ammettiamo che la possibilità che vi sia un mondo in cui tutti gli esseri senzienti siano cervelli in una vasca è compatibile con· le leggi fisiche. Come direbbero i filosofi, c'è un ccmondo possibile)) in cui tutti gli esseri senzienti sono cervelli in una vasca (tutti quei discorsi su un ccmondo possibile)). fanno quasi pensare che vi sia effettivamente un luogo in cui qualsiasi ipotesi assurda possa essere vera, e perciò sono ingannevoli in filosofia). Gli esseri umani in quel mondo possibile avrebbero esattamente le stesse esperienze che abbiamo noi, avrebbero i nostri stessi pensieri (o, per lo meno, le medesime parole, immagini e forme di pensiero e così via attraverserebbero le loro menti). Eppure, sostengo che vi è un argomento che si può proporre p~r dimostrare che non siamo cervelli in una vasca. Come è possibile? E perché non potrebbero proporlo anche le persone nel mondo possibile in cui sono effettivamente cervelli in una vasca? La risposta è essenzialmente la seguente: sebbene le persone in quel mondo possibile possano pensare e ccpronunciare)) qualsiasi parola che possiamo pensare o pronunciare noi, essi non possono (io sostengo) riferirsi alle stesse cose cui possiamo riferirci noi. In particolare, essi non possono pensare o dire di essere cervelli in una vasca (anche quando pensano

ccsiamo cervelli in una vasca>)). La prova di Turing Supponiamo che qualcuno riesca a inventare un computer che sia effettivamente in grado di.sostenere una conversazione intelligente con qual-

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cuno ( e su altrettanti argomenti quanti ne potrebbe affrontare una persona intelligente): come potremo decidere se quel computer è «cosciente))? Il logico inglese Alan Turing ha proposto la seguente prova: 2 supponiamo che qualcuno abbia una convçrsazione con il computer e una con una persona che non conosce. Se non sarà in grado di dire quale sia il computer e quale l'essere umano, allora (supponiamo che tale prova sia ripetuta un numer:o sufficiente di volte con interlocutori differenti) si potrà dire che il computer è cosciente: in breve, un computer è cosciente se passa la «prova di Turing)) (evidentemente, le conversazioni non si svolgeranno a faccia a faccia, dato che l'interlocutore non dovrà conoscere l' aspetto visivo di alcuno dei due esseri con i quali sta conversando, né si dovrà us·are la voce, poiché la voce meccanica potrà semplicemente avere un suono diverso da quella umana, e si supponga, perciò, che la conversazione avvenga sempre per mezzo di una macchina per scrivere elettrica. L'interlocutore batterà a macchina le sue affermazioni, le domande e così via e i due esseri - ossia la persona e il computer - risponderanno per mezzo della tastiera elettrica. Inoltre, la macchina potrà anche mentire e alla domanda ccsei una macchina?)) potrà rispondere ceno, sono un assistente di questo laboratorio))). L'idea che tale prova sia veramente una prova definitiva dell'essere coscienti è stata criticata da molti studiosi (che non sono, in linea di principio, affatto ostili all'idea che una macchina possa essere cosciente). Non ci occuperemo comunque di ciò in questa sede: ci serviremo dell'idea generale di una prova di Turing, ossia dell'idea di una prova dialogica di compe~enza, per uno scopo diverso, quello, cioè, di esaminare la nozione di rife-

rimento. Si immagini una situazione in cui il problema non sia quello di determinare se l'essere con il quale si conversa sia realmente una persona oppure una macchina, ma piuttosto quello di determinare se quell'essere usa le parole per riferirsi a qualcosa come lo facciamo noi. La prova più ovvia è, ancora una volta, quella di impegnarsi in una conversazione e, se non sorge alcun problema, se il partner ccsupera» la prova nel senso che è indistinguibile da qualcuno di cui è certo in anticipo che parli la stessa lingua, si riferisca agli stessi tipi di oggetti e così via, di concludere che il partner si riferisce a oggetti come facciamo noi. Nei casi in cui la prova di Turing ha lo scopo che abbiamo appena descritto, ossia quello di determinare l' esistenza o meno di un riferimento condiviso, mi riferirò a essa chiamando2 AM. Turing, Computing Machinery and Intelligence, «Mind», 1950, ristampato in Minds and Machines, a cura di AR. Anderson.

