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Italian Pages 288 [284] Year 2019
Gaetano Basileo Giannino Di Tommaso a cura di
Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca
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Collana diretta da: Francesco Valagussa
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Gaetano Basileo, Matteo V. d’Alfonso, Carla De Pascale, Giannino Di Tommaso, Edith Düsing, Klaus Düsing, Faustino Fabbianelli, Marco Ivaldo, Sandro Palazzo, Gaetano Rametta
Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca a cura di Gaetano Basileo e Giannino Di Tommaso
6 Questo volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila.
© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 8 - ottobre 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-032-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-033-3 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Goethe - Schiller - Denkmal in Weimar © franke182 – stock.adobe.com
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Avvertenza
Il presente volume raccoglie i contributi dei partecipanti al Convegno internazionale su: Principio, sistema e metodo nella Filosofia Classica Tedesca, svoltosi a L’Aquila nei giorni 19-20 aprile 2018.
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Il rapporto tra logica e teoria della soggettività nell’idealismo. Uno sguardo sistematico di Klaus Düsing
Introduzione Il rapporto tra logica e teoria della soggettività diviene un problema nella filosofia moderna solo a partire da Cartesio e concerne quale delle due sia la filosofia fondamentale, e quindi anche la filosofia prima. Certo, Cartesio stabilisce metodologicamente come principio primo l’«ego cogito» e Leibniz la monade e le sue facoltà fondamentali «perceptio» e «appetitus»; ma entrambi, e con essi i loro rispettivi seguaci, non indagano il problema centrale del primato, se cioè la teoria della soggettività preceda o no la logica. Ciò avviene de facto, per la prima volta, in occasione della ben più articolata elaborazione di una teoria dell’appercezione pura e del suo rapporto con la logica, in particolare con la tavola dei giudizi e quella delle categorie in Kant. Tuttavia, anche Kant esamina tale questione solo implicitamente. Essa viene affrontata in modo esplicito in una discussione tra Reinhold e Schulze che il giovane Fichte riprende, attribuendo alla teoria dell’Io come filosofia trascendentale il primato nei confronti della logica; su questo punto, il giovane Schelling essenzialmente lo segue. Hegel, al contrario, mostra la genesi della pura soggettività all’interno dello sviluppo della sua logica, e così il problema del primato non si pone più.
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In quel che segue verrà mostrata, in una prima parte, la posizione di Kant in riferimento al rapporto tra appercezione pura, da un lato, e teoria del giudizio e delle categorie, dall’altro; in tale occasione, la logica sarà suddivisa in formale e determinata dal punto di vista del contenuto, e cioè trascendentale. Qui le forme del giudizio e le categorie non saranno sviluppate a partire dall’unità dell’appercezione, cosa che tutti gli idealisti criticano; ma, al contrario, l’appercezione in Kant è determinata mediante le categorie. La seconda parte riguarda innanzitutto la controversia tra Reinhold e Schulze, che innalzano, rispettivamente, a principio primo il principio della coscienza e quello di non contraddizione. Si specificherà, quindi, che il primo Fichte decide tale controversia a favore di un Io concepito essenzialmente puro, e perciò a favore della teoria della soggettività come filosofia prima; a questo riguardo Schelling concorda con lui – con una determinazione nuova, e precisamente estetica, dell’Io compiuto, mentre il tardo Kant critica questa retrocessione della logica. In una terza parte, si illustrerà la logica matura di Hegel che, nel suo sviluppo dialettico da triade di categorie a triade di categorie, mostra la genesi della soggettività puramente pensante e, infine, pensante se stessa, in vista di un pensiero speculativo, infinito.
1. Teoria dell’appercezione, logica e ontologia critica in Kant Nella Critica della ragion pura Kant espone l’appercezione pura, trascendentale, o il puro «Io penso» come principio unitario per le forme del giudizio e quindi delle categorie. Ma, ed è ciò che criticano tutti gli idealisti, egli non le sviluppa dall’uni tà sintetica dell’appercezione. Tale sviluppo genetico-ideale, come mostra anche il suo statico sistema delle facoltà (cfr. KdU LVIII), è certamente estraneo a Kant. Il suo problema non è però, evidentemente, una nuova esposizione sistematica e com-
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pleta delle forme del giudizio, bensì ottenere modalità diverse della sintesi spontanea sulla base dell’appercezione. Egli cercava queste modalità della sintesi in diverse riflessioni già degli anni Settanta1 e occasionalmente le chiamava anche «categorie». Nei Prolegomeni Kant descrive, poi, come gli si presentò quale soluzione, senza una lunga e complicata ricerca, l’idea che a tal fine si offriva invece il «già pronto», anche se migliorabile nel dettaglio, «lavoro dei logici» sulla tavola dei giudizi. (Proleg., § 39, AA IV, 323). Kant accolse tale lavoro e – in certo modo proseguendolo – organizzò evidentemente le forme dei giudizi come sistema delle sintesi logiche, fondate sulla sintesi pura e sull’unità sintetica dell’appercezione. La parte centrale della logica formale, le forme dei giudizi, che i logici possono spiegare come dottrina autonoma, è dunque fondata sull’unità sintetica dell’appercezione, e non si può rinunciare a questa fondazione soggettivo-teoretica delle forme dei giudizi, che tuttavia devono essere pensate per mezzo dell’«Io penso»2. 1. Cfr. I. Kant, Gesammelte Schriften, hrsg. von der Preußischen (Deutschen) Akademie der Wissenschaften [= AA], Walter de Gruyter, Berlin 1910 ss., Bd XVII, 565 s. (Rifl. 4476), XVII, 492 (Rifl. 4276), XVII, 571 s. (Rifl. 4493) e passim. 2. Sull’appercezione come principio delle forme del giudizio e delle categorie rinvio principalmente, per la dottrina del giudizio in Kant, a K. Reich, Die Vollständigkeit der Kantischen Urteilstafel (1932), Meiner, Hamburg 19863, che ha dato impulso a una serie di ulteriori ricerche, in particolare sulla dottrina kantiana del giudizio. Sulle forme della sintesi pura in Kant e in continuità con precedenti indagini, cfr.: A. Aportone, Gestalten der transzendentalen Einheit. Bedingungen der Synthesis bei Kant, in «Kantstudien», Supplemento 161, Walter de Gruyter, Berlin-New York 2009, ad. es. pp. 313336. Sull’appercezione pura come principio delle categorie cfr. M. Caimi, Selbstbewußtsein und Selbsterkenntnis in Kants transzendentaler Deduktion, in D.H. Heidemann (Hrsg.), Probleme der Subjektivität in Geschichte und Gegenwart, “Problemata”, Bd. 146, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, pp. 85-106; M. Baum, Logisches und personales Ich bei Kant, in ivi, pp. 107-123. Sull’appercezione e sulle categorie cfr. la convincente, pregnante e precisa esposizione di M. Caimi, Leçons sur Kant. La déduction
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Questa pura appercezione o questo puro «Io penso» è, però, fondamentalmente orientato alla conoscenza dell’ente; non resta perciò fermo al mero pensiero di forme logiche per sé prive di contenuto, ma, nel compimento di sintesi spontanee, si riferisce come contenuto a un molteplice sensibile dato, per sé ancora indeterminato. Questo molteplice viene sintetizzato per la prima volta mediante quelle sintesi intellettuali spontanee, sottoposto a regole e con ciò reso oggettivo. In questo modo può essere conosciuto l’ente, che per noi è nello spazio e nel tempo. È vero che Kant respinge energicamente l’ontologia dogmatica, specialmente wolffiana, delle cose in sé (cfr. KdrV, B 303); ma, nella tarda Preisschrift su I progressi della metafisica (1793), accentua la propria ontologia trascendental- idealistica, criticamente ristretta, come ontologia dei fenomeni (cfr. AA XX, 260, anche 315). Il suo ordine interno è essenzialmente più sistematico di quello delle ontologie precedenti, e precisamente per il suo orientamento verso le forme del giudizio. Infatti, i “termini ontologici”, come le categorie, sono proprio queste funzioni del giudizio quali regolari determinazioni di un molteplice dato, in particolare del nostro molteplice spazio-temporale. Nella sua metodica fondazione, questa ontologia è, dunque, un’ontologia basata sulla logica del giudizio, non come quella hegeliana, che è un’ontologia dialettica. Il suo fondamento intellettuale è dunque il puro «Io penso» o l’unità sintetica dell’appercezione. Ma come viene determinata la stessa appercezione? Qui la risposta di Kant non è univotranscendantale dans la deuxième édition de la Critique de la raison pure, Publications de la Sorbonne, Paris 2007. Mi sia consentito di rinviare anche alle mie ricerche sull’autocoscienza pura e sulle categorie in Kant: Spontane, diskursive Synthesis. Kants neue Theorie des Denkens in der kritischen Philosophie, in S. Doyé - M. Heinz - U. Rameil (Hrsg.), Metaphysik und Kritik. Festschrift für M. Baum, Walter de Gruyter, Berlin-New York 2004, pp. 83-107; Gibt es eine Kantische Kategorienentwicklung aus der Einheit des “Ich denke”?, di prossima pubblicazione.
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ca. Nella «deduzione delle categorie» della seconda edizione (cfr. B 129-139), all’appercezione pura o all’«Io penso» viene attribuita la sintesi intellettuale spontanea e l’unità sintetica che ne è alla base. Entrambe sono riferite a priori a un molteplice indeterminato, dato e cioè sensibile; molteplice che, grazie a tale sintesi e all’unità sintetica, viene per la prima volta regolarmente unificato. Come pura autocoscienza, quest’Io pensante dev’essere autoreferenziale e riferirsi a se stesso; gli competono, dunque, tanto unità analitica quanto la coscienza dell’Io dell’identità di se stesso nelle molteplici rappresentazioni sintetizzate. Tutte queste determinazioni sembrano spettare all’appercezione pura, ancor prima delle forme del giudizio, come modalità della sintesi e prima delle categorie. Da ciò si potrebbe concludere che la dottrina dell’appercezione o la teo ria dell’Io puro preceda la logica (formale e trascendentale). Nel capitolo sui Paralogismi della seconda edizione, tuttavia, Kant – dopo una prima soluzione dei «paralogismi», ovvero dei falsi ragionamenti sull’immortalità dell’anima o dell’Io pensante – espone predicati categoriali del puro «Io penso»; sul piano del puro pensiero non viene stabilita la conoscenza di quali categorie spettino analiticamente all’«Io penso» (cfr. B 407409, 419). Le categorie sono qui funzioni logiche del giudizio che determinano un contenuto, ma non già il nostro contenuto spazio-temporale. In tal modo Kant mostra che l’«Io penso» viene dapprima determinato mediante l’importante categoria della sostanza – della classe della relazione –, che ha un significato determinante per un’ontologia della sostanza. Ma che l’«Io penso» sia pensato come sostanza significa qui soltanto: gli è analiticamente immanente l’essere sempre il soggetto, che è alla base e che resta identico, dei suoi pensieri. Con ciò non si dice nulla circa la natura della sua esistenza. – Kant attribuisce quindi al puro «Io penso» la determinazione categoriale della semplicità, dalla classe della qualità; l’«Io penso» viene così pensato come «reale» (B 419) e concreto, che non può essere
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scomposto in parti o composto da parti, ma che è originariamente in sé uno e dunque semplice. Anche questa non è, tuttavia, una conoscenza ontologica dell’essere semplice dell’Io, come in Leibniz, bensì solo un predicato analitico del pensiero. La terza determinazione categoriale del pensiero, e cioè come si deve concepire l’«Io penso», discende dalla classe della quantità, con la categoria della singolarità; essa significa che l’Io pensante, in tutti i suoi molteplici pensieri, resta sempre lo stesso, e quindi identico. Ciò solleva l’unità analitica e l’identità dell’appercezione dalla caratterizzazione generica, che certamente non era delimitata dal punto di vista categoriale. – La quarta determinazione categoriale appartiene alla classe della modalità. Questa è la determinazione più complessa dell’«Io penso», a causa del confronto di Kant con l’«ego cogito – ego existo» di Cartesio; essa attribuisce all’«Io penso» un’esistenza puramente pensata e astratta. Nella prima certezza cartesiana, l’esistenza dell’«ego cogito», secondo la visione critica di Kant, ha propriamente solo un indeterminato significato empirico. Anche l’«ego cogito» è per Kant, in questo contesto (cfr. B 422-23, n.), soltanto una indeterminata percezione interna di un atto psichico empirico. Ciò non impedisce tuttavia a Kant di stabilire il puro «Io penso», la pura appercezione a priori, come principio della logica e conferirgli, sul piano del pensiero puro, la categoria modale dell’esistenza (così, ad. es., B 409), dal momento che Kant occasionalmente esprime quel supremo principio dell’appercezione anche come «Io sono» (cfr. B 138, 157 e passim). Infatti, dell’«Io penso» è difficile accettare, in modo sensato, che esso non sia. Che gli spetti l’esistenza viene certo solo pensato, non conosciuto; ma questo pensiero non contraddittorio è insieme la condizione teoretica minima per il postulato pratico dell’immortalità del puro «Io penso». Secondo queste predicazioni categoriali puramente pensate, che mettono in rilievo solo analiticamente e logicamente come si debba determinare l’appercezione pura, sembra che le ca-
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tegorie e le forme del giudizio sulle quali esse si basano debbano già precedere ed essere sviluppate, affinché l’«Io penso» possa essere determinato per mezzo di esse e queste possano fungere da suoi predicati analitici. Di conseguenza, logica e dottrina delle categorie dovrebbero precedere la teoria della soggettività, a differenza dall’argomentazione anteriore, in cui implicitamente valeva l’inverso. Questa ambiguità, in fin dei conti, sta nel fatto che in Kant non c’è uno sviluppo delle forme del giudizio e delle categorie a partire dal puro «Io penso».
2. Il problema della priorità e la soluzione nel primo Fichte Il problema se la logica preceda o segua la teoria della soggettività viene affrontato da K.L. Reinhold e G.E. Schulze, con la questione specifica se il primo principio della filosofia sia il principio della coscienza di Reinhold, e cioè che nella coscienza «la rappresentazione» viene «riferita all’oggetto e al soggetto»3, oppure – come sostiene Schulze – il principio logico di non contraddizione. In questo problema, che richiede anche dettagliate argomentazioni conseguenti, il primo Fichte riconosce quello fondamentale del rapporto tra teoria della soggettività e logica. Egli vede, infatti, in questa concorrenza su che cosa sia il principio primo della filosofia, il problema se sia la logica o la teoria della soggettività a occupare il rango di filosofia prima. Egli illustra l’accennata discussione tra Reinhold e Schulze nella Recensione all’Enesidemo (1793-94) e abbozza qui la sua soluzione, che trova poi la prima attuazione puramente 3. K.L. Reinhold, Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögens, bey C. Widtmann und J.M. Mauke, Prag und Jena 1789, pp. 321 e 200; Id., Über das Fundament des philosophischen Wissens, bey Johann Michael Mauke, Jena 1791, pp. 84 ss.; cfr. anche G.E. Schulze, Aenesidemus oder uber die Fundamente der von dem Herrn Professor Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie (1792), Neudrucke der Kant- Gesellschaft, Bd. 1, Reuther & Reichard, Berlin 1911, pp. 46 ss.
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sistematica nel Fondamento dell’intera dottrina della scienza (1794-95). Il principio della coscienza di Reinhold e il concetto kantiano dell’unità sintetica dell’appercezione sono ricondotti da Fichte all’ancor più elevato principio puro dell’Io assoluto come pura spontanea attività, che è ancora senza opposizione. Tale Io, come pura attività o azione in atto (Thathandlung), non è res o substantia cogitans, bensì pura attuosità intellettuale. L’opposizione originaria a quest’Io assoluto è il puro Non-Io. In questa concezione dell’Io e del Non-Io consiste, secondo Fichte, il concreto o reale contenuto dei principi della dottrina della scienza4. Tali contenuti dei principi devono ora essere formulati nei principi sommi, e cioè nell’Io = Io in quanto «Io sono» e nella proposizione: all’Io è originariamente opposto un Non-Io (cfr. Fondamento dell’intera dottrina della scienza, §§ 1-2). Qui vengono impiegate espressioni logiche che, nei confronti di quei contenuti originari, rappresentano mere forme logiche che, astratte da quei contenuti originari e quindi specificamen-
4. Sulla genesi e l’evoluzione del Fondamento dell’intera dottrina della scienza (1794-95) di Fichte e sulle diverse riflessioni che lo hanno portato a stabilire il principio dell’Io quale fondamento delle categorie cfr. l’istruttiva esposizione di G. Di Tommaso in J.G. Fichte, Meditazioni personali sulla filosofia elementare, Bompiani, Milano 2017: traduzione con testo tedesco a fronte, pp. 243-653, monografia introduttiva (storica e sistematica), pp. 7-230; uno sguardo sintetico è fornito dal medesimo autore in Überlegungen zur Struktur der Eignen Meditationen Fichtes (conferenza 2018, di prossima pubblicazione). Cfr. anche l’indagine storico-sistematica di W. Metz, Kategoriendeduktion und produktive Einbildungskraft in der theoretischen Philosophie Kants und Fichtes, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1991, in partic. la seconda parte relativa a Fichte, pp. 199-386. Cfr. anche l’interpretazione, densa dal punto di vista argomentativo, del principio dell’Io e dello sviluppo delle categorie nel primo Fichte, di Chr. Hanewald, Apperzeption und Einbildungskraft. Die Auseinandersetzung mit der theoretischen Philosophie Kants in Fichtes früher Wissenschaftslehre, Walter de Gruyter, BerlinNew York 2001, in partic. pp. 11-174.
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te rappresentate in modo tematico, secondo Fichte vengono «riflesse». Ciò vale anche per il terzo principio che, nel suo significato originario e contenutistico della dottrina della scienza, designa la posizione dell’Io divisibile di contro al Non-Io divisibile, da cui scaturisce, secondo Fichte in modo puramente formale, il principio logico di ragione (des Grundes). In proposito Fichte dichiara univocamente nei suoi primi scritti che la dottrina della scienza, con la sua concezione contenutistica dell’Io assoluto e quindi dell’Io divisibile, limitato, è il fondamento e la condizione di possibilità della logica formale. In tal modo dai primi tre principi della dottrina della scienza così come sono stati accennati scaturiscono, per astrazione, i principi logico-formali 1. di identità, 2. di non contraddizione e 3. di ragione. Dal punto di vista della logica del giudizio emergono qui – secondo la struttura fondamentale del giudizio come congiunzione (sintesi) e separazione (antitesi) – le forme del giudizio affermativo, di quello negativo e del giudizio limitativo, ciò che costituisce una logica del giudizio povera sul piano logico-formale5. Mediante una seconda astrazione, e precisamente anche da una tale «azione» di giudicare, risultano, secondo Fichte, innanzitutto le tre categorie 1. della realtà, 2. della negazione, 3. della limitazione e quindi, sulla scorta della limitazione, le categorie della quantità e altre. La circostanza che qui le categorie emergano per mezzo di una doppia astrazione rispetta difficilmente la connessione, insegnata da Aristotele, dalla tradizione e ancora da Kant, della logica del giudizio con i significati fondamentali dell’ente conoscibile.
5. Il «giudizio tetico», che anche Kant nomina già nelle riflessioni degli anni Settanta (cfr. AA XVII, 494, Rifl. 4279), non è per Fichte un vero e proprio giudizio con sintesi e antitesi. Il giovane Hegel vede nei «giudizi tetici» affermazioni di contenuto teologico superiore.
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In questa concezione del primato univoco della dottrina della scienza quale teoria della soggettività nei confronti della logica formale, che sorge per astrazione e nella sua mera formalità vale per tutte le scienze, risulta ora, e Fichte lo rimarca con chiarezza, un problema circolare. La dottrina della scienza, che precede la logica, deve essa stessa, in quanto teoria scientifica, impiegare già le forme e le leggi logiche. Fichte dichiara il circolo «inevitabile»6, ma non vizioso, se le forme e le leggi logiche sono assunte in un primo momento come problematiche, ma vengono confermate nel corso ulteriore dello svolgimento. In tal caso, però, agli sviluppi compete, secondo Fichte, solo verosimiglianza. In questo modo, tuttavia, il circolo non viene risolto e difficilmente una dottrina della scienza può fondare la validità, anche solo assertoria e ancor meno apodittica, ed esigerla essa stessa a partire soltanto dalla verosimiglianza. L’ultimo Kant ha conosciuto parti dello scritto fichtiano Sul concetto della dottrina della scienza (1794) nonché i resoconti sulla sua impostazione. La dottrina di Fichte gli sembra essere un «fantasma» senza realtà, che «oltrepassa perfino la logica» (Lettera di Kant a Tieftrunk del 5-4-1798). Questo colpisce – malgrado l’indeterminatezza della conoscenza di Fichte da parte di Kant – il nerbo della dottrina di Fichte. Kant stesso non oltrepassò mai la logica. – Fichte accenna, senza portarla a compimento, a una prosecuzione di questo suo problema, precisamente con il pensiero secondo cui le forme logiche sarebbero esse stesse parti costitutive delle azioni dell’Io puro (cfr. Sul concetto della dottrina della scienza, § 7). Nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) Schelling sostiene il punto di vista di Fichte sul primato del contenuto
6. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Frommann- Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964 ss., Bd. I,2, pp. 253 s. e passim.
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dell’idealismo trascendentale, cioè dell’Io, rispetto alle forme logiche, ma non indipendentemente da esse, e concede a Fichte il circolo7. Schelling si sottrae tuttavia a tale problema, poiché per lui l’«organon» della filosofia non è la logica, bensì l’arte o la filosofia dell’arte, che conduce al compimento dell’Io nel genio. Naturalmente per tale filosofia c’è bisogno, secondo Schelling, di uno specifico «senso estetico».
3. La teoria della soggettività come logica in Hegel Soltanto Hegel espone, in particolare nella Scienza della logica (1812-1816), una dettagliata teoria che mostra che la soggettività pensante e pensante se stessa si deve sviluppare solo all’interno di una logica essenzialmente determinata dal punto di vista contenutistico e che nondimeno esplica anche le forme. Hegel evita le indeterminatezze kantiane che permangono nel rapporto tra teoria della soggettività e logica, così come i gravi problemi in relazione al primato dell’idealismo trascendentale, e della teoria della soggettività nei confronti della logica formale. La tesi fondamentale di Hegel suona: la teoria della soggettività dev’essere sviluppata all’interno della logica; questa, inoltre, non deve restare semplicemente un apparato formale di regole, ma deve essere sviluppata come una scienza dotata di contenuto. Questo contenuto non può essere, come nella logica trascendentale di Kant, un molteplice sensibile dato, perché allora le sue interne determinazioni di pensiero dovrebbero riferirsi a una molteplicità a essa estranea. Il contenuto consiste piuttosto nelle pure determinazioni di pensiero o nelle stesse categorie, che non sono vincolate alle connotazioni logiche del giudizio. Esse, secondo Hegel, si arricchiscono da serie di categorie a 7. Cfr. F.W.J. Schelling, Sämmtliche Werke, hrsg. von K.F.A. Schelling, J.G. Cotta, Stuttgart-Augsburg 1856-1861, Bd. III, pp. 360 s.; successivo rinvio, pp. 350 s.
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serie di categorie con strutture sempre più differenziate, fino a divenire esplicite determinazioni dell’autoreferenzialità del soggetto pensante. Qui Hegel espone, poi, come tale attività intellettuale che si riferisce a se stessa assorba in sé e oltrepassi la tradizionale logica formale del concetto, del giudizio e del sillogismo, mostrando che tale logica dell’intelletto, meramente formale, resta unilaterale, solamente finita e con ciò anche non vera, essendo un prodotto puramente intellettivo, astratto dalla ben più ricca logica speculativa8. Come esempio per la concezione della logica di Hegel, a differenza di quella kantiana, può essere d’aiuto la dottrina del giudizio. Essa non ha in Hegel alcun primato come in Kant. Il giudizio è considerato da Hegel come scissione del concetto nelle sue determinazioni e, allo stesso modo, come relazione tra loro. Il concetto è qui tanto pensato, e cioè contenuto di pensiero, quanto anche puro «Io penso», come la kantiana 8. In proposito cfr., dell’ampia presentazione di Hegel di V. Hösle, Hegels System. Der Idealismus der Subjektivität und das Problem der Intersubjektivität, 2 voll., Meiner, Hamburg 1987, l’interpretazione della logica hegeliana del concetto come logica della soggettività, vol. I, pp. 227-259. Cfr. anche l’interpretazione della logica hegeliana del concetto, con accentuazione dei fondamentali termini di «identità» e «differenza», di G. Jarczyk, Différence et unité. La partition du concept dans la Logique de Hegel, Éditions Kimé, Paris 2018. Si veda inoltre, nell’ambito dell’ampia interpretazione ontologica della logica di Hegel, l’esposizione della logica del concetto, con riferimento alla Fenomenologia dello spirito e a Kant, di L. Lugarini, Orizzonti hegeliani della comprensione dell’essere. Rileggendo la Scienza della logica, Guerini e Associati, Milano 1998, partic. pp. 433-454). Sia infine consentito rinviare alle mie illustrazioni dell’esemplare rapporto della teoria della soggettività con la logica speculativa, nel volume Das Problem der Subjektivität in Hegels Logik. Systematische und entwicklungsgeschichtliche Untersuchungen zum Prinzip des Idealismus und zur Dialektik (1976), terza ed. ampliata, Bouvier, Bonn 1995, pp. 11-25; 198-208; 228-46. Cfr. inoltre, dello scrivente, Dialektik und Syllogistik in Hegels spekulativer Logik, in D. Henrich (Hrsg.), Wissenschaft der Logik. Formation und Rekonstruktion, Klett-Cotta, Stuttgart 1986, pp. 15-38.
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appercezione pura9. Da qui emerge per Hegel il contenuto centrale del giudizio. I giudizi, che anche nella tradizionale logica del giudizio implicano nelle posizioni formali, ad es., del soggetto e del predicato, determinate funzioni di universalità, particolarità o anche singolarità, che possono però essere occupate da qualsiasi contenuto concreto, vengono ora – nella logica di Hegel – definitivamente riempiti di contenuto con le determinazioni concettuali; queste sono il nuovo contenuto, non arbitrario e speculativo dei giudizi, ad es.: il singolare è universale (cfr. GW 12, pp. 53 ss., 60 ss.). Poiché però singolare e universale, come si è mostrato, sono specifiche determinazioni del concetto come contenuto di pensiero e «Io penso», viene con ciò formulata un’espressione determinata, con implicito autoriferimento della soggettività pensante. L’oggetto, che secondo Kant è intenzionato nel giudizio, è così lo stesso soggetto pensante e spontaneo. Ciò riesce in modo di gran lunga più strutturato se al posto della mera copula, priva di concetto, entra nel giudizio la mediazione concettuale, vale a dire il concetto medio di un sillogismo, che poi può essere sviluppato come rapporto che diviene sempre più complesso, come Hegel lo concepisce (cfr. anche GW 8, p. 197). In tal modo, per proseguire l’esempio addotto, il singolare, per il concetto medio del particolare, viene unito con l’universale (S-P-U). Le pure forme dei giudizi e dei sillogismi sono qui per Hegel solo intellettualistiche astrazioni da tale speculativo pensare-sé, che si differenzia da sé e si media con se stesso. Tuttavia, questa concezione di fondamento della logica, che concerne il contenuto speculativo e la teoria della soggettività, deve valere non soltanto per la «logica soggettiva» con concet9. Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Zweiter Band. Die subjektive Logik, in Id., Gesammelte Werke, [= GW], hrsg. von der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Meiner, Hamburg 1968 ss., Bd. 12, pp. 17 ss.
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ti, giudizi e sillogismi e quindi idee, bensì anche per le ampie determinazioni di pensiero ontologiche che, nello sviluppo specificamente hegeliano, precedono; e dunque questa concezione della soggettività deve valere anche per le categorie dell’essere e dell’essenza della «logica oggettiva». Qui le singole categorie ontologiche come essere, esserci o anche sostanza non hanno il significato della pensante relazione a se stesso. Ma Hegel espone nel seguito che esse sono momenti più semplici nel pensare puro e autoreferenziale del soggetto. Perciò per lui, ad es., il qualcosa, nella sua semplice relazione a sé, è già l’«inizio del soggetto» (GW 21, pp. 103 s.); e categorie ontologiche più differenziate contengono momenti più differenziati della soggettività pensante. Esse sono tutte collegate dallo svolgimento metodico per mezzo della dialettica, il che significa, dal punto di vista del contenuto, che l’autentico ente pensato per mezzo di essa è processo. Nella sua logica l’ontologia di Hegel non è, dunque, logica del giudizio, bensì un’ontologia dialettica; e non è ontologia della sostanza, bensì un’ontologia del processo, che si compie nel processo dialettico della pensante conoscenza di sé da parte dell’idea o della soggettività assoluta. In tal modo Hegel riunisce di nuovo, dal punto di vista del contenuto di pensiero della sua logica, la metafisica generale come ontologia e la metafisica speciale, in particolare come teologia filosofica, nell’unico complessivo contesto argomentativo della sua logica speculativa. In questo modo Hegel risolve i problemi del rapporto tra teoria della soggettività e logica dei suoi predecessori poiché, secondo la sua concezione, la fondamentale teoria della soggettività può essere sviluppata solo come logica. Questa non può, però, essere solo formale, astratta logica dell’intelletto, bensì deve esporre metodicamente un contenuto categoriale, che si evolve gradualmente arricchendosi di strutture, fino alla divina soggettività infinita, che conosce se stessa. – Questa soluzione, tanto innovativa quanto brillante, ci pone tuttavia davanti alla que-
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stione di come il pensiero umano finito, legato al linguaggio e alla discorsività, che per la conoscenza è assegnato non soltanto a determinazioni di pensiero a priori bensì, in ultima analisi, anche alle esperienze, possa far fronte a tali elevate idee. (Ringrazio di cuore Giannino Di Tommaso per la traduzione italiana di questo saggio)
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Sistema e principio in Fichte e in Hegel di Gaetano Rametta
1. Nel suo saggio Sul concetto d dottrina della scienza, Fichte parla di una coincidenza o di una implicazione fra “sistema” e “fondamento” (Grund). Il sistema si pone su un duplice piano. In primo luogo, il sistema esprime la struttura del sapere umano. Da questo carattere sistematico del sapere umano, Fichte deriva, in secondo luogo, la necessità di dare un carattere sistematico anche all’esposizione filosofica. Solo se l’esposizione assume la forma del sistema, essa potrà adeguatamente esprimere i nessi concettuali che contraddistinguono il sapere umano, e assumere uno statuto propriamente scientifico. A questo punto, l’argomentazione di Fichte procede in questi termini: se un sistema filosofico dev’essere possibile, il filosofo dovrà scoprire il fondamento a partire dal quale costruire l’edificio del sistema. In questo modo, si produce un’ulteriore, duplice implicazione: primo, se il sapere umano è un sistema, allora esso deve basarsi su una solida “base” (Grundlage) o fondamento; secondo, per questa ragione, anche l’esposizione scientifica del sapere umano, in quanto filosofia trascendentale, dovrà costituirsi in un sistema, e perciò stesso dovrà, a sua volta, basarsi su un solido principio o fondamento. Da queste premesse, risulta che la filosofia potrà reclamare un’effettiva
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scientificità se, e soltanto se, il fondamento su cui essa basa il suo edificio coincide o corrisponde al fondamento stesso del sapere umano. In altri termini, Fichte dovrà dimostrare la coincidenza fra il fondamento della sua esposizione (Darstellung) e il fondamento del sapere umano, che nell’esposizione è condotto alla consapevolezza di sé. Solo in questo modo la filosofia potrà affermarsi come “sapere del sapere”, “scienza della scienza”, in altri termini appunto come Wissenschaftslehre (d’ora in poi indicata come di consueto con l’abbreviazione: WL). Ora, il fondamento esige, per presentarsi come tale, una proposizione che lo esprima. La filosofia potrà istituirsi come scienza solo se saprà dimostrare di avere scoperto il fondamento del sapere umano; ma potrà dimostrarlo solo se sarà in grado effettivamente di presentare il fondamento in una proposizione (Satz), che dovrà essere assolutamente incondizionata, incondizionata cioè sia riguardo alla sua forma, sia riguardo al suo contenuto. Se scopriremo questa proposizione, in quanto proposizione che esprime il fondamento assolutamente incondizionato del sapere umano, avremo scoperto il principio (Grundsatz) in grado di fondare l’intera filosofia come scienza, ovvero come dottrina trascendentale del sapere umano. È ben noto che Fichte, nella Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre (d’ora in poi indicata con l’abbreviazione: GWL), formula il principio come Io che pone assolutamente se stesso. Altrettanto noto è che questa formulazione è ben lungi dal risolvere tutti i problemi. Al contrario, sembra che i veri problemi comincino proprio a questo punto. In effetti, per sostenere la sua concezione della filosofia come dottrina della scienza, Fichte sembra dover fare riferimento a due modelli di scientificità di dubbia congruenza reciproca. Il primo riflette la concezione razionalistica dominante nella prima metà del Settecento, e si basa sulla connessione fra le idee di fondamento, principio e sistema che abbiamo cercato
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di illustrare fin qui. Nello scritto Sul concetto, la metafora correlata a questo modello, e che noi stessi abbiamo impiegato tacitamente nel nostro discorso, è l’immagine della scienza come edificio (Gebäude). Ho cercato di esaminare i problemi che sorgono da questo concetto di scienza in un articolo sulla questione dell’inizio (Anfang) della filosofia nella teoria di Fichte1. Detto in breve, questo modello va incontro a due coppie di aporie, che possiamo chiamare le aporie del fondamento e le aporie del principio. Le aporie del fondamento sono le seguenti. Potremmo chiamare la prima l’aporia della fondazione: il fondamento (Grund) deve fornire la base (Grundlage) della dottrina della scienza intesa come “costruzione” o “edificio” (Gebäude). Ma per poter fungere da fondamento, la base non può limitarsi a restare “sotto” il sistema che si edifica su di essa, bensì deve compenetrarlo nella sua interezza, rendendosi interna o immanente al sistema stesso. Di conseguenza, essa può fungere da fondamento solo se viene confermata dal sistema che dovrebbe costruirsi su di essa. Il sistema diventa così fondamento del fondamento che lo dovrebbe sorreggere, un po’ come se un edificio si trovasse a dover sostenere le fondamenta su cui è stato elevato. La seconda aporia riguarda la relazione tra il fondamento e il sapere che lo riconosce come tale, e potremmo chiamarla l’aporia della certezza. In effetti, se il fondamento dev’essere il contenuto del principio, deve possedere un requisito che lo renda adatto a svolgere la funzione per la quale è chiamato in causa. Questo requisito è individuato da Fichte nella certezza. Il fondamento può essere tale solo se è in grado di trasmettere al pensiero la convinzione della sua verità; senza produrre 1. Cfr. G. Rametta, Satz und Grund. Der Anfang der Philosophie bei Fichte mit Bezugnahme auf die Werke BWG und GWL, in «Fichte-Studien», vol. 9, 1997, pp. 127-139.
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questa convinzione, la verità del fondamento resterebbe priva di certezza, e il suo statuto di verità potrebbe dunque essere revocato in dubbio. Ora, l’aporia non riguarda il circolo necessario tra verità del fondamento e certezza del sapere che lo coglie come tale, poiché nel cogliere come certa la verità del fondamento, è il sapere stesso che si accerta della sua intrascendibilità, e si conferma dunque nella propria verità. L’aporia riguarda il fatto che una volta posto come fondamento il circolo inevitabile tra verità e certezza, costitutivo del sapere, tale circolo deve porsi come fondamento di qualcosa d’altro da se stesso, ovvero della scienza che si deve costruire su di esso. Solo in tal modo esso può essere “base”, solo in tal modo l’edificio della scienza può trovare in esso le proprie “fondamenta”. Ciò significa che il fondamento non può trattenere in se stesso la propria certezza, bensì deve trasmetterla a tutte le parti del sistema costruito su di esso. Ma, allora, sembra necessario che la certezza del fondamento, non potendosi più limitare a quest’ultimo, si dissolva nella certezza del sistema: in questo caso, non sarebbe più soltanto la certezza del sistema a dipendere dalla certezza del fondamento, ma la certezza stessa del fondamento avrebbe bisogno, per confermarsi come tale, di essere confermata dalla struttura complessiva del sistema. In questo modo, però, la nozione di fondamento verrebbe a perdere la propria funzione, poiché verrebbe assorbita nell’insieme del sistema, che si troverebbe a fondare se stesso come totalità interconnessa di concetti in grado di reggersi, per così dire, da sola, senza bisogno di poggiare su alcuna base, né di costruirsi a partire da determinate fondamenta. Le aporie del principio (Grundsatz) riguardano la veste proposizionale (Satz) attraverso la quale il fondamento (Grund) si esprime nel linguaggio, e sono necessariamente legate alle prime. La prima potrebbe essere chiamata l’aporia della pro-
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posizione, e riguarda il rapporto tra il principio come prima proposizione fondamentale e l’insieme delle proposizioni interconnesse che costituiscono la dottrina della scienza come esposizione sistematica. Nello stesso modo in cui la certezza del fondamento doveva dissolversi nella certezza del sistema come insieme di concetti reciprocamente correlati, così ora sembra che la proposizione incondizionata posta all’inizio del sistema debba necessariamente essere riassorbita nella totalità delle proposizioni che scaturiscono da essa. Queste ultime, infatti, vengono dedotte dalla proposizione prima e incondizionata che costituisce il principio del sistema, ma al tempo stesso possono essere soltanto loro a confermare che quella prima proposizione è effettivamente il principio di un sistema, cioè di una totalità conclusa di conoscenze, nella quale l’inizio della deduzione scaturisce in pari tempo come risultato ultimo della deduzione stessa. Senza questo criterio di circolarità, nessuna implicazione necessaria tra inizio e fine dell’esposizione; senza questa implicazione, nessun criterio di conferma per la completezza del sistema; senza completezza del sistema, nessuna conferma del fatto che il principio sia effettivamente tale. La seconda aporia del principio potrebbe essere chiamata l’apo ria del sapere. Abbiamo detto all’inizio che il principio deve presentare il fondamento non soltanto come fondamento della scienza, bensì anche come fondamento del sapere umano. Ora, questo sembra implicare che la circolarità interna alla relazione tra principio e sistema si rifletta sulla circolarità fra dottrina della scienza e sapere umano. In altri termini, sembra che il filosofo debba già essere in possesso della conoscenza relativa alla natura del sapere umano, per poter essere in grado di costruire, sulla base di questa conoscenza presupposta, l’edificio della filosofia trascendentale in quanto sapere di quel primo sapere, cioè nelle vesti appunto di dottrina della scienza. Ma se è così, quest’ultima potrebbe al massimo aspirare a un sapere di tipo analitico, certamente non di tipo sintetico. Essa
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si limiterebbe a sviluppare in senso sistematico determinazioni interne alla coscienza comune, senza apportare alcun reale ampliamento alle cognizioni già possedute spontaneamente da questa. Nessun ampliamento del sapere, nessun allargamento di prospettive e di orizzonti: la WL come sistema filosofico verrebbe a perdere ogni statuto autenticamente trascendentale, e si limiterebbe a confezionare un’impalcatura intellettualistica di concetti puramente formali. Per sfuggire a queste difficoltà, Fichte propone un modello epistemologico alternativo a quello fin qui esaminato, in grado di affiancarsi, se non di sostituire, quello centrato sull’immagine della scienza come “edificio”. In questo caso, la metafora pertinente sarebbe quella del sistema come “anello” (Ring). Assumendo positivamente alcune aporie emerse dall’indagine sul modello precedente, il sistema non andrebbe più inteso come un edificio, bensì come un circolo, che comincia dal principio come suo inizio e torna allo stesso principio come sua fine e risultato ultimo. Ma anche in questo caso emerge una difficoltà. Per restare al livello della metafora, l’idea di inizio sembra incompatibile con l’idea del sistema inteso come anello e circolo: in entrambi i casi, infatti, l’inizio sarebbe al tempo stesso dappertutto e da nessuna parte. Inoltre, ancora più grave sembra la difficoltà di pensare il principio come “centro” di un sistema inteso come totalità di tipo circolare: come sappiamo, infatti, il centro di un anello è vuoto. Ora, queste difficoltà si riflettono in modo consistente sull’assetto della Grundlage del 1794-95. L’Io che pone se stesso come primo principio è presentato da Fichte come un’attività posizionale pura e incondizionata. Ciò significa che senza questa originaria attività di posizione non potrebbe essere posto assolutamente nient’altro. In particolare, senza questa prima e incondizionata attività di posizione, non sarebbero possibili né un’affermazione né una negazione. Secondo Fichte, infatti, affermare qualcosa significa asserire l’identità fra elementi oppo-
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sti, mentre negare qualcosa significa asserire l’opposizione fra elementi identici. Entrambe implicano che sia assolutamente posto un elemento = A, cioè che A sia posto preliminarmente al suo ingresso in una relazione di identità col suo opposto −A (affermazione), o in una relazione di opposizione con se stesso (come non = A). Inoltre, noi possiamo affermare o negare qualcosa in rapporto a qualcos’altro solo in virtù di un altro principio, costituito dal principio di ragione (Satz des Grundes), il quale richiede a sua volta una fondazione trascendentale da parte del terzo principio della WL, che come sappiamo introduce le nozioni di “divisibilità” (Teilbarkeit) e “determinabilità” (Bestimmbarkeit) nelle relazioni fra Io e Non-io. Con ciò, Fichte intende dire che ogni affermazione e ogni negazione sono riferite all’Io, ma solo nella misura in cui quest’ultimo è posto come divisibile, cioè suscettibile di quantificazione e perciò stesso di limitazione da parte dell’opposto con cui entra in relazione. Assumendo il limite come determinazione positiva dell’Io, affermiamo la sua identità col Non-io che lo limita in quanto gli è opposto; assumendo il limite come determinazione negativa dell’Io, in quanto gli impedisce appunto di affermarsi come incondizionata posizione, neghiamo l’identità dell’Io determinato con se stesso, introducendo l’opposizione tra l’Io come assoluta posizione, e l’Io come posizione limitata, cioè come negazione della prima. Ora, dal momento che la validità del principio di ragione è delimitata dall’orizzonte del terzo principio, cioè non può estendersi oltre l’ambito di ciò che è determinato e perciò finito, nel momento stesso in cui il pensiero cerchi di determinare la struttura del primo principio si avvolge in inevitabili aporie. Dal punto di vista del principio di ragione, che è l’unico di cui il pensiero umano disponga per la determinazione discorsiva dei concetti, non si potrà dunque propriamente mai asserire che il principio primo sia “qualcosa” (Etwas). Esso sfugge
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alla domanda metafisica per eccellenza: “Che cos’è?”, poiché quest’ultima presuppone la possibilità di una risposta in termini di “qualcosa” e delle sue determinazioni, mentre l’Io assoluto del primo principio è appunto ciò che si perde immediatamente, non appena noi pretendiamo di concepirlo e determinarlo come un “qualcosa”. Al massimo, dunque, potremmo dire: esso non è un qualcosa, intendendo con questo termine l’espressione formale con cui esprimiamo l’idea trascendentale di un “oggetto in generale”. Se invece volessimo intendere con “qualcosa” l’idea di sostanza, sia nel senso aristotelico dell’ousia come supporto di predicati (hypokeimenon), sia nel senso spinoziano dell’assoluta realtà che trova nei suoi modi soltanto le forme limitate della sua espressione, torneremmo appunto all’interno dell’orizzonte circoscritto dal terzo principio e dal principio logico, ad esso correlato, del Satz des Grundes. Ora, ciò non implica che, non essendo qualcosa, l’Io assoluto debba essere paradossalmente concepito come niente. Anche in questo caso, infatti, esso è niente solo nella misura in cui venga pensato alla luce del principio di ragione, che identifica l’essere con l’essere qualcosa. D’altra parte, se accettiamo l’impossibilità di comprendere l’Io assoluto sulla base del principio di ragione, e applichiamo questa conclusione a quanto abbiamo detto sopra in rapporto all’implicazione reciproca fra i concetti di fondamento, principio e sistema, diventa inevitabile chiedersi se tale costellazione di concetti, al di là delle aporie che abbiamo indicato in precedenza, sia quella più indicata per concettualizzare l’idea fichtiana di filosofia trascendentale come dottrina della scienza; se proprio quelle aporie, in altri termini, non abbiano la loro radice più profonda nell’incompatibilità radicale tra filosofia trascendentale e dominio incontrastato del principio di ragione. Se infatti volessimo intestardirci nella riaffermazione di quest’ultimo, ricadremmo nuovamente nell’aporia del fondamento sopra indicata, laddove il Grund doveva abbracciare
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l’intero sistema, senza poter più occupare alcuna posizione indipendente dal sistema stesso; oppure nell’aporia del centro di un sistema inteso come anello. Anche in questo caso, il fondamento non potrebbe più occupare alcuna posizione, perché verrebbe a coincidere col vuoto a partire dal quale solamente un anello si può definire come tale. Ma allora, se l’Io non può essere concepito come fondamento senza incorrere in aporie distruttive del pensiero stesso, non potrà neppure essere espresso mediante una singola proposizione fondamentale, assunta come principio primo del sistema. Tale proposizione implicherebbe infatti la presenza di un soggetto, a cui fosse possibile attribuire determinate proprietà in veste di suoi predicati. E tuttavia, Fichte scrive esplicitamente che l’Io «non è un soggetto né rappresentato né rappresentabile»2. Ora, restando all’interno del principio di ragione, è difficile immaginare che tipo di soggetto possa essere un soggetto proposizionale, che non sia suscettibile di essere posto di fronte (vor-gestellt) alla riflessione del soggetto pensante, e dunque non possa mai essere catturato dal dispositivo della rappresentazione (Vorstellung). Ciò non significa la liquidazione del soggetto, come potrebbe affrettatamente concludersi seguendo una linea di pensiero d’ispirazione heideggeriana, bensì al contrario la necessità di pensare il soggetto in termini diversi da quelli dettati dal principio di ragione e dalle modalità del pensiero rappresentativo, che sono ad esso inevitabilmente correlate. Del resto, lo stesso Fichte precisa che il giudizio in cui si articola il primo principio (das Ich setzt sich selbst schlechthin) è un giudizio soltanto dal punto di vista della sua forma grammaticale. Riguardo al suo
2. GWL, in J.G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964 ss., Bd. I,2, p. 277.
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contenuto, invece, le cose stanno in modo del tutto diverso. In questa proposizione, scrive Fichte, «non si dice nulla sull’Io, bensì il posto del predicato è lasciato vuoto all’infinito per la possibile determinazione dell’Io»3. Concludendo su questa prima sezione: in primo luogo, abbiamo visto che l’Io del primo principio non è niente, bensì viene compreso in questi termini, cioè annullato nel suo senso e nella sua struttura, solo se pretendiamo di applicare ad esso la logica del principio di ragione e del pensiero rappresentativo. In secondo luogo, abbiamo viso che l’Io non è neppure qualcosa: in questo caso, infatti, esso non sarebbe più il soggetto assoluto, ma diventerebbe un soggetto determinato e limitato. In altri termini, non sarebbe più inteso come l’Io incondizionato del primo principio, ma come l’Io divisibile e condizionato del terzo principio. In terzo luogo, abbiamo visto che l’Io assoluto non può essere concepito adeguatamente neppure in termini di sostanza. Questo concetto, sia nella versione aristotelica, sia nella versione spinoziana, implicherebbe infatti la divisibilità e la determinabilità dell’Io, e dunque l’opposizione tra Io limitato e Non-io limitato. Infine, l’Io assoluto non può essere concepito neppure come soggetto di proposizioni: per essere concepito in questi termini, infatti, esso dovrebbe essere prima posto-difronte alla riflessione del soggetto pensante, ricondotto cioè a mera rappresentazione. Ma in questo caso, venendo nuovamente sussunto sotto il principio di ragione, esso ricadrebbe in uno dei tre casi precedenti: sarebbe cioè meramente nulla, o qualcosa di relativo perché limitato, oppure sostanza catturata nella dialettica interminabile tra determinabilità e determinazione. Il primo principio della dottrina della scienza, dunque, è una proposizione solo dal punto di vista della sua forma grammaticale, ma non da quello del suo contenuto trascendentale.
3. Ibidem.
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2. Ora, sembra abbastanza evidente il fatto che questo insieme di conclusioni contraddice la forma linguistica nella quale Fichte costruisce la sua prima esposizione della dottrina della scienza. In questo aspetto risiede uno tra i motivi principali della straordinaria difficoltà che tuttora sussiste nella lettura della Grundlage, assieme alla forza e al fascino che spingono il lettore appassionato di pensiero teoretico a cimentarsi sempre di nuovo con questo testo. Una filosofia rivolta a distruggere il dominio del principio di ragione qui cerca, forse per la prima e l’ultima volta, di esprimersi e realizzarsi mediante questo stesso principio. Una proposizione incondizionata (Satz), che in quanto espressione del fondamento assoluto del sapere (Grund) riceve la determinazione del primo principio (Grundsatz), tenta di catturare, con la formula dell’Io che pone se stesso, un contenuto trascendentale che in quanto soggetto assoluto sfugge in via di principio alla forma proposizionale e alla logica del giudizio predicativo. Come se non bastasse, questa stessa Grundlage spiega distesamente perché la logica proposizionale e la forma della rappresentazione non siano adeguate all’espressione del soggetto assoluto, che pure Fichte sceglie di esprimere e presentare in questa stessa forma! Forse in questo corto-circuito, come aveva ben visto Hegel, sta il motivo per cui l’inizio dell’esposizione non coincide, nonostante i precetti illustrati da Fichte nello scritto programmatico Sul concetto, col risultato ultimo del sistema. L’Io che pone assolutamente se stesso, collocato all’inizio dell’esposizione, riemerge effettivamente alla fine dell’esposizione nella forma, strutturalmente diversa, dell’Io che deve porre assolutamente se stesso. Così, in questa discrepanza tra inizio e fine del sistema, Hegel poté leggere il segno di una fondamentale incoerenza, che segna il fallimento del tentativo fichtiano di ricondurre la filosofia a scienza. A questo rilievo di carattere formale, che sancisce la mancata chiusura del circolo espositivo della WL e dunque il non rag-
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giungimento di una effettiva scientificità nella Darstellung del sapere, Hegel aggiunge il rilievo che tale incoerenza si rende inevitabile nel momento in cui il principio speculativo, costitui to dall’asserita identità di soggetto e oggetto, si rinchiude nei ristretti confini del primo, cioè dell’Io che, nel porre se stesso, esclude necessariamente da sé tutto ciò che non è soggetto, rendendo in via di principio incolmabile la scissione che lo separa dell’insieme della realtà oggettiva, ridotta alla mera forma oppositiva del Non-io. Il contenuto speculativo del principio viene così necessariamente a perdersi nella forma intellettualistica del sistema, perché la forma intellettualistica del sistema è la conseguenza inevitabile della declinazione unilaterale, in termini soggettivi, di quello stesso contenuto speculativo che, in quanto autentica identità di soggetto e oggetto, avrebbe dovuto estendersi anche a quest’ultimo, e non limitarsi all’angusto orizzonte dell’“arido Io”. Più che valutare la pertinenza della critica hegeliana, nel contesto del nostro contributo è più rilevante mostrare in che modo Hegel, attraverso la sua critica alla posizione di Fichte, giunga a elaborare un nuovo concetto di sistema. Come abbiamo visto, la circolarità tra l’inizio e la fine dell’esposizione, la riflessione critica sulla forma proposizionale, la sua inadeguatezza a esprimere il contenuto assoluto, sono tutti aspetti già presenti all’interno della Grundlage. Tuttavia, c’è un punto in cui la Grundlage resta vincolata allo stile di pensiero del razionalismo pre-critico, e questo punto è decisivo. Si tratta infatti dell’idea che, per conquistare uno statuto autenticamente scientifico, la filosofia debba fondarsi su una proposizione prima e incondizionata in veste di principio fondamentale. Il principio, in quanto proposizione che esprime il fondamento comune tra dottrina della scienza e sapere umano, è per il Fichte della Grundlage la condizione necessaria e indispensabile per istituire la filosofia trascendentale in vera e propria dottrina della scienza.
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La radicalità della critica hegeliana consiste nella distruzione di questo presupposto, con argomenti che renderanno impossibile tentare nuovamente l’impresa di fondazione scientifica della filosofia nei termini in cui essa era stata impostata da Fichte. È senz’altro vero, ad esempio, che la fenomenologia di Husserl tenterà di rifondare la filosofia in quanto “scienza rigorosa” (strenge Wissenschaft), ma il modo in cui cercherà di farlo sarà profondamente diverso da quello di Fichte (così come, del resto, da quello di Hegel). Ora, per tornare a quest’ultimo, la forza rivoluzionaria della sua innovazione epistemologica risiede, a nostro avviso, nel suo concetto di «Esposizione speculativa» (spekulative Darstellung). Proviamo a indicare, nella forma più breve possibile, quali sono i tratti distintivi della concezione hegeliana. In primo luogo, ciò che in Fichte costituiva la chiave di volta dell’intera “costruzione” sistematica, cioè il problema e la scoperta di un principio incondizionato in veste di prima proposizione fondamentale (Grundsatz), rappresenta per Hegel il carattere specifico del «dogmatismo nel modo di pensare»4. Il dogmatismo non è più definito in rapporto all’impostazione di determinati problemi, considerati come il tema o l’oggetto della riflessione filosofica (ad esempio, il modo di concepire il sapere umano), ma direttamente in riferimento al modo di concepire e realizzare il lavoro filosofico. In altri termini, l’attenzione è focalizzata sul modo in cui la filosofia istituisce se stessa, dispiegando il proprio sistema di concetti nell’esposizione linguistica che costituisce, per Hegel, la sola prova del conseguimento di una scientificità effettiva. La critica dell’idea di principio comporta, in secondo luogo, la critica della forma proposizionale rispetto alla sua effettiva
4. G.W.F. Hegel, Vorrede a Id., Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, hrsg. von der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Meiner, Hamburg 1968 ss., Bd. 9, p. 31.
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capacità di esporre il contenuto assoluto. Noi abbiamo sottolineato come già Fichte avesse osservato che il primo Grundsatz, benché assumesse la veste di prima proposizione fondamentale, non andava considerato come una vera e propria proposizione. Tuttavia, nella Grundlage egli non considera la possibilità di un’esposizione che non sia condotta tramite singole proposizioni in veste di principi subordinati, basate ciascuna sulle precedenti e tutte insieme sulla prima proposizione fondamentale in quanto principio assolutamente incondizionato. Al contrario, la teoria hegeliana della «proposizione speculati va»5 distrugge la proposizione in quanto forma eminente, attraverso cui la filosofia dovrebbe presentare i propri contenuti in quanto articolazioni concrete dell’assoluto. Il “sistema della scienza” pensato e realizzato da Hegel, in altri termini, non consiste in una concatenazione sequenziale di principi, derivati l’uno dall’altro sulla base del principio di ragione, bensì mediante il movimento opposto, attraverso il quale ciascuna singola proposizione viene distrutta dal contenuto speculativo ad essa interno, e destituita perciò stesso dalla pretesa di poter esaurire compiutamente in se stessa la natura dell’assoluto. A questa altezza va considerato il ruolo svolto dalla contraddizione nella filosofia dei due pensatori. In effetti, è fin troppo evidente che già Fichte, nella Grundlage, impiega la contraddizione come matrice logica della dimostrazione. Ma in questo testo, la contraddizione sembra svilupparsi sempre come relazione antitetica tra due proposizioni distinte, non sembra in altri termini caratterizzare la struttura interna di ciascuna singola proposizione in quanto tale. Per esempio, consideriamo le due proposizioni che rappresentano i principi della parte teoretica e della parte pratica della GWL. Il primo suona: «L’Io pone se stesso come limitato dal Non-io»; all’inverso, il secondo suona: 5. Ivi, pp. 43 ss.
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«L’Io pone il Non-io come limitato dall’Io»6. La contraddizione fra queste due proposizioni è evidente, ma altrettanto evidente ci sembra il fatto che essa si dispiega nel rapporto fra le due proposizioni, non si determina invece nel rapporto che ciascuna proposizione enuncia fra i suoi stessi termini. Da questa diversa modalità nel funzionamento della contraddizione derivano alcune conseguente importanti rispetto al l’esposizione scientifica considerata nel suo insieme. In GWL, le attività teoretiche e pratiche dell’Io sono presentate in due sezioni distinte e separate l’una dall’altra. Indubbiamente, la vita dell’Io dev’essere concepita come un intero unitario; tuttavia, l’esposizione ce la presenta come suddivisa in due parti reciprocamente indipendenti. La forma dell’esposizione basata sulla determinazione di singoli principi, in quanto proposizioni che racchiudono il fondamento di ciò che da esse viene dedotto, comporta che proprio la vita dell’Io, pur considerata come un intero, non possa essere esposta in quanto intero. L’assunzione da parte di Fichte della centralità dei Grundsätze, il fatto che egli faccia dipendere la scientificità dell’esposizione dalla forma proposizionale e dal principio di ragione, rende impossibile adeguare il metodo dell’esposizione al contenuto trascendentale che in essa dovrebbe essere esposto. Del resto, sappiamo bene come lo stesso Fichte non fosse soddisfatto della forma espositiva della Grundlage, e fin dall’anno successivo al completamento della sua pubblicazione progettasse una nuova esposizione, da lui non a caso ribattezzata Nova methodo. Resta dubbio però se egli si sia mai liberato dall’idea che la contraddizione emerga sempre soltanto fra due proposizioni, ciascuna di per sé coerente e non contraddittoria, invece di costituire la struttura interna di ciascuna singola proposizione per sé considerata.
6. GWL, p. 285.
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Si tratta di un punto cruciale, su cui cercheremo di riportare l’attenzione fra poco. Per il momento, sottolineiamo nuovamente che Hegel, nella Vorrede, insiste proprio sull’aspetto opposto, cioè sul fatto che ciascuna singola proposizione, in quanto assunta all’interno di un sistema filosofico, è in se stessa contraddittoria. Hegel non sta parlando del linguaggio ordinario, ma del linguaggio ordinario in quanto mezzo di espressione del contenuto filosofico, che per Hegel è uno e uno solo, cioè l’Assoluto inteso come Spirito e unità autocosciente di soggetto e oggetto. Se assumiamo questa concezione della filosofia come scienza dell’Assoluto, e assumiamo l’Assoluto come unità auto cosciente (Spirito) di momenti opposti (soggetto e oggetto), allora l’argomentazione di Hegel risulta pienamente coerente. Ciascuna proposizione filosofica, in quanto proposizione filosofica, contraddice nella propria forma il proprio contenuto, perché della relazione tra soggetto e oggetto essa esprime sempre soltanto un aspetto (ovvero la loro differenza in quanto rapporto tra soggetto e predicato), lasciandosi sfuggire quello che, nella Vorrede, è ancora per Hegel il tratto distintivo del sapere speculativo, cioè la messa in rilievo della loro identità. Nella Scienza della logica, invece, Hegel sosterrà il contrario, indicando il limite del giudizio predicativo nel fatto che esso si limiti a enunciare l’identità fra i due termini, lasciando invece inespresso l’aspetto, altrettanto essenziale, della loro differenza7. In ambedue i casi, l’esposizione speculativa e autenticamente 7. Il significato di questa inversione non può essere approfondito in questa sede, ma è tutt’altro che banale. Affermando che il limite del giudizio è l’affermazione unilaterale dell’identità, e che il movimento speculativo deve mettere in evidenza, cioè esporre esplicitamente, l’elemento sottaciuto della differenza, Hegel si emancipa definitivamente, nella Logica, dalla filosofia schellinghiana dell’identità, e mostra nel concetto di differenza la chiave di volta del metodo dialettico. Su quest’ultimo aspetto, cfr. G. Rametta, Nonessere e negazione nella Logica di Hegel, in «Divus Thomas», maggio/agosto 2005, pp. 43-73; rist. in E. Magno - M. Ghilardi (a cura di), La filosofia e
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scientifica scaturisce dalla effettiva presentazione nel linguaggio di questa immanente contraddizione, assieme al concetto che di volta in volta la ricomprende e risolve in se stesso. In questo modo, la contraddizione non si manifesta soltanto nella forma di una proposizione statica, diversa ed esterna rispetto alla prima, bensì nel movimento di ciò che Hegel chiama il «Concetto assoluto». E se leggiamo con attenzione il testo della Vorrede, non è difficile comprendere l’intenzione di Hegel. Nel criticare proposizioni come: «Dio è l’essere»8, egli intende mostrare che i soggetti pertinenti dell’esposizione filosofica sono concetti, e che questo toglie ogni importanza al problema tradizionale del fondamento (Grund) e del principio (Grundsatz). Se vogliamo determinare gli elementi costitutivi del sistema, che è comunque un modo improprio per riferirsi al contenuto filosofico, noi dobbiamo considerare i concetti come auto-movimenti, in modo tale che le proposizioni complesse nelle quali si articola il movimento dialettico vengano svuotate di ogni significato pertinente sotto il profilo teoretico, limitandosi a fungere da “forma vuota” attraverso cui sviluppare l’esposizione speculativa. Seguendo il movimento attraverso cui la proposizione distrugge se stessa, noi siamo condotti ad abbandonare la rappresentazione del fondamento come “base” su cui il movimento dovrebbe poggiarsi. In effetti, la rappresentazione del fondamento come principio primo del sapere non è qualcosa di esterno alla proposizione. Al contrario, essa è la forma di pensiero incorporata nella struttura della proposizione, che fin dai tempi di Aristotele si articola come rapporto tra un soggetto e i suoi predicati. Distruggendo la forma proposizionale come
l’altrove. Festschrift per Giangiorgio Pasqualotto, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 137-161. 8. G.W.F. Hegel, Vorrede, cit., p. 44.
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modello di pensiero, Hegel distrugge allo stesso tempo l’idea del soggetto proposizionale come supporto sostanziale di predicati in qualità di suoi accidenti, e quelle ad esso correlate di principio (Grundsatz) e fondamento (Grund). Ma con la critica della forma proposizionale, Hegel non critica soltanto il concetto dell’assoluto come soggetto rappresentativo. Allo stesso tempo, è il soggetto del sapere che si trova dislocato radicalmente rispetto al ruolo che gli era riservato nella concezione razionalista. Da questo lato, la teoria della proposizione speculativa esprime una critica distruttiva nei confronti della metafisica pre-critica e del suo modello epistemologico, costituito da ciò che Hegel chiama Räsonnieren e vorstellendes Denken. Il primo comporta l’indipendenza del soggetto pensante dai contenuti concettuali del suo pensiero; il secondo accetta l’idea del soggetto proposizionale come statico presupposto, al quale applicare le operazioni conoscitive sviluppate dal soggetto della conoscenza sulla base del principio di ragione. Räsonnieren e vorstellendes Denken risultano così implicati l’uno nell’altro, e si rafforzano reciprocamente in virtù della struttura grammaticale del linguaggio. La forma del giudizio predicativo predispone infatti a questo modo di pensare, costitutivo non soltanto della metafisica pre-critica, ma come abbiamo visto in grado di condizionare anche la forma espositiva della Grundlage fichtiana. Criticare la forma proposizionale significa dunque, per Hegel, sbarazzare il pensiero da ogni residuo di dogmatismo, sviluppare il lascito della filosofia trascendentale in una direzione libera dal sortilegio esercitato dal principio di ragione, e realizzare il “sistema della scienza” senza bisogno di ricercare una “base” stabile che ne assicuri le “fondamenta”. Per quanto possa sembrare paradossale, l’idea di un “sapere senza fondamenti” emerge forse per la prima volta proprio con la dialettica hegeliana. Infatti, la duplice distruzione del soggetto, sia come soggetto proposizionale, sia come soggetto del sapere, comporta la du-
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plice distruzione del fondamento: sia esso inteso come essere supremo in senso metafisico e onto-teologico, indipendente e separato dal tempo e dallo spazio; sia esso inteso come giudizio espressivo del fondamento, cioè come singola proposizione incondizionata nel senso del principio. Queste sono le conseguenze rivoluzionarie, per noi lettori contemporanei forse non così agevoli da cogliere, della proposizione speculativa hegeliana, così aspramente ma forse non sempre così pertinentemente criticata: Il vero è l’intero. Incidentalmente, questa proposizione mostra una volta di più quanto possa essere fuorviante la vulgata secondo la quale il sistema hegeliano sarebbe “costruito” in base alla sequenza lineare di tesi, antitesi e sintesi. Se la verità è racchiusa soltanto nell’intero, infatti, ciò significa che nessun momento può essere pensato indipendentemente dal sistema linguisticamente esposto come totalità interconnessa di concetti. Ancora più assurdo, dunque, sarebbe derivare l’intero dai momenti che sono possibili solo all’interno della sua struttura globale, e possono dunque essere pensati soltanto come astrazioni parziali del sistema stesso. 3. In quest’ultima sezione vorrei cercare di mostrare come, alla base delle divergenze tra Fichte e Hegel, vi siano due diverse modalità di formalizzazione del reale. Da questo punto di vista, decisiva resta per Hegel la Differenzschrift del 1801. Qui, nel paragrafo dedicato alla possibilità di esprimere l’assoluto per mezzo della riflessione, Hegel sostiene che l’espressione migliore in questa direzione non è costituita dalla formula del principio d’identità: A = A. In quest’ultima, infatti, l’espressione dell’identità sembra escludere totalmente l’espressione della differenza. Quest’ultima è presente nella dualità della A, che figura a sinistra e a destra dell’equazione, una volta come soggetto e un’altra volta come oggetto. Se però l’assoluto, conformemente al pensiero di Schelling, a fianco del quale Hegel si schiera operando già decisive demarcazioni, è costituito
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dall’identità di soggetto e oggetto, è evidente che siffatta identità non potrebbe innestarsi senza comprendere al proprio interno una differenza, sia pura superata e inglobata in una unità superiore. Per questo, Hegel ritiene che dal punto di vista della logica formale l’espressione più adeguata dell’assoluto sia costituita dalla formula dell’antinomia: A = B. Qui, il diverso è posto come identico a sé, contraddicendo le determinazioni (A, B) che lo pongono invece come diverso. Nella formula dell’antinomia, dunque, Hegel scorge la modalità mediante cui la ragione si esprime coi mezzi dell’intelletto, la forma di affermazione della ragione speculativa, ancora incompleta perché soltanto negativa, all’interno della logica formale dominata dall’intelletto e dalla sua riflessione. In questa formulazione, però, Hegel non si distingue solo da Schelling, ma anche da Fichte. Nell’Io che pone se stesso assolutamente, Fichte aveva scoperto l’origine trascendentale del principio logico-formale dell’identità: A = A. Se dunque il principio della filosofia trascendentale dovesse essere esposto con i mezzi della logica formale, esso dovrebbe esprimersi come Io = Io. In questa formula, noi troviamo dal lato fichtiano una formalizzazione del primo principio della dottrina della scienza, analoga alla formalizzazione compiuta da Hegel quando indica nell’antinomia l’espressione formale suprema dell’assoluto come indifferenza tra soggetto e oggetto: A = B. Alla luce degli sviluppi successivi, possiamo intravedere nella formula hegeliana della Differenzschrift il nucleo originario, per così dire la matrice logica del capitolo della Logica sulle determinazioni della riflessione. Qui in effetti Hegel, attraverso una serie di vertiginosi passaggi speculativi, sviluppa una progressione che schematicamente potremmo indicare con le formule seguenti. Dal principio logico-formale dell’identità, che pone A come uguale a se stesso (A = A), il movimento dia-
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lettico procede alla deduzione della diversità, che si esprime nella formula: A e B. Qui è decisiva la congiunzione semplice, poiché essa evidenzia che il diverso è posto come diverso, senza instaurare nessuna relazione reciproca, che non sia ridotta al mero allineamento o giustapposizione dei due termini: A e B. D’altra parte, la diversità non fa che esplicitare la dualità che abbiamo visto necessaria alla formulazione del principio d’identità. Anche rifiutando di assumere una pluralità di elementi, il principio d’identità, nella misura in cui esprime una relazione, deve se non altro operare uno sdoppiamento dell’elemento semplice con cui ha a che fare: A diventa quindi il polo di una relazione con se stesso, che lo distingue da sé e lo ripete, dall’altro lato dell’eguaglianza, come identico a sé. La diversità non fa dunque che porre esplicitamente la dualità già inclusa nell’identità, evidenziando che A, per porsi come identico a sé, deve distinguersi come primo dal lato sinistro dell’eguaglianza, per potersi ripetere come secondo dal lato destro, e in questa stessa ripetizione si pone dunque come diverso da sé. La congiunzione “e” è l’espressione semplice di questa diversità, che era già interna all’identità. Ma proprio per rendere ragione della differenza tra i concetti di identità e diversità, è necessario introdurre una nuova formalizzazione, che metta in rilievo la specificità di quest’ultima. Si tratterà pertanto di scrivere non più soltanto A e A, bensì appunto A e B: solo la formalizzazione del secondo A come diverso dal primo, cioè appunto come B, esprime compiutamente la diversità come concetto indipendente dall’identità. Dalla diversità, con un passaggio aspramente contestato dai filosofi della differenza pura come Deleuze, Hegel procede alla deduzione della differenza, non più come diversità indifferente tra A e B, bensì come relazione tra opposti che si pongono e contemporaneamente si respingono da sé. La differenza pone in relazione i diversi, che nella semplice congiunzione resta-
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vano affiancati l’uno all’altro, e dunque erano posti in relazione l’uno con l’altro solo dal punto di vista di un osservatore esterno, poiché ciascuno restava quieto e saldo in se stesso, indifferente rispetto alla presenza di un diverso. Nel momento in cui ciascuno dei diversi è posto in sé come diverso, invece, non può restare indifferente all’elemento che lo affianca, ma inevitabilmente si pone come diverso da esso. Il diverso, ponendosi come altro dall’altro, diventa così diverso non più soltanto relativamente all’altro da sé, ma in rapporto a se stesso. Il diverso diventa altro, ma ciascuno dei diversi, in quanto altro dell’altro, diventa altro in se stesso: esso respinge l’altro da sé per porsi come se stesso, ma inevitabilmente lo rispristina, perché solo ripristinandolo lo può respingere da sé, ed affermarsi come identico a sé. Ciascuno dei diversi si afferma così come differente dall’altro, nella misura in cui respinge l’altro da sé come negativo rispetto a se stesso. Così facendo, esso intende affermarsi in identità con sé come positivo, ma ottiene il risultato opposto a quello cui tendeva, poiché il suo porsi come positivo è condizionato dal respingere l’altro da sé come suo negativo. In questo modo, esso stesso si pone come negativo e altro rispetto all’altro, che da parte sua si afferma come positivo contrapponendosi al primo. Ciascuno dei diversi innesca dunque un movimento dialettico che è, per ciascuno di essi, in pari tempo identico (dal punto di vista della struttura logica) e opposto (dal punto di vista della sua direzione). Proprio per questo, Hegel ritiene che, tra i due poli, quello del negativo racchiuda in sé la verità dell’intero rapporto: il negativo, infatti, include in sé l’espressione di se stesso e dell’altro, perché esso si pone esplicitamente come altro dell’altro, e perciò stesso in pari tempo nega l’identità con sé come positivo. Così Hegel dimostra che la contraddizione è il rapporto in cui culmina il negativo dialettico: come abbiamo appena visto, in-
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fatti, esso si pone solo se si nega, e si nega solo se si pone. Il negativo si pone come positivo, ma per porsi come positivo deve porsi come negativo, e viceversa. La formalizzazione di questo movimento è dunque la seguente: +A = −A. In questo modo, Hegel torna alla posizione della Differenzschrift, che aveva assunto l’antinomia come vertice della riflessione: A = B. In questa formalizzazione, infatti, identità e contraddizione si implicano reciprocamente, perché ciascuna pone l’altra nel momento stesso in cui pone e nega se stessa. Ma allora, ciò significa che la negazione è derivata e derivabile dall’affermazione, la differenza dall’identità, l’opposizione dalla posizione. Ora, questa struttura speculativa è alla base della concezione della realtà come movimento di effettuazione dell’assoluto, in altri termini come Wirklichkeit. La razionalità di ciò che è effettuale non coincide mai con la sua espressione empirica, che Hegel designa, a uno stadio precedente del movimento logico, come realtà pura e semplice, cioè come Realität. Quest’ultima è l’espressione impoverita, cioè ancora priva di riflessività immanente, del reale come effettuale, in quanto compenetrazione dinamica e potenzialmente antagonistica tra razionalità ed effettività. Il punto però è chiaro: contro ogni filosofia del cattivo infinito, che pone l’assoluto come mero Ideale irraggiungibile da parte del soggetto, l’effettualità è sempre già l’assoluto in atto, perché esso non è mai il polo di una relazione, ma la totalità dei rapporti che s’instaurano sul piano della compenetrazione tra soggetto e oggetto. Per questo, possiamo assumere la formula logica dell’antinomia: A = B come la formalizzazione del reale specificamente hegeliana. La differente impostazione dei rapporti fra identità e contraddizione comporta in Fichte una correlativa differenza nella concezione del reale e della relativa formalizzazione. L’indipendenza formale del secondo principio della GWL rispetto al primo implica infatti una correlativa indipendenza del principio logico di non contraddizione dal principio logico d’identità.
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Quest’ultimo è interpretato come semplice astrazione formale dal principio trascendentale che ne sta a fondamento, costituito dall’Io che pone stesso, formalizzabile a sua volta nella formula: Io = Io. All’opposizione del Non-io nei confronti dell’Io, corrisponde sul piano della logica formale il principio di non contraddizione, che Fichte formalizza nei seguenti termini: −A non = A. Mentre dunque in Hegel abbiamo l’implicazione reciproca tra identità e contraddizione, che permette di formalizzare le scansioni del movimento dialettico in una serie d’implicazioni reciproche fra le formule dell’identità, della contraddizione e dell’antinomia, in Fichte abbiamo l’impossibilità d’implementare una sequenza analoga. Se dunque con Hegel potremmo scrivere: A = A > A non = A > A = B (e viceversa), in Fichte questa sequenza viene immediatamente e irreversibilmente interrotta dopo la formula: A = A. Mai dall’identità sarà possibile passare alla contraddizione, mai dall’affermazione alla negazione, mai dalla posizione all’opposizione. La negazione dell’implicazione tra A = A e A = non A comporta appunto che il principio di non-contraddizione sia formalmente indipendente, cioè logicamente indeducibile dal principio d’identità. Ora, in questa frattura che interrompe fin dall’inizio la sequenza dialettica costitutiva della logica hegeliana, emerge uno scarto radicale che investe le rispettive concezioni del reale. Proprio perché l’opposto dell’Io è indeducibile, in quanto opposto, dalla posizione assoluta dell’Io, quest’ultimo si trova fin dall’ini zio a doversi confrontare con un diverso da sé che non può essere posto da esso, proprio nella misura in cui gli è strutturalmente contrapposto. In questo contrapporre, noi dobbiamo scorgere la radice trascendentale del reale (Real), in quanto strutturalmente irriducibile all’effettuale (Wirklich). L’effettuale è infatti l’orizzonte determinato dalla relazione reciproca tra Io divisibile e Non-io divisibile, è lo spazio di gioco dominato dal principio di ragione. Qui si dispone lo spazio dell’effettuale,
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con tutte le sue dinamiche e le sue trasformazioni, mai però in grado di appianare la differenza di principio con la tesi assoluta, costituita dall’Io che pone se stesso del primo principio. Certo, dal punto di vista dell’effettuale, questo Io muta di significato, poiché dal piano ontologico dell’essere assoluto si dispone su quello, altrettanto assoluto ma dislocato rispetto all’essere, costituito dall’Io come Idea. La realtà dell’Io assoluto non è dunque quella di un essere, che lo ridurrebbe nuovamente a essere “qualcosa”, ma è la realtà dell’Idea, senza di cui nessuna opposizione potrebbe aver luogo tra Io divisibile e Non-io divisibile, poiché ogni rapporto e ogni contrapposizione dipendono dalla spinta incomprimibile con la quale l’Io tende ad approssimare l’Idea, nella ripetizione differenziale del suo porre se stesso. Ecco perché nella formalizzazione del principio di non contraddizione: −A non = A, noi possiamo cogliere la modalità specificamente fichtiana di formalizzazione del reale. Mentre nella formula hegeliana: A = B, in quanto formalizzazione del reale come effettuale, noi abbiamo la dissoluzione del principio nel sistema, e il riassorbimento del Grund nel movimento dialettico dell’esposizione speculativa, in Fichte abbiamo l’irriducibile eccedenza della tesi su antitesi e sintesi, la differenza come scarto trascendentale insuperabile tra piano dell’Idea e piano dell’effettuale. Il reale si determina proprio in questa duplice figura: come eccedenza dell’Idea (Io assoluto), che in se stessa esprime il nocciolo reale della soggettività in quanto principio trascendentale da cui scaturisce ogni attività di autoposizione da parte del soggetto finito (Io divisibile); come urto imprevedibile e in linea di principio sempre traumatico, attraverso il quale il Non-io si presenta come radicalmente opposto e mai totalmente assimilabile dall’Io. La realtà dell’Idea è condizione dell’urto, e l’urto è la figura in cui il reale si manifesta all’Io divisibile sul piano della finitezza
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della sua esperienza. Questa doppia polarità del reale, da una parte come Idea incondizionata del soggetto assoluto, dall’altro come urto che investe l’Io nel movimento stesso della sua auto posizione come soggetto finito, è costituiva della concezione fichtiana del reale, e trova la sua formalizzazione, antitetica rispetto a quella hegeliana, nella formula: −A non = A. Da parte nostra, naturalmente, il tentativo stava nel mostrare, nel modo più stringente possibile, la differenza costitutiva del rapporto fra questi due massimi pensatori dell’Idealismo Tedesco. Tale differenza si tratta non tanto di risolvere, quanto piuttosto di continuare, nel nostro piccolo, a pensare.
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Il maturo sistema politico di Hegel di Carla De Pascale
1. L’argomento prescelto non si contraddistingue per particolare originalità, e per la verità reca anche in sé qualcosa di vetusto. Vetusto nel senso che oggi, e ormai da diversi decenni1, anche quando si ha animo di esaminare la visione politica, giuridica e sociale di Hegel – un tema in generale non particolarmente frequentato ai nostri giorni, quanto meno in area
1. Completamente diversa la situazione degli studi negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, soprattutto in Italia, affollati anche di traduzioni dei più rilevanti titoli stranieri; un elenco dei titoli più significativi fino all’inizio degli anni Novanta si trova in G. Preterossi, I luoghi della politica. Figure istituzionali della filosofia del diritto hegeliana, Guerini e Associati, Milano 1992. Ovviamente non mancano eccezioni: cfr. N. De Federicis, Moralità ed eticità nella filosofia politica di Hegel, ESI, Napoli 2001; G. Duso, Libertà e costituzione in Hegel, Franco Angeli, Milano 2013. Duso è anche curatore della parte monografica di «Filosofia politica», Materiali per un lessico politico europeo: Hegel e la società, n. 1, 2016, pp. 3-90, con contributi di A. Honneth, B. Karsenti, G. Duso, J.-F. Kervégan, G. Cesarale. Per la Germania va segnalato E. Weisser-Lohmann, Rechtsphilosophie als praktische Philosophie. Hegels Grundlinien der Philosophie des Rechts und die Grundlegung der praktischen Philosophie, Wilhelm Fink, Paderborn 2011, nonché il raffronto ravvicinato della filosofia pratica di Hegel con i temi della metaetica di S. Ostritsch, Hegels Rechtsphilosophie als Metaethik, Mentis, Münster 2014.
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continentale2 – si prediligono altri tipi di testi, per l’appunto quelli non sistematici quali gli scritti giovanili, fino alla Fenomenologia dello spirito compresa. Può d’altra parte non essere privo di senso riproporre il pensiero dello Hegel maturo nella misura in cui non solo si intenda porre l’accento proprio sull’aspetto della “sistematicità” che caratterizza questa filosofia, ma ci si voglia anche interrogare sul tipo di “sistema” politico complessivo da essa offerto. In questo quadro trova motivazione un esame dei Lineamenti della filosofia del diritto che prenda in considerazione alcuni degli assi
2. A conferma di quanto detto circa gli studi in Italia, faccio notare che l’autrice sopra citata, E. Weisser-Lohmann, ha pubblicato in Italia un saggio, non utile ai nostri fini, La concezione hegeliana della politica, nel volume, realizzato da estetologi, Arte, religione e politica in Hegel, a cura di F. Iannelli, Edizioni ETS, Pisa 2013. Degno di nota per la nostra ottica il tema d’indagine, così illustrato dalla curatrice, p. 13: «il reciproco implicarsi, seppure spesso in modo sotterraneo, dell’estetica, della religione e della politica» nella riflessione hegeliana. In area anglo-americana cfr.: P.J. Steinberger, Logic and Politics. Hegel’s Philosophy of Right, Yale University Press, New Haven-London 1988; F. Neuhouser, Foundations of Hegel’s Social Theory, Harvard University Press, Cambridge 2003; R.B. Pippin, Hegel’s Practical Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2008 (in partic. in riferimento ai concetti di libertà concreta e di azione); M.G. Smetona, Hegel’s Logical Comprehension of the Modern State, Lexington Books, Lanham 2013; K.M.S. Swope, Education as “Absolute Transition” in Hegel’s Philosophy of Rights, in «Idealistic Studies», vol. 46, n. 3, 2016, pp. 237-258; cfr. anche la sezione dedicata alla politica in A Companion to Hegel, a cura di S. Houlgate and M. Baur, Wiley Blackwell, Hoboken 2011, pp. 263-311. Un recente commentario è Hegel’s Elements of the Philosophy of Right. A Critical Guide, a cura di D. James, Cambridge University Press, Cambridge 2017. L’incontro fra studiosi di questa area e studiosi tedeschi è già attestato dal volume collettaneo Hegels Erbe, a cura di Ch. Halbig, M. Quante, L. Siep, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004. Quanto alla Francia, dopo il pionieristico lavoro di E. Fleischmann, La philosophie politique de Hegel sous forme d’un commentaire des «Fondements de la philosophie du droit», Plon, Paris 1964 (poi Gallimard, Paris 1992), si ricordi D. Rosenfield, Politique et liberté. Structure logique de la Philosophie du droit de Hegel, Aubier, Paris 1984.
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portanti della costruzione teorica definitivamente approntata da Hegel, nonché alcuni snodi concettuali atti a fornirne idonea spiegazione. Lo sforzo che qui si farà sarà quello di affiancare alla prospettiva più propriamente teoretica anche una prospettiva storica, in modo da cogliere in modo compiuto la raffigurazione del proprio tempo offerta dal filosofo e da comprendere insieme metodo e sostanza della sua analisi delle istituzioni politiche e sociali esistenti e della proposta dei correttivi necessari. Correttivi che si evincono in particolare dalla lettura di alcune delle Annotazioni apposte ai paragrafi del testo, nelle quali si percepisce lo scarto fra essere e dover essere, fra condizioni esistenti e date e possibili loro trasformazioni. Emerge in relazione a ciò un problema degno di nota: in ottica hegeliana pare scorretto far intervenire in senso dirimente la distinzione fra “essere” e “dover essere”, e andrebbe anzi in ogni momento rammentata la critica, esplicita e netta, mossa da Hegel a posizioni analoghe comparse nella storia del pensiero. Pur tuttavia è innegabile che l’argomento torni in più di un passaggio, talvolta addirittura in posizione di rilievo. È pertanto necessario tentare un chiarimento al riguardo – che deve in ogni caso muovere dal presupposto tenuto costantemente fermo da Hegel, cioè dalla sua opposizione nei confronti di ogni teoria che stabilisca la nascita dello Stato come risultato di una costruzione artificiale3. In questa direzione va interpretata la 3. Assai indicativo il seguente passo tratto dal § 274: «Voler dare a un popolo una costituzione […] a priori, – questa escogitazione trascurerebbe proprio il momento che fa di una costituzione più che un ens rationis [Gedankending]. Ogni popolo ha quindi la costituzione che gli è adeguata, e che per il medesimo è conveniente» (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, tr. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 221 s). Ma si vedano anche le considerazioni dell’Annotazione al § 273, p. 221, relative al potere costituente e al potere costituito (anche se le due definizioni non compaiono qui in termini espliciti).
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frequente e serrata polemica di cui è oggetto buona parte della filosofia politica sei e settecentesca. Non è compito della filosofia prescrivere il dover essere – e la presa di distanza sotto questo riguardo per esempio da un Platone e da un Fichte si segnala nei Lineamenti fin dalla Prefazione. Non solo cadrebbe, la filosofia, in un mero opinare. Di dare insegnamenti su come deve essere il mondo essa è, com’è noto, addirittura costituzionalmente incapace, in quanto «giunge sempre troppo tardi»4. Viceversa, il suo compito consiste nella comprensione di ciò che è e – questo il criterio fondante – il «deve» interviene proprio e solo in riferimento a tale comprensione: finalità dell’opera hegeliana è insegnare come «l’universo etico […] deve venir conosciuto»5. In conclusione, nessuna finalità esterna è perseguita dalla scienza dello Stato; questa non ha da occuparsi di una sfera deontologica costitutivamente esterna e separata; unico suo obiettivo deve essere invece comprendere nella sua più intima essenza la realtà (razionale e ideale) dello Stato. Quanto poi alla comprensione di ciò che è, si profila un ulteriore problema dentro il problema, giacché se da un lato ciò che è, è razionale – «ciò che è, è la ragione» – evidentemente neppure nella visione hegeliana tutto ciò che è reale è perciò stesso razionale; tanto che nella storia, comprese la storia della filosofia e la storia delle teorie politiche, oggettivamente si sono date e si danno «concezioni» «divergenti», siano esse esito della «vecchia logica»6 oppure escogitate come vie d’uscita impro4. G.W.F. Hegel, op. cit., p. 17; e di seguito: «In quanto pensiero del mondo essa [la filosofia] appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione e s’è bell’e assestata». Cfr. A.Th. Peperzak, Philosophy and Politics. A Commentary on the Preface to Hegel’s Philosophy of Rights, M. Nijhoff, Dordrecht-Boston-Lancaster 1987. 5. G.W.F. Hegel, op. cit., p. 15. 6. Ivi, pp. 3 s.
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babili e fantasiose, nient’altro che modi di sottrarsi proprio alla logica di vecchio stampo; com’è evidente, tutto dipende dal significato attribuito da Hegel al termine «reale». Da quanto sopra si può far discendere l’assunto che l’intento principale di Hegel in questo testo sia di presentare un sistema politico costruito sulle fondamenta di una teoria autonomamente progettata, ove “autonomamente” indica una teoria sviluppata dal filosofo sulla base di una sua propria concezione politica, dopo essersi misurato con le teorie preesistenti e avendo al contempo bene in vista le condizioni storiche al momento date. Una teoria politica scaturita a sua volta da una filosofia costruita sulle basi di quello speciale tipo di logica che è la logica speculativa o dialettica. Il risultato dell’intera riflessione è la razionalità del reale, un reale che siamo diffidati dall’interpretare come un dover essere, ma che tanto meno tollera di venir confuso con un’accezione triviale del termine, perché anzi si tratta qui, come scrive Giuliano Marini nella Premessa alla sua versione italiana dell’opera, del reale del mondo istituzionale come luogo della «ragione che si è fatta spirito oggettivo», «regno della libertà realizzata nei rapporti intersoggettivi». In altri termini: il risultato della ricerca svolta nei Lineamenti di filosofia del diritto è la comprensione dell’idea realizzata nella realtà, della «idea che è insieme reale e razionale»7. Hegel lo afferma fin dalla Introduzione: il razionale è «l’universale essente in sé e per sé», che può venir colto soltanto in «modo speculativo»; ripete il concetto, fra l’altro, nel § 256 – paragrafo, si noti, di passaggio fra le sezioni La società civile e Lo Stato – e lo ribadisce ampiamente nei primi paragrafi (§§ 257 e 258) della sezione dedicata allo Stato8.
7. Ivi, rispettivamente pp. X, IX e VIII. 8. Cfr. ivi, rispettivamente pp. 40 (§ 24), 193 e 195-198. Ma già nella Prefazione era stata messa a fuoco la differenza fra il reale in senso triviale e il reale in quanto razionale: la filosofia conosce, «nella parvenza di ciò ch’è temporale
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2. I Il termine «sistema» compare sotto la penna di Hegel fin dalle primissime righe della Prefazione dei Lineamenti di filosofia del diritto, dove viene delineato il rapporto fra questo «manuale» e la seconda sezione della terza parte dell’opera precedente di quattro anni, l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817 (qui la terza parte è dedicata alla Filosofia dello spirito; la seconda sezione a Lo spirito oggettivo). Il manuale di filosofia del diritto è non solo «un’esposizione ulteriore», ma è «soprattutto [una esposizione] più sistematica» dei concetti fondamentali là esposti. Non a caso immediatamente dopo emerge il tema del «metodo» – «metodo scientifico» – secondo cui è stata costruita l’opera, e della «conoscenza speculativa» da esso supportata. Conoscenza speculativa i cui contenuti Hegel aveva elaborato nella Scienza della logica, in un sapere emancipatosi dalla vecchia logica perpetuata dalla tradizione filosofica senza tuttavia affidarsi all’arbitrio o cedere ai moti del cuore, ai voli della fantasia, all’«intuizione accidentale»9 – unica altra via, secondo Hegel, praticata nel suo tempo. Va notata fin da ora la differenza fra la “novità” rappresentata da questa filosofia (sia dai suoi contenuti sia dal metodo, che ovviamente in Hegel sono tutt’uno) e la materia specifica, costituita dal dato fattuale e storico e da tempo consegnata ai manuali di diritto; e transeunte, la sostanza che è immanente e l’eterno che è presente» (ivi, p. 14). Lo studioso che in Italia più ha insistito sulla rilevanza dei paragrafi di passaggio fra una parte e l’altra dei Lineamenti e fra una sezione e l’altra, vedendovi specifici momenti del movimento dialettico, all’interno di una più vasta indagine volta a mostrare la riproposizione in questa opera del ritmo dialettico proprio della Scienza della logica, è stato G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella filosofia del diritto hegeliana (1978), Morano, Napoli 1990. Dello stesso autore, cfr. La «Filosofia del diritto» come sistema dello spirito oggettivo, in P. Rossi, Hegel. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 87-119. 9. G.W.F. Hegel, op. cit., pp. 3 s. Sul metodo, e più in particolare sull’ultima parte della Scienza della logica, si veda V. Verra, La circolarità del metodo assoluto in Hegel, in Id., Su Hegel, il Mulino, Bologna 2007, pp. 199-216.
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che i contenuti della materia trattata siano un lascito della tradizione e di un sapere consolidato Hegel lo chiarisce infatti sin dalla prima pagina della Prefazione. È così dato rilevare una prima caratteristica del “sistema politico” di Hegel, consistente nella riproposizione, da parte del filosofo, della materia tipica dei manuali di diritto, ordinata secondo la nuova «forma» della logica dialettica, alla quale immediatamente si connette un «contenuto» altrettanto nuovo, quello di una «realtà» «razionale»10. L’interpretazione della propria filosofia proposta da Hegel, con la sorta di automatismo che pare di poter rilevare da quanto appena riportato, ingenera qualche perplessità nel lettore: l’affermazione che «su diritto, eticità, Stato la verità è altrettanto antica quanto apertamente esposta e nota nelle pubbliche leggi, nella pubblica morale e religione»11 può indurre chi la prende in esame a dubitare quanto meno della sua completezza e a osservare che l’operazione compiuta dal filosofo non si è semplicemente limitata a dare “forma” a contenuti consolidati, ma si è in realtà spinta a proporre contenuti propri sovente divergenti dalla vulgata tradizionale, o perché riadeguati all’epoca attuale oppure tout court di nuovo conio. Anche impostando la questione in altri termini, al fine di restare ancorati al dettato hegeliano – accettando cioè che in via di principio i contenuti proposti nell’opera siano ancora quelli consegnati dalla tradizione storica e però trasfigurati (resi “nuovi”) nella «forma» grazie al procedere dialettico, di cui sarebbero in qualche modo un esito obbligato – non si può comunque non obiettare che rimane pur sempre indeterminato se sia il metodo dialettico
10. G.W.F. Hegel, op. cit., p. 16. E a p. 13: «la filosofia […] è lo scandaglio del razionale», «l’apprendimento di ciò ch’è presente e reale, non la costruzione di un al di là». 11. Ivi, p. 5.
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stesso a imporre quei contenuti, oppure se sia stata la necessità di formulare proprio i contenuti prescelti, e non altri, a stimolare la confezione di un sistema costituito da quelle e non altre tessere del mosaico. Come che sia, il risultato dell’intervento del metodo qualificato come scientifico-dialettico consisterebbe nella comprensione di cui si è sopra detto, conseguita dal «pensiero libero», il quale come tale, lungi dal fermarsi a «ciò che è dato», «procede da sé [von sich ausgeht] e appunto perciò esige di sapersi unito nel suo più intimo essere con la verità»12. Quanto appena asserito circa l’autonoma elaborazione di una teoria politica da parte di Hegel può essere ulteriormente precisato osservando che siamo al cospetto di un sistema politico sia in senso generale – nel senso che la scienza che lo fonda non può che essere sistematica, “riposare” «sullo spirito logico»13 – sia, in particolare, nel senso che l’organizzazione della vita politica e sociale di un popolo non può che essere un tutto interconnesso, nel quale le singole articolazioni, ovvero le diverse istituzioni singolarmente considerate, sono poste in coerente connessione fra loro: questo nesso di contenuto e forma è stabilito, come si è visto, dal dispositivo teorico che Hegel stesso ha elaborato e messo in opera. L’insistenza financo eccessiva di Hegel sulla «verità pubblicamente nota»14 è probabilmente funzionale a dare avvio alla critica ai contemporanei – il luogo è tratto dalla Prefazione – e ad arginare la piena di quelli che per lui sono i fantasisti del suo tempo, descritti con un profluvio di attributi altalenanti fra il «soggettivo» e il «particolare». Fin troppo facile per un lettore 12. Ibidem (traduzione lievemente modificata). 13. Ivi, p. 4. 14. Ivi, p. 6. Nella stessa pagina, la puntata polemica contro le concezioni del tempo che esaltano «la libertà del pensare e dello spirito in genere», manifestata «soltanto attraverso la divergenza, anzi l’ostilità contro quel ch’è pubblicamente riconosciuto».
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non strettamente seguace della dialettica hegeliana rifiutarsi di ingabbiare gli autori criticati da Hegel, a partire da J.F. Fries, dentro lo schema da lui predisposto. Di una simile critica, e del metodo che la supporta, forniamo qui di seguito qualche esempio, a partire dal § 26 e dalla relativa Annotazione, in cui si tratta della volontà e delle determinazioni logiche di soggettività e oggettività, alle quali accade «di trapassare nel loro opposto [un punto sul quale è il caso di richiamare l’attenzione del lettore] a cagione della loro finità e pertanto della loro natura dialettica». In particolare della volontà si può dire che essa, «intesa come la libertà essente entro di sé, è la soggettività stessa; questa è perciò il suo concetto e così la sua oggettività; la sua soggettività, nell’opposizione all’oggettività, è però finità; ma appunto in questa opposizione la volontà è non presso di sé, è inviluppata nell’oggetto [forse tradurrei: è avvinghiata all’oggetto] e la sua finità consiste altrettanto in ciò, nel non esser soggettiva ecc.». La conclusione suona: «Quale significato […] nel prosieguo deve avere il soggettivo o l’oggettivo della volontà, deve divenir chiaro ogni volta dal contesto, il quale contiene la loro collocazione in relazione alla totalità»15. Anche se non è questo il cuore della disamina che si sta tentando di condurre, sia permessa una lieve digressione per far notare come è in luoghi quale quello appena citato che si radicano elementi del dibattito perenne che dai tempi di Hegel ha contrapposto quanti hanno voluto sottolineare il peso scarso o nullo da lui attribuito all’individuale, al singolare (termini in questo momento non usati nel significato tecnico hegeliano) a favore della totalità, a quanti hanno invece messo in evidenza il ruolo tutto moderno svolto dalla volontà nella costruzione di istituzioni all’altezza dei tempi – a partire dalla volontà dell’individuo consapevole di sé e responsabile, per spingersi,
15. Ivi, p. 41.
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se del caso, fino all’individualità rappresentata dalla figura del Principe. Non occorre aggiungere che proprio gli estremi di tale dibattito – individualità e totalità – costituiscono parte integrante delle differenti possibili interpretazioni della visione politica abbracciata dal filosofo. Un altro esempio che si può affiancare al precedente e che sembra poter sostenere un taglio di lettura analogo compare nel § 29 dedicato, prima, alla descrizione e, poi, alla definizione del concetto di diritto: Il diritto è «la libertà, come idea» (precedentemente ne era stata descritta l’esistenza come «esserci della volontà libera»). Questo assunto, diritto uguale libertà come idea, è il punto di partenza per criticare, nell’Annotazione al paragrafo, la definizione kantiana del diritto, considerata erede della posizione di Rousseau. Per Kant la base sostanziale del diritto sarebbe la volontà intesa come volontà del singolo, dell’individuo particolare, mentre per Hegel la volontà va «intesa come essente in sé e per sé, razionale». Possiamo domandarci: secondo quale prospettiva Hegel sta emettendo tale giudizio? O, per riprendere l’espressione da lui stesso adottata a conclusione dell’Annotazione al § 26, in quale contesto (in relazione alla totalità) si è egli collocato per effettuare la propria analisi? Come è evidente, il ragionamento prende le mosse, per procedere successivamente verso il basso, da un punto prospettico alto, situato in quell’apice, lo Stato, che è risultato e insieme fondamento della Sittlichkeit16. Questo è ciò che Hegel ha in mente quando ragiona della volontà razionale – che è appunto la volontà dello Stato come un intero. Per
16. Già nell’Annotazione al § 256 si legge: «nell’andamento del concetto scientifico lo Stato appare come risultato, mentre esso si offre come verace fondamento» (ivi, p. 194). Lo «Hegel-Jahrbuch» ha dedicato al confronto Hegel/Kant i due numeri del 2016 e 2017, intitolati rispettivamente Hegels Antwort auf Kant I, Hegels Antwort auf Kant II. In questo vol. II, pp. 163 ss.: sui concetti di Moralität e Sittlichkeit e di seguito su Politica, Stato, Società.
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non dilungarsi su questo punto, basti qui il richiamo ai paragrafi iniziali della sezione dedicata allo Stato, ove quest’ultimo è definito «lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale» (attributo pesante, affiancato da altri non meno rilevanti quali: volontà «manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa») o anche «la realtà della volontà sostanziale», il «razionale in sé e per sé», «unità sostanziale» quale «assoluto immobile fine in se stesso». Assai significativa la specificazione che segue, non solo per aver Hegel con tutta evidenza rimesso in circolazione una tematica antica e tornata prepotentemente in auge nel passaggio dei secoli XVIII e XIX – quella della nuova centralità assunta nella teoria politica dai “doveri” a fronte dei “diritti” –, ma quale ulteriore aspetto dello scontro di interpretazioni sopra ricordato, questa volta relativo alla gerarchia dei diritti (con il diritto dello Stato come diritto prevalente) e ai destinatari dei doveri (ove lo Stato si trova di nuovo in posizione premiale): nello Stato quale unità sostanziale e fine in se stesso «la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo finale ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d’esser membri dello Stato»17. È per altro verso il caso di ricordare che stiamo menzionando i paragrafi di apertura della sezione dedicata allo Stato e qui trova motivazione principale la particolare enfasi posta sull’entità del ruolo totalizzante dello Stato. La medesima prospettiva connotava anche il contenuto del paragrafo di cui alla precedente nota 16, appunto il paragrafo di passaggio dalla società civile allo Stato, ove era lo scarto del passaggio a venire alla ribalta, la portata della differenza fra le due entità, con la sottolineatura dei nuovi e più alti compiti assolti dallo Stato rispetto 17. G.W.F. Hegel, op. cit., rispettivamente § 257 e § 258, p. 195. A ciò va tuttavia affiancato anche l’assunto seguente: «l’unico principio del dovere e del diritto [è] la libertà personale dell’uomo» (§ 261, Annotazione, p. 202).
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a quelli in capo alla società civile. Come vedremo, l’accentuazione viene diversamente calibrata quando il fuoco dell’analisi è costituito dai caratteri peculiari della società civile, oltretutto in buona misura valutati positivamente. Ma nel citato § 258, al debutto dell’analisi specifica dello Stato, e in particolare del rapporto fra Stato e individuo, non suona incongrua l’affermazione: «la destinazione degli individui è di condurre una vita universale» e tutto sommato neppure la polemica che vede associati Rousseau e Fichte, quest’ultimo, con il suo Beitrag sulla rivoluzione francese, più che probabile destinatario di critica per la posizione che l’autore gli attribuisce: «esser membro dello Stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento». Viceversa in ottica hegeliana lo Stato, in quanto «razionalità», è «compenetrantesi unità dell’universalità e della singolarità» e la volontà oggettiva è «il razionale in sé nel suo concetto»18. Da questa ottica alta, anzi ai suoi occhi suprema, Hegel guarda alla dottrina di Kant e per inciso a quella di Rousseau; è agevole leggere in filigrana il suo sconcerto per un risultato derivante in modo necessario da un metodo ignaro di logica dialettica, risultato che sarebbe stato ben diverso se solo fosse stato fatto agire il nuovo nesso stabilito da Hegel tra forma e contenuto. Qui invece – nella dottrina di Kant come viene esposta da Hegel – gli elementi costitutivi del concetto di diritto sono sconnessi tra loro: prima compare la relazione reciproca degli arbìtri, descritta da Hegel come «limitazione» della libertà; poi la «legge universale» che deve regolare l’accordo dell’arbitrio dell’uno con l’arbitrio dell’altro, qualificata come un «universale esterno, formale», invece che «immanentemente razionale» come vuole il dettato hegeliano, e fortemente depotenziata rispetto al ruolo che in effetti Kant le attribuisce19. Tanto de-
18. Ivi, § 258, Annotazione, pp. 195 s. 19. Cfr. ivi, § 29, Annotazione, p. 42.
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potenziata che l’Annotazione al § 29 si conclude con la condanna del privilegio concesso da Kant alla volontà individuale e con un accenno ai disastri che ne sono storicamente derivati. Concludiamo anche noi su questo punto osservando, di nuovo, che è principalmente una questione di metodo; metodo contraddistinto in primo luogo dalla particolare lettura di Hegel (e verrebbe quasi voglia di dire di più: dalla decisione da lui adottata) di ravvisare il fondamento e il perno della dottrina del diritto di Kant nella volontà individuale, con tutti i tratti negativi che la caratterizzano; e – ciò che più importa per la nostra lettura – dalla decisione di negare alla volontà/libertà di Kant la possibilità di compiere un percorso analogo a quello che nella stessa Introduzione ai Lineamenti conduce alla «volontà libera, la quale vuole la volontà libera»20; percorso che forse non a caso trova il suo compimento immediatamente prima del paragrafo dedicato a Kant. Eppure va notato che, al di là della citazione riportata qui sopra alla nota 16, in riguardo al «diritto degli individui alla loro particolarità» lo stesso Hegel scrive che tale diritto è «parimenti [si noti bene la portata dell’avverbio] contenuto nella sostanzialità etica»21. Medesimo significato ha il seguente assunto del § 260, che inaugura la parte su Il diritto statuale interno: «Il principio degli Stati moderni ha questa enorme forza e profondità, di lasciare il principio della soggettività compiersi fino all’estremo autonomo della particolarità personale, e in pari tempo di ricondurre esso nell’unità sostanziale e così di mantener questa in esso medesimo»22. A completamento di questa breve indagine sul rapporto Hegel/ Kant verrà citato almeno un altro tema su cui la distanza fra
20. Ivi, § 27, p. 41. 21. Ivi, § 154, p. 138 (uno dei paragrafi della parte introduttiva alla Sittlichkeit). 22. Ivi, p. 201.
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le posizioni dei due autori è di nuovo davvero notevole; e poi un secondo, su cui invece si può registrare un loro accordo sostanziale, motivato da un analogo indirizzo sistematico e anche da un comune sentire filosofico, in grado di determinare consonanza su una posizione teorica già salda storicamente. Cominciamo da quest’ultimo, riguardante la relazione fra diritto naturale – o «filosofico», come anche Hegel scrive – e diritto positivo. Le origini più prossime di tale tematica, ancora dibattuta a inizio Ottocento, si situano in età sei-settecentesca. Preliminare, e interessante, è l’opposizione stabilita da Hegel nell’Annotazione al § 168 fra «Naturrecht» e «Natürlichkeit des Rechts»: mentre quest’ultima espressione indica semplicemente la dinamica dei rapporti naturali, percorsi dai relativi impulsi o tendenze, è il termine-concetto di Naturrecht quello filosoficamente rilevante, in quanto in esso albergano e operano in senso determinante i concetti di razionalità e libertà. Nell’arco temporale che intercorre tra la filosofia critica e l’idealismo maturo le rispettive posizioni filosofiche si sono consolidate: per Kant, ma anche per Fichte, il diritto appartiene ai princìpi universali a priori; entrambi i filosofi hanno fatto dell’argomento un rilevante oggetto d’indagine, Hegel già molto meno, proiettato com’è verso un orientamento da ultimo sempre più in auge e destinato a futura fortuna. Il suo sguardo è infatti più consistentemente rivolto al ruolo del diritto positivo, che ha come caratteristiche principali quella di essere codificato, e di conseguenza noto all’opinione pubblica, di sancire l’obbligatorietà della legge nonché la sua applicazione al caso particolare, fino alla sua effettiva applicabilità al caso singolo23. E neppure, nello specifico, alla relazione fra diritto naturale e diritto positivo Hegel dedica particolari approfondimenti, forse ritenendo il tema sufficientemente assodato dalle 23. Ivi, § 3, p. 21, §§ 211-216, pp. 169-175, nonché, sulla pubblicità del diritto e sull’imputabilità, l’Annotazione al § 132, pp. 112 ss.
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indagini filosofiche che lo hanno preceduto; lo liquida in poche battute, manifestando tuttavia contrarietà – e questo punto ci interessa – nei confronti della raffigurazione dei due diversi tipi di diritto come entità tra loro opposte. Nel sottolinearne anzi la continuità, egli descrive il loro rapporto come analogo a quello di «Istituzioni a Pandette»24. Al di là delle sfumature, l’impressione è comunque che su questa grande tematica Kant e in parte anche Fichte abbiano fatto scuola e che soprattutto la kantiana Rechtslehre fosse ben squadernata sul tavolo di Hegel al lavoro sul suo manuale, come pare confermato dalla lettura dei primissimi paragrafi dell’opera, quelli di definizione e di impostazione del problema, nonché del paragrafo che si occupa della «suddivisione del diritto»25. Distanza notevole si segnala invece nella valutazione del diritto romano da parte di Hegel e di Kant, rispettivamente. L’atteggiamento di rifiuto è netto nel primo (e, lo si vedrà subito, esso si riverbera nella valutazione della stessa dottrina kantiana) assai più di quanto non accada nel secondo. Si ha tuttavia anche qui l’impressione che il manuale compilato da Kant, al pari d’altronde di tanti dei manuali coevi, abbia condotto per mano e condizionato Hegel nelle sue ricerche, sebbene questa volta in negativo. Lo troviamo scritto nei Lineamenti a tutte lettere: la partizione tradizionale in diritto delle persone e diritto delle cose, derivata dal diritto romano, e ulteriormente in diritto ad azioni, non ha altro scopo che instaurare un ordine esteriore 24. Ivi, § 3, Annotazione, p. 22. Il riferimento è, rispettivamente, alle Insti tutiones sive Elementa, il manuale giustinianeo in quattro libri, recante i fondamentali della scienza del diritto e a quella parte del Corpus iuris civilis, sempre di Giustiniano, intitolata Digesta seu Pandectae, raccolta di brani dei giuristi classici destinati a fare giurisprudenza. La relazione fra i due è appunto una relazione di continuità, con il primo tipo di diritto, più ampio, che in sé contiene anche il secondo. 25. Cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, revisione di N. Merker, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 33 ss. e 43 ss.
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solo apparente in una materia che, così trattata, rimane nella più grande confusione; la stessa confusione nella quale cade, a vedere di Hegel, la partizione kantiana26. Non è questo il luogo per affrontare la questione della visione hegeliana del diritto romano27, ma va almeno ricordata la sua ripugnanza a equiparare persona e cosa o anche soltanto ad avvicinarle in consistente misura, come si osserva non solo nel caso eclatante della schiavitù28, ma nello stesso concetto-cardine del diritto di famiglia di Kant, ovvero il diritto personale di natura reale29. Obiezioni consimili Hegel muove anche alla concezione kantiana dei diritti personali, laddove l’attributo su cui egli insiste – personale – ha proprio la funzione di segnalare che il rapporto, per esempio in un contratto di proprietà o nell’alienazione di beni, è sempre fra persone, anche quando l’oggetto della transazione è una «cosa» – «cosa nel senso generale come ciò che è esteriore alla libertà in genere, al che appartiene anche il mio corpo, la mia vita»; di qui la posizione di Hegel: «soltanto la personalità dà un diritto a cose e pertanto il diritto personale
26. Cfr. G.W.F. Hegel, op. cit., § 40, Annotazione, pp. 49 s. 27. Sul tema, ivi, accenni nell’Annotazione al § 3, pp. 21 ss.; Annotazione al § 43, p. 52 e Annotazione al § 175, p. 149: sui figli romani, non liberi bensì schiavi; Annotazione al § 180, pp. 151 ss.: sul principio («il mero diretto arbitrio del defunto») stabilito a Roma per il diritto di fare testamento e sulle conseguenze da ciò derivanti. 28. Cfr. ivi, § 62, Annotazione, p. 64: «È già un migliaio e mezzo d’anni, che la libertà della persona grazie al cristianesimo ha cominciato a fiorire ed è divenuta principio universale in una parte del resto piccola del genere umano». Curioso il malizioso prosieguo, su tutt’altro tema: «Ma la libertà della proprietà è stata riconosciuta come principio da ieri, si può dire, qua e là». 29. Cfr. ivi, § 40, Annotazione, p. 50; si veda anche § 75, Annotazione, p. 74: rifiuto a concepire il matrimonio come un contratto, come è in Kant. Anticipando un punto sul quale torneremo, si fa notare come sia questa la pagina nella quale Hegel manifesta nel modo più incisivo il proprio più generale rifiuto del contrattualismo politico.
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è essenzialmente diritto a cose»30, non può cioè essere diritto a o su persone. A suo vedere, esattamente questo è il punto disatteso da Kant; lo scambiare una persona per una cosa è quanto di più insano possa verificarsi. In questo senso si può aggiungere che degli accenti, inquietanti per il lettore moderno, presenti nel § 20 della kantiana Rechtslehre31 già Hegel si dimostrò perfettamente consapevole. Sintetizzando quanto precede, pur con tutti i rischi di semplificazione e banalizzazione che ciò comporta, si può affermare che la disputa ingaggiata con Kant sul tema della volontà individuale è per Hegel funzionale a connotare il proprio “sistema politico”, nella misura in cui contribuisce a porne in evidenza alcuni elementi imprescindibili. In questa ottica è più agevole comprendere anche perché la sua visione sistematica non potesse che negare in radice alla volontà kantiana la possibilità di evolvere fino alla sopra citata «volontà libera, che vuole la volontà libera»: il “privato” è un recinto dal quale Kant non è, agli occhi di Hegel, in grado di fuoriuscire. Benissimo coltivarlo, ma sbagliato pretendere di estenderlo oltre la giusta misura o peggio ancora mescolarlo e confonderlo con ciò che gli è costitutivamente estraneo: l’indebita estensione kantiana della concezione giuridica basata sul contratto di diritto privato alla sfera giuspubblicistica ne offre palese conferma. È la concezione contrattualistica cui Kant aderisce ancora appieno a rappresentare per Hegel l’ostacolo maggiore: porre un contratto sociale a fondamento dello Stato equivale a permettere che a costituire quest’ultimo siano singole volontà, niente altro che delle volontà particolari. L’imperativo di non confondere diritto privato e diritto pubblico, distinguendone le sfere rispettive,
30. Ivi, § 40, Annotazione, p. 50. 31. Con, innanzitutto, l’acquisto di un atto di una persona ossia del diritto di esigere da una persona una prestazione: cfr. I. Kant, op. cit., pp. 90 s.
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deriva proprio dalla necessità di isolare l’istituto del contratto di diritto privato (figura giuridica che anche nel manuale hegeliano compare – come seconda sezione del Diritto astratto – alla base della proprietà privata) rispetto a qualsivoglia concezione del contrattualismo politico. Molte sono le testimonianze contenute nel manuale di Hegel; la più significativa si trova forse nel § 81, che è il paragrafo di passaggio dalla sezione dedicata al contratto (di diritto privato) a quella dedicata all’illecito, dove un solo aggettivo, «accidentale», serve a smontare un’intera teoria: «Poiché esse sono persone immediate, è accidentale che la loro volontà particolare sia in accordo con la volontà essente in sé, la quale ha la sua esistenza unicamente grazie a quella»32. Paradigmatico della tesi che lo Stato sia la prima delle entità che vanno sottratte all’ambito del contrattualismo è il § 75, che nell’ultima parte dell’Annotazione contiene l’accusa, a Kant e soci, «di aver trasferito le determinazioni della proprietà privata in una sfera che è di tutt’altra e più alta natura»33. Allo stesso
32. G.W.F. Hegel, op. cit., p. 80. Cfr. F. Menegoni, Soggetto e struttura dell’agire in Hegel, Verifiche, Trento 1993, in partic. pp. 74 ss., sul diritto astratto e pp. 114 ss., su società civile e Stato. Successivamente si sono avuti molti studi sulla teoria dell’azione in riferimento a Hegel: cfr. il vol. presentato al pubblico italiano proprio da F. Menegoni - M. Quante, Il concetto hegeliano di azione, tr. it. di P. Livieri, Franco Angeli, Milano 2011. Si veda anche M. Alessio, Azione e eticità in Hegel. Saggio sulla filosofia del diritto, Guerini e Associati, Milano 1996. Un aspetto che non affronteremo qui e che ci limitiamo a segnalare – per quanto di grande rilievo, se non altro per le peculiarità che fortemente lo contraddistinguono rispetto alle dottrine coeve – è la teoria della pena sviluppata da Hegel in queste pagine. Cfr. K. Seelmann, Le filosofie della pena di Hegel, a cura di P. Becchi, Guerini e Associati, Milano 2002; D. Tafani, Pena e libertà in Hegel, in C. De Pascale (a cura di), La civetta di Minerva. Studi di filosofia politica tra Kant e Hegel, Edizioni ETS, Pisa 2007, pp. 197-221, tr. ted. in D. Tafani, Beiträge zur Rechtsphilosophie des deutschen Idealismus, Lit Verlag, Berlin 2011, pp. 111-137, al quale si rinvia anche per la bibliografia. 33. G.W.F. Hegel, op. cit., p. 74.
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orizzonte appartiene la confutazione da parte di Hegel della visione di Beccaria, contrario alla pena di morte comminata dallo Stato – confutazione basata esattamente sul rifiuto a considerare lo Stato come l’esito di un contratto sociale («Come si sa, Beccaria ha negato allo Stato il diritto alla pena di morte sul fondamento che non si possa presumere che nel contratto sociale sia contenuto il consenso degli individui a lasciarsi uccidere, anzi si debba assumere il contrario. Ma lo Stato in genere non è un contratto»34). 3. Di altri elementi, cui ormai verrà riservata poco più che una rapida menzione, occorre tenere conto per poter dire di avere gettato quanto meno uno sguardo panoramico compiuto sul “sistema politico” di Hegel. Cercheremo di esporli muovendo dal generale al particolare, fino agli aspetti più specifici. Fra i primi, l’accezione larga o larghissima del diritto, che ingloba in sé anche la Sittlichkeit. Sul tema sono in primo luogo da segnalare i paragrafi dal 129 al 132 compreso, per toccare con mano i molteplici nessi che connettono morale e diritto. Ci troviamo ovviamente nella parte dedicata a La moralità, e in particolare nella sezione terza Il bene e la coscienza morale35. Un intero studio potrebbe e dovrebbe essere riservato a un tema di siffatto rilievo, innanzitutto per sfatare la vulgata di una Sittlichkeit nemica della Moralität, pur nella necessità di ribadire al contempo la siderale distanza fra le due dimensioni36. Dovendo ridursi a una estrema sintesi, diremmo che agli 34. Ivi, § 100, Annotazione, p. 90. 35. Ivi, pp. 111 s. 36. C. Cesa, Tra Moralität e Sittlichkeit. Sul confronto di Hegel con la filosofia pratica di Kant, in V. Verra (a cura di), Hegel interprete di Kant, Prismi, Napoli 1981, poi in C. Cesa, Verso l’eticità. Saggi di storia della filosofia, Edizioni della Normale, Pisa 2013, pp. 67-92; A. Peperzak, The Foundations of Ethics according to Hegel, in «International Philosophical Quar-
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occhi di Hegel la prima non può darsi in maniera compiuta in assenza della seconda e questa, pur con tutta l’esaltazione della particolarità e singolarità che l’affetta, nonché, insieme, del formalismo o formalità cui è vincolata, è passaggio dialettico37 indispensabile affinché l’etica pubblica sia davvero tale, cioè non sia ignara della caratura giustappunto etico-morale che pertiene alle singole componenti della Sittlichkeit. E il trasformarsi del bene individuale (Wohl, benessere, «oder die Glückseligkeit» aggiunge Hegel38, riecheggiando un tema settecentesco) nel bene universale (Gute), senza che tuttavia ciò comporti scomparsa di tale Wohl individuale – da mantenersi viceversa come una conquista acquisita39 – trova completamento e compimento nella trasformazione del diritto astratto in «diritto assoluto», appunto diritto nell’accezione larga che presiede e regola l’intera compagine statale e la serie delle istituzioni intermedie, le quali a loro volta in più di un’occasione (per esempio in talune componenti della società civile, oltre che negli istituti del diritto privato) si avvalgono anche dell’elemento dialettico della “con-
terly», vol. 23, n. 4, 1983, pp. 349-365; Id., Modern Freedom. Hegel’s Legal, Moral and Political Philosophy, Kluwer, Dordrecht 2001; L. Siep, Was heißt: «Aufhebung der Moralität in Sittlichkeit in Hegels Rechtsphilosophie?», in Id., Praktische Philosophie im Deutschen Idealismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992, pp. 217-239; C. Cesa, Hegel und die kantische Moralität, in C. Fricke - P. König - Th. Petersen (Hrsg.), Das Recht der Vernunft. Kant und Hegel über Denken, Erkennen und Handeln, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1995, pp. 291-309; R.B. Pippin, Hegel on the Rationality and Priority of Ethical Life, in «Neue Hefte für Philosophie», n. 35, 1995, pp. 95-126; F. Menegoni, La morale, in C. Cesa (a cura di), Guida a Hegel, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 123-155. 37. Non è ovviamente un caso che questa terza sezione sia quella di passaggio o transizione alla parte sull’eticità. 38. Cfr. G.W.F. Hegel, op. cit., § 123, p. 106. 39. «il diritto non è il bene senza il benessere (fiat justitia non deve aver per conseguenza pereat mundus)» (ivi, § 130, p. 111).
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servazione” per lasciare il dovuto spazio sia «al diritto astratto della proprietà», sia «ai fini particolari del benessere»40. Appartengono ai temi più generali anche i vari campi di applicazione del concetto di “unità” – a partire dall’unità della famiglia. Non è il caso di istituire differenze nelle molteplici versioni del diritto di famiglia elaborate dagli autori dell’idealismo tedesco, in quanto differenze su questo tema sostanzialmente non ve ne sono. Pur tuttavia c’è un punto, proprio quello che riguarda una concezione “forte” dell’unità, che a me pare caratterizzare la dottrina di Hegel e distinguerla da una lunga tradizione fatta convenzionalmente iniziare con Rousseau e proseguita quantomeno nel pensiero di Kant e di Fichte. Lì è dalla consapevolezza (Bewußtsein) – consapevolezza di sé come individuo – che prende avvio anche la riflessione sulla società e sul vivere in comune. In Hegel alla consapevolezza di sé come individuo subentra la consapevolezza di sé come unità della e nella molteplicità. Lungi dal sostenere l’impossibile, ossia un disinteresse di Hegel per la problematica della «coscienza» – studiata anzi fin dalle sue prime articolazioni –, il senso del discorso è piuttosto quello di richiamare l’attenzione sulla dominanza, in un’opera specificamente destinata alla filosofia dello spirito oggettivo, della «coscienza [o consapevolezza] dell’unità», che non solo si impone quale elemento etico, per esempio, del matrimonio, ma rappresenta sempre il fondamento della costruzione statale e dell’intera figura della Sittlichkeit. Se ci si interroga su quale sia, per Hegel, il punto di avvio della riflessione sul vivere politico, la risposta è appunto la coscienza dell’unità del matrimonio (costituendo la famiglia la «prima» «radice etica dello Stato»41,
40. Ibidem. 41. Ivi, § 255, p. 193. Cfr. C. Mancina, Differenze nell’eticità, Guida, Napoli 1991.
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e costituendo essa, per giunta, la prima entità storicamente concorrente alla formazione di uno Stato). Unità quale «fine sostanziale» del matrimonio e appunto perciò suo «elemento etico»; solo la famiglia – come «sostanzialità immediata dello spirito» – è persona, mentre i suoi membri sono «accidenti» a fronte della sostanza42; ancora, l’espressione «concreta unità» compare a designare la famiglia nel § 165 e va notato come la compresenza illustrata qui di “naturale” ed “etico” torni a riemergere poco oltre nella contrapposizione, ricomposta, fra la nuova famiglia cui viene data vita e le «stirpi o casate dalle quali essa è provenuta»43. È in questo contesto che trova collocazione l’illustrazione di due tematiche atte a confermare il ruolo sistematico attribuito da Hegel alla famiglia: la prima, che qui nominiamo solo di sfuggita, concerne il dibattito sul diritto di fare testamento (l’istituto dell’eredità era stato anche di recente contestato, per esempio da Fichte)44; la seconda si incentra sull’istituto del maggiorascato, legittimato dalla «superiore sfera politica», la quale richiede «un diritto della primogenitura e un ferreo patrimonio di stirpe». Tale diritto della primogenitura assume ovviamente rilievo decisivo all’interno della teoria dei «ceti» (Stände) e in particolare in relazione al cosiddetto «ceto 42. Cfr. G.W.F. Hegel, op. cit., rispettivamente § 158, p. 140 e § 163 e Annotazione, pp. 142 s. Che sia la famiglia, dotata di «spirito etico», a meritarsi la designazione di «persona» deriva proprio dall’aver Hegel nella sostanza negato all’istituto del matrimonio qualsiasi valenza di tipo contrattualistico e giusprivatistico; cfr. anche § 75, Annotazione, p. 74. 43. Ivi, rispettivamente p. 144 e § 172, pp. 147 s., § 180 e Annotazione, pp. 151 ss., e in secondo luogo l’istituto del maggiorascato, affermato a conclusione dell’Annotazione appena cit., p. 154, legittimato dalla «superiore sfera politica», la quale richiede «un diritto della primogenitura e un ferreo patrimonio di stirpe». 44. Ivi, § 178 e Annotazione, pp. 150 s., § 180 e Annotazione, pp. 151 ss. In nota, l’indicazione del curatore della Grundlage des Naturrechts di Fichte, ma il riferimento primo in ordine di tempo è dato dal Beitrag sulla rivoluzione francese.
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sostanziale», l’aristocrazia dei proprietari terrieri, che basa la propria solidità giustappunto sul possesso fondiario, costitutivamente diverso e indipendente tanto dal patrimonio (generale) dello Stato quanto dai patrimoni privati legati al sistema industriale e commerciale, e «reso saldo» addirittura «contro il proprio arbitrio dal fatto che i membri di questo ceto chiamati per questa destinazione mancano del diritto degli altri cittadini, sia di disporre liberamente della loro intera proprietà, sia di saperla trapassante ai figli secondo l’uguaglianza del loro amore per loro; – il patrimonio diventa così un bene ereditario inalienabile, gravato dal maggiorasco»45. Giacché stiamo trattando argomenti legati alla sfera della società civile, è qui che occorre ribadire il ruolo e la posizione sistematica di forte rilievo ad essa attribuiti dalla filosofia di Hegel, all’interno della distinzione tra società civile e Stato da lui resa canonica. In forza di tale posizione sistematica, si riescono a individuare tante delle linee che attraversano la costruzione teorica complessiva hegeliana e a cogliere i punti in cui esse si incrociano, intrecciano e infine si ricongiungono, essendo questi punti in gran numero situati proprio in quest’ambito che nell’economia dell’opera si presenta come una sorta di precipitato di tante delle maggiori questioni teoriche affrontate e dal quale a sua volta si dipartono nuove linee che condurranno
45. Ivi, rispettivamente a conclusione dell’Annotazione al § 180, p. 154 e §§ 305 ss., pp. 244 ss., in particolare § 306, p. 245 (traduzione lievemente modificata). Non c’è spazio per fermarsi ancora sul capolavoro rappresentato dal § 307, che in poche righe mostra addirittura il «sacrificio» inflitto da questo sistema al «principio naturale della famiglia» che, se per un verso continua a sussistere, per l’altro è «sovvertito da duri sacrifici per il fine politico» e mostra altresì quella che potremmo chiamare la destinazione etica di tale ceto, «chiamato e autorizzato […] dalla nascita senza l’accidentalità di un’elezione». Non occorre aggiungere che esponenti del ceto sostanziale per questa loro qualità siedono in una delle due Camere legislative e perciò concorrono in modo determinante alla costituzione di questo potere.