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la prova di Turing per il riferimento. Proprio come i filosofi hanno discusso se la prova originaria di Turing costituisca una prova definitiva dell'essere coscienti o meno, ossia se una macchina che ccpassa)) la prova non soltanto una volta ma regolarmente sia necessariamente cosciente, così, nello stesso modo, voglio ora discutere se la prova di Turing per il riferimento che ho appena suggerito sia una prova definitiva per il riferimento condiviso'. La risposta a tale interrogativo risulterà essere negativa. La prova di . Turing per il riferimento non è definitiva: è sicuramente una prova eccellente nella pratica, ma non è impossibile da un punto di vista logico (sebbene sia altamente improbabile) che qualcuno possa passare la prova di Turing per il riferimento senza riferirsi a nulla. Da ciò consegue che, corife· vedremo, possiamo estendere la nostra osservazione che le parole ( e addirittura interi testi e discorsi) non hanno un legame neeessario con quello cui si riferiscono. Anche se non consideriamo le parole prese da sole, ma le regole che decidono quali parole si possa.:Il() ::i.ppropriatamente usare in certi contesti - ossia anche se consideriam() quello che nelJinguaggi_o_dei computer si chiama programma per l'uso delle parole - que_ste parole non possiedono alcun riferimento determinato, tr!!-nn(nel caso che. tali programmi non si riferiscano a qualcosa di extra-linguistico. Questo ccistipiirà un passo fondamentale nel nostro cammino verso la conclusione che gli abitanti del mondo costituito da cervelli in una vasca non possono riferirsi a nulla di esterno (e perciò non possono dire che sono degli abitanti di un mondo costituito da cervelli in una vasca). · Supponiamo, per eseµipio, che io mi trovi nella situazione di Turing (ossia che io stia giocando al cc gioco di imitazioni)), per usare la termino·logia di Turing) e che l'essere con il quale sto conversando sia in realtà una macchina, e supponiamo che tale macchina· sia in graao--dì ·vincere il gioco (ossia di cc superare)> la prova): immaginiamo che questa macchina sia programmata per dare delle bellissime risposte in una data lingua a affermazioni, domande o osservazioni espresse nella medesima lingua, ma che non abbia alcun organo S~!!~oriale (tranne il collegamento con la macchina per scrivere elettrica) e alcun organo motorio (tranne la macchina per scrivere stessa). (Per quanto mi sembra di capire, secondo Turing il fatto di possedere organi sensoriali o motori non è necessario per essere coscienti o intelligenti.) Supponiamo, poi, non soltanto che il computer sia sprovvisto di occhi e orecchie elettroniche e così via, ma anche che non vi siano nel programma di tale macchina, ossia nel programma adatto per il gioco di imitazioni, dei mezzi per incorporare i dati provenienti da t~ ,QE_gani ~-?.~-~-~-!} o per controllare un corpo. Che cosa dovremmo dire di una simile macchina?

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A me, personalmente, sembra evidente che non possiamo e non dobbiamo attribuire a un congegno simile la possibilità di riferimento. È vero, peresèmpio, che tale macchina può dire delle cose meravigliose su un paesaggio; essa però non sarebbe in grado di riconoscere un melo o una mela, una montagna o una mucca, un campo o un campanile se si trovasse di fronte a tali oggetti. Si tratta di un congegno per la produzione di enunciati in risposta a enunciati: tuttavia, nessuno di questi enunciati è legato in alcun modo al mondo reale. Se si mettessero insieme due macchine di tale tipo e si lasciasse lo-