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all’apice della costruzione, allo Stato vero e proprio. È appunto quel movimento generatore di pensieri a offrire una palmare esemplificazione della interconnessione di tematiche e percorsi concettuali che, come detto, caratterizza la ricerca del filosofo, mostrando concretamente in tanti luoghi di essa l’interna organicità dello Stato così costruito, nella relazione fra le numerose componenti che dialetticamente lo compongono. Denominatore comune della riflessione sulla società civile è la dialettica di particolarità e universalità, che abbiamo già visto in azione altrove ma che qui trova il proprio luogo di elezione. Il tema viene in luce soprattutto nel § 184, dove si legge che alla particolarità compete «il diritto di svilupparsi e di muoversi da tutti i lati»46. Con ciò Hegel intende indicare in maniera sintetica l’intera serie delle problematiche comprese sotto l’etichetta «sistema dei bisogni», dai bisogni primari e naturali alle diverse gradazioni del bisogno e ai suoi diversi generi, con la connessa ricerca delle rispettive forme di appagamento, fino ai bisogni che oggi diremmo culturali. Lo strumento idoneo a far fronte alla dinamica bisogno/appagamento è per Hegel il «lavoro». Ciò apre la strada a considerazioni sull’economia politica, la disciplina storicamente più aggiornata a occuparsi di temi come il lavoro e le sue trasformazioni, compresa una sempre più avanzata meccanizzazione, e a mettere di quest’ultimo in luce caratteristiche peculiari e relative conseguenze come l’«astrazione», la divisione del lavoro, l’alienazione. Da qui prende avvio un’analisi sulla dialettica fra il patrimonio individuale ora in questione e il «patrimonio generale»; di tale dialettica partecipano anche quella sorta di articolazioni intermedie che sono i ceti47. 46. Ivi, p. 155. 47. Anche su questa parte non si è potuto oltrepassare lo stadio del mero accenno. Va però almeno ricordato l’intervento di Hegel su un tema ampiamente dibattuto al suo tempo, quello della scelta o meno del ceto; la sua posi-
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Lo stesso § 184 spiega come della particolarità sia «fondamento e forma necessaria» l’universalità, qui rappresentata dall’amministrazione della giustizia, dall’amministrazione tout court (Polizei) e dalla corporazione. Senza entrare in ciascun singolo argomento, basterà ribadire come proprio nel luogo privilegiato del dispiegamento del «particolare» – un particolare però sociale, attore nei diversi ambiti della vita pubblica, economica e politica – l’universale ha la funzione, da un lato, di ricondurre a unità quelle che altrimenti sarebbero membra sparse del corpo collettivo, ma, dall’altro e soprattutto, di convogliare, dopo averlo ricongiunto, l’universo dei particolari verso un universale che sta a sua volta conquistando un livello ancora più alto di universalità, insomma di “spingere”, per dir così, l’intera massa di particolare e universale costituita dalla società civile nel suo complesso verso quell’universale sommo che è lo Stato, riconnettendo il tutto al fine di costituire un’effettiva totalità organica48. Accanto all’amministrazione della giustizia – dominio, come si è già accennato, di una legislazione universale codificata, con l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge49, e di una giurisdizione è di stampo liberale e a questo proposito è indispensabile almeno citare le righe conclusive dell’Annotazione al § 206, ove è di nuovo chiarissima la dialettica soggettivo/oggettivo, in questo caso tutta a favore della «libertà» (ivi, pp. 167 s.). Da segnalare qui, e da legare al § 192, p. 161, anche la presenza di un’altra fondamentale coppia concettuale: «riconoscimento» e «diritto». Mi astengo dal dare indicazioni sulla vasta bibliografia relativa al campo del «riconoscimento» in Hegel, sul quale concetto va comunque tenuta presente la decisa influenza fichtiana. 48. Si legga con particolare attenzione il § 229, ivi., p. 182. 49. Su questo punto Hegel appare totalmente allineato alle più recenti acquisizioni a loro volta originate dalle posizioni dell’illuminismo giuridico, anche se da parte sua non manca di far emergere la peculiarità di un apporto autonomo, sovente connesso a qualche polemica verso i contemporanei. Lo si vede bene nella seguente frase, a proposito dell’eguaglianza di fronte alla legge: «Questa coscienza [«del singolo nella forma dell’universalità, che io venga appreso come persona universale, ove tutti sono identici»] è d’im-
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zione anch’essa tendenzialmente universale50 – la Polizei, nel senso di amministrazione dello Stato, è ulteriore elemento a garanzia di trattamento universalistico dei cittadini. Potremmo descriverla come deputata alla gestione del Wohlfahrtstaat e organo del medesimo, una sorta di contraltare generale a quel «sistema dei bisogni» che invece guarda esclusivamente alla sussistenza e al benessere dei singoli. Per parte sua, l’amministrazione si occupa di salvaguardare per tutti la sicurezza della persona e della proprietà, di sorvegliare le condizioni economiche di partenza e garantirle, rimuovere gli ostacoli relativi, attivare e far funzionare i pubblici servizi, vigilare sui costumi e la pubblica quiete, provvedere agli indigenti e prevedere i più diversi casi di necessità51. Come era avvenuto per il mantenimento dei ceti da parte di Hegel all’interno del suo sistema –
portanza infinita, – soltanto allora è manchevole, quando essa per es. come cosmopolitismo si fissa nel contrapporsi alla concreta vita dello Stato» (ivi, § 209, Annotazione, p. 169). 50. Fondamentale il riferimento, ivi, § 227, p. 180, alla «convinzione soggettiva» e alla «coscienza morale» del giudice, in quanto spia evidentissima e conferma del peso ancora qui esercitato dai temi dell’intera sezione precedente su La moralità. 51. Mi scuso per questa mera elencazione, ma mi è sembrato un modo per indicare in breve (e non certo nella loro completezza) la quantità di compiti e prerogative di uno Stato centralizzato e insieme attivamente presente nelle sue molteplici articolazioni. Indicativo mi pare l’incipit del § 231, ivi, p. 183: «La rassicurante autorità dell’universale […]»; è questa autorità rassicurante che, per esempio, consente di lasciare correttamente spazio al liberismo economico (una situazione nella quale «ciascuno fa assegnamento» sulla «non impedita possibilità» [corsivo mio] di provvedere ai mezzi per soddisfare i numerosi «bisogni quotidiani» [ivi, § 235, p. 184]), ma di riequilibrarlo tuttavia, attraverso una «regolazione intrapresa coscientemente» dei diversi interessi dei produttori e dei consumatori (§ 236, ibidem). È questa autorità rassicurante che provvede ai poveri attraverso gli idonei istituti pubblici: ivi, §§ 241 e 242 e relativa Annotazione, pp. 186 s. Nei paragrafi seguenti, il tema della «plebe» (Pöbel) e la comparsa, per l’unica volta nell’opera, del termine «Klasse» riferito alla classe industriale (§§ 244 e 245, p. 188).
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ceti presenti ormai principalmente con una loro configurazione economico-sociale, e non più come stratificazione rigida del sistema sociale, a suo tempo bloccato addirittura sul meccanismo delle cosiddette “barriere cetuali”; e tanto meno con un ruolo politico-governativo, come in età pre-moderna, in perenne “dualismo” con il potere centrale del Principe, perché ora viceversa il potere è centralizzato e la “partecipazione” avviene ormai a esclusivo livello di rappresentanza parlamentare52 –, lo stesso accade con le corporazioni. Di quest’ultime, così come dei ceti e di nuovo sulla scia di istituti del passato, va dunque registrata nel sistema politico hegeliano una decisa permanenza, la quale tuttavia non manca di lasciare spazio sotto più riguardi ad aspetti innovativi e in certo modo modernizzanti. Il valore sistematico della corporazione, e quindi l’esigenza di conservarla in vita, risiede, ancora una volta, nell’esser situata sul percorso che conduce all’universale: «L’organizzazione del lavoro della società civile secondo la natura della propria particolarità si fraziona in diversi rami. Poiché tale uguale in sé della particolarità viene all’esistenza nell’associazione come cosa comune, il fine egoistico, diretto al suo particolare coglie e afferma sé come universale, e il membro della società civile è, secondo la sua particolare attitudine, membro della corporazione»53; in 52. Cfr. gli importanti paragrafi dal 304 al 315, ivi, pp. 244 ss.; § 302, p. 242: «Considerati come organo mediatore, i ceti stanno tra il governo in genere da un lato, e il popolo dissolto in individui e sfere particolari dall’altro lato. La loro determinazione richiede in essi tanto il senso e la disposizione d’animo dello Stato e del governo, quanto degli interessi delle cerchie particolari e dei singoli» (traduzione leggermente modificata). Cfr. E. Cafagna, La libertà nel mondo. Etica e scienza dello Stato nei «Lineamenti di filosofia dl diritto» di Hegel, il Mulino, Bologna 1998, in partic. pp. 137 ss.; si veda anche C. Cesa, Doveri universali e doveri di stato. Considerazioni sull’etica di Hegel, in «Rivista di filosofia», LXVII, n. 7-8-9, 1977, pp. 30-48, poi in Id., Verso l’eticità, cit., pp. 231-250. 53. G.W.F. Hegel, op. cit., § 251, p. 191. Il successivo § 252, ibidem, illustra le principali caratteristiche della corporazione. Da notare, e da collegare a
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questo senso la corporazione è per i suoi affiliati una «seconda famiglia» e accanto alla famiglia essa «costituisce la seconda radice etica dello Stato»54. Ormai poche battute sono necessarie per chiudere il cerchio. Del “sistema” della Sittlichkeit abbiamo esaminato diverse com ponenti e soprattutto cercato di restituire il significato dello Stato come figura di estrema sintesi e culmine dell’intera costruzione politico-filosofica di Hegel. Nella conclusione conviene tornare a porre l’accento sulla sua dimensione di «totalità organica», come si legge già nella parte conclusiva dell’Annotazione al § 256, paragrafo di passaggio alla sezione sullo Stato, senza – per inciso – trascurare che proprio la coppia oppositiva meccanicismo/organicismo ha attraversato la storia della filosofia politica dei secoli XVIII e XIX e che in particolare nella Sattelzeit, nel varco epocale del passaggio da un secolo all’altro, le due posizioni si sono fronteggiate con vigore, nella consapevolezza da parte della prima di rappresentare in certo modo un resto del passato55 e da parte della seconda di avere il futuro di fonte a sé, soprattutto osservandosi dal punto prospettico della Restaurazione vittoriosa. Inoltre, Stato nella dimensione di vero e proprio «organismo», come illustrato nei §§ 267 e 269, con un accostamento significativo fra questo termine-concetto e quello di «Verfassung»56. quanto appena detto sul passaggio da pre-moderno a moderno, la contestazione, nell’Annotazione al § 252, pp. 191 s., che per le corporazioni si tratti di «privilegi» analoghi a quelli vigenti in passato. 54. Ivi, rispettivamente § 252, p. 191 e § 255, p. 193. 55. Ma un resto che voleva e poteva essere di più di una mera scoria, ancora capace insomma, e per sua parte voglioso, di costruire storia. 56. Nel § 267, ivi, p. 204, Verfassung è la costituzione dello «Stato propriamente politico»; cfr. anche § 269, p. 205: «questo organismo [l’organismo dello Stato] è la costituzione politica», e § 271, p. 216: «La costituzione politica è per prima cosa: l’organizzazione dello Stato e il processo della di lui vita organica in relazione a se stesso», in secondo luogo è lo Stato inteso
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Si noti bene: Hegel non è fra i nemici della Konstitution, in quanto risultato storicamente dato di una fase che appartiene a pieno diritto all’evoluzione della storia dell’umanità. Ma altro è il suo problema e altro anche il centro del suo interesse, ed entrambi si inverano nella nozione di Verfassung, che non è solo vocabolo appartenente a un passato più o meno glorioso, ma è pieno altresì di senso e significati per il presente storico e per quanto era allora ancora da costruire. Di più, nel suo significato di ordinamento complesso, corrisponde esattamente al modo in cui Hegel concepisce il sistema politico. Viene da pensare che se esso non fosse già stato presente nel vocabolario della politica, Hegel stesso lo avrebbe coniato, per la corrispondenza completa, lo ripetiamo, con tanti dei caratteri che la sua visione del mondo ha a cuore. Il tema è esplicato al meglio dai rapporti reciproci fra i poteri dello Stato: notoriamente poteri non separati l’uno dall’altro, bensì tra loro intrecciati e interconnessi, pur nella individualità rispettiva. Ciascuno di essi è «in sich» (da tradurre alla lettera, piuttosto che «entro di sé», come propone Marini) la totalità, ma al contempo costituisce soltanto un «individuelles Ganzes»57. Nella relazione fra potere legislativo, governativo (esecutivo) e potere del principe, come si sa è quest’ultimo ad aver suscitato il più intenso dibattito e una varietà di interpreta-
come individuo, rivolto verso l’esterno e dunque nella relazione con gli altri Stati. Sul tema, e sulla filosofia del diritto in generale, cfr. il primo capitolo di S. Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel 1818-1831, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 35-102. 57. G.W.F. Hegel, op. cit., § 272, p. 216. Nell’Annotazione, pp. 216 ss., si menzionano le tante «ciarle» diffuse in Germania a proposito della Verfassung (e non si può non legare a questa affermazione la puntata polemica rivolta all’istituto dell’eforato, rimesso da ultimo in circolazione da Fichte, contenuta nell’Annotazione al § 273, p. 219); p. 217: sulla «necessaria divisione dei poteri» in quanto produttrice di «differenza», ma subito dopo: critica alla dottrina tradizionale, che sfocia nella reciproca «assoluta autonomia» di tali poteri.
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zioni, i cui estremi sono da rinvenire in una forte sottolineatura della primazia del principe, o monarca, da un lato, e dall’altro nell’attribuirgli una funzione per così dire notarile o arbitrale – che per la verità pare ben poco corrispondere all’impianto generale messo a punto dal filosofo. Curiosa, anche se non indegna di riflessione, la circostanza che per ciascuna di queste interpretazioni estreme venga chiamata a supporto la stessa espressione, di per sé abbastanza originale, usata da Hegel per descrivere l’attività del monarca come quella di colui che «“Ja” sagt» e che «den Punkt auf das I setzt»58 – interpretata ora come un proferire parola definitiva sugli argomenti di volta in volta in causa, e quindi come decisione sovrana e ultima, ora come una sorta di presa d’atto, di placet accordato o concesso ex post. Si diceva dell’impianto generale, ma non meno importanti sono gli aspetti specifici che del potere del principe è dato registrare: innanzitutto il «principio distintivo» di tale potere, consistente nell’«assoluto autodeterminarsi» del principe stesso59 – e qui occorrerebbe ricollegarsi all’Introduzione dell’opera, richiamando le pagine dedicate alla volontà come autodeterminazione e all’autodeterminazione come libertà. Poi, la distinzione, molto interessante, fatta intervenire nel § 279 tra una «individualità in genere» e «un individuo, il monarca», ossia quello specifico individuo60 che incorpora la personalità dello Stato, 58. Nella Aggiunta al § 280, in G.W.F. Hegel, Grundlinien des Philosophie des Rechts, in Id., Werke in zwanzig Bänden, Bd. 7, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, p. 451. Si noti un’altra particolarità, che ha offerto un ulteriore elemento al dibattito interpretativo appena ricordato: nel § 273, dove sono esposte le tre articolazioni del potere, l’ordine di elencazione è: potere legislativo, governativo e del principe, ovvero monarchia costituzionale; quando poi però Hegel procede alla loro illustrazione, inizia con la trattazione del potere del principe. 59. Ivi, § 275, p. 222. 60. Vale la pena leggere per intero il periodo: «Questo momento assolutamente decidente dell’intero è perciò non l’individualità in genere, bensì un
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impersona la certezza di se stesso propria di quest’ultimo, valuta gli argomenti pro o contro e con un atto di decisione, «con un: io voglio», dà il via alla realizzazione pratica («inizia ogni azione e realtà»). Inoltre, la specificità che rende difficile più di ogni altro concetto «il concetto del monarca»: il suo essere non qualcosa di «dedotto», ma viceversa «ciò che ha inizio semplicemente da sé»61. Quest’ultimo assunto, oltre a costituire agli occhi di Hegel il punto di partenza per fornire spiegazione della propria concezione della sovranità non proveniente né da Dio né dal popolo, trova la sua ragione più profonda nella peculiare natura del monarca, attestata dalla sua nascita e sorgente della sua maestà62. «Diritto di nascita e di eredità costituiscono il fondamento della legittimità come fondamento non di un diritto meramente positivo, bensì in pari tempo nell’idea»63.
individuo, il monarca» (ivi, p. 224). E poi: «La personalità dello Stato è reale soltanto se intesa come una persona, il monarca» (Annotazione allo stesso § 279, p. 225, dove tutto il discorso ruota attorno a colui che «decide» «con un: io voglio»). 61. Ibidem. 62. Rispettivamente: ivi, § 280, p. 228; § 281, p. 229. Così è illustrata la maestà (la citazione tedesca aiuta forse ad aggirare le asperità della lingua): «Beide Momente in ihrer ungetrennten Einheit, das letzte grundlose Selbst des Willens und die damit ebenso grundlose Existenz, als der Natur anheimgestellte Bestimmung, – diese Idee des von der Willkür Unbewegten macht die Majestät […] aus». 63. Ivi, § 281, Annotazione, p. 229. Sulla figura del monarca: cfr. C. Cesa, Entscheidung und Schicksal: die fürstliche Gewalt, in D. Henrich - R.-P. Horstmann (Hrsg.), Die Theorie der Rechtsformen und ihre Logik, Klett-Cotta, Stuttgart 1982, pp. 185-205 (ma l’intero volume merita di essere studiato con attenzione, come pure degno di attenzione è l’altro volume di poco successivo: Hegels Rechtsphilosophie im Zusammenhang der europäischen Verfassungsgeschichte, Frommann-Holzboog, Stuttgart Bad-Cannstatt 1986); B. Bourgeois, Le prince hégélien, in Id., Études hégéliennes. Raison et Décision, PUF, Paris 1992, pp. 207-238; G. Preterossi, La sfera del «Politico», in Id., I luoghi della politica, cit., pp. 79-151. Su monarca e rappresentanza, cfr. G. Bedeschi,
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Una nuova ricerca potrebbe e forse dovrebbe iniziare qui a proposito del cosiddetto “principio monarchico”, una dottrina dalle molteplici sfaccettature, soggetta a differenti formulazioni, dalla prima esperienza realizzata dalla monarchia costituzionale di Luigi XVIII nella Francia del 1814, fino alla teoria elaborata nel cuore degli anni Quaranta dell’Ottocento tedesco da F.J. Stahl. Ma per restringere il campo all’istituto della monarchia costituzionale, e rammentando come all’esperienza francese si siano ispirate le carte costituzionali promulgate agli esordi della Restaurazione in paesi della Germania meridionale come la Baviera, il Baden e il Württemberg, non meno che teorie politiche sorte in altre paesi, per esempio in Italia con Giandomenico Romagnosi, non è probabilmente errato sostenere che la stessa riflessione hegeliana abbia ereditato dall’esperienza francese il nome e il concetto. Se alcuni tratti caratterizzanti la figura del monarca esposti da Hegel fino a questo punto possono aver evocato nel lettore le fattezze del monarca assoluto di tradizione pre-moderna64, altri caratteri provvedono subito a controbilanciare questa impressione, fino a smentirla. Accanto a un potere esecutivo composto anche dall’intero apparato degli uffici amministrativi e dei funzionari pubblici (il «ceto generale»)65, accanto all’assemblea legislativa, con un sistema rappresentativo bicamerale affidato ai diversi ceti66, a fare la differenza sono anche l’insistenza sulla necessità della «pubblicità» del confronto parlamentare e nella discussione politica, la centralità conferita al concetto di opinione
Il pensiero politico e giuridico, in C. Cesa (a cura di), Guida a Hegel, cit., pp. 157-200, in part. pp. 189 ss. 64. Comprese le osservazioni fortemente critiche circa la monarchia elettiva: cfr. G.W.F. Hegel, op. cit., § 281, Annotazione, p. 229. 65. Cfr. ivi, §§ 287-297, pp. 233-238. 66. Cfr. ivi, § 302, p. 242, che significativamente nelle righe conclusive torna sul tema della “organicità” dello Stato, nonché §§ 312-314, pp. 249 s.
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pubblica da uno Hegel senz’altro ben al corrente del dibattito sul tema, sviluppatosi anche in questo caso in Francia ma estesosi poi rapidamente al di là dei suoi confini, e infine la connessa nozione di libertà di stampa, che da fine Settecento aveva coinvolto tanta parte dell’intellettualità europea67. A coronamento e conclusione va ricordata la rilevanza del ceto medio (borghesia) non solo nel sistema economico e sociale lumeggiato da Hegel, ma anche ai fini del “suo sistema politico”68.
67. Cfr. ivi, §§ 315-318, pp. 250-252, e § 319, pp. 252 ss. Una ravvicinata illustrazione di ciò che Hegel intende per monarchia costituzionale si legge nell’Annotazione al § 286, ivi, p. 232. 68. Cfr. ivi, § 297, p. 238.
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Il pratico come fondamento nella Dottrina della scienza di Marco Ivaldo
Un’operazione filosofica originale di Fichte è di avere concepito la ragione pratica come un principio architettonico e sistematico. La ragione pratica non soltanto rappresenta il fondamento dell’atteggiamento e dell’azione pratico-morale, come la ragione pura pratica secondo la Critica della ragione pratica. La ragione pratica è per Fichte principio costituente dell’intera coscienza e perciò dell’esperienza umana nella sua complessità e totalità. Nella dottrina della scienza la “praticità della ragione” è il fondamento dell’intera ragione in quanto principio di unità del pensare, del volere e dell’agire1. Questo ruolo della ragione pratica non diminuisce la ragione teoretica, o rappresentativa, ma la fonda: «La ragione non può neppure essere teoretica se non è pratica; […] nell’uomo non è possibile l’intelligenza, se in lui non c’è una facoltà pratica; […] su quest’ultima si fonda la possibilità di ogni rappresentazione»2. 1. Cfr. su questo la mia ricerca: Ragione pratica. Kant, Reinhold, Fichte, Edizioni ETS, Pisa 2012. Vedi anche: T. Valentini, I fondamenti della libertà in J.G. Fichte. Studi sul primato del pratico, Editori Riuniti University Press, Roma 2012. 2. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften (d’ora innanzi:
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1. L’unità di pratica e teoretica Già nel manoscritto intitolato Filosofia pratica dell’inizio del 1794 Fichte rompe con la tendenza fondamentale della scuola leibniziana di fare «dell’io una semplice intelligenza» (cfr. GA II 3, 200) e scopre la duplice funzione dei momenti pratici nella costituzione dell’esperienza: di essere per un verso momenti di determinazione del volere e dell’agire, e di essere per l’altro verso anche momenti costituenti degli stessi oggettioggettivi. Fichte parla della necessità di elaborare una nuova parte della filosofia, che egli in questi manoscritti definisce «quasi teoretica» (cfr. GA II 3, 264). Si tratta di una filosofia che enuclea la portata teoretica – cioè costituente del saperedi-esperienza – che hanno i fattori pratici, quali ad es. il tendere, l’appetizione, la volontà, e che produce per questo una più ampia configurazione della filosofia pratica stessa. Fichte evoca l’idea di una «filosofia puramente pratico-sensibile», che è distinta dalla «parte morale-pratica vera e propria» (GA II 3, 247) e che dovrebbe mettere a tema il dinamismo della tendenza in quella manifestazione di sé che precede la tendenza propriamente morale. In questi appunti di Filosofia pratica troviamo allora il primo abbozzo di una ontologia autoriflessiva della coscienza, che viene elaborata attraverso l’interazione di momenti pratici e di momenti teoretici (o rappresentativi) nell’agire della ragione e già nell’atto del giudicare: «Non sarebbe male elaborare insieme, e l’una accanto alle altre, la conoscenza e le categorie del tendere» (GA II 3, 251). Questo approccio verrà ripreso dalla Dottrina della scienza nova methodo (cfr. NM-H, GA IV 2, 17), nella quale Fichte GA), Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964 ss., Bd. I,2, p. 399. Accentua questo D. Breazeale, Thinking through the Wissenschaftslehre. Themes from Fichte’s Early Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2013; cfr. anche G. Zöller, Fichtes’s Transcendental Philosophy. The Original Duplicity of Intelligence and Will, Cambridge University Press, Cambridge 1998.
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dichiara di volere presentare «la filosofia come tale [Philosophie überhaupt] […] teoretica e pratica unificate». È noto che questa versione della Dottrina della scienza è la seconda grande esposizione organica di filosofia fondamentale offerta da Fichte durante il suo insegnamento di Jena tra il 1796 e il 1799. Di essa non ci è pervenuto il manoscritto delle lezioni; siamo però in possesso di copie di uditori, in particolare la copia rintracciata nella biblioteca di Halle (di autore rimasto ignoto) e quella dovuta a Karl Christian Friedrich Krause3. Il punto essenziale di questa esposizione che vorrei prendere qui in considerazione è la concezione della «volontà pura» (reiner Wille) in essa sviluppata. Questa concezione illustra in maniera felice l’idea che intendo sostenere, cioè l’idea della “funzione fondazionale” che esercita il principio pratico secondo la filosofia trascendentale di Fichte. È necessario preliminarmente fermarsi su un aspetto metodico dell’esposizione, che chiarisce in che senso Fichte pensava di offrire, in questo secondo ciclo di lezioni a Jena, una trattazione – come egli stesso scrive nell’annuncio delle lezioni – dei «fondamenti della filosofia trascendentale secondo un nuovo metodo». Fichte dichiara che il modo di procedere di queste lezioni si differenzia da quello che egli chiama il «compendio», cioè il Fondamento dell’intera dottrina della scienza del 1794-1795. Nel Fondamento il discorso muove dalla parte te3. La copia conservata nella Biblioteca universitaria di Halle an der Saale reca come titolo: Wissenschaftslehre nach den Vorlesungen von Hr. Pr. Fichte. Adesso si trova in GA IV 2, 17-267 (d’ora innanzi: NM-H). La copia dovuta a Krause ha il titolo: Vorlesungen über die Wissenschaftslehre, gehalten zu Jena im Winter 1798/99, nachgeschrieben von K. Chr. Fr. Krause. Si trova adesso in GA IV 3, 321-523 (d’ora innanzi: NM-K). In GA IV 3 (pp. 151-196) vengono inoltre pubblicati quattro ampli frammenti di una copia della Nova methodo dovuta a Friedrich August Eschen (1776-1800, studente a Jena dal 1796) che è relativa alla esposizione del semestre invernale 1796-1797 ed è stata scoperta abbastanza di recente dai curatori della GA a Eutin.
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oretica, che è quanto deve essere spiegato, e passa alla parte pratica, che offre il fondamento della spiegazione della parte teoretica. Nella Dottrina della scienza nova methodo «non ha luogo la divisione, finora abituale, della filosofia in teoretica e pratica». Il discorso muove dal fattore pratico e trasferisce il fattore pratico in quello teoretico, onde spiegare quest’ultimo dal primo (Cfr. NM-H, GA IV 2, 17). Una tale maniera di procedere viene definita «assai più naturale», più corrispondente cioè a quello che Fichte chiama il «sistema dello spirito umano», di cui la filosofia trascendentale è ricostruzione riflessiva e autocritica. L’elaborazione filosofica muove da ciò che agisce alla base del dinamismo intenzionale della coscienza, e questo fattore non è quello teoretico, cioè la capacità di rappresentazione, ma è il fattore pratico, cioè la tendenza e la volontà. Inoltre, la maniera di procedere della Nova methodo è «assai più naturale» perché considera la coscienza come una totalità complessa, nella quale fattori pratici e fattori teoretici interagiscono in vista della costituzione dell’esperienza o del sapere. Fichte afferma il primato epistemologico del pratico; per l’altro verso però non svaluta affetto la funzione dei momenti teoretici (e rappresentativi) nella formazione dell’esperienza, ma assume il pratico e il teoretico come momenti interagenti in una concezione complessa della coscienza. Egli elabora l’idea di una ragione pratico-teoretica, in cui l’emergenza del fattore pratico è fondante. Questa concezione si riflette nella elaborazione della filosofia in quanto dottrina della scienza: filosofia teoretica e filosofia pratica non vengono più trattate in successione, ma vengono svolte nella e dalla loro unità. In questo senso le lezioni degli anni 1796-1799 sarebbero un significativo avanzamento nella auto-comprensione della filosofia come filosofia trascendentale, ovvero come costruzione di una ontologia della coscienza e del sapere, che nell’atto in cui ricostruisce le condizioni della coscienza in generale – che è sempre coscienza-di-realtà – espone contemporaneamente
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le condizioni del proprio venire in essere come ontologia della coscienza, cioè come sapere trascendentale4.
2. La portata trascendentale della volontà pura Per illustrare la «volontà pura» nella Nova methodo inizio dalla formulazione riassuntiva del paragrafo 13: Causalità [Wirksamkeit] reale è possibile soltanto secondo un concetto di scopo, ed un concetto di scopo è possibile soltanto a condizione di una conoscenza: la coscienza sarebbe spiegata per mezzo di un circolo, e perciò per niente spiegata. Dovrebbe perciò esistere qualcosa che sia insieme oggetto della conoscenza e causalità. Tutte queste caratteristiche sono unificate in una volontà pura da presupporsi a ogni volere empirico e a ogni conoscenza empirica. Questa volontà pura è qualcosa di puramente intelligibile; in quanto però si esprime mediante un sentimento del dovere e viene pensata a seguito di questo, essa viene assunta nella forma del pensare in generale come un determinato in opposizione a un determinabile. Mediante ciò divengo un soggetto di questa volontà, un individuo, e come determinabile mi sorge un regno di esseri ragionevoli. Da questo puro concetto si può dedurre e deve venire dedotta l’intera coscienza. (NM-K, GA IV 3, 447; cfr. NM-H, GA IV 2, 145)
Cercherò di svolgere il contenuto di questa sintesi in modo limitato, valorizzando gli aspetti che aiutano a cogliere la portata trascendentale della volontà pura. È caratteristico del tipo di filosofia che viene svolta dalla dottrina della scienza il fatto di muovere da una richiesta, ovvero da un postulato. Il punto di partenza è pratico. Questa richiesta suona: «Progettare il concetto dell’io e osservare come si procede per 4. Sulla filosofia trascendentale come ontologia del sapere e della coscienza cfr. M.J. Siemek, Die Idee des Transzendentalismus bei Fichte und Kant, Meiner, Hamburg 1984.
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farlo» (NM-K, GA IV 3, 349; cfr. NM-H, GA IV 2, 32). La filosofia è una pratica autoriflessiva del pensiero istituita da un invito a praticare il pensiero stesso. Si tratta di lasciare agire la (e di pensare l’agire della) «coscienza immediata», di ciò che Fichte nomina «originaria intuizione dell’io», o anche «intuizione intellettuale». La filosofia trascendentale è in tal senso l’azione del portare al concetto (= del «caratterizzare») quell’intuizione originaria che l’io è a se stesso in quanto agire sopra di sé. Ora, l’io è insieme – secondo il linguaggio della Nova methodo – attività reale e attività ideale, ovvero è libertà e intelligenza, è praticità e riflessione, le quali si determinano mutuamente, anche se secondo profili diversi. Senza attività reale non si dà attività ideale, perché la facoltà pratica è il fondamento di esistenza dell’attività ideale; insieme però nessuna attività reale è possibile senza attività ideale, cioè senza riflessività e riflessione, poiché «l’essenza dell’io consiste nel porsi; se l’attività dell’io deve essere reale, deve esser[lo] attraverso l’io, ma ciò mediante cui essa [cioè l’attività reale] è posta è l’[attività] idea le» (NM-K, GA IV 3, 361; Cfr. NM-H, GA IV 2, 45). Dunque, la facoltà pratica (l’attività reale) fonda l’attività teoretica (o rappresentativa), ma – dato che l’io è da cima a fondo un essere-diriflessione, e il suo essere è un porsi consapevole (certamente secondo livelli diversi di coscienza e autocoscienza) – allora la facoltà pratica, per essere facoltà dell’io, deve essere mediata dall’attività ideale, cioè dall’intelligenza, in quanto è parte integrante del porsi pratico dell’io stesso. Ora, qual è la determinazione intellettuale – cioè il concetto – dell’attività dell’io che corrisponde a questa costituzione (pratico-teoretica) dell’io stesso? La risposta della Nova methodo è: il concetto di scopo (Zweckbegriff). Il concetto che media il porsi dell’io come libera attività non può essere un concetto che semplicemente rispecchia uno stato di cose (concetto-copia = Nachbild), ma deve essere un concetto che pre-figura ciò che deve o può essere (= Vorbild), e questo è lo scopo.
93 Agisco liberamente significa: io progetto liberamente il concetto della mia azione. A fondamento di ogni azione libera deve perciò risiedere il concetto di uno scopo. […] Il mio io, inteso come soggetto della mia facoltà pratica, deve perciò – in quanto sono formante, iniziante e agente con coscienza –, progettare in anticipo ogni volta un concetto di scopo, deve avere contemporaneamente un modello [Vorbild (immagine anticipante, pre-figurazione)], la cui realizzazione è lo scopo dell’attività reale. (NM-H, GA IV 2, 48)
Con la posizione del concetto di scopo siamo tuttavia ancora lontani dall’aver raggiunto il fondamento della coscienza reale. Fichte enuclea il presentarsi di due possibili aporie. Prima: il concetto di scopo suppone una conoscenza dell’oggetto desiderato o voluto; d’altra parte la libertà, come attività reale, può realizzarsi soltanto attraverso la mediazione del concetto di scopo. Questo significherebbe che la libertà è condizionata da una conoscenza dell’oggetto desiderato o voluto, una conoscenza che per parte sua è resa possibile dall’attività reale della libertà. Finiamo così in un circolo, che non spiega affatto l’esistenza della coscienza reale, che è unità in atto di attività reale, cioè libertà, e di attività ideale, cioè capacità rappresentativa. Seconda aporia: il volere accade sempre come volizione di qualcosa (che viene rappresentato come scopo); ma perché qualcosa mi divenga scopo devo volere; di nuovo però voglio se ho uno scopo del volere, e così via all’infinito (cfr. NM-H, GA IV 2, 194; NM-K, GA IV 3, 479). In questo modo non si ottiene alcun inizio e anche così non si spiega la coscienza rea le. Vediamo in definitiva che il discorso, fino a questo livello, o finisce in un circolo vizioso oppure conduce a un regresso all’infinito. Orbene, Fichte spiega che queste aporie sono insuperabili se il volere che consideriamo è solo quello che egli chiama qui «volere empirico», e che concepisce come un passare (Übergehen) – ovvero come un determinarsi – da una sfera deter-
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minabile (cioè da un complesso di possibilità) a una determinazione, cioè a una scelta fra i possibili. Nel volere empirico la posizione dello scopo – cioè l’elezione di qualcosa fra i possibili come scopo dell’azione – resta esterna all’autodeterminazione, cioè alla posizione della libertà. La coscienza dello scopo si presenta “prima” o “dopo” il fatto concreto del volere, non in unità intrinseca e attuale con esso. Franz Bader nel saggio sulla Dottrina fichtiana della volontà pre-deliberativa5, caratterizza il volere empirico come la «volontà deliberativa», o la «volontà deliberante», cioè la volontà intesa come potere di deliberazione e di scelta fra alternative possibili (con il linguaggio della tradizione greca si potrebbe designare questa volontà con boùlesis o proaìresis). Fichte riconosce sì il ruolo che in una ontologia del pratico ha il volere empirico nell’orientarsi nel mondo dell’agire, ma a suo giudizio esso non può rappresentare, a causa della duplicità fra attività del volere e conoscenza di scopo che lo caratterizza, l’unitaria energia (actus) che risiede alla genesi della coscienza reale. Le aporie individuate possono invece venire risolte se a fondamento del volere empirico viene posta quella che Fichte designa «volontà pura». Bader chiama questa: «volontà predeliberativa», non nel senso che essa accada cronologicamente prima della volontà che delibera e sceglie, ma nel senso che è l’energia che fonda e rende possibile in atto quel passare dal determinabile al determinato, dal possibile all’effettuale che si esprime nella deliberazione e la scelta. Il concetto della volontà pura consente di superare le aporie in cui restiamo avviluppati al livello della volontà empirica, perché nella volontà pura esistono insieme in atto volontà e conoscenza, libertà e progetto di scopo. La volontà pura è in uno volontà di uno scopo 5. Cfr. F. Bader, Fichtes Lehre vom prädeliberativen Willen, in A. Mues (Hrsg.), Transzendentalphilosophie als System, Die Auseinandersetzung zwischen 1794 und 1806, Meiner, Hamburg 1989, pp. 212-241.
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che essa pone in se stessa e da se stessa, come si potrà meglio comprendere tra poco riflettendo sul suo legame con l’imperativo categorico. In essa «sono una cosa sola colui che pensa volendo e colui che vuole» (NM-H, GA IV 2, 115; cfr. NM-K, GA IV 3, 424). La volontà pura non è il deliberare secondo la possibilità o le possibilità date (come la volontà empirica), ma è l’autodeterminarsi dell’io, è l’energia originale in virtù della quale l’io, che è unità organica di attività reale e ideale, assume se stesso, si mantiene in se stesso e si porta alla decisione: «Il volere è concentrazione dell’intera persona con la sua intera facoltà in un punto» (NM-K, GA IV 3, 425). Reinhard Lauth parla a questo proposito di volontà-in-actu (termine greco: thélema)6: essa è non il potere di deliberazione e di scelta, ma è l’energia che fonda l’esserci attivo della persona, il potere di prendere in mano se stessi, di concentrare se stessi in una direzione fondamentale. La volontà pura non si aggiunge affatto come un accidente a un sostrato-io già fatto; essa costituisce l’essere stesso dell’io: «Questo puro volere è il mio essere, e il mio essere è il mio volere – entrambi sono una sola cosa e si risolvono l’uno nell’altro. Non si deve aggiungere altro ancora. L’abbiamo chiamata la realtà originaria (radice) dell’io» (NM-H, GA IV 2, 148; cfr. in NM-K, GA IV 3, 449). Idea fondamentale di Fichte è che la coscienza umana richiede per essere spiegata qualcosa di assoluto, cioè una identità pura e concreta, una posizione incondizionata. Orbene, questa posizione assoluta, che rende possibile l’agire della coscienza come unità concreta di attività reale e attività ideale, è per la Nova methodo la volontà pura,
6. Cfr. R. Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di M. Ivaldo, Trauben, Torino 2004, pp. 61 ss. Di Lauth cfr. anche: Der entscheidende Punkt der praktischen Konzeption Fichtes, in H. G. von Manz - G. Zöller (Hrsg.), Fichtes praktische Philosophie. Eine systematische Einführung, Georg Olms Verlag, Hildesheim-Zürich-New York 2006, pp. 215-244.
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che è l’unità in atto di volere e pensare, del volere il pensare e del pensare il volere, e perciò è il centro della persona, l’energia intelligente che la costituisce come tale. Da qui una espressione significativa: «La volontà pura è […] il fondamento di spiegazione della nostra coscienza» (NM-H, GA IV 3, 145).
3. Volere e Sollen Questo concetto della volontà è il fondamento del sistema dei concetti che Kant chiama noumeni e mediante il quale egli fonda «un sistema del mondo intelligibile». Tuttavia Kant non stabilirebbe un ponte dal mondo sensibile al mondo intelligibile, perché nella Critica della ragione pura egli avrebbe un concetto solo ordinatore e non produttivo dell’io. Invece, «la dottrina della scienza getta facilmente questo ponte»: «Per essa il mondo intelligibile è la condizione del mondo dei fenomeni (Erscheinungen); il secondo viene edificato sul primo; e il primo poggia sul suo vero e proprio punto centrale, l’io, che è intero solo nel volere. Tutte le rappresentazioni vengono dal pensiero del volere» (NM-K, GA IV 3, 424, corsivo mio; cfr. NM-H, GA IV 2, 115). Ciò significa che il fattore pratico, come volontà pura, è non solo il centro dell’io, ma – in quanto è tale centro – è insieme il principio genetico dell’intero mondo della coscienza, come mondo intelligibile (da Kant chiamato noumeno) e mondo dell’apparire sensibile. La Nova methodo offre in questo senso esplicita testimonianza del carattere architettonico e sistematico che ha per Fichte il fattore pratico. Un punto decisivo della formulazione sintetica del § 13 è che la volontà pura si esprime «mediante un sentimento del dovere». Esiste un legame essenziale fra la volontà pura e l’imperativo categorico, anzi nella copia-Krause troviamo la lapidaria affermazione: «Il volere puro è l’imperativo categorico» (NM-K, GA IV 3, 440). A differenza della volontà empirica che, come si
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è visto, è un passare dalla determinabilità alla determinatezza, la volontà pura è connotata nell’intuizione intellettuale da una originaria «determinatezza». Questa determinatezza si manifesta come «un dovere (Sollen) determinato, assoluto, come una richiesta categorica» (NM-K, GA IV 3, 439; cfr. NM-H, GA IV 2, 134). Ciò significa che l’energia originale, l’atto metatemporale che costituisce il centro dell’io pratico-teoretico, è segnato da un Devi (Soll), è caratterizzato da una richiesta categorica. Il Devi, una richiesta categorica, è la determinatezza dell’ “io voglio”: nell’atto della volontà pura voglio ciò che devo, devo ciò che voglio. Qui la coscienza di scopo non è precedente o successiva al fatto del volere, ma è concomitante con essa. La volontà pura ha per contenuto il dovere, è corrispondenza a un imperativo categorico. Se Fichte puntualizza in questo contesto che «tale pura forma del volere, tale assoluto richiedere non è ancora la legge morale; lo diviene solo in quanto viene connesso a un libero arbitrio sensibile» (NM-K, GA IV 3, 439), egli con ciò non vuole escludere affatto la rilevanza morale del Sollen in quanto comando rivolto a un essere dotato di libero arbitrio, che può anche venire affetto sensibilmente, quale è l’uomo. Ritengo invece che Fichte intenda richiamare che la determinatezza del Sollen, in quanto richiesta categorica alla volontà pura, ha una portata ontologica che abbraccia sì l’orizzonte della moralità ma insieme va al di là di essa. La volontà-in-actu come unità concreta di dovere della volontà e di volontà del dovere, è il fondamento di spiegazione della coscienza oggettiva e soggettiva, è l’atto trascendentale che istituisce l’intenzionalità della coscienza in ogni suo profilo. La richiesta categorica (Devi, o forse meglio: Sii! Esto!) è fondamento ontologico, ovvero il fondamento dell’ex-sistere nel suo centro genetico, che è la volontà pura. Essendo la volontà pura a sua volta il fondamento di spiegazione della coscienza oggettiva e soggettiva, si deve concludere che la richiesta categorica, come determinatezza della volontà pura, è la condizione di quel fondamento da
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cui viene dedotta l’intera coscienza. Dal Sollen alla coscienza, nel medio della volontà-in-actu: ben consapevole del carattere interpretante di questa mia formulazione esprimerei in questa maniera il pensiero fondamentale qui all’opera, che conferma il carattere architettonico che possiede nel pensiero di Fichte il principio pratico. L’io sono (sum) è radicato in un io voglio (volo), il quale è alla radice dell’io penso (cogito); a sua volta l’io voglio è reso possibile da un Devi (Soll), da una richiesta categorica che l’io voglio pone a se stesso nel momento stesso in cui la riceve. Qui attingeremmo l’archi-principio (Ursatz) della dottrina della scienza.
4. La ragione pratica architettonica Il fatto che l’imperativo categorico sia il modo di pensare la libertà – cioè sia un principio teoreticamente produttivo per comprendere l’essere stesso dell’io – è una visione centrale di Fichte, che dischiude una comprensione dell’essenza pratica della ragione. Su questo aspetto vorrei fermarmi in conclusione, prendendo in considerazione alcune elaborazioni dalla prima parte del Sistema di etica del 1798. Fichte muove dalla affermazione che «la ragione non è una cosa [Ding] che esista e permanga, ma un fare [Thun], un puro e schietto fare» (GA I 5, 68). Con una espressione della più tarda Dottrina della scienza 1805 di Erlangen: la ragione è factum fiens, non factum factum (Wissenschaftslehre 1805, GA II 9, 253 ss.). D’altro lato la ragione ha una costituzione auto-intuitiva – il riferimento alla intuitività ha qui il significato di riferimento alla intuizione intellettuale (Einschauung), non alla intuizione sensibile (Anschauung). Si deve dire allora che la ragione è un fare e si intuisce come un fare, insieme. La ragione è un fare che si intuisce, ed è una auto-intuizione che si auto-configura (= si fa intuendosi). Al tempo stesso la ragione è una tale auto-intuizione come «ragione finita», legata alla
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legge della finitezza. La ragione si auto-configura in relazione a un urto; ciò che essa rappresenta diviene per essa, nell’atto di rappresentarlo, finito e determinato. Anche il fare (e farsi) della ragione diventa perciò qualcosa di determinato. Di quale determinatezza si tratta? La tesi centrale di Fichte è che questa determinatezza non «dà affatto un essere, ma un dovere». Si tratta non di una determinatezza che semplicemente è, ma di una determinatezza che sollecita ad agire. La ragione è un fare che si intuisce, che trova la propria determinatezza, o specificazione, nel dovere (Sollen). Da qui l’importante affermazione: Mediante il dovere «la ragione determina da se stessa la propria attività: ma determinare un’attività oppure essere pratica sono espressioni equivalenti» (GA I 5, 68). Altrimenti detto: la ragione è un farsi (auto-intuente) che si determina nel dovere e secondo il dovere, e proprio perciò essa è ragione pratica. Questa visione della ragione pratica come un fare intuentesi che ha nel Sollen la propria determinatezza ha una portata sistematica ed architettonica che va al di là sia della funzione che la ragione pratica ha in senso strettamente morale – e che Kant chiamava funzione «morale-pratica» –, sia anche della funzione tecnico-pratica, o pratico-empirica, della ragione. Fichte fa osservare che dalla ragione pratica intesa come principio architettonico si possono derivare – per costruire un «sistema della ragione» – il modo di agire della ragione pratica in senso morale, ma anche il modo di agire della ragione rappresentativa, o teoretica – modi d’agire che a loro volta risiedono alla base dell’etica e della filosofia teoretica della natura. Vediamo in quale senso. Abbiamo visto che la ragione è un fare che si intuisce ed è segnato dalla legge della finitezza, cioè è ragione determinata nel dovere. Orbene, questo farsi – o auto-configurarsi (Sichbilden) – della ragione pratica può venire considerato sotto due aspetti. Nell’etica il farsi della ragione viene riferito all’agire accompagnato dalla coscienza della libertà che comunemente
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viene ritenuto tale, cioè al volere (Wollen) e all’operare (Wirken) dell’uomo. La legge che in questo caso la ragione conferisce a se stessa è la legge morale, che si rivolge alla libertà del volente e dell’agente. La legge morale è la legge della libertà. Tuttavia il farsi della ragione può riferirsi anche a un secondo tipo di agire, che la filosofia trascendentale, a differenza dell’intelletto comune, riconosce come un’attività, cioè si riferisce all’agire nella rappresentazione. In questo caso la ragione si presenta come un fare che conferisce a se stesso quella che Fichte chiama qui la «legge del pensiero» (Denkgesetz), la quale, a differenza della legge morale, «viene seguita necessariamente, poiché l’intelligenza applicandola, sebbene attiva, non è liberamente attiva [freitätig]» (GA I 5, 69). Si può ritenere che qui Fichte si riferisca alle leggi logiche (formali) e alle leggi trascendentali teoretiche dell’intuire e del pensare, che l’io sì applica, è in ciò è attivo, ma applica senza divenire in atto consapevole di esse e seguendole in modo necessario, e in ciò è passivo. Nel caso della legge morale invece l’obbedienza che l’io è chiamato ad esercitare nei suoi confronti suppone una presa di posizione riflessiva e consapevole, che può esserci o non esserci: la legge morale è una legge categorica e trasgredibile, e perciò è la legge della libertà. In definitiva: il centro sistematico è la ragione come fare che si intuisce, come un’attività che determina se stessa, cioè come ragione pratica in senso architettonico. Essa ha la propria determinatezza nel dovere (Sollen), termine che riceve una estensione semantica e concettuale che trascende la sfera del dovere morale in senso stretto (anche se la abbraccia). Altrimenti detto: il farsi della ragione ha sempre a che fare con una certa “necessità”, con il dovere di realizzarsi in senso completo. Orbene, questo dovere della ragione può avere una duplice declinazione: o il farsi della ragione riguarda il volere e l’agire dell’uomo, e il dovere si presenta per esso come la legge morale, oppure il farsi della ragione riguarda il rappresentare, e il dovere si
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manifesta a esso come legge logica e teoretica. Nel primo caso otteniamo il fondamento di un’etica, nel secondo il fondamento di una teoretica (dottrina del mondo). In definitiva secondo l’ipotesi interpretativa che avanzo – e che mi viene sollecitata da questo abbozzo sistematico nella prima parte del Sistema di etica – quella che Fichte chiama la «dignità pratica della ragione», la praticità della ragione in senso architettonico, starebbe alla base dell’articolazione della stessa e unica ragione in ragione pratico-morale e in ragione teoretica. Con altri termini: avremmo qui lo schema di una teoria unitaria e differenziata della ragione elaborata sul fondamento della “praticità della ragione” stessa, che riprende a suo modo il tema kantiano del primato della ragione pratica, e che caratterizza la “differenza fichtiana” nel quadro variegato della filosofia tedesca classica.
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Quale evidenza per il sapere filosofico? Brevi considerazioni su un dibattito tra Kant, Reinhold e Fichte di Faustino Fabbianelli
1. Introduzione La richiesta di evidenza avanzata dalla filosofia nei confronti del proprio sapere trova nel periodo classico del pensiero tedesco uno dei suoi momenti più alti. Essa si lega, come è noto, alla pretesa di scientificità che la riflessione filosofica ritiene di poter postulare rispetto alle proprie asserzioni. Prendendo consapevolezza della propria natura, il sapere filosofico si comprende capace di fondare una scienza rigorosa che non sia più ancillare, ovvero secondaria, nei confronti di altre forme del sapere. Si tratta, come è noto, di un processo lento e complicato. Se Kant ritiene ancora che la nuova metafisica critica, per porsi sulla via sicura della scienza, debba guardare in particolare al modello della matematica e porre in essere quella rivoluzione del modo di pensare già avvenuta in essa, la quale ponga fine al brancolamento inconcludente che fino ad allora ha segnato i destini della metafisica, già con Reinhold si comincia ad affermare che la scienza vera e autentica è la filosofia senza appellativi e che solo all’interno del sistema del sapere filosofico, e unicamente nell’applicazione di quest’ultimo ad ambiti differenti, sono in grado di diventare scientifiche discipline che senza la riflessione filosofica sarebbero destituite di ogni
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fondamento. A tal fine, è necessario compiere l’ultimo passo sulla via analitica che va dal condizionato all’incondizionato per raggiungere quel principio ultimo a partire dal quale si potrà finalmente procedere progressivamente e sinteticamente nella fondazione dell’intero edificio del sapere. Se Kant aveva distinto tra critica della ragion pura e filosofia trascendentale, dal momento che la prima è solo «l’idea perfetta» della seconda, «senza essere tuttavia questa scienza stessa»1, Reinhold ritiene che la Filosofia elementare sia «l’ultima cosa sul cammino che conduce alla scienza, ma anche la prima cosa sul cammino costituito dalla stessa scienza»2. Si tratta di vicende note, attraverso le quali il pensiero classico tedesco pone al centro dell’attenzione il nesso indissolubile che unisce la filosofia come scienza, l’evidenza che le appartiene e il fondamento ultimo su cui si regge l’intero sapere filosofico. Meno note sono le ragioni del perché si possa dire che alle asserzioni filosofiche appartiene il predicato dell’evidenza. Le considerazioni che seguono intendono contribuire al chiarimento di tali ragioni, ponendo come terminus ad quem del ragionamento la Dottrina della scienza di Fichte, in particolare
1. B 28 (rimando, come d’uso, alla prima e seconda edizione della Critica della ragion pura, indicate rispettivamente con A e B); tr. it., I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1986, p. 92. Sulla distinzione tra Critica e filosofia trascendentale è da vedere W. Flach, Transzendentalphilosophie und Kritik. Zur Bestimmung des Verhältnisses der Titelbegriffe der Kantischen Philosophie, in W. Arnold - H. Zeltner (Hrsg.), Tradition und Kritik. Festschrift für Rudolf Zocher zum 80. Geburtstag, Fromman- Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1967, pp. 69-83. 2. K.L. Reinhold, Ueber das Fundament des philosophischen Wissens nebst einigen Erläuterungen über die Theorie des Vorstellungsvermögens, in Id., Gesammelte Schriften. Kommentierte Ausgabe, hrsg. von M. Bondeli, Bd. 4, hrsg. von M. Bondeli unter Mitwirkung von S. Imhof, Schwabe Verlag, Basel 2011, p. 62; tr. it., Concetto e fondamento della filosofia, a cura di F. Fabbianelli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, pp. 123 s.
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la Seconda esposizione del 18043. Le tesi che esse intendono fissare sono due e possono essere sinteticamente anticipate nel modo seguente: 1) l’evidenza del sapere filosofico può essere autenticamente genetica nella misura in cui, a differenza delle altre forme del sapere, la filosofia è l’unica disciplina in grado di essere completamente trasparente a se stessa; 2) la filosofia può essere trasparente a se stessa nella misura in cui è ad un tempo eterologica e analogica. I passi che intendo svolgere sono tre: dopo aver chiarito la variazione semantica che si realizza con la Filosofia elementare di Reinhold rispetto alla Critica della ragione di Kant e in relazione al nesso evidenza-deduzione (a), saranno esposti in negativo i sensi che per Fichte non possono essere attribuiti all’evidenza filosofica (b). Cercherò poi di esporre in maniera sistematica gli elementi costitutivi di essa, mettendone in risalto la relazione che unisce una filosofia evidente con ciò che evidente non è: l’Assoluto (c).
2. Evidenza e deduzione Almeno prima facie stupisce che la filosofia trascendentale di Kant non attribuisca alcun ruolo importante al concetto di evidenza. Nella Critica della ragion pura si legge piuttosto che una giustificazione (Rechtfertigung) filosofica deve essere intesa come una dimostrazione (Beweis). Non si deve dunque assumere nessun principio sintetico sulla base della sua certezza immediata: se infatti, delle proposizioni sintetiche, per evidenti che siano, dovessimo ammettere che esse debbano essere accettate senza deduzione e solo in base alla loro pretesa a valere incondi-
3. Sul concetto di evidenza in Fichte si vedano, tra gli altri, U. Schlösser, Entzogenes Sein und unbedingte Evidenz in Fichtes Wissenschaftslehre 18042, in «Fichte-Studien», vol. 20, 2003, pp. 145-161; U. Richli, Genetische Evidenz – was ist das eigentlich?, in «Fichte-Studien», vol. 20, 2003, pp. 161-166.
106 zionatamente, allora l’intera critica dell’intelletto andrebbe perduta. […] ne verrebbe che il nostro intelletto risulterebbe aperto a qualsiasi fantasticheria, incapace di rifiutare la propria adesione ad asserzioni che, benché ingiustificate, pretendono tuttavia di esservi accolte con il tono di sicurezza che appartiene ai veri e propri assiomi.4
Se pertanto una determinazione si aggiunge sinteticamente a priori al concetto di una cosa – continua Kant –, «occorre dare, di una proposizione del genere, se non una dimostrazione almeno una deduzione della legittimità di quanto essa asserisce»5. Era opportuno citare questo passo nella sua interezza, in considerazione della sua rilevanza teorica. In esso si propone la tesi che l’evidenza non è di per sé sufficiente per provare la legittimità (Rechtmäßigkeit) delle determinazioni sintetiche a priori degli oggetti. A tal fine è necessaria una dimostrazione che, come è noto, viene apportata nella deduzione trascendentale delle categorie. Se si domanda perché Kant consideri l’evidenza in definitiva come un momento secondario per rispondere alla quaestio iuris, si deve tenere ferma la considerazione che per lui la Critica della ragione mira ad assicurare filosoficamente l’oggettività dell’essere delle cose. Di nuovo in Kant non c’è la tesi che gli oggetti della conoscenza sono i fenomeni, quanto invece che la natura è resa possibile dalla legislazione (Gesetzgebung) dell’intelletto6. Questo assunto è fondato nella misura in cui si è in grado di mostrare che le condizioni soggettive del pensiero hanno una validità oggettiva7. Si potrebbe anche dire 4. B 285–286; tr. it. cit., pp. 258 s. (corsivo mio). 5. B 285–286; tr. it. cit., p. 259. 6. Si veda al riguardo M. Baum, Deduktion und Beweis in Kants Transzendentalphilosophie. Untersuchungen zur Kritik der reinen Vernunft, Hain bei Athäneum, Königstein/Ts. 1986, p. 47. 7. Cfr. B 122.
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che il mondo può essere conosciuto a priori, cioè in maniera universalmente valida e necessaria, solo in quanto il pensiero categorizzato è capace di anticiparlo secondo una considerazione formale. A tale riguardo, è opportuno sottolineare che il problema non è se noi possiamo o non possiamo pensare qualcosa sulla base di una necessità soggettiva, quanto piuttosto se il nostro pensiero contenga predicati dell’oggetto. Non si tratta dunque semplicemente della necessità soggettiva di dover pensare il mondo così e così in base alle categorie del nostro pensiero, ma invece della necessità oggettiva che il mondo è così come noi lo pensiamo a priori. Infatti, «le condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono contemporaneamente condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza, e hanno quindi validità oggettiva in un giudizio sintetico a priori»8. Che per esempio gli oggetti si trovino in una relazione di causalità reciproca, ciò costituisce un rapporto che deve valere non soltanto all’interno della coscienza ma anche nella cosa stessa. La deduzione trascendentale delle categorie avanza la pretesa di fornire una tale dimostrazione. Al fine di fissare il vero scopo della sua riflessione, Kant distingue nella Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura tra una deduzione oggettiva e una deduzione soggettiva delle categorie. Laddove la prima si riferisce agli «oggetti dell’intelletto puro» e deve «mostrare e giustificare la validità oggettiva dei suoi concetti a priori», la seconda si incarica di «considerare lo stesso intelletto puro, secondo la sua possibilità ed i poteri conoscitivi su cui si fonda, cioè nel rapporto soggettivo»9. Kant sottolinea che la deduzione soggettiva delle categorie, per quanto importante, non è essenziale allo scopo principale della sua riflessione. «La questione capitale resta infatti sempre questa: che cosa e quanto, intelletto e ragione possono conoscere a prescindere da 8. B 197; tr. it. cit., p. 203. 9. A XVI-XVII; tr. it. cit., p. 68.
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ogni esperienza? E non: come è possibile la facoltà di pensare in quanto tale?»10. Il «che cosa e quanto» rappresentano dunque i momenti principali della domanda kantiana; la riflessione filosofica punta in maniera conseguente a dimostrare che il concetto deve contenere ciò che l’oggetto è, a provare che l’oggetto deve essere costituito così come esso deve essere pensato mediante il concetto11. Non stupisce pertanto che per la Critica della ragione la domanda intorno all’evidenza abbia un valore secondario. Nella misura in cui avanza la pretesa di dimostrare mediante la deduzione trascendentale delle categorie che il concetto a priori determina a priori l’oggetto in quanto soltanto per suo mezzo si può conoscere qualcosa come un oggetto, essa riduce anche il tema dell’evidenza ad una giustificazione meramente soggettiva che non è lecito confondere con una dimostrazione della correttezza oggettiva del pensiero.
3. «Allgemeingültigkeit» e «Allgemeingeltung» Con Reinhold le cose cambiano. In un importante capitolo del primo volume dei Beiträge zur Berichtigung bisheriger Mißverständnisse der Philosophen, uscito a Jena nel 1790, si argomenta che i due predicati della conoscenza oggettivamente valida in senso kantiano sono la necessità e l’universalità. Un tale concetto di validità, se per un lato si unisce alla tesi che soltanto il giudizio d’esperienza esprime una qualità dell’oggetto12, per l’altro lato assume l’esperienza, intesa come la connessione
10. Ibidem. 11. Cfr. M. Baum, op. cit., p. 65. 12. Cfr. al riguardo i Prolegomeni di Kant: Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften [= AA], Bd. 4, Reimer, Berlin 1911, p. 298.
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regolare e necessaria delle rappresentazioni13, come un fatto indubitabile. Kant comprenderebbe in altre parole l’esperienza quale fondamento del sapere filosofico e come il presupposto base su cui costruire il proprio sistema. Le forme a priori del sapere sono nella Critica della ragione necessarie ed universali in quanto rappresentano le condizioni di possibilità dell’esperienza fenomenica. Nella Filosofia elementare, invece, le note della necessità e dell’universalità non sono, come in Kant, soltanto il segno sicuro della conoscenza a priori14, ma derivando dalla natura a priori delle forme del soggetto conoscente trovano il loro fondamento esplicativo nella possibilità della coscienza. «Viene cioè mostrato che la coscienza in generale sarebbe impossibile, se l’unità prodotta del molteplice dato, nella quale consiste la forma della rappresentazione in generale, non fosse determinata nella mera facoltà della rappresentazione»15. L’inversione proposta da Reinhold – la possibilità della coscienza deve prendere il posto della possibilità dell’esperienza – costituisce senza alcun dubbio un momento centrale della discussione postkantiana e conduce più o meno direttamente al principio della Dottrina della scienza di Fichte. Essa introduce anche una trasformazione della risposta kantiana alla quaestio iuris, tutta incentrata sulla deduzione trascendentale, in una risposta legata al tema dell’evidenza coscienziale; il concetto della validità, che in Kant riguarda il pensare il mondo per come esso è oggettivamente, viene posto da Reinhold in stretta relazione con il problema dell’evidenza del sapere filosofico
13. Si vedano, ad esempio, le definizioni che Kant ne dà nei Prolegomeni: AA, 4, pp. 275, 305. 14. Cfr. B 4. 15. K.L. Reinhold, Beiträge zur Berichtigung bisheriger Mißverständnisse der Philosophen. Erster Band, das Fundament der Elementarphilosophie betreffend, mit einer Einleitung und Anmerkungen hrsg. von F. Fabbianelli, Meiner, Hamburg 2003, p. 194.
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e della coscienza. Il suo distinguere tra il fatto dell’esperienza proprio della Critica della ragione e il fatto della coscienza della nuova Filosofia elementare ha come scopo di sottolinea re in particolare il differente valore di evidenza associato ad essi. Nella misura in cui si afferma che le proposizioni filosofiche sono necessarie ed universali dal momento che rendono possibile non tanto l’esperienza quanto piuttosto la coscienza, Reinhold intende proprio porre in discussione che la filosofia possa limitarsi ad una validità oggettiva in senso kantiano, la quale ha il limite di produrre un’evidenza soltanto apodittica. Kant, ricordando nella Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura i due requisiti formali dell’indagine critica – la chiarezza e la certezza –, aveva sostenuto che ogni conoscenza che debba valere a priori pretende di essere considerata assolutamente necessaria e che ogni certezza filosofica ha il carattere dell’apoditticità16. La Dottrina del metodo aveva poi chiarito che l’apoditticità delle proposizioni filosofiche non è però quella che spetta alla matematica, dal momento che le sintesi concettuali espresse in esse sono oggettivamente valide solo per mezzo del rimando «a qualcosa di contingente, cioè all’esperienza possibile»17. Ciò viene inteso da Reinhold nel senso che l’evidenza della filosofia è condizionata dal riferimento al contenuto d’esperienza, essa è cioè l’evidenza apodittica che spetta a proposizioni le quali hanno il carattere della necessità e dell’universalità nella misura in cui sono condizioni di possibilità della realtà fenomenica. Reinhold, invocando il primato della coscienza rispetto all’esperienza possibile, mira in ultimo a confutare la tesi che l’evidenza della filosofia sia soltanto apodittica. La validità universale dei giudizi d’esperienza in senso kantiano non è per lui sufficiente a fondare un solido sistema del sapere filosofico. Una conoscenza che sia soltanto 16. Cfr. A XV. 17. B 765; tr. it. cit., p. 565.
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universalmente valida non è proprio per questo una conoscenza universalmente compresa come valida. «Il principio universalmente compreso come valido si distingue in filosofia da quello universalmente valido per il fatto che non solo viene trovato, come questo, vero da ciascuno che lo comprende, ma per il fatto che viene anche effettivamente compreso da ogni mente sana e filosofante»18. La distanza che Reinhold stabilisce in questo passo tra il concetto kantiano di Allgemeingültigkeit e il proprio concetto di Allgemeingeltung riprende e riformula la distanza già ricordata tra i due fondamenti del sapere filosofico, per un lato l’esperienza, per l’altro lato la coscienza. Il fondamento materiale della Filosofia elementare è la coscienza come fatto, il quale può essere compreso da tutti come valido nella misura in cui possiede una evidenza «immediata, indipendente da ogni ragionamento, possibile tramite la semplice riflessione»19. Il principio di coscienza che lo formula – «il soggetto distingue nella coscienza la rappresentazione tanto dal soggetto che dall’oggetto e la riferisce ad entrambi»20 – esprime in altri termini un fatto che è universalmente valido nella misura in cui viene compreso in maniera universale e viene universalmente compreso come valido nella misura in cui diventa oggetto di riflessione. La sua evidenza apodittica è dunque il risultato della sua plausibilità, la quale può essere riconosciuta non appena si osserva ciò che avviene nella coscienza: «ognuno sa distinguere l’oggetto della propria rappresentazione dalla rappresentazione 18. K.L. Reinhold, Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögens, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. 1, hrsg. von M. Bondeli und S. Imhof, Schwabe Verlag, Basel 2013, p. 71; tr. it., Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione, a cura di F. Fabbianelli, Le Lettere, Firenze 2006, p. 65. 19. K.L. Reinhold, Ueber das Fundament des philosophischen Wissens, cit., p. 111; tr. it. cit., p. 127. 20. K.L. Reinhold, Beiträge zur Berichtigung bisheriger Mißverständnisse der Philosophen, cit., p. 113.
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medesima e dal soggetto, ognuno sa che la stessa rappresentazione si ascrive tanto al soggetto, nella misura in cui egli lo pensa come ciò che rappresenta, quanto all’oggetto, nella misura in cui lo pensa come ciò che è rappresentato»21.
4. Evidenza fattuale ed evidenza genetica Tanto la presunta evidenza apodittica di Kant quanto l’evidenza “plausibile” di Reinhold non rappresentano per Fichte l’autentica evidenza filosofica. Nel concetto dell’evidenza fichtiano è contenuta innanzitutto l’idea del fondamento esplicativo di un certo stato di cose: un momento del sapere è evidente se spiega ciò che di per sé evidente non è. Tuttavia, se è vero che tra evidenza e apriorità sussiste una relazione intrinseca – Fichte afferma addirittura che «entrambe le cose sono la stessa»22 –, non è affatto vero che l’apriorità sia in senso lato un carattere necessario e sufficiente per intendere l’evidenza filosofica. Potremmo anche dire che l’apriorità, presa di per sé, costituisce certamente il genere prossimo dell’evidenza, al quale manca ancora la differenza specifica. Per poter intendere Fichte quando afferma che l’evidenza e l’apriorità sono identiche, è pertanto richiesto di trovare un a priori che sia evidente non perché è a priori ma perché ha il carattere dell’evidenza. A tal fine è opportuno rivolgere ancora una volta lo sguardo alla Critica della ragione e alla Filosofia elementare: in entrambe si parla di forme dell’esperienza possibile ovvero del principio di
21. Ivi, p. 99. 22. J.G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften [= GA], hrsg. von R. Lauth et al., Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964 ss., Bd. II,8, pp. 40 s.; tr. it., Dottrina della scienza. Seconda esposizione del 1804, a cura di M.V. d’Alfonso, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 82.
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coscienza, i quali possono essere intesi come evidenti nella misura in cui esprimono l’elemento a priori che sta a fondamento della conoscenza. Il loro essere universalmente validi ovvero universalmente compresi come validi non assicura tuttavia ancora un’evidenza vera e propria. Per la verità, Fichte parla solo di Kant ma il suo discorso potrebbe essere esteso anche, e a maggior ragione, a Reinhold. Dico a maggior ragione, dal momento che l’universalità nel senso della Allgemeingeltung non esclude di per sé che ciò che viene compreso universalmente come valido possa in definitiva essere valido solo soggettivamente ma non oggettivamente, possegga cioè una validità soltanto soggettiva in quanto concerne solamente l’ambito della coscienza a priori. Nel caso della Allgemeingültigkeit, invece, ci troviamo di fronte, come già sottolineato, alla pretesa di validità dell’oggetto e nell’oggetto. Le due forme di evidenza che possono essere associate ad esse si distinguono, quanto al carattere di predicato spettante al sapere filosofico, nella misura in cui se ne riconosce la natura essenzialmente differente: laddove l’evidenza apodittica della Critica della ragione è di tipo logico in quanto concerne il carattere dell’esperienza oggettiva, l’evidenza “plausibile” della Filosofia elementare può in definitiva ridursi ad una mera evidenza psicologica – certamente non in senso empirico ma trascendentale, e tuttavia psicologica. Benché sia vero che anche in entrambi gli assunti risuona forte la domanda giuridica intorno alle condizioni di possibilità della conoscenza fenomenica – sia essa intesa a parte objecti come esperienza oppure a parte subjecti come coscienza –, resta infatti indubbio che il trascendentalismo kantiano è oggettivo nel senso che è interessato alla pretesa di validità delle forme soggettive nell’oggetto, laddove invece quello di Reinhold può essere considerato un trascendentalismo soggettivo inserito all’interno di una psicologia trascendentale. La Filosofia elementare risponde dunque alla quaestio iuris sul che e come noi conosciamo gli oggetti facendo riferimento alla facoltà della
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rappresentazione ovvero partendo dall’esistenza del fatto della coscienza soggettiva23. La critica principale che Fichte rivolge all’evidenza apodittica di Kant può essere sinteticamente esposta nella maniera seguente: essa è una evidenza fattuale in quanto intende la relazione conoscitiva, nella quale consiste propriamente il sapere filosofico, come un dato indubitabile, come un fatto che si lega alla riflessione sul fatto solo in maniera estrinseca. L’obiezione fa chiaramente leva non su una insufficienza legata all’empirismo fattuale ma, potremmo dire, ad un trascendentalismo fattuale. Si tratta, come si è visto, di una obiezione già sollevata da Reinhold. Laddove la Filosofia elementare propone una evidenza nel senso della Allgemeingeltung, la Dottrina della scienza avanza la pretesa di una evidenza genetica della filosofia: ciò significa che al momento dell’evidenza non deve unirsi «qualcosa di oggettivo, estraneo, che costruisce se stesso ma non è costruito da essa», che resta di conseguenza «intimamente ininvestigato», che «la speculazione fiacca, disperando della propria forza, chiama del tutto ininvestigabile»24. La critica qui sollevata riguarda il carattere meccanico del costruttivismo implicito nell’indagine kantiana. Non è sufficiente trovare il fondamento necessario e universale del fatto, si deve anche esplicitare il sapere in base al quale quel fondamento è stato trovato. In caso contrario, il fondamento avrà senz’altro un valore a priori e apodittico, in quanto tale esso continuerà tuttavia a rappresentare un fatto, magari non più soltanto psicologico ma logico: come tale esso resterà comunque un fatto. La richiesta qui avanzata è quella di superare ogni forma di fattualismo insito nelle leggi del sapere, è quella di annullare la divisione tra il sapere che sa e il saputo che è oggetto del sapere. Reinhard Lauth ha 23. Ho discusso questo punto nel volume Coscienza e realtà. Un saggio su Reinhold, Edizioni della Normale, Pisa 2011, pp. 15, 71. 24. GA II,8, pp. 44 s.; tr. it. cit., p. 85.
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osservato al proposito che ciò che viene dimostrato in base ad una legge non è di per sé evidente in senso proprio: la necessità apodittica che è implicita nella dimostrazione non rende vera l’assunzione della legge che sta a fondamento della dimostrazione: essa potrebbe infatti significare soltanto la costrizione dello spirito ad agire come agisce, senza che ciò significhi che tale legge sia vera25. Per poter rendere evidente la verità della legge che costruisce il fatto si rende necessaria una completa trasparenza del fare che conduce al fatto; il fatto non deve cioè essere semplicemente saputo e spiegato in base a certe leggi del sapere, a meno di non trasformare la legislazione dello spirito in un «che» trascendentale da assumere come condizione di possibilità del «che» inferiore rappresentato dal fatto empirico. Fichte fa un esempio dell’evidenza fattuale kantiana: la Critica della ragione avrebbe compreso che c’è un fondamento unico del mondo sensibile e del mondo intelligibile, non è stata tuttavia in grado di considerarlo come un principio genetico che costituisce a partire da sé la divisione dei due mondi. «Questa visione, che in sé è del tutto giusta, poteva prodursi in lui solo seguendo la legge – attiva nella sua ragione in modo assoluto ma meccanico – di rimanere aderenti solo all’assoluta unità»26. Tale visione è tuttavia rimasta solo fattuale, dal momento che si è limitata a far agire la legge considerandola solo come un oggetto del sapere e non anche come un soggetto del sapere.
5. Elementi costitutivi dell’evidenza genetica Dopo aver visto in che senso l’evidenza della Dottrina della scienza si comprende come diversa da quella presente nel pensiero kantiano e in quello reinholdiano riflettiamo sulle note 25. R. Lauth, Begriff, Begründung und Rechtfertigung der Philosophie, Verlag Anton Pustet, München und Salzburg 1967, p. 77. 26. GA II,8, pp. 44 s.; tr. it. cit., p. 85.
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che ne caratterizzano la natura. A tale proposito si può fare riferimento ai seguenti elementi costitutivi. 1) L’evidenza filosofica può essere genetica nella misura in cui appartiene ad un sapere che è ad un tempo tanto sintetico quanto analitico. Siamo evidentemente nel campo della validità razionale, non empirica e non temporale, siamo in altri termini nell’ambito della validità a priori. Si tratta tuttavia di un a priori che esclude ogni unilateralità, tanto dal punto di vista dell’esposizione quanto dal punto di vista del principio del sapere. Per quel che concerne l’esposizione filosofica non è sufficiente distinguere, come avviene in Kant, tra un metodo della regressione e un metodo della progressione in base ai quali venire in possesso dei concetti del sapere filosofico. Non basta cioè affermare che la filosofia è una conoscenza razionale per concetti, laddove la matematica è una conoscenza razionale per costruzione di concetti. Se fosse vero che la conoscenza filosofica «non considera il particolare che nell’universale, mentre quella matematica non considera l’universale che nel particolare»27, che dunque solo la matematica è in grado di rappresentare a priori la corrispondente intuizione non empirica, allora si dovrebbe concludere che solo la matematica è in grado di raggiungere una evidenza genetica. Fichte ritiene invece che i principi matematici siano evidenti solo dal punto di vista fattuale. «Perché mi dica l’aritmetico come, in qualità di mero aritmetico, possa produrre un solido e fisso uno; oppure mi dica il geometra che cosa gli sorregge lo spazio e glielo fissa, mentre lui vi tira la sua linea continua; se questo, e tanti altri ingredienti di cui necessita ancora per la possibilità delle sue genesi, gli vengano forniti in altro modo che non immediatamente in un’intuizione fattuale»28. Fichte fa propria e sviluppa una osservazione che già Reinhold aveva espresso nei 27. B 742; tr. it. cit., p. 551. 28. GA II,8, pp. 47 s.; tr. it. cit., pp. 87 s.
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confronti della tesi kantiana secondo la quale la matematica, a differenza della filosofia, ha il vantaggio di partire da definizioni nella misura in cui è in grado di «rappresentare originariamente il concetto completo di una cosa entro i suoi limiti»29. Anche la filosofia, aveva osservato Reinhold, può ottemperare alle richieste indicate da Kant e da lui attribuite unicamente al sapere matematico: la definizione che la Filosofia elementare offre del concetto della rappresentazione contiene infatti note che sono chiare in quanto determinate immediatamente attraverso fatti evidenti, che sono sufficienti in quanto tramite tali caratteristiche la rappresentazione può essere distinta da tutto ciò che non è rappresentazione, che sono infine esposte in maniera originaria dal momento che sono derivate da una riflessione sul fatto della coscienza. La certezza apodittica della filosofia, aveva argomentato Reinhold, può pertanto oltrepassare il limite fissato dalla Critica della ragione in relazione alla non liceità per il sapere filosofico di imitare la matematica, dal momento che nella forma che essa assume nella Filosofia elementare il concetto della rappresentazione riceve una definizione che è «già essa stessa esposizione completa» delle note che le appartengono e che sono ricavabili immediatamente dal «fatto autoevidente della coscienza»30. Anche in relazione al principio del sapere vale che l’evidenza genetica deriva immediatamente dal carattere tanto sintetico quanto analitico che gli è proprio. Nella misura in cui il principio della filosofia coglie il nesso tra l’unità e la molteplicità, rappresenta una sintesi a priori; in quanto esso è tuttavia in grado allo stesso tempo di derivare da sé tanto l’uno quanto l’altro momento della relazione, è anche analitico a priori. Nella genesi del sapere filosofico si incontrano dunque l’analiticità e 29. B 755; tr. it. cit., p. 559. 30. K.L. Reinhold, Ueber das Fundament des philosophischen Wissens, cit., p. 62; tr. it. cit., p. 123.
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la sinteticità dal momento che la visione della derivazione dei momenti avviene sia in senso regressivo che in senso progressivo. Laddove Kant aveva distinto tra il metodo della regressione e della progressione, sottolineando che si tratta di metodi unilaterali nella misura in cui, pur nella complementarità che li contraddistingue in relazione all’esposizione del sapere, essi possono essere utilizzati l’uno indipendentemente dall’altro al fine di costruire il sapere concettuale, Fichte ritiene che la costruzione del sapere filosofico possa avanzare la pretesa di essere tanto sintetica quanto analitica e proprio perciò autenticamente genetica. L’evidenza genetica è, potremmo dire, la conseguenza del fatto che la ragione chiarisce a se stessa ciò che essa stessa contiene, che dunque la visione dell’assoluto «sussister-per-sé del sapere» si realizza «senza alcuna determinazione attraverso qualcosa al di fuori di lui»31. 2) A partire da queste considerazioni si ricava un secondo aspetto che contraddistingue l’evidenza genetica della filosofia: ogni sintesi del sapere filosofico – che è poi, come si è appena visto, anche un’analisi – deve avvenire nel momento logico in cui si stabilisce il nesso sintetico e non successivamente ad esso. Per dirla con le parole dell’attualismo di Giovanni Gentile, il sapere filosofico è sempre e solo autoctisi. Fichte parla al riguardo di «sintesi post factum» per indicare, per contrasto, una relazione tra elementi di una disgiunzione che viene compiuta dopo aver constatato il fatto della disgiunzione ed averlo pertanto assunto come un presupposto valido indipendentemente dalla sintesi che vi si appoggia. La Critica della ragione di Kant è ancora una volta l’esempio di una indagine filosofica che procede in base a sintesi post factum. Ciò avviene in particolare rispetto al principio supremo della filosofia con cui, come si è già visto, dovrebbero essere uniti tanto il mondo sensibile quanto il mon-
31. GA II,8, pp. 44 s.; tr. it. cit., p. 86.
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do intelligibile. La ragione si trova qui di fronte ad elementi di una disgiunzione, comprende tuttavia che «essi in sé devono essere una sola cosa», non è tuttavia in grado di «indicare come essi, malgrado questa unità, possano contemporaneamente divenire due»32. Fichte parla al proposito della dualità di essere e pensare che richiede di risalire al principio che unisce i due momenti: la sintesi che può essere stabilita tra loro se per un lato risponde alla domanda giuridica sulle condizioni di possibilità del loro darsi, dall’altro lato è insufficiente in quanto non chiarisce il fatto della disgiunzione. La costruzione del sapere filosofico non può partire da fatti assumendoli come validi; essi devono al contrario essere derivati dall’attività della ragione. Ciò può avvenire nella misura in cui il ragionamento filosofico resta cosciente del proprio fare allorché costruisce la sintesi degli elementi in relazione. Si tratta in definitiva di un’attività di costruzione del sapere che sa di sé come tale. Di contro ad ogni meccanismo dello spirito l’evidenza genetica che deriva dalla costruzione consapevole del sapere è in grado di penetrare il fatto, di «vedere perché esso sia così determinato»33. 3) L’evidenza genetica della filosofia può essere confutata solo dall’interno: ciò significa che per poter mettere in discussione ciò che il sapere filosofico afferma non è possibile richiamarsi a fatti o a proposizioni che pretendono di essere assunti a prescindere dal chiarimento della loro evidenza razionale. Detto altrimenti, non è possibile pensare che la discussione filosofica proceda appoggiandosi a presupposti che sono irrazionali nella misura in cui sono fattuali. Il sapere filosofico – e Fichte ritiene che quello autentico sia contenuto ed esposto nella Dottrina della scienza – può pertanto essere solo giudicato in se stesso 32. Ibidem. 33. GA II,8, p. 77; tr. it. cit., p. 111.
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e a partire da se stesso; potrebbe venire attaccato o confutato solo «attraverso l’indicazione di una contraddizione interna, di un’interna inconseguenza o di un’insufficienza»34. 4) La domanda sull’evidenza genetica della filosofia riguarda non tanto il contenuto quanto piuttosto la forma del sapere. La comprensione del fatto a partire dalle leggi del sapere e rimanendo consapevoli che tali leggi non sono esse stesse dei fatti implica il superamento di ogni fattualità, sia empirica che trascendentale, in maniera da far sorgere la visione che il «che» del fatto ha un «perché» rappresentato dal suo fondamento. Ciò può avvenire nella misura in cui si riflette sul fattuale non tanto dal punto di vista del contenuto, quanto invece in relazione al «procedimento» con cui esso sorge35. L’evidenza genetica del sapere filosofico si esprime qui nella trasformazione dell’immediato nel mediato, nel penetrare il fatto che si offre nella sua datità assoluta, comprendendolo come un momento che si media con altri momenti del sapere filosofico. Senza voler entrare in una discussione approfondita di questo paragone, non sarebbe del tutto sbagliato utilizzare a questo proposito il tema hegeliano della fluidificazione dei concetti, tenendo tuttavia fermo, come si vedrà tra poco, che per Fichte il movimento del sapere filosofico non spetta affatto al concetto ma a ciò che si manifesta in esso e lo fonda: l’Assoluto. 5) Il rimando appena compiuto alla relazione tra i momenti del sapere filosofico, se da un lato ribadisce che l’evidenza genetica della filosofia è acquisibile solo all’interno di un sistema del sapere nel quale le varie parti si richiamano e si fondano reciprocamente, dall’altro lato – ed in maniera conseguente rispetto a quanto appena detto – rimarca che evidente all’interno del sapere filosofico non è mai ciò che è indeterminato e privo di 34. GA II,8, pp. 48 s.; tr. it. cit., p. 89. 35. GA II,8, pp. 78 s.; tr. it. cit., p. 112.
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relazioni, ma sempre e solo ciò che ha una sua determinatezza specifica e sta in un nesso sintetico-analitico con altri momenti. La genesi che dà evidenza al sapere filosofico si realizza nell’attività razionale, nel passaggio vivente che avviene nel concepire mediato di ciò che appare come un fatto. Fichte distingue a tale proposito tra «mera genesi» e «genesi determinata»36, ricordando che il sapere della Dottrina della scienza non sta né nel momento dell’immutabilità, né in quello della mutabilità, né nel momento del pensare, né in quello dell’essere. In breve: il sapere filosofico si posiziona nel loro punto di contatto, la sua è dunque non soltanto la mera genesi che appartiene al punto di contatto, ma è genesi determinata dal momento che genetizza nel loro punto di contatto momenti specifici del sapere. 6) L’evidenza genetica della filosofia non si realizza, per usare ancora una volta le parole di Hegel, come un colpo di pistola37. Essa abbisogna, al contrario, di considerazioni differenti mediante le quali risalire di genesi parziali e limitate in genesi altrettanto parziali e limitate, su su fino alla genesi suprema della filosofia come manifestazione dell’Assoluto. Il percorso così tracciato passa dunque da un fatto genetizzato ad un altro fatto genetizzato, fino ad arrivare a ciò che non ammette genesi ulteriore dal momento che è esso stesso il fatto incomprensibile della manifestazione dell’Assoluto nel sapere. Le stazioni principali di questo cammino sono molte e complesse: ne vorrei ricordare almeno due che mi sembrano significative per la comprensione della filosofia trascendentale in senso fichtiano e della sua differenza rispetto ad un assunto speculativo come quello hegeliano che mira anch’esso a rendere conto di una 36. GA II,8, pp. 52 s.; tr. it. cit., p. 92. 37. Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Gesammelte Werke, in Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft hrsg. von der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Bd. 9, hrsg. von W. Bonsiepen und R. Heede, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1980, p. 24.
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evidenza genetica del sapere filosofico. A) La filosofia trascendentale in senso fichtiano, genetizzando il sapere di sé, supera la comprensione concettuale in base alla quale la coscienza intellettuale ritiene di poter cogliere le relazioni dei momenti del sapere in maniera mediata e nella forma della separazione. L’evidenza genetica serve in altre parole ad annullare il concetto intellettuale che è capace di concepire solo mediatamente, ma non è in grado di cogliere l’unità organica del sapere. La funzione del concetto espressa da Fichte mediante il termine Durch viene così ridimensionata a favore di quella che la Dottrina della scienza chiama «luce», intendendo con ciò tanto l’oggetto incomprensibile al concetto intellettuale quanto l’organo ovvero lo spazio in cui il sapere filosofico si realizza. Ci troviamo di fronte ad un superamento della filosofia della riflessione in senso hegeliano nella misura in cui si dichiara apertamente, questa volta in senso prettamente antihegeliano, che la comprensione raggiungibile unicamente mediante il concetto razionale non esaurisce il sapere filosofico e non ne produce l’evidenza genetica. La filosofia non potrebbe in definitiva aspirare ad una evidenza genetica se non potesse far leva anche su una comprensione immediata che passa attraverso la pura luce della ragione. B) Il secondo momento del processo da cui scaturisce l’evidenza genetica stabilisce che il mero concetto intellettuale venga sostituito da un «concetto originario» (Urbegriff) con il quale rendere conto del fatto che la luce non deve essere intesa unicamente come un mero elemento incomprensibile per il concetto intellettuale. Se ci limitassimo a tale comprensione di essa, la luce si ridurrebbe ad un fatto di cui il sapere filosofico non è in grado di cogliere il fondamento di esistenza. Al fine di genetizzare la luce che potrebbe apparire come una datità fattuale rispetto al concetto intellettuale che cerca di comprenderla, è necessario oltrepassare la comprensione oggettivante che l’intelletto realizza della luce: la luce non è un fatto nella misura in cui è tanto ciò
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che è incomprensibile all’intelletto quanto ciò che è presente nel sapere del concetto. La comprensione genetica della luce porta ad evidenza due modi differenti della luce: «uno in maniera mediata ed esteriore nel concetto, l’altro in maniera semplicemente immediata attraverso se stessa, anche se nessuno la vede e, a rigore, che effettivamente nessuno assolutamente vede, per cui anzi questa vita interna della luce diviene assolutamente inconcepibile»38. Il concetto originario è dunque superiore al mero concetto intellettuale dal momento che è in grado di cogliere la relazione tra ciò che la luce è in sé e ciò che la luce è nella sua manifestazione, vale a dire per il concetto. Entrambi i momenti, tanto l’interiorità e l’incomprensione della luce assoluta irraggiungibile per il concetto quanto la sua manifestazione nel sapere come organo e spazio in cui si realizza l’evidenza genetica, devono essere mantenuti per non sconfinare in quella che Wolfgang Janke ha chiamato «autarchia del concetto»39. Si tratta evidentemente di uno sconfinamento che si realizza invece nella filosofia dell’Assoluto di Hegel, nella quale il superamento della riflessione intellettualistica equivale all’annullamento del momento dell’incomprensibilità a favore dell’autarchia del concetto. L’evidenza genetica fichtiana vive, potremmo dire, di entrambi gli aspetti: oltrepassare la riflessione dell’intelletto non significa affatto raggiungere una mediazione razionale che, nella forma del sapere assoluto hegeliana, equivale alla comprensione dell’Assoluto. 7) Il duplice carattere della luce ci permette di toccare un ultimo punto, certamente qualificante per intendere pienamente l’evidenza genetica del sapere filosofico in senso fichtiano. Vale la pena di citare al riguardo un breve passo della Seconda
38. GA II,8, pp. 118 s.; tr. it. cit., p. 146. 39. W. Janke, Fichte. Sein und Reflexion – Grundlagen der kritischen Vernunft, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1970, p. 340.
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esposizione della Dottrina della scienza 1804: «Noi di certo non facciamo la verità; e sarebbe mal conclusa nel caso in cui dovessimo; è invece la verità a far se stessa attraverso una forza propria, e dove trova la condizione della sua produzione compie questa cosa nella stessa maniera e con la stessa velocità»40. Qui si afferma chiaramente che l’evidenza genetica non appartiene, in ultimo, al finito, ma all’infinito, non è del relativo, ma dell’Assoluto. Benché sia vero che senza la libera decisione di chi vuol comprendere e riflettere sul proprio sapere fattuale non possa realizzarsi in maniera geneticamente evidente il sapere medesimo – e per questo l’uomo è posto di fronte alla scelta per o contro la verità –, si deve riconoscere che la performatività del sapere può avvenire unicamente mediante la luce quale organo e spazio in cui il sapere razionale diviene trasparente a se stesso. È l’Assoluto che costruisce la propria comprensione attraverso la sua immagine finita; se la ragione umana è in grado di raggiungere un sapere saldo e incrollabile, allora soltanto nella misura in cui ricostruisce, meglio: con-costruisce, ciò che la ragione infinita costruisce in maniera originaria.
6. Evidenza genetica, eterologia, analogia Il duplice significato della luce, immanente o interna a sé ed emanente o esternata nella sua immagine, ci conduce ad una questione fondamentale che riguarda il valore dell’evidenza genetica della filosofia. Reinhard Lauth ha espresso il problema in modo chiaro e lucido ed è per questo che ne riporto qui l’argomentazione. Egli ha osservato che il sapere potrebbe essere valido ed evidente senza per questo essere vero; la necessità interna al sapere non è ancora fondamento sufficiente per sostenere che esso è assolutamente indubitabile. Richiamandosi
40. GA II,8, pp. 68 s.; tr. it. cit., p. 106.
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a Cartesio, Lauth ha così formulato il «dubbio metafisico» che la validità del sapere non sia segno assolutamente certo della verità del sapere. Che la conoscenza si realizzi in un certo modo ed abbia delle precise condizioni di possibilità dice in altre parole solo che per poter conoscere è necessario che tali modalità siano assicurate e che tali condizioni di possibilità siano date. «In questo modo tuttavia è mostrata solo la necessità di questa assunzione, laddove cioè noi pretendiamo in generale di conoscere qualcosa; in tal modo non è però affatto dimostrato che una tale conoscenza si dia effettivamente»41. È significativo che Lauth formuli il proprio dubbio metafisico rivolgendo il proprio sguardo a Cartesio. Il rimando al Dio verace che dissipa definitivamente le ragioni che rendono incerto lo spirito segnala un momento importante per le nostre brevi considerazioni. Nell’operazione concettuale portata avanti da Lauth è certamente presente quello che noi abbiamo già chiarito in precedenza, che cioè l’evidenza del sapere filosofico non può esaurirsi nella mera apoditticità delle leggi del sapere ma deve realizzarsi in maniera genetica. C’è tuttavia un elemento non ancora discusso: la soluzione del dubbio metafisico non può infatti passare solo dal prendere coscienza di tale circostanza; essa assume una portata teorica ben più ampia, se è vero che già in Cartesio la risposta alla domanda «sono sveglio oppure sogno?» viene data solo dopo aver dimostrato che Dio esiste. Ma dopo che ho riconosciuto che vi è un Dio, per il fatto che, in pari tempo, ho riconosciuto anche che tutte le cose dipendono da lui, e ch’egli non è ingannatore, ed in seguito a ciò ho giudicato che tutto quel ch’io concepisco chiaramente e distintamente non può non essere vero, ancorché non pensi più alle ragioni per le quali l’ho giudicato vero, purché mi ricordi di averlo chiaramente compreso, non mi si può portare niuna 41. R. Lauth, Theorie des philosophischen Arguments. Der Ausgangspunkt und seine Bedingungen, De Gruyter, Berlin-New York 1979, p. 139.
126 ragione contraria, che me lo faccia mai revocare in dubbio; e così ne ho una vera e certa scienza.42
Ciò vuol dire per noi che l’evidenza genetica invocata anche da Lauth può essere veramente tale se e solo se non appartiene soltanto al sapere filosofico ma si fonda su qualcosa che il sapere filosofico non è. Lauth descrive questo momento che trascende il sapere della filosofia nei termini del valore del bene in sé43, Fichte parla invece, come si è visto, di Assoluto che si manifesta nel sapere assoluto. Quello che in entrambi i casi viene chiaramente affermato, e che vorrei fissare a conclusione di queste mie considerazioni, è che la filosofia trascendentale qui descritta non può che fondarsi sulla relazione fondamentale di diversità e, ad un tempo, di uguaglianza che sussiste tra l’Assoluto e il sapere assoluto. Nel riconoscere che l’evidenza del sapere filosofico è genetica in quanto vive di una dimensione che va oltre il mero sapere, pur essendo anche interna al sapere, è in altre parole contenuta la tesi che la filosofia deve essere tanto eterologica quanto analogica: eterologica, dal momento che non scambia il sapere filosofico con il sapere dell’Assoluto ma, di contro ad ogni dialettica antitetica di matrice hegeliana, mantiene la distanza incolmabile dei due momenti; analogica, in quanto riconosce che tra il sapere assoluto e l’Assoluto sussiste un rapporto di uguaglianza di contenuto e di differenza di forma44. 42. R. Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, vol. 2, Laterza, RomaBari 1990, p. 65. 43. R. Lauth, Begriff, Begründung und Rechtfertigung der Philosophie, cit., p. 95. 44. Sul duplice carattere della Dottrina della scienza, eterologico ed analogico, mi permetto di rimandare a due miei studi recenti: Sameness and Otherness in the Free Principle of Philosophy. Fichte’s Wissenschaftslehre in Comparison to Hegel’s Science of Logic, in Ch.H. Krijnen (ed.), Metaphysics of Freedom? Kant’s Concept of Cosmological Freedom in Historical and Systematic Perspective, Brill, Leiden 2018, pp. 157-172; Fichte und die analogia entis, in «Fichte-Studien», vol. 47, 2019, pp. 129-146.
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Fondazione dell’etica in Fichte e in Kierkegaard secondo il metodo idealistico ed esistenzialistico di Edith Düsing
Posizione del problema La portata argomentativa di una spiegazione dell’etica come dottrina del dovere è spesso sottovalutata. Si deve mostrare una scala a partire da prospettive etiche carenti fino alla prospettiva etica autentica, così come si può riscontrare nella prima dottrina morale di Fichte e nella teoria degli stadi di Kierkegaard. Entrambe, in quanto confutazioni dell’eudemonismo e dell’edonismo, sono feconde variazioni della teoria kantiana del dovere. Entrambi i successori di Kant genetizzano la legge morale, che non resta fatto della ragion pratica. Il superamento dell’edonismo (egoismo) ha luogo collocando quelle teorie della felicità su un gradino più basso nella genesi dell’Io etico. Ciò che resta non sufficientemente determinato in Kant, la fondazione della legge nell’Io autocosciente, lo compie Fichte; quel che manca in Kant e in Fichte, una fenomenologia e una psicologia dello spirito soggettivo esistente, lo mostra Kierkegaard. Se l’etica, come per Fichte e per Kierkegaard, è fondante per la filosofia, e dunque la filosofia è, in linea di principio, filosofia pratica, allora l’etica ottiene il carattere di fondazione ultima. Questa, conformemente al tipo di deontologia, poggia su un
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principio che fonda i doveri, e che è – idealisticamente ed esistenzialmente – l’autocoscienza etica.
1. Fichte: La genesi della prospettiva etica nella storia dell’autocoscienza Nella sua giovinezza, J.G. Fichte aderisce al determinismo (più a Spinoza che alla fisica di Newton). Attraverso la lettura della Critica della ragion pratica di Kant viene svegliato dal sopore della sua incredulità nella libertà e si convince dell’autonomia dell’uomo. La grande gioia per questa scoperta risuona nella dichiarazione: la mia intera filosofia è un’analisi della libertà. L’Io che pone se stesso spontaneamente è il primo assioma nella teoria e nella pratica. L’idealismo della libertà di Fichte prende seriamente la sfida rappresentata dalla visione deterministica del mondo. Egli considera attentamente uno strano interesse dell’uomo nel ritenersi non libero e parla della «libertà stessa, che è incatenata» (SW IV, 201); la mancanza di libertà crea angoscia! – Fichte presuppone la prova teoretica di Kant della non-impossibilità della libertà del volere: la soluzione kantiana dell’antinomia della libertà significa che l’uomo è, insieme, di carattere sensibile- empirico e intelligibile, a seconda che venga considerato come fenomeno o come essenza in sé. Poiché la libertà di volere è ammissibile sulla base della coscienza del dovere, all’uomo competono due tipi di causalità: come causa naturale delle sue azioni, egli è di carattere empirico; in quanto nel libero iniziare da se stesso produce effetti a partire dalla casualità per libertà, egli è di carattere intelligibile. Fichte fonda la legge morale nell’unità dell’Io pratico. Il principio dell’etica, che è apoditticamente valido e che comanda in modo categorico, esprime il principio di ogni dovere: «Agisci in modo tale, da poter pensare la massima del tuo volere
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come legge per te eterna!»1. Egli parla del «sublime», contenuto nella rappresentazione che io agirò sempre conformemente al principio secondo cui agisco ora, «poiché sempre lo vorrò» (SW VIII, 349). Il pratico e unitario essere del volere, la non contraddizione o l’identità del volere etico mediante cui è caratterizzato il volere buono contiene, come elemento logiconecessario, il pensiero dell’identità egoica dell’Io assoluto, così come Fichte lo ha fissato nel primo principio della sua Dottrina della scienza del 1794-95. L’identità dell’Io puro, in quanto principio fichtiano della fondazione ultima, si specifica quale identità del volere pratico nell’Io finito2. La storia idealistica dell’autocoscienza, nella quale Fichte cerca di sviluppare la connessione interna di tutte le facoltà a partire dal fondamento unitario dell’Io, è per lui – conformemente a un radicato primato della ragion pratica – prioritariamente la coscienza della libertà. Nella Dottrina morale propone come «compito», per il filosofo che dichiara «di vedere» i fatti della coscienza, quello di spiegare in che modo l’Io «diventi consapevole» della sua tendenza originaria «all’assoluta auto-attività» (SW IV, 39). La tesi del Diritto naturale (del 1796) secondo cui l’Io potrebbe identificarsi con se stesso solo trovandosi come volente, conduce Fichte alla tesi secondo cui l’Io potrebbe pervenire all’autoreferenzialità nel volere consapevole soltanto per mezzo dell’orientamento alla legge morale: «Io mi riconosco soltanto attraverso questo medio della legge morale» (SW I, 466). Nel Sistema di etica (1798) egli cerca di mostrare in che misura l’«autentico Io sostanziale» non sia l’intelligenza, bensì
1. Le citazioni di Fichte rinviano all’edizione della Bayerischen Akademie der Wissenschaften (Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964 ss.): I, I ss., e a quella di I.H. Fichte (Walter de Gruyter, Berlin 1971): SW I ss. 2. Sulla dottrina fichtiana dei principi cfr. H. Heimsoeth, Fichte, E. Reinhardt, München 1923; W. Janke, Fichte. Sein und Reflexion – Grundlagen der kritischen Vernunft, Walter de Gruyter, Berlin 1970.
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il «liberamente attivo» (das “Freitätige”) come volere libero (SW IV, 220). Nella progressione della conoscenza di sé si risveglia nell’Io un primo anelito della sua libertà, come facoltà «di iniziare in modo assoluto» (SW IV, 37)3 ed esso si accorge di comportarsi in modo oscillante, in un volere ancora non articolato. Volere effettivamente è concentrazione dell’intera essenza dell’Io, un «passare assolutamente libero», e mediante sé, dall’indeterminatezza alla determinatezza, unito alla coscienza di tale passare. A tal fine è necessario svincolarsi da una «condizione di oscillazione» per mezzo dell’«energia del volere e profondità dell’intuizione», in vista di qualcosa di voluto realmente e concretamente. Ma «ci sono individui che, in realtà, non vogliono in modo autentico, bensì si lasciano sempre spingere e guidare da una cieca tendenza; essi […] sognano soltanto un lungo sogno, determinato dall’oscuro corso dell’associazione delle idee» (SW IV, 136 s.). Costoro, che mai vogliono davvero qualcosa, non giungono alla consapevolezza autentica della loro libertà (SW IV, 122 s.). L’uomo inclinerebbe per natura a ritenersi «un pezzo di lava sulla luna» (I/2, 326) piuttosto che un Io libero. Egli, a volte, cede volentieri alla tendenza di considerare se stesso un «prodotto naturale organizzato» (SW IV, 122 s.). La vita del proprio Sé come «prodotto naturale», pone assolutamente il carattere empirico dell’uomo ed esclude il carattere intelligibile. Restare fermi alla soddisfazione dell’impulso naturale, dice Fichte, è un «piacere» che «mi strappa da me stesso, mi rende estraneo a me stesso, e nel quale mi dimentico di me» come persona e dunque libero (SW IV, 146). «Se, mediante la legge dell’intuizione sensibile e del pensiero discorsivo, mi riconosco 3. Cfr. L. Fonnesu, Metamorphosen der Freiheit in Fichtes Sittenlehre, in «Fichte-Studien», vol. 16, 1999, pp. 255-271; W. Metz, Freiheit und Reflexion in Fichtes Sittenlehre von 1798, in «Fichte-Studien», vol. 27, 2006, pp. 23-35.
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come oggetto totalmente determinato», allora vedo il mio Sé sotto l’aspetto dell’impulso naturale poiché, secondo quel punto di vista, «sono io stesso natura» (SW IV, 130). Al contrario, l’impulso etico che si deve produrre non mi porta «fuori di me stesso», ma mi ri-porta a me stesso e mi conferisce una quieta «soddisfazione» unicamente a partire dalla libertà (SW IV, 146; I, 325 ss). Si tratta di una scelta tra idealismo della libertà e materialismo4! L’«impulso più elevato» contrasta l’abbandono alla natura (SW IV, 131) e cerca la condizione del sublime al di sopra «dell’ente temporale empirico» (SW IV, 131, 141). Se mi considero come soggetto, mi colgo come libera «indipendenza». Sulla competizione tra impulso naturale, al quale l’Io è «ancillare» (SW IV, 138), e l’impulso etico, si basano «tutti i fenomeni dell’Io» (SW, 130). Cogliere l’idea della libera egoità in se stessa – ciò che un determinista dogmatico, che ammette una pervasiva necessità naturale, considera come la caccia a un fantasma – richiede l’«innalzamento per mezzo della libertà verso una sfera del tutto diversa, nel cui possesso non veniamo immessi immediatamente grazie alla nostra esistenza» (I/4, 258 s.). L’autocomprensione della propria libertà, in cui un qualcosa che spontaneamente cambia se stesso (e altri enti) si riconosce come l’attivo fondamento di tale cambiamento, non è contenuta nel «meccanismo» della natura (SW IV, 3 s.). Trascendendo l’impulso naturale, l’Io si costituisce come liberum arbitrium. Nel «rinvio» di una soddisfazione naturale si scopre come capacità di poter scegliere tra inclinazioni. All’in4. La proposizione fondamentale: «La scelta della filosofia dipende da che uomo si sia: un sistema filosofico, infatti, non è una inerte suppellettile, che si possa abbandonare o accettare a proprio piacimento: al contrario, esso è animato dall’anima dell’uomo che lo ha fatto proprio» (SW I, 434). Sulla teoria fichtiana della scelta tra idealismo e materialismo o determinismo cfr. E. Düsing, Intersubjektivität und Selbstbewußtsein. Behavioristische, phänomenologische und idealistische Begründungstheorien bei Mead, Schütz, Fichte und Hegel, Dinter, Köln 1986, pp. 199-203.
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terno di tale libertà di scelta solo formale e ancora dipendente da oggetti naturali, Fichte distingue dall’edonismo, che è un modo di pensare «totalmente sensibile», una ostinata fame di potere, che non mira ad «ampliare le fonti dei suoi godimenti», bensì ha interesse a che domini il proprio arbitrio, secondo la massima: «quel che io voglio, deve accadere» (SW IV, 190). La storia testimonia la forza effettiva di questo modo di pensare: calpestare gli altri, «soggiogare» la loro vita e persino la coscienza (GW IV, 190 s., 202s). I tipi di pseudo-etica, che si fondano sul principio del piacere e della forza e che Platone ha confutato come posizioni sofistiche, vengono ora inquadrate da Fichte come i gradini più bassi e i cattivi traviamenti nella storia della genesi della libertà. Nella dottrina morale materialistica, come Fichte rimprovera a Helvetius, l’egoismo viene innalzato a principio dell’etica mediante la tesi secondo cui ammettere altri motivi dell’agire contraddirebbe la natura umana. In realtà questa tesi sarebbe confermata in tutte le epoche e, espressa apertamente e considerata vera, essa cancellerebbe ogni più elevato tendere. Fichte, tuttavia, la respinge decisamente con un argomento tratto dall’etica di Kant: quel che deve accadere non potrebbe né essere giudicato né dedotto da quel che accade de facto. Quell’ipotesi di egoismo coglierebbe nel segno nel caso dell’uomo che si consideri come mero «prodotto naturale» e che, pertanto, non si sente sminuito se crede di non poter trovare in sé nient’altro che amor proprio (SW IV, 180, 183 s., 203 s.). L’ipotesi di egoismo universale può essere caratterizzata, nel sistema di Fichte, come un equivoco della persona che non conosce il suo carattere intelligibile come libera spontaneità e si considera come mero «ente naturale». E la fame di potere dell’uomo che vuole «sottomettere» tutto ciò che è esterno a lui al dominio assoluto, all’arbitrio «del suo volere» (SW IV, 186), è da considerare come fraintendimento della tendenza all’attività incondizionata, che respinge ogni limite e lo oltrepassa.
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L’indipendenza assoluta, che appartiene al puro volere etico in virtù dell’autolegislazione in vista di quel che deve essere, viene qui trasferita erroneamente al volere empirico contingente, che in tal modo è cattiva volontà individuale che si pone in modo assoluto. Se l’impulso interno all’indipendenza giunge alla coscienza per amore di se stesso, allora emerge un dispotismo che si arroga competenza legislativa personale e, alla lunga, come ammonisce Fichte, produce un «carattere molto immorale» (SW IV, 191). Tale carattere non vuol sapere nulla di attività conforme alla legge, rispetto, dovere e obbligo (SW IV, 186 s.). Il trovarsi dell’Io come liberum arbitrium, da un lato, è punto di partenza per un uso responsabile della libertà, dall’altro lato si apre qui, per Fichte, un abisso di possibili carenze. Così si può caratterizzare l’edonismo come mancato, la volontà di potenza come pervertito movimento di ascesa verso l’Io libero, la cui verità è la pura autolegislazione etica5. Autonomia etica significa: il volere si innalza oltre la sfera della legislazione dell’egoismo. La legge morale è qualcosa che diviene vivo e presente in noi non senza la nostra “cooperazione”. Dipende piuttosto dalla mia libertà se la coscienza del mio dovere «perduri» o invece si «offuschi» di nuovo; essa si offusca «da sola» quando non la mantengo sveglia attivamente (SW IV, 193 s.). Nel paragrafo Sulla causa del male (§ 16) Fichte prospetta una tipologia della perdita del nostro «autentico filo conduttore della coscienza morale»6 con l’insistere sui «punti 5. Sul concetto fichtiano dell’Io cfr. W. Schrader, Empirisches und absolutes Ich. Zur Geschichte des Begriffs Leben in der Philosophie J. G. Fichtes, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1972. 6. SW IV, 195. Per la collocazione della coscienza morale (Gewsissen) nella sistematica di Fichte cfr. W. Janke, Intellektuelle Anschauung und Gewissen. Aufriß eines Begründungsproblems, in «Fichte-Studien», vol. 5, 1993, pp. 2155. L’intuizione intellettuale è un vedere puramente spirituale, la coscienza
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bassi della riflessione» (SW IV, 182). Solo «vegliando su noi stessi» la coscienza del dovere, come «atto che inizia in maniera assoluta», viene «mantenuta chiara» alla comprensione (SW IV, 193). A coloro che, da un punto di vista scettico, non vogliono «ammettere» alcuna coscienza di un imperativo categorico, Fichte oppone l’argomento secondo cui il fatto innegabile che colui che agisce, con il senno di poi, si faccia rimproveri, testimonia indirettamente, in forza del pentimento, della coscienza della libertà e del dovere (SW IV, 152). La validità della legge morale viene colta in una «linea» di autocomprensione ascendente, nella quale l’Io pratico si innalza al di sopra della sua intera esistenza temporale determinabile unicamente sul piano sensibile. La libertà realizzata consiste nel fatto che l’Io è in grado di determinarsi solo a partire dall’idea del dovere. La determinazione dell’Io non avviene, perciò, mediante un motivo determinante «estraneo», bensì conformemente al concetto «in lui stesso prodotto, del dovere assoluto» (SW IV, 155). Il dovere è espressione dell’autoimposta obbligazione alla propria libertà. In un «atto di assoluta spontaneità», l’Io pratico razionale concepisce o produce questo «pensiero necessario» di una legislazione «per se stesso e mediante se stesso». Un’autolegislazione «ininterrotta» costituisce pertanto l’«esistenza morale» dell’Io libero (SW IV, 56 s., 192). La legge morale è per Fichte la legge mediante la quale l’Io riconduce sotto una regola il suo essere causa di effetti che procedono dalla libertà, regola che l’Io stesso, in quanto suo autore e destinatario, ha elaborato al fine di determinarsi, grazie a lei, in maniera affidabile. La Destinazione dell’uomo (1800)7 espomorale è un sentimento etico dell’Io. Entrambe si caratterizzano per intuizione immediata e massimo grado di certezza. 7. Per la collocazione di questo popolare scritto nell’itinerario di pensiero di Fichte cfr. I. Radrizzani, Die Bestimmung des Menschen: der Wendepunkt zur Spätphilosophie?, in «Fichte-Studien», vol. 17, 2000, pp. 19-42.
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ne il contrasto tra il «sistema della libertà», che «soddisfa il nostro cuore», e quello della non-libertà, che appaga l’intelletto. In tal caso parla un Io che dubita della propria libertà e cade in una depressione spirituale, poiché si svilisce a livello di pezzo di natura: «Tutto quel che sono stato e diventerò, lo sono e lo diventerò… necessariamente». «Io sono un’espressione determinata dall’universo di una forza naturale autodeterminata». Non agisco di mia iniziativa, poiché «in me agisce la natura» (SW II, 183, 189 s.). Quest’antitesi del determinismo suona: io voglio «essere io stesso il fondamento ultimo delle mie determinazioni. Il rango che occupa in ogni sistema ciascuna forza naturale originaria, voglio occuparlo io stesso», possedere una «forza» interiore «dell’Io», per «manifestarmi in modi infinitamente vari» (SW II, 191). «Ci dev’essere un bene secondo leggi spirituali», questo bene voglio «perseguire con libertà, finché lo trovo […]. Io devo poter volere questo bene; […] e se al suo posto voglio qualcos’altro, devo averne io la colpa» (SW II, 192 s.). Io voglio amare, voglio perdermi nella collaborazione [con gli altri], rallegrarmi ed essere triste. […] Soltanto nell’amore è la vita, senza di esso è morte e distruzione. – / Ma in modo freddo e insolente si fa avanti il sistema opposto e si fa beffe di questo amore. Io non sono e non agisco […]. L’oggetto della mia più intima inclinazione è una chimera […]. Al mio posto è e agisce una forza estranea e a me del tutto sconosciuta […]. Me ne sto confuso con la mia sincera inclinazione […]. Quel che ho di più sacro è in balìa della derisione. (SW II, 196 s.)
Quel che c’è di umanamente più sacro è la potenza unificante della personalità, che è in grado di comprendere il pentimento e lodare l’onestà. Riprendendo la soluzione kantiana delle antinomie di libertà e determinismo naturale, Fichte giunge alla svolta idealistica che si esprime nel sospiro di sollievo: Sono ancora una volta Io che «si determina mediante la conoscenza del bene liberamente prodotta in sé» (SW II, 195). Il senso della
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libertà consiste nella conformità alla legge, che nell’imperativo categorico definisce quel che deve essere il bene.
2. Kierkegaard: Lo stadio etico dell’esistenza in Aut-Aut (1843) Kierkegaard pensa idealisticamente l’autocoscienza come «punto d’origine della personalità» (Tg I, 229)8. La genesi dell’Io in quanto Sé coincide con quella della libertà. La discussione kantiana sul passaggio dalla natura alla libertà e il programma idealistico della storia dell’autocoscienza costituiscono lo sfondo per il suo modello di superamento della piacevole sfera dell’esistenza estetica in direzione della seria sfera etica. Nella Postilla non scientifica alle briciole di filosofia la sintesi suona: «Ci sono tre sfere dell’esistenza: estetica, etica e religiosa»; queste includono passaggi: l’ironia è la zona di confine tra lo stadio dell’esistenza estetico e quello etico, l’umorismo lo è tra lo stadio etico e quello religioso (UN II, 211, 242 n.). Il religioso si comporta in modo relativo nei confronti del relativo e in modo assoluto nei confronti dell’assoluto, di Dio. Fichte deduce la legge morale, il fatto della ragione di Kant, dalla pura autocoscienza. Kierkegaard cerca, oltre a ciò, l’illuminazione esistenziale di bene e male, mostrando gli strati profondi nel Sé, che sono fondamentali tanto per affermare convinzioni morali, quanto anche per rifiutarle. Quel che Kant soltanto menziona come la tendenza dell’uomo a «liberarsi con sofismi» della propria libertà, nonché a una «dialettica naturale» mediante la quale vuole indebolire la purezza della disposi-
8. Sören Kierkegaard Gesammelte Werke, hrsg. von E. Hirsch und H. Gerdes, E. Diederichs, Düsseldorf 1957. BA: Der Begriff Angst; EO: Entweder/Oder, Bde I, II; KzT: Die Krankheit zum Tode; Tg: Tagebücher, Bde I-IV; UN: Abschließende Unwissenschaftliche Nachschrift zu den Philosophischen Brocken.
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zione morale o la serietà di un dovere necessario, Kierkegaard lo discute come argomento chiave. Infatti in ogni uomo, e in particolare all’interno di ogni sfera della sua esistenza, ci sarebbe «qualcosa che, fino a una certa misura, gli impedisce di divenire pienamente trasparente a se stesso» (EO II, 170 s.).
2.1. La sospensione della scelta del Sé morale nel piacere estetico e nel dolore La concezione di Kierkegaard degli stadi dell’esistenza non ammette alcuno sviluppo continuo del Sé; al contrario, lo stadio più elevato procede da un salto dal più basso, in una decisione radicale, che trasforma l’esistenza. L’esteta, nella sua tragica visione del mondo, interpreta il destino dell’uomo sotto la determinazione della necessità, nella quale confluiscono, dal punto di vista filosofico-religioso il factum, e da quello filosofico-naturale il determinismo: «[È] rimasta solo tanta libertà che questa, come un sogno agitato, riesce a tenere l’uomo continuamente mezzo sveglio e lo fa errare nel labirinto della sofferenza e del fato», dov’egli ovunque «vede se stesso» senza poter pervenire al suo vero Sé, che è libertà (EO II, 255). Ricordando la riflessione di colui che dubita nella Destinazione dell’uomo9 di Fichte, che suona: «Io posso pentirmi, rallegrarmi e nutrire buoni propositi», ma sicuramente non sono in grado, malgrado il mio pentimento e i miei migliori propositi, di modificare nulla di ciò che «devo divenire» secondo l’inesorabile necessità (SW II, 189 s.), l’uomo etico di Kierkegaard ribatte che egli conosce solo un dolore che potrebbe portarlo alla di-
9. Per la relazione di Kierkegaard con Fichte cfr. W. Janke, Das Phantastische und die Phantasie bei Hegel und Fichte im Lichte von Kierkegaards pseudonymen Schriften, in Id., Entgegensetzungen. Studien zu Fichte-Konfrontationen von Rousseau bis Kierkegaard, “Fichte-Studien Supplementa”, vol. 4, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1994, pp. 159-186.
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sperazione: dover ammettere che il pentimento sia stato un inganno, non riguardo al perdono cristianamente inteso che esso cercherebbe, bensì riguardo all’imputazione (EO II, 253), che è il presupposto per il senso del pentimento e un divino perdono del pentito. La visione etica della vita si fonda, per lui, su ciò che è essenzialmente, – sul bene, «posto da ciò che è in sé e per sé», cioè la libertà (EO II, 239), dichiara l’uomo etico con, sullo sfondo, Platone e Fichte.
2.1. La scelta del Sé morale nell’orizzonte dell’assoluto La qualità dell’atto di passaggio dallo stadio estetico-sognante a quello etico-responsabile è una decisione del volere10. L’Io concreto oltrepassa la soglia compiendo, con l’«intera interiorità della personalità» l’azione di scegliere il suo proprio Sé in maniera incondizionata. La scelta etica di Sé (EO II, 178, 188 s., 219, 227 s.), nella quale si costituisce la soggettività realmente esistente, contiene da un lato il momento della spontaneità, che ricorda l’azione in atto (Thathandlung) di Fichte, che è una posizione spontanea dell’Io; dall’altro la scelta del Sé contiene il momento del passivo accogliersi (EO II, 188; 219; 229 s.), che include l’assunzione e l’accettazione della fatticità data. È degno di nota che Kierkegaard concepisca il momento dell’auto-assunzione e quello dell’auto-posizione come atti di libertà etica. La difficoltà sta proprio nell’accogliersi. Nell’atto pratico della scelta incondizionata di se stesso, la dimensione dell’autoreferenzialità conoscente è compresente come elemento costitutivo. Kierkegaard ammette una inconsapevole teleologia dell’anima: «La personalità vuole divenire consapevole di se stessa nella sua eterna validità» (EO II, 201). Sarebbe 10. Cfr. W. Greve, Kierkegaards maieutische Ethik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1990; M. Theunissen - W. Greve (Hrsg.), Materialien zur Philosophie Sören Kierkegaards, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979.
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tuttavia tipico delle «individualità infelici» che il loro divenire consapevoli del proprio inestinguibile Sé, il cui «ricordo alcun tempo mai estinguerà», appaia ad esse come un cadere prigioniere, donde il sentimento di un tormento che prevale sulla grazia. Per ciascun Io il movimento in cui esso si sforza di chiarire per sé, in un’autentica ricerca su se stesso, la propria storia personale, il proprio personale esser-divenuto, mostrerebbe «qualcosa di doloroso», non compreso, irrisolto. Perciò al fine della identificazione con la propria biografia, compreso quel che vi è di gravoso, identificazione richiesta dalla scelta di se stesso, è necessario coraggio etico (EO II, 219, 228 s., 235 s.). Il Sé riceve una risposta positiva nel compimento della scelta di sé, ma non nel senso di una dissimulante «innocenza del divenire», bensì – poiché con il divenire consapevole di sé insieme si sveglia la passione della libertà – con una comprensione viva della propria sfera di responsabilità. Perciò la persona deve riconoscersi colpevole. Nel pentimento, quale «dolore più amaro» cui compete «la completa trasparenza della colpa» (EO I, 159), la persona deve confessare qualcosa che ha compiuto in passato, che ora e per ogni tempo vuole decisamente come non accaduto. Così essa si disgrega in se stessa, disperata del suo proprio fare ed essere. Nel fenomeno del pentimento Kierkegaard mostra in modo esemplare la sua idea di una dialettica degli stadi. Essa significa che ogni stadio, eccetto quello religioso, tende a dissolversi ed è destinato a cercare un’unità più elevata. La dialettica dell’esistenza (UN II, 10, 199 s.) si mostra, ad es., nel fatto che la conciliazione soggettiva attraverso l’arte si basa sulla riconciliazione oggettiva e che sia nell’estetico che nell’etico è presente una teleologia in direzione della riconciliazione attraverso Cristo. Il fenomeno del pentimento indica limiti per l’autonoma auto-costituzione; esso è la «massima espressione» della visione etica dell’esistenza, ma allo stesso tempo della sua «auto-contraddizione» (Tg I, 307). Nella discrepanza tra dover
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essere ed essere, irrisolvibile per l’Io, divampa la fede nella riconciliazione che sovrasta l’intelletto finito, conciliazione che la fede osa rivendicare per sé. Nel pentimento, in cui deve imbattersi il singolo Io nel compiere la libera scelta etica quanto è vero che diventa trasparente a se stesso nella coscienza morale, convergono la spontanea auto-costituzione dell’Io e il riconoscimento di Dio, che è il fondamento supremo per il divenire Sé. Il superamento del pentimento, nella trasformazione etica dell’esistenza e nella nuova capacità di agire, riesce per mezzo di un ritrarsi-in-sé del singolo, «fino a che trova se stesso in Dio». La scelta etica del Sé è amare Dio nel pentimento, cosicché egli «sceglie assolutamente» il proprio Sé, «partendo dalla mano eterna di Dio» (EO II, 230). Pentirsi è la vivente espressione per l’intima lotta in vista del guadagno di se stesso, in cui cerca di sintetizzare la certezza dell’immortalità della sua essenza con l’infinita concrezione nella pienezza vissuta e nel peso sofferto della sua vita. Per Kierkegaard, il vero rapporto di sé con se stesso è mediato attraverso il riferimento a Dio. Questo autoriferimento mediato teonomicamente, secondo la tradizione agostiniana, è un movimento di interiorizzazione in cui il Sé, cercando e trovando il Dio trascendente, che per lui è indisponibile, trova la profondità della sua propria essenza. Che l’atto della scelta di Sé implichi serietà che fa tremare l’anima, che la scelta sia accompagnata da angoscia, in Aut-Aut Kierkegaard lo interpreta attraverso l’etico, il quale è preoccupato per il suo giovane amico, che vive come estetico: «Che cosa temi?». Divenire consapevole di se stesso nella sua «eterna validità» è un attimo che è più carico di significato di qualsiasi altro al mondo. È «come se tu fossi prigioniero di te stesso e non potessi mai più sfuggire nel tempo e nell’eternità»; ed è – paradossalmente – così, «come se tu ti perdessi e cessassi di essere». Quale attimo, «quando ci si unisce per una eternità a una potenza eterna», quando ci si accoglie come Io personale, «il cui ricordo nessun tempo estin-
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guerà mai!» (EO II, 219). In tal modo ogni Io vivente è teso tra freddo voler esistere e malinconico non voler esistere, temendo tanto la libertà vincolata quanto quella sfrenata, nell’angoscia davanti al conquistarsi come del perdersi, cioè tra essere e nonessere, vita e morte, eternità sperata e rovina temuta.
2.2. Il superamento del dubbio e della disperazione mediante la scelta dell’eterno Se il singolo ha compreso un’obbligazione sotto una «responsabilità eterna» (EO II, 288), allora si sa coram Deo. L’etico, in Aut-Aut, che segretamente è già un homo religiosus cristiano, dispone di «un’unica categoria»: il singolo e la scelta, che decide del divenir vero del Sé nel «rapporto assoluto» con Dio. Questa categoria non è, come in Hegel, di rango logicoontologico, bensì etico-religioso. La scelta del Sé in Aut-Aut include – così come la dottrina del diritto di Fichte coinvolge la corporeità – la piena concrezione dell’Io (BA, 60-65). Per Kierkegaard essa è nel contempo religiosa, e ricorda la tarda dottrina di Fichte secondo cui ogni Io deve trovarsi come immagine dell’assoluto11, ma senza lo spinozismo atmosferico di Fichte, che prevede l’auto-immersione del libero Io nell’essere assoluto. La scelta di Sé, così come Kierkegaard l’ha prospettata, è eticamente, nella sua struttura, un atto che pone esistenzialmente Dio, che egli concentra come nello specchio ustorio nelle parole: «Io scelgo l’assoluto, che mi sceglie; io pongo l’assoluto che mi pone» (EO II, 227)12.
11. Cfr. X. Tilliette, La théorie de l’image chez Fichte, in «Archives de Philosophie», vol. 25, 1962, pp. 541-554. 12. Cfr. E. Düsing, Sittliche Bewusstwerdung und Sich-Finden des Selbst in Gott bei Fichte und Kierkegaard, in J. Stolzenberg - S. Rapic (Hrsg.), Kierkegaard und Fichte. Praktische und religiöse Subjektivität, “Kierkegaard Studies Monograph Series”, vol. 22, Walter de Gruyter, Berlin 2010, pp. 155-208.
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La fondazione fichtiana dell’unità dell’appercezione o dell’Iopenso teoretico nell’unità etico-pratica dell’Io-voglio – che egli sviluppa nella Dottrina della scienza nova methodo13 – viene ripensata da Kierkegaard in modo originale in queste parole. Infatti, «Io scelgo» l’assoluto è per Kierkegaard l’atto pratico di riconoscimento affermativo dell’assoluto; mentre «Io pongo» l’assoluto! è, invece, l’atto teoretico che segue l’atto pratico: «voglio che Dio sia!», che accoglie nel pensiero l’essere di Dio. Questa scelta pratica, questo porre Dio nel pensiero da parte dell’Io concreto, mostra la consapevolezza del suo essere attivamente scelto e creato da Dio. L’Io comprende e sigilla in ciò il suo essere accettato e coglie la realtà dialogico-metafisica che Fichte ha descritto nell’Introduzione alla vita beata come il prender consapevolezza del nostro «eterno essere amati» (SW V, 540) – che si deve interpretare sullo sfondo del Vangelo di Giovanni (3,16). Il concetto di Kierkegaard del vero Sé mostra un andamento argomentativo complesso, in cui egli pone in relazione reciproca autocoscienza, coscienza del dovere e coscienza di Dio e le espone come direzioni di spiegazione e decisioni fondamentali etico-religiose dell’Io. Egli mostra che l’Io concreto si costituisce attraverso un in sé duplice movimento spirituale di libera auto-fondazione ed essere fondato da Dio. Kierkegaard prosegue questa idea della connessione tra componenti autonome e teonomiche nella scelta del Sé nella Malattia mortale, spiegando brevemente l’atto spirituale che deve superare ogni tipo di disperazione, che deve anzi ottenere la salvezza dal bas-
13. Cfr. M. Ivaldo, Die systematische Position der Ethik nach der Wissenschaftslehre nova methodo und der Sittenlehre 1798, in «Fichte-Studien», vol. 16, 1999, pp. 237-257; E. Düsing, Zum Verhältnis von Intelligenz und Wille bei Fichte und Hegel, in B. Tuschling (Hrsg.), Psychologie und Anthropologie oder Philosophie des Geistes, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1991, pp. 197-133.