ro fare il gioco di imitazione l'una con l'altra, esse potrebbero continuare a prendersi in giro a vicenda per sempre, anche se tutto il resto del mondo dovesse scomparire! Non c'è alcuna ragione per cui si debba pensare che i discorsi del computer sulle mele si riferiscano effettivamente alle mele del mondo reale più di quanto il «disegno)) della formica si riferisca a Winston Churchill. L'illusione del riferimento, del significato, dell'intelligenza, e così via, è qui prodotta aar-Tattocnéno_(?-bbiamo una consuetudine di rappresentazioni per la quale il discorso del computer si riferisce alle mele, ai campanili, pàèsaggio, · così via; per lo stesso motivo -sì ha l'illusione che la formica abbia fatto una caricatura di Churchill. Il fatto è, però, che noi siamo in grado di percepire, toccare e utilizzare le mele e i campi: quello che possiamo dire sulle mele e sui campi è, perciò, intimamente legato alle nostre transazioni non verbali con mele e campi. Esistono delle écregole di ·mgressoctel"lìnguaggfoi- é:hè, dall'esperienza che abbiamo delle_ mele, ci portano a pronunciare frasi del tipo ccvedo una mela)) e delle regole di uscita-dafTinguaggio 'cp.e, da una decisione espressa in una forma linguistica (per esempio, ccvado_ a comperare delle mele))) ci_prrme~ono di passare a azioni che non sono sempli~ement~ di ordine verbale. D.J1..!9~~e la conversazione di una. macchina (o di due macchine, come nel caso che abbiamo citato dei due computer che fanno tra loro il gioco di imitazione) __!lOn tcaragerÌZZlJ.!a.dallt_du~_ r.~gole dd g_n~g&2_ che, com~ abbiamo visto, regolano i rapporti tra i discorsi _che_facci_amg_ç le:n9stre azioni, non vi è a1cuna ragione per talè-èonversazione vada considerata come qualcosa di più che un semplice gioco sintattico; un ioco sintattico che, in verità, assomiglia moltissimo a un discorso inte ·ge!]-.!__~, f!lél_p.9n-pììi~di :qu_?-nto la curva tracciata dalla formica assomigli a una caricatura. · Nel caso della formica, si potrebbe dire che essa avrebbe tracciato la medesima curva anche se Winston Churchill non fosse mai esistito. Nel caso del computer non possiamo, invece, fare lo stesso ragionamento poiché, se non esistessero né le mele, né gli alberi, né i campanili, né i

a.r

e

cui

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campi, i programmatori non avrebbero, con ogni probabilità, fatto lo stesso programma: è vero che il computer non percepisce questi oggetti, ma i programmatori li conoscevano benissimo. Esiste, perciò, tra la macd.11na e gli oggetti del mondo reale da essa descritti, un certo legame causale che passa attraverso l'esperienza percettiva e le conoscenze dei programmatori. Un legame così debole non è tuttavia sufficiente perché si possa parlare di riferimento. Non soltanto è possibile, da un punto di vista logico, che possa esistere una tale macchina senza che esistano mele, campanili, campi e così via - sebbene si tratti di una probabilità alquanto remota e fantascientifica - ma il computer - e ciò è ancor più importante - è assolutamente insensibile al fatto che tali oggetti continuino a esistere: anche se tutti questi oggetti cessassero di esistere, il computer potrebbe continuare i suoi discorsi su di essi nella stessa maniera, come se nulla fosse cambiato. Ecco perché non si. può dire che la macchina si riferisca a qualcosa. Il punto che ci interessa ai fini della nostra analisi è che nella prova di Turing non vi è nulla che faccia scartare una macchina che sia programmata per non fare altro che il gioco di imitazione, e che una macchina eh~ non si fare altro che il gioco di imitazione sicuramente non si riferisce a nulla più di quanto non lo faccia un giradischi.

Cervelli in una vasca (ancora) Paragoniamo ora gli ipotetici cccervelli in una vasca,) con le macchine di cui ci siamo appena occupati. Tra gli uni e le altre esistono ovviamente importanti differenze. I cervelli nella vasca sono sprovvisti di organi sensoriali, ma essi hanno una dotazione per gli organi sensoriali: vi sono, cioè, le terminazioni nervose àfferenti: e vi sono gli impulsi trasmessi da queste terminazioni nervose afferenti, impulsi che agiscono sul ccprogramma)) dei cervelli in una vasca esattamente come fanno sul programma dei nostri cervelli. ~ Cf:!velli in una vasca sono c~rvelli, anzi cervelli frmzionanti che, per di pi~, ~io_nano secondo le me_q.esime regole che se~ono i c:ervelli nel mondo reale. Per queste ragioni ci sembrerebbe assurdo negare che essi siano dotati di coscienza e di intelligenza; eppure il fatto che siano dotati di coscienza e intelligenza non significa di per sé che le parole da loro prodotte si"rifi1.:[~é:a.,_go alle stesse cose alle quali.siriferiscono le no-stte parole. Il problema che ci interessa è il seguente: le loro frasi è:he. contengono, per esempio, la parola ccalberOJJ si riferiscono effettivamente a alberi? O, più in generale, possono le loro frasi riferirsi a oggetti esterni (li chiamiamo esterni per contrapporli, per esempio, agli oggetti nell'immagine prodotta dal congegno automatico)?