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so verso l’alto, come segue: Il Sé «si fonda in modo trasparente nella potenza che lo ha creato» (KzT, 134). L’azione soggettiva di un tale fondarsi, che conosce il fondamento portante del proprio poter-essere-Sé, è la fede. Secondo la tarda concezione degli stadi, la fede religiosa è attraversata da una duplice interruzione: il libero Sé deve passare dallo stadio esteticoedonistico a quello etico e, confidando in Dio, osare un «salto» nello stadio cristiano-religioso, che qualitativamente conduce oltre l’essere solo «un’evoluzione all’interno della natura umana» (UN II, 270). La scelta di Sé di Kierkegaard ricorda, nella sua qualità etica, la kantiana rivoluzione nel modo di pensare, in quella religiosa la metanoia del Nuovo Testamento. Poter sviluppare il proprio libero Sé, è per Kierkegaard una concessione fattaci dal Dio personale cristianamente inteso, il quale ha voluto una grande varietà di personalità pensanti e agenti liberamente e vuole conquistarle come loro creatore e redentore mentre cercano e trovano se stesse. In tal modo Kierkegaard porta a termine l’itinerario che va dal primo idealistico cogito ergo sum di Cartesio, vicino all’Io autoponentesi di Fichte, al tardo idealistico amatus/amata ergo sum, vicino all’ultimo Fichte e all’ultimo Schelling. In realtà, aver bisogno di Dio, non solo nel senso di un postulato della ragion pratica prodotto intellettualmente e spontaneamente affinché questa non subisca l’assurdità di un Sisifo, ma in senso concretamente esistenziale, è ritenuto da Kierkegaard contrassegno della perfezione dell’uomo. (Ringrazio di cuore Giannino Di Tommaso per la traduzione italiana di questo saggio)
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La genesi della filosofia elementare di Schopenhauer dalla critica alla dottrina delle facoltà di Kant di Matteo Vincenzo d’Alfonso
Nel 1814 Arthur Schopenhauer pubblica la sua dissertazione, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, presentata in absentia presso l’Università di Jena il 2 ottobre dell’anno precedente1. Si tratta di un agile lavoro di 148 pagine, che apparentemente tratta di uno specifico argomento, il principio di ragione sufficiente riguardato nelle sue quattro forme di manifestazione, ma che in realtà racchiude i lineamenti della sua intera gnoseologia e quindi, in forza della rigorosa posizione idealistica del filosofo, dell’intera realtà empirica. Nella Quadruplice radice ritroviamo infatti tre elementi fondativi del suo nascente sistema di filosofia trascendentale, ossia: 1) una nuova e sistematica riorganizzazione e ridefinizione delle nostre facoltà conoscitive – sensibilità, intelletto e ragione – e appetitive – il volere; 2) la classificazione esaustiva delle tipologie di rappresentazioni definita in relazione alle facoltà che le amministrano – che per Schopenhauer rappresentano letteralmente «classi di oggetti per il soggetto»2; 3) l’illustrazione delle forme di con1. Il volume esce nel 1814 riportando tuttavia come luogo e data di pubblicazione: Rudolstadt, 1813. 2. Ricapitolo brevemente il suo contenuto teorico: gli oggetti di matematica e geometria sono creati e amministrati dalla pura sensibilità; le rappre-
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nessione che, entro ciascuna classe, legano in maniera esclusiva e necessaria le rappresentazioni tra loro, presentate come quattro diversi aspetti di un unico principio trascendentale, il principio di ragione sufficiente, che, a seconda della classe di oggetti che connette e della facoltà grazie a cui tale tipo di rappresentazioni si manifesta, acquista la specifica forma di principium rationis sufficientis essendi, fiendi, cognoscendi o agendi, determinando a priori quale rappresentazione segua necessariamente ad una rappresentazione data. Si tratta, con ogni evidenza, di un lavoro guidato da uno spirito lucidamente analitico e fortemente sistematico che permette di definire la Quadruplice radice una «filosofia elementare» – per riprendere la terminologia con cui Reinhold aveva definito il proprio tentativo di sistematizzazione della filosofia kantiana – ossia una esposizione formale degli elementi che stanno a fondamento di un sistema filosofico. In effetti quando cinque anni dopo la dissertazione pubblicherà il suo sistema, Il mondo come volontà e rappresentazione, richiamerà fin dalle sue prime pagine la Quadruplice radice come suo necessario presupposto e quando molti anni dopo Schopenhauer rileggerà gli appunti stesi tra il 1812 e il 1814, li commenterà, tra l’inorgoglito e il sorpreso, con le parole: «È notevole che già nel 1814 (il mio ventisettesimo anno d’età) si precisino tutti i dogmi del mio sistema, anche quelli subordinati»3. sentazioni complete appartenenti al tutto dell’esperienza, gli oggetti fisici propriamente detti, risultano messi in forma nello spazio fuori di noi da un’ininvestigabile operazione che l’intelletto, a partire dalle alterazioni soggettive della nostra sensibilità, operante in primis attraverso la causalità; e inoltre l’intelletto, grazie alla categoria della causalità, connette tali rappresentazioni oggettive tra di loro a dare la nostra esperienza del mondo fisico; i concetti, definiti come rappresentazioni di rappresentazioni, sono costituiti per astrazione dalla ragione, che poi li connette tra di loro prima nei giudizi e poi nei sillogismi; e infine la rappresentazione del soggetto volente come unica manifestazione della soggettività che possiamo conoscere. 3. A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß. Band 1. Frühe Manuskripte (1804-1818) [= HN 1], DTV, München 1985, p. 113; tr. it., Scritti
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Ora, se quanto su esposto è nella sua essenza noto, quello su cui vorrei mettere l’accento nel prosieguo di questo contributo è il fatto che questa soluzione non sarebbe stata possibile senza un lungo lavoro di approfondimento critico della filosofia kantiana, messo in moto dal progressivo rifiuto della filosofia di Fichte nel corso della frequentazione delle sue lezioni a Berlino. Un confronto con Kant svolto con l’intenzione di proseguire e portare a compimento il criticismo, a partire dalla consapevolezza che il progetto di filosofia critica inaugurato da Kant si sarebbe arenato a causa di una serie di fallacie, le quali avrebbero inoltre aperto la strada alle erronee sistematizzazioni idealistiche della filosofia trascendentale. La capostipite delle fallacie kantiane è da Schopenhauer presto individuata nell’avere Kant ascritto alla ragione umana, accanto a una funzione in ambito teoretico, anche un’imprescindibile funzione in ambito pratico. Quello che intendo mostrare è quindi innanzitutto come quella che definisco la filosofia elementare di Schopenhauer, che nella sua esposizione viene fatta ruotare intorno a una più accurata analisi del principio di ragion sufficiente, in realtà trova origine in una riformulazione critica della dottrina delle facoltà kantiane, prima fra tutte della ragione; poi che solo a partire da questo ridimensionamento delle funzioni della ragione, abbia potuto progressivamente prendere corpo anche l’ipotesi di un parallelismo tra facoltà e classi di rappresentazioni, nonché della necessità di una specifica forma della loro connessione, secondo quanto sopra esposto; e infine che tale fondamentale ridefinizione delle facoltà kantiane si sia imposta proprio per arrestare a priori un esito del criticismo in direzione fichtiana, che si radicherebbe nell’esasperazione capziosa dell’errore kantiano. Sosterrò questa ipotesi genetica della posizione di Schopenhauer appoggiandomi sui materiali manoscritti che hanno registrapostumi. Volume I. I manoscritti giovanili (1804-1818) [= SP 1], a cura di S. Barbera, Adelphi, Milano, 1996, p. 149.
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to il maturare della sua speculazione durante gli anni di studio berlinesi mesi immediatamente precedenti alla dissertazione.
Da Fichte a Kant Gli appunti di studio e lavoro che il giovane Schopenhauer ha steso negli anni di formazione e che conducono gradualmente alla cristallizzazione dei temi della dissertazione – materiali che ci sono pervenuti quasi integralmente – mostrano che la sua maturazione filosofica si nutre di un permanente confronto con la filosofia kantiana, verso la quale il giovane Schopenhauer passa da un’entusiastica adesione acritica a una progressiva presa di distanza. Pur continuando a considerare Kant il pensatore che ha inaugurato una nuova epoca in filosofia e pur attribuendo all’impresa critica il merito di porre le basi per poter dare una risposta scientifica all’enigma del mondo, già a partire dal 1811 Schopenhauer comincia a considerare che la forma kantiana del criticismo non possa essere quella definitiva e, dal 1812, a sospettare che buona parte della responsabilità delle degenerazioni idealistiche – fichtiane e, in subordine, schellinghiane – vada ricercata negli errori di Kant4. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tuttavia, i sospetti nei confronti di Kant non emergono in occasione della frequentazione dei corsi di Schulze a Göttingen, che pure nelle sue lezioni ribadisce le sue contestazioni alla Critica della ragion pura già presentate nell’Aenesidemus. Certo anche le
4. Questi materiali sono stati diversamente presi in considerazione nelle seguenti monografie: Y. Kamata, Der junge Schopenhauer. Genese des Grundgedankens der Welt als Wille und Vorstellung, Alber, Freiburg-München 1988; N. De Cian, Redenzione, colpa, salvezza. All’origine della filosofia di Schopenhauer, Verifiche, Trento 2002; e, più recentemente, A. Novembre, Il giovane Schopenhauer. L’origine della metafisica della volontà, Mimesis, Milano-Udine 2018.
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critiche schulziane saranno accolte da Schopenhauer, a cominciare dalla critica all’uso trascendente della causalità che sarà esplicitamente ripresa già nella Dissertazione. Tuttavia nelle note prese a margine degli appunti del corso di Schulze5 il giovane Schopenhauer appare costantemente preoccupato di ribadire la superiorità speculativa di Kant rispetto alla mediocrità del suo contestatore. Viceversa, è in occasione delle successive lezioni di Fichte a Berlino e della parallela lettura delle opere sue e di Schelling, che Schopenhauer comincia a raccogliere i primi indizi intorno a possibili errori della filosofia kantiana, il più importante dei quali risiede nella definizione di «ragione pratica». È infatti in uno dei commenti ai contenuti del corso di Fichte sui Fatti della coscienza6 che troviamo la prima traccia di un dubbio sostanziale nei confronti della filosofia kantiana. Nel corso delle prime lezioni fichtiane, che segue con partecipe interesse – visto che la scelta di trasferirsi da Göttingen a Berlino fu motivata dal desiderio di ascoltare in Fichte «un vero filosofo» –, Schopenhauer risulta costantemente preoccupato di ricondurre le formulazioni fichtiane alla lettera kantiana o, quando ciò risulta impossibile, di difendere la posizione di Kant contro quella di Fichte. Da un certo momento in poi però la sua «prigionia nella filosofia elementare kantiana»7 – come lui stesso definisce la propria posizione – subisce una crisi, e, significativamente, 5. Cfr. M.V. d’Alfonso, Schopenhauers Kollegnachschriften der Metaphysikund Psychologievorlesungen von G. E. Schulze (Göttingen, 1810-11), Ergon, Würzburg 2008. 6. A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlaß. Band 2. Kritische Auseinandersetzungen (1809-1818) [= HN 2], DTV, München 1985, pp. 29-82. Gli appunti schopenhaueriani sui Fatti della coscienza vengono presentati e commentati in A. Novembre, Invito alla libertà: il principio della filosofia. Il corso di Fichte sui “Fatti della Coscienza” 1811-12, Ed. Accademia Vivarium Novum, Roma 2018. 7. Cfr. HN 2, 38.
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ciò avviene nel corso delle lezioni sui Fatti della coscienza, là dove Fichte passa a trattare i «fatti della coscienza superiore», ovvero inizia a esporre la sua filosofia pratica8. Nel commentare questo passaggio il giovane Schopenhauer elabora un’ampia e articolata critica alla posizione di Fichte che si conclude manifestando un primo sospetto nei confronti di Kant: Faccio un tentativo di chiarire come questa favola si sia svolta nel cervello di Fichte. Egli vuole idealismo! Che lo voglia è l’esito della sua personale incomprensione della dottrina kantiana, forse a sua volta occasionata da un’incompiutezza della dottrina kantiana. (HN 2, 60; mia enfasi)
Da qui in poi gli appunti schopenhaueriani sollevano ripetutamente la critica al presupposto che la ragione svolga una qualche funzione nell’orientare la nostra azione morale, ovvero, detto in termini kantiani, che essa sia a qualche titolo responsabile delle istanze manifestateci dal nostro sentimento del dovere e codificate dall’imperativo categorico. Non deve stupire che questa scoperta avvenga durante la frequentazione di Fichte, visto che proprio quest’ultimo, così come il primo Schelling suo iniziale seguace, aveva fatto del primato della ragione pratica la chiave di volta della proposta di sistematizzazione della filosofia trascendentale in senso idealistico. Peraltro questa posizione nel Fichte berlinese si era andata accentuando per giungere ad attribuire al dovere morale, nella forma del Soll, una specifica funzione sistematica nell’articolazione degli schemi dell’Assoluto9. È quindi un’importante spia della dinamica di pensiero
8. Cfr. HN 2, 63. 9. Si veda a questo proposito la parodia schopenhaueriana del sistema berlinese di Fichte nel suo Fichtes bleiernes Märchen, in HN 2, 341 s. Un commento di questo testo che per la prima volta ne colloca correttamente il valore nel percorso schopenhaueriano, riconoscendo nel testo chiari riferimenti alle specificità del Fichte berlinese è offerto in G. Zöller, Kichtenhauer. Der Ursprung von Schopenhauers Welt als Wille und Vorstellung in Fichtes Wis-
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del giovane Schopenhauer il fatto che, una volta accertata e progressivamente rifiutata la posizione di Fichte, egli vada in cerca dell’origine dei suoi errori nella filosofia di Kant da cui essa proviene10 e non si spaventi di contestarne un punto così fondamentale, quale l’assunzione della funzione pratica della ragione. Si può dire che la repulsione rapidamente maturata per il sistema fichtiano, proprio per la pretesa di Fichte di valere come più autentico interprete dello spirito della filosofia kantiana contro la sua lettera, costringe Schopenhauer a ritornare sulla lettera kantiana, per confutare quei tratti della sua dottrina su cui Fichte ha potuto costruire il proprio sistema.
«Coscienza migliore» contro «ragione pratica» Per comprendere la misura della contraddizione che Schopenhauer rileva nella filosofia kantiana va però ancora fatta una breve premessa, volta ad illustrare un concetto per lui fondamentale negli anni della formazione, ma che scomparirà
senschaftslehre 1812 und System der Sittenlehre, in L. Hühn - P. Schwab (Hrsg.), Die Ethik Arthur Schopenhauers im Ausgang vom Deutschen Idealismus (Fichte/Schelling), Ergon, Würzburg 2006. Più di recente, e nell’ambito di una più generale valorizzazione del confronto di Schopenhauer con Fichte vi ha scritto Alessandro Novembre, nel suo Il giovane Schopenhauer, cit. 10. Oltre alle dichiarazioni di parentela con la filosofia kantiana, da Fichte stesso ripetutamente rivendicate, a Schopenhauer, la Dottrina della scienza era stata presentata come una fallimentare prosecuzione della filosofia di Kant anche da parte di Schulze nelle sue Lezioni di metafisica: «Fichte wollte anfänglich der Absicht, die Kant bey seinem transcendentalen Idealismus gehabt hatte, nur eine vollendetere und der Wißenschaftlichen Form mehr entsprechende Darstellung geben, gerieth aber dadurch auf das System der Wißenschaftslehre, welches nach den Resultaten der Vernunftkritik eine abermalige Verirrung des menschlichen Geistes ist und eine Gehalt und Wahrheitslose Spekulation über den überphysischen Grund der Welt ausmacht» (cit. in M.V. d’Alfonso, Schopenhauers Kollegnachschriften, cit., p. 102).
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nel corso dell’elaborazione del sistema: quello di coscienza migliore – anch’esso elaborato nel periodo berlinese e presumibilmente ispirato al già citato concetto di «coscienza superiore» (höheres Bewußtsein) di cui questi parlava ne I fatti della coscienza11. Il rigoroso dualismo che a partire dal Mondo prenderà la forma della contrapposizione tra volontà e rappresentazione è da Schopenhauer inizialmente rilevato all’interno della stessa coscienza individuale, che questi interpreta come scissa nelle due forme reciprocamente escludentesi e del tutto inconciliabili di coscienza empirica e coscienza migliore. Con coscienza empirica Schopenhauer si riferisce a tutti quei contenuti della nostra coscienza riferibili al mondo sensibile, ordinati nello spaziotempo e sintetizzati nelle forme pure dell’intelletto. Al contrario la coscienza migliore è il luogo in cui si manifesta il nostro rapporto al mondo soprasensibile, laddove noi prendiamo consapevolezza della nostra vocazione estetica e della nostra forza morale. Inoltre, secondo il modello rigidamente binario che Schopenhauer non abbandonerà mai, l’appresentarsi della coscienza migliore mette immediatamente fuori gioco la nostra coscienza empirica ed ogni contenuto da essa veicolato. Si ritrova qui un’importante analogia con la teorizzazione kantiana, per la quale il nostro senso del dovere veicolato dall’imperativo categorico possiede la forza di privare le nostre inclinazioni di ogni potere sulla nostra volontà, e del resto a questo primigenio
11. Franco Volpi propone la seguente definizione di «coscienza migliore», nella sua Introduzione al primo volume degli Scritti postumi: «La “coscienza migliore”, ricavata da una duplicazione della coscienza e contrapposta alla coscienza empirica che sottostà alla legge di causalità e principio di ragion sufficiente, è una sorta di cognizione metafisica extratemporale a cui il giovane Schopenhauer assegna la funzione di squarciare il velo della rappresentazione, in modo da consentirci di vedere l’essenza metafisica della realtà, nella quale non v’è né individualità né causalità» (SP 1, XIV-XV).
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stadio della riflessione schopenhaueriana l’imperativo categorico rappresenta proprio una delle più limpide manifestazioni della nostra coscienza migliore12. Contrariamente alla sua posizione matura, infatti, Schopenhauer, nella fase iniziale della sua riflessione, almeno fino alla pubblicazione della Dissertazione, considera ancora valide tanto le categorie prese nel loro insieme, quanto l’imperativo categorico, che rappresenta l’irrompere nella nostra vita del soprasensibile, colto appunto nella nostra coscienza migliore13. Ma proprio il carattere dell’imperativo categorico di esprimere il nostro legame con il mondo soprasensibile, e quindi la sua manifestazione come coscienza migliore, lo rende incompatibile con la ragione, di cui per Kant rappresenta al contrario la più compiuta espressione in ambito pratico. Tra ragione teoretica e ragione pratica, Schopenhauer, invece di riscontrare una complementarità – quale quella che Kant fa emergere in esito alla dialettica trascendentale –, rinviene un’irrisolta contraddittorietà che alle condizioni kantiane gli appare insanabile e lo porterà infine a concludere che solo una delle due possa a pieno titolo definirsi ragione.
12. Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, testo tedesco a fronte, tr. it. di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 35 s.: «[L]a rappresentazione del dovere e, in generale, della legge morale pura e non mescolata con alcuna aggiunta estranea di impulsi sensibili, esercita sul cuore umano, per mezzo della sola ragione (che allora si rende conto di poter essere pratica per se stessa), un’influenza tanto più forte di quella di ogni altro movente reperibile sul terreno dell’esperienza, da spregiare, nella coscienza della propria dignità, questi impulsi e padroneggiarli a poco a poco». 13. Sul valore delle categorie e in particolare della causalità nel giovane Schopenhauer – fino alla dissertazione compresa, 1813 – rimando al mio Erfahrung und Erkenntnis. Die Rolle der Kategorien in Schopenhauers Dissertation von 1813, in D. Birnbacher (Hrsg.), Schopenhauer Wissenschaftstheorie: Der “Satz vom Grund”, Königshausen & Neumann, Würzburg 2015, pp. 29-43.
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Le contraddizioni di «Un sistemuccio» e la «distruzione» della ragione pratica Di qui l’esigenza, per Schopenhauer, di investigare che cosa vada davvero inteso con ragione e, in particolare, con ragione pratica, sicché possiamo passare a come concretamente Schopenhauer argomenta la sua critica alla ragione pratica kantiana. A questo fine egli formula una prima personale sistematizzazione della concezione filosofica della storia di stampo idealistico, stendendola in un lungo appunto, significativamente intitolato Un sistemuccio14, che illustra una felice concezione della natura, nel cui svolgersi regolare l’agire umano guidato dall’imperativo morale si ingrana positivamente senza alcuna soluzione di continuità. La funzione di questa sistematizzazione – chiaramente una caricatura della concezione leibnizio-kant-fichtiana della concezione secondo cui viviamo nel «migliore dei mondi possibili» – si può comprendere alla luce di un altro appunto coevo che recita: «Se troviamo contraddizioni nel mondo è segno che non siamo ancora in possesso del vero criticismo e consideriamo unico quello che è duplice»15. Nel confrontarsi con la filosofia kantiana va quindi operata una preliminare sistematizzazione dei suoi assunti, onde verificare quali contraddizioni essa lascia ancora aperte, o addirittura genera, e 14. Sandro Barbera, nella sua edizione dei Manoscritti giovanili (1804-1818), traduce in maniera neutrale il titoletto di questo testo Ein Systemchen con Un piccolo sistema. Ritengo tuttavia che in questo modo vada smarrito il tono larvatamente parodistico dell’operazione schopenhaueriana, e scelgo quindi la traduzione: Un sistemuccio. Un’interpretazione di questo testo con tratti differenti da quelli da me proposti la offre A. Novembre, Il giovane Schopenhauer, cit., pp. 255-258. Più in generale in questo periodo Schopenhauer non disdegna il sarcasmo nel riportare i filosofemi dei suoi contemporanei, come testimonia la parodia del sistema fichtiano presentata nella sua «Fichtes bleiernes Märchen in nuce» (HN 2, 341-342), commentata in G. Zöller, Kichtenhauer, cit., pp. 371-386. 15. HN 1, 24; SP 1, 32.
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procedere alla loro soluzione grazie a una più raffinata analisi dei suoi principi; secondo il presupposto che un principio suscettibile di dare vita a due conclusioni in contraddizione tra loro cela in sé una duplicità che si può esplicitare individuando i due differenti principi cui ciascuna di esse, singolarmente prese, è riconducibile. In questo modo la contraddizione tra due esiti di un unico principio si trasforma in contrapposizione tra due diversi principi reciprocamente escludentisi. Vediamo pertanto la strategia di Schopenhauer a partire dall’analisi del sistemuccio. Un sistemuccio La natura ha ovunque il suo scopo: procurare vita e benessere; e per quanto è possibile, perché la possibilità ha i suoi limiti […]. Dovunque sulla terra preme e sgorga la vita, dovunque è riconoscibile la teleologia e lo scopo di tutti gli scopi è benessere e vita. Anche il male fisico è solo un indice dei limiti che il raggiungimento di quello scopo incontra, esso interviene contro l’ordine e contro l’intenzione della natura, riconoscibile ovunque, di evitarlo. […] Nell’uomo si manifesta il grado supremo dell’autocoscienza, un grado così elevato che egli deve fare consapevolmente ciò che tutte le altre creature fanno inconsapevolmente – favorire la vita e il benessere: questo devi che si esprime nella sua coscienza è l’imperativo categorico –, egli deve volere ciò che la natura vuole […]. Poiché la nostra essenza più intima non mira che a favorire lo scopo della natura, e la nostra volontà pura non è che la sua volontà, si spiega la nostra intima letizia a vederla, di fronte alle sue forme, di cui l’arte dà la pura rappresentazione, di fronte alla musica, che imita nella massima varietà e vivacità l’unità e la regolarità – della natura. (HN 1, 34; SP 1, 28 s.)
Innanzitutto si tratta di trovare il punto in cui questa armoniosa descrizione del mondo possa rivelarsi concretamente contraddittoria. Dove risiede l’origine dell’inganno? Schopenhauer lo spiega nella maniera più chiara in un appunto del marzo 1812 – l’ultimo mese di lezioni fichtiane a Berlino – in cui leggiamo:
156 Kant chiama ragione la facoltà di determinare qualcosa a priori: e con ciò commette il grave errore (che trova il suo esempio in molti sistemi zoologici ecc.), di elevare un carattere inessenziale a caratteristica fondamentale di un genere e riunire le cose più eterogenee sotto una rubrica, e cioè, da un lato la facoltà dei sillogismi e della predeterminazione dell’esperienza in accordo alle condizioni della nostra natura; e d’altra parte ciò che costituisce il più intimo fondamento del nostro essere assoluto, che si eleva al di sopra di ogni esperienza e ogni natura sensibile e la dichiara come da considerare del tutto nulla. […] Chi non vede che qui non opera una medesima facoltà con due differenti modificazioni, ma due facoltà fondamentalmente differenti, che quindi non è lecito che portino lo stesso nome [?]. Soprattutto visto che questo nome comune è diventato la fonte di grandi errori: in particolare perché Kant e i suoi seguaci hanno voluto rendere effettiva l’identità della ragione in queste due modificazioni. (HN 2, 302)
Vediamo qui svelato quale sia l’abbaglio di Kant, derivante da una carenza di analisi: avere attribuito a una medesima facoltà, la ragione, la capacità di legiferare, tanto in ambito teoretico, quanto in ambito pratico. Questo equivoco sta alla base degli errori dei suoi seguaci idealisti, che su di esso hanno potuto fondare tanto la svalutazione dell’intelletto, quanto la sopravvalutazione della ragione, e soprattutto la funzionalizzazione della morale al nostro agire empirico e con ciò tornare a mischiare quanto dovrebbe rimanere rigorosamente distinto, i due ambiti di realtà testimoniati dalle due nostre forme di coscienza, empirica e migliore. Questo dovrà permettere non solo di mostrare che la moralità che si manifesta nella nostra coscienza migliore non è espressione della ragione, ma anche che la coscienza migliore è in linea di principio incompatibile con ogni espressione della ragione, tanto da dovere, a rigore, esser considerata il suo contrario. In Fichte, al contrario, la subordinazione del nostro agire al dovere morale fa divenire il Soll lo strumento con cui l’Assoluto si
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manifesta e interviene nel mondo, in accordo con la descrizione che nel Sistemuccio si fa di quanto il divino prescrive all’uomo e alla natura. È così, del resto, che per Fichte la libertà che caratterizza il soprasensibile si dispiega concretamente nella storia mondana evocata di continuo dal libero agire umano. Per Schopenhauer invece questa descrizione del rapporto tra individuo, natura e mondo, se forse permette una razionalizzazione di quest’ultimo, riconducendolo progressivamente alle forme dell’Io, di certo non veicola alcuna liberazione, ma semmai la definitiva subordinazione del soprasensibile a fini empirici, estinguendone al contempo ogni potenziale salvifico e autenticamente liberatorio. Per questa ragione il sistema fichtiano finisce per bandire dal mondo ogni possibile speranza di salvezza – che ancora il criticismo a metà di Kant lasciava aperto – meritando il giusto nome di fatalismo intelligibile. A ulteriore conferma di questa diagnosi, che affonda nell’equivoco di considerare la ragione come ancipite, Schopenhauer adduce anche la pretesa fichtiana di potere rendere l’imperativo categorico «concepibile». Una posizione che egli troverebbe espressa in una pagina della Dottrina morale e che commenta con le parole: p. 53. Concepibilità dell’imperativo categorico! Pensiero radicalmente scorretto, tenebra egizia! – Che il cielo ci scampi che esso divenga perfino concepibile! Proprio il fatto che resti qualcosa di inconcepibile, che questa miseria dell’intelletto e dei suoi concetti sia delimitato, condizionato, finito e ingannevole, questa certezza è il grande dono che ci ha fatto Kant! (HN 2, 348-349)
Si tratta di un’accusa che trova eco in un commento di sintesi all’intera filosofia fichtiana e che lo riconnette alla critica a Kant che abbiamo letto in apertura, guidandoci al termine della sua argomentazione:
158 Il coronamento della dottrina fichtiana è di rendere l’imperativo categorico concepibile (dottrina dell’etica) e farlo consegui re da leggi necessarie. È mai esistito un imitatore che più di lui ha parodiato il suo modello non comprendendo l’essenziale ed esagerando l’inessenziale? (HN II, 357)
È con ciò definitivamente conclusa da parte di Schopenhauer l’analisi della confusione originata dall’assunto che la ragione possa avere una duplice funzione, teoretica e pratica, ed egli può tirare la definitiva conclusione: Il nome ragione deve spettare solamente o al teoretico o al pratico. L’uso della lingua tedesca lo ha dato da sempre al teoretico e con ciò ha indicato maggiori chiarezza e abilità intellettuali. Di ragione pratica (in questo senso) ha parlato per primo Kant. – Essa deve prendere un altro nome. (HN II, 304)
Ragione, intelletto, sensibilità La ricerca intorno alla definizione delle nostre facoltà cognitive non si arresta però qui. Il principio di omogeneità e specificazione correttamente applicato al concetto di ragione impone subito di ridefinire anche la funzione dell’intelletto. Anche qui infatti Kant è stato carente e all’unificazione di quanto è distinto in nome di un «carattere inessenziale» ha aggiunto l’errore ad esso speculare di «distinguere ciò che è una sola cosa, ovvero intelletto e ragione teoretica»16: Per lui è l’intelletto ad attribuire la caratteristica ad una cosa e la ragione ad attribuirle la caratteristica della caratteristica. Per esempio: l’intelletto formula il giudizio: l’acqua bolle; la ragione la conclusione: l’acqua è calda perché bolle. Ma chi non vede che qui opera una sola facoltà con soltanto maggiore
16. HN 2, 303.
159 o minore abilità. Si potrebbe dichiarare i sillogismi opera della memoria [?]. Anche gli animali tirano conclusioni, altrimenti il cane non proverebbe paura quando lo si spenzola dalla finestra: egli sa a priori che il peso è causa del suo precipitare e il precipitare causa del suo sfracellarsi. Insomma quello che deve accadere lo sa anche lui, mentre del Sollen incondizionato solo l’uomo si fa un concetto. (HN 2, 303)
Per quanto specifica la discussione possa apparire qui, la grande importanza per Schopenhauer di avere conseguito una più corretta definizione delle nostre facoltà conoscitive è testimoniata dal primo appunto in cui si formula l’ipotesi guida della dissertazione, dove in forma ancora embrionale e spuria il discorso sulle facoltà si salda alle prime riflessioni sul principio di ragione sufficiente – come peraltro già in questa riflessione sulla «ragionevole» paura di morire del cane è implicitamente anticipato: Il principium rationis sufficientis sembra essere l’impulso a cercare la condizione del condizionato. Forse si potrebbe chiamare intelletto ciò che va in cerca della causa di un mutamento e ragione ciò che cerca il fondamento di un giudizio. Entrambi cercano una condizione, che però è del tutto diversa: il nostro giudizio è condizionato da un altro giudizio o dalla percezione sensibile; un mutamento da un altro mutamento. […] Può reggere una distinzione siffatta? (HN II, 276; mia enfasi)
Si tratta di un’ipotesi formulata ancora in maniera molto cauta, ma che tramite le ulteriori determinazioni di tutti gli elementi qui presenti costituirà l’intelaiatura della proposta elaborata nella dissertazione e di qui il fondamento della filosofia elementare schopenhaueriana, mostrando come questa si allacci alla critica della teoria delle facoltà proposta da Kant a partire dalla sua messa in crisi tramite l’approfondimento dei suoi esiti in Fichte.
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Conclusioni La ricostruzione qui offerta rivela un percorso della genesi delle questioni affatto diverso da quello in cui esse vengono presentate nella Dissertazione. Preminente, in senso euristicogenetico, è stata la distinzione tra le facoltà di ragione e intelletto a partire dall’attribuzione alla razionalità del suo corretto ambito di esercizio, quello solamente teoretico; e l’ipotesi di connettere a queste facoltà diverse radici del principio di ragione sufficiente non è che la prima ricaduta di quell’analisi guidata dal principio di omogeneità e specificazione. L’inversione fatta nella Dissertazione dell’ordine tra le due questioni, dove si presenta l’applicazione delle leggi di omogeneità e specificazione innanzitutto al principio di ragione sufficiente e solo in subordine alle nostre facoltà cognitive, è un importante indizio di ciò che Schopenhauer intende mettere al centro della sua teoria. Per lui è fondamentale avere individuato una legge costitutiva del darsi fenomenico del mondo – il principio di ragione sufficiente – che gli permette di porre esplicitamente l’accento sul trascendentalismo della sua proposta filosofica, cui un’enfasi sulle facoltà avrebbe invece dato una coloritura psicologistica e più nel solco della tradizione leibnizio-wolffiana che dell’orientamento critico inaugurato da Kant. Mi permetto infine un’osservazione di carattere più generale, anche a giustificare la criptocitazione del titolo dell’opera di György Lukács La distruzione della ragione. La via dell’irrazionalismo da Schelling a Hitler (1955). Queste prime riflessioni mostrano chiaramente che non è la ragione tout court il bersaglio di Schopenhauer, ma la sola ragione pratica, ovvero la fiducia nel valore autenticamente morale della funzione che la ragione svolge nel governo delle nostre azioni. Vale qui citare per l’ultima volta un passo degli appunti giovanili schopenhaueriani: «L’essere umano si trova davanti alla scelta se vuole essere ragione o coscienza migliore. Se vuole essere ragione diven-
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terà, come ragione teoretica, un filisteo, come ragione pratica un mascalzone» (HN I, 23). Vediamo che in questi termini la ragione viene ridotta senza resto a quanto Horkheimer definirà ragione strumentale, sicché razionale diventa sinonimo di orientato alla massimizzazione del proprio individuale profitto e alla soddisfazione dei propri impulsi egoistici. Ritengo importante indicare questa opzione emergente dalla critica schopenhaueriana a Kant e Fichte perché mi pare che non si discosti sensibilmente dal paradigma ancora dominante dell’interpretazione della ragione, mentre fatica invece molto ad esser presa seriamente in considerazione la razionalità come efficace strumento del temperamento della nostra struttura pulsionale. In questo senso ritornare sulla critica schopenhaueriana a Fichte, per verificare se non riposi su una fallacia più fondamentale di quella da lui imputata a Kant, può avere una funzione di positivo chiarimento della nostra posizione di individui nel mondo naturale e sociale.
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Atto, differenza, contingenza. Su alcune implicazioni ontologiche della filosofia trascendentale di Fichte di Sandro Palazzo
1. Impostazione del problema di una ontologia trascendentale 1.1. Ontologia e logologia Intendo presentare qualche nota sulla possibilità di ripensare una ontologia trascendentale a partire dall’interrogazione di alcuni luoghi fichtiani. Il ripercorrimento di quei luoghi non ha alcuna pretesa di esaustività; è d’altronde opportuno dichiarare da subito che il compito storico-filosofico di analisi e contestualizzazione dei testi è qui funzionale all’intento teoretico di abbozzare un’ipotesi di lavoro sulla fecondità di un’impostazione filosofica, quella appunto trascendentale, per molti versi distante dall’“aria dei tempi”. Vorrei esplicitare da subito, e in modo programmatico, le direttrici lungo cui quell’ipotesi intende muoversi. Il primo luogo, mi pare che la filosofia, là dove ancora possa e voglia non derogare al proprio statuto peculiare, debba smarcarsi dall’interdizione, caratteristica di molte filosofie contemporanee, all’istanza universalistica e necessaria del sapere speculativo. Si tratta di riabilitare la pretesa, forse ingenua ma difficilmente revocabile, a una verità incontrovertibile, che con-
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noti la filosofia come ontologia, cioè, in termini generalissimi, come sapere dell’essere. L’essere d’altra parte non andrà inteso come alcunché di inerte, bensì come ciò che appare, e che appare in quel sapere, e in tal senso come attualità. In secondo luogo, ciò che va mostrato è come, sul piano fondativo, il vero discrimine tra i modi di articolazione del sapere dell’essere risieda nell’alternativa trascendenza/immanenza, anteriore e più radicale rispetto ad altre “classiche” coppie oppositive (realismo/idealismo, empirismo/razionalismo, ecc.). In questa alternativa si decide della relazione tra il sapere come atto e le differenze (tra cui lo stesso sapere dell’essere) in cui quell’atto appare. In terzo luogo, ed è questa la peculiarità dell’impostazione trascendentale, l’ontologia, se non vuole ricadere nel dogmatismo, deve essere insieme epistemologia e aletologia, ovvero indagine sui modi in cui il pensiero può pensare l’essere o l’essere farsi accessibile al sapere: in altri termini, sapere del sapere. È questo il versante propriamente trascendentale della questione filosofica. In una lettera ad Appia, Fichte scrive che la filosofia trascendentale deve penetrare «quell’unità originaria dell’essere e della coscienza in ciò che essa è in sé. Chiamo questa unità ragione, ὁ λόγος; e quindi il sistema: sapere del sapere scientifico [Wißenschaftslehre], λογολογία»1. Definiamo preliminarmente, in termini generali e prescinden do per ora dalla specificità della riflessione fichtiana, cosa si intenda per coscienza. La coscienza implica la relazione di un
1. Lettera di Fichte ad Appia del 23 giugno 1804, in J.G. Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften [da ora: GA], hrsg. von R. Lauth und H. Gliwitzky, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 ss., Bd. III,5, p. 247 [con tagli].
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polo soggettivo e di un polo oggettivo quale che sia (dico “quale che sia” perché la relazione oggettuale di per sé lascia impregiudicato lo statuto ontologico del polo oggettivo, cioè l’esistenza o meno dell’oggetto “fuori” dal soggetto). La relazione di soggetto e oggetto costituisce la definizione minimale di rappresentazione. Il sapere che deve essere penetrato dalla riflessione trascendentale non è però un sapere che abbia un contenuto rappresentativo: il sapere di cui si cercano le condizioni non è in prima battuta il sapere su un oggetto, cioè su un determinato dominio ontico, ma il sapere nella sua forma, l’essere del sapere, a partire da cui e sul fondamento del quale è poi possibile la costituzione di ogni sapere particolare su un particolare dominio oggettuale. Né, per ciò stesso, la logologia può essere risolta in mera gnoseologia: è bensì vero che il sapere prende le mosse dalla coscienza o dalla soggettività entro cui si pone la domanda sull’essere e sul sapere dell’essere, ma il sapere in quanto sapere non è un sapere strumentale di cui disponga un soggetto (empirico o trascendentale) già costituito; è invece il sapere nel suo essere, la struttura a partire da cui può istituirsi la relazione di soggetto e oggetto e che resta perciò irriducibile a quella relazione. Il sapere non può evidentemente essere un contenuto saputo dalla coscienza che, piuttosto, se è tale, è già sempre ricompresa nella forma del sapere: la coscienza «in ciò che essa è» non è un contenuto della coscienza. Ciò equivale a dire che la riflessione trascendentale come logologia è riflessione sulle condizioni dell’apparire dell’ente, non di questo o quell’ente ma dell’apparire nel suo essere, dell’essere dell’apparire; potremmo anche dire: è riflessione sul vero come manifestatività dell’essere stesso. Questi ancora generici rilievi non significano però che la coscienza possa venire dismessa in un preteso accesso immediato e per dir così fusionale all’essere: mostreremo come l’interrogazione logologica assuma provvisoriamente come evidente il
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luogo di elaborazione della domanda filosofica, cioè la forma della coscienza o della soggettività, e ne indaghi le condizioni di possibilità. Non per questo, comunque, la coscienza è il luogo originario del sapere. Anzi, è proprio mostrando la contraddittorietà di quella posizione che pone la coscienza come luogo originario del sapere che è possibile un approdo ontologico della logologia. Sotto tal riguardo la riflessione trascendentale mi pare implicare un costitutivo momento dialettico. 1.2. La forma autoreduplicativa della riflessione trascendentale La relazione tra piano ontologico e piano logologico va approfondita. Si è detto che l’essere del sapere o essere dell’apparire è il tema della riflessione trascendentale. Questo tema è la verità stessa in quanto non rappresentabile. L’essere dell’apparire, il vero, non è un contenuto dell’apparire ma la condizione della sua forma, e in questo senso è la manifestatività dell’essere. L’essere dell’apparire, il puro apparire dell’essere, non può apparire in se stesso, pena un regresso all’infinito: se l’essere dell’apparire apparisse, occorrerebbe presupporre un essere o un orizzonte dell’apparire entro cui l’essere dell’apparire appaia, e così via. Sarebbe cioè contraddittorio porre l’essere dell’apparire come un contenuto dell’apparire. L’essere dell’apparire può apparire non già in sé ma solo in quanto oggettivato, rappresentato, e per ciò stesso occultato. O anche: l’enunciato “l’essere dell’apparire non è un contenuto dell’apparire, e tuttavia è l’apparire stesso dell’essere” è enunciato pur sempre dalla coscienza e in guisa di un contenuto rappresentato. Ora, il contenuto dell’enunciato, il vero stesso, potrebbe ben essere solo una definizione nominale di verità; in altri termini, nulla garantisce la verità del contenuto dell’enunciato. Non è detto che l’essere effettualmente appaia nel sapere. Così che la coscienza enunciante può garantire la
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verità del proprio enunciato solo se l’enunciare stesso è già ricompreso nel vero. Ci troviamo qui dinanzi a una forma autoreduplicativa della riflessione trascendentale: il luogo della riflessione o la coscienza enunciante, se pretende al vero, non può porsi fuori dal tema del domandare ma ne è ricompresa, o, che è lo stesso, il tema della domanda (il rapporto essere-sapere) deve ricomprendere il luogo del domandare (la coscienza che enuncia il rapporto essere-sapere). La riflessione trascendentale è insieme riflessione sul rapporto tra essere e sapere e riflessione sulla relazione tra quel rapporto e la riflessione stessa che lo enuncia. La verità dell’enunciato, l’insieme di asserti costitutivi di un’ontologia, si enuncia nel discorso filosofico; ma questo discorso è vero se e solo se ciò che nel discorso si enuncia, la verità, è il fondamento del discorso medesimo, è cioè condizione dell’atto di enunciazione. Se chiamiamo verità il contenuto dell’enunciato (unità di essere e sapere), considerato absolute, e certezza la riflessione su quel contenuto in quanto essa deve garantire la verità di ciò che è così riflesso, potremmo dire che l’asserto ontologico è garantito come certo solo là dove si mostri che nella riflessione che enuncia quell’asserto è la verità stessa a esprimersi, ovvero è l’essere stesso a riflettersi. O, più semplicemente, il discorso sull’essere è vero se e soltanto se l’essere si enuncia in quel discorso. Quanto detto dovrebbe aver già reso evidente la pertinenza del riferimento a Fichte. Questo riferimento va esplicitato in due direzioni tra loro strutturalmente connesse. In primo luogo, abbiamo accennato alla contraddittorietà del regresso all’infinito che si istituisce quando si tenti di concepire le condizioni della coscienza secondo modalità coscienziali e rappresentative. Orbene, la denuncia di questa contraddittorietà mi pare costituire esattamente l’argomentazione dialettica con cui Fichte introduce il concetto di intuizione intellettuale nella Zweite
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Einleitung (con un riferimento al § 16 della seconda edizione della deduzione trascendentale kantiana) e nella sez. IIa del cap. I del Versuch einer neuen Darstellung. In secondo luogo, la domanda trascendentale di cui si è detto e quella che abbiamo definito la figura autoreduplicativa della riflessione trascendentale costituiscono non solo il tema ma la forma strutturante e il metodo della seconda esposizione della Wissenschaftslehre del 1804, in cui credo che la stessa questione dell’intuizione intellettuale venga radicalizzata nella sua portata ontologica.
2. Il § 16 della seconda edizione della deduzione trascendentale kantiana L’orizzonte inaggirabile della riflessione trascendentale è – si è detto – la coscienza. Il fondamento della coscienza si mostra tuttavia, in essa stessa, come ad essa irriducibile: è in questo senso che Fichte, come si accennava e come vedremo, legge il § 16 della seconda deduzione kantiana. Tratteniamo alcuni elementi del testo di Kant2, a partire dalla nota affermazione secondo cui: «L’io penso deve poter [muß… können] accompagnare tutte le mie rappresentazioni». L’io
2. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781 e 1787), in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Reimer (poi W. de Gruyter), Berlin 1902-1966 [da ora con la sigla Ak], Bde IV e III; tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 110-112 [Ak III, 108-110]. Da ora con la sigla KrV seguita dal numero di pagina della traduzione italiana e, tra parentesi quadre, dal numero di pagina dell’edizione tedesca; salvo indicazione contraria tutte le citazioni che seguono in questo paragrafo sono tratte dal luogo kantiano summenzionato. Della vastissima bibliografia su questo controverso punto kantiano mi limito a ricordare due opere “classiche”: H.J. de Vleeschauwer, La déduction transcendantale dans l’œuvre de Kant, Leroux, Paris 1934-1937, vol. III, pp. 97-118 e, per una considerazione generale sulla seconda edizione della deduzione, pp. 284-296; L. Scaravelli,
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penso è «un atto della spontaneità»; questo atto è ciò che Kant chiama «appercezione pura o anche appercezione originaria», ovvero «quell’autocoscienza» che «produce la rappresentazione io penso [die Vorstellung: Ich denke hervorbringt]»3, la quale «deve poter accompagnare tutte le altre [mie rappresentazioni] ed è in ogni coscienza una e identica». L’appercezione originaria non può esser fatta coincidere in modo troppo corrivo con l’io penso, che è piuttosto una rappresentazione prodotta dall’appercezione originaria e che, come coscienza una e identica, deve poter accompagnare tutte le altre rappresentazioni. Sembra pertanto che nell’appercezione occorra distinguere un atto e una rappresentazione, l’io penso, prodotto dell’atto. L’atto è l’«unità trascendentale dell’autocoscienza». Vedremo che l’identificazione di atto e autocoscienza è quanto mai problematica. Proseguiamo per ora col testo kantiano: va anzitutto compreso come quella unità non possa essere portata a coscienza che a partire da una sintesi delle rappresentazioni e dal riferimento di questa sintesi all’unità dell’io penso. La rappresentazione in quanto tale implica un riferimento alla coscienza: senza coscienza non sarebbe possibile alcuna rappresentazione; il nesso tra rappresentazione e coscienza è dunque analitico. Questo nesso non è tuttavia sufficiente; considerato in sé non dice nulla sul riferimento delle rappresentazioni a una coscienza «una e identica». La «relazione con l’identità del soggetto» non ha luogo ancora per ciò che io accompagno colla coscienza ciascuna delle rappresentazioni, ma perché le compongo tutte l’una con l’altra, e sono consapevole della loro sintesi. Solo
Lezioni sulla Critica della ragion pura, in Id., Opere, vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 257-264. 3. Il corsivo «produce» è mio.
170 perciò, in quanto posso legare in una coscienza una molteplicità di rappresentazioni date, è possibile che io mi rappresenti l’identità della coscienza in queste rappresentazioni stesse; cioè l’unità analitica dell’appercezione è possibile solo a patto che si presupponga un’unità sintetica [die analytische Einheit der Apperzeption ist nur unter der Voraussetzung irgend einer synthetischen möglich].
Senza un riferimento delle rappresentazioni a una medesima coscienza, o, meglio, se io non potessi sintetizzare le rappresentazioni unificandole in un’autocoscienza, la coscienza stessa sarebbe solo una variopinta successione di stati psicologici che accompagnano il flusso delle rappresentazioni. Non si potrebbe neanche, a rigore, parlare di coscienza (né di rappresentazione), se le diverse rappresentazioni o i diversi stati di coscienza non fossero riferiti o non potessero venire riferiti a un’autocoscienza una e medesima. Senza un riferimento, di diritto sempre possibile, all’io penso, sarebbe impossibile l’esser per me delle rappresentazioni. Questo “per me”, cioè l’unità dell’autocoscienza, non va inteso come identità individuale di una coscienza empirica o come identità sostanziale, ma come medesimezza della funzione unificante, cioè anzitutto in senso epistemologico. L’unità sintetica dell’appercezione, che implica la sintesi del molteplice, non è la coscienza empirica di questa sintesi (ivi, § 16), non è cioè semplice sintesi dell’apprensione (ivi, § 26), bensì la condizione, a priori e formale, della costituzione di un oggetto, ovvero della possibilità di un legame oggettivo delle rappresentazioni (ivi, § 18). Attraverso le categorie, il molteplice può essere rappresentato come legato dall’unità dell’appercezione di cui il soggetto ha coscienza nella rappresentazione io penso. Perché si dia effettivamente una qualsiasi rappresentazione e perché si possa passare dal piano di una logica formale a una logica propriamente trascendentale, perché la stessa unità analitica dell’appercezione giunga a coscienza, è necessaria un’unità sintetica dell’appercezione: «È dunque l’unità sintetica dell’appercezione il punto più alto, al
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quale si deve legare […] tutta la logica [evidentemente anche trascendentale] stessa, e dopo di questa la filosofia trascendentale». L’appercezione, in altri termini, è portata a coscienza nell’effettività del proprio unificare, come quella rappresentazione “io penso” che può essere sempre ritrovata, di diritto, in quanto unità di funzione cui devono essere rapportate tutte le rappresentazioni volta a volta determinate. Ma in che senso, più precisamente, nell’unità sintetica viene a coscienza, come abbiamo letto, l’unità analitica? Unità analitica non indica qui più solo il nesso necessario di ogni singola rappresentazione alla coscienza. Il riferimento analitico all’unità dell’appercezione non riguarda solo ogni singola rappresentazione ma la possibilità della rappresentazione in quanto tale, la totalità del rappresentare o l’unità e la possibilità stessa della coscienza. La sintesi e l’unificazione delle rappresentazioni nell’autocoscienza non potrebbero infatti istituirsi senza una spontaneità che consenta il legame delle rappresentazioni e il loro riferimento all’io penso. Nell’unità sintetica viene ritrovata la medesimezza dell’atto o della spontaneità che, indipendentemente dalla diversità delle rappresentazioni volta a volta date, già sempre può sintetizzare e unificare le rappresentazioni. Nell’attività sintetica sembra dunque operare un unico atto, identico a sé, la cui unità analitica (verrebbe da dire io = io), giunge a coscienza nell’unità sintetica come quella condizione senza la quale nessuna sintesi, nessuna unificazione e nessuna coscienza sarebbero possibili. Il punto controverso è se l’io penso, come coscienza del riferimento necessario delle rappresentazioni a un’unità sintetica e come condizione formale delle rappresentazioni stesse, esaurisca o meno l’attività che opera la sintesi e di cui, come si è detto, l’io penso è espressione; se cioè la spontaneità che rende possibile la sintesi coincida con la coscienza (o meglio autocoscienza) della forma io in cui viene rappresentata quella spontaneità. Proviamo a interpretare il testo kantiano, ben sa-
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pendo che la controversa questione dell’io penso meriterebbe più distesa trattazione e contestualizzazione4. Ritorniamo sul senso in cui l’io penso «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni». Il venire a coscienza, almeno per un intelletto finito, dell’unità sintetica nella rappresentazione io penso non può avvenire senza una qualsivoglia sintesi empirica. La pura spontaneità, di cui non possiamo avere alcuna rappresentazione determinata e, aggiungeremmo, alcuna coscienza determinata, viene a coscienza nella forma dell’io penso. La forma io penso è bensì a priori e logicamente indipendente dalla coscienza empirica, ma lo è solo in quanto sempre possibile riferimento riflessivo di ogni coscienza empirica a un’unità. Come leggiamo nella Confutazione dell’argomento di Mendelssohn: «Senza una rappresentazione empirica qual sia – scrive Kant –, che fornisca la materia al pensiero, l’atto: “io penso”, non potrebbe aver luogo»5. Verrebbe da chiedere: l’atto o la rappresentazione dell’atto? L’io penso non è una coscienza o un’autocoscienza immediata; è bensì un’autocoscienza a priori, cioè non indica un processo psicologico ma il riferimento di diritto delle rappresentazioni a un io, riferimento senza il quale il prender coscienza non sarebbe possibile. L’io penso è la coscienza della relazione necessaria e a priori delle mie rappresentazioni, quali che siano, che devono pur esser date, con un’unità che deve (necessariamente ma riflessivamente) poterle già sempre accompagnare: tutte le volte che si dà coscienza della sintesi, le rappresentazioni devono riferirsi necessariamente e di diritto all’io penso. 4. Qui lascio sullo sfondo o del tutto tra parentesi, per esempio: la questione se il riferimento all’identità dell’autocoscienza sia sufficiente a garantire l’oggettività del giudizio; il ruolo di mediazione dell’immaginazione, in specie nella prima deduzione; la possibilità di una sintesi senza il riferimento a oggetti fuori della coscienza. 5. KrV, p. 274, nota 1 [Ak III, 276].
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Resta nondimeno vero che questo necessario riferimento della coscienza all’io penso presuppone la possibilità dell’istituirsi determinato della coscienza: presuppone cioè la coscienza empirica, rispetto a cui l’io penso, con il suo corredo di categorie, non è un atto costitutivo ma riflesso. L’autocoscienza non è cioè costitutiva dell’atto di riflessione, ma ne è il prodotto. Già nel § 15 Kant affermava che l’unificazione «può essere prodotta solo dal soggetto, essendo un atto della sua spontanea attività»6. Il termine kantiano è Selbsttätigkeit, che Gentile rende con «spontanea attività» ma che potremmo rendere con autoattività7. Ora noi dell’unificazione prodotta da questa autoattività – leggiamo sempre nel § 15 – possiamo avere o non avere coscienza. L’autoattività che produce l’unificazione è fungente indipendentemente dalla coscienza e anche dal riferimento di ogni coscienza di rappresentazioni all’unità dell’autocoscienza. L’autoattività non è dunque un atto della coscienza o dell’autocoscienza. Come abbiamo visto, noi possiamo non avere coscienza empirica dell’atto anche se possiamo pur sempre di diritto riferire ogni coscienza empirica a un’autocoscienza trascendentale, ma riflessiva, che deve (muß) accompagnare, condizionandola nella sua forma, ogni rappresentazione. Questo riferimento implica: un atto in sé non cosciente che opera una sintesi; la sintesi, di volta in volta data, a partire da cui è possibile la coscienza empirica ed è possibile, riflessivamente, la posizione di una coscienza trascendentale. Su questa base, si comprende in che senso il “dover potere” dell’io penso, e delle categorie, possa venire interpretato come prodotto di un atto riflessivo. Come scrive il de Vleeschauwer, «il pensiero è l’atto stesso che forgia la rappresentazio6. KrV, p. 110 [Ak III, 107]. 7. Come fa d’altra parte Goddard (autoactivité): cfr. J.-Ch. Goddard, Commentaires du § 16 de la «Critique de la raison pure», in J.-M. Vaysse (a cura di), Kant, Les éditions du cerf, Paris 2008, p. 131.
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ne dell’oggetto; la coscienza è il ritorno riflessivo portato su quest’atto o sul suo prodotto»8. Kant avrebbe mantenuto una equivoca confusione tra atto del pensare e coscienza, tra attività e forma (o condizionamento formale). L’io penso, se è una rappresentazione o il prodotto di un atto riflessivo, non istituisce evidentemente la riflessione stessa. La riflessione, il cui prodotto è l’io penso, implica un atto che si sottrae allo (cioè precede logicamente lo) stesso io penso (e in qualche modo anche alla determinazione categoriale e schematica del tempo). L’attività, rappresentata nell’io penso, va perciò distinta dalla coscienza, dall’autocoscienza e dalla forma dell’io, che costituisce un centro unitario, certo necessario, ma pur sempre derivato e secondo. Questa attività può ancora essere interpretata come condizionamento formale e meramente epistemologico? Ben difficilmente, sulla base di quanto detto. Rileviamo anzitutto che non si tratta di distinguere troppo recisamente unità sintetica e unità analitica, ma di ritrovare nella stessa attività sintetica l’atto e la riflessione autocosciente come due aspetti del medesimo. Sembra infatti che l’affermazione dell’unità sintetica dell’appercezione sia nel suo fondo una proposizione analitica. Tra la fine del secondo capoverso e l’inizio del terzo capoverso del § 16 che qui stiamo esaminando, troviamo una formulazione particolarmente significativa del duplice aspetto dell’appercezione. Dopo aver ribadito che «il principio supremo di tutta la conoscenza umana» è l’unità sintetica dell’appercezione, Kant afferma che questo principio della unità necessaria dell’appercezione è in verità esso stesso una proposizione identica, e perciò analitica [Dieser Grundsatz, der notwendigen Einheit der Apperzeption, ist nun zwar selbst identisch, mithin ein analytischer Satz]; tuttavia chiarisce per necessaria una sintesi del molteplice dato in una intuizione; sintesi, senza la quale non sarebbe 8. H.J. de Vleeschauwer, La déduction transcendantale, cit., p. 292.
175 possibile pensare quella identità dell’autocoscienza. Dall’io infatti, come rappresentazione comune [semplice: einfache] non è dato alcun molteplice; questo può essere dato solo nell’intuizione, che è altra cosa, e può esser pensato solo mediante l’unificazione [congiunzione: Verbindung] in una coscienza.
Potremmo tradurre questa proposizione analitica nei termini seguenti: perché si dia rappresentazione e coscienza è necessario un riferimento riflessivo di ogni rappresentazione o coscienza all’io penso a partire da una sintesi empirica. Questo riferimento, come abbiamo visto, sarebbe tuttavia contraddittorio senza un’attività che renda possibile ogni sintesi (empirica o trascendentale) e che, venendo a coscienza come riferimento riflessivo e condizione (unità) di ogni sintesi, pure non vi si riduce. E cioè: la vita della coscienza, nella sua forma, è impensabile senza la reciprocità tra un’attività che, considerata absolute, precede logicamente coscienza, autocoscienza e molteplice della rappresentazione, e l’apparire riflessivo di questa stessa attività come rinvio necessario di ogni sintesi empirica. O anche: la coscienza (finita) è contraddittoria senza un’unità analitica che si riflette in unità sintetica. Se pure l’attività non può venire in alcun modo portata a coscienza se non a partire dalla sintesi empirica e come riferimento trascendentale della sintesi empirica a un’unità sintetica, e dunque non in se stessa, ebbene, se pure questo è vero, nondimeno l’indeterminatezza di questa attività indica l’essere stesso del pensare senza cui ogni coscienza finita sarebbe in sé contraddittoria. Ma, proprio per questo, l’analiticità del principio dell’unità sintetica, inteso come principio della reciprocità di atto e autocoscienza, non sarebbe più una mera proposizione formale ma un asserto ontologico. In tal senso mi pare si possa in conclusione sostenere che l’unità analitica dell’appercezione esprime l’autoevidenza del cogito, ovvero l’evidenza che una qualsivoglia rappresentazione o, direi, un qualsivoglia fenomeno, indipendentemente dal suo contenuto, implica un orizzonte o un essere dell’apparire, cioè quello che potremmo chiamare un pensare, ma in
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senso neutro e indeterminato, senza poterlo, almeno per ora, determinare come pensare di un soggetto; e, reciprocamente, credo si possa parimenti sostenere che questa autoevidenza giunga a coscienza solo riflessivamente, autodeterminandosi come forma io a partire da una sintesi empirica, quale che sia, almeno per una coscienza finita. Occorre ora vedere in che misura queste considerazioni si prolunghino nella rilettura fichtiana del testo di Kant. La domanda che si è profilata sullo sfondo è se la relazione di atto e coscienza, unità analitica e unità sintetica, o anche atto e differenze, sia o meno una relazione biunivoca.
3. Il Versuch del 1797 e l’intuizione intellettuale Nella sez. VIa della Zweite Einleitung al Versuch9, Fichte fa esplicitamente riferimento al § 16 della deduzione trascendentale e all’«appercezione pura» che «produce la rappresentazione io penso», la quale «deve poter accompagnare tutte le altre» (p. 129 [228 s.]). Seguendo l’intento di un’annunciata esposizione di una Dottrina della scienza nova methodo, Fichte intende portare l’interrogazione filosofica direttamente sul fondamento genetico
9. J.G. Fichte, Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre, in GA, Bd. I,4; e hrsg. von P. Baumanns, Meiner, Hamburg 1984; tr. it. di G. Di Tommaso (parziale, priva della Prima introduzione), Saggio di una nuova esposizione della dottrina della scienza, in Id., Dottrina della scienza e genesi della filosofia della storia nel primo Fichte, Japadre, L’Aquila 1986; tr. it. di L. Pareyson, Saggio di una nuova esposizione della dottrina della scienza. Prima introduzione, Guerini e Associati, Milano 1996. Le citazioni nel corpo del testo si riferiscono tutte alla Zweite Einleitung e al primo e unico capitolo del Versuch, con il numero di pagina della traduzione di Di Tommaso e, tra parentesi quadre, quello della GA, su cui è stata condotta la traduzione italiana.
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(in senso trascendentale e non psicologico) della coscienza in quanto tale, a partire dall’evidenza che ogni essere (quale che sia) è dato sempre entro l’orizzonte della coscienza (cfr. sez. IIa della Zweite Einleitung). Essere coscienti-di significa in prima battuta rappresentare (anche se Fichte, non senza ambiguità, definisce come «coscienza immediata» [unmittelbare Bewußtsein] l’intuizione intellettuale» [intellectuelle Anschauung], di cui parleremo a breve {p. 126 [224]}). Prima di introdurre il riferimento a Kant, Fichte distingue gli elementi della rappresentazione (p. 128 [226 s.]). In primo luogo, perché sia possibile una rappresentazione è necessario il riferimento a un oggetto, quale che sia; ciò mediante cui si dà il riferimento oggettuale è l’intuizione sensibile. Si tenga presente che qui il riferimento oggettuale lascia impregiudicata la questione dell’esistenza dell’oggetto fuori dalla coscienza, non dice nulla sulla pretesa esistenza dell’oggetto come cosa in sé. In secondo luogo, è necessario il riferimento a un’autocoscienza. Nella sez. IIIa della Zweite Einleitung, Fichte aveva già rilevato come ogni rapporto, accompagnato da coscienza, a un oggetto presuppone un rapporto a sé, e che l’autocoscienza è in tal senso condizione della coscienza: posso dire mie le rappresentazioni nella misura in cui sono (direi tematicamente o meno) cosciente di me in quel rappresentare. Senza la consapevolezza di un me identico in ogni rappresentazione non potrei dire mia la rappresentazione, cioè averne coscienza; questo riferimento al me, tematico o non tematico sul piano psicologico, deve essere di diritto sempre possibile sul piano trascendentale; in tal senso l’io penso deve (necessariamente) poter accompagnare le mie rappresentazioni. In terzo luogo, è necessario il concetto: nel concetto il riferimento intuitivo è per dir così riconosciuto e costituito propriamente a oggetto in relazione a un’autocoscienza; si può ipotizzare che il momento concettuale abbia qui una funzione analoga a quella che aveva in Kant la determinazione categoriale sul fondamento dell’io penso.
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Ora, il punto controverso è il secondo. Come deve venire intesa l’autocoscienza? Fichte ne parla nei termini di un’intuizione non sensibile, intellettuale dunque, che Kant avrebbe «indicato» «con l’espressione appercezione pura» (p. 127 [225]). Fichte chiarisce che senza «l’unità originaria dell’appercezione» nulla potrebbe essere non solo conosciuto ma pensato, e neanche sarebbe possibile la coscienza in quanto tale (cfr. pp. 128 s. [227 s.]). Mi sembra che per unità originaria dell’appercezione si debba anzitutto qui intendere l’unità sintetica: senza il riferimento della sintesi all’unità dell’autocoscienza non sarebbe possibile alcun rappresentare, né l’intuizione (che resterebbe cieca), né il concepire. La «condizione dell’unità originaria dell’appercezione» è «che le mie rappresentazioni possano essere accompagnate dall’io penso», affermazione che Fichte ritrascrive nei termini seguenti: «Io sono il pensante di questo pensare [Ich bin das denkende in diesem Denken]» (p. 129 [228]). Come intendere questo io pensante? Non si può dire che l’io penso sia solo una nota contenuta analiticamente nel concetto di rappresentazione. In questo caso, come già abbiamo visto in Kant, verrebbe meno proprio il “per me” del rappresentare. Per lo stesso motivo, continua Fichte, non si può dire che l’io sia alcunché che astrarremmo dalle molteplici rappresentazioni, alla stessa stregua (aggiungo) in cui si astrae il concetto di rosso dalle rappresentazioni di un papavero, del sangue, del fuoco. In tal caso, ciò senza cui non è possibile il rappresentare (cioè l’autocoscienza) verrebbe astratto a partire dalle rappresentazioni, così che occorrerebbe porre a fondamento di ogni rappresentazione un’altra autocoscienza, e così via all’infinito (ibidem). La «pura autocoscienza», piuttosto, scrive Fichte, «è la stessa in ogni coscienza; quindi non è determinabile mediante un qualsiasi elemento accidentale della coscienza: l’io in esso è determinato unicamente da se stesso ed è determinato assolutamente» (p. 129 [229]). Più avanti, nella sez. IXa, Fichte
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riprende la già veduta affermazione kantiana secondo cui «il principio della unità necessaria dell’appercezione è esso stesso una proposizione identica, e perciò analitica», e così la commenta: «Ciò significa […]: l’io non sorge mediante una sintesi il cui molteplice si potrebbe ulteriormente scomporre, bensì mediante una tesi assoluta [durch eine absolute Thesis]. Ma questo io è l’egoità [Ichheit] in generale» (p. 146 [255 s.]). L’unità analitica è dunque a fondamento dell’unità sintetica; questa tesi assoluta, che per Fichte è l’intuizione intellettuale stessa, non può però venire a coscienza senza un’intuizione sensibile e senza un riferimento concettuale a un oggetto (cfr. pp. 121 s. [217]). Ma in che senso si può parlare di intuizione intellettuale? E come intendere l’oscillazione fichtiana nel definire l’intuizione intellettuale una coscienza immediata, salvo dichiarare che dell’intuizione intellettuale si può divenire coscienti solo nel concetto e a partire da un’intuizione sensibile? Va anzitutto sgombrato il campo da un possibile equivoco: l’egoità che è a tema nella riflessione filosofica non è l’io individuale ma una struttura trascendentale, ciò senza cui l’autocoscienza e la coscienza in quanto tali non potrebbero istituirsi (sezz. VIIIa e IXa della Zweite Einleitung ); sicché, anche quando si parla di una presa di coscienza dell’intuizione intellettuale nel concetto e a partire dall’intuizione sensibile, non bisogna intendere questa presa di coscienza come un atto psicologico o come un ritorno all’interiorità della propria particolare persona, ma come la condizione senza cui non potrebbe venir posta la forma dell’io. Il problema è se l’intuizione intellettuale si risolva completamente nella forma dell’io o nell’autocoscienza. La questione non può venire opportunamente affrontata se non si distinguono due punti di vista: la struttura dell’egoità in se stessa e la descrizione filosofica dell’egoità, cioè la riflessione sull’egoità. I due momenti, all’interno dell’esposizione filoso-
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fica, possono essere distinti solo per astrazione. La determinazione reciproca di questi due momenti (che può forse render conto delle continue oscillazioni fichtiane nel definire il rapporto tra intuzione intellettuale, autocoscienza e concetto) opera sin dalla sez. IVa della Zweite Einleitung e costituisce l’impalcatura del primo e unico capitolo del Versuch dato alle stampe. Ciò che si sta cercando è il fondamento dell’egoità o anche, come Fichte chiarisce dalla Ia sez. del cap. I del Versuch, la possibilità del pensare. Il pensare implica evidentemente un agire: io posso rivolgere il mio pensiero a un qualsivoglia oggetto o a me stesso (p. 159 [271 s.]). Credo che qui pensare possa venire inteso in senso generalissimo come lasciar apparire l’ente (e in seconda battuta come lasciar apparire l’ente nel concetto) e che questo lasciar apparire implichi l’agire in quanto potere di trascendere il mero dato e la mera oggettualità. Ora, continua Fichte, quel pensare determinato che è il pensare il fondamento dell’egoità è un agire determinato, determinato come un pensare l’egoità: l’agire indeterminato che è il pensare (nei nostri termini: la potenza di trascendere) qui si determina come un pensare il pensiero: in tal senso è un agire ritornante in se stesso. In questo ritorno in sé sorge il concetto io: il concetto o il pensare dell’io consiste nell’agire dell’io su di sé e, viceversa, un tale agire su se stesso dà un pensare dell’io e assolutamente nessun altro pensare. […] Dunque entrambe le cose, il concetto di un pensare ritornante in sé e il concetto dell’io si esauriscono reciprocamente. L’io è il ponente se stesso e null’altro; il ponente se stesso è l’io e null’altro. Per mezzo dell’atto descritto non sorge null’altro che l’io e l’io non sorge mediante alcun altro possibile atto se non mediante quello descritto. (p. 160 [272])10 10. Mi pare opportuno riportare per intero il brano in tedesco: «der Begriff oder das Denken des Ich besteht in dem auf sich Handeln des Ich selbst; und umgekehrt, ein solches Handeln auf sich selbst giebt ein Denken des Ich,
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Così nella sez. IVa della Zweite Einleitung: «io e agire ritornante su di sé [in sich zurückgehendes11 Handeln] sono concetti del tutto identici» (p. 120 [216]). Anche qui un’oscillazione e come un’indeterminatezza: se l’io sorge mediante l’atto di ritornare in sé, come si può poi dire che questo agire compete all’io? E poi: il concetto di io e di agire ritornante in sé (compiuti nella riflessione filosofica) coincidono con l’io e l’agire ritornante in sé? L’agire ritornante in sé, che qui è compreso concettualmente, è la medesima tesi assoluta intuita intellettualmente di cui si parlava sopra? Credo che la risposta a queste domande, e dunque il chiarimento della struttura di quell’agire determinato, avvenga attraverso momenti fondativi dialettici più volte reiterati nel testo fichtiano. Il concetto di io, si diceva, è idealmente costruito. La prima questione che si pone è se l’io idealmente costruito presupponga un essere reale distinto da quel ritornare in sé dell’agire determinato come ricostruzione ideale del concetto di io. La risposta di Fichte è negativa e si presenta a più riprese nella Zweite Einleutung (pp. 122 s. [218], 140 s. [247-249], 150 [261]); il nucleo di fondo dell’argomentazione fichtiana reitera alcune considerazioni avanzate nella Erste Einleitung (sez. VIa) e che verranno prolungate nella critica del realismo della Wissenschaftslehre del 1804, e consiste nel mostrare l’autocontraddittorietà del dogmatismo. Il dogmatico non riesce a spiegare la genesi dell’intelligenza, che pure deve ammettere poiché senza intelligenza non ci sarebbe esperienza né sarebbe
und schlechthin kein anderes Denken. […] Beides sonach, der Begriff eines in sich zurückkehrenden Denkens, und der Begriff des Ich, erschöpfen sich gegenseitig. Das Ich ist das sich selbst Setzende und nichts weiter: das sich selbst Setzende ist das Ich, und nichts weiter. Durch den beschriebnen Act kommt nichts anderes heraus, als das Ich: und das Ich kommt durch keinen möglichen andern Act heraus, außer durch den beschriebenen». 11. zurückkehrendes, Baumanns, p. 42.
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possibile il suo stesso affermare. Il dogmatico considera una sola serie, quella del reale, e deve spiegare tutto sulla base di nessi meccanici e secondo un materialismo deterministico. Ebbene, non si comprende come una relazione causale di tipo meccanico possa dare origine a un atto riflessivo, cioè a un atto dell’intelligenza. Senza una capacità di trascendere il dato non sarebbe possibile alcuna riflessione sul dato, cioè alcuna intelligenza di esso. L’idealista invece opera con due serie, la serie reale dei contenuti dell’intelligenza e la serie ideale dell’atto di intelligenza che coglie i contenuti come tali. L’idealismo infatti, e questo ci dice che idealismo non va inteso in senso assoluto, non pretende di negare il dato, ma afferma che il dato è tale solo in quanto posto nell’intelligenza e che l’intelligenza, per sua natura, non è alcunché di dato. Se dunque per essere o fondamento reale del ritornare in sé si intendesse alcunché di radicalmente e per natura distinto dalla ricostruzione ideale, tale essere sarebbe un contenuto oggettuale pensato, eterogeneo rispetto al pensiero; ciò che dovrebbe essere fondamento del pensare verrebbe ridotto a un morto essere che non spiega in alcun modo come sia possibile il pensiero. Quell’agire determinato in cui consiste il pensare il pensiero è però pur sempre qualcosa, cioè una determinazione dell’agire; il fondamento reale di quell’agire ideale può essere solo l’atto di trascendere il dato; quindi, non alcunché che agisca, ma un puro agire. La spiegazione di questo punto implica un più alto momento dialettico in cui ritorna quella forma autoreduplicativa di cui si diceva all’inizio. Se nel pensare un oggetto è possibile distinguere il pensante e il pensato, ed è possibile, come abbiamo visto, rappresentare il pensato, per converso il pensiero non può esser posto a oggetto o, meglio, non può esaurirsi nell’essere posto a oggetto, altrimenti occorrerebbe presupporre un pensare, o (in termini non fichtiani) un orizzonte dell’apparire, «più elevato», entro cui il pensare appaia. Se in ogni conoscere distinguo il pensante e il pensato, nel pensare il pensante come
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pensato dovrei porre un pensare più originario a cui il pensante il pensato appaia alla stregua di un oggetto e così via. Questo rinvio renderebbe impossibile la fondazione dell’egoità e quindi la realtà della coscienza e dell’autocoscienza (cfr. p. 162 [274 s.]). Il toglimento della contraddittorietà del rinvio all’infinito comporta due implicazioni. In primo luogo nessun contenuto determinato può ridurre a sé l’agire, ovvero, potremmo dire, il potere di trascendenza non è alcuna possibile determinazione ontica né una somma di determinazioni ontiche. In secondo luogo, quell’agire determinato idealmente come io non può essere, considerato in sé e come fondamento reale, alcunché di dato alla coscienza: «tu devi, prima del tuo attuale porre te stesso [SelbstSetzen] elevato a chiara coscienza, pensare un altro porre analogo, come accaduto senza chiara coscienza, al quale l’attuale si riferirebbe e dal quale sarebbe condizionato» (p. 161 [274]). Il ritorno in sé dell’agire in cui consiste il concetto io e che rende possibile l’autocoscienza sottende, come proprio momento fondativo, un agire che precede la distinzione di oggettivo e soggettivo, l’intelligenza e l’autocoscienza (a fortiori la coscienza) e che non può venire riguardato come un io già costituito. Un pensare alla cui base non sia posta un’intuizione immediata, soggettivo-oggettiva, sarebbe un pensare vuoto (cfr. p. 139 [245 s.] e p. 141, nota 11 [249, nota *]; p. 163 [276 s.]): L’io ritorna in se stesso [Das Ich geht zurück in sich selbst], si afferma. Allora non è l’io già per sé prima di questo ritornare e indipendentemente da esso? […] Rispondo: assolutamente no. Solo per mezzo di quest’atto e unicamente per mezzo di esso, per mezzo di un agire su un agire stesso, agire determinato che non è preceduto da nessun agire in generale [durch ein Handeln auf ein Handeln selbst, welchem bestimmten Handeln kein Handeln überhaupt vorhergeht], l’io diviene originariamente [ursprünglich] per se stesso. […] Che cos’è ora, per considerare innanzitutto l’io osservato, questo suo ritornare in se stesso? […] Esso non è un concepire: diviene tale soltanto mediante l’opposizione di un non-io e la determinazione
184 dell’io in questa opposizione. È dunque una mera intuizione [intellettuale]. Non è quindi neanche una coscienza e nemmeno un’autocoscienza. […] In virtù dell’atto descritto l’io è semplicemente posto nella possibilità dell’autocoscienza [bloß in die Möglichkeit des SelbstBewusstseyns (…) versetzt] e, con essa, di ogni ulteriore coscienza. (pp. 118 s. [213 s.])12
Il brano pone più problemi di quanti non ne risolva. Anzitutto credo si possa affermare che autocoscienza e coscienza sono alcunché di posto riflessivamente come ciò a cui è sempre possibile di diritto riferire ogni rappresentazione, sicché anche il “deve poter” dell’io penso kantiano può essere letto in questo orizzonte come un riferimento costituito e non costituente, riflessivo, posizionale. E tuttavia la riflessione sul fondamento dell’egoità si trova in una situazione paradossale: qui si parla dell’intuizione intellettuale come atto in sé (punto di vista del fondamento reale); ma se ne parla all’interno della concettualità filosofica, e come di alcunché di irriducibile al concetto. D’altra parte, subito dopo Fichte afferma che l’intuizione intellettuale «è questo intuire se stesso attribuito al filosofo nel compiere l’atto in virtù del quale l’io sorge per lui» (p. 121 [216]); sembra cioè che l’intuizione intellettuale si dia solo entro la ricostruzione ideale del filosofo. Il ritornare a sé è dunque un agire reale o ideale? Non solo, ma abbiamo letto che quell’agire ritornante a sé non presuppone alcun agire in generale, ciò che sembra contraddire quanto visto sinora. Partiamo dal rilievo che la riflessione filosofica da un lato non può uscire dal concepire (cfr. pp. 139 s. [245 s.]), dall’altro lato e nel contempo deve porre a proprio fondamento un agire irriducibile al concetto, all’autocoscienza e alla coscienza. Evidentemente i due momenti non possono venire disgiunti: la coscienza del pensare è un momento strutturale dell’agire ritornante su di sé. Sicché l’egoità deve implicare insieme il momento reale 12. I primi due corsivi sono di Fichte, gli altri miei.
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dell’agire precoscienziale e il ritorno ideale (riflessivo) dell’agi re che si determina e si pone come concetto io: «l’intuizione di cui si parla qui è un porsi come ponente [ist ein sich Setzen als setzend] (un qualsiasi elemento oggettivo che posso essere io stesso in quanto mero oggetto), ma assolutamente non, per così dire, un mero porre» (p. 163 [276]). In tal senso si può forse intendere perché l’io divenga «originariamente» per se stesso e in che senso nessun agire in generale preceda l’agire determinato come ritorno in sé (concetto), affermazione quest’ultima che può essere intesa, io credo, solo nel senso che un agire che non si determini, che non sia in tal senso transitivo, non è propriamente un agire. È allora chiaro perché, secondo Fichte, l’intuizione di cui qui si parla non sia l’intuizione intellettuale stigmatizzata da Kant (cfr. pp. 125 ss. [221 ss.]): l’intuizione non riguarda un preteso “contatto” immediato con una cosa in sé, ma esattamente il porsi come ponente, il determinare liberamente la propria autoattività come riflessione sull’egoità; un agire, è bene ribadirlo, che non è limitato da alcuna determinatezza ontica, neanche (per quanto Fichte non lo dica esplicitamente) dalla forma io che pure gli appartiene ma come momento. Il nome più appropriato per questa autoattività è ancor sempre quello di Thathandlung: la filosofia «parte da un atto [ThatHandlung], cioè da una pura attività che non presuppone alcun oggetto, bensì lo produce, e in cui quindi l’agire diviene immediatamente fatto» (p. 124 [221]). Ora, porre l’autoattività a fondamento reale di quell’agire determinato che è il concepire, e affermare che il concepire non esaurisce l’autoattività, significa dire che la riflessione filosofica è quell’agire determinato in cui viene tematicamente pensato quell’atto senza cui non sarebbe possibile alcun agire; viene cioè pensato, nella forma del concetto, quell’agire che struttura la vita della coscienza tout court. La riflessione filosofica rende tematicamente evidente sul piano ideale, e perciò determina,
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un agire reale che non si esaurisce in quella attività determinata in cui consiste la riflessione filosofica. Detto altrimenti: se si distingue tra l’agire in se stesso come agire reale e il punto di vista filosofico, ovvero il concepire che ha l’agire reale come propria condizione ma che determina quella condizione, e di conseguenza non la esaurisce, allora occorrerà ammettere che, dal punto di vista reale, quell’atto non appartiene soltanto al filosofo (p. 121 [216 s.]). Occorre dunque distinguere e, insieme, pensare in unità: la condizione reale della coscienza (comune e filosofica); la coscienza comune (di oggetti o dell’io come individuo); la ricostruzione ideale della condizione reale (concetto di Ichheit, dottrina della scienza). Quest’ultima considerazione tuttavia ci offre l’occasione per evidenziare alcune aporie legate alla transizione dal piano logologico a quello ontologico. Innanzitutto, come deve intendersi l’agire su cui porta l’intuizione intellettuale? Nella sez. XIa della Zweite Einleitung, Fichte distingue tra: l’io (o meglio sarebbe dire egoità), come intuizione intellettuale messa a tema dal filosofo nel concetto e come struttura formale del pensare; l’io come idea, cioè come l’essere razionale, l’essere della ragione in quanto deve venire materialiter realizzata nel mondo. Intesa in quest’ultimo senso, cioè come compito pratico, l ’egoità, scrive Fichte, «non sarà mai reale» ma approssimabile «all’infinito» (p. 155 [266]). Come è possibile pensare un fondamento della coscienza il quale tuttavia non sarà mai reale? Non mi dilungo su questa osservazione che riprende un problema già presente nella Grundlage e che prestava il fianco alla ben nota accusa hegeliana di “cattiva infinità”. Sottolineo piuttosto come questa problematicità, che porta sulla relazione tra forma e materia dell’egoità, sia legata a una controversa se non contraddittoria persistenza della cosa in sé sullo sfondo del discorso qui ricostruito. In secondo luogo, infatti, l’intuizione intellettuale è uno ma non l’unico elemento della rappresentazione, e non può quindi,
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essa sola, determinare la vita della coscienza nella sua interezza. Occorre anche, come si è visto, l’intuizione sensibile che, per dir così, offre il riempimento materiale della forma dell’egoità. Si è altresì intravveduto che senza l’intuizione sensibile e l’opposizione di un non-io sarebbero impossibili il concepire e la tematizzazione dell’autocoscienza. La domanda, posta nella sez. VIa (pp. 130 ss. [229 ss.]), dopo il riferimento all’appercezione kantiana, è se l’autocoscienza (fatta qui coincidere con l’intuizione intellettuale) condizioni o determini la coscienza. Mi pare che la risposta fichtiana possa venire così sintetizzata: ogni fenomeno in quanto tale è dato a una coscienza ed entro l’orizzonte della coscienza. Il contenuto del fenomeno implica un’affezione o modificazione del soggetto, implica cioè recettività e sensibilità. Che il contenuto materiale di un fenomeno modifichi la mia sensibilità significa però che io mi sento affetto da qualcosa; il sentirmi affetto implica un sentimento della limitatezza del mio agire, sentimento che poi attribuisco, in virtù dell’intervento dell’intelletto, a un oggetto fuori dalla mia coscienza. Ma, sul piano trascendentale, questo sentimento significa soltanto che la mia attività è a priori limitata e che qualsiasi alterità io ponga come limite della mia attività, ebbene, questa alterità sarà data sempre e comunque all’interno della coscienza. In altri termini, la coscienza in quanto tale implica a priori una limitatezza dell’agire, limitatezza rispetto a cui il contenuto empirico dell’alterità limitante è dato solo a posteriori come «accidentale» e «meramente empirico» (p. 137 [242]). La limitatezza a priori dell’agire e il rilievo che l’alterità è data alla coscienza come limite o non-io non esclude l’elemento a posteriori e accidentale, che dunque mantiene una propria autonomia rispetto all’agire dell’io13. Ovvero: sinché la limitatezza dell’agire viene considerata come intrascendibile,
13. Cfr. G. Di Tommaso, Dottrina della scienza e genesi della filosofia della storia, cit., pp. 74-82.
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sembra difficile escludere dall’orizzonte della filosofia trascendentale un residuo di cosa in sé, e sembra altrettanto difficile non interpretare la tesi assoluta dell’atto come un aver da essere mai concluso, cioè come un’infinità potenziale in cui la contraddizione tra io e non-io non è mai tolta14. Ma l’egoità può davvero ancora essere riguardata, nel suo fondamento, come agire realmente finito? Non abbiamo già in nuce gli elementi per intendere l’atto come infinità attuale? In terzo luogo, ma in relazione al punto precedente, abbiamo visto la reciprocità di agire come tesi assoluta e determinazione di quell’agire in guisa di riflessione filosofica. Questa reciprocità è postulata o realmente dimostrata? Nella sez. Xa della Zweite Einleitung (e già implicitamente nella IVa), Fichte introduce la figura della certezza, ovvero del momento soggettivo della verità. Ciò che si cerca è la certezza del principio; questa certezza deve essere assoluta, cioè priva di presupposti; ma il principio in quanto tale è indimostrabile, almeno non è dimostrabile direttamente o per via di deduzione. Abbiamo tentato di far vedere come nel testo fichtiano operino dei momenti dialettici in cui si mostra che se non si pone un agire (atto, Tathandlung) a fondamento reale del concetto dell’agire, quindi della riflessione filosofica, quest’ultima a si rivela autocontraddittoria. Questo però ancora non esclude che la riflessione liberamente operata dal filosofo sia accidentale rispetto all’atto. Chi mi garantisce che il contenuto ora enunciato, esprimibile sinteticamente come “il pensare (della coscienza finita) implica l’agire”, sia posto effettivamente dall’atto, sia anzi il porsi dell’atto, e che sia l’unico contenuto che esprime il porsi dell’atto nella riflessione filosofica? Chi mi garantisce che l’intuizione intellettuale sia un porsi come ponente? Sinché il fondamento 14. È la tesi di fondo del testo di E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960; può essere utile, ai fini del nostro discorso, leggere le pp. 33 s., 64-66, 81-88.
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dell’egoità può venire riguardato come alcunché di finito, come una soggettività trascendentale finita, sinché, in modo equivoco, il testo fichtiano lascia aperta la possibilità di intendere quel fondamento come alcunché di onticamente determinato, resta problematico intendere il legame tra quel contenuto e la libera riflessione alla stregua di un legame intrinseco in cui il fondamento possa e debba offrire, in modo assoluto, la certezza della propria verità. Vedremo come nella Wissenschaftslehre del 1804 la limitatezza verrà considerata (sia pur problematicamente) come essenziale ma non costitutiva, cioè come differenza di un atto puro o di un infinito attuale, e come il momento logologico, approfondendo quella che mi pare la linea teoretica più stringente del Versuch, verrà inteso quale momento intrinseco dell’atto puro.
4. Actus essendi; di una possibile prova ex contingentia nella seconda esposizione della Wissenschaftslehre del 1804 4.1. Verità e coscienza Nelle esposizioni della Wissenschaftslehre del 1801-1802 e del 1804, Fichte, senza abbandonare il punto di vista trascendentale e (almeno sotto certi rispetti) l’intrascendibilità della finitudine sottesa da quel punto di vista, radicalizza la riflessione sul principio del sapere (egoità) esplicitando in che senso questo principio implichi come proprio momento fondativo un nonsapere. Quanto abbiamo intravisto nel Versuch trova ora manifesta tematizzazione: il momento logologico implica, al proprio interno, un fondamento ontologico che, a sua volta, non può essere in alcun modo compreso ed esposto fuori da una logologia. L’egoità in quanto tale, si è visto, è insieme riflessività e atto che si riflette; è bensì principio del sapere ma per ciò stesso, in quanto implica come proprio momento strutturante il riflettere e il concepire, è anche principio di separazione dell’atto:
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non unità assoluta ma «unità di disgiunzione»15. Il principio del sapere o egoità non è dunque principio assoluto, o anche: l’autoattività che si pone come egoità non è alcunché di posto dal soggetto, sia pure inteso come soggettività trascendentale. Percorriamo più da vicino le direttrici che abbiamo individuato. Il legame tra fondamento reale dell’egoità, e quindi del sapere, e sapere come riflesso (fenomeno) ideale del principio, tra l’atto e le differenze (e quella differenza peculiare che è il sapere dell’atto), e la reciprocità tra logologia e ontologia appaiono nel modo più cogente (all’interno della cosiddetta fase “mediana” della riflessione di Fichte) nella seconda esposizione della Wissenschaftslehre del 1804, dove quella reciprocità non è solo tema ma forma dell’esposizione. La Wissenschaftslehre 180416 è suddivisa, come noto, in dottrina della verità (Wahrheitslehre) e dottrina del fenomeno 15. M. Ivaldo, I principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli 1987, p. 85. 16. J.G. Fichte, Die Wissenschaftslehre. Zweiter Vortrag im Jahre 1804 vom 16 April bis 8 Juni, hrsg. von R. Lauth e J. Widman, Meiner, Hamburg 1986; GA, II,8; tr. it. di M.V. d’Alfonso, Dottrina della scienza. Seconda esposizione del 1804, Guerini e Associati, Milano 2000 (salvo indicazione contraria, tutte le citazioni nel corpo del testo sono tratte dalla Wissenschaftslehre del 1804 [da ora: WL 1804-II], con indicazione del numero di pagina della traduzione italiana seguito dal numero di pagina dell’edizione Lauth-Widman, su cui è condotta la traduzione italiana, tra parentesi quadre). Sulla WL 1804-II si vedano almeno le seguenti opere: M. Gueroult, L’évolution et la structure de la doctrine de la science chez Fichte, Les Belles Lettres, Paris 1930, vol. II, Terza parte, capp. IV e V; J. Widmann, La structure interne de la Doctrine de la Science de 1804, in «Archives de Philosophie», vol. 25, n. 3-4, 1962; Id., Die Grundstruktur des transzendentalen Wissens nach Joh. Gottl. Fichtes Wissenschaftslehre 18042, Meiner, Hamburg 1977; W. Janke, Fichte. Sein und Reflexion, Walter de Gruyter, Berlin 1970; L. Siep, Hegels Fichtekritik und die Wissenschaftslehre von 1804, Alber, Freiburg 1970; M. Ivaldo, I principi del sapere, cit., parte IV; G. Rametta, Le strutture speculative della Dottrina della scienza, Pantograf, Genova 1995; J.-Ch. Goddard - A. Schnell (a cura di), L’être et le phénomène. Sein und Erscheinung, Vrin, Paris 2009,
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(Erscheinungslehre). Esplicitando: è suddivisa in ontologia o sapere del fondamento del sapere, e in fenomenologia o sapere della manifestazione del fondamento nel sapere; fenomenologia dunque come sapere che include se stesso nella manifestazione del fondamento e autofonda così la propria evidenza. Questa scansione non deve fare dimenticare l’unità strutturale tra i due momenti, in cui opera come principio strutturante quella che prima ho definito la forma autoreduplicativa della filosofia trascendentale, e i cui elementi costitutivi possono essere distinti solo per astrazione (è bene ricordare come la stessa scansione in Wahrheitslehre ed Erscheinungslehre viene abbandonata già nella esposizione di Königsberg del 1807). In questa sede è impossibile seguire l’intricata argomentazione fichtiana; a costo di qualche semplificazione, mi soffermerò, dopo una breve introduzione preliminare, su alcuni momenti della giustificazione dell’evidenza del fondamento e sulle implicazioni ontologiche di quella giustificazione. Sin dalla Ia Lezione, viene chiarito, come presupposto dell’intera impresa della dottrina della scienza, che la filosofia, se è possibile filosofia, deve essere esposizione della verità, e che la verità, se c’è verità, è assoluta e immutabile unità, ed è unità di essere e pensiero. La verità, se è tale, deve porsi come fondamento della «molteplicità e mutevolezza del punto di vista» (p. 59 [7]). L’unità del vero deve ricondurre a sé la molteplicità e mostrarsi come principio del molteplice, così che «occorre concepire il molteplice attraverso l’uno e l’uno attraverso il molteplice» (p. 60 [7]). Si tratta in fondo di una definizione classica e minimale di verità, antecedente le interpretazioni della verità in senso adeguativo, manifestativo e costruttivo.
in particolare le prime due parti; T. Rockmore - D. Breazeale (a cura di), Fichte and Transcendental Philosophy, Palgrave, Basingstoke 2014, in particolare la prima parte.
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La verità, però, in quanto deve essere esposta dalla filosofia, deve essere saputa, cioè ricostruita dalla stessa Wissenschaftslehre, e «ogni esprimere o ricostruire = concepire, è in sé mediato» (ivi, p. 92 [33]). La verità è posta come tema o oggetto della riflessione filosofica, quindi per ciò stesso non come unità assoluta ma come alcunché di dato alla coscienza filosofante ed enunciante; coscienza che in se stessa, come è già apparso dalla ricognizione del Versuch e come qui Fichte afferma in modo ancor più esplicito, è il «principio della separazione [Sonderung]» (pp. 93 s. [34 s.]). D’altra parte, se la coscienza enuncia il vero, la verità deve per dir così ricomprendere in sé la stessa coscienza enunciante e fondare la certezza del suo enunciare. Sicché la verità non potrà consistere né in alcunché di oggettivo posto di contro alla coscienza (la «cosa»), né nella coscienza stessa («sapere soggettivo», «rappresentazione della cosa»), ma nell’«assoluta unità e inseparabilità di entrambi» (p. 64 [10]): «l’unità è da porre nella verità e certezza in sé per sé [in die Wahrheit und Gewißheit an und für sich], che non è certezza di qualche cosa, perché con ciò sarebbe già posta la disgiunzione tra essere e sapere» (p. 69 [14]). Il «principio» di questa inseparabilità è definito «sapere puro» come «sapere di nulla [Wissen von Nichts]» (ibidem; cfr. p. 64 [11]). L’espressione «sapere di nulla» non va intesa nel senso, evidentemente contraddittorio, che il nulla sia il contenuto del sapere; piuttosto il sapere è qui considerato nella sua forma, nel suo essere come sapere, prima di ogni possibile oggettivazione come sapere di questo o quel contenuto ontico. La verità, se c’è verità, non può essere un asserto ontico che venga poi, non si sa bene come, saputo, ma la condizione sulla base della quale può istituirsi ogni asserto ontico; quindi non un contenuto determinato dell’apparire e neanche un essere che non appaia, ma la forma stessa o l’essere stesso dell’apparire (il sapere puro). D’altra pare, la forma dell’apparire che in sé non appare, è pur sempre ricostruita concettualmente nella Wissenschaftslehre, pertanto
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entro la scissione prodotta dalla coscienza, così che la fondazione ontologica del sapere non potrà porsi fuori dal sapere finito e dal concetto, ma sarà, nel sapere e nell’orizzonte dell’interrogazione trascendentale sui limiti e le condizioni del sapere (logologia), l’oggettivazione di (la riflessione su) quel che di inconcepibile è posto nel concetto e come annullamento del concetto. Ciò che va pensato è la relazione tra il «sussistere», ovvero la verità in quanto non può essere oggettivata, e il concepire, cioè la coscienza come luogo dell’oggettivare, là dove la verità non può venire intesa unilateralmente privilegiando l’uno o l’altro momento (cfr. Lezz. IVa e Va, in particolare pp. 94-100 [35-40]). Queste considerazioni costituiscono la cellula germinativa a partire dalla quale, nelle Lez. VIIIa-XIVa Fichte conduce una critica di realismo e idealismo. 4.2. Il riferimento a Spinoza e la critica di realismo e idealismo L’aporia di realismo e idealismo è aver reso unilaterale uno dei due momenti della verità di cui abbiamo appena detto. Prima di considerare le linee di fondo della critica fichtiana rimarchiamo come il senso di tale critica sia in qualche modo anticipato da due riferimenti a Spinoza, che torneranno particolarmente significativi in sede di riflessione critica sulla conseguenze dell’impostazione di Fichte. Nella Lez. IVa, Fichte individua il punto di divergenza tra la Wissenschaftslehre e il sistema spinoziano nell’incapacità, da parte di quest’ultimo, di spiegare il passaggio dall’unità assoluta al molteplice (pp. 93 s. [34]). Più distesamente, nella Lez. VIIIa si legge: la divinità [l’assoluta unità di essere e pensiero] non deve essere posta più nel morto essere, ma nella luce vivente. – Non in Noi, come si è anche fraintesa la dottrina della scienza.
194 […] Questa era proprio la difficoltà di ogni filosofia – che non volesse essere dualismo, ma prendesse sul serio la ricerca dell’unità – che dovevamo andare a fondo [zu Grunde gehen] noi oppure Dio. Noi non volevamo, Dio non doveva! Il primo audace pensatore che si chiarì questo punto […] fu Spinoza: che nel suo sistema ogni essere singolare, in quanto in sé valido e per se sussistente, vada perduto e conservi una mera esistenza fenomenica [bloß Phänomenal-Existenz], è chiaro e innegabile. Solo che questo suo assoluto, ossia Dio, egli lo uccise. Sostanza = essere senza vita, perché egli non fu conscio del proprio vedere: vita che la dottrina della scienza, in quanto filosofia trascendentale, introduce. (pp. 142 s. [75 s.])
Il passo richiama un brano della Wissenschaftslehre 1801180217 in cui Fichte afferma che sino a un certo punto la Wissenschaftslehre potrebbe accordarsi col sistema spinoziano e segnatamente in questo: nella posizione di un assoluto connotabile come «Pensiero puro», nel considerare il sapere finito come un accidente (fenomeno) dell’assoluto, nel concepire questo accidente come «determinato immutabilmente» dall’assoluto stesso. Ciò in cui la Wissenschaftslehre diverge invece essenzialmente dal sistema di Spinoza è nel modo di intendere la relazione tra l’assoluto e l’accidente o sapere finito: in Spinoza l’accidente e il sapere finito sarebbero interamente necessitati dalla sostanza, così che la stessa differenza di sostanza e accidente finirebbe col dileguare; nella Wissenschaftslehre, per contro, l’accidente manterrebbe un margine di contingenza o di libertà. Appare da questi riferimenti come il fondamento del sapere di cui si parlava nel Versuch non possa più in alcun modo venire inteso come mero fondamento epistemico né risolto nell’egoità, 17. J.G. Fichte, Darstellung der Wissenschaftslehre (1801/1802), hrsg. von R. Lauth und P.K. Schneider, Meiner, Hamburg 1997, pp. 113-115; GA, II,6, pp. 227-229; tr. it. di A. Tilgher, La seconda dottrina della scienza, Cedam, Padova 1939, pp. 121, 123.
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per quanto ne costituisca un momento strutturante e fondativo: il noi (non solo i soggetti empirici ma la soggettività trascendentale) deve andare a fondo, non può essere riguardato come fondamento reale né del concepire né della forma del sapere. Il fondamento del sapere è chiaramente ontologico (l’assoluto). L’essere dell’assoluto è però pur sempre pensato in termini “dinamici”, come agire, e in questo, secondo Fichte, il sistema spinoziano (e, aggiungerei, ogni idealismo speculativo, schellinghiano o hegeliano) si rivelerebbe insufficiente. L’insufficienza non riposa tanto o solo nella derivazione “oggettiva” dei molti dall’uno ma nella mancata distinzione (e quindi nel fraintendimento della relazione) tra l’identico uno e il sapere. Se all’interno del sapere puro si appiattisce la differenza tra il sussistere e il concepire, tra l’assoluto nel suo apparire e la ricostruzione riflessiva di quell’apparire, allora: o si perde il carattere proprio e riflessivo del concepire (quindi la specificità della filosofia trascendentale), così che il concepire stesso (e di conseguenza anche l’asserto che enuncia concettualmente l’assoluta identità dell’uno) risulta contraddittorio o comunque infondato; oppure si risolve il sussistere nel concepire, cioè in una piena trasparenza dell’essere al concetto, col rischio, su un versante diverso ma complementare al primo, di lasciar dileguare la differenza tra essere dell’apparire e contenuto dell’apparire. Ciò che mancherebbe in ogni caso a Spinoza sembra la giustificazione trascendentale, entro la coscienza e il concetto («egli non fu conscio…»), del sapere («vedere») in cui si esprime l’enunciato ontologico dell’unità; mancherebbe in altri termini la possibilità di un accertamento riflessivo della verità dell’enunciato. La questione è estremamente controversa. Una prima chiarificazione della relazione tra assoluto e sapere può venire proprio dalla critica fichtiana di realismo e idealismo, che ora ripercorreremo brevemente. La critica del realismo mi pare riprendere, nel suo motivo di fondo, la denuncia della contraddittorietà del dogmatismo già
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veduta nel Versuch: il limite del realismo consiste nella posizione di un in-sé incapace di spiegare la genesi della coscienza. Che l’in-sé venga inteso come un assoluto trascendente, rispetto a cui la coscienza resta estrinseca e del tutto accidentale, o, a maggior ragione, come materialità, non si spiega comunque donde possa sortire la riflessività propria della coscienza. La posizione di un in sé privo di quello che potremmo chiamare uno strato ideale, ovvero privo di una potenza di riflettere che entri intimamente a costituire la coscienza, risulta contraddetta dallo stesso esercizio della riflessione. Più complesso è il discorso sull’idealismo, in particolare la confutazione dell’«idealismo superiore», confutazione che sembra rinviare alla posizione della Grundlage come a scongiurarne un’interpretazione decettiva. Mi pare che qui ritornino alcuni snodi già veduti nell’analisi del § 16 della seconda deduzione kantiana e della loro ripresa nel Versuch. L’idealismo superiore pone come assoluta «l’energia [Energie]» del pensare (cfr. pp. 199 s. [124]): la formula che connota l’idealismo è che la coscienza è «la fonte e la prova della verità» (p. 210 [134]). La coscienza non è qui ovviamente la coscienza empirica ma l’«autocoscienza nella riflessione» (pp. 210 s. [134]), l’identico e immutabile io (egoità) che, nei termini del Versuch, si pone come ponente; è cioè bensì intuizione (intellettuale) ma solo in quanto inscindibilmente posta riflessivamente come autocoscienza. Il punto equivoco è ancora una volta se l’energia del pensare debba essere intesa o meno nei termini di egoità, se la realtà del pensare si risolva o meno nell’idealità del riflettere. Ora, è vero – scrive Fichte – che «tu non vorrai ammettere di poter effettivamente pensare senza esserne cosciente, e, per converso, che tu possa essere cosciente del tuo pensare senza pensare veramente»; e tuttavia, se si pone come assoluto la coscienza riflettente, leggiamo di seguito, «tu non potresti mai
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indicare» «un fondamento chiaribile e chiarente» della «connessione di questi due elementi». Infatti «la tua coscienza deve contenere un pensare effettivo, vero, realiter presente, senza che tu sia in grado di darne conto» (p. 222 [144]). E, più avanti: Tu pensi realmente? E a cosa vuoi appellarti per la conferma di questa tua affermazione? Tu non puoi addurre null’altro se non che tu ne sei conscio, però da questa tua coscienza non puoi dedurre geneticamente il pensare […] nella sua realtà e nella veridicità in cui lo affermi. (pp. 235 s. [156])
Nei termini da noi usati in precedenza: l’autocoscienza, come atto riflessivo, e la stessa coscienza empirica, implicano strutturalmente un momento oggettuale, un riflettere-su; il rifletteresu (cioè la coscienza o il concepire) implica però insieme la potenza attiva di trascendere l’oggettualità come mera datità: senza la capacità di trascendere il dato, cioè senza una spontaneità, o idealità, nulla potrebbe apparire; questa spontaneità o trascendenza del dato è un tratto essenziale di ciò che chiamiamo pensiero. Non si può però dire che il pensiero coincida con l’autocoscienza. L’idealismo afferma che ogni contenuto è posto nell’io (autocoscienza) e che la verità del contenuto della coscienza consiste in tale essere posto nell’io, nella genesi ideale del contenuto stesso. Tuttavia la spontaneità o l’attività che rende possibile la riflessione sfugge all’oggettualità, che è momento costitutivo del riflettere-su, cioè della coscienza e dell’autocoscienza. L’autocoscienza cioè non pone ma presuppone il pensare, e lo presuppone come un fondamento reale non posto dalla genesi ideale autocosciente: io ho intuizione del pensare, ma questo intuire non è generato dalla riflessione sull’atto del pensare, atto di cui la riflessione costituisce la manifestazione e non il fondamento. L’energia del pensare è, potremmo dire, una spontaneità reale, un ideare reale di cui il soggetto non dispone. La coscienza può riflettere il proprio atto riflessivo solo ponendolo a oggetto, dunque mai nel suo essere atto.
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In sintesi: è solo nell’idealità o nella coscienza (e nell’autocoscienza) che l’assoluto può apparire (contro il realismo), ma (contro l’idealismo) «il fondamento della verità in quanto verità non giace affatto nella coscienza ma assolutamente nella verità stessa; sicché dalla verità devi sempre sottrarre [abziehen] la coscienza. […] Questa resta solo il fenomeno esteriore della verità» (p. 214 [137]). 4.3. Luce e actus essendi Se l’assoluto si risolvesse nel concetto o nell’idealità avremmo sempre e solo un’oggettivazione dell’assoluto; se, d’altra parte, l’assoluto restasse esterno al concepire non sarebbe possibile la verità come punto di unità tra l’essere e il concetto. La verità è possibile solo, se è possibile, come unità e differenza tra i due. O anche: la realtà del pensare che rende possibile l’idealità della coscienza e della riflessione non è alcunché che si sottragga alla coscienza o all’apparire alla stessa stregua di un oggetto che resti nascosto dietro un sipario. La realtà del pensare, cioè il pensiero come atto reale e precoscienziale, è l’essere stesso dell’apparire, la verità o l’essere del sapere. È possibile intendere così il concetto di «Luce» che Fichte aveva posto sin dalla Lez. IVa. La Luce non è né una sostanza estranea alla coscienza (trascendentale ed empirica), né l’autocoscienza riflessiva come pretesa posizione della verità, bensì quell’orizzonte ontologico che istituisce la forma dell’apparire (della coscienza, della riflessione, della rappresentazione) e ogni apparire ontico determinato. Raccogliendo le considerazioni emerse dalla critica di realismo e idealismo possiamo affermare che la luce: è, realiter; non è un contenuto determinato dell’apparire, ma eccedenza rispetto a ogni determinatezza e a ogni concettualità; in tal senso non è morto essere ma spontaneità o attività, o energia del pensare; è attività il cui essere include essenzialmente l’apparire ma
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che per ciò stesso non è alcunché che appaia; è potenza reale di ideare. Queste determinazioni si ritrovano al culmine della Wahrheitslehre (Lezz. XIVa-XVa), quando Fichte, dopo aver ripreso il vecchio concetto di Thathandlung come atto autoponentesi (pp. 212 s. [136]), sembra infine esplicitamente connotarlo (né poteva essere diversamente) nel senso di un’infinità attuale, non egologica e pienamente reale: l’essere «è costruito come un actus [essendi…] e a sua volta come un esse in mero actu cosicché i due – essere e vita, e vita ed essere – si compenetrano assolutamente, si risolvono uno nell’altro e sono la stessa cosa; e questa medesima interiorità, è l’un solo unico essere» (p. 230 [151]); un «puro essere […] da sé, in sé, mediante sé [von sich, in sich, durch sich]» (ibidem). Un atto dunque, il cui essere non è limitato o determinato da alcuna sostanzialità, ma che va inteso nel senso dell’infinità verbale dell’esse («verbales Sein») come atto il cui essere è farsi, atto in atto (cfr. p. 231 [151 s.]). 4.4. Il problema del rapporto tra atto e apparire; l’Erscheinungslehre e il Soll epistemologico Abbiamo appena letto che l’essere «è costruito [Es ist (…) construirt]»: l’esito della Wahrheitslehre è infatti pur sempre una ricostruzione concettuale, così che l’enunciato ontologico (l’essere come atto) ancora conserva una discrasia rispetto al soggetto di enunciazione, alla coscienza che ha costruito idealmente quell’enunciato (cfr. p. 254 [171]). Si potrebbe infatti ancora obiettare che gli asserti ontologici sinora enunciati siano solo una costruzione ideale e contingente della coscienza enunciante e che non è stata ancora mostrata la genesi della coscienza enunciante. E si potrebbe obiettare che l’apparire e la forma della coscienza coimplicata dall’apparire siano inessenziali o accidentali rispetto all’atto, o perché
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quell’ente cui qualcosa appare, la coscienza finita, ha il potere di non lasciar apparire l’essere, o perché all’essere compete la libertà di non apparire. Ciò che resta da pensare è la relazione tra l’atto e l’orizzonte dell’apparire (Erscheinung), sia nella sua forma sia nella sua determinatezza come insieme di enunciati concretamente esposti nella Wissenschaftslehre 1804. L’asserto precedentemente veduto e ancora ipotetico secondo cui la coscienza «resta solo il fenomeno esteriore della verità» va ora dimostrato nella sua necessità. Conformemente alla forma autoreduplicativa della filosofia trascendentale, occorre cioè spiegare: la relazione tra il contenuto enunciato nella Wahrheitslehre e la coscienza enunciante; la struttura modale del rapporto tra atto e orizzonte dell’apparire e tra atto e quell’apparire determinato costituito dagli asserti della Wissenschaftslehre 1804. I due problemi sono dati insieme e costituiscono la questione di fondo e la forma strutturante della Erscheinungslehre. Il punto di partenza fichtiano è una riflessione sul modo in cui la coscienza filosofante ha proceduto nella sua ricostruzione ideale. La struttura epistemologica con cui si è operata la ricostruzione sinora svolta possiede la forma del wenn… soll… so muss… Soll non indica qui un imperativo morale ma il carattere modale, possibile e contingente, dell’enunciazione. Nel Soll inteso in senso epistemologico è implicita esattamente la contraddizione tra contenuto enunciato (la verità necessaria come atto e luce) e forma contingente dell’enunciazione (Lezz. XVIa-XVIIa), tra dire, Sagen, e fare, Tun (Lez. XIXa). Il contenuto del Soll può essere descritto più determinatamente in termini autoriflessivi: la costruzione ideale dell’atto è vera solo se essa è autoricostruzione reale dell’atto; o, che è lo stesso: se la costruzione ideale deve (soll) essere vera, allora deve necessariamente (muss) essere Erscheinung dell’atto. La forma è però soltanto ipotetica e contingente: la coscienza filosofan-
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te ha liberamente costruito e poteva non costruire o costruire altrimenti la pretesa implicazione di actus ed Erscheinung, e, per ciò stesso, la libera ricostruzione ideale non ha ancora accertato la verità e necessità del proprio contenuto. 4.5. La certezza. Primo momento della prova La discrasia viene tolta nella misura in cui la forma stessa del Soll è ricompresa nella necessità dell’implicazione di atto ed Erscheinung. Questo movimento, che appare dalla Lez. XIXa, mi sembra intrinsecamente dialettico; avanzo l’ipotesi che esso consista in una sorta di apriorizzazione di una prova ex contingentia della necessaria coimplicazione di 1) enunciazione della coimplicazione della reciprocità di atto ed Erscheinung e 2) coimplicazione reale della reciprocità di atto ed Erscheinung. Articoliamo la prova in tre momenti, che in realtà nel testo fichtiano sono sempre intrecciati e non esplicitati come tali. Primo momento, che reitera riflessivamente quanto detto già nel Versuch e poi nella critica dell’idealismo superiore: ogni coscienza, e ogni autocoscienza, presuppone il pensare. Il de monstrandum è: la coscienza che liberamente enuncia la coimplicazione di atto ed Erscheinung implica realiter la coimplicazione di atto ed Erscheinung. Questa implicazione è il tema della riflessione trascendentale, l’enunciato la cui verità è assunta solo ipoteticamente. Lo svolgimento della prova consiste nel mostrare la necessità della coimplicazione reale di atto ed Erscheinung a partire dalla contraddittorietà della coscienza pensata, nel suo essere o nella sua forma, come slegata dalla coimplicazione reale di atto ed Erscheinung. Ora, scrive Fichte: Io però dico che la sola possibilità [die bloße Möglichkeit] di questa presupposizione dimostra la sua verità e giustezza. Se il sapere fosse assolutamente limitato al pensare in modo sbia-
202 dito un ente al di fuori del pensare, allora da qui non avremmo mai potuto sortire alla presupposizione di una creazione [intendesi manifestazione, produzione del fenomeno] assoluta. Poiché noi l’abbiamo posta realmente e abbiamo posto la luce come assolutamente una sola cosa con essa, poiché noi stessi eravamo immediatamente luce; noi, proprio nell’essere immediato, nel fare, abbiamo attestato la verità della nostra dichiarazione, perché noi su questo punto esercitavamo ciò che dicevamo e dicevamo ciò che esercitavamo». (pp. 283 s. [197], con tagli e variazioni rispetto alla tr. it. cit.; corsivo mio)
Se il pensare fosse solo un rappresentare un ente o una regione ontica, se cioè l’implicazione di apparire e atto fosse l’enunciato su un ente esterno al pensiero finito, la verità di quella implicazione non potrebbe mai giungere a evidenza. Appuntando l’attenzione sul contenuto del nostro presupporre non potremmo mai raggiungere la certezza, ovvero l’evidenza soggettiva, l’accertamento, della verità del contenuto. Ma ciò che qui importa è quel che abbiamo fatto nel presupporre, cioè non ciò che presupponendo abbiamo intenzionato ma ciò che per il solo fatto di poter presupporre abbiamo, mi verrebbe da dire, nostro malgrado, agito: la possibilità stessa di porre il Soll. Sin qui avevamo a che fare con il valore di verità del sapere costruito nella Wissenschaftslehre (l’insieme degli asserti ontologici sinora enunciati). Ma se prescindiamo da ogni contenuto di coscienza, da ogni costrutto ideato, dallo stesso contenuto della ricostruzione sin qui operata nella Wissenschaftslehre, abbiamo a che fare con la forma della coscienza in quanto tale, con il sapere ordinario considerato nella sua forma. Se noi astraiamo da ogni contenuto del sapere, resta cioè quella che Fichte chiama «certezza [Gewißheit]»: Non è certezza di una qualche cosa, qualunque essa sia […] ma è certezza pura e in sé, in totale astrazione da ogni cosa. Innanzitutto è immediatamente chiaro che la certezza in tal modo debba essere pensata in modo assolutamente puro. Il fondamento della sua quiddità [Washeit] materiale risiede proprio
203 in che cosa sia certo […]; in esso però non può mai risiedere il fondamento della certezza. (p. 324 [230])
La certezza di questo o di quel contenuto ontico riposa sulla forma dell’esser certi, su quell’orizzonte a partire dal quale e entro il quale è poi possibile l’accertamento di qualcosa; ma il riempimento materiale della certezza (il che cosa o la Washeit materiale della certezza) non può mai venire riguardato come fondamento della forma della certezza. Ogni costruire e proiet tare, ogni esser coscienti-di, prima dell’accertamento della verità del contenuto, riposa sulla forma della certezza. L’apparire determinato e molteplice e ogni asserzione su quell’apparire sono mutevoli, cioè in prima battuta contingenti e soggetti alla possibilità dell’errore, così che nell’accertamento determinato è richiesto un fondamento della verità di quel determinato apparire. Ma la forma della certezza non è un contenuto mutevole della certezza. L’essere o orizzonte dell’apparire, l’atto, non è un contenuto mutevole dell’apparire. Ogni apparire mutevole e contingente implica in sintesi un orizzonte immutabile e non oggettivabile dell’apparire, un atto di trascendenza o una idealità reale: «la luce», come «uno essenziale», è compiuta «in ogni [in allem] nostro sapere dal quale non possiamo mai sortire» (p. 291 [203 s.; corsivo mio]). Potremmo così concludere, “scaricando” l’ipoteticità ancora sottesa dalla ricostruzione della luce nella Wahrheitslehre: l’orizzonte o essere dell’apparire è; ed è ideale. Infatti: se non fosse, ci troveremmo contraddittoriamente dinanzi a un apparire fuori dall’essere, a un apparire che si costituisce su un non-essere; se non fosse ideale (o meglio fondamento reale dell’idealità), ovvero potenza attiva di pensare, l’apparire in quanto tale, in quanto trascendenza del dato, non sarebbe possibile. L’orizzonte dell’apparire non può essere un contenuto contingente e determinato perché se fosse tale implicherebbe a sua volta la forma dell’orizzonte dell’apparire, così che o si pone un regresso all’infinito e la contraddizione non è mai tol-
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ta, come abbiamo già visto nel Versuch, o si pone un orizzonte dell’apparire necessario e immutabile (cfr. p. 327 [233]). Ogni tentativo di portare ad apparire la certezza nella sua forma, di intenzionare l’orizzonte dell’apparire, presuppone comunque alle proprie spalle lo stesso essere dell’apparire. Nei termini di Fichte, la certezza è: immutabile; autofondata; autoimmanente (cfr. pp. 325-328 [231-234]). D’altra parte, affermare che la certezza è fondamento reale dell’idealità significa che ogni proiezione oggettivante o ogni costruzione ideale non è, almeno nella sua forma, qualcosa che dall’esterno si aggiunga alla certezza. Ogni proiezione oggettivante, ogni coscienza e autocoscienza, è formalmente, nel suo essere, fenomeno dell’essere uno e immutabile dell’apparire o della luce (pp. 325 [231] e 330 [236]). L’atto, in quanto luce, è «proiettarsi immanente», e questo proiettarsi «risiede nella vita della luce stessa» (p. 331 [237]): id est, la forma dell’apparire compete originariamente all’atto. Ma il proiettarsi, o la luce, non sarebbe tale se non fosse un proiettarsi determinato, se non fosse cioè apparire determinato: non solo la forma dell’apparire, ma anche la forma dell’oggettivare (coscienza, riflessione, concetto) compete originariamente all’atto (pp. 331-333 [237239]; cfr. Lez. XXIVa): Le due cose in relazione reciproca, e precisamente che l’una [la luce, il proiettare] sia assolutamente principio del suo essere, ma non possa esserlo senza divenire, nel medesimo inseparato colpo, principiato dell’altro [oggettivare, coscienza, libera costruzione], e a sua volta l’altro non divenga effettivamente un principio senza che si ponga il primo. (p. 339 [242])
Questo però significa anche che il contenuto della certezza, contenuto enunciato nella Wissenschaftslehre e da cui prima abbiamo fatto astrazione, e cioè la coimplicazione reale di atto ed Erscheinung, è esattamente la condizione della forma della certezza, ovvero della possibilità stessa del presupporre nel sapere ordinario, dell’enunciare indipendentemente dal suo
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riempimento materiale o ontico, così che la discrasia tra atto di enunciazione ed enunciato è risolta. 4.6. Apriorizzazione della prova. Secondo momento Veniamo al secondo punto, che in realtà è un corollario e un’esplicazione del primo. Qui il demonstrandum è: la coimplicazione reale di atto ed Erscheinung implica l’apparire determinato e quell’apparire determinato che è la ricostruzione del sapere puro operata nella Wissenschaftslehre. A ben vedere, però, il secondo termine dell’implicazione è almeno in parte già incluso nel primo, e in questo consiste l’apriorizzazione della prova, possibile già sulla base di quel che sappiamo dalla conclusione della Wahrheitslehre e dallo sviluppo delle implicazioni di quanto abbiamo detto sulla certezza. Conclusione e implicazioni che è ora opportuno ripetere al maggiore livello di consapevolezza e di determinatezza riflessiva cui siamo giunti. L’elemento di apriorizzazione della prova consiste in questo: non un pensiero determinato (fosse anche il concetto di Dio), ma la possibilità stessa del pensare, prima di ogni oggettivazione, implica necessariamente la coimplicazione reale di atto ed Erscheinung. Sappiamo che l’atto non è determinabile come sostanza ma è infinità attuale, infinità che è anche strutturalmente fondamento della forma del sapere o essere dell’apparire; così che il punto di partenza, l’enunciare della coscienza o il Soll, che a tutta prima sembrava contingente, è già incluso, nella sua forma e nella sua condizione di possibilità, nell’infinità dell’atto. Nell’VIIIa Lez., dopo il riferimento a Spinoza che abbiamo già visto sopra, Fichte aveva introdotto una critica del creazionismo: un essere che non appaia o a cui l’«esistenza temporale» resti estrinseca sarebbe un morto essere limitato dalla «moltitudine di esseri finiti» e perciò finito esso stesso (cfr. p. 143 [76 s.]). Così ancora più chiaramente nell’Anweisung zum seeligen Leben, che costituisce un’espo-
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sizione popolare dei temi di fondo della WL 1804, viene detto che la derivazione delle differenze finite da un atto di arbitrio dell’assoluto introdurrebbe nell’assoluto stesso una forma di contingenza, ovvero una regione ontica (il creato e lo stesso arbitrio dell’atto creativo) contraddittoriamente oscillante tra l’essere e il nulla18. Analoghe conclusioni sono emerse dall’analisi della certezza. Nei termini usati da Fichte a partire dalla XXVa Lez. della WL 1804-II si può anche dire che l’orizzonte dell’apparire, qui connotato come Bilden, non sarebbe tale se non apparisse e non apparisse in modo determinato; in tal caso ci troveremmo dinanzi a un’immagine (Bild) fuori dal Bilden, o detto in altri termini dinanzi alla contraddittorietà di un apparire fuori dall’essere dell’apparire. La differenza dell’essere dell’apparire o del Bilden rispetto a ogni orizzonte ontico, alla coscienza e alla riflessione, cioè a ogni Bild, significa piuttosto la comprensione delle differenze e della stessa riflessione come fenomeni (necessari) dell’assoluto; alla stessa stregua, su un piano epistemologico, l’inconcepibilità, di diritto, dell’atto è data pur sempre entro il concetto e come limite interno del concepire. O anche: un essere dell’apparire che non si proietti come sapere e come pensiero implicherebbe la contraddittorietà di un pensiero e di un apparire fuori dell’essere (cfr. WL 1804-II, pp. 348 s. [251 s.]). In tal modo sono state tolte o “scaricate”, cioè rese a priori e accertate nell’evidenza della loro verità, alcune assunzioni che ancora potevano sembrare ipotetiche e contingenti, cioè a posteriori, e segnatamente: la forma della certezza, il che vuol dire la forma dell’apparire o l’essere del sapere, e la forma 18. J.G. Fichte, Die Anweisung zum seeligen Leben, in GA, Bd. I,9, pp. 58, 117-120; tr. it., L’iniziazione alla vita beata, in Id., La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Guida, Napoli 1989, pp. 248, 314-317. D’ora in avanti, con l’abbreviazione Anw, seguita dal riferimento di pagina della traduzione italiana e, tra parentesi quadre, da quello dell’edizione tedesca.
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dell’oggettivare; ma anche, come si accennava in conclusione del precedente paragrafo, il contenuto della ricostruzione sinora operata. Il risultato così ottenuto consiste nell’autofondazione del sapere assoluto. Il sapere assoluto è l’autoricostruzione della struttura immutabile per cui l’atto necessariamente si proietta e oggettiva nel sapere ordinario e comprende quel proiettarsi autoriflessivamente nel sapere e come principio del sapere (ivi, Lezz. XXIVa e XXVa, in particolare pp. 342 s. [246], 348 [250]): autoricostruzione dunque della luce nel proprio proiettarsi e oggettivarsi in cui consiste la stessa Wissenschaftslehre. Il sapere ordinario è, nella sua forma, Bild fondato sul Bilden, è fenomeno dell’atto; il sapere del sapere o sapere assoluto (Wissenschaftslehre) è la comprensione concettuale della reciprocità di Bilden e Bild, e insieme la consapevolezza del proprio contenuto in guisa di Bild determinato come esposizione della reciprocità di Bilden e Bild. 4.7. Il Soll pratico e la riproposizione della contingenza. Terzo momento della prova Quanto detto però, e veniamo al terzo punto (che è in realtà una problematizzazione dei primi due), ancora non implica che l’orizzonte dell’apparire, l’atto, appaia in ogni contenuto determinato dell’apparire, che l’essere dell’apparire costituisca interamente ciò che appare nella forma determinata e finita dell’apparire, cioè nelle differenze. Nel Versuch, la limitatezza a priori dell’autoattività non escludeva ancora la persistenza di un elemento eterogeneo all’autoattività stessa. Qui, nella WL 1804-II, si è mostrata ed è stata ricondotta all’a priori la forma della determinatezza dell’Erscheinung, non ancora la determinatezza in tutta la sua “estensione” materiale. La contingenza non è stata cioè interamente ridotta e non è stato ricondotto
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all’a priori il fatto di esser giunti al sapere assoluto né di averlo espresso proprio in quel modo e non in un altro. Ora, il toglimento esaustivo della contingenza mi pare invero in Fichte un punto estremamente problematico e complesso, in cui si gioca il confronto, sopra intravisto, con la filosofia spinoziana. Ripartiamo dalla fine del precedente paragrafo: il contenuto della Wissenschaftslehre è il sapere assoluto. Il sapere assoluto implica costitutivamente l’elemento proiettivo e oggettivante del concetto; e tuttavia non può apparire come tale nel concetto. Il sapere assoluto non appare né può apparire in sé, ma proprio nella forma dell’«in quanto [als]»: appare cioè solo nel «raddoppiamento» (p. 376 [274]), ovvero solo nella ricostruzione discorsiva e concettuale. La descrizione concettuale, riconosciutasi come tale, come esteriorizzazione del sapere assoluto, deve annullarsi dinanzi al descritto. La descrizione concettuale si compie come vedere, un vedere che non ha più di contro un veduto: «Sehen des Sehens» (p. 364 [264]), «non più descrivibile oltre, ma solo da vivere immediatamente» (p. 364 [265]). Il vedere in quanto sapere assoluto «è a se stesso inconcepibile [unbegreiflich]» (p. 363 [264]); pure, in quanto implica la proiezione oggettivante nella forma dell’als, non può darsi fuori da una determinata ricostruzione concettuale. La ricostruzione concettuale nella sua determinatezza storica e linguistica è ciò che Fichte chiama Wissenschaftslehre in specie. Rispetto alla Wissenschaftslehre in specie, il sapere assoluto o Wissenschaftslehre tout court è insieme il fondamento ontologico e la destinazione. Questo significa che l’intrinseca necessità del sapere assoluto e della coimplicazione di atto ed Erscheinung riguarda il fatto che l’originario debba (necessariamente) venire ricostruito concettualmente, se la libera coscienza decide di destinarsi al sapere assoluto, ma non riguarda la concreta e storicamente determinata esposizione concettuale né la decisione della coscienza filosofante di intraprendere la riflessione
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trascendentale sull’essere del sapere. Sotto questo duplice rispetto la Wissenschaftslehre in specie è un «sapere particolare il cui non-essere è tanto possibile quanto il suo essere» (p. 351 [253]), perciò è libera e contingente riflessione. Riprendiamo quanto detto alla luce delle ultime considerazioni: l’atto è originariamente un Bilden che, come tale, non può apparire in sé ma sempre e solo in Bilder volta a volta determinati, in differenze ontiche particolari. Il sapere ordinario o la vita (della coscienza) è, nella sua forma, Bild. La comprensione della coimplicazione (a tutti i suoi livelli) di Bilden e Bild, di atto e differenze, è il sapere assoluto, che può apparire solo in quanto descritto e che, insieme, nel suo compimento, non è descrivibile. La Wissenschaftslehre in specie non è il sapere assoluto, ma una forma peculiare del sapere ordinario, uno dei possibili Bilder, quindi necessitata solo nella forma di essere Bild ma non ancora interamente risolta nella necessità intrinseca (e in ultima istanza irraggiungibile nel concetto) del sapere assoluto. Più semplicemente, come scrive Lauth, la filosofia non è la vita né esaurisce la vita nel sapere, ma è «un modo di essere libero e determinato della vita»19. La Wissenschaftslehre in specie è un possibile modo d’essere della manifestazione dell’atto, e segnatamente quel modo che tende alla realizzazione del vedere, cioè della vita stessa dell’atto. «Il fine ultimo è che l’uomo giunga alla vita eterna» (p. 353 [255]). In quel peculiare modo d’essere della vita che è la libera riflessione (Wissenschaftslehre in specie) deve (soll) apparire il sapere assoluto, il solo approdo in cui la vita può manifestarsi a sé e cioè lasciare emergere il proprio senso. Ma qui il Soll non indica più una struttura epistemologica, piuttosto assume il significato pratico di fine e destinazione della vita e del sapere ordinario (pp. 351 s. [253 s.]). Tentare l’impresa di una costruzione della 19. R. Lauth, J.G. Fichtes Gesamtidee der Philosophie, in Id., Zur Idee der Transzendentalphilosophie, Pustet, München-Salzburg 1965, p. 76.
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Wissenschaftslehre in specie dipende da una libera e irriducibile decisione del pensatore. Nella XXVIIIa Lez. e poi nell’Anweisung, Fichte afferma che il rapporto dell’autocoscienza, come luogo del fenomeno, all’atto è scandito secondo gradi di maggiore o minore approssimazione, secondo una gerarchia di «punti di vista» che va dal godimento sensibile, alla legalità, alla moralità, alla religione, sino alla stessa Wissenschaftslehre; e questi diversi punti di vista sono «ugualmente possibili» e dipendenti dalla libertà della coscienza20. Ma è possibile mantenere la contingenza e la libertà dopo aver mostrato la reciprocità di atto e apparire? È esattamente questo il punto problematico a partire dal quale ritornare sul confronto con Spinoza.
5. Conclusioni: immanenza o trascendenza dell’atto Prima di abbozzare la questione vorrei sintetizzare alcuni dei guadagni sinora raggiunti. In primo luogo, l’insieme di enunciati ontologici che si è ottenuto nell’indagine filosofica è apparso all’interno di un’interrogazione propriamente trascendentale sulle condizioni di possibilità dell’apparire e, riflessivamente, sulle condizioni di possibilità e lo statuto di quella stessa interrogazione. Il punto di partenza, entro cui la ricerca si è sempre mantenuta, è l’evidenza del cogito e la vita della coscienza indagata nella sua forma e nel suo fondamento. Nell’interrogazione trascendentale si è cercato cioè di non assumere come presupposto alcun contenuto ontico determinato dell’apparire ma di porre a tema l’apparire in quanto tale nella sua forma (la forma del sapere). L’intera ricerca si è mantenuta entro i limiti della forma finita dell’apparire, in quanto questo implica come sua condizione la 20. Cfr. Anw, Lezz. Va e VIIIa, in particolare pp. 344-347 [144-146].
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coscienza e l’autocoscienza (trascendentali ma finite): coscienza e autocoscienza come condizione, ma non come fondamento. In secondo luogo, infatti, si è mostrato come coscienza e auto coscienza presuppongano a proprio fondamento un atto di trascendenza irriducibile alla coscienza e all’autocoscienza stesse. L’apparire implica un necessario riferimento alla coscienza e all’autocoscienza come strutture trascendentali (egoità), ma questo riferimento è costituito dall’atto e non costitutivo dell’atto, è cioè riflessività interna all’atto stesso. L’insieme di asserti ontologici è stato ottenuto dialetticamente mostrando la contraddittorietà della riduzione dell’atto a coscienza e auto coscienza. L’atto si è palesato dunque come fondamento reale di ogni ideare finito. In terzo luogo, l’atto è venuto così ad evidenza non soltanto come fondamento della forma dell’apparire in generale ma come garanzia della certezza degli enunciati della riflessione trascendentale. La verità dell’insieme di asserti ontologici è stata accertata nella misura in cui l’atto costituisce la condizione stessa dell’enunciazione, cioè tanto della coscienza e autocoscienza del sapere ordinario, quanto della riflessione trascendentale. Si è visto in tal senso che l’apparire dell’atto come essere dell’apparire non può né avvenire fuori dalle modalità di mediazione concettuale della coscienza né essere interamente risolto nel concetto. Solo contraddittoriamente l’apparire dell’atto può venire inteso come un contenuto dell’apparire. L’atto può apparire solo perché esso stesso pone la mediazione concettuale e si sottrae alla mediazione concettuale. La mediazione concettuale può essere accertata nella sua verità solo come autocostruzione dell’atto, il che significa, a un tempo e inseparabilmente, che l’atto si pone realmente nell’ideare concettuale della coscienza filosofica ma implica il dileguare ideale della forma dell’io (annullamento del concetto e del noi che riflette).