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Per essere più chiari, specifichiamo che nell'ipotesi di cui ci stiamo occupando si suppone. che il computer sia stato prodotto da una qualche coincidenza o caso cosmico (o addirittura si può supporre che sia sempre esistito): si suppone che, in questo mondo ipotetico, questo macchinario automatico non abbia avuto un creatore o ideatore intellìgente. Infatti, come abbiamo specificato all'inizio di questo capitolo, possiamo immaginare che tutti gli esseri senzienti (per quanto minima sia la loro capacità senziente) siano all'interno della vasca. Comunque, tale supposizione non cambia le cose, dato che non c'è alcun legame tra la parola ccalbero>>, nel modo in cui la usano quei cervelli~ e gli alberi reali:quei cervelli userel;,bero tale parola nello stesso modo~ penserebbero le stesse cose e avrebbero le medesime immagini anche se non esistessero alberi reali. Le loro immagini, parole e così via sono qualitativamente identiche a quelle che rappresentano alberi nel nostro mondo real~, ma, come abbiamo già notato a proposito della formica, la rassomiglianza qualitativa con qualcosa che rappresenta un dato oggetto (Winston Churchill, oppure un albero) non basta da sola a farne una rappresen• tazione. In breve, i cervelli in una vasca non pensano a alberi reali quando pensano ccdavanti a me c'è un albero», poiché non c'è nulla che faccia sì che il loro pensiero ccalbero,, rappresenti un albero reale. Se quello che abbiamo affermato può sembrare troppo sbrigativo, si rifletta su quanto segue: abbiamo visto che le parole .µon si riferiscono necessariamente a alberi anche se sono disp'aste in una sequenza iclentica a un discorso che, se dovesse venire in mente a noi, tratterebbe, senza ombra di dubbio, di alberi del mondo reale. Neppure il ccprogramma)), ossia le regole, le pratiche e le disposizioni dei cervelli al comportamento verbalç, si riferisce necessariamente a alberi 6 c·Òmporta dei riferiment:1 a albéri mediante i legami che esso stabilisce tra parola e parola, o tra indizi linguistici e risposte linguistiche. Se quei cervelli pensano o si riferiscono a alberi o li rappresentano ( alberi reali al difuori della vasca), ciò deve essere senza dubbio mediante il modo in cui il ccprogramma)) lega il sistema di linguaggio ai contenuti non verbali che arrivano al cervello e che da esso sono prodotti. Tali contenuti non verbali esistono effettivamente nel moncto dei cervelli (ancora quelle terminazioni afferenti e efferenti!) in una vasca, ma, come abbiamo già ricordato, i ccdati sensoriali)) prodotti dalla macchina automatica non rappresentano alberi (né alcunché di esterno alla vasca) anche quando assomigliano esattamente alle immagini che abbiamo noi degli alberi. Così come un po' di vernice versata accidentalmente potrà sembrare un'immagine di un albero senza essere l'immagine di un albero, allo stesso modo, abbiamo visto, un ccdato sensoriale)) potrebbe es-

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sere qualitativamente identico ali' ccimmagine di un albero?, senza essere l'immagine di un albero. Dato che, nel caso dei cervelli in una vasca, il programma lega il linguaggio a dati sensoriali che non rappresentano, né intrinsecamente, né estrinsecamente, gli alberi (né alcuna altra cosa esterna), come potrebbe l'intero sistema di rappresentazioni, ossia il linguaggio usato, riferirsi o rappresentare effettivamente gli alberi (o le altre cose esterne)? La risposta è negativa: infatti, l'intero sistema formato da dati sensoriali, da segnali motori trasmessi alle terminazioni nervose efferenti, e dai pensieri mediati verbalmente o concettualmente e legati, da una parte, ai dati sensoriali (o di altra natura) mediante ceregole di ingresso nel linguaggio,, come input e, dall'altra, ai segnali motori mediante regole di uscita dal linguaggio come output, non ha con gli alberi più legami di quanto la curva tracciata dalla formica ne abbia con Winston Churchill. Una volta che si è chiarito il fatto che la somiglian:w qualitativa (che, volendo, si può far risalire a un'identità qualitativa) tra i pensieri dei cervelli in una vasca e quelli di una persona del mondo reale non implica per nulla che i riferimenti siano gli stessi in entrambi i casi, non è difficile capire che non vi è alcun motivo di pensare che il cervello in una vasca si riferisca a cose esterne.