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L’atto, in quarto luogo, è eccedente, come si è detto, rispetto a ogni contenuto determinato dell’apparire e a ogni forma finita dell’apparire. Possiamo intendere questa eccedenza come negatività interna a ogni contenuto e a ogni forma determinata dell’apparire, negatività interna di ciò che appare, del concetto e della coscienza cui appare, dunque negatività della differenza in quanto differenza. Tale negatività non può a sua volta venire intesa come struttura di rimando potenzialmente infinita: la negatività interna di ogni differenza significa che ogni differenza, isolata dall’atto, è contraddittoria, e un rinvio infinito (nel senso dell’infinità potenziale) del toglimento della contraddittorietà della differenza equivale a un non toglimento della contraddittorietà; sicché la negatività della differenza può significare soltanto che ogni differenza è fondata su un atto infinito (infinità attuale). Orbene, i punti in cui il discorso fichtiano mi sembra instabile, o almeno non completamente determinato, riguardano proprio la relazione tra l’atto e le differenze, intese sia come contenuto determinato dell’apparire, sia come riflessione determinata (Wissenschaftslehre in specie). Come si è visto, nella coimplicazione di atto ed Erscheinung è rimasto indeciso se ogni determinazione dell’Erscheinen o del Bilden competa strutturalmente all’atto, o, detto altrimenti, se l’autoattività si modifichi o meno in ogni sintesi determinata. La questione è se l’atto si predichi univocamente o meno delle differenze. La predicazione univoca dell’atto alle differenze realizzerebbe un’immanenza integrale in cui nessun ente può venir considerato più essente di un altro ente, e neanche l’identità dell’atto rispetto alle differenze. Saremmo nella posizione spinoziana così come è stata criticata da Fichte. In Fichte abbiamo visto come la contingenza della forma del l’apparire, della forma della determinatezza dell’apparire e della libera riflessione sulla forma dell’apparire fosse “apriorizzata”,
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cioè tolta, nella struttura immutabile della coimplicazione di atto ed Erscheinung. Questa apriorizzazione riguarda la forma dell’apparire e il contenuto del sapere assoluto, ma non immediatamente ogni contenuto dell’apparire né la Wissenschaftslehre in specie nella sua determinatezza storico-linguistica né la decisione della coscienza di orientare la propria vita e il proprio sapere ordinario in direzione di una riflessione trascendentale. La fondazione necessaria della contingenza non ha quindi assorbito in Fichte la contingenza stessa in tutta la sua estensione, ma ha anzi consentito di garantire la possibilità della libertà e di legare la legge necessitante del Soll epistemologico alla libera determinazione del Soll pratico. La libertà, implicata dal Soll pratico, si traduce nella possibilità di non portare a compimento la destinazione. Abbiamo visto come per Fichte l’ideale del sapere in quanto ideale resti un dovere affidato alla libertà della coscienza riflettente. E abbiamo visto che il rapporto della coscienza riflettente all’atto è scandito secondo gradi di maggiore o minore adeguazione. Se questo è vero occorrerà però concludere che non ogni differenza sia egualmente manifestativa dell’atto e che, anzi, alla libertà della coscienza competa la possibilità di non manifestare compiutamente l’atto. La libertà è il potere contingente di approssimarsi o non approssimarsi all’atto, di lasciare apparire più o meno l’atto. Il mantenimento della contingenza rende impossibile la predicazione univoca dell’atto a ogni differenza e, con ciò, rende impossibile l’immanenza. In tal caso sarebbe però difficile, se non contraddittorio, considerare il «sapere finito» o, in generale, la differenza (il contenuto dell’apparire e la Wissenschaftslehre in specie) come fenomeno dell’assoluto «determinato immutabilmente»21 dall’assoluto stesso. Pienamente atto o esse
21. WL 1801/1802, p. 121 [Lauth-Schneider, pp. 113 s.; GA, II,6, p. 227]; cfr. supra, p. 194.
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sarebbe solo, in senso eminente, l’Identico, rispetto a cui le differenze determinate manterrebbero un rapporto analogico di maggiore o minore approssimazione. Non già dunque la differenza come differenza, ma la differenza in quanto imita o approssima l’atto sarebbe manifestativa dell’atto. Nella differenza in quanto differenza esiste un margine che può non manifestare l’atto o che può non essere e che quindi è fuori dall’atto. Ma se l’atto è originariamente Bilden ed Erscheinen, donde quel margine di non manifestatività? Quel margine che si sottrae alla destinazione all’Identico sarebbe, rispetto all’Identico stesso, un’esteriorità, sicché risulta per lo meno problematico conciliare quanto detto con le critiche di Fichte al creazionismo, in cui abbiamo letto che la posizione di un’esistenza temporale (di una contingenza) fuori dall’assoluto renderebbe finito l’assoluto stesso. Più ancora: occorrerà ammettere che la puntualità materiale della differenza non è in quanto ente ma in quanto partecipa dell’esse dell’atto eminente, così che ciò che si sottrae a quell’esse è relegato nella contraddittorietà dell’oscillazione tra essere e non essere. Non l’ente in quanto ente, il fenomeno in quanto fenomeno, ma l’ente e il fenomeno nella misura in cui sono copia dell’identico esse possono sottrarsi alla contraddizione, o anche, il che è lo stesso, l’essere o l’atto non compete all’ente in quanto ente, ma all’ente nella misura in cui partecipa dell’Identità; e, dal momento che l’ente può non parteciparvi, quel poter-non (la contingenza) è fuori dall’esse, perciò contraddittorio. Quando, nell’Anweisung, Fichte afferma che la vita beata consiste nel «riposare e permanere nell’Uno»22 e che fuori dalla vita beata non è data che la «contraddizione [Widerspruch]»23, la possibilità della contraddizione va qui presa alla lettera, come contraddittorietà di ciò che può sottrarsi
22. Anw, p. 254 [64]. 23. Anw, p. 245 [55].
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a quel riposare nell’Uno, contraddittorietà della differenza nel suo semplice apparire temporale. La medesima difficoltà pare riproporsi sul versante più specificamente logologico. Si è mostrato che il sapere assoluto è in sé inconcepibile e appare solo entro la mediazione concettuale, temporalmente determinata, della Wissenschaftslehre in specie. Ma la verità della Wissenschaftslehre in specie si fonda sulla struttura formale assoluta, immutabile, sciolta dalla temporalità, della reciprocità di atto ed Erscheinung. Senza questa reciprocità, la coscienza enunciante non potrebbe garantirsi la certezza del contenuto del proprio enunciare e anzi non potrebbe neanche porsi come enunciante. Il punto è se il carattere invariante della struttura della coimplicazione di atto e fenomeno sia solo formale o entri a costituire materialmente le singole determinazioni temporali. In Fichte permane una discrasia tra la contingenza materiale della riflessione e della Wissenschaftslehre in specie e il sapere assoluto o la vita dell’assoluto. Senza questa discrasia non si comprenderebbe il valore pratico e prescrittivo del Soll. Se, nella loro forma, ogni riflessione e la Wissenschaftslehre in specie sono necessitate in quanto figure dell’atto, se lo stesso contenuto come sapere assoluto e visione è necessitato, pure, nella sua materia, cioè nella sua determinatezza temporale, la Wissenschaftslehre in specie non è ancora espressiva del sapere assoluto ma deve tendervi. Analogamente a quanto abbiamo visto sopra, l’impresa contingente della riflessione e della Wissenschaftslehre in specie, proprio perché chiamata a adeguarsi a un’Identità intemporale che non affetta materialmente le singole determinazioni riflessive, resterebbe contraddittoriamente esterna all’assoluto e inspiegabile nel suo concreto istituirsi nel tempo. La Wissenschaftslehre in specie non sarebbe interamente un’autocostruzione dell’atto, ma un processo, arbitrario nel proprio istituirsi, di adeguazione a una forma identitaria in sé conclusa. Si riproporrebbe allora, forse, uno iato tra la forma
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dell’apparire e il contenuto materiale dell’apparire, tra il Tun e il Sagen. Il toglimento di questa discrasia richiederebbe la necessità di affermare che ogni riflessione e la stessa Wissenschaftslehre in specie, quindi ogni differenza temporalmente determinata, è interamente, cioè anche materialmente, espressiva dell’atto; affermare cioè che il sapere assoluto, come struttura epistemica invariante, affetta materialmente le proprie esposizioni. Sul piano più propriamente ontologico, e più in generale, occorrerebbe riabilitare l’immanenza (con i non piccoli problemi che questa ripropone e su cui non possiamo qui soffermarci) e negare ogni forma di contingenza. Ed è questa la soluzione che renderebbe spinoziana la filosofia di Fichte. In questo caso ogni differenza e ogni fenomeno in quanto tali sarebbero pienamente essere. L’univocità della predicazione dell’atto, implicata dall’immanentismo, richiede che la contingenza sia interamente tolta in quanto contraddittoria. Il toglimento della contraddizione non può limitarsi alla posizione di un fondamento necessario della contingenza ma deve esaurire e dissolvere la contingenza stessa, ogni poter-non, lo stesso potere di non lasciare apparire l’atto che sembra competere alla libertà, quindi la libertà stessa. Così che la differenza come differenza sarebbe interamente essere, e l’atto non potrebbe essere un Identico se non come identità-delle-differenze. Forse occorrerebbe intendere nella sua radicalità l’infinità verbale dell’esse come infinità attuale. Se ogni determinazione ontica, e anche quella particolare determinazione ontica costituita dalla riflessione e dal concetto, è univocamente apparire dell’esse infinitamente attuale, allora non è possibile alcun apparire determinato dell’esse che non sia già sempre ricompreso nella struttura immutabile dell’atto d’essere. Come scrive Fichte nell’Anweisung, «all’interno di questo essere non può apparire nulla di nuovo, niente può prendere una forma diver-
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sa, modificarsi o cambiare: ma quale è lo è da tutta l’eternità»24. O ancora, come leggiamo nella Missione dell’uomo: Il mondo soprasensibile non è affatto un mondo futuro, esso è presente: esso non può essere in nessun punto dell’esistenza finita più presente che in un altro; dopo una esistenza di miriadi di durate di vite non può essere più presente che in questo momento.25
24. Anw, p. 277 [86]. 25. J.G. Fichte, Die Bestimmung des Menschen, in GA, Bd. I,6, p. 285; tr. it. di R. Cantoni, La missione dell’uomo, Denti, Milano 1944, p. 176.
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L’esperienza della «Cosa stessa» e l’Aufhebung della ragione finita nella Fenomenologia dello spirito di Gaetano Basileo
La concezione di una ragione e di una metafisica assoluta – secondo la quale si dà un’autoconoscenza sistematica e completa dell’assoluto per mezzo della ragione – costituisce il nucleo intorno al quale si concentra e trova unità l’intera riflessione dello Hegel maturo. Da una parte, la comprensione della ragione come unità speculativa e infinita, che contiene in sé la propria processuale determinazione e che in questa si conosce, sta alla base della peculiare concezione hegeliana di una intrinseca connessione dei tre concetti cardine: principio, sistema e metodo, che costituiscono il riferimento comune per i grandi pensatori dell’idealismo tedesco. Se infatti la ragione e il vero sono «il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio come suo scopo la sua fine e che solo mediante l’attuazione e la sua fine è effettuale»1, allora il principio non può es1. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 9, hrsg. von W. Bonsiepen und R. Heede, Meiner, Hamburg 1980, p. 18; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, vol. I, p. 14; d’ora in poi: PhG, seguito dal numero della pagina tedesca, dall’indicazione in cifra romana del volume italiano e dal numero della pagina. Le traduzioni dei passi della Fenomenologia citati sono state lievemente modificate, là dove ciò sia apparso opportuno.
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sere qualcosa di distinto dal principiato, né un fondamento che lo trascenda, e piuttosto esso è tale da realizzare se stesso in un processo di auto-attuazione, ovvero in un processo di progressiva autodeterminazione e auto-generazione, metodologicamente scandito dalla dialettica, il quale contemporaneamente si contraddistingue per la capacità di comprendere il sapere di se stesso come momento culminante del proprio sviluppo2. D’altra parte, però, Hegel distingue da questo significato speculativo della ragione e della metafisica la concezione della ragione sviluppata dalle filosofie della soggettività finite, che fondano l’agire e il conoscere umano in un pensiero finito, e a suo dire comprendono la ragione come un’unità di pensiero ed essere immediata, non processuale e astorica3. La necessità di un confronto con la comprensione della ragione propria dell’idealismo finito – che nei primi lavori jenesi di Hegel assumeva l’aspetto della polemica nei confronti di Kant, di Fichte e dei romantici – si conserva nella Fenomenologia dello spirito. Qui, tuttavia, essa si manifesta in primo luogo nel riconoscimento dell’esigenza di premettere all’esposizione del processo di autodeterminazione della soggettività assoluta un’introduzione, che ne giustifichi la conoscibilità e accessibilità da par2. Il vero, allora, è l’intero e cioè il sistema che, da un punto di vista logico, espone il processo dialettico e necessario di graduale arricchimento delle categorie dell’essere, dell’essenza e del concetto. Questo processo non è però altro dal puro pensare e sapere-Sé della soggettività assoluta, che contemporaneamente costituisce il risultato dello sviluppo categoriale e insieme produce quest’ultimo spontaneamente e autonomamente in un necessario processo dialettico di autodeterminazione. 3. A dispetto delle pur fondamentali differenze, Kant, Fichte e Hegel condividono un’interpretazione di fondo della ragione che ne mette in rilievo il significato ontologico e che trova la propria origine nel pensiero greco e specificamente in Aristotele. Su questo si vedano le osservazioni di K. Düsing, Der Begriff der Vernunft in Hegels Phänomenologie, in D. Köhler - O. Pöggeler (Hrsg.), G.W. F. Hegel. Phänomenologie des Geistes, Akademie, Berlin 2006, pp. 145-164, qui pp. 151 s.
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te del sapere finito, e, in secondo luogo, nella necessità di dar conto del ruolo che in quel processo viene assunto dal sapere e dall’operare del soggetto finito. In quanto segue mi propongo di mostrare che questi ultimi due problemi costituiscono in realtà, secondo Hegel, un plesso unitario. L’introduzione al punto di vista del sapere infinito – la storia dell’esperienza della coscienza esposta nella Fenomenologia dello spirito – si configura essa stessa come processo di auto-superamento del sapere finito, all’interno del quale la concezione della ragione come certezza di un’immediata identità di pensiero ed essere costituisce in realtà un momento determinato: come, infatti, Hegel mostra nel capitolo Ragione della Fenomenologia, è possibile uno sviluppo immanente della posizione dell’idealismo finito, per mezzo del quale questo sia necessariamente condotto alla considerazione dell’universale concreto, che è tale perché contiene la propria specificazione. Una chiarificazione di queste tesi hegeliane richiede in primo luogo un’esplicitazione della concezione fondamentale della Fenomenologia: nella prima parte del seguente contributo viene dunque brevemente messo in rilievo che Hegel la concepisce come una introduzione sistematica allo Standpunkt della scienza e contemporaneamente come una peculiare storia idea listica dell’autocoscienza. Nella seconda parte viene delineata la comprensione hegeliana del concetto finito della ragione, quale viene a suo dire sviluppato nelle filosofie di Kant e di Fichte; quindi si mostra come esso si inserisca, secondo Hegel, nel contesto generale di una storia dell’esperienza della coscienza, e come su questa base sia possibile produrre il processo necessario del suo immanente arricchimento: dal punto di vista teoretico la coscienza razionale si innalza fino alla considerazione di un oggetto che le manifesta la struttura dell’universale concreto, mentre da un punto di vista pratico viene raggiunto il concetto dell’operare (Tun).
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Nella terza parte, al cui centro sta l’esperienza di quanto Hegel chiama la Cosa stessa, viene infine mostrato come la dialettica dell’operare renda possibile un primo decisivo superamento del “paradigma della coscienza”, dal quale la ragione e l’idealismo del sapere finito sono costitutivamente definiti, rendendo conseguentemente possibile la genesi, nell’ambito della storia dell’autocoscienza, di una prima fondamentale determinazione dello spirito. Viene allora in primo piano che autenticamente razionale è soltanto l’universale concreto. Questo, però, mostrerà di non essere un movimento di autoriferimento i cui momenti concettuali possano essere compresi come originariamente dati e accessibili esteriormente al pensiero: piuttosto, il processo di concreta autodeterminazione dell’universale si rivelerà coincidente con il movimento del suo divenire, con la storia dello spirito.
1. La concezione hegeliana di una storia idealistica del l’autocoscienza come introduzione allo Standpunkt della Scienza Per comprendere la concezione hegeliana della ragione nella Fenomenologia dello spirito e, più in particolare, l’argomentazione che viene esposta nel capitolo sulla Cosa stessa è necessario considerare preliminarmente, sia pur per brevi cenni, come esse si inseriscano nel contesto fondamentale dell’opera. Quest’ultimo può essere definito mettendo in rilievo da una parte la funzione, che secondo Hegel la Fenomenologia deve assolvere, di fornire una introduzione sistematica e in se stessa necessaria della coscienza finita allo Standpunkt del sapere vero e della scienza; dall’altra evidenziando che questa introduzione viene concepita nella Fenomenologia come una particolare storia idealistica dell’autocoscienza, la quale si configura come esame scettico di forme concrete del sapere
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e delle specifiche pretese di verità, che la coscienza di volta in volta solleva relativamente a ciò che per essa costituisce l’essenza dell’oggettività o della sua relazione all’oggettività4. Il termine “storia” assume qui il significato di una genesi sistematica e ideale dei modi della coscienza; e per parte sua, come Klaus Düsing ha messo in rilievo, coscienza indica il soggetto in generale dei diversi modi del ritener vero (die Weisen des Fürwahrhaltens), il quale è comune ai diversi livelli della coscienza finita, dell’autocoscienza, della ragione e dello spirito e che in essi progressivamente si forma, fino a raggiungere la sua figura compiuta, costituita, secondo Hegel, dal puro sapere di se stesso dell’assoluta soggettività5.
4. Sul tema di una hegeliana storia idealistica dell’autocoscienza si vedano K. Düsing, Hegels Phänomenologie und die idealistische Geschichte des Selbstbewusstseins, in «Hegel-Studien», vol. 28, 1993, pp. 103-126; G. Di Tommaso, Alle origini del metodo fenomenologico, in G. Cantillo - G. Di Tommaso - V. Vitiello (a cura di), Logica ed esperienza. Studi in ricordo di Leo Lugarini, Bibliopolis, Napoli 2009, pp. 297-315. 5. Cfr. K. Düsing, Fenomenología y lógica especulativa, Indagaciones sobre el «saber absoluto» en la Fenomenología de Hegel, in F. Duque (a cura di), Hegel. La Odisea del Espíritu, Circulo de Bellas Artes, Madrid 2010, pp. 293-311, qui in particolare pp. 297-301. Düsing mette in rilievo che la concezione di una storia idealistica dell’autocoscienza sviluppata da Hegel nella Fenomenologia si distingue dai modelli che egli poteva rintracciare in Fichte e Schelling in virtù della sua funzione sistematica di introduzione allo Standpunkt della vera Scienza e inoltre perché essa non consiste, come invece avviene in quei casi (e nei predecessori empiristi, come Condillac), in una esplicazione di capacità e prestazioni dell’animo umano, ma in quella dei modi del ritener vero che di volta in volta corrispondono a questi ultimi. Così, per esempio, la storia della coscienza esposta nella Fenomenologia non inizia con la sensazione (come avviene invece in Fichte e Schelling), ma con il modo del ritener vero a questa corrispondente: la certezza sensibile. Connessa a questa differenza è poi la forma dell’esposizione, che in Hegel si presenta come un esame scettico, il quale da un punto di vista metodologico è reso possibile dalla dialettica.
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Nell’introduzione all’opera Hegel chiarisce programmaticamente che l’esame scettico è tale da mostrare in una successione sistematica tanto le intrinseche mancanze di quelle pretese di verità, quanto un conseguente, necessario arricchimento dei modi del ritener vero e del loro correlato intenzionale, nel corso del quale si sviluppano progressivamente contenuti sempre più complessi della soggettività, fino al raggiungimento di un Io-Oggetto completamente sviluppato, nel quale la soggettività può riconoscere se stessa, accedendo in questo modo alla posizione del sapere vero. Il significato dell’esame scettico nel processo di formazione della coscienza non viene però riconosciuto dalle figure di volta in volta considerate: per ciascuna di esse il processo di formazione si configura piuttosto come una via del dubbio e persino della disperazione, e ciò perché ogni figura della coscienza è definita essenzialmente dal proprio specifico modo del ritener vero «e non ha il potere di andare oltre il proprio immediato esserci»6. La confutazione scettica del sapere finito di ognuna delle figure della coscienza coincide dunque con il suo venir meno. Hegel distingue tuttavia da questo Standpunkt quello del per noi, o del filosofo, il quale è in grado di riconoscere nello sviluppo dei diversi modi del ritener vero, che vengono di volta in volta negati scetticamente, un nesso sistematico, ovvero una serie ordinata razionalmente, la quale conduce al Telos del sapere assoluto. Soltanto per noi, e cioè per coloro che sono in grado di considerare filosoficamente questo sviluppo, l’esame scettico è contemporaneamente uno «scetticismo che giunge a maturazione» e la storia idealistica dell’autocoscienza una scienza necessaria7. 6. PhG, 57; it., I, 72. 7. «L’esser per la coscienza dello in sé» – scrive Hegel – costituisce un nuovo oggetto, «con il quale compare anche una nuova figura della coscienza, figura alla quale l’essenza è qualche cos’altro che non alla figura preceden-
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La duplice caratterizzazione dell’itinerario della formazione della coscienza come contemporaneamente affermativo e negativo, espositivo (sintetico) e critico, costituisce il carattere dialettico dell’esperienza che essa fa e che la conduce da un modo all’altro del ritener vero e delle figure a questi associate. Ma anche in questo caso una comprensione adeguata e completa della struttura dialettica dell’esperienza è riservata al für uns e non alla coscienza specifica di volta in volta sottoposta all’esame scettico. Come Hegel afferma, la coscienza, intesa come soggetto in generale dei diversi modi del ritener vero, scopre a ogni stadio del proprio sviluppo che il contrario di ciò che essa aveva ritenuto esser vero si dimostra essere la verità: per esempio, la certezza sensibile ritiene che il vero sia qualcosa di sensibile e immediatamente dato; l’esame scettico di questo suo modo del ritener vero le mostra però che il suo vero è piuttosto l’universale sensibile. In maniera analoga si svolge l’esperienza di ogni ulteriore figura della coscienza: come si è accennato, proprio a causa di questo aspetto negativo-dialettico della sua esperienza e dell’annientamento a esso connesso di ciò che essa riteneva vero la coscienza deve sempre cader preda del dubbio e perfino della disperazione. Da questa considerazione dell’esperienza Hegel distingue tuttavia ciò che in essa è per noi, per il filosofo speculativo. Quest’ul-
te» (PhG, 61; it., I, 77). Per la coscienza si reinstaura l’alterità del proprio oggetto, dovuta al fatto che l’oggetto che essa di volta in volta considera ha la sua cosalità, la sua condizione, in un altro dal suo contenuto oggettivo, e cioè nel processo sorgivo della stessa nuova relazione, di cui però la coscienza naturale è costitutivamente ignara. «Soltanto per noi è il puro sorgere; per quella ciò che è sorto è solo come oggetto» come Gegen-stand; «per noi è in pari tempo come movimento e divenire» (ibidem). Su questo si veda, in particolare, M. Heidegger, Hegel, tr. it. di G. Moretti, Zandonai, Rovereto 2010, pp. 109-133.
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timo, secondo Hegel, è infatti in grado di riconoscere che la negazione dei vari modi del ritener vero non è una semplice negazione astratta, il cui risultato sarebbe soltanto un vuoto nulla, ma una negazione determinata, tale da avere un risultato positivo. Detto in altre parole, per il filosofo speculativo la negazione di un modo del ritener vero conduce ogni volta al sorgere di un nuovo oggetto e di un nuovo modo del ritener vero: per esempio, nella percezione e nella cosa (das Ding) che essa tematizza sono tolti e conservati come momenti costitutivi la certezza sensibile e il suo correlato, il questo-qui, che in verità è un universale. «Questa è la circostanza che – come Hegel afferma – conduce nella sua necessità l’intera successione delle figure della coscienza»8. Poiché noi concepiamo il «puro sorgere» e il divenire delle figure, il loro presentarsi nell’ambito della storia idealistica dell’autocoscienza non si configura come un mero accadere, ma come il risultato necessario delle esperienze precedenti. In virtù della negazione determinata, che da un modo all’altro del ritener vero conduce secondo una progressione necessaria fino al sapere assoluto, la storia della formazione della coscienza quale introduzione alla scienza assume essa stessa un carattere scientifico. La coscienza particolare, invece, non tematizza mai il processo in cui sorge il proprio oggetto. Quest’ultimo le si offre, «senza che essa sappia come le accade»9. Secondo Hegel, ciò accade perché il sapere coscienziale è a ogni livello del suo sviluppo costitutivamente ignaro delle sue stesse condizioni di possibilità: esse consistono da una parte nel presupposto del darsi di una differenza tra il sapere e il proprio oggetto, dall’altra nell’incapacità della coscienza di riconoscere (prima del sapere assoluto) nell’oggetto che essa di volta in volta ha di fronte
8. PhG, 61; it., I, 77. 9. Ibidem.
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un prodotto dell’esperienza che essa fa. La condizione di possibilità del darsi alla coscienza di un nuovo oggetto è cioè da rintracciare nella «distorsione e nell’occultamento della sua provenienza ovvero della sua mediazione. In questo si fonda la sua apparente immediatezza»10. La storia idealistica dell’autocoscienza permette il superamento di questa situazione. Nella serie delle figure della coscienza che viene esposta nella Fenomenologia, infatti, ha luogo il divenire graduale di determinazioni sempre più complesse: da una parte il soggetto del tener per vero assume da uno stadio all’altro del proprio sviluppo una struttura più differenziata della soggettività, dall’altra il correlato noematico rappresentato acquista esso stesso determinazioni sempre più ricche, finché l’oggetto stesso mostra in se stesso il movimento della riflessione e la struttura compiuta della soggettività11. Soltanto a questo livello dell’esposizione, nel quale lo spirito è presente per lo spirito, la figura maggiormente complessa e sviluppata della soggettività può identificarsi con se stessa in quanto Io-Oggetto completamente sviluppato. E poiché in questo modo la differenza di soggetto e oggetto, che è immanente a tutte le figure della coscienza precedenti, viene finalmente tolta, è anche contemporaneamente raggiunto lo Standpunkt dal quale diviene possibile esporre non più figure della coscienza, ma «concetti determinati» e il «movimento organico e in se stesso fondato degli stessi»12, quale viene poi presentato nella sua purezza nella Scienza della logica.
10. J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, Kohlhammer, Stuttgart 1966, pp. 41 s. 11. Cfr. K. Düsing, Fenomenología y lógica especulativa, cit., p. 298. 12. PhG, 432; it., II, 303.
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2. La concezione fenomenologica della Ragione e dell’idea lismo della soggettività finita La ragione finita che viene sviluppata nel capitolo omonimo della Fenomenologia viene compresa da Hegel come un momento determinato della storia idealistica dell’autocoscienza e più in particolare come il modo del Fürwahrhalten che ha ormai maturato la «certezza» di essere «tutta la realtà»13. Nel breve brano introduttivo al capitolo Hegel chiarisce che questa certezza definisce la posizione dell’idealismo della soggettività finita, la quale ha sviluppato, tanto da un punto di vista teoretico che da un punto di vista pratico, «un comportamento positivo» nei confronti dell’alterità, perché sa di non poter incontrare in questa «niente di diverso da lei»14. Secondo Hegel, tale certezza viene espressa da Kant per mezzo dell’uni tà dell’appercezione e da Fichte tramite la proposizione fondamentale «Io = Io». In entrambi i casi viene a espressione un’unità semplice e immediata di soggettività e oggettività, nella quale si può riconoscere un’eco della comprensione antica della ragione come logos e della categoria come termine per indicare che «autocoscienza e essere sono la stessa essenza; la stessa, non in un confronto, ma in sé e per sé»15. Ma Hegel mette anche in luce i limiti di questo idealismo, che egli individua essenzialmente nell’immediatezza e nell’astrattezza della certezza in cui esso consiste: da una parte queste si traducono nel carattere assertorio dell’idealismo finito, nella sua incapacità di andare oltre la mera assicurazione del proprio principio e di fornirne un’adeguata giustificazione16. Dall’altra, 13. PhG, 133; it., I, 194. 14. PhG, 132; it., I, 194. 15. PhG, 134; it., I, 200. 16. Cfr. PhG, 133; it., I, 195 s. In ciò sembra implicito il rimprovero di Hegel, rivolto tanto contro Kant quanto, soprattutto, contro Fichte, di non aver
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la certezza dell’identità di pensiero ed essere, sulla cui base l’idealismo sviluppa il suo atteggiamento positivo, viene compresa dalla coscienza come un’unità semplice e immediata, che dunque rimane vuota e astratta. Per questo motivo, secondo Hegel, l’idealismo soggettivo è costretto a rintracciare in un altro da se stesso il principio della determinazione del suo contenuto (il molteplice di Kant o l’Anstoß fichtiano), con questo cadendo in una contraddizione fondamentale: in quanto esso non è in grado di «conciliare in un’unica realtà» l’opposizione tra l’identità immediata di pensiero ed essere e la differenza e molteplicità, questo idealismo deve infatti essere contemporaneamente «anche empirismo assoluto». Ovvero, come Hegel spiega, la ragione idealistica «per riempire il vuoto mio, cioè per avere la differenza, l’intero sviluppo e la configurazione complessiva […] ha bisogno di un urto esterno, in cui risiederebbe innanzitutto la molteplice varietà delle sensazioni e delle rappresentazioni»17. In questo modo tuttavia l’idealismo di Kant e di Fichte viene a essere intimamente inficiato dal «contraddittorio doppio senso» di pensare l’essenza come «alcunché di duplice e di puramente e semplicemente contrapposto»18, una volta come l’unità dell’autocoscienza, l’altra come un secondo principio (il molteplice e la cosa in sé o l’Anstoß), che però non ha alcun nesso logico con il primo. Le conseguenze di questa ricaduta dell’idealismo soggettivo nel dualismo tipico di uno stile intellettivo di pensare sono, secondo Hegel, molteplici. Da una parte, infatti, l’idealismo si rivela come una filosofia della finitezza, perché la soggettività unilaterale può essere certezza di ogni realtà soltanto nella repremesso all’esposizione del principio delle loro filosofie un’introduzione sistematica in grado di fondarlo. Una tale funzione introduttiva viene invece svolta, secondo Hegel, dalla Fenomenologia dello spirito. 17. PhG, 136; it., I, 200. 18. Ibidem.
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lazione esteriore all’oggettività data. A dispetto, dunque, della propria autocomprensione, l’idealismo rimarrebbe secondo Hegel affetto dai limiti propri di un pensiero rappresentativo, il quale, presupponendo la finitezza della relazione e dei relata che considera, non riuscirebbe a superare l’opposizione intellettualistica di soggettività e oggettività. Proprio per questo, d’altra parte, l’idealismo finito si condannerebbe da sé a oscillare continuamente tra i due estremi solidificati, finendo col cadere nella «cattiva infinità» e limitandosi consapevolmente a un sapere, quello dell’alterità raggiunta nell’opinione e nella percezione, che esso stesso considera non vero19. Qui possono essere lasciate da parte le unilateralità di questa «diagnosi hegeliana della contraddizione fondamentale dell’idealismo trascendentale»20. Evidentemente egli ha davanti agli occhi un modello diverso di soggettività e di ragione, la quale è secondo lui contraddistinta dalla capacità del pensiero speculativo di contenere nella propria unità la differenza come sua immanente specificazione, configurandosi così come universale
19. Hegel paragona questa situazione a quella che secondo lui contraddistingue l’esperienza dello scetticismo. Come questo, infatti, anche l’idealismo «non riesce a mettere d’accordo i suoi pensieri contraddittori della coscienza pura in quanto essa sia ogni realtà, nonché dell’urto esterno o del sentire e del rappresentare sensibili, come pensieri di una realtà eguale; anzi, si dibatte tra un pensiero e l’altro, per cadere poi in braccio alla cattiva infinità, ossia all’infinità sensibile» (PhG, 136; it., I, 200). 20. K. Vieweg, Das geistige Tierreich oder das schlaue Füchslein. Zur Einheit von theoretischer und praktischer Vernunft in Hegels Phänomenologie des Geistes, in Th.S. Hoffman (Hrsg.), Hegel als Schlüsseldenker der modernen Welt. Beiträge zur Deutung der «Phänomenologie des Geistes» aus Anlaß ihres 200-Jahr-Jubiläums, Meiner, Hamburg 2009, pp. 206-218, qui p. 216. Per un’attenta esposizione della polemica di Hegel nei confronti di Kant e soprattutto di Fichte nell’introduzione al capitolo Ragione, cfr. K.E. Kaehler - W. Marx, Die Vernunft in Hegels Phänomenologie des Geistes, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1992, pp. 35-64.
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concreto. Hegel descrive brevemente da un punto di vista logico gli aspetti fondamentali della relazione dialettica che, secondo il ritmo di universalità, particolarità e singolarità, raccoglie la differenza tra il principio e la sua specificazione nell’uni tà del concetto. Egli scrive che la «categoria, l’unità semplice dell’autocoscienza e dell’essere in sé ha in sé la differenza», la quale «appare come una molteplicità di categorie»21. Tra l’universalità della categoria e la particolarità delle sue specificazioni insorge così un conflitto, che per Hegel assume i tratti della contraddizione. Egli aggiunge però che la categoria racchiude in sé la differenza e che sua «essenza è di essere immediatamente uguale a se stessa nell’essere altro, cioè nella differenza assoluta. Qui perciò la differenza è, ma è perfettamente trasparente, tale da non essere, a un tempo, differenza alcuna»22. Senza sviluppare ulteriormente l’argomento, la cui sistematica esposizione appartiene secondo Hegel alla Logica, egli cerca in questo modo di mostrare che le categorie non sono distinte dal loro autentico fondamento, ma che piuttosto quest’ultimo, in forza della propria essenza, si manifesta in molteplici categorie, le quali non sono altro che la sua immanente distinzione. La differenza tra universalità e particolarità costituisce infatti soltanto un momento del processo della categoria; il secondo momento correlativo è però quello in cui la categoria toglie in se stessa la molteplicità delle categorie e si costituisce in questo modo come unità negativa delle differenze – come singolarità che «esclude da sé non solo le differenze in quanto tali, ma anche la prima immediata unità pura in quanto tale»23, poiché entrambe sono ora comprensibili soltanto come momenti del ciclo in se stesso chiuso dello sviluppo della categoria.
21. PhG, 134; it., I, 197. 22. Ibidem. 23. PhG, 135; it., I, 198.
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Rispetto a questo significato speculativo e compiuto di ragione, lo sviluppo esposto nell’omonimo capitolo della Fenomenologia ha di nuovo una funzione soltanto introduttiva, che si esplica come esposizione del processo nel corso del quale l’unità immediata e semplice, in cui la coscienza razionale sorge, progressivamente si arricchisce, fino a configurarsi per la coscienza stessa come universale concreto, come unità razionale che contiene in sé la propria differenza e specificazione. Poiché però, come si vedrà subito, anche in questo risultato la coscienza razionale permane nella sua opposizione e differenza rispetto all’universale concreto, secondo Hegel è necessario esporre anche il processo dell’esperienza in cui viene superata questa forma di differenza e viene generata una forma del sapere capace di comprendere l’universale concreto come vero e proprio soggetto dell’esperienza – come spirito, che si determina nel proprio necessario sviluppo. Hegel mostra dapprima dal punto di vista teoretico il processo di riempimento della vuota certezza in cui la coscienza razionale sorge originariamente. Ciò avviene mediante l’esposizione delle esperienze dialetticamente ordinate della coscienza osservatrice, nella quale ha luogo il suo progressivo innalzamento da una semplice descrizione e catalogazione delle cose, per mezzo del riferimento a loro qualità astratte, alla considerazione della vita e cioè di quell’oggetto che manifesta alla coscienza la struttura dell’universale concreto, e con ciò la sua stessa essenza. Per Hegel, tuttavia, la ragione osservatrice non può riconoscersi in ciò che trova, perché il solo sapere teoretico, quale si concretizza nella conoscenza della natura, rimane per definizione all’interno dell’opposizione fondamentale della coscienza, e dunque assume l’altro come dato e trovato, con la conseguenza che non è per esso possibile spingersi oltre l’estre mo limite di una considerazione intellettualistica della vita e
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dell’organico, quale viene espressa, secondo lui, nella Critica del Giudizio di Kant e nel pensiero di Schelling24. Per superare la scissione nei confronti del proprio oggetto la coscienza razionale deve piuttosto passare per una nuova fase, e sviluppare le varie forme di attiva realizzazione della propria certezza di essere ogni realtà: nella seconda sezione del capitolo Ragione Hegel espone dunque l’esperienza per mezzo della quale la coscienza razionale pratica, certa di essere nella sua singolarità e individualità l’essenza, cerca di realizzarsi in una realtà che essa trova e che comprende come il negativo di se stessa, che deve esser tolto25.
24. Come Hegel cerca di mostrare in queste pagine, la riflessione di Kant sulla vita organica avrebbe da una parte il merito di considerare la teleologia interna, nella quale la struttura del concetto è prefigurata; dall’altro, però, la filosofia kantiana, presupponendo la distinzione della coscienza tra il sapere e l’oggetto, è indotta istintivamente a trasformare il concetto di finalità interna in una riflessione che il soggetto opera sull’esperienza. In questo modo, tuttavia, la coscienza ricade nella separazione tra il concetto e l’organismo concreto, e dunque nell’impossibilità di esprimere la loro relazione necessaria. Per la coscienza osservativa la connessione di mezzo e fine si dà soltanto a un livello concettuale, e il fine stesso non è per lei l’essenza propria dell’organico, il principio di determinazione a esso immanente, ma le appare innanzi tutto «esterno alla cosa che si presenta come fine» – e allora esso cade nella coscienza come principio soggettivo per mezzo del quale essa dirige la propria indagine sulla natura organica. «In secondo luogo, il fine le appare come fine oggettivo che cade non all’interno della coscienza stessa, ma in un altro intelletto» (PhG, 147; it., I, 218 s.), quello divino. Schelling e la filosofia della natura da lui ispirata invece, affidandosi all’intuizione intellettuale per dar conto dell’immanenza dell’universale nel particolare, recupererebbero sì l’idea della ragione come identità di pensiero ed essere, ma non sarebbero in grado di pensare la connessione dialettica di forma e contenuto e con essa il vero carattere della mediazione speculativa: soltanto questa esprime però, secondo Hegel, la vita del concetto e con essa la vera necessità e scientificità (cfr. PhG, 164-166; it., I, 242-249). 25. Cfr. PhG, 214; it., I, 326.
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Nel corso della sua esperienza questa coscienza si arricchisce progressivamente, sviluppando comprensioni via via più complesse di se stessa e della sua relazione pratica con l’oggettività. Tutti i tentativi di autorealizzazione della coscienza razionale e le correlative forme del ritener vero che Hegel espone in questa parte della Fenomenologia – la ricerca da parte dell’individuo di una felicità intesa come soddisfacimento del proprio piacere immediato e raggiungimento del proprio «essere per sé immediato e astratto»26, il tentativo di realizzare la legge universale nell’ordine sociale preesistente, lo spirito di sacrificio della coscienza virtuosa che si oppone al malvagio corso del mondo – condividono infatti il presupposto intellettualistico della datità del mondo e della separazione tra l’individualità razionale e l’oggettività in cui questa si dovrebbe dispiegare. Proprio questo presupposto, però, viene superato nel corso dell’esame scettico a cui le varie figure della coscienza pratica sottopongono di volta in volta la loro peculiare (e unilaterale) forma del ritener vero. Fornendo una chiara esemplificazione delle direttive metodologiche fissate nell’introduzione all’opera, Hegel mostra come le figure che si succedono in questa parte della storia dell’auto coscienza esperiscano, nel corso della loro Selbstprüfung, che il contrario di ciò in cui esse di volta in volta rintracciano il coefficiente e il motivo del loro agire si rivela essere la loro vera essenza. Così, per esempio, tanto la coscienza faustiana, che pone il fine nel soddisfacimento del proprio piacere particolare, quanto la coscienza virtuosa, che cerca di realizzare nel mondo il proprio fine astrattamente universale, debbono infrangersi contro l’asprezza della necessità e l’invincibilità del corso del mondo, dell’elemento oggettivo fuori di loro, mentre l’auto coscienza virtuosa, che cerca di ricongiungersi con quest’ultimo
26. PhG, 198; it., I, 300.
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tramite la soppressione di se stessa, deve fare esperienza della vacuità del proprio atteggiamento. Poiché le varie figure della coscienza non possiedono i mezzi concettuali che sarebbero necessari per concepire speculativamente l’oscillare tra autonomia ed eteronomia che le caratterizza, il corso dell’esperienza si configura anche per loro come via del dubbio o della disperazione, ovvero, per usare un’altra espressione di Hegel che compare in queste pagine, come la circostanza dalla quale esse vengono «ridott[e] a brandelli»27. Secondo Hegel la considerazione filosofica è però in grado di riconoscere che l’esito positivo del movimento dialettico in cui si succedono le figure dell’autocoscienza attiva consiste nel superamento della comprensione dell’«In sé come di un universale inattuato, privo di esistenza e astratto»28 e, più in generale, nella Aufhebung della «determinazione dell’autocoscienza per sé essente o negativa, determinazione nella quale la ragione sorgeva»29; detto diversamente, il risultato della dialettica consiste nel rendere possibile tanto il superamento dell’astratta separazione tra l’universale e le forme della sua realizzazione quanto anche l’Aufhebung delle unilateralità del sapere teoretico – la passività della conoscenza della natura, che prende l’universale come indipendente e dato – e dell’operare della coscienza razionale, ferma all’opposizione tra il suo essere per sé e la realtà. Al posto dell’opposizione di questi momenti viene allora pensata la loro immediata identità, alla quale corrisponde un concetto dell’operare che non ha più il significato e la funzione di trasformare la realtà preesistente, ma quello di esprimere l’immediata
27. PhG, 201; it., I, 306. 28. PhG, 214; it., I, 325. 29. PhG, 214; it., I, 326.
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e pura manifestazione della coscienza nell’esteriorità: l’operare esprime ora una connessione immanente di forma e materia, di pensiero ed essere; esso «nulla muta e contro nulla si volge; è la pura forma della traduzione dal non venir veduto nel venir veduto, e il contenuto che vien messo in luce e che si presenta non è niente altro da ciò che questo operare è già in sé»30. Hegel esemplifica questa struttura dell’immediata presentazione di se stessa dell’individualità nella realtà con l’immagine del «movimento di un circolo, che libero nel vuoto muove sé entro se stesso […] e, del tutto pago, gioca soltanto entro e con se stesso»31 – quasi una prefigurazione del movimento di autodeterminazione dello spirito nella realtà a lui adeguata. L’immediata corrispondenza di interno ed esterno, che è propria di questa struttura, ne denuncia tuttavia subito i limiti intrinseci, riconducibili al permanere anche a questo livello della storia idealistica dell’autocoscienza di una comprensione ancora esteriore e intellettualistica del rapporto soggetto-oggetto. Il superamento di questi limiti e, con essi, il passaggio decisivo in vista dell’Aufhebung dell’opposizione della coscienza, nella quale rimane ancora confinata questa forma del ritener vero, viene svolto da Hegel nel capitolo sull’operare della coscienza razionale, incentrato sull’esperienza della Cosa stessa.
3. Dialettica dell’operare umano: l’Aufhebung della certezza della coscienza di essere ogni realtà nel movimento dello spirito Una considerazione del fine che Hegel si propone di raggiungere per mezzo dell’esperienza esposta in questo capitolo per-
30. PhG, 215; it., I, 328. 31. PhG, 215; it., I, 327 s.
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mette un primo orientamento nella sua complessa struttura argomentativa32: secondo il filosofo, il superamento della comprensione intellettualistica che la coscienza razionale sviluppa tanto del proprio sapere quanto del proprio operare, e delle unilateralità in cui essi sfociano, è possibile per mezzo di una loro critica immanente, in grado di produrre come sua necessaria conseguenza una forma del ritener vero che non comprenda più la soggettività individuale e il suo correlato oggettivo come qualcosa di originariamente dato, stabile e fisso, e contestualmente vada oltre una comprensione soltanto intellettualistica della loro relazione. L’argomentazione proposta da Hegel può essere divisa in due parti principali: nella prima ha luogo una progressiva “disoggettivazione” dell’oggetto della coscienza e una contemporanea, progressiva universalizzazione dell’autocoscienza, per mezzo delle quali diviene possibile la considerazione della natura fluida della loro relazione, incarnata dalla Cosa stessa e dalla struttura logica di quest’ultima, che è quella dell’universale concreto33.
32. Relativamente a questo capitolo della Fenomenologia si tengano presente in particolare: G.V. Di Tommaso, Il concetto di operare umano nel periodo jenense di Hegel, Zonno, Bari 1980, pp. 31-46; S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazioni alla Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1986, in part. pp. 151-214; Id., L’operare umano e la genesi dello spirito nella Fenomenologia di Hegel, in «Rivista critica di storia della filosofia», I, 1965, pp. 17-50, e la prosecuzione nel fascicolo II, 1965, pp. 151-180 (si consideri in particolare la discussione di Landucci circa le incongruenze nella struttura argomentativa del capitolo e anche sulla sua stessa interna articolazione); L. Siep, Der Weg der Phänomenologie des Geistes, Ein einführender Kommentar zu Hegels «Differenzschrift» und «Phänomenologie des Geistes», Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000, pp. 161-173; e K. Vieweg, Das geistige Tierreich oder das schlaue Füchslein, cit. 33. Questo aspetto è stato messo in rilievo da H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, tr. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 335 s., e anche da J. Hyppolite, Genesi e
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Nella seconda parte, invece, Hegel si sofferma sul modo in cui la coscienza comprende il proprio rapporto con la Cosa stessa. Il fine di questa parte dell’argomentazione hegeliana, che comprende sia l’esperienza della coscienza onesta sia le due sezioni sulla gesetzgebende und gesetzprüfende Vernunft34, è quello di mostrare come la coscienza individuale, che si concepisce inizialmente come autonoma e libera nella considerazione della Cosa (e dunque come da essa ancora distinta), sia in realtà solo un momento dipendente del processuale divenire di quest’ultima. Con ciò tuttavia, viene generato nell’ambito della storia dell’autocoscienza un modo del ritener vero in grado di considerare il rapporto essenziale, e cioè dialettico, di sapere e operare, pensiero ed essere, quale è realizzato nello spirito, inteso come espressione fenomenologica per ciò che nella Logica o nell’Enciclopedia Hegel chiamerà idea. Contestualmente emerge, come si vedrà meglio in seguito, che il contenuto concreto dello spirito non è dato immediatamente, né coincide con un sistema di leggi fisse, al quale la ragione individuale abbia un accesso immediato, ma è piuttosto essenzialmente prodotto nel movimento di autodeterminazione dello spirito nella sua storia. Il punto di partenza dell’argomentazione hegeliana è offerto dal risultato maturato dalla coscienza razionale nelle sue esperienze pratiche precedenti, in virtù delle quali, come si è visto, questa è ora «certa di sé come dell’assoluta compenetrazione della [propria] individualità e dell’essere»35. Ma in realtà questo concetto che la coscienza si è fatta di se stessa è contraddistinstruttura della «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, tr. it. di G.A. De Toni, Bompiani, Milano 2005, pp. 376 s. 34. Cfr. PhG, 234; it., I, 357, in cui Hegel stesso afferma che le due ultime figure della ragione possono essere «riguardate come forme di onestà». 35. PhG, 220; it., I, 335. Poco prima Hegel aveva chiarito che al livello dell’esposizione adesso raggiunto «l’autocoscienza ha a proprio oggetto la
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to in ogni suo aspetto dalle unilateralità proprie del pensiero finito: il polo della soggettività viene compreso come una particolare «natura originariamente determinata»36 – e quindi indeducibile (in quanto originaria) – che si distingue da ogni altra individualità per via di una certa qualità a lei soltanto propria37. L’oggettività viene compresa come il medio puramente passivo in cui la soggettività può realizzare se stessa. L’operare, che esprime la relazione tra l’individuo e l’oggettività, si configura invece come un «puro trasferire dalla forma dell’essere non ancora rappresentato in quella del rappresentato», al quale spetterebbe la funzione di concretizzare in un prodotto determinato la natura originaria della soggettività agente, che in questa sua oggettivazione dovrebbe allora giungere a riconoscersi38. Ciò che per mezzo dell’operare verrebbe portato stessa categoria pura, o è la categoria divenuta consapevole di se stessa» (PhG, 215; it., I, 327). 36. PhG, 216; it., I, 329. 37. Da principio sembra che il contenuto particolare che definisce un’individualità singola sia da comprendere come una sorta di analogo del “questo” della certezza sensibile. Tuttavia, nel corso della sua ricca e a tratti complessa esposizione, Hegel mostra che la natura originariamente determinata dell’individuo deve essere propriamente compresa come la capacità del soggetto di determinarsi immediatamente all’azione, di concentrarsi in un punto e di generare nel particolare interesse che esso prova per qualcosa il movente della propria azione. È verosimile che il riferimento polemico di Hegel sia dato dalla filosofia pratica di Reinhold o di Fichte. Tuttavia, come spesso accade nella Fenomenologia, è molto difficile andare oltre assonanze concettuali e indicare corrispondenze precise, perché Hegel traduce ogni volta le problematiche degli autori dai quali prende spunto all’interno del proprio intento speculativo, con la conseguenza che esse vengono anche inevitabilmente distorte. 38. Cfr. PhG, 217; it., I, 331. L’individuo razionale, detto diversamente, non dispone secondo Hegel della facoltà dell’intuizione intellettuale, non può cioè conoscere immediatamente la propria essenza. Questa deve piuttosto manifestarsi, diventare oggettiva alla coscienza stessa. In questo modo si spiega la centralità che l’operare assume per questa figura: essa comprende
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alla luce del giorno e manifestato sarebbe, dunque, il nucleo altrimenti segreto e riposto dell’individualità: e poiché questa figura della coscienza razionale ritiene di non uscire mai dal circolo del proprio operare e di non poter incontrare nulla che non sia mediante se stessa, essa si aspetta che l’operare ingeneri in lei soltanto un sentimento di gioia. Questa sorta di idealismo ingenuo della coscienza finita, che crede di poter imprimere l’impronta della propria originaria natura nella realtà a lei esteriore fa ben presto esperienza del carattere decettivo della propria originaria certezza39. Al centro dell’argomentazione hegeliana non sta, come pure si potrebbe se stessa come principio dell’operare, assume cioè che la propria essenza si manifesti nella libertà del carattere, che penetra tutti i momenti che da un punto di vista logico compongono il concetto dell’operare e della struttura finalistica che esso sottende. La natura originaria dell’individuo viene infatti assunta come «l’unico contenuto del fine» in quanto consapevolmente rappresentato dalla soggettività agente, dell’attività realizzativa e dei mezzi a questa connessi, come anche del fine in quanto realizzato e dunque posto nell’alterità rispetto al soggetto (cfr. PhG, 217; it., I, 330 s.). 39. Secondo Klaus Vieweg, i limiti fondamentali della «forma di vita individuale fin qui sviluppata possono essere rintracciati nel fatto che essa non solo porta «il segno di una autodeterminazione formale ma anche quello […] della casualità» (K. Vieweg, op. cit., pp. 209 s.): da una parte, infatti, il fondamento dell’operare e della soggettività che si assume come immediatamente dato si mostra come inesplicabile in questa datità, dall’altro la struttura logica del movimento per mezzo del quale la soggettività giunge a conoscere il proprio interno è quello della «pura azione reciproca con sé nella sua attuazione» (PhG, 216; it., I, 329), espressione con la quale Hegel allude verosimilmente al carattere ancora intellettualistico che è proprio tanto del tentativo della coscienza di comprendere il proprio fondamento come determinato, quasi si trattasse di un oggetto, quanto anche della sua pretesa di rintracciare un possibile accesso a questo per mezzo della comparazione con l’operare e con le opere realizzate. Un ulteriore limite, infine, può essere ravvisato nella completa astrazione che fin qui la coscienza razionale ha fatto dal riferimento alla dimensione interindividuale: ma già nella dialettica del riconoscimento, com’è noto, Hegel aveva mostrato come il confronto con l’altro fosse costitutivo anche per la singola autocoscienza.
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immaginare, un qualche riferimento alla resistenza della materia (come accadeva ancora nell’esposizione del lavoro servile), perché lo Standpunkt della ragione in quanto Categoria e certezza dell’identità immediata di pensiero ed essere è appunto definito dal presupposto di una naturale adeguatezza dell’esteriorità all’operare dell’individuo. Hegel si concentra piuttosto sul processo di oggettivazione dell’autocoscienza e sul confronto che quest’ultima intrattiene con l’opera realizzata. Egli mostra da una parte come la coscienza esperisca di «oltrepassare sé come opera» e di essere «essa stessa lo spazio privo di determinatezza che non si trova riempito dalla sua opera»40. L’universale negatività dell’operare, infatti, la quale costituisce il contrassegno fondamentale dell’autocoscienza, non si esercita soltanto nei confronti degli oggetti in generale, ma anche nei confronti di quelli in cui la coscienza esteriorizza la sua natura, con la conseguenza che essa scopre di essere «di più e di avere una maggiore estensione rispetto a ogni (sua) opera determinata»41. D’altra parte, l’opera stessa, nella quale la natura originaria dell’individualità avrebbe dovuto mostrarsi e dispiegarsi, mostra di non essere affatto qualcosa a cui sia ascrivibile la stabilità dell’essere e che essa è piuttosto in generale qualcosa di effimero. Non solo, infatti, l’opera particolare si rivela soggetta all’operare negativo dell’autocoscienza che in essa esteriorizza la sua essenza; il suo carattere dileguante è dovuto anche all’operare delle altre autocoscienze particolari, al contro gioco di altre forze e di altri interessi. E così, mentre la coscienza si trova confrontata con l’impossibilità di astrarre dalla trama dei rapporti intersoggettivi in cui essa è originariamente situata, scopre anche che, a causa di quest’ultimi, ogni opera determinata viene necessariamente mutata in qualcosa
40. PhG, 220; it., I, 335. 41. H. Marcuse, op. cit., p. 332.
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di diverso dalla mera trasposizione della natura originariamente determinata di una individualità particolare nell’oggettività. Per la coscienza, come sempre nella Fenomenologia, si dà soltanto il lato negativo della propria dialettica: l’originaria certezza di una corrispondenza immediata tra i propri fini e la realtà si rovescia per lei nella consapevolezza che è altrettanto possibile una loro insuperabile differenza e che alla gioia del riconoscimento di se stessi nella propria opera si può sostituire il dolore di una possibile alienazione. Ma anche in questo caso Hegel distingue dal lato negativo del l’esperienza dialettica della coscienza un lato positivo. Dal punto di vista dal quale «noi […] consideriamo nella sua completezza il contenuto di questa esperienza» del dileguare dell’opera particolare, è infatti possibile riconoscere che «ciò che si mantiene non è il dileguare; sì bene [che] il dileguare è anch’esso effettuale e connesso con l’opera, e [che] anch’esso dilegua con questa»42. Per il pensiero speculativo emerge, detto diversamente, il movimento infinito in cui ogni opera particolare viene negata e sostituita da un’altra, che va incontro allo stesso destino. Ma in questo movimento circolare Hegel non vede soltanto il continuo dileguare delle opere particolari, quanto piuttosto l’unità dell’essere e della negatività dell’operare. Da una parte, infatti, l’opera ha mostrato di non avere una propria indipendenza, di non essere posta in una dimensione stabile, sottratta alla relazione con la negatività dell’operare. Ma parimenti, quest’ultimo non può sottrarsi alla sua necessaria relazione con l’essere. Per il pensiero speculativo, capace di considerare come un unico processo il duplice dileguare dell’operare nell’opera e dell’opera nell’operare, effettuale è allora soltanto l’unità dei due momenti «l’essere come unum atque idem con l’operare»43. 42. PhG, 222; it., I, 338. 43. PhG, 223; it., I, 339.
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Hegel chiama «opera vera» questa dialettica «unità dell’operare e dell’essere, del volere e del condurre a compimento» e la descrive come la «Cosa stessa», come il movimento infinito e in se stesso chiuso del rovesciamento di ciascun momento nel suo opposto44. In questa Sache selbst noi già intravvediamo il principio dello spirito come negatività assoluta che rapporta sé a se stessa (sich auf sich beziehende Negativität) e per la quale il mondo è soltanto un momento della propria processuale autodeterminazione. La coscienza razionale invece, proprio perché è coscienza, non può ancora comprendere adeguatamente la natura dialettica che riunisce in un intero i momenti della Cosa, e nemmeno il carattere speculativo della differenza tra se stessa e ciò a cui lei si riferisce ancora come a un oggetto: in questo caso, infatti, la coscienza andrebbe oltre la sua natura, quel «distinguere da lei qualcosa, al quale essa contemporaneamente si rapporta»45 che, come Hegel afferma nell’Introduzione, la definisce costitutivamente. Per questo motivo, analogamente all’intelletto che davanti al gioco delle forze distingueva tra un interno sovrasensibile e permanente, da un lato, e una sua manifestazione sensibile e dileguante dall’altro, anche adesso la coscienza distingue e mantiene separati l’uno dall’altro i momenti della Cosa, introducendo nella struttura fluida di quest’ultima una differenza tra ciò che in essa è essenziale e ciò che, invece, è inessenziale. Con le parole di Hegel: «la coscienza che si riflette entro sé abbandonando la caducità dell’opera, afferma il proprio concetto e la propria certezza come l’essente e il permanente, che sta di fronte all’accidentalità dell’operare»46 e dell’essere, essa «considera la sua certezza di sé come essen-
44. PhG, 222 s.; it., I, 339 s. 45. PhG, 58; it., I, 73. 46. PhG, 223; it., I, 339.
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za oggettiva, come una Cosa [Sache]»47, accessibile soltanto al pensiero intellettuale, mentre gli oggetti presenti soltanto nella sensibilità e nella percezione hanno adesso, per la coscienza, significato soltanto in virtù del loro riferimento alla Sache. Da un punto di vista logico, Hegel spiega, da un lato, che la struttura in grado di dar conto di questo rapporto tra essenziale e inessenziale è quella dell’universale astratto differente da ciò che contiene, dall’altro, che una tale comprensione della Cosa stessa sorge perché inizialmente essa è presente alla coscienza nel modo dell’immediatezza: «La Cosa stessa in questa immediata coscienza della sostanza medesima ha la forma della sostanza semplice», e cioè di un «astratto universale» che «conviene» indifferentemente ad ognuno dei suoi singoli momenti, i quali cadono ora anche contemporaneamente fuori da tale universale48. Dal punto di vista fenomenologico, invece, il modo del Fürwahrhalten che incarna questa struttura è realizzato da quella coscienza che Hegel qualifica, non senza una certa ironia, come «onesta»49. L’avanzamento rispetto alla figura precedente consiste in ciò, che essa non pone più il fondamento del suo agire nella particolarità della propria natura, quanto piuttosto in un universale, in una causa o in un ideale astratto, in cui riconosce l’essenza vera dei propri fini, opposta all’accidentalità
47. PhG, 223; it., I, 340. 48. Cfr. PhG, 224: it., I, 340 s. Hegel esemplifica da un punto di vista logico il carattere di questa relazione equiparandola a quella tra il predicato e i soggetti che possono essere sussunti sotto di lui, o anche a quella tra il genere e le specie, che è presente in queste ultime «e che ne è altrettanto libero» (PhG, 224; it., I, 341). È questo universale astratto, ciò che avendo «la forza di permanere, indipendentemente da quella cosa che è l’accidentalità dell’ope rare individuale in quanto tale, delle circostanze, dei mezzi e dell’effettualità» (PhG, 223; it., I, 340), assume ora per la coscienza il ruolo dell’essenza. 49. PhG, 224; it., I, 341.
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dell’operare e delle circostanze come anche all’evanescenza delle opere particolari. Per questa coscienza, scrive Hegel, i «diversi momenti dell’originaria determinatezza […] di questo individuo, del suo fine, dei mezzi, dell’operare stesso e dell’effettualità» sono validi soltanto perché essi «hanno a essenza la Cosa stessa»50. L’esperienza che la coscienza onesta fa della verità della propria certezza deve tuttavia condurla ad abbandonare la propria distinzione tra un aspetto che la Cosa avrebbe essenzialmente e uno che in essa sarebbe soltanto inessenziale. Non si tratta soltanto di produrre la dimostrazione dell’ipocrisia di questa coscienza, di mostrare semplicemente che essa «non è tanto onesta come sembrava», e che piuttosto è lei, sulla base del proprio arbitrio e del proprio peculiare interesse, a decidere quale momento della Cosa abbia la dignità dell’essenza: una semplice riproposizione del carattere soggettivo dell’essenza – questo sembrerebbe esser l’esito della dialettica della coscienza onesta – sarebbe altrettanto unilaterale che un’affermazione del suo carattere oggettivo51. 50. Ibidem. 51. Hegel accenna al fatto che l’esperienza della coscienza onesta sembra ripetere il movimento già visto in certezza sensibile e percezione (cfr., PhG, 223; it., 340). In effetti, la coscienza che attribuisce a un momento della Cosa dopo l’altro il carattere dell’essenza ricorda da vicino la coscienza che cerca inutilmente di afferrare il “questo” sensibile. Invece, il tentativo della coscienza di dar conto della relazione secondo la quale i momenti della Cosa «si rapportano […] gli uni agli altri», proponendo una distinzione tra un «momento» che essa «ha come essenziale nella sua riflessione» e «un altro momento» (inessenziale) che «essa ha soltanto esteriormente in lei o per gli altri», ripropone a un livello più alto le sottili distinzioni tra punti di vista (l’«anche») operate dalla percezione (cfr. PhG, 226; it., I, 344 s.). Il coronamento dell’esperienza della coscienza onesta è dato, però, dalla considerazione della struttura dell’universale astratto e del costitutivo rovesciamento degli opposti l’uno nell’altro, quale viene mostrato per la prima volta al termine del capitolo su forza e intelletto.