Le premesse dell'argomento Ho così dimostrato, come avévo promesso, che i cervelli in una vasca non possono pensare, né dire, di essere cervelli in una vasca. Non mirimane, dunque, che rendere l' arg~mento più esplicito e esaminarne la struttura. In virtù di quello che abbiamo finora spiegato, se il cervello in una vaSfa (nel mondo in cui ogni essere senziente è, e è semprestato, un cervello in una vasca) pensa ccdavanti a me c'è un albero,,, il suo pensiero non si riferisce effettivamente a alberi reali/ Secondo èèrte teorie su cui torneremo in seguito, il cervello si potrebbe riferire agli all5er1 nell'immagine, o agli impulsi elettronici che gli hanno fatto averè-~delle esperienze relative agli alberi, oppure a quelle caratteristiche del programma che sono responsabili di tali impulsi elettronici. Queste teorie non sono in contrasto con ciò che abbiamo spiegato, poiché c'è uno stretto legame causale tra l'uso della parola ccalbero,, nel linguaggio della vasca e la presenza degli alberi nell'imtnagine, la presenza di impulsi elettronici di un certo tipo e la presenza di certe caratteristiche del programma della macchina. Secondo tali teorie, il cervello ha ragione; non torto, quando pensa ccc'è un albero davanti a

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me,J. Supponendo che una di quelle teorie sia esatta e considerando a che cosa si riferiscono, nel linguaggio della vasca, le espressioni ,,albero,) e ccdavanti a,J, le condizioni di verità per ccc'è un albero davanti a me)) quando essa occorre nella lingua dell_a vasca, sono semplicemente le seguenti: un albero è davvero «davanti)) al ccme)J in questione - nell'immagine - oppure il tipo di impulso elettronico che normalmente produce tale esperienza deriva da una macchina automatica, oppure, forse, è in funzione il congegno della macchina stessa che dovrebbe produrre la sensazione dell' cc albero davanti a me,,. E tali condizioni di verità sono certamente soddisfatte. Allo stesso modo, l'espressione ccvascà,, si riferisce alle vasche nell'immagine nel linguaggio della vasca, o a qualcosa che è legato a tale immagine (impulsi elettronici o caratteristiche del programma), ma certamente non si riferisce a vasche reali, dato che l'uso dell'espressione ccvasca,, nel linguaggio della vasca non ha alcun legame causale con le vasche reali (se si eccettua il legame costituito dal fatto che i cervelli in una vasca non sarel:,bero in gradocti usare la parola ,,vasca>> se non per la presenza di una particolare vasca, ossia di quella in cui si trovano essi stessi: tuttavia, il medesimo legame esiste anche tra l'uso di tutte le parole del linguaggio della vasca e quella particolare vasca e non è, invece, un legame speciale tra l'uso della parola particolare ccvasca,, e le vasche). Così nel linguaggio della vasca anche l'espressione ccliqui do nutriente), si riferisce a un liquido nell'immagine, o a qualcosa a esso legato (impulsi elettronici o caratteristiche del programma) nella lingua della vasca. Ne consegue che, se il ccmondo possibile,> è veramente quello reale e noi non siamo, effettivamente, che cervelli in una vasca, quando diciamo che «siamo cervelli in una .vasca,> intendiamo in effetti che siamo cervelli in una vasca nel!' immagine, o qualcosa del genere (ammesso che il nostro discorso abbia comunque un significato). Ma parte dell'ipotesi secondo cui noi saremmo cervelli in ima vasca è che noi non siamo cervelli in una vasca nell'immagine (l'essere cervelli in una vasca, cioè, non fa parte della nostra allucinazione), per cui, se siamo effettivamente cervelli in una vasca, allora l'enunciato ccsiamo cervelli in una vasca,, dice qualcosa di falso (se pur dice qualcosa). In breve, se siamo cervelli in una vasca, allora «siamo cervelli in una vasca,) è falso. CosFèsS°é) è (necessàrìameiii:e) falso: .. ·· L'ipotesi che una tale possibilità abbia un senso nasce dalla sovrapposizione di due errori, che sono quelli di prendere troppo sul serio le possibilità fisiche e di basarsi, inconsciamèiite; su una teOria magiCa-cfernierunenfo, secondo la quale certe rappresentazioni me'ìrtalì si rttensconò-necessariamente a particolari cose esterne, o a particolari generi di cose esterne.

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Rflgione, verità e storia

C'è un ccmondo possibile da un punto di vista fisico)) in cui non siamo che cervelli in una vasca: che cosa significa tale asserzione, se non che vi è una descrizione di un tale stato di cose che è compatibile con le leggi della fisìca?-Comé·nella nostra cultura si tende, fin dal Seicento, a considerare la fisica come la nostra metafisica, ossia a vedere nelle scienze esatte la tanto sospirata descrizione della ccnatura vera e definitiva dell'universo;), allo stesso modo, e come conseguenza immediata di ciò, si tende anche a considerare la{ ccpossibilità fisicaJJ. come il punto di riferimento per qualsiasi !E