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Ciò che deve essere prodotto è piuttosto una forma della coscienza capace di comprendere il nesso costitutivo tra i momenti che ancora vengono presi come separati, andando oltre una comprensione dell’interno che diviene l’universale privo di determinazione, appunto perché separato dall’esterno inessenziale. Ciò avviene mediante l’esibizione della dialettica alla quale secondo Hegel va necessariamente incontro la coscienza che prende alternativamente l’astratta universalità della Cosa o l’operare (interesse) individuale come fondamento dell’agire razionale. Hegel la presenta come un «gioco delle individualità l’una con l’altra, nel quale esse ingannano e trovano ingannate ciascuna se stessa e le altre reciprocamente»52. In questo “gioco” la coscienza stessa esperisce l’inversione del senso da lei di volta in volta attribuito alla Cosa stessa: ogni volta, infatti, il «significato» che la Cosa acquista al termine dell’esperienza dell’inganno si rivela «diverso» da quello che inizialmente «veniva ammesso come valido»53. Se l’individuo ritiene inizialmente che l’operare abbia come movente «un interesse per la Cosa in quanto tale», allora deve esperire che l’operare è sempre, in quanto operare necessariamente individuale, contemporaneamente mosso da un interesse particolare54. Ma anche se la coscienza ritiene che «il proprio darsi da fare, che il gioco delle sue forze valga per la Cosa stessa»55, ecco che essa esperisce che «l’attuazione è piuttosto un trasporre il Suo nell’elemento universale, per modo ch’esso diventa e deve diventare Cosa di tutti»56. E proprio per questo la realizzazione della Cosa non è affare di un singolo individuo: «quando attua e propone una Cosa, una coscienza fa piuttosto l’esperienza che gli altri, accor52. Ibidem. 53. PhG, 227; it., I, 347. 54. Cfr. PhG, 226; it., I, 345. 55. Ibidem. 56. PhG, 227; it., I, 346.
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rendo come mosche sul latte appena versato, vogliono subito vedersi impegnati in questa Cosa»57. La coscienza riconosce allora che «i due lati», precedentemente mantenuti l’uno fuori dall’altro e posti in una relazione gerarchica, «sono momenti egualmente essenziali della Cosa stessa»58. Essa giunge così a comprendere da un lato l’essenziale compenetrazione di fare individuale e di fare universale, col che sembra compiuto il processo di Aufhebung della immediatezza e particolarità della natura originaria individuale nell’universale59; d’altro lato, invece, la coscienza sopravanza la distinzione tra il fine e l’operare, nella quale era caduta facendo esperienza dell’estraneità della propria opera. Il risultato complessivo è dato dal raggiungimento di una nuova e più elevata comprensione dell’unità di autocoscienza ed essere, la quale permette alla coscienza di pensare la struttura del comune mondo umano, della «sostanza etica» che trova compiuta realizzazione nella vita di un popolo. Questo «nuovo vero», che «è e vale nel senso di essere e di valere in sé e per sé», viene definito da Hegel come «Cosa assoluta» e cioè tale che contiene in sé i momenti della propria realizzazione60. A questo livello di considerazione le due determinazioni concettuali, che sempre di nuovo mostravano di cadere l’una fuori dall’altra, l’universale e il particolare, non sussistono più indi57. Ibidem. 58. PhG, 227; it., I, 347. 59. Questo risultato traduce l’esperienza dell’Aufhebung della concezione dell’operare razionale individuale come espressione della natura originaria determinata dell’individuo; al termine dell’esperienza esposta in questo capitolo, la coscienza riconosce infatti, secondo Hegel, che «la natura originariamente determinata dell’individuo ha perduto il suo significato positivo di essere in sé l’elemento e il fine dell’attività di lui; essa è soltanto un momento tolto, e l’individuo è un Sé come Sé universale» (PhG, 228; it., I, 348). 60. Cfr. ibidem.
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pendentemente l’una dall’altra e piuttosto è possibile mostrare come esse si producano, per così dire, reciprocamente e siano riunite nell’unità dell’universale concreto dall’operare di tutti e di ciascuno61. In questo senso Hegel scrive che «la Cosa stessa formale trova il suo riempimento nell’individualità che opera e si distingue in se stessa»62, ovvero esiste soltanto nel sapere e volere particolare dei singoli individui che perseguono i propri interessi. Ma proprio per questo, proprio perché le singole coscienze sanno e vogliono la realizzazione dell’universale, il loro operare, il fare di tutti e di ciascuno, assume la funzione del medio che rende possibile il concreto esserci dell’universale: tolto nell’universalità della Cosa stessa, il fare dei singoli individui si configura come un momento dell’autorealizzazione della Cosa, come il medio attraverso il quale la Cosa stessa si conferisce la realtà a lei adeguata. Con le parole di Hegel: l’«esserci» della Cosa assoluta, ciò che più tardi verrà determinato come mondo spirituale, «è l’effettualità e l’operare dell’autocoscienza»63. La Cosa assoluta, allora, non si configura più come un universale astratto e privo di vita, legato solo esteriormente alle sue manifestazioni inessenziali e piuttosto essa prefigura l’universale concreto, capace di riferire a sé la propria differenza ed è, dunque, «la sostanza permeata di individualità; […] il soggetto»64.
61. Per la coscienza che ha fatto esperienza dell’inganno, la Cosa stessa non è «né soltanto Cosa […] opposta all’operare in generale e all’operare singolo, né operare che sia opposto al sussistere e che sia il libero genere di questi momenti come sue specie; [essa è] anzi un’essenza il cui essere è l’operare del singolo individuo e di tutti gli individui, e il cui operare è immediatamente per altri o è una Cosa; ed è Cosa soltanto come operare di tutti e di ciascuno; è l’essenza che è l’essenza di tutte le essenze, l’essenza spirituale» (PhG, 227; it., I, 347). 62. PhG, 228; it., I, 348. 63. PhG, 229; it., I, 348. 64. PhG, 228; it., I, 347.
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Nonostante l’innalzamento della coscienza a un livello di considerazione del rapporto tra soggettivo e oggettivo nel quale già è possibile presentire la dimensione spirituale, rimane ancora da comprendere quale sia il principio di determinazione del contenuto concreto di questa Cosa assoluta o, più concretamente, quale sia l’origine delle leggi universali e delle massime del comportamento individuale nelle quali la sostanza etica è articolata. Come si può desumere dal concreto svolgimento dell’argomentazione svolta nei capitoli su gesetzgebende und gesetzprüfende Vernunft, Hegel si confronta innanzitutto con l’idea secondo la quale il fondamento dell’ordine etico deve essere rintracciato in un atto di auto-legislazione da parte della ragione – che si presume libera, universale e astorica – sulla base del quale sarebbe possibile giustificare la pretesa della coscienza di partecipare e conoscere immediatamente imperativi etici e massime del comportamento individuale di per sé evidenti e tra loro non contraddittori65. Mettendo in luce i presupposti impliciti di questa forma del Fürwahrhalten e mostrando come essa nel suo autoesame dialettico giunga a togliere se stessa, Hegel si propone di giustificare la propria originale comprensione dell’essenza della ragione, secondo la quale la determinazione del contenuto dell’universale coincide con il suo stesso movimento di autodeterminazione.
65. Nella trattazione che segue non verranno presi in considerazione gli aspetti polemici nei confronti della filosofia kantiana che contraddistinguono le due figure finali del capitolo Ragione e nemmeno le debolezze che, da un punto di vista argomentativo, l’esposizione hegeliana lascia talora intravvedere. Per una considerazione di questi aspetti si veda, in particolare, L. Siep, op. cit., pp. 166-173, che ha riconosciuto, come del resto ha fatto una larga parte della ricerca hegeliana, che la polemica nei confronti di Kant svolta in questi capitoli «sembra a tratti sofistica» (ivi, p. 167).
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Stando ad Hegel, infatti, la pretesa del soggetto individuale di conoscere immediatamente il contenuto in cui si articola l’universale (la legge morale e le massime del comportamento individuale) presuppone il permanere di una differenza ed esteriorità tra la coscienza e il suo oggetto, tra il sapere e l’essenza, a causa della quale la Cosa stessa si costituisce come «una determinazione ancora astratta», ovvero come la semplice «essenza spirituale», la quale non è ancora «realtà» spirituale66. Proprio a causa del permanere di questa differenza, la coscienza conterrebbe la sostanza soltanto «nella forma della sua propria immediatezza», con la conseguenza che la prima viene a configurarsi come «un sapere formale che si aggira intorno ai diversi tipi di contenuto dell’essenza stessa; in quanto singolare, la coscienza è ancora differente dalla sostanza e così o dà luogo a leggi arbitrarie, oppure ritiene di avere, nel proprio sapere in quanto tale, le leggi in sé e per sé e si considera come la potenza in grado di giudicarle»67. La prima figura è quella della Ragione legislatrice, la seconda quella della Ragione che esamina le leggi. Hegel descrive la Ragione legislatrice come «la sana ragione» che sa immediatamente che cosa è buono e giusto e inoltre pretende che le leggi di cui essa è consapevole, dovendo essere «altrettanto immediatamente […] accolt[e] e considerat[e]»68
66. Cfr. PhG, 238; it., II, 2. Secondo Vieweg, ciò dipende dal fatto che lo status del sapere che qui è stato raggiunto è ancora quello del formellen Wissens di un’autocoscienza formale. In altre parole, al termine dell’esperienza della Cosa stessa «è stato raggiunto un più alto livello dell’universalità e al posto dell’universalità astratta, che sta fuori del singolo e opposta a questo, subentra l’universalità della riflessione, il cui nucleo è costituito dalla socievolezza e dalla totalità. Con ciò fallisce il completo rigetto dell’immediatezza» (K. Vieweg, Das geistige Tierreich oder das schlaue Füchslein, cit., pp. 215 s.). 67. PhG, 238; it., II, 1 s. 68. PhG, 229; it., I, 350.
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dalle altre coscienze, abbiano una validità universale. Questa forma della coscienza, detto diversamente, pone nella sua immediata partecipazione e uguaglianza con la ragione universale e con le leggi in cui questa sarebbe originariamente articolata la garanzia della propria formale libertà e della stessa validità delle leggi. Ben presto, tuttavia, essa scopre che un atto di auto-legislazione formale è indistinguibile da un atto arbitrario, con la conseguenza che la necessità e l’universalità delle leggi che essa pretende di conoscere immediatamente si invertono nell’accidentalità di un comando che ha soltanto nella particolarità della ragione finita che lo formula il suo vero fondamento69: la ragione legislatrice «dichiara come un obbligo assolutamente valido qualcosa che tuttavia è soggetto a una condizione e interpreta come necessario da un punto di vista pratico un contenuto del volere che è meramente casuale»70. All’impossibilità da parte di questa figura della coscienza di esprimere adeguatamente l’universalità e necessità delle leggi si accompagna, secondo Hegel, il passaggio alla gesetzprüfende Vernunft. Questa nuova figura della coscienza si caratterizza come il tentativo di «stabilire se un contenuto sia capace di 69. Hegel cerca di chiarificare la propria posizione per mezzo di alcuni esempi. In particolare, confrontandosi con il comandamento evangelico di amare il proprio prossimo come se stessi, egli nota che l’universalità di tale precetto morale è in realtà dipendente dalla casualità delle condizioni particolari nelle quali ci si trova o anche dalla capacità del benefattore di comprendere cosa sia davvero il bene per un altro individuo particolare. Significativamente, Hegel contrappone al fare del bene da parte del singolo individuo – per lui in definitiva esposto alla casualità e inconsistente – «il fare del bene veramente essenziale», cioè l’«universale operare dello Stato», che secondo lui realizza nella maniera maggiormente efficace il comandamento evangelico (cfr. PhG, 231; it., I, 352). 70. K. Düsing, Der Begriff der Vernunft in Hegels Phänomenologie, cit., p. 156.
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essere legge oppure no»71. La coscienza si suppone così come indipendente dalla sostanza etica e afferma implicitamente di avere in se stessa la capacità di decidere quale massima individuale possa essere, contemporaneamente, una legge universale. Ma in questo modo la coscienza si riduce a essere un «sapere o forma che compara un contenuto solo con se stesso, e lo osserva per vedere se esso sia una tautologia»72. L’universalità che questa coscienza considera è di nuovo l’universalità formale, che però, secondo Hegel, non può servire da criterio per l’azione individuale, perché esso è del tutto indifferente verso il contenuto, può anzi presentare contenuti tra loro opposti e quindi prescrivere comandi opposti. Queste due ultime forme di onestà della coscienza vanno così a fondo a causa della loro stessa inconseguenza. Poiché, infatti, le leggi immediate della coscienza mostrano di non valere affatto in sé, ma di avere il loro fondamento nell’accidentalità del volere della ragione finita, diviene anche chiaro che esse sono soltanto casuali. Da una parte l’«immediato legiferare» mostra di basarsi in verità soltanto sulla «temerità tirannica che eleva a legge l’arbitrio, e riduce l’eticità a un’obbedienza ad esso»; dall’altro, l’esame delle leggi mostra di poter essere già l’inizio dell’immoralità, in quanto la coscienza che si arroga la capacità di giudicare le leggi si è già svincolata dalla sostanza e in quest’ultima già riconosce un altro da sé, un arbitrio estraneo73. Ma anche in questo caso l’esito negativo dell’esame scettico non è assoluto ed è piuttosto la condizione di possibilità per il presentarsi, nell’ambito della storia idealistica dell’autocoscienza, di un risultato positivo, coincidente con il sorgere di un sapere in grado di concepire la relazione infinita che lega autocoscien71. PhG, 232; it., I, 353. 72. PhG, 232; it., I, 354. 73. Cfr. PhG, 234 s.; it., I, 358.
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za ed essenza etica, ovvero di comprendere il significato della loro differenza su un piano speculativo. Da questo punto di vista individuo e sostanza non sono più ontologicamente separati e piuttosto «la differenza dell’autocoscienza dall’essenza è dunque del tutto trasparente»74. L’essenza è autocoscienza e l’autocoscienza coscienza dell’essenza75. Per questo sapere, detto diversamente, «la sostanza etica» è «l’essenza dell’autocoscienza», ma contemporaneamente quest’ultima «è l’effettualità e l’esistenza della sostanza etica»76. L’essenza etica è tale, che «non ha il suo fondamento nel volere [o nel sapere] di questo individuo, ma è in sé e per sé; è l’assoluto, puro volere di tutti che ha la forma dell’essere immediato»77. Viceversa, per l’autocoscienza, che «si è tolta come singola» e in questo modo è «diventata autocoscienza della sostanza etica»78, quest’ultima non rappresenta una realtà estranea, ma la propria immanente essenza. Con la genesi di una Weise des Fürwahrhaltens in grado di superare il presupposto di una differenza ontologica di sogget74. PhG, 235; it., I, 359. 75. Che «la differenza dell’autocoscienza dall’essenza» sia «del tutto trasparente» significa, dal punto di vista speculativo, che adesso «la sostanza etica […] si presenta come coscienza» (PhG, 234; it., I, 357). Secondo Hegel, dunque, il significato speculativo dell’esperienza mediante la quale gesetzgebende und gesetzprüfende Vernunft vengono tolte è quello di esporre il processo in cui la coscienza giunge a togliere se stessa come coscienza singola e, mediando se stessa con la propria sostanza, diviene autocoscienza della sostanza etica: «dacché questi modi si sono tolti, la coscienza è ritornata all’universale […]. L’essenza spirituale è sostanza effettuale, da poi che tali modi non valgono singolarmente, ma solo come tolti; e quell’unità, nella quale essi sono soltanto momenti, è il Sé della coscienza la quale, posta ormai nell’essenza spirituale, lo eleva a Sé effettuale, pieno ed autocosciente» (PhG, 235; it., I, 358). 76. PhG, 237; it., I, 361. 77. PhG, 235; it., I, 359. 78. Ibidem.
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tività e oggettività e di concepire sul piano speculativo l’unità tra un pensiero che si realizza nell’operare e un operare che si fonda nel pensiero, Hegel ritiene conclusa l’esposizione del processo di innalzamento della ragione a quel soggetto che è contemporaneamente l’effettualità. Infatti, quando la certezza della ragione di essere ogni realtà si innalza a verità «ed essa è consapevole a se stessa di sé come del suo mondo e del mondo come di se stessa», allora è finalmente concepibile lo spirito, inteso come l’intero del quale operare ed essere, fondamento e manifestazione – e più in generale il sapere e l’oggettività che precedentemente restavano separati – sono momenti79. Questo risultato rappresenta però, secondo Hegel, soltanto il principio di uno sviluppo ulteriore, quello in cui ha luogo l’esposizione del processo di autodeterminazione dello spirito stesso nella serie metodologicamente ordinata delle sue figure. La connessione tra i concetti di spirito, mondo e storia, che caratterizza intimamente il pensiero di Hegel, viene così per la prima volta in primo piano. In questa storia le diverse configurazioni dello spirito vengono sviluppate in modo sistematico e coerente, secondo il principio teleologico di un crescente sapere di se stesso dello spirito. L’esperienza esposta nel capitolo Ragione mostra allora di essere soltanto un momento, per quanto importante, del processo, il cui intero è la Fenomenologia, in cui il contenuto e la validità delle diverse determinazioni dello spirito vengono costituiti e fondati.
Conclusioni Da quanto precede emerge che per Hegel la concezione della ragione come categoria e immediata unità di pensiero ed essere, elaborata dal pensiero finito, è soggetta a uno sviluppo 79. Cfr. PhG, 238 s.; it., II, pp. 1 s.
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immanente e necessario, che si conclude con la sua Aufhebung nello spirito e nell’universale concreto. Ciò è possibile perché Hegel comprende la ragione finita dell’idealismo di Kant e di Fichte come un momento particolare della storia idealistica dell’autocoscienza, in riferimento alla quale soltanto esso riceve il suo senso determinato. All’inizio del capitolo Spirito egli chiarisce che questa storia dell’autocoscienza deve essere compresa nel suo complesso come una sorta di movimento progressivo (di riflessione), la cui meta è il ritorno delle varie figure nel loro vero «fondamento ed essenza»80. Le varie figure della coscienza non hanno, detto diversamente, una loro indipendenza né trovano in se stesse la loro ragione d’essere; piuttosto esse rivelano ora di avere un fondamento metafisico, rintracciato da Hegel nell’attività dello spirito, che «analizza se stesso, distingue i propri momenti, e indugia in ciascuno di essi»81. Il dileguare delle singole figure l’una dopo l’altra, che caratterizzava l’esperienza della coscien-
80. PhG, 239; it., II, 3. Questo movimento circolare, per cui l’avanzare dei momenti è il loro ritornare nel fondamento ed essenza, viene ripreso nella Scienza della logica nel modo seguente: «avviene che ogni passo del progresso nel determinare ulteriormente [jeder Schritt des Fortgangs im Weiterbestimmen], mentre si allontana dal cominciamento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso, e che perciò quello che dapprima può sembrar diverso, il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulteriormente, cadono l’un nell’altro e son lo stesso» (G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Zweiter Band. Die subjektive Logik (1816), in Id., Gesammelte Werke, Bd. 12, hrsg. von F. Hogemann e W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1981, p. 303; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della Logica, introd. di L. Lugarini, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1999, vol. II, p. 954). 81. PhG, 239; it., II, 3. Come Hegel spiega ulteriormente in un passo molto denso, il darsi delle diverse figure della coscienza è, in generale, radicato nel modo d’essere dello spirito, che è quello del rivelarsi e del rappresentare a se stesso i suoi momenti costitutivi semplici: «Questo isolare tali momenti ha a suo presupposto e a sua sussistenza lo spirito stesso; ovvero esso isolare esiste solo nello spirito, il quale è l’esistenza» (ibidem).
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za come via del dubbio e anzi della disperazione, non è cioè da intendersi come il risultato di un’attività a loro esteriore, piuttosto l’essenza stessa è il movimento di riflessione dei momenti nel loro fondamento, un movimento che Hegel interpreta come un processo di interiorizzazione (Erinnerungsprozess), per mezzo del quale lo spirito ritorna in sé nella progressiva Aufhebung dei suoi momenti costitutivi. Al termine di questo processo lo spirito si mostra come «l’essenza assoluta e reale che sostiene se stessa»82. Come si è visto, non si tratta però di una struttura che si ripeta eternamente identica a se stessa e che connetta soltanto esteriormente determinazioni concettuali che siano originariamente date e sussistenti anche al di fuori e indipendentemente dalla loro reciproca relazione. Lo spirito, scrive Hegel nella Prefazione, non è certo «l’imperturbata eguaglianza e unità con se stesso, che non è mai seriamente impegnata nell’esser-altro 82. Ibidem. Hegel esplicita ancora una volta la struttura dello spirito, quale si configura dallo Standpunkt ormai raggiunto: essa è concepibile speculativamente come l’intero di un processo in grado di tenere insieme ed esprimere l’unità di un doppio rapporto di dipendenza tra la sostanza (intesa come l’universale nel quale sono risolte le varie configurazioni dell’operare e del sapere esperite precedentemente nella storia dell’esperienza della coscienza) e i particolari individui agenti, in virtù del quale essi si producono reciprocamente. Da una parte lo spirito è, in quanto sostanza etica, il fondamento o il presupposto del sapere e dell’operare degli individui, «l’essenza universale, eguale a se stessa, permanente», «il granitico e indissoluto […] punto di partenza dell’operare di tutti» (PhG, 239; it., II, 2) – in concreto l’elemento comune in virtù del riferimento al quale gli individui non sono monadi prive di relazione, ma membri di un popolo. D’altra parte, la sostanza spirituale è reale soltanto in virtù della mediazione offerta dall’operare di tutti e di ciascuno. Detto diversamente, la sostanza spirituale non è pensabile soltanto come un presupposto e una condizione dell’agire degli individui, che trascenda quest’ultimi e sia da loro ontologicamente differente, in quanto essa è piuttosto realizzata proprio da questi ultimi: la sostanza, scrive Hegel, è anche «l’opera universale», producentesi mediante il fare di tutti «come loro unità ed eguaglianza» (ibidem).
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e nell’estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione»83. La serie delle figure dello spirito traduce piuttosto su un piano fenomenologico l’idea hegeliana di un automovimento della forma, in grado di comprendere in sé «la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo»84. Compresa in questo processo, la determinatezza dello spirito e dei suoi momenti concettuali non rimanda a un principio ulteriore né deve essere pensata come originaria o pre-data, in quanto «al contrario, è il contenuto stesso a rendersi determinato, a disporsi da se stesso come momento e a occupare un posto nell’economia dell’intero»85. Certamente, possono essere sollevate molte obiezioni circa l’effettiva tenuta argomentativa della posizione hegeliana: esse spaziano tipicamente dalla negazione della possibilità, per l’uomo, di un pensiero speculativo – che proceda dialetticamente, e cioè per mezzo di contraddizioni, alla completa determinazione della soggettività assoluta –, alla constatazione che il tentativo di rintracciare un qualche fondamento della soggettività finita, inteso come tentativo di ricondurre la dimensione della vita morale dell’individuo al piano a lui sovraordinato della storia, sembra comportare una sorta di suo decentramento e con ciò una «crisi della filosofia morale»86. 83. PhG, 18; it., I, 14. 84. Ibidem. 85. PhG, 38; it., I, 43. 86. Questa espressione si trova in C. Cesa, Fichte e l’idealismo trascendentale, il Mulino, Bologna 1992, pp. 235-246. Anche Siep solleva il problema del rapporto tra la soggettività finita e la sua dimensione fondativa quando scrive che lo spirito, pur costituendosi e modificandosi «soltanto attraverso il pensiero e l’operare degli individui […] è tuttavia anche indipendente da quest’ultimi». Esso è indipendente «non solo dagli individui singoli, che tramite il loro operare consapevole o il loro comportamento inconsapevole producono modelli comportamentali condivisi oppure semplicemente si uniformano a leggi» avite. «Lo spirito è indipendente anche dalle azioni collettive
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Non si tratta di obiezioni di poco conto: tuttavia, il fascino che la filosofia hegeliana, e in particolare la Fenomenologia dello spirito, esercita ancora sul lettore odierno sta proprio nel tentativo, spesso problematico, che essa propone di conciliare la questione ontoteologica con la domanda sull’uomo, conferendo in questo modo alla metafisica una sua peculiare coloritura esistenziale. Da questo punto di vista, come proprio il capitolo Ragione mostra, la Fenomenologia conserva un valore esemplare e costituisce un’inesauribile fonte di ispirazione per chi, anche al giorno d’oggi, sia interessato a far dialogare un momento logico-argomentativo con un momento concreto-ermeneutico, nel tentativo di rendere così possibile un’indagine metodologicamente controllata circa il senso dell’esperienza umana nella sua interezza.
di gruppi e popoli […], in quanto questi non determinano consapevolmente il loro ruolo nella storia e spesso non sono nemmeno in grado di riconoscere quest’ultimo». Secondo Siep, «soltanto il filosofo può riconoscere la logica complessiva di questo processo, che si sviluppa in direzione della libertà e dell’autocoscienza dello spirito. I diversi livelli di questo processo, infatti, possono essere compresi post factum [im nachhinein] per mezzo delle categorie di una logica e di una semantica speculativa» (L. Siep, op. cit., pp. 177 s.).
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Osservazioni sul metodo sintetico nel primo Fichte. Con un cenno a Schelling di Giannino Di Tommaso
Nelle pagine che seguono mi soffermerò, in particolare, sulle Meditazioni personali sulla filosofia elementare (1793-94) e sulla Seconda introduzione alla dottrina della scienza (1797/98) di Fichte, cercando di mettere in luce, in entrambi i casi, l’efficacia di un presupposto capace di condizionare la validità del metodo sintetico di cui si avvale. Detto in maniera provvisoria e anticipata, la possibilità dell’applicazione di tale metodo è subordinata alla presenza dell’opposizione dei termini che devono essere unificati nella sintesi. Solo, però, che tale circostanza, pur necessaria, non è sufficiente per il conseguimento dell’obiettivo, se non a condizione che quell’opposizione sia a sua volta preceduta dall’unità dei termini opposti e da unificare. Un rapido riferimento a Schelling, proposto nell’ultima parte, mostrerà, poi, che anch’egli – e fin dalle sue opere giovanili – si confronta con il metodo sintetico e lo approfondisce in una direzione che non differisce molto da quella di Fichte, dal momento che teorizza esplicitamente l’originaria identità dei termini da sintetizzare, in base alla considerazione secondo cui: «se l’originario fosse non l’unità, ma la molteplicità, quell’azione originaria non sarebbe sintesi, bensì dispersione»1. 1. F.W.J. Schelling, Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus, in Id., Historisch-kritische Ausgabe (d’ora in poi: AA), im Auftrag
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1. Il metodo sintetico nelle Eigne Meditationen di J.G. Fichte Le Meditazioni personali sulla filosofia elementare rappresentano, come è stato autorevolmente affermato, una «dottrina della scienza in statu nascendi»2. Esse si propongono l’obiettivo di scoprire e portare in luce le leggi fondamentali secondo le quali opera il nostro spirito, impegnando il filosofo a eseguire l’esatta osservazione e l’esatta comprensione di questa osservazione3, e vincolando il suo procedere al rispetto del metodo sintetico. Composte quasi contemporaneamente alla Recensione all’Ene sidemo, esse sono destinate a fare il punto a proposito della validità della filosofia elementare di Reinhold, criticata a fondo e confutata da G.E. Schulze proprio in relazione al suo vantato pregio essenziale, quello di fornire un fondamento sicuro alla filosofia4.
der Schelling-Kommission der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1976 ss., Bd. I,3, p. 60; tr. it., Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, a cura di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 19. 2. R. Lauth, Vorwort a J.G. Fichte, Eigne Meditationen über Elementar Philosophie, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften (d’ora in poi: GA), hrsg. v. R. Lauth u. F. Jacob, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1971, Bd. II,3, p. 19. 3. «Alla filosofia elementare appartengono, quindi, due cose: esatta osservazione ed esatta comprensione di questa osservazione» (J.G. Fichte, Eigne Meditationen über Elementar Philosophie, cit., p. 24; tr. it., Meditazioni personali sulla filosofia elementare, con monografia introduttiva e testo tedesco a fronte, a cura di G. Di Tommaso, Bompiani, Milano 2017, p. 255; d’ora in poi: EM, seguito dal n. della pagina dell’edizione tedesca e, tra parentesi quadre, di quella della traduzione italiana, così come si farà in tutte le citazioni di testi tradotti). Su questo scritto di Fichte resta fondamentale il volume di J. Stolzenberg, Fichtes Begriff der intellektuellen Anschauung. Die Entwicklung in den Wissenschaftslehren von 1793/94 bis 1801/2, Klett-Cotta, Stuttgart 1986. 4. L’opera nella quale G.E. Schulze esercita un’acuta, demolitoria critica nei confronti della filosofia elementare di Reinhold s’intitola, com’è noto, Aene-
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Enesidemo aveva contestato il valore del principio della coscienza come principio originario, e ne aveva dichiarato la derivazione da altri inespressi e soggiacenti presupposti. Inoltre, come indica già il sottotitolo dell’opera, egli mette in discussione la solidità della stessa filosofia critica e, così facendo, rende traballanti le basi sulle quali Fichte aveva fino ad allora fondato il suo sistema, costringendolo, per la seconda volta, a ripensarle e a saggiarne la tenuta5. La Recensione all’Enesidemo (1794) riconosce la pertinenza delle critiche al fatto di coscienza reinholdiano, ma avanza anche l’ipotesi che a fondamento del sistema possa essere assunto non un fatto (Thatsache), ma un’azione-in-atto (Thathandlung) e Fichte allude, seppure in forma ipotetica, all’intuizione intellettuale come il tipo di azione capace di svolgere quel ruolo6.
sidemus oder über die Fundamente der von dem Hrn. Prof. Reinhold in Jena gelieferten Elementarphilosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaßungen der Vernunft-Kritik, s.l. 1792; tr. it., Enesidemo o dei fondamenti della filosofia elementare presentata dal Signor Prof. Reinhold di Jena. Con una difesa dello scetticismo contro le pretese della Critica della ragione, a cura di A. Pupi, Laterza, Bari 1971. 5. La prima volta in cui l’universo di pensiero del giovane Fichte era entrato in crisi era stato, com’è noto, in conseguenza dello studio della filosofia kantiana, da lui intrapreso per ragioni estrinseche e accidentali. In quell’occasione il sistema deterministico, al quale egli aveva aderito e che considerava inconfutabile, gli era invece stato confutato in maniera clamorosa ed egli era stato costretto ad abbandonarlo. In proposito cfr. la monografia introduttiva alla traduzione italiana cit. delle Meditazioni personali, pp. 28-33. Sulle esitazioni che hanno accompagnato la sua accettazione del kantismo e sui riflessi – teorici e biografici – che tale accettazione hanno comportato per Fichte, cfr. le poche ma significative pagine che compongono il suo scritto: Einige Aphorismen über Religion und Deismus. (Fragment.), GA, II,1, pp. 286-291; tr. it., Alcuni aforismi su religione e deismo. (Frammento), a cura di G. Di Tommaso, “Quaderni della Rivista Il Pensiero”, Inschibboleth Edizioni, Roma 2015, pp. 60-83. 6. Cfr. J.G. Fichte, Rezension: Ohne Druckort: Aenesidemus, oder über die Fundamente der von dem Hrn. Prof. Reinhold in Jena gelieferten Elementar-
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Non sorprende, allora, che le Eigne Meditationen non assumano il principio della coscienza a proprio fondamento ma, subito dopo le pagine introduttive e non appena si inizia a trattare della filosofia elementare, pongano direttamente l’Io come primo principio7. Solo che porre l’Io sembra implicare una sua rappresentazione e sembra così riemergere inopinatamente la presunta originarietà del principio della coscienza di Reinhold. Fichte smentisce subito questa apparenza, dichiarando che «il principio della coscienza presuppone altrettanto bene quello dell’Io» (EM, p. 26 [263]) e coglie in questo rinvio la presenza di un circolo, del quale si tratta di rendere conto. Il primo e anche decisivo passo in tale direzione consiste nella distinzione della rappresentazione dall’intuizione e nell’esclusione del pensare in relazione alla conoscenza immediata di se stesso da parte dell’Io. Al fine di chiarire meglio quel che intende, Fichte torna sull’argomento con una nota a margine, in cui spiega: «Tesi: Io sono, cioè Io sono perché sono, e quel che sono. Io sono puramente e semplicemente mediante l’essere»8. Se l’essere dell’Io, quando dovessimo chiederne la ragione, non può essere spiegato che facendo riferimento all’Io stesso e senza uscire dal suo perimetro, allora non si dà un fondamento esterno all’Io, che perciò basta a se stesso. La coincidenza tra intuire se stesso da parte dell’Io e il suo essere toglie a
philosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaßungen der Vernunft-Kritik. 1792, GA, I,2, pp. 46, 48, 56; tr. it. di E. Garulli, La Recensione dell’«Enesidemo» di Fichte, in «Il Pensiero», XXIII, n. 2, 1982, pp. 103-105; 111). Com’è noto, Fichte aveva ricevuto l’incarico di scrivere la recensione all’Enesidemo nella primavera del 1793, ma iniziò a stenderla solo verso la fine di quell’anno, per poi vederla pubblicata all’inizio del 1794. 7. «La prima proposizione è quella dell’“Io”» (EM, p. 26 [263]). 8. EM, p. 27 [263]. Com’è noto, alla tesi enunciata Fichte fa seguire l’antitesi: «all’Io è opposto il Non-Io», deducendo poi dalle «contraddizioni che ne conseguono», la «necessità che ne deriva della sintesi» (ibidem).
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quest’ultimo il carattere di staticità che sembrerebbe inerirgli, per trasformarlo in un’attività capace della consapevolezza di sé, conseguita nell’intuizione. Perciò la domanda su «che cosa» sia l’Io è mal posta, non essendo l’Io una «cosa», e colui che desiderasse che gliene venisse spiegata l’essenza «oggettiva» porrebbe un’esigenza impossibile da soddisfare a causa della sua intrinseca contraddittorietà. L’Io è unicamente esser per sé, consapevolezza di sé, e chi non è in grado di sperimentare direttamente in se stesso tale attività ritornante in sé non è un Io e quindi non può nemmeno porre alcuna domanda che lo riguardi. Per questo motivo Fichte definisce l’invito a intuire se stesso un postulato e riconosce che solo l’effettiva esecuzione di quell’atto potrà costituire, per chi lo compie, la conferma della verità del principio enunciato, «quand’anche non sia in grado di spiegarsela» (EM, pp. 27 s. [265]). La posizione del secondo principio è anticipata nella ricordata nota a margine che, dopo aver introdotto il primo principio, dice testualmente: «Antitesi o postulato: all’Io è opposto il Non-Io. – / Questo principio deve ammetterlo chiunque» (EM, p. 27 [263]). Il Non-Io, inteso come tutto quel che non è Io, è riconosciuto indispensabile per la possibilità di divenire consapevole del proprio Io, e ciò nel senso che la consapevolezza di sé, nella sua assoluta purezza, coinciderebbe con la luce pura che, in quanto tale, equivarrebbe a pura tenebra e, come questa, non lascerebbe vedere nulla. Il Non-Io si dimostra, allora, altrettanto essenziale quanto l’Io, perché anche solo per la presa di consapevolezza di sé dell’Io è indispensabile il ruolo del suo opposto. Le argomentazioni fichtiane su questo punto si concludono con l’esigenza, espressa in una proposizione non ancora dimostrata, ma di sicuro interesse, che suona: «nulla può giungere alla coscienza (nulla può essere intuìto) se, insieme, non è intuìto qualcosa di diverso» (EM, p. 29 [269]). Se non c’è nulla
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che possa essere oggetto di consapevolezza se non a condizione che sia intuìto insieme anche qualcos’altro di diverso dalla coscienza, si conferma l’impossibilità di giungere alla pura consapevolezza di sé da parte dell’Io. Prendendo atto di tale situazione e della necessità di pensare l’Io solo insieme con il Non-Io, Fichte ne trae la seguente, doverosa, conseguenza: «Noi diveniamo consapevoli di un Io e di un Non-Io da esso distinto» (EM, p. 30 [273]). L’enunciazione che riunisce in sé i due opposti indirizza a cogliere nella coscienza il «luogo» nel quale quell’unità si presenta e nella quale, tuttavia, i termini dell’opposizione manifestano ciascuno la rispettiva fisionomia. A questo punto dello svolgimento delle argomentazioni fichtiane, si rende necessario spiegare la possibilità del rapporto reciproco tra gli opposti, ed è qui che entra in gioco a pieno titolo il metodo sintetico. Poiché i termini dell’opposizione si distruggerebbero reciprocamente se riferiti in modo diretto l’uno all’altro, al fine di trovare una loro possibile congruenza occorrerà seguire una diversa strategia e ricorrere a un terzo termine, C, nel cui ambito A e −A siano unificati. Ma la sintesi degli opposti in un terzo termine, pur segnando un loro avvicinamento, non coincide con il riconoscimento della loro identità, bensì soltanto con la diminuzione della distanza che li separa. Infatti, l’identità autentica, quella che dev’essere perseguita, non è l’identità indiretta, raggiunta con l’interposizione di un termine medio, ma quella che esibisce la medesimezza dei termini stessi, e non come esito di una comparazione, ma in sé e per sé. Ecco perché l’identità, in C, di A e –A, non è quella cercata: Io e Non-Io sono sì riconosciuti omogenei in C, ma solo in quanto «existentia in conscientia» (EM, p. 44 [305]). Per poter ulteriormente assottigliare la distanza che continua a separare gli opposti, diviene allora necessario inserire tra essi un altro termine medio, e dopo questo un altro ancora e così
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via, in un processo che non ha fine e che vedrà sempre il permanere di un ineliminabile divario tra l’Io e il Non-Io. Ecco allora che il metodo sintetico, che procede a unificare i termini opposti, può farlo ogni volta solo in modo parziale e rinviando la soluzione definitiva, vale a dire la sintesi compiuta, a un futuro indeterminato. Ne consegue che, se attraverso la sintesi si dovesse poter rendere conto del factum originario, vale a dire di quella condizione che presenta l’unità ancora indifferenziata dei termini della contraddizione e che, quindi, è in grado di giustificare il successivo reciproco riferimento tra Io e Non-Io che ha luogo in ogni atto conoscitivo, quel factum resterebbe eternamente non chiarito, così come non fondata resterebbe la possibilità dell’esperienza. Da quanto precede discende una conseguenza decisiva, che investe la validità del metodo sintetico in quanto tale e quindi la sua capacità di raggiungere l’obiettivo che ci si prefigge con il suo impiego. Se la sintesi reale che dev’essere prodotta resta disattesa, mentre quella che può essere conseguita lascia sempre persistere una pur minima distanza tra i termini opposti, allora il metodo sintetico non riesce a garantire quanto promette e si pone con urgenza la questione della sua affidabilità. Solo se il principio a partire dal quale procede la sintesi è tale da esprimere il factum, vale a dire la compresenza dell’Io e del Non-Io nell’identico atto e prima della loro differenziazione, allora la conciliazione prodotta è effettiva e gli opposti sono uniti in un vincolo che ne esprime e ratifica la medesimezza. Se, invece, il factum dev’essere colto presupponendo l’opposizione qualitativa, e quindi l’identità con se stesso di ciascuno dei termini, ma in condizione di perdurante differenza reciproca, allora l’unità che si cerca di ottenere mediante la sintesi risulta carente, confermando così l’inadeguatezza del metodo sintetico. Questo è l’esito cui Fichte perviene a conclusione della prima parte delle Eigne Meditationen, là dove si palesa la condiziona-
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tezza dell’Io intelligente e la sua dipendenza dal Non-Io. Egli esprime il necessario, continuo rinvio da sintesi a sintesi e pone l’urgenza di un principio primo da cui partire, osservando che fino a quando quell’urgenza resta disattesa, «devo sempre fare ricorso a una proposizione successiva e poi di nuovo a una successiva e così via, e dovrò certamente ammettere nuovi fatti di coscienza» (EM, p. 48 [317]). Nella condizione contrassegnata dalla mancanza di un fondamento sicuro e ultimo per la filosofia, la sintesi resta parziale, con il risultato che «il factum non viene mai spiegato, fino a quando non mi imbatto in un’unità, che non sia di nuovo opposta» (EM, p. 48 [319]). La mancanza di spiegazione del factum rinvia all’indietro rispetto alla progressione ascendente delle sintesi successive; rinvia, cioè, al fatto originario che deve esibire l’unità altrettanto originaria e indifferenziata di Io e Non-Io. La direzione da prendere è, allora, opposta rispetto all’andamento progressivo del metodo sintetico e lo sguardo del filosofo deve rivolgersi a quell’atto originario dello spirito umano, la cui realtà si impone con l’evidenza con la quale Io e Non-Io si trovano congiunti in ogni conoscenza e di cui si vuole verificare le condizioni di possibilità. Solo che, in proposito, vige il riconoscimento, da parte di Fichte, che dei primi e originari facta del nostro spirito il filosofo non può prendere consapevolezza9, e che quello più elevato cui sia possibile giungere è il principio reinholdiano della coscienza, di cui, tuttavia, si è già verificata l’insufficienza. Il fondamento che si deve attingere si trova, però, in una zona che non può essere illuminata dalla riflessione filosofica, la quale deve accontentarsi di un fatto derivato, non potendo accedere a quello originario. Infatti, nel momento in cui entra in gioco la coscienza, questa scompone quel fatto unitario nei
9. «I primi e più elevati facta non giungono alla consapevolezza» (EM, p. 25 [257]).
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suoi elementi costitutivi, non essendo in grado di coglierlo nella sua assolutezza. L’unica via per risalire ad esso è quello di ricavarlo mediante la deduzione a partire da altri fatti della coscienza derivanti da quello originario e che sarebbero impossibili se non si accettasse la realtà di quest’ultimo. Solo, però, che in tal caso, e cioè ricorrendo al ragionamento apagogico, non otterremmo il factum stesso, ma ne dedurremmo solo la necessaria accettazione in vista della possibilità di spiegare gli altri fatti della coscienza che sono evidenti e che a esso rimandano10. La differenza non è di poco conto, dal momento che il filosofo non è in grado di esibire l’atto che postula e la sua accettazione, ancorché dettata dalla logica, non può prenderne il posto. L’esigenza posta da Fichte, di risalire in maniera necessaria alla realtà del fatto originario solo per via di argomentazioni e, in particolare, in forza dell’assurdità che deriverebbe dall’ipotesi contraria, conferisce però al factum una realtà a sua volta unicamente pretesa, non dimostrata e non dimostrabile. Si urta, in questo caso, contro il limite proprio del pensiero quando voglia dimostrare ciò che per natura si sottrae alla dimostrazione, essendo il primo al quale qualsiasi dimostrazione può essere ricondotta. La conseguenza che se ne deve trarre è che il metodo sintetico non è in grado di superare in maniera definitiva l’opposizione, da cui pure trae alimento, in quanto incapace di giustificare l’unità originaria che la sottende e che il medesimo metodo intende conciliare. Quell’unità, «che non sia di nuovo opposta» e nella quale siano originariamente conciliati i termini che la sintesi aspira a riunire, può essere, dunque, solo postulata, ma non esibita né verificata, poiché la sua assunzione da
10. In proposito Fichte scrive: «Il compito è solo di fare un esperimento, dal quale deve giungere alla coscienza che quei fatti si sono verificati in precedenza» (ibidem).
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parte della coscienza implica la contestuale introduzione della scissione al posto dell’unità, conformemente al procedere dualizzante tipico della coscienza. Malgrado questo limite, Fichte continua tuttavia a ritenere il metodo sintetico essenziale e a insistere sulla validità del tipo di evidenza conseguito mediante il suo uso, anche se resta ancor sempre non dimostrata la validità del punto di partenza. Anche nella Grundlage egli riconosce il ruolo centrale e insostituibile della tesi – intesa come identità originaria – nell’ambito del metodo sintetico e scrive: «Come l’antitesi non è possibile senza la sintesi, né la sintesi senza l’antitesi, così pure entrambe non sono possibili senza la tesi, senza un porre assoluto mediante il quale un A (l’Io) non è già posto come uguale o contrario ad un altro, ma è soltanto posto assolutamente. Riferita al nostro sistema, la tesi dà al tutto solidità e perfezione»11. Che poi l’impossibilità della dimostrazione della tesi lasci indifferenti o scettici coloro che la pretendono e che non avvertono l’intima contraddittorietà della loro richiesta, è messo in conto da Fichte che, com’è noto, non considera certo tale rifiuto una confutazione del principio del suo sistema, ma piuttosto il pro-
11. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, GA, I,2, p. 276; tr. it. di A. Tilgher, riv. da F. Costa, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, in J.G. Fichte, Sul concetto della dottrina della scienza o della così detta filosofia; Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, Laterza, Bari 1971, p. 92. In un altro passo del medesimo testo si legge: «l’atto della congiunzione degli opposti in un terzo termine non è possibile senza l’atto dell’opporre, e questo atto, a sua volta, non è possibile senza l’atto del congiungere: tutti e due sono inscindibilmente uniti nel fatto, e solo nella riflessione si possono distinguere» (ivi, p. 274 [90]). Pareyson chiarisce efficacemente queste righe nel modo seguente: «Il fatto è lo spirito umano nella sua reale concretezza: che la sinteticità presupponga l’antiteticità solo la riflessione filosofica può mettere in luce. E la riflessione filosofica mostra che l’antitesi presuppone la tesi, sì che la sinteticità dipende interamente dalla tesi» (L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, 2a edizione accresciuta, Mursia, Milano 1976, p. 165).
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dotto di un orientamento filosofico radicalmente e inconciliabilmente diverso.
2. Il ruolo della sintesi nella Zweite Einleitung Ancora sulla medesima linea si sviluppa la celebre Seconda introduzione alla dottrina della scienza, dove l’indimostrabilità del punto di partenza è chiaramente teorizzata e ammessa, senza pregiudizio per la validità di quanto, su quel fondamento, viene coerentemente costruito. Il contesto è quello in cui si tratta di spiegare l’essenza e la realtà dell’intuizione intellettuale, notoriamente refrattaria a essere convertita in oggetto di dimostrazione, secondo quanto chiedevano invece con insistenza tutti gli avversari della dottrina della scienza, che ritenevano piuttosto l’intuizione intellettuale una mera finzione. Dopo averne delineato i caratteri che il filosofo coglie mediante la sua osservazione e aver insistito sulla circostanza che senza quella intellettuale non sarebbe possibile nemmeno l’intuizione empirica, Fichte spiega che essa non è traducibile sul piano concettuale. Per poter divenire consapevoli dell’intuizione intellettuale occorre un atto di conoscenza immediato, che può essere compiuto solo se l’agire dell’Io ritornante in sé e nella sua assoluta purezza si rivolge a se stesso come attività ugualmente pura da rispecchiare. Nulla di oggettivo e di statico, dunque, e nulla di dimostrabile, ma solo attività, insieme centrifuga e centripeta, che può essere sperimentata soltanto da chi è determinato – ma anche capace – di compiere l’atto alla base di ogni altro atto consapevole. Fichte ribadisce che l’intuizione intellettuale «è l’unico punto saldo per ogni filosofia»12, quello a partire dal quale tutto il resto 12. J.G. Fichte, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre für Leser, die schon ein philosophisches System haben, GA, I,4, p. 219; tr. it., Seconda Introduzione alla dottrina della scienza, in appendice a G. Di Tommaso, Dottrina
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può essere spiegato, ma riconosce nel contempo che essa non può essere dimostrata «come fatto isolato della coscienza» e che si risale a essa distinguendo «ciò che nella coscienza comune si trova riunito» e scomponendo «l’intero nelle sue parti costitutive» (ZE, p. 219 [123]). Ancora una volta, allora, del fatto originario, che in questo contesto racchiude in unità immediata intuente e intuìto, non si dà alcun riscontro in termini di possibilità di dimostrazione, e si può risalire solo fino alla soglia della sua verificabilità, ma non oltrepassarla. Fichte afferma in modo non equivoco l’impossibilità di fornire riscontri all’intuizione intellettuale che non sia l’indicazione della via percorsa da chi è riuscito a realizzarla, e pone in termini espliciti il problema di come si possa, malgrado questo limite insormontabile, affermarne la realtà come «fatto isolato della coscienza». Egli risponde che il filosofo giunge all’intuizione intellettuale in modo analogo a come giunge all’intuizione sensibile, e cioè «per mezzo di un ragionamento [Schluß] dai fatti evidenti della coscienza» (ZE, p. 218 [122]). Non si accede, dunque, all’agire originario in quanto tale, e cioè all’intuizione intellettuale nella sua purezza, ma solo alla sua ultima condizione di possibilità sul piano logico, secondo il ragionamento: se l’agire originario che esprime l’intuizione intellettuale non si desse, non potrebbe aver luogo neppure l’intuizione empirica; ora, siccome l’intuizione empirica è reale e non può essere negata, allora… ecc. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un’esigenza che non può essere compiutamente attuata, poiché il livello ultimo cui rinvia resta inattingibile. Noi ricaviamo dai fatti evidenti della coscienza che le cose debbano stare in questi termini, ma non possiamo innalzarci al punto in cui si svelerebbe la
della scienza e genesi della filosofia della storia nel primo Fichte, Japadre, Roma-L’Aquila 1986, p. 123; d’ora in poi citato con la sigla: ZE.
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coincidenza assoluta tra intuente e intuìto. Utilizzando la già ricordata conclusione tratta nelle Eigne Meditationen potremmo dire: siamo spinti all’accettazione del fatto, ma non alla sua constatazione come tale e, pertanto, questo non ci fa avanzare nella nostra ricerca13. Il punto critico continua a restare il mancato riscontro del risultato cui conduce l’argomentazione logica, e la giustificazione fornita da Fichte è che quel che rende possibile ogni dimostrazione non può, a sua volta, essere dimostrato, ma accettato in forza della propria autoevidenza. E tuttavia, chi non è pago di tale spiegazione e desidera che gli venga esibita l’intuizione intellettuale nella sua purezza, non può essere «costretto» a farla propria, confermando l’esistenza di un disaccordo non componibile con il teorico della dottrina della scienza. Anche nella Seconda introduzione continua a mantenere la sua validità l’affermazione delle Eigne Meditationen secondo cui i fatti originari del nostro spirito non giungono a consapevolezza, ma nel nuovo contesto Fichte ritiene di aver adeguatamente mostrato che l’evidenza con la quale si impone l’intuizione intellettuale fornisce da sola la garanzia della sua possibilità e, insieme, anche della sua realtà, documentata dalla presenza in noi della legge morale. Non è forse un caso che proprio l’esis tenza della legge morale, che nelle Eigne Meditationen era stata evocata a testimonianza della realtà dell’intuizione intellettuale, ma subito dopo considerata inadeguata14, nello scritto del 1797-98 assolve invece in pieno tale funzione15. Mediante 13. Cfr. EM, p. 25 [257]. 14. «Vengono intuìte determinazioni nell’Io puro, ad esempio, la legge morale. – No, questo non è proprio così. Quell’intuizione intellettuale è pensata e si chiama idea» (EM, p. 144 [567]). 15. Distinguendo tra la spiegazione della possibilità dell’intuizione intellettuale e il fornire la prova della fede nella sua realtà, Fichte scrive che, per quanto concerne questo secondo punto: «Ciò accade solo e unicamente con la
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l’equiparazione della fede nella realtà della legge morale alla fede nella realtà dell’intuizione intellettuale, Fichte considera soddisfatta l’esigenza di individuare un principio che racchiuda in sé, in unità originaria, i termini dell’opposizione che il metodo sintetico ha il compito di tradurre in ristabilita unità, dopo la scissione imposta dalla coscienza. La realizzazione della sintesi evocata è affidata, appunto, alla coscienza che, come si sa, procede necessariamente contrapponendosi, da un lato, all’oggetto di cui è consapevole, dall’altro, generando l’opposizione tra l’oggetto e la rappresentazione che ne ha. La sintesi risulta allora, ancora una volta, destinata a non avere successo, e non a caso Fichte considera infinito il processo destinato a conseguirla. Il metodo sintetico, per sua natura, può prendere le mosse solo in presenza di una contraddizione, e quindi può esercitare la sua funzione unificante a condizione che l’unità originaria si sia già scissa e al suo posto sia subentrata la dualità. Solo che, se – come si è visto – si assume l’opposizione come punto di partenza, diviene impossibile realizzare l’unità e la sintesi resta eternamente disattesa. Per questo motivo Fichte insiste molto, come si è visto, sulla necessità di risalire al factum primordiale, nel quale vige l’identità dei termini opposti, anticipando in tal modo l’esigenza tesa a cogliere l’identità originaria e assoluta (o l’assoluto tout court) che ben presto sarà avanzata con decisione dal giovane Schelling. L’occasione di occuparsi del metodo sintetico si presenta, per lui, nelle Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo (1795-96), nel contesto in cui, nel rilevare quello che a suo giu-
presentazione della legge morale in noi, nella quale l’Io viene rappresentato come qualcosa di sublime, al di sopra di ogni modificazione originaria determinata da esso stesso – legge nella quale si pretende da esso un agire assoluto, fondato soltanto in lui e assolutamente in nient’altro – e nella quale viene quindi caratterizzato come assolutamente attivo» (ZE, pp. 219 ss. [123 ss.].
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dizio rappresenta il peccato originale della Critica della ragion pura, coinvolge nella sua valutazione negativa anche il metodo sintetico, a causa della sua fragilità.
3. Un cenno a F.W.J. Schelling Nell’opera appena ricordata, dove non esita a contrapporsi a Fichte su argomenti di rilevante spessore filosofico16, Schelling mostra la convinta adesione al metodo sintetico così come era stato prospettato anche nella Grundlage. L’inevitabile confronto con il pensiero kantiano porta Schelling, nella terza Lettera, a condividere la convinzione che la questione fondamentale dell’intera Critica della ragion pura sia quella indicata da Kant nell’Introduzione all’opera, e cioè: «Come sono possibili giudizi sintetici a priori?»17. Schelling ripropone, modificata18, la
16. Mi riferisco, ad es., al celebre contrasto con lui sulla legittimità del dogmatismo come sistema filosofico e alla conseguente possibilità della coesistenza di dogmatismo e criticismo, nonché alla sua netta contrarietà nei confronti della sostituzione, auspicata invece da Fichte, del nome di «filosofia» con «Wissenschaftslehre, dottrina della scienza», nonché il rivendicare alla Critica della ragion pura il carattere di vera e propria dottrina della scienza. 17. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, Akademie Textausgabe, Walter de Gruyter, Berlin 1968, Bd. IV, A 39 [in seguito: KdrV]; tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 19714, p. 54. A sua volta Fichte, nella Grundlage, riprende la questione kantiana e ritiene di averla «risolta nella maniera più generale e più soddisfacente», anche nel suo caso mediante la sintesi, «sulla possibilità della quale non si possono sollevare altre questioni, né darne un fondamento: essa è assolutamente possibile e si è autorizzati a compierla senza alcun fondamento ulteriore» (J.G. Fichte, Grundlage, cit., p. 275 [91]). 18. Nel suo testo la domanda suona: «Come giungiamo, in generale, a giudicare in modo sintetico?» (F.W.J. Schelling, Philosophische Briefe, cit., p. 60 [18]). Nel riferirla Schelling tralascia l’«a priori» dell’originale, forse perché ha di mira il problema generale di rendere conto della possibilità del rap-
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domanda kantiana, e la traduce in quest’altra: «come faccio, in generale, a uscire dall’assoluto e passare a un opposto?»19. In tal modo Schelling sposta la questione dal piano conoscitivo a quello ontologico e, nella formulazione che ne fornisce, il problema non è quello di spiegare la congruenza di due opposti mediante la loro sintesi, ma piuttosto quello di rendere intelligibile il prodursi della scissione a partire dall’unità originaria e assoluta. Anziché procedere alla ricerca della sintesi in direzione ascendente, avendo assunto come punto di partenza l’uno o l’altro dei termini opposti, nella prospettiva schellinghiana si tratta di retrocedere verso l’assoluto fondamento comune a entrambi gli opposti, anteriore a ogni opposizione, con l’impegno – inverso rispetto a quello di Kant – che una volta trovato, si passi a spiegare il dirompersi dell’unità originaria negli opposti. Questi, poiché procedono entrambi dall’assoluto, conservano, sebbene nascosta, la loro identità, sulla cui base e del tutto coerentemente potrà aver luogo la composizione, nella sintesi, dell’opposizione nel frattempo emersa. Di qui la dichiarazione di Schelling secondo cui una delle condizioni indispensabili per la produzione della sintesi è che essa sia preceduta da «un’assoluta unità, che nella sintesi, cioè quando vien dato qualcosa di opposto, una molteplicità, diviene unità empirica»20. Nel medesimo contesto Schelling descrive poi l’articolazione del rapporto tra la tesi e la sintesi ed enuncia anche l’altra condizione imprescindibile per la realizzazione di quest’ultima: «nessuna sintesi è pensabile, se non sotto il presupposto che porto tra il soggettivo delle forme pure della sensibilità e delle categorie e l’a-posteriorità dei dati empirici. 19. Ibidem. 20. Ivi, p. 63 (22). Come si vede, l’esigenza dell’unità originaria riemerge in questa quarta Lettera, e Schelling la utilizza per mostrare il suo mancato conseguimento da parte della Critica della ragion pura, a causa del suo partire già dalla sintesi, cioè da un punto in cui l’identità originaria si è già dissolta.
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essa si concluda di nuovo in un’assoluta tesi: lo scopo di ogni sintesi è la tesi»21. La tesi assoluta, che precede ogni sintesi, è, paradossalmente, sia il terminus a quo, sia il terminus ad quem, il punto di partenza e l’obiettivo finale di un complesso processo, di cui le sintesi parziali sono altrettante tappe intermedie. In tale processo, si sa, il fine ultimo può essere conseguito solo in una prospettiva rinviata all’infinito, come Schelling chiarisce in più occasioni. La ragione dell’inesauribilità del processo deriva dalla circostanza che la coscienza conoscitiva, così come è presentata nella Critica della ragion pura, non può innalzarsi fino a cogliere l’«unità originaria e assoluta, che precede ogni sintesi, in quanto a questa non si è sollevata»22. All’impossibilità della coscienza conoscitiva di cogliere la tesi originaria, corrisponde l’uguale impossibilità di sperimentare l’attuazione della sintesi finale, alla quale ci si potrà soltanto avvicinare, previo coinvolgimento della dimensione pratica. Schelling ripete, con diverse formulazioni, che la sintesi ha bisogno del contrasto per potersi affermare, ma anche che il contrasto, a sua volta, dev’essere preceduto dall’identità dei termini che si fronteggiano, pena l’impossibilità della sintesi. Ciò equivale a dire, come si è visto, che l’unità originaria, che costituisce il fondamento, dev’essere una tesi assoluta, nella quale il contrasto non può nemmeno essere stato annullato, non essendo mai giunto all’essere23. Il problema del principio
21. Ibidem. 22. Ibidem. In realtà Kant dichiara, come si sa, che egli prende le mosse dal «punto in cui l’universale radice della nostra facoltà conoscitiva caccia fuori due ceppi, uno dei quali è la ragione» (KdrV, B, p. 540 [631]). L’obiezione di Schelling addita precisamente nel punto di partenza – la già avvenuta divaricazione tra i due ceppi, anziché la radice unitaria da cui si originano –, il motivo dell’inadeguatezza della Critica. 23. Credo sia questo il senso da dare alle parole di Schelling che si leggono già nello scritto Dell’Io come principio della filosofia e che suonano: «pri-
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della filosofia si è così convertito nella necessità di trovare la spiegazione, non più di come sia possibile realizzare la sintesi degli opposti, ma di come si sia originariamente prodotta la scissione a partire dall’identità assoluta dell’assoluto che, non potendo ospitare in sé contrasto alcuno, deve tuttavia scindersi e generare l’antitesi che il filosofo ha il compito di unificare.
4. Conclusione Dall’indispensabilità della tesi o dell’unità originaria per la possibilità della sintesi si deve concludere che, seppure in modo implicito, quest’ultima presuppone se stessa e che, se l’unità non fosse già da sempre presente, nessuna sintesi potrebbe aver luogo. Il fulcro su cui poggia la validità del metodo sintetico coincide, allora, con il riconoscimento della sua condizione di possibilità e, precisamente, con la manifestazione dell’unità assoluta dalla quale si origina la scissione che la sintesi deve comporre. Si comprende, allora, il motivo per cui Schelling chiama in causa con tanta insistenza l’identità originaria e sottolinea costantemente che essa non può essere intesa come l’ambito all’interno del quale l’opposizione venga superata, ma come la condizione cui è assolutamente estranea la scissione. Ne deriva l’impossibilità tanto di definire l’identità assoluta, che comporterebbe l’introduzione al suo interno di limiti e di determinazioni inconciliabili con la sua essenza, quanto di innalzarla a consapevolezza, a causa della scissione che la coscienza necessariamente introduce. In presenza di questi limiti inaggirabili, si ma dell’antitesi deve venire la tesi e entrambe devono precedere la sintesi» (F.W.J. Schelling, Vom Ich als Princip der Philosophie [1795], AA, I,2, p. 122; tr. it., Dell’Io come principio della filosofia, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1991, p. 74). È chiaro che in questa disposizione in successione, alla tesi spetti, incontestabilmente, il primo posto assoluto.
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comprende il motivo per cui sia Fichte sia Schelling debbano far ricorso a un tipo e a un livello di conoscenza che può essere razionalmente esigita, ma non esibita e tantomeno dimostrata.
Indice
Avvertenza
p. 9
Klaus Düsing, Il rapporto tra logica e teoria della soggettività nell’idealismo. Uno sguardo sistematico
p. 11
Gaetano Rametta, Sistema e principio in Fichte e in Hegel
p. 27
Carla De Pascale, Il maturo sistema politico di Hegel
p. 53
Marco Ivaldo, Il pratico come fondamento nella Dottrina della scienza
p. 87
Faustino Fabbianelli, Quale evidenza per il sapere filosofico? Brevi considerazioni su un dibattito tra Kant, Reinhold e Fichte
p. 103
Edith Düsing, Fondazione dell’etica in Fichte e in Kierkegaard secondo il metodo idealistico ed esistenzialistico
p. 127
Matteo Vincenzo d’Alfonso, La genesi della filosofia elementare di Schopenhauer dalla critica alla dottrina delle facoltà di Kant
p. 145
Sandro Palazzo, Atto, differenza, contingenza. Su alcune implicazioni ontologiche della filosofia trascendentale di Fichte
p. 163
Gaetano Basileo, L’esperienza della «Cosa stessa» e l’Aufhebung della ragione finita nella Fenomenologia dello spirito
p. 219
Giannino Di Tommaso, Osservazioni sul metodo sintetico nel primo Fichte. Con un cenno a Schelling
p. 259
Gulliver
Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da Francesco Valagussa
1. Luca Basile, Morte della sovranità. 2. Daniel Innerarity, Un mondo di tutti e di nessuno. Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale. 3. Federico Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile. 4. Leonel Ribeiro dos Santos, Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano. 5. Federica Buongiorno - Vincenzo Costa - Roberta Lanfredini (a cura di), La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni. 6. Charles-François Tiphaigne de la Roche, Giphantie. 7. Félix Duque, Gastrosofia divina. Il cibo dello Spirito nel l’èra tecnologica. 8. Gaetano Basileo - Giannino Di Tommaso (a cura di), Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca.
Gulliver - 8
Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati
Il presente volume ha al centro alcuni dei temi fondamentali che hanno contribuito a plasmare la fisionomia e a segnare il destino della filosofia classica tedesca. L’esigenza posta da Kant, di rendere scientifica la filosofia innalzandola a sistema, venne notoriamente recepita come un imperativo epocale dai suoi contemporanei che, con i loro sforzi speculativi, diedero vita a una stagione filosofica nella quale quell’obiettivo fu perseguito con una determinazione e un rigore che non trovano riscontro né in epoche precedenti, né successive. Se la costruzione del sistema costituisce il fine comune e accomunante, indispensabile diviene anche l’elaborazione del metodo adatto a conferire dignità scientifica alla filosofia sistematica. Ma affinché siano presenti tutti i termini la cui sinergia renda realizzabile il sistema, occorre individuare il principio capace di autosostenersi e di sostenere quanto da esso coerentemente dedotto. I saggi qui raccolti intendono illustrare l’efficacia dei concetti posti a titolo del presente volume e la loro interazione con aspetti importanti del pensiero dei principali rappresentanti della filosofia classica tedesca.
Con saggi di Klaus Düsing, Gaetano Rametta, Carla De Pascale, Marco Ivaldo, Faustino Fabbianelli, Edith Düsing, Matteo Vincenzo d’Alfonso, Sandro Palazzo, Gaetano Basileo e Giannino Di Tommaso.
ISBN ebook 9788855290333
€ 12,